Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Da trent'anni non sono neanche più andato a Brescia: si può dire ch'io non abbia più comperato nulla. Le cose più belle in questo polveroso palaz- zo, dove le finestre mostrano ancora i loro vetri tondi, ondulati dal centro alla periferia, come fa un sasso quando si butta nell'acqua, dove i pavimenti paiono un mare in burrasca, sono le cose più vecchie. Sai che ho quattro di quelle casse di legno intagliato, che si mettevano a' piedi del letto degli sposi, tutte a putti che giuoca- no, ad amorini alati e ninfe nude; e vi stanno gli antichi stemmi della nostra famiglia. Poi ho dei seggioloni enormi a grossi fo- gliami nei bracciuoli e nella spalliera, che punzecchiano le mani e la schiena, e certe lettiere spropositate a colonne ed a timpani, che paiono monumenti sepolcrali. Poi ho quegli otto grandissimi ri- tratti nelle loro massicce cornici d'un oro diventato nero: memoria dei nostri augusti antenati, che Dio li abbia in gloria: quei ritratti che, quando da bambino venivi qui a passare i mesi delle vacanze, ora ti facevano ridere ed ora ti mettevano paura. La dama, ti ricordi? con il guardinfante verdone e con una pira- mide rossa per acconciatura, che pare una bottiglia sigillata; il ca- valiero con il grande cappellaccio alla spagnuola, il tabarro bruno, la mano sull'elsa e l'occhio truce, e poi il Beato Antonio, il Santo Missionario, il grande onore della Val Trompia, che ti faceva scappar via. E pallido come un fantasma, magro stecchito, con gli occhi infossati e un sorriso sulle labbra da far ghiacciare il sangue. In mano ha due cilicii spaventosi, l'uno a scudiscio pieno di terri- bili punte, l'altro a ruote dentate. Mi raccontava Giovanni (sai? devo avertene parlato, il servitore che in gioventù assisteva il Beato Antonio, quand'era infermo, e da vecchio aveva cura di me e mi conduceva alla scuola) Giovanni mi raccontava, ed io trema- vo di spavento, che una mattina, essendo entrato all'improvviso nella nuda camera del Santo, vide in un angolo una camicia, che stava in piedi da sé sola e ch'era di color pavonazzo. Guarda, toc- ca: il sangue, di cui appariva inzuppata, raggrumandosi e induran- do, aveva ridotto la tela rigida come un legno. Don Antonio aveva le mani così scarne e le dita così slogate, che con le unghie poteva toccar l'avambraccio. Era un miracolo di elo- quenza, un miracolo di abnegazione. Parlava a dodici a quattordi- cimila persone, che correvano a udirlo dalle valli, dai monti lonta- ni, e si faceva sentire da tutti. Eppure, se tu vai a Brescia, puoi ve- dere nella chiesa di San Filippo, appesa all'altare del Santo, una lingua d'argento, voto di Don Antonio, quando per intercessione di Filippo Neri guarì dalla balbuzie. A Roma, poco prima di morire, predicando nella chiesa del Gesù, fece piangere il Papa. Aveva per consuetudine, ne' siti dove egli andava, di parlare contro i vizii che più dominavano in paese. A Desenzano tuonò contro l'ubbriachez- za. Il dì dopo tutte le osterie, tutte quante le bettole erano chiuse, e l'Autorità dovette farne aprire alcune per forza a servizio dei fore- stieri. All'ultimo sermone non voleva altro che i miserabili: era la predica sulla Povertà Dopo avere mostrato la vanità delle ricchezze, dopo avere eccitato gli animi al disprezzo degli agi, chiamava ad uno ad uno i suoi ascoltatori, e divideva con essi tutto intiero il guadagno del Quaresimale e i pochi panni che gli resta- vano. Senti questa. Giovanni stava dietro al pulpito, mentre Don Anto- nio predicava un dì sull' Inferno Dopo una pausa, il Beato Antonio con voce rimbombante grida: "Pentitevi, figliuoli, tornate nella via della virtù; giacché per voi, o perversi, che continuate a vivere nel peccato, che state duri nel vizio, i sepolcri" e gridava sempre più alto, come ispirato dal cielo "i sepolcri si spalancheranno, e, precipitando sulle ossa degli anti- chi scheletri, nella notte e nel gelo, sarete a poco a poco rosicchiati vivi dai vermi". Allora Giovanni udì come un fruscìo, un muoversi improvviso, ma sordo, lamenti soffocati, singhiozzi repressi. Guarda dal para- petto del pulpito, e vede, cosa strana! nella chiesa, la quale prima era così zeppa di gente, che una presa di tabacco - diceva Giovan- ni tabaccone - non avrebbe potuto cadere in terra, vede il pavi- mento nudo in larghi spazii, vede scoperte di popolo tutte le grandi lapidi delle tombe. La gente, spaventata dalle parole del Missiona- rio, s'era ritirata dai sepolcri, e, sempre in ginocchio, piangendo e picchiandosi il petto, si pigiava, si schiacciava, si accatastava a gruppi, e implorava sotto voce il perdono di Dio. Di questi ritratti neri e di questi mobili tarlati tu non sapresti che cosa fare. Qui invece stanno bene, così impietriti al loro posto. Dopo tanti anni che le pareti, le masserizie, i quadri si guardano, e forse nel loro linguaggio si parlano sommessamente, lo strappare qualcosa parrebbe un'amputazione, sarebbe una crudeltà. Quando i figliuoli di tua sorella, diventati forti giovinotti, vorranno passare alcune settimane cacciando sui monti, uccellando nelle valli o pe- scando le trote rosee nel lago d'Idro o nel Chiese, troveranno in- tatta l'antichità di questo palazzaccio. Si scalderanno al fuoco del caminone di marmo giallo, in cui dodici uomini possono stare co- modamente seduti; guarderanno i soffitti a travature sagomate e dipinte, e cammineranno su e giù nella galleria dove, tra gli stuc- chi sgretolati, il vento gavazza. Tu sentissi che musiche sa com- porre il vento in queste gole alpestri e in questo muraglie rovinose: sono tripudii o spaventi, fischii lieti e trilli e scale e accordi sonori e poi il finimondo, e sempre continua il pedale, come dicono gli organisti, del romore sinistro, che le acque del Chiese fanno nel loro letto sassoso ed erto.

Senso

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Da quella combinazione con l'impermeabile, deduco che neanche a vestiti abbia altro. Ma l'avrà voluto scuro, ci si può andare nei ritrovi, a ballare. È azzimato, sa di essere bello, lo sa alla maniera di una donna. Gli faccio segno e s'avvicina inchinandosi come in un salotto. Devo alzare la testa per guardarlo, provo disagio, mi è insolitamente difficile dirgli qualche cosa. Che cosa? Guardo il mento rasato, il nodo della cravatta color perla ombrato di sudicio. Neanche a cravatte deve abbondare. Improvvisamente penso al vecchio impermeabile appeso a un corridoio del liceo, fra i cappotti di tweed dei ragazzi e le pelliccette delle ragazze. Il Tribunale rientra. Ascoltiamo vicini la sentenza: perdono. Egli sta col bei viso femmineo impassibile, ma di nuovo è senza collo. Allora capisco quello che c'era nella schiena rattrappita. Vergogna, ma si vergogna di suo padre e dei suoi vestiti. Capisco tutto senza simpatia. Non mi viene da dirgli altro che tagliati quelle unghie, bruscamente e con cattiveria. Me ne pento subito, non sto qui a giudicare. Ma forse non c'era da dirgli altro. Del secondo imputato, come entra sbattendo le scarpe chiodate, scorgo un momento la faccia magra e vivace, poi sulla pedana una nuca capelluta fin dentro la giacca. Giacchettina scarsa con mezze braccia di fuori. È confuso ma pronto e schietto. Fa sorridere i giudici. Lui Sta serissimo. Gli si addebita il furto (nel cassetto aperto di una bottega, un semplice allungare la mano) ma benché non risultino a suo carico altri procedimenti, di furterelli ce n'è una sfilza, a cominciare dalla frutta sulle bancarelle del mercato. Non imputabili quelli compiuti prima dei quattordici anni. Il classico ladruncolo. Le sue risposte in dialetto, che divertono i giudici, sono ingenue e sincere. Con lui non vale l'abilità inquirente, il gioco delle domande a trabocchetto, non si può coglierlo in fallo proprio perché è troppo semplice. "Confermi la deposizione resa?" "E che è?" Di nuovo si ride. Stamattina il Tribunale è bendisposto anche dall'udienza leggera, si sta già per finire. Ma bisogna andare adagio, tradurre. Il ragazzo con attenzione cerca di capire. Ha il piccolo capo ritto con quei capelli scarruffati dentro il colletto, la schiena sottile tesa. "Sai che è la vigilanza speciale?" Non lo sa. Sembra sia stato sotto vigilanza, ignora di essere socialmente pericoloso, come risulta dal rapporto dei carabinieri. "Sai che non si ruba?" Questo lo sa, ma non sa dire perché non si ruba. Piuttosto dovrebbero domandargli perché ha rubato. Scuote il capo ad altra più difficile domanda. "Sai che è il male e il bene?" (Un sostituto procuratore in vena filosofìca.) Non saprebbe dirlo nemmeno se fosse studente liceale, ma la domanda è puramente accademica. Non ha difensore. Se ne chiama uno d'ufficio che passa nel corridoio. Del resto è confesso e si può procedere svelti. Quando vado a sedergli accanto, anche io devo cominciare con le domande. Ha sedici anni (l'altro imputato diciassette compiuti) ma di una struttura fragile, stranamente disossato nel viso forse per le guance prive di zigomi. A scuola non c'è più andato perché gli facevano ripetere sempre la stessa classe. Lavora da muratore col padre, se trovano lavoro. Tra fratelli e sorelle sono nove. Il padre, che era rimasto indietro, s'accosta e curvandosi mi dice: Fatelo mettere a casa di correzione. Sto per ribattere che lo corregga lui, ma lo guardo e non fiato. È un ometto con le guance così incavate che fanno buco. Ora il ragazzo ha paura, lo sento (come un animale preso alla tagliola) riesco a farmi guardare assicurandolo del perdono, mi guarda diritto con occhi vivi umidi intenti. Ha bisogno di quel perdono, ha uno spasimoso bisogno della libertà. S'alza di scatto all'aprirsi delle due porticine. In piedi nell'imponenza della toga, il presidente legge con la consueta velocità. Sono io a turbarmi, l'imputato non capisce. Ancora non sa che, col perdono, gli hanno inflitto due anni di ricovero. Ha un guizzo solo quando arriva il carabiniere in divisa a prenderlo in consegna. Allora urla contro il padre: tu, tu, sei stato tu _con una voce secca senza pianto, con la più terribile disperazione che abbia visto in quest'aula. L'afferro ai risvolti della giacchetta striminzita _ ma il Tribunale finge di non udire _ scuotendolo e spingendolo verso il corridoio. Trema tutto, vibra in ogni nervo, ha una specie di convulsione dentro. Tu tu, continua a gridare al padre che viene dietro a testa bassa. Lo scuoto e gli parlo, dico quello che mi viene in mente. "Ti faranno imparare da meccanico." È la passione dei ragazzi, da qualche parte hanno l'officina, bisognerà mandarlo in un'altra sede. Ma lui, accoratamente: Volevo fare il muratore. Lui vuole stare fuori, fuori. Ha fatto la faccetta senza zigomi incavata come quella paterna, e così lo lascio al carabiniere. Senza mettergli le mani addosso, se lo porta via lungo il corridoio scuro. Dopo saprò che era necessario levarlo di casa: vi sono nell'anamnesi familiare, su un foglietto verde del fascicolo, le tré minacciose letterine: tbc.

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LE ULTIME FIABE

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

(credendo che abbia parlato il Ministro): Eh! Volete anche un po' di questo?

GIACINTA

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Può anche darsi ch'io non abbia saputo osservar bene, o abbia scambiato un fenomeno per un altro, o mi sia lasciato fuorviare dalle apparenze ... Forse ... - Dica! - Forse ... non sono piú disinteressato come sul principio. - Scherza! - E se parlassi seriamente? - Capisco: è una gentile maniera di rimproverarmi. Ha ragione; divento indiscreta. Ma che vuole? Nessuno sa intendermi. Lei solo mi tollera, mi compatisce, come una vera malata. - Purché la malattia non si attacchi al dottore! - È impossibile; lei sa bene ... Certamente, non era possibile. Perché s'era lasciate scappar di bocca quelle parole? - Le donne come quella amano una volta sola; le loro forze si esauriscono nell'unica battaglia della loro vita ... E scendendo le scale, a capo chino, il dottore sbatteva la mazzetta fra le colonnine di ferro fuso della ringhiera. Andrea, poco dopo, trovò Giacinta che si asciugava gli occhi. - Hai pianto? ... Che cosa è stato? - Nulla. - Al solito! Ti torturi per capriccio, e torturi gli altri ... Sentendolo parlare con la lingua un po' impacciata e vedendolo pallidissimo, Giacinta balzò dalla seggiola: - Ti senti male? - Un leggero disturbo ... di stomaco, una cosa da nulla. Ella gli tastava la fronte: - Come hai ghiacce le mani! Che cosa ti senti? Andrea la guardava con gli occhi sbalorditi: - Non so ... forse quel bicchierino di digestivo ... preso pochi momenti addietro ... Ero già indisposto, sin dal mattino ... Si buttò sul canapè, per riposarsi, chiudendo gli occhi, sforzandosi di vincere lo sconcerto ... - Una tazza di caffè? - disse Giacinta. - Grazie. Lasciami stare; non farmi parlare. Ella gli sedette al fianco. Andrea restava immobile, senza neppure rispondere alle affettuose strette della mano di lei: - Il suo stomaco indebolito rifiutava i liquori, assolutamente! Non avrebbe piú ritentato. Ed ecco un'altra distrazione che gli veniva negata. Ormai non sapeva piú in che modo affogare la sua noia, la sua stanchezza, la sua viltà! ... Sí la sua viltà! Nessuna poteva rinfacciargliela piú energicamente che non se la rinfacciasse egli stesso ... Ma quel suo tardivo svegliarsi di dignità, ch'ei non riusciva a palesare, che mai valeva? E quando Giacinta, aggrappandoglisi febbrilmente al collo, gli scottava la pelle del volto con le labbra di fuoco, e gli ripeteva angosciosamente: "Fingi almeno! Sappimi ingannare!" egli s'ingegnava di mentire con tanta buona volontà, che spesso arrivava fino a ingannare sé medesimo. Non lei! Giacinta, una mattina, aveva fatto chiamare il dottor Follini, che da una settimana non la visitava. - Dottore, non dormo piú. Mi dia nuovamente cloralio! La voce era tremula, le mani convulse. Il Follini le gittò addosso uno sguardo scrutatore, di scienziato all'erta: - La crisi? Se l'aspettava da un pezzo. - Com'è vigliacco quell'uomo! - disse Giacinta, nascondendo la faccia tra le mani. - O dunque? - Che importa? Dev'esser mio! ... Sarà mio per sempre! E continuava, a scatti, compiendo con l'efficacia della voce e del gesto il rapido accenno della parola: - Potevo essere anch'io un modello di moglie ... Oh, provo orrore di me stessa ... Ma ho bisogno di lui. E saprò farmi amare; non sono donna per nulla: vedrà ... Questo pure è un nuvolo passeggero ... Mi faccia dormire, intanto. Oh! La mia povera testa riposi almeno la notte! ... Lo crederà? Mi era stato detto d'una vecchia, d'una specie di maga, che prepara dei filtri d'amore (rida pure, divento superstiziosa come una femminuccia!) e sono andata da lei. Una stamberga umida e buia. Tremavo dalla paura dinanzi alla brutta megera; ma le sue parole ebbero, per un momento, la incredibile potenza di farmi sperare l'assurdo. E uscii di là consolata, come se la boccetta di filtro da lei datami contenesse davvero la mia salvezza ... Ma la buttai via, appena giunta a casa, vergognandomi ... Noi donne siamo pazze. Ci tendiamo da noi stesse una fitta rete di inganni. La colpa non è forse tutta nostra; abbiamo la testa debole. Bisognerebbe possedere un briciolo di senno di piú; bisognerebbe ... E si fermò un istante, con le pupille fisse su qualcosa che pareva sfuggirle. - Scusi. Che può importarle di tutto questo? - ella riprese con tristezza. - Anzi, m'interessa tanto! Nel silenzio che seguí, gli occhi di lei, gonfi di lagrime, sorridevano al dottore diventato serio e muto. Un alito refrigerante le accarezzava il viso, un senso di riposo ineffabile la ristorava. E quando il dottore, rizzatosi a un tratto e strettale forte la mano, andò via senza dire una parola, ella non si mosse; ma guardò lungamente l'uscio dietro cui egli era sparito. - Perché non l'aveva conosciuto prima? E il suo pensiero si perdeva a poco a poco in una densa nebbia, come nel sonno.

