Introduzione al Vangelo secondo Giovanni
Non si dice Evangelo di S. Giovanni, ma Evangelo di G. C. secondo
Giovanni, perocchè fu Gesù Cristo quegli che apportò agli uomini
il buon annunzio [...OMISSIS...] .
[...OMISSIS...] Salvatore, abbreviato da [...OMISSIS...] che è quanto dire [...OMISSIS...]
il Signore è la salute .
«Ckristos», unto di Dio Padre, cioè consacrato Re e Sacerdote,
« «quello cui il Padre santificò » (cioè consacrò qual vittima al sacrificio)
«e mandò nel mondo »(Joann., X, 36) ».
Giovanni ( [...OMISSIS...] grazia, o dono, o misericordia del Signore, ovvero
[...OMISSIS...] dono di Dio ) fu figliuolo di Zebedeo e di Salome da
Betsaida «(Matth., XXVII, 56; Marc., XV, 40) » nella Galilea, chiamato da
Cristo all' apostolato d' anni 25 in 26 «(Hier. in Joann., I, XIV; e Ep. I,
e Paulin., Ep. CCCLXXXVI) », seguace prima di Giovanni il Battista «(Jo.
Chrysost. in Jo., Hom. XVII, ed Epiph., Haer. LI) », vergine, amato da
Cristo, e da Cristo soprannominato, insieme con suo fratello Giacopo
il Maggiore, [...OMISSIS...] , figliuoli del tuono «(Marc., III, 17) ».
L' anno di Cristo 9., come pare, dell' età sua 95, dell' ascensione del
S. N. 65, il 1 di Trajano, in Efeso (1) prese a scrivere in greca lingua,
comune allora anche nella Palestina «(Jos., Antiq., XVIII, 20) », il suo
Vangelo l' ultimo degli Evangelisti, mosso dalle istanze dei suoi discepoli,
dei Vescovi e delle Chiese dell' Asia «(Epiph., Haeres. LI, 12) », per
opporsi a Cerinto e ad Ebione che negavano la divinità del Verbo «(Clem.
Alex. apud Euseb., Hist. Eccl., VI, XIV; Hier., De Vir. illustr. et
prolog. in Matth. ) », e per sopperire a quello che gli altri Evangelisti avevano
omesso. « « Riferiscono » », dice S. Girolamo, « « che avendo (Giovanni)
letti i volumi di Matteo, di Marco e di Luca, approvò il testo
dell' istoria, e confirmò aver quelli dette cose vere, ma aver essi tessuto
l' istoria solo di un anno, di quello in cui anche patì. Lasciato dunque
da parte l' anno i cui avvenimenti erano stati esposti dai tre, narrò i
fatti del tempo precedente, innanzi che Giovanni si chiudesse in carcere »
( De viris illustr., ed Euseb., Hist. Eccl., III, IV; Cl. Alex. apud
Eus., Hist. Eccl., VI, III, 14; Epiph., Haer. LI; Theodor. Mops. in
Cathena Graec. in ead. cat. anonym. ) ». Furono premessi digiuni e pubbliche
preci innanzi che Giovanni cominciasse a scrivere, « « et post altam
divinarum rerum contemplationem in ipso adhuc colloquii cum Domino
calore prima Evangelii sui verba pronunciavit »(Hier. prol. in Matth.;
Chrysost., Hom. LXVII; Baron., init. Annal., IC; Paulin., Ep. XXIV;
Epiph., Haer. LXXIII, VII; Aug., Serm. CXXXV, .) ».
Fra gli errori dei biblici tedeschi vi ha quello che nega l' autenticità
dei tre primi Evangeli, i quali fanno venire da una tradizione orale, e
da un Evangelo primitivo alterato; ma rispettano per lo più l' autenticità
di quello di Giovanni «(V. Gieseler, Ueber die Entstehung und die
frühsten Schicksale der schriftlichen Evangelien; Eichhorn, Einleitung
in das N. T., t. I, s. 422 ff., 453 ff.; De Wette, Biblische Dogmatik,
( 226, 2 ediz.) ». Solo Bretschneider «( Probabilia de Evangelii et Epistolarum
Jo. Ap. indole et origine , Lipsiae 1.20) » e pochi altri (2) spingono
l' empietà loro a dubitare anco se Giovanni sia l' autore del quarto Evangelo
(3). La prima citazione di questo Vangelo fatta col nome espresso
di Giovanni, per quanto io credo, trovasi in un passo di Teofilo d' Antiochia
«( ad Autol., 2) » verso l' anno 172 «(V. i passi degli antichi, che
citano questo Vangelo, nel De Wette, Einleitung in d. N. T., (76 7 109) ».
S. Epifanio dà il nome di nemici del Verbo «alogoi» a quelli che contestano
l' autenticità di questo Evangelo (1). Questo Padre racconta altresì
che gli Ebrei ne avevano fatta una traduzione in siriaco, e la conservavano
gelosamente nella biblioteca segreta di Tiberiade sul mare
di Galilea «(Epiph., Haeres., L, 3) ». S. Pietro d' Alessandria «(citato nella
Cronic. Alexandr. e Ms. fragm. de Paschate apud Petav. et Usser.) »
afferma che al tempo suo (sec. III e IV) si conservava dalla Chiesa di
Efeso l' originale di questo Vangelo, e si dice che vi si trovasse ancora
nel sec. VII. Qualche antico racconta che Giovanni a scrivere il suo Vangelo
si servisse del ministero di Caio discepolo di Paolo e quello stesso,
forse, a cui egli invia la terza sua lettera «(Athan. in Synops. ; Doroth.
et Cod. Ms. sold.) ». Altri hanno detto ch' egli lo inviasse a Papias, Vescovo
di Gerapoli, suo discepolo «(Anonym. in Cat. G. Prolog. ) ». S. Dionisio
d' Alessandria «(apud. Euseb., VII, XXV) » diceva che nel Vangelo di S. Giovanni
« non si trova niente di barbaro e d' improprio, e nemmeno di
basso e di volgare, di guisa che egli pare che Iddio gli abbia dato non
solo il dono della luce e del conoscimento, ma anche quello d' esprimere
bene le sue concezioni ».
Tuttavia la tradizione attesta che S. Giovanni non aveva studiate
le lettere umane «(Theophyl., Pro‰m. in Jo. ) », e questo vien confermato
dal giudizio di Grozio «( Prolog. in Jo. ) » e di altri grecisti moderni, i
quali trovano nel greco di questo Evangelista delle maniere ebraiche o
siriache, e, com' essi dicono, altre alquanto basse. Convien però riflettere
che questi grammatici classicisti niente veggono di bello e di necessario
nella lingua e nello stile, se nol trovano nei classici pagani. Non
sanno elevarsi al pensiero, che S. Giovanni aveva ed esprimere nuovi
dogmi, e nuovi sentimenti morali, per esprimere i quali non serviva
l' angustia della lingua greca classica, ma doveva questa lingua stessa
ricevere nuove forme, nuovi vocaboli, nuova sintassi e perfino nuovo
accento. Così quell' elemento, che pare barbaro in S. Giovanni agli
orecchi de' minuti filologi, è quel non so che di sublime e di divino,
che trapassa ogni venustà delle lingue e degli stili usati dagli uomini.
Sotto questo aspetto giudicava dunque con verità elegantissime le scritture
del nostro evangelista Dionisio d' Alessandria. - Paulus, uno dei
razionalisti germanici, non sapendo comprendere come S. Giovanni
abbia potuto ritenere nella memoria i lunghi discorsi che riferisce del
Salvatore, pensò che fra gli ufficiali del tempio e delle sinagoghe vi
avesse una specie di stenografi che gli raccogliessero, e che da questi
atti ne traessero poi copia i cristiani dopo la morte di Cristo «( Comment.
IV, (275 f.) ». Bertholdt, altro eretico moderno, conghietturò
che Giovanni avesse scritto in lingua aramea quei discorsi che riferisce,
tosto dopo averli uditi da Gesù, e che le note, fatte da lui allora, gli
giovarono poscia a compilare il suo Vangelo «( Verosimilia de origine
Evangelii Joannis, opusc. p. 1 e seg., ed Einleit. in das N. T. (1302 ff.) ».
- Wegscheider assente a questa conghiettura, « Einl. in Evang. Joann.,
S. 270 ». - Tholuck non crede dover escludere l' ammissione di materiali
anteriori, « Comm. S. 3. »; - così pure Hugo, «II, 263 f. »: e ciò pare
aver l' appoggio nelle abitudini dei discepoli de' rabbini. Ma, senza
dichiarar false queste conghietture, si deve osservare due cose: 1 che
il metter limite alla memoria di Giovanni è del tutto cosa gratuita, dopo
tanti esempi di memorie tenacissime nell' antichità fino a credersi che
i poemi d' Omero siano stati tramandati di generazione in generazione
a memoria «(Joseph. contr. Ap. ) ». Chi poi non sa come rimangano scolpite
quasi in marmo le parole di un gran senso nella mente d' un uomo
di profondo sentire? E chi può conoscere quanto alta sia stata l' impressione
delle parole di G. C. nel cuore dell' amato discepolo, cuore formato
da Dio stesso acciocchè fosse idoneo e congruo alla scuola del
Maestro per eccellenza? 2 Per tutti quelli poi che credono nelle parole
di Cristo, il fatto dell' aver potuto il santo evangelista ritenere fedelmente
i lunghi sermoni del suo divino Maestro è stato spiegato prima
da Cristo stesso. Previde Cristo nella sua sapienza che la carnalità degli
uomini avrebbe, molto tempo dopo di lui, dubitato della fedeltà di
quanto avrebber loro narrato gli Apostoli di sue parole; e però, non
meno a consolazione de' suoi Apostoli stessi, che a confermazione della
fede di quelli che dovevano credere a loro, preannunziò e disse: « « E
il Consolatore, Spirito Santo, che manderà il Padre in mio nome, egli
stesso v' insegnerà tutte le cose, e vi suggerirà alla mente tutte quelle,
qualunque sieno, che io avrò dette a voi »(Jo. XIV, 26) ». - Ma, ci
obbietteranno, le cose sono diverse dalle parole; e Cristo qui promette
che lo Spirito suggerirà loro le cose che loro avrà detto, non dice le
parole . - Questo non negasi, rispondiamo, e però non dirà niente
alieno dal vero chi affermerà che i sacri scrittori usino delle parole, e
una lingua, e uno stile loro proprio. Ma ciò deve intendersi così strettamente,
che non contraddica alle parole di Cristo, il quale attesta che
tutte le cose sono loro suggerite dallo Spirito Santo, dopo che erano
state dette loro da lui medesimo. Ora, quanto non è intima la connessione
delle parole con le cose? nè solo delle parole, ma della loro giacitura,
della sintassi, delle sillabe, delle lettere? Onde Cristo medesimo
ebbe a dire che neppure un solo apice , un solo jota , che è la minima fra
le lettere dell' alfabeto ebraico, passerà della legge, senza che sia adempiuta
«(Matth. c. V, 1.) ». Vi sono adunque anco degli apici e delle jota
che significano delle cose; e queste pure, se nell' antica legge vengono
da Dio, maggiormente nel Vangelo. Che se pure vuol supporsi che qualche
parola, o maniera, o frase, o periodo non sia uscito materialmente,
preso identico come sta, dalla bocca di Cristo; deve però essere uscito
dalla sua bocca tutto il succo di esso, senza che le nuove fogge ond' esso
è vestito pregiudichino nè punto nè poco alla verità: giacchè non può
dirsi un concetto assurdo questo, che una cosa stessa divina possa venire
significata in parole per due modi diversi l' uno e l' altro divino. Che se
l' uno dei due modi non esprimesse tutto ciò che esprime l' altro, basta
però che tutto ciò che esso esprime sia nell' altro contenuto, e ciò che non
esprime non muti nè alteri ciò che esprime, nè vi aggiunga nulla d' umano.
E veramente non può dirsi che gli Evangelisti abbiano espresso
tutto ciò che disse Cristo; ma può dirsi che tutto ciò che espressero gli
Evangelisti fu detto da Cristo fino al valore d' un apice e d' un jota. -
Il che vale anco per le varianti lezioni che nei varii Codici si possono
notare: quelle di esse che dalla Chiesa non vennero rigettate o non si
possono convincere d' errore non si rifiutino: esse sono permesse da Dio,
il quale vi ha posto un limite colla sua provvidenza: e quando di due
lezioni non si può discernere la vera, deve dirsi che e l' una e l' altra
contenga del vero, sebbene forse l' una ne contenga di più dell' altra.
Giovanni nel suo Vangelo mise principalmente in veduta ciò che
riguarda la divinità di Gesù, la quale è simboleggiata dall' aquila nella
visione di Ezechiello «(Paulin., Ep. XXIV; Aug., t. XXXVI, in Joann.;
Orig. in Joann.) »: onde si dà allo stesso Evangelista l' aquila per simbolo.
Questo fine del suo Vangelo lo espresse egli stesso in quelle parole: « « E
queste cose sono state scritte, acciocchè crediate che Gesù è Cristo figliuolo
di Dio; ed acciocchè, credendo, abbiate la vita nel nome di lui »
(XX, 31) ».
[...OMISSIS...]
In queste parole: « « Nel principio era il Verbo » », la parola principio
si potrebbe intendere del Padre che è principio del Verbo, come
la intesero alcuni Padri (1), se a ciò non ostasse il verbo era che esprime
il presente del passato «(en)». Il verbo era indica una cotal relazione di
tempo, che non avrebbesi espressa se colla parola principio si avesse voluto
indicare il Padre. Perocchè avrebbesi detto « il Verbo è nel Padre »,
ma non avrebbesi detto « il Verbo era nel Padre », quasi che avesse cessato
di essere nel Padre (1). Queste parole adunque, « « in principio era il
Verbo » », vogliono significare che il Verbo era avanti che fosse il mondo
(2); maniera pure adoperata dalle Sacre Scritture, come là dove
Cristo stesso disse: « « Acciocchè (gli uomini) veggano la chiarezza mia
la qual tu mi hai data avanti la costituzione del mondo »(Joann. XVII,
24); » e del pari nel libro de' Proverbii così parla la Sapienza: « « Il Signore
mi possedeva nel cominciamento delle sue vie » » (ecco anco qui
il tempo presente del passato: mi possedeva ); e quasi spiegando questo
cominciamento delle sue vie soggiunge: « « avanti che facesse cosa alcuna »
( Prov. , VIII, 22, 23) ». Ora che cosa è egli adunque questo principio?
Egli è quel primo momento, nel quale furono le creature e con esse
cominciò il tempo. Il Genesi dice: « « Nel principio Iddio creò il cielo e
la terra »(Gen. I, 1) ». Se Iddio creò il cielo e la terra nel principio,
vuol dire che non li creò successivamente, ma li creò in un solo istante,
giacchè altrimenti non avrebbe creato tutto nel principio. Il principio
adunque, di cui si parla, è il cominciamento delle cose create; e poichè
il tempo non è che una relazione che queste hanno fra di loro, perciò
il cominciamento di esse è il cominciamento del tempo. Il Verbo dunque
era già nel principio del tempo, e perciò era avanti il tempo, il che viene
a significare: era nell' eternità (3). Questo è spiegato dalle stesse Sacre
Scritture, le quali prendono queste tre maniere: « « nel principio era »; -
avanti la formazione del mondo era - «ab eterno era » », per maniere
sinonime, o tali l' una delle quali spiega l' altra. Perciò si veggono adoperate
tutte e tre promiscuamente nel luogo citato dei Proverbii. « « Il
Signore mi possedette nel principio delle sue vie » », ecco la prima maniera;
« « avanti ch' egli facesse cosa alcuna » », ecco la seconda; « « ab
eterno sono stata ordinata » » ecco la terza maniera, che spiega ottimamente
le precedenti. Quest' ultima è anco la più esatta: giacchè nelle
due prime si esprime l' idea stessa, ma in modo adattato alla comune
capacità degli uomini, i quali non si possono elevare fino ad un concetto
dell' eternità così puro che sia scevro interamente da ogni relazione col
tempo. Infatti, quando si dice che il Verbo « era avanti il tempo », o
che « era già quando il tempo incominciò », sembra che si venga a
mettere un tempo avanti il tempo, ciò che non sarebbe esatto; chè anzi
sarebbe assurdo. E nel vero l' eternità non è avanti il tempo ma è senza
il tempo , e non cessa di essere perchè sia il tempo; giacchè essa è cosa
che ha da far nulla col tempo, non ha con lui nessuna relazione di tempo.
E tuttavia quelle espressioni vengono adoperate dalla Scrittura, che
vuol comunicare le sue verità a tutti gli uomini: nè si può già dire che
quelle non infondano nelle menti l' idea dell' eternità; anzi la infondono
per una via più facile alla moltitudine, ed ecco in che modo.
L' espressione, « « avanti che le cose fossero » », da principio non offende,
e vien ricevuta nelle menti senza sospetto o timore ch' ella richiegga
un' intensa meditazione ad esser compresa. Ma ricevuta nelle menti, vi
ha già portato il germe della verità. Perocchè elleno si persuadono, che
quella espressione vuol certo significare un' idea vera, venendo ella
usata da un' infallibile autorità. Ora qui appunto incomincia l' interno
ed utilissimo lavoro delle stesse menti, le quali si industriano di separare
fra le idee comprese in quell' espressione tutte quelle che sono
accessorie e che non reggono ad un esame rigoroso, e ritengono la principale
e sola vera, depurata da ciò che non è altro che il difetto della
locuzione (giacchè la Scrittura stessa usa delle locuzioni che sono in
corso fra gli uomini), trovano l' idea netta, l' infusione della quale è lo
scopo del sacro scrittore o piuttosto dello Spirito che lo dirige. Così
appunto accade quanto all' espressione « « avanti che le cose fossero » »,
che è quanto dire « avanti che fosse il tempo ». Quell' avanti nel linguaggio
comune esprime una relazione di tempo, cioè un punto nel tempo
a cui ne risponde un altro che si esprime coll' avverbio dopo . E questo
valore ha veramente la parola avanti quando il suo relativo dopo significhi
un punto, una parte del tempo. Ma nel caso nostro dicendosi
« avanti il tempo », ovvero « avanti il principio del tempo », la parola
avanti non ha per relativo una parte o momento preso nella serie del
tempo, ma ha per suo relativo tutto intero il tempo; sicchè ella non può
significare un punto di tempo, giacchè ogni punto di tempo è nel tempo;
ma significa « fuori al tutto del tempo »; significa uno stato nel quale
non entra niente del tempo, nè pure un punto; e questo stato è l' eternità.
Così le menti umane sono costrette d' interpretare la parola avanti
nella citata frase in virtù della stessa coerenza delle idee, cioè perchè
sarebbe assurdo il darle qualsiasi altro significato.
Si osservi che le Scritture antiche cominciano colle parole: « « Nel
principio Iddio creò il cielo e la terra » », e il Vangelo di S. Giovanni che,
risguardando l' ordine intrinseco delle idee, si deve collocare in testa
delle nuove Scritture, comincia: « « Nel principio era il Verbo » ». Iddio
creatore (la sua conoscenza, il suo culto) è il principio della Legge
antica; il Verbo incarnato (la sua cognizione, imitazione e culto) è il
principio della Legge nuova. Col confronto di questi due luoghi si può
maggiormente penetrare nel senso di quelle parole « « nel principio » »;
conciossiachè così si possono parafrasare le prime parole di Giovanni:
« Nel principio, in cui Dio creò il cielo e la terra, era già il Verbo ».
Ma in qual principio creò Iddio il cielo e la terra? Certamente nel principio
delle cose, nel principio del tempo.
Ma qui nasce una difficoltà, e sono appunto le difficoltà che, dandoci
il Signore il dono di snodarle, portano nelle menti la luce della
verità. La difficoltà è questa: - Iddio opera nella eternità e non nel
tempo; la creazione adunque, quest' atto di Dio, non poteva essere fatto
in nessuno istante del tempo, neppure nel primo; che anzi il primo
stesso degl' istanti, con tutti quelli che venivano appresso, dovevano
esser prodotti o, per dir meglio, comprodotti dall' atto di Dio creante, e
non essere una cotal forma di questo atto. - Convien dunque riflettere
che l' eternità è cosa affatto immune dal tempo, il quale non è che
l' oggetto dell' eterno operare di Dio. Quindi non deve punto credersi
che l' atto eterno, col quale Iddio creò tutte le cose, sia cominciato in un
certo tempo infinitamente remoto dal punto, in cui le cose, effetto di
quell' atto, cominciarono ad esistere; perocchè in tal modo si ricadrebbe
nell' assurdo, che avanti il tempo vi fosse un' altra serie o tempo infinitamente
lungo. Se l' atto di Dio avesse dovuto aspettare un tempo infinito
prima che il suo oggetto, il mondo, venisse realmente posto in
essere, egli non avrebbe mai avuto il suo effetto, perchè un tempo
infinito non finisce mai. E` dunque da dirsi, che l' atto della creazione
e il suo effetto sono inseparabili e non divisi da alcun tempo: colla sola
differenza che quell' atto è eterno, cioè di una natura scevra al tutto
dalla legge del tempo; là dove il suo effetto, almeno il mondo sensibile,
è tale che una delle sue forme e leggi è il tempo, creato perciò col mondo
a quella guisa che le limitazioni sono fatte insieme con le cose, alle
quali esse vanno inerenti. Questo è ciò che volle esprimere il sacro testo
dicendo, che « Iddio creò il mondo nel principio »: escluse ogni pensiero
di distanza fra il mondo e l' atto di Dio creante. - Ma se l' atto di Dio
creante è congiunto senza alcuna distanza di tempo col mondo che egli
crea, e col tempo che è una forma di questo mondo creato, perchè
quell' atto si dice che fu fatto nel principio del tempo, piuttosto che in
qualsiasi altro istante? giacchè quell' atto aveva con tutti gli istanti
ugualmente la stessa relazione di unione intima, senza distanza alcuna
di tempo, unione, dico, fisica di causa e di effetto? - Rispondo esser
verissimo che quell' unico e semplicissimo atto col quale il mondo fu
creato risponde e, per così dire, si combacia non solo col primo istante
delle cose create, ma con qualsivoglia altro; ma solo in quanto quell' atto
si riferisce e riporta al primo istante dicesi creante , in quanto poi si riferisce
agli altri dicesi conservante . L' atto che crea è quello identico che
conserva, ma gli effetti sono due, che si distinguono appunto nelle creature
mediante la successione del tempo, perocchè l' effetto è vestito,
come dicevamo, dal tempo. Se dunque l' effetto, il mondo, si considera
nel primo istante della sua esistenza, dicesi creato; se poi si considera
negli altri istanti successivi, dicesi conservato . E però l' unico atto del
Creatore, che crea e conserva, riceve due relazioni significate con due
nomi: se si considera in relazione col mondo nel primo istante della sua
sussistenza, dicesi creante; se si considera in relazione col mondo negli
istanti successivi, dicesi conservante . Volendo dunque Mosè esprimere
l' effetto della creazione e non quello della conservazione, egli dovette
di necessità scrivere che Iddio « « creò il cielo e la terra nel primo istante » ».
- Ma se l' atto creante è eterno, e non di meno le cose create nel
primo loro istante sono congiunte con quell' atto senza alcuna distanza
o separazione di tempo, come poi accade che Giovanni dica, che il
Verbo era già prima che le cose incominciassero: « « Nel principio era il
Verbo » »? - Rispondo che in questo ci sarebbe difficoltà, se dalle parole
di Giovanni si dovesse inferire, che il Verbo era anteriore all' atto della
creazione: ma quelle parole non dicono altro se non che il Verbo era
anteriormente al principio del mondo: « Nel principio delle cose era già
il Verbo », il che significa, come vedemmo, che il Verbo è fuori del
tempo, nell' eternità. E, per intendere ciò che noi diciamo più chiaramente,
si consideri, che non si paragona già l' atto producente il Verbo
coll' atto producente il mondo; ma si paragona il Verbo prodotto col
mondo prodotto, e si dice che quello è avanti questo, il che viene a
dire che quello è totalmente fuori di quel tempo che è una condizione
e specificazione del mondo. Nel che si badi, che a quella guisa che l' identico
atto divino, che fa esser le cose, è intimamente congiunto alle cose
in tutti egualmente i loro istanti; così l' atto divino, che fa essere il
Verbo, è intimamente congiunto al Verbo nell' eternità. Che se l' atto
che fa essere il Verbo è eterno, e il Verbo pure non esce dall' eternità;
dunque egli (il Verbo) rimane in quell' atto, sicchè fra l' atto che il
produce (la generazione) e lui prodotto non può esservi differenza
alcuna reale; ma convien dire che il Verbo sia quell' istesso atto, sia un
atto del Padre, da noi poscia considerato in due rispetti, l' uno come
producente, chiamandolo sotto tale rispetto generazione , e l' altro come
prodotto, chiamandolo sotto quest' altro rispetto generato o Verbo: e
ciò per l' imperfezione della nostra maniera di concepire. Per altro egli
pare non difficile neppure il sollevarsi ad intendere che un atto fatto
nell' eternità non abbia alcun termine distinto da sè, ma sia egli stesso
il proprio termine.
Per la stessa ragione poi, per la quale il Verbo non uscendo dall' atto
che lo produce s' immedesima con quest' atto; per la stessa ragione,
dico, anche l' atto creante si dice immedesimarsi coll' atto generante, non
uscendo nè l' uno nè l' altro dall' eterno semplicissimo loro principio.
Onde S. Paolo dice che il Verbo « « porta tutte le cose colla parola della
sua virtù »(Hebr. I, 3) », cioè con se stesso, e quindi pure il celebre detto
di S. Anselmo che Dio « uno eodemque (Verbo) dicit se ipsum et quaecumque
fecit (Monol. XXXII) ».
Un' altra riflessione ancora. Se Iddio generò il Verbo e creò il
mondo con un identico atto eterno, e se tuttavia il Verbo ed il mondo
si distinguono, perchè il Verbo è l' atto stesso divino ultimato che non
esce dall' essenza divina, là dove il mondo è un termine di quell' atto,
che si distingue dalla divina essenza; tuttavia il mondo conserva col
Verbo una relazione di analogia, trovando nel Verbo il suo Esemplare.
Egli è vero che il Verbo non è solamente esemplare del mondo, ma è
la figura della sostanza di Dio (1); è questa stessa sostanza in quanto è
luce o sia verità, e in esso trova il mondo il suo Esemplare, come il
valore del fango trova il suo concetto nel valore del diamante. Intanto
però il Verbo divino può esser considerato dalla nostra mente, che
concepisce le cose divine come atte ad essere divise dall' astrazione, in
due rispetti: o in se stesso in quanto è l' Essere manifesto a se stesso , il
Verbo; o in quanto è l' Esemplare del Mondo, benchè sia tale eminentemente.
Se dunque il Verbo, come tale, cioè il Verbo concepito da noi
nel primo rispetto, si paragona col mondo, si dice che quello era prima
di questo, per esprimersi con ciò che quello è nell' eternità e questo nel
tempo. Ma se si paragona col mondo il Verbo considerato nel secondo
rispetto, cioè come Esemplare del mondo, allora quando si dice che
quello era prima del mondo si esprime solamente quella relazione
che ha l' Esemplare con la copia. Ora nelle opere degli uomini questa
relazione consiste in una priorità e posteriorità di tempo; perocchè lo
statuario prima concepisce l' idea della statua che n' è l' esemplare, e
dopo forma la statua che n' è la copia. All' incontro nelle semplici idee
di esemplare e di copia non si racchiude questa relazione di tempo, non
essendo assurdo l' immaginare che coesistano due cose, l' una copia,
l' altra esemplare, contemporaneamente. Tuttavia la copia dipende sempre
dall' esemplare, di guisa che l' esemplare ha un' anteriorità logica
rispetto alla copia, come la causa ha un' anteriorità logica rispetto all' effetto,
e il padre rispetto al figlio, benchè siano termini relativi di
maniera che non vi possa essere nè la causa nè il padre se non v' è di
contro l' effetto e il figliuolo, l' esistenza dei quali è intimamente legata
colla causalità e la generazione, e queste col causato e col generato.
Qualora dunque le parole di Giovanni « « Nel principio era il Verbo » » si
vogliono spiegare anco da quella parte, in cui nel Verbo si considera
l' Esemplare del mondo, convien dire che esse, coll' indicare il Verbo
preesistente al mondo, intendono esprimere il rapporto di anteriorità
logica che passa fra l' esemplare e l' esemplato. Sotto questo rapporto
col mondo parlano del Verbo specialmente quelle parole dei « Proverbii »
di Salomone «(VIII, 23 7 31) »: « « Fui ordinata ab eterno » » (quando fu
generato il Verbo, fu ordinato il mondo; l' ordine al Verbo è essenziale,
al mondo no), « « e dalle cose antiche prima che fosse la terra.
Gli abissi ancora non erano, ed io già era concepita » » (ecco l' esemplare,
il concetto degli abissi anteriore logicamente agli abissi); « « non ancora
erano sgorgati i fonti delle acque, non ancora consolidati i monti colla
grave lor mole; prima dei colli io veniva partorita: non aveva fatto
ancora la terra, e i fiumi, e i cardini del globo della terra » » (ecco
l' Esemplare, l' idea dei fonti, dei monti, dei colli, della terra, dei fiumi,
dei cardini del globo, anteriore logicamente a tutte queste cose; questo
Esemplare è partorito dal seno di Dio, ciò che mostra che non è realmente
diverso dal divino Figliuolo). « « Quando egli preparava i cieli io
era presente » » (qui l' Esemplare si mostra contemporaneo, coesistente
all' atto di Dio creante); « « quando con certa legge e con certo giro vallava
gli abissi; quando di su fermava l' aria ed equilibrava i fonti delle
acque; quando tirava intorno al mare il suo termine e poneva la legge
alle acque acciocchè non trapassassero i loro confini; quando pesava i
fondamenti della terra, io era con esso lui, componendo tutte le cose,
sollazzandomi alla sua presenza in ogni tempo; sollazzandomi nel globo
della terra; e mie delizie erano lo stare coi figliuoli degli uomini » ». Il
che esprime che, nell' atto col quale Iddio faceva le cose e governava
ab eterno gli avvenimenti di tutti i tempi, l' idea delle cose e degli avvenimenti
era con lui; egli vedeva le cose nel suo Verbo e pel suo Verbo,
e veggendole le creava; ed essendo le cose distribuite pei tempi, dice
che quella divina Sapienza si sollazzava al cospetto di Dio in ogni tempo,
perchè l' atto suo eterno riferivasi ad ogni tempo, e del proprio atto
Iddio si beatifica. Questa Sapienza che si riferisce al mondo e che Iddio
possiede nel suo Verbo, al quale l' atto creante si riferisce come l' artefice
riferisce al proprio concetto l' opera sua, è poi quella di cui fa
parte anche agli uomini, onde dice che « « sue delizie sono lo stare coi
figliuoli degli uomini » ». E perchè questa sapienza comunicabile è nel
Verbo eminentemente, perciò anche Giovanni dice del Verbo che « « illumina
ogni uomo veniente in questo mondo » ».
Ma merita che s' investighi perchè l' Evangelista dica: « « Nel principio
era il Verbo » », e non dica: « Nel principio era il Verbo di
Dio »(1). Dire « il Verbo »senza più, è un parlare assoluto; viene a
significare « quello che è Verbo assolutamente, Verbo per sè, che ha
condizione di Verbo e nient' altro, che è Verbo per sua essenza, ossia
la cui essenza è di esser Verbo ». Una parola sonora non è solamente
verbo, ma è anche suono; un pensiero, un' affermazione umana non è
solamente un pronunciato, ma è un pronunciato determinato e limitato
a ciò che con esso lui si pronuncia.
Dicendosi che il Verbo era, si viene a significare che il Verbo, come
tale, era ente completo; perocchè una cosa è in quanto è ente. Se il
Verbo non fosse stato a principio compiuto ente, non si sarebbe potuto
dire assolutamente e semplicemente ch' egli era a principio. Questo
parlare dimostra che l' essere gli conviene in proprio, ossia che la sua
essenza è l' atto dell' essere; quindi che egli è Dio, perchè Iddio è quegli
la cui essenza è l' essere.
Per tal modo quell' espressione assoluta « il Verbo »distingue il
Verbo divino da ogni altro verbo che ha bisogno per essere significato
di qualche aggiunta, di qualche epiteto, perchè questo non è verbo per
sè, ma per analogia col Verbo, e non è puramente verbo ma qualche
cos' altro; e non è tal Verbo che sia un ente completo, di maniera che
gli competa in modo assoluto l' esistenza; e non è Verbo senza limiti
che gli tolgano qualche cosa dall' esser Verbo, perchè in quanto un dato
verbo omette dal pronunciare qualche cosa, non è verbo; onde, acciocchè
egli sia puramente e pienamente Verbo, egli è uopo che pronunci
tutto, niuna cosa esclusa: e molto meno ogni altro verbo era al principio.
Che se quel Verbo che era al principio è il Verbo per sè, quindi
ogni altro verbo è tale per partecipazione di lui: il che si deve vedere
come sia.
Acciocchè il Verbo sia puramente e compiutamente Verbo, deve
pronunciare tutto, perchè, se non pronunciasse tutto, risulterebbe di
due elementi, cioè di verbo e di confini, e così non sarebbe puramente
Verbo; nè sarebbe Verbo compiutamente, perchè, in quanto non pronuncierebbe,
in tanto non sarebbe Verbo. Dunque ogni altro verbo non
può essere che una ripetizione di ciò che è già pronunciato. Tutto è
pronunciato: questo tutto viene poi pronunciato a parte a parte con
altri verbi che così non fanno che ripetere imperfettamente il primo, e
perciò non sono verbi in senso assoluto, ma per partecipazione. E veramente
un essere intelligente non può pronunciare se non ciò che è pronunciabile .
Ma che cosa fa che una cosa sia pronunciabile? Ogni cosa
in potenza si deve ridurre ad una cosa in atto; niente adunque sarebbe
pronunciabile, se non fosse già attualmente pronunciato da un primitivo
Verbo. Il Verbo primitivo è dunque quello che rende pronunciabili
le cose, è quello in cui si radica la possibilità di tutti i pronunciati
parziali, accidentali, posteriori, che ripetendo il primo ne partecipano.
Le intelligenze finite dunque hanno la loro possibilità ontologica nell' eterno
Verbo.
S. Tommaso d' Aquino viene a dare la stessa ragione del perchè
il nostro Evangelista in questo luogo dica « Verbo »assolutamente e
non « Verbo di Dio ». « « Quantunque », dice, «molte sieno le verità partecipate,
tuttavia la Verità assoluta è una, la quale è Verità per sua
essenza, cioè è lo stesso Essere divino; per la quale Verità tutti i verbi
sono verbi. Alla stessa guisa v' ha una Sapienza assoluta elevata sopra
tutte le cose, per la partecipazione della quale tutti i sapienti sono
sapienti; e v' ha pure un solo Verbo assoluto, per la partecipazione del
quale tutti quelli che hanno un verbo sono detti parlanti. Ora è il
Verbo divino quello che è Verbo per sè elevato sopra tutte le cose.
L' Evangelista adunque, per significare questa sopraeminenza del Verbo
divino, ci propose lo stesso Verbo senza quell' aggiunta »(1) ». Di che
vedesi anche la ragione onde l' Evangelista non si contenta di dire
«logon», ma dice «ton logon»; « il Verbo »distinguendolo così da ogni altro
discorso, come hanno osservato S. Giovanni Grisostomo (2) e Teofilatto
(3).
Verbo, parola, verbum, «logos». - Pare che primieramente gli uomini
abbiano nominata la parola esterna e sonante come quella che cade
sotto i sensi. Più tardi si sono fermati a considerare che la parola esterna
non era che un segno che esprimeva una cosa interna, un oggetto pronunciato
dalla mente. Volendo dunque nominare questa cosa interna
significata, invece d' imporle un nome proprio, vi adattarono lo stesso
vocabolo che significava la parola esterna, lasciando che il contesto del
discorso chiarisse quando a quel vocabolo convenisse dare il significato
antico di parola, suono proferito con gli organi della voce a significare;
e quando gli si convenisse dare il significato nuovo della cosa interna
nello spirito colla parola significata. Questa maniera di estendere alle
parole vecchie il significato di mano in mano che gli uomini estendono
le loro cognizioni, è più comoda che inventare vocaboli nuovi, perchè
esige uno sforzo di mente minore e adattato a tutta la comunità degli
uomini, oltredichè le idee o cognizioni nuove ritengono in tal modo la
relazione colle idee o cognizioni precedenti onde furono derivate, e
così meglio si conoscono, e più agevolmente si prestano al ragionamento;
giacchè i nessi fra esse e le notizie più antiche e più familiari sono
pronti. Solamente più tardi, quando la mente è già sviluppata, e non
ha più bisogno di tali dandine, ella inventa parole nuove e proprie
per quelle cognizioni che non le sono più nuove; ovvero le parole vecchie
da comuni diventano proprie, perdendo il primitivo significato e
ritenendo solo il nuovo.
Sant' Agostino, per fare in qualche modo intendere al suo popolo
il significato di questo vocabolo « parola di Dio », comincia a distinguere
nell' uomo la sua parola esteriore dalla sua parola interiore significata
da quella prima. Poi mostra che questa parola interiore precede nell' uomo
le opere dell' uomo. [...OMISSIS...] , dice egli, [...OMISSIS...]
Dopo aver dunque Sant' Agostino stabilito in questa maniera, che
la parola interiore, il consiglio si conosce dagli uomini mediante l' effettuazione
esterna di quella parola, di quel consiglio; chiama i suoi
uditori a conoscere in qualche modo la parola di Dio, il consiglio di Dio
dalle opere esterne della creazione, dicendo: [...OMISSIS...] .
In questo luogo di Agostino scorgesi manifestamente una leggiera
tinta di platonismo, da lui stesso purificata in altri luoghi, e specialmente
nella grand' opera che scrisse sulla Trinità. E veramente per i
platonici il Verbo di Dio era l' idea del mondo ossia il mondo intelligibile,
come talor lo chiamavano. Questo concetto del Verbo, che si
erano formato i platonici, non è quello di S. Giovanni, il quale anzi
scrive il suo Vangelo a confutazione di quegli errori che avevano dedotto
in buona parte dal platonismo Cerinto «(Hier., De Script. Eccles. -
Id., Prooem. in Matth. - Iren., III, XI - Id., I, XXV - Tertull.,
De Praescript. ) », Ebione «(Epiph., Haeres. XXX - Iren., III, XI) », e poco
appresso i gnostici; i quali, benchè sembrino esser comparsi con questo
nome sotto l' impero d' Adriano, già morto Giovanni, tuttavia prima
esistevano coi loro errori, come si rileva da S. Ireneo «(L. III, c. XI -
Epiph., Haeres. XXVI, XXVII) ». Tuttavia v' ebbero dei platonici, i quali,
non ben intendendo quanto la dottrina di Giovanni si sollevasse sopra
la loro, sentendovi ragionato altamente del Verbo di Dio, espressione
di cui anch' essi facevano uso, commendarono altamente il principio del
Vangelo di S. Giovanni. Alcuno di essi diceva che quel principio meritava
d' essere scritto a lettere d' oro sul fastigio di tutte le chiese «(Aug.,
De C. D. , X, XXIX, ex Simplic. Mediolan. Ep.) ». Così del pari molti altri
platonici, fra i quali Aurelio, che viveva nel III secolo, non finivano
d' ammirare e lodare il principio del Vangelo di Giovanni «(Euseb.,
Praepar. E., XI, XXIX - Cyrill. Alex. in Jul., VIII) ».
Non può negarsi che Platone attribuisca in alcuni luoghi la creazione
al verbo di Dio, «logos» (In Timaeo, e in Epinomide - vedi le
notizie di Le Clerc sui primi versicoli di S. Giovanni). Gli stoici del
pari usavano del «logos» di Dio per ispiegare la creazione contro gli epicurei
che attribuivano ogni cosa al cieco azzardo «(La‰rt., VII - Tertull.,
Apolog., XXI) ». Filone parla anche egli d' un mondo intelligibile anteriore
al presente, esemplare nella mente di Dio, da cui Dio ritrasse tutte
le cose create, e che egli chiama pure il «logos» «(Phil., De Opif. Mundi -
Id., De Allegor., 1 II - Id., 1 Quis rerum divinarum haeres. - Id.
De somn., et alibi) ». Non sarà neppure del tutto difficile trovare qualche
brano ne' platonici, fioriti dopo la venuta di Gesù Cristo, nel quale si
dica che il logos di Dio è Dio; ma questi non sono che luoghi piuttosto
sfuggiti ai loro autori per entusiasmo e senza coerenza co' loro principii,
che luoghi esprimenti un loro sistema.
« « Nel principio era il Verbo » ». - Egli è uopo che noi ci fermiamo
ancora meditando e ricercando, per quanto ci è dato di potere, che cosa
sia il Verbo, il divino Verbo, l' essenziale ed assoluto Verbo; nè possiamo
in altro modo, se non salendo dalla considerazione del verbo umano.
Conviene dunque riflettere che nell' umana mente altro suol essere
l' idea , altro è il verbo . L' uomo con l' idea conosce l' essenza della cosa,
ma non la sussistenza; per esempio, noi quando abbiamo l' idea dell' animale
sappiamo che cosa è animale, ma non sappiamo ancora con questo
solo, se un animale sussista. Noi non sappiamo che un animale sussista
se non abbiamo dentro di noi affermato che sussiste; l' atto dell' affermazione
è un pronunciato, un giudizio, un verbo della mente.
Se noi paragoniamo l' idea al verbo della mente umana, noi troviamo
che l' idea non è già un prodotto dell' umana mente, ma vien data
all' umana mente; la mente la riceve, non la crea. L' idea è lo stesso
essere contemplato nella sua essenza, la quale è eterna e quindi sovrumana.
Il verbo all' incontro, cioè l' affermazione è un atto della mente
stessa, e la sussistenza, in quanto è affermata o pronunciata , è un prodotto
di essa mente; onde S. Tommaso dice che « de ratione intelligendi
est quod intellectus intelligendo aliquid formet, hujus autem formatio
dicitur verbum (1) ».
In secondo luogo è evidente, che la mente umana non potrebbe
pronunciare il verbo, l' affermazione della sussistenza, se non avesse
l' idea della cosa, se non ne conoscesse in qualche modo l' essenza; cioè
se non ne conoscesse una qualche definizione più o meno perfetta,
perocchè l' essenza è ciò che può essere espresso in una definizione;
perocchè in qual modo si può affermare una cosa che non si conosce
menomamente? Questo ha fatto dire a S. Tommaso che « verbum semper
est ratio et similitudo rei intellectae (2) ».
Ma più esattamente è da dire, che l' idea è la ragione della cosa che
si afferma, e in qualche modo anche la similitudine; e che il verbo
suppone innanzi a sè questa ragione e similitudine nella mente, acciocchè
possa esser pronunciato.
Ora è qui da cercare la ragione per la quale nella mente umana
l' idea ed il verbo sieno così divisi, per modo che con un atto di intuizione
si contempla l' idea, e con un altro atto d' affermazione si produca
il verbo. Questo avviene, perchè i naturali oggetti reali dell' umana intelligenza
sono finiti, cioè sono gli enti creati contingenti. Ora gli enti
creati, appunto perchè sono contingenti, non hanno necessariamente la
sussistenza , ma questa può essere e non essere; laddove hanno necessariamente
l' essenza, la quale non può non essere, e però ella è eterna. Quindi
rispetto a questi enti l' essenza è cosa diversa al tutto dalla sussistenza;
non sussistono per propria essenza, ma perchè un atto libero di Dio gli
ha fatti sussistere. Essendo dunque due cose affatto distinte e separate
l' essenza e la sussistenza delle cose contingenti, consegue che sieno due
atti distinti quelli con cui la mente umana le apprende: l' uno dei quali,
l' intuizione, ha per suo termine l' essenza; l' altro, cioè l' affermazione
(preceduta dal sentimento), ha per suo termine la sussistenza dei contingenti.
E consegue parimente, che questo secondo atto supponga il
primo: perocchè non si conosce la sussistenza d' una cosa, se non si
conosca innanzi (di priorità logica) che cosa sia questa cosa, il che è un
averne idea, un conoscerne l' essenza compresa nell' idea. Consegue ancora
che il formale della cognizione, ciò che illumina la mente, sia
l' essenza, giacchè conoscere la sussistenza non è altro che conoscere
quale sia l' essenza della cosa che si sente e che si afferma.
La sussistenza adunque dei contingenti non è cognita per sè, ma
per l' essenza che la illumina nella mente nostra e così la rende conoscibile.
Ma se si avesse una sussistenza che fosse per sè cognita, cioè che
fosse ad un tempo sussistenza ed essenza, ella sarebbe in tal caso un
oggetto unico, il quale si potrebbe ed anzi si dovrebbe apprendere con
un atto solo dello spirito. Ora tale oggetto non potrebbe essere un contingente
per la ragione detta, ma converrebbe che fosse necessario: perocchè,
se l' essenza è sempre necessaria, necessaria convien che sia
anche quella sussistenza che ha in sè la propria essenza, e forma con
questa un solo essere. Ma l' essere necessario tanto rispetto all' essenza
quanto alla sussistenza dicesi Dio. Iddio è dunque quel solo essere la
cui sussistenza è l' essenza.
Se dunque Iddio sussiste per propria essenza, consegue che Iddio
sia l' essere assoluto , l' essere assolutamente considerato, non l' essere
comunissimo, il quale non è che un' essenza senza sussistenza come tale;
ma sia l' essere essenziale, realissimo. Iddio dunque è l' essere per essenza.
Ciò che è per sua propria essenza, non può non essere intelligibile,
perchè l' essenza è la parte intelligibile delle cose.
Ora, se quell' essere è per sè intelligibile nella sua propria sussistenza,
se quell' essere deve apprendersi dallo spirito con un atto solo,
perchè in lui la sussistenza è ad un tempo l' essenza; quale sarà quest' atto
dello spirito col quale si dovrà apprendere? Quest' atto non può
essere una semplice intuizione, perchè l' intuizione non ha per termine
che l' essenza, e quell' essere è anche sussistenza. Si apprenderà dunque
coll' affermazione ? L' affermazione suppone la distinzione fra l' essenza
e la sussistenza, perchè ella è un giudizio, è l' unione che fa la mente
d' un predicato e di un subbietto, d' un subbietto però che non è tale
prima dell' affermazione, ma che tale diviene coll' affermazione stessa.
L' essere adunque sussistente per sua essenza, cioè Iddio, non si apprende
neppure per un' affermazione simile a quella che l' uomo fa nella
percezione dei contingenti. L' atto dunque, con cui la mente apprende
l' essere assoluto a cui è essenza la propria sussistenza, deve essere un
terzo atto che, quantunque unico, tuttavia unisca in sè tutto ciò che ci
dà l' intuizione e tutto ciò che ci dà l' affermazione, senz' essere precisamente
ne l' una nè l' altra; quest' atto si può chiamare sentimento intellettuale,
appellazione che consuona in qualche modo a quella che
usano i teologi quando chiamano la percezione di Dio visione, parola
traslata dal senso del vedere. Se non che la parola visione , acconcissima
ad esprimere il modo con cui i Santi in cielo apprendono Dio, suppone
una distinzione e una cotal distanza fra il soggetto veggente e l' oggetto
veduto, e però non sembra potersi applicare al modo con cui Iddio
apprende ed intende se stesso; laddove l' espressione di sentimento intellettuale,
più generale, sembra potersi acconciare tanto alla visione
beatifica, quanto all' atto con cui Iddio comprende se medesimo.
Ma sotto un altro aspetto anche l' espressione sentimento intellettuale
trovasi inadeguata a significare il modo onde Iddio intende se
stesso. E di vero, se la sussistenza divina è per sè essenza, dunque è
intelligibile per se stessa. Ma se è per se stessa intelligibile, dunque è
anche per se stessa, a se stessa intesa . Perocchè ciò che è intelligibile è
anche inteso tosto che risieda in un essere sussistente. Ora l' essenza
divina risiede talmente in un essere sussistente, che la sussistenza di
quell' essere è l' essenza di quell' essere. Dunque questa sussistenza per
la propria essenza è intesa e nota a se stessa. Non vi ha dunque nulla
di potenziale in questa cognizione, non vi ha una facoltà di conoscere
che esca dall' atto o che si distingua dall' atto: ma vi ha puramente l' atto
necessario altrettanto quanto è necessaria la sussistenza dell' essere di
cui parliamo, nè v' ha pure distinzione tra questo atto e la sussistenza
medesima: non v' ha che questa sussistenza per sè intesa, per sè
lume, per sè notizia, per sè oggetto intellettivo, di modo che l' atto conoscitivo
di cui si tratta è la medesima sussistenza.
La sussistenza divina adunque, per sè intesa, ha una doppia relazione,
quella di soggetto intelligente, e quella di oggetto inteso; ma la
sussistenza è identica ed una perfettamente. Ma ella è per sè intesa in
virtù dell' atto intellettivo che la rende intesa, atto necessario, perchè
è necessariamente ed essenzialmente intesa a se stessa. In quanto poi
la sussistenza divina è per sè intesa da se stessa, soggetto ossia persona,
in tanto è il Verbo (1).
Dal che si rileva primieramente quanto sia giusta l' osservazione di
S. Agostino e di S. Tommaso, il quale scrive: « Verbum Dei semper est
in actu, et ideo nomen cogitationis Verbo Dei proprie non convenit.
Dicit enim Augustinus (1): « Ita dicitur Verbum Dei, ut cogitatio non
dicatur ne quid quasi volubile credatur in Deo »(2) »; perocchè la parola
cogitazione significa discursus inquisitionis e non un pronunciato compiuto
ed ultimato nella mente (3).
Si rileva ancora che il Verbo divino non è l' atto intellettivo di Dio,
ma il termine di quell' atto intellettivo, cioè la stessa sussistenza divina
intesa; e quindi che la sapienza che risulta dall' atto intellettivo divino
è comune a tutta la Trinità. Tuttavia, poichè l' intelligente e l' inteso
sono correlativi, dalla sostanzialità o piuttosto dalla sussistenza del
primo si può argomentare alla sostanzialità o sussistenza del secondo,
e sotto questo aspetto ha efficacia l' argomento di S. Tommaso che scrive:
« In Deo autem idem est intelligere et esse; et ideo Verbum intellectus,
non est aliquid accidens sed pertinens ad naturam ejus. Unde
oportet quod sit subsistens, quia quidquid est in natura Dei, est Deus (4) ».
E veramente noi abbiamo veduto che il Verbo divino è la stessa sussistenza
divina in quanto è intesa, quella stessa sussistenza che è ad un
tempo intelligente per sè, ed essere per sè.
Noi abbiamo riconosciuto che Iddio è l' essere assolutamente preso,
e perciò l' essere compiuto: che egli è sussistente, giacchè altramente
non sarebbe l' essere compiuto ed assoluto: che questa sussistenza divina
è per sè intesa, e che in quanto ha condizione di essere intesa per se
stessa, in tanto è il Verbo divino. Dunque tutta la sussistenza divina,
tutto l' essere assoluto è per sè inteso; la sussistenza divina comprende
totalmente se stessa, è di continuo e per sua essenza compresa da se
stessa. Questa comprensione dell' essere non ha limitazione di sorta, e
quindi è Verbo semplicemente per sua essenza, e questo Verbo non può
essere che uno (1).
Or l' essere non potrebbe essere totalmente inteso e compreso per
propria essenza da se stesso, se in questa comprensione non abbracciasse
anche tutti i modi in cui l' essere reale e sussistente può venire limitato.
Ma poichè nell' essere assoluto non cadono limitazioni, perocchè ogni
limitazione il fa cessare dall' essere quello che è, cioè assoluto per essenza;
quindi i modi, con cui l' essere può ricevere limitazioni, sono i
modi onde l' essere può creare qualche cosa di diverso da sè, fuori di
sè, i modi onde può esistere un essere limitato, non più l' assoluto. La
cognizione di questi modi è la cognizione delle cose creabili, le essenze
delle cose contingenti, le idee pure, a cui non è necessariamente unita
alcuna sussistenza, ma che viene unita pel libero atto della creazione.
Quindi la sussistenza dell' essere da se stessa e per propria essenza compresa,
cioè il Verbo divino, racchiude necessariamente anche le idee,
ossia le essenze delle cose creabili e contingenti; perocchè altramente
non comprenderebbe perfettamente se stessa, se non comprendesse quelle
limitazioni possibili, non sue, che lo farebbero cessare d' essere assoluto,
dall' essere Dio, ma che costituiscono l' essere limitato e relativo, la creatura.
Ora il Verbo, in quanto è la sussistenza divina che comprende i
modi in cui può essere limitata, con che non è più sussistenza divina a
cui è essenziale essere illimitata, è l' esemplare de' mondi possibili, l' idea
de' contingenti. Le idee dunque dei contingenti appartengono al Verbo,
ma non le cose contingenti, le quali non sono se non per un' operazione
divina e libera che le fa sussistere e che si dice creazione.
Ma qui s' intenda bene. Quando si parla de' modi in cui può essere
limitata la sussistenza divina, non è che la sostanza divina riceva limitazioni,
la quale non può riceverne. Ma, essendo essa l' essere, e l' essere
potendo essere, il che si racchiude nel suo concetto, in due modi, illimitato
e limitato; l' essere illimitato e immutabile è la sostanza divina,
l' essere poi limitato è la creatura. Nella sussistenza divina vi ha dunque
la possibilità delle creature, perchè vi ha l' essere che può essere limitato;
ma non vi ha la creatura: vi ha la ragione per la quale la creatura può
esistere, perchè vi ha l' essere il quale ha nel suo concetto di poter essere
limitato. La possibilità poi della creatura è duplice, cioè logica e fisica .
La possibilità logica è l' idea, ossia la ragione della creatura; la possibilità
fisica è la potenza, ossia la causa efficiente della creatura, che è
la virtù creatrice. L' essere assoluto adunque contenendo nel suo concetto
l' idea dell' essere limitato, ossia della creatura, ed anche la virtù
di porre, ossia rendere reale e sussistente quell' essere limitato manifesto
nell' idea, egli ha tuttociò che bisogna per rendersi creatore, creatore
dell' essere limitato, cioè della creatura, rendendola reale, sussistente.
Il Verbo divino adunque, in quanto è sussistenza per sè intesa, ha l' idea
delle cose contingenti; in quanto poi è sussistenza ha la virtù di crearle:
onde la creazione è propria della sussistenza divina che crea secondo
le idee che ha in se stessa in quanto ella è intesa per sè, ossia in quanto
ella è Verbo: e però la creazione è una operazione che appartiene a tutta
la Trinità che ha l' identica sussistenza.
Conviene ancora che noi vediamo in che modo l' esemplare delle
cose contingenti risieda nel Verbo. Questo esemplare è la conoscenza
intima della virtù che ha essenzialmente la sussistenza divina di fare
esistere l' essere in un modo limitato; è adunque ancora la sussistenza
divina che conosce intimamente e per propria essenza se stessa e quindi
la propria virtù.
Di che procede primieramente che il Verbo e l' esemplare del mondo
non sono due Verbi, ma è un solo, perchè è sempre la sussistenza divina
conoscente e comprendente totalmente se stessa; ma in quanto si comprende
come l' essere limitabile, cioè avente in sè la possibilità di ente
limitato, in tanto fa ufficio di esemplare della realità o sussistenza limitata.
Non è dunque una distinzione reale quella che si pone nel Verbo,
considerandolo ora come immagine della sussistenza assoluta, cioè come
sussistenza assoluta a sè cognita, ora come principio della cognizione
del mondo, ossia come esemplare di questo; ma è un' astrazione nostra
imperfetta, una considerazione dello stesso Verbo sotto due rispetti:
vale a dire, con un rispetto alla sussistenza assoluta, e con un altro
rispetto all' ente limitato, ossia alla possibilità di sussistere come ente
limitato; la qual possibilità però è contenuta nella sussistenza assoluta
costituendone la potenza e la sapienza.
Nel concetto adunque dell' essere si contiene una sussistenza assoluta
e la possibilità di sussistenze limitate. La possibilità di queste sussistenze
limitate è logica in quanto è mera possibilità, cioè contenuta senza
ripugnanza nel concetto dell' essere (idea del mondo); ed è fisica in
quanto è potenza creatrice della sussistenza divina, cioè potenza che
può fare che sieno le sussistenze limitate, non che sieno meramente
possibili. La relazione di queste due possibilità è questa, che la possibilità
fisica, ossia la potenza creatrice, preceda la possibilità logica ossia
ideale, o conoscitiva. Perocchè la potenza creatrice è una forza reale, la
quale si contiene nella profondità della sussistenza creatrice. Ma la sussistenza
divina è per sè intesa totalmente; dunque anche la sua potenza
creatrice è per sè intesa. Ma convien formarsi un giusto concetto di
questa potenza divina, e non confondere la sua indole coll' indole della
potenza umana che si trasmuta passando all' atto, perocchè in Dio non
vi ha trasmutazione nè passaggio di potenza in atto essendo egli atto
puro.
Convien dunque riflettere che, sebbene in se stessa preceda la
possibilità fisica degli enti finiti alla possibilità logica, e questa proceda
da quella; tuttavia queste due possibilità non tengono lo stesso
ordine nella mente umana, ma vi ha prima la conoscenza della loro
possibilità logica, e dappoi la conoscenza della possibilità fisica. La
ragione di ciò si è che l' uomo, secondo natura, non è e non ha la
sussistenza cognita per se stessa, giacchè l' esser cognita per se stessa
non appartiene se non alla sussistenza di Dio. Quindi l' uomo ha
bisogno della possibilità logica, cioè delle idee per conoscere gli enti
finiti sussistenti, che non sono cogniti per se stessi; laddove la possibilità
logica, l' essenza ideale, è data all' uomo ed è cognita per se stessa.
Qualora dunque l' uomo voglia conoscere a che s' estenda la possibilità
fisica dell' essere, egli dee ricorrere alla possibilità logica, cioè vedere
che cosa si contenga nell' idea o concetto dell' essere, e tutto ciò che vi
si contiene segnerà la sfera della possibilità fisica, ossia della potenza
creatrice di Dio. Ora nel concetto dell' essere si contiene tutto ciò che
non repugna, tutto ciò che non involge contraddizione, perocchè l' essere
nel suo concetto abbraccia tutto, meno la contraddizione.
Nel concetto dunque dell' essere si contiene una sussistenza infinita
e necessaria, e delle sussistenze finite possibili a realizzarsi, perchè non
ripugna il concetto di enti finiti. Ma, se tutto ciò si trova nel concetto
dell' essere, dunque tutto ciò è nell' essere stesso, altramente non sarebbe
nel suo concetto, giacchè il concetto dell' essere suppone l' essere. Infatti
il concetto dell' essere altro non è che il pensiero o la conoscenza di ciò
che si contiene nell' essere. Dunque nell' essere si contiene la sussistenza
infinita e necessaria, e la possibilità fisica delle sussistenze finite, cioè
la potenza di realizzarle, la potenza che ha l' essere di sussistere in un
modo finito. Dunque nel concetto dell' essere noi troviamo la dimostrazione
dell' esistenza di Dio (già indicata da S. Agostino, da S. Anselmo
e da altri), come quella che è condizione indispensabile dello stesso concetto
dell' essere.
E per seconda conseguenza troviamo la dimostrazione della potenza
che dee avere l' Essere divino di realizzare degli enti finiti contenuti nel
concetto appunto dell' essere.
Finalmente per terza conseguenza deduciamo che, quantunque
l' umana mente debba muovere il suo ragionamento, anzi ogni ragionamento
dal concetto dell' essere; tuttavia rileviamo colla riflessione che
il concetto stesso dell' essere suppone dinanzi a sè l' essere da cui proceda,
cioè la sussistenza dell' essere. Altra è dunque la relazione che il concetto
dell' essere e l' essere ha nella mente umana, dove quello precede
e fa lume a questo; altra è la relazione che que' due termini hanno in
se stessi, per la quale il concetto dell' essere procede dall' essere stesso
sussistente per sè noto.
Nel concetto dell' essere, diciamolo ancora, si contengono tre cose:
1 La sussistenza illimitata dell' essere; 2 la possibilità dell' ente limitato;
3 la potenza propria della sussistenza illimitata di fare che l' ente
limitato sussista.
Ma i limiti, che può ricevere l' ente limitato, sono tracciati nella
sussistenza assoluta in modo da costituire altrettante idee specifiche
realmente distinte? No, perchè la sussistenza assoluta non ammette limiti
di sorte, e non ammette in se stessa alcuna moltiplicità o distinzione
reale, perchè semplicissima, sebbene ad un tempo compiutissima.
Laonde la sussistenza infinita tutto l' essere comprende, anche la
possibilità dell' ente finito, e la potenza di farlo sussistere. La possibilità
dell' ente finito s' estende a tutto il finito possibile, e la potenza s' estende
a potere realizzare tutto il finito possibile; nè l' una nè l' altra ha confini.
Onde vengono adunque i confini determinati e speciali dell' ente
finito? Dalla potenza creatrice appartenente alla sussistenza divina:
questa li determina e prescrive coll' atto con cui vuol crearlo.
Di che procede che nel Verbo divino come tale non si contengono
propriamente le idee specifiche e realmente distinte de' varii enti finiti,
ma si contiene unicamente la possibilità dell' ente finito, il che è quanto
dire l' idea dell' essere in universale; la quale, rispetto alla sussistenza
divina come essere assoluto e illimitato, è la sussistenza per sè manifesta;
rispetto poi all' ente finito non ancora sussistente è puramente idea .
Ora, all' uomo secondo natura è comunicata l' idea dell' essere in
universale, ma non la sussistenza divina per sè manifesta; e quindi non
gli è comunicato il Verbo, ma una luce veniente dal Verbo. In tal modo,
relativamente all' uomo, viene limitato l' essere per sè manifesto, per
guisa che all' uomo rimane solo l' idea o il concetto dell' essere semplicemente,
senza la sussistenza: onde riman perduta la nozione di Verbo
e la nozione di Dio, perocchè il Verbo e Iddio non è ciò che è in qualsivoglia
modo limitato.
Qui si presentano facilmente al pensiero due questioni. La prima:
« La divina potenza propria della divina sussistenza, e però dell' intera
Trinità, fu quella che determinò quali speciali limitazioni dovesse avere
l' ente finito ch' ella voleva creare; questa determinazione fu ella fatta
a pieno arbitrio senza alcuna ragione? ». La seconda: « La divina potenza
si determinò a creare il mondo senza ragione con cieco arbitrio? ».
Alla prima questione rispondiamo, che la sussistenza divina, appunto
perchè essenzialmente manifesta, è sapientissima; e però non poteva
concepire a cui dar l' esistenza, se non un ente finito in cui risplendesse
il carattere della sapienza che lo ideava e creava.
Ma qual è il carattere della sapienza? E` l' ordine, cioè la disposizione
della pluralità ordinata ad una perfetta ed ottima unità, e l' unità
è ottima quando è riposta in un fine ottimo, il quale non può esser che
Dio. L' universo adunque non poteva avere per fine dell' ultimazione
sua altro che Dio, cioè la manifestazione della gloria di Dio, la qual
gloria è la sua santità e la sua beatitudine, in una parola il suo perfetto
ed assoluto Essere uno e trino. Questa manifestazione era una comunicazione
di questa divina perfezione alla creatura. Tutto dunque doveva
cospirare a ciò; perchè Iddio non poteva amare che se stesso, e l' ente
finito non per lui, ma per se stesso. Ma, oltre la sapienza di questo
ottimo fine che consumava tutta l' opera della creazione nell' unità del
primo essere, doveva ancora risplendere la stessa sapienza nel modo con
cui la pluralità degli enti tendesse in tale unità; e questo modo consisteva
nell' ordine col quale dovevano essere incatenati e connessi fra sè
gli enti finiti, con subordinazione delle serie delle cause seconde, e con
leggi stabili, in modo da formare anche per questo di tutti gli enti un
solo ordine, un solo universo. Ora qui nasce questa difficoltà. Non
essendovi nella sussistenza divina altro ordine che quello delle persone,
nè altra moltiplicità, nè altra distinzione reale, onde poteva Iddio trovare
il canone della sapienza che prescrivesse quella concatenazione
delle creature e delle cause seconde, e quella stabilità delle leggi? Si
risponde, che questo canone si trova nella sussistenza divina, in quanto
che la sussistenza divina, amando l' essere, cioè se stessa, infinitamente,
doveva necessariamente voler produrre il maggior essere finito possibile
colla menoma sua azione; di che procede che quest' essere dovesse essere
ordinato, perchè dove vi ha ordine vi ha più essere che dove non vi
ha (1). Quindi la connessione degli enti, la subordinazione delle cause,
la stabilità delle leggi, ecc.. Medesimamente la divina sussistenza, amando
se stessa, doveva volere che l' ente finito da lei prodotto ottenesse il
massimo frutto, cioè partecipasse nella maggior copia possibile della
natura divina: quindi di nuovo la necessità dell' ordine. L' ordine dunque,
tanto nell' ambito della natura, quanto in quello soprannaturale
della grazia, doveva essere il carattere di sapienza impresso all' opera
di Dio.
A questo si può aggiungere un terzo argomento, una terza via per
la quale Iddio doveva volere ordinata l' opera sua; e questa via si è che
non avendo nè potendo Iddio aver altro esemplare che se stesso, nè
potendo l' ente finito esser altro che limitato e quindi soggetto alla moltiplicità,
conveniva però che in questo risplendesse l' unità dell' ordine
quanto più fosse possibile, acciocchè egli imitasse il più possibile l' Ente
infinito. Dalla qual dottrina deriva che il creato non può esser che uno,
benchè risultante da molte parti, da molti enti; uno l' universo, e quindi
uno il concetto dell' universo nella divina mente: il qual concetto è la
sapienza creata ab eterno coll' atto della creazione del mondo. Le cose
tutte contingenti non sono adunque da Dio conosciute per molte idee
staccate, ma per un' idea sola emergente dall' atto della creazione, che
s' immedesima con quell' atto stesso, come diremo in appresso.
Veniamo alla seconda questione: Iddio si determinò ciecamente
piuttosto a creare il mondo che a non crearlo, o v' ebbe una ragione?
Noi rispondiamo che l' essere è amabile a Dio: amando Iddio se
stesso per essenza, egli ama l' essere in tutti i modi; quindi non solo
ama l' Essere infinito, ma ama che sussista anche l' essere finito che
imita per quanto può il primo. Se dunque ama che sussista, egli ha
una ragione in se stesso di farlo sussistere ossia di crearlo: il che gli
antichi espressero dicendo che « « il bene è di natura sua diffusivo »(1) ».
Essendo dunque Iddio mosso a creare dall' amor di se stesso, col
quale ama l' essere assoluto e tutti i modi ne' quali benchè limitati può
sussistere l' essere imitando in quella guisa che può l' assoluto, faceva
anche sussistere l' essere finito.
Si opporrà che, se questa ragione avesse valore, non si vedrebbe
più il perchè Iddio si sia limitato a creare quest' universo, e non abbia
creato ancor più. Ma l' obbiezione si scioglie ove si consideri che Iddio
era limitato nella quantità della creazione dai canoni della sapienza, la
quale imponeva, come abbiamo veduto, 1 che l' universo avesse unità
nel suo fine; 2 che avesse ordine ed unità nella sua costituzione e congiunzione
fra sè; 3 che vi avesse subordinazione di cause e di effetti,
stabilità di leggi, ecc.. Le quali condizioni è a credersi che non si potessero
verificare in un modo più grandioso che con quella mole di creato,
che Iddio ha condotto alla sussistenza, e che qualunque altra combinazione
degli enti finiti possibili non si sarebbe prestata ad avverare quelle
leggi sapientissime, secondo le quali opera per sua natura l' infinito Creatore.
Ora si può dire che egli abbia fatto sussistere con la creazione
tutto ciò che era possibile, salve le leggi della sua sapienza e santità.
Ancora si obietterà che in tal caso Iddio non era libero al creare e
non creare. Rispondesi che la libertà di Dio è perfettissima, perchè la
sua essenziale santità e sapienza non limitano la sua potenza, ma la
dirigono, e questa è la perfezione essenziale della libertà divina; onde
avviene che Iddio non possa fare che il perfetto, e abbia una felice
necessità di farlo, nel che consiste appunto la perfezione della divina
libertà. E quindi ogni difficoltà sarà tolta quando si ponga ben mente
che è cosa molto diversa il dire necessaria la creazione quanto è necessario
l' amore che Iddio porta a se stesso, dal dire, come noi facciamo,
che dall' amore necessario ed essenziale di Dio per se stesso rampolla
l' atto libero della creazione, perchè è pur dottrina comune dei teologi
che ogni atto d' amore di Dio benchè libero verso la creatura proviene
dall' amore che ha Dio essenzialmente per se stesso, di guisa che suole
attribuirsi ogni atto anche libero dell' amore divino allo Spirito Santo
(1).
Dalle quali considerazioni procede:
1 Che, quantunque l' ente finito creato potesse esser maggiore,
più numeroso, se si riguarda la sola onnipotenza del Creatore; tuttavia
non potea, se si riguardano gli altri attributi della sapienza e della santità,
e quindi che l' ente finito che sussiste per creazione è tutto ciò che
di finito poteva sussistere, salvi quegli attributi;
2 Che Iddio fu mosso a creare dall' amore che essenzialmente porta
a se stesso, e quindi che la creazione fu fisicamente libera, benchè moralmente
necessaria (2);
3 Che il tipo divino dell' universo è uno, e comprende tutto ciò
che Iddio fece;
4 Che questo tipo non è diverso in Dio dall' atto della creazione
col quale fu distinto e specificato, rimanendo indistinti nella sussistenza
divina tutti que' modi co' quali l' ente finito potrebbe, se fosse creato
più imperfettamente, imitare l' infinito;
5 Finalmente che questo tipo istesso non fu trovato da Dio per
via d' alcun discorso, ma gli fu sempre presente ed appartiene al Verbo
divino.
Queste due ultime proposizioni esigono qualche dichiarazione.
Come il tipo divino dell' universo non sia diverso dall' atto della
creazione ma in questo compreso, s' intenderà considerando che la sussistenza
divina non è screziata, non ha traccie in se stessa di limiti, ed
ella stessa è la potenza di far sussistere l' ente finito. Onde i limiti di
quest' ente, non essendo realmente tracciati nella sussistenza divina, convien
dedurli dalla divina sapienza che liberamente li pone. Ora la sapienza
divina non ha alcun discorso, ma è sempre consumata ed ultimata,
onde sta presente a quell' atto libero di sapienza ed intelligenza
il suo oggetto. Ma non trovandosi quest' oggetto finito determinato nella
divina sussistenza, convien che sia determinato dalla sussistenza sua
propria; la quale sussistenza ha luogo unicamente coll' atto di creazione.
Convien dunque dire che l' atto eterno della creazione del mondo sia
l' atto stesso della Sapienza che vede il mondo sussistente; onde è un
atto efficace che vedendolo lo fa ad una sussistere, sicchè la sussistenza
del mondo è l' oggetto posto liberamente dalla stessa Sapienza creatrice.
Quest' atto unico adunque fa ad una due cose: vede il mondo, e vedendolo
lo crea, trova quell' ente finito che nel miglior modo possibile imita
l' ente infinito, ed il trovarlo ed il crearlo è il medesimo; il trova senza
cercarlo, o piuttosto gli è continuamente trovato, perchè ab eterno lo
ha trovato, essendo essenziale a Dio questa stessa attuale sapienza.
Di che si vede ancora in che modo l' atto della creazione s' immedesimi
coll' atto generativo del Verbo. Quest' atto è la sussistenza divina,
in quanto, intendendo se stessa, rende se stessa manifesta; che è il
Verbo. Ma rendendo se stessa manifesta, rende manifesto ad un tempo
l' ente finito, che imita, come può, la sussistenza divina. Ora il rendere
a se stessa manifesto l' ente finito determinato è un crearlo, come
dicevamo.
Vi ha però questa grande differenza fra l' atto generativo, come
tale, e l' atto creativo: che quello è necessario, perchè la sussistenza
divina è necessariamente per sè manifesta; questo è volontario, producendolo
Iddio liberamente per l' amore che Iddio porta a se stesso, e
perciò a tutto quello che lo imita.
Dichiarato quanto potemmo, qual sia la natura del Verbo divino,
che in greco dicesi «logos» da S. Giovanni, conviene che noi vediamo come
i diversi significati di questo greco vocabolo convengano al Verbo.
S. Girolamo a Paolino scrive di questa voce «logos»: « « Graece multa
significat. Nam et verbum est, et ratio, et supputatio, et causa uniuscujusque
rei, per quam sunt singula quae subsistunt. Quae universa
recte intelligimus in Christo »(1) ».
Ora egli è certo che, quantunque nessun vocabolo umano, cioè trasferito
dalle cose umane a significare le divine, possa pienamente convenire
a significarle; tuttavia con somma sapienza la Chiesa latina usò
più spesso e consacrò la parola Verbum a significar quello che l' aquila
degli evangelisti espresse con la parola «logos». E di vero la parola Verbum
esprime più da vicino d' ogni altra la seconda persona della Triade augustissima,
tanto se lo si consideri rispetto al Padre, quanto se lo si consideri
rispetto alle creature. Consideriamolo sotto entrambi questi aspetti.
Rispetto al Padre . - Primieramente la parola Verbo si applica
a significare, come vedemmo, un atto conoscitivo dello spirito, il quale
non è una semplice concezione o intuizione, ma è un pronunciato, un
giudizio, un' affermazione; non è una mera notizia ideale, ma è insieme
un' adesione persuasiva dello spirito all' oggetto reale. Quindi il termine
di quest' atto affermativo non è una mera idea , ma una sussistenza . E
però esso conviene mirabilmente alla seconda persona divina, che è
l' Essere assoluto e sussistente manifesto per se medesimo in virtù d' un
atto suo proprio sempre conosciuto e coeterno che lo rende manifesto,
e così lo genera (2).
La parola ragione all' incontro indica ben sovente un' idea in quanto
serve a ragionare, cioè ad additare il perchè d' un fenomeno. Vero è che
talora si trova questo perchè nella sua causa sussistente, onde S. Girolamo
dice che «logos» indica ancora « causa uniuscujusque rei (loc. cit.) »;
e in questo senso potrebbe convenire alla seconda persona della divina
Trinità. Ma ciò che prima di tutto si dee osservare nel Figlio, non è di
essere la ragione delle cose, ma di essere generato dal Padre. Oltracciò
la parola ragione si adopera a significare la facoltà soggettiva di ragionare,
nel qual senso non conviene al Verbo, se non in quanto il Verbo
origina in noi questa facoltà, come diremo in appresso, o come dice
S. Girolamo: « Quae universa recte intelligimus in Christo (loc. cit.) ».
Osservano alcuni Padri che la parola «logos» conviene al Figliuolo,
perchè questo procede dal Padre «apathos», cioè senza alcuna passione o
corruzione del generatore, appunto come la notizia procede dall' animo
(1).
Ma non ogni notizia procede dall' animo. Chè le notizie ideali procedono
dall' idea, la quale le dà all' animo che le riceve. All' incontro la
parola interiore, cioè l' affermazione delle cose sussistenti, procede dall' animo,
e però meglio conviene al Figliuolo la denominazione di Verbo.
Tuttavia non è al tutto vero che il verbo dello spirito umano procede
senza recare alcuna immutazione nello spirito stesso, perchè da lui procede
come un accidente; laddove il Verbo di Dio non reca immutazione
di sorta al Padre a cui è essenziale.
S. Gregorio Nazianzeno e S. Basilio osservarono altresi un' altra
analogia fra il significato del «logos» in sè considerato ed applicato al Verbo:
cioè che, come il «logos» è intimo all' uomo, così il Figliuolo è intimo
al Padre. La quale analogia ha maggior forza, se per «logos» s' intende la
facoltà della ragione in quant' è fondata nell' intuizione dell' essere. Ma
tuttavia siamo lontani ancora dal trovare in ciò una piena somiglianza,
perchè l' essere ideale, intuito dallo spirito umano, nè è la sussistenza
di questo spirito, nè con lui s' immedesima, altro essendo l' essere che
informa lo spirito nostro, ed altro questo spirito nostro stesso; laddove
il Figliuolo ed il Padre hanno la medesima sussistenza.
Ma prima di proceder oltre raccogliamo tutte le principali differenze
che si possono notare fra il verbo umano e il Verbo divino, acciocchè
ci formiamo di questo, quanto ci sia possibile, un esatto concetto,
e non mescogliamo con esso lui niente della nostra imperfezione.
Queste differenze si possono ridurre a nove, le quali sono:
1 Il verbo umano si produce con un passaggio della potenza all' atto.
Il Verbo divino non passa dalla potenza all' atto, ma è sempre in
atto, sempre generato ab eterno.
2 Il verbo umano è un accidente dell' anima, di maniera che l' anima
umana potrebbe esistere senza di lui, ed essa infatti esiste prima
d' avere emesso alcun verbo, come sta nel primo istante della sua esistenza.
Il Verbo divino è essenziale alla natura divina di maniera che
questa natura non esisterebbe senza il Verbo, giacchè l' essere assoluto,
cioè Dio, ha per sua propria essenza di dover esistere in tre forme che
si dicono persone.
Quindi non si può pensare in Dio una potenza anteriore alla generazione
del Verbo, non solo anteriore cronologicamente, ma neppure
logicamente; perocchè, se si pensasse questa potenza, ella sarebbe qualche
cosa di anteriore a Dio, e nulla si può pensare che sia anteriore a
Dio, perocchè Iddio è l' essere, e nulla si può pensare di anteriore all'
essere. Qualora dunque a noi sembra di potere pensare una tale potenza,
noi c' inganniamo; è un pensare limitato ed imperfetto che non
raggiunge la verità.
Nè pure si può pensare l' atto della generazione del Verbo in quell' istante
(da noi erroneamente supposto) nel quale sia in fieri e non
ancor fatto ed ultimato; perocchè quell' istante non esiste, essendo sempre
fatto ed ultimato continuamente l' atto della generazione senza passaggio
alcuno; atto immanente e semplice; atto primo, cioè l' atto stesso
con cui è Dio; atto per conseguente che è Dio stesso. Avanti quest' atto
compiuto non vi è nulla, nulla affatto da potersi concepire o pensare;
la stessa parola compiuto è inutile ed inesatta, perchè viene a supporre
la possibilità di pensarlo incompiuto , quando l' atto di cui si parla è per
propria essenza compiuto, senza possibilità alcuna di uno stato incompiuto.
3 Il verbo umano è semplicemente un' interna affermazione che
lascia nell' animo la persuasione e la notizia della cosa affermata, di
maniera che si distingue il verbo che è transeunte dai suoi effetti immanenti
che restano nell' anima per un certo tempo e anche per sempre. Il
Verbo divino non è una mera affermazione, perchè nel tempo stesso ha
anche ciò che v' ha di positivo nella nostra intuizione e nel nostro sentimento;
nè egli è un atto transeunte, nè si distingue dai suoi effetti,
perocchè egli è ad un tempo persuasione e notizia immanente, ma è
ancora più di tutto ciò, e forse l' espressione che meno gli disconviene è
quella che abbiamo detto di sentimento intellettuale .
Oltre di ciò, pronunciando lo spirito umano molti verbi, l' analogia
che passa fra il Verbo divino e l' umano, come ha osservato S. Agostino
(1), si riscontra maggiormente rispetto a quel verbo umano, col quale
l' uomo afferma e pronuncia se stesso, non rispetto agli altri verbi coi
quali l' uomo pronuncia ed afferma le altre cose diverse da sè; perocchè
il Verbo divino è la similitudine o immagine del Padre che lo pronunzia
e lo genera, e così il verbo con cui l' uomo pronuncia se stesso è
quello che rende l' uomo conoscibile a se stesso.
4 Il verbo umano si fa coll' unire la sussistenza delle cose contingenti
colla loro essenza, le quali sono di lor natura distinte e separate,
perocchè non è essenziale alle cose contingenti il sussistere; onde per
conoscere la sussistenza conviene affermarla nell' essenza: il che si verifica
anche quando pronunciamo ed affermiamo noi stessi, ossia il sentimento
sostanziale come appartenente all' essere affermante, giacchè
neppur noi siamo noti a noi stessi, ma è l' idea ossia l' essenza dell' essere
che ci rende noti. All' incontro la sussistenza divina è anche essenza nota
per se stessa, senza bisogno che alcun' altra cosa la renda nota; ed appunto
l' essere ella per sè nota e per sè affermata, è ciò che la costituisce
Verbo dell' atto essenziale intellettivo pel quale ella è tale. Non v' ha
dunque a farsi una sintesi per costituire Iddio come oggetto, dico, fra
la sua essenza e la sua sussistenza, perocchè questa è già per sè oggetto.
Onde per ciò appunto questa è Verbo senza bisogno d' altro, senza bisogno
di alcuna sintesi necessaria per oggettivare le realtà contingenti.
5 Oltrediciò, quando l' uomo pronuncia il suo verbo, l' essenza
che egli unisce alla sussistenza sta bensì davanti alla sua mente, ma non
è la sua mente che ha bisogno ella stessa di venire illuminata; quest' essenza
è straniera al soggetto uomo che pronuncia il verbo, anche quando
l' uomo pronuncia ed afferma se stesso. All' incontro Iddio Padre che
pronuncia il Verbo non toglie altronde l' essenza, la quale è identica alla
sua propria sussistenza, onde egli pronuncia se stesso con se stesso, si
pronuncia continuamente, o piuttosto la sussistenza divina è continuamente
pronunciata, resa continuamente manifesta a se stessa, perocchè
è per essenza luce a se stessa.
6 Il verbo umano è molteplice, cioè l' uomo pronuncia molti verbi,
perchè egli è un essere limitato escludente dalla sua sussistenza tutti gli
altri esseri limitati, i quali sono molti ed esclusivi, ond' egli ha bisogno
di pronunciare altrettanti verbi esclusivi, con ciascun dei quali afferma
un ente limitato ed esclusivo. All' incontro il Verbo divino è uno solo
che pronuncia l' Essere illimitato ed assoluto, cioè la sussistenza divina,
e in questa pronuncia la possibilità fisica dell' essere finito, e l' atto della
sua volontà che lo fa sussistere, e quindi la possibilità logica, ossia l' essenza, e ad un tempo la sussistenza dell' essere finito nella sua unità,
nel suo ordine che lo renda un tutto solo ordinatissimo, qual è l' universo
creato con tutti i suoi atti.
Quindi egli è semplicemente Verbo, non mescolato di limitazioni,
e compiuto Verbo.
7 Il verbo umano col quale l' uomo afferma le sussistenze finite, le
quali cadono nel suo sentimento, altro non produce all' uomo se non la
persuasione ossia la notizia della loro sussistenza, non produce le cose
stesse. All' incontro il Verbo divino è costituente e produttivo. E` costituente
della divina sussistenza, perchè a questa è essenziale l' esser Verbo,
cioè l' esser per sè oggetto, per sè luce, per sè a se manifesta. E` produttivo
delle creature perchè l' atto stesso, col quale le pronuncia, le vede amabili
in se stesso, è un atto volitivo col quale le fa sussistere: onde S. Paolo dice
di Dio: « portans omnia Verbo virtutis suae (1) ». E l' amabilità dell' ente
finito ordinatissimo e completissimo è l' amabilità stessa della sussistenza
divina, amabilità che viene partecipata dall' ente finito in quanto questo
imita quella, sebbene limitatamente.
. Il verbo umano, che è soltanto persuasivo, non è pratico, cioè
operativo. Acciocchè l' uomo possa operare razionalmente deve fare un
altro verbo o giudizio pratico, col quale dica internamente che l' azione
che farà è a lui buona. Questo secondo verbo volontario è il principio
nell' uomo delle sue azioni razionali. Se questo verbo non riguarda che
l' amore razionale con cui può l' uomo aderire ad una cosa, si può dire
che quell' amore si immedesimi in qualche modo a quel verbo pratico,
o ne sia un' estensione, una continuazione, o, se si vuole, un compimento.
Ma se la cosa giudicata soggettivamente buona con questo verbo
pratico dell' uomo è un' azione spettante a qualche altra potenza inferiore,
in tal caso l' azione, che si muove in conseguenza del verbo, è
affatto distinta dal verbo stesso.
Tutte queste distinzioni non cadono nel Verbo divino, col quale
Iddio opera. Imperocchè, quantunque la creazione del mondo sia un
atto volontario e libero di Dio, tuttavia quest' atto è determinato moralmente
dall' amabilità del mondo in quanto imita, nel miglior modo che
può l' essere finito, la sussistenza divina, amata per natura, nella quale
è amato il mondo. Conciossiachè appartiene alla perfezione dell' Essere
divino che sia per essenza morale, e che perciò abbia per essenza amore
al mondo. Onde l' atto stesso essenziale alla divina sussistenza (a cui è
pure essenziale la libertà) è quello con cui è creato il mondo, e però con
quell' unico atto, chè altri non ne sono in Dio, ella opera tutto ciò che
opera ad extra; e quest' atto è quell' unico Verbo, col quale vede e pone
ad un tempo le finite sussistenze.
9 Finalmente il verbo umano riceve dal Verbo divino tutti gli
elementi di cui egli si compone. Perocchè 1 riceve le essenze delle cose,
ossia la possibilità dell' ente finito che diviene il lume di sua ragione;
2 riceve le sussistenze finite ch' egli afferma col suo verbo persuasivo,
e le azioni ch' egli afferma buone a sè soggetto col suo verbo pratico,
perché tutto ciò riceve il sussistere dell' atto del Verbo divino; 3 finalmente
l' atto stesso soggettivo dell' affermazione e del giudizio è posto
in essere dal Verbo, nel quale e pel quale sono fatte tutte le cose. Il
Verbo divino all' incontro nulla riceve da un maggiore di sè, ma solo dal
Padre, a cui è uguale, perchè è la sussistenza divina per sè intesa, cioè
intesa per un atto suo proprio d' intelligenza che la rende intesa, la
rende oggetto reale a sè, soggetto del pari reale.
Sotto questo aspetto non di meno il verbo pratico umano ha un' analogia
maggiore del verbo persuasivo col Verbo divino, in quanto che
quello produce un affetto, e anche, conseguentemente all' affetto, un' altra
azione; e però è in qualche modo produttivo come causa seconda,
com' è produttivo il Verbo divino non solo di azioni ma ancora di sostanze.
I verbi umani poi deontologici, cioè quei giudizi che pronuncia
l' uomo sulla convenienza delle cose, hanno una speciale analogia col
Verbo divino, di cui sono privi gli altri verbi umani; perocchè la convenienza
delle cose non potrebbe essere pronunciata dall' uomo se non
fosse prima pronunciata da Dio, nella cui natura Iddio vede qual sia
l' essere finito complesso di più enti convenientissimi, e col vederli li
rende tali. Onde i verbi o giudizi deontologici dell' uomo si possono dire
ripetizioni di ciò che ha pronunciato ab eterno Iddio quando ha generato
il suo Verbo.
[...OMISSIS...] . - Dobbiamo ora considerare il Verbo
rispetto alle creature, e vedere come anche in relazione a queste la parola
Verbo si applica convenientemente alla seconda persona dell' augustissima
Triade.
Abbiamo già detto che verbum, ossia parola, significa tanto un pronunciato
interno dello spirito umano, quanto un pronunciato esterno
espressione dell' interno. Il primo fa conoscere il pronunciato (la cosa
pronunciata) allo spirito pronunciante, il secondo è ordinato a compire,
rinforzare, mantenere più fermo dinnanzi alla mente dell' uomo il suo
pronunciato, e principalmente a farlo conoscere ad altre intelligenze.
Qui si rileva un' altra analogia fra il verbo umano e il Verbo divino:
perchè anche il Verbo divino, in quanto è la sussistenza divina
pronunciata, ha una relazione col Padre; in quanto è il mondo pronunciato
da Dio, è un cotal compimento del primo, in quanto è ancora
la sussistenza divina imitabile e imitata dall' ente finito, e in pari tempo
ha relazione colle creature che per quel Verbo sussistono, ed imitando,
come possono, l' essere infinito, lo esprimono e manifestano a se medesime,
cioè all' intelligenza finita. In vero la sussistenza divina non sarebbe
compiutamente pronunciata, se in questo pronunciato, ch' ella stessa
fa, non si contenesse anche la possibilità fisica dell' ente finito che in
essa risiede. La stessa sussistenza senza il pronunciato di sè, cioè senza
il Verbo, non sarebbe completa. Per la stessa ragione non sarebbe completa
ed ultimata se ella non fosse amabile ed amata da se stessa, e
quindi se non amasse l' ente finito che la imita, essendo sua proprietà
quella d' essere imitabile; onde segue che pronuncia liberamente, in conseguenza
di tale amore, l' ente finito ordinatissimo da lei amato, e pronunziandolo
pone ad un tempo la sua essenza determinata e la sua
sussistenza.
L' essere intelligente finito è la più nobil parte del creato, e l' altre
cose sono fatte per lui; possono essere da lui conosciute ed usate: egli
poi è fatto per Iddio, cioè per conoscerlo ed amarlo. Il mondo dunque
fu fatto perchè Iddio si rendesse manifesto alle intelligenze finite, e
queste ne celebrassero la grandezza, ed esultando in questa cognizione
di Dio grande e glorioso, ne godessero, e partecipassero della sua perfezione
e felicità.
Ma la manifestazione delle cose divine alle finite intelligenze comincia
pure coll' atto del crearle, perocchè le intelligenze sono tostochè è
loro dato l' essere essenziale ideale, per sè manifesto. Il qual essere,
essendo per natura sua manifesto, non si dà in altro modo che col manifestarsi.
Ora l' essere ideale risplendente nel soggetto creato è un' appartenenza
del Verbo divino, perchè è la possibilità logica dell' essere finito
che nella divina sussistenza pronunciata da se stessa risiede.
Mediante l' essere essenziale per sè manifesto a noi comunicato,
noi pronunciamo il nostro proprio sentimento e tutto ciò che cade in
esso: cioè gli agenti che in esso operano e lo modificano, e queste stesse
modificazioni come determinazioni nostre e come determinazioni degli
stessi agenti; in una parola pronunciamo tutte le sussistenze finite in
quanto al nostro sentimento appartengono. Il pronunciarle è il conoscerle,
e il pronunciare è un dire « che cosa sono », e il dire che cosa
sono è un conoscerne l' essenza; onde la cognizione nostra de' reali sta
nel riferire il sentimento contingente, e ciò che cade in questo sentimento,
all' essenza; ossia nel congiungere il contingente col necessario,
il temporaneo coll' eterno, il creato coll' increato e divino, così completandolo.
Il che fu preso da Niccolò Malebranche come un vedere le
cose in Dio, ma la frase non è accurata, perocchè non si dice vedere
una cosa in un' altra se non si vede anche l' altra. Onde si potrebbe correggerla
così: apprendere le cose sussistenti nelle loro essenze, le quali
sono in Dio, benchè da noi non si veggano in Dio. Ora questa maniera,
onde noi conosciamo le sussistenze finite per un' affermazione o verbo,
ha un' analogia speciale col Verbo divino. Perocchè, come Iddio è manifesto
a se stesso e in se stesso conosce tutte le cose; così noi conosciamo
tutte le sussistenze contingenti in noi stessi, cioè nel nostro sentimento
nel quale elleno sono ed agiscono: ma colla differenza che il nostro
sentimento è oscuro, perchè non è essenza, e quindi dobbiamo vederlo
nell' essenza per conoscerlo; laddove il sentimento divino è l' essenza
stessa, e perciò è noto per se stesso. Onde la conoscenza nostra del mondo
(gli oggetti sussistenti da noi affermati) è una manifestazione analogica
del Verbo divino.
Ma l' essenza da noi intuita dell' essere, benchè sia un' appartenenza
dell' essere, tuttavia non è il Verbo, perchè non è l' essere attuato, ma
l' essere in potenza; non è la sussistenza, ma la pura essenza. Il mondo
conosciuto nè pur esso è il Verbo, ma ha solo un' analogia col Verbo
divino.
L' uomo dunque non conosce per natura il Verbo, non lo percepisce
per sua natura; e quindi le speculazioni della ragion naturale non giungono
se non ad averne un cotal concetto negativo ed analogico. Di qui
la deficienza del platonismo circa la dottrina del Verbo, che venne da
quella scuola assai sovente confuso colle idee.
Il Verbo non si percepisce e conosce positivamente se non per una
comunicazione che fa di sè all' uomo il Verbo stesso, la quale perciò si
dice soprannaturale, perchè non viene dalla natura finita, ma immediatamente
dall' Essere infinito sussistente superiore alla natura. La comunicazione
adunque del Verbo all' uomo è un fatto, non è un ragionamento
dell' uomo; è un' immediata appercezione la quale umilia l' uomo,
perchè gli fa sentire e conoscere la deficienza della sua natura incapace
per sè sola di elevarsi all' unione con Dio, e la impotenza della sua ragion
naturale di raggiungere positivamente l' essere assoluto. Ora da questa
umiliazione ripugna la superbia de' filosofi, i quali credono di possedere
la scienza perchè possedono l' errore; l' errore dico di prendere l' idea
pel Verbo; nè vogliono conoscere e confessare la propria ignoranza,
onde chiudono la porta in faccia al Verbo che loro si manifesterebbe se
lo volessero ricevere.
Di qui si può tracciare la linea di confine fra l' ordine naturale e
l' ordine soprannaturale, fra la dottrina de' filosofi e la comunicazione
reale che il Verbo divino fa di se stesso agli uomini: e la fece compiuta
nell' incarnazione; a misura per la grazia che ai suoi fratelli comunica il
Verbo incarnato.
S. Agostino la osservò e la descrisse accuratamente in queste ammirabili
parole che a Dio sono indirizzate:
[...OMISSIS...] .
Dal qual bellissimo luogo del gran Dottore d' Ippona si raccoglie
che l' intendimento umano potè speculare sul Verbo interno di Dio,
cioè almeno potè ricevere, senza ripugnanza, la divina rivelazione intorno
ad esso appropriandosela, perchè infatti tutta conforme e armonica
coll' intelligenza; ma che all' opposto tutta quella parte che riguardava
il Verbo esterno di Dio, cioè le operazioni e le manifestazioni del
Verbo agli uomini, le quali non sono in egual modo razionali, ma positive
e di conseguente si debbono ammettere coll' ossequio della fede a
Dio rivelante, non furono ricevute dalla superbia dei filosofi, che tutto
volevano trarre dal proprio raziocinio, tutto attribuire all' opera del
proprio ingegno, magnificando di tali invenzioni se medesimi. E questa
ripugnanza di ammettere le manifestazioni volontarie e positive del
Verbo è il fenomeno che deve manifestarsi all' uomo naturale privo
della grazia. Perocchè l' uomo naturale non sente Iddio, e però della
manifestazione esterna di Dio non percepisce che la parte materiale,
e non la parte divina in quella investita. Non crede adunque a questa
perchè non la sente.
Conviene osservarsi che la manifestazione esterna o comunicazione
del Verbo alle create intelligenze si fa per opera dello Spirito Santo.
Per opera di questo divino Spirito si fece l' incarnazione che è la comunicazione
massima del Verbo all' umanità: « Spiritus Sanctus superveniet
in te et virtus Altissimi obumbrabit tibi (1) ». Per opera di questo stesso
Spirito si fece l' antica rivelazione per man de' Profeti, di cui dice
S. Pietro: « Spiritu Sancto inspirati locuti sunt sancti Dei homines (2) ».
E siccome i profeti inspirati dallo Spirito Santo pronunciarono e scrissero
intorno al Verbo di Dio, così le loro parole non potevano essere
intese, nè le loro scritture interpretate senza che lo Spirito Santo ne
dèsse alle menti l' intelligenza, significando internamente ciò che esternamente
suonavano le parole, onde lo stesso S. Pietro insegna: « omnis
prophetia propria interpretatione non fit (3) ».
Ma ciò che i profeti annunziarono del Verbo di Dio e della salute
che questo avrebbe data agli uomini venendo al mondo, benchè fosse
cosa inspirata dallo Spirito Santo e si riferisse al Verbo divino, contenendo
un lume interno celeste, tuttavia non conteneva propriamente
lo stesso Verbo divino, che doveva esser dato personalmente agli uomini
coll' incarnazione, ma soltanto conteneva l' annunzio di esso Verbo, il
quale annunzio perchè sia inteso suppone una qualche cognizione generale
o anche una certa percezione del Verbo stesso, ma non la percezione
compiuta o personale dello stesso Verbo. Onde S. Pietro distingue
questi due gradi, o piuttosto queste due specie di luce spirituale, l' una
propria dei santi dell' Antico Testamento e specialmente dei profeti,
l' altra propria dei santi del Nuovo e specialmente degl' immediati discepoli
del Verbo incarnato. Dei primi dice che andavano scrutando in che
tempo e quale lo spirito di Cristo significasse in essi dover avverarsi e
le passioni e le posteriori glorie di Cristo, ma in pari tempo dice che non
ministravano a se stessi, ma a' futuri cristiani quelle cose che annunziavano:
« Quibus revelatum est quia non sibimetipsis, vobis autem ministrabant
ea quae nunc nuntiata sunt vobis per eos qui evangelizaverunt
vobis, Spiritu Sancto misso de coelo, in quem desiderant angeli prospicere
(4) ». Ed altrove paragona il lume antico ad una lucerna che luce
in luogo caliginoso, e il lume nuovo portato da Cristo all' astro della
luce: « Et habemus firmiorem propheticum sermonem, cui benefacitis
attendentes quasi lucernae lucenti in caliginoso loco, donec dies elucescat
et lucifer oriatur in cordibus vestris (5) ». Il Verbo dunque è comunicato
agli uomini per mezzo della operazione interiore dello Spirito
Santo, il quale produce anche l' annunzio e la significazione esteriore e
sensibile del Verbo; ma questa non può essere intesa senza una nuova
operazione interiore del medesimo Spirito che la faccia intendere. Onde
la distinzione che fa S. Paolo, parlando dell' intelligenza delle Scritture,
fra la lettera e lo spirito delle medesime, dicendo che « littera occidit »
(perchè non facendole intendere neppure dà la forza di osservarle),
« Spiritus autem vivificat (1) ».
Il che medesimamente si avverò nel Verbo incarnato, l' umanità del
quale era sensibile a tutti gli uomini, la quale è come la lettera: onde
a quelli, che per propria colpa non vedendo che l' umanità non giungono
alla fede della divinità, ritorna la loro cognizione a morte, secondo la
profezia: « Ecce positus est hic in ruinam »; laddove a quelli, che credono
nella divinità, ritorna la loro cognizione a vita « et in resurrectionem multorum (2) ».
Onde Cristo è continuamente nella Scrittura paragonato ad
una pietra che serve di fondamento a quelli che si edificano sopra di
lui come pietre vive formanti il tempio di Dio, e nello stesso tempo è
inciampo e morte a coloro che danno in esso di cozzo: similitudine che
Cristo stesso dichiarò a sè appartenere: « Nunquam legistis in Scripturis:
Lapidem quem reprobaverunt aedificantes, hic factus est in caput anguli?
A Domino factum est istud et est mirabile in oculis nostris. Ideo
dico vobis quia auferetur a vobis regnum Dei, et dabitur genti facienti
fructus ejus. Et qui ceciderit super lapidem istum, confringetur; super
quem vero ceciderit, conteret eum (3) ». Ed il doppio essere di Cristo,
cioè l' umano visibile agli occhi carnali, e il divino che si rivela solo alle
anime per opera dello Spirito Santo, è significato altresì dal chiamarsi
egli e figliuolo dell' uomo e figliuolo di Dio . Onde l' interrogazione di
Cristo a Pietro: « Quem dicunt homines esse filium hominis », la quale
viene commentata così da S. Ilario: « Dominus enim dixerat: Quem me
homines esse dicunt filium hominis? Et certe filium hominis contemplatio
corporis praeferebat. Sed addendo: Quem me esse dicunt, significavit,
praeter id quod in se videbatur, esse aliud sentiendum: erat
enim hominis filius. Quod igitur de se opinandi judicium desiderabat?
Non illud arbitramur quod de se ipse confessus est, sed occultum erat
de quo quaerebatur in quod se credentium fides debebat extendere (4) ».
Or questa cosa occulta ed invisibile agli occhi carnali non poteva essere
rivelata che dall' operazione interna da Dio; onde, quando S. Pietro
rispose anche a nome degli altri Apostoli: « « Tu sei il Cristo figliuolo
di Dio vivo » », allora ebbe da Gesù quel magnifico elogio: « Beatus es
Simon Bar7Jona: quia caro et sanguis non revelavit tibi, sed Pater meus
qui in coelis est (1) », con quel che segue. Dalle quali parole si raccoglie
primieramente che la carne ed il sangue, cioè il sentimento animale,
non può dare la percezione del Verbo, nè di cosa che al Verbo assomigli;
e che questa perciò deve venire da una fonte soprannaturale,
giacchè le percezioni tutte naturali dell' uomo appartengono ai sentimenti
animali, ai quali applicando l' essere ideale egli forma per via di
diverse operazioni la naturale sua scienza. Di poi, che il Padre rivelò
a S. Pietro la divinità del Verbo incarnato, attribuendosi al Padre l' operazione
dello Spirito, perchè questo dal Padre procede come da fontale
origine dell' augustissima Triade. E nulla di meno S. Pietro non avrebbe
avuto la mozione e l' occasione di emettere quell' atto di fede, se non
avesse avuto sotto i sensi l' umanità di Cristo, la quale era così come
l' espressione esterna del Verbo dal quale era assunta e dal quale riceveva
una divina virtù. Alla stessa maniera S. Tommaso non avrebbe confessata
la divinità di Cristo se non avesse vedute e toccate forse le cicatrici
gloriose della sua passione.
Dalle quali cose tutte vogliamo concludere:
1 Che altra è la scienza negativa ed analogica del Verbo che può
aversi anche colla ragione naturale e colla lettera della rivelazione; altra
è la cognizione positiva e percettiva che non s' ha se non per una operazione
occulta del Santo Spirito nell' anima umana;
2 Che questa operazione del Santo Spirito è preceduta ed accompagnata
da una esterna e sensibile cosa, qual è la lettera nella rivelazione
e la stessa umanità di Cristo nell' incarnazione; e che questo segno
ed espressione sensibile viene avvivato ed interpretato dallo Spirito che
opera interiormente per modo che l' anima insieme con essa percepisca
almeno in un modo incoato il Verbo, e quindi ne intenda la positiva
significazione. Il qual segno sensibile così interpretato ed inteso viene
detto acconciamente la parola esterna di Dio, verbum oris, a differenza
del verbum cordis;
3 Finalmente, e questo è quello a cui mirava principalmente tutto
il nostro discorso, che imprimendosi in noi il Verbo divino per una
operazione dello Spirito Santo, che è quasi il dito che in noi l' imprime;
e lo Spirito Santo, che è lo stesso spirito di Cristo, essendo l' essere nella
sua forma morale; importa, quand' è da noi consentito o quando non è
da noi posto ostacolo, un effetto morale in noi, pel quale ci santifica.
E perocchè il morale abbraccia l' umiliazione, la mortificazione, il sacrificio;
perciò la percezione soprannaturale e viva del Verbo conduce
l' anima a compiacersi nella santità del Verbo, e quindi a riconoscere,
amare ed imitare la sua esinanizione, la sua passione, e la gloria veniente
da questa ultima perfezione di virtù che nella pazienza e nel sacrificio
dei beni naturali è consumata. Ora a questo ripugna la natura e
la superbia de' filosofi, e però rimane loro nascosto tutto ciò che appartiene
alla comunicazione positiva, vivace e santa del Verbo, le dottrine
mistiche, e i santi affetti e i sublimi effetti che indi derivano. Onde
maggiormente si scorge qual sia la linea di separazione fra la scienza
naturale e la cristiana sapienza.
Onde S. Agostino, nuovamente osservando quante cose manchino
alla sapienza de' filosofi più celebrati come sono stati i Platonici, sapientemente
le annovera in queste dolcissime parole: « « Non habent
illae paginae vultum pietatis hujus, lacrimas confessionis, sacrificium
tuum, spiritum contribulatum, cor contritum et humiliatum, populi
salutem, sponsam civitatem, arrham Spiritus Sancti, poculum pretii
nostri ( Ps. 2, 11). Nemo ibi cantat: Nonne Deo subjecta erit anima
mea? ab ipso enim salutare meum. Etenim ipse est Deus meus et salutaris
meus, susceptor meus, non movebor amplius . Nemo ibi audit vocantem:
Venite ad me qui laboratis, etc.. Dedignatur ab eo discere
quoniam mitis est et humilis corde; abscondisti enim haec a sapientibus
et prudentibus et revelasti ea parvulis (Matth. I, 25). Et aliud est de
sylvestri cacumine videre patriam pacis, et iter ad eam non invenire,
et frustra conari per invia, circumsidentibus et insidiantibus fugitivis
desertoribus cum principe suo leone et dracone: et aliud tenere
viam illuc ducentem cura coelestis imperatoris munitam, ubi non latrocinantur
qui coelestem militiam deseruerunt. Vitant enim eam sicut
supplicium »(1) ».
Laonde apparisce oggimai in che e quanto differisca la filosofia
naturale dalla scienza de' santi che san Bernardo espresse compendiosamente
scrivendo: « Haec mea sublimior interim philosophia scire Jesum,
et hunc crucifixum (2) ».
Vi ha dunque una scienza naturale, e una scienza o piuttosto
sapienza soprannaturale. Quale è il principio dell' una, quale dell' altra?
Cioè quale è quel primo lume onde deriva all' uomo la prima? e quale
è quel primo lume onde deriva all' uomo la seconda?
Il principio della scienza naturale è l' idea, ossia l' essere ideale;
il principio della scienza soprannaturale è il Verbo, cioè l' essere reale
per sè manifesto. Le divine scritture, che contengono la scienza soprannaturale
nella sua esterna espressione, c' insegnano appunto qual sia il
principio di essa, giacchè dicono: « Fons sapientiae Verbum Dei in excelsis
(1) ». Nel qual luogo le parole in excelsis, che si tradurrebbero « nei
luoghi eccelsi », indicano appunto l' ordine soprannaturale del sapere,
giacchè ottimamente ciò che è al dissopra della natura si colloca metaforicamente
nei luoghi eccelsi, come ciò che spetta alla natura si colloca
sulla terra . E di qui si vede, quanto era conveniente che l' evangelista
incominciasse ad annunziare il Verbo salendo al principio di tutta quella
sapienza che fu data agli uomini da Gesù Cristo, e così ponesse la prima
pietra dell' edifizio teologico, il Primo teologico.
Il che serve bensì a rispondere alla domanda che si fa il Crisostomo
perchè l' Evangelista cominciasse piuttosto dal Verbo che dal Padre,
quantunque il Padre sia il principio del Verbo. Perocchè si risponde
che altro è l' ordine della processione delle persone fra loro, altro è
l' ordine con cui si manifestano nella mente umana. In questo il primo
che si rende manifesto è il Verbo, il quale è l' Essere per sè manifesto,
ed è pel Verbo che si conosce il Padre. Onde Cristo disse: « « Padre, io
ho manifestato il nome tuo agli uomini che tu mi hai dati »(2) ». E
quantunque il Padre tragga gli uomini al Figlio (3), tuttavia questo traimento
è nell' ordine dell' azione e non in quello della cognizione, e però
resta nascosto agli uomini fino a che non hanno conosciuto il Figlio
che lo manifesta. Così parimenti, quantunque sia lo Spirito Santo quello
che mandato dal Padre mostra all' anime e quasi forma in esse il
Verbo, tuttavia anche quest' operazione dello Spirito Santo rimane occulta,
nell' ordine delle azioni e non delle cognizioni, fino a che gli uomini,
avendo conosciuto il Verbo, non vengono per questo a conoscerla. Laonde
degli stessi Ebrei prima di Cristo dice S. Tommaso d' Aquino che non
conoscevano il Padre « in ratione Patris, sed ut Deus (1) », appunto perchè
« Filius ignorabatur (2) ». E questa ignoranza, che avevano gli Ebrei del
Verbo, della quale parla S. Tommaso, non conviene già intendersi d' una
ignoranza totale, ma del mancar loro la cognizione positiva e personale
del Verbo, la quale non s' ha se non per quella percezione che fu data
agli uomini quando il Verbo personalmente prese carne umana. Perocchè
egli è indubitato che gli Ebrei avevano:
1 la cognizione razionale del Verbo divino, che, come dicevamo,
è negativa ed ideale; e a noi sembra assai probabile che la scuola Italica
e Platonica avessero dallo stesso fonte tratte le loro dottrine filosofiche
intorno al Verbo, e che i nuovi Platonici le avessero prese massimamente
dalle scuole ebree esistenti in Alessandria prima di Cristo, dove fra gli
altri filosofi ebrei fioriva Aristobolo.
2 Che la cognizione che ebbero gli Ebrei del Verbo, era anche più
che filosofica, benchè non giugnesse alla percezione del Verbo; e ciò
perchè non mancava presso l' Ebraica Chiesa la grazia Deiforme, che
dava una cotal percezione della Divina sussistenza; il che si può argomentare
da questo principio che la grazia è sempre corrispondente alle
parole rivelate che la esprimono sensibilmente; onde, essendo rivelata
la unità di Dio ed i suoi attributi, conveniva che quest' oggetto di quella
antica rivelazione fosse avvivato dalla percezione spirituale, acciocchè
dèsse un effetto soprannaturale all' anime e interpretasse la lettera collo
spirito. Ora da questa percezione incoata di Dio doveva venirne un
riflesso spirituale e divino anche alla cognizione razionale e naturale
del Verbo di Dio.
A questo si aggiunge che l' antica Chiesa ebbe rivelazione di molte
verità dogmatiche e morali, e ciò col ministero degli Angeli (3), che le
somministravano ai santi uomini e a' più eminenti eletti da Dio acciocchè
le comunicassero agli altri. Onde « « Abramo desiderò di vedere il giorno
di Cristo, lo vide e n' esultò »(4) », e così è da dirsi degli altri a cui altre
cose furon mostrate. Le quali non si riducevano certamente a cognizioni
meramente naturali di ragione, o storico7naturali, ma dovevano
essere accompagnate dalla grazia e dal lume interiore che convien sempre
ridursi a una percezione intellettiva di quelle verità stesse che sensibilmente
eran segnate. Ma il Verbo a cui ministravano gli Angeli, non
era tuttavia quello che parlava agli uomini, nè loro si mostrava personalmente
parlante; e però non avean gli uomini la percezione personale
del Verbo rivelante, ma solo alcuni doni e lumi di lui come Verbo rivelato.
Il che insegna chiaramente S. Paolo agli Ebrei nelle prime parole
della sua meravigliosa lettera a loro diretta, che ancor si conserva: « Multifariam
multisque modis olim Deus loquens Patribus in Prophetis,
novissime diebus istis locutus est nobis in Filio (1) ».
Tuttavia era anche allora Iddio che parlava , sebbene per mezzo
degli Angeli che rivelavano ai Profeti le verità che questi comunicavano
agli altri uomini. Per ciò le verità rivelate si chiamano anch' esse parola
di Dio . E sebbene quelle verità sieno molte, tuttavia non si dicono parole
di Dio , ma sì bene in singolare parola di Dio . E ciò assai acconciamente,
perocchè la parola di Dio è una, è uno il suo Verbo, nè propriamente
Iddio dice altra parola che il suo Verbo. Conviene adunque
dichiarare come le molte verità, rivelate nell' antica e nella nuova legge,
si riducano tutte al Verbo divino, sieno appartenenze di Lui, e quindi
contengano qualche rivelazione soprannaturale del Verbo medesimo;
sebbene con esse il Verbo divino non siasi ancora manifestato agli uomini
personalmente.
E` dunque a considerare che la grazia , la quale consiste in un' azione
deiforme che Iddio immediatamente esercita nelle anime umane, è divisibile.
S. Paolo parla spesso della divisione delle grazie, e in un luogo
dice: « Divisiones gratiarum sunt, idem autem Spiritus (2) ». In un altro
poi: « Unicuique autem nostrum data est gratia secundum mensuram donationis
Christi (3) ». Tutte le speciali verità rivelate sono adunque doni
di Cristo, ma non sono ancora Cristo manifestato espressamente agli
uomini, non sono il Verbo comunicante loro personalmente se stesso.
Il che è da vedere diligentemente come sia.
La differenza, fra le speciali verità rivelate co' morali effetti che
ne conseguono e il Verbo sta in due cose:
1 Che in quelle verità non giace la comunicazione della persona
stessa del Verbo, ma solo de' suoi doni.
2 Che appunto per ciò quelle verità sono molte, laddove il Verbo,
al quale però si riducono, è uno.
Noi dobbiamo svolgere l' una e l' altra di queste differenze, e, svolgendo
la seconda, vedere come la moltiplicità delle verità e delle grazie
si riducano nulladimeno all' unità del Verbo.
Le speciali verità rivelate si presentano all' uomo unicamente nella
forma oggettiva. Ora, quantunque il Verbo sia l' essere per sè manifesto,
e quindi medesimo per sè oggetto, tuttavia, essendo egli in pari modo la
sussistenza divina, non può non essere soggetto e persona, di maniera
che egli è un soggetto per sè oggetto. Ma nelle speciali verità rivelate,
appunto perchè esse non si rappresentano che come oggetto, rimane
nascosta la soggettività, e quindi la personalità del Verbo. Laonde nell' antica
rivelazione il Verbo non si comunicò personalmente agli uomini.
Ma, quando egli prese carne umana ed ammaestrò gli uomini, ed
alle sue parole esteriori rispose la grazia interiore che diede agli uomini
la percezione del Verbo parlante e operante, la quale perciò si può
chiamare Verbiforme; allora gli uomini appresero la stessa persona del
Verbo vestita dell' umanità che ne comunicava gli influssi.
Che cosa sono adunque le verità speciali dell' antica e nuova rivelazione,
e le grazie speciali che le accompagnano? - Certo sono doni del Verbo,
non ancora il Verbo stesso. Ma di più sono appartenenze del Verbo,
le quali in lui non sono nè divise fra loro, nè divise dalla personalità,
ma sono divise nell' uomo a cui vengono comunicate, e in questo stato
di divisione non mantengono più l' identità col Verbo, di maniera che
si possano dire la Parola sussistente di Dio, ma però dalla loro origine
tengono de' caratteri divini, come sarebbero l' immutabilità, l' eternità,
una certa virtuale totalità, ecc., i quali bastano perchè si riconoscano
quali appartenenze del Verbo divino, e in lui si rifondano, e quindi si
chiamino altresì parola di Dio .
Nel che però è da osservarsi che v' hanno delle appartenenze del
Verbo naturali , e delle appartenenze del Verbo soprannaturali , onde
convien vederne la differenza.
La differenza fra il lume naturale e il lume soprannaturale fu da
noi collocata in questo che il lume naturale è semplicemente ideale ,
laddove il lume soprannaturale è anche reale , perocchè in questo vi ha
un' azione della sussistenza divina nell' anima umana: di maniera che
l' atto che fa l' anima nel ricevere il lume naturale dicesi intuizione,
laddove l' atto che fa l' anima nel ricevere il lume soprannaturale merita
il nome di percezione . Il lume naturale è l' essere ideale per sè oggetto,
e quindi questa si può chiamare un' appartenenza ideale del Verbo divino;
laddove il lume soprannaturale, che accompagna le verità rivelate
a cui prestiam fede, è l' essere reale, ossia la divina sussistenza, e quindi
questa si dee chiamare un' appartenenza reale dello stesso Verbo .
Rimane a spiegare come le speciali verità rivelate sieno molte,
laddove la parola di Dio, il Verbo è uno. A tale intento egli è uopo osservare
come tutte le verità naturali, tutte le idee si riducono ad una, cioè
all' idea dell' essere ; così somigliantemente tutte le verità soprannaturali
si riducono ad una, cioè alla Verità sussistente, all' Essere reale
soggetto per sè oggetto, che è il Verbo.
Ora come, essendo una l' idea , questa poi si trasmuta in molte che
chiamiamo più propriamente concetti? Questo accade per tre cagioni:
1 per la moltiplicità delle sostanze create, ognuna delle quali, attesa
la loro limitazione, è esclusivamente in se stessa fuori di tutte le altre.
Onde avviene che, quando applichiamo l' essere ideale a conoscere l' una
di esse, con questo non conosciamo punto l' altra, ma abbiamo una notizia
esclusiva affatto separata dalla notizia di tutte l' altre cose. 2 Da
questa moltiplicità di sostanze finite nasce una moltiplicità di rapporti
pure esclusivi, e limitato ciascuno a se stesso: onde di nuovo procede
una moltiplicità di notizie mediante altrettante applicazioni dell' essere
a più sostanze che si raffrontano per rilevarne le varie relazioni. 3 La
terza ragione deriva dalla moltiplicità che si trova in ciascuna sostanza
creata, niuna delle quali è perfettamente semplice, notandovisi accidenti,
passioni, ed azioni, cangiamento di modi, divisioni di spazio, successioni
di tempo, ecc.. A ciascuna delle quali cose, che ha natura esclusiva e sua
propria, applicandosi tuttavia l' essere ideale, se n' hanno altrettante
notizie e concetti. Fra le limitazioni delle sostanze create la più notabile
è quella per la quale la loro sussistenza non è contenuta nella loro
essenza; onde è uopo che la sussistenza, che esiste esclusivamente, sia
conosciuta dallo spirito umano con un atto diverso da quello con cui
egli conosce la loro essenza. Ed è oltracciò da osservare, che lo stesso
spirito intelligente dell' uomo è anch' egli una sostanza limitata, in modo
che ha bisogno di varii istrumenti ed atti successivi a trovare la materia
delle sue cognizioni, non essendogli dato per natura che la realtà dell' animalità
propria.
Ora ogni singolare notizia è fondamento ad un diverso affetto dello
spirito conforme o difforme dalla legge della moralità: quindi la pluralità
delle virtù e de' vizii e i molteplici accidenti dello stato morale
dell' uomo, benchè ogni pregio morale riducasi finalmente ad una sola
essenza morale, che è l' amore dato all' essere.
Ora, se noi passiamo a considerare la moltiplicità nell' ordine soprannaturale,
si riconoscerà agevolmente ch' ella dipende appunto dalla
moltiplicità dichiarata fin qui dell' ordine naturale dell' intelligenza e
della moralità: perocchè la grazia non muta la natura, ma non fa che
perfezionarla e sublimarla. L' uomo, le cognizioni dell' uomo, le virtù
ed i vizii di cui è suscettibile, essendo così molteplici come gli abbiamo
veduti; ne doveva provenire, che egualmente molteplici fossero i rapporti
di Dio con lui, molteplici i mezzi che adoperasse Iddio per condurlo
a sè, dove giace la sua perfezione e la sua beatitudine; che la
rivelazione di Dio si frangesse, per così dire, in molte verità speciali, e
che vi avessero divisioni di grazie e di doni, e tuttavia era uno il Cristo
che compartiva i suoi doni, uno lo Spirito che compartiva le sue grazie.
[...OMISSIS...] .
Ma noi dobbiamo vedere come tutte le verità speciali si riducano
ad unità, cioè ad un solo oggetto, come questo sia un' appartenenza del
Verbo, e come, ove ei si riveli, quest' oggetto, in quanto è soggetto
ossia persona, allora sia egli il Verbo a noi comunicato. Dobbiamo vedere
il medesimo delle grazie a noi comunicate, come si rifondano e riducano
in una grazia sola, appartenenza del Santo Spirito, che è incontanente
lo stesso Santo Spirito quando in quella grazia egli ci si rivela come
persona.
Tutte le verità speciali che abbiamo dalla divina rivelazione si riducono
a verità che dichiarano la natura divina, che cosa abbia fatto Iddio
e conseguentemente quali doveri noi abbiamo verso Dio, in una parola
riguardano il credere e l' operare. Ora le verità che regolano le operazioni,
si riducono alle verità imposte a credere, perchè l' operazione
morale non è altro che una ricognizione della verità appresa dall' intelletto,
ricognizione che produce gli affetti e le azioni ben ordinate che
ammigliorano e perfezionano moralmente l' uomo. Le verità teoretiche
poi, che riguardano la natura e le azioni esterne di Dio, si riducono alla
natura divina, perocchè Iddio non agisce se non con quell' atto stesso
con cui esiste, e propriamente si riducono alla cognizione del Verbo
divino, perchè, come abbiamo veduto innanzi, la creazione e l' altre
operazioni esterne sono fatte pel Verbo, e in Dio non sono distinte da
quell' atto che costituisce il Verbo divino. E a questa unità ridusse lo
stesso Gesù tutto il suo Vangelo quando disse: « Haec est autem vita
aeterna, ut cognoscant te solum Deum verum et quem misisti Jesum
Christum (1) ». Il Padre poi non si conosce che pel Figlio e nel Figlio, e
però tutta la cognizione e la verità soprannaturale si trova racchiusa e
contenuta nella cognizione del Verbo, il quale è chiamato Verità e il
fonte della sapienza nel cui spirito « desiderant Angeli prospicere ». Tutte
le verità rivelate adunque si riducono al Verbo come in loro principio
nel quale sono eminentemente contenute, e propriamente altro non
sono che tante parziali applicazioni alle cose create della prima cognizione
soprannaturale che è questa del Verbo. Ma il conoscere che tali
verità speciali sono contenute nella sola cognizione del Verbo divino,
questo ha due gradi. Perocchè:
1 O si conosce ciò unicamente perchè di fatto tali verità ci servono
a conoscere qualche cosa della natura divina e delle sue azioni nel
mondo, senza però che percepiamo il Verbo personalmente manifestante
tali verità; il che dà luogo ad una cognizione diretta comune dei fedeli
della Chiesa di Dio, e ad una cognizione riflessa e scientifica propria
dei maestri che alle rivelate verità applicano il ragionamento: tutto
questo l' ebbero anche gli Ebrei.
2 Ovvero si conosce che tutte le speciali verità di cui parliamo
sono contenute nel Verbo, e nello stesso tempo si percepisce il Verbo
personalmente nell' atto di manifestarcele, non già solo ai nostri orecchi
carnali che non basterebbe, ma agli orecchi del nostro cuore; e questo
è proprio solo de' cristiani, e dicesi acconciamente vedere le verità
soprannaturali nel Verbo . Il qual grado di cognizione dà tuttavia luogo
ai due modi sopraindicati: il diretto, che si fonda nella percezione del
Verbo che ai cristiani tutti è data nel battesimo; e il riflesso e teologico,
che è proprio di quelli che sopra tal cognizione diretta riflettono
e ne traggono la scienza formulata: la quale, o si occupa soltanto del
Verbo come oggetto, e dicesi semplicemente Teologia; o anche del Verbo
che agisce nell' anime come soggetto e persona per sè oggetto, e suol dirsi
Teologia mistica .
Ma è mestieri chiarir meglio la cognizione soprannaturale data agli
uomini prima della venuta in terra del Signor nostro Gesù Cristo. Ella
si riduceva ai seguenti capi:
1 Le verità speciali rivelate;
2 Quel tanto che ciascuna verità fa conoscere della natura divina,
nel che ricevevano unità, riducendosi tutte a gradi ed aspetti diversi
della cognizione della stessa cosa;
3 Atteso la grazia divisa secondo le verità speciali, questa natura
divina, che davasi a percepire come per sè manifesta, oggetto reale per
sè manifesto, era il Verbo, ma soltanto oggettivamente appreso, non il
Verbo come soggetto e persona; e quindi, propriamente parlando, era
la divina sussistenza per sè manifesta, ma non operante, e dicente « « Io
e il Padre siamo una cosa » », in quanto si distingue la manifestazione
dall' operazione .
4 Vi aveva altresì la promessa della venuta al mondo del Verbo
qual soggetto e persona, il che non importa una comunicazione interna
di questa personalità, bastando la fede in quella misteriosa promessa.
Onde la persona del Verbo promesso era indicata coi nomi di Dio, Dio
con noi, Padre del secolo futuro, Principe della pace, ecc.; e come tale
Abramo (1) ne può aver veduto la gloria ( diem ), e Davide può aver
conosciuto che sarebbe suo Signore (2), benchè suo discendente, senza
che perciò ne avesse la percezione stessa personale . Di maniera che la
cognizione del Verbo come persona data agli antichi non era positiva
e percettiva; ma negativa, razionale, simbolica, misteriosa, oggetto di
fede assai più che non sia presentemente ai cristiani, i quali ne hanno
una iniziale percezione; e la lor fede si riferisce soltanto alla percezione
completa e svelata che costituisce la celeste beatitudine.
5 Finalmente vi era la riflessione e meditazione filosofica, che,
ritornando sopra questi dati rivelati esteriormente ed internamente,
riducevano in teoria scientifica le credenze; onde nacque quella Teologia
Ebraica, ond' io credo non poco deducesse il Platonismo, e specialmente
la Scuola Alessandrina.
Le quali cognizioni dell' antica Chiesa intorno al Verbo divino rendono
plausibile ragione come la denominazione di Verbo applicata a
Dio fosse già in uso prima di Cristo. La perifrasi caldaica di Onkelos
(targum Onkelos), che probabilmente è anteriore a Cristo, dove nel
testo ebraico si legge [...OMISSIS...] Jeova, vi aggiunge frequentemente [...OMISSIS...]
« mimra, cioè Verbo (3) ».
Si spiega ancora perchè S. Paolo, commentando quelle parole « Juxta
te est sermo valde in ore tuo et in corde tuo (2) » e le precedenti, le interpreti
di Cristo. Ecco il luogo di Mosè: « « Questo comandamento, che
io oggi t' impongo, non è sopra di te, nè posto in lontananza, nè situato
in cielo, sicchè tu possa dire: Chi di noi può salire al cielo e indi tradurlo
a noi perchè l' udiamo e l' adempiamo? Nè sta via oltre il mare,
sicchè tu possa coglier cagione di dire: Chi di noi potrà passare il mare
e fin di là portarcelo perchè possiamo udire e fare quello che ci è prescritto?
Ma egli è un sermone molto vicino a te, nella tua bocca e nel
tuo cuore perchè tu il possa compire » ». Ora S. Paolo, illuminato dallo
spirito di Gesù Cristo già venuto, ci fa sapere che pei cristiani quel
luogo di Mosè acquistò nuova luce appunto dalla venuta di Cristo, dovendosi
con questo nuovo lume interpretare. Onde insegna che in quel
luogo mosaico si parla della giustizia che nasce a noi redenti dalla fede
nella misericordia e redenzione di Cristo: giustizia che invano spereremmo
dalle nostre opere non avvalorate dai meriti di Gesù Cristo.
Laonde così lo dichiara l' Apostolo: « « Or poi della giustizia che vien
dalla fede dice così: « Non vorrai dire in cuor tuo: Chi ascenderà in
cielo? » » cioè per trarne Cristo (che ti possa salvare dai tuoi peccati e
così darti la giustizia che è dalla fede in lui). « « O chi discenderà nell' abisso?
cioè per risuscitarne Cristo » » (da cui è la salute). « « Ma che
cosa dice la Scrittura?: Vicina è la parola nella tua bocca; quest' è la
parola della fede che noi predichiamo »(1) ». Con che l' Apostolo viene
a dire che quel Cristo Salvatore degli uomini per la fede, ne' meriti del
quale vengono rimessi i peccati di cui sono macchiate le loro opere, non
è lontano, anzi egli viene comunicato mediante la predicazione apostolica
e la fede che a questa si presta (per la qual fede alla predicazione,
e pel battesimo che in conseguenza di tal fede si riceve dalla Chiesa,
viene data all' uomo la percezione del Verbo umanato che forma la salute
delle anime); viene dato all' anima pel carattere indelebile e per la grazia,
in virtù di cui sta eziandio sulla bocca dei Cristiani che pronunciano
al di fuori ciò che sentono al di dentro. Di che si vede che quello, che
era sermo, praeceptum, mandatum, ecc. per gli Ebrei, pei Cristiani è
il Verbo, o Cristo; perocchè, se per quelli tali voci significavano una
dottrina rivelata da Dio oggettivamente considerata, per questi, cioè
per noi, significa lo stesso Cristo rivelante soggetto e persona, nella
cognizione del quale tutta quella dottrina abbondantemente si comprende;
onde quella dottrina stessa oggettiva diventa ai Cristiani un soggetto
ossia una persona divina per sè oggetto, per sè manifesto come tale,
manifestantesi come persona. Laonde quando il salmo dice: « Constitue,
Domine, legislatorem super eos (2) », dove la voce ebraica [...OMISSIS...] moreh
significa doctorem, prega che venga quel dottore appunto, la cognizione
e percezione del quale contiene tutta la dottrina stessa, poichè egli, in
quanto è per sè noto, è per sè dottrina.
Laonde que' Padri della Chiesa che in luogo di Verbum tradussero
ed usarono la parola sermo (1) non furono universalmente seguiti. Poichè,
quantunque la parola sermo non fosse disacconcia ad esprimere il
Verbo interno del Padre (salvo che il sermone suppone pluralità di voci
o di concetti, onde anche per questa ragione la parola Verbum, come
toccammo, meglio indica l' unità del Verbo di Dio), tuttavia ella non
era acconcia ad esprimere la personale manifestazione del Verbo agli
uomini, nella quale il Verbo non è solamente la dottrina, ossia il sermone
parlato, ma è di più e nello stesso tempo il dottore parlante. E
come tale ci venne dato in Cristo, come tale ci è annunziato in questi
luoghi dell' Evangelio: « Unigenitus qui est in sinu Patris, ipse enarravit
(2) », e: « Tres sunt qui testimonium dant in Coelo » (cioè nell' interiore
dell' anime) « Pater et Verbum et Spiritus Sanctus (3) ». E dove G. C. vien
chiamato « testis fidelis (4) », o anche assolutamente « Fidelis et Verax », a cui
si soggiunge: « et vocatur nomen ejus Verbum Dei (5) ». Le quali maniere
non esprimono solamente la dottrina rivelata oggetto della mente, ma
il Verbo di Dio che è ad un tempo dottrina per sè manifesta e persona.
Laonde si vede quanto differiva la dottrina dell' antica Chiesa da quella
della nuova, la quale è acconciamente ricapitolata da S. Paolo in quelle
parole: « Non enim judicavi me scire aliquid inter vos nisi Jesum Christum
et hunc crucifixum (6) ». Quello che era nell' antica Chiesa mera
dottrina, divenne nella nuova anche persona per sè nota, e da questa
nuova luce ricevono le antiche carte nuova interpretazione, l' interpretazione
accennata da Cristo stesso quando disse ai peregrini di Emmaus:
« O stulti et tardi corde ad credendum in omnibus quae locuti sunt prophetae!...
Et incipiens a Moyse et omnibus Prophetis interpretabatur
illis in omnibus scripturis quae de ipso erant (7) ». E ancora: « Scrutamini
scripturas, quia vos putatis in ipsis vitam aeternam habere, et illae sunt
quae testimonium perhibent de me (1) ».
E fu soltanto dopo la gloriosa sua risurrezione che a' suoi discepoli
diede il conoscimento delle antiche scritture: « Tunc aperuit illis sensum
ut intelligerent scripturas (2) »; perocchè solo allora ebbero creduto a
pieno in Cristo glorificato, compiendosi colla sua risurrezione le profezie.
Passando ora dall' ordine intellettuale all' ordine morale, si vedrà
agevolmente che vi si possono applicare le stesse dottrine.
L' ordine morale ha da una parte la legge, dall' altra l' adesione che
dà l' uomo alla legge. Noi abbiamo già indicate le cagioni perchè vi abbia
moltiplicità di leggi, e tuttavia tutte le leggi morali non sono prive di
unità, perocchè le leggi speciali si riducono ad una legge prima semplice
ed una, la quale dice: Riconosci l' essere. Come uno è l' essere, una è
l' idea dell' essere, così una è l' esigenza che manifesta l' essere di venire
amato come quello che è per sè amabile all' essere intelligente.
E se uno è l' oggetto amabile, l' essere; una la necessità morale di
amarlo: unico è quindi il dovere morale, unico il pregio morale dell' ente
intellettivo, il quale consiste nel suo amore illimitato all' essere. Qui
finisce ogni virtù; tale è la parte formale di ogni atto virtuoso.
Ma l' amore all' essere, rimanendo sempre ordinato, cioè compartito
in ragione della quantità di essere, può riuscire d' una fisonomia e d' un
atteggiamento diverso, secondo le potenze che concorrono nell' uomo a
ridurlo in atto, secondo la perfezione e la varia indole ed efficacia di
queste potenze, secondo le occasioni d' esercitare quell' atto di amore
verso l' essere molteplice e limitato, e verso l' Essere infinito, secondo la
cognizione diversa dell' essere; e quindi anco secondo che un tale amore
viene attuato in un modo o in un altro, e una parte venendo attuato,
l' altre parti rimangono tuttavia in un atto primo virtuale: quindi le
diverse virtù, gli speciali atti virtuosi, i diversi stati morali dell' uomo.
Supponendo che l' uomo conosca l' Essere supremo, Iddio, l' unità
morale spicca maggiormente, perocchè le azioni umane acquistano un
fine solo, e tutto l' amore all' essere finito dee rifondersi almeno virtualmente
nell' amore dell' essere assoluto, fonte e causa di ogni essere.
Allora quando quest' ordine dell' amore si attua in modo che l' uomo
riferisca esplicitamente a Dio tutte le sue azioni, allora tutta la virtù
sua diviene amore di Dio: questo è il formale della virtù; la virtù è
divenuta religione, santità; è una, perchè è uno ne' diversi atti umani
l' amore, è uno l' oggetto dell' amore. Ma se Iddio non si conosce che
naturalmente, e però negativamente, oltrecchè questa santità naturale
riesce difficilissima, ella rimane virtù ancor nei limiti della natura.
Quando si aggiunge la cognizione soprannaturale di Dio, cioè l' infusione
della grazia, che è una cotale percezione della divina realità,
allora tutto l' ordine morale si sublima, e diviene soprannaturale, perchè
l' amore morale acquista per oggetto l' Essere assoluto positivamente conosciuto,
sentito, percepito. La qual comunicazione immediata di Dio
all' anima suol avvenire con qualche manifestazione esterna di Dio, con
qualche rivelazione, segno, ossia sacramento.
Allorchè poi il Verbo prese carne, allora si manifestò esternamente
colla natura umana da lui vestita, e a questa comunicazione esterna
corrispose la percezione interna e graziosa della persona divina del
Verbo, la quale è il principio ed il fondamento della virtù cristiana,
la perfezione cristiana della virtù soprannaturale.
Ogni grazia viene infusa per operazione del Santo Spirito, ma,
come dicevamo, questo non manifesta se stesso quando infonde i doni
(1), e nè pure quando imprime il Verbo come persona nell' anime.
Ma di poi il Verbo, che già insiede nell' anime, comunica a queste palesemente
il suo Spirito, prima in forma di doni sensibili ed apparenti,
e poscia anche quale persona (2), siccome avvenne il di della Pentecoste,
e tuttodì avviene per mezzo del sacramento della Confermazione.
Il sentimento personale dello Spirito Santo è tale che per esso si sente,
non solo l' ispirazione al bene, ma lo stesso ispirante; sicchè non si dubita
che l' ispirazione venga dall' infinito essere, che si riconosce appunto
come persona divina, perchè si sente per sè agente, per sè amabile, per
sè amore, per sè virtù.
Ma la riflessione dell' intelletto difficilmente arriva a cogliere tale
distinzione e formularla, e pochi conseguentemente si formano di ciò
qualche distinta coscienza atta ad essere espressa in parole.
Questi pertanto sono i gradi specifici della virtù soprannaturale
e naturale, la quale però riducesi sempre ad una medesima essenza
compresa in una sola e semplice idea.
Noi abbiamo detto che l' Evangelista Giovanni, incominciando dal
Verbo divino il suo Vangelo, mosse dallo stabilire così il principio ed il
fonte della sapienza soprannaturale che nel suo libro prendeva ad
esporre. Fra i quattro stemmi di Cristo (1), l' aquila è simbolo
della sua divinità, e però s' applica all' Evangelista che lo illustrò
più degli altri. Perocchè nessun altro evangelista nominò Cristo colla
denominazione di Verbo, nessun altro entrò sì addentro nel mistero
dell' incarnazione. Conveniva che prima fosse annunziata l' umanità di
Cristo, il che fece principalmente S. Matteo; poi, che fosse annunziato
il regno da lui fondato, a che mira S. Marco; quindi l' eterno e regale
suo sacerdozio, a che intende S. Luca; acciocchè finalmente quasi per
questi gradi ascendesse l' umana mente a contemplare in Cristo lo stesso
Verbo del Padre, il quale annunzio fu riserbato specialmente all' ultimo
degli Evangelisti, al diletto discepolo.
Si deve aggiungere che dal Verbo viene anche la formazione della
ragione umana, benchè con questo solo a lei non si manifesti, comunicando
ad essa soltanto l' idea dell' essere, principio e mezzo universale
del sapere. Onde esso Verbo è il principio remoto anche della scienza
naturale.
Ma, oltrecchè il Verbo di Dio forma remotamente le intelligenze,
quand' egli poi si manifesta o come oggetto divino rivelato, od anche
come persona, muove colla sua efficacia noi stessi, se non gli contrariamo,
ad arrenderci ai dettami della ragione, ed allontana da noi, come
ebbe osservato Origene, tutto ciò che è alla ragione contrario (2). Perocchè
nè egli è freddo ed inefficace a muoverci come la nuda idea, nè
egli ci muove parzialmente verso qualche essere finito a pregiudizio di
qualche altro; ma ci muove ad aderire all' Essere assoluto, e di conseguente
a tutto l' essere, secondo la debita proporzione: perocchè il Verbo
è appunto l' essere assoluto, la pienezza dell' essere oggetto per sè noto e
persona: onde il nostro spirito affissantesi e aderente a tutto l' essere,
a ciò che è solo essere, diventa imparziale verso tutte le partecipazioni
dell' essere, quali sono gli esseri finiti.
Ma la comunicazione del Verbo che si dà a noi a percepire si fa col
mezzo di qualche segno sensibile, come i segni che si dicono sacramenti;
e prima di questi coll' umanità sensibile di Gesù Cristo, che può dirsi
il primo, il massimo sacramento, il fonte di tutti gli altri sacramenti da
lui instituiti; ed altresì coi segni delle parole di cui si tesse l' evangelica
predicazione. Onde, quando S. Paolo chiama la parola di Dio « gladium
spiritus (1) », intendeva la predicazione animata dall' interna comunicazione
del Verbo potente a operare sull' anime nel tempo stesso che la
parola esterna de' suoi predicatori ferisce i sensi.
Un' altra ragione più prossima, per la quale S. Giovanni cominciò
il suo Vangelo dall' annunziare il Verbo di Dio, si è perchè egli toglieva
a scrivere la vita di Cristo, di cui conveniva innanzi tutto esprimere
l' eterna generazione volendo dimostrare l' origine della persona di cui
parlava. Cominciando dall' annunziare il divin Verbo, egli veniva a
indicare l' unità dell' opera del mondo, perocchè dimostrava colui che è
autore ad un tempo della creazione e della redenzione, venendo questa
seconda ad essere la continuazione e il perfezionamento d' un solo primitivo
disegno. La qual ragione acconciamente è toccata da S. Ireneo che
dice: [...OMISSIS...] .
Tolta dunque l' occasione dagli eretici Cerinto ed Ebione, che negavano
Cristo essere esistito prima di Maria, e munendo in pari tempo la
Chiesa contro le eresie successive (3), supplendo in pari tempo alle
lacune lasciate dagli evangelisti precedenti, egli tolse a scrivere il suo
meraviglioso Evangelio inaugurandolo con un principio così sublime
col quale « erexit se non solum super terram et super omnem ambitum
a‰ris et coeli, sed super omnem etiam exercitum Angelorum, omnemque
constitutionem invisibilium potestatum, et pervenit ad eum per quem
facta sunt omnia (4) ».
Dopo aver detto che avanti a tutte le creature, ab eterno era un
assoluto Verbo, un Verbo necessario che non poteva non essere, perocchè
egli era l' Essere per sè noto; passa ad insegnare dove era, e risponde:
appo Dio.
Questa progressione di concetti è perfettamente logica, dovendosi
partire da ciò che è per sè manifesto, e venir poscia al manifestato;
partire dal lume e venire all' illuminato. E` per il Verbo che si rivela il
Padre agli uomini, come abbiamo veduto: il Verbo è per sè luce che
illumina ogni uomo. Quest' è dunque l' ordine nel quale procedono le
intelligenze, e nel quale dee procedere chi le ammaestra. Non vale il
dire che nell' ordine della generazione il Padre precede il Verbo, perocchè
qui non siamo nell' ordine della generazione, ma in quello dell' intelligenza
e dell' ammaestramento: i due ordini procedono in senso
contrario. Vero è ancora, che, tostochè si conosce il Verbo, si conosce
il Padre di maniera che la cognizione del secondo non precede di tempo
la cognizione del primo, secondo quelle parole di Cristo: « « Filippo,
chi vede me, vede anche il Padre mio »(1) ». Ma ciò non toglie la precedenza
logica, secondo la quale antecede la cognizione personale del
Verbo alla cognizione personale del Padre.
La filosofia naturale è obbligata a seguire lo stesso metodo. Ella
muove dall' idea dell' essere, come dalla prima cosa che conosce: l' essere
ideale è per sè noto, è pura luce, non può essere negato da alcuno,
siccome quello che è necessario. Convien dunque ammettersi questo, e
quindi passare alla relazione ch' egli dimostra coll' ente realissimo ed
assoluto. Quantunque l' essere ideale proceda dall' assoluto, e non possa
essere senza di lui; tuttavia l' esistenza dell' assoluto si conosce per mezzo
di lui, giacchè prima si trova la necessità d' ammettere assolutamente
l' essere ideale, poi si vede che questo non potrebbe essere senza l' assoluto,
quindi la mente si sente obbligata ad ammettere l' assoluto.
Annunziare adunque il Verbo prima di tutto, e poi discorrere da
questo al Padre, è l' ordine logico, pel quale deve procedere la scienza
cristiana. E S. Giovanni ci conduce tosto al Padre dicendo: « « e il Verbo
era appo Dio » ».
Iddio qui significa il Padre (1), e con queste parole dimostra la
distinzione della persona del Verbo dalla persona del Padre. Si domanderà
perchè qui Iddio significhi la persona del Padre. - Rispondiamo
osservando primieramente con S. Tommaso d' Aquino (2) la differenza
fra il significato della parola Dio , e della parola Deità . Questa seconda
indica la divinità in astratto, e però vale a significare solamente la natura
divina; laddove la parola Dio significa la divinità nel supposito, concretamente,
e però ella vale a significare anche la persona: come, a
ragion d' esempio, la parola uomo significa una persona umana, quando
la parola umanità significa soltanto l' umana natura. Quindi i teologi
ammisero per buona questa frase Deus generat Deum, perchè viene a
significare che una persona divina genera un' altra persona divina, ma
non ammettono quest' altra « la deità genera la deità », perocchè così
dicendo si verrebbe a significare che la natura divina genera un' altra
natura divina, e così si moltiplicherebbero le nature.
Ma dopo ciò, sebbene la parola Dio s' adoperi convenientemente a
significare il supposito, ossia la persona divina; tuttavia con essa non
si determina piuttosto una persona che un' altra, e perciò rimane a cercare
come nel luogo di S. Giovanni, « « E il Verbo era appo Dio » », la
parola Dio indichi il Padre. Or questo si rileva dal contesto, giacchè non
può significare il Figliuolo che è lo stesso Verbo, nè tampoco lo Spirito
Santo che procede dal Padre e dal Figliuolo; onde si direbbe piuttosto
che egli fosse appresso il Padre e il Figliuolo che viceversa, come meglio
dichiareremo parlando della forza significativa della particella appresso .
Finalmente è da osservarsi che la parola Dio si suol applicare in
primo luogo al Padre come quello che è il principio fontale dell' altre
due persone, a cui comunica la stessa sua propria natura divina numericamente
identica. Perocchè il Padre è la sussistenza divina, l' Essere
sussistente, che con un atto suo proprio si rende per sè manifesto ed
amato, il che è la processione delle due altre persone; e la parola Dio
indica appunto la sussistenza dell' essere assoluto senza determinare in
esso di più. Onde conviene a quella persona che è prima di tutto la
sussistenza e non l' ha ricevuta, perocchè questo averla ricevuta non è
espresso nella parola Dio . Onde, quando la parola Dio si vuole assumere
ad indicare il Figliuolo o il Santo Spirito, è necessario che il contesto
lo dichiari, aggiungendovi la relazione che costituisce le persone procedute;
non così quando si vuole indicare il Padre.
E S. Giovanni, dicendo che « « il Verbo era appo Dio » », parlava
più in conformità delle antiche scritture, le quali nominano spesso il
« Verbo di Dio »; laddove non nominano « il Verbo del Padre ».
Oltredichè, dicendo che « « il Verbo era appo Dio » », si veniva a
rendere la ragione del perchè Iddio generante si chiamasse Padre, chiamandosi
Padre appunto per questo che egli ha appo sè il Verbo generandolo;
laddove se avesse detto che il Verbo era appo il Padre, avrebbe
supposto che i lettori avessero già conosciuto chi era il Padre, il quale
volevasi anzi dall' Evangelista far conoscere per mezzo del Verbo, e
della relazione che il Verbo aveva colla divina sussistenza che lo generava.
La parola era indica l' eternità del Verbo appo il Padre; perocchè
come, dicendo che « « in principio era il Verbo » », aveva significato che
il Verbo era eterno; così egualmente dicendo che era appo il Padre
significa che dall' eternità risiedeva appresso Dio suo Padre (1). Onde
viene a dire del Verbo quello che le antiche carte dissero della sapienza
che al Verbo si riduce: « omnis sapientia a Domino Deo est, et cum illo
fuit semper et est ante aevum (2) »: dove, non contento il sacro
scrittore d' aver detto « fuit semper », quasi si potesse intendere durante la
durazione del mondo, il corso del tempo , aggiunge per dimostrarne l' eternità
« est ante aevum », è avanti il tempo, usando il verbo E` in presente,
per escludere ogni successione e modificazione, e significare senza alcun
equivoco l' eternità. E siccome il Verbo era assoluto Verbo ed avente
una esistenza necessaria, così doveva essere colla stessa necessità appresso
il Padre pure necessario, di maniera che la necessità del Verbo
dimostra, secondo il processo della nostra intelligenza, la necessità di
Dio Padre presso cui fosse.