Racconti 1

662683
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Si vergognava come un ragazzo che n'abbia fatto una grossa e non abbia il coraggio di presentarsi alla mamma. Aveva rabbia di sentirsi cosí avvilito di nanzi ai propri occhi. In che modo aveva tollerato che colei accennasse due volte, e ironicamente, a sua moglie? Come aveva potuto ridere? ... Vigliacco! Una passione, un delirio di sensi, via, sarebbero state circostanze attenuanti. Ma a freddo? Per curiosità? Voleva schiaffeggiarsi. Il pensiero che sua moglie, un giorno o l'altro, potrebbe apprendere la verità, gli metteva i brividi. - Povera Fasma! Non se lo merita -. E gironzolava di qua e di là, senza trovare il verso di rientrare in casa. Fasma, riconosciuto il suono dei passi per le scale, gli era andata incontro. Oreste si fermò sulla soglia, per osservarla. Era sorridente, tranquilla, senza sospetti. E quando si sentí abbracciare e baciare con effusione, come da parecchie settimane non era piú stata abbracciata né baciata, ella spalancò i grandi occhi che brillarono. - Ritorni insomma il mio Oreste di prima? - E non disse una parola. Quell'abbraccio, quei baci le avevano subitamente scancellato ogni cattivo presentimento del cuore. - Sai? - le disse Oreste. - Son passato dal Novi; le buccole che ti piacevano tanto non ci son piú -. Fasma fece una spallata: - Che m'importa delle buccole? - Ho preso in cambio quest'altre - soggiunse Oreste, cavando di tasca un involtino. - Oh! ... Bugiardo! - E fissava ora suo marito, ora lo scatolino aperto, con pupille tremolanti di tanta tenerezza che quegli si sentiva morire dalla mortificazione. - Sciupone! - disse Fasma. - Da oggi in poi non potrò piú manifestare che una cosa mi piaccia. Egli intanto cominciava a metterle le buccole alle orecchie con mani tremanti. Poi andarono tutti e due davanti lo specchio; Oreste reggeva il lume; la testina di Fasma illuminata a quella maniera e riflessa dal cristallo, era proprio un incanto. - Non so spiegarmi - egli pensava - in che modo abbia potuto ... - Trista bestia l'uomo! Fasma intanto gli passava il braccio attorno alla vita: - Come ti voglio bene - A me o alle buccole? - domandò Oreste, per dissimulare con questo scherzo il proprio turbamento. - Alle buccole - rispose Fasma, facendo una smorfietta di broncio. E scoppiò a ridere: - Quando si dice i presentimenti! Ecco la gran disgrazia che mi pendeva sul capo -. Indicava le buccole riluccicanti alle orecchie. Oreste scoppiò a ridere anche lui: - Hai ragione. Quando si dice i presentimenti! -

Racconti 2

662734
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Può mai essere che io abbia sognato quel colloquio o che lo abbia fantasticato a occhi aperti e con tale intensità da crederlo, poi, realmente avvenuto? ... In che modo dunque io rivedo la signora vestita diversamente, con ampia vestaglia color crema, tutta spumante di pizzi rari, con le sottili dita delle bianchi ssime mani cariche di anelli, con quella grossa perla pendente da una stella di diamanti attaccata su la parte sinistra del petto, quasi sotto la spalla? ... In che modo ho negli orecchi il suono esotico della sua voce che dava alle parole della nostra lingua un fascino nuovo? E, finalmente, se non fosse stato vero, in che modo nel dialogo trovo accennati fatti che non ricordo e che pure debbono essere avvenuti? "Vi ho subito riconosciuto" ella diceva. "Perché lo avete taciuto?" "Perché non mi interessava di farvelo sapere, in quella casa, davanti alla persona che vi presentava a me". "E vi è dispiaciuto?" "No. È inutile dispiacersi di quel che non si può evitare. Io mi rassegno facilmente; filosoficamente direi, se non fosse un po' troppo per una donna". "Avreste voluto evitarmi potendo?" "Certamente. Gli uomini come voi sono una sciagura nella vita di una donna". "Perché?" "Perché presto affermano di amarla, illusi forse, o vanitosi d'ispirare un sentimento che lusingherebbe il loro amor proprio. Voi avete su la punta della lingua una dichiarazione che soltanto le convenienze di un primo colloquio v'impediscono di farmi". "Indovinate, in parte. Non le convenienze però, ma il timore di non esser creduto mi impedisce di parlare". "Attendete per ciò, è vero? occasione piú opportuna". "Ormai è impossibile". "Voi forse ignorate che ho marito". "No; vi chiamano signora, non signorina". "Capisco; il marito non vi sembra un ostacolo". "Non è mai tale, quando l'amore vuole". "Per certe donne, sí". "E per voi?" "Io ... io credo che l'individuo non ha altra norma di vita all'infuori di quella che la sua felicità richiede; e che di questa felicità è giudice inappellabile egli solo". Parlava lentamente e non perché l'esprimersi in italiano le richiedesse uno sforzo. Sembrava che ogni parola da lei pronunziata avesse un riposto significato e che ella volesse darmi tempo d'intenderlo bene, prima di risponderle. Ebbi fretta di mostrarle che avevo interpretato in favor mio la sentenza. M'interruppe: "Siete fatuo, come tutti gli uomini". È chiaro? È preciso? La presentazione, in quella casa da lei accennata, io non la ricordo affatto; ma la conversazione è fissata qui, parola per parola, col suono della voce, con l'accento, con l'atteggiamento di tutta la persona, coi fieri gesti della mano destra, dove uno stranissimo anello in forma di serpente si attorcigliava, flessibile, al dito medio simulando cinque o sei anelli, con la testa schiacciata che si piegava di lato alla radice dell'ugna. Tanti particolari non può averli inventati la mia f antasia ... Eppure io non sono certo che questa visita sia proprio avvenuta. Di quando in quando, un dubbio mi attraversava la mente: che quell'anello io lo abbia veduto, per caso, in un'altra mano, e che quelle parole io le abbia udite da un'altra bocca, in altra occasione ... o le abbia lette in qualche romanzo ... Perché? ... Perché non so spiegarmi il ricordo, nettissimo, precisissimo, di una passeggiata solitaria pel Viale dei Colli dove io la rividi alcuni giorni dopo, sempre come una sconosciuta il cui fascino mi attirava, ma senza che ancora sentissi un forte desiderio di avvicinarla, anzi provando un istintivo movimento di resistenza contro quel fascino. Non era sola quel giorno; ed io, seguitala un po', indovinando da alcune mosse che le tre signore parlavano di me, mi ero fermato, indispettito di riuscire , a quel che sembrava, importuno; e avevo interrotto la salita. Se fossi stato presentato a lei, se avessi avuto davvero quella conversazione con lei in casa sua, perché non l'avevo almeno salutata? Non confondo date. Tra il primo e il secondo incontro ci fu un intervallo di due o tre giorni ... Ma ogni volta che mi metto a ripensare il passato, la conversazione e l'incontro hanno lo stesso valore di realtà ... Sono tutti e due veri? Tutti e due falsi? ... Niente mi tratteneva in Firenze. Vi ero venuto per subitaneo e quasi inesplicabile capriccio: e non entravo in nessuna chiesa, non visitavo gallerie o musei, non mi fermavo davanti ai monumenti. Erravo per le vie con aria sbadata. Se non che, di tratto in tratto, mi accorgevo che tra le persone dei passanti ne ricercavo una, colei, che piú non avevo riveduta da una settimana. Ne ero invasato. Mi aggiravo per piazza dell'Indipendenza, attraversavo spesso la via Enrico Poggi smanioso di imbattermi in lei ... E mi sembra che mi domandassi spesso: "Perché non ritorni a casa sua? ... " Dunque c'ero stato; non potrei rammentarmi di questo, se non ci fossi stato davvero. Capisco quel che volete dirmi: la nostra memoria è labile! o tale confusione vi sembra spiegabilissima con qualche complicazione nervosa sopravvenuta ... Ma io non sono stato malato. I miei nervi hanno conservato sempre un equilibrio perfetto, prima e dopo ... Cioè fino a pochi mesi fa, fino al giorno in cui mi sono accorto che avveniva nella mia mente una confusione tra fatti soltanto pensati, immaginati, e fatti realmente accaduti. E, sul principio, l'esitazione, l'incertezza di giudizio erano rap ide, mi lasciavano tranquillo ... Poi, a poco a poco ... Ora non riesco piú a fare distinzione alcuna. E l'idea, il sospetto che io abbia davvero potuto commettere ... È orribile, dottore! ... Lasciatemi continuare. Ho il ricordo di un'altra conversazione con lei, su una terrazza, o nello studio di un pittore in via san Paolo ... - Un po' di incertezza anche qui, ma intorno al luogo. È naturale; l'immagine di lei scancella ogni altro particolare. Potevo vedere qualche cosa all'infuori di lei? ... Ed è ricordo di conversazione futile, quale tra persone che si trovano insieme la prima volta ... O ella finse di non avermi conosciuto prima, ed io fui costretto a secondarla per non infliggerle una smentita? "Preferite la pittura o la musica?" "Tutt'e due - risposi. - Certi quadri, come questo che abbiamo visto ora ora ... (O, dissi: come questo che abbiamo sotto gli occhi? ... Non importa ... Si parlava di un quadro che era un'armoniosa festa di colori, di una processione fiorentina del quattrocento? Sí, sí, mi pare appunto di questo ... ) Certi quadri sono anche una musica per gli occhi. Le due arti si confondono insieme talvolta. La pastorale del Beethoven non fa l'impressione di un paesaggio dipinto?" "Con un po' di buona volontà, sí". E sorrise. Questa volta portava un abito di colore azzurro cinereo, con sprone sul petto di seta chiara, lameggiata di oro, e collare della stessa stoffa; e sotto il cappellino di tulle nero con ricami gialli, i capelli arruffati su la fronte spiccavano con toni dorati piú ardenti, e gli occhi sembravano piú azzurri, piú limpidi, sorridenti come cieli di primavera. Com'è dunque che io potei dirle il giorno dopo - il giorno dopo, perché da prima riparlammo del quadro veduto insieme - com'è che potei dirle: "Voi siete di ghiaccio. Avete nel cuore le nevi della vostra Russia. Perché mi fate soffrire? Perché non mi dite una parola di speranza?" "Perché certe parole non si dicono mai; s'indovinano". Ebbi un sussulto, e le presi la mano inanellata. Non me la concedette, ma non la ritirò ... Questa indifferenza m'impedí di baciargliela. Guardai il serpentello col dorso punteggiato di rubini. "È un simbolo?" domandai. "Forse. Un'ammonizione, certamente: abbi prudenza!" Che fascino nella voce e nello sguardo! "Lasciatevi adorare!" esclamai. "Non posso vietarlo". "Che sarò per voi?" "Chi lo sa!" "Ci siamo incontrati invano?" "Può darsi". "Per me, no!" "Si dicono tante cose senza aver coscienza di dire una falsità!" Tremavo, intimidito dal suo sguardo glaciale, con un senso di ribellione e di furore in fondo al petto. Cosí devono tremare i leoni e le tigri sotto il fascino della domatrice che li percuote con lo scudiscio e li fa rannicchiare in un angolo della gabbia di ferro. "Sentite! - esclamai. - Mi avete attratto da lontano, per via di una forza misteriosa. Non pensavo affatto di venire qui. Un impulso improvviso mi suggerí: "Va' a Firenze!" E sono venuto e vi ho veduta lo stesso giorno del mio arrivo, quasi fossi accorso apposta per voi. Sono rimasto qui unicamente per voi ... Rompete l'incanto; liberatemi! Siete una maga?" L'amavo e la odiavo. Mi sentivo in piena balia di costei, e n'ero felice e avevo paura ... Ma è vero che io abbia avuto quest'altra conversazione con lei? ... In certi momenti mi sembra che io sia soltanto rimasto lunghe ore nella camera del mio albergo a fantasticare questi incontri, queste conversazioni, compiacendomi di creare le avventure di un romanzo possibile, dopo che il portoncino di via Enrico Poggi si era chiuso dietro a lei, ed ella era sparita e non avevo potuto rivederla. Non è incredibile? Eppure è cosí. Ma il resto? Sono dunque vissuto nove mesi in continuo sogno, in continua allucinazione? ... Se sapeste quel che provo qui alla fronte, e alla tempia! Una stretta, fiere trafitture! ... Non sono già pazzo, dottore? ... Ditemelo ... No; me lo direte all'ultimo, e tenterete di guarirmi ... O mi ammazzerò ... Non può durare a questo modo! Non dovrei dubitare; è assurdo. Si possono fantasticare alcuni fatti, intensamente, secondo il desiderio dell'istante, pensando: "Oh, se avvenisse cosí e cosí!" e credere per un momento che il desiderio vivissimo si fosse mutato in realtà ... Crederlo a lungo però, agire in conseguenza dell'avvenimento fantasticato e goderne e soffrirne e sentirne cosí sconvolta la vita, quasi tra esso e la realtà non ci fosse stato intervallo né contraddizione ... è anche piú assurdo! Non posso sospettare che io non l'abbia riveduta alle Cascine, in carrozza, con un bell'uomo che le parlava calorosamente, gesticolando, ridendo ... Che cosa le raccontava? Ella stava ad ascoltarlo quasi sdraiata, con la faccia rivolta verso di lui, stupita di quel che udiva; si scorgeva dagli occhi intenti e dai lievi accenni del capo. Si fermarono un minuto davanti al monumento del principe indiano; e fu cosí che io potei osservarla bene e notare che il pallore del mio volto e il fosco lampeggiare dei miei sguardi avevano attirato la sua attenzione. Perché anche questa volta ella finse di non riconoscermi? Perché anche questa volta io secondai la sua finzione? La vidi sparire allo svolto del viale; avevo la morte nel cuore. Chi era colui? Il marito o un amante? Dissi subito, risoluto: "Dovrà confessarmelo". Se io non mi fossi riconosciuto in diritto di domandarglielo, se io non avessi avuto la certezza che avrei potuto domandarglielo, avrei mai pensato: "Dovrà confessarmelo"? Intanto perché spesso mi nasce il dubbio se io sia andato quello stesso giorno in via Enrico Poggi? Ci sono andato, questo è certo; ma ho proprio suonato il campanello del portoncino? Sono stato ricevuto da lei? O la mia immaginazione ha creato il dialogo, che pure rammento parola per parola, tanto da riudire oggi la mia voce e quella di lei con le piú minute particolarità di accento e di gesti? Si può giungere a questo estremo d'illusione? Appena mi vide entrare ella fece una mossa di sorpresa ... Non ero piú capace di contenermi; quella sua mossa però m'impose di forzarmi ad essere calmo. "Mi permetterete un'indiscrezione" dissi. "Chi era colui? ... Ho indovinato". "Non siete maga per nulla. Sí, chi era colui?" "Un mio concittadino, di Pietroburgo". "Nient'altro?" "In ogni caso, è un segreto che mi riguarda". "Non vedete dunque che io fremo ... di gelosia?" "Avete torto. Soltanto il possesso di una donna può giustificare in qualche modo la gelosia. Bisogna essere barbari per essere gelosi. La creatura umana non può appartenere a nessuno: è libera. Esser gelosi significa esser padroni assoluti di un cuore, di un'anima. È bestiale ... scusate la cruda parola". "E impossessarsi violentemente di un cuore, di un'anima, maltrattarli, torturarli come lo chiamate?" "Io rispetto il diritto degli altri quanto il mio. Ho fatto forse qualche cosa per sedurvi? Due mesi fa ignoravo fin la vostra esistenza". "Voi sapete già quel che ha operato la vostra bellezza". "Me lo avete detto voi; non ho obbligo di credervi, perché non ho la possibilità di accertarmi se dite la verità o se mentite per raggiungere uno scopo qualsiasi". "Che cosa debbo fare per essere creduto?" "Niente. Non c'è modo di arrivare alla certezza". "Siete cosí scettica?" "Cosí ragionevole intendete dire". "Mi avete messo l'inferno nell'anima!" "Ci sono degli esorcismi, affermano i popi, per debellare l'inferno". La vedevo in nuovo aspetto. Sul bellissimo viso tremolava un'espressione di crudeltà, di maligna ferocia, di spietata raffinatezza nel godere del tormento altrui. I ceruli occhi limpidissimi sembravano intorbidati da improvviso rimescolamento fangoso. Ai lati delle rosee labbra apparivano due pieghettine lievi ma rigide che davano alla fisonomia il carattere ripugnante di una maschera. Rimasi a guardarla, interdetto. La trasfigurazione durò un baleno. Sorrise, mi stese una mano e soggiunse: "Siete un bambino!" Non avevo forza di risponderle. "Voglio essere creduto!" esclamai. "Voglio la luna!" rispose, contraffacendo il mio accento. "Che cosa debbo fare?" "Continuate ad amarmi! È assai lusinghiero per una donna". "Oh, Kitty!" Era la prima volta che la chiamavo per nome, e mi parve di rivelarle cosí l'immenso amor mio, come non avevo saputo mai fare fino a quel giorno. Sorrise nuovamente; ma tosto che feci atto di voler baciarle le mani, si rizzò in piedi, severa. Mi par di vederla qui, davanti a me, con le mani vietanti, col gesto di congedamento ... Dovrei dubitare? No, no! ... Per qual ragione avrei inventato questo significativo dialogo? Non una ma cento volte l'ho ripensato, senza mutarvi neppure una sillaba; e non una ma cento volte alla convinzione della realtà del fatto son seguiti sempre quel senso di perplessità, di incertezza, quella sensazione ineffabilmente dolorosa che mi stringe la fronte con un cerchio di ferro, che mi conficca due chiodi qui alle tempia ... Credete voi alla malia? Io sí. Credo che l'uomo possa acquistare, per via d'iniziazione, un quasi illimitato potere su la natura e sui suoi simili; benefico e malefico; malefico piú spesso, sventuratamente ... Avete letto il recente romanzo dell'Huysmans, Au de là . Non è un romanzo come gli altri; è storia antica e contemporanea nello stesso punto ... Oh! La mia fede nella magia non proviene soltanto da quel libro. I giornali francesi, mesi fa, hanno parlato a lungo dell'atroce vendetta di u no di questi maghi contro un infelice che era incorso nell'ira di colui, prete, a quel che dicevano ... Fate tacere per un momento i vostri pregiudizi scientifici, riflettete intorno al mio caso. Io ero a Napoli, tranquillo, spensierato ... e mi sento consigliare, mi sento anzi ordinare, non è eccessiva la parola: "Va' a Firenze!" Quella spiegazione che mi davo poco fa, la malia della melodiosa voce udita per caso nell'Acquario, è insufficiente. Mi si è presentata discorrendo, ed ho voluto manifesta rvela, perché debbo dirvi tutto quel che può aiutarvi nella diagnosi del mio male ... Ma la vera spiegazione è là; ne ho avuto coscienza sin dal giorno in cui dissi a Kitty: "Rompete l'incanto! Liberatemi!" Il mistero però non si schiarisce. Perché ella ha scelto me per sua vittima? Me ignoto a lei, lontano, che non posso averle fatto niente di male? ... Glien'ho fatto poi ... sono stato inesorabile, se è vero che ... Giudicherete ... Procediamo intanto ordinatamente, finché mi riesce. In poco piú di tre mesi, la mia passione era giunta al parossismo. La resistenza che colei mi opponeva, le scarse concessioni che si degnava di farmi, seguite subito da altre e piú vive resistenze, mi tenevano in uno stato di eccitazione di cui non può farsi nessuna idea chi non ha amato a quel modo. E la gelosia era sopravvenuta a metter legna al fuoco che mi divampava nel cuore, terribile! Ella aveva detto: "In ogni caso, è un segreto che mi appartiene". Dunque avevo indovinato! Qual altro genere di segre ti poteva mai esistere tra lei e quel giovane veduto in carrozza con lei alle Cascine? Avevo farneticato una settimana: cercarlo, domandargli impertinentemente: "Siete suo amante?" Insultarlo, sfidarlo ... E avevo insistito presso Kitty ... Mi aveva risposto ridendo. "Ah, non ridete, per carità!" le avevo detto supplicandola a mani giunte. Si era fatta seria tutt'a un tratto: "Io non metto la mia libertà alla mercè di nessuno! Con qual diritto pretendete di strapparmi una confessione, ammesso che ne abbia una da farvi?" "Vi amo!" "Non è una ragione per me". "Mi avete detto: "Continuate ad amarmi!"" "Visto che vi fa piacere!" "Che cosa sono dunque per voi?" "Uno che dice di amarmi". "Nient'altro?" "Anche questo è un segreto che mi appartiene. Può arrivare un giorno, un momento che stimerò opportuno di rivelarvelo". "Come siete crudele!" "Sincera piuttosto". E mentre ella pronunziava queste brevi risposte, mi fissava con gli occhi cerulei, limpidissimi, che però mi turbavano profondamente quasi rafforzassero l'opera della sua malia. Quel giorno sembrava proprio una maga, con quella scura vestaglia trasparente su fodera di seta gialla e con pizzi neri che le coprivano le mani e facevano risaltare gli anelli delle dita e i braccialetti ai polsi, di foggia stranissima, quasi rami attorti, di simboliche piante - immaginavo - con foglioline di smeraldi. Non erano state incoraggianti, subdolamente incoraggianti le sue parole? ... Allora io le domandai: "Lo avete riveduto?" "È stato qui mezz'ora fa". "Volete farmi la grazia di promettermi ... " "Che non lo rivedrò piú? ... E se lo amassi?" Mi avesse detto effettivamente lo amo, non avrei potuto sentirmi trafiggere con maggiore strazio. Impallidii, mi parve di morire! Ebbe pietà di me in quel punto? Mentí per confortarmi? "Non l'amo, no! ... Siete contento?" Scattai con tale impeto ch'ella non fece in tempo per impedirmi di prenderle una mano e di coprirgliela di baci. Dio mio! Com'era fredda quella mano! Infatti pareva esangue, tanto era bianca, senza traccia di vene sotto la pelle fina e lucente. Ho vivissimo il ricordo di questa sensazione di cosa ghiaccia ... Non è un'aberrazione della mia fantasia ... Eppure sono arrivato a dubitare anche di essa. Perché? Ecco: rammento di averla incontrata un giorno nei giardini di Pitti con le sue due amiche dell 'altra volta. Mi passò davanti senza guardarmi, e levava appunto in alto una mano per indicare non so che cosa; ed io, vedendo quella mano cosí bianca che pareva esangue, pensai cosí: "Dev'essere fredda come il ghiaccio! ... " Se l'avessi realmente baciata, avrei pensato: "È fredda come il ghiaccio!" Avrei ricordato la impressione ricevuta ... Ah, se poteste sentire che male mi produce questo cerchio qui! Se poteste sentire come mi si conficcano piú addentro i chiodi delle tempie! ... Vorrei non poter pensare! Soltanto non pensando avrei un po' di requie! ... Ma ci accostiamo alla fine. Sopporterò questa tortura; voi troverete un rimedio per addormentarmi il pensiero ... C'è un rimedio? Ah! ... Benissimo! Vivevo di odio, di gelosia, di amore sfrenato ... Avrei voluto fuggire lontano, ma non potevo. Restavo per lunghissime ore nella camera del mio albergo; mi aggiravo per Piazza dell'Indipendenza passavo e ripassavo davanti al fatale portoncino di via Enrico Poggi senza osare di stendere la mano al campanello, quasi quel portoncino non fosse mai stato aperto per lasciarmi entrare, e con l'angoscia che forse non si sarebbe aperto mai, mai per me! Non è strano che mi torturassi per questo, se ormai bastava che stendessi la mano al campanello per venire introdotto nel salottino azzurro, varcando l'andito coi busti, coi vasi di spetriste e di cactus, e in fondo, la vetrata medievale con vetri a colori? Passavo e ripassavo, sconvolto dal sospetto: "In questo momento forse egli è là! ... Forse la stringe tra le braccia! Forse ella si abbandona a lui, follemente! O, forse lo fa soffrire al pari di me, assaporando il maligno godimento della sua potenza di nuocere ... !" Suonai violentemente. Il campanello ondulò a lungo per l'andito, mentre io mi pentivo di essermi annunziato a quel modo; e il ritardo del servitore che doveva venir ad aprire mi faceva imaginare che ella avesse ordinato di fingere che nessuno era in casa. Invece ella mi accolse con aria lieta. "Oh! ... E venite qui cosí fosco?" "L'unico mezzo di farmi accorrere raggiante di felicità, voi lo sapete, è in mano vostra". "Non posso adoperarlo. Una fatalità mi perseguita ... " "Siete voi, voi, la terribile fatalità!" "È vero! E non so piú attristarmene, né commovermene. Contro l'ineluttabile non si combatte". La sua fisonomia aveva mutato espressione; la qual cosa mi faceva pensare che l'aria lieta con cui ella mi aveva accolto non fosse stata sincera. "Eravate ... sola?" "Sola ... coi miei pensieri, come dicono i personaggi di certi drammi". Voleva riapparir gaia ... E anche questo mi mise in sospetto. Guardavo attorno, se mai scoprissi nel salotto un indizio di disordine, nelle seggiole, nelle poltrone, non potuto riparare per la fretta ... Niente! "Che cercate con quegli occhi gelosi? Il vostro preteso rivale?" E, dopo una breve pausa, soggiunse: "Si è ucciso ieri; per me, ha lasciato scritto. Che pazzia! ... Voi non ne commettereste una simile ... " "Forse! ... " risposi cupamente. E la lasciai. Mi era parsa coperta dal sangue del misero che si era ucciso per lei. E non aveva nell'accento nessun fremito di compassione! Non una lagrima negli occhi azzurri limpidi, impassibili! Che terribile creatura era ella dunque? Aveva bisogno di sangue umano per le sue orrende incantagioni? "Forse!" mi era sfuggito. Ma sentivo che mi spingeva furiosamente verso l'abisso, verso la morte. Chi sa di quanti altri disastri era colpevole! ... Ed io non volevo morire! Amarla, possederla volevo, sentirla tremare sotto la forza della mia volontà, domarla ... annullarla, volevo! Annullarla! Per parecchi giorni fui sotto l'ossessione di questa idea! Vendicare gli altri e me, impedirle di esercitare sopra nuove innocenti creature la sua malefica influenza! Nello stesso tempo, mi sembrava di compire un gran sacrilegio attentando soltanto col pensiero alla sua perfetta bellezza. Chi ero io da pretendere di essere riamato da lei? Non era anche troppo ch'ella mi avesse permesso di continuare ad amarla e di ripeterglielo quante volte mi fosse piaciuto? "Può arrivare un giorno, un momento! ... " Non significava: "Sperate?" Cercai nei giornali la notizia di quel suicidio; nessuno ne faceva cenno. Aveva ella mentito? ... Riflettei che non mi aveva detto che colui si fosse ammazzato a Firenze o in qualche altra città italiana. Era tornato, probabilmente a Pietroburgo, lusingandosi di sfuggire al letale potere di lei ... Ma inutilmente! Ella aveva reciso il filo di quella vita come una inesorabile parca, da lontano! ... Neppure io avrei potuto evitarla, se tardavo ancora, se non mi decidevo ... E mi decisi, una no tte, dopo lungo dibattermi tra le smanie dell'insonnia e della passione che piú non distinguevo se fosse amore o odio, o l'uno e l'altro insieme. E mi immersi subito in un sonno cosí profondo da impensierire le persone dell'albergo. Quando risolsero di accertarsi se stavo male, erano le due pomeridiane. Mi sentivo calmo, e non me ne maravigliavo. Il mio primo pensiero, appena scosso dalla voce del cameriere, era stato: "Annullarla!" Certamente il mio spirito aveva continuato durante il sonno l'intenso lavorio della giornata precedente, e aveva maturato e rafforzato la mia decisione. Io non so qual uso voi farete della rivelazione che sto per farvi. Se la vostra professione di dottore v'impone dei doveri, adempiteli senza esitare. Ho preveduto questo caso. Qualunque cosa sia per accadere, non potrà mai raggiungere quel che dovrei continuare a soffrire tacendo ... Notate: ho la visione netta, evidentissima della terribile scena, come se fosse accaduta poche ore fa. Ciò non ostante ... Oh! È spaventevole, dottore! Aveva ella qualche tristo presentimento? Non si sedette accanto a me al solito posto, ma dietro al tavolino con la scusa di accendere una sigaretta. Io rifiutai quella che mi era stata offerta, sottilissima, troppo profumata pel mio gusto. "Non dite nulla? Che guardate? Questo spillone?" "Sembra un pugnaletto". "È un ornamento femminile di certe regioni del Caucaso." "D'argento?" "Di acciaio, e ben temprato". Tirò due o tre boccate di fumo, socchiudendo gli occhi deliziata, poi soggiunse: "Vi do una notizia che vi farà gran piacere". "Finalmente!" "Non quella che voi imaginate. Parto". Balzai in piedi, sbarrando gli occhi. "Non è vero!" balbettai. "Poiché ve lo dico!" "E io? ... " Ogni possibilità mi era passata per la mente all'infuori di questa ch'ella partisse, che si sottraesse cosí alla mia vendetta! ... Credetti che me lo annunziasse quasi ad irrisione, per sfida, mentre io non avrei potuto mai levarmi di addosso il funesto dominio del suo filtro, del suo misterioso potere, che forse avrebbe operato piú terribilmente da lontano ... Infatti, se ella mi avesse detto in quel momento, invece di: "Parto!" "Domani non spunterà piú il sole, tutto rimarrà sepolto in tenebra ete rna! ... " anche credendole, ne sarei stato assai meno atterrito. "E io? Io? ... " replicai. "Che volete che ne sappia? Farete quel che vi piacerà ... Mi dimenticherete, innanzi tutto". "Fatemi prima dimenticare! Datemi qualche vostra magica bevanda di oblio!" "Si dimentica cosí facilmente!" "Non quando si ama come io vi amo! Neppure in questo momento mi credete? E mi vedete agonizzare!" Parlavo a stento, ansavo; sentivo gorgogliarmi nel petto un rantolo di morte; gli occhi mi si erano annebbiati, un lentore mi invadeva. Dovetti appoggiarmi al tavolinetto per non cadere. "Ho visto uno dei vostri grandi attori fare qualche cosa di simile. Siete inarrivabili voialtri italiani nella espressione di certi stati d'animo". Era come dirmi: "Commediante!" Afferrai lo spillone, lo brandii minacciosamente. "Bravo! - esclamò - Ferite!" E si rizzò e mi offerse il seno coperto di trine. Ebbi la forza di sorridere, di rispondere con profonda dissimulazione "Sapete bene che non posso! ... Ah, Kitty!" "Non mi amate fino al delitto? Misero amore, il vostro!" Mi provocava, mi aizzava ... Era proprio sicura che non avrei potuto colpirla? Con una mano si tolse la sigaretta di bocca, esalò lentamente con voluttuosissimo godimento il fumo dalle labbra ristrette e dalle rosee narici, e aperse le braccia, ripetendo: "Ferite!" "Sí, è vero - dissi -. Se vi amassi in modo estremo ... " Mi accostai, scartai con una mano la trina, appuntai lo spillone in direzione del cuore ... " ... farei ... cosí!" Lo spillone era penetrato senza nessuna resistenza fino alla capocchia ... Non diè un grido ... Travolse gli occhi e mi si rovesciò addosso, con un lieve sussulto per tutto il corpo. Che cosa io abbia fatto dopo non so. Ricordo soltanto che passai la nottata presso San Domenico su la strada di Fiesole, seduto su un muricciolo, e che la luna inondava la campagna col suo pieno lume sereno, e che i grilli zirlavano? tra le erbe dei prati attorno e che un cane abbaiava, a intervalli, lontano. Ricordo che, a giorno alto, tornai a Firenze e che dovetti mettermi a letto con la febbre ... Volli leggere i giornali ... E vidi con stupore che nessuno di essi parlava dell'assassinio della bella signora russa in via Enrico Poggi. Tre giorni dopo, non interamente guarito, mi levai da letto, e mi feci condurre colà da un fiacchere, senza dare indicazione precisa ... La via era silenziosa, come al solito; tutti i portoncini chiusi; tutte le persiane delle finestre o chiuse o socchiuse ... Ne ssun indizio che in quella via, in quella nota casa fosse avvenuta qualche cosa di straordinario. Sapevo che gli assassini sentono una irresistibile attrazione verso i luoghi dov'essi hanno commesso un delitto, e pensavo: "È vero! È vero!" giacché un vivo impulso mi dominava, un'imperativo suggerimento mi diceva: "Scendi dal legno! ... Domanda a qualcuno ... Saprai!" E il terrore che mi invadeva non era quello di ottenere la certezza del mio delitto, ma l'opposto. Suonai replicatamente al portoncino. Nessuno venne ad aprirmi. Una donna che usciva dalla casa accanto si fermò a guardarmi esitante, poi mi disse: "Sa? Non c'è nessuno". "Abitava qui ... una signora ... " "È partita, da un pezzo. L'appartamento è sfitto". "Da un pezzo?" domandai stupito. "Eh! Da tre settimane, almeno". Mi sentii dare un tuffo al sangue ... E da quell'istante ho questo cerchio, qui, attorno alla fronte, e questi chiodi confitti nelle tempie ... Com'era possibile! Non l'avevo uccisa giorni addietro? Partita da tre settimane! ... O dunque? In che modo io sono vissuto questi ultimi due mesi? In che modo tutto quel che vi ho narrato si è andato formando nella mia mente con la suprema evidenza della realtà? Io la ho vista ... le ho parlato, ho udito la sua voce. È certo che ella abitava colà, in quel villino di via Enrico Poggi. È certo che io sono stato piú volte in quel salottino azzurro ... Visitai la casa, col pretesto di prenderla in a ffitto ... Non c'erano piú i mobili, niente; le nude pareti ... E c'era tuttavia il suo profumo, il profumo acutissimo di quelle sue sigarette ... Se non fossi stato colà altre volte, avrei potuto riconoscerlo? Il guasto è qui, nel mio cervello ... Dottore, liberatemi da questo cerchio alla fronte! ... Strappatemi questi chiodi dalle tempie! ... Non voglio impazzire! ... È orribile! ... Se non è morta, se ha potuto sopravvivere al colpo dello spillone conficcatole nel seno ... è lei, la maga, che continua a tormentarmi! ... Non crollate la testa ... È lei! ... Che male le ho fatto? L'amavo! ... Oh! Immensamente! ...