Volendo ora noi venir dichiarando il valore del vocabolo appo ,
usato dall' Evangelista, conviene che osserviamo prima di tutto come
le cose divine, che hanno natura diversa dalle create, non si possono
insegnare agli uomini che usando vocaboli istituiti a significare cose
create, e però inadeguate a rendere i divini concetti; il perchè, applicati
a questi, vengono a prendere nuova significazione, e a formare tali
proposizioni, che, applicate alle umane cose, riuscirebbero assurde.
Qui dice S. Giovanni che il Verbo era appo Dio. Ora nessuna delle
cose create, propriamente parlando, può essere per se stessa appo Dio,
come quelle che hanno un' infinita distanza dall' eccellenza e dalla natura
del Creatore. Dunque ciò che di natura sua è appo Dio deve avere la
natura divina, dee esser Dio; giacchè fra l' infinito e il finito non v' ha
mezzo alcuno, e il finito è distante infinitamente dall' infinito: l' infinito
poi è Dio stesso. Avendo dunque detto che il Verbo era appo Dio, ci
ebbe posto in mano il principio da cui cavare la conseguenza che dunque
il Verbo era Dio, conseguenza che cava l' Evangelista incontanente
appresso. La qual conseguenza, che distrugge le sottigliezze degli Ariani,
fluisce tanto più spontanea che l' Evangelista dice che il Verbo era appo
Dio in principio, il che, come vedemmo, viene a dire da tutta l' eternità,
nella quale non potevano essere le creature; e cioè necessariamente,
perchè trattasi di un Verbo assoluto, e perciò necessario, perciò eterno,
il quale non può star solo, ma richiede per una relazione necessaria
Colui che lo pronuncia.
Oltracciò la parola appresso nella sua prima istituzione significa
vicinanza di luogo, dalla quale fu poscia trasportata a indicare vicinanza
o relazione intima di natura. A quelli dunque che non sapendo concepire
le cose senza collocarle in qualche luogo (1) domandassero: se il
Verbo era già prima che fosse creato il mondo, dove stava egli? L' Evangelista
risponde che era appo Dio, e con ciò insegna ch' egli era semplice,
e che non aveva bisogno di essere in un luogo, essendo appo Dio.
Una simile difficoltà si fanno gli uomini quando cominciano ad
applicarsi alla filosofia, e vien loro detto che antecedentemente a tutte
le cognizioni vi ha l' essere ideale, lume della mente. Perocchè tosto
domandano: dove è dunque quest' essere ideale? e conviene rispondere
che è in se stesso, il che non è agevole il far loro ammettere per l' imaginazione
che giuoca in essi, e che dimanda che venga collocato in qualche
luogo, sembrando loro che non si possa senza questo concepire.
Or quattro maniere si adoperano nelle divine scritture per esprimere
la connessione di Cristo col Padre. Si dice che « « il Verbo è appo
Dio » »; che è « « nel Padre »(2) »; che è « « nel seno del Padre »(3) »; che
« « siede alla destra del Padre »(4) ». Perocchè, non potendo il linguaggio
umano esprimere con una sola espressione questa connessione, egli è
uopo adoperarne molte, acciocchè una supplisca in qualche modo al
difetto dell' altra. Conviene adunque vedere il valore di ciascuna di
queste espressioni, e come l' una emendi e completi l' altra.
Ora, quanto a quest' ultima espressione, ella appartiene all' umanità
di Cristo innalzata sopra tutte le creature per l' unione ipostatica col
Verbo, e collocata vicino al trono di Dio. Ciò si scorge nel Salmo CIX,
che comincia: « « Il Signore disse al mio Signore: siedi alla mia destra » »:
dove il Signore, cioè Dio, parla al figliuolo di Davidde, come sappiamo
dal Vangelo (1), cioè a Cristo, come uomo, a cui pure disse: « « Tu sei
sacerdote in eterno secondo l' ordine di Melchisedecco » », e l' essere Sacerdote
appartiene a Cristo come uomo, come pure l' essere Re, benchè
la grandezza di questo sacerdozio e di questo reame nasca da quella
dignità infinita che acquistò la sacratissima umanità dalla sua congiunzione
personale collo stesso Verbo. Rimane dunque a cercare il valore
delle altre tre espressioni, che al Verbo divino appartengono.
Ora nessuna di esse, presa in separato, sarebbe stata per sè idonea
ad esprimere convenientemente la congiunzione del Verbo con Dio che
lo pronuncia.
Perocchè la parola appo , applicata alle cose umane, suol significare
la vicinanza di due cose o persone distinte sostanzialmente fra loro,
non avendovi nelle cose create alcun esempio in cui cada l' identità di
sostanza con diversità di persona. D' altra parte nelle cose divine non
può darsi moltiplicità di sostanze e di sussistenze, perchè Iddio non può
essere che uno. La particella in nelle cose create suol significare la congiunzione
di un accidente colla sua sostanza, onde si dice che « il colore
è nel corpo », e non presso, appo il corpo; laddove si dice che « un
uomo è appo un altro uomo », e non in un altro uomo. Nelle cose create
la parola in non trova come possa essere adoperata altrimenti, perocchè
non si verifica mai il caso in tutta la natura che una persona sia in
un' altra persona senza confondersi con essa, e pur avendo identità di
sostanza. Questa specie d' inesistenza non si avvera nel creato, e però
la parola in applicata a Dio non può esprimere una congiunzione accidentale,
come accade quando si applica ai corpi.
L' espressione che « « l' Unigenito è nel seno del Padre » » non si può
intendere in senso proprio, perocchè il Padre non ha seno; ma nello
stesso tempo rappresenta più acconciamente delle due prime l' inesistenza
di due persone, colla similitudine della madre che ha nel proprio
seno il figliuolo da lei concepito, e col concetto di generazione che racchiude.
Conviene dunque che queste tre espressioni, applicate all' unione
del Verbo con Dio che lo pronuncia, si correggano e si completino l' una
coll' altra, in modo che si escluda da ciascuna di esse quello che non può
convenire alla divinità, e così si venga per esse ad intendere quanto di
questa si debba pensare.
Ora le due prime che usano le particelle appo ed in si correggono
e perfezionano prese insieme; perocchè l' appo dimostra che tra il Verbo
e Dio che lo pronuncia non si dee mettere una unione simile a quella
dell' accidente colla sostanza quale viene espressa dalla particella in
applicata alle cose corporee; e l' in dimostra che nè pur si dee ammettere
una vicinanza di due sostanze o nature separate come suole esprimere
la particella appo applicata alle finite sostanze.
Ritenendosi adunque l' unità di sostanza, che viene significata in
quella congiunzione che si esprime colla particella in , e ritenendosi la
moltiplicità delle persone che viene espressa in quella congiunzione che
si addita colla particella appo , noi, mediante l' uso di tali particelle,
intendiamo che in Dio aver vi dee unità di sussistenza, e ad un tempo
pluralità di persone, e che tale è l' unione del Verbo con Dio che lo
pronuncia a sè consustanziale e ad un tempo personalmente distinto.
Ma se la particella in indica meglio l' inesistenza d' una persona nell' altra
che non sia la particella appo, tuttavia quella prima non fa conoscere
la qualità di congiunzione che hanno le due persone fra loro,
potendosi dire ugualmente che « il Padre è nel Figliuolo »e che « il
Figliuolo è nel Padre ». Al che soccorre la parola appo . Perocchè questa
parola, come hanno osservato gli antichi Padri (1), e come osservò in
appresso S. Tommaso, « significat auctoritatem in obliquo »; perocchè non
si direbbe propriamente che il re sta presso il soldato, ma che il soldato
sta presso il re, e così non si direbbe che il Padre abita presso il Figliuolo,
ma il Figliuolo abita presso il Padre, di maniera che la persona
presso cui un' altra abita si suppone la principale e autoritativa in qualche
modo rispetto alla seconda. Ora, quantunque fra le divine persone
vi abbia una perfetta uguaglianza di dignità, tuttavia vi ha una relazione
d' origine per la quale il Padre genera il Figliuolo, onde acconciamente
si dice che il Figliuolo è appresso il Padre che lo genera, laddove non
vi avrebbe ugual proprietà dicendo che il Padre è appo il Figliuolo, la
quale espressione non si trova nelle divine Scritture.
Ma se la particella apud applicata alle cose create viene a significare
una maggioranza, una principalità, un' autorità o priorità della
persona, appo cui si dice stare un' altra; conviene vedere quale tra questi
significati si debba attribuirle applicata alle persone divine. Ora noi
sappiamo da altri luoghi delle scritture, che queste sono eguali in tutto,
eccetto nella causalità. « Ego et Pater unum sumus (1) » disse Cristo: quindi
la particella apud nelle cose divine non può significare altro che quella
relazione, per la quale il Padre genera il Figlio, ossia la proprietà di
generante nel Padre, e di generato nel Figlio. A determinare questo
significato della parola apud giova appunto l' altro luogo parallelo che
dice: « Unigenitus, qui est in sinu Patris, ipse enarravit (2) », dove è significata
la relazione tra il Padre e il Figlio, cioè la generazione. Sono
significate altresì alcune differenze fra la generazione, qual è nelle cose
finite, e la generazione del Verbo. Primieramente, dicendosi che l' Unigenito
è nel seno del Padre, scorgesi che egli non si distacca dal Padre,
ma che rimane continuamente in esso. In secondo luogo scorgesi nella
parola est l' eternità della generazione, non potendo nella Divinità avvenire
nulla di nuovo, e però non potendosi dire quello che avviene in
essa, perchè nulla avviene, ma solamente quello che è. In terzo luogo si
rileva da una tal espressione che la generazione del Verbo non è un' operazione
che incomincia e che ha mezzo e fine come l' umana, ma è sempre
in atto compiuto immanente, onde si dice ad un tempo che il Verbo
sempre si concepisce e che sempre è concepito. Mediante questo luogo
adunque s' intende che l' espressione, « et Verbum erat apud Deum », non
indica altra autorità nel Padre se non la proprietà che egli ha di essere
il principio generante, onde qualche Padre della Chiesa lo chiamò autore
del Verbo.
Ma all' Evangelista era opportuna questa espressione eziandio per
significare con essa altre verità. Perocchè, volendo passare a dire dell' opere
del Verbo, e come egli fosse l' autore del mondo e si fosse poi
personalmente manifestato nella redenzione da lui operata del mondo
medesimo, era conveniente che prima dicesse ove e come era il Verbo
prima che operasse e che si manifestasse agli uomini. Onde, salendo
l' Evangelista colla sua mente al di là di tutte le opere esteriori del Verbo,
prima di dire che cosa abbia fatto e come si sia manifestato agli uomini,
dichiara che cosa era da tutta l' eternità: era appresso Iddio che lo pronunciava
eternamente, era Verbo di Dio indiviso da Dio. Quivi stava
nell' eternità nascosto alle creature che ancora non esistevano. Il qual
senso è dichiarato da S. Giovanni medesimo, dicendo egli in altro luogo:
« Annuntiamus vobis vitam aeternam, quae erat apud patrem, et
apparuit nobis (1) »: dove contrappone alla manifestazione del Verbo
il suo stato nascosto nel seno del Padre suo (2). S. Gregorio Magno, che
riconosce questa significazione delle parole dell' Evangelista, non dubita
di intendere nello stesso modo quelle parole di Elifaz nel libro di Giobbe:
« Ad me dictum est verbum absconditum (3) », e sarebbe veramente
rimasta nascosta a quell' amico di Giobbe la parola, in quanto che non
ebbe conosciuto il personaggio che gli parlava in quella notturna visione:
« Stetit quidam cujus non agnoscebam vultum (4) »; onde la persona
parlante gli rimase sconosciuta, e la parola dettagli non era appieno
conosciuta, rimanendo occulta la parola parlante; col veder la quale
avrebbe subitamente conosciuto che l' uomo non si poteva giustificare
in comparazione di Dio (5), perchè avrebbe veduto la purezza, la santità,
la perfezione di Dio stesso.
In queste parole il Verbo è il soggetto, e Dio è il predicato, come
si scorge dal testo (1), in modo che la costruzione naturale è questa: « « E
il Verbo era Dio »(2) ».
Il Verbo dunque, che era ab eterno, ed era appresso Dio, non poteva
essere che Dio egli stesso. Non trattasi adunque d' un verbo transeunte,
ma d' un Verbo permanente, necessario, che non può cessare
d' esser Verbo; non trattasi d' un verbo accidentale, ma sussistente per
sè, il quale, essendo appo Dio, doveva conseguentemente essere una
persona divina.
Abbiamo già osservato che la parola Dio esprime un supposito, una
persona, non l' idea astratta o essenza divina, come la parola Deità .
Quindi dicendosi « E il Verbo era Dio », si viene a dire « E il Verbo
era persona divina ».
Ma era stato detto altresì che « il Verbo era appo Dio », dunque
una persona divina era appo una persona divina: forza è dunque il dire
che queste persone divine, l' una delle quali sta appo l' altra, sieno due,
perocchè non si direbbe mai che la medesima stèsse appo se medesima,
nè ci sarebbe bisogno alcuno di dirlo.
Che se entrambi sono Dio, dunque hanno la stessa natura divina,
perocchè la natura divina non può essere che una, non può essere che
un solo Dio. Perocchè la Parola divina, quantunque indichi la deità nel
supposito, tuttavia indica la deità, la natura divina; dunque, benchè
il pronunciante il Verbo sia Dio, e il Verbo pronunciato sia Dio, tuttavia
non ne viene che sieno due Dii, ma un solo Dio essente in due persone.
Ora, posciachè nelle cose create non v' ha alcun esempio di più
persone nell' identica natura, egli è uopo dimostrare che ciò non involge
contraddizione. A tal fine convien ricorrere alla definizione della persona,
la quale è questa: « Un essere intelligente in quanto ha un principio
supremo ed incomunicabile si dice persona ». Posta questa definizione,
chiaramente si deduce che l' ente può essere il medesimo, e
tuttavia avere più principii supremi ed incomunicabili, cioè inconfusibili,
nel qual caso l' identico ente sussisterebbe in più persone. Ora
Iddio pronunciante il Verbo ed il Verbo pronunciato sono principii
supremi ed incomunicabili, cioè inconfusibili fra loro: quindi sono due
persone essenti nello stesso ente, nella stessa natura. Ma il Verbo è
appresso a chi lo pronuncia: Iddio dunque che pronuncia il Verbo è
una persona che ha una priorità causale ossia d' origine, in quanto è
quella che pronuncia il Verbo eternamente eguale a se stesso.
Nelle parole « E il Verbo era Dio » [...OMISSIS...] S. Giovanni
non pone l' articolo alla voce Dio perchè è costruito come predicato,
e quanto si costruisce come predicato non si usa di anteporre
l' articolo. Usata la parola Dio come predicato, ella dà alla clausola
questa sentenza: « E il Verbo aveva la natura divina », cioè la persona
del Verbo aveva la stessa natura divina che aveva quella che lo pronunciava.
Questo basta a rifiutare le sottigliezze vane degli Ariani, che dall' omissione
dell' articolo alla voce «Theos» volevano inferire che il Verbo
non era detto Dio nello stesso senso di Dio Padre (1). Si potrebbe forse
aggiungere che l' omissione dell' articolo nel luogo di S. Giovanni è anche
opportuna perchè non si confondesse la persona del Verbo colla
persona del Padre. Perocchè avendo detto che « il Verbo era appresso
Dio », [...OMISSIS...] con che voleva dire che era presso la persona del Padre,
se avesse poi detto che il Verbo era Dio coll' articolo «o Theos»; sarebbe
sembrato ch' egli fosse la stessa persona del Padre, cui nominò prima
appunto Dio coll' articolo «ton Theon».
In queste tre clausole adunque S. Giovanni disse che il Verbo era
ed era ab eterno; dopo disse dove era, cioè appresso il Padre; finalmente
disse più esplicitamente che cosa era, cioè Dio.
Qui Origene domanda perchè dicesse che cosa era il Verbo, dopo
aver detto quando era e dove era: e risponde che, essendo il Verbo per
origine presso Dio, conveniva prima dimostrare che egli era nel Padre
o presso il Padre, anzichè dire che il Verbo era Dio.
A cui noi soggiungeremo cosa, che o sarà uno svolgimento della
ragione arrecata da questo Padre della Chiesa, o sarà una ragione novella:
il che lasciamo definire ai lettori.
E` dunque da considerare che la parola Dio non basta a definire il
Verbo: perocchè quella parola, eziandio che esprima la natura divina
sussistente, epperò qual supposito o persona; tuttavia non determina
più una persona che l' altra, epperò conviene a tutte tre le persone
ugualmente. La terza clausola adunque di S. Giovanni non dichiara
pienamente che cosa sia la persona del Verbo, ma dichiara solamente
che cosa sia la sua natura. Ora che cosa sia la persona del Verbo è dichiarato
già fino dal cominciamento colla sola parola Verbo, dicendo:
« « In principio era il Verbo » », dimostrando che il Verbo come
persona è l' Iddio per sè noto, il principio della dottrina teologale cristiana,
la Verità sussistente; che perciò non ammette definizione, non
potendosi intendere nè spiegare con parole esteriori, ma solamente coll' interiore
lume della fede, col quale egli si manifesta immediatamente,
che poi esprimono con parole esteriori; e con queste venendo annunziato
agli uomini, questi assentendo per la grazia che gli illumina ad
intenderle, sono trasportati in una condizione soprannaturale in virtù
della stessa fede. L' Evangelista adunque annunziò prima di tutto la
persona del Verbo, come il primo noto nella dottrina cristiana; e poi
più esplicitamente ne espresse la natura dicendo che egli era Dio.
Le tre clausole fin qui riferite dell' Evangelista, secondo l' osservazione
dell' Aquinate, ribattono tre specie d' errori (1). La prima clausola:
« « Nel principio era il Verbo » », mostrandone l' eternità, ribatte
l' errore di Ebione e di Cerinto, i quali volevano che Gesù Cristo non
fosse preesistente alla Vergine, dalla quale avesse preso l' essere e il
cominciamento della durata, considerandolo essi come un puro uomo
che avesse poi meritata colle sue sante azioni la divinità. A' quali eretici
si fecero seguaci Fotino e Paolo di Samosata.
La seconda clausola: « « E il Verbo era appo Dio » », stabilendo la
distinzione delle persone del Verbo e di Dio che lo pronunzia, ribatte
l' errore di Sabellio, il quale ammetteva che Iddio, che aveva preso carne
dalla Vergine, non avesse avuto da questa principio e fosse eterno, ma
diceva che fosse lo stesso il Padre ed il Figliuolo, e che non era altra
la persona del Padre, che ab eterno era, dalla persona del Figliuolo che
s' era incarnato.
La terza clausola: « « E il Verbo era Dio » », ribatte l' errore di Eunomio,
il quale insegnava che il Figliuolo fosse al tutto dissimile dal Padre,
quando invece, secondo l' Evangelista, egli era Dio come il Padre.
Queste tre clausole onde incomincia S. Giovanni dimostrano l' altezza
di questo Evangelista sopra gli altri che lo hanno preceduto.
Perocchè, come S. Matteo «(cap. I) » narra l' umana generazione di Cristo,
così S. Giovanni narra come il Verbo fosse già nel principio, cioè da
tutta l' eternità; come S. Luca narra subito la manifestazione di Cristo
ai Pastori ed ai Magi (cap. II), così S. Giovanni narra com' egli stèsse ab
eterno appo Dio nascosto alle creature; come S. Marco lo descrive annunziante
agli uomini l' Evangelio del Regno di Cristo, così S. Giovanni
nella terza clausola annunzia che Cristo era Dio egli stesso.
Colle tre comme precedenti S. Giovanni ebbe data la dottrina del
Verbo eterno: qui comincia quella delle opere sue. Ma prima riepiloga
la dottrina data del Verbo essente nel seno di Dio che lo pronuncia, per
continuarsi a ragionare come esce alle opere sue ed alla sua manifestazione.
Questo epilogo è da lui fatto dicendo: « « Questo (cioè il Verbo)
era nel principio appo Dio » ».
Così dichiara Origene questo versetto con l' approvazione dell' Angelico,
di cui riferiremo qui le parole: « « Origene poi, molto bellamente
esponendo questa medesima clausola, dice: non esser ella qualche cosa
di nuovo diversa dalle tre prime, ma essere un cotale epilogo delle premesse.
Poichè, dopo avere l' Evangelista insinuata la verità dell' esser
del Figliuolo, dovendo passare ad insinuare la sua virtù, raccoglie sommariamente
epilogando nella quarta clausola ciò che aveva già detto nelle
tre prime. E innanzi tratto, dicendo questo, intende la terza clausola;
dicendo era nel principio, raccoglie la prima; soggiungendo poi era
appo Dio, raccoglie la seconda: onde così tu non intenda un altro Verbo
esser quello che era nel principio, ed un altro quello che era Dio; ma
questo stesso Verbo che era Dio, era nel principio appo Dio »(2) ».
Laonde, oltre che questa clausola riepiloga le tre prime e rannoda
il discorso con quello che deve venire appresso delle opere esteriori del
Verbo, giova altresì a indicare l' identità del Verbo che era in principio,
e che era appo Dio, e che era Dio. Il perchè S. Cirillo (3) trova appunto
opportuno questo riepilogo che fa l' Evangelista delle cose dette intorno
al Verbo a tagliare le vane sottigliezze degli Eunomiani, e di alcuni
Ariani, i quali dicevano altro essere il Verbo che era in principio appresso
Dio, ed altro quello pel quale furono create le cose. Perocchè,
lasciate le sole prime tre clausole, si poteva fisicare mettendo in dubbio
se si parlasse d' un Verbo solo o di più, e a quale di questi spettasse la
creazione del mondo.
S. Giovanni Crisostomo trova utile il riepilogo che fa l' Evangelista
delle tre prime clausole nella quarta, perocchè con questa è tolto ogni
dubbio che il Verbo, che era appo il Padre, fosse appo il Padre in principio,
cioè ab eterno (1).
Teofilatto osserva oltracciò che, dicendo che « « il Verbo era in principio
appo Dio » », viene l' Evangelista a dimostrare la perpetua concordia
e consenso di volontà fra il Verbo e Dio che lo pronuncia, dal quale non
è mai diviso (2).
Qui contrappone adunque l' Evangelista il Verbo, che era presso
Dio fin dal principio, alle creature che furono fatte per esso, e quindi
insegna, come osservò Leonzio, che il Verbo non è creatura, non è una
delle cose che furono fatte, ma quello pel quale furono fatte tutte quelle
che furono fatte (1).
Queste ultime parole del versetto di S. Giovanni, « « e senz' esso nè
pur una fu fatta di quelle che furono fatte » », tagliano affatto una delle
solite vane sottilità degli Ariani, i quali dicevano che tutte le cose furono
fatte pel Verbo, eccetto il Verbo stesso che fu fatto dal Padre.
Poichè, se si ripone il Verbo fra le cose fatte, non sarebbe più
vero quello che dice l' Evangelista che nè pur una delle cose fatte fu
fatta senza il Verbo (1). Oltrediciò, se il Verbo era già in principio appresso
il Padre, dunque non fu fatto, perocchè quello che è non ha
bisogno di esser fatto.
Queste medesime parole abbattono altresì l' errore di Origine che
disse lo Spirito Santo essere stato fatto dal Verbo, pel quale furon fatte
tutte le cose; errore che fu in appresso de' Macedoniani che professavano
lo Spirito Santo essere una creatura, e che S. Giovanni Crisostomo
e Teofilatto riconoscono posare sulla mala intelligenza di quelle parole:
« omnia per ipsum facta sunt », separandole da quelle altre che le limitano,
« et sine ipso factum est nihil quod factum est ». Onde S. Gregorio
Nazianzeno dice che questi eretici dovevano prima provare che lo Spirito
Santo fosse tra le cose fatte, il che non provano, e solo di poi avrebbero
potuto inferirne che egli dovesse esser fatto nel Verbo.
L' Evangelista, prima di passare alla creazione del mondo, dicendo
che tutte le cose che furon fatte, furon fatte pel Verbo, volle ripetere
che il Verbo era in principio appo Dio, quasi esordio alla dottrina della
creazione, acciocchè dicendo poi: « « Tutte le cose furon fatte per esso » »
non s' intendesse che furon fatte per esso quasi per un istrumento distaccato
da Dio Padre creatore.
L' essere il Verbo nel principio appo Dio Padre mostra la consustanzialità
col Padre quindi mostra che egli doveva avere un' operazione
creativa identica a quella del Padre. Con che son rase le cavillazioni
degli Ariani e di altri eretici (1).
Si dimanderà: Perchè adunque l' Evangelista preferì dire, che « tutte
le cose furon fatte per esso », al dire esso fece tutte le cose? Quale è qui
il proprio significato della parola per?
In prima è da considerare che, se l' Evangelista avesse detto egli
fece tutte le cose , avrebbe certamente parlato con proprietà, come parlò
con tutta verità e proprietà il salmista dicendo: « Initio tu, Domine, terram
fundasti et opera manuum tuarum sunt coeli (2) », che S. Paolo
interpreta di Cristo (3); ma sarebbe parso che il solo Verbo avesse creato
il mondo senza la compagnia del Padre: onde anche soggiunse « et sine
ipso factum est nihil quod factum est », dove la parola sine , o extra
com' altri interpretano, dimostra che non fu solo a creare, ma col Padre,
« apud Deum », come hanno osservato i Padri (4). Vero è che la particella
per, «dia», non sempre s' adopera a significare compagnia di cause, ma
semplicemente causa, come in questo luogo dell' Apostolo dove parla
del Padre: « Fidelis Deus per quem vocati estis in societatem filii ejus (1) ».
E per ciò appunto, giusta l' esposizione di Sant' Ilario, l' Evangelista aggiunse,
« et sine ipso factum est nihil quod factum est », a dichiarar meglio
che il Verbo operava in compagnia del Padre, o, come anco aveva detto,
« « appo il Padre » ». E tanto più riesce opportuna questa spiegazione che
aggiunse l' Evangelista, inquantochè il « factum est », essendo in forma
intransitiva, non indicava altra causa; laddove, qualora il per viene
soggiunto ad un verbo costrutto attivamente, non lascia dubbio sull' indicare
compagnia di causa, come in quel luogo dell' Apostolo « per quem
fecit et saecula (2) ». Dove apparisce che Dio Padre fece i secoli pel Figliuolo.
E quantunque tutto ciò dimostri l' opportunità di quell' aggiunta:
« et sine ipso factum est nihil quod factum est »; contuttociò non
è men vero quello che fu osservato da altri, essere consuetudine degli
Ebrei, si può dire degli Orientali, quello che dicono in modo affermativo,
dirlo di nuovo in modo negativo, come fa Isaia dove dice: « Omnia
quae in domo mea sunt viderunt: non fuit res quam non ostenderim
eis (3) »; e come fa pure Geremia dicendo: « Omne verbum, quodcumque
responderit mihi, indicabo vobis, nec celabo vos quidquam (4) »; ma ciò
non toglie che l' aggiunta in forma negativa, oltre il dare una maggior
forza di asseveranza al discorso e recidere ogni cavillo sul significato
di ciò che viene detto, non possa contenere qualche nuovo sentimento,
non possa aggiungere di quei concetti accessorii ed obliqui che sempre
si accompagnano al principale in ogni discorso e in ogni proposizione,
spesso anche nelle singole parole. Onde l' osservazione di S. Ilario su
questo luogo dell' Evangelista rimane egualmente solida.
Dicevamo dunque che la parola per nel luogo di S. Giovanni:
« omnia per ipsum facta sunt », ha valore di significare compagnia di causa,
quasi venga a dire: « Tutte le cose sono state fatte dal Padre pel Verbo »,
ma questa compagnia di causa, indicata anche da Cristo in quelle
parole: « « Pater usque modo operatur et ego operor »(5) », dee intendersi
non già come nelle cose umane dove le cause diverse, i diversi operanti
hanno diverse operazioni; ma dee intendersi in un modo tutto divino,
per modo che una ed identica sia l' operazione del Padre e del Verbo,
come una ed identica ne è la natura.
Anche qui, rispetto alla particella per, è da richiamarsi l' imperfezione
che ha il linguaggio umano, istituito a significare le cose create,
insufficiente ad esprimere adeguatamente le increate e divine che non
hanno esempio in quelle, onde conviene dare ai vocaboli, con cui si
esprimono le divine, un valore novello.
La particella per adunque fu istituita a significare o piuttosto indicare
il mezzo ad un fine. Ora, posciachè il mezzo alla esecuzione d' un
fine può variare di natura e di modo, quindi quella particella riceve
più significati. Il primo mezzo, affinchè una cosa sia, è la causa efficiente
della medesima, e questa talora si esprime con quella particella.
Ma in tal caso, la causa efficiente essendo quella che opera, quella particella
non si costruisce con un verbo attivo, perchè in un verbo così costruito
l' operante è già espresso nel nominativo, e non c' è più bisogno
di esprimersi colla particella per; ma il verbo si costruisce in un modo
intransitivo nel quale non essendo espresso l' operante si soggiunge poi
mediante la particella per, o da, o alcun' altra. In questo senso si può
dire egualmente: « Iddio fece il mondo », ovvero « il mondo fu fatto
da Dio o per Dio », cioè per mezzo di Dio causa efficiente del medesimo.
In questo senso la particella per conviene egualmente a tutte tre
le persone, potendosi dire: « il mondo fu fatto pel Verbo », egualmente
che pel Padre, o per lo Spirito Santo.
Nella maniera del pensare umano si distingue anche nelle cose
create sovente la forma dalla materia di cui sono composte, e della forma
si fa un elemento a parte astraendolo da' suppositi in cui si trova e
considerandoli come causa immediata del medesimo supposito. Quindi
il concetto tanto usato dagli antichi di causa formale . Acciocchè sia
naturale un dato supposito nelle cose corporee è necessario che abbia la
sua forma, quindi si considera questo come un mezzo alla sussistenza
di lui, e anche questa maniera di causa astratta si esprime usando la
particella per co' verbi intransitivi.
Lo stesso convien dirsi della causa materiale che si divide colla
mente dai suppositi che risultano da materia e da forma: e, quantunque
la materia sia un loro elemento e non una loro causa, tuttavia si riguarda
come un mezzo o condizione necessaria alla loro sussistenza. Si esprime
quindi anche questa causa materiale mediante la parola per co' verbi
intransitivi o passivi. Quindi si dice egualmente questa statua sussiste
per la sua forma, ovvero sussiste per la sua materia.
Ora in questi due ultimi significati la parola per non si può applicare
ad esprimere la creazione fatta da Dio, perchè Iddio non è nè la
forma, nè la materia dell' universo.
Nelle cose create oltracciò vi ha una subordinazione di cause. Ora
le cause seconde, fra le quali si annoverano le istrumentali, sono pure
mezzi all' ottenimento dell' effetto o del fine. Ma, perciocchè queste suppongono
la causa prima che è il principale agente, perciò non solo queste
possono significarsi colla particella per col verbo intransitivo o
passivo, ma ben anco col verbo attivo; nel qual caso il nominativo che
regge la costruzione esprime la causa principale, e la parola per esprime
la causa subordinata ed istrumentale . Così si dice che « il falegname
opera per l' ascia o per la pialla, lo scultore per lo scalpello, ecc. ». E se
si vuol costruire passivamente, in tal caso l' agente principale si mette
nel genitivo che esprime la causa della causa, come a ragion d' esempio:
« Questo scanno fu fatto per l' ascia e la sega del falegname; questa
statua fu scolpita per lo scalpello del tale autore », di maniera che le
due cause subordinate nell' uno e nell' altro modo vengono egualmente
espresse.
Non si può dare in alcun modo questo valore alla particella per nel
luogo di S. Giovanni ove dice del Verbo « « tutte le cose furon fatte per
esso » », perchè il Verbo non è una causa subordinata al Padre, ma ad
esso uguale; e perchè le cause subordinate hanno diversa natura e
diversa operazione, laddove il Verbo ha con Dio che lo pronuncia una
sola natura ed una sola operazione, benchè sieno due persone, dicendo
S. Giovanni che il Verbo, pel quale sono state fatte tutte le cose, è
« « appo Dio » », cioè consustanziale al Padre, come vedemmo.
Nelle cose create ancora si distingue il subbietto sostanziale dalle
sue potenze e virtù, e queste si considerano come mezzi alle sue operazioni
e agli effetti ch' egli produce: onde si dice, a ragion d' es., che « per
la mente l' uomo pensa », ovvero che « per la mente o per la scienza sua
l' uomo compone un libro ». Ma in Dio non v' ha distinzione alcuna reale
fra le potenze e virtù e l' essenza, non essendovi che la semplicissima
essenza che è Dio, e che opera tuttociò che fa Iddio. Onde non può
dirsi in questo senso « che Iddio fa tutto pel suo Verbo », intendendo
che il Verbo sia una parte, o una potenza, o una virtù speciale di Dio;
quand' anzi egli è Dio stesso, tutto quant' è nella divina essenza, la quale
opera.
Il dire poi che Iddio opera per la sua propria essenza non è un
parlare molto proprio, sembrando dal costrutto che Iddio operante sia
qualche cosa di diverso dalla sua essenza, ma non contiene errore quando
si intenda dire con quella maniera che Iddio « opera per se stesso ». E
quando si dice che Dio opera per la sua sapienza o per la sua virtù,
devesi intendere egualmente che Dio opera per la sua essenza, ossia per
se stesso, perchè la sapienza e la virtù di Dio è la stessa sua essenza,
senza alcuna reale distinzione.
Tuttavia se si considerano i vestigi della sapienza e della virtù di
Dio nelle sue opere esteriori, cioè nelle cose finite da lui create, vedesi
che, appunto perchè queste sono finite, non possono aver esaurita la
sua sapienza e la sua virtù. Quindi l' uomo argomenta col suo pensare
imperfetto e al tutto inadeguato, che Iddio nel produrre dal nulla il
mondo abbia adoperato una parte della sua sapienza e della sua virtù,
e distingue questa parte della sapienza e della virtù creatrice dalla totale
sapienza e virtù di Dio; mediante la qual distinzione crede di parlare
esattamente dicendo che Iddio creò il mondo per la sua sapienza e per
la sua virtù, distinguendo questa sapienza e virtù parziale e quantitativa
dalla totale ed infinita sapienza e virtù di Dio che è la sua essenza. Ma
questo è un pensare imperfetto, come dicevo, è un parlare inesatto; è
un pensare che dimostra la limitazione della mente umana. Perocchè la
distinzione che questa mente pone fra quella parte di sapienza e di
virtù divina che il Creatore adoperò nella fabbrica mondiale dalla sua
essenziale sapienza e virtù, non ha luogo se non relativamente al pensare
dell' uomo, nè è una parte di questa che è indivisibile, ma è tutta questa.
Onde più esattamente si deve dire che Iddio creando il mondo adoperò
tutta la sua sapienza e virtù, ma non totalmente, appunto perchè le creature
essendo finite non ammettevano in sè la comunicazione totale di
essa. Altro è dunque la sapienza e virtù adoperata nell' azione di Dio
creante, e questa è l' essenza di Dio semplice ed indivisibile, altra è la
sapienza comunicata alle creature, e questa è una sapienza sotto diversi
aspetti, limitata, distinta dall' essenza divina soltanto relativamente alle
creature che la concepiscono e la considerano astrattamente, ma tale però
che in Dio si rifonde nella stessa sapienza divina; nella quale, quello
che è per noi raggio, trovasi esser sole infinito senza potersi in questo
sole distinguere realmente il raggio da esso medesimo sole o luce illimitata.
Ma la sapienza essenziale di Dio non è il Verbo divino; ella è un
attributo che conviene egualmente a tutte e tre le divine persone, le
quali hanno una stessa ed identica natura ed essenza. Laonde quando,
dicendosi « che Iddio creò il mondo pel suo Verbo », s' intende dire che
creò il mondo per la sua sapienza essenziale, allora non si parla in senso
proprio, ma in senso, come dicono i teologi, appropriato, in quanto che
la sapienza si suole attribuire al Verbo, perchè il Verbo procede per via
d' intelletto e quindi vi ha una cotale affinità tra la sapienza ed il Verbo.
Onde S. Tommaso così s' esprime: « « Dicimus Christum Dei virtutem et
Dei sapientiam: ideo appropriate dicimus quod Pater omnia operatur
per Filium, id est per sapientiam suam. Et ideo dicit Augustinus quod
hoc quod dicitur: « Ex quo omnia »appropriatur Patri, « per quem
omnia »Filio, « in quo omnia »Spiritui Sancto (1) ».
Ma vi ha un significato di queste parole: « « Tutte le cose sono fatte
per esso » » che non è appropriato, ma proprio: e questo dobbiamo ora
noi cercare.
Noi abbiamo detto che il Verbo divino è la sussistenza dell' essere
nota per se stesso: esso è oggetto, ma non oggetto ideale come sono le
essenze delle cose finite, ma oggetto sussistente, e quindi ancora oggetto
che è ad un tempo soggetto ossia persona nella sua stessa oggettività in
quanto si sente e vive come oggetto e oggetto vivente.
Quindi sotto due aspetti noi possiamo considerarlo: 1 come oggetto
per essenza, che è quanto dire come luce; 2 e come sussistenza personale.
Questi due aspetti non si debbono prendere così, quasi che vogliamo
porre una distinzione reale nel Verbo, la quale non vi è, ma unicamente
come due riguardi della mente nostra, fondati in una doppia
relazione che hanno le creature con esso lui. Perocchè nelle creature si
distingue l' oggetto, che è l' essenza, dalla sussistenza che è la realità
delle medesime. In quanto dunque viene dal Verbo l' essenza delle cose,
in tanto si considera il Verbo come oggetto o luce primitiva; in quanto
poi viene dal Verbo come da causa la sussistenza delle cose, in tanto lo
si considera come sussistenza operativa e producente.
Se dunque si considera il Verbo come sussistenza e quindi anco
come virtù creatrice, egli ha la stessa sussistenza di numero e quindi
l' identica virtù creatrice del Padre che gliela comunica. Avendo dunque
l' essere dal Padre, e di conseguenza avendo dal Padre l' esser causa delle
cose, si può dire ch' egli è costituito causa delle cose pel Padre, cioè
per cagione del Padre che gli dà tutto l' essere medesimo di esso Padre.
Ma se il Verbo si considera come oggetto, cioè come l' essere luce,
l' essere per sè noto, in tale aspetto dicesi con tutta proprietà che il
Padre fa tutte le cose pel suo Verbo, come insegnano i dottori Agostino
e Tommaso, il quale ultimo dice: « « Ora se si considerano rettamente le
predette parole, Omnia per ipsum facta sunt, appare ad evidenza che
l' Evangelista ha parlato in un modo al sommo proprio ( propriissime
fuisse locutum ). Poichè chi fa qualche cosa, egli è uopo che prima la
concepisca nella sua sapienza, che è la forma e la ragione della cosa da
farsi, come la forma preconcepita nella mente dell' artefice è la ragione
dell' arca che sta per fare. Così adunque Iddio non fa nulla se non pel
concetto del suo intelletto, che è il Verbo di Dio e il Figlio di Dio; e
perciò egli è impossibile che faccia qualche cosa eccetto che pel Figlio.
Onde S. Agostino (1) dice che il Verbo è l' arte piena di tutte le ragioni
viventi, e così apparisce che tutte le cose che il Padre fa le fa per
esso »(2) ».
Sotto questo particolare aspetto di essere il Verbo l' oggetto per sè,
lo considerarono quelli autori i quali trassero la ragione del perchè egli
si chiami «logos», dall' essere egli la notizia del Padre, o dal contenere la
definizione, la ragione, il concetto, l' essenza ideale di tutte le cose,
«to eautu logo», cioè, definitione sua omnia complecti, come fra gli altri
si esprime Vittorino ne' libri contro Ario. E questo è il solo aspetto sotto
cui seppero considerarlo in qualche modo i Platonici, fra' quali Filone,
che di conseguente lo fa minore del Padre e lo chiama sempre «logos», non
mai «uios». Perocchè questi filosofi ignorarono sempre la personalità del
Verbo. I due aspetti, sotto cui noi diciamo doversi il Verbo considerare,
rendono appunto ragione della doppia appellazione che gli viene applicata
nelle Scritture, cioè di «logos» ragione, e «uios» figliuolo: giacchè quella
esprime l' oggettività, questa la personalità del Verbo, e questa doppia
appellazione è di conseguente una prova della verità di ciò che diciamo.
Così si conciliano le diverse opinioni dei Padri, alcuni de' quali, come
S. Cirillo (3) ed Eusebio (4), dicono il Verbo essere stato conosciuto da'
Platonici, laddove altri lo negano, come S. Girolamo che scrive del
Verbo appunto: « Hoc doctus Plato nescivit, hoc Demosthenes eloquens
ignoravit (5) ».
I platonici l' hanno in qualche modo conosciuto come oggetto , l' hanno
ignorato come persona; hanno conosciuto che non si poteva spiegare
la cognizione senza supporre che vi avesse un primo oggetto, un noto
per se stesso, una luce in cui tutte le cose si vedessero; ma hanno ignorato
che questo primo oggetto, termine d' ogni conoscimento, avesse
un' esistenza personale, e perciò fosse Dio. Il che non si può dire un
conoscere il Verbo, semplicemente parlando, e però la sentenza di S. Girolamo:
« Hoc doctus Plato nescivit, hoc Demosthenes eloquens ignoravit »,
è assolutamente vera. Tanto più che il Verbo platonico, l' oggetto essenziale
da loro ammesso, era un esemplare del mondo, ma non giunsero
neppure a conoscerlo come Iddio per sè cognito: dalla qual parte altresì
difetta la dottrina platonica. All' incontro S. Paolo espresse magnificamente
i due aspetti in cui conviene riguardarsi il Verbo in quelle parole:
« cum sit splendor gloriae et figura substantiae ejus (1) », nelle
quali il splendor gloriae si riferisce alla proprietà di oggetto, e il figura
substantiae alla sussistenza personale. E dice splendor gloriae , perchè
Iddio è tutto glorioso e magnifico a se stesso ed a quelli che lo conoscono,
onde basta che sia conosciuto per esser glorificato (quando la libera
volontà non si opponga negandogli questa gloria che nel suo concetto
risplende), e quindi Gesù Cristo disse: « Haec est vita aeterna ut cognoscant
te solum Deum verum, et quem misisti Jesum Christum (2) »,
nè altro volle Gesù Cristo se non far conoscere il Padre, perchè conoscerlo
veramente è un glorificarlo. Dice poi « figura substantiae ejus »,
invece di dire semplicemente substantia ejus, perchè la sostanza, o come
dice il greco «ypostasis» sussistenza, è comune a tutte e tre le persone, ma
nel Verbo è la sostanza nella figura, la sussistenza personale nell' oggetto,
il che è proprio del Verbo, perocchè la parola figura, in greco
carattere, [...OMISSIS...] , esprime la conoscibilità della cosa, ciò che fa conoscere
la cosa. Laonde, quantunque lo splendore della gloria si riferisca
più alla proprietà di essere oggetto , e il carattere della sussistenza divina
si riferisca più alla proprietà di essere una sussistente persona; tuttavia
l' espressione dell' Apostolo mantiene queste due cose indivise, indivise
essendo nel Verbo, e solo così indivise danno la vera notizia del Verbo
stesso. Nè manca alcunchè all' espressione dell' Apostolo, quantunque
non vi si esprima che il Verbo è anche l' esemplare del mondo, perchè
questo è già contenuto nella sua proprietà primordiale di essere la sussistenza
divina in forma di oggetto. Nè l' espressione « figura substantiae
ejus » è da credersi che escluda la sostanza, quasichè altro sia la figura
ed altra la sostanza. Perocchè è da riflettersi: 1 Che della sostanza
divina non v' ha rappresentazione adeguata fuori di lei; 2 Che, anche
in generale parlando, le sostanze non hanno figura o tipo diverso da
se stesse, qualora per sostanza s' intenda la sussistenza che è ciò che
v' ha di proprio nelle cose reali, onde conviene che se la prima sostanza
ha figura, cioè espressione, conoscibilità, questa sia ella medesima, non
entrando la sussistenza in alcuna idea che sia pura idea; 3 Che finalmente
l' espressione greca che dice il « carattere della sussistenza »
toglie ogni equivoco, perocchè il carattere di una cosa è nella cosa stessa,
ed alla cosa appartiene, onde il carattere pure della sussistenza divina
è nella sussistenza divina, e a questa appartiene. E poichè la sussistenza
divina è semplicissima ed è tutto Dio, perciò il suo carattere non può
esser altro che lei stessa, in quanto essa è per sè intelligibile, per sè
intesa.
Non basta adunque a dichiarare come il Padre operi la creazione
del mondo pel Verbo il considerar questo come oggetto ed esemplare.
Perocchè, quantunque sia vero che l' artefice, per esempio lo scultore,
faccia la statua pel concetto che ne ha nella mente, tuttavia non si può
già dire che il concetto stesso sia artefice e facitore della statua; conciossiachè
il concetto è una semplice regola secondo la quale opera lo
scultore, è puramente un' idea, è oggetto, ma non soggetto o persona
sussistente ed operante egli stesso. All' incontro il Verbo, oltre essere
per sè oggetto, e quindi contenere anche l' idea del mondo, oltre essere
idea dell' essere assoluto, è anche sussistenza, soggetto persona operante,
perchè ha la stessa natura del Padre.
Se dunque si considera che il Verbo è la sussistenza divina per sè
conosciuta, e conosciuta pienamente, perciò conosciuta in sè e in tutti
i modi nei quali può essere imitata dall' essere finito, perchè l' essere
racchiude questo nel suo concetto di poter sussistere in un modo assoluto
ed infinito e in un modo relativo e finito, allora s' intende che il Padre
opera tutto quello che opera al di fuori pel Verbo, non solo perchè in
questo vede le essenze delle cose finite, ma ben anco perchè queste
essenze hanno virtù di essere realizzate come quelle che esistono nella
sussistenza divina, senza distinzione da questa, purchè solo si aggiunga
la volontà della stessa sussistenza comune alle tre persone augustissime.
Ed essendo l' essere per sè amabile, anche in quanto sussiste limitatamente,
per l' analogia che ha coll' essere sussistente illimitatamente, perciò
questa volontà non può mancare per tutto l' essere limitato possibile,
possibile dico non fisicamente, ma logicamente e moralmente. E dicevamo
che l' essere conosciuto in modo limitato ha bisogno della volontà
divina per essere realizzato a cagione che egli non è necessario ma contingente,
cioè egli non ha la ragione della sua realizzazione nel proprio
concetto, ossia nella propria essenza. Di che la ragione del suo realizzamento
non può trovarsi che nella libera volontà del Creatore.
Il Padre dunque crea l' essere finito, cioè il fa sussistere amandolo,
che è quanto dire volendolo (1), e non lo ama se non dove lo conosce,
e lo conosce dove è conoscibile cioè nel Verbo, e perciò lo crea pel Verbo.
Ma perocchè il Verbo è la stessa sussistenza divina per sè nota e che ha
in sè le cose finite per sè note, perciò questa sussistenza del pari ama in
sè, e vuole le cose collo stesso amore e volontà del Padre. E poichè lo
Spirito Santo ha del pari la stessa identica sussistenza, in quanto è per
sè amata (ed è per sè amata in quanto è per sè nota), quindi anche lo
Spirito Santo crea colla stessa volontà creante delle due prime persone.
Ma perchè si dice piuttosto, che il Padre crea pel suo Verbo, anzichè
crea per lo Spirito Santo? Per una ragione analoga a quella per
la quale si dice che lo statuario fa la statua pel suo concetto e non pel suo
amore. In fatti l' amore muove lo statuario a fare la statua, ma il mezzo
col quale la fa è il concetto della sua mente, che dirige le sue mani nel
martellare il sasso e trarne l' opera da lui concepita. In un modo analogo,
come dicevo, il Padre, mosso certamente dall' amore essenziale, vede
nel suo concetto, cioè nel suo Verbo, l' essere finito e vedendolo lo crea.
Ma questo concetto del Padre non è, come quello dello statuario, una
pura idea, senza realità corrispondente, ma è un concetto sussistente
della sussistenza divina identica a quella del Padre; onde la sussistenza
divina creante crea le cose guardandole nell' oggetto, ossia nel Verbo,
che è la stessa sussistenza nella forma oggettiva. Onde si può dire che la
stessa sussistenza divina comune a tutte e tre le divine persone sia quella
che crea pel Verbo, che è ella stessa per sè nota.
Una qualche analogia di questo fatto della creazione, l' uomo lo
ha nella sua immaginazione intellettiva. Quando immagina un oggetto
corporeo, questo oggetto esiste solo relativamente all' uomo che lo immagina.
Supponiamo ora che quest' oggetto sussistesse anche relativamente
a se stesso: in tal caso quest' oggetto sarebbe creato. Ora tale è la potenza
della volontà divina, che, quand' ella vuole che sussista un ente finito
e relativo, lo immagina, dirò così, sussistente, e questa divina immaginazione
fa sì che l' oggetto esista non solo relativamente a Dio che lo
immagina, ma ben anco relativamente a se stesso e ad altri esseri, e
così sia creato. In fatto, se l' immaginazione, per usare questo termine
analogo, non può rappresentare un oggetto che a se stessa, ella è imperfetta;
non fa pienamente ciò che vorrebbe fare, perchè l' oggetto reale,
acciocchè sia veramente tale, dee sussistere a se stesso e agli altri enti a
cui ha per sua natura rapporto. Ma in Dio non può esservi imperfezione,
e ciò che vuole immaginare dee per conseguente essere pienamente
vero, dee essere l' oggetto che vuole immaginare. Ma non sarebbe
la verità, l' oggetto non sarebbe vero oggetto reale e sussistente, se non
sussistesse a se stesso e agli altri enti a' quali per sua essenza è legato.
Dunque Iddio conviene che abbia questa potenza d' immaginazione, che
quando si rappresenta un oggetto, questo veramente sussista a se stesso
e agli altri; e questo è creare.
Creare dunque è far sì che un oggetto veduto nella sua essenza ed
immaginato (l' immaginazione intellettiva è quella potenza che si sforza
di vedere un' essenza nella sua realizzazione) esista come soggetto (o
come esistente nei soggetti che lo possono percepire), esista relativamente
a sè (o a quei soggetti personali che lo possono percepire), perocchè
senza di questo l' oggetto non sarebbe realizzato, e quindi l' immaginazione
errerebbe, difetterebbe nel rappresentarselo tale; nè in Dio
può esistere errore, essendo essenzialmente verità e realità, nè può
cadere difetto di potenza e di operazione. Dunque, volendo egli rappresentarsi
un oggetto come realizzato, quest' oggetto dee esistere come soggetto
e persona, o se non è intellettivo dee esistere relativamente alle
persone che, secondo la propria natura, hanno virtù di percepirlo,
ovvero sia di sentirne l' efficacia sostanziale, il che è appunto creare.
Supponendo adunque che in Dio vi abbia una perfetta facoltà di immaginare
le cose, ossia di rappresentarsele realizzate, egli è giuoco forza
ammettere in lui la facoltà o potenza di creare.
Ma la realità d' un ente non si vede che nell' essenza, che è l' oggettività
della cosa, e l' essenza è contenuta nel Verbo che è l' essere come
oggetto: dunque la creazione si doveva fare pel Verbo e nel Verbo (1).
E quindi S. Paolo chiama Cristo « Dei virtutem et Dei sapientiam (2) ».
Nelle quali due parole sono indicate le due proprietà da noi distinte
nel Verbo divino. Poichè in quanto egli è sussistenza, lo chiama Dei
virtutem, in quanto egli è oggetto, lo chiama Dei sapientiam .
Dove è da notarsi che la parola sapienza riceve due significati,
come pure la parola scienza . Perocchè que' vocaboli si prendono talora
in un senso soggettivo, indicandosi l' abito della scienza e della sapienza,
il possesso soggettivo della notizia; e talora si prendono in un senso
oggettivo per l' oggetto stesso della scienza, per la notizia posseduta.
Ora se si prende la sapienza in un senso soggettivo, ella è comune a
tutte e tre le persone e s' attribuisce al Verbo soltanto in un senso appropriato .
Ma se ella si prende in un senso oggettivo, ella è propria del
Verbo, o piuttosto è il Verbo stesso, e in questo proprio significato il
Verbo è chiamato nelle divine scritture la Sapienza.
Simigliantemente la virtù o potenza divina presa in senso soggettivo
è comune a tutte e tre le divine persone. Ma, se si considera che
la potenza divina, colla quale Iddio crea, è la facoltà divina di rappresentarsi
l' essenza delle cose finite realizzata, la quale essenza è nel
Verbo; anche essa facoltà, come soggettiva che è, è ancora comune alle
tre persone divine, ma poichè l' essenza, e in questa la sua realizzazione,
giace nel Verbo, si dice che il Verbo è la virtù di Dio, perchè in esso
e per esso Iddio crea, ossia vede le cose sussistere.
Convien rammentarsi, ciò che abbiamo osservato,
la parola ebraica verbo, parola , [...OMISSIS...] usarsi dagli Ebrei a significare la
realità, che anche chiamano la verità delle cose. Quindi ogni parola di
Dio, ogni suo verbo dee essere pienamente vero, e però la cosa da Dio
pronunciata dee essere reale, quando la pronuncia come reale, altramente
non sarebbe vera. Indi è che quando Iddio pronuncia la propria
sussistenza, pronuncia un oggetto reale; per questo pronunciamento la
sussistenza divina è divenuta oggetto, e quest' oggetto non sarebbe appieno
vero se non fosse soggetto reale anzi persona. Egli dunque pronuncia
il suo Verbo, il quale è la stessa sussistenza divina divenuta oggetto (se
così lice esprimersi) pel pronunciamento di Dio che in quanto pronuncia
si chiama Padre. Non è dunque questo un pronunciamento sterile
come quello dell' uomo, il quale afferma le cose che sono quando le
percepisce; ma non può farne di nuove, e, se pronuncia come sussistente
cosa che non è, pronuncia il falso, perchè pronunciandola, la
cosa non si fa sussistere. Il che insegna S. Agostino con quelle parole:
« Proinde, tanquam se ipsum dicens, Pater genuit Verbum sibi aequale
per omnia » (anche nell' essere una persona). « Non enim se ipsum integre,
perfecteque dixisset, si aliquid minus, aut amplius esset in ejus Verbo
quam in se ipso (1) ». Ed indi il S. Dottore passa ad esporre la differenza
fra il verbo umano e deficiente, e il divino perfetto e compiuto.
La ragione di questa differenza fra il pronunciare dell' uomo e il
pronunciare di Dio, fra il verbo dell' uomo e il Verbo di Dio, consiste
in questo, che l' uomo è una partecipazione limitata di essere relativo,
che colla sua azione non può uscire dai limiti e dalla relatività dell' essere;
all' incontro Iddio è l' essere per se stesso, assoluto, infinito, onde
l' azione sua termina sempre all' essere, non è limitato all' essere relativo
o ad una porzione di essere, perchè ha tutto l' essere in se stesso; e però
qualunque essere pronunci, qualunque porzione di essere, la trova in
se stesso, senza uscire da sè, la rende sussistente, perchè non può mancargli
l' essere che pronuncia avendo tutto l' essere in tutti i suoi possibili
modi, alcuni de' quali possono mancare solamente se egli non gli
pronuncia; come accade degli esseri relativi non pronunciati, non creati
da Dio, i quali però tutti giacciono indistinti e senza l' individualità che
gli fa essere a se stessi (il che è un essere fuori di Dio) nell' abisso dell' essere
stesso.
Se noi consideriamo che l' essere divino è vivente e d' ogni parte
infinito, noi agevolmente intenderemo che se gli potesse mancare una
cosa sola di quelle che ama, egli cesserebbe d' esser tale, avrebbe una
limitazione. Or l' essere ama l' essere, e però l' essere amato non può
mancare. L' Essere ama se stesso, e però vuole se stesso: ma non potrebbe
amarsi se non fosse a sè cognito, ama dunque se stesso cognito.
Se stesso cognito ha un' anteriorità logica a se stesso amato: quindi il
Verbo ha un' anteriorità di origine (non già di tempo o di natura) allo
Spirito Santo. L' essere divino è per sè cognito perchè è per sè pronunciato
ossia generato come oggetto per sè cognito, e come tale soggetto,
persona. Ma nell' essere divino per sè cognito, cioè nel Verbo, sono cogniti
anche tutte le limitazioni possibili dell' essere, tutti i modi limitati
di essere, compresi nel concetto di essere. Ora, posciachè l' essere cognito
è per sè amato, quindi sono per sè amati anche tutti i possibili enti
finiti. Ma poichè la loro sussistenza, come limitata che è, si esclude
reciprocamente; quindi, sebbene ciascuno si possa realizzare, tuttavia
non tutti insieme. L' ordine dell' essere è anch' esso essere, perocchè
quest' ordine appartiene all' essenza dell' essere nella sua forma ideale
(1); il bene morale dell' essere è anch' esso essere appartenente alla
sua essenza nella forma morale. Dato dunque che Iddio ami e voglia
l' essere finito, consegue che egli lo voglia nella sua maggior quantità.
Ma questa esige che si calcoli anche l' ordine, cioè la connessione dell' essere
finito, e il bene suo morale ed eudemonologico, che è la forma
perfettiva dell' essere, alla quale è ordinato l' essere fisico, e l' ordine
o la connessione di lui. Dato dunque che Iddio amando tutto l' essere,
ami l' essere finito, egli non poteva moralmente parlando volere se non
la maggior somma di bene eudemonologico7morale nella minima quantità
di essere finito fisico, connesso fra sè nel miglior modo per l' ottenimento
di tale scopo, e questo è il mondo creato.
Amando dunque Iddio l' essere finito così concepito ed ordinato,
che nell' essere per sè noto è per sè noto anch' egli; non poteva essere
che per ciò stesso non avesse il suo realizzamento. Così la facoltà di
creare l' essere finito si prova necessaria alla perfezione dell' essere infinito,
perchè senz' esso non sarebbe d' ogni parte infinito, perchè amerebbe
una cosa che gli mancherebbe.
Quest' atto di volontà creatrice corrisponde agli atti della ragione
pratica, i quali consistono nell' adesione della propria energia all' ente
conosciuto. E` un atto dunque di ragione, ma non di una ragione semplicemente
speculativa, ma di una ragione piena alla quale il soggetto
unisce e quasi porta se stesso nell' oggetto conosciuto per realizzarlo.
E` un atto completo d' intendimento dove la volontà è identificata coll' intelletto,
mentre l' atto della ragione speculativa è un atto iniziale,
ricevente anzichè dante, che termina nell' ideale anzichè nel reale.
Iddio adunque crea con un atto d' intendimento perfetto e pratico,
ossia operativo, che ha in sè quello che corrisponde nell' uomo alla
volontà. Crea insomma colla sua parola, col suo Verbo.
Ma una delle differenze massime fra la generazione del Verbo e
la creazione si è questa, che genera il Verbo e poi lo ama, non già che
vi sia un prima e un poi di tempo nella divinità, ma solo un ordine
logico di relazioni. Poichè essendo il Verbo l' essere per sè noto, quindi
posto dal Padre per sè oggetto, l' essere non può essere amato prima
d' essere oggetto conosciuto. E però quantunque sia vero quello che dicono
alcuni teologi che il Padre genera il Verbo liberamente, cioè
senza essere a ciò mosso o costretto da cosa alcuna straniera, tuttavia
non lo genera volontariamente, ma necessariamente, perchè tale è la
natura divina, senza aver precedentemente un fine che il muova all' atto
della generazione. All' incontro nel Verbo generato, e quindi sussistente
come persona, Iddio vede l' essenza dell' essere finito, ed amandola e
volendola lo pronunzia sussistente, e così lo crea guardando nel Verbo.
Onde le creature si producono da Dio con un atto posteriore d' origine
alla generazione ed alla spirazione per cui è lo Spirito Santo, e posteriore
all' amor divino, quindi per un atto di libera volontà .
Iddio dunque crea le cose pronunciandole nel suo Verbo dove le
conosce, e quest' atto onde pronuncia le cose non è di tempo posteriore
al Verbo, perchè in Dio non vi è tempo, ma tutto si fa ivi nell' eternità
dell' essere divino, e tutto è fatto. Laonde è vero ciò che dice S. Anselmo,
che con uno stesso pronunciamento Iddio dice se stesso e le cose esteriori.
Ma conviene però intendersi, che rispetto all' origine il pronunciamento
delle cose esteriori è posteriore logicamente alla costituzione,
se così lice esprimersi, delle tre persone, e che questo pronunciamento
è fatto dalla natura divina comune a tutte e tre le persone, non dal solo
Padre, benchè l' oggetto di questo pronunciamento sia nel Verbo, in
cui le cose sono per sè note, e quindi nel Verbo e pel Verbo sono fatte.
Il Verbo dunque crea perchè ha la natura divina, è Dio; la natura
divina sussistente in tre persone crea pel Verbo, perocchè crea per l' essere
conosciuto, giacchè non potrebbe creare se non avesse presente
l' oggetto, l' essenza che dee creare; crea nel Verbo giacchè pronunciando
ciò che è per essenza in quest' oggetto, che è il Verbo, le cose acquistano
realità, sussistenza relativa a se stesse.
Quindi nelle divine scritture è frequente il dirsi che le cose sono
state fatte non solo pel Verbo ma ben anco nel Verbo. San Paolo lo
chiama primogenito di ogni creatura, « quoniam in ipso condita sunt
universa in coelis et in terra, visibilia et invisibilia (1) ». E lo chiama primogenito,
non perchè le creature sieno anch' esse generate in senso proprio
della parola, ma per la povertà della lingua greca che dice egualmente
generato e fatto, onde anche il primo libro del Pentateuco, in
cui si narra la creazione del mondo, si intitola in greco: « Della generazione »,
[...OMISSIS...] .
Un' altra ragione può addursi della denominazione di primogenito
data a Gesù Cristo da S. Paolo, ed è che la generazione, o si considera
nel suo principio, o nel suo termine. La generazione divina nel suo principio,
cioè nell' operazione stessa, è, come abbiamo veduto, un pronunciamento;
ora, rispetto al principio, con un pronunciamento di Dio
come intelligenza, fu egualmente generato il Verbo, e furono creati gli
enti finiti. Onde la generazione e la creazione sono simili nel loro principio,
cioè nel modo onde avvennero. Rispetto poi al termine, la generazione
importa che il generato riceva la stessa natura del generante,
onde si chiama Figliuolo, ed è in questo che si distingue il generare, che
è un comunicare la propria natura, dal creare che è produrre dal nulla
cosa d' altra natura. Una terza ragione ancora si può aggiungere se le
parole di S. Paolo s' intendono di Cristo, cioè non del solo Verbo ma
del Verbo incarnato, dell' umanità assunta dal Verbo. In questo senso
Cristo è il primogenito nell' ordine non delle cose naturali, ma delle
soprannaturali, perchè è il fine dell' universo, e il fine è il primo nella
mente dell' operante, perchè è il primo dei predestinati, e il principio
della predestinazione, e perchè anche gli altri uomini sono generati
soprannaturalmente da Dio, venendo adottati in figliuoli, perchè loro
si comunica Cristo e vive in essi Cristo e il suo spirito.
Nel Verbo divino adunque sono radicate e fondate universa in coelis
et in terra, perchè nel Verbo come in oggetto sussistente termina l' atto
interno della creazione, pel qual atto le cose esistono anche come soggetto
e persona relativa a se stessa, o come ciò che cade in tale persona
relativa la quale costituisce l' esistenza esterna e loro propria delle creature.
E così anche S. Paolo disse che « omnia per ipsum et in ipso
creata sunt, et ipse est ante omnes, et omnia in ipso constant (1) ». E
anche dice di Cristo medesimo: « portansque omnia verbo virtutis suae (2) »,
appunto perchè, essendo in lui create e radicate le cose, conseguentemente
le porta, cioè le conserva nell' essere loro; ed aggiunge che le porta
colla parola della sua virtù, per indicare che anch' egli il Verbo è creatore,
e non è solamente quello nel quale le cose sono fatte, ma quello
altresì che le fa unitamente al Padre ed allo Spirito Santo. Laonde,
essendo le cose create nel Verbo, si avvera appieno quello che in altra
circostanza dice S. Paolo di Dio, che « in ipso vivimus, et movemur et
sumus (3) », nel qual luogo si dice che noi stessi viviamo, noi stessi ci
moviamo, noi stessi siamo, con che viene indicata l' esistenza a noi relativa
e dirò così esterna, ma nello stesso tempo dice che viviamo, ci
moviamo e siamo in Dio, perchè nel Verbo siamo creati, benchè di questa
connessione nostra col Verbo noi non siamo consapevoli e però non
formi parte dell' esistenza nostra propria finita.
Noi siamo dunque relativamente a noi stessi ed alla nostra consapevolezza
fuori del Verbo, relativamente poi a Dio ed alla sua azione
creante nel Verbo. E poichè noi esprime una relazione soggettiva a noi
stessi, assolutamente parlando è vero che noi siamo fuori del Verbo;
ma se il noi esprimente il soggetto nostro si prende oggettivamente, in
tal caso è vero che noi soggetto, come oggetto reale, siamo nel Verbo.
Noi dunque in senso composto siamo fuori del Verbo, in senso diviso
siamo nel Verbo. E quindi in questo senso il Verbo è quella materia
invisa da cui dice il libro della Sapienza che furono create le cose tutte
dell' universo: [...OMISSIS...] ;
in questo senso il Verbo è quello in cui sono contenute quelle
cose invisibili, da cui, secondo S. Paolo gran dottore anche nell' Ebraismo,
furono cavate le visibili: [...OMISSIS...] .
Nel Verbo adunque,
che è l' oggetto sussistente, furono fatte le cose come oggetti sussistenti,
non solo ideali. Ma perciocchè queste cose relativamente a sè hanno
una soggettività, perciò nella loro esistenza propria, che è quella di
esistere come soggetti, o nei soggetti, esse stanno fuori del Verbo, e non
sono il Verbo, e non si mescolano punto col Verbo, il quale è assolutamente.
Onde S. Giovanni nell' Apocalisse, per indicare questa doppia
esistenza delle cose contingenti, adopera due parole: una erant, la quale
si riferisce alla loro sussistenza nel Verbo, dove Dio vedendole e volendole
le fece essere; l' altra creata sunt, la quale si riferisce alla sussisistenza
loro propria e soggettiva fuori al tutto del Verbo (3).
Che la creazione dell' Universo sia stata fatta nel Verbo è una verità
che fu annunziata in un modo iniziale e negativo fino al cominciamento
della rivelazione.
Il Verbo, secondo l' interpretazione di molti Padri, fu annunciato
come principio delle cose già nelle prime parole del Genesi: « « Nel principio
creò Iddio il cielo e la terra » ». E veramente Gesù Cristo disse
espressamente d' esser egli il principio, giacchè domandandogli gli Ebrei:
« « Tu chi sei? » », egli rispose: « « Il principio che anco parlo a voi »(1) ».
Il che è ripetuto da S. Giovanni nell' Apocalisse dove chiama Gesù Cristo:
« testis fidelis et verus qui est principium creaturae Dei (2) » nel qual
luogo il testis fidelis et verus si riferisce più al Verbo come oggetto,
cioè come quello che fa conoscere, e il principium creaturae Dei, più
al Verbo come sussistente ed efficace operatore. Se non che le due proprietà
non sono divise ma unite, giacchè dicendosi testis fidelis et verus
non si rappresenta il Verbo solamente come oggetto per sè noto, e lume
in astratto, ma come oggetto personale ed illuminatore, con che viene
indicato l' esser egli oggetto persona, e dicendosi principium creaturae
Dei non si esprime solo un' attività operante, perciocchè il Verbo è principio
delle creature tanto come oggetto, quanto come sussistenza, onde
quell' appellazione esprime una sussistenza7oggetto.
La sentenza del Genesi consuona con quella del Salmo: « Tu in principio
Domine, terram fundasti (3) », e da Origene è commentata in questo
modo: « Quod est omnium principium, nisi Dominus noster et Salvator
omnium Christus Jesus primogenitus omnis creaturae? In hoc ergo principio
suo, hoc est in Verbo suo, Deus coelum et terram fecit (4) ». S. Basilio
pure interpreta allo stesso modo la parola del Genesi, e chiama il
Verbo « artifex (5) ». Medesimamente S. Ambrogio: « In hoc ergo principio,
id est in Christo, fecit Deus coelum et terram (6) ». A cui consente S. Agostino:
« In hoc principio, Deus, fecisti coelum et terram, in Verbo tuo,
in Filio tuo, in virtute tua, in sapientia tua, in veritate tua (7) ». E lo
stesso S. Girolamo, nel libro delle tradizioni ebraiche sul Genesi, scrive:
« In capite libri scriptum est de me, id est in principio Geneseos (.) ».
S. Tommaso d' Aquino ragiona sottilmente di tutti i significati che può
ricevere la parola principio . Perocchè questa parola, di natura sua, ha
una significazione indeterminata e generica, la quale dal contesto si
determina variamente. « « Poichè, importando la parola principio un
cert' ordine ad altre cose, egli è uopo che si rinvenga un principio in
tutte quelle cose, nelle quali vi è un ordine »(4) ». Quindi vi è un principio
della quantità, come il principio de' numeri, il principio dell' estensione,
il principio del tempo, ecc.: vi è un principio nella scienza e
nelle discipline, vi ha un principio nella produzione e durazione delle
cose contingenti. Conviene adunque vedere come al Verbo convenga
l' appellazione di principio . A lui conviene quest' appellazione nel modo
più assoluto, tanto nell' ordine ideale quanto nell' ordine reale, tanto
nell' ordine della scienza quanto in quello della produzione e della durazione
delle cose create. Nell' ordine della scienza gli conviene nel modo
più assoluto, perchè egli è l' essere per sè noto e conseguentemente l' intelligibilità
stessa. Quindi egli è principio oggettivo del sapere a tutte
le intelligenze. E relativamente all' uomo ed alla scienza umana egli è
principio oggettivo della scienza umana sia naturale, sia soprannaturale.
Della scienza umana naturale egli è il principio remoto ed occulto,
perocchè il principio oggettivo della scienza naturale è l' idea dell' essere,
la quale, come pura idea che ella è, non è il Verbo, come dichiareremo
meglio più sotto, e però viene dal Verbo mostrata alle menti, senza però
ch' egli ancora mostri loro se stesso. Nell' ordine poi della scienza soprannaturale,
questa ha due quasi parti o modi: poichè ella, o è interna,
infusa per grazia mediante una comunicazione immediata del Verbo o
de' suoi doni; o è esterna, rivelata, insegnata colle parole e segni esteriori,
e questa propriamente è l' espressione e l' analisi della prima.
Rispetto adunque alla scienza soprannaturale interna il Verbo è il principio
prossimo, come nel tempo di grazia, nel quale si comunica personalmente,
o nel tempo antico della legge naturale e scritta, nel quale si
comunicava co' suoi doni, non ancora personalmente. Rispetto poi alla
scienza rivelata ed analizzata più o meno, secondo che vi s' aggiunge o
no il lavoro degli scienziati, anche qui si dee distinguere la scienza dell' antico
testamento da quella del nuovo: ed è da dire che rispetto alla
scienza dell' antico testamento il Verbo è principio, ma remoto, onde
l' imperfezione di quella; rispetto poi alla scienza perfetta del nuovo
testamento il Verbo è principio immediato. E parlando di questa S. Tommaso
distingue due maniere di principii: il principio della scienza
cristiana considerata in se stessa, e il principio relativamente al modo
nel quale l' apprendono gli uomini. E tanto l' uno che l' altro principio
è Cristo, ma in modo diverso: « secundum naturam quidem », dice il Santo
Dottore, « in disciplina Christiana, initium et principium sapientiae nostrae
est Christus, in quantum est sapientia et Verbum Dei, id est secundum
divinitatem. Quoad nos vero, principium est ipse Christus, in
quantum Verbum caro factum est, id est secundum ejus incarnationem
(1) ».
Venendo ora all' ordine della realità, cioè della produzione e della
durata delle cose create, S. Tommaso insegna che il Verbo è principio
delle cose in due modi, cioè perchè ne contiene la ragione, ossia l' essenza
ideale, e perchè effettivamente egli le fa essere sussistenti, « principium
est creaturarum (persona Filii) secundum rationem virtutis activae, et
per modum sapientiae quae est ratio eorum quae fiunt (2) ». E questi
sono appunto i due aspetti, sotto cui noi abbiamo detto doversi considerare
il Verbo, come oggetto , e come sussistente persona . I quali due
aspetti sono anche indicati in quelle parole che Cristo disse definendo
se stesso: « Principium, qui et loquor vobis (3) ». Quasi dicesse io, persona,
sono il principio pel quale e nel quale furono fatte tutte le cose, e sono
anche il principio della scienza, la quale ora io parlando comunico a
voi.
Ma io dicevo che l' aver Mosè annunziato il Verbo semplicemente
come principio non è ancora un annunziarlo espressamente come persona,
appunto perchè la parola principio ha un significato generico e
indeterminato, e non tutti i principii sono persone. Il concetto di principio
è uno degli elementi che si contengono nell' idea dell' essere, i quali
noi anco chiamiamo idee elementari, e l' idea non è ancora il Verbo,
benchè possa essere la base di una scienza negativa ed iniziale del Verbo
stesso.
Medesimamente nelle antiche scritture si legge che Iddio fece ogni
cosa « « nella sapienza »(4) », e che « in sermone ejus composita sunt
omnia (5) », il che significa certamente che tutte le cose furono fatte nel
Verbo. Ma v' è indicato il Verbo con vocaboli generali ed astratti come
sono quelli di sapienza e di sermone, i quali non esprimono ancora la
personalità del Verbo, perchè si possa indurnela per illazione, quando
pur la mente umana abbia tanta saldezza di logico ragionare.