Racconti 3

662747
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Prendetene uno che abbia cinque, sei legislature; è miracolo se si rammenta di essere legalmente marito. Io sono stato a Roma parecchie volte, ho frequentato il caffè Aragno, il Salone Margherita, l'Olimpia, l'Orfeo ... accademicamente, come si dice, soltanto per averne un'idea; capisce, certe cose non sono piú per me; poi, ci vogliono troppi quattrini. Ed ho visto! ... Ho visto! ... E sono stato anche a Montecitorio, nelle sale dove i signori deputati ricevono gli amici, gli elettori postulanti ... Ed ho visto! ... Ho visto! ... Perché dovrebbero divorziare? Ripeto: essi sono già divorziati di fatto! ... Mi fa ridere! Quando una legge non giova, prima di tutti, a colui o a coloro che devono farla, è naturale, naturalissimo che nessuno mai pensi a farla. E poi, questo divorzio chi lo vuole in Italia? Zanardelli, che è scapolo, se non sbaglio, e qualche altro scapolo come lui ... È curioso che i piú ardenti fautori del divorzio si trovino appunto tra coloro che non hanno moglie e che, a quanto pare, non mostrano neppure l'intenzione di prenderla ... Se fosse perché vogliono sposare le mogli altrui ... O c'è forse bisogno di sposarle? Se le prendono egualmente ... - E gli altri mariti? Non contano dunque gli altri mariti? - A questa vigorosa interruzione, l'avvocato Ponteri tornò a grattarsi piú lungamente la nuca; e con l'aria di chi avventura un'osservazione scabrosa - era timido, molto timido quell'avvocato, che pure, in tribunale o alla corte di appello, investiva con gran violenza i giudici, forse perché convinto di recitare una specie di commedia da darla a bere ai clienti - soggiunse: - Ma il divorzio è anche contro i mariti! Arma a due tagli, caro signore! Io sono disinteressato della quistione. Dovrei esser matto, se pensassi a prender moglie all'età mia ... Secondo il mio debole parere, per certe professioni assorbenti bisognerebbe proclamare il celibato obbligatorio, come ha fatto la chiesa pei preti! Questo non impedirebbe ... e infatti non impedisce ... Porrebbe però, se non assoluto rimedio a certi guai sociali, qualche attenuamento o m'inganno. Forse - c'è da riflettere - i mariti non potrebbero dichiararsene contenti; ma il mondo è fatto cosí: c'è sempre qualche inconveniente anche nei provvedimenti piú savi. Che possiamo farci? È cosí ... perché è cosí ... Secondo il mio debole parere, il meglio sarebbe lasciare le cose come stanno. Che si immagina lei? Sí, col divorzio, lei si libererebbe dalla sua signora, poiché c'è tra loro ... incompatibilità di carattere ... - C'è ben altro signor avvocato! - lo interruppe il cliente. - Dicevo cosí per non richiamarle alla memoria la sua disgrazia,.. E poi? Prenderebbe un'altra moglie? Giacché, come suol dirsi, chi ha bevuto berrà; chi ha sposato, sposerà. Il maggior contingente nelle liste dello stato civile è fornito da vedovi e da vedove che ritentano spensieratamente la prova ... E lei si troverebbe - non è improbabile - daccapo! Che sugo c'è? Me lo dica. - Dunque, neppure divisione di beni e persona? - Niente, secondo il mio debole parere. Vede? Parlo contro il mio interesse. Dovrei incoraggiarlo a far la causa. Non è di quelle che si spicciano in quattro e quattro otto; e lei, fortunatamente, è fra coloro che possono spendere. Mi ha detto: «Combini lei, faccia tutto lei; accetto anticipatamente quel che lei avrà stabilito». Un bel margine per un avvocato di coscienza elastica. Ma io, dev'essersene accorto, sono avvocato sui generis. Prima che ai miei onorari, penso ai clienti. Torni a sedersi; ragioniamo -. Il signor Costa cedette, suo malgrado, all'invito, e posò sui ginocchi il cappello a cencio per aver qualcosa tra le mani con cui sfogarsi mantrugiandolo durante la discussione. - Sissignore, ragioniamo - riprese l'avvocato che intanto si era messo a rassettare alcune carte su la scrivania, quasi dall'ordine di esse dovesse egli attingere uguale ordine nelle idee. - In primis et ante omnia, lei non ha prove lampanti. - Ho qualche cosa di meglio: la confessione di mia moglie! - Confessione! In un impeto di sdegno, ella ha esclamato: «Sí, sí! Ti ho fatto ... !» Ma è proprio vero? Le donne, dovrebbe saperlo, sono capaci di tutto, anche di accusarsi di colpe che non hanno mai commesso, pur di vendicarsi di qualche torto o preteso torto. Infine, gliel'ha confessato soltanto a quattr'occhi. - A quattr'occhi, ma non avrà l'impudenza di negarmelo in faccia. - L'avrà; ne stia certo. So di mogli sorprese in circostanze tali che il negare parrebbe impossibile, e che pure hanno negato ... Le donne! Chi ne capisce niente? E poi, lei ha avuto la debolezza di perdonare una prima volta ... - Pro bono pacis. - Forse non aveva la coscienza netta neppur lei ... M'inganno? - Questo non vuol dire! Il marito ... è altra cosa. - Ragionamento interessato, da mariti, e che per le mogli non ha valore. Non ha valore anche moralmente. Diritti uguali, doveri uguali ... C'è la quistione dei figli introdotti surrettiziamente, come diciamo noi legali, nella famiglia. La cosa è dubbia. So di fisiologi che pretendono di aver scoperto un bell'artificio della natura per impedire questo inconveniente. Secondo costoro, una donna è fecondata, una volta per sempre, dal primo che la possiede. In questo caso, niente figli adulterini. Anche i figli del secondo marito appartengono, fisiologicamente, al primo ... La sapienza della natura è infinita; sembra che essa abbia preso le piú solide precauzioni contro il malvolere degli individui. In questo caso, i mariti di che possono lagnarsi? Sono anticipatamente assicurati. Accade soltanto, per dirla col codice, un momentaneo turbamento di possesso; cosa da niente. Nel suo caso, non si tratta d'altro; lei non ha figli. Ha perdonato una prima volta ... ? E torni a perdonare! - Ma i miei guai provengono appunto da cotesta mia debolezza. Mia moglie non sa perdonarmi di averle perdonato. Da quel giorno non ho avuto piú pace! La mia vita è un continuo inferno. La piú dolce parola che ella mi regala è: «vigliacco!» ... Dice che avrei dovuto ammazzarla e ammazzar lui, il suo complice. Ecco perché mi chiama vigliacco! Non è piacevole, punto, sentirselo ripetere cento volte al giorno, a ogni minima occasione. Da quella volta, io non sono piú marito, sono un essere spregevole per lei, un povero diavolo continuamente in cimento di commettere davvero l'eccesso che mi si rimprovera di avere evitato. Fortunatamente, non sono di natura sanguinaria io. - La picchi per lo meno; a qualche cosa gioverà. - Gentiluomo, mi vergognerei di aver alzato la mano a percuotere una donna. Lei non conosce mia moglie. È tale, che l'accopperebbe un buffetto. Magra, allampanata, pelle e ossa ... Ha forte la lingua. Oh! tutta la sua vitalità si è radunata nella lingua. Voglio dirglielo, in confidenza: io compiango il suo complice; non capisco ... Ho dovuto ricorrere alla ipotesi che mia moglie abbia qualità amatorie nascoste, e che io non ho potuto scoprire, per spiegarmi che c'è stato un uomo capace di farle la corte e di diventare suo amante ... Ho perdonato per questo, probabilmente. Il mio rivale mi è parso castigato a bastanza dal solo essere potuto diventar mio rivale! E se ho rimorso, è di aver interrotto quella relazione ... Giacché mia moglie è ridivenuta virtuosa, eccessivamente virtuosa; ha onta del suo passato. Dice che non sa spiegarsi neppur lei come sia avvenuto che ... E per ciò non sa perdonarmi di averle perdonato! Potrei andar via di casa; ridurmi, come quand'ero studente, in una camera mobigliata, a mangiare in trattoria o in una pensione ... Sarebbe peggio. Per ora, le scenate accadono in famiglia; hanno per testimoni la cameriera, le persone di servizio ... È impossibile evitare che essi non odano e non veggano. Mia moglie non mi rispetta neppur davanti a loro; è inesorabile! «Vigliacco! Vigliacco!» Cento volte al giorno ... e anche la notte! Dormiamo divisi; lei, nel letto matrimoniale; io, in un lettuccio, tre stanze piú in là. Ebbene, una notte sí e una notte no, spesso tutte le notti, per settimane di seguito, la sciagurata viene a urlarmelo dietro l'uscio: «Vigliacco! Vigliacco!» E dice che mi inseguirebbe fin in capo al mondo, se io andassi via ... Legalmente, posso impedirle di venirmi dietro, finché non intervenga la legge per dividerci di beni e persona? Allora ci saranno le guardie di questura, i carabinieri che le faranno intendere ragione. «Ha perdonato! Perdoni un'altra volta! ... » Ma io le perdonerei anche cento volte, se potessi chiuderle la bocca! Oramai, quel che è stato è stato! Momentaneo turbamento di possesso, dice lei. Sia! Veramente non si tratta d'un fondo, d'una casa, di un mobile; la moglie è parte di noi, metà, talvolta piú di tre quarti ... Io le volevo tanto bene! ... Se le ho fatto qualche torto, è stato quasi senza accorgermene ... Una o due volte ... . per non recitar la parte del casto Giuseppe ... Avrei voluto veder lei nel cimento! ... E dopo, non me ne davo pace. La colmavo di regali, per compensarla ... Si compensava da sé, e non lo sapevo! La tresca, per sua confessione, è durata piú di un anno. Mi ha confessato pure che la mia cecità le faceva rabbia ... Che quando, finalmente, apersi gli occhi, lei si sentí sollevata da un gran peso ... Si attendeva il gastigo ... Lo voleva, lo esigeva ... per sé e per colui che l'aveva indotta a fallire! ... E, vistasi delusa, sentitasi perdonata, potevo capitar peggio? «Vigliacco! Vigliacco!» Caro avvocato, non ne posso piú! È vero: sono stato vigliacco, ma non voglio sentirmelo dire! ... E certe volte m'incito da me: «Vuol essere ammazzata? E ammazzala, e falla finita!» Sono risoluzioni che si prendono lí per lí, nel caldo del momento, o non si prendono piú. - La picchi! E per bene! Vedrà! Vedrà! - suggeriva tranquillamente l'avvocato. - Si provveda di un poderoso nerbo di bue; sua moglie - l'ho bell'e capito - è di quelle che per stimarsi amate han bisogno di essere picchiate. Una, due volte la settimana, da lasciare i lividi. Vedrà! - «Ah! sí? Vigliacco?» «E donde vieni?» «Vengo dal mulino». Non c'è altro rimedio. Il signor Costa lo guardava come chi non intende se uno dica per scherzo o per davvero. Ma l'avvocato Ponteri era serissimo. - E, ove neppure il nerbo di bue giovasse? - domandò il signor Costa, esitante. - Me ne darà notizie da qui a un mese. Se però il mio consiglio avrà portato buon frutto, pensi che un onorario sarebbe poco; ci vorrà il palmario. Lo pretendo -. Due mesi dopo il signor Costa gli presentava un bel cronometro con doppia cassa in oro e pesante catena. - È il suo palmario, avvocato! Ma per lei - soggiungeva - varrà assai piú la mia gratitudine. È immensa!

STORIE ALLEGRE

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Collodi, Carlo 2 occorrenze

Allora il nostro amico si consolò dicendo: "Peccato che nessuno abbia voluto pubblicarmi questo Racconto ! Che bella lezione sarebbe stata per i genitori brontoloni e per i maestri tiranni! ... Ma oramai ci vuol pazienza! e i ragazzi, con la scusa di farli studiare, si troveranno sempre perseguitati! ... ".

Il povero figliolo, che aveva una fame che la vedeva proprio cogli occhi, trovandosi così barbaramente burlato, cominciò a piangere e strillare; e il suo strillare fu così acuto e ostinato, che in tutta la storia militare, dalla presa di Gerico fino a noi, non c'è l'esempio d'un altro trombettiere che abbia strillato tanto, quanto lui. Da quel giorno in poi, in quel corpo d'armata composto di sei ragazzi, non si trovò più un soldato che volesse fare da sentinella avanzata durante l'ora del rancio. Di fronte a un atto così grave d'insubordinazione, la disciplina militare ci scapitò assai: ma lo stomaco dei soldati ci guadagnò dimolto ... e tutti pari. E le battaglie combattute da questi piccoli eroi, contro chi erano? Ve lo dico subito. Appena finito il rancio, l'esercito col suo comandante alla testa si rimetteva in marcia, inoltrandosi a passo di carica dentro il bosco. Giunti dinanzi a una grossa quercia, che aveva più di cent'anni, il generale Leoncino schierava le sue truppe in riga di battaglia, e dopo aver caracollato dinanzi a loro, figurando di essere a cavallo, dopo avere colle parole e coi gesti incoraggiati i soldati alla pugna, dava l'ordine di cominciare il fuoco. Allora tutti i soldati, compreso il trombettiere, armati di grossi bastoni principiavano a bastonare furiosamente il tronco della quercia: e nel bollor della mischia si sentiva sempre la voce del generale, che gridava: "Avanti! Coraggio, marmotte! ... Serrate le file! ... Alla baionetta!". Quando i soldati, stanchi trafelati, non ne potevano proprio più, allora buttavano via i bastoni e la battaglia era finita. E la quercia? ... La povera quercia si lasciava tutti i giorni bastonare, senza mai rivoltarsi, senza mai mandar fuori una mezza parola di lamento: solo di tanto in tanto scoteva malinconicamente i suoi rami coperti di foglie, quasi volesse dire: "Poveri ragazzi! Lasciamoli fare! Hanno così poco giudizio! ... ".

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675827
Garibaldi, Giuseppe 2 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Credo non affermare cosa che il lettore non abbia indovinato aggiungendo che la buona Silvia mandò un sospiro pel suo povero Manlio. John coll’appetito di dodici anni, stimolato da una passeggiata ben lunga per un povero tar,

Cucchi, da Bergamo, una delle più squisite individualità che la rivoluzione abbia dato all’Italia, bello, giovine, ricchissimo e d’una delle prime famiglie di Lombardia, Guerzoni, Bossi, Adamoli e tanti altri, tutti disprezzando le torture dell’inquisizione e mille altri pericoli dirigevano l’insurrezione romana sotto il comando dell’arditissimo bergamasco. Il povero popolo di Roma era docile alla direzione di quei forti e domandava armi e d’armi ne erano state inviate molte da ogni parte d’Italia ma questo Governo di Firenze, esperto in ogni umiliazione e malvagità ed espertissimo nel fare il birro, avea avuto lo scellerato talento di fermarle tutte, in guisa che di pochissime quei di dentro potevano disporre. Si aggiunga il tradimento che si preparava a questo popolo infelice: istigandolo a fare alcuni tiri di fucile anche all’aria poiché sarebbe bastato, si diceva, per far volare l’esercito italiano dalle frontiere e si avrà un’idea dell’infernale perversità con cui da Firenze s’ingannava il popolo di Roma e gli eroici suoi amici. E i tiri di fucile li fecero i poveri Romani e si batterono senz’armi per le strade contro l’immensa soldatesca ben armata e birri e preti e frati pure in armi e fecero saltare una caserma di zuavi con una mina e col solo coltello pugnarono da disperati contro la famose carabine dei mercenari. In Trastevere s’eran riuniti i nostri vecchi conoscenti, Attilio, Muzio, Orazio, Silvio e Gasparo, e con loro tutti quelli dei trecento su’ quali la polizia non aveva ancora posto le mani.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

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Ghislanzoni, Antonio 7 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Si direbbe che, a punire questa titanica ribellione contro l'ordine della natura, Iddio abbia pietrificato di uno sguardo l'umanità tutta intera. Dopo dieci minuti di attesa terribile, l'Albani sentì piovere sulla fronte uno gocciola refrigerante. Era la stilla invocata dal dannato Epulone ... Il giovine levò al cielo uno sguardo più eloquente di ogni parola ... e quello sguardo era l'inno di riconoscenza, era l'omaggio dell'intelligenza subordinata, che rimonta alla sorgente divina da cui emana e dipende. Tutti i calcoli dell'Albani si erano avverati. Una pioggia lenta, fresca, abbondante, simile in tutto alla pioggia naturale, scendeva sulla terra a vivificare gli animali, le piante, i campi e le onde. L'artista non potè contenere un grido di soddisfazione; ma quel grido andò perduto negli applausi, nell'urlo di dieci milioni di spettatori. Quando l'Albani abbassò lo sguardo con sublime compiacenza per leggere su quella immensa superficie di teste l'ammirazione dell'opera sua, le teste erano già sparite sotto uno sterminato padiglione di ombrelli, ed egli potè sorridere, come Dio, sulla umana debolezza. Due ore dopo, per mezzo dei fili telegrafici, la riuscita del nuovo meccanismo era annunziata agli estremi confini dell'universo, e l'artefice prendeva il suo posto fra i primati dell'intelligenza col nome di primo Albani.

«Io non mi accuso di aver mancato per negligenza o mal volere, ma temo che l'impotenza assoluta a lottare contro uno dei più abbominevoli trovati della industria moderna abbia tradito i miei calcoli. «Che qualche furfante, abusando della maschera-ritratto, a tanto sia riuscito da ingannare la mia accortezza non solo, ma anche quell'istinto di gentile penetrazione, quella direi quasi intuizione divina che è propria delle donne innamorate? ... Una tale ipotesi spiegherebbe molte cose; ed io non dispero che, profittando delle molte note da me tracciate in argomento, il mio successore riesca a scoprire la verità e a porgermi i mezzi di una giustificazione più completa. «E dopo questo, cittadini ladri, manutengoli, ecc. ecc., io rientro nella vita privata, ringraziando voi e la provvidenza, di avermi aperta, a svignarmela sano e salvo dal palazzo di Sorveglianza, una uscita abbastanza sicura, quale difficilmente vorrà offrirsi al mio successore. «L'EX BARONE TORRESANI» Quella sera al teatro Scalvoni e Barbetta si rappresentava una grandiosa tragedia-ballo in venti atti e sessantotto quadri, intitolata la Caduta di un Gran Proposto, ossia il tremendo verdetto della Giustizia divina per opera d'uno specillo galvanico Verso le ore sette, una ondata di oltre cinquantamila spettatori irrompeva nel gran teatro popolare. La impazienza e la concitazione del pubblico si rivelava dagli atroci latrati dei binoccoli canini(25).

Vedete, Gran Prestinaio; non vi pare che mia figlia abbia un viso da febbre terzana? - Più pallida, più estenuata ... difatti ... - Immaginate, cittadino Rolland, che sono stata ritta più di un'ora al medesimo posto, per udire la spiegazione dei meravigliosi meccanismi che devono produrre la pioggia artiflziale ... - E chi ebbe la fortuna di svelare i misteri della scienza ad un'allieva sì docile e sì gentile? - chiese Rolland a Fidelia. - Oh! la fortuna fu tutta mia - rispose la giovinetta arrossendo - io non sperava d'incontrare sulla riva del lago un maestro tanto istruito e sapiente. Figuratevi che la spiegazione della meravigliosa macchina io l'ebbi dall'inventore ... - Tu hai parlato con quell'uomo! - esclamò il padre di Fidelia, balzando dal pieritto. - Tu dici d'aver parlato coll'inventore della macchina ... ! - ripetè il vecchio con voce corrucciata. - Gran Proposto: - disse Rolland levandosi in piedi - moderate quei vostri trasporti dinanzi ad una fanciulla ... Non vedete? voi la fate tremare! - Fidelia! mia buona Fidelia! - riprese il vecchio dopo breve silenzio, accostandosi alla figlia e stringendole la mano con tenerezza. - Rispondi sinceramente al tuo vecchio padre: conosci tu il nome del giovine artista, col quale ti sei intrattenuta a conversare? T'ha egli nulla rivelato delle sue vicende ... delle sue ... sventure? - Io non conosco la menzogna - riprese Fidelia con voce commossa. - L'inventore della pioggia artifiziale mi ha rivelato il proprio nome coll'accento straziante di chi confessa una colpa. Questo nome, che domani non sarà più un segreto per alcuno, io non ho difficoltà di ripeterlo a voi ... Il giovane artista si chiama Secondo Albani ... - Egli ti ha ingannata,figliuola mia! - proruppe il vecchio con ira. - Colui non ha più diritto di chiamarsi Secondo, dacché la legge lo ha condannato ... Ma il vecchio non potè compiere la frase ... perocché il Rolland, balzando in piedi, e intromettendosi fra il padre e la figlia: - Gran Proposto! - disse con voce autorevole; - in nome di quella legge che tu, primo magistrato della famiglia Olona, devi affermare coll'esempio, io ti ammonisco che tu mancheresti al più sacro dovere di fraternità, accusando ed infamando un cittadino, che oggi è puro ed onorabile come al giorno della sua nascita - Io sono in casa mia, mastro Rolland. Nella libera cerchia del santuario domestico, fra un padre ed una figlia, ve lo ripeto, non può esservi altro codice che quello dell'amore. - Con autorità di fratello vi ho ricordato un dovere - proseguì Rolland - ed ora fate ciò che la coscienza v'ispira. Badate che questa legge che voi chiamate di amore, non sia piuttosto un avanzo di pregiudizi ereditati. Queste parole turbarono la fronte al vecchio Proposto. Rolland gli strinse la mano, uscì dalla comune, e abbandonandosi al pendio della glissante,

. - Puoi tu asserire - domandò l'inquirente - che Primo Albani abbia avuto teco un colloquio nella notte dal ventisette al ventotto settembre? - No! - rispose la morta. - In quella notte l'Albani era ben lungi ... ben lungi ... da Milano. - Perché dunque - riprese l'Inquirente - hai tu voluto, quando eri in vita, affermare un fatto che ora sei costretta a smentire? ... - Perché desso ... perché colui ... - Parla! ... una sola voce! ... una parola ... ancora! - gridò l'Albani! - È vano! - disse il primate ritirando il pungiglione dalla fronte dell'estinta e riponendolo nell'astuccio. - Il galvanismo non ha più azione su lei: la materia animale è ottusa. Ciò che avvenne in quel punto nella sala non può descriversi a parole. Caliamo la tela su questa scena di desolazione e di tumulto.

. - In meno di tre minuti, prima che la campana abbia cessato di suonare, noi scenderemo alla porta del tuo palazzo. L'agitazione di Fidelia, sopratutto l'accento di terrore ond'ella proferì il nome del padre, agghiacciarono il cuore del giovane innamorato. Non osò muover passo, non proferire una parola. Ma prima di allontanarsi, Fidelia volse a lui uno sguardo ed un addio, che equivalevano ad una promessa. - E mentre le tre donne si dileguavano per l'ampio viale, l'Albani sentiva nell'anima una voce soave ripetergli in mille toni melodiosi: io ti amo! Presso l'Arco della Pace le tre donne salirono in una gondola volante che elevandosi rapidamente all'altezza di cento metri, si diresse verso la città con moto velocissimo. Luce, Fidelia e Viola, adagiate nella aerea navicella, sorvolavano alle piante ed alle abitazioni, come tre cherubini portati da una nuvoletta. La campana del richiamo vibrava gli ultimi squilli, allorquando Fidelia, salutate le amiche, entrava negli atrii del palazzo paterno. Corse alla sedia ascendente toccò il bottone dorato, e tosto, pel rapido agitarsi delle carrucole, tra il fremito armonioso delle corde vellutate, ella trovossi negli appartamenti superiori. Le prime sensazioni dell'amore, i moti involontari dell'anima che sente la seconda vita, riflettonsi nel volto di giovane donna. Le guance di Fidelia erano bianche siccome l'alabastro, l'occhio radiante di nuova luce, le labbra voluttuosamente socchiuse. Un insolito abbandono, una melanconica rilassatezza in tutta la persona. - L'amore, che più tardi rinvigorisce e rigenera la donna, in sulle prime si annunzia coi sintomi della febbre. Al leggero cigolio delle carrucole, che annunziava l'ascensione di Fidelia negli appartamenti superiori, due gravi personaggi mossero ad incontrarla nella galleria. Non appena la sedia ristette, l'un d'essi stese la mano alla fanciulla per aiutarla a discendere - l'altro, il più vecchio, arrestandosi a pochi passi dalla porta d'onde era uscito - figliuola mia, disse con voce severa, tu sai che io non amo di saperti in volta ... ad ora sì tarda della notte ... Fidelia non rispose. - È l'ora legale - disse il più giovane dei personaggi ... - Il richiamo dello vergini suona tuttavìa ... - Sempre da capo con queste vostre teorie della legalità! - proruppe il vecchio con accento di stizza ... - Io rispetto le leggi, e mi adopero con tutto lo zelo per farle rispettare dalla famiglia; ma fra un padre ed una figlia i doveri ed i diritti non vanno misurati alle norme del codice. L'amore che io porto a Fidelia mi impone di ricordarle che l'aria della notte è nociva alla salute, e quand'anche non vi fossero per lei altri pericoli andando in volta ad ora sì tarda, questo solo basterebbe perché ella dovesse piegarsi a' miei desiderii. - Eravamo uscite un po' tardi dal circolo ... Luce e Viola mi hanno invitata ad accompagnarle fino al Larietto per vedere gli apparecchi della macchina ... Fidelia articolava a stento le parole. Ella appoggiò il suo braccio a quello del padre, e tutti insieme entrarono nella sala. - Figliuola mia - disse il vecchio assestandosi in un pieritto,

- Io credo che l'amore abbia sempre esistito nel mondo - e che a lui si debba ogni sviluppo delle umane perfezioni. Io mi sento orgogliosa di essere donna - perché ritengo che, nei barbari tempi dell'abbrutimento universale, la donna abbia sempre conservata e alimentata la favilla della carità. Quando tutte le case erano ammorbate di tabacco, e tutti gli uomini imbestialiti nella crapula, o peggio ancora, mummificati dall'egoismo, o fatti macchina dalla cupidigia dell'oro - tutta la poesia del creato si rifugiava nel cuore di poche donne, angioli predestinati al martirio, che viveano per amare e morivano per aver troppo amato. - Oh! io non avrei potuto amare quei rozzi e balordi animali d'allora - disse Fidelia ridendo. - Ti giuro, o sorella, che se io fossi vissuta nel secolo scorso, piuttosto che lasciarmi baciare da un uomo ... Che orrore! Uomini che all'età di trent'anni non avevano più denti in bocca, né capelli sulla nuca! Questa ingenua sortita di Fidelia portava la conversazione sopra un tema favorito. Ragionando di quella misteriosa e gentile aspirazione dei giovani cuori, di quel bisogno imperioso dei sensi che è l'amore, le tre donne divennero eloquenti.

Le circostanze del fatto constatate e determinate da giudici incorruttibili, stanno scritte nel resoconto che da tre giorni venne sottoposto al pubblico sindacato nel Diario del dipartimento Nessun difensore essendosi presentato innanzi l'ora prefissa dalla legge, è ritenuto che la coscienza pubblica abbia facoltà di confermare la sentenza del Tribunale. Da questo momento la condanna di Secondo Albani è divenuta irrevocabile. «Ed ora mi rivolgo a te, fratello reietto; e bada che la mia voce è la voce di tutta l'umanità che grida anatema sul tuo capo. «In epoca non lontana che con stolida jattanza intitolossi civile, l'assassino era condannato a morire per mano del carnefice sulla piazza, al cospetto di un popolo, che assisteva a quella scena di sangue come a spettacolo giocondo. Il delitto punito col delitto, in luogo di moralizzare le masse, le abituava al ribrezzo dell'orribile vista. Il popolo fu veduto ammirare ed applaudire al cinismo del condannato. - Sul palco di morte il delitto parve circondarsi di un'aureola gloriosa - la vittima fu compianta, il boia imprecato. - E nondimeno, a quell'epoca, molti eminenti legisti facevano l'apologia della forca. I più miti, riconoscendo l'immoralità del supplizio, lo dissero terrore indispensabile a reprimere istinti feroci. - Non avrei evocate le memorie dei barbari tempi, se non fosse rarissimo il caso in cui il Tribunale di Giustizia debba applicare ad un grande colpevole gli estremi rigori del Codice di redenzione. - È necessario che al fratello del reietto, e a tutta la famiglia che mi ascolta, io ricordi in che consista la pena della morte civile, e come debbasi applicare, e quali sieno quindi innanzi i soli rapporti possibili fra il condannato e la società che lo respinge dal suo grembo. «A te dunque, Secondo Albani, da questo momento è tolto il diritto di portare il nome de' tuoi avi e dei tuoi congiunti di sangue, perocché non è giusto che tu abbia cosa veruna di comune con uomini onesti e rispettati. «Il titolo di Secondo, a te conferito nel giorno dell'adolescenza per stimolarti all'emulazione di un padre benemerito della umanità, verrà trasmesso fra due giorni al minore fratello, cui rimarrà il privilegio di portarlo e trasmetterlo al figlio primogenito. «Per cinque anni e un giorno dovrà cessare ogni comunicazione fra te e il resto della umana famiglia. Non potrai soggiornare oltre ventiquattro ore in una città o circondario, né penetrare nelle case dei fratelli che ti hanno reietto, né assiderti alla mensa de' tuoi simili, né profittare di alcun istituto pubblico, né viaggiare coi veicoli della Unione, né servirti di cosa veruna che appartenga alla Comunità degli uomini. «I tuoi fratelli, a qualunque famiglia appartengano o circondario o dipartimento della grande Unione Europea e delle altre comunità che adottarono il Nuovo Codice non ricambieranno con te un saluto né una parola quando ti incontrino pel loro cammino. Passerai fra le genti come un'ombra invisibile, come larva di un uomo che ha cessato di esistere. «E perché tutti ti riconoscano, e nessuno per inscienza o inavvertenza possa opporsi ai voti della legge, l'Esecutore della Giustizia ti imporrà il collare di riprovazione che tu porterai al collo per cinque anni ed un giorno fino ad espiazione compiuta. l'esecutore di Giustizia sarà tenuto a conservare la chiave di detto collare, che egli stesso discioglierà in questo luogo medesimo, al cospetto dei magistrati e del popolo, quando, esaurlta la condanna, tornerai all'amplesso dei fratelli. «Trascorsi i cinque anni ed un giorno, se, per malattia, o per altre circostanze indipendenti dal tuo libero arbitrio, tu non fossi in grado di tornare in questo luogo stesso per ricevere l'assoluzione della famiglia; in qualunque Dipartimento, o Circondario della Unione Europea, avrai diritto di invocare la risurrezione morale che ti verrà prontamente accordata, in dipendenza al messaggio telegrafico che oggi si trasmette a tutti i Tribunali di Europa determinante il tempo e la durata della tua condanna. «Trascorsi i cinque anni ed un giorno, dacché l'esecutore della Giustizia ti abbia levato il collare di riprovazione e i fratelli ti abbian reso l'amplesso del perdono e dell'oblio, tu riprenderai il tuo nome di casato, sopprimendo il titolo onorifico che ad altri venne trasmesso. Da quel momento verrai riammesso al libero esercizio di tutti i diritti - tu sarai puro ed onorato al cospetto degli uomini come al giorno della tua nascita. Noi confidiamo nella saviezza del popolo, perché i voti della legge vengano esauditi. Quegli stessi che oggi si allontanano dal condannato, troncando ogni rapporto con lui, e cooperando per tal modo alla espiazione della orribile colpa, fra cinque anni saranno i primi ad abbracciare il redento e ad accoglierlo come fratello. «Ed ora, o parricida, la tua espiazione incomincia. L'esecutore del Tribunale faccia l'opera sua. Al terzo squillo di tromba, la piazza sia sgombrata dal popolo - sulla Via della Misericordia che il condannato dovrà percorrere per uscire dalla città, non veggasi persona; - tutte le finestre e le porte dei palazzi si chiudano. - Giorno di lutto è codesto, e gravissimo lutto per l'umanità! Un fratello è morto alla vita civile!» Le parole del Banditore furono obbedite. Appena le trombe mandarono il terzo squillo, i cittadini silenziosi e commossi abbandonarono la piazza. Era triste spettacolo. - Le tribune e le logge nello spazio di pochi minuti rimasero vuote. - I magistrati, i savii e gli anziani erano scomparsi ... I cittadini pei larghi sbocchi delle vie si disperdevano, affrettando il passo come a fuggire un luogo di desolazione. Sulla piazza deserta, poco lungi dal tempio, non rimaneva che un solo essere vivente - e questi, curvato, immobile, incatenato al palco di infamia, dominava la vasta solitudine, simile ad uno di quei neri fantocci che i contadini pongono a guardia dei campi. L'Albani, durante la tremenda cerimonia, aveva provato tutti gli spasimi dell'agonia morale. Atterrito dal silenzio e dalla solitudine, il condannato fece uno sforzo per sollevare la fronte ... aperse gli occhi ... Poi, ricurvando la testa, ruggì coll'accento della disperazione: «Tutti dunque mi hanno abbandonato!» - Non tutti! - rispose una voce melodiosa e soave come la voce di un angelo. - Non tutti! Gli uomini hanno sentenziato nella giustizia, ma Dio viene a te nella misericordia! E l'uomo che parlava di tal guisa, posò la mano sulla spalla del condannato: e questi rianimandosi, levò di nuovo lo sguardo, e vide un giovane levita, coperto di bianche vesti, che con affettuosa pazienza si adoperava a rimuovergli le catene. - Coraggio, fratello mio! - proseguì il sacerdote ... - Voi mi chiamate fratello? - mormorò l'Albani ricurvando la testa. - Io solo ho questo diritto; è un santo diritto, che mi accorda l'altare, che il tribunale degli uomini non potrebbe contendermi. Al condannato, al reietto dalla umana famiglia, la Chiesa accorda un fratello, un compagno di pellegrinaggio, perchè sostenga il paziente sul cammino della espiazione. Questo incarico di sublime pietà venne a me accordato dal grande Levita, ed io gli resi grazie - e il mio cuore esulta di trovarmi teco. - Sorgi dunque! sorgi, cristiano fratello, appoggiati al mio braccio - noi procederemo insieme o insieme cadremo. L'Albani si levò macchinalmente, e discese i gradini del palco sorreggendosi al braccio del giovane sacerdote. Attraversarono a lenti passi la Via della Misericordia Il bianco levita, colla bisaccia sulle spalle, un largo cappello in testa, e un bastone di giunco alla mano, era costretto di soffermarsi ad ogni tratto perchè il compagno riprendesse lena. La lunga via era affatto deserta, le finestre e le porte serrate, la solitudine resa più tetra dalle ombre crepuscolari. Dopo un'ora di cammino, i due pellegrini si trovarono lunge dalle case, all'aperta campagna. Le ombre si eran fatte più dense - la Stella d'Amore spuntava nel firmamento. I due viandanti udirono uno squillo lontano - entrambi si fermarono. - Fratello! - disse il levita - è l'ora di benedizione! Questo suono tu devi conoscerlo. In questo punto tutti i tuoi fratelli piegano il ginocchio, e ringraziano Dio colla preghiera del cuore che in parole non si traduce. Il gran levita dalla torre del tempio inaccessibile, stende la mano a benedire tutti i figli della terra ... Inginocchiati, o fratello! L'Albani piegò le ginocchia - un tremito convulso gli scosse le membra - indi proruppe in uno sfogo di lacrime. Quand'egli levossi per riprendere il cammino: - Ho sentito la voce di Dio! - esclamò l'Albani con accento rassegnato: - io avrò forza per compiere il duro pellegrinaggio ... Espierò la mia colpa ... rivivrò nella stima e nell'amore dei fratelli ... purchè voi non mi abbandoniate! - Abbandonarti! - esclamò il levita colla sua voce d'angelo - qual altra missione può avere il sacerdote di Cristo fuori quella di portare la croce degli infelici, di perdonare e di redimere? I due viandanti si abbracciarono, e di nuovo si posero in cammino. FINE DEL PROLOGO.

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 2 occorrenze

È la persona più generosa e ospitale ch'io abbia incontrata. M'ha ospitato due mesi nel suo bungalow di Sicula, quando mi sono spezzata la gamba. Ha anche una moglie e una bimbetta ... - Com'è la moglie? - Come vuoi che sia? Sembra una signora delle nostre, un po' nera ...

Ero amato, ero desiderato - direbbe l'eroe russo-napolitano di non so quale pochade - dalla più desiderabile creatura che ospitasse il Sumatra Non illividiscano i teneri amici d'Italia: saranno rivendicati alla fine della più spaventosa catastrofe che la mia civetteria maschile abbia patito mai ...

Un giorno a Madera

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Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Io però ho sempre creduto che l'ufficio di deputato abbia una vita ben più larga di quella che corre fra l'urna elettorale e il decreto regio che scioglie la Camera; ho sempre pensato che l'orizzonte in cui si deve muovere la vita pubblica, è ben più ampio della stretta atmosferica che si agita e bolle sotto le volte della Sala dei Cinquecento. Poveri noi, se i nostri figlioli dovessero trovare che l'opera dei primi deputati del Regno d'Italia andò tutta consumata nel fare delle mozioni sospensive, degli ordini del giorno puri e semplici e delle quistioni pregiudiziali! Poveretti noi, se tutta la vita d'una generazione dovesse andar consumata nel rattoppare i nostri cenci, nel puntellare le Casse dell'erario, nel lasciare ai futuri della carta e dei debiti! Ognuno di noi deve aprire un solco in quella terra in cui i figli hanno a seminare il pane dell'avvenire. Questa terra bagnata di sangue l'abbiamo a fecondare del nostro sudore; e chi ebbe dagli elettori la più alta missione che si possa affidare ad un cittadino, ha maggiori doveri degli altri di preparare la terra per una Italia migliore. E quando dico un'Italia migliore, voglio dire degli Italiani più sani e più onesti, prima di tutto, poi più operosi e più sapienti, che è quanto dire più ricchi e più potenti. A quest'opera io dedico modestamente il meglio del mio sangue, il meglio del mio tempo. Forse, quando la finanza e gli ordini del giorno non formeranno tutta la politica italiana, anche in Palazzo Vecchio sarò meno indegno del vostro mandato. Ho fatto questo libro con questi intendimenti, e ho voluto scrivere sulla prima pagina il vostro nome, e per mostrarvi quanto io senta il pregio dell'onore conferitomi e perché voglio dedicare a voi uno scritto, in cui mi adopero con tutte le mie forze a far sì che gli Italiani abbiano ad essere più robusti e più onesti; perché abbiano ad edificare sulla base tetragona della salute e dell'onestà un edifizio splendidissimo di ricchezza e di gloria. Vorrei essere un grande artista della penna per potervi dire: ho scritto il vostro nome e il benefizio vostro sopra un libro forse che non morrà; ma invece mi accontento di dirvi che l'ho scritto sopra un libro utile e morale. Vivete sani e amatemi. San Terenzo (Lerici), 27 luglio 1868

LA CURA DEL MOTO E DEL SOLE

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Panzini, Alfredo 1 occorrenze

La meta del mio viaggio era lontana: una borgata di pescatori su l'Adriatico, dove io ero atteso in una casetta sul mare: questa borgata supponiamo che non sia lungi dall'antico pineto di Cervia e che, per l'aere puro, abbia il nome di Bellaria. Ora, quel giorno della partenza, il cielo era senza nubi, e per far piacere alla città che mi ospita da tanti anni, dirò che era azzurro: certo ne pioveva un'afa così ardente e greve, che in ogni altra città d'Italia gli uomini si sarebbero addormentati; e anche le motrici e le macchine si sarebbero fermate. ( ... ) Da mesi e mesi la vecchia bicicletta nel chiuso studiolo mi diceva: "Ricordi dieci anni fa la gioia dell'alba che raggiò da Collefiorito? l'ascesa a Recanati come ad un santuario? La sosta a San Vitale presso Classe con quei gran gigli simmetrici per l'abside azzurra, e quei mansueti cervi simbolici, assetati di verità, tanto che ti palpitò il cuore, o incredulo, di fede e di amore per il Cristo, giovanetto severo che lì giganteggia seduto, e ti fissa con l'indice levato?" Questi precedenti spiegano la ragione della mia contentezza quando quel giorno undici luglio, ornate le gambe di un paio di novissime calze, montai in sella. Incontrai per la città qualche conoscente, molto meravigliato nel vedermi in cotale assetto. Ma io salutai da lungi e dissi nel cuore biblicamente: " Nescio vos! ". Molto più fortunata di me, la bicicletta aveva trovato un meccanico che fermò qualche vite, rinnovò i pneumatici, e lubrificò i congegni. Per noi, creature di Dio, non esistono pezzi di ricambio. I pneumatici una volta invecchiati, tali rimangono, né il mercante vende olio per lubrificare le ossa indurite. Noi, sventuratamente, abbiamo l'età dei nostri pneumatici, cioè delle nostre arterie, e non c'è laboratorio che le rinnovi. Ciò è molto sconfortante: vale tuttavia a spiegare un'altra causa della mia contentezza quando mi accorsi che il pedale ripondeva bene all'impulso, che le case andavano indietro e la verdura della campagna veniva avanti. Addio, Madonnina del Duomo! (... )

FIABE E LEGGENDE

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Praga, Emilio 1 occorrenze

A un tratto, quello uscito dal palazzo, come abbia terribil cosa udito, si slancia nella immobile gondola, afferra il remo e, col ringhio di un veltro cui tocchi il colpo estremo, la sospinge... È sparita.