Nelle antiche carte non è solo accennato che ogni cosa fu fatta nel
Verbo, ma altresì pel Verbo. Già Mosè, lo storico della Creazione, fa
che Iddio ordini il cielo e la terra colla sua parola: « « Disse Iddio: sia
fatta la luce, e la luce fu fatta »(1) », e così parimenti in tutte l' opere
delle sei giornate. Al che alludendo il salmista dice: « Verbo Domini coeli
firmati sunt et spiritu oris ejus omnis virtus eorum. Quoniam ipse dixit
et facta sunt, ipse mandavit et creata sunt (2) ».
Il Crisostomo osserva che S. Giovanni disse più con una sola parola,
« omnia per ipsum facta sunt », che non dicesse Mosè con molte (3); perchè
Mosè non fece menzione che delle cose sensibili, laddove S. Giovanni
abbracciò tutte non meno le sensibili che le insensibili. Il che è
vero pigliandosi il racconto di Mosè secondo quello che suonano a noi
le sue parole materialmente prese. Ma egli sembra indubitato che presso
gli Ebrei la parola cieli significasse anche le cose spirituali di cui i cieli
materiali erano l' emblema, il simbolo. Onde le Scritture attribuiscono
i cieli a Dio, la terra agli uomini (4), distinguendo gli Ebrei tre cieli:
l' uno quel degli uccelli, l' altro quel delle nubi, il terzo quel degli spiriti,
e di questo erano come simbolo i precedenti cieli visibili. Onde S. Paolo
disse che fu rapito al terzo cielo, che è l' ordine delle cose spirituali ed
insensibili (5), dove udì parole arcane che non può l' uomo esprimere,
mancando il linguaggio; e S. Pietro, parlando dell' eredità di Cristo,
dopo aver detto che è « « conservata ne' cieli » », spiega tosto il suo detto,
interpretando la parola cieli coll' altra che soggiunge « in vobis », cioè nelle
anime nostre (6); ed innumerabili luoghi della Scrittura provano il
medesimo. Laonde, quando Mosè disse: « « Nel principio Iddio creò i
cieli [...OMISSIS...] e la terra » », venne a dire universalmente: Iddio creò le
cose spirituali e le corporee, ovvero: Iddio creò le cose che appartengono
al cielo, l' universo angelico, e quelle che appartengono alla terra,
l' universo umano, tutte così abbracciandole; e indi lasciando i cieli
angelici, s' estende a narrare come fu ordinata la terra, cioè l' universo
dell' uomo, dove compariscono di nuovo i cieli visibili come parte dell' universo
della terra, cioè dell' uomo.
Mosè dunque prima narrò la creazione in generale in quelle parole:
« « Nel principio Iddio creò il cielo e la terra » », dove non si fa altra
distinzione che quella delle sostanze puramente spirituali, e delle sostanze
materiali o materiate; poichè in vero queste non potevano esistere
confuse nè pure nella prima creazione informe, come quelle che sono
separate d' essenza; di poi narra la seconda creazione, cioè l' ordinamento
dell' universo sensibile ed umano. - Ma qui si presenta alla
mente una questione. Alla prima creazione delle sostanze non assegna
tempo: cominciarono tutte ad essere in un istante, a cui si riferisce il
detto della Scrittura: « Qui vivit in aeternum creavit omnia simul (1) »;
alla seconda assegna sei distinte epoche. Della prima dice che le sostanze
spirituali, e materiali furono create nel principio, cioè nel Verbo ; la
seconda espone come fatta mediante la parola, pel Verbo di Dio. La
questione dunque che si offerisce al pensiero si è: « perchè la produzione
delle sostanze si dica fatta nel Verbo, il loro ordinamento pel
Verbo ». Tutto nelle carte ispirate è degno di essere perscrutato, perchè
niente è senza cagione. Onde dunque una tale proprietà e distinzione
di parlare?
Il Verbo, abbiamo detto, ha due proprietà indivisibili: d' essere
oggetto7persona, e d' essere persona7oggetto. Come persona, è operante,
in quanto è soggetto sussistente, colla stessa sussistenza divina comune
alle tre persone; come oggetto, è per sè intelligibile, e l' intelligibilità
contiene la ragione e la forma ideale delle cose. Ora nelle cose contingenti
la sussistenza è fuori dell' idea, ossia fuori della loro essenza
ideale: perciò l' essenza delle cose nell' idea non contiene la sussistenza.
La sussistenza dunque delle cose contingenti non può passare dal non
essere all' essere se non per un' azione creante, per la volontà creante,
senza che l' idea ancora le prescriva la forma, o l' ordine che dee avere.
All' incontro, quando si tratta di determinare la forma e l' ordine della
sussistenza, allora conviene ricorrere all' idea che la contiene come la
parte oggettivamente conoscibile della cosa, noi diremo brevemente come
intuibile. Egli è vero che non può stare la sussistenza limitata senza
una determinazione, una forma, un ordine; ma ciò non toglie che le due
cose non si possano distinguere col pensiero astraente, come due aspetti
della stessa cosa. E le distinse Cirillo Alessandrino, che rispondendo
agli Ariani, i quali dicevano che il Verbo avesse imparato l' arte di creare
dal Padre, fra le altre cose disse che il creare non è proprio dell' arte,
ma della potenza. Perocchè l' arte s' adopera nell' ordinare e conformare
la materia preesistente, ma il creare propriamente è un fare che la stessa
materia esista (1). Ora l' arte appartiene all' intelletto in quanto ne
contiene le regole, i tipi; laddove la potenza appartiene alla sussistenza.
Nondimeno altro è il mutare la forma e l' ordine che già deve avere una
materia preesistente, e questo non appartiene al creare; altro è il dare
quelle prime forme e quel qualunque ordine alla sostanza, senza il quale
nessuna materia, nessuna sostanza potrebbe esistere, e questo appartiene
alla creazione, perchè si tratta di quelle forme che vengono concreate
colla materia o colla sostanza delle cose; e di queste parla Mosè.
Se dunque la mera sussistenza non ha idea, non è determinata da alcuna
essenza ideale, da alcun oggetto intuibile, ma dal solo sentimento, procede
di conseguente ch' ella non viene prodotta sul tipo di alcuna idea,
non ha tipo; non è dunque per l' idea che esiste, ma è prodotta immediatamente
dall' agente. All' incontro ogni altra qualità, eccetto la sussistenza,
ogni ordine, determinazione od ordine della sussistenza, ha un
modo ideale di essere, è nell' idea compresa; quindi l' artefice ricorre
all' idea per formarla, e così si dice che la forma per «l' idea (2) ». La
sussistenza adunque, ogni sussistenza si riduce al Verbo come a principio,
in quanto il Verbo è sussistente, persona sussistente ed operante;
all' incontro ogni forma delle cose risplendente nell' idea si riduce al
Verbo come a principio in quanto il Verbo è oggetto, cioè per sè noto,
per sè intuibile. Iddio dunque creò la sussistenza delle cose contingenti
nel Verbo immediatamente, come sussistente; creò poi la forma e l' ordine
della sussistenza pel Verbo, come oggetto, che racchiude ogni regola,
ogni tipo, ogni forma, ogni ordine, sul quale come sopra esemplare
le sussistenze possano venire ordinate. Onde apparisce che quando si
tratta d' esprimere la creazione formata è maggior proprietà di parlare
il dire che fu fatta pel Verbo, come lo scultore fa la statua pel suo concetto.
Onde sembra potersi concludere che dicendosi le cose tutte fatte
pel Verbo, si viene a dire di più che dicendosi fatte nel Verbo, perocchè
quest' ultima maniera potrebbe restringersi a significare la creazione
informe e sostanziale, laddove la prima dice la creazione formata e
compiuta, come quando si legge: « qui fecisti omnia verbo tuo, et sapientia
tua constituisti hominem (3) », ovvero quando il Salmista dice: « Verbo
Domini coeli firmati sunt et spiritu oris ejus omnis virtus eorum. Ipse
dixit et facta sunt; ipse mandavit et creata sunt (4) », dove si parla di
tutta la creazione, tanto della parte materiale e sostanziale, quanto della
parte formale e accidentale, perocchè questa non sta senza quella, di
cui è il compimento. E però quantunque S. Giovanni, dicendo: « « Omnia
per ipsum facta sunt » », venga ad abbracciare ogni cosa creata ed ogni
modo e forma della medesima, tuttavia Origene, o un altro autore, osserva
che non istette a ciò contento, ma che nelle parole che soggiunse:
« « e senza di lui non fu fatta nè pure una cosa » », secondo la forza della
parola greca «choris autu», ci venne a dire altresì che tutte le cose sono
fatte nel Verbo. La quale interpretazione essendo lodata da S. Tommaso,
qui la recherò colle stesse parole dell' Angelico: [...OMISSIS...] .
Laonde S. Giovanni colle parole che dichiariamo espone ad
un tempo che tutte le cose sono fatte e conservate pel Verbo e nel Verbo.
Il Verbo adunque concorre alla creazione in due modi: concorre
a produrre la materia e in generale la sussistenza delle cose, come potenza
ossia come sussistenza divina; e concorre a produrre la forma, e in
generale l' ordinamento delle cose come arte, cioè come oggetto che fa
conoscere l' ordine dell' essere, ossia l' essere nel suo intrinseco ordine.
In quanto vi concorre come sussistenza divina, egli non è un agente
minore del Padre, come deliravano gli Ariani (1), ma uguale al Padre,
come quello che ha l' identica sussistenza, e però l' identica virtù del
Padre. Perocchè, dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] .
Nè può addursi in contrario la decisione del Concilio di
Sirmio, il quale, interpretando quelle parole: « Faciamus hominem ad
imaginem et similitudinem nostram (3) », le intende come dette dal Padre
al Figliuolo, e que' Padri dissero di conseguente che nella creazione
delle cose « « Filium obsecutum fuisse Patri »(4) », e colpiscono d' anatema
chi dicesse altramente. Perocchè era lontanissimo dalla mente di quel
Concilio il sottoporre al Padre il Figlio o farlo di lui inferiore: chè anzi
la decisione era pronunciata contro gli Ariani. E nel vero quel luogo del
Genesi è atto a confutare gli Ariani, al quale intento l' adoperò Cirillo
d' Alessandria, osservando che le parole: « « Facciamo l' uomo » » non sono
d' un superiore che comanda, ma d' un uguale che parla ad un uguale.
Perocchè, se avesse parlato comandando, avrebbe detto « Fate », e non
« « Facciamo »(5) ». Oltredichè quelle parole si possono altresì interpretare
di tutte e tre le divine persone, che a una sola voce, prendendo il consiglio
di far l' uomo, dicono: « « Facciamo l' uomo » », dove non v' ha distinzione
dall' una all' altra nell' opera che stanno per intraprendere, giacchè
tutte e tre si eccitano a far l' uomo: nol fa una sola, il fanno tutte e
tre; non vi coopera più l' una che l' altra, tutte egualmente: « « facciamo
l' uomo » »; il fanno ad una sola immagine e similitudine, « ad similitudinem
nostram », indicando così che una è la natura di tutte e tre, se tutt' e tre
danno una sola immagine e similitudine. In qual senso adunque si debbano
intendere le parole del citato Concilio, che dicono il Figliuolo nella
creazione avere assecondato il Padre? Non altro se non avere avuto dal
Padre colla natura la virtù creatrice, e però creare colla natura e colla
virtù ricevuta dal Padre, e identica a quella del Padre. Onde, secondo
alcuni scrittori (1), si può concepire una cotale officiosità fra le divine
persone, che non le rende punto l' una all' altra inferiore, e che si riducono
alle stesse relazioni per le quali sono persone distinte. Così il Figliuolo
conosce d' aver ricevuto dal Padre ogni cosa, e lo Spirito Santo
dal Padre e dal Figliuolo. Il Padre conosce d' aver dato ogni cosa al
Figliuolo ed allo Spirito Santo pel Figliuolo, ed ama se stesso nelle altre
persone. Ora il riconoscere d' avere ogni cosa dal Padre è nel Figliuolo
un cotal atto di giustizia e di gratitudine (se così si può dire); e il riconoscere
d' avere ogni cosa dal Padre e dal Figliuolo è un cotal atto di
gratitudine nello Spirito Santo. Ma più veramente e più propriamente
si dee dire, che tali offici scambievoli fra le divine persone si contengono
nello stesso Spirito Santo, che è la sussistenza divina per sè amata;
e quindi altro non vi è nella Triade eccetto le persone; benchè niente
vieti che come nel Verbo, secondo la limitata nostra intelligenza, distinguiamo
più proprietà, che però altro in sè non sono che la stessa semplicissima
persona del Figliuolo; così nello Spirito Santo distinguiamo
più uffici morali, non distinti realmente fra loro, anzi costituenti la sola
semplicissima persona dello Spirito Santo in un modo superiore alla
nostra intelligenza.
Ma dobbiamo altresì considerare il secondo modo nel quale il Verbo
concorre alla creazione, cioè dobbiamo considerare il Verbo, secondo
l' espressione di S. Agostino, come Arte, e noi diremo come oggetto assoluto
ed infinito.
A questo modo si riferiscono le parole di S. Tommaso di sopra da
noi riferite, e che qui porremo di nuovo sotto gli occhi del lettore. « « Ora
se si considerano rettamente » », dice l' Angelico nel suo commentario,
« « le parole predette: Tutte le cose sono fatte per esso , apparisce con
evidenza che l' Evangelista favellò propriissimamente. Perocchè chi fa
qualche cosa, conviene che prima la concepisca nella sua sapienza che
è la forma e la ragione della cosa che si fa, siccome la forma nella mente
dell' artefice è la ragione dell' arca che sta per fare. Così adunque Iddio
non fa nulla se non pel concetto del suo intelletto, il qual concetto è
la sapienza concepita ab eterno, cioè il Verbo di Dio, e il Figliuolo di
Dio; e però è impossibile che egli faccia qualche cosa se non pel Figlio.
Il perchè S. Agostino (1) dice che il Verbo è l' Arte piena di tutte le
ragioni viventi, e così apparisce che tutte le cose che fa il Padre, le fa
per esso » ».
Ora, le ragioni, le forme, i concetti delle cose non racchiudono,
come tali, la sussistenza delle cose contingenti, e però essi non somministrano
la sussistenza delle cose da crearsi, ma ne determinano le forme,
i limiti, l' ordine, e tutto ciò che cade nelle cose, eccetto la materia e
sussistenza. Quindi questo modo di creare riguarda la creazione formale
ed ordinativa, alla quale il Verbo presta l' esemplare al Padre.
Conviene ben ritenere che queste due maniere di creazione, che troviamo
distinte nella narrazione mosaica, non sono separate nel fatto,
perocchè, come abbiamo detto, la sussistenza delle cose contingenti non
può attuarsi senza qualche forma, senza limite ed ordine: onde l' atto
della creazione è un solo. Ma ciò non toglie che la mente nostra distingua
con verità in essa due effetti contemporanei e legati indivisibilmente
insieme: quello della sussistenza, e materia; e quello della sua forma.
Ora rispetto alla forma il Padre ed il suo Verbo con egual virtù
creano, ma non in egual modo (e lo stesso diremo in appresso del Santo
Spirito): perocchè essendo detto con proprietà, secondo l' Angelico, che
il Verbo è il concetto e l' arte, il Verbo somministra l' esemplare, e il
Padre crea, guardando in questo esemplare.
Nello stesso tempo è da dire, che inabitando e circuminsedendo
il Verbo nel Padre, il Padre ha in sè il Verbo, cioè la sussistenza per
sè nota, e però il Padre niente mutua dal Verbo in modo che non l' abbia
in se medesimo; e però ha in se medesimo anche l' esemplare delle cose
medesime, perchè ha in sè il Verbo, giacchè le persone sono indivisibili,
benchè, come persone, realmente distinte; di maniera che è un solo Dio
sussistente in tre persone, e se non sussistesse in tre persone non sarebbe
Dio. Onde, se il Padre, il Verbo, e lo Spirito Santo si separassero al
tutto fra loro, cesserebbero d' essere Dio, non essendovi un Dio Padre
separato da un Dio Verbo, nè un Dio Verbo separato da un Dio Spirito
Santo, nel qual caso sarebbero tre Iddii, il che è assurdo.
Nella creazione adunque della materia o della sussistenza tutte e
tre le persone concorrono con una identica virtù e nello stesso modo: perchè
questa creazione è dovuta alla sussistenza o natura divina comune
a tutte e tre le persone, e perciò si attribuisce al Padre come quello che
è sussistenza divina in quanto la comunica al Figliuolo, unitamente col
quale la comunica allo Spirito Santo. Nella creazione poi della forma,
tutte e tre concorrono con una uguale virtù a realizzarla, ma non nello
stesso modo a determinarla, perchè è il Verbo quello che ne contiene
il concetto, l' esemplare.
Finalmente nel fine, nella perfezione soprannaturale dell' universo,
che è la santità, tutte e tre le persone concorrono con una eguale virtù,
ma non nello stesso modo, perocchè lo Spirito Santo, che è l' essere per
sè amato, comunica l' amore soprannaturale agli uomini. Quindi si manifesta
la ragione perchè nell' Universo creato e nelle sue vicissitudini si
scorga non solo la onnipotenza di un Dio uno, ma ben anco i vestigi
di un Dio uno e trino, un ectipon dell' augustissima Trinità.
Ma giova che noi torniamo su quello che abbiamo detto della doppia
esistenza delle cose: nel Verbo divino, in cui esistono oggettivamente;
e in se stesse, a cui esistono soggettivamente. Questa doppia esistenza
spiega come l' atto creativo sia eterno e ab eterno fecondo, e come
nello stesso tempo le cose esistano nel tempo. Le cose create esistono nel
Verbo fino dall' eternità, nella quale è emesso l' atto creativo; ma esistono
nel tempo in se stesse fuori del Verbo. Perocchè il tempo è una
relazione subbiettiva delle cose fra loro, e però egli è concreato alle
cose, e nel Verbo non cade che come oggetto, non come al tempo soggiacesse
lo stesso soggetto Verbo.
Dell' eternità dell' atto creativo S. Agostino scrive [...OMISSIS...] .
E il venerabile Beda, il quale legge, Quod factum est in ipso vita
erat, intendendo quell' in ipso per in ipso Verbo, reca la stessa dottrina
in queste parole: [...OMISSIS...] .
E qui si vede altresì come a Dio sono presenti tutti i tempi e tutte
le cose, « et vocat ea quae non sunt tanquam ea quae sunt (3) »: poichè
nel Verbo divino sono ab eterno tutte le cose che egli crea, eziandio che
non sieno ancora a se stesse; sono nel loro fondamento che è il Verbo,
secondo l' espressione di S. Agostino: qui s' intende come abbia luogo
senza alcuna ripugnanza la previsione e la predestinazione divina.
Dopo avere parlato della creazione in generale e aver detto che
tutte le cose furono fatte pel Verbo e niente fuori del Verbo, l' Evangelista
discende a parlare in ispecie degli uomini, per salute dei quali egli
scrive l' Evangelio, e a dimostrare che cosa il Verbo ebbe fatto per essi,
o piuttosto che cosa è il Verbo per essi. Dichiara adunque colle indicate
parole qual sia l' intima costituzione della creatura intelligente umana
fatta pel Verbo.
E comincia a farci considerare che « « nel Verbo vi è vita » », che non
si tratta d' un verbo morto, ma di un Dio vivo, anzi di un Dio7vita, e
che egli è « « luce » », non trattandosi d' una vita puramente sensibile, ma
d' una vita intellettiva: e finalmente dice, che la vita che è nel Verbo
è luce agli uomini, dimostrando così come gli uomini sono costituiti
esseri intelligenti pel Verbo.
Le due parole vita e luce si riferiscono appunto a que' due aspetti
sotto i quali noi abbiamo detto doversi considerare il Verbo divino.
Perocchè la vita si riferisce al Verbo in quanto è sussistenza, e la luce
si riferisce al Verbo in quanto è oggetto, termine dell' intelletto vivente.
Ma, nello stesso tempo che S. Giovanni accenna questi due aspetti del
Verbo divino, mostra altresì la loro indivisibilità, perocchè dice che la
stessa vita del Verbo è la luce degli uomini, nè potrebbe esser luce agli
uomini se non fosse per sè luce; solo essendo luce per sè ed a sè, egli
poteva esser luce agli altri, e non solo agli uomini, ma ben anco a tutte
le intelligenze create; benchè l' Evangelista non faccia menzione che
degli uomini, come di quelli a cui il suo Vangelo era ordinato.
E qui deve osservarsi che nella generazione del Verbo la vita e la
luce tengono un altro ordine da quello che hanno nella creazione e formazione
dell' uomo. Perocchè la generazione si fa per un pronunciamento
intellettivo del Padre, col quale il Padre pronuncia la propria
sussistenza, e così questa diviene oggetto ossia luce. Ma questo pronunciamento
essendo pienissimo e completissimo, ha virtù di fare che
l' oggetto pronunciato sussista come soggetto ossia persona, e l' oggetto
vivente e sussistente è appunto il Verbo: di che il detto pronunciamento
si chiama generazione, perchè fa sussistere una persona che ha la stessa
sussistenza della pronunciante e generante. Laonde nell' eterna generazione
vi ha quest' ordine logico, secondo il nostro modo di vedere, che
prima e immediatamente sia l' oggetto ossia la luce, poi quell' oggetto
ossia luce sussista come vita, cioè come persona per sè vivente. All' incontro
nella creazione e formazione dell' uomo, questo riceve prima
(sempre parlandosi d' ordine logico e non cronologico) la vita, e poi
l' oggetto ossia la luce che lo renda intelligente, « quia lux non nisi viventi
attribui potest », come dice l' Angelico (1).
L' oggetto adunque vivente è la persona del Verbo. Dove è da considerare
che la parola vita esprime quell' atto in un modo oggettivo,
laddove se l' Evangelista avesse detto semplicemente il Verbo vivente,
avrebbe espresso il vivere in un modo solamente soggettivo. Il Verbo
dunque ha vita, prendendo questa parola come oggetto, come essenza,
come essenza vivente; di maniera che il soggetto vivente è l' oggetto vita,
o l' essenza vita in lui dimorante; o anche, viceversa, la vita come essenza,
come oggetto, è soggetto vivente. Se l' oggetto fosse rimasto solo oggetto,
egli non sarebbe stato più che un' idea; ma ricevendo la vita, la
stessa vita essenziale a Dio, divenne persona, la persona del Verbo.
Quindi egli stesso dichiarò il modo della propria generazione eterna
quando disse: « « Siccome il Padre ha vita in se stesso, così diede anche
al Figliuolo avere vita in se stesso »(1) ». E dice « in se stesso »pronome
personale, quasi venga a dire nella propria persona, indicando così che
la persona non è divisa dalla vita, ma questa vita è nella persona stessa.
Ma perchè l' Evangelista dice, che « « nel Verbo era vita » », e non dice
piuttosto, che il Verbo stesso era vita? Conviene ben considerare, che la
parola vita esprime un modo di essere astrattamente, secondo il nostro
parlare umano, da cui viene il significato di quella parola, di maniera
che la parola vita non indica per sè alcun soggetto, alcuna persona. Ritenendo
adunque la proprietà del parlare, non si poteva dire che la vita
fosse la persona, ma si doveva dire che la persona avesse la vita in se
stessa, o che la vita fosse nella persona. In fatti la vita esprime una
proprietà comune di tutti i soggetti, i quali tutti appunto perchè soggetti
hanno vita; ma per sè la parola vita non esprime più un soggetto che
l' altro, anzi nessun soggetto, come dicevamo, ma una proprietà o condizione
del soggetto. Non già che nel Verbo vi abbia distinzione reale
fra la sua vita e la sua persona, ma noi siamo obbligati a porre una
distinzione di concetto fra queste due cose, atteso l' imperfezione del
nostro parlare astratto, nel quale la mente divide delle cose che sono in
natura unite.
Nè vale il dire che Cristo disse anco: « « io sono la via, la verità e
la vita »(2) »; perocchè in questo luogo non dice di essere la vita in se
stesso, ma relativamente agli uomini, pei quali è anche la via di pervenire
al loro beato fine, contenendo in sè tutta la legge morale, che è
appunto la via che conduce alla beatitudine. Il che si vede dal contesto,
perocchè risponde a Tommaso, che gli avea dimandato: « « Signore, non
sappiamo dove tu vai; e come possiamo sapere la via? » », e dopo aver
detto: « « Io sono la via, e la verità e la vita » », soggiunge: « « Niuno viene
al Padre se non per me »(3) ». E nel testo greco in queste parole vi ha
l' articolo premesso alla parola vita «e zoe», laddove nelle parole di S. Giovanni:
« « in esso era vita » » manca l' articolo «en auto zoe»; il che indica
che nel primo luogo si parla d' una vita determinata, cioè di quella degli
uomini, laddove in questo si dice semplicemente che il Verbo non è per
avventura cosa morta, ma avente la vita. E non dicendosi che « nel
Verbo era la vita »ma che « « nel Verbo era vita » », non v' ha pericolo
che s' intenda forse ch' egli solo il Verbo possieda la vita, e non il Padre
o lo Spirito Santo. Perocchè, dicendosi che nel Verbo era vita, niente
impedisce che sia vita anche nell' altre due persone, onde l' omissione
dell' articolo sembra meglio indicare la comunione della vita, che hanno
le tre persone augustissime. E così ogni qual volta le Scritture parlano
della vita che il Verbo ha in se stesso, e non rispetto a noi, omettono
l' articolo, come nel testo citato di sopra [...OMISSIS...] ;
e quando parlano
della vita rispetto a noi, lo pongono, come: « « Io sono la risurrezione e
la vita »(2) ». Dicendo dunque l' Evangelista che nel Verbo era vita, viene
a dire che il Verbo di Dio non è, come il verbo dell' uomo, sterile e non
sussistente in se stesso, un atto, un accidente dell' uomo stesso; ma che
il Verbo stesso aveva in sè vita, ossia viva sussistenza. Di che poi avveniva
ch' egli, avendo in sè vita, potesse comunicare della sua vita
anche a noi.
Ma prima di passare a vedere come il Verbo sia vita a noi, conviene
che meditiamo più addentro, come in lui sia vita.
Che cosa è la vita? - La vita è il sentimento: dove non vi ha sentimento
di sorte alcuna non vi ha vita. Pure, quando il sentimento è
prodotto, anche l' incessante produzione del sentimento si chiama vita,
e allora si distingue la vita dal sentimento; ma anco presa la vita in
questa significazione, il significato d' una tale parola ha una relazione
essenziale col sentimento, sicchè può dirsi che il sentimento sia la vita in
atto, e la sua produzione la vita in potenza. Laonde abusivamente si dice
che le piante vivono, qualora non si voglia attribuir loro qualche sentimento.
Ma gli uomini, non solendo attribuire alle piante sentimento,
attribuiscono loro nondimeno la vita per un' analogia con ciò che osservano
avvenire negli animali, ne' quali la vegetazione è riproduttiva del
sentimento, e però dicesi vita.
Ora nelle piante vi ha pure vegetazione, e per questo si suol dire
che vivano, benchè quella vegetazione, nella opinione comune, non produca
nelle piante alcun sentimento. Ma fra ciò che sente e ciò che non
sente vi ha differenza specifica, e però la parola vita applicata alle piante
ha un significato specificamente diverso dalla parola vita applicata agli
animali; quella della pura vegetazione, che non va a finire in alcun sentimento;
è vita in senso analogico e traslato, non è vita in senso proprio,
non è vera vita.
La vita dunque in senso proprio e completo è il sentimento.
Ora è da osservare che la vita, cioè il sentimento, viene all' uomo
dal di fuori, e non la ha in se stesso. E di vero la vita animale è suscitata
dal termine corporeo: l' anima non è che il principio senziente; se
non avesse il termine sentito, ella nè sentirebbe, nè sarebbe principio
d' alcun sentimento, nè per conseguente sarebbe. Dunque l' uomo non
ha la vita in se stesso.
Anche nell' ordine intellettuale vi ha un sentimento, e però una
vita. Ma se si considera l' uomo come essere intellettivo, e come egli è
costruito tale, primieramente si scuopre ch' egli non potrebbe ricevere
l' intelligenza se non avesse prima la vita animale, quia lux nonnisi
viventi attribui potest; in secondo luogo anche l' intelligenza egli la riceve
dal di fuori, cioè dall' essere ideale, che gli sta presente come oggetto
che lo informa, e così lo rende intelligente. Onde l' uomo, la persona
umana, non ha neppur la vita intellettiva in se stessa, ma le viene comunicata
da qualche cosa che non è lei, e che a lei manifestandosi si
costituisce sua forma.
Non è così del Verbo divino, dice S. Giovanni, perocchè « « in esso
medesimo è vita » ». Poichè « « siccome il Padre ha in se stesso vita, così
egli diede anche al Figliuolo avere vita in se stesso » ». Nella persona del
Verbo dunque è vita, è sentimento: non si può distinguere in tal persona
il principio dal termine della vita: questo termine non vien dato
al principio vivente dal di fuori, non è cosa di natura diversa e straniera
al principio vivente; ma la vita, il sentimento è nello stesso principio
vivente.
Consegue da questo che alla persona del Verbo la vita è essenziale,
come a quella del Padre e dello Spirito Santo. Di che si scorge che una
tal persona è immortale ed eterna, perchè niente può sottrarle la vita e
così distruggerla. All' uomo può esser sottratto il termine del sentimento
animale, e così può perdere la vita; all' anima separata può esser sottratto
l' essere ideale, suo oggetto informante, da quella stessa potenza che
glielo dà, e così verrebbe annichilata, perchè non esisterebbe più un
principio intelligente. Ma se l' anima non avesse bisogno della materia
e dell' idea dell' essere per vivere della sua doppia vita sensibile e intelligibile,
essa non potrebbe nè morire, nè essere annichilata, perchè sarebbe
assoluta signora della sua propria vita. Ora S. Giovanni ci dice, che
questo appunto accade del Verbo, dicendoci che in esso stesso è vita,
e che perciò non ha una vita mutuale, o dipendente da qualche cosa di
straniero a se stesso.
La vita dunque è nella stessa persona del Verbo, non le viene data
da un termine d' altra natura di essa, e però ad essa straniera come
nell' uomo, in cui per conseguente la persona è distinta realmente dalla
natura.
Da ciò consegue che la vita del Verbo dee essere una vita illimitata
altresì, infinita, pienissima. Perocchè in tutti quei soggetti ai quali viene
costituita da termini di natura distinta da essi, e sono tutti affatto i
soggetti creati, onde accade che la vita sia limitata? La limitazione della
loro vita viene dalla limitazione del loro termine vitale, il quale non
dipende da essi, ma essi lo ricevono quale loro vien dato. Ma nella persona
divina questo termine non è fuori di lei, non è d' una natura da
lei distinta o separata, non vi ha una potenza straniera che glielo dia,
e in dandoglielo possa limitarlo: non vi ha dunque alcuna cagione di
limitazione, come nelle persone, o più generalmente ne' soggetti creati.
Nel Verbo dunque vi ha vita senza possibilità di limitazione, vita pura,
quindi vita infinita senza gradazione, tutto ciò che può esprimere la
parola vita, l' essenza della vita realizzata ed ultimata. Lo stesso si raccoglie
quando si considera quello che di sopra ha detto l' Evangelista
che « « il Verbo era Dio » »: se dunque egli è Dio, deve avere una vita infinita:
se è Dio, e la vita è nel Verbo, conviene che la vita del Verbo sia
in Dio, e perocchè in Dio non v' ha nulla di finito, conviene che la vita
non sia finita; perciocchè in Dio non v' ha nulla che non sia Dio, conviene
che la vita stessa del Verbo sia Dio, sia la divina natura e sussistenza.
Questa natura dunque, questa sussistenza divina è vita, è sentimento:
infinito sentimento, che accoglie tuttociò a cui può estendersi
il significato di questa parola.
E che la vita, che è nel Verbo, sia la stessa sussistenza divina che
il Padre comunica al Figliuolo in generandolo, scorgesi in quelle parole:
« « Siccome il Padre ha vita in se stesso, così diede anche al Figliuolo
avere vita in se stesso » ». Parlasi dunque d' una vita comune al Padre ed
al Figliuolo, o piuttosto parlasi di vita puramente. Ora vita esprime
un' unica essenza: l' essenza è unica e non più, benchè molti possano
essere i soggetti che variamente partecipano della realizzazione d' un' essenza.
Se dunque la vita, come essenza (qual viene espressa nell' idea
della vita), è semplice ed una, e se in Dio l' essenza stessa è realizzata:
dunque convien dire che la vita che è nel Figliuolo non possa essere
altra se non quella stessa numericamente che è nel Padre, la quale è
la stessa sussistenza o natura divina.
Ma, come dicevamo innanzi, le specie della vita che si ravvisano
nelle creature sono diverse, e ciascuna ha i suoi gradi. Se dunque consideriamo
la vita nell' uomo, preso semplicemente nell' ordine naturale,
noi troviamo in lui tre specie di vita. Perocchè troviamo primieramente
la vita animale, che consiste nel sentimento animale, che dà vita al
principio senziente. Questa vita è unicamente soggettiva, perocchè non
ha alcun oggetto nel quale si compiaccia, giacchè l' oggetto è il termine
del solo intendimento. In secondo luogo vi ha la vita intellettiva o razionale,
che consiste nel sentimento intellettivo che nasce al contemplare
la verità e la bellezza, o si rinviene nella ricerca e nel possesso della
scienza. Questa è vita oggettiva, perchè si compiace dell' oggetto conosciuto;
e questa vita nella presente condizione s' innesta sulla prima,
giacchè nell' uomo logicamente precede l' animalità, che lo costituisce
soggetto, all' intellettualità che lo costituisce persona. Finalmente vi ha
la vita morale, la quale consiste nel sentimento morale, cioè nella copia
di que' diletti che produce all' uomo la virtù da lui praticata.
Ora non potendo noi ragionare di Dio se non secondo l' analogia di
ciò che osserviamo in noi, opere sue, dove ha certamente impressi i
vestigi di se stesso, dobbiamo anche in Dio riconoscere qualche cosa
di analogo alla triplice vita che noi sperimentiamo nella nostra natura.
E però anche in Dio dobbiamo riconoscere qualche cosa d' analogo al
puro sentimento soggettivo, anteriore logicamente all' oggetto, benchè
senz' alcun termine materiale; questo lo chiameremo sentimento semplice
perchè non ha oggetto nè termine: qualche cosa d' analogo al sentimento
oggettivo che nasce alla contemplazione o veduta dell' oggetto:
qualche cosa di analogo al sentimento morale che sorge dalla perfetta
consensione del soggetto, come volontà, all' oggetto totale, cioè all' essere
completo conosciuto.
Ora è da vedersi ciò che in questa triplice vita divina è proprio
della divina natura, e però identico a ciascuna delle tre divine persone;
come tuttavia per appropriazione si attribuisca piuttosto una che l' altra
di queste vite a ciascuna delle divine persone; e finalmente se v' ha
qualche cosa di proprio alle singole persone.
Il principio senziente ed il sentimento esprimono concetti diversi.
Ora egli è fuori di dubbio che appartiene all' essenza divina il triplice
sentimento e la triplice vita, di cui abbiam favellato. Per appropriazione
poi il sentimento semplice, ossia la vita reale, si può attribuire al Padre;
il sentimento intellettivo, ossia la vita intellettiva, al Figliuolo; e il
sentimento morale, ossia la vita morale, allo Spirito Santo: e ciò perchè
ciascuna persona concorre in una sua propria maniera a porre in atto
tali maniere di vita e di sentimento. Perocchè conviene ben considerare
che l' essenza divina non è realmente distinta da ciascuna persona,
di maniera che ella non sarebbe se non fossero le persone; e non è che
nelle persone, e in tutte tre simultaneamente e identica, di guisa che
sarebbe assurdo il concepirla in uno o in due, e non nell' altra o nell' altre.
Onde, quantunque si dica che le persone concorrono a costituire
sotto un qualche rispetto l' essenza vivente, non si vuol con ciò
dire che l' essenza dipenda dalle persone, nè le persone dall' essenza, non
potendo cadere in Dio dipendenza alcuna; ma solo una priorità e una
posteriorità logica, secondo il nostro modo limitato di pensare.
Dobbiamo dunque vedere come ciascuna persona divina concorra
per sua parte a costituire una delle tre vite da noi distinte nell' Essere
divino, e questo concorso è appunto ciò che è proprio e non appropriato
alle singole persone.
Il sentimento semplice primieramente, ossia la vita reale, si concepisce
da noi anteriormente ad ogni oggetto e ad ogni atto intellettivo, e
perciò si concepisce anteriormente in ordine logico alla generazione del
Verbo, si concepisce come proprio dell' essenza, astrazione fatta dalle
persone. Ma questa essenza reale e vivente di semplice sentimento è
comunicata ad un' altra persona, cioè al Verbo: e quindi le due persone
del Padre e del Figliuolo. Il Padre è l' essenza vivente, in quanto
pronunciando se stessa rendesi oggetto, ed oggetto sussistente e personale;
e il Figliuolo è l' oggetto stesso, la stessa sussistenza, divenuta oggetto
e persona ad un tratto.
Supponendo ora quest' oggetto7persona, forz' è che nella stessa essenza
divina, e quindi tanto nel Padre quanto nel Figliuolo, esista il sentimento
intellettuale cioè un' infinita compiacenza della verità essenziale,
e della bellezza essenziale, e della sapienza: perocchè l' oggetto7essere è
verità essenziale, e l' ordine intrinseco di questo oggetto7essere è la bellezza
essenziale, e la notizia di quest' oggetto è la sapienza essenziale.
Dunque, dato quest' oggetto, cioè generato qual persona dal Padre,
conviene che tutte e due le persone godano di quest' oggetto e si compiacciano
in Lui, il che costituisce l' infinito sentimento intellettuale; e
che questo sentimento identico, in quanto appartiene al Padre abbia il
suo oggetto nel Figliuolo, e in quanto appartiene alla persona del Figliuolo
abbia il suo oggetto in se stesso; di maniera che questo sentimento
è appropriato al Figliuolo, perchè è proprio del Figliuolo il somministrarne
l' oggetto od il termine il quale è egli medesimo.
Il sentimento intellettivo è una contemplazione gaudiosa della verità,
della bellezza, della sapienza, e suppone un oggetto; onde si dice
sentimento oggettivo. Nell' uomo vi ha una contemplazione puramente
teorica, perchè la verità, la bellezza, la sapienza si manifestano a lui
come oggetti puri, cioè idealmente. Ma l' oggetto del sentimento intellettuale
divino non è puro oggetto, è nello stesso tempo personal sussistenza.
Quindi in Dio non si può dare un sentimento puramente teoretico,
ma dee essere anche pratico, cioè di volontaria adesione, e
compiacente affetto nella persona che è in pari tempo essenzialmente
oggetto. Questa sussistenza, come è per sè intelligibile ond' è anco oggetto
inteso e persona, così è per sè amabile nella sua intelligibilità, onde è
anco per sè amata. Il Padre che pronuncia il Verbo, cioè la sussistenza,
e così la genera oggetto7persona, la ama altresì come essenzialmente
amabile e così è essenzialmente amata; e questa sussistenza, in quanto
è essenzialmente amata, è spirata persona, la qual si dice lo Spirito Santo.
Onde l' oggetto7persona, in quant' è amata, colla spirazione del Padre
è un' altra persona che sente se stessa nella forma di amata. Così il Padre
spira lo Spirito Santo pel Verbo, perocchè nel Verbo ama la sussistenza,
dove termina l' atto conoscitivo e generativo; perocchè la sussistenza divina
non potrebbe essere amata se il Padre non l' amasse, nè il Padre
potrebbe amarla se non la conoscesse e pronunciasse come oggetto7persona
Verbo. Ma lo Spirito Santo procede non solo dal Padre pel Verbo,
ma anco dal Padre e dal Verbo con una sola spirazione; perocchè è la
sussistenza divina comune al Padre ed al Verbo, ed essente nell' uno
e nell' altro, che amando se stessa, si rende amata persona. L' amare
dunque la sussistenza divina è comune a tutte e tre le divine persone
che identica la posseggono, e questa è la santità propria dell' essenza
divina e il sentimento morale comune a ciascuna persona. Ma alla persona
dello Spirito Santo logicamente precede quell' amare del Padre e
del Verbo la sussistenza divina conosciuta; pel quale amore, la sussistenza
amata è costituita persona che come tale ama dello stesso amore,
perchè gli è comunicata la sussistenza divina intelligente ed amante. E
quest' amore efficace pienamente è la spirazione unica comune al Padre
ed al Figliuolo, il cui termine è la sussistenza amata come tale, sussistente
qual persona. Onde l' amore si appropria allo Spirito Santo, perchè
è il termine sussistente soggettivamente di un tale amore, cioè la
sussistenza divina per sè nota e per sè amata in conseguenza dell' amore
della sussistenza stessa essente identica nel Padre e nel Figliuolo e
costituente queste due persone: l' essere dunque sussistenza divina amata
è proprio della terza persona, cioè dello Spirito Santo, il quale perciò
è anche il termine del sentimento ossia della vita morale di Dio, benchè
questo sentimento e questa vita appartenga all' essenza divina, e perciò
sia identicamente comune a tutte e tre le divine persone.
Dopo aver noi veduto, per quanto ci è dato, quale sia la vita che
è nel Verbo, domandiamoci perchè S. Giovanni sia passato a dire che
nel Verbo era vita: come ciò si rannodi alla serie della sua narrazione.
Questa sentenza si rannoda colle precedenti e colle susseguenti.
Colle precedenti, perocchè avendo in esse annunziato il Verbo, cioè la
parola di Dio, volle far conoscere l' Evangelista che questa parola non
è, come le parole dell' uomo, senza vita propria, ma che è una parola
vivente e sussistente, come abbiamo già notato. Si rannoda colle susseguenti,
colle quali espone la creazione, l' istituzione e la salute eterna
dell' uomo operate dal Verbo: onde stabilisce il fondamento che « « nel
Verbo era vita » », perocchè dalla vita essente nel Verbo quelle tre opere
si derivano e si compiscono. Nella causa doveva esser prima quello di
cui poi partecipa l' effetto, e questo rimane spiegato quando è posta
una causa ad esso corrispondente, avente in sè quanto si richiede a produrlo.
L' effetto, cioè l' uomo, come essere vivente, razionale, abbellito
di grazia, e in fine beatificato, ha la sua spiegazione compiuta nella
vita che è nel Verbo, dalla partecipazione della quale, secondo diversi
gradi, procedono all' uomo tutte quelle prerogative e tutti que' beni.
Ma convien distinguere accuratamente questi gradi di partecipazione
della vita del Verbo.
Il Crisostomo, Cirillo Alessandrino, Teofilatto ed Eutimio (1) stimano
che S. Giovanni dica nel Verbo è vita, per dimostrare che il Verbo
conserva e governa le cose, non pure le crea, intendendo per vita quel
vigore che il Verbo imprime in tutte le cose, e col quale le conserva e
governa. Il dire che nel Verbo era vita esprime, secondo il Crisostomo,
che il Verbo non solo potè creare, ma ben anco in lui rimane sempre
una vita, quindi una causalità indeficiente, un flusso perpetuo delle
cose senza alcun dispendio o diminuzione in lui stesso, nel quale la vita
non cessa mai. E poichè la vita che è nel Verbo è pienissima, non solo
reale, ma intellettuale e morale altresì; perciò l' Evangelista, secondo
il Crisostomo, dicendo che nel Verbo è vita, viene a dire che egli non fa
e produce le cose per una cieca necessità di natura, ma per volontà ed
intelletto, onde anche sapientemente e santamente le governa.
E` però da osservare che quanto a quel vigore onde si conserva in
essere la materia non si può chiamar vita, o partecipazione di vita, perocchè
la materia, come tale, è priva di vita, perchè è priva d' ogni sentimento.
L' esistenza della materia, come suggerisce la filosofia, non è
soggettiva, perocchè ella non è principio nè senziente nè intelligente:
non è oggettiva, perocchè essa non è oggetto per sè sola e s' intende soltanto
nell' oggetto o idea che vi aggiunge la mente. E` puramente un' esistenza
terminativa , cioè la sua essenza è di essere termine d' un soggetto
sensitivo. Nella materia non si scorge che la mera sussistenza senza
relazione a se stessa, ma ad altro, cioè al soggetto sensitivo di cui ella è
termine. Laonde S. Tommaso dice: « « Si conserva nelle parole premesse
un ordine conveniente. Perocchè nell' ordine naturale delle cose, prima
si trova l' essere (la mera sussistenza), e questo da prima insinuò l' Evangelista
dicendo: « Nel principio era il Verbo », poi si trova il vivere,
e questo è cio che segue: « In esso era vita », in terzo luogo si trova
l' intendere, e di conseguente aggiunse questo: « E la vita era la luce
degli uomini »(1) ». Così l' Evangelista addita che nel Verbo, fonte delle
creature, si trovano causalmente ed eminentemente tutti i gradi di essere
che si ravvisano nelle creature effetto di quella causa.
I Manichei leggendo questo luogo con un' altra interpunzione da
noi rifiutata, cioè: quod factum est in ipso (Verbo), vita erat, ne abusarono
per sostenere i loro errori.
Questi sono due:
Il primo teologico, quello de' due principii, perchè dicevano che
non tutte le cose erano fatte pel Verbo, ma quelle che erano fatte pel
Verbo (riputando essi un sinonimo perfetto il dire fatte pel Verbo o
nel Verbo) erano viventi, spiegando il soprallegato testo così: « era
vita, cioè era vivente ciò che era stato fatto nel Verbo », dicendo poi
che il niente era l' altra cosa, l' altro principio fatto, ma non dal Verbo,
dicendo S. Giovanni che « « il niente era stato fatto senza il Verbo » et
sine ipso factum est nihil (2) ».
Il secondo filosofico, perocchè questi eretici dicevano che anche
le pietre e i minerali tutti erano vita e però vivevano.
A' quali due errori se n' aggiunge un terzo, che i Manichei, confondendo
la vita sensibile colla vita intellettiva, attribuivano quest' ultima
a tutti i viventi.
Ora, che il luogo di S. Giovanni, nè pure letto come facevano tali
eretici, suffragasse punto nè poco alla loro empia dottrina, apparisce
da questo che, giusta il testo interpuntato a lor modo, le cose fatte nel
Verbo non sarebbero solamente viventi, ma sarebbero vita, cioè assai
più di quel che essi pretendono. Le cose partecipi della vita hanno una
vita limitata, secondochè più o meno ne partecipano; ma la vita in se
stessa non esprime alcun limite, di che consegue che l' esser vita a Dio
solo appartiene, il quale non ha alcun limite nel suo vivere, e non partecipa
già della vita, ma è vita egli stesso essenzialmente senza specie,
gradi e confini: è la vita sussistente. Se dunque ciò che è creato fosse
vita, sarebbe Dio; nè si scorgerebbero i diversi gradi della vita, come
si scorgono ne' vari esseri di cui il mondo si compone. Ciò che è creato
oltracciò non potrebbe soggiacere alla morte, perchè, essendo la vita,
questa non può mai cessare di esser vita e passare ad uno stato di morte,
perchè morte e vita si escludono a vicenda. Solamente quello che vien
fatto partecipe della vita, ma che non è vita egli stesso, può venirne
anco spogliato e morire. E` dunque impossibile che l' Evangelista abbia
detto che ciò che è fatto pel Verbo fosse vita, e però niun vantaggio
possono cavare i Manichei a favore de' loro errori da questo luogo di
S. Giovanni, alla lor foggia interpuntato.
Rifacendoci or noi a considerare il vigore che S. Giovanni Crisostomo
attribuisce a tutte le cose, pel quale egli in certa maniera le considera
come viventi, non però al modo de' Manichei, dobbiamo osservare
che la materia, avendo natura e condizione di termine, e come tale
essendo cosa inerte, conviene spiegare quell' attività che nondimeno in
essa si manifesta. Primieramente ciò che esiste come termine suppone
un principio, al quale sia termine e nel quale esista. Il qual principio
non può esser altro che sensitivo, perocchè ciò che non sente, non può
aver natura di principio, ma sol di termine. Non par dunque alieno
dalla dottrina filosofica e teologica il supporre che Iddio ad ogni atomo
di materia abbia congiunto un principio sensitivo, di diversa e contraria
natura dalla stessa materia, pe' quali principii la materia sussista
come termine, e dai quali riceva l' azione ed il movimento che in essa si
scorge. Il che è mirabilmente accomodato a spiegare i fatti della natura.
Non proverrebbe da questo che gli atomi nella materia fossero animali,
giacchè l' animale suppone composizione ed organismo; ma solo che
fossero animati. Nè sarebbero perciò intelligenti, perocchè i principii
loro non più potrebbero essere che principii sensitivi, il cui sentire limitatissimo
non avrebbe altro termine che quello dell' atomo stesso, non
quale apparisce al di fuori a' nostri organi sensorii, ma qual sarebbe
rispetto ai suoi principii medesimi.
Nella qual sentenza, a cui suffragano i progressi delle scienze naturali
e delle filosofiche, e che ottimamente si accomoda alla spiegazione
dei fenomeni, la sentenza del Crisostomo, che vede nella vita che è nel
Verbo quel vigore onde si conservan le cose, verrebbe nobilitata e resa
più grave. Perocchè quel Verbo creatore, che in se stesso ha vita, creando
le cose avrebbe come ritratto da sè il vigor vitale, e l' effetto meglio
risponderebbe alla natura della sua cagione.
La vita sensitiva è il sentimento semplice e cieco, perchè non illuminato
dalla vista di alcun oggetto. Quindi, ove noi dall' effetto saliamo
ad una causa corrispondente, non è necessario che nella causa creatrice
di lei ravvisiamo la forma oggettiva. Considerando noi dunque, secondo
il nostro modo d' intendere, l' essenza divina con un concetto anteriore
logicamente a quello delle persone, la vita sensitiva si attribuisce da noi,
come a causa, alla divina essenza, senza considerazione delle persone,
e per approssimazione al Padre, nel quale l' essenza divina sussiste come
nel principio fontale della Triade Augustissima.
Ma se noi veniamo alla vita umana, cioè alla vita razionale, questa
suppone una causa che sia oggetto, e però non si può concepire se non
aggiungendovi la considerazione del Verbo che è per sè oggetto.
E questo viene a dire l' Evangelista colle parole che seguono alle
dichiarate sin qui: « « E la vita era la luce degli uomini » », cioè l' oggetto
che informa ed illumina il loro spirito e così li rende intelligenti.
Se il Sacro Scrittore non avesse avuto per iscopo d' insegnare la
creazione ed istituzione degli uomini, egli non avrebbe detto che « « nel
Verbo era vita » », poichè avrebbe in tal caso potuto dire egualmente che
« era vita nel Padre e nello Spirito Santo », nei quali sussiste l' identica
vita che nel Verbo. Ma perchè dunque preferì di dire che « nel
Verbo era vita »? Perchè il suo intendimento era di favellare della vita
in significato oggettivo, la quale, essendo per sè oggetto, fosse luce alle
umane intelligenze, e così dichiarare come vengono costituite le menti
umane. Ora la forma oggettiva della vita è propria del Verbo, perchè
il Verbo è appunto l' essere come oggetto; benchè la sapienza e l' intelligenza
soggettiva, che risulta dall' atto intellettivo che ha nell' oggetto
il suo termine, sia comune ed identica in tutte egualmente le tre divine
persone, come propria dell' essenza, considerata questa posteriormente
alla processione delle persone. Laonde, se si considera lo spirito intelligente
come effetto, e da questo si vuol salire a formarsi il concetto della
causa, conviene pervenire non più alla semplice essenza di un Dio creatore,
ma all' essenza considerata posteriormente (in ordine logico) al
Verbo generato; che, essendo per sè oggetto, può solo divenir luce degli
spiriti creati, e questi pure possono partecipare dell' essere in forma
oggettiva, divenendo così intelligenti.
Laonde il termine dell' umana intelligenza, che è l' essere ideale
per sè oggetto, è un' appartenenza del Verbo divino, benchè non si possa
dire lo stesso Verbo a cagione che l' essere a noi si manifesta come puro
oggetto, e non come oggetto persona, quindi come oggetto ideale non
sussistente e reale.
A questa dottrina, che, relativamente all' uomo e non in sè, distingue
le appartenenze del Verbo dal Verbo stesso, fu fatta quest' obbiezione:
L' oggetto informante lo spirito umano, che dicesi appartenenza
del Verbo, o è creato o increato: se increato, dunque è il Verbo stesso;
se creato, egli non può essere un' appartenenza del Verbo, perchè tutto
ciò che appartiene al Verbo è increato, non è fatto ma è eterno.
Alla quale obbiezione risponde S. Tommaso d' Aquino colla seguente
dottrina:
« Conviene avvertire che qualche cosa si dice del Figliuolo di Dio
secondo sè, come quando lo si dice Dio onnipotente e simiglianti cose.
Qualche cosa poi si dice di lui rispettivamente a noi, come quando lo
si dice Salvatore e Redentore. Qualche cosa ancora si dice di lui nell' uno
e nell' altro modo, come quando lo si dice sapienza e giustificazione.
Ora in tutte quelle cose che si dicono del Figliuolo assolutamente e
secondo sè, non si dice che egli sia fatto: così non dicesi che il Figliuolo
sia fatto Dio o sia fatto onnipotente. Ma in quelle che si dicono di lui
per comparazione a noi, ovvero nell' uno e nell' altro modo, si può aggiungervi
l' esser fatto, come secondo quel luogo a' Corinti (1): [...OMISSIS...] .
Onde, sebbene sia stata sempre
in esso la sapienza e la giustizia, tuttavia si può dire, ch' egli di nuovo
è stato fatto a noi giustizia e sapienza. Secondo questo adunque Origene
esponendo dice, che, quantunque in se stesso sia vita, tuttavia è stato
fatto a noi vita, perchè egli ci vivificò giusta quello ai Romani: « Siccome
tutti muojono in Adamo, così parimente in Cristo tutti saranno
vivificati »(2). E però dice, che il Verbo che è fatto a noi vita, in se
stesso era vita, acciocchè un tempo divenisse a noi vita, il perchè tosto
soggiunge: « « E la vita era la luce degli uomini »(3) ».
Ora posciachè le appartenenze del Verbo, siccome sarebbe la verità
che naturalmente a noi risplende, l' essere ideale, sono rispetto a noi
tali, quindi si può dire che sieno fatte, o create, o forse meglio concreate
con noi, sebbene nel Verbo considerate e quindi rifuse nel Verbo
stesso senza distinzione, non sieno fatte, nè create, nè concreate; ma
eternamente sussistenti, perchè sono il Verbo stesso, ed hanno perduta
la loro condizione di appartenenze del Verbo, dal Verbo distinte; non
essendo tali che rispetto a noi.
Ma noi dobbiamo vedere come la vita che era nel Verbo sia la luce
degli uomini.
Primieramente si consideri come la vita nel Verbo abbia forma
di oggetto, giacchè il Verbo stesso è l' essere assoluto nella forma di
oggetto7persona. Dalla forma di oggetto che prende la vita (e l' essenza
di Dio tutta è vita non essendovi nulla in esso di morte, nulla che abbia
il concetto di nuda sussistenza, o di puro termine, qual noi concepiamo
essere la materia) comunicata dal Padre al Verbo, risulta la vita intellettiva
comune e identica in tutt' e tre le divine persone. Di più l' essenza
vitale di Dio, oggetto per sè noto, per sè inteso, è anche per sè amata,
e quindi la vita per sè intesa, per sè amata, è sollevata dalla spirazione
unica del Padre e del Figliuolo ad una esistenza personale, cioè è in pari
tempo la persona del Santo Spirito, onde è la vita, il sentimento, il
gaudio morale puro identico in tutte e tre le persone augustissime.
Quindi la vita, che è nel Verbo una e semplicissima, tuttavia secondo
il nostro modo di concepire è triplice: di semplice sentimento, che s' appropria
al Padre che la comunica, con tutto il resto; la vita intellettiva,
che s' appropria al Figliuolo non perchè ella non sia dell' essenza divina,
ma perchè ha per condizione l' oggetto e la forma oggettiva dell' essere
che è propria del Figliuolo o Verbo; la vita morale che è pure dell' essenza
divina, ma per appropriazione attribuita allo Spirito Santo, perchè
ella ha per condizione l' oggetto per sè amato, e la forma dell' amabilità
dell' essere è propria dello Spirito Santo.
Ora, ciò presupposto, come avviene che la vita che è nel Verbo sia
la luce degli uomini?
Ella non potrebbe esser luce se non fosse oggetto dello spirito
umano, che informandolo lo rende intelligente.
Ma quest' oggetto non è mero oggetto perocchè è vita7oggetto, e di
più è oggetto vitale e sussistente per sè amabile e per sè amato. Da
questo procede:
1 Che nelle parole di S. Giovanni « « e la vita era la luce degli uomini » »
non trattasi più di narrare la creazione d' un mero essere sensitivo,
come poteva essere la statua che il Genesi racconta fatta da Dio di
terra; la statua, dico primachè Iddio v' ispirasse in faccia lo spiracolo
della vita (giacchè, se si suppongono gli atomi materiali animati, come
abbiam detto, quella statua poteva essere un essere sensibile, e, dividendosi
l' uomo nelle Scritture sempre in due parti, e non in tre, chiamata
l' una carne vivente perchè concupisce contro lo spirito, l' altra
spirito; ella quella statua poteva essere la carne vivente); ma trattasi di
spiegare come l' uomo venne costituito nell' ordine degli enti intellettuali
e morali.
2 Che la creazione dell' essere meramente sensitivo non esige che
la vita del Verbo si comunichi come luce, ma basta che venga comunicata
una vita semplice dall' essenza di Dio creatrice, senza che la mente
nostra in tal causa vegga la special forma dell' essere oggettivo, ossia
dell' essere come Verbo. Onde S. Giovanni dice che « « la vita era luce
degli uomini » », e non degli animali, delle piante o de' minerali [...OMISSIS...]
3 Ma la luce che viene dal Verbo non è mero oggetto perchè è
vita7luce, e la vita è sentimento e quindi realità, non è dunque una
mera idea. Non è dunque la nuda idea dell' essere quella vita, di cui
parla S. Giovanni, che è la luce degli uomini. Che anzi quella vita, che
è luce nel Verbo, non è solamente vita, sentimento, non è solamente
luce7oggetto, onde la vita intellettuale, ma di più è vita7luce per sè
amata nello Spirito Santo, onde viene la vita morale. Dunque S. Giovanni
parla in questo luogo d' una luce compiuta, che santifica l' uomo
e gli dà la sua ultima soprannatural perfezione.
Quindi Gesù Cristo disse: « « Io sono la luce del mondo: colui che
mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà il lume della vita »(2) ».
E, dicendo: « « il lume della vita » », non solo unisce alla vita il lume, ma
ben anco fa derivar questo dalla vita, giacchè la vita posta in genitivo,
secondo il favellare orientale, indica « causato dalla vita », e propriamente
« figliuolo della vita », ovvero avente la natura di vita: onde
tali parole di Cristo rispondono a capello a quelle di S. Giovanni, che
« « la vita era la luce degli uomini » ».
Si chiama ancora da S. Giovanni Gesù Cristo « « il Verbo della
vita » » in queste parole: « « Quello che fu dal cominciamento, quello che
noi udimmo, che noi vedemmo cogli occhi nostri, che percepimmo e le
nostre mani hanno contrettato del Verbo della vita »; (e la vita si è manifestata,
e la vedemmo, e l' attestiamo ed annunciamo a voi questa vita
eterna che era appresso il Padre e apparì a noi), «quello che vedemmo
ed udimmo, l' annunciamo a voi »(1) ». Dove è da notare che l' espressione,
« « Verbo della vita » » [...OMISSIS...] viene ad unire il
lume alla vita, perocchè la parola verbo indica oggetto pronunciato,
e l' oggetto, se è per sè oggetto, è luce della mente, onde significa un
verbo che ha in sè vita, che ha natura di vita.
E` anche da osservarsi in queste parole colle quali S. Giovanni commenta
ciò che si legge nel suo Evangelio che abbiamo alle mani, che vi
si dice che la vita era appresso il Padre, il che risponde alle parole: « Et
Verbum erat apud Deum »; e dimostra la serie che tiene la narrazione
dell' Evangelista a principio del suo Vangelo, cioè volendo egli annunziare
che il Verbo della vita si è manifestato agli uomini, incomincia
dal dire che era ab eterno appresso il Padre occulto agli uomini e che
a questi si è manifestato nel tempo, quello stesso che stava prima del
tempo appresso Dio; ed anche allora era essenzialmente vita ed eterna
vita, ma non ancora vita a noi.
Ma rimane fermo quello che dicevamo, che, rispettivamente alla
nostra maniera d' intendere e di favellare, noi concepiamo che Iddio
dev' essere in se stesso essenzialmente vita, anche prescindendo dalla
considerazione e dalla cognizione del Verbo, onde si chiama continuamente
nelle Scritture « « Iddio vivo »(2) », in contrapposizione degli Iddii
morti e materiali degli idolatri; e S. Pietro usa la frase: « per Verbum
Dei vivi (3) », attribuendo la vita a Dio, cioè al Padre onde il Verbo procede
e onde riceve la divina natura; e il Salmista dice: « « Deus vitae
meae »(4) »; e nel Deuteronomio dice Mosè al popolo che « Iddio è la sua
vita (5) ». Ma quando si tratta della vita7luce degli uomini, allora non si
può più intendere senza considerare Iddio come oggetto sussistente e
vitale, e quindi è già un' iniziata cognizione del Verbo. E quantunque
nella comunicazione a noi di questa vita7luce concorrano tutte e tre le
persone divine, onde S. Paolo dice: « « colui che fu fatto da Dio a noi
sapienza »(6) », attribuendo al Padre la missione del Figliuolo, perchè
dal Padre viene generato e quindi anco mandato; tuttavia il termine
di questa illuminazione vitale degli uomini è il Verbo, il quale è pure
il termine dell' Incarnazione, benchè il principio di questa appartenga
a tutta la Triade augustissima, ma del Padre sia propria in quanto è
generatore. Il Verbo poi, a noi comunicatosi, emette e diffonde in noi,
purchè non trovi in noi stessi ostacolo di peccato che lo impedisca, i
doni dello Spirito Santo e lo stesso Spirito Santo che dal Padre e dal
Figliuolo procede: con che si compie la nostra vita soprannaturale.
Le quali cose premesse, sembra apparir più chiaro come queste
parole di S. Giovanni, generali come sono, e tali in cui si parla degli
uomini senza distinzioni, siano vòlte a dichiarare in che consiste qualsivoglia
luce intellettiva dell' umana creatura.
Qualunque raggio d' una tal luce, l' Evangelista c' insegna venire
dal Verbo, perocchè questo è assolutamente detto esser la luce degli
uomini. Non è egualmente detto in modo assoluto ed universale che il
Verbo sia la vita degli uomini; perocchè non ogni vita è intellettiva,
ma v' ha una vita animale, nella cui causa non è a noi necessario vedere
l' oggetto7luce che si comunica, bastando che concepiamo una causa vivente
qual' è l' essenza divina comune a tutte e tre le persone.
Nulladimeno la vita animale non è la vita propria della creatura
umana, essendo essa comune alle bestie; ma la vita propria dell' uomo
è la vita intellettuale, la quale non si può spiegare senza supporre che
innanzi allo spirito umano stia l' essere nella forma di oggetto, e però
senza ricorrere ad una causa che sia ella stessa oggetto, e che all' uomo,
come tale, si manifesti. Quindi dice S. Giovanni che la vita era la luce
degli uomini. Or se si trattasse dell' essere meramente ideale, questo
sarebbe luce, ma non sarebbe vita; perchè la semplice idea dell' essere
non dà un sentimento reale, ma una pura intuizione. Qui non vi ha
dunque quella « vita che è luce degli uomini ».
Di che si deduce che, essendo « la vita che è nel Verbo la luce
degli uomini », conveniva che questa fosse data nella prima istituzione
del genere umano. Laonde, quando il Genesi narra: « « Il Signore Iddio
formò adunque l' uomo del limo della terra, ed inspirò nella faccia di
lui lo spiracolo della vita, e l' uomo fu fatto in anima vivente (1) » »,
conviene intendere per questo spiracolo della vita quella vita che è la
luce e che è nel Verbo. E però è da dire, che il primo uomo fu costituito
non già nel solo ordine naturale, al quale nulla più si esige che
l' essere come oggetto ideale dato da intuire allo spirito; ma ben anco
che fu costituito nell' ordine soprannaturale, al che si esige che l' essere
come oggetto, dato ad intuire all' uomo come oggetto, sia reale, e quindi
abbia in sè vita: onde al primo uomo fu fatta una cotale comunicazione
dello stesso Verbo di Dio. E questo dichiara meglio in che modo l' uomo
fu creato a imagine e similitudine di Dio secondo quelle parole: « « Facciamo
l' uomo ad imagine e similitudine nostra, e presieda ai pesci del
mare, e ai volatili del cielo, e alle bestie, e a tutta la terra, e ad ogni
rettile che si muove sulla terra (2) » ». La quale imagine e similitudine
di Dio, a cui fu fatto l' uomo, si vede primieramente in questo, che
anche nell' uomo si riscontrano le tre forme dell' essere analoghe a quelle
che in Dio costituiscono le tre divine persone: cioè la forma soggettiva,
la forma oggettiva nell' essere che gli è dato ad intuire, e la forma morale
nell' inclinazione e armonia di sè soggetto all' essere oggetto manifestato;
e quindi anco le tre vite, reale, intellettuale, e morale che le
due prime congiunge e nel cui abbracciamento affettuoso consiste.
Ma la forma oggettiva dell' essere non è data all' uomo in modo da
costituire una parte dell' uomo stesso, perchè l' uomo è puramente soggetto,
e non può diventar oggetto, che sarebbe un diventare Iddio. E
poichè l' oggetto essere è l' immagine dell' essere secondo il parlare delle
Scritture, quindi i Padri osservano che l' uomo non si dice già l' uomo
fatto imagine di Dio, ma fatto ad imagine, il che avviene perchè l' imagine
di Dio è l' oggetto che egli intuisce secondo la sua primitiva istituzione
(3).
Quello che è propriamente chiamato imagine di Dio nelle scritture
sante è il Verbo. Di Cristo dice S. Paolo: « qui est imago Dei (4) »; e
altrove: « qui est imago Dei invisibilis (5) », dove quell' attributo d' invisibile,
dato a Dio, indica chiaramente che Iddio si conosce pel Verbo, nel
quale egli ha la forma di oggetto e però di lume, e appo Iddio invisibile
stava il Verbo prima che si rivelasse. Perocchè, come dice S. Paolo
stesso, « omne quod manifestatur lumen est (1) »; non potendovi essere
altro che si manifesti se non il lume, il quale è visibile per se stesso, e
l' altre cose per lui che le illumina. E posciachè quello che si conosce
delle cose è la forma (2), chiamata anche figura [...OMISSIS...] che risponde
all' idea, e non la materia o la mera sussistenza; perciò S. Paolo chiama
Cristo figura, ossia, in greco, carattere : « qui cum sit splendor gloriae
et figura substantiae ejus (3) ».
Al che si riferisce altresì quello che già nelle antiche carte fu
scritto della Sapienza, che « « ella è un vapore della virtù di Dio e una
cotale emanazione sincera della chiarezza di Dio onnipotente; onde
niente di macchiato incorre in essa, poichè è candore della luce eterna
e specchio senza macchia della maestà di Dio e imagine della bontà di
Lui (4) » ». Nel qual luogo sembra favellarsi della sapienza di Dio in
quanto viene comunicata agli uomini: onde la sapienza oggettiva di
Dio, che riducesi al Verbo, chiamasi « virtù di Dio », e la comunicazione
di essa agli uomini « un vapore di tale virtù », la sapienza chiamasi
« chiarezza di Dio onnipotente », e la comunicazione di essa « una
cotal emanazione sincera »; la sapienza chiamasi « luce eterna », e la
comunicazione « candore di quella »; la sapienza « maestà di Dio »,
la stessa maestà in quanto è comunicata « specchio senza macchia »; e
finalmente la sapienza, in quanto ha in se stessa l' amabilità, che si
riduce allo Spirito Santo, chiamasi « bontà di Lui », e la stessa bontà
comunicata dal Verbo « imagine di essa bontà ».
Ed ogni qual volta nelle divine scritture si nomina il volto o la
faccia di Dio, queste metafore esprimono la conoscibilità di Dio; perocchè
dal volto, o faccia, si conoscono gli uomini; e quindi tali espressioni
nominano il Dio oggetto, il Dio conoscibile, il quale noi sappiamo essere
il Verbo: onde molti Padri ottimamente interpretano quelle maniere
di dire del divin Verbo, il quale è luce, o vita lucente per se stessa.
L' uomo adunque fu istituito ad imagine di Dio, cioè colla percezione
del divin Verbo, in quella maniera che spiegheremo in appresso, e
quindi fu collocato in uno stato soprannaturale, dotato della divina
grazia.
E quantunque dalla parte dell' uomo non vi avesse alcun diritto
a questo stato soprannaturale, nè la grazia costituisca un elemento di
sua natura, nè tampoco un elemento di sua natura intelligente fosse una
tale congiunzione di lui col Verbo, non appartenendo alla costituzione
della natura umana se non la intuizione dell' essere ideale, senza la quale
non potea essere intelligente, e però nè tampoco uomo; tuttavia dalla
parte di Dio era convenientissimo, e di una necessità morale, che l' uomo
uscente dalle divine mani fosse sublimato a tanta altezza, perocchè il
Verbo era la luce degli uomini; e dando loro questa luce, si dava loro
la vita altresì, perchè « nel Verbo era vita, e la vita era la luce degli
uomini »: l' effetto così corrispondeva pienamente alla condizione della
causa.
L' Ecclesiastico così narra la istituzione de' primi uomini: « « Iddio
creò l' uomo di terra e lo fece secondo la sua imagine. E ancora fece che
si convertisse a quella, e secondo questa lo vestì di virtù. Gli diede
copia di giorni e tempo, e gli diede il dominio di quelle cose che sono
sopra la terra. Pose sopra ogni carne il timore di lui, e quasi signoreggiò
le bestie ed i volatili. Creò da esso un ajuto simile a lui: diede
loro consiglio e lingua, e occhi, ed orecchi, e cuore da pensare: e gli
empì della disciplina dell' intendimento (1) » ».
Le quali parole ben dimostrano che Adamo ed Eva furono dotati
di doni soprannaturali, e di quello che è per natura sua soprannaturale,
cioè della grazia, di modo che non l' idea mera dell' essere fu loro
comunicata, ma altresì una incipiente visione del Verbo, nel quale è
quella vita che è luce degli uomini.
Ma qui si offerisce alla mente la questione: Se i primi uomini
usciti recentemente dalla mano del loro fattore avessero impresso nelle
loro anime il carattere, onde, non trovando ostacolo, provenisse la grazia
e la loro santificazione. La qual questione si dee distinguere dall' altra:
Se, avendo essi il carattere nell' animo loro, questo fosse uguale
a quello che si riceve ora dagli uomini nel lavacro battesimale istituito
da Gesù Cristo, o in che differisse.
Lasciando per intanto questa seconda questione, parmi poter sciogliere
la prima affermativamente: e ciò perchè il carattere, preso generalmente,
essendo la manifestazione abituale del Verbo allo spirito
umano, non poteva mancare a quelli che erano creature intelligenti di
quel Verbo nel quale era la vita luce degli uomini. Ma, come vedremo
poi in appresso quando tratteremo la seconda delle due questioni proposteci,
questo carattere in Adamo ed Eva era potenziale, e però non
indelebile; quando nel Cristiano è del tutto attuale ed indelebile; e
forse per questo non si dice espressamente nelle Scritture che i primi
Padri del genere umano avessero il carattere, riserbandosi questa parola
a significare propriamente il carattere del Cristiano. E tuttavia questo
luogo di S. Giovanni sembra acconcio a provare che si può in qualche
modo attribuire un carattere divino ai primi uomini. I primi uomini
avevano abitualmente la luce soprannaturale, e questa luce non è una
mera idea, ma è vita, vita che sta nel Verbo. Dunque era loro data una
cotal percezione del Verbo, nel che sta il carattere di cui parliamo.
La stessa parola di carattere è propria del Verbo, che S. Paolo
chiama «karakter tes ypostaseos autu» (1), da cui crediamo esser provenuta
la denominazione di carattere, a quel primo effetto del battesimo
che consiste in una cotal impressione del Verbo nelle umane menti.
Il che riceve conferma dall' addotto passo dell' Ecclesiastico, dove
sembra distinguersi con precisione ed esattezza il carattere impresso nell' intelligenza
del primo uomo, dalla grazia santificatrice della sua volontà.
Perocchè il primo è significato in quelle parole: « « che fece l' uomo
secondo la sua imagine » », la quale imagine di Dio, come vedemmo, non
è altro che il Verbo: [...OMISSIS...] la seconda,
cioè la grazia abituale e santificante, è significata in quel che soggiunge,
che, dopo averlo fatto secondo l' imagine sua, fece che a questa egli si
rivolgesse e convertisse: « et iterum convertit illum in ipsam »; la qual
conversione di Adamo all' imagine non pare potersi intendere altramente
che della soave inclinazione della sua volontà ad amare e ad aderire
all' imagine di Dio, secondo la quale era fatto, cioè al Verbo divino
lucente nella sua intelligenza, al che fare non trovava ancora alcun ostacolo
di peccato. Nè egli sembra che il « convertit illum in ipsam » si possa
intendere della conversione a Dio di Adamo peccatore, perchè il sacro
scrittore aggiunge in appresso la formazione di Eva: onde nel luogo da
noi citato parla di Adamo, se non andiamo ingannati, in quel tempo
in cui non aveva ancora peccato nè ricevuto da Dio l' ajuto che poi gli
fece della sua compagna. Il che è confermato dalle parole, che seguono
a quelle: « et iterum convertit illum in ipsam », le quali sono: « et secundum
se vestivit illum virtute », accomodatissime a significare la grazia abituale.
Nè l' essere stato vestito di virtù appartiene ad Adamo dopo il peccato,
ma alla prima sua istituzione.
Egli sembra che per questo appunto l' Apostolo chiami rinnovazione
dell' uomo quella fatta da Cristo, il quale venne a togliere il peccato
introdotto da Adamo nel mondo, e a restituire alla sua prima origine
l' opera di Dio, benchè, in ciò facendo, l' abbia elevato ad una dignità
e santità vie maggiore: « « Ora rinnovatevi nello spirito della mente
vostra, dice S. Paolo a que' di Efeso, e vestite l' uomo nuovo che fu
creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità »(1) ». E
a' Cristiani di Colossi dice: « « Spogliandovi l' uomo vecchio cogli atti
suoi, e vestendovi il nuovo, quello che si rinnova nel conoscimento
secondo l' imagine di lui che lo creò »(2) ». Vero è che questi luoghi si
potrebbero intendere unicamente dell' uomo nuovo formato da Cristo,
che fu una cotal creazione, senza ricorrere all' esempio di Adamo; ma
tuttavia la parola « qui creatus est » sembra fare allusione alla creazione di
Adamo stesso. Oltre di ciò, dicendosi « « l' uomo nuovo rinnovato nel
conoscimento » [...OMISSIS...] «secondo l' imagine di lui
che lo creò » », viene ad alludere manifestamente alla prima creazione
dell' uomo, che dal Genesi è detto « « fatto ad imagine di Dio » ». Di più
in questo luogo dell' Apostolo non si dice solamente « « l' uomo nuovo » »,
ma, secondo il testo originale, si aggiunge « « rinnovato nel conoscimento » »,
onde non si parla unicamente di una cosa nuova, ma di una
vecchia ripristinata nella sua condizione primitiva di conoscimento.
Il quale conoscimento secondo l' imagine di lui che lo creò, viene a significare
« il conoscimento secondo il Verbo », giacchè l' imagine di Dio
è il Verbo, e quindi viene a significare il carattere impresso nell' anima,
che è pure il Verbo chiamato da S. Paolo « « carattere della sussistenza
di Dio » ».
Alla predetta sentenza potrebbe fare qualche difficoltà il luogo
dove l' Apostolo scrive: « « Si semina un corpo animale, sorgerà un corpo
spirituale. Se vi ha un corpo animale, vi ha del pari un corpo spirituale,
siccome è scritto: Il primo uomo Adamo fu fatto in anima vivente
(1), il novissimo Adamo in ispirito vivificante. Ma non è prima
quello che è spirituale, sì quello che è animale; di poi quello che è spirituale.
Il primo uomo dalla terra, terreno; il secondo uomo dal cielo,
celeste. Quale il terreno, tali anche i terreni; e quale il celeste, tali anche
i celesti. Laonde, siccome abbiamo portato l' imagine del terreno, portiamo
anche l' imagine del celeste. E questo dico, o fratelli, perchè la
carne e il sangue non possono possedere il regno di Dio, nè la corruzione
possederà l' incorruzione (2) » ».
Se questo luogo si potesse intendere di Adamo peccatore, la difficoltà
sarebbe superata. Ma fanno ostacolo a ciò le citate parole del
Genesi: « Et factus est homo in animam viventem », le quali dal sacro
storico sono dette di Adamo quando fu creato innocente, di conseguente
prima d' aver peccato.
Convien dunque dire che l' intendimento dell' Apostolo qui sia quello
di magnificare i doni e le grazie conferite all' umanità da Cristo sopra
quelli che ebbe ricevuto Adamo quando fu creato.
E questa sopraeccellenza dell' uomo in Cristo rinnovato sopra l' uomo
da Dio creato, risulta dal contesto di tutto il luogo dell' Apostolo, e
particolarmente da quelle parole: « Primus homo de terra terrenus, secundus
homo de coelo coelestis ». Questo secondo uomo venuto dal cielo, e
non cavato dalla terra, è il nostro Signor Gesù Cristo, come risulta
chiaramente dal testo greco, che, invece di dire: « dal cielo celeste »,
dice: « « Signore dal cielo », [...OMISSIS...] . Onde viene a dire che
il primo Adamo fu semplice uomo, ma il secondo Adamo fu Dio, fu il
Verbo divino, proveniente non dalla terra, ma dal cielo sede di Dio;
fu il Signore, [...OMISSIS...] , di tutte le cose ed anco dell' antico Adamo. Laonde
il primo uomo trasse l' origine dalla terra corruttibile, benchè poi Iddio
lo vivificasse col suo spiro e così lo rendesse anima vivente, partecipe
della vita, non solo animale e intellettiva, ma di quella vera vita che
era nel Verbo. Ma se quel primo uomo era anima vivente, non era però
spirito vivificante, siccome è il Verbo divino; il quale non solo ha la
vita, ma è vita egli stesso (1), e quindi la può dare, ed è quello che la
dà agli altri, onde da S. Pietro è chiamato « « autore della vita »(2) », che
equivale allo « « spirito vivificante » » di S. Paolo.
Qa quello che è la vita non può mai mancare la vita; ma quello, che
è solamente vivente, può morire, può perderla, com' è avvenuto ad
Adamo: e perciò non era per se stesso incorruttibile ed immortale, come
non era impeccabile. Era di natura sua corruttibile perchè formato di
terra, la quale poteva sciogliersi in polvere, come la polvere che era
stata raccolta a forma di uomo. Era peccabile perchè non era la stessa
vita morale, ma questa vita l' aveva ricevuta da quello che era la vita;
ed era stato collocato nel suo libero arbitrio di conservarla, o di fare
miseramente getto di essa. [...OMISSIS...] .
Così l' Ecclesiastico.
Il nuovo uomo all' incontro è impeccabile perchè è Dio, è comprensore
ad un tempo e viatore, è confermato in grazia come quello
che è l' autore della grazia (4) e fu unto dal Padre (come uomo) e mandato
nel mondo (come Dio) (5). Adamo non poteva dar la grazia a' suoi
discendenti, ma il nuovo Adamo dà loro la grazia. Adamo non poteva
dar loro l' immortalità, ma Cristo la dà loro: nell' uno e nell' altro senso
egli è spirito vivificatore. Quindi anche la differenza fra la grazia data
da Dio ad Adamo, e la grazia che è in Cristo e che Cristo comunica a'
suoi seguaci. S. Agostino dice che la grazia data ad Adamo era un ajuto
senza il quale l' uomo non poteva operare il bene soprannaturale, ma
la grazia di Cristo, e comunicata al Cristiano da Cristo per mezzo del
suo spirito, è un ajuto, col quale si opera il bene soprannaturale (6).
Era l' uomo che operava in Adamo, non però senza la grazia: e la grazia
di Cristo è Cristo stesso (7) che opera nel cristiano tutto il bene
soprannaturale che fa il cristiano, non però senza il cristiano. [...OMISSIS...] ,
dice S. Paolo, [...OMISSIS...] .
Non già che l' uomo non possa resistere alla
grazia; l' uomo può volere il male. Ma quando il cristiano opera il bene,
allora è Cristo, allora è la grazia di Cristo che opera in lui e con esso
lui. Laonde quando S. Paolo esorta que' d' Efeso e que' di Colossi a
vestire l' uomo nuovo, e spogliare il vecchio, allora per quest' uomo
nuovo s' intende Cristo, e quelle parole equivalgono a quest' altre: « Induimini
Dominum Jesum Christum (2) ».
Il che viene ad indicare una cotale congiunzione fisica del Cristiano
non solo col Verbo, ma col Verbo incarnato, il N. S. Gesù Cristo;
connessione insegnata da Cristo stesso quando disse che egli era la vite
e i suoi discepoli erano i tralci che dalla vite suggevano l' umore vitale
di cui si nutrivano e vivevano (3). E` la vite il principale agente di tutte
le operazioni del tralcio, benchè queste sieno operazioni del tralcio,
senza il quale esse non sarebbero: onde chi opera nel cristiano le operazioni
della vita soprannaturale è Cristo col cristiano, la vite col tralcio,
non ego sed gratia Dei mecum . In Adamo innocente era l' uomo che
operava colla grazia di Dio; nel cristiano è la grazia di Dio coll' uomo:
in Adamo era l' uomo, ma senza la grazia non poteva nulla, auxilium
sine quo; nel cristiano è la grazia di Dio, ma questa senza l' uomo nulla
farebbe, auxilium quo .
Lo stesso insegna l' Apostolo quando paragona la Chiesa di Gesù
Cristo al corpo umano (4). Di questo mistico corpo Cristo è il capo, i
fedeli sono le membra. La vita e le operazioni vengono dal capo unito
alle membra, e quantunque le membra ricevano tutto dal capo, tuttavia
anch' esse operano unite con lui. Ma rimane sempre che Cristo sia il
capo onde ogni bene e ogni vita deriva. Con un' altra similitudine ancora
si chiarisce quell' intimo nesso che ha Cristo con quelli che in lui sono
incorporati. Tutti insieme formano un solo edifizio, una sola casa, ma
Cristo è il fondamento che la sostiene (5). Questi diversi paragoni spiegano
quella intima segreta unione che congiunge Cristo qual nuovo
Adamo con quelli ch' egli genera spiritualmente alla vita eterna che è
in lui.
Ma prima di perscrutare più addentro cotesta unione, noi dobbiamo
dimostrare alcune altre differenze che conseguono al principio da noi
posto della differenza prima fra lo stato soprannaturale di Adamo e
quello dell' uomo rigenerato in Cristo e da Cristo.
Primieramente l' uomo incorporato a Cristo sente che non è egli
che opera il bene, ma Cristo con lui, « non ego sed gratia Dei mecum, » e
ciò pel merito della passione sofferta da questa grazia di Dio, « ut gratia
Dei pro omnibus gustaret mortem (1) ».
Essendo dunque Cristo che opera tutto il bene soprannaturale nel
corpo de' fedeli di cui è capo, il fedele sente profondamente la verità
che Cristo stesso gl' insegnò dicendo: « Sine me nihil potestis facere (2) »,
e sente nello stesso tempo che tenendosi in Cristo egli può tutto: « omnia
possum in eo qui me confortat (3) ». « « Io sono la vite, voi i tralci: quello
che si tiene in me, ed io in lui, questi porta molto frutto. Poichè senza
di me non potete far nulla. Se alcuno non rimane in me, sarà gettato
fuori siccome un tralcio, e si seccherà, e lo metteranno nel fuoco ed
arderà. Se vi rimarrete in me, e le mie parole rimarranno in voi, qualunque
cosa vorrete la dimanderete e vi avverrà. In questo è chiarificato
il Padre, che voi apportiate il massimo frutto, e diveniate miei
discepoli »(4) ». Dalle quali parole si ricava:
1 Che senza Cristo l' uomo non può far nulla.
2 Che tenendosi in Cristo l' uomo può portare molto frutto, anzi
il massimo frutto e divenire discepolo di Cristo, parola altissima che
dice tutto: può portare tutto il frutto che vuole, perocchè qualunque
cosa voglia, egli anche la domandi, essendo l' orazione il segno della vera
volontà cristiana, e domandata gli avviene.
Ma non tutti quelli che si tengono in Cristo vogliono le stesse cose,
e quindi non tutti acquistano lo stesso grado di santità, perocchè non a
tutti è dato di ugualmente volerle e di dimandarle. Ma tutt' insieme il
Corpo mistico di Gesù Cristo porta tuttavia il massimo frutto, secondo
il calcolo infallibile del celeste agricoltore, e ciascuno porta il massimo
frutto comparativamente al grado di volontà che gli è data, perchè tutta
quella volontà che egli ha soprannaturalmente viene a pieno trasfusa
nell' orazione ed adempita da Cristo, il quale è « « verità »(5) », cioè reale
compimento dell' idea. E tuttavia niuno è forzato a tenersi in Cristo, e
nè pure necessitato, qualora non sia confermato in grazia; onde Cristo
dice a' suoi discepoli: « « Tenetevi in me, ed io in voi »(1) », a ciò esortandoli,
perocchè la libertà di fare il male non è tolta agli uomini.
Onde gli uomini possono col loro libero arbitrio staccarsi da Cristo, e
non riceverne più la benefica e vitale influenza; e possono non distaccarsi
da lui, e allora, rimanendo in lui, possono fare tutto il bene che
vogliono e che domandano, perchè Gesù Cristo è quegli che lo vuole e
lo domanda in essi e con essi. Onde da S. Giovanni questa unione si
chiama anche società: [...OMISSIS...] .
Da' quali due principii, che l' uomo non fa nulla di bene soprannaturale
per sè, ma che tutto il bene lo fa Cristo in lui e con lui, e che
Cristo con esso lui può fare tutto ed egli in Cristo apportare il più abbondevole
frutto, procedono due sentimenti nel Cristiano: quello del proprio
nulla e quello della propria grandezza dignità e potenza.
Il sentimento del proprio nulla è luce a lui, perchè gli dà la consapevolezza
della propria impotenza e nullità ad ogni bene, e della potenza
di Cristo che in lui fa tutto e può tutto. Questo sentimento e questa
luce di Cristo che ne rifulge, è l' origine, la prima la sommaria causa
dell' umiltà cristiana, fondamento e condizione della virtù de' seguaci
e discepoli del Salvatore. Come alla presenza d' un leone, un cagnolino
chiuso con esso lui trema sentendo la nullità delle sue forze verso a
quelle del generoso re della foresta; così ed assai più, ma in senso tutto
diverso, il vero discepolo si sta annullato in se stesso e quasi tremante
pel sentimento di Cristo, di quel Leone di Giuda che è in lui, con cui
abita in un modo più vicino e più stretto che non il cagnuolo nella
gabbia del leone, di quel possente che è in lui e con lui fa tutto il bene,
quand' egli nulla può senza di lui, ed anzi non ha che la potenza del
male: onde santamente e giustissimamente non pur non si pregia, ma
odia e dispregia se stesso. E come il Leone potentissimo di Giuda divora,
per così dire, nel cuore dell' uomo l' uomo stesso, facendo che s' annichili
nell' umiltà: così in pari tempo usa di tutta la sua potenza, non
al male, ma al bene, non alla morte, ma alla vita di quello entro cui
vive ed opera; ma dandogli la propria vita immortale invece della sua
mortale. Onde l' umiltà dell' uomo incorporato all' Uomo7Dio non è unita
col timore riverenziale del suo redentore e vivificatore che in lui abita
e con quel sentimento di timore che nasce sempre in presenza d' una
immensa potenza anche benefica; ma bensì è unita con gran timor di
se stesso di non istaccarsi forse dalla sua vita, cioè dallo stesso Signor
nostro Gesù Cristo coll' arbitrio che gli rimane di operare il male.
Quindi è che negli uomini santi, durante specialmente la visitazione
superna e la comunicazione di lumi e di grazie gratofacienti, ne'
quali momenti il sentimento della presenza di Cristo è più vivace, non
si manifesta la tentazione di vanagloria e di superbia, quando anzi sono
occupati e compresi da un sentimento indicibile di umiltà e si senton
sospinti incredibilmente a glorificare Iddio: il che attestano essi medesimi,
come si può vedere, fra gli altri scritti dei santi, nelle opere di
S. Teresa di Gesù.
Ora questo sentimento immenso d' umiltà, che è uno de' caratteri
più meravigliosi della virtù cristiana, non era come in noi nel primo
uomo Adamo, benchè fornito del carattere e della grazia; perocchè il
carattere e la grazia in lui era d' altra natura lungamente diversa da
quella che ha il carattere e la grazia di Cristo. Era l' uomo che operava
in Adamo, benchè non senza la grazia. Adamo viveva d' una vita sua
propria, naturale, benchè sublimata da doni soprannaturali. La sua
natura era piena e perfetta, e n' aveva tutto il sentimento, n' aveva la
gioia e la forza. Il cristiano non ha altra vita con cui opera e di cui fa
stima che la vita di Cristo. La sua vita naturale nulla la stima, e non
aspetta da lei quelle operazioni vitali colle quali ottenere il compiuto
suo bene. Adamo era creato per godere della felicità naturale, entro i
limiti della giustizia, e per passare poi gradatamente ad una felicità
soprannaturale, che sarebbe stato un compimento di quella prima, e
ciò di mano in mano ch' egli si fosse avanzato nella virtù e nel conoscimento
ed amore di Dio, alla cui contemplazione poteva attendere se
avesse voluto, e più o meno com' egli avesse voluto. La scelta lasciata
al suo libero arbitrio era nell' occuparsi più o meno al godimento onesto
de' doni naturali, ovvero più o meno alla contemplazione ed all' affetto
delle cose celesti. La grazia gli era pronta se avesse voluto servirsene, la
grazia accompagnava le sue azioni anche naturali mantenendone specialmente
la rettitudine ne' rapporti con Dio: ma in quanto all' oggetto
stesso diretto de' suoi affetti, rimaneva in suo arbitrio lo scegliere Iddio,
o la natura retta ed onesta. Onde il carattere era in lui piuttosto potenziale,
che attuale: il Verbo gli stava presente e Adamo potea rivolgersi
al Verbo, piuttostochè fosse impresso nell' anima sua e la dominasse
come principio operativo. Con che si incomincia a dare qualche soluzione
alla questione propostaci innanzi (Lez. LIV, p. 139): qual differenza
vi avesse fra il carattere indelebile de' primi uomini, e il carattere
indelebile del Cristiano. E veramente leggiamo nel Genesi, dove descrive
l' istituzione del primo uomo: [...OMISSIS...] .
Nelle quali parole da una
parte è detto che l' uomo fu fatto ad imagine di Dio, dall' altra non gli
è assegnato altro che il dominio sulla natura, il nutrimento della natura,
l' occupazione intorno la natura, e un limite posto con un precetto
divino alle cose di cui doveva l' uomo cibarsi. Convien dunque riflettere
che le operazioni dell' uomo possono essere ornate di due specie di moralità,
sia naturale, sia soprannaturale: la moralità di forma, e la moralità
d' oggetto. La moralità di forma è quella che rende l' azione buona
ed ordinata, quantunque l' azione abbia per oggetto cosa materiale e
non morale, come il mangiare e il moltiplicarsi (coll' accennarsi nel
Genesi di queste due cose solamente, si volle dimostrare il modo come
Iddio istituendo l' uomo provvide alla conservazione dell' individuo, e
anche della stirpe sopra la terra): la moralità d' oggetto, all' incontro, è
quando l' uomo si occupa direttamente d' un oggetto per sè morale, come
di Dio, e della virtù prendendola per fine. Ora questa seconda specie di
moralità era quella a cui Adamo doveva innalzarsi in appresso col suo
libero arbitrio, ma non era quella in cui venne da Dio costituito. Perocchè
Iddio nell' istituire l' uomo nulla fece di ciò che l' uomo potesse fare
da se stesso: volle, secondo l' economia della divina sapienza, che l' uomo
stesso divenisse l' autore della sua perfezione morale, e quindi lo costituì
nell' infimo grado della moralità soprannaturale, quasi seme onde
poi dovesse svolgersi la gran pianta. Tuttavia gli accennò il fine delle
sue operazioni nella narrazione della creazione, che è da credersi comunicata
ad Adamo in quelle parole « et requievit die septimo ab universo
opere quod patrarat. Et benedixit diei septimo, et sanctificavit illum,
quia in ipso cessaverat ab omni opere suo, quod creavit Deus ut faceret
(1) ». La quale benedizione data al giorno settimo, chiamato la
requie del Signore, e la santificazione del detto giorno, era o un precetto,
o certo un invito a' primi padri di consacrare questo tempo al riposo
dalle occupazioni terrene e alla contemplazione delle celesti e divine,
ed accennava la requie perpetua e beata a cui eran chiamati dopo compito
lo stadio delle occupazioni terrene.
Una adunque delle principali differenze fra la condizione in cui
da Dio fu posto Adamo, e la condizione del Cristiano, si è che in quello
dominava ed operava la natura umana perfetta e felice in tutto il suo
vigore, accompagnata però da quella grazia, colla quale, se avesse l' uomo
voluto, poteva e non abusare de' doni naturali ubbidendo Dio, ed
altresì sollevarsi a contemplare ed amare direttamente Iddio come supremo
ed infinito oggetto di beatitudine; nel Cristiano all' incontro la
natura umana sua propria non ha alcun valore, alcuna virtù, in ordine
alla vita eterna: ei non è chiamato a nulla se non alla distruzione ed
alla morte; ma in quella vece chi opera in lui è la natura umana di
Cristo, natura perfetta, trionfatrice della morte. Perocchè, in un modo
ineffabile e misterioso di cui ci verrà forse altrove occasion di parlare,
l' umanità gloriosa di Cristo è in una comunicazione reale ed unione
permanente con tutti quelli che hanno ricevuto il battesimo e gli altri
sacramenti, onde vivono della vita di Cristo; e da questa vita procedono
i loro atti e tutto il bene soprannaturale che fanno, sia di forma, sia
d' oggetto, nè altro prezzano che questo bene.
L' uomo cristiano adunque che si tiene in Cristo, sentendo che un
altro e potentissimo opera in lui e con lui, ha una certa consapevolezza
d' essere escluso ed annullato nelle operazioni della vita eterna: annullato
cioè in questo senso ch' egli non è più il principio supremo onde
partano le dette operazioni, ma partono da un altro principio verso al
quale egli tiene ragione quasi di attivo istrumento. Quindi il fondamento
profondo della cristiana umiltà.
Ma a questo si aggiunge, quasi a rinforzo dell' umiltà stessa, che
la vita naturale del figliuolo di Adamo peccatore è inferma, mortale,
precaria, e di più ha qualche cosa di ripugnante a dilatarsi nell' infinito,
e ad abdicare se stessa per lasciare il governo dell' uomo e il principio
dell' attività alla vita di Cristo. Quindi la lotta fra la carne e lo spirito,
e le grida del principio soprannaturale del Cristiano contro la propria
animalità: « « Me uomo infelice! Chi mi libererà dal corpo di questa
morte » », e soggiunge: « « La grazia di Gesù Cristo Signor nostro (1) » ».
Perocchè la grazia è appunto quel principio supremo che s' aggiunge
all' uomo, e questo principio è Cristo stesso che diviene così primo operatore
delle azioni dell' uomo che non gli si oppone: onde l' uomo dominato
da questo principio è divenuto uomo nuovo . Questo è il mistero
della vita cristiana dichiarato ai Romani specialmente dall' apostolo Paolo,
la qual vita non apparteneva nè punto nè poco ad Adamo ed Eva.
Questi erano creati innocenti: peccarono essi stessi e la loro discendenza
divenne serva del peccato. Ecco la base della grandezza cristiana: l' annullamento
dell' uomo morale avvenuto pel peccato, l' essersi reso l' uomo
inetto al fine per cui fu creato. Da questo principio muove S. Paolo
nella sua meravigliosa lettera ai Romani: [...OMISSIS...] .
Dice gli uomini in quello nel quale peccarono volendo dire
gli uomini in quanto erano in Adamo, perocchè in Adamo era la natura
umana che dovea poscia rifondersi in altri individui. Onde quella che
peccò fu la natura umana in Adamo; per la qual cosa il peccato originale
ne' posteri dicesi « peccato della natura », e gl' individui o suppositi
diconsi aver peccato in quanto ricever dovettero la natura peccatrice.
La natura poi si fa peccatrice perchè la natura umana non è solamente
fisica, nè solamente intellettuale, ma ella è altresì essenzialmente morale,
come quella che è fornita di volontà; e la volontà come natura morale
può rendersi difettosa per un agente disordinato che la disordina, quale
nel caso nostro è il corpo, la cui concupiscenza non è più in balìa totalmente
della ragione libera, ma opera senza di questa in parte, e a
dispetto di questa, in quanto che la volontà rimane a lei aderente e con
esso lei legata in modo da esser sottratta alla dominazione dell' uomo,
o per dir meglio alla libertà determinantesi pel bene; la qual forza della
libertà, o è così fiacca che non sorge a combattere la volontà lusingata
dalla concupiscenza, o, se sorge scossa dalla bellezza della virtù che gli
dimostra innanzi l' intelletto, non ha polso da eseguire. Il che è quello
che dice S. Paolo in persona propria parlando dell' uomo peccatore:
[...OMISSIS...] .
Di che induce l' esistenza in tutti gli uomini del peccato originale, come
principio d' operare il male che prevale [...OMISSIS...] .
La legge
del peccato risiede dunque, secondo l' Apostolo, nelle membra del figliuolo
di Adamo, e questa legge è la concupiscenza che, non vinta dalla
grazia di Cristo, cattiva l' uomo, lo spoglia della sua libertà al bene
perfetto: e questo debilitamento o spogliamento della libertà del bene,
onde la volontà aderisce alla concupiscenza, è quello che chiamasi peccato
originale nei posteri; peccato abituale, principio operativo del disordine,
il quale però non ha la nozione di colpa, come insegna l' Angelico,
perchè è nell' uomo che viene ingenerato alla vita, senza che sia
in potestà dell' uomo stesso l' evitarlo.
Non è già che l' Apostolo non conceda al libero arbitrio del figliuolo
di Adamo il fare anche qualche bene naturale. Il concede [...OMISSIS...] .
Ma primieramente l' Apostolo
accusa i gentili di non aver fatto nè pur quel poco di ben naturale
che avrebbero potuto fare con quelle forze morali che lor rimanevano,
e perciò gli chiama inescusabili. E rispetto a questo gli accusa per due
capi. Dice in primo luogo che col lume della ragione conoscevano Iddio,
e colla loro volontà non lo riconobbero, anzi si sforzarono d' imbrattare
e sfigurare il concetto di Dio che era in essi: [...OMISSIS...] .
Egli è certo che se i gentili avessero conservato
netto quel concetto della divinità che dava loro la ragione contemplatrice
dell' universo, e ad essa fossero ricorsi per ajuto, ella avrebbe loro
sovvenuto nella sua essenziale misericordia.
Ma non avendo voluto far questo, s' aggravò d' assai la loro condizione
morale. E prima di tutto s' oscurò il loro cuore insipiente, perchè
datosi liberamente ad un male che potevano evitare: il quale così oscurato
li precipitò nell' idolatria: [...OMISSIS...] .
Così non ebbero il soccorso da Dio,
onde solo potevano averlo, e Iddio li abbandonò al loro reprobo senso,
il quale, già originalmente viziato, divenne per la volontaria corruzione
viziato ancor di più e privo dell' unico faro che potevano
avere, se avessero voluto, nel loro naturale intendimento, un concetto
puro e sincero di Dio. Quindi le passioni ignominiose che descrive
l' Apostolo (3).
Dice in secondo luogo San Paolo che sono inescusabili perchè
essendo tanto deboli e miseri, in vece d' umiliarsi riconoscendo il proprio
stato, anzi s' insuperbivano, e i superbi si chiudono ogni adito alla
divina misericordia. Già la superbia stessa delle loro immaginazioni
era stata la causa dell' idolatria. Perocchè: « dicentes se esse sapientes,
stulti facti sunt (4) ». Or questa stessa superbia soprastante, anzi crescente
al colmo nel fondo della corruzione, faceva sì che, nel mentre
essi erano tanto rei, pigliassero tuttavia l' aria di dottori e di giudici co'
loro simili, co' quali giudizi condannavano se stessi: [...OMISSIS...] .
Nel qual errore di condannare superbamente i
proprii simili erano incorsi principalmente gli Ebrei, i quali condannavano
fieramente i Gentili e vantavan se stessi d' avere la legge di Mosè
che non osservavano.
Di che raccoglie S. Paolo che tutti e Gentili e Giudei erano colpevoli,
cioè non solamente erano macchiati originalmente del peccato
ereditato dal primo padre, ma ben anco da' peccati loro proprii, e da
quello principalmente, che più impediva che Iddio li soccorresse, della
superbia, disconoscendo essi l' impotenza in cui erano di operare il
bene, o gloriandosi e giudicando gli altri, invece di umiliare e giudicare
secondo la verità se stessi: [...OMISSIS...] .
Ma lasciando da parte i peccati attuali e liberi, osserva S. Paolo
che quantunque colle forze morali, che rimanevano all' uomo, questi
avrebbe potuto fare qualche bene secondo natural legge, tuttavia ciò
non bastava a salvarlo perchè « bonum ex integra causa, malum ex quolibet
defectu . » Tale è l' ordine morale, che egli è uno, semplice, tutto
intero, e mancandone solo una parte viene distrutto. [...OMISSIS...] .
Ora a questo è impotente per sè l' uomo concepito in peccato, e perciò
l' uomo non può operare la propria salute che è il bene morale completo:
non la potè il gentile perchè non seppe osservare compiutamente la legge
naturale, non la potè l' ebreo perchè non seppe osservare compiutamente
la legge mosaica: [...OMISSIS...] .
Il figliuolo adunque di Adamo è nullo nell' ordine morale, perchè
non può colle sue sole forze ottenere il verace bene morale nè nell' ordine
naturale, e molto meno nel soprannaturale. Il sentimento, la ricognizione
pienissima di questa verità è la seconda ragione che noi vogliamo
esporre dell' umiltà cristiana.
Questo sentimento non poteva essere in Adamo, appunto perchè,
come dicevamo, aveva la natura intellettiva perfetta coll' integrità del
suo libero arbitrio, vestito altresì della grazia che lo trasportava nell' ordine
soprannaturale: onde in lui era il sentimento vivissimo delle
proprie forze colle quali operava il bene.
Certamente Adamo ancora aveva cagione di professare l' umiltà,
come l' ha ogni creatura, anche il più sublime degli angeli: ma quella
era un' umiltà lungamente diversa dalla cristiana, consistendo unicamente
nel riconoscere i limiti della propria natura, e la intera dipendenza
di questa natura sua dall' Essere Supremo, onde aveva tutto ricevuto,
onde tutto riceveva di continuo colla conservazione, e d' onde
doveva aspettare il rallargamento dei proprii limiti, a cui l' idea illimitata
dell' Essere che gli splendeva innanzi lo chiamava, e Iddio gliene
aveva dato l' arra ed il mezzo nella grazia conferitagli.
Adamo riconobbe bensì i proprii limiti, ma non la compiuta sua
dipendenza da Dio, e cercò altrove di completarsi ed estendere se medesimo,
dando orecchio alla seduzione diabolica, che gli persuase poter
diventare un Dio mangiando del frutto vietato. Invece adunque di ricorrere
a Dio pel proprio ingrandimento e completamento, cercò questo
nella creatura alla quale diede pazzamente una virtù misteriosa e divina
di trasformare gli uomini in altrettante divinità. Fu probabilmente ingannato
dalla grandezza della natura angelica che gli si diede a conoscere;
della qual grandezza angelica non abbracciando colla limitazione
umana i determinati confini, la credè onnipotente ed infinita: e a questa
natura angelica egli credette probabilmente d' incorporarsi mangiando
quel frutto dal demonio posseduto ed investito. Così, nel congiungersi
al demonio per mezzo del cibo, aspirò alla somma grandezza fisica ed
intellettuale, e dimenticò la grandezza morale a cui non si volse come
ad oggetto; la qual grandezza morale e completa, che trae seco le due
prime, gli era offerta nel congiungimento di lui con Dio, che avrebbe
dovuto perfezionare coll' ubbidienza alla sua volontà e quindi coll' umiliarsi.
Credette di arrivare alla dilatazione dei proprii confini senza por
mente all' elemento morale, dove la vera grandezza consiste; e quindi
senza bisogno d' umiliarsi e di dipendere dal suo creatore: il che secondava
il sentimento delle proprie forze, quale la natura piena e perfetta
a lui infondeva.
Fin qui noi abbiam favellato del primo dei due sentimenti che
abbiamo detto esser proprii del Cristiano, cioè dell' uomo incorporato
in Cristo: abbiamo favellato del sentimento del proprio nulla onde
s' origina l' umiltà cristiana; ed abbiamo veduto come un tale sentimento
non poteva essere in Adamo innocente. Dobbiamo ora considerare il
secondo sentimento, prodotto nel Cristiano dalla presenza in lui di Cristo,
ed è quello della magnanimità .
Come l' uomo cristiano sente di non poter nulla da sè solo, di avere
una natura guasta che ricalcitra al bene morale perfetto, e che concupisce
contro lo spirito; così sente ancora di possedere un nuovo principio
di vita spirituale, il quale è lo stesso Signor nostro Gesù Cristo con
esso lui meravigliosamente congiunto.
L' uomo primitivo, Adamo, dotato di una natura umana perfetta,
doveva ascendere dalla perfezione fisica alla intellettuale, e dalla perfezione
intellettuale alla morale. La natura fisica come pure l' intellettuale
era retta in lui, e la sua volontà era fornita di un dono di grazia
col quale poteva innalzarsi alla percezione sempre maggiore di Dio per
mezzo
della fedele ubbidienza che avesse prestato alla sua volontà manifestatagli
in un precetto positivo. Egli indugiò sulla via prescrittagli,
e invece di percorrere indivisamente i tre gradi dell' azione animale,
intellettuale e morale, si arrestò a' due primi, non fece il terzo dell' ubbidienza
al creatore, si fermò a voler solo la propria grandezza fisica ed
intellettuale, e per ottenerla, senza la suggezione alla legge morale,
tentò di unirsi cogli angeli prevaricatori mangiando il frutto vietato di
cui essi erano probabilmente in possesso.
Tutt' altra è la via del Cristiano. Questa non incomincia dalla perfezione
fisica o intellettuale, ma dalla morale. Quelle due prime non
contano più nulla perchè guaste irreparabilmente. Ma ricuperata soprannaturalmente
una nuova vita morale, questa è quella che risuscita,
riconquista e restituisce all' uomo le due prime. Questa vita morale viene
ricuperata dall' uomo colla sua congiunzione a Gesù Cristo, che è il
pane disceso dal Cielo: e in questa vita morale e soprannaturale di
Gesù Cristo, partecipata dall' uomo, consiste la nuova dignità dell' uomo,
la sua grandezza, la sua potenza, e il sentimento che noi
dicevamo della magnanimità cristiana.
Il primo effetto di questa nuova vita che riceve l' uomo venendo
incorporato a Cristo, si è il sentimento della potenza morale, col quale
egli disprezza la vita precedente, fisica e intellettuale, e così si sente
superiore alla morte.
Questa superiorità alla morte veniva espressa da S. Paolo [...OMISSIS...] .
Il disprezzo della vita fisica e di tutte le cose umane veniva espresso
dall' Apostolo medesimo in quest' altre parole a que' di Filippi: [...OMISSIS...] .
Il disprezzo della vita
intellettuale nuda separata dalla morale, fu pure espresso da S. Paolo
così a que' di Corinto: [...OMISSIS...] .
Il secondo sentimento che si racchiude nella magnanimità del Cristiano
è quello della ricchezza e della padronanza che il Cristiano sente
d' aver ricevuto su tutte le cose della natura, perchè possiede Cristo che
è il Signore della natura. A questo sentimento si riferisce primieramente
il poter de' miracoli promesso alla fede di cui Cristo disse: [...OMISSIS...] .
Ed ancora: [...OMISSIS...] .
E di nuovo: [...OMISSIS...] .
Ed anche: [...OMISSIS...] .
Alla preghiera fedele è promesso tutto, senza ostacolo che possano
fare le leggi della natura. Avviene però che il fedele rare volte cerca
miracoli per sè, e quasi sempre li desidera perchè i popoli conoscano
per essi la verità evangelica: egli che già crede non ne ha bisogno, e pel
rimanente si contenta dell' ordinaria provvidenza di Dio, nelle cui mani
sta; il suo unico desiderio è di possedere la santità, alla quale ottenere
non fanno mestieri miracoli esterni. Onde, non desiderandoli, nè volendoli,
nè pure può aver quella fede di ottenerli che li produce. Quindi i
miracoli succedevano più frequenti al principio quando si dovea propagare
il Vangelo, ed ancora accadono quando sembrano necessarii agli
uomini apostolici per diffondere alle nazioni infedeli l' evangelica verità.
Del rimanente può anche accadere che si desiderino i miracoli per aumento
della pietà o per la glorificazione dei santi; e se sorge nel cristiano
questo desiderio, e la fede con esso, e quindi dimanda il miracolo, questo
avviene indubitamente, siccome avviene ancora ove il santo desiderio
insorga nell' animo per qualsiasi altro onesto motivo, e quel desiderio
sia semplice e produca una volontà assoluta d' ottenere il miracolo, una
volontà santa che si trasfonda in orazione senza esitazione di sorta.
Questa volontà santa, semplice ed assoluta di volere quella cosa miracolosa
e di dimandarla conseguentemente senza esitazione, se non nasce
per una speciale ispirazione di Dio o non vi abbiano i motivi addotti
della propagazione del Vangelo o della glorificazione dei santi, suol
trovarsi più facilmente nei santi uomini idioti che non sia ne' gran
letterati, benchè santi anche questi, a cagione che questi ultimi, avendo
più lumi intorno l' ordinaria Provvidenza, più in questa si confidano,
e tanto di questa si assicurano e ne aspettano con pazienza lo svolgimento,
che non vedono alcun assoluto bisogno di volere e di dimandare
il miracolo, onde non ne hanno una volontà assoluta e non lo dimandano
semplicemente e senza condizione a Dio. Nè perciò questi si tengono
meno ricchi e padroni degli avvenimenti de' primi. Tutti gli uomini
santi sentono di possedere in Cristo il tutto, e con esso tutte le cose di
cui egli è Signore, onde S. Paolo: « Si Deus pro nobis, quis contra nos? »
[...OMISSIS...] .
Di che di nuovo l' Apostolo: « Habeo autem omnia et abundo (2)... » Laonde
tutte le cose dell' universo avvengono dirette dalla Provvidenza al
bene e al perfezionamento dei Santi: [...OMISSIS...] ,
dei quali ha detto Cristo non perirà un capello (4). Ma
nel medesimo tempo l' uomo santo intende che il possesso ch' egli ha di
tutte le cose, lo ha in Cristo e per Cristo che è in lui, onde si considera
come un figlio di famiglia che è bensì padrone, ma subordinatamente
al Padre che è il vero padrone, sentimento espresso dall' Apostolo in
quelle parole ai Corintii: [...OMISSIS...] .
E ancora i santi incorporati a Cristo si chiamano suoi coeredi ,
perchè, essendo Cristo l' erede, come quello che morì in forma dell' uomo
vecchio e risorse uomo nuovo, ereditando tutto ciò che all' uomo vecchio
apparteneva ed anzi tutte le cose, egli, formante un corpo solo coi fedeli
sue membra, chiamò queste stesse a parte della regale e magnifica sua
eredità.
Il terzo sentimento della magnanimità cristiana si è il disprezzo delle
ricchezze e di tutte le cose del mondo; perocchè l' uomo incorporato a
Cristo e santo, non cura di possedere a titolo umano e con brighe e sollecitudini
temporali poche cose ed incerte, quando sa di possederle tutte
in Cristo, e d' averle pronte, senza darsene briga o fastidio, ogni qual
volta gli bisognano al proprio fine soprannaturale che solo apprezza
come vero bene. Di che egli sente la beatitudine della povertà proclamata
da Cristo, alla quale fu promesso il regno de' Cieli (1); sente
ancora quell' altra voce di Cristo: « Nolite ergo solliciti esse dicentes: quid
manducabimus, aut quid bibemus, aut quo operiemur? haec enim omnia
gentes inquirunt. Scit enim Pater vester, quia his omnibus indigetis.
Quaerite ergo primum regnum Dei et justitiam ejus et haec omnia
adjicentur vobis (2) ». Per le quali cose l' Apostolo descrive il ministro
di Cristo con queste parole: « Sicut egentes, multos autem locupletantes:
tanquam nihil habentes, omnia autem possidentes (3) ». A cui s' aggiungono
le ricchezze non corrotte e non corruttibili promesse al Cristiano
dalla voce di Cristo in un altro tempo, di cui potrà goderne senza timore
e senza diminuzione di santità: [...OMISSIS...]
Il quarto sentimento della magnanimità cristiana è la quiete nella
condizione e nell' esercizio de' doveri del proprio stato, quando Iddio
non muova e chiami all' opere straordinarie; e per l' opposto è l' intraprendenza
e il coraggio perseverante nell' affrontare e condurre a termine
le opere straordinarie a cui Iddio dà la mossa, e che mostra di
volere. La quiete nasce nell' uomo incorporato a Cristo, rispetto ai beni
umani ed al miglioramento di sua condizione, perchè sentendo di posseder
Cristo è soddisfatto come del possesso del tutto. [...OMISSIS...] .
Onde quelli
che hanno in sè il sentimento di Cristo, non possono essere inquieti e
solleciti per ottenere umani avanzamenti e ricchezze, ma vivono nel
loro stato tranquilli.
Ma nè pure il cristiano esce dalla sua quiete per intraprendere di
proprio moto e senza conoscer prima la volontà di Dio opere straordinarie,
benchè in se stesse sante e rivolte a glorificare Iddio. E ciò pel
sentimento di umiltà, pel quale sa di essere un nulla e di nulla per se
stesso capace. Di poi perchè non ignora che Gesù Cristo, che è in lui
e il qual solo può fare in lui e con lui le cose grandi per la divina gloria,
se le volesse, gliene darebbe l' impulso e gli manifesterebbe, cogli avvenimenti
diretti dalla sua Provvidenza e in altri modi altresì, il suo
volere. In terzo luogo perchè l' uomo non può sapere se un' opera anche
buona in se stessa entri nel gran piano di Dio, e quindi sia un vero bene
nel tutto, e quindi ancora Iddio la voglia far riuscire. [...OMISSIS...] .
In quarto luogo perchè sa che tutte le cose, in qualunque
modo egli operi, sono dirette dal Padre alla massima glorificazione del
Figlio, ed anzi sono tutte date in mano del Figlio: onde questo effetto
ch' egli tanto desiderava già viene ottenuto, o con lui se vuole Iddio, o
senza di lui se non vuole.
Ma quando lo spirito di Cristo, che è in lui, lo muove, quando la
volontà di Dio si manifesta, quando si presenta quella necessità morale,
di cui diceva S. Paolo: [...OMISSIS...]
(4), allora
l' intraprendenza, il coraggio, la perseveranza del Cristiano per la salvezza
delle anime e per l' opera più stupenda di carità non ha limiti.
Già egli mandato da Dio sente la sua immensa potenza in quel Cristo nel
quale opera: egli superiore alla morte e a tutti i beni del mondo che
disprezza, sapendo d' aver tutto ciò in sue mani, dice coll' Apostolo:
« Omnia possum in eo qui me confortat (1) »: le difficoltà, le angustie, le
infermità lo avvigoriscono: [...OMISSIS...] .
Nè lo arretra o
sgomenta il sentimento della propria debolezza, perchè confida in Cristo
e non in se stesso, perchè sa e sente quello che dice l' Apostolo: « quae
stulta sunt mundi elegit Deus, ut confundat sapientes: et infirma mundi
elegit Deus ut confundat fortia: et ignobilia mundi et contemptibilia
elegit Deus et ea quae non sunt, ut ea quae sunt destrueret: ut non
glorietur omnis caro in conspectu ejus (3) ». E l' uomo incorporato a Cristo
ripone veramente se stesso fra le cose che non sono, [...OMISSIS...]
perchè egli non vive più della vita propria, cioè non conta più questa
vita e non vuole operare secondo essa, ma vive in lui l' uomo nuovo
Gesù Cristo, pel quale solo e col quale, siccome sua nuova vita, vuole
operare e sa di potere. Laonde in questo sentimento del proprio nulla,
viene esclusa la falsa umiltà, ed ha luogo la ricognizione de' doni di
Cristo, e quella cotal maniera di gloria di cui l' Apostolo dice: « Qui autem
gloriatur in Domino glorietur (4) ». Il che ha più significati: perocchè
vuol dire di gloriarsi in quel Signore che fa tutto il bene in noi, attribuendone
a lui solo la gloria di cui egli ci fa partecipi (5); vuol dire di
gloriarsi non della nostra nullità o nelle cose vane e riprovevoli, ma di
riporre la nostra gloria nell' essere uniti a Dio (6); vuol dire ancora di
aspettare che quel Signore Gesù Cristo che è in noi già glorificato dal
suo Padre celeste comunichi a noi egli stesso della sua gloria, senza che
ce la prendiamo noi stessi, che non siamo conoscitori nè giudici del
merito, nè nostro, nè altrui (7).
Ora nè pure la magnanimità cristiana, sentimento nobilissimo da
più sentimenti risultante, poteva essere nel primo uomo, perchè egli
non era annientato per lasciare in sè luogo a Cristo; ma Adamo viveva
della vita sua propria, benchè la sua mente avesse la percezione del
Verbo, e secondo quella vita umana e limitata operava, e poteva, se
avesse voluto, e onestamente operare, e sempre più spingersi a partecipare
della vita intellettiva e della grazia del Verbo.
Dalla congiunzione fisica7intellettuale7morale dell' uomo con Cristo,
per la quale Cristo diviene il capo, i fedeli le membra che dal capo
ricevon la vita e l' operazione, di maniera che Cristo è il principale operante
nel Cristiano che non pone ostacolo cooperando alla mozione del
capo, si viene ad intendere il valore di alcune formole solenni usate nelle
divine Scritture e risonanti di continuo in bocca de' primitivi cristiani.
Una di queste formole è quella « in Cristo »: [...OMISSIS...]
Essere in Cristo Gesù è quanto dire essere
inseriti in lui come il tralcio nella vite, e dice: ex ipso cioè ex Deo,
perchè questa incorporazione è opera della santissima Trinità e s' attribuisce
al Padre, dal quale procede il Verbo e con esso Verbo tutto ciò
che al Verbo s' unisce e forma un corpo con lui, quasichè i fedeli stessi,
divenuti una cosa col Figliuolo, e così divenuti Figliuoli anch' essi, procedessero
essi pure dal Padre.
« In Christo Jesu per Evangelium ego vos genui (2) ». Generare in
Cristo è lo stesso che incorporare, inserire in Cristo. E si dice generare,
perchè Cristo divenendo il principio supremo dell' operare, ossia suscitando
per la sua congiunzione coll' uomo una nuova attività nell' uomo,
superiore a tutte le altre ed atta a dominarle, l' uomo diviene con ciò
una nuova persona, giacchè la base della personalità consiste nel principio
intelligente supremo dell' operare. Onde S. Paolo considera l' uomo
in Cristo come creato di nuovo, un uomo nuovo (3), una nuova creatura,
che sola ha prezzo, nulla valendo tutto il resto [...OMISSIS...] .
E
poichè, rinnovata la personalità, creato un principio supremo e dominatore
nell' uomo santo, ed incorruttibile, egli è come seme da cui dee
rinnovarsi l' intera natura umana e tutto ciò che è fatto per essa, giacchè,
ottenuto il fine, non possono, secondo la divina sapienza, mancare i
mezzi, e il principale dee tirare a sè l' accessorio; quindi nel rinnovamento
della parte superiore dell' uomo vede l' Apostolo giustamente la
rinnovazione di tutto il mondo umano e la restaurazione di tutte le
cose: [...OMISSIS...] ,
ed è quello che avevano già predetto gli antichi
profeti (2). Il che fu l' eterno gran disegno di Dio, pel quale anche
permise la caduta del primo uomo: « ut notum faceret nobis sacramentum
voluntatis suae, secundum beneplacitum ejus quod proposuit in eo,
in dispensatione plenitudinis temporum instaurare omnia in Christo,
quae in coelis et quae in terra sunt, in ipso (3) ». Dove per quelle cose che
sono ne' cieli s' intendono le spirituali, l' intelligenza e tutto ciò che è e
si fa in essa, ossia la volontà intelligente, la quale va di cielo in cielo,
di virtù in virtù, di perfezione in perfezione fino che, toltale intorno
la benda corporea e tutte le macchie, perviene al cospetto di Dio nel
Cielo de' Cieli. Per le cose poi che sono in terra deve intendersi il corpo
umano, l' animalità e tutte le cose esterne che alla vita animale si riferiscono,
le quali pure a suo tempo saranno restaurate, e già incominciano
ad essere per la Provvidenza che le guida e rivolge a favore di
quelli che amano Dio. E dice in ipso , perchè in Cristo sono tutte incorporate
e formanti con esso lui un solo corpo, di cui egli è il capo e lo
spirito vivificante; perocchè con Cristo non è solo incorporata l' anima,
ma essendo Cristo non solo Dio, ma ancora uomo, e l' umanità di Cristo
essendo composta necessariamente d' anima e di corpo, egli è di conseguente
rettore, capo e vita non meno delle anime che de' corpi degli
uomini, in un modo nel presente, in un altro più perfetto nel futuro,
quando anco i corpi saranno intieramente rinnovati e perfezionati. Laonde
S. Paolo anche nel tempo presente chiama i corpi de' Cristiani membra
di Cristo [...OMISSIS...] .
E non già che il corpo nella presente condizione sia
pienamente riformato e fatto anch' egli degno della vita di Cristo; ma
per la sua congiunzione collo spirito incorporato in Cristo, e per l' influenza
dell' umanità di Cristo, come vedremo in appresso, acquista una
cotale santificazione, e partecipa in qualche modo della stessa vita spirituale.
Il che è quello che vuol dire S. Paolo conchiudendo: « Qui autem
adhaeret Domino, unus spiritus est », non apprezzandosi il corpo come
corpo, ma come partecipe d' una cotale spiritualizzazione, onde impedisce
meno allo spirito di santificarsi, e alla santificazione di lui coopera.
Rimanendo però nel corpo, fino che sta nella vita presente, qualche cosa
di restìo e di materiale, onde anche soffre quanto più lo spirito a Dio si
congiunga; conviene che a suo tempo venga distrutto e rinnovato colla
risurrezione, al che si riferisce S. Paolo [...OMISSIS...] .
Innumerabili sono le maniere di dire nelle quali ricorre nel favellare
degli apostoli e de' loro discepoli l' espressione in Cristo, perocchè
tutto ciò che è o che fa l' uomo cristiano, è in Cristo, lo fa in Cristo.
[...OMISSIS...] ;
e così di ogni altra
cosa che avviene all' uomo soprannaturale, o che egli patisce, o che egli
fa. Basta aprire le scritture degli Apostoli per abbattersi in questa fecondissima
espressione in Christo, che egualmente ricorre ne' primi scrittori
della Chiesa, nelle lapidi mortuarie cristiane, negli altari e nelle
Chiese, in tutti i monumenti della cristiana tradizione.
In questa solenne parola in Christo si contiene compendiato tutto
il Cristianesimo, perchè esprime la reale mistica unione dell' uomo con
Cristo, nella quale unione e incorporazione consiste il Cristianesimo
in atto.
Questa unione e incorporazione è il principio della pietà e scienza
cristiana, perocchè il Cristianesimo, prima è pietà appartenente
all' ordine attivo morale, e poscia è scienza appartenente all' ordine
astratto intellettuale. Dal sentimento di questa incorporazione procede
tutta la dottrina morale ed ascetica dell' uomo cristiano: questo sentimento
è luce che lo illumina, perocchè è il sentimento di Cristo. L' unione
e l' incorporazione reale dell' uomo con Cristo ha due parti.
L' una e la prima e fondamentale è l' opera di Dio solo, è il fondamento
della seconda; quella che si chiama anche la generazione spirituale,
la nascita dell' uomo nuovo: è il congiungimento stabile che
Cristo fa dell' uomo a sè; onde la nuova creatura.
La seconda parte, propagazione ed effetto della prima, non è fatta
dal solo Cristo, ma da Cristo coll' uomo, a cui s' è congiunto. L' uomo,
acciocchè abbia luogo questa seconda parte della sua incorporazione a
Cristo, acciocchè questa incorporazione abbracci totalmente l' uomo,
dee non porre ostacolo all' operazione di Cristo e lasciarsi muovere spontaneamente
secondandone gli istinti.
La prima di queste due parti è l' impressione del carattere, di quel
carattere che, secondo l' Apostolo, è il carattere della sussistenza di Dio;
cioè del Verbo incarnato.
La seconda è la diffusione nell' uomo della grazia abituale e santificante
che viene dal carattere, cioè dal Verbo di Dio incarnato che
emette il suo spirito nell' uomo che non resiste e lascia muovere la propria
spontaneità da esso spirito.
Dicevamo che l' impressione del carattere è fatta dal solo Cristo:
questo si verifica a pieno nel bambino che non può opporre alcun ostacolo.
Nell' adulto però, che è in condizione di operare colla sua volontà,
quando viene battezzato (giacchè col battesimo, come noi diremo in
appresso, s' imprime primieramente il detto carattere), si esige che almeno
abbia l' intenzione di ricevere il battesimo di Cristo, o il battesimo
datogli dalla Chiesa di Cristo: perocchè se egli o avesse intenzione semplicemente
di subire quella funzione materialmente o la subisse con
animo del tutto avverso a ricevere esso battesimo, non volendo anzi al
tutto riceverlo, l' effetto dell' impressione del carattere non seguirebbe.
Conviene adunque pel primo effetto, che nell' uomo non vi abbia
la volontà avversa a riceverlo: e pel secondo, che vi abbia la volontà
credente e docile al sentimento di Cristo, qualora questa vi possa essere;
e se non vi può essere alcun atto di volontà, come nel bambino, conviene
che vi abbia la volontà in potenza che riceve l' abito della fede e l' inclinazione
ad essa senza ostacolo. Perocchè Cristo, che incorpora a sè il
bambino, piega a sè abitualmente la volontà del medesimo, la quale si
lascia piegare a quello che la tira, senza possibile resistenza.
Laonde il carattere s' imprime nell' essenza dell' anima in quanto è
intelligente, affettando la natura umana; la grazia poi informa la volontà
dell' uomo, cioè l' essenza dell' anima in quanto è volitiva: e così tutto
l' uomo rimane a Cristo congiunto, il che San Paolo chiama: « « vestire
Cristo (1) » ».
Ora da questa meravigliosa congiunzione dell' uomo con Cristo gli
Apostoli e i loro successori derivarono, come dicevamo, tutti i precetti
della morale e della perfezione cristiana quasi da un principio che nel
loro seno tutti li racchiude, ed indi trassero argomento a tutte le loro
esortazioni colle quali stimolavano i fedeli alla virtù cooperando a quel
fondamento che già era in loro collocato della spirituale loro salvazione.
E da prima da questa dottrina procedeva che la vita puramente
naturale dell' uomo, cioè l' uomo vecchio, corrotto dal peccato naturale,
non aveva più alcun valore, e però era condannato alla morte, e doveasi
considerare come morto; laddove la vita novella, la vita di Cristo comunicata
all' uomo era quella in cui doveva porsi ogni speranza, contenendo
il seme dell' immortalità ed essendo veramente per sè immortale ed eterna.
Onde S. Paolo diceva ai Romani [...OMISSIS...] .
Sotto la parola carne e la parola corpo s' intende la vita
naturale, adamitica, guasta dal peccato, onde nulla si può sperare perchè
dannata alla morte, quando il bene e la salute dell' uomo sta nell' immortalità.
Onde anche Cristo aveva detto: « Spiritus est qui vivificat,
caro non prodest quidquam (3) ». E l' Apostolo: « Ergo, fratres, debitores
sumus non carni, ut secundum carnem vivamus. Si enim secundum carnem
vixeritis, moriemini: si autem spiritu facta carnis mortificaveritis,
vivetis. Quicumque enim spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei (4) ». Laonde
queste due maniere esse in carne (1) ed esse in spiritu significano e
contrappongono l' una all' altra le due vite: la vita naturale, mortale,
corruttibile e corrotta ricevuta da Adamo per via di naturale generazione;
e la vita di Cristo a noi comunicata per la generazione soprannaturale.
Alle quali due maniere rispondono quest' altre: ambulare secundum
carnem, cioè vivere secondo i desiderii della vita naturale e infetta
dal peccato; e ambulare spiritu, cioè vivere secondo gli istinti della vita
nuova di Cristo incorruttibile a noi comunicata. « Nihil ergo nunc damnationis
est iis qui sunt in Christo Jesu, qui non secundum carnem ambulant
(2) »: dove il qui sunt in Christo Jesu indica la prima fondamentale
incorporazione con Cristo, e il qui non secundum carnem ambulant
indica la cooperazione di colui che opera secondo gli istinti della nuova
vita ricevuta dalla congiunzione con Cristo. Nulladimeno, quantunque
chi vive della vita di Cristo non si considera più come fosse in carne,
perchè rinunziò a questa vita carnale; tuttavia, fino che l' uomo vive,
cammina in qualche modo nella carne, perchè questa non è tolta effettivamente
del tutto, e combatte contro lo spirito. Onde S. Paolo dice di
sè: « In carne enim ambulantes, non secundum carnem militamus », e ne
rende la ragione dicendo: « Nam arma militiae nostrae non carnalia sunt,
sed potentia Deo ad destructionem munitionum, consilia destruentes (3) »:
nel qual luogo « il camminare nella carne »significa la condizione dell' uomo
cristiano in questo mondo ancora impacciato colla vita animale
corrotta, la quale sta sempre sull' assalire lo spirito, ma questo la combatte,
non già contrapponendo alla carne armi carnali, ma spirituali,
cioè tolte dalla vita di Cristo di cui egli partecipa, e di cui solo tien
conto, come sua propria vita. La frase poi esse in spiritu, per opposto
di esse in carne, significa appunto la perfetta incorporazione con Cristo,
che si compie, come abbiamo detto, colla volontà consenziente e cooperante
alla operazione di Cristo, nel che sta l' effetto della grazia. Perocchè
lo spirito di cui si parla è lo spirito di Cristo, onde soggiunge: « Si
quis autem spiritum Christi non habet, hic non est ejus (4) », e si chiama
anche « « lo spirito della vita di Cristo ». Lex enim spiritus vitae in
Christo Jesu liberavit me a lege peccati et mortis (5) », perocchè questo
« spirito della vita », onde l' uomo viene avvivato quando è incorporato
a Cristo anche colla sua volontà, è santo ed immortale. Ma conviene,
perchè vi abbia questa vita nell' uomo, che Cristo stesso sia in noi spiritualmente,
cioè che egli diffonda lo Spirito Santo che da lui e dal Padre
procede nell' anima nostra: altrimenti non percipiamo Cristo secondo
lo Spirito, ma solo secondo la carne. Il che dice S. Paolo così [...OMISSIS...] :
il che è quanto dire, che solo col ricevimento della grazia di Cristo, e
non per la sola impressione del carattere, e molto meno per una cognizione
esterna priva della fede o della carità, si conosce Cristo spiritualmente,
cioè partecipando del suo « spirito di vita », ma solo si conosce
secondo la carne, la quale è morta e non dà la vita.
E S. Paolo ripone appunto in questo la figliuolanza di Dio, non
nella sola impressione del carattere battesimale, ma nella grazia che a
lui consegue, se non trova ostacolo, in modo che l' uomo si lasci muovere
dalla grazia, che è quanto dire dallo spirito di Cristo, e secondo
questo operi: « quicumque enim spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei (2) ».
Ora da questa doppia vita che è nell' uomo viatore, cioè la vita
adamitica, e la vita di Cristo in cui siamo incorporati, vengono primieramente
due parti della Cristiana sapienza: l' una speculativa ed è la
dottrina intorno la lotta mortale fra quelle due vite, fra que' due uomini,
il vecchio ripudiato, ed il nuovo, e intorno la storia di questa lotta è
gran parte della teologia: l' altra morale ed ascetica e contiene i precetti
del combattimento spirituale.
La lotta fra la vita adamitica chiamata carne e la vita di Cristo in
noi chiamata spirito è descritta di frequente nelle divine scritture. Dice
S. Paolo: « Caro enim concupiscit adversus spiritum: spiritus autem
adversus carnem: haec enim sibi invicem adversantur: ut non quaecumque
vultis illa faciatis (3) ». Le quali ultime parole indicano la libertà
di fare senza ostacolo il bene limitato dagli istinti della vita adamitica
guasta in noi dal peccato. Questi istinti sono così enumerati dall' Apostolo:
« Manifesta sunt autem opera carnis: quae sunt fornicatio, immunditia,
impudicitia, luxuria, idolorum servitus, veneficia, inimicitiae,
contentiones, aemulationes, irae, rixae, dissensiones, sectae, invidiae,
homicidia, ebrietates, commessationes, et his similia: quae praedico vobis,
sicut praedixi, quoniam, qui talia agunt, regnum Dei non consequentur ».
All' incontro lo stesso Apostolo enumera i frutti dello spirito
di Cristo in questo modo: « Fructus autem spiritus est: caritas, gaudium,
pax, patientia, benignitas, bonitas, longanimitas, mansuetudo, fides,
modestia, continentia, castitas (1). »
Ma l' Apostolo c' insegna altresì che la vita naturale ed adamitica
dell' uomo non sarebbe così corrotta e non lotterebbe di tanta forza contro
lo spirito di Cristo, qualora non intervenissero le potenze malefiche
degli Angeli delle tenebre, le quali sono entrate nella natura umana e
nel mondo materiale quando i primi parenti mangiarono il frutto vietato,
dove, come crediamo, il demonio si accoglieva: « Induite vos armaturam
Dei », dice a que' di Efeso, « adversus insidias Diaboli. Quoniam non
est vobis colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus principes
et potestates, adversus mundi rectores tenebrarum harum, contra
spiritualia nequitiae in coelestibus (2) ». E dice in coelestibus per significare
la parte superiore dell' uomo, cioè la volontà, col solo consentimento
della quale si compie il peccato formale, cui tende produrre
in noi il demonio. E chiama i demoni principi e podestà, e rettori del
mondo di queste tenebre, perocchè il demonio divenne principe di questo
secolo da lui conquistato colla seduzione de' primi parenti: onde
la vita adamitica, appunto perchè infestata dal demonio, è abbandonata
a lui, che era omicida fino dal cominciamento (3), essendo il suo costante
intendimento quello di estinguere l' uomo. Ma l' uomo nuovo
Cristo, immune al tutto dal peccato, non potè venire menomamente in
balìa del demonio, e quindi ottenne una vita immortale, colla comunicazione
della quale agli altri uomini crea in essi un' umanità nuova,
una vita nuova non soggetta alla morte, e però eterna: « Renati », dice
S. Pietro, « non ex semine corruptibili sed incorruptibili per Verbum Dei
vivi et permanentis in aeternum; quia omnis caro ut foenum, et omnis
gloria ejus tamquam flos foeni: exaruit foenum et flos ejus decidit.
Verbum autem Domini manet in aeternum (4) ». Lo stesso S. Pietro poi
raccomanda a' primi cristiani di osservare la sobrietà e la vigilanza,
colle quali virtù si tiene in suggezione la carne, e ne dà per ragione: « quia
adversarius vester diabolus tamquam leo rugiens circuit, quaerens quem
devoret (5) », dimostrando così essere gli angeli ribelli quelli che rendono
insolente la carne, e tentano di dare all' uomo il tracollo acciocchè consenta
ai desiderii ed istinti della carne.
E Cristo stesso insegna che il diavolo porta via il buon grano seminato
dal celeste agricoltore e caduto in sulla via: la qual via rappresenta
il cuore di colui che ascolta predicare la parola del regno e non la intende
(1), e che lo stesso inimico dell' uman genere soprasemina le zizzanie
nello stesso campo dove il padrone aveva seminato il buon grano
(2). E lo stesso Cristo disse agli Ebrei: « Vos ex parte diabolo estis (3) »
per indicare la loro consumata malizia comunicata loro dal diavolo, il quale,
come voleva estinguer l' uomo, così voleva uccider Cristo; nel qual pensiero
erano pur venuti gli Ebrei; e per indicare l' ultimo grado di malizia
del discepolo traditore, gli dà il titolo stesso di diavolo: « ex vobis
unus diabolus est (4) », quasi indicando l' individua unione che il diavolo
aveva stretto coll' Iscariotta, nel quale e col quale operava, quasi direi a
quel modo stesso come Cristo fa nell' uomo santo già in lui innestato.
Perocchè il demonio possiede più o meno dell' uomo adamitico, e
solo Gesù Cristo per se stesso è inaccessibile al demonio, onde potè
dire: « Venit enim princeps mundi hujus, et in me non habet quidquam
(5) ». Maria SS fu certamente immune da ogni invasione del
diavolo per grazia singolare ricevuta dal Figliuolo di cui ella era Madre.
Ma, universalmente parlando, ne' Santi stessi, ne' quali non vi ha
nulla di dannazione, vi ha qualche porzione della loro parte inferiore
molestata e in qualche modo posseduta dal demonio: onde la lotta che
accresce il loro merito, le venialità, e il bisogno della purificazione col
fuoco e colla morte. Fin a tanto però che il demonio non possiede la
parte superiore dell' uomo, la volontà suprema, l' uomo è imperfetto,
ma salvo tuttavia per Cristo, e non sarà in lui distrutto dal fuoco se non
quello che avrà edificato di combustibile sopra il fondamento di Cristo
che è in lui: [...OMISSIS...] .
Posta questa lotta accanita fra l' uomo adamitico e l' uomo nuovo,
cioè Cristo, nel cristiano, deriva la dottrina, come dicevamo, del combattimento
spirituale.
Questo combattimento ha due parti: l' una tende a rinforzare
l' uomo nuovo, farlo crescere sempre più robusto e sicuro; l' altra tende
a debilitare il nemico, cioè l' uomo adamitico, togliendogli la baldanza
di nuocere.
Ora S. Paolo enumera specialmente le armi che valgono per ottenere
il primo effetto in queste parole: [...OMISSIS...] .
Sono dunque queste armi, enumerate
da san Paolo, e da lui chiamate anche « armi della luce »(2).
1 La castità espressa coll' espressione de' lombi succinti, che S. Pietro
unisce alla sobrietà dicendo « Propter quod succincti lumbos mentis
vestrae, sobrii perfecte sperate in eam quae offertur vobis gratiam, in
revelationem Jesu Christi (3) »: e dice i lombi della mente, perchè la
castità risiede principalmente in una mente pura, serena, ed aliena da
ogni cosa carnale, il quale stato della mente, a cui ottenere assai conferisce
la sobrietà, facilita oltremodo all' uomo l' innalzarsi alle speranze
di quella grazia gloriosa che è offerta all' uomo, quando Gesù Cristo si
manifesterà a lui nel punto della sua morte e nella fine dei secoli. E
l' Apostolo aggiunge « succincti lumbos vestros in veritate », volendo significare
come non basti una castità apparente, un esterno decoro, ma una
vera castità che rifugge da ogni immondezza, non solo negli occhi degli
uomini, ma in quelli di Dio e della propria coscienza.
2 La giustizia che quasi lorica cuopra tutto il corpo dell' uomo,
quella rettitudine d' animo che è sempre disposto a dare a tutti il suo,
nè fa mai a nessuno alcun torto.
3 L' affetto e la buona disposizione all' evangelio della pace, al che
richiede l' Apostolo che l' uomo abbia i piedi calzati, come colui che dee
viaggiare, cioè sia pronto a far viaggio per cagione dell' Evangelio o
debba egli esulare per la persecuzione, o sia chiamato ad annunziare il
Vangelo ad altre genti, ovvero venga da Dio chiamato all' altra vita, dove
l' Evangelio della pace si compie nella magione del Dio della pace. E
dicendo l' Evangelio della pace, dopo avere raccomandato la giustizia,
viene ad inculcare la mansuetudine e la pace con tutti.
4 La fede, colla quale siccome con un saldo scudo si può spuntare
tutte le saette delle fallacie e false argomentazioni de' falsi sapienti del
mondo, e degli eretici, suscitate nelle loro menti e suggerite dall' iniquo,
cioè dal demonio. E chiama queste saette di fuoco, per la loro sottigliezza
e nequitosità, e per rammentare la perdizione a cui sono destinate
nel fuoco eterno della malizia onde provengono.
5 La speranza che chiama galea di salute, ossia del salutare [...OMISSIS...]
che è Gesù Cristo, perocchè la speranza è appoggiata alle
promesse di Cristo. E che la galea, ossia l' elmo del salutare, sia la speranza,
rilevasi da un altro luogo dell' Apostolo ove dice: [...OMISSIS...] .
Ora l' elmo è un' arma
difensiva che protegge la testa, perchè la speranza procede dalla
mente, dove sta la fede in Cristo, ne' suoi meriti, e nelle sue promesse.
6 La cognizione e lo studio della parola di Dio, giacchè l' uomo
cristiano nella virtù di questa parola fondata nell' infallibile e fedele
autorità di Dio stesso trova tali ammaestramenti e tali sentenze con cui
repellere tutti i sofismi e le tentazioni dell' inimico; di che abbiamo
l' esempio di Cristo che alla trina tentazione diabolica oppose altrettanti
detti delle divine scritture.
7 L' orazione e l' ossecrazione continua [...OMISSIS...] fatta
collo spirito e non colle sole labbra [...OMISSIS...] e con ogni istanza [...OMISSIS...] .
Questa assidua orazione dee farsi per sè e per tutti i
santi, cioè per tutti i fedeli che costituiscono insieme un solo corpo di
cui è capo Gesù Cristo, e particolarmente per i ministri evangelici,
acciocchè Iddio conceda loro il dono della parola, e la fiducia di predicare
liberamente l' evangelica verità e di aprirne agli uomini il mistero.
. A cui s' aggiunge, qual conseguenza necessaria, la vigilanza cristiana
nello spirito d' orazione, per la quale l' uomo sta continuamente
svegliato a ricevere le divine comunicazioni ed attento sopra se stesso e
su tutte le sue operazioni per evitare ogni offesa di Dio, ed ogni mal
passo. « Igitur non dormiamus », dice in altro luogo l' Apostolo, « sicut et
caeteri, sed vigilemus, et sobrii simus (1) », giacchè la mancanza di sobrietà
impedisce non meno la vigilanza che l' orazione. L' orazione e
la vigilanza furono congiunte insieme anche da Cristo quando disse:
« Vigilate et orate ut non intretis in tentationem (2) ».
L' uomo è composto d' una parte intellettiva e d' una parte animale
che presta all' intendimento i segni delle cose reali col mezzo de' quali
egli le pensa. L' unione individua di queste due parti costituisce la razionalità
in cui risiede la natura umana. Ma nella parte intellettiva e
dotata di attività, onde prende il nome di volontà, risiede la persona
umana in quanto la volontà è un principio attivo supremo.
Salvata la persona, è salvato l' uomo; perita la persona, è perito
l' uomo. Laonde il demonio tende a pervertire la persona, e Cristo all' opposto
a salvarla. Cristo la salva congiungendo alla persona, cioè
alla parte suprema dell' umana natura, se stesso, dandole della propria
vita. Il demonio cerca per opposto sedurla operando nell' animalità, e
col gioco de' fantasmi traendola a pensare al male e allettandola a
volerlo.
Quindi due nemici dell' uomo: 1 il demonio co' sofismi che induce
nel pensiero umano, togliendo i fantasmi che potrebbero indurre a pensare
rettamente, e quindi a pensare la verità, il bene, e sommovendo
de' fantasmi che, pel loro disordine, stravolgono e ottenebrano la mente
umana e la fanno pensare malamente e conchiudere alla falsità ed al
male; 2 l' animalità che incita l' uomo, non senza opera del demonio,
ai diletti sensibili, distogliendolo dai diletti spirituali.
Il primo di questi due nemici si combatte principalmente col rinforzare
l' uomo nuovo mediante gli otto mezzi suggeriti dall' Apostolo e
di sopra enumerati. Laonde S. Paolo li propone come armi acconcie a
combattere le potestà malefiche, dopo aver detto che la nostra lotta,
anzichè contro la carne e il sangue, è « contra spiritualia nequitiae in
coelestibus (1) ».
Il secondo nemico, cioè la carne, si combatte coll' estenuare di forze
l' uomo vecchio. Perocchè, quantunque il demonio cerchi di stimolarlo
e dargli una forza prevalente, tuttavia egli non può tutto in quest' opera,
e l' uomo può mortificando la carne rendere inutili gli sforzi dell' inimico
per rinforzarla, il qual nemico d' altra parte viene ad essere diminuito
di potestà e di forze mediante gli otto mezzi enumerati.
La seconda parte adunque del combattimento spirituale consiste nel
scemare forze all' uomo vecchio in quanto contraddice e molesta l' uomo
nuovo; e l' uomo vecchio chiamasi carne, non perchè la sola carne formi
l' uomo, o perchè si debba intender per esso la sola vita animale, ma
perchè nell' ordine naturale tutto l' uomo vive della vita animale, giacchè
la sola animalità gli somministra il sentimento soggettivo, nel quale sta
la vita, il quale sentimento soggettivo, radicalmente animale, si fa razionale
per l' intuizione dell' essere, col quale ragiona sulle cose sensibili
od astratte e quelle razionalmente appetisce. L' uomo nuovo all' incontro
ha un nuovo sentimento soggettivo, come diremo in appresso, nel quale
sta la sua vita, e quel sentimento è una partecipazione della vita di
Cristo.