L'altrui mestiere

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Levi, Primo 6 occorrenze

C' è poi un patrimonio immenso di metafore che lo scrittore può ricavare dalla chimica di oggi e di ieri, e che chi non abbia frequentato il laboratorio e la fabbrica conosce solo approssimativamente. Anche il profano sa che cosa vuol dire filtrare cristallizzare, distillare, ma lo sa di seconda mano: non ne conosce la "passione impressa", ignora le emozioni che a questi gesti sono legate, non ne ha percepita l' ombra simbolica. Anche solo sul piano delle comparazioni il chimico militante si trova in possesso di una insospettata ricchezza: "nero come ..."; "amaro come ..."; vischioso, tenace, greve, fetido, fluido, volatile, inerte, infiammabile: sono tutte qualità che il chimico conosce bene, e per ognuna di esse sa scegliere una sostanza che la possiede in misura preminente ed esemplare. Io ex chimico, ormai atrofico e sprovveduto se dovessi rientrare in un laboratorio, provo quasi vergogna quando nel mio scrivere traggo profitto di questo repertorio: mi pare di fruire di un vantaggio illecito nei confronti dei miei neo-colleghi scrittori che non hanno alle spalle una militanza come la mia. Per tutti questi motivi, quando un lettore si stupisce del fatto che io chimico abbia scelto la via dello scrivere, mi sento autorizzato a rispondergli che scrivo proprio perché sono un chimico: il mio vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo.

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Se a questa tessitura fondamentalmente discontinua, e alle frequenti difficoltà linguistiche, si aggiungono le violente critiche e satire dirette contro la Curia romana, è facile comprendere come "Gargantua e Pantagruele" abbia trovato in ogni tempo un pubblico ridotto, e come si sia spesso tentato di contrabbandarlo, opportunamente amputato e rimaneggiato, come letteratura infantile. Eppure mi basta aprirlo per sentirvi il libro d' oggi, voglio dire il libro di tutti i tempi, eterno, che parla un linguaggio che sarà sempre compreso. Non già che vi si trattino i temi fondamentali della commedia umana: ché anzi, invano vi si cercherebbero le grandi sorgenti poetiche tradizionali, l' amore, la morte, l' esperienza religiosa, il destino precario. Perché in Rabelais non c' è ripiegamento, ripensamento, ricerca intima: è vivo in ogni sua parola uno stato d' animo diverso, estroso, estroverso, sostanzialmente quello del novatore, dell' inventore (non dell' utopista); dell' inventore di cose grosse e piccole, anche del "bosin", dell' estemporaneo da fiera. Si tratta, d' altronde, di un ritorno non casuale; è noto che il libro ha avuto un oscuro precursore, da secoli scomparso senza traccia: un almanacco da fiera paesana, le "Chroniques du grand Géant Gargantua". Ma i due giganti della sua dinastia non sono soltanto montagne di carne, assurdi bevitori e mangiatori insieme, e paradossalmente, essi sono gli epigoni legittimi dei giganti che mossero guerra a Giove, e di Nembrotto, e di Golia, e sono ad un tempo principi illuminati e filosofi gioiosi. Nel gran respiro e nel gran riso di Pantagruele è racchiuso il sogno del secolo, quello di una umanità operosa e feconda, che volge le spalle alle tenebre e cammina risoluta verso un avvenire di prosperità pacifica, verso l' età dell' oro descritta dai latini, non passata né lontanamente futura, ma a portata di mano, purché i potenti della terra non abbandonino le vie della ragione, e si conservino forti contro i nemici esterni ed interni. Questa non è speranza idilliaca, è robusta certezza. Basta che lo vogliate, ed il mondo sarà vostro: bastano l' educazione, la giustizia, la scienza, l' arte, le leggi, l' esempio degli antichi. Dio esiste, ma nei cieli l' uomo è libero, non predestinato, è "faber sui", e deve e può dominare la terra, dono divino. Perciò il mondo è bello, è pieno di gioia, non domani ma oggi: poiché ad ognuno sono dischiuse le gioie illustri della virtù e della conoscenza, ed anche le gioie corpulente, dono divino anch' esse, delle tavole vertiginosamente imbandite, delle bevute "teologali", della venere instancabile. Amare gli uomini vuol dire amarli quali sono, corpo ed anima, "tripes et boyaux". L' unico personaggio del libro che abbia dimensioni umane, e non sconfini mai nel simbolo e nell' allegoria, Panurgo, è uno straordinario eroe a rovescio, un condensato di umanità inquieta e curiosa, in cui, assai più che in Pantagruele, Rabelais sembra adombrare se stesso, la propria complessità di uomo moderno, le proprie contraddizioni non risolte, ma gaiamente accettate. Panurgo, ciurmadore, pirata, "clerc", volta a volta uccellatore e zimbello, pieno di coraggio "salvo che nei pericoli", affamato, squattrinato e dissoluto, che entra in scena chiedendo pane in tutte le lingue viventi ed estinte, siamo noi, è l' Uomo. Non è esemplare, non è la "perfection", ma è l' umanità, viva in quanto cerca, pecca, gode e conosce. Come si concilia questa dottrina intemperante, pagana, terrena, col messaggio evangelico, mai negato né dimenticato dal pastore d' anime Rabelais? Non si concilia affatto: anche questo è proprio della condizione umana, di essere sospesi fra il fango e il cielo, fra il nulla e l' infinito. La vita stessa di Rabelais, per quanto se ne sa, è un intrico di contraddizioni, un turbine di attività apparentemente incompatibili fra loro e con l' immagine dell' autore che tradizionalmente si ricostruisce dai suoi scritti. Monaco francescano, poi (a quarant' anni) studente in medicina e medico all' ospedale di Lione, editore di libri scientifici e di almanacchi popolari, studioso di giurisprudenza, di greco, d' arabo e d' ebraico, viaggiatore instancabile, astrologo, botanico, archeologo, amico di Erasmo, precursore di Vesalio nello studio dell' anatomia sul cadavere umano; scrittore fra i più liberi, è simultaneamente curato di Meudon, e gode per tutta la sua vita della fama di uomo pio ed intemerato; tuttavia lascia di se stesso (deliberatamente, si direbbe) il ritratto di un sileno, se non di un satiro. Siamo lontani, siamo all' opposto della sapienza stoica del giusto mezzo. L' insegnamento rabelaisiano è estremistico, è la virtù dell' eccesso: non solo Gargantua e Pantagruele sono giganti, ma gigante è il libro, per mole e per tendenza; gigantesche e favolose sono le imprese, le baldorie, le diatribe, le violenze alla mitologia e alla storia, gli elenchi verbali. Gigantesca sovra ogni altra cosa è la capacità di gioia di Rabelais e delle sue creature. Questa smisurata e lussureggiante epica della carne soddisfatta raggiunge inaspettatamente il cielo per un' altra via poiché l' uomo che sente gioia è come quello che sente amore, è buono, è grato al suo Creatore per averlo creato, e perciò sarà salvato. Del resto, la carnalità descritta dal dottissimo Rabelais è così ingenua e nativa da disarmare ogni intelligente censore: è sana e innocente e irresistibile come lo sono le forze della natura. Perché Rabelais ci è vicino? Non ci assomiglia certo, anzi, è ricco delle virtù che mancano all' uomo d' oggi, triste, vincolato ed affaticato. Ci è vicino come un modello, per il suo spirito allegramente curioso, per il suo scetticismo bonario, per la sua fede nel domani e nell' uomo; ed ancora per il suo modo di scrivere, così alieno da tipi e regole. Forse si può far risalire a lui, e alla sua abbazia di Telema, quella maniera oggi trionfante attraverso a Sterne e Joyce di "scrivere come ti pare", senza codici né precetti, seguendo il filo della fantasia così come si snoda per spontanea esigenza, diversa e sorprendente ad ogni svolta come una processione di carnevale. Ci è vicino, principalmente, perché in questo smisurato pittore di gioie terrene si percepisce la consapevolezza permanente, ferma, maturata attraverso molte esperienze, che la vita non è tutta qui. In tutta la sua opera sarebbe difficile trovare una sola pagina melanconica, eppure Rabelais conosce la miseria umana; la t ace perché, buon medico anche quando scrive, non l' accetta, la vuole guarire

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Con tutto questo, non ho ancora dimostrato che "Tartarin de Tarascon" sia un brutto libro: ma lo è, sotto qualsiasi angolo lo si voglia considerare; non credo che al mio giudizio negativo abbia contribuito il fenomeno spesso osservato, per cui i libri letti per obbligo scolastico (e si tratta di solito, purtroppo, delle opere più alte che ingegno umano abbia create) ne risultano permanentemente scoloriti, o addirittura intossicati e illeggibili. È brutto quasi per intero, quasi ad ogni pagina; se dovessi salvarne qualcuna, per una non necessaria antologia, non avrei dubbi: la descrizione del porto di Marsiglia, che è visto con occhio alacre e vivo e delineato senza lungaggini, con inconsueta disinvoltura, e il curioso e rapido incontro col cacciatore "vero", col Signor Bombonnel, l' unico personaggio dignitoso del libro (ma non resta in scena che pochi minuti). Per tutto il resto, la stesura è stracca, priva di nervo e di fantasia: Algeri e l' Algeria sono di seconda mano, tutte le figure umane sono cartacee, le avventure dello sfortunato cacciatore si ripetono nel giro di duecento pagine. E quegli sciatti e logori attacchi di periodo! "Per esempio", "Figuratevi", "Immaginate" (il lettore non deve mai immaginare nulla: spetta allo scrittore obbligarlo ad immaginarsi), "Inutile dirvi", "Oh stupore"; ed una profusione di puntini di sospensione. Eppure siamo in Francia, e negli anni di Flaubert e di Zola: "Tartarin de Tarascon" è gemello di "L' éducation sentimentale". Né si può addurre ad attenuante il carattere umoristico dell' opera. La sua comicità sta tutta nelle prime pagine e nell' assunto, e decade rapidamente quando dalla descrizione si procede alla narrazione. Non c' è una sola scena che inviti al riso aperto, liberatore; anzi, intorno a Tartarino (è forse questa la maggior sorpresa di questa rilettura) si vede addensarsi una sempre più cupa aura di fallimento, di naufragio ultimo, di frustrazione; vien fatto di pensare che, se Daudet avesse preso coscienza di questa vocazione tragica del suo uomo, invece di ostinarsi a vedere in lui un comico miles gloriosus, avremmo avuto un libro diverso e migliore.

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I giochi qui descritti, benché osservati in tutta l' Europa ed anche fuori di essa, sono familiari a ogni italiano che abbia o abbia avuto figli, o abbia contatto coi bambini, o anche solo conservi qualche memoria della sua propria infanzia. Con nomi ovviamente diversi, ma con cerimoniali stranamente simili, ritroviamo nelle loro molte varianti il "giocare a prendersi" e "a nascondersi", "liberi tutti", "guardie e ladri", e fino a questo punto non c' è nulla di molto strano; questi giochi sono razionali: riproducono le situazioni e le emozioni della caccia e dell' agguato, ed è probabile che le loro radici giacciano profonde nella nostra eredità di mammiferi cacciatori, sociali e litigiosi. Anche i cuccioli di cane e di gatto, benché appartengano a razze addomesticate da millenni, riproducono nei loro giochi i rituali della caccia e della lotta. È invece difficile spiegarsi perché giochi o cerimoniali astratti, apparentemente privi di significato utilitario, si ritrovino pressoché uguali in paesi molto lontani fra loro. Un esempio è il gioco ben noto dei "quattro cantoni", che non è razionale. Non c' è ragione che i quattro giocatori che occupano i cantoni non se ne restino indefinitamente ai loro posti, in modo che il bambino che riveste lo sgradevole ruolo di essere "sotto" rimanga "sotto" a oltranza. Eppure, da secoli a questa parte (il gioco è attestato fin dal 1600), e in buona parte del mondo, il rituale è lo stesso, come se, invece che di un gioco, si trattasse di una cerimonia religiosa. Lo stesso si può dire del gioco grazioso ma (per un adulto) irritante che in Italia si chiama "regina reginella". Per chi non lo ricordasse, la "reginella" sta a un capo del campo, e di fronte a lei (o a lui), allineati e ad una distanza di dieci o venti metri, stanno gli altri giocatori. Ognuno di questi, a turno, chiede alla regina quanti passi deve fare per arrivare "al suo castello", e la regina risponde nel modo più capriccioso, ma seguendo un lessico tradizionale, che i passi sono ad esempio quattro del gigante, o sei del leone, o cinque della formica, o addirittura dieci del gambero; in questo ultimo caso il giocatore-vittima è tenuto a retrocedere. Come si vede, il gioco non potrebbe essere più unfair: si tratta, in sostanza, di una versione infantile ed astemia della passatella. Vince, e cioè arriva al castello, sempre e solo il bambino che la regina ha voluto favorire; diventato a sua volta regina, renderà il favore alla regina di prima, secondo uno sgradevole galateo mafioso. Non resta alcuno spazio per l' iniziativa, l' intelligenza, la forza o l' abilità dei giocatori; a dispetto di tutto questo, il gioco è diffuso in molti paesi con poche varianti (ma singolari: nelle isole britanniche gli Opie hanno registrato, fra l' altro, anche il passo del bruco, il passo a buccia di banana e il passo dell' inaffiatoio; quest' ultimo consiste nello sputare più lontano che si può e nel fermarsi dove lo sputo è arrivato). In quasi tutti i giochi "a prendersi" è previsto un santuario (designato con vari nomi: da noi è "il tocco") in cui l' inseguito è immune dalla cattura; popolarissima è la variante che in Italia si chiama "rialzo" e quarant' anni fa si chiamava "portinària", che in Francia è "le chat perché", ed in Inghilterra "off-ground-he", cioè "via-da-terra-lui": per inciso, "he" (lui) o "it" (esso) è il giocatore che noi diciamo essere "sotto". In questa versione, l' immunità si acquista semplicemente salendo su qualunque superficie che sporga al di sopra del livello del suolo. "Rialzo" è noto in tutto il mondo. Altrettanto internazionali sono i rituali che precedono l' inizio di qualsiasi gioco. Essi consistono in generale in un sorteggio che deve designare il giocatore o i giocatori che sono "sotto", cioè che assumono la funzione meno gradita in ogni singolo gioco, ma ad un sorteggio equo, ad esempio col sistema della paglia più corta, si ricorre raramente. Diffusa ed equa, ma macchinosa in quanto consente solo lo spareggio fra due giocatori, è la cosiddetta (in Europa) "morra cinese", che do per conosciuta; in quasi tutti i paesi i tre segni della mano indicano la pietra, la forbice e la carta, e la giustificazione del perché ogni segno batta circolarmente il successivo è la stessa. Ancora per inciso: non trovo registrato dai diligentissimi coniugi Opie un tipo di spareggio che ho visto praticare in Piemonte; i due contendenti si dichiarano rispettivamente per il pari e per il dispari, ma poi, invece di ricorrere alla morra classica, uno dei due si pizzica il dorso della mano sinistra; vince quello dei due che ha previsto il numero, pari o dispari, delle grinze che la pelle viene a formare. Gli Opie hanno dedicato poca attenzione anche al grido di tregua, usato dappertutto per chiedere o imporre un armistizio nei giochi di competizione: si limitano a dire che nelle isole Britanniche si grida "Barley!" ("orzo"), senza indagare sulle origini del curioso termine. In Italia ed oggi, a quanto mi risulta, si grida "Alimorta!", di ovvio significato, e "Aliviva!" per riprendere il gioco. Cinquanta o sessanta anni fa, in Piemonte (non so se anche altrove) si gridava "Marsa!" Propongo un quesito all' eventuale lettore che provi appetito per questa antropologia minore: "marsa", in arabo, è il porto, d' onde Marsala, Marsa Matruh ed altri toponimi; è probabile che valga anche "riparo, asilo". Può essere questa l' origine del segnale, che verrebbe quindi dal Sud? Per accertarlo, bisognerebbe che gli anziani che nell' infanzia hanno giocato a rimpiattino in Sicilia si sforzassero di ricordare come si chiedeva tregua al loro tempo ed al loro paese. Li prego di farlo. Ad onta dei sistemi più sbrigativi ed equi che è facile immaginare, e che infatti sono stati immaginati, il sorteggio più popolare in tutto il mondo è quello della conta, e qui il discorso si fa interessante. Credo che ognuno ricordi almeno una o due delle "contine" che ha usato o sentito usare da bambino. Si tratta di cantilene ritmate, generalmente con quattro forti accenti per ogni verso; gli Opie, sfruttando anche altre raccolte precedenti, ne hanno registrate più di duecento, in tutta l' Europa e nei paesi di lingua inglese. Alcune, le più recenti, sono "razionalizzate" ed hanno un senso più o meno compiuto, ma è evidente che sono preferite le più antiche, e queste sono puri abracadabra. Ciò non ostante, vi si possono riconoscere alcuni filoni internazionali, non più di quattro o cinque: il ritmo, e spesso la rima, si conservano immutati, mentre le parole vengono distorte secondo lo spirito della lingua del luogo. È chiaro che sullo scopo utilitario del sorteggio prevale il carattere rituale, in cui il senso delle parole non ha importanza (quante proteste ha sollevato la decisione della Chiesa di sopprimere il latino dalla Messa!), mentre ne ha molta il ripetere gesti e parole che, essendo magici, devono essere sentiti come "sibillini". Si tratta dunque di parole ridotte a puro suono, e questo giustifica le difficoltà che si incontrano nel cercarne l' origine. Per uno dei filoni sopra accennati, essa tuttavia è stata trovata: benché le "contine" di questo filone siano diffuse in tutto l' ex impero britannico, la loro origine non è inglese, bensì gallese, e non riproduce l' antica parlata gallese oggi quasi scomparsa, ma la serie dei numerali, probabilmente preceltica, che usavano in tempi remoti i mandriani del Galles unicamente per contare i capi di bestiame. A quanto pare, usavano quella, e non la numerazione ordinaria, a scopo apotropaico, affinché cioè gli spiriti del male non comprendessero, e non sottraessero alla mandria alcuna bestia, rubandola o facendola ammalare. È evidente che queste "contine" devono il loro successo proprio alla loro secolare incomprensibilità. Una storia simile, ma più moderna, è stata ricostruita da una studiosa italiana, Matizia Maroni Lumbroso. Aveva imparato da bambina, a Viareggio, questa "contina": "Inimìni mani mo, chissanìa baistò, effiala retingò, inimìni mani mo"; molti anni dopo venne a sapere che si trattava di una "contina" inglese ("Eeny meeny miny mo, catch a nigger by his toe, if he hollers let him go, eeny meeny miny mo"), e che essa era stata insegnata a un piccolo gruppo di bambini italiani da un' anziana signora inglese. La "contina" aveva prontamente attecchito, e non escludo che circoli ancora oggi, proprio perché agli orecchi italiani era priva di senso, e quindi profondamente suggestiva. Del resto, anche in inglese hanno una parvenza di senso solo il secondo e il terzo verso: " ... prendi un negro per l' alluce, se grida lascialo andare". Il resto è puro incantesimo. In conclusione, non solo le strane "contine" si usano dappertutto, ma dappertutto si usano su per giù le stesse "contine". Sarebbe sbrigativo concludere che le "contine", e più in generale i giochi spontanei, sono internazionali perché "i bambini sono uguali in tutto il mondo". Perché lo sono? Il loro giocare è lo stesso dappertutto perché nasce da un' eredità biologica, perché riproduce un loro (e nostro) innato bisogno di una norma? O i loro giochi sono spontanei solo in apparenza, e di fatto riproducono in simbolo, in caricatura) i "giochi" degli adulti? Resta il fatto che le frontiere politiche sono impervie alle nostre culture verbali, mentre la civiltà del gioco, sostanzialmente non verbale, le attraversa con la libertà felice del vento e delle nuvole.