Quindi adunque procede tutta la dottrina della mortificazione della
carne, e della penitenza cristiana, la quale conviene ora che noi dichiariamo.
Conviene dunque considerare che l' uomo col peccato si era reso
inutile al gran fine pel quale Iddio l' aveva creato, che era quello d' unirsi
a lui e così partecipare della sua santità e della sua beatitudine; e, reso
inutile, l' uomo doveva morire, perocchè non è secondo la divina sapienza
e perfezione che sussista una cosa senza fine. Per questo già all' intimazione
del precetto dato ad Adamo vi era annessa la comminazione
della morte [...OMISSIS...] .
Della morte poi dell' uomo fu occasione il diavolo, il quale aveva tolto
a correre una sfida con Dio. Perocchè Iddio, per mettere alla prova la
soggezione e fede degli Angeli, aveva creato l' uomo così mortale e fragile,
com' egli è di sua natura, e aveva promesso di renderlo immortale
santificandolo e fin anco divinizzandolo (coll' unirlo ipostaticamente
al suo Verbo), e così renderlo oggetto d' adorazione agli angeli stessi,
che per natura sono tanto più eccellenti dell' uomo. Alla qual parola
di Dio credettero gli angeli buoni, e furono confermati in grazia. Ma i
prevaricatori, superbi della loro eccellenza di natura, non credettero al
misterio della divina parola, e parve loro un intollerabile abbassamento
il pensiero di dover adorare una creatura tanto ad essi inferiore. Che
anzi si lusingarono di poter distruggere un essere così fragile, come
vedevano esser l' uomo. Quindi impossessatisi d' un frutto pensarono
che entrerebbero nell' uomo, quand' egli, spiccatolo dall' albero, ne mangiasse;
giacchè il cibo convertendosi nel corpo animato dell' uomo, essi
potevano entrare a man salva nell' animalità, ossia nella vita soggettiva
di questo essere, e farne quel governo che si proponevano. Il che diede
occasione a Dio di avvertir l' uomo del pericolo, dandogli il precetto di
non mangiare di quel frutto, coll' avviso che se ne avessero mangiato,
sarebbero morti: il quale precetto amorevole dalla parte di Dio era
d' altra parte opportuno per dar all' uomo occasione di sollevarsi al
Creatore prestandogli fede ed obbedienza: il che era un vantaggio che
Iddio traeva dalla malizia degli angeli ribelli. Questi dunque, posti all' impresa
d' indur l' uomo a mangiare di quel frutto, trovarono dapprima
l' opposizione del divino comando, ma ingannarono ben presto la donna
promettendole, se n' avesse mangiato, di divinizzare lei e suo marito; il
che era una pungentissima tentazione all' uomo, che sentiva tutta la
potenza della vita e il voto della natura intelligente d' innalzarsi fino ad
una infinita e divina eccellenza. La donna, compresa da una parte della
grandezza della natura angelica che le parlava, la quale è da credere
ch' ella abbia conosciuta smisuratamente maggiore della propria, cioè
dell' umana, e tale da non potersi dall' uomo misurare, quindi indefinitamente
grande (1); dall' altra, sollucherata dalla grandezza della promessa
e dalla pienezza di cui godeva della vita umana, tenendosi sicura
soverchiamente del futuro, riuscendole anche molesta la mortificazione e
l' umiliazione dell' ubbidienza, e allettata dal senso che le mostrava il
frutto oltremodo bello ed appetibile, e dalla curiosità di farne la prova,
falsamente conchiuse esser cosa migliore il divenire pari a Dio per
grandezza naturale, cioè fisica, e intellettuale, come le prometteva di
presente l' angelo, secondando alla propria inclinazione naturale, che
non sia, opponendosi a questa, acquistare la perfezione morale coll' ubbidienza
al divino comandamento intimatole in passato, la quale la
obbligava ad una costante sudditanza a Dio medesimo. Vinta da questo
falso consiglio, credette al seduttore, e negò fede all' eterna verità, e così
cadde ella prima e poscia il marito nella colpa, e col frutto mangiato si
unì colla grandezza diabolica da cui s' era data a sperare sì gran fortuna.
Così da una parte l' uomo naturale si rese inutile al fine della creazione,
onde Iddio non aveva più cagione di difenderlo dalla morte; e
dall' altra era entrato il demonio a guastare e disordinare l' umana natura,
che rimase in tal guisa, e per giustizia divina, e per fragilità umana,
e per istrazio diabolico, soggetta alla morte.
L' uomo naturale adunque fu reso inutile: condannato alla morte,
posseduto dal diavolo, che altro non fa che vie più disordinarlo e guastarlo,
e condurlo più prontamente alla morte e al peccato che è lo
stimolo (1). Se così fossero restate le cose l' umanità sarebbe rimasta distrutta,
e il demonio avrebbe vinta la sfida col Creatore.
Ma il Creatore non poteva perdere, e questa momentanea vittoria
del demonio era l' occazione, la via, il mezzo col quale il Creatore medesimo
voleva dar compimento al suo misericordioso disegno. Egli spiegò
dunque il mistero della sua eterna volontà cogli avvenimenti.
Preservò dal peccato originale una donzella eletta da tutta la stirpe
d' Adamo, nella quale nulla potesse il demonio: alla quale preservazione
dall' infezione originale bastava che rimanesse incorrotto un menomo
seme nell' uomo, trascurato forse dal demonio stesso, dal quale seme
incorrotto passato di generazione in generazione uscisse a suo tempo la
Vergine che doveva schiacciare il capo al serpente (2). In questa Vergine
s' incarnò per opera di Spirito Santo il Verbo, e così l' uomo che ne
nacque fu non solo uomo ma Dio ad un tempo. Quest' uomo aveva la
natura umana perfetta, incontaminata, del tutto innocente: a lui non
era dovuta la morte.
Gli altri uomini morendo pagavano la pena del peccato; per essa
erano disfatti da uomini perdendo la vita soggettiva; nè dalla morte
v' aveva possibile ritorno. L' Uomo7Dio nacque passibile e mortale, come
gli altri figliuoli di Adamo, quantunque, essendo Dio, se avesse voluto
avrebbesi potuto rendere immortale e impassibile, e sottrarsi in qualsivoglia
guisa alla morte ed alle sofferenze. Ora il far questo era un atto
di gran virtù, perchè era un rinunziare generosamente al proprio; era
un atto di virtù, perchè in tale stato d' Uomo7Dio aveva occasione di
esercitare con maggior ampiezza tutte le virtù verso Dio e verso gli uomini;
era un atto di umiltà e di soggezione a Dio, onde solo egli aspettava
ogni esaltamento ed ogni gloria; ed era un atto d' amore verso gli
uomini, di cui voleva partecipare la somiglianza e tutti i mali, eccetto
il peccato, e così poter con esso loro più comodamente trattare, e istruirli
sull' abisso in cui erano caduti e sulla necessità di convertirsi a Dio colla
parola e coll' esempio. Ora, se questo era moralmente eccellente, era
mestieri che l' Uomo7Dio, che doveva in sè accogliere tutta la grandezza
morale che è la vera e compiuta grandezza, ciò che non aveva inteso
l' uomo primitivo, pigliasse questa via sublime: e così fece.
Ma il Padre, oltracciò, abbandonò quest' agnello innocente alla rabbia
de' lupi. Gli uomini rei e schiavi del demonio non poterono sostenere
la vista del giusto nel mezzo di essi. Essi dunque dissero e fecero quello
che si trovava già scritto molti secoli prima nelle Scritture, le quali
dovevano compirsi (1), e Iddio ve l' aveva fatto scrivere acciocchè apparisse
che era il suo eterno decreto. Dissero: [...OMISSIS...] .
Tutto ciò alla lettera gli uomini compirono col solo Giusto,
il S. N. Gesù Cristo: « fecerunt quae manus tua et consilium tuum
decreverunt fieri (3) ». Gesù Cristo espresse alla stessa guisa del libro
della Sapienza il fatto dell' odio gratuito, con cui il perseguitarono gli
uomini: odio tutto proprio di Cristo solo, perchè solo aveva la pienezza
della giustizia, della santità e della divinità. Ai suoi parenti, che lo esortavano
a recarsi nella Giudea per farsi conoscere, rispose: « Non potest
mundus odisse vos: me autem odit: quia ego testimonium perhibeo de
illo, quod opera ejus mala sunt (4) ». E altrove [...OMISSIS...] .
Conviene
anche osservarsi, che mentre Cristo diceva a' suoi parenti, quando
ancora non credevano in lui: [...OMISSIS...] dice
all' incontro ai suoi discepoli che già credevano e quindi erano incorporati
con lui: [...OMISSIS...] .
E più altre
volte predice ai suoi seguaci che saranno trattati come lui, perchè « non
est discipulus supra magistrum (6) », che anzi l' Apostolo pronuncia in
generale che «omnes qui pie volunt vivere in Christo Jesu persecutionem
patientur (7) ».
Questa è la lotta fra l' uomo vecchio e il nuovo: quella lotta medesima
che si manifesta nell' uomo rigenerato fra lui e quel rimasuglio
d' uomo vecchio che ci rimane, fra lo spirito e la carne. Solamente che
l' uomo nuovo, che vive della vita di Cristo ed opera secondo gli istinti
di questa vita, non ha più in se stesso per avversario un altro uomo,
ma solamente delle forze nemiche quali sono la concupiscenza e il demonio
che più o meno vi si può maneggiare. All' incontro nella lotta fra
Cristo e il mondo, cioè gli uomini malvagi, e lo stesso si dica della lotta
fra i cristiani che sono in Cristo e i malvagi che li perseguitano, il combattimento
non è della persona umana e delle forze nemiche, che appartengono
alla natura dell' uomo ma non sono costituite in persona, ma
bensì fra persone e persone, fra uomo ed uomo. La causa nulladimeno
e la natura del combattimento è la medesima: salvo che nel primo caso
tale combattimento è un fenomeno che si manifesta entro un individuo;
nel secondo è un fenomeno che si manifesta in più individui, gli uni
persecutori o insidiatori, gli altri perseguitati o insidiati.
Esigendo dunque la perfezione della virtù, nel che consiste la
grandezza morale, che l' uomo sia inteso unicamente a fare la volontà
di Dio, e che dimentichi se stesso, cioè gli interessi proprii soggettivi,
per non vivere che a seconda dell' oggetto; e quindi esigendo di aspettare
ogni protezione, difesa, laude e gloria da Dio medesimo, che provvede
magnificamente a' suoi servitori; esigendo finalmente che tutto ciò che
appartiene al bene eudemonologico si brami e si aspetti come un effetto
che fiorisce dal bene morale, di cui, secondo l' ordine ontologico, deve
essere una cotale appendice e finimento, e non da se stesso senza la sua
connessione naturale del bene morale: era mestieri che Cristo, destinato
ad essere tipo e il realizzamento d' ogni perfezione, non provvedesse al
proprio esaltamento, non usasse della divinità che possedeva a rendersi
impassibile e glorioso, o a sottrarsi in altro modo dalle condizioni penali
degli altri uomini, e quindi nè pure a togliersi dalla persecuzione che
gli sarebbe fatta a cagione della sua giustizia odiata dal mondo maligno,
che non riconosceva altra grandezza umana se non la fisica e l' intellettuale,
ma che anzi sopportasse per la giustizia l' estremo dei patimenti
e la morte. Il Padre celeste, per la ragione appunto che amava il Verbo
incarnato d' un amore eterno ed infinito, doveva volere questa grandezza
e perfezione morale di Cristo, in cui l' umanità doveva essere recata
all' estrema altezza della eccellenza, la quale nel bene morale primieramente
consiste. Questa dunque fu l' opera commessa dal Padre al Figliuolo
mandato da lui nel mondo; questa volontà del Padre fu l' unica
e costante regola della condotta di Cristo: [...OMISSIS...] .
L' opera del
Padre era l' uomo: quest' opera doveva essere condotta alla perfezione
dal Figliuolo vestito dell' umana natura. « Non quaero voluntatem meam,
sed voluntatem ejus qui misit me (1) »: cioè, io non cerco la mia volontà
umana, soggettiva, non vo dietro all' istinto limitato dell' umanità; ma
cerco la volontà perfettissima ed infinita di Dio Padre da cui procedo,
e da cui sono mandato al mondo. Or questa volontà del Padre era ella
una volontà positiva ed arbitraria? Voleva così il Padre perchè così
era bene, ovvero era bene perchè così voleva il Padre? E se il Padre
voleva così perchè era bene, qual è la ragione onde Cristo disse sempre
esser venuto a far la volontà del Padre, in luogo di dire esser venuto
a fare ciò che in se stesso era il bene perfetto, giacchè in tal caso l' esser
bene ciò che faceva sarebbe stato una ragione del suo operare anteriore
a quella della volontà del Padre, giacchè l' esser bene sarebbe stato la
ragione dello stesso volere del Padre? Se poi la volontà del Padre era
unicamente positiva ed arbitraria, non sarebbe ella stata una volontà
senza ragione? e una volontà crudele, come quella che sommetteva il
Figliuolo a tanto patimento senza una necessità?
Per rispondere a questa difficoltà conviene prima di tutto riflettere,
che non vi ha nulla di anteriore alla divinissima Trinità: non vi ha Dio,
perchè Iddio è la Trinità; non vi ha l' essere, perchè l' essere è Dio;
non vi ha l' ordine dell' essere, perchè appunto non vi ha l' essere, e l' ordine
intrinseco e fondamentale dell' essere consiste nelle relazioni personali
che costituiscono l' augustissima Triade; non vi ha dunque nè pure la
forma morale dell' essere, perchè non vi ha l' ordine dell' essere di cui
la forma morale è parte completiva. Ora questa forma morale è prima
di tutto, nella sua assoluta ed originale perfezione, come persona, la
persona dello Spirito Santo. Ora la persona dello Spirito Santo, che è
l' essere oggettivo amato per se stesso, procede dal Padre per mezzo del
Figliuolo per modum voluntatis, come dicono i Teologi, giacchè amare e
volere suonano lo stesso, onde l' essere oggetto persona, amato ossia
voluto per se stesso dalla sussistenza, cioè dal Padre, è lo Spirito Santo
dove risiede l' assoluto bene morale, l' assoluta e personale santità. Vi
ha dunque una volontà personale del Padre che è la spirazione che
mette in atto lo Spirito Santo, nel quale la moralità essenziale come in
proprio fonte si raccoglie. Non è anteriore adunque a questa volontà
alcun bene morale, ma il bene morale originariamente da essa procede
e si costituisce, ed è ad essa contemporaneo, ma secondo l' ordine logico
posteriore. Convien dunque dire che la volontà del Padre, di cui parliamo,
sia la ragione prima anteriore ad ogni moralità; ma, lungi da
essere irragionevole ed arbitraria, è anzi quella che costituisce ogni
ragione morale, ed è necessaria, come è necessaria nell' essere divino
la spirazione del Santo Spirito che compisce e perfeziona la divinità
sussistente in tre forme persone. A questa volontà per tanto si riferiva
Gesù Cristo quando diceva di cercare non la volontà propria, ma la
volontà di colui che lo ha mandato, di colui da cui egli stesso generato
ab eterno aveva ricevuto di spirare, con una sola spirazione, lo Spirito
Santo; di volere l' essere per sè voluto, per sè amato. Quest' essere adunque,
in quanto è infinitamente amato, è l' oggetto della volontà del
Padre e del Figliuolo, e la norma dell' operare di Cristo, il quale perciò
doveva dare le massime ed esterne prove dell' amore verso l' essere stesso,
sia in Dio dov' è assolutamente e per essenza, sia negli uomini dov' è
contingente, relativo e partecipato.
E quindi tale volontà del Padre, avendo una necessità morale, è
chiamata da Cristo anche precetto, o mandato, e s' estende a tutte le
azioni e passioni di quello che doveva esser tipo agli uomini di ogni
perfezione: [...OMISSIS...] .
E dice che questo mandato del Padre è la vita eterna, a cui riscontro
sta la vita temporale; perocchè quel mandato essendo essenzialmente
morale, contenente cioè la spirazione dello Spirito Santo che è il bene
morale sussistente personalmente, esso dee contenere necessariamente
la vita morale, la quale di natura sua è eterna.
Con che in pari tempo dimostra, quanto il mandato del Padre
valga più della vita temporale, la quale è passeggiera e momentanea,
per modo che nulla si debba riputare il getto di questa pel guadagno
di quella. Per adempire dunque questo mandato, e mostrare il suo
amore al Padre (e nell' amore, come dicevamo, sta la forma morale dell' essere),
Cristo non prezzò punto la temporale sua vita, e si soppose a
quella passione che doveva essere l' estremo della morale eccellenza:
[...OMISSIS...] .
Il che è quanto dire che non moriva per necessità di giustizia,
giacchè il demonio, che in lui non possedeva cosa alcuna, non aveva
alcun diritto di conquista sopra di lui, e però non poteva dargli morte
come agli altri uomini. Ma che egli nulladimeno moriva non costretto,
ma per ispontaneo amore al Padre: il quale amore tuttavia era una
necessità morale, e però un mandato del Padre, che, volendo in lui
l' eccellenza morale, voleva l' amore e la prova suprema dell' amore, lo
spontaneo sacrificio della vita. Onde la morte di Cristo fu al tutto spontanea
ed effetto d' amore: ma, perchè questa spontaneità d' amore era
la suprema eccellenza della virtù del Padre voluta nel suo Figliuolo
umanato, perciò era ad un tempo stesso un mandato o precetto del
Padre suo. Le quali due qualità, in apparenza opposte ma veramente armoniche,
della morte di Cristo, cioè l' essere essa effetto di spontaneo
amore e nello stesso tempo mandato del Padre che voleva questo amore
nel Figliuolo, sono congiunte da Cristo anche in queste altre sue parole:
« Propterea me diligit Pater, quia ego pono animam meam ut iterum
sumam eam. Nemo tollit eam a me: sed ego pono eam a meipso; et
potestatem habeo ponendi eam, et potestatem habeo iterum sumendi
eam. Hoc mandatum accepi a Patre meo (1) ». E che il sacrificio dipendesse
dalla sua libera volontà era stato già predetto anche da Isaia che
aveva scritto di lui: [...OMISSIS...] .
Ora, nelle citate parole di Cristo
trovasi la conferma di quanto abbiamo detto: « Per questo, dice, mi ama
il Padre, perchè io depongo l' anima mia per riprenderla ». Ora l' amore,
che il Padre ha al suo Verbo come essenzialmente amabile ed amato, è
la spirazione dello Spirito Santo; il Verbo, in quanto è oggetto amato,
e non in quanto è Verbo cioè oggetto sussistente per sè cognito, è la
persona dello Spirito Santo, la quale amabilità amata è l' essenza morale.
Convien adunque che anche il Verbo incarnato, l' Uomo7Dio, fosse amato
dal Padre, in quanto attuava la massima virtù morale, il massimo amore,
di cui il sacrificio della vita temporale è il massimo atto, la massima
prova: di maniera che il mandato dato a Cristo dal Padre è un atto di
massimo amore del Padre verso il Figlio, è l' amore stesso del Padre e
del Figliuolo formante la norma che doveva seguire l' umanità assunta
dal Figliuolo.
Ed ancora è da osservarsi, che non è solo volontà e mandato del
Padre che il Figliuolo deponga spontaneamente la sua vita temporale
acciocchè così eserciti la perfezione della virtù morale, ma è volontà
del Padre altresì che poi la riprenda, e non più temporale, ma impassibile,
gloriosa, resa vita eterna; e quindi il Figliuolo, a capello in accordo
col Padre, non la dimette per dimetterla, ma per riassumerla
dimessa; e in questo ancora è amato dal Padre, e in questo ancora ama
il Padre: « Per questo mi ama il Padre, perchè io depongo l' anima mia
per assumerla di nuovo. Nessuno me la toglie; ma io la pongo da me
stesso, ed ho la potestà di riassumerla. Questo comandamento ho io
ricevuto dal Padre ». Onde il comandamento del Padre si estende, non
meno che alla morte, altresì alla risurrezione del Figliuolo: il male ed
il bene per amore egualmente; e l' amore del Padre che vuole, è l' amore
del Figliuolo che eseguisce; tutto il comandamento non è che amore: il
bene eudemonologico qui tiene la naturale sua relazione col bene morale;
non precede quello, è una sequela, un' appendice, un compimento di
questo.
Fra le ragioni, per le quali il Padre permise che il suo Figliuolo
incarnato incontrasse la morte, si può annoverare anche quella, acciocchè
apparisse manifesto dove tendesse l' uomo guasto dal peccato adamitico
e in possesso del Demonio; a che conduceva lo sviluppo di un tal
germe funesto; qual frutto era proprio di un tal albero. La profonda
nequizia di un tal germe, la malizia diabolica che in esso operava, non
sarebbe apparita intieramente agli occhi degli uomini; sarebbe stata
nascosta, e quindi giudicata troppo più benignamente del merito, se
non fosse pervenuta a commettere, in cospetto di tutte le nazioni, il
deicidio.
Laonde Simeone aveva predetto a Maria: « Ecce positus est hic in
ruinam et in resurrectionem multorum in Isra‰l, et in signum cui contradicetur,
et tuam ipsius animam pertransibit gladius, ut revelentur
ex multis cordibus cogitationes (1) ». E forse, quando la turba
rispondeva a Gesù Cristo che aveva detto perchè mi volete uccidere?,
che nessuno lo voleva uccidere, ella non sapeva ancora il reo disegno de'
principali della Sinagoga, e tuttavia Gesù Cristo rimprovera alla turba
stessa che volesse ammazzarlo (2), per indicare che, quantunque la turba
a cui favellava non avesse forse attuata una tale intenzione, tuttavia la
portava virtualmente in se stessa nel peccato di cui era infetta.
Non avendo adunque Cristo difeso se stesso, e il Padre suo avendolo
abbandonato nelle mani degli uomini peccatori (3), egli fu crocifisso in
odio della verità e della giustizia che predicava e che mostrava luminosissima
e perfetta in se medesimo: il che rese Cristo il primo dei martiri
e de' penitenti.
Or, prima di avanzarci nel nostro ragionamento, consideriamo chi
era Gesù Cristo. Egli era prima di tutto Dio, era il Verbo che costituiva
la sua personalità; ma era ad un tempo uomo. E qual uomo era? In
quanto era uomo senza peccato, egli era l' uomo innocente, il nuovo
Adamo. Ma in quanto egli aveva voluto ricever la carne proveniente da
Adamo, la carne passibile e mortale soggetta a tutte le infermità e dolori
provenienti dal peccato, di cui egli non partecipava, egli era il Figliuolo
dell' uomo . Con questa umile denominazione amò Gesù Cristo di chiamarsi
(1); Figliuolo dell' uomo significava qualche cosa di più basso ed
umile di uomo . Perocchè la denominazione uomo non involgeva il concetto
di uomo decaduto dal primitivo suo stato, di uomo destinato alla
morte; ma l' altra di Figliuolo dell' uomo indicava lo stato di decadimento,
indicava il figliuolo del peccatore, indicava colui che soggiaceva
alla pena del peccato.
In questa condizione di uomo passibile e mortale, onde alcuni Padri
si esprimono dicendo che aveva assunta la carne del peccato, egli poteva
esercitare la massima virtù, rendersi l' esempio perfettissimo degli uomini,
e morire calunniato e perseguitato per la giustizia, il che è appunto
il maggiore esercizio e segno della morale perfezione. E tuttociò egli, ed
il Padre suo, permise appunto che avvenisse.
Ora, qual fu l' eterno disegno, l' ineffabile mistero che si racchiudeva
in questa permissione?
Ecco quanto conseguì dal fatto della morte di Cristo. La morte di
tutti gli altri uomini era pura giustizia: pagato questo debito non avanzava
loro nulla che potesse restituirli in vita, erano morti per sempre.
Ma la morte di Cristo non era atto di giustizia, perchè non era giusto
che l' innocente, il Santo, l' Uomo Dio patisse e morisse. Quest' uomo,
e ad un tempo Dio, s' era abbandonato sino alla fine nelle mani del Padre
suo; e per quella illimitata confidenza non aveva sottratto se stesso,
come poteva, dai dolori; non aveva voluto dar nulla a se stesso, avea
voluto tutto aspettare, tutto ricever dal Padre, perocchè questo era conforme
alla norma della virtù, secondo la quale « « è migliore il dare che
il ricevere »(2) ». Cristo non aveva mai pensato che a dare a Dio e agli
uomini, in che consiste la generosità, una generosità illimitata ed eroica.
Ma il Padre per un istante lo abbandonò, non lo protesse contro i suoi
persecutori, lo lasciò spirare in sulla croce. E se mandò l' angelo a refocillarlo
nell' orto, fu unicamente acciocchè non morisse nella tristezza
e nell' agonia in cui era caduto, dando un ristoro fisico alla sua umanità
languente acciocchè fosse riserbata al sacrificio della croce. Onde Cristo
morì da parte sua due volte: sofferendo prima il supplizio del senso
interno, cioè dell' imaginazione nel Getsemani; e poscia soffrendo il
supplizio del senso esterno sul Calvario. Sicchè l' umanità in Cristo sofferì
tutto ciò che poteva sofferire sino alla morte dell' una e dell' altra
parte di cui risulta la facoltà sensitiva dell' uomo, cioè da parte della
fantasia e da quella dell' esterno sensorio. Tutto questo senza che lo
meritasse, perchè del tutto innocente, meritando anzi il contrario perchè
pieno d' ogni santità.
Ma il Padre è l' essenziale giustizia, e come giusto l' aveva invocato
il Figliuolo quando aveva detto: « « Padre giusto, il mondo non ti conobbe,
ma io ti ho conosciuto: e questi conobbero che tu mi hai mandato.
E feci lor noto il tuo nome, e noto lo farò, acciocchè la dilezione colla
quale tu hai amato me sia in essi, ed io sia in essi »(1). » Era dunque
necessario che il Padre, come giusto, compensasse il Figliuolo di quanto
aveva così ingiustamente tollerato e patito quasi fosse stato il massimo
peccatore. I meriti del Figliuolo avevano d' altra parte un valore infinito,
perchè unito ipostaticamente colla divinità in modo che si poteva dir
veramente, per la comunicazione degli idiomi, che Dio stesso aveva
patito ed era morto. Conveniva dunque, ad aggiustare queste partite
della divina giustizia sbilanciate, 1 che l' umanità di Cristo, restituita
alla vita non più mortale, fosse assunta agli onori divini, collocata nel
più alto seggio alla destra del Padre; 2 che tutti i desiderii dell' umanità
fossero appieno appagati, e posciachè fra questi ci aveva quella di dominare
i suoi nemici, di esser fatta signora del mondo, anche questo
doveva essere appagato. Queste due cose erano state predette e promesse
al Figliuolo nelle antiche Scritture, e particolarmente nel Salmo che
narra queste promesse così: « « Disse il Signore al mio Signore: Siedi
alla mia destra fino a tanto che io ponga i tuoi nemici sgabello a' tuoi
piedi. Il Signore emetterà da Sionne la verga della tua virtù: signoreggia
nel mezzo de' tuoi nemici. Teco è il principio nel dì della tua virtù fra
gli splendori della santità: ho generato te dall' utero prima del lucifero.
Giurò il Signore e non si pentirà: Tu sei Sacerdote in eterno secondo
l' ordine di Melchisedecco. Il Signore è alla tua destra: Egli stritolerà
i regi nel giorno dell' ira sua: farà giudizio tra le nazioni: empierà di
rovine ogni cosa: farà battere in sul terreno il capo di molti. Egli s' abbevererà
al torrente della strada: perciò alzerà il capo »(2). » In questo
magnifico e sublimissimo Salmo il Padre dice al Figliuolo che ha consumato
il suo sacrificio, e che s' è abbeverato al torrente della tribolazione
e della povertà: « Sorgi e siedi alla mia destra ». Ecco la prima
parte della mercede dovuta al Figliuolo: l' assunzione all' immortalità
ed alla gloria divina della sua divina umanità. E di questa parte Cristo
aveva detto: « Ego te clarificavi super terram: opus consummavi quod
dedisti mihi ut faciam: et nunc clarifica me tu Pater apud temetipsum
claritate quam habui priusquam mundus esset apud te (1). » Le quali
parole rammentano quelle di S. Giovanni: « In principio erat Verbum,
et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum; » e vengono a dire: Io
prima d' esser manifestato agli uomini, anzi prima che fossero gli uomini
e il mondo, cioè ab eterno, ero Dio: io fui generato prima dell' astro
della luce fra gli splendori della santità, come dice il citato Salmo, della
tua stessa sostanza, ex utero . Ora tu dunque decora anche la mia umanità
di questa stessa gloria divina ed infinita, che come Dio non ho mai
perduta, siccome tu già prima della costituzione del mondo hai predestinato
nel tuo altissimo e sapientissimo consiglio facendomi sedere glorioso
appresso di te, cioè alla tua destra. Dove scorgesi che l' espressione
adoperata da S. Giovanni al cominciamento del suo Vangelo, apud
Deum, conviene, benchè in diverso significato, non meno alla divinità
che all' umanità di Gesù Cristo, in quanto questa è indivisa dalla divina
persona. Questa comincia nel tempo a fruire di tal gloria per una cotale
partecipazione, quando il Verbo la fruì ab eterno ed essenzialmente.
L' altra parte del compenso e della mercede dovuta a Cristo si è
l' accontentamento di ogni naturale desiderio della sua umanità rispetto
agli uomini co' quali ha comune la natura umana. Il desiderio naturale
dell' uomo è quello di essere il signore e dominatore del mondo, e di aver
tanta potenza da poter sottomettere pienamente a sè i suoi nemici. Il
qual desiderio è malvagio qualora non sia sottomesso alla giustizia e si
voglia soddisfare indebitamente e senza un legittimo titolo, come avviene;
ma in se stesso è fondato nella natura, e però non punto nè poco
riprovevole: quand' anzi è tale che innalza e nobilita l' umana natura.
Quindi nel citato Salmo Iddio dà a Cristo in piena balìa il mondo: gli
promette di porre i suoi nemici a sgabello de' suoi piedi, lo esorta a
signoreggiare nel mezzo di essi: la verga, cioè la potenza di Dio, uscirà
da Sionne che rappresenta la giustizia, il bene morale, facendo che dalla
virtù morale proceda la forza; e dice che nel giorno del suo trionfo
sarà seco il principio, cioè Dio Padre, che è essenzialmente il principato,
non solo il principe.
Ma in qual maniera l' Uomo7Dio si prevale di tanta potenza accordatagli,
di quella potestà di cui Cristo stesso aveva detto « dedisti ei potestatem
omnis carnis (1), » e ancora dopo la resurrezione: « data est mihi
omnis potestas in coelo et in terra (2)? »
Amando Cristo come uomo la natura umana che egli possedeva,
doveva amarla anche in tutti i suoi simili. Quindi, secondando il suo
naturale affetto, doveva, colla risurrezione di tutti gli uomini, restituire
tutta la natura umana distrutta colla morte. In tal modo egli vinceva
il demonio, disciogliendo il maligno disegno di perdere questa
fragile e mortale natura, che pure Iddio come opera sua voleva conservata.
Aboliva anche il peccato originale, in quanto esso consiste e
procede dalla corruzione della carne, dando ai risorti, quanto a sè, qualora
non abbiano peccati attuali, un corpo perfetto. Onde l' Apostolo:
« Nunc autem Christus resurrexit a mortuis primitiae dormientium: quoniam
quidem per hominem mors et per hominem resurrectio mortuorum.
Et sicut in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes vivificabuntur
(3). » E altrove dice che « purgationem peccatorum faciens, sedet
ad dexteram majestatis in excelsis (4), » attribuendo alla gloria di Cristo
che siede in cielo, e di là può render partecipi gli uomini della sua
gloria, la purgazione dei peccati.
Ma non bastava a Cristo il restituire al genere umano, già divenuto
preda della morte, la vita sua propria: l' affetto, di cui ardeva verso
Dio e verso i suoi simili, troppo più richiedeva. E` proprio della natura
umana l' amicizia; niuna cosa più desidera l' uomo non corrotto quanto
l' unione col suo simile: ciascun uomo sente di non essere tutta la natura
umana, e che una parte di questa è in altri individui: a lui sembra
dunque di completare in se medesimo la umana natura, qualora può
congiungersi il più strettamente che egli possa con altri individui della
natura stessa, e divenir quasi una sola cosa con essi. Ma i vincoli, coi
quali gl' individui umani possono stringersi ed adunarsi insieme, sono
limitati dalle condizioni della stessa natura. Uno, e forse il più intimo
di questi vincoli, è il coniugale che dell' uomo e della donna fa una sola
carne, in cui vivono due anime concordi. Questa imagine viene adoperata
nelle Scritture per indicare la stabile, perpetua e reale unione di
Cristo co' suoi santi in Cielo. Cristo, quale Sposo, celebra colà eterne
nozze colla Sposa sua la Chiesa in istato di termine, che è la società dei
predestinati già comprensori. Giovanni nell' Apocalisse descrive la visione
avuta di questa Sposa dell' Agnello nell' atto ch' ella scendeva da
Dio di Cielo in terra: [...OMISSIS...]
Nel Cantico de' Cantici si cantano i casti amori, divini preludii in
terra dello stabile indissolubile matrimonio la cui consumazione è la
stessa beata eternità: quivi non cade infedeltà di sorta o raffreddamento
d' affetto. Or, come il coniugio è tolto a simbolo delle nozze di Cristo
e della Chiesa, così viceversa quest' unione mistica, essendo perfettissima
e santissima, diviene l' esemplare del coniugio dell' uomo e della donna
cristiana, partecipando Cristo ai suoi seguaci che si uniscono in matrimonio
di quella grazia e santità spirituale che annoda lui ineffabilmente
colla Chiesa beata. Laonde S. Paolo dice: [...OMISSIS...]
Laonde Cristo in compenso, e mercè de' suoi meriti e ineffabili
patimenti senza alcuna sua colpa sostenuti, potè dal genere umano
cavarsi la Chiesa, cioè unire e incorporare a sè quel numero di uomini
che a lui piace, e fra questi eleggere quelli che partecipino della sua
gloria. « Ascendisti in altum, » avea detto il Salmista, « cepisti captivitatem;
accepisti dona in hominibus (2). » Il qual luogo, commentato da S. Paolo,
dice: « Unicuique autem nostrum data est gratia secundum mensuram
donationis Christi. Propter quod dicit: Ascendens in altum captivam
duxit captivitatem: dedit dona hominibus. Quod autem ascendit, quid
est nisi quia et descendit primum in inferiores partes terrae? Qui descendit,
ipse est et qui ascendit super omnes coelos ut impleret omnia (4). »
Così Cristo in conseguenza della gloria ottenuta co' suoi patimenti
e della signoria del genere umano, atteso l' amor suo verso di Dio suo
Padre e verso gli uomini consorti della natura da lui assunta, divenne
loro redentore dalla morte e dal peccato originale, loro maestro e salvatore
da tutte le colpe attuali, e loro glorificatore. Quindi ebbe la dignità
di mediatore e di sacerdote, non solo quella di Re, come soggiunge
il Salmo sopra citato: « Juravit Dominus et non poenitebit eum: Tu es
sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech (1). »
La dottrina del sacerdozio di Cristo è profondamente esposta nella
lettera di S. Paolo agli Ebrei. In essa dimostra l' Apostolo come questa
dignità di Pontefice se l' acquistò Cristo e meritò col suo essere passibile
e mortale, e la esercitò co' suoi patimenti coi quali fece il sacrificio di
se stesso. [...OMISSIS...]
Il che viene a dire che avendo Cristo patito
ed essendo stato tentato, quando la giustizia divina non avea cosa da
punire in esso, conveniva che la giustizia stessa, che non concede che
l' innocente soffra alcuna pena, dèsse a Cristo un ristoro e compenso
del patimento sofferto e non meritato; e questo fu il lasciargli podestà
non solo di risorgere egli stesso impassibile ed immortale, ma di poter
anco venire in ajuto de' suoi fratelli nei loro patimenti e nelle loro tentazioni.
Dice ancora « Non enim habemus pontificem, qui non possit
compati infirmitatibus nostris; tentatum autem per omnia pro similitudine
absque peccato (3). »
Dove è da considerare, esser così fatta l' umana natura, che dall'
esperienza del patimento ella ritenga una positiva cognizione di esso,
la quale, per la legge della simpatia che è fra individui aventi una stessa
natura, rende lei compassionevole e pietosa: e la natura umana in Cristo
volle subire le leggi, fra le quali anche questa, alle quali essa natura soggiace.
E quantunque ogni cosa meritassero i suoi patimenti, a compensazione
de' quali ogni suo desiderio doveva venire soddisfatto dal Padre;
tuttavia, perchè doveva esercitare in ogni cosa la massima generosità ed
essere a noi compiuto modello, volle avere la gloria e la vita dovutagli
piuttosto come impetrata con umili preghiere, che per giustizia meritata:
o certo nell' uno e nell' altro modo. Di che di nuovo S. Paolo: « Et
quidem cum esset Filius Dei didicit ex iis quae passus est obedientiam:
et consummatus factus est omnibus obtemperantibus sibi causa salutis
aeternae, appellatus a Deo pontifex juxta ordinem Melchisedech (4). »
Il sacrificio adunque di Cristo ebbe virtù di rimettere i peccati
degli uomini, perocchè, come dice S. Paolo: « Eum, qui non noverat
peccatum, pro nobis peccatum fecit » (soffrì d' esser trattato come un
peccatore), « ut nos efficeremur justitia Dei in ipso (1); » ed essendo
egli risorto dopo aver patito, ed entrato in cielo, ivi egli esercita un perpetuo
sacerdozio, e può riconciliare e far partecipi della stessa gloria
quanti uomini a lui piace. Perocchè, come dice di nuovo S. Paolo, egli
è fatto sacerdote « « non secundum legem mandati carnalis, sed secundum
virtutem vitae insolubilis »(2), » e soggiunge: « « Et alii quidem plures
facti sunt sacerdotes, idcirco quod morte prohiberentur permanere: hic
autem, eo quod maneat in aeternum, sempiternum habet sacerdotium.
Unde et salvare in perpetuum potest accedentes per semetipsum ad
Deum, semper vivens ad interpellandum pro nobis »(3) » Laonde il
solo sacrificio della morte di Cristo, dalla quale risorse glorioso, fu accettevole
ed efficace per sempre a rimettere i peccati e salvare gli uomini.
[...OMISSIS...]
Imperocchè
è da considerarsi che i sacerdoti della nuova legge, sebbene molti,
tutti partecipano dell' unico sacerdozio di Cristo, e non offrono se non
la medesima oblazione, cioè il corpo ed il sangue di Cristo. Nel che
ancora apparisce l' unità che tutti formano con Cristo, perocchè è sempre
Cristo quello che in essi opera quando sacrificano, per modo che
un solo Cristo in tutti essi è il vero sacrificatore e la vera vittima sacrificata.
Il perchè niuno può essere sacerdote della nuova legge se non è
battezzato, attesochè solo pel battesimo s' incorpora l' uomo con Cristo,
e Cristo è nell' uomo.
La morte dunque di tutto il genere umano satisfaceva alla divina
giustizia, ma non salvava l' uomo, anzi lo distruggeva; e l' anima separata
dal corpo rimaneva sempre sotto la medesima giusta dannazione. Ma la
morte di Cristo, sostenuta da lui senza averla meritata, non era una
soddisfazione che dovesse dar Cristo per i proprii peccati; ma era un
credito ch' egli acquistava verso la divina giustizia, un credito infinito,
col quale, dopo pagato il debito dell' uman genere, rimaneva ancora
tanto avere, da poter regalarne gli uomini d' ineffabili doni e di prezzo
infinito. La morte di Cristo adunque salvò il mondo perchè meritò la
risurrezione di Cristo, glorioso Signore onnipotente, Re ad un tempo
e Pontefice, secondo il giuramento interposto dall' eterno suo Padre.
Quindi è che le sacre carte attribuiscono sempre la salvezza del
mondo alla risurrezione di nostro Signor Gesù Cristo, che, come aveva
detto il Salmo, ascendendo nell' alto menò captiva la captività, cioè tolse
al demonio il dominio sopra gli uomini e li fece captivi a se stesso, ed
ottenne copia di doni da distribuire agli uomini stessi da lui liberati per
giusta conquista.
Laonde Cristo stesso avea detto agli Apostoli che tornava loro conto
ch' egli se ne andasse di questo mondo al Padre « Quia vado parare vobis
locum. Et si abiero et praeparavero vobis locum, iterum venio et accipiam
vos ad me ipsum, ut ubi sum ego et vos sitis (1). » Conveniva che
Cristo fosse glorificato, acciocchè egli potesse far partecipi della sua
gloria i suoi discepoli. Il ritorno di cui parla Cristo, nel quale viene a
prendergli, a riceverli a sè, a collocarli là appunto dov' egli è (non dice
dove sarà, perchè Cristo fu sempre appresso Dio, non solo come Verbo,
ma ben anco, in un altro senso, come uomo godendo della visione beatifica,
benchè questa non espandesse i suoi effetti gloriosi fuori della
mente del Salvatore), questo ritorno è appunto la comunicazione della
gloria da lui ottenuta, e si riferisce principalmente alla seconda venuta
del Salvatore, quand' egli risusciterà i giusti, che in lui credono, e li
ammanterà della sua propria gloria. Perocchè, dicendo iterum venio et
accipiam vos, parla all' uomo intero e non alla sola anima. Tuttavia un
altro ritorno di Cristo è anche quello che avviene alla morte del giusto
che in lui crede, quando accoglie a sè l' anima sua, e le dà della sua vita
ammettendola alla visione di Dio.
Un terzo ritorno di Cristo è l' effusione dello Spirito Santo, il quale
segna Cristo nelle anime in cui viene, e dà loro la caparra dell' immortalità
e della risurrezione; e di questo ritorno parla Cristo poco appresso
dicendo [...OMISSIS...]
Dice che pregherà il Padre, mostrando che come uomo egli impetra
per gli altri uomini il dono dello Spirito Santo, di cui siamo per conseguente
obbligati all' umanità di Gesù Cristo, che dopo aver meritato di
essere esaudito in ogni suo desiderio, pregò mosso dalla sua carità per
noi, e il priego che manifestava il suo desiderio non poteva andare inesaudito.
Dice che non li lascierà orfani, cioè senza Padre, perchè egli,
che è il Figliuolo entrato già in essi e ad essi congiunto come il capo alle
membra, sarà illustrato dalla luce del suo Spirito, e avranno coscienza
di possederlo, e così di essere veramente figliuoli di Dio partecipando
della Figliuolanza del Verbo incarnato a cui sono indivisamente uniti.
Di che S. Paolo attribuisce al Santo Spirito la consapevolezza che noi
abbiamo d' esser divenuti figliuoli di Dio: [...OMISSIS...] dice, [...OMISSIS...]
Dice finalmente che i suoi discepoli al lume dello Spirito Santo
lo vedranno anche quand' egli sarà partito dal mondo, quia ego vivo et
vos vivetis, cioè perchè essi partecipano della stessa vita di Cristo; e il
veder Cristo è un atto di questa vita. Dice del pari che conosceranno il
Santo Spirito, perchè apud vos manebit et in vobis erit: giacchè lo
Spirito Santo non si può conoscere se non per lo Spirito Santo, onde il
mondo non lo vede e non lo conosce, perchè nol può ricevere, atteso
l' ostacolo del peccato.
Ripete ancora che torna conto a' suoi discepoli che egli se ne vada,
perchè, venendo egli glorificato, manderà lo Spirito Santo caparra della
loro gloria futura: [...OMISSIS...]
Per le quali cose S. Paolo attribuisce alla risurrezione di Cristo
la nostra giustificazione; giacchè, se questa fu meritata dalla Passione
di Cristo, fu però attuata e compiuta mediante la risurrezione; per la
quale Cristo acquistò la signoria sopra di noi, e potè fare di noi secondo
l' amoroso suo cuore: « qui traditus est » (così l' Apostolo) « propter delicta
nostra, et resurrexit propter justificationem nostram (4); » giacchè, se
non fosse risorto Cristo, egli non poteva comunicarci di quella sua vita
gloriosa, e quindi noi non saremmo risorti, ma rimasti sotto la condannazione
del peccato. Medesimamente S. Pietro attribuisce alla risurrezione
di Cristo la nostra rigenerazione: [...OMISSIS...]
E deduce dalla risurrezione medesima di Gesù Cristo, la virtù
che ha il battesimo di porre in noi il germe della vita che aspettiamo
gloriosa: [...OMISSIS...]
La qual dottrina
consuona mirabilmente con quella di S. Paolo, che a' Colossesi scriveva:
[...OMISSIS...]
Imperocchè non
bastava che si distruggesse il vecchio uomo adamitico, se non si faceva
vivere l' uomo nuovo: il che Cristo fece comunicando all' uomo della sua
vita nuova ricevuta nella risurrezione. Perocchè l' uomo incorporato a
Cristo, e divenuto un membro di quello stesso corpo di cui Cristo è il
capo, dovea partecipare di tutte le vicende del capo, e con lui morire,
e con lui risorgere.
Laonde L' Apostolo non dubitava dire: « « Si autem Christus non
resurrexit, inanis est ergo praedicatio nostra, inanis est et fides vestra:
invenimur autem et falsi testes Dei, quoniam testimonium diximus
adversus Deum quod suscitaverit Christum, quem non suscitavit si mortui
non resurgunt. Nam si mortui non resurgunt, neque Christus resurrexit.
Quod si Christus non resurrexit, vana est fides vestra, adhuc enim
estis in peccatis vestris. Ergo et qui dormierunt in Christo perierunt.
Si in hac vita tantum in Christo sperantes sumus, miserabiliores sumus
omnibus hominibus »(1). » Nel quale luogo S. Paolo argomenta la risurrezione
dei morti dalla risurrezione di Cristo; perocchè gli uomini non
avrebbero potuto risuscitare, se Cristo risorto non avesse acquistato la
potestà di fare altresì risorgere quelli che partecipavano con esso lui della
stessa natura umana. Ma particolarmente dalla resurrezione gloriosa di
Cristo argomenta la risurrezione gloriosa di quelli che morirono in
Cristo, cioè incorporati a Cristo, e che perciò con Cristo formano una
sola cosa, un solo corpo, che dee esser tutto avvivato della stessa vita,
o tutto giacere nello stesso stato di morte: onde, posta la risurrezione
del capo, è giocoforza porre altresì la risurrezione delle membra. Di
più dice senza questa risurrezione rimane lo stato di peccato, adhuc enim
estis in peccatis vestris, e perciò è vana la predicazione dell' Evangelio,
cioè della buona novella, e vana è pure la fede che ad esso si presta;
perocchè, giacendo gli uomini prostrati dalla morte, non può dirsi
rimesso il peccato a quelli, in cui ne dura la pena. Finalmente fa intendere
che senza la risurrezione non v' ha più speranza nella vita futura,
e quindi i Cristiani sarebbero i più miseri fra gli uomini, posciachè
dovrebbero sperare unicamente nella presente, a' cui diletti hanno
rinunziato, ed è da loro considerata piuttosto come morte che come
vita.
La qual dottrina consuona a capello con quella che è costante in
tutti i libri dell' Antico Testamento, dove la speranza della vita futura
trovasi sempre fondata nella fede della risurrezione, e non in altro.
Laonde il libro della Sapienza, parlando de' giusti defunti, non commenda
il loro stato pel presente godimento a cui fossero ammessi, ma
per la speranza, perchè « spes illorum immortalitate plena est (2), » e
perchè a suo tempo Iddio perdona ad essi, « et in tempore erit respectus
illorum (3), » e l' incontaminato « habebit fructum in respectione animarum
sanctarum (4), » cioè nella risurrezione. E il fanciullo maccabeo, che
veniva tormentato, nella risurrezione pone ogni sua speranza, dicendo
che: « Rex mundi defunctos nos pro suis legibus in aeternae vitae resurrectione
suscitabit (5). » E ancor più efficace è quel luogo ove parlandosi
della colletta di dodicimila dramme d' argento fatta da Giuda Maccabeo
ed offerta in Gerusalemme, acciocchè vi si offerisse un sacrificio pe'
morti in battaglia, a cui erano stati trovati sotto le tuniche doni degl' Idoli,
il sacro storico dice in modo assoluto, che se non vi avesse la risurrezione
sembrerebbe inutile il pregare pei morti per la remissione de'
loro peccati. E le parole son queste: [...OMISSIS...]
La qual dottrina offerisce a noi cristiani una difficoltà che dobbiamo
sciogliere accuratamente. Tutta la nostra felicità, la nostra speranza
di felicità, si fa per essa dipendere dalla risurrezione: la remissione
stessa dei peccati, o la giustificazione si afferma dipendere dalla
risurrezione medesima. Ora noi sappiamo per fede che l' anima separata
dal corpo, se non ha macchia di peccato, viene ammessa alla visione di
Dio, e che se essa porta seco delle macchie leggere viene addetta al fuoco
che la purga e rimonda, e, tosto che è resa netta e pura del tutto, la
visione beatifica le è conceduta prima della risurrezione dei corpi. Come
dunque può dirsi col citato libro de' Maccabei, che sembrerebbe superfluo
e vano pregare pei morti ut a peccatis solvantur, quando non
dovessero risorgere, mentre pure giova intercedere per le anime purganti
acciocchè cessi presto il tormento, e passino presto a godere Iddio? E
come, ancor più, può egli sembrare al vero conforme quello che dice
l' Apostolo, che, se non vi avesse la resurrezione de' nostri corpi, noi
cristiani saremmo i più miserabili degli uomini, quando pure le nostre
anime, anche prima della risurrezione, possono fruire del beato consorzio
di Dio?
Affine di risolvere queste apparenti difficoltà conviene por mente a
due cose: 1 Quale sarebbe lo stato dell' anima separata dal corpo ed
abbandonata intieramente a se stessa; a ciò che ella ha per natura sua,
senz' altra aggiunta o azione esteriore: 2 Che cosa s' intende per la risurrezione,
opera del nostro Gesù Cristo, che cosa s' intenda particolarmente
pei giusti che risorgono.
Quanto alla prima questione è da rispondere che l' anima umana,
privata che sia del corpo, ove non le venga alcuna giunta dal di fuori,
non venga fatta in lei alcuna azione da qualche agente a lei straniero,
l' anima umana separata, da sè sola, primieramente non ha più alcuna
sensazione, nè fantasma, nè può fare alcun atto sensitivo, al che si
richiede l' organo corporeo; e di conseguente non può più raziocinare nè
pensare a cose reali, nè ad astratti che hanno sempre bisogno di qualche
segno sensibile per esser pensati. Ella dunque non ritiene se non l' intuizione
immota dell' essere indeterminato, e gli abiti contratti nella vita
precedente che la individuano, i quali abiti non passano giammai all' atto,
perchè nulla vi ha che li tragga a questo. Laonde l' anima, senza
alcun termine reale, non avrebbe alcun sentimento, in quanto questo
si definisce per la forma reale dell' essere; e però sarebbe senza alcuna
vita, eccetto il semplice atto intellettivo dell' intuizione che non si direbbe
propriamente vita: l' anima così esisterebbe, ma non vivrebbe. Nel quale
stato non essendo a lei possibile alcuna riflessione su di se stessa, nè alcuna
coscienza, la sua condizione si potrebbe rassomigliare ad uno stato
di perpetue tenebre, e di sempiterno sonno: onde i negri tartari (1)
ed i luoghi bui (2) de' poeti, e il loro ferreo ed eterno sonno. Questa
fu una delle cause per le quali alcuni filosofi, che non ricevettero il
lume della rivelazione, e forse fra questi Aristotele, almeno secondo
l' interpretazione di Pomponaccio e d' altri negarono l' immortalità dell' anima:
e il loro errore fu di crederla annullata o disciolta, non distinguendo
fra vita ed esistenza, e non conoscendo quell' atto intuitivo dell' essere,
e quel deposito di abiti rimanenti nell' anima dalla precedente
sua unione col corpo, che dà a lei un' esistenza intellettiva ed una individualità,
sebbene non una vera vita nel senso che noi crediamo proprio
di questa parola.
Nello stesso errore era caduta, presso gli Ebrei, la setta dei Sadducei.
Questi credevano che l' anima non soprastesse alla sua separazione
dal corpo, o piuttosto la negavano (3); e ciò qual conseguenza dell' altro
loro errore pel quale negavano la risurrezione. Ora Gesù Cristo, togliendo
a confutare il loro errore, non toglie a stabilire la tesi generale
che l' anima separata dal corpo viva; ma si limita a parlare degli uomini
santi, e dice di questi che nella risurrezione vivranno per non più morire.
Perocchè, avendo i Sadducei proposta la difficoltà di chi sarebbe
nella resurrezione la donna che avesse avuto per mariti successivamente
sette fratelli, Cristo risponde loro: « Filii hujus saeculi nubunt et traduntur
ad nuptias: illi vero qui digni habebuntur saeculo illo, et resurrectione
ex mortuis, neque nubent neque ducent uxores: neque enim
ultra mori poterunt: aequales enim angelis sunt, et filii sunt Dei, cum
sint filii resurrectionis (4): » e nulla disse dell' anima per sè sola considerata,
nè tampoco de' reprobi che pure risorgeranno, ma « non in resurrectione
vitae, sì in resurrectione judicii (5). » Ora dalle citate parole di
Cristo si può raccogliere due cose: la prima, che la resurrezione è quella
che dà ai giusti l' immortalità; la seconda è, che per la risurrezione i
giusti sono figliuoli di Dio, tolti per conseguente da ogni pena o sequela
del peccato, fatti simili agli angeli santi, spiritualizzati senza il legame
o l' impaccio di un corpo materiale. Ma dopo di ciò Cristo continua
provando a' Sadducei la verità della risurrezione de' giusti in questo
modo: « Quia vero resurgant mortui, et Moyses ostendit secus rubum (1),
sicut dicit Dominum Deum Abraham, et Deum Isaac, et Deum Jacob:
Deus autem non est mortuorum sed vivorum: omnes enim vivunt ei (2). »
Le quali parole confermano mirabilmente quello che dicevamo. Perocchè
Cristo argomenta così: « Mosè disse che il Signore è il Dio di Abramo,
di Isacco e di Giacobbe. Ora, se questi Patriarchi fossero morti, non
si direbbe che il Signore fosse il loro Dio, perocchè il Signore è Dio de'
vivi e non dei morti. Dunque questi Patriarchi sono viventi. Ma non
potrebbero dirsi viventi, se un giorno non dovessero risorgere. Dunque
convien dirsi che i morti risorgono ». Questo ragionamento fa dipendere
la vita di que' Patriarchi dalla loro futura resurrezione. Perchè sono
vivi? perchè risorgeranno. Dunque non sarebbero vivi se non dovessero
risorgere. Dunque l' anima separata se non fosse destinata a risorgere,
se non avesse in sè una ragione o un germe della sua futura palingenesi,
troverebbesi in una condizione e stato di morte. Soggiunge però che a
Dio tutti vivono, omnes enim vivunt ei, per indicare che Iddio ha virtù
di far tornare a vita tutti quelli che egli vuole. Il che sembra accennare
alla risurrezione universale sì dei buoni che de' cattivi; ma, dicendo che
« tutti vivono a Dio »; parla d' una vita relativa a Dio, non d' una vita
relativa a se stessi, non d' una vita soggettiva; e con ciò dimostra, che
tutte le anime continuano ad esistere anche separate dal corpo, e però
tutte possono essere ravvivate da Dio, in relazione al quale perciò
vivono (3).
Veniamo alla seconda questione: che cosa s' intenda per la resurrezione
che opera nostro Signor Gesù cristo ne' giusti.
Secondo la maniera di favellare delle divine scritture, sotto la parola
risurrezione non s' intende solamente l' ultima palingenesi, quando gli
uomini ricupereranno un corpo proprio, e i giusti un corpo proprio e
glorioso che non più deporranno: si intende il nuovo uomo, s' intende
Cristo che è nell' uomo e la cui vita è eterna. Coll' incorporazione dell' uomo
in Cristo comincia nell' uomo la vita eterna: la vita adamitica
e corruttibile perisce, ma sotto di questa ve ne sta un' altra nascosta come
sotto la morta spoglia del serpente sta una pelle nuova e viva che si
discuopre colla deposizione di quella.
Laonde Cristo disse: « « Io sono la risurrezione e la vita: chi crede
in me, benchè egli sia morto, vivrà; e ognuno che vive e crede in me,
non morrà in eterno »(1). » Ora Cristo in altro luogo dice de' suoi discepoli
parlando al Padre: « Ego in eis et tu in me (2). » Se dunque Cristo è
la vita, e se egli è nei suoi discepoli, egli è conseguente che a questi
non può mai venir meno la vita se non si tolgono dall' unione con Cristo:
deve rimanere in essi una vita eterna, una vita che di sua natura non
può perire. Onde Cristo assolutamente dice che « ogni vivente e credente
in lui, non morirà in eterno ». Ma Cristo non è solo la vita, ma anche
la resurrezione. Qui evidentemente il discorso si riferisce a due forme o
maniere di vita; altramente chi ha la vita non avrebbe bisogno di risorgere.
Altra è dunque la vita propria degli umani individui, la qual consiste
nell' unione vitale dei proprii loro corpi colle loro anime; ed altra
la vita che comunica loro Cristo, quando ad esso incorporati ne partecipano
la grazia. Rispetto a questa maniera di vita, Cristo dice se stesso
di esser la vita; rispetto alla prima, dice di esser la risurrezione . Quegli
stesso che è la vita permanente negli uomini santi della nuova legge, è
anche la loro risurrezione. Quella vita non può venir meno giammai,
perchè « Christus resurgens ex mortuis jam non moritur, mors illi ultra
non dominabitur (3). » Ma pure Cristo una volta morì; ed allora sono
forse morti gli Apostoli e discepoli suoi ne' quali egli era?
Sì, quel Cristo che era in essi morì: nel triduo della morte di Cristo,
Cristo morì ne' suoi discepoli: i discepoli di Gesù Cristo in quel
tempo ebbero in se stessi Gesù Cristo morto: nella stessa eucaristia che
avevano ricevuto la vigilia della morte di Cristo, se si conservò in essi, vi
aveva Cristo morto, il corpo separato dall' anima.
Ma primieramente si consideri che la divinità non abbandonò giammai
nè il corpo nè l' anima di Cristo, e che perciò la persona di Cristo
non fu soggetta alla morte, perchè quella persona era il Verbo. Cristo
dunque, sebben morto come uomo, era vivo come Dio ed aveva la podestà
di riassumere la sua vita umana come aveva avuto la podestà di
deporla. Cristo come Dio conservava il suo corpo immune dalla corruzione,
lo conservava in suo potere, nè perciò permetteva che di lui si
vestissero altri animali, come accade de' cadaveri degli altri uomini, ne'
quali si generano i vermi ed altri minimi esseri viventi, quand' anzi può
credersi che il divin corpo non avesse ricevuto nella Passione alcuna di
quelle disorganizzazioni che impediscono assolutamente di vivere, eccetto
l' emissione del preziosissimo Sangue. Di poi non sarebbe alieno dal
credersi, che, quantunque Gesù Cristo avesse cessato di vivere della
vita naturale dell' uomo, tuttavia vivesse l' anima sua della vita eucaristica,
della qual misteriosa vita forse altrove ci accadrà di parlare più
estesamente.
Ma lasciando per un momento da parte questa misteriosa vita,
conviene tuttavia distinguersi anche in Cristo primieramente due vite:
la vita divina che aveva come Dio, la quale non gli potè giammai venir
meno, perchè Iddio non muore; e la vita umana che consisteva nella
unione dell' anima sua sacratissima col suo divinissimo corpo. Ora,
quantunque Cristo nel triduo della sua morte si trovasse ne' discepoli
suoi morto della vita umana, tuttavia viveva in essi colla divina, la quale
è la prima causa della risurrezione che Cristo stesso attribuiva alla virtù
di Dio, quando a' Sadducei diceva « Erratis nescientes scripturas, neque
virtutem Dei (1), » e quando chiamava « figliuoli di Dio »i « figliuoli
della resurrezione »(2). Ora la virtù, cioè l' onnipotenza di Dio, poteva
certamente dare un termine reale alle anime separate, in qualunque
maniera egli si compiacesse di farlo, il quale tenesse luogo del
corpo, e così poteva farle vivere di vita soggettiva, benchè non della
naturale. Imperocchè la vita dell' anima, generalmente considerata, altro
non richiede se non un termine reale così ad essa congiunto, che con
esso lei formi un unico soggetto, il quale possa, aggiungendosi le condizioni
opportune, fare le operazioni vitali del sentire e del pensare su
cosa reale. Ma questo termine reale può esser vario: onde le varie maniere
di vita, e l' onnipotenza di Dio, come dicevamo, anche ad un' anima
separata dal proprio corpo naturale può aggiungere un' altra realità, che
tenga per essa luogo del proprio corpo. Il qual termine noi stimiamo
sia, come toccammo, l' essere sacramentale di Cristo, giusta quelle parole:
« « il pane che io darò, è la mia carne per la vita del mondo »(3), »
cioè la mia carne, sotto forma di pane, di alimento, terrà luogo, farà
le veci della vita del mondo.
Si distinguano adunque oggimai quattro maniere di vita in Cristo e
nei discepoli di Cristo: 1 La vita naturale, cioè l' unione del corpo umano
naturale in un individuo soggetto; 2 La vita divina, misteriosa, eucaristica,
che rimase nel triduo della morte di Cristo; 3 La vita spirituale
di Cristo ancor viatore, qual ebbe prima della sua morte, la qual consisteva
in una santificazione e divinizzazione di Cristo come uomo naturalmente
vivente, cioè in una santificazione e divinizzazione della sua
anima e del suo corpo uniti insieme individuamente, dal che proveniva
la potenza che aveva di trasfigurarsi, come fece sul Tabor, e di glorificarsi
quando avesse voluto, benchè volle piuttosto contenere questi
effetti della sua divinità lasciando che il suo corpo e l' anima sua potessero
patire, come abbiamo detto, e dividersi per morte; il che non toglieva
che la vita immortale e gloriosa di Cristo non fosse in lui viatore, ma
nascosta, quasi in germe, che a suo tempo sarebbesi sviluppata e manifestata,
il che fu nella resurrezione; e 4 Finalmente la vita gloriosa dopo
la resurrezione, e dopo l' ascensione al Cielo (due gradi della stessa vita),
la quale è la stessa vita precedente attuata nella pienezza del suo vigore
e dei suoi meravigliosi effetti.
La prima di queste quattro maniere di vita era destinata alla morte
in Cristo e ne' suoi discepoli: ne' suoi discepoli come conseguenza penale
del peccato adamitico, pel quale la vita naturale degli uomini era divenuta
corruttibile, ricalcitrante allo Spirito Santo, e preda del demonio:
in Cristo, perchè Cristo per la sua magnanimità, come abbiamo detto,
volle prendere su di sè la pena del peccato senz' alcun peccato, e così
riuscire quel tipo perfettissimo di virtù morale, che il suo eterno Padre
voleva che fosse ed apparisse in questo mondo.
La seconda vita non venne mai meno in Cristo, nè pure nel tempo
della sua morte e durante la dimora del suo corpo sacratissimo nel sepolcro.
Che durante questo tempo Cristo e i suoi discepoli in lui incorporati
vivessero della vita eucaristica sembra indicarsi da queste parole
di Gesù Cristo «: Operamini non cibum qui perit, sed qui permanet in
vitam aeternam, quem Filius hominis dabit vobis (1). » Il cibo adunque
che Gesù Cristo non avea dato fino allora, ma che prometteva di dare,
dice esser tale che non muore, non vien meno perchè permane nella vita
eterna, e questo è il cibo eucaristico. E soggiunge questa ragione: « Hunc
enim Pater signavit Deus (2) »: quasi voglia far intendere che quel Figliuolo
dell' uomo, che Iddio segnò come sua proprietà anche morto
quant' è alla vita naturale, non può non avere qualche altra maniera di
vita, in modo che la vita soggettiva in lui duri eterna, e la possa comunicare
a' suoi, dandosi loro sotto forma di cibo. Poco appresso soggiunge:
« Non Moyses dedit vobis panem de coelo, sed Pater meus dat vobis
panem de coelo verum. Panis enim Dei est, qui de coelo descendit, et
dat vitam mundo (1). » Questo pane del Cielo è Gesù Cristo stesso, ma
non nella sua vita naturale, ma nella sua vita eucaristica.
I SS. PP., che interpretarono questo capo VI dell' Evangelista Giovanni,
hanno inteso costantemente dell' essere eucaristico o sacramentale
di Cristo, ciò che ivi si legge del pane celeste. Questo pane si dice dato
dal Cielo, perchè Cristo, nella forma di cibo o di pane, non è più nel
suo essere naturale umano, non è nella vita adamitica, ma in un modo
miracoloso, soprannaturale; ha un altro essere, un' altra vita nascosta
e al tutto misteriosa: e questa vita è per comunicarsi al mondo, dat vitam
mundo: dà al mondo, che ha perduto la vita in Adamo, una vita di forma
del tutto nuova; la quale rimane anche quando il mondo è morto della
sua vita naturale, di quella vita che gli venia dalla terra e non dal cielo,
che gli veniva dalla carne e dal sangue e non da Dio: « qui non ex sanguinibus,
neque ex voluntate carnis, neque ex voluntate viri, sed ex Deo nati
sunt (2). » Questa vita poi, che viene comunicata meravigliosamente agli
uomini, ha condizione di cibo, perchè sia così ristorato l' antico modo
col quale gli uomini si dovevano rendere immortali, cioè col mangiare
del frutto dell' albero della vita: modo stabilito da Dio a principio e
reso inutile dall' insidia del demonio. Ora, dovendo il demonio esser
vinto e confuso in tutti i suoi tranelli, dispose l' Eterno di dare al mondo
riconquistato un altro albero della vita, assai migliore del primo, e questo
fu Gesù Cristo; e il cibo eucaristico, la vita di Cristo nascosta in esso,
è il frutto di quest' albero. Il qual cibo noi possiamo acconciamente chiamarlo
frutto, perchè fu impetrato da Cristo appresso il Padre e meritato
colla sua passione e morte, di cui per questo pure è la vivente
memoria, perchè egli dura e vive anche quando Cristo è morto nella
sua umana natura. Alla qual vita nascosta ed eucaristica, che non vien
meno, consuonano quelle parole dell' Apostolo « Qui in diebus carnis
suae, preces supplicationesque ad eum qui possit illum salvum facere a
morte, cum clamore valido et lacrymis offerens, exauditus est pro sua
reverentia (3). » Ora dalla morte naturale Cristo non fu immune, non fu
esaudito; e, quantunque ne sia poscia stato campato colla resurrezione,
tuttavia questo non toglie che l' abbia sostenuta. Ma, se poniamo che
Cristo, anche morto, vivesse d' un' altra vita occulta, e fuori dell' ordine
naturale, qual è l' eucaristica; in tal caso egli fu esaudito, perchè non fu
mai senza qualche maniera di vita. E` anche da osservarsi che questa
maniera occulta di vita comunicandosi agli altri per modo di cibo, suppone
che essi già vivano: ed è per ciò che l' eucaristia non si può ricevere
se non da quelli che sono nati nelle acque battesimali.
Dice Gesù Cristo di nuovo agli Ebrei « Ego sum panis vitae: qui
venit ad me non esuriet: et qui credit in me non sitiet unquam (1) » Ed
alla Samaritana avea detto il somigliante dell' acqua che ha pur forma di
cibo: « « Si scires donum Dei, et quis est qui dicit tibi: Da mihi bibere;
tu forsitan petisses ab eo, et dedisset tibi aquam vivam »(2). » E ancora:
« « Omnis qui bibit ex aqua hac, sitiet iterum; qui autem biberit ex
aqua, quam ego dabo ei, non sitiet in aeternum: sed aqua, quam ego
dabo ei, fiet in eo fons aquae salientis in vitam aeternam »(3). »
Quest' acqua è il premio della fede, onde dice: « qui credit in me
non sitiet unquam; » e mescolata nel calice col vino si transustanzia anch' essa
nel sangue di Cristo. L' acqua mescolata col vino non diviene
una sola sostanza con lui, non si combina con esso lui chimicamente;
e pure secondo i teologi nel calice insieme col vino diviene sangue di
Cristo. Ed anche il pane eucaristico è farina impastata coll' acqua, come
osserva S. Cipriano, di cui Innocenzo III cita questo testo: [...OMISSIS...]
La fede è il principio della salute: essa dà il diritto al battesimo
e agli altri sacramenti. Se questi non si possono ricevere, la fede, che ne
produce il desiderio, salva l' uomo, dandogli il diritto di ricevere dopo
morte quella vita da Cristo, che in terra non ha potuto ricevere da'
sacramenti desiderati. Il sangue di Cristo si dee dunque ricevere misto
coll' acqua viva della fede, come la farina pure divenuta pane per l' acqua.
Per questo si suol dire giustamente che l' acqua nel calice rappresenta
il popolo che si unisce strettamente e s' incorpora a Cristo, il che
avviene per la fede viva di esso popolo: l' acqua rappresenta dunque il
popolo credente, rappresenta l' atto o l' abito della fede, col quale il
popolo aderisce a Gesù Cristo e si fa uno in se stesso. Ma della fede e
delle altre virtù teologali, che uniscono a Cristo dando il diritto all' unione
corporale con lui, parleremo in appresso.
Cristo disse alla Samaritana: « Si scires donum Dei, » il che sembra
alludere al mistero eucaristico, giacchè la stessa parola eucarestia,
secondo l' interpretazione di valenti grecisti, significa buon dono, eccellente,
ottimo dono, da «eu», bene, e da «charizomai», largior, dono (1); onde
«charisterion», donum, e dono è chiamata l' Eucaristia dai più antichi Padri
(2). Vero è che dono è anche la parola significativa dello Spirito
Santo, ma questo suppone prima Cristo dal quale procede; e nell' Eucaristia,
che è Cristo coll' essere e colla vita di cibo, si diffonde lo Spirito
Santo, essendo quello il mistero dell' amore di Gesù Cristo. Il che è
confermato dal contesto. Perocchè dicendo: « Si scires donum Dei, et quis
est qui dicit tibi: da mihi bibere; tu forsitan petiisses ab eo, et dedisset
tibi aquam vivam, » quasi voglia dire: « tu stessa domanderesti il dono
dell' acqua viva, se conoscessi qual dono sia questo, e chi sia colui che a
te domanda dell' acqua materiale: il quale è tale che potrebbe ben darti
dell' acqua molto migliore a te ». Laonde il dono si riferisce all' acqua,
e l' acqua, simbolo della fede, si riferisce all' eucaristico soprasostanziale
alimento.
Tornando dunque alle citate parole di Cristo [...OMISSIS...]
esse si possono parafrasare in questo modo:
« Chi verrà a me con disposizione di credere alle mie parole, non avrà
più fame, perchè io lo accoglierò e gli darò finalmente me stesso a suo
nutrimento, per guisa che egli vivrà della mia vita, di quella vita che io
ho sotto forma di pane; e chi già crede in me, non avrà più sete, perchè
io gli darò me stesso a sua bevanda per guisa ch' egli pure vivrà di quella
vita che io ho sotto la forma di vino e di acqua col vino mista ». Accenna
due semi della salute dell' uomo: le disposizioni alla fede, e la fede già
ottenuta. Promette che l' uno e l' altro seme frutterà e recherà l' uomo
alla vita eterna, perchè Cristo gli si darà in alimento, e sotto questa
forma gliela comunicherà. Dice, che colui che mangierà o berrà questo
nutrimento divino, non avrà più fame d' alcun altro cibo, nè sete d' alcun' altra
bevanda; ma non avrà tuttavia sazietà dello stesso cibo, come
si rileva dalle parole della stessa Sapienza che sembrano contrarie alle
riferite di Cristo, e non sono: « qui edunt me adhuc esurient, et qui
bibunt me adhuc sitient (1), » perocchè queste parlano della fame e sete
della sapienza che non s' estingue, e quelle della fame e sete che s' estingue
in quelli che sono satollati della sapienza e della vita di Cristo. E
Cristo stesso dichiarò la cosa: quando, dopo aver detto alla Samaritana
che chi berrà dell' acqua ch' egli darà non avrà più sete in eterno, soggiunge
di ciò questa ragione: « sed aqua, quam ego dabo ei, fiet in eo
fons aquae salientis in vitam aeternam . » Non è dunque a intendersi che
non avrà più sete, quasi non voglia più bere di quest' acqua; ma non avrà
più sete per penuria di essa acqua; non vi avrà più pericolo che quest' acqua
gli possa mancare, onde debba sofferire una sete molesta perchè
non soddisfatta del bramato umore: chè l' acqua, cioè la fede, che io
gli darò, diverrà in lui stesso una fonte copiosa e perenne di acqua viva,
a cui continuamente si abbevererà, e quest' acqua salirà fino alla vita
eterna, giacchè dalla fede germinano le altre grazie, e la vita che comunicano
e conservano i sacramenti, fra i quali in modo più che mai pieno
l' eucaristico.
Continuandoci ora a considerare il discorso di Gesù Cristo, che
avevamo allegato, dopo aver detto: « Ego sum panis vitae, » poco appresso
soggiunge: « Haec est autem voluntas ejus, qui misit me, Patris, ut omne
quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo
die. Haec est autem voluntas Patris mei, qui misit me, ut omnis qui
videt Filium et credit in eum, habeat vitam aeternam, et ego resuscitabo
eum in novissimo die (2). » Questi due periodi cominciano egualmente:
« Questa è la volontà del Padre che mi ha mandato », ma non è da credersi
che ripetano la stessa cosa. Anzi essi manifestano le due maniere
onde Cristo dà la vita agli uomini, delle quali abbiamo sopra toccato.
Perocchè:
A tutti gli uomini Cristo nell' ultimo giorno restituirà la vita
naturale che aveano perduta per insidia del demonio col peccato del
primo uomo;
A quelli che sono predestinati alla eterna salute darà la vita
eterna, e li risusciterà nell' ultimo giorno.
Di vero egli dice, che tale è la volontà del Padre che lo ha mandato,
che egli non perda nulla di ciò che gli ha dato. Ora, che cosa il Padre
diede al Figliuolo? Lo dice altrove in quelle parole: « dedisti ei potestatem
omnis carnis (3). » Ogni carne dunque è in potere del Figlio, il quale però
integra ogni carne nell' ultimo giorno colla resurrezione. Egli non dice
che ogni cosa che gli diede il Padre sarà da lui resuscitata nel giorno
estremo. Parlando di ciò ch' egli resuscita nel giorno estremo, usa il
genere neutro omne quod dedit mihi; ma parlando di quelli che hanno
la vita eterna , usa del genere maschile omnis qui videt Filium et credit
in eum . Il genere neutro si conviene alla natura, il genere maschile alla
persona: il primo conviene alla carne, il secondo allo spirito. Cristo
colla resurrezione ultima de' buoni e de' tristi reintegra tutta la natura
umana, restituisce la vita a tutta la carne: « Haec est autem voluntas
ejus, qui misit me, Patris, ut omne quod dedit mihi, non perdam ex
eo, sed resuscitem illud in novissimo die . » Cristo, colla comunicazione
della vita misteriosa che sta nella percezione e incorporazione di lui,
salva le persone che gli sono state date dal Padre, e a queste, oltre
l' aspettazione della resurrezione futura colla quale ricuperano quella
vita che consiste nell' unione delle loro anime col loro corpo naturale,
hanno oltracciò un' altra vita misteriosa, che noi crediamo consistere
nella percezione di Cristo vivente sotto forma di cibo o di pane: [...OMISSIS...]
Vedere il Figlio è percepirlo, averne la percezione, il che si consegue
quando viene impresso nell' anima il carattere indelebile; credere
nel Figlio è dare l' assenso volontario; e, se la fede è viva, è altresì un
dare la ricognizione pratica e l' adesione al Figlio percepito. Questi, dice
Cristo, ha la vita eterna . Ma se ha la vita eterna, qual bisogno avrà egli
di essere resuscitato nell' ultimo giorno? Acciocchè alcuno possa esser
resuscitato, conviene che sia morto: ma chi ha la vita eterna non è
morto. Conviene dunque dire che l' uomo possa esser morto secondo una
vita, cioè secondo la vita naturale, e possa tuttavia vivere d' un' altra
vita migliore ed eterna, la quale egli ha qualora veda il Figliuolo di
Dio e creda in Lui.
Attesa questa vita eterna di cui l' anima è dotata per la grazia di
Cristo, nel quale ella è incorporata, non s' avvera giammai dell' anime
cristiane l' ipotesi, che noi facevamo più sopra, di un' anima cioè separata
dal corpo, che non ritiene altro se non la sua propria natura,
la quale, abbiam detto, esisterebbe sì ed
avrebbe l' intuizione dell' essere e certi abiti conservati dalla sua precedente
unione col corpo; ma non però avrebbe vita, in quanto la vita
esprime « il sentimento d' una realità »; e però sarebbe del tutto priva
d' ogni altra attività, di ogni altro atto, e molto più d' ogni consapevolezza.
L' anima cristiana all' incontro, anche separata dal corpo, non
riman sola, perchè è unita con Cristo; non riman senza vita, perchè ha
la vita eterna: il cui termine reale era probabilmente nel triduo della
morte di Cristo il suo corpo e il suo sangue sotto la forma di cibo e
di bevanda; e, dopo risorto, è non solo il corpo di Cristo secondo l' essere
sacramentale, ma ben anco secondo l' essere suo naturale glorioso.
Ma nella vita presente l' uomo è incorporato a Cristo secondo la
vita misteriosa e sacramentale solamente, perchè l' essere naturale e
glorioso di Cristo gli rimane al tutto nascosto, acciocchè sia oggetto della
fede, e s' avveri il detto del Signor nostro «: Beati qui non viderunt et
crediderunt (1), » e l' uomo s' abbia quella beatitudine che altramente non
avrebbe. Tutto in beneficio dell' uomo, anche la limitazione de' doni.
Perocchè il non vedere Iddio e tuttavia credere alle sue parole con efficacia
di opere, dà maggiore onore a Dio che credendo dopo aver veduto.
Quell' atto contiene una intiera fiducia in Dio rivelante, un intero
abbandono a lui come verità, ed è un atto di mente più ferma e libera
e dominatrice dei sensi e delle loro apparenze che sogliono attirare e
legare l' assenso dell' uomo. Onde nella fede v' ha un prezzo e una dignità
morale maggiore che non sia nella semplice visione, e tutto l' intento
divino è di condurre l' uomo alla maggiore perfezione dell' essere.
Questa è la fede di quelli che sono già incorporati in Cristo: la fede
dopo la percezione occulta di Cristo, colla quale si percepisce Cristo,
nel suo essere sacramentale di cibo; la fede di cui disse Cristo «: Ut omnis
qui videt Filium et credit in eum habeat vitam aeternam (2). » Prima dice
videt filium, e poscia dice et credit in eum, perocchè a quella visione
del Figlio soprastà la fede . Non è una visione che tolga la fede, quand' anzi
le dà il fondamento, giacchè la fede è « « la sussistenza delle cose
da sperarsi, l' argomento delle non vedute »(3); » definizione
che conviene sommamente alla fede dell' uomo già incorporato con
Cristo, nel quale Cristo percepito occultamente, e non nel suo corpo
naturale nè glorioso, è la sussistenza delle cose da sperarsi, cioè della
manifestazione di Cristo nel suo esser glorioso, ed è l' argomento inconcusso
di questo esser glorioso di Cristo che nella vita presente non apparisce.
Cristo disse ancora nella stessa conferenza cogli Ebrei: « « Nemo
potest venire ad me, nisi Pater, qui misit me, traxerit eum: et ego resuscitabo
eum in novissimo die. Est scriptum in Prophetis et erunt omnes
docibiles Dei (1). Omnis qui audivit a Patre, et didicit, venit ad me.
Non quia Patrem vidit quisquam, nisi is, qui est a Deo, hic vidit Patrem.
Amen, amen dico vobis: qui credit in me habet vitam aeternam »(2). »
Nelle quali parole Cristo descrive tutto il progresso pel quale l' uomo
perviene a quella fede in lui, onde ha la vita eterna.
Prima l' accenna in generale dicendo, che « niuno può venire a lui
se il Padre che ha mandato Cristo non tragga l' uomo a Cristo »; e promette
« che se il Padre lo trae, in qualunque modo lo tragga, Egli lo
risusciterà nell' ultimo giorno ». Questo trarre a Cristo può anche in
qualche modo intendersi di tutte le cose, come Cristo altrove disse «: Et
ego si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsum (3); » e in questo
senso si possono interpretare le parole che seguono [...OMISSIS...]
della universale resurrezione, allo stesso modo
come abbiamo spiegato l' altre parole precedenti « ut omne quod dedit
mihi non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die . » Ma
l' espressione del « trarre del Padre »abbraccia di più; come generalissima
abbraccia ogni maniera di traimento, e specialmente di quelli che
sono tratti a Cristo, acciocchè non siano solamente in potestà di Cristo,
ma sieno salvati da Cristo, rispetto a' quali la promessa di Cristo « ed
io lo risusciterò nell' ultimo giorno »dee intendersi della resurrezione
beatifica e gloriosa.
Se il Padre trae in questo significato a Cristo, la persona che è
tratta non è ancora venuta a Cristo, non ancora incorporata con esso
lui: ma è nondimeno in sulla via a questo felice termine. Il traimento
adunque del Padre a Cristo comprende quelle grazie e quei doni che
costituiscono la disposizione dell' uomo a credere in Cristo, e che perciò
precedono la fede compiuta attuale ed abituale.
Queste disposizioni non sono propriamente la rettitudine naturale
del pensare e dell' operare, la naturale scienza, la naturale onestà.
Questa non può essere che una cotale disposizione iniziale e remota,
che sarà nondimeno anche questa valutata « in die cum judicabit Deus
occulta hominum, secundum Evangelium meum per Jesum Christum
(4). » E tuttavia anche questa si attribuisce convenientemente al
Padre, a cui s' attribuisce la creazione; e conviene poi al Padre in proprio,
in quanto il Padre genera il Figliuolo, e di conseguente tutte le
appartenenze del Verbo, fra le quali è il lume della ragione umana, cioè
l' essere ideale: si attribuisce al Padre altresì la conservazione e la
provvidenza delle cose, onde viene a tutte le cose e nominatamente
all' uomo il vigore pel quale durano in essere ed operano, ed ancora la
ragione per la quale certi uomini sembrano incontrare nella vita minori
tentazioni al mal fare. Ma le immediate ed efficaci disposizioni al ricevimento
di Cristo e del suo Vangelo, pei Gentili erano le antichissime
tradizioni orali, provenienti dalle primitive rivelazioni fatte da Dio ad
Adamo, ed ai successivi Patriarchi prima che l' uman genere si separasse
in nazioni, e per gli Ebrei erano le rivelazioni speciali e tradizioni orali
e scritte consegnate alla famiglia d' Israele. Mediante queste rivelazioni
e tradizioni divine, tanto i Gentili quanto gli Ebrei potevano avere
qualche notizia del futuro Redentore del mondo, su cui si fondasse la
fede in esso. E al Padre s' attribuiscono queste verità rivelate, perchè,
essendo esse, come abbiamo detto (Lezione L, facc. 130), appartenenze
soprannaturali del Verbo, benchè non ancora il Verbo stesso, a questo
si riducevano, e il Padre che genera il Verbo e lo manda al mondo produceva
con ciò stesso tuttociò che al Verbo appartenesse: onde Cristo
non si contentò di dire: « Nemo potest venire ad me nisi Pater traxerit
eum; » ma disse: « Pater qui misit me » quasi dica: Colui che a me è Padre
ab eterno, e che agli uomini mi manda e mi comunica nel tempo.
Dice nelle parole appresso che nessuno degli uomini vide il Padre,
« nisi is qui est a Deo » perchè il Padre non è conoscibile e percettibile se
non pel Figlio e nel Figlio, il quale n' è il Verbo che tutto lo comprende,
e quindi n' è l' intelligibilità. Ma tuttavia dice che, se il Padre non si
può vedere dagli uomini, tuttavia da essi si può udire, onde il profeta
Isaia dice che « saranno tutti docibili », ossia atti ad essere ammaestrati
da esso Dio Padre. Ora questi ammaestramenti dal Padre dati agli uomini
che ancora non conoscono Cristo, dati specialmente avanti la venuta
di Cristo, sono appunto quelle rivelazioni e istruzioni soprannaturali
di cui abbiamo parlato, e che abbiam detto non essere ancora il
Verbo, ma essere tuttavia appartenenze del Verbo. Ora queste, ricevute
docilmente, umilmente, fedelmente dagli uomini, sono le disposizioni
prossime ed efficaci che poscia li fa ricevere Cristo e credere in lui.
Onde Cristo promette, con infinita bontà, che: « omnis qui audivit a
Patre, et didicit, venit ad me . » Non basta che gli uomini odano dal Padre
quello che loro insegna, quello che loro insegnò colle primitive rivelazioni,
quello che insegnò agli Ebrei colle rivelazioni speciali fatte alla
casa di Giacobbe; conviene ancora che imparino quanto il Padre insegna,
acciocchè vengano a Cristo: cioè conviene che aggiungano la loro cooperazione,
l' adesione della loro libera volontà, [...OMISSIS...]
In tal caso vengano a Cristo. Il venire a Cristo sembra che sia una
disposizione ancora precedente alla fede, precedente al credere in Cristo.
Quando l' uomo udì dal Padre, quando l' uomo imparò ciò che il Padre
gli favellò, allora egli va a Cristo, cioè nasce in lui il desiderio che sia
completata quella scienza che gli ha insegnato il Padre, ed opera in conformità
di quel desiderio, cercando quel completamento che ancora non
ha, ancora non conosce, il quale completamento è Cristo. Postochè
Cristo gli si annunzia; allora egli crede in Cristo, ed opera in conformità
di quella fede. Giunto a questo punto la sua salute eterna è assicurata,
promettendolo Cristo: « Amen, amen dico vobis, qui credit in me
habet vitam aeternam . » Ma chi ha la vita eterna crede in Cristo, cioè
continua a credere, e crede con maggior luce, cioè colla luce della vita
eterna che oggimai egli possiede.
Ora Cristo passa ad insegnare come questa vita eterna si formi
nell' uomo, dicendo: [...OMISSIS...]
Aveva
detto che chi crede in lui ha la vita eterna, e poi dice di essere egli
stesso pane di vita, di cui quegli che avrà mangiato, vivrà in eterno.
Se la Fede basta per avere la vita eterna, come poi mette per condizione
all' uomo per vivere eternamente, ch' egli mangi del pane della vita?
E se questo pane della vita è il pane eucaristico, se è la carne di Cristo,
come espressamente spiega lo stesso Cristo, « et panis quem ego dabo caro
mea est; » sarà egli vero che colui che ha la fede e non ha ricevuto l' eucaristico
pane non abbia la vita eterna? Questo sarebbe opposto a quanto
aveva detto, perocchè Cristo aveva detto assolutamente e senza altre
condizioni: « qui credit in me habet vitam aeternam . »
E` dunque da dirsi che questa fede in Cristo trae seco per natural
conseguenza il desiderio del battesimo e degli altri sacramenti, il qual
desiderio, quando non può essere soddisfatto, basta all' uomo per l' eterna
salute. Ma in tal caso, in qual modo Cristo dice assolutamente poco
appresso: Se non mangerete la carne del Figliuolo dell' uomo e non
berrete il suo sangue, non avrete la vita in voi: [...OMISSIS...]
Queste parole sono assolute ed universali.
Qui sembra occultarsi un grande mistero.
E quantunque questo mistero rimarrà sempre in parte occulto, tuttavia
sembra che Gesù Cristo medesimo ce l' abbia in parte svelato.
Gesù Cristo ci dice che egli si comunica agli uomini in forma di
cibo: che questo cibo è la sua carne: che questa carne sotto forma di
pane e di bevanda dà la vita: che se non si ciba questo pane e questa
bevanda non si può avere la vita in se stessi: e che il pane che egli darà
è la sua carne per la vita del mondo, [...OMISSIS...] ovvero,
come dice il testo greco « « è la mia carne che io darò per la vita del
mondo » »,
[...OMISSIS...] quasi dicendo: quella
stessa carne, che io darò a morte acciocchè il mondo viva, è il pane della
vita; cioè quel pane che darà al mondo una nuova vita immortale ed
eterna. Vi ha dunque una carne che Cristo abbandona alla morte; ma
questa carne stessa, destinata alla morte, sarà il pane della vita eterna,
cioè avrà una maniera di vita che non può venir meno; e questa darà
la vita agli uomini, anche quando questi avranno perduta la loro vita
naturale, la vita del mondo. Io darò dunque a morte la mia carne, ma
nello stesso tempo darò un' altra vita, perocchè questa mia carne rimarrà
sempre un pane vivo, un pane che dà la vita.
Questo pane adunque dee dare la vita anche a quegli uomini che
sono morti secondo la vita naturale ed adamitica. Il che importa che ci
abbia un' azione, un effetto dell' eucaristia al di là di questa nostra vita
naturale, sicchè le anime nostre anche separate vivano di quella vita
che dà la carne di Cristo sotto forma di pane della vita, in un modo del
tutto occulto e misterioso.
E veramente Gesù Cristo disse agli apostoli, dopo istituito il sacramento
eucaristico, ch' egli avrebbe bevuto un vino nuovo insieme con
essi, quando fosse entrato nel suo regno: [...OMISSIS...]
Il vino eucaristico che Cristo
dichiara che avrebbe bevuto nel regno del Padre suo, lo dice « vino
nuovo »perchè il suo corpo sarebbe stato glorioso: dice che lo avrebbe
bevuto « con esso loro », per indicare la partecipazione ad essi della
sua vita eucaristica: il vino eucaristico suppone anche il pane, come il
sangue suppone il corpo; ma Cristo si limita ad accennare quell' umore
che dà la vita al corpo naturale, giacchè era scritto: [...OMISSIS...]
E poco prima aveva detto:
[...OMISSIS...]
Questo sangue, che è
destinato da Dio pro piaculo animae, non è il sangue d' alcun animale,
il quale non poteva che raffigurarlo; nè è il sangue dell' uomo corrotto:
ma il sangue del Figliuolo dell' uomo che è insieme Figliuolo di Dio,
Gesù Cristo Signor Nostro. Non si potea cibare qualunque altro sangue,
perchè era sangue morto, e traendolo dal vivente, gli dava morte; ma
Gesù Cristo irritò anche questa prescrizione legale compiendola, dando
all' uomo il suo preziosissimo sangue in forma di vino, sangue vivo e
vivificante, vero piaculum delle anime, sangue del nuovo ed eterno
testamento. Oltre di ciò, parlando Cristo a' suoi discepoli, preferisce di
parlar loro del sangue suo, che avrebbe bevuto nuovo nel suo regno
sotto forma di vino, perchè l' assunzione del sangue era riserbata specialmente
ai perfetti, ed ai sacerdoti, a' quali poi riserbolla la Chiesa
diminuito il primo fervore dei fedeli, come quello che contiene in modo
speciale le grazie più perfette, qual è l' allegrezza nel fare il bene significata
dalla specie del vino che « laetificat cor hominis (3), » e la grazia
della fortezza e del martirio significata nel sangue che Cristo il primo
dovea spargere. Onde quelle parole erano conforto ad un tempo e robustezza
aggiunta a' dolenti discepoli che doveano quanto prima vedere il
loro Signore e Maestro barbaramente crocefisso.
L' essere adunque eucaristico di Cristo, che vive in forma di pane
e di vino, opera al di là di questa vita, e dà all' anima separata, come
all' anima unita al corpo, una vita misteriosa in Cristo che non può
venir meno giammai, perchè di sua natura è eterna. [...OMISSIS...]
Questo pane è sempre vivo: « Ego sum panis vivus; » questo pane è vivo
in modo che dà altrui la vita: « Ego sum panis vitae . » Cristo può esser
dunque morto della sua vita naturale, ma non della sua vita eucaristica.
Questo pane vivo è disceso dal cielo: « Ego sum panis vivus qui de coelo
descendi » e perciò appunto non muore, perchè non è nato della terra: il
cielo è il luogo della vita e non della morte: ciò che è dal cielo non soggiace
alle leggi della terra, e perciò non muore, perocchè nè la terra
nè le forze della terra, nè quelle dell' inferno non hanno potestà sulle
cose del cielo: il corpo naturale di Cristo era venuto dalla terra perchè
composto del sangue della Vergine, e però fu potuto abbandonare alla
morte: ma il corpo eucaristico ha un essere soprannaturale, che viene
unicamente dal Cielo, e però è vivente e vivificante: niuno lo può distruggere.
Una dottrina così recondita e meravigliosa faceva stupire gli Ebrei
che non la intendevano, e ne mormoravano dicendo: « Quomodo potest
hic nobis carnem suam dare ad manducandum? (1). » E tuttavia Cristo
non ritratta o spiega in senso traslato quanto aveva detto, ma lo conferma
e rinforza dicendo e ripetendo: [...OMISSIS...]
Nelle quali parole Cristo mette per condizione ad avere in se stessi
la vita il mangiare la carne sua e bere il suo sangue: « Nisi manducaveritis
carnem Filii hominis et biberitis ejus sanguinem non habebitis
vitam in vobis . » Le parole sono chiare ed assolute, a tal che, prima che
fosse deciso dalla Chiesa l' assunzione dell' Eucaristia non essere di necessità
di mezzo alla salute (3), v' ebbero alcuni, come S. Agostino (4)
e Innocenzo I (5), che ritennero non bastare all' eterna salute de' bambini
ricevere il battesimo, se ancora non fosse data loro l' eucaristia. Ma
ora è definito il contrario dall' infallibile autorità della Chiesa; e pure
quelle parole di Cristo son così assolute ed universali, come quelle che
inculcano la necessità del battesimo: [...OMISSIS...]
Se dunque chi non mangia la carne del Figliuolo dell' uomo e bee
il suo sangue non ha la vita in se stesso, e tuttavia chi muore col battesimo
d' acqua, o di sangue, o di desiderio è certo che acquista la vita
eterna, convien dire che quella comestione della carne e del sangue di
Cristo, che non fece nella vita presente, gli verrà somministrata nella
futura al punto della sua morte, e così avrà la vita in se stesso: giacchè,
come abbiamo veduto, l' eucaristia ha degli effetti anche al di là di questa
vita, e Cristo stesso disse che entrato nel suo regno glorioso egli l' avrebbe
presa insieme co' suoi discepoli.
In questo modo anche a' santi dell' antico testamento, quando
Cristo discese al limbo, potè Cristo comunicare se stesso sotto la forma
di pane e di vino, e così ravvivarli da quello stato di tenebre e di sonno
in cui si trovavano; e, mettendoli a parte della propria vita eucaristica,
renderli atti alla visione di Dio; la fede loro era per essi il titolo, con
cui sono morti, di un diritto ad rem, che fu poscia effettuato da Cristo,
quando diede loro il possesso delle cose in cui speravano, onde il loro
divenne un diritto in re .
Il medesimo dicasi di tutti que' Gentili che ebbero la fede nel futuro
Salvatore del mondo, e che vissero senza peccato mortale, o pentiti n' ottennero
il perdono.
Lo stesso di que' Cristiani che muojono, benchè battezzati e mondi
dal peccato attuale, senza aver ricevuto nella vita presente l' eucaristia,
come accade a molti bambini, e come accadde a colui, a cui disse Cristo
in Croce: « Hodie mecum eris in Paradiso (1). »
La qual dottrina viene confermata dal sacrificio della messa. Perocchè
in questo, dopo avvenuta la transustanziazione del pane e del
vino nel Corpo e nel Sangue del Redentore, si prega che questo venga
portato dall' angelo « in sublime altare tuum, in conspectu divinae majestatis
tuae, » e che quanti partecipiamo di questo altare, « omni dono coelesti
et gratia repleamur : » il che è la società e comunicazione nostra co' santi
che sono in Cielo. Laonde Innocenzo III nella sua opera sulla liturgia,
venuto a questo passo che incomincia: « Jube haec perferri, » appone al
capitolo questo titolo «: De profunda quorumdam intelligentia verborum; »
ed appresso scrive così «: Tantae sunt profunditatis haec verba ut intellectus
humanus vix ea sufficiat pertractare . » Vede in quelle parole il
mistero, e non osa quasi per riverenza svelarlo; non osa per la profondità
sua investigarlo: perocchè veramente ella è questa una delle più
arcane dottrine della cattolica Chiesa. Che se noi osiamo favellarne, è
solo per la persuasione in cui siamo che così voglia Iddio in questo
tempo. Quel sommo Pontefice nondimeno lo accenna colle parole di
C. Gregorio Magno, di cui allega due testi, continuandosi in questo
modo: [...OMISSIS...]
(1).
Dopo recati tali testimonii, Innocenzo III passa a spiegare quelle
parole in un senso meno profondo, attestando però di nuovo l' alto
mistero che esse nascondono con dire: [...OMISSIS...]
Ma poscia, venendo a parlare di quell' altare sublime
in cui il sacerdote prega che sia portata dall' Angelo l' eucaristia,
dice: « Multiplex autem altare legitur in scripturis superius et inferius,
interius et exterius » e si fa ad enumerare questi diversi altari superiori
e celesti, ed inferiori e terreni, e fra questi dice che altare superiore è
anche la Chiesa trionfante, altare poi inferiore la Chiesa militante [...OMISSIS...]
Ed acconciamente pel sublime altare, di cui è fatta
menzione nelle citate parole che pronuncia il sacerdote nella messa poco
dopo la consacrazione, si può intendere la Chiesa trionfante, la quale
è fatta partecipe degli stessi divini misteri, di cui si rende partecipe il
credente viatore su questa terra, vivendo e l' una e l' altra dello stesso
cibo, fruendo della medesima vita di Gesù Cristo. Qual ineffabile consorzio!
Qual intima unione del Cielo colla terra! qual divino legame
fra le cose visibili ed invisibili! Qual ammirando commercio fra la vita
presente e la futura! Quale unità di tutto il Corpo di Cristo, la quale
discende da questo corpo glorioso e si comunica non meno alle membra
già partecipi della sua gloria che alle membra che ancor vivono di fede
sperando!
Ora nella Santa Messa, dopo che il sacerdote pregò Iddio perchè
comandi che l' Angelo porti il pane e il vino della vita, che sta in sull' altare
terreno, anche sull' altare celeste, cioè che la porti a' celesti
comprensori, egli prega per le anime dei defunti non ancora pervenute
allo stato di termine e che debbono purificarsi dalle leggiere macchie
che da questa recaron seco nell' altra vita. Perocchè, se questo cibo vitale
venga dato a quelle anime fedeli, esse saranno tantosto liberate dalla
loro oscura prigione, ottenendo quella vita di Cristo colla quale nell' altra
vita si è atti a vedere la faccia di Dio: giacchè questo cibo rimette
i peccati leggieri, e monda le anime intieramente, « tamquam antidotum
quo liberemur a culpis quotidianis, » come disse il Sacrosanto Concilio
di Trento (1).
Alla commemorazione poi delle anime purganti, segue l' orazione
che incomincia: Nobis quoque peccatoribus, colla quale il sacerdote
prega per sè, per gli assistenti, e per tutti i fedeli che costituiscono la
Chiesa militante su questa terra, e dimanda che mediante il cibo eucaristico
possiamo tutti aver qualche parte coi santi martiri ed altri comprensori
celesti, in modo che, dopo esser vissuti quaggiù della vita nascosta
di Cristo, possiamo in cielo godere della vita palese e a pieno
manifesta.
Così le tre parti in cui la Chiesa è divisa, cioè la trionfante, la
purgante e la militante, conviene che vivano della stessa vita di Cristo,
benchè in gradi e modi diversi, e che abbiano uno stesso mezzo con cui
partecipare di questa vita.
Conviene riflettere che il concetto del sacrificio fu sempre eguale
dal principio del mondo, nè fu solo conservato presso gli Ebrei, ma
presso tutte le genti. Questo concetto non involgeva solo l' immolazione
della vittima alla divinità, ma ben anco acchiudeva la persuasione che
della vittima immolata si cibassero, parte la divinità stessa, parte gli
uomini che facevano il sacrificio. Si concepiva così che un solo cibo
diventasse comune a Dio, od agli Dei, ed agli uomini, e per tal modo
gli uomini partecipassero della stessa vita di Dio o degli Iddii. E Iddio
presso il suo popolo mandava sovente il fuoco dal cielo ad assumere la
vittima quasi egli stesso se ne nutrisse. [...OMISSIS...]
si legge ne' libri de' Maccabei, [...OMISSIS...]
Questo concetto costantissimo presso tutte
le nazioni, non fu effettuato in antico se non simbolicamente; ma Cristo
compiè il simbolo, e adempì la verità di quel concetto profetico. Se
dunque era nell' antica tradizione, e nell' istinto della natura umana,
che una vittima dovesse esser cibo comune a Dio ed agli uomini, era
convenevole che Iddio divenuto uomo e glorificato partecipasse d' un
alimento sacro di cui potessero altresì partecipare gli uomini, e questo
alimento fu il pane ed il vino divenuti sua carne e suo sangue. E se
Cristo glorioso ne partecipa, conveniva che tutta l' umanità gloriosa, che
forma un solo corpo con esso lui, pure ne partecipasse: questo dunque
è il cibo soprasostanziale di tutti i santi che ammantano Cristo, e compiscono
il suo corpo santissimo.
Quando parla Gesù Cristo del cibo eucaristico chiama se stesso
« Figliuolo dell' uomo »: [...OMISSIS...]
Abbiamo detto che questa era la denominazione più umile che poteva
dare a se stesso. Ma egli era venuto a prendere la difesa dei
figliuoli dell' uomo contro il demonio, a prendere la forma così bassa ed
umile di figliuolo dell' uomo (espressione che allude alla generazione,
nella quale il demonio aveva posto il guasto della natura umana e per
la quale il peccato si propagava di padre in figlio, benchè Gesù Cristo,
non concepito per umana generazione ma per opera dello Spirito Santo,
ne andasse del tutto immune, come ne andava pure immune per essere
in pari tempo Dio) per rinnovare e rialzare dal suo avvilimento lo stesso
figliuolo dell' uomo, il quale in lui sussisteva perfetto e sublimato:
perfezione e sublimità che voleva pure comunicare agli altri figliuoli
degli uomini a cui s' era fatto fratello secondo la carne, a cui voleva pure
esser fratello secondo la divinità. Quindi, in onta al demonio, egli esalta
e magnifica quel figliuolo dell' uomo, che l' inimico aveva tanto umiliato
e distrutto, e però egli dice: « Ut autem sciatis quia Filius hominis habet
potestatem in terra dimittendi peccata (1); » dice ancora: « Dominus est Filius
hominis etiam sabbati (2); » dice: « Mittet Filius hominis angelos suos et
colligent de regno ejus omnia scandala (3); » dice: « Filius enim hominis
venturus est in gloria Patris cum angelis suis, et tunc reddet unicuique
secundum opera ejus (4): » e tante altre cose dice in onore della umana
natura che il Demonio aveva tanto abbassata, ed egli era venuto ad
innalzare. Ed è da considerarsi che egli non esaltava solo questa natura
in un solo individuo di lei, cioè in se stesso, ma la voleva esaltata in
molti individui che rappresentassero tutte le forme o specie di onore e
di gloria di cui ella fosse suscettibile (1), giacchè invitava tutti gli uomini
a partecipare di que' pregi, ed onori, e glorie che in lui primo dovevano
essere, fino a dire: « Amen dico vobis, quod vos, qui secuti estis me, in
regeneratione, cum sederit Filius hominis in sede majestatis suae, sedebitis
et vos super sedes duodecim judicantes duodecim tribus Israel (2). »
Ora, nello stesso modo parlando del cibo eucaristico, invece di
dire: « Se non mangerete la mia carne, »ovvero: « se non mangerete
la carne del Figliuol di Dio », dice: « Se non mangerete la carne del
Figliuolo dell' Uomo », quasi volendo dire: Il figliuol dell' uomo fu
corrotto dal peccato per insidia del diavolo: ora, a scorno del medesimo
corruttore ed insidiatore, il figliuolo dell' uomo troverà il rimedio da
riparare a' suoi danni in se stesso, non avrà bisogno d' uscire da sè per
rinvenirlo.
Il che tutto dimostra un ineffabile amore per l' umana natura, di
cui Iddio si rende il campione prendendone la difesa: dimostra una delicatezza
che provvede all' onore di questa natura tanto vessata dal suo
perpetuo inimico, e quella cotal riverenza verso essa, di cui favella il
Libro della Sapienza, ove dice: « Tu autem, dominator virtutis, cum
tranquillitate judicas, et cum magna reverentia disponis nos (3). »
E tuttavia la vita eucaristica è soprannaturale e divina. Il che
Gesù Cristo fa intendere con quelle parole: « Sicut misit me vivens Pater
et ego vivo propter Patrem, et qui manducat me et ipse vivet propter
me . » Il Padre dà la missione al Verbo d' incarnarsi, in generandolo, ed
il Verbo incarnato vive, tutto Dio e uomo, della vita del Padre: perocchè,
come Verbo ha comune col Padre la vita, e come uomo partecipa,
per l' unione ipostatica, di quella vita. Questa non è la vita naturale,
ma la vita divina partecipata, la vita essenziale di cui dice S. Giovanni:
« « In ipso vita erat ». » Questa vita è la sussistenza vivente nel Padre,
conosciuta per essenza nel Figliuolo, amata per essenza nello Spirito
Santo. Questa vita della persona divina di Cristo reggeva come principio
supremo la sua natura umana, e nascondeva questa natura umana
vivente della vita divina e da questa governata sotto la forma di cibo
per potersi così comunicare agli altri uomini. Perocchè l' uomo non acquista
il termine reale del suo sentimento, per il quale egli vive, se non per
generazione e per nutrizione: in questi due modi il suo spirito si unisce
alla corporea sostanza come a termine del suo sentire. Ora, essendosi
guastato il primo modo, con cui si doveva propagare la vita naturale, per
opera del demonio; restava intatto il secondo, giacchè l' albero della
vita non fu potuto profanare nè dal demonio nè dall' uomo. Al frutto
dunque dell' albero della vita, che nella prima istituzione doveva aggiungere
all' uomo colla nutrizione un termine corporeo che lo avrebbe
reso immortale, Iddio sostituì un altro cibo tolto dall' uomo stesso, cioè
la carne ed il sangue di Gesù Cristo.
E questa vita, misteriosa ed occulta, è quella vita colla quale il
Padre provvide al Verbo incarnato, quando si consigliò di abbandonarlo
rispetto alla vita naturale, nelle mani de' suoi crocifissori; quella
colla quale il Padre esaudì il Figlio secondo le parole dell' Apostolo:
« « Qui in diebus carnis suae, preces supplicationesque ad eum qui possit
illum salvum facere a morte, cum clamore valido et lacrymis offerens,
exauditus est pro sua reverentia »(1); » il qual clamore, le quali
lagrime non potevano non essere pienamente esaudite; quella vita di
cui rese grazie Cristo quando istituì il Santissimo Sacramento: « Dominus
Jesus, in qua nocte tradebatur, accepit panem, et gratias agens fregit
(2). »
Essendo dunque questa vita divina, e per sè indipendente dalla
carne e dal sangue ma per divino consiglio all' umanità di Cristo comunicata,
Cristo dice, quasi a conclusione del suo insegnamento sull' eucaristico
cibo: « Spiritus est qui vivificat, caro non prodest quidquam;
verba, quae ego locutus sum vobis, spiritus et vita sunt (3), » volendo
dimostrare due cose: che la vita, che sta nella sua carne e nel suo sangue,
è vita divina; e che questa non si può ricevere se non per opera dello
Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo: onde quelli che ricevono l' Eucaristia
col peccato nell' anima, non ricevono, non possono ricevere
quella vita. Laonde S. Agostino, spiegando le parole di Cristo, dice che
non muore colui che riceve nell' eucaristico cibo [...OMISSIS...]
E ancora dice: [...OMISSIS...]
Laonde Cristo, che promette che non morranno
quelli che mangeranno la sua carne e il suo sangue ma avranno in sè
l' eterna vita, fa intendere chiaramente che egli parla di una manducazione
colla quale l' uomo riceva rem sacramenti, e non solamente il sacramentum .
Questo non è quel mangiare di cui parla Cristo; perchè « « Spiritus
est qui vivificat, caro non prodest quidquam ». » Onde di nuovo
S. Agostino, parlando di questo Sacramento [...OMISSIS...]
Per mangiare adunque veramente il corpo e il sangue di Cristo, nel
senso che intende Cristo colla voce mangiare, conviene esser membro
del corpo di Cristo, e membro vivente. Non basta aver ricevuto il carattere
indelebile nel sacramento del battesimo, o anche negli altri sacramenti
che lo conferiscono, cioè nella Confermazione e nell' Ordine sacro;
conviene ancora aver la grazia che ci rende membro vivo di quel corpo.
Perocchè Cristo disse: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem,
in me manet et ego in illo . » Ora, se ivi è l' obice del peccato,
questo, che di natura sua avverrebbe per la forza del Sacramento, non
può avvenire, perchè « quae conventio Christi ad Belial? (4). » Onde Cristo
in quelle parole esprime l' effetto della Santissima Eucaristia, quale essa
per sua virtù arreca, prescindendo dall' accidentale impedimento che
pone l' uomo. Il perchè S. Agostino dice che nelle citate parole di Cristo
il Signore espone « quid sit manducare corpus ejus, et sanguinem ejus
bibere . » E soggiunge: [...OMISSIS...]
(5).
Le quali parole del Santo Dottore vanno intese con buon senno.
Perocchè anche chi ha ricevuto il battesimo colla grazia che di natura
sua conferisce, questi è già membro vivente del corpo di Cristo, e però
egli è in Cristo e Cristo in lui. Ma la Santissima Eucaristia conserva
questa unione e mutua inabitazione come fa il cibo che conserva la vita
in chi già l' ha: il che viene espresso da quella parola di Cristo manet
( in me manet et ego in illo ), che significa permanenza e continuazione.
Di più, il cibo ristora ciò che il corpo vivente va perdendo ogni giorno;
e questo fa pure l' Eucaristia togliendo i peccati veniali, in cui quotidianamente
l' uomo incappa, rimettendo in lui e rifondendo nuova vita.
In terzo luogo il cibo rende l' uomo adulto, e così fa l' Eucaristia dell' uomo
nuovo e spirituale, facendo in lui crescere Cristo. In quarto
luogo il pane rinforza, e il vino eccita e rallegra; e questi pure sono
effetti dell' Eucaristia; la quale dà all' uomo la pienezza della vita, del
sentimento, e dell' attività della vita, perchè pone nell' uomo Cristo
corporalmente, lo pone tutto, il corpo, il sangue, l' anima e la divinità;
laddove il battesimo congiunge l' uomo al corpo vivente di Cristo, ma
non pone nell' uomo tutto lo stesso Cristo.
In secondo luogo non è da credere che senza la reale manducazione
del pane e del vino consacrato l' uomo possa per altra via venire in possesso
di tutte queste grazie, e possa aver Cristo corporalmente in se stesso:
ma egli può nondimeno salvarsi, perocchè il desiderio di pascersi
del corpo e del sangue sacratissimo, e l' essere in istato di grazia, quantunque
non glie ne dieno il possesso, e, per così dire, il diritto in re ,
tuttavia glie ne danno il diritto ad rem , il quale dopo la sua morte lo
mette alla partecipazione reale del pane e del vino celeste.
Ed ora noi possiamo più precisamente rispondere alla questione:
« Che cosa s' intenda nelle divine scritture per risurrezione ».
La qual parola riceve più significati dalle diverse maniere
di vita a cui si riferisce. Perocchè noi abbiamo distinte in Cristo quattro
maniere di vita di cui partecipa il Cristiano, a ciascuna delle quali si
riferisce una maniera di risurrezione. E le vite da noi distinte furono:
1 la vita naturale che consiste nell' unione dell' anima col corpo; 2 la
vita eucaristica; 3 la vita spirituale di Cristo viatore, che consiste per
Cristo nell' unione teandrica dell' uomo con Dio, e pel Cristiano nella
partecipazione della grazia di Cristo, per la quale l' uomo non solo percepisce
il Verbo ma vi acconsente e vi aderisce colla sua volontà, ancora
vivente della vita naturale; 4 la vita gloriosa cominciata per Cristo
dopo la sua risurrezione e completata dopo la sua ascensione al Cielo,
e che comincierà pel cristiano dopo la resurrezione del suo corpo.
La terza e la quarta di queste vite, sono una sublimazione soprannaturale
della prima, o, per dir meglio, hanno la prima per loro base
e quasi subietto: la seconda, cioè l' eucaristica, è una vita miracolosa e
misteriosa.
Ciò premesso, per risurrezione nelle divine scritture s' intende:
Talora quello che accade per la fede e pel battesimo che restituisce
all' uomo la terza delle vite enumerate, cioè la vita della grazia.
L' uomo, che nasce dal mal seme di Adamo, nasce corrotto, peccatore;
e però si dice morto, cioè privo della vita spirituale. Egli ha bensì la
vita naturale, ma soggetta irreparabilmente alla morte, di cui porta i
germi in se stesso, e quindi egli non ha che una vita inutile al conseguimento
del suo fine che è l' immortalità. Perduta la vita naturale, egli
si rimarrebbe morto per sempre: l' anima sua cadrebbe in quello stato di
tenebre e d' inazione che abbiamo descritto. L' uomo, che si fa Cristiano
ricevendo il Vangelo, depone ogni sua confidenza nella sua vita naturale
e corrotta, e si tiene rispetto a questa per morto, ponendo tutto il suo
bene e il suo affetto nella nuova vita che egli acquista incorporandosi a
Cristo, e vivendo della vita di Cristo. Questo è quello che insegna S. Paolo
in quelle parole: [...OMISSIS...]
L' immersione nelle acque battesimali rappresenta, secondo l' Apostolo,
la morte dell' uomo naturale7corrotto, la morte del peccato. Perocchè
Gesù Cristo colla morte del suo corpo naturale7innocente acquistò, come
abbiamo veduto, il diritto di giustificare gli altri uomini, pei peccati dei
quali la divina giustizia rimaneva soprabbondantemente soddisfatta;
acquista il diritto di unirli a sè, com' egli tanto bramava a cagione della
generosa sua carità, e quindi di fare che l' uomo morto alla vita soprannaturale
risorgesse a questa vita formando un solo corpo con esso lui: e
questo risorgimento è simboleggiato dall' uscita dell' acqua, in cui l' uomo
era stato immerso quasi in sepolcro. Di che l' Apostolo deduce che l' uomo
dee fare gli atti propri della vita nuova, non più dell' antica già
deposta, [...OMISSIS...]
E fa intendere che in questa vita
spirituale noi abbiamo la caparra della futura resurrezione de' nostri
corpi: perocchè Cristo, che è in noi, è risorto; onde anche noi risorgeremo
alla vita naturale sublimata alla gloria quando deporremo la
presente nostra vita naturale7corrotta, che noi dobbiamo già riguardare
come morta e vivere come già fossimo risorti anche corporalmente: [...OMISSIS...]
E come Cristo morì una volta della morte naturale, e
oggimai più non muore; così noi morti al peccato viviamo di vita perenne:
[...OMISSIS...]
Anche l' Apostolo S. Pietro attribuisce il morir nostro al peccato
alla morte di Cristo, e il nostro risorgimento alla vita della grazia ce lo
rappresenta come un effetto della risurrezione del Signor nostro, colla
quale gli fu dato il diritto di distribuire agli uomini la vita spirituale,
germe della futura risurrezione de' loro corpo. E paragona il battesimo
alle acque del diluvio, quando nell' arca « « pauci, idest octo animae,
salvae factae sunt per aquam » ». E soggiunge: « « Quod et vos nunc similis
formae salvos facit baptisma: non carnis depositio sordium, sed conscientiae
bonae interrogatio in Deum per resurrectionem Jesu Christi,
qui est in dextera Dei, deglutiens mortem ut vitae aeternae haeredes
efficeremur, profectus in coelum, subjectis sibi angelis, et potestatibus,
et virtutibus »(1). »
La differenza fra la vita spirituale e la vita che il cristiano viatore
riceve dalla percezione della santissima Eucaristia sta primieramente in
questo, che nel battesimo egli acquista la percezione iniziale del Verbo,
che lo segna col carattere indelebile, onde fluisce la grazia dello Spirito
Santo se non trova ostacoli; e questa maniera di vita gli è comunicata
dall' umanità di Cristo per un segreto contatto del suo corpo vivente e
glorioso colle acque nell' atto che il battezzatore proferisce le parole,
forma del Sacramento. Perocchè, come diremo in appresso, il corpo di
Gesù Cristo emana una virtù vitale col solo suo contatto, e questo basta
per legare a sè ed incorporare con una comunicazione di vita gli uomini.
Laddove nell' Eucaristia l' uomo, incorporato già e vivente di Cristo,
non gode del solo contatto invisibile e misterioso del corpo di Cristo,
che comunica all' acqua quella virtù vivificatrice onde l' uomo vive di
Cristo; ma l' uomo riceve in se stesso tutto l' Autor della grazia, il suo
corpo e il suo sangue, e con essi insieme la sua anima e la sua divinità,
in forma di alimento. E come l' alimento diviene nostro sangue e nostra
carne, così avviene del corpo e del sangue di Cristo sotto gli accidenti
del pane e del vino, sicchè un medesimo termine di sentimento e di vita
corporea abbiamo noi ed ha Cristo; onde, come da fonte di ogni vita e
di ogni grazia, ogni vita ed ogni grazia possiamo derivare. La seconda
differenza si è che quell' uomo, che si nutre di questo cibo divino e lo
fa suo alimento, non è l' uomo vecchio, ma l' uomo nuovo: è quest' uomo
nuovo che, contenendo la virtù della vita di Cristo a sè comunicata colla
fede e col battesimo, può mediante questa virtù alimentarsi di Cristo,
cioè rendere termine del proprio principio vitale la carne ed il sangue di
Cristo. Perocchè, come nella nutrizione comune se non vi avesse nell' anima,
cioè nel principio senziente, nel principio soggettivo, la virtù
nutritiva, non potrebbe rendere il cibo, preso per bocca, sua propria
carne viva, e suo proprio vivo sangue, e non si direbbe che fosse un
vero mangiare, un vero alimentarsi, come non è mangiare, non è alimentarsi
quello d' una macchina inanimata (per esempio delle macine
del mulino) che prende e stritola e fa passare da sè delle sostanze che
rispetto agli animali si dicono alimentari; così del pari nella nutrizione
eucaristica, se chi la prende non ha già la vita di Cristo, o per non essere
battezzato o per essere attualmente morto alla grazia a cagione di peccati
attuali, egli può premer bensì col dente le specie eucaristiche, secondo
la frase di S. Agostino; riceve bensì il corpo e il sangue reale di
Cristo dentro se stesso sotto il velame delle specie; il pane ed il vino
consecrato passa per il suo corpo come per una macchina; riceve gli
effetti fisici delle specie, ma non si nutre di quello che sta sotto le
specie, non si nutre, non si alimenta, non s' impingua dello stesso corpo
e dello stesso sangue di Cristo, e però propriamente il suo non è un
mangiare la carne e bere il sangue del Salvatore. E però Gesù Cristo
adopera queste parole di mangiare e di bere solo per indicare la manducazione
e la bibita che fanno del Sacramento augustissimo le anime giuste,
che se ne rincarnano e rinsanguinano veramente. Onde dice « Panis
enim Dei est qui de coelo descendit, et dat vitam mundo (1), » e ancora:
« Si quis manducaverit ex hoc pane vivet in aeternum (1). » Onde colui che
non vive della vita eterna, egli è segno che non ha mangiato questo
pane, benchè l' abbia materialmente ricevuto nella sua bocca, e fatto
passare pe' suoi visceri. Dice ancora, per dimostrare la cooperazione
dell' uomo alla nutrizione eucaristica, « Operamini non cibum qui perit,
sed qui permanet in vitam aeternam, quem Filius hominis dabit vobis
(2). » All' incontro il battesimo non suppone la vita, ma dà la vita a
chi non l' ha ancora: perocchè il ricevere la vita non è un' opera del
principio vitale, com' è la nutrizione, ma quella viene all' animale e
all' uomo dal di fuori per una operazione anteriore al nuovo vivente
ch' ella produce.
Quindi se del battesimo è proprio ufficio il dare la vita di Cristo
all' uomo che non l' ha ancora, onde si chiama generazione o nascita
spirituale; egli è proprio effetto dell' eucaristia il conservarla, come faceva
il frutto dell' albero della vita, e l' accrescerla, rendendo l' uomo
bambino adulto e gagliardo, onde si paragona alla nutrizione o alimentazione.
Quindi, il ricevimento dell' eucaristia non si dice un risorgere. Ma
nondimeno la vita eucaristica ha il suo proprio risorgimento, e questo
avviene quando l' uomo muore. Perocchè l' anima separata dall' uomo
che muore riceve dalla vita eucaristica quella unione perenne con Cristo
glorioso di cui disse Cristo: « Qui manducat meam carnem et bibit meum
sanguinem in me manet et ego in illo (3); » e la quale, alla morte, presta
« quel lume di gloria », di cui parlano i teologi, che rende l' anima atta
a vedere Iddio faccia a faccia insieme con Cristo e quindi a fruire della
eterna beatitudine. Questo è quello che promette Cristo in quelle parole:
« Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem habet vitam
aeternam, et ego resuscitabo eum in novissimo die (4). » Egli ha la vita
eterna, e tuttavia si promette che sarà resuscitato. Che bisogno di essere
resuscitato ha colui che già vive, ed eternamente vive, perchè ha mangiato
la carne e bevuto il sangue di Cristo? Egli vive, ma in questo secolo
vive d' una vita nascosta, la quale si manifesta luminosissima solo alla
morte, quando è tolto dagli occhi dell' anima il velame della carne corrotta,
velame significato nel velo dell' antico tempio che impediva ai
fedeli la vista e l' ingresso del Sancta Sanctorum . Onde, quando morì
Gesù Cristo, questo velo fu scisso, perchè, entrato una volta in esso
Sancta Sanctorum il nuovo ed eterno Pontefice secondo l' ordine di Melchisedecco,
potevano e dovevano necessariamente entrarvi tutti coloro
che con esso formavano una cosa, secondo il suo benigno decreto: [...OMISSIS...]
Ora quell' anime, benchè separate dal corpo, le quali sono una cosa
nel Figliuolo e nel Padre [...OMISSIS...] ; quelle in cui è il Figliuolo
[...OMISSIS...] ; quelle che Gesù Cristo vuole che sieno
là appunto dov' egli si trova al cospetto della nuda e svelata faccia di
Dio [...OMISSIS...] , quelle che debbono vedere
la gloria di Cristo [...OMISSIS...] , certo debbono altresì
vedere Iddio faccia a faccia insieme con Cristo, partecipando della vita
gloriosa di Cristo. Il passaggio da questa vita alla futura è dunque per
costoro una vera risurrezione, e però s' adempie nel Nuovo Testamento,
colla morte di Cristo, quanto egli aveva detto a Marta: « Ego sum resurrectio
et vita; qui credit in me etiam si mortuus fuerit vivet (2). »
Cristo disse di chi mangierà il suo corpo e berrà il suo sangue ch' egli
lo risusciterà nell' ultimo giorno [...OMISSIS...]
Ora vi hanno due giorni ultimi: l' ultimo giorno dell' uomo,
e l' ultimo giorno del mondo. Cristo gli abbraccia entrambi col suo detto,
e quindi egli accenna a due resurrezioni come effetto del cibo eucaristico:
a quella che avverrà all' uomo fedele, tosto che sarà spirato e
avrà deposto il peso della sua carne mortale; e a quella che avverrà
nella fine dei secoli quando gli sarà restituita una carne gloriosa.
Gesù Cristo ne' passi più sopra allegati tutto attribuisce alla fede.
Egli prega per quelli che credituri sunt, vuole che questi sieno là dove
è egli medesimo. Egli dice [...OMISSIS...]
Attribuisce dunque alla fede, di cui egli è autore e consumatore (4),
non a qualunque fede, quello stesso che attribuisce altrove alla manducazione
ed alla bibita della sua carne e del suo sangue; e tuttavia dice
che senza di questa non si può aver la vita in se stessi: [...OMISSIS...]
Conviene dunque dire che chi ha la fede in Gesù
Cristo mangi la sua carne e beva il suo sangue: perocchè senza di questo
non possono aver la vita in se stessi; quando pure è certo, per testimonianza
di Cristo, che « omnis qui videt Filium et credit in eum habet
vitam aeternam . » Ma non tutti quelli che ebbero la fede in Cristo mangiarono,
durante la lor vita mortale, del Figliuolo dell' uomo, nè bevvero il
suo sangue: non la mangiarono tutti que' credenti che morirono prima
dell' istituzione del Santissimo Sacramento dell' altare; molti, anche dopo
questa istituzione, morirono nella fede di Cristo senza poterla ricevere.
Convien dunque dire, che essi mangino la carne del Figliuolo di
Dio e bevano il suo sangue dopo morti, e per esso risuscitino alla vita
eterna. Gesù Cristo adunque parla prima della Fede, e poi del cibo
eucaristico, per comprendere nel suo discorso anche tutti i santi dell' antico
testamento, e tutti i credenti sparsi per le nazioni in tutti i tempi.
Perocchè tutti questi si salvarono per la fede in Cristo venturo, o in
Cristo già venuto. Onde l' Apostolo: « Fide intelligimus aptata esse saecula
Verbo Dei, ut ex invisibilibus visibilia fierent (6): » cioè, acciocchè le
cose invisibili, che sono l' oggetto della fede, la mercede promessa e la
gloria futura, si avverassero, si adempissero e divenissero visibili, non
più oggetto di fede, ma di visione e di esperienza. Di che soggiunge:
[...OMISSIS...]
Laonde troppa ragione aveano gli antichi santi di riporre la loro
fiducia e speranza, non nella immortalità naturale dell' anima separata
che non avrebbe potuto dare a se stessa nè luce nè azione, ma bensì
nella risurrezione che avrebbe loro dato Iddio per Gesù Cristo, cioè
nella restituzione di una vita ed attività soggettiva, in un termine nuovo
del loro principio sensitivo e soggettivo, giacchè senza un termine reale
non si dà, propriamente parlando, una vita attuale. In questa risurrezione
delle loro anime li fa sperare S. Paolo, e non in altro. [...OMISSIS...]
E pur que' santi dell' antico
testamento dovevano rimanere colle loro anime separate lungamente
nello stato di tenebre e d' inazione, cioè fino al tempo in cui Gesù
Cristo avesse istituito il mistero della risurrezione, cioè il sacramento del
suo corpo e del suo sangue, ed egli fosse entrato nel suo regno, perocchè
dovevano essere perfezionati alla vita insieme con noi, dice l' Apostolo.
[...OMISSIS...]
« Deo pro nobis melius aliquid providente , » dice
l' Apostolo; perocchè noi, che Iddio predestinò a vivere nel tempo della
grazia del Salvatore, quando usciamo dalla vita presente senza macchia
di peccato, siamo tantosto resuscitati alla vita eucaristica e gloriosa, e
per questa vita vediamo Iddio; nè l' anime nostre separate hanno ad
aspettare, come quelle degli antichi giusti, ad essere ammesse alla gloria.
Oltre di ciò noi, oltre altri vantaggi sopra gli antichi, ancora in questa
vita mangiamo il corpo e beviamo il sangue del Signore, e così abbiamo
in noi quell' eterna vita, che alla morte nostra si rivela con luce fulgidissima,
e che veniva simboleggiata da quelle faci che Gedeone aveva
fatte nascondere ai trecento dentro a vasi di creta, rotti i quali esse
apparirono (5).
Quindi la Chiesa cattolica dà il nome di Viatico alla santissima Eucaristia
che ricevono i moribondi, ed essi, quando il possano, ne tiene
obbligati, acciocchè morendo abbiano quella vita eterna in se stessi, che
è il germe della subitanea resurrezione delle loro anime, tostochè sono
divise da' corpi. Il che dimostra che non convien troppo scrupoleggiare
nel concedere la ripetizione del Viatico all' infermo che sopravvive qualche
tempo, dopo averlo ricevuto la prima volta. E questa è altresì, oltre
l' altre, una ragione che persuade a' Cristiani la frequente comunione
che li tiene di continuo preparati alla venuta dello sposo, come le vergini
prudenti (1), facendogli avere continuamente in sè quella vita che
si manifesta nell' ora della loro morte.
Il sacrosanto Concilio di Trento parla espressamente del convito
celeste dell' anime separate, il quale viene pure espresso negli antichi
monumenti cristiani, per indicare la beatitudine che gode l' anima in
cielo; e sembra che il citato Concilio si giovi di questa ragione appunto
per raccomandare a' fedeli la venerazione e l' uso della santissima eucaristia,
o almeno che vi faccia allusione. Perocchè egli s' esprime così:
[...OMISSIS...]
Sulle quali notabilissime parole del sacrosanto Concilio egli è uopo
che noi facciamo alcune riflessioni.
Egli adopera la parola mangiare, tanto riferendola all' assunzione
del corpo di Cristo in questo mondo, quanto riferendola a ciò che si farà
in cielo dall' anime separate da' corpi: egli ammette adunque una manducazione
del corpo di Cristo nell' altra vita che darà la beatitudine.
Egli dice che le anime nostre, passate da questa vita senza macchia
o purificate nel fuoco, saranno ammesse a cibare lo stesso pane degli
angeli, che relativamente mangiano i viatori in terra . Cristo adunque
nella vita futura si unirà alle anime in modo simile a quello col quale
il cibo si assimila ed unisce di presente all' anime nostre divenendo
nostra carne e nostro sangue. Non dice il Concilio semplicemente che
nel celeste regno saremo uniti a Cristo, goderemo di Cristo, ma dice che
lo mangeremo, e lo mangeremo siccome pane, cioè al modo del cibo, e
che sarà lo stesso pane eucaristico che ora mangiamo in terra, [...OMISSIS...]
Che anzi l' essere questo pane chiamato celeste nelle Scritture, del
quale io intendo quel luogo di S. Paolo « Gustaverunt etiam donum
coeleste (1) » e in figura, della manna è detto « Januas coeli aperuit, et
pluit illis manna ad manducandum, et panem coeli dedit eis: panem
angelorum manducavit homo (2) » nel libro poi della Sapienza, tutto
applicabile più veramente all' Eucaristia che alla manna, si legge: [...OMISSIS...]
e ne' tanti altri luoghi
delle divine Scritture l' Eucaristia figurata nella manna è chiamata pane
del cielo (4). Convien dunque dire che nel cielo si mangi questo cibo
divino. E Cristo lo dice ancora più chiaramente parlando di que' servi
fedeli che saranno trovati vigilanti alla venuta del loro Signore, per
la quale s' intende da' Padri la morte: « Beati servi illi, quos cum venerit
Dominus invenerit vigilantes. Amen dico vobis quod praecinget se,
et faciet illos discumbere, et transiens ministrabit illis (5). »
Questo è il convito che si fa ai Cristiani, che muojono giustificati,
in cielo subito dopo la loro morte, e all' anime che escono pure d' ogni
macchia dal fuoco del purgatorio. Cristo è quello che ministra alla mensa,
come fece in terra co' suoi discepoli, ed è il cibo stesso ch' egli amministra.
Ma perchè dice ministrerà il Signore a que' servi fedeli in
passando? Questa misteriosa parola indica la risurrezione di cui parliamo,
che avviene all' anima mondata subito dopo aver deposta la soma
terrena, perchè Cristo nell' Eucaristia dall' essere suo nascosto, sub
sacris velaminibus, come dice il Concilio di Trento, si apre e manifesta
ed è mangiato absque ullo velamine . Al qual passaggio di Cristo, qual
cibo, da uno stato nascosto ad uno stato palese risponde quella risurrezione
dell' anima di cui dice Cristo che passa dalla morte alla vita [...OMISSIS...]
E le due risurrezioni, cioè questa e la finale,
sono distintamente annunziate da Cristo in questo luogo; perocchè,
dopo aver detto che chi crede al Padre che lo ha mandato ha l' eterna
vita e passa dalla morte alla vita, tosto aggiunge dell' altra resurrezione
finale: « Amen, amen dico vobis, quia venit hora, et nunc est, quando
mortui audient vocem Filii Dei: et qui audierint vivent (2). » E dice che
già allora i morti udivano la voce del Figliuolo di Dio, et nunc est,
benchè non dica che già allora risorgessero, ma che viveranno, et qui
audierint vivent; perocchè a' santi defunti venne comunicata gradatamente
la salute e la grazia di Cristo per que' gradi stessi pe' quali venivano
comunicate agli uomini viventi in terra ne' giorni della vita terrena
del Salvatore: onde alla predicazione di Cristo la luce uscente dalla
sua parola dee essere splenduta altresì a quelli che erano al limbo.
La parola transiens s' avvera ancora in un altro modo. Cristo nell' eucaristia
passa pe' nostri corpi, come passa il cibo; e un simigliante
passaggio, benchè continuo, è credibile che avvenga rispetto all' anime
separate venendo in tal modo esse continuamente refocillate da nuovo
cibo divino. Onde la parola pasqua, che viene a dire passaggio per indicare
il passaggio dell' Angelo, che non sommise alla morte, ma lasciò
in vita tutti quelli che avevano tinti gli stipiti delle loro abitazioni col
sangue dell' agnello. Allo stesso modo, essendo tutti gli uomini condannati
alla morte, l' Angelo della morte non può nulla su quelli che sono
vitalmente incorporati a Cristo, perchè ognuno che crede, benchè muoja
della morte naturale, pure non muore assolutamente parlando, ma
transit a morte in vitam . Così la pasqua degli Ebrei è un segno parlante
dell' Eucaristia.
Ma qui si presenta una difficoltà sulla denominazione di pane degli
Angeli data al cibo eucaristico. Gli Angeli non mangiano, non si nutrono
di cibo come gli uomini. Come dunque si può dire che Cristo, la carne
ed il sangue di Cristo, si renda cibo de' puri spiriti?
E` vero che gli Angeli sono spiriti puri, ma essi hanno nulladimeno
una relazione e un' azione sui corpi. Come i corpi sono il termine attivo
della vita animale, di maniera che il principio sensitivo riceve da essi
un' azione, per la quale egli ha il suo atto di sentire e di essere; così i
medesimi corpi sono un termine passivo degli Angeli, di maniera che
dagli Angeli essi corpi ricevono quell' attività per la quale possono agire
nel principio della vita sensitiva corporea.
Quindi gli Angeli possono benissimo esser congiunti al loro modo
al corpo eucaristico di Cristo, ad un modo che non è certamente il mangiare
dell' uomo, ma che, corrispondendo esattamente ed analogicamente
al mangiare e all' alimentarsi dell' uomo, può colla stessa parola denominarsi,
non avendo l' uomo altre parole, per significare quanto appartiene
alle sostanze pure che non cadono sotto la sua esperienza, se non
le analogiche che la propria esperienza gli somministra.
Perocchè questa espressione cibo degli Angeli dee avere una verità,
e non essere una pura imaginazione degli Ebrei, che, vedendo cadere
la manna dal cielo, la dissero cibo degli Angeli che stanno in cielo, e
un' imaginazione sarebbe per la manna, ma non pel vero pane celeste
che da un altro cielo spirituale discese, e per ragione del quale Iddio
permise che così gli Ebrei concepisser la manna, e questo si conservasse
scritto ne' libri divini.
Può ancora considerarsi che la parola Angelo, che significa mandato,
non accenna alla natura ma all' ufficio, onde Angelo è detto nella
divina scrittura S. Giovanni Battista, Angeli i Vescovi delle Chiese (1),
Angelo del testamento Gesù Cristo medesimo in questo luogo di Malachia:
« Ecce ego mitto angelum meum, et praeparabit viam ante faciem
meam. Et statim veniet ad templum suum Dominator, quem vos quaeritis,
et Angelus Testamenti, quem vos vultis (2). » Il qual Profeta dice
pure del Sacerdote: « Labia enim Sacerdotis custodient scientiam, et legem
requirent ex ore ejus, quia Angelus Domini exercituum est (3). »
Ora il pane ed il vino eucaristico è soprattutto il cibo del Sacerdote,
a cui dalla Chiesa venne riserbato in proprio il calice, specialmente
essendo profetato dell' eucaristico cibo in questo modo: « Quid enim bonum
ejus est, et quid pulchrum ejus, nisi frumentum electorum et vinum
germinans virgines? (4). »
Qui si farà da alcuno questa difficoltà. Ond' è che la Chiesa cattolica
raccomanda sì caldamente di ricevere nell' ore estreme il Corpo di
Cristo? Questo vien dato dopo la morte a tutti i giusti, in quella maniera
misteriosa ed ineffabile che l' umana lingua non può a pieno spiegare,
eziandio che non lo ricevessero prima di morire.
La risposta si contiene nella stessa denominazione di Viatico che
la Chiesa dà all' eucaristico nutrimento preso dagli infermi vicini a
morte. E il Tridentino sopracitato lo dichiara assai nettamente con quelle
parole: « et is vere eis sit animae vita ed perpetua sanitas mentis, cujus
vigore confortati ex hujus miserae peregrinationis itinere ad coelestem
patriam pervenire valeant . »
Il passo di questa all' altra vita, che l' uomo fa colla morte, quant' è
pericoloso, altrettanto è rilevantissimo, perchè da quello dipende l' eterna
condizione dell' anima, onde niun mezzo si dee dell' uomo trascurare per
averne ajuto e conforto. E di tutti validissimo è l' ajuto e il conforto del
cibo eucaristico, del quale fu simbolo il pane e l' acqua recato dall' angelo
al profeta Elia fuggente da Acabbo, di cui è scritto [...OMISSIS...]
E veramente l' uomo non ha altra fortezza nè altra vera vita che
quella che gli viene da Cristo, dall' essere incorporato a Cristo, dal vivere
della vita di Cristo, dall' aver Cristo in se stesso.
E la vita di Cristo, di cui l' uomo partecipa cibandone il corpo sacratissimo,
è tanto potente che rimonda l' uomo da' peccati veniali e dagli
stessi mortali, quando egli ne sia pentito, e non avendone coscienza, o
non potendoli sottomettere al potere delle Chiavi, ne vada ancor debitore;
perchè quella vita repelle e caccia da sè ogni impedimento, a meno
che non osti la mala disposizione della volontà dell' uomo, per la quale
disposizione malvagia l' uomo riceve il cibo divino senza riceverne tuttavia
la vita.
Si ponga oltracciò l' attenzione del pensiero in quelle parole del
Tridentino « ut is vere eis sit animae vita . » E` chiamato vita non del corpo,
ma dell' anima; avendo anche l' anima quella specie di morte naturale
di cui abbiamo parlato, oltre la morte del peccato. Sicchè gli antichi
giusti che non ebbero il vantaggio della Eucaristia, sostennero quello
stato simigliante ad una morte dell' anima, nel quale, come abbiamo
detto, si trovavano nel limbo in aspettazione di Cristo che li facesse
risorgere.
Ma anco fra i Cristiani, che muojono giustificati, si può credere che
v' abbia una differenza secondo che muojono con aver ricevuto il Viatico
o senza averlo ricevuto, non solo pel grado maggiore di santità e di
unione col fonte della santità di cui quelli si vantaggiano, ma altresì
rispetto alla condizione della loro morte.
E per dare maggior luce a questo concetto, distinguiamo tre casi:
1 quelli che muojono col solo desiderio del battesimo senza averlo ricevuto
realmente; 2 quelli che muojono giustificati dopo ricevuto il battesimo
senza aver tuttavia ricevuto il Viatico; 3 quelli che muojono giustificati
dopo aver ricevuto il Viatico. Egli è certo e ben definito che
tutti e tre si salvano. Tuttavia i primi, che hanno un diritto alla vita,
hanno la vita di diritto ma non ancora di fatto, e però passano in certo
modo per quello stato di morte naturale dell' anima, dal quale incontamente
vengono resuscitati da Colui che disse: « Io sono la resurrezione
e la vita, chi crede in me eziandio che sia morto vivrà », e questi sono
simili agli antichi giusti, colla sola differenza che gli antichi giusti rimasero
lungamente in quello stato, laddove essi non fan che passarci istantaneamente.
I secondi, che muojono rinati dall' acqua e dallo Spirito
Santo, hanno di diritto e di fatto la vita dell' anima, ma non partecipano
che inizialmente alla vita di Cristo, benchè rechino seco il diritto di entrare
in possesso pienissimo di quella vita. Laonde, deposto che abbiano
il corpo, essi non passano neppure per un istante per quello stato di
morte naturale dell' anima, ma passano per quello stato di vita iniziale
qual è quella che hanno ricevuto nel battesimo e che portano seco,
dal quale Cristo immantinente sollevandoli dà loro la vita piena. I terzi,
finalmente, avendo ricevuto Cristo effettivamente prima di morire, non
soffrono che la morte del corpo, e nell' altra vita si trovano già con quella
pienezza di vita che altro non esige se non d' illuminarsi e di manifestarsi,
senza che l' anima loro passi per alcun grado inferiore.
Rimane ora a dichiarare come, laddove gli uomini viatori cibano
il corpo ed il sangue di Cristo che rimane loro occulto e velato, i comprensori
celesti si nutrano dello stesso divino alimento senza che alcun
velo ne contenda loro la vista [...OMISSIS...]
Gesù Cristo, deposta la vita mortale e seppellito il divino suo
corpo, poscia risorto, coll' ascensione al cielo si tolse agli occhi degli
uomini. L' uomo, incorporato in Cristo, partecipa di tutte le vicissitudini
di Cristo, e quindi è morto e seppellito e risorto e salito al cielo
in ispirito con Cristo, come membro di Cristo. Il che egli fa colla vita
interiore e novella da lui acquistata, venendogli impedito dal farlo compiutamente
e corporalmente dall' ostacolo dell' uomo vecchio fino a tanto
ch' egli vive ancora della vita adamitica e non ha deposto il corpo mortale;
non ha ricuperato il nuovo e glorioso coll' ultima risurrezione: onde
al presente dee fare tutte queste cose mediante la fede di cui vive (1),
per la quale egli le fa senza averne la piena consapevolezza, e la chiara
visione. Quindi la vita dei Cristiani che è in Cristo viene chiamata da
S. Paolo vita nascosta . La qual vita si manifesterà, s' animerà di un vivissimo
sentimento, brillerà d' una luce ineffabile, primieramente alla
morte del corpo, quando avviene la prima resurrezione, che è quella
dell' anima; poscia alla ricuperazione del corpo nostro proprio glorioso
nella fine dei secoli, che sarà la seconda resurrezione. « Igitur, » così il
Vaso d' elezione, « si consurrexistis cum Christo, quae sursum sunt quaerite,
ubi Christus est in dextera Dei sedens: quae sursum sunt sapite, non
quae super terram. Mortui enim estis, et vita vestra est abscondita
cum Christo in Deo. Cum Christus apparuerit, vita vestra; tunc
et vos apparebitis cum ipso in gloria (2). » Il che viene a dir così:
Cristo il quale si tiene in voi è la vostra vita. Ma Cristo è nascosto
presentemente all' esperienza de' vostri sensi, perchè questi sensi guasti
e materiali non sono degni nè atti di vederlo o percepirlo, perchè non
sono degni nè atti di vedere Iddio in cui è Cristo, nè è degna o atta di
vederlo quella vita, quell' anima che dee presiedere a tali sensi: quindi
Cristo, nostra vera vita, è nascosto al presente in Dio, alla cui destra
egli siede. Tuttavia voi vivete, benchè non abbiate la consapevolezza
di tutti i tesori che in quella vita, quasi involuti a forma di germe, sono
nascosti e che debbono poi apparire in voi d' improvviso, quando vi
apparirà in tutto il suo splendore. Dunque avete bisogno di credere
tutto ciò, di credere alla vostra vita, di aspettarne la sfolgorante manifestazione:
dovete altresì condurvi consentaneamente alla vostra vita
immortale ed eterna: dovete rinunziare coll' affetto della volontà e
colla stima alla vostra vita naturale e corrotta destinata alla morte, quasi
morti con Cristo ed in Cristo, e non cercare, non assaporare se non le
cose celesti, cioè a dire Cristo che siede alla destra del Padre in cielo e
le cose tutte di Cristo, aspettando la meravigliosa manifestazione di Cristo
in voi che vi è promessa. Onde in altro luogo dice [...OMISSIS...]
E altrove l' Apostolo vuole che abbiamo fiducia nell' ingresso al
Sancta Sanctorum, che è la parte più santa del tempio antico simboleggiante
il cielo, dove Iddio e Cristo a noi si svela e la nostra vita occulta
si manifesta: ingresso che ci fu aperto col sangue di Cristo, e del quale
la carne mortale di Cristo era come il velo pendente che ne toglieva la
vista; deposta la qual carne, quel velo è tolto, e noi possiamo entrare,
purchè deponiamo anche noi la nostra carne, come ha fatto Cristo, la
cui carne era innocente e solo per sua volontà ebbe condizione mortale
e passibile, per aver voluto assomigliarsi a noi, la cui carne materiale,
non solo mortale ma corrotta, è veramente un velo che impedisce l' ingresso
e la vista del luogo santissimo: [...OMISSIS...]
Cristo adunque incominciò egli a battere questa via nuova e vivente
(perchè anche mentre siamo in sulla via viviamo ), che conduce nel più
segreto ed augusto luogo del Santuario, per la quale c' invita ed esorta
l' Apostolo di metterci.
Di questa « vita nascosta con Cristo in Dio », di cui in questa terrena
peregrinazione vive il cristiano, accenna ancora S. Pietro quando
favella di quell' eredità preziosissima che si conserva nei cieli pe' fedeli,
e che sta pronta per rivelarsi e manifestarsi luminosamente quando finirà
la vita di ciascuno, e più pienamente ancora quando finirà il mondo:
[...OMISSIS...]
pel quale ultimo tempo
s' intende non meno quello che è ultimo a ciascun uomo, che è il giorno
della morte, quanto quello che è ultimo al mondo, che è quello della
finale risurrezione. Vi ha dunque l' eredità immarcescibile conservata
in cielo per noi [...OMISSIS...] , colassù palese, a noi ora nascosta:
la quale eredità è Cristo, rispetto ai viatori invisibile, rispetto ai
comprensori visibile e fulgente; sicchè, quando a noi pure apparirà
tale, saremo manifestamente in Cielo.