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Haldane, al tempo in cui era un marxista convinto (e cioè prima che lo scandalo di Lysenko facesse vacillare alcune sue sicurezze) ad un ecclesiastico che gli domandava quale fosse la sua concezione di Dio abbia risposto: "He is inordinately fond of beetles", "ha un entusiasmo inconsulto per gli scarabei". Immagino che Haldane, col termine generico di beetles, volesse alludere ai coleotteri, ed in questo caso non si può che dargli ragione: per motivi che conosciamo male, questo "modello", pur entro la classe così multiforme degli insetti, numera da solo almeno 350000 specie ufficialmente catalogate, e nuove specie vengono continuamente scoperte. Poiché molti ambienti e molte aree geografiche non sono ancora stati esplorati dagli specialisti, si calcola che esistano attualmente un milione e mezzo di specie di coleotteri: ora, noi mammiferi, col nostro orgoglio di coronamento della creazione, non contiamo più di 5000 specie; difficilmente se ne scoprirà qualche decina di nuove, mentre molte specie esistenti vanno rapidamente estinguendosi. Eppure, l' invenzione dei coleotteri non sembra poi così innovativa: consiste "soltanto" nell' aver mutato destinazione al paio anteriore di ali. Non sono più ali ma elitre: sono ispessite e robuste, e fungono unicamente da protezione per le ali posteriori, membranose e delicate. Chi ricordi il meticoloso cerimoniale con cui una coccinella o un maggiolino si preparano al volo, e l' abbia confrontato con il decollo fulmineo ed orientato di una mosca, si sarà accorto che per la maggior parte dei coleotteri il volo stesso non è un modo per sfuggire a un' aggressione, ma piuttosto un sistema di trasporto a cui l' insetto ricorre solo per grandi spostamenti: un po' come uno di noi che, per prendere un aereo, si adatta ad acquistare il biglietto, a fare il check-in, ed a sottoporsi alla lunga attesa in aeroporto. La coccinella socchiude le elitre, armeggia per districare le ali, infine le distende, solleva le elitre obliquamente, ed inizia il suo volo, non agile né veloce. Pare se ne debba concludere che per una buona corazzatura si può pagare un prezzo alto. Ma la corazza dei coleotteri è una struttura ammirevole: da ammirarsi, purtroppo, solo nelle vetrine dei musei zoologici. È un capolavoro di ingegneria naturale, e ricorda le armature di tutto ferro dei guerrieri medioevali. È senza lacune: capo collo torace e addome, pur senza essere saldati, formano un tozzo blocco pressoché invulnerabile, le tenui antenne possono essere retratte in scanalature, ed anche le articolazioni delle zampe sono protette da risalti che ricordano gli schinieri dell' Iliade. La somiglianza fra uno scarabeo che avanza scartando l' erba, lento e possente, e un carro armato, è tale da far subito sorgere in mente una metafora nei due sensi: l' insetto è un piccolo panzer, il panzer è un enorme insetto. E il dorso dello scarabeo è araldico: convesso o piatto, opaco o rilucente, è uno stemma nobiliare: anche se il suo aspetto non ha alcun rapporto simbolico con il "mestiere" del suo titolare, cioè col suo modo di sfuggire agli aggressori, di riprodursi e di alimentarsi. Qui veramente la "fondness" dell' Eterno per gli scarabei ha scatenato tutta la sua fantasia. Non c' è materiale organico, vivente o morto o decomposto, che non abbia trovato un amatore fra i coleotteri. Molti sono onnivori, altri si nutrono a spese di una sola specie animale o vegetale. Ce ne sono che mangiano esclusivamente chiocciole, ed hanno fatto di se stessi uno strumento adatto allo scopo: sono siringhe viventi, hanno l' addome voluminoso, ma il capo e il torace sono di forma allungata e penetrante. Si piantano nel corpo molle della vittima, vi iniettano succhi digestivi, attendono che i tessuti si disgreghino, e poi li aspirano. Le bellissime cetonie (care a Gozzano: "Disperate cetonie capovolte", uno dei più bei versi che siano mai stati composti nella nostra lingua) si nutrono solo di rose, e i non meno belli scarabei sacri, solo di escrementi bovini: il maschio ne confeziona una pallina, l' afferra fra i tarsi posteriori come tra due perni, e parte a marcia indietro spingendola e facendola rotolare, finché trova un terreno adatto a seppellirla: allora entra in scena la femmina, e vi depone un solo uovo. La larva si nutrirà del materiale (ormai non più ignobile) a cui la coppia previdente ha dedicato tanta fatica, e dopo la muta emergerà dalla tomba un nuovo scarabeo: anzi, secondo alcuni antichi osservatori, lo stesso di prima, risorto dalla morte come la Fenice. Altri scarabei si trovano nelle acque lente o stagnanti. Sono nuotatori splendidi: alcuni, chissà perché, nuotano a cerchi stretti o in spirali complicate, altri puntano in linea retta verso un' invisibile preda. Nessuno di questi ha però perduto la facoltà di volare, perché spesso la necessità li spinge ad abbandonare uno stagno che si è disseccato per trovare un altro specchio d' acqua, magari molto lontano. Una volta, viaggiando a notte su un' autostrada illuminata dalla luna, ho sentito i vetri e il tetto dell' auto bombardati come dalla grandine: era uno sciame di ditischi, lucidi, bruni ed orlati di arancio, grossi come una mezza noce, che avevano scambiato l' asfalto della strada per un fiume, e tentavano invano di ammararvi. Questi scarabei, per ragioni idrodinamiche, hanno raggiunto una compattezza e semplicità di forme che credo unica nel regno animale: visti dal dorso, sono ellissi perfette, da cui sporgono solo le zampe mutate in remi. Anche nell' eludere i pericoli e le aggressioni questi insetti "le trovano tutte". Alcune specie esotiche, grandi quanto una fava, sono dotate di una forza muscolare incredibile. Se racchiusi nella mano, si forzano la via d' uscita tra le dita; se ingoiati da un rospo (per errore! ma i rospi inghiottono ogni piccolo oggetto che vedano muoversi in linea orizzontale), non seguono la strategia di Giona ingoiato dalla balena né quella di Pinocchio e Geppetto nel ventre del Pescecane, ma semplicemente, forti delle zampe anteriori adattate a smuovere il terreno, si scavano la via di uscita attraverso il corpo dell' aggressore. Altre fughe singolari sono quelle degli elateridi, eleganti scarabei nostrani dal corpo allungato. Se presi in mano, o comunque disturbati, ripiegano zampe ed antenne e si fingono morti; ma dopo un minuto o due si sente un clic improvviso, e l' insetto scatta in aria. Per questo breve balzo, fatto per sconcertare gli aggressori, non usa le zampe: ha elaborato un curioso sistema di tensione e scatto. Nella posizione di finta morte, torace e addome non sono allineati, ma formano un piccolo angolo: si raddrizzano di colpo quando si allenta una sorta di nottolino, e l' elateride non c' è più. La luce fredda delle lucciole (sono coleotteri anche loro) non mira alla difesa, serve bensì a facilitare l' accoppiamento. È anche questa una invenzione unica fra gli animali che non vivono nell' acqua; ma ci sono superlucciole di specie diversa, le cui femmine imitano la luce ferma delle femmine delle lucciole propriamente dette, attirandone così i maschi e divorandoli appena si posano loro accanto. Da tutti questi comportamenti si ricavano impressioni complesse: stupore, curiosità, ammirazione, orrore, riso. Ma mi pare che predomini su tutte la sensazione dell' estraneità: queste piccole fortezze volanti, queste macchinette portentose i cui istinti sono programmati da cento milioni di anni, non hanno nulla a che vedere con noi, rappresentano una soluzione totalmente diversa del problema del sopravvivere. In qualche misura, o anche solo simbolicamente, noi umani ci riconosciamo nelle strutture sociali delle formiche e delle api; nell' industria del ragno; nella danza delle farfalle: ma ai beetles, veramente, non ci lega nulla, neppure le cure parentali, poiché fra i coleotteri è rarissimo che una madre (e tanto meno un padre) veda la prole prima di morire. Sono loro i diversi, gli alieni, i mostri. Non è scelta a caso l' atroce allucinazione di Kafka, il cui commesso viaggiatore Gregorio, "svegliandosi una mattina da sogni agitati", si trova mutato in un enorme scarabeo, talmente disumano che nessuno della famiglia ne può tollerare la presenza. Ebbene: questi diversi hanno dimostrato mirabili capacità di adattamento a tutti i climi, hanno colonizzato tutte le nicchie ecologiche e mangiano tutto: alcuni perforano perfino il piombo e la stagnola. Hanno elaborato una corazza di straordinaria resistenza agli urti, alla compressione, agli agenti chimici, alle radiazioni. Alcuni fra loro scavano nel suolo rifugi profondi metri. Nel caso di una catastrofe nucleare, sarebbero i migliori candidati alla nostra successione (non gli stercorari, per mancanza di materia prima). Oltre a tutto, la loro tecnologia è ingegnosa ma rudimentale ed istintiva; da quando il pianeta sarà loro, dovranno ancora passare molti milioni di anni prima che un beetle particolarmente amato da Dio, al termine dei suoi calcoli, trovi scritto sul foglio, in lettere di fuoco, che l' energia è pari alla massa moltiplicata per il quadrato della velocità della luce. I nuovi re del mondo vivranno tranquilli a lungo, limitandosi a divorarsi e a parassitarsi fra loro su scala artigianale.

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Il primo segreto è il riposo nel cassetto, e credo che abbia valore generale. Fra la prima stesura e quella definitiva, deve passare qualche giorno; per ragioni che ignoro, per un certo tempo l' occhio di chi scrive è poco sensibile al testo recente. Bisogna, per così dire, che l' inchiostro si sia asciugato bene; prima, i difetti sfuggono: ripetizioni, lacune logiche, improprietà, stonature. Un ottimo surrogato al riposo può essere costituito da un lettore-cavia, dotato di buon senso e buon gusto, non troppo indulgente: il / la coniuge, un amico / _a. Non un altro scrittore: uno scrittore non è un lettore tipo, ha sue preferenze e fisime peculiari, davanti a un testo brutto è sprezzante, davanti a uno bello è invidioso. A questo precetto del riposo sto contravvenendo in questo stesso momento, perché appena scritta questa lettera la imposterò; così Lei potrà verificarne la validità. Dopo la maturazione, che assimila uno scritto al vino, ai profumi ed alle nespole, viene l' ora di cavare dal pieno. Quasi sempre ci si accorge che si è peccato per eccesso, che il testo è ridondante, ripetitivo, prolisso: o almeno, ripeto, così capita a me. Inguaribilmente, nella prima stesura io mi indirizzo ad un lettore ottuso, a cui bisogna martellare i concetti in testa. Dopo lo smagrimento, lo scritto è più agile: si avvicina a quello che, più o meno consapevolmente, è il mio traguardo, quello del massimo di informazione con il minimo ingombro. Noti che al massimo di informazione si può arrivare per diverse vie, alcune abbastanza sottili; una, fondamentale, è la scelta tra i sinonimi, che quasi mai sono equivalenti fra loro. Ce n' è sempre uno che è "più giusto" degli altri: ma spesso bisogna andarlo a cercare, a seconda del contesto, nel vecchio Tommaseo, o fra i neologismi del Nuovo Zingarelli, o fra i barbarismi stupidamente vietati dai tradizionalisti, o addirittura fra i termini di altre lingue; se il termine italiano manca, perché fare acrobazie? In questa ricerca, mi pare che sia importante mantenere viva la consapevolezza del significato originario di ogni vocabolo; se Lei ricorda ad esempio che "scatenare" voleva dire "liberare dalle catene", potrà usare il termine in modo più appropriato ed in sensi meno frusti. Non tutti i lettori si accorgeranno dell' artificio, ma tutti percepiranno almeno che la scelta non è stata ovvia, che Lei ha lavorato per loro, che non ha seguito la linea della massima pendenza. Dopo novant' anni di psicoanalisi, e di tentativi riusciti o falliti di travasare direttamente l' inconscio sulla pagina, io provo un bisogno acuto di chiarezza e razionalità, e credo che la maggior parte dei lettori la pensino allo stesso modo. Non è detto che un testo chiaro sia elementare; può avere vari livelli di lettura, ma il livello più basso, secondo me, dovrebbe essere accessibile ad un pubblico vasto. Non abbia paura di fare un torto al Suo es imbavagliandolo, non c' è pericolo, "l' inquilino del piano di sotto" troverà comunque il modo di manifestarsi, perché scrivere è denudarsi: si denuda anche lo scrittore più pulito. Se denudarsi non Le piace, si accontenti del Suo lavoro attuale. Dimenticavo di dirLe che, per scrivere, bisogna avere qualche cosa da scrivere. Gradisca i migliori saluti. Suo Primo Levi

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La ricerca delle radici

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Levi, Primo 2 occorrenze

Il Parini è un caro galantuomo ed un poeta dagli slanci contenuti, onesto arguto e preciso, responsabile di ogni parola che abbia mai scritta. Non credeva che il mestiere di scrivere sollevasse lo scrittore al di sopra del suolo; credeva invece alla poesia come strumento per rendere il mondo un po' migliore, ma non penso che nutrisse grandi illusioni. Era uno di quegli uomini che, attraverso i secoli, desidereresti conoscere di persona, frequentare: magari a tavola, di sera, in riva a un lago, bevendo vino vecchio con moderazione. Questa sua rassegna di imbecilli rammolliti rappresenta una classe che è scomparsa, ma un tipo umano che sopravvive.

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Non c' è aspetto dell' animo umano che questo poeta saturnino, ribelle fino all' eversione nei suoi versi, funzionario retrivo nella vita, non abbia ritratto. Soprattutto il sonetto "Se more" mi pare indimenticabile. Riproduce un motivo caro ai romantici, e al Belli in specie: "la pietà, nascosta sotto il riso, per gli esseri inferiori, avviliti, degradati" (G. Vigolo). Anche qui si ricava una severa lezione morale da un capovolgimento: l' uomo, qui, è crudele e stupido "come le bestie", è un balbuziente mentale, incoerente e feroce; l' asino muore una morte da martire.