Ora, prima che noi entriamo ad investigare in che consistano i veli
che di presente ci avvolgono il cibo eucaristico, e qual cangiamento nasce
in noi alla remozione di tali veli; prima che ci facciamo a cercare quanto
di questo sublime argomento sia dato a noi di conoscere, è prezzo dell' opera
che noi tocchiamo quello che ci insegnano le divine lettere sul
progressivo incremento della vita divina ed eterna degli uomini. Perocchè
noi abbiamo veduto che anche quelli, che precedettero Cristo, vissero
« sub testamento aeternae vitae (1), » anche dopo deposta la soma mortale;
onde l' Iddio dei Patriarchi è Iddio de' viventi e non de' morti. Giova
dunque dichiarare, quanto a noi è dato, la gradazione di queste vite.
S. Paolo insegna che tutti i viatori vivono di fede, e la fede non è
delle cose apparenti, ma di quelle che non cadono sotto il nostro sentimento.
Ma la fede non è già pura tenebra, ma ella ha ancora della luce,
la quale si fa piena allorchè nell' altra vita, cessando interamente la fede,
sottentra la piena e lucidissima visione. Fino che questo non avvenga,
gli uomini sulla terra possono avere ed ebbero una fede mescolata di
maggiore o minor lume di sentimento divino, vi ha fede e cognizione
insieme; cose che assai spesso S. Paolo congiunge; per esempio scrivendo
a Tito si dice nel saluto apostolico di Cristo, « secundum fidem electorum
Dei, et agnitionem veritatis, quae secundum pietatem est (2). »
Per il che lo stesso S. Paolo distingue quasi più maniere di fede là
dove dice: « ex fide in fidem (3). »
« La giustizia di Dio, dice, si rivela nell' Evangelio di Cristo di
fede in fede », quasi l' uomo passi per esso da una fede all' altra, da una
fede di minor luce ad una fede di luce maggiore. Così il giusto gentile
e il giusto giudeo, aderendo alla predicazione del cristianesimo, passarono
d' una fede più oscura ad un' altra fede più lucente, perocchè nè
anche il gentile poteva esser giusto senza credere.
Laonde, non solo rispetto a' gentili, ma ben anco rispetto agli
ebrei, la nostra fede è chiamata luce, chiarezza, gloria da S. Paolo,
il quale anzi non dubita di scrivere così: « Nos vero omnes, revelata facie
gloriam Domini speculantes, in eandem imaginem transformamur a claritate
in claritatem tamquam a Domini spiritu (1) » nel qual luogo Giovanni
Diodati traduce il vocabolo speculantes [...OMISSIS...] « contemplando
come in uno specchio », che risponde ottimamente a quello:
« videmus nunc per speculum (2). »
E questa eccellenza, questa maggior luce della fede cristiana, sopra
quella di coloro che erano avanti Cristo, consiste principalmente in
questo: che nell' antico tempo, Cristo non essendo ancor venuto al mondo,
non poteva operare colla sua umanità divina sulla nostra umanità e
comunicarci, coll' unione fisica, benchè invisibile ed ineffabile, di lui
a noi, parte di quella vita di cui gode egli stesso, e così ravvivare la
nostra vita soggettiva. La qual comunicazione della vita umana divinizzata
in Cristo mancava pure ad Adamo nello stato dell' innocenza; quindi
un' altra differenza del carattere di Adamo, se così vogliamo chiamarlo,
dal carattere dei Cristiani; perocchè quello non era che oggettivo, cioè
la percezione iniziale del Verbo divino, ma questo, oltr' essere oggettivo,
è anche soggettivo, perché è la percezione di Cristo oggetto come Verbo,
soggetto come uomo . Vero è che il Verbo è l' oggetto ad un tempo persona,
e anco la persona del Verbo può esser data all' uomo da percepire,
ma soltanto alla mente, e però solo in modo oggettivo. Può bensì il
Verbo assumere a sè la natura umana in un individuo, ma questa è
l' incarnazione, nella quale la persona stessa del composto è la persona
divina; com' è avvenuto in Cristo, nel quale il soggetto umano non è
persona, giacchè la persona è il supremo principio operativo d' un individuo,
e il supremo principio operativo in Cristo fu il Verbo. La persona
divina adunque del Verbo, come a me pare, non può comunicarsi in
modo soggettivo ad un individuo dell' umana natura se non incarnandosi
in esso. All' incontro l' umanità di Cristo, per la virtù divina di cui è
informata, poteva operare fisicamente e in modo soggettivo sull' umanità
nostra, come un amico agisce sull' amico, e uno sposo sulla sposa; e la
vita di Cristo come uomo assunto dalla divinità poteva operare sulla
vita nostra soggettiva, e aggiungerle del suo vigore e della sua propria
vitalità; perchè la vita si comunica, come si vede nella generazione,
nella nutrizione, e meno palesemente in altri fenomeni ancora, specialmente
in quelli dell' amore.
Ora dal Verbo oggettivamente percepito può promanare in qualche
modo lo Spirito: ma l' effetto di questo spirito sembra dover essere
limitato a rendere il bene amabile all' intelletto; non a rinforzare e
muovere immediatamente le facoltà inferiori operative soggettive. Laddove,
per la congiunzione di Cristo a noi, per l' unione a noi del Verbo
incarnato, cioè non meno del Verbo che dell' umana natura assunta dal
Verbo, tutte le nostre potenze sono ad un tempo sollevate, corroborate,
divinizzate, non solo le oggettive, ma le soggettive ancora. Il che è una
notabilissima differenza fra la grazia di Adamo innocente e quella del
Cristiano, cioè dell' uomo rinato in Cristo. E di questa vita soggettiva,
a noi comunicata dalla vita umana7divina di Cristo, sono quelle parole
di S. Paolo « in eamdem imaginem transformamur: » perocchè, come altrove
dice: « Vivo autem, jam non ego, vivit vero in me Christus (1). » Altrove:
« Mihi vivere Christus est (2). » Ed agli Ebrei: « Participes enim Christi
effecti sumus: si tamen initium substantiae ejus usque ad finem firmum
retineamus (3): » dove, quantunque il greco non dica substantiae
ejus, ma solamente substantiae [...OMISSIS...] , tuttavia ottimamente
la Volgata traduce substantiae ejus, apparendo, che si parla dall' Apostolo
della sussistenza o sostanza di Cristo in noi, dalle prime parole
del versetto: « participes enim Christi effecti sumus . » Per la partecipazione
adunque della vita umana7divina di Cristo noi ci trasformiamo nella
stessa imagine di Cristo, ci trasformiamo in qualche modo in Cristo,
diveniamo in un certo senso altrettanti Cristi viventi in lui, tale essendo
la forza di quella parola imagine , come abbiamo notato più sopra,
ponendosi l' imagine per la stessa cosa incipiente,
siccome in quel luogo: « Umbram enim habens lex futurorum bonorum,
non ipsam imaginem rerum (4), » cioè non ipsa bona quasi in embrione,
sentendo noi quello che sente Cristo, piacendoci quello che piace a
Cristo, dispiacendoci quello che a Cristo dispiace, volendo quello che
vuole Cristo diventiamo amabili al Padre che ama in noi le stesse cose
che sono in Cristo e sono in noi, ama Cristo in noi. Onde il Salvatore
disse de' suoi discepoli, promettendo loro la venuta personale del suo
Spirito: « Venit hora, cum jam non in proverbiis loquar vobis, sed palam
de Patre annuntiabo vobis. In illo die in nomine meo petetis. Et non
dico vobis quia ego rogabo Patrem de vobis. Ipse enim Pater amat vos,
quia vos me amastis, et credidistis quia ego a Deo exivi (5). »
Queste dolcissime e benignissime parole disse Cristo a' suoi discepoli.
Nelle quali è da osservare:
1 Che quel dire, ch' egli parlerà apertamente e palesemente del
Padre, dimostra quanto sia illuminata la fede de' Cristiani per la partecipazione
della vita soggettiva di Cristo sopra la fede degli antichi, e
risponde a quella di S. Paolo: « in eamdem imaginem transformamur a
claritate in claritatem, » o, come dice il testo greco: «apo doxes eis doxan».
Questa chiarezza non è propria della fede degli Ebrei, ma solo de'
Cristiani; perchè gli Ebrei avevano la notizia di Cristo che doveva venire
al mondo, ma non potevano avere il sentimento di Cristo, perchè, non
essendo ancora venuta al mondo la sua reale umanità, non poteva questa
agire sull' umanità loro, come agisce realmente benchè misteriosamente
sull' umanità nostra. Onde S. Paolo altrove dice, che Cristo venendo al
mondo « illuminò la vita »: [...OMISSIS...]
Quasi voglia dire: Vi era una vita anche
avanti Cristo (sebbene anch' essa per Cristo), ma questa vita era oscura
e non illuminata perchè non era soggettiva, ma soltanto oggettiva, per
modo che il soggetto debole ed esile non poteva fare gli atti vitali di
sentimento, cavandoli dall' oggetto, che non gli poteva dare l' immortalità
soggettiva. Ma Cristo, per mezzo dell' Evangelio, cioè della fede e
de' sacramenti, diede all' anima, cioè al soggetto, di quel sentimento
immortale ch' egli aveva nella sua umanità congiunta ipostaticamente al
Verbo, e così distrusse la morte, cioè quello stato dell' anima separata
che rimane senza sentimento operativo perchè priva di un termine reale
che formando con essa un solo soggetto la renda atta all' azione, benchè
non si rimanga priva d' intellezione anche con un oggetto reale (il
Verbo), e però di vita oggettiva; quindi distrusse la morte anche rispetto
alla vita naturale, facendo che all' anima sia un tempo restituito un
corpo glorioso colla risurrezione della carne.
Vero è che agli Ebrei furono preannunziate molte cose di Cristo,
e la fede che davano ad esse era soprannaturale. Era soprannaturale
perchè queste cose stesse le percepivano oggettivamente in quell' esistenza
oggettiva che hanno le cose nel Verbo
per una interiore comunicazione del Verbo più o
meno chiara, ma sempre mista di molta oscurità. Onde, quando venne
Cristo al mondo si adempì la profezia: « Eructabo abscondita a constitutione
mundi (1), » e Cristo potè dire: « Mandatum novum do vobis, ut
diligatis invicem sicut dilexi vos, ut et vos diligatis invicem (2), » e potè
rassomigliarsi al Padre di famiglia che « profert de thesauro suo nova et
vetera (3). »
Se le verità fossero state annunziate agli Ebrei solamente in parole
esterne senza che queste fossero accompagnate da alcun lume interiore
di fede, la loro condizione non si sarebbe potuta dire soprannaturale,
benchè quella rivelazione fosse scaturita da una fonte soprannaturale;
ma il lume interiore, donato in varii gradi a que' fedeli, faceva sì, come
dicevamo, che percepissero nel Verbo quelle verità che venivano loro
annunziate di fuori colle parole.
2 Ma, quantunque gli Ebrei vivessero per questa loro fede, tuttavia
quella fede non dava loro la vita soggettiva, non li trasformava, come
dice S. Paolo, nella stessa imagine di Cristo, non li toglieva dalla morte
e dalla corruzione di sè come umani soggetti; onde coll' aver illuminata
la vita, secondo San Paolo, Cristo distrusse la morte e la corruzione,
[...OMISSIS...]
E come potrebbe venir meno la vita soggettiva a quelli
che sono amati dal Padre dello stesso amore del quale ama il suo Figliuolo
diletto in cui si compiace, [...OMISSIS...] e le preghiere
de' quali, fatte in nome di Cristo, sono accette ed esaudite: [...OMISSIS...]
Le preghiere e i sacrificii degli antichi santi, ancor che
fatte in nome di Cristo, non potevano salvarli dalla morte soggettiva,
e dalla condanna al limbo: conveniva prima, che risorgessero e fossero
edotti da quella cotal prigione, e perciò, che venisse Cristo e pregasse
per essi, e fosse esaudito secondo il mandato che aveva ricevuto: [...OMISSIS...]
Il perchè S. Paolo chiama la stessa legge antica, quantunque santa in se
stessa: « ministratio mortis, ministratio damnationis (5), » perchè l' uomo
non era avvalorato soggettivamente ad adempirla, e non adempita comminava
la morte, nè l' uomo di conseguente si poteva salvare per l' adempimento
perfetto di quella legge, ma per la fede in Colui che toglieva
e cancellava i loro peccati, i cui meriti per la fede si sarebbero loro
applicati. Quindi gli antichi fedeli vivevano di una vita oggettiva, ed
avevano una certa speranza della vita soggettiva; ma non ancora la
stessa vita soggettiva di Cristo. La qual vita de' santi Cristiani, chiamata
bene spesso l' uomo nuovo, l' uomo interiore, viene altresì rassomigliata
da S. Paolo ad un vestimento, e la mancanza di questa vita alla
nudità della persona: similitudine acconcissima rispetto all' anima separata
dal corpo, la quale priva di questo suo termine naturale rimane
nuda, se non gli è dato da Dio soprannaturalmente qualch' altro termine
reale (il quale secondo noi è l' essere eucaristico di Gesù Cristo), ed è
trovata vestita se seco adduce questo termine ineffabile e misterioso,
pel quale le è comunicata della vita di Cristo. Medesimamente questo
termine reale della nostra vita interiore e spirituale è rassomigliato ad
una casa, la quale rimane anche quando la casa temporanea del nostro
corpo si discioglie: [...OMISSIS...]
3 Conviene in terzo luogo notare che le recate parole di Cristo si
riferiscono allo Spirito Santo, il quale è quello che rende propriamente
gli uomini, che colle loro volontà non si oppongono e potendo cooperano,
figliuoli di Dio, onde passano, come dice S. Paolo, « a claritate in
claritatem tamquam a Domini Spiritu: » il che si può intendere, tanto
dell' ascendere di virtù in virtù, di perfezione in perfezione, di eccellenza
ad eccellenza durante la presente vita, quanto del passaggio dalla chiarezza
o gloria interna, che ha il giusto cristiano in questa vita, a quella
chiarezza e gloria sfolgorante e completa che avrà nell' altra.
4 E poichè lo Spirito Santo è l' amore divino essenziale, e quindi
diffonde in noi la carità, che riforma e santifica la nostra volontà,
secondo quello: « Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum
Sanctum qui datus est nobis (2), » e ancora: « Ipse enim Spiritus
testimonium reddit spiritui nostro, quod sumus filii Dei (3); » perciò
Gesù Cristo dice che il Padre ama noi, perchè noi amiamo lui, [...OMISSIS...]
giacchè non vi ha la vita
soggettiva di cui parliamo dove non vi ha carità, almeno abituale, non
avendovi ivi lo Spirito Santo che è quello che congiunge Cristo alle
anime nostre nel modo della vita soggettiva. La carità poi (che è assai
più d' un semplice affetto naturale ed accidentale, come lo Spirito Santo
è assai più che semplicemente l' amore accidentale, essendo sussistente
persona divina) ha per oggetto Cristo umanato, quale ci è proposto
dalla fede; onde il Signore soggiunge al « quia me amastis, » quest' altra
parola: « et credidistis quia ego a Deo exivi . » Nel qual vocabolo, exivi, non
è solamente indicata la processione del Verbo dal Padre, ma ben anco
la sua missione visibile nel mondo e la sua incarnazione, come dichiarano
le parole che vengono appresso: « exivi a Patre et veni in mundum (1), »
che rispondono a quelle di Giovanni: « Et Verbum erat apud Deum . »
L' Evangelio adunque, cioè non la lettera ma lo spirito, aggiunse
una gran luce alla fede antica, ed illuminò la vita spirituale e la scienza:
« Quoniam Deus, qui dixit de tenebris lucem splendescere, ipse illuxit
in cordibus nostris, ad illuminationem scientiae claritatis Dei in facie
Christi Jesu (2). » E dice in facie Christi Jesu, perchè lo Spirito Santo
che illumina l' anima, ha quest' effetto suo proprio di fare intendere, e
sentire, e quindi amare Gesù Cristo, come abbiam detto, Dio e uomo,
uscito dal Padre, mandato nel mondo dal Padre. Ora tutta questa chiarezza
e luce ineffabile della vita cristiana è nondimeno velata in paragone
di quella che rifulgerà alle anime nostre, quando sarà squarciato
il velo de' nostri corpi: [...OMISSIS...] dice
S. Paolo, [...OMISSIS...]
Laonde nell' antico testamento
vi era la fede, ma vi era un' altra fede da rivelarsi, la quale,
appunto perchè doveva rivelarsi, aveva più di chiarezza; al presente poi
la nuova fede è rivelata, e non rimane a rivelarsi altra fede, ma solo la
gloria. Della fede, che era da rivelarsi e che si rivelò col Vangelo, dice
S. Paolo: « Prius autem quam veniret fides, sub lege custodiebamur conclusi
in eam fidem quae revelanda erat (4). » E nello stesso senso lo stesso
Apostolo dice, che si rivelò in lui Cristo: [...OMISSIS...]
Della gloria poi,
e non più della fede che al presente resta a rivelarsi, dice S. Pietro: « qui
et ejus, quae in futuro revelanda est, gloriae communicator (1). » E l' Apostolo
de' Gentili afferma che la sua predicazione ha per oggetto « il
mistero di Cristo », perocchè nella dottrina di Cristo rimane sempre
una parte misteriosa a noi che siamo nella presente vita: [...OMISSIS...]
dice a que' di Colosse, [...OMISSIS...]
e tuttavia soggiunge
« ut manifestem illud ita ut oportet me loqui (2) » perocchè questo
mistero si può annunciare, credere e in parte anche manifestare, secondo
quel modo di conoscimento che a noi è dato finchè siamo circondati dal
corpo corruttibile; onde anche prima l' avea chiamato « mysterium quod
absconditum fuit a saeculis et generationibus, nunc autem manifestatum
est sanctis ejus, quibus voluit Deus notas facere divitias gloriae sacramenti
hujus in gentibus, quod est Christus, in vobis spes gloriae, quem
nos annuntiamus (3). » Nel qual luogo dicendosi che il mistero di Cristo
fu manifestato ai Santi, e non dicendosi a tutti quelli cui fu predicato,
ben s' intende che l' Apostolo parla d' una cognizione e manifestazione
soprannaturale, per la quale i Santi dentro illustrati dal lume della fede
intendono e penetrano nel recondito di tale mistero, quando quelli che
non credono, nulla più ne capiscono che la lettera, la quale non è
cognizione vera del mistero stesso, nè soprannaturale. Il che spiega
l' Apostolo più ampiamente nella sua prima ai Corinti, dove, dopo aver
detto che la sapienza di Dio nel misterio è nascosta e nessuno de' principali
uomini del mondo la conobbe, soggiunge: « « Nobis autem revelavit
Deus per Spiritum suum. Spiritus enim omnia scrutatur, etiam profunda
Dei. Quis enim hominum scit quae sunt hominis, nisi spiritus hominis
qui in ipso est? ita et quae Dei sunt, nemo cognovit nisi Spiritus Dei.
Nos autem non spiritum hujus mundi accepimus, sed Spiritum qui ex
Deo est, ut sciamus quae a Deo donata sunt nobis. - Animalis autem
homo non percipit ea quae sunt Spiritus Dei: stultitia enim est illi, et
non potest intelligere: quia spiritualiter examinatur. Spiritualis autem
judicat omnia: et ipse a nemine judicatur »(4). »
Dalle quali parole raccogliamo che la cognizione che ha il cristiano
in questo mondo comprende il tutto; comprende tutto ciò che conoscerà
con maggior luce all' altro mondo, perchè ha lo Spirito di Dio, che
omnia scrutatur, etiam profunda Dei, di maniera che il cangiamento che
succederà sarà una vera rivelazione, secondo l' etimologia della parola,
un vedere le cose stesse che conosce, adesso sotto un velo, allora senza
velo, giusta le parole citate dal Concilio, « eumdem panem Angelorum,
quem modo sub sacris velaminibus edunt, absque ullo velamine manducaturi . »
Quindi, per indicare quel passaggio dalla condizione presente
del Cristiano alla futura, talora si nomina una rivelazione di Gesù Cristo.
Parlando della seconda venuta di Cristo, dice il Vangelo: « qua die
Filius hominis revelabitur (1). » E prima aveva detto dello stato presente
del fedele, che ha in sè Cristo in un modo velato: « Non venit regnum
Dei cum observatione, neque dicent: Ecce hic, aut ecce illic. Ecce
enim regnum Dei intra vos est (2), » e quindi trapassa a favellare come
questo regno di Dio, che viene senza attrarre l' osservazione degli uomini,
si manifesti rifulgente alla gran venuta del Figliuolo dell' uomo. Medesimamente
l' Apostolo promette requie a que' di Tessalonica, che avevano
patito pel regno di Dio, « in revelatione Domini Jesu de coelo cum angelis
virtutis ejus (3). »
La ragione poi, perchè nelle divine scritture si parla più frequentemente
e si promette la rivelazione di Cristo alla fine dei secoli, anzichè
quella che avviene alla morte di ciascun fedele, mi sembra poter essere
che quella è più solenne e compiuta per la risurrezione dei corpi, e
doveva forse essere più inculcata come più maravigliosa: oltre di che,
se quella gloria privata, dirò così, che ciascuno de' giusti Cristiani riceverà
dopo morte, interessa il particolare; quell' ultima è cosa appartenente
a tutta la Congregazione de' fedeli, a tutto il corpo della Chiesa.
Talora poi il passaggio dalla condizione nostra presente alla gloria
futura si appella « rivelazione nostra propria, rivelazione dei figliuoli
di Dio, rivelazione della gloria in noi », come in questo luogo [...OMISSIS...]
Le quali ultime parole, adoptionem filiorum Dei
expectantes, redemptionem corporis nostri , ci avvisano che anche in questo
luogo S. Paolo parla dell' ultimo compimento della gloria nostra, che
sarà quando risorgeremo gloriosi, e non di quella gloria, quasi direi provvisoria,
sebbene beatificante, che avranno le anime nostre separate dal
corpo.
Ed è da osservarsi che si chiama libertà, tanto quella che ora godiamo
in Cristo: [...OMISSIS...]
quanto quella che acquisteremo
colla gloria finale: [...OMISSIS...]
perchè ora la nostra libertà,
perfetta quanto allo spirito, è nulladimeno unita ad una certa servitù
quanto al corpo corruttibile. Similmente noi siamo già stati adottati figliuoli
di Dio quanto allo spirito; [...OMISSIS...]
ma, quanto al corpo aspettiamo tuttavia adoptionem filiorum
Dei .
Secondo la stessa maniera di parlare, nel giorno del Signore si
riveleranno le opere nostre quali sieno alla prova del fuoco: [...OMISSIS...]
Tutto è adunque nel Cristiano: tutto nella fede e nella cognizione
spirituale di colui che è in Cristo secondo lo spirito della santità; ma
tutto vi è velato, e in un modo sentimentale a cui non giunge o debolmente
giunge la riflessione generatrice della coscienza. Quando poi
deporremo il corpo, e più compiutamente quando riavremo un corpo
glorioso, tutto sarà a noi svelato, manifesto, fulgente di gloria.
Venendo ora alla vita eucaristica, quaggiù velata, colassù in Cielo
palese, dico primieramente che i veli che ci nascondono al presente il
corpo e il sangue glorioso di Cristo sono gli accidenti del pane e del
vino, che soli cadono sotto i nostri sensi esteriori.
Ora è da considerarsi che il pane e il vino consecrato (che non è
più nè pane nè vino) fa cogli accidenti che conserva, ne' nostri organi
sensorii e nell' interno del nostro corpo, gli stessi effetti fisici come non
fosse consecrato, cioè come fosse ancora vero pane e vero vino. Ora,
questi effetti fisici non sono gli effetti eucaristici.
Il corpo adunque ed il sangue di Cristo si sta cotalmente nascosto
sotto gli accidenti del pane e del vino, che naturalmente e per la fisica
legge de' corpi non produce nessun effetto sul corpo nostro. Quando
viveva Gesù Cristo in terra, il suo corpo passibile e mortale era sensibile
ed operante ne' corpi degli altri uomini secondo le ordinarie leggi
fisiche che presiedono alla mutua azione dei corpi fra loro: ma non
così il corpo eucaristico di Gesù Cristo, nel quale tali leggi sono tutte
sospese dall' onnipotenza divina, e però non è visibile, nè tangibile, nè
odorabile, ecc..
Quindi procede che gli effetti eucaristici dipendono unicamente
dalla volontà e podestà dello stesso nostro Signor Gesù Cristo, secondo
quelle leggi che governano l' ordine morale.
Di che avviene che quelli che non sono battezzati, e quindi incorporati
a Cristo, non ne ricevono alcun effetto (se non gli effetti fisici
degli accidenti); e lo stesso si dica di quelli che assumono il Santissimo
Sacramento colla coscienza o colla volontà di peccato mortale (oltre il
sacrilegio che commettono), perocchè « quicumque manducaverit panem
hunc vel biberit calicem Domini indigne, reus erit corporis et sanguinis
Domini ) (1). »
Consegue ancora che gli effetti eucaristici vengano da Cristo prodotti
ne' fedeli, che ricevono il suo corpo santissimo, secondo il tenore
della loro disposizione; e però quelli che sono meglio disposti, e più e
meglio cooperano cogli atti della loro volontà, ne ricevano in maggior
copia, e in minore gli altri.
I quali effetti sono primieramente operazione dello Spirito di Cristo
che diffonde la carità nelle anime: ed è per ciò che Cristo disse,
parlando dell' Eucaristia: « Spiritus est qui vivificat: caro non prodest
quidquam: verba quae ego locutus sum vobis spiritus et vita sunt (2). »
Ma egli conviene che noi esponiamo, per quanto ci è dato, in che
modo Cristo col suo Spirito produca in colui che riceve il suo corpo
ed il suo sangue cotesti maravigliosi effetti. E` dunque da considerare
primieramente, che il supremo principio operatore in Cristo è il Verbo,
il quale perciò non è soltanto persona divina, ma persona di Cristo,
cioè persona divina incarnata; giacchè la persona d' un individuo intelligente
è quel supremo principio operativo che è in esso. Ora, come la
persona divina del Verbo unì a sè la natura umana? Certa cosa è che il
Verbo per questa unione non sofferì passione, nè cangiamento alcuno,
non essendone suscettibile, come quello che è immutabile, ed in cui non
cadono accidenti di sorta. Ma è da riflettere, qual preliminare della
dottrina che dobbiamo esporre, che le cose tutte esistono nel Verbo non
solo idealmente, ma anche realmente, come abbiamo detto,
in un modo oggettivo; e in questo modo oggettivo,
come tutte l' altre cose, così esisteva nel Verbo anche l' umanità di Cristo.
Ma qui non ci ha ancora l' incarnazione, non ci ha l' unione ipostatica:
altramente il Verbo sarebbe stato congiunto con tutte le creature
ipostaticamente, il che è assurdo. L' esistenza oggettiva è sempre divina;
le cose create non hanno che un' esistenza soggettiva, o un' esistenza che
alla soggettiva si riferisce (esistenza extrasoggettiva). Quindi le cose
nella loro esistenza oggettiva, appartenenze del Verbo, non sono le cose
quali esistono puramente a se stesse, dal che viene che sieno creature
reali. L' esistenza oggettiva delle creature è reale pel Verbo (assolutamente
reale), ma non è nelle creature stesse, la cui esistenza propria è
soltanto soggettiva, di maniera che quella potrebbe essere nel Verbo
(ed è il Verbo stesso) senza che queste ancor fossero. Laonde le creature
per la sola esistenza oggettiva non sono a se stesse; e, quando esse
sono (soggettivamente), allora esse non apprendono necessariamente il
Verbo, sebbene il Verbo le abbia in sè oggettivamente, e l' esistenza oggettiva
e soggettiva sieno due modi dello stesso ente. Acciocchè dunque
il Verbo assuma a sè e si congiunga una creatura intellettiva in quanto
questa è a se stessa, non basta ch' egli l' abbia oggettivamente, sebbene
realmente, in sè; ma è necessario ch' egli si congiunga soggettivamente
a quella creatura, o per dir meglio congiunga quella creatura soggettivamente
a sè.
Così fece incarnandosi, cioè congiungendo a sè la natura umana in
individuo ipostaticamente. La mutazione, come dicevamo, non avvenne
in lui, ma nella natura umana assunta, la quale trovò d' esser mossa e
governata, come da suo proprio principio supremo, dalla persona del
Verbo. La comunicazione di Dio soggettiva all' umanità è operazione
dello Spirito Santo: quindi il Verbo s' incarnò per opera di esso Spirito:
[...OMISSIS...]
E Cristo chiama se stesso: « quem Pater sanctificavit et misit in mundum
(2), » facendo precedere, non quanto al tempo ma quanto al concetto,
la santificazione alla missione nel mondo, quasi venendo a dire
santificò l' umanità di Cristo in modo che nello stesso tempo mandò in
essa il Verbo, il quale a sè ipostaticamente unita l' assunse. Onde l' Apostolo
chiama Cristo, « qui praedestinatus est Filius Dei in virtute secundum
spiritum sanctificationis (1). » E la stessa parola Cristo significa
l' unto del Signore, così venendo chiamato Colui che era stato mandato
coll' unzione dello Spirito Santo, come avevano già preannunziato i
Profeti: [...OMISSIS...] dice il Redentore in Isaia: [...OMISSIS...]
E il Salmo: [...OMISSIS...]
E all' udire il racconto che Pietro e Giovanni fecero del processo
loro intentato dalla Sinagoga dopo la guarigione dello storpio alla porta
del tempio di Gerusalemme, i primi discepoli dissero: « Convenerunt
enim vere in civitate ista, adversus sanctum puerum tuum Jesum quem
unxisti, Herodes et Pontius Pilatus cum gentibus et populis Isra‰l (4). »
E S. Pietro alla famiglia del Centurione dice di Gesù: « Vos scitis -
quomodo unxit eum Deus Spiritu Sancto et virtute (5). »
Ora è da considerarsi che è proprio dello Spirito Santo l' agire in
modo soggettivo, perocchè egli s' unisce come principio attivo alla volontà
umana, e questa con esso lui unita s' innalza a riconoscere praticamente
l' essere, e massimamente l' Essere assoluto, nel che sta la santificazione
dell' uomo.
Ora parmi che sia da credere che nell' umanità di Cristo la volontà
umana fu talmente rapita dallo Spirito Santo ad aderire all' Essere oggettivo,
cioè al Verbo, che ella cedette intieramente a lui il governo
dell' uomo, e il Verbo personalmente ne prese il regime così incarnandosi,
rimanendo la volontà umana e l' altre potenze subordinate alla
volontà in potere del Verbo, che, come primo principio di quest' essere
Teandrico, ogni cosa faceva, o si faceva dalle altre potenze col suo
consenso. Onde la volontà umana cessò di essere personale nell' uomo,
e da persona che è negli altri uomini rimase in Cristo natura. Dove è da
osservarsi che tutte queste operazioni dello Spirito Santo quasi preambole
all' incarnazione, e della stessa incarnazione o unione ipostatica,
non furono già successive, ma contemporanee, compiute in un istante,
nell' istante dell' incarnazione medesima. Il Verbo poi, incarnato così
per opera dello Spirito Santo, estese la sua unione a tutte le potenze ed
alla carne stessa, onde potè dire S. Giovanni che « « il Verbo si fece carne » »;
come pure mandò lo Spirito Santo in esse e negli altri uomini,
prima i doni e poscia la medesima persona che loro suggerisse praticamente
quant' egli loro diceva quasi teoricamente. E la missione dello
Spirito Santo santificatrice dell' umanità di Cristo è sempre procedente
dal Verbo, sia quella che si concepisce logicamente preambola all' incarnazione
medesima, sia quella che si concepisce logicamente posteriore a
questa, venendo la prima dal Verbo separato, la seconda (identica alla
prima) dal Verbo medesimo unito.
E in un modo somigliante avviene la rigenerazione spirituale dell' uomo,
salvo che l' operazione preambola dello Spirito Santo può precedere
anche di tempo alla stessa rigenerazione, come accade negli adulti.
Questi sono quei doni e quelle grazie, di cui parla il sacrosanto Concilio
di Trento come dispositive alla giustificazione, nelle quali in prima
la vocazione divina si contiene. [...OMISSIS...]
Di
poi viene la fede, di cui così lo stesso ecumenico e sacrosanto Concilio:
[...OMISSIS...]
Queste operazioni che lo Spirito Santo fa nell' adulto per disporlo
alla giustificazione battesimale, le fa pure nel bambino, quanto alla
sostanza, ma in altro modo occulto, per mozioni abituali della sua volontà
e contemporaneamente alla giustificazione; di maniera che nello
stesso istante che riceve questa pel battesimo riceve quelle grazie altresì.
Nel battesimo poi, nel quale si compie la giustificazione, il Verbo
si unisce come oggetto reale alla mente del battezzato, e, dove la volontà
di questo non pone ostacolo ma è disposta a riconoscerlo, continua e
compie la missione in essa dello Spirito Santo, colla quale egli viene
santificato, adottato figliuolo di Dio, e coerede di Cristo. Onde il più
volte citato Concilio dichiara che la giustificazione, che pel battesimo
si conseguisce, « non est sola peccatorum remissio, sed et sanctificatio et
renovatio interioris hominis per voluntariam susceptionem gratiae et
donorum (2), » e l' unica causa formale della giustificazione [...OMISSIS...]
Ma in quest' opera dello Spirito Santo il Verbo divino viene impresso
nelle menti, come dicevamo, qual oggetto, non già qual soggetto; e
però non è un' incarnazione, ma soltanto una congiunzione reale delle
persone umane col Verbo incarnato, le quali persone sono come membra
di quel corpo mistico di cui il Verbo è capo.
Nulladimeno, atteso che questo capo, cioè il Verbo incarnato,
influisce nelle membra la virtù dello Spirito Santo, prima di tutto la
volontà di esse membra, dove risiede la loro personalità, è santificata,
cioè tratta a riconoscere praticamente quel Verbo che percepisce; e
perciocchè così acquista una nuova attività soprannaturale che non
aveva prima, perciò la persona dicesi rinnovata, formatosi un uomo
nuovo, nel che consiste la spirituale rigenerazione: « Voluntarie enim
genuit nos, » dice S. Giacomo, « verbo veritatis ut simus initium aliquod
creaturae ejus (1): renati, » continua S. Pietro, « non ex semine corruptibili,
sed incorruptibili, per Verbum Dei vivi et permanentis in aeternum (2). »
Or, come abbiamo detto già innanzi, crediamo assai probabile che la
virtù vitale di Cristo si comunichi all' acqua battesimale per un segreto
contatto del suo corpo glorioso, in virtù e nel momento nel quale sono
pronunciate le parole, forma del Sacramento; e che l' acqua, toccando
il corpo di lui che si battezza pella fede sua propria o in quella della
Chiesa, comunichi la predetta virtù di Cristo, la quale passando dal
corpo all' anima ed allo spirito, rinnova finalmente la superiore parte
dell' uomo, imprimendo nella sua mente il Verbo.
Ma nell' eucaristico Sacramento il pane ed il vino non è solamente
toccato dal corpo di Cristo, ma assunto e transustanziato nella sua carne
e nel suo sangue glorioso. Onde ricevendo questo Sacramento l' uomo
non riceve soltanto l' influenza della virtù di Cristo, come nel battesimo,
dove l' acqua rimane acqua, benchè diventi il veicolo della virtù di Cristo,
e tocca il corpo momentaneamente e spontaneamente; ma si ricevono
le stesse carni viventi e gloriose, e il sangue di Cristo dentro di noi (e
per concomitanza altresì l' anima e la divinità), le quali restano dentro
di noi qualche tempo, benchè non tocchino il corpo nostro, il quale è
toccato solo dagli accidenti del pane e del vino. I quali accidenti operano
tuttociò che operano il pane ed il vino non consacrati, venendo digeriti
ed assimilati, e così passando in nostra nutrizione. Ma imperocchè sotto
questi accidenti vi è il vero corpo e il vero sangue di Cristo, questo
produce i suoi effetti spirituali nell' anima e nello spirito dell' uomo battezzato
e ben disposto. Perocchè, se gli accidenti del pane e del vino
sono a un contatto reale colle nostre carni, il corpo ed il sangue di Cristo,
nascosto sotto quegli accidenti, trovasi a un contatto spirituale e corporeamente
insensibile; e come la carne nostra è viva, e viva è pure la
carne gloriosa di Cristo, per questo contatto spirituale si comunica della
vita di Cristo alla nostra vita, in quella misura ch' egli vuole e secondo
le disposizioni che in noi trova.
Il battesimo fa due cose nell' uomo: 1 imprime il carattere indelebile;
2 conferisce la grazia santificante. Pel carattere indelebile l' uomo
è posto in comunicazione col Verbo per mezzo della sua intelligenza
essenziale; per la grazia l' uomo è posto in comunicazione collo Spirito
Santo per mezzo della sua volontà essenziale.
Essendo aperta, mediante il battesimo, questa comunicazione dell' uomo
col Verbo e collo Spirito Santo, ricevendo gli altri Sacramenti, e
soprattutto quello della SS. Eucaristia, egli riceve dal corpo e dal sangue
del Signore gl' influssi dello Spirito Santo che è carità, « Deus Charitas
est (1), » e indi anche se li deriva.
In qual maniera questi effetti avvengano egli è cosa segreta: tuttavia
non crediamo aliena dalla dottrina cattolica, che sola è verità, la seguente
conghiettura. La carne ed il sangue di Cristo, in cui si è convertita la
sostanza del pane e del vino, è termine del principio senziente di Cristo.
Ora, questa carne e questo sangue, nel modo che è nell' Eucaristia, può
divenir termine altresì del principio senziente dell' uomo che lo riceve.
La sostanza del pane e del vino ha cessato intieramente d' essere sostanza
del pane e del vino, ed è divenuta vera carne e vero sangue di Cristo,
quando Cristo la rese termine del suo principio senziente, e così la
avvivò della sua vita, a quel modo come accade nella nutrizione, che il
pane che si mangia e il vino che si beve, quand' è, nella sua parte nutritiva,
assimilato alla nostra carne e al nostro sangue, egli è veramente
transustanziato, e non è più, come prima, pane o vino, ma è veramente
nostra carne e nostro sangue, perchè è divenuto termine del nostro
principio sensitivo. Concependo in questa maniera la transustanziazione,
noi possiamo più facilmente ravvisare e determinare qual sia il Corpo
di Cristo eucaristico. Perocchè, quantunque Cristo abbia un solo Corpo,
al presente glorioso, tuttavia, avvenuta la transustanziazione, si può
intendere che al Corpo glorioso si sia aggiunto qualche parte in esso
incorporata, ed indivisa e del pari gloriosa. E questa parte aggiunta,
cioè la sostanza del pane e del vino transustanziata, che forma una cosa
sola col Corpo di Cristo glorioso, come una porzione della nostra carne
e del nostro sangue forma una cosa sola col nostro proprio corpo, si
può intendere che sia quella che diventa termine comune al principio
senziente di quell' uomo che in grazia di Dio riceve il cibo eucaristico.
Ma qui prima di proceder oltre dobbiamo sciogliere alcune obbiezioni.
La prima, che secondo una tale dichiarazione non ci avrebbe nell' Eucaristia
tutto il Corpo di Cristo. A cui si risponde che appunto
perchè il Corpo di Cristo è unico ed indiviso, egli è necessario dove si
trova una parte si trovi tutto; ma che la distinzione della parte dal
tutto non si fa che rispetto alla operazione spirituale ed interna nell' uomo
che riceve bensì tutto quel Corpo, ma non tutto quel Corpo diviene
termine del suo principio senziente, ma unicamente quella parte
che risponde a quel tanto che v' aveva di sostanza di pane e di sostanza
di vino nella transustanziazione. Ancora ne verrebbe che in virtù delle
parole divine questa sostanza del pane e del vino si transustanziasse in
carne e sangue del Salvatore; ma il rimanente del corpo e del sangue
vi rimanesse unito per concomitanza, il che non par contrario alla dottrina
cattolica, secondo la quale è bensì di fede che tutta la sostanza
del pane e del vino si transustanzia, ma non che si transustanzia in
tutto il Corpo e in tutto il Sangue glorioso di Cristo, secondo le parole
del sacrosanto Concilio che definì: [...OMISSIS...]
dove dicesi: [...OMISSIS...]
ma non dicesi: « In totam substantiam corporis et
sanguinis Christi ».
Un' altra obbiezione si cava dalla Psicologia. In questa fu da noi
detto che se due principii senzienti avessero lo stesso termine, essi s' immedesimerebbero
e ne diverrebbe un solo. Ora, sarebbe un assurdo,
contrario alla fede ortodossa, il dire che il principio senziente di Cristo
e quello del fedele che si comunica in grazia diventi un solo principio.
A cui si risponde, che l' immedesimazione de' principii non ha luogo
se non quando il termine corporeo sia totalmente identico. Ma nel caso
nostro la cosa non va così; perocchè il principio sensitivo del fedele che
si comunica in grazia non ha di comune col principio sensitivo animatore
di Cristo tutto il corpo di Cristo, ma solo quella parte che risponde alla
sostanza del pane e del vino transustanziata; e neppur tutta questa, ma
una parte di questa, corrispondente a quegli accidenti del pane e del
vino che passano nella nutrizione del fedele, e non a quella parte di
essi che corrompendosi, senza passare in nutrizione, cessano dall' essere
velo al corpo e sangue di Cristo, e tornata la sostanza materiale passa
questa dal corpo del fedele per altra via.
Quella parte di carne e di sangue di Cristo, che rispondeva prima
della transustanziazione alla sostanza del pane e del vino, contiene propriamente,
se vere sono le conghietture sopra esposte, quella vita eucaristica,
che non cessò mai in Cristo neppure nel tempo della sua morte
avvenuta nel suo corpo naturale, come abbiamo di sopra accennato,
e per cui fu esaudito, come dice S. Paolo, quando
pregò d' essere campato dalla morte: onde l' Eucaristia si chiama pane
vivo, e non fu giammai pane morto come fu morto il suo corpo naturale.
E il pane ed il sangue eucaristico, che è detto « novi et aeterni testamenti
(1), » è l' oggetto di un sacerdozio, che da S. Paolo si asserisce fatto
« secondo la virtù di una vita insolubile »: [...OMISSIS...]
Ora, se la vita eucaristica di Cristo, oggetto
del sacerdozio, si fosse sciolta anche per poco tempo, non sembra che
si potesse chiamar più vita insolubile . Sebbene adunque questa denominazione
d' insolubile convenga ottimamente alla vita gloriosa acquistata
da Cristo dopo la risurrezione, tuttavia più pienamente luce la
verità di quella parola, interpretandola dell' insolubilità della vita
eucaristica, perocchè Cristo esercitò il suo sacerdozio prima della sua
morte nell' ultima cena, ed era costituito sacerdote secondo l' ordine di
Melchisedecco, che offerì pane e vino già prima della sua risurrezione
gloriosa, e però fin d' allora era costituito tale « secondo la virtù della
vita insolubile ». Onde a tutta ragione S. Ignazio martire, discepolo
degli apostoli, chiama l' Eucaristia « pharmacum immortalitatis (3), » e il
Santo Concilio di Trento lo dice « « un ineffabile e al tutto divino beneficio
quo mortis ejus victoria et triumphus repraesentatur »(4). » Continuandoci
dunque al discorso precedente, se egli è vero che il principio
senziente di quelli che ricevono tutto Cristo nella Santissima Eucaristia
riceva per termine quella porzione del corpo e del sangue di Cristo che
risponde alla sostanza del pane e del vino che era prima della transustanziazione,
s' intende come questo Sacramento sia dai Padri e dai
Concilii chiamato « Signum unitatis (5), » e certo non un segno inefficace
ma un segno efficace, cioè operatore dell' unità ch' egli segna, come sono
segni efficaci tutti i Sacramenti di Cristo; cioè operatori nell' uomo di
quel che segnano.
La quale unità è doppia, cioè de' fedeli con Cristo e de' fedeli fra
loro.
L' unità di chi riceve il corpo di Cristo con Cristo diviene somma
ed al tutto ineffabile. Perocchè, quantunque non s' identifichi Cristo
con lui, come abbiamo detto, tuttavia una porzione della vita sensitiva
di Cristo s' identifica in certo modo con una porzione della vita del fedele
che riceve Cristo, perocchè queste due vite hanno una porzione del loro
termine corporale identica: Cristo ed il fedele sentono come porzione
del proprio corpo lo stesso corpo eucaristico.
Questo sentimento non accade in quelli che non hanno ricevuto
il battesimo, i quali non sentono che gli accidenti del pane e del vino,
rimanendo in essi il corpo e il sangue di Cristo inefficaci, cioè non comunicando
Cristo loro quel termine corporeo, in quanto è termine della
vita di esso Cristo, e perciò non avvenendo la comunicazione delle due
vite, la parziale identificazione dei due sentimenti. E ciò perchè lo spirito
di questi non ha ricevuto la virtù che li rende atti a comunicare
collo Spirito di Cristo, perchè non sono congiunti a quel Verbo che produce
nei battezzati tale virtù soprannaturale, che giunge a percepire
quell' umanità di Cristo che sta sotto gli accidenti. Perocchè l' uomo da
sè solo non potrebbe mai comunicare colla carne e col sangue vivente di
Cristo, che sta nascosta sotto il velo degli accidenti del pane e del vino,
soli accessibili naturalmente al senso dell' uomo; ma l' uomo battezzato
è già congiunto con Cristo, e Cristo in lui e con lui comunica necessariamente
colla propria carne e col proprio sangue, e così l' uomo insieme
con Cristo.
Ora, la vita sensitiva di Cristo è intimamente e individualmente
congiunta colla sua vita intellettiva, e la persona del Verbo è congiunta
con entrambi in modo, che l' umanità intera di Cristo appartiene in
proprio alla persona del Verbo, e non ha altra persona se non questa
che tutta la regga e governi, qual principio supremo dell' unico Cristo.
Quindi l' uomo che partecipa nel modo detto della vita sensitiva di Cristo,
partecipa nello stesso tempo della virtù e della divinità di tutto
Cristo, il quale nei giusti emette il suo Spirito di Carità, onde tal Sacramento
è chiamato giustamente il Sacramento dell' amore, « vinculum charitatis
(1). »
E come l' amore ha più gradi, ma il massimo è quello per il quale
gli amanti s' uniscono sostanzialmente in quella più stretta guisa che la
natura loro concede, e godono l' un dell' altro in questa unione, quasi
con un indiviso sentimento; così egli è manifesto, che essendo sostanziale
e reale l' unione del fedele con Cristo mediante l' Eucaristia, fino
ad avere in parte uno stesso termine della vita, che è la massima unione
che si possa concepire secondo la natura umana e la condizione della
vita presente; quindi questo Sacramento, com' è il massimo pegno dell' amore
di Cristo verso gli uomini, così contiene il più intimo atto
d' amore fra l' uomo giusto e Cristo. E quell' amore non è puramente
ideale e spirituale, ma reale, sostanziale, soprannaturale e vitalmente
corporeo. Dove cade in acconcio di commemorare il canone del Sacro
Concilio di Trento, che dice: « Si quis dixerit Christum, in Eucharistia
exhibitum, spiritualiter tantum manducari, et non etiam sacramentaliter
ac realiter, anathema sit (1). »
E` dunque da distinguere fra non battezzati, i quali non ricevono,
assumendo l' Eucaristia, nè il Sacramento, nè la cosa del Sacramento,
dai battezzati, i quali ricevono il Sacramento, e, se sono in grazia di
Dio, anche la cosa del Sacramento . I primi non comunicano che cogli
accidenti secondo le leggi fisiche e naturali, ma i secondi comunicano
con Cristo: ma in diverso modo quelli che sono in grazia, e quelli che
sono in disgrazia di Dio.
I battezzati, che non sono in grazia, hanno il Verbo nella loro mente,
la quale appartiene alla loro persona umana, ma non la costituisce;
e però dall' avere l' impressione del Verbo non sono santificati, perchè
il Verbo che è in essi non manda lo Spirito Santo, ossia la grazia di
questo, nella lor volontà, che costituisce la loro persona.
Laonde il Verbo impresso nella loro mente si completa, quasi direi,
colla carne e col sangue che essi ricevono quasi in essi incarnandosi; ma
tutto ciò nell' ordine della mente e del sentimento in cui non giace la
santificazione. Perocchè è da osservare che quantunque l' acqua battesimale
operi gli effetti soprannaturali per virtù del contatto segreto
dell' umanità di Cristo, tuttavia nel battesimo non viene comunicata
all' uomo la stessa umanità di Cristo, la stessa carne, o lo stesso sangue
vivente, ma solo la virtù che esce dal corpo del Salvatore, la qual virtù
è atta a comunicare la percezione del Verbo, onde Cristo ebbe a dire a
S. Filippo: « Philippe, qui videt me » (cioè la mia umanità in modo soprannaturale)
« videt et Patrem (2), » cioè « vede me come Verbo, e in me
conosce il Padre mio di cui sono l' imagine ». Laonde colla Eucaristia
si completa nell' uomo la comunicazione di Cristo incominciata nel battesimo,
aggiungendosi la carne ed il sangue, cioè l' umanità di Cristo al
Verbo che risplendeva nella mente, e tutto ciò, se l' uomo ha una volontà
peccatrice, non a sua salute, ma a sua condanna. Questo è il primo
effetto della SS. Eucaristia.
Ma se l' uomo battezzato è in grazia, il Verbo emette in lui lo
Spirito Santo, col quale santifica la sua volontà, dove giace la personalità
dell' uomo, e quindi rimane santificata la persona dell' uomo.
Allora poi che quest' uomo, ricevendo l' Eucaristia, riceve l' umanità
vivente di Cristo, e si completa in lui il Verbo incarnato, questo Verbo
incarnato emette lo Spirito Santo nell' uomo, non solo come luce, immediata
operazione del Verbo, ma ben anco, per mezzo del suo corpo santissimo,
come luce e sentimento e gaudio corporale. Quindi lo Spirito
Santo emana alla santificazione dell' uomo da tutto Cristo, sempre venendo
mandato dal Verbo. Ma se il Verbo prima non illustrava col divino
Spirito se non la suprema parte della volontà dell' uomo, cioè la facoltà
del riconoscimento pratico e l' intelligenza ad esso ubbidiente; di poi la
volontà umana ed inferiore di Cristo comunica lo Spirito Santo anche
alla volontà inferiore dell' uomo e la corrobora a sottomettersi alla
volontà superiore, e il sentimento ed istinto sensitivo di Cristo comunica
dello Spirito Santo al sentimento ed istinto animale dell' uomo e lo tempera
dal male e lo governa al bene, e le carni e il sangue di Cristo comunicano
pure del Santo Spirito alle stesse carni ed allo stesso sangue dell' uomo,
e rendono l' uomo casto, sicchè tutte le parti di Cristo operano
in tutte le parti dell' uomo, e s' avvera da parte di Cristo quant' egli disse
nella orazione al Padre che pronunciò prima di patire: « Pater, venit
hora, clarifica Filium tuum, ut Filius tuus clarificet te, sicut dedisti ei
potestatem omnis carnis, ut omne quod dedisti ei det eis vitam aeternam
(1). » E da parte del fedele allora si possono dire appieno verificarsi
le parole dell' Apostolo ai Filippesi: « Et pax Dei quae exsuperat omnem
sensum custodiat corda vestra et intelligentias vestras in Christo Jesu
(2), » e quelle: « Hoc enim sentite in vobis, quod et in Christo Jesu (3); »
onde dal sentimento di Cristo a noi comunicato s' apprende la sua umiltà,
che non possono insegnare le parole degli uomini, seguitando a dire
S. Paolo: « qui, cum in forma Dei esset, non rapinam arbitratus est esse
se aequalem Deo; sed semetipsum exinanivit formam servi accipiens in
similitudinem hominum factus et habitu inventus ut homo (4), » perocchè
veramente effetti speciali dell' Eucaristia, in chi degnamente la riceve,
sono la castità e l' umiltà.
E perciocchè lo Spirito Santo si comunica alla volontà dell' uomo,
e sono a questa soggiogate l' altre potenze inferiori; perciò fra la volontà,
costituita in istato soprannaturale di grazia, e lo Spirito Santo è aperta
una comunicazione, per la quale l' uomo, cogli atti della sua volontà
stessa, può derivare maggiore o minor copia del Santo Spirito, di che
la quantità di grazia, che i giusti ricevono, come dagli altri sacramenti,
così ancora da questo della SS. Eucaristia, è varia secondo la loro disposizione
e cooperazione. Onde della stessa giustificazione che si riceve
nel battesimo, « quod est sacramentum fidei sine qua nulli unquam contigit
justificatio, » il Tridentino dice che l' unica causa formale è la giustizia
di Dio, « qua nos justos facit - justitiam in nobis recipientes,
unusquisque suam secundum mensuram, quam Spiritus Sanctus partitur
singulis, prout vult, et secundum propriam cujusque dispositionem
et cooperationem (1). »
E posciachè, consacrato il pane ed il vino, anche prima dell' uso,
dimora sempre sotto quegli accidenti tutto intero Cristo; quindi da lui
possono derivare i fedeli, anche senza riceverlo realmente, delle grazie
spirituali (emettendo egli in essi i doni del Santo Spirito) col solo adorarlo
di presenza, e col desiderio e col voto di riceverlo sacramentalmente:
il qual modo di partecipare si chiama comunione spirituale.
Laonde il Tridentino dice dell' uso che fanno i fedeli dell' Eucaristia:
[...OMISSIS...]
Rimane perciò fermo che nella comunione spirituale non si riceve
il corpo di Cristo nè realmente, nè sacramentalmente; ma che se ne
derivano le grazie dello spirito, se ne raccoglie frutto, se ne esperimenta
l' utilità. Ancora un' altra differenza fra la comunione sacramentale e
la spirituale è questa: che nella prima Cristo stesso opera ne' giusti che
l' hanno ricevuto l' emissione dei doni del suo Spirito ex opere operato,
e così il primo va incontro all' anima colla divina sua operazione, la
quale ne sentirebbe l' effetto quand' anche l' uomo non fosse in grado,
per malattia o per sopore, di fare alcun atto d' affetto volontario, dopo
aver ricevuto il corpo di Cristo; laddove nella comunione spirituale è
l' anima che cogli atti della sua volontà deriva a sè le grazie del sacramentato
Signore.
E qui si osservi che, quantunque il corpo che noi abbiamo ricevuto
da Adamo sia guasto e destinato alla morte, e buono solo a farne un
sacrifizio al Signore, secondo l' Apostolo: [...OMISSIS...]
tuttavia
quell' ostia stessa, cioè il corpo dei cristiani, si dice « ostia vivente, e
santa, e a Dio piacente », perchè dai sacramenti di Cristo anche il
corpo riceve un' influenza santificatrice, ma specialmente dal sacramento
eucaristico nel quale lo stesso corpo glorioso del Signore s' inserisce in
parte nel corpo nostro e vi mette un elemento d' immortalità. Il perchè
l' Apostolo chiama non solo i nostri spiriti, ma ben anco i nostri corpi
membra di Cristo e templi dello Spirito Santo: onde deduce qual insulto
si faccia a Cristo colla fornicazione violando le sue membra e il suo
tempio: [...OMISSIS...]
Di che conchiude: « Glorificate et portate Deum in corpore
vestro (5). » Laonde S. Pietro chiama il suo proprio corpo « « un tabernacolo »
(6), » dimostrando così, ch' esso era una custodia del Verbo e dello
Spirito. E S. Paolo dalla stessa dottrina trae più altri precetti morali
(giacchè, come abbiam detto, il principio di tutta la morale cristiana è
l' inabitazione di noi in Cristo e di Cristo in noi). E primieramente insegna
ai cristiani di non contrarre matrimonio cogli infedeli pel rispetto
che debbono avere a' proprii corpi santificati dalla dimora in essi di
Cristo: [...OMISSIS...]
Dallo stesso
principio deduce l' amore e il rispetto che i mariti debbono avere alle
loro mogli: [...OMISSIS...]
Deduce ancora l' obligazione che i Cristiani si astengano dal partecipare
alle vittime immolate agli idoli. Perocchè dice: [...OMISSIS...]
Ma, quantunque il corpo
de' Cristiani guasto dalle conseguenze del peccato d' origine riceva qualche
influenza dalla grazia di Cristo, e coll' eucaristia riceva altresì qualche
parte che in lui s' inserisce del corpo di Cristo; tuttavia il corpo
animale è destinato a perire, perchè non può essere senza di ciò intieramente
rigenerato: e però quell' elemento occulto di vita che quaggiù
riceve da' Sacramenti, ma soprattutto dal Sacramento Eucaristico, è
oggetto di fede, anzichè di piena e manifesta esperienza, e un saggio e
un pegno della futura risurrezione; onde dice S. Paolo: « Quod autem
nunc vivo in carne, in fide vivo Filii Dei, qui dilexit me et tradidit
semetipsum pro me (3). »
Ora il pane eucaristico non è solamente un vincolo d' unione del
fedele con Cristo, ma ben anco de' fedeli fra loro.
E come l' unione del fedele comunicante con Cristo ha due modi,
l' uno de' quali si fa immediatamente per Cristo, l' altro per lo Spirito
Santo che diffonde nell' anime la carità che da Cristo procede; così parimenti
una duplice unione de' fedeli fra loro trovano i fedeli che ricevono
degnamente Gesù Cristo nella SS. Eucaristia.
L' unione del fedele comunicante con Cristo che si fa immediatamente
per Cristo è fondata in due ragioni. La prima, che tutti ricevono
lo stesso Cristo tutto intero. La seconda, che ciascheduno converte in
termine della propria vita quella quantità della carne e del sangue di
Cristo che risponde alla quantità della sostanza del pane e del vino che
era prima della transustanziazione.
L' unione del fedele comunicante con Cristo, che si fa per mezzo
dello Spirito Santo, nasce dall' emissione dello Spirito e de' suoi doni
che fa Cristo al fedele in quella misura che Cristo vuole e in proporzione
della disposizione e della cooperazione dello stesso fedele.
Queste due maniere d' unione che si formano o si perfezionano col
ricevimento del Sacramento eucaristico sono indicate da S. Paolo in
quelle parole: « Unum corpus et unus spiritus, sicut vocati estis in una
spe vocationis vestrae (1). »
Col sacramento della fede, cioè col battesimo, gli uomini incominciano
ad essere membra del corpo mistico di Cristo; ma coll' eucaristia
si connettono vieppiù col corpo di Cristo perchè una porzione di questo
corpo, indivisa dal tutto, s' inserisce in essi quasi porzione di loro proprio
corpo, e così vi ha una continuazione più piena di essi con Cristo.
Ma l' essere essi divenuti corpo di Cristo non giova alla loro salute, anzi
grandemente loro pregiudica, se, trovandosi essi in istato di peccatori
con volontà avversa a Cristo, non ricevono l' unione dello spirito.
Che se la volontà non pone ostacolo, in tal caso lo Spirito di Cristo
in essi si diffonde, ed allora giova loro senza fine l' essere un corpo
con Cristo, col quale diventano in pari tempo, per così dire, uno spirito.
Per ciò adunque che riguarda l' Eucaristia, l' unione che forma
di essi un corpo solo con Cristo (il qual corpo, sebbene reale, si dice
mistico, che vuol dire occulto, perchè in questa vita non si vede ed è
oggetto di fede) nasce dal divenire propria carne e proprio sangue del
fedele quella porzione della carne e del sangue di Cristo che risponde
alla sostanza del pane e del vino che era prima della consacrazione. E
questo si fa in modo occulto, perchè il fedele non s' accorge che in lui
rimanga una parte della carne e del sangue di Cristo, rimanendo questo
velato sotto gli altrui accidenti, come rimane velato tutto il corpo reale
di Cristo indiviso da quella piccola parte. Sicchè il corpo di Cristo
rispetto al fedele non opera che spiritualmente, perocchè Cristo tutto
intero nel suo corpo o condanna il fedele se in consapevole peccato,
ovvero lo santifica comunicandogli lo spirito di santità. Ma ciò non
toglie che rispetto a Cristo, questi non sia inserito nel fedele in parte
col suo proprio corpo reale nel modo di essere eucaristico: e che un
giorno, cioè dopo la vita presente, non si manifesti.
Cristo adunque da parte sua tiene tutti i fedeli che si comunicano
uniti al proprio corpo reale, quasi con altrettante funicelle, colle diverse
porzioni del pane eucaristico che loro divide. Onde questa parola di dividere
o frangere il pane sì di spesso ripetuta nelle scritture parlanti di
questo sublime mistero. [...OMISSIS...]
E nella
moltiplicazione dei pani, in figura del sacramento eucaristico: [...OMISSIS...]
E del pari nella seconda moltiplicazione dei pani: [...OMISSIS...]
E la medesima espressione scrupolosamente
inseriscono nella loro narrazione S. Marco (6) e S. Luca (7).
Anche negli Atti Apostolici, facendosi uso della stessa parola solenne, vi
si dice: « fragentes circa domos panem (.), » luogo che i sacri interpreti
intesero dell' Eucaristia. Nella Liturgia Ambrosiana in quell' atto che il
sacerdote spezza l' ostia dice: frangitur corpus Christi: la quale espressione,
acciocchè non contenga errore, deve intendersi come la dichiarò
il Sassi nella sua Dissertazione.
Il corpo di Cristo adunque non può dividersi, ma niente vieta che
una parte del corpo di Cristo nel suo essere eucaristico sia legata più
strettamente delle altre col corpo del fedele che si comunica; e questa
parte, che più strettamente si lega col corpo di un fedele, sia diversa
da quella parte con cui più strettamente si lega il corpo di un altro
fedele; e queste diverse parti, ciascuna delle quali è destinata alla nutrizione
spirituale di un fedele rimanendo indivisa dall' intero corpo di
Cristo, sieno corrispondenti a quella quantità della sostanza del pane
che vi avea in ciascuna ostia prima della consacrazione: le quali parti
si raffigurano in que' grani di frumento sparsi dal seminatore e cadenti
altri sulla pubblica via, altri sulla pietra, altri fra le spine, ed altri
finalmente sul buon terreno (1), giacchè Cristo altrove si chiama appunto
grano di frumento (2).
Tutti adunque i fedeli mediante l' Eucaristia s' attengono al corpo
di Cristo e formano un sol corpo mistico e tuttavia reale con esso lui.
Quindi sono altresì uniti strettamente fra sè, come le membra d' un
solo corpo, che quantunque distinte non sono divise: [...OMISSIS...]
Laonde, giusta l' esposta sentenza, la
diversità delle membra del corpo mistico di Cristo troverebbe altresì un
fondamento nella diversità di quella porzione eucaristica che ricevono,
e che in ciascuno frutta diversamente secondo il terreno o secondo la
qualità della pianta in cui viene innestata. L' unione poi dei fedeli fra
loro, l' unione, dirò così, misticamente corporea, risulta dal partecipare
tutti come cibo e nutrizione di una parte appartenente allo stesso corpo,
e dal ricevere colla detta parte l' intero e identico corpo di Cristo in
se medesimi, il quale non può separarsi da quella parte che ciascuno
in modo più speciale si appropria.
Ma soltanto l' unione che nasce dallo Spirito Santo è quella che
unisce non la sola natura dell' uomo con Cristo, la quale s' unisce per la
sopradescritta unione corporale, ma lo stesso uomo, la stessa persona
dell' uomo: e che unisce in un solo spirito tutte le persone dei fedeli
fra loro, perocchè dice San Paolo: « qui autem adhaeret Domino, unus
spiritus est (4). »
Questa unione spirituale che procede dalla corporale, come lo Spirito
di Cristo procede da Cristo, fu quella che Gesù Cristo domandò al
Padre nella sublime orazione che fece nel cenacolo: [...OMISSIS...]
Cristo dunque, l' identico Cristo è ugualmente tutto in tutti,
e tutte le parti di Cristo comunicano della loro virtù a tutte le parti dell' uomo,
di che fu figura la maniera usata da Eliseo a risuscitare il figlio
della Sunamitide. Perocchè narra la Scrittura: [...OMISSIS...]
Essendo dunque il medesimo
Cristo in tutti, tutti hanno, per lo Spirito Santo che in essi si diffonde,
e sanno d' avere un solo ed identico bene infinito, tutti una sola
vita immortale, quella che partecipano da questo bene che possedono
cioè da Cristo, tutti un solo amore, una sola volontà. Onde de' primi
fedeli si legge: « Multitudinis autem credentium erat cor unum et anima
una (3). » Di che proveniva che, come avevano in comune Cristo che era
l' unico loro bene, così volessero avere in comune anche l' altre cose che
non reputavano beni se non in ordine a Cristo: [...OMISSIS...]
E descrivendo questa
unanimità e comunità di beni si fa dagli Atti Apostolici speciale menzione
dell' Eucaristia, che n' era il fonte e la più efficace cagione, perchè
si dice [...OMISSIS...]
L' esemplare di questa unione che Cristo desiderava nei suoi fedeli
era l' unione ch' egli aveva col Padre suo: ut sint unum sicut et nos .
Il Verbo divino col suo Padre è unito colla natura che è identica nell' uno
e nell' altro, ma è distinto quanto alla personalità. Così ne' fedeli
deve restar distinta la personalità di ciascuno, ma debbono comunicare
fra loro nella natura. Gli uomini, prescindendo dalla grazia, convengono
nella medesima specifica natura, quindi la loro medesimezza appartiene
al solo ordine ideale ed oggettivo, ond' essi, avendo il modo di
essere soggettivo, non conseguono da questo di essere veramente unificati
nè quanto alla persona, nè quanto alla natura.
Ma il Verbo divino è oggetto non solo ideale, ma reale; onde il
suo operare (in quanto trapassa l' ordine della natura e tende a perfezionarla
compiendo le sue lacune e limitazioni senza distruggerla), è
sempre perfetto e compiuto, e però vòlto a realizzare l' oggetto anche
rispetto alle nature soggettive. E perocchè in tutti gli enti il principio
ritrae la determinazione e l' attività sua dal termine immanente con cui
è legato per sintesi ontologica, e il termine del principio intellettivo è
l' oggetto; perciò il Verbo manifestandosi alle intelligenze le unifica
anche realmente: perocchè, in quanto hanno per termine lo stesso Verbo,
il principio intelligente che le costituisce soggettivamente viene determinato
ed attuato nello stesso modo, e s' identifica non totalmente, ma
in quanto ha quell' oggetto reale comune. In quanto poi il Verbo si
manifesta diversamente e con diversi gradi di luce alle intelligenze finite,
in tanto esse si distinguono fra loro. E nel battesimo già si dà questa
segreta comunicazione del Verbo, e questa parziale identificazione,
della quale S. Paolo scrive: « Unus Dominus, una fides, unum baptisma
(1). »
Ma Cristo non era solo Dio, ma anche uomo, in modo però che la
personalità di quest' uomo risiedeva nel Verbo di Dio, onde il Verbo di
Dio come persona reggeva l' umanità quasi potenza inferiore. Quindi
anche l' umanità riceveva dal Verbo il divino istinto di unificare realmente
gli uomini, ne' quali amava la similitudine della natura; e questo
l' ottenne coll' istituzione del Sacramento eucaristico, nel quale tutti gli
uomini acquistano per termine della loro vita sensitiva una porzione
del corpo di Cristo indivisa dall' intero corpo, e quindi anche il principio
sensitivo, base della natura umana, ha una identificazione parziale di
natura, rimanendo distinte le persone. Onde aveva ben ragione Isaia
di cantare predicendo le opere del Salvatore: « « Haurietis aquas in gaudio
de fontibus Salvatoris, et dicetis in die illa: Confitemini Domino et
invocate nomen ejus: notas facite in populis adinventiones ejus. -
Exulta et lauda habitatio Sion: quia magnus in medio tui Sanctus
Isra‰l »(2). »
Dall' essere Cristo connesso coll' uomo, e l' uomo inserito in Cristo
come tralcio nella vite ne' modi sopraddetti, ne viene che l' uomo sia
connesso altresì coll' eterno Padre, nel seno del quale è il Figliuolo, e
che è pure nel Figliuolo. [...OMISSIS...]
Quindi la società dell' uomo con Cristo ordinata dal Padre, di cui
dice l' Apostolo: « Fidelis Deus, per quem vocati estis in societatem Filii
ejus Jesu Christi Domini nostri (3), » è società ad un tempo col Padre
stesso, come insegna S. Giovanni: [...OMISSIS...]
E si osservi quanto qui è proprio il vocabolo di società, la quale esige
che più persone abbiano un bene posto in comune. Ora i fedeli con Dio
e fra sè hanno in comune, e in comune godono il loro bene che è appunto
Cristo, e il suo Corpo santissimo, ed il suo Spirito.
E venendo a parlare dello Spirito che emette Cristo in quelli ne'
quali egli dimora, primieramente diremo che questo è Spirito di vita
soggettiva . Perocchè nell' essere senziente ed intelligente, considerando
com' egli è ontologicamente costruito, si distinguono due estremi, il
principio ed il termine . E benchè il principio (che è propriamente il
soggetto) non sia senza il termine, tuttavia, posto ch' egli esista, ha un' attività
sua propria colla quale può più o meno aderire al termine. Il che
si scorge massimamente nelle creature intelligenti e libere, di cui l' atto
soggettivo, che può essere di maggiore o minore intensità, è l' adesione
dell' amore. Laonde, quantunque non si può dare l' atto soggettivo dell' amore
se manchi l' oggetto cui amare, secondo l' adagio voluntas non
fertur in ignotum; tuttavia, quando vi ha l' oggetto, questo può essere
più o meno amato dal soggetto. Nell' ordine della vita soprannaturale,
di cui parliamo, l' oggetto immediato è sempre Cristo. Ora l' atto soggettivo,
col quale si ama Cristo conosciuto, è mosso dallo Spirito Santo.
Questo Spirito è mandato dall' oggetto stesso, cioè da Cristo.
Cristo adunque è l' autore immediato della vita oggettiva, fonte
della soggettiva. Della vita oggettiva disse Cristo: « Haec est autem vita
aeterna: ut cognoscant te, solum Deum verum, et quem misisti Jesum
Christum (1), » e questa vita si dice oggettiva, non perchè non sia anch' essa
un atto del soggetto (nel qual senso ogni vita è soggettiva), ma
perchè è determinata necessariamente dalla sola percezione immanente
e primitiva dell' oggetto, ove non vi ponga ostacolo la volontà che può
rifiutarla, il quale oggetto Cristo ha lo Spirito Santo in se medesimo.
Della vita soggettiva, opera speciale dello Spirito Santo, Cristo
disse: « Et notum feci eis nomen tuum, et notum faciam » (mandando il
Santo Spirito personalmente); « ut dilectio, qua dilexisti me, in ipsis sit,
et ego in ipsis (2). »
Nell' una e nell' altra vita opera lo Spirito Santo, che perciò si
chiama « Spiritus vitae (3), » in quanto entrambe sono soggettive, atto del
soggetto; ma nella prima lo Spirito opera inizialmente e quasi potenzialmente
(con che vogliam dire che al sentimento dell' uomo lo Spirito
non si manifesta come persona, ma in forma di doni semplicemente,
e non distinto da Cristo).
L' effetto dello Spirito Santo è di aggiungere forza all' attività soggettiva
soprannaturale in modo che conosca più vivamente e perfettamente
Cristo e le sue parole, e più grandemente ed efficacemente lo ami.
Il Verbo si rimane distinto dal soggetto uomo in cui dimora per
quella differenza che v' ha fra l' oggetto e il soggetto, la quale è categorica;
lo Spirito Santo si rimane distinto solo come il creante e il
creato, il movente e il mosso. Il soggetto mosso, nel nostro caso, sente
la mozione, sente che vi ha in sè quello che non era prima, sente la
carità, possiede le azioni sante; ma non iscorge per questo alcun oggetto
nuovo, perchè lo Spirito non ha la forma oggettiva propria del Verbo.
Onde Cristo disse: « Spiritus ubi vult spirat, et vocem ejus audis, sed
nescis unde veniat aut quo vadat: sic est omnis qui natus est ex spiritu
(4). » E S. Paolo distingue la mente dell' uomo, la quale ha l' oggetto
per forma, dallo spirito che è a foggia d' istinto senza oggetto nuovo e
suo proprio, onde dice: [...OMISSIS...]
Ed altrove dice che lo Spirito prega nell' uomo, e dimanda quel
che deve dimandare, quando l' uomo stesso non sa che cosa debba dimandare
siccome si conviene (1). Lo Spirito si unisce dunque, e in certa
maniera si mescola col soggetto che egli santifica, operando in lui in
modo che il soggetto è insieme quello che opera. Onde Cristo attribuisce
allo Spirito l' uomo nuovo, l' uomo nato alla santità; il qual uomo perciò
si dice divenuto uno spirito con Dio: [...OMISSIS...]
E S. Paolo: « Qui autem adhaeret Domino, unus spiritus
est (3). » Onde lo stesso Apostolo dice, che lo Spirito in noi prega quando
noi preghiamo: [...OMISSIS...]
Ma, oltrechè lo Spirito viene dato « secundum mensuram donationis
Christi (5), » come s' esprimono le Scritture, rimane sempre distinta
la consapevolezza divina dello Spirito, dalla consapevolezza umana dell' uomo,
nel quale lo Spirito si manifesta. E così pure si distingue la
giustizia di Dio, « qua ipse justus est », dalla giustizia di Dio « qua nos justos
facit (6); » perocchè, benchè sia una la giustizia e la santità ed identica,
tuttavia sono diversi i soggetti che la partecipano o la possiedono, e
n' hanno il sentimento o la consapevolezza.
Come adunque Cristo unifica la natura umana, così il suo Santo
Spirito unifica le persone umane nella più intima società
..........