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La stampa terza pagina 1986

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Levi, Primo 1 occorrenze

Credo che sia stata quella l' unica occasione in cui io abbia commesso deliberatamente un' ingiustizia. L' analisi che io le avrei dovuto insegnare comportava l' uso di una pipetta: sì, una sorella di quelle a cui dovevo la malattia che mi correva per le vene. Mostrai alla Drechsel come la si usava, inserendola fra le mie labbra febbricitanti; poi gliela porsi, e la invitai a fare altrettanto. Feci insomma quanto potevo per contagiarla. Pochi giorni dopo, mentre io ero ricoverato all' infermeria, il campo fu sciolto nelle tragiche condizioni che sono state più volte descritte. Alberto fu vittima della piccola causa, della scarlattina da cui era guarito bambino. Venne a salutarmi, e poi partì nella notte e nella neve, insieme con altri sessantamila sventurati, per quella marcia mortale da cui pochi tornarono vivi. Io fui salvato, nel modo più imprevedibile, dall' affare delle pipette rubate, che mi avevano procurato una provvidenziale malattia proprio nel momento in cui, paradossalmente, non poter camminare era una fortuna. Infatti, per ragioni mai chiarite, ad Auschwitz i nazisti in fuga si astennero dall' eseguire gli ordini di Berlino, che erano chiari: non lasciarsi dietro nessun testimone. Se ne andarono abbandonando noi ammalati al nostro destino. Di quanto sia avvenuto alla signorina Drechsel, non so nulla. Forse non era colpevole se non di qualche bacetto nazista, e perciò spero che la piccola causa da me pilotata non le abbia arrecato gran danno: a diciassette anni una scarlattina guarisce presto e non lascia postumi. Comunque, non sento rimorsi per questo mio tentativo privato di guerra batteriologica. Ho saputo più tardi che altri, in altri Lager, avevano agito in modo più sistematico e meglio mirato. Là dove infuriava il tifo esantematico, che spesso è mortale e viene trasmesso dai pidocchi delle vesti, le prigioniere addette alla stiratura delle uniformi delle SS andavano in cerca delle compagne morte di tifo, prelevavano i pidocchi dai cadaveri e li infilavano sotto il colletto delle giacche militari. I pidocchi sono animali poco simpatici, ma non hanno pregiudizi razziali.

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Vizio di forma

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Levi, Primo 1 occorrenze

Mi lusinga il pensiero che questa mia lugubre invenzione abbia avuto un effetto retroattivo ed apotropaico. Si rassicuri quindi il lettore: l' acqua, magari inquinata, non diverrà mai viscosa, e tutti i mari conserveranno le loro onde.

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I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Sing-Sing chiuse la porta, gettò un pizzico di polvere di sandalo su un catino d'argento dove bruciavano pochi pezzi di carbone odoroso, offrì ai due europei due sedie di bambù, quindi fatto il giro della stanza come per accertarsi che non vi fosse nessuno, disse: - È qui che da quindici giorni vivo in angosce inenarrabili, quantunque la morte non abbia mai fatto paura ad alcun cinese. Ho fatto mettere delle solide inferriate alle finestre, cambiare tappezzerie e visitare le pareti onde accertarmi che non esistevano passaggi segreti; ho chiuso la mia stanza con una porta che potrebbe resistere anche ad un pezzo d'artiglieria; ho delle armi a portata della mano. Eppure, credete che io mi tenga sicuro? No, perché sento che malgrado tante precauzioni, i bravi della hoè giungeranno egualmente fino a me e che mi colpiranno al cuore. - I bravi della hoè! - esclamò Fedoro impallidendo. - Della "Campana d'argento" - aggiunse Sing-Sing, con un sospiro. - Voi siete affiliato a qualche società segreta? - Tutti i cinesi, quantunque l'imperatore abbia emanato ordini rigorosi e colpisca senza pietà i membri delle società segrete, sono ugualmente affiliati a qualche hoè. Per noi è una necessità e anche un'abitudine prepotente ed io ho fatto come gli altri e come avevano fatto prima i miei avi. Disgraziatamente una sera, dopo un'orgia e dopo aver fumato parecchie pipate d'oppio, preso chissà da quale strano capriccio, mi sono lasciato sfuggire dei segreti che riguardavano la hoè alla quale sono iscritto. Il governo imperiale non ha osato colpire me, ma ha proceduto senz'altro, con rigore feroce, contro la mia società, torturando e dannando alle galere quanti membri aveva potuto acciuffare. Sono stato un miserabile, ed ora toccherà a me pagare il fallo commesso, colla perdita della vita. Sia maledetto l'oppio che mi ha fatto perdere la ragione. - È potente questa società della "Campana d'argento"? - chiese Fedoro, assai preoccupato da quella confessione. - Ha migliaia e migliaia di membri, dispersi in tutti gli angoli di Pechino, perfino entro la città interdetta (la città imperiale). - E hanno saputo che siete stato voi a tradirla? - Purtroppo - rispose il cinese. - E vi hanno condannato? - chiese Rokoff. - Quindici giorni or sono ho trovato sotto il mio capezzale una carta con il sigillo della società, una campana con due pugnali intrecciati sopra e sotto. Mi si avvertiva che entro due settimane, la mano della hoè, mi avrebbe colpito. - Chi aveva messo quella carta? - chiese Fedoro. - Lo ignoro, ma certo qualcuno dei miei servi. - Ve ne sono alcuni affiliati alla "Campana d'argento"? - Sarebbe impossibile saperlo. I membri non si conoscono l'un l'altro ed i soli capi tengono l'elenco dei soci. - Sicché non siete sicuro dei vostri servi. - Anzi io li temo, e da quando ho ricevuto quella carta, non ne ho fatto entrare più nessuno qui, per paura d'un tradimento. - Ignorano il segreto della porta? - chiese Rokoff. - Lo spero - rispose Sing-Sing. - Quanti giorni sono trascorsi? - Quattordici. - E questa notte voi dovreste morire - chiese Fedoro. - Sì. - È già mezzanotte e siete ancora vivo, io credo quindi che la società abbia voluto solamente spaventarvi. Sing-Sing crollò, la testa con un gesto di scoraggiamento. - L'alba non è ancora sorta - disse poi. - Ci siamo noi - disse Rokoff. - Vedremo chi avrà il coraggio di entrare qui. - Eppure sento che l'ora della morte si avvicina. Rokoff e Fedoro, quantunque coraggiosissimi, provarono un brivido. - Bah! - disse poi il primo. - Io credo che nulla accadrà. Signor Sing-Sing, coricatevi, e noi, Fedoro, sediamoci l'uno presso il letto e l'altro presso la porta, colle rivoltelle in mano. Sing-Sing tese loro ambo le mani, dicendo con voce commossa: - Grazie, e se domani sarò ancora vivo, non avrete a pentirvi di questa prova d'amicizia. Signor Fedoro, voi siete venuto per un grosso acquisto di tè. - Ve lo scrissi già. - Cinquecento tonnellate rappresentano una fortuna ed io sarò lieto di offrirvela. - Che dite, Sing-Sing? - Tacete. - Fedoro, - disse Rokoff - tu presso il letto; io vicino alla porta e voi, signore, coricatevi. Il cinese fece un gesto d'addio e si gettò sul letto senza spogliarsi, coprendosi colla coperta di seta azzurra. Rokoff abbassò il lucignolo della lanterna, onde la luce diventasse più fioca, estrasse la rivoltella per accertarsi che era carica, poi appoggiò una sedia contro la porta e si sedette, accendendo una sigaretta. Un profondo silenzio regnava nell'ampio palazzo del ricco cinese e anche nelle vie. La festa delle lanterne era finita e la folla a poco a poco si era sbandata, non essendo i cinesi nottambuli al pari degli europei e degli americani. Rokoff continuava a fumare, tendendo però gli orecchi. Di quando in quando si alzava e guardava ora Fedoro ed ora il cinese per accertarsi che né l'uno né l'altro si fossero addormentati. Quantunque coraggiosissimo, avendo dato prove di valore straordinario nella sanguinosa guerra russo-turca, entrando pel primo in uno dei più formidabili ridotti di Plewna, pure si sentiva a poco a poco invadere da una strana sensazione, che rassomigliava alla paura. Gli pareva di udire talvolta dei rumori misteriosi e di vedere agitarsi, negli angoli più oscuri della stanza, delle ombre silenziose, armate di pugnali e di smisurate scimitarre. Talora invece gli pareva di scorgere, fra la semioscurità, dei draghi volare per la stanza, pronti a piombare su Sing-Sing per dilaniargli il petto. Erano pure fantasie, create dal terrore misterioso che lo invadeva, perché quando si alzava, le visioni scomparivano ed ogni rumore cessava. Vegliava da un'ora, scambiando qualche parola sottovoce con Fedoro o col cinese, quando si sentì prendere da un'improvvisa stanchezza e da un desiderio irresistibile di chiudere gli occhi. Si fregò replicatamente il viso e cercò di alzarsi. Con suo profondo stupore non riuscì a lasciare la sedia. Le gambe gli tremavano, le forze lo abbandonavano e gli pareva che il letto di Sing-Sing e tutti gli altri mobili gli girassero intorno. - Fedoro! - chiamò facendo uno sforzo supremo. - Sing-Sing. Nessuno rispose. Il suo amico si era accasciato sulla sedia come se si fosse addormentato ed il cinese conservava una immobilità perfetta. Un terrore improvviso lo prese. - Che siano morti? - si chiese. Quasi nello stesso momento gli parve di vedere un lembo della parete aprirsi e sbucare fuori delle forme umane armate di pugnali. La visione però non ebbe che la durata d'un lampo, perché senti che le forse lo abbandonavano e che le palpebre si chiudevano irresistibilmente, come se fossero diventate di piombo. . . . . . . . . . . . . . . . Quando si risvegliò, Rokoff si trovò a letto, nella stanza che la sera innanzi gli era stata destinata dal maggiordomo del ricco cinese. Su un altro letto Fedoro dormiva profondamente, senza fare alcun gesto che annunciasse un prossimo risveglio. Il cosacco, stupito, girò intorno un lungo sguardo, non potendo credere ai propri occhi. - Che io abbia sognato? - si chiese Rokoff. - Le società segrete ... le ombre misteriose ... i terrori ... Sì, devo aver fatto un cattivo sogno. A un tratto si slanciò verso il letto di Fedoro, mandando un urlo. Nelle vicine stanze, nei corridoi, sulle verande, aveva udito alzarsi acute grida improntate al più vivo terrore: - L'hanno assassinato! Ah! Povero padrone! L'hanno ucciso! - Fedoro! Svegliati! - urlò. Il russo si era alzato bruscamente, stropicciandosi gli occhi. Vedendo Rokoff fermo dinanzi al letto, col viso sconvolto e gli occhi strabuzzati, fece un gesto di meraviglia. - Che cos'hai? Poi, prima che l'amico potesse rispondergli, gli sfuggì un grido. - E Sing-Sing? - Ucciso! Lo hanno ucciso! - disse Rokoff facendo un gesto disperato. - Sing-Sing morto! Ah! Ma dove siamo noi? ... Ieri sera non eravamo in questa stanza! ... Rokoff! Che cosa è successo? Chi ci ha portati qui? - Non so ... non so nulla ... è tutto un mistero inesplicabile ... Vieni ... usciamo ... l'hanno ucciso Le grida, i pianti, i singhiozzi della numerosa servitù del ricco cinese, echeggiavano dovunque. Fedoro e Rokoff, non essendo stati spogliati dai misteriosi nemici che li avevano trasportati in quella stanza, approfittando dell'inesplicabile sonno che li aveva colpiti, si slanciarono verso la porta. Nel corridoio s'incontrarono col maggiordomo, il quale singhiozzava. - È vero che è morto il tuo padrone? - chiese Fedoro, afferrandolo per le braccia. - Sì, signore ... assassinato ... assassinato! - E i suoi uccisori? - Scomparsi. - E non sai dirmi chi ci ha trasportati qui, mentre eravamo col tuo padrone? Il maggiordomo li guardò con sorpresa. - Voi ... col padrone! - esclamò. - Eravamo nella sua stanza per vegliare su di lui e ci siamo svegliati in questa, sui nostri letti. - È impossibile! ... Voi avete sognato! - Andiamo da Sing-Sing - disse Rokoff. - A più tardi le spiegazioni. Preceduti dal maggiordomo, il quale pareva inebetito, entrarono nella stanza del ricco cinese, che era guardata da quattro servi. Sing-Sing giaceva sul letto, cogli occhi sbarrati esprimenti un terrore impossibile a descriversi, colle labbra aperte e lorde d'una schiuma sanguigna, colle braccia penzolanti. Una macchia di sangue si era allargata sopra la ricca casacca in direzione del cuore e altro sangue si vedeva sulle lenzuola di seta bianca. - Morto! - esclamò Rokoff, indietreggiando. Fedoro si curvò sull'assassinato, aprì la casacca, strappò la camicia e mise allo scoperto il petto. Una ferita, che pareva prodotta da un pugnale triangolare, a margini taglienti, si vedeva dal lato sinistro, un po' sotto la mammella. Il colpo, vibrato da una mano robusta e sicura, doveva aver spaccato il cuore del povero cinese e la morte era stata certo fulminante. - I miserabili hanno mantenuto la parola! - esclamò. - E da dove sono entrati? Rokoff, non eri appoggiato contro la porta tu? - Sì - rispose il giovine. - Non l'hai udita aprirsi? - No, almeno fino a che ero sveglio. - Ah! Sì, mi ricordo che un sonno irresistibile mi aveva preso. Anche tu? - Sì, Fedoro, ma prima di chiudere gli occhi ho veduto un lembo della parete aprirsi ed entrare degli uomini. - E non hai fatto fuoco? - Mi è mancato il tempo; un momento dopo cadevo addormentato. - Allora ci hanno dato qualche narcotico per ridurci all'impotenza! - E chi? Io non avevo bevuto nulla dopo il banchetto - disse Rokoff. - Prima di addormentarti non hai notato alcun che di straordinario? - Assolutamente nulla. - Non hai avvertito alcun odore? - Non mi parve. - Devono aver bruciato qualche sostanza per farci addormentare. - Lo credi? - Ne sono certo - rispose Fedoro. - Eppure prima non ho veduto entrare nessuno. - Da qual parte si sono introdotti quegli uomini? - Da quella - rispose Rokoff, indicando un angolo della stanza. - Stavo per addormentarmi, eppure ho veduto aprirsi una porta o qualche cosa di simile. Fedoro si recò a visitare la parete battendola col calcio della rivoltella e udì un suono sordo che non annunciava di certo che al di là ci fosse un vuoto. - È strano! - disse. - Eppure tu li hai veduti entrare per di qui? - Sì, me lo ricordo. - E non vedo alcuna traccia sulla tappezzeria; tuttavia non mi stupisco. Questi cinesi hanno inventato mille segreti. Dov'è il maggiordomo? - Eccomi, signore - rispose il cinese, il quale stava ritto accanto al letto, piangendo silenziosamente. - Sono devoti i servi di questa casa? - Lo credo, signore. - Sono affiliati a qualche società? - Non potrei dirvelo, perché nessuno lo direbbe, anche se sottoposto alla tortura. - Chi è stato il primo ad accorgersi del delitto? - Io - rispose il maggiordomo. - Ogni mattina premo il bottone d'un campanello elettrico per svegliare il mio padrone. Stamane feci come il solito, e non ricevendo risposta, né udendo alcun rumore, mi nacque il sospetto che fosse accaduta qualche disgrazia. Fatta abbattere la porta, ho trovato il mio signore assassinato. - Era ben chiusa? - chiese Fedoro. - E per di dentro. - Non vi era alcuna traccia che fosse stata forzata? - Nessuna, signore. - Sapevi che noi eravamo chiusi qui col tuo padrone? - Lo ignoravo, e poi ... come spiegare questo mistero? Voi vi siete svegliati proprio nella stanza che io stesso vi ho assegnata per espresso ordine del mio padrone. - Ti dico che eravamo qui. Chi può averci trasportati in quella stanza? - Ne siete certo, signore? - chiese il maggiordomo con accento alquanto incredulo. - Sì, noi eravamo qui. - Se la porta era chiusa! - Eppure non abbiamo sognato. Il tuo padrone aveva paura di venire assassinato e ci aveva pregati di tenergli compagnia. - E vi siete svegliati nella vostra stanza? Oh! - Ci hai ben veduti uscire. - È vero - disse il cinese, il cui stupore non aveva più limiti. Poi, come fosse stato colpito da un improvviso pensiero, chiese: - Voi avete veduto il mio padrone toccare la molla segreta che doveva aprire la porta? - Eravamo assieme a lui - rispose Fedoro. Il viso del maggiordomo si fece oscuro ed i suoi occhi si fissarono sul russo. - Ah - disse poi. - Che cos'hai? - chiese Fedoro con inquietuline. - Dico che se conoscevate il segreto della molla, potevate anche uscire e tornare nella vostra stanza. - Tu oseresti sospettare di noi? - Non è a me che tocca indagare su questo affare misterioso, - disse il cinese con voce lenta - bensì ai magistrati della giustizia. Ecco la polizia: sbrigatevela come meglio potete.

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

682525
Serao, Matilde 1 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Questa è opera civile questa è opera bella, anche se confini troppo con la reclame industriale, anche se abbia troppo l'aria di una speculazione, anche se tenda a trasformare sempre più in un enorme Palace , tutta la Napoli che sale, laggiù, dal mare sino alle colline fiorite di Posillipo e del Vomero! Quel che si è fatto a Nizza e a Montecarlo, ha formato la fortuna di tutta la Cornice da Mentone a Hyères quel che si è fatto al Cairo, ha formato la fortuna di tutto l'Egitto: sia, sia, questa opera buona, questa opera santa, e in questo paese così bello e così povero, così affascinante e così pieno di miseria, in questo paese così delizioso e dove si muore di fame, in questo paese dall'incanto indicibile, si dia alla industria del forestiero la forma larga, felice, fortunata, che porti, a Napoli, il solo modo di far vivere centinaia di migliaia di persone! Ma si permetta a un'anima solitaria e ardente di passione, pel suo paese, come è la mia, di chiedere una parte di tutto questo, una povera, piccola parte per migliorare le condizioni igieniche e morali del popolo napoletano. Non si chiedono milioni, poichè i milioni hanno fatto fiasco nell'opera del Risanamento, e nessuno, naturalmente, vuol dare più milioni, quando i primi sono stati spesi male o perduti, per fatalità quasi che una mano misteriosa perseguitasse questo buon popolo nostro. Si chiedono, in nome di quel Dio giusto che volle fossero accolti tutti i poveri, nel suo nome, povero e vagabondo egli medesimo, sulla terra, che alla redenzione fisica e spirituale dei poveri un po' di attenzione, un po' di denaro, un po' di cura sia dedicata da coloro che debbono e possono fare questo! Tutto deve esser fatto con modeste ma tenaci idee di bene, con semplici ma ostinati rimedii, con umili ma costanti intenzioni di giovare. Bando alla rettorica sociale, bando alla rettorica industriale, bando alla rettorica amministrativa, quella che viene dal Comune, la peggior rettorica perchè guasta quanto di pratico, di utile, di buono si potrebbe fare, dagli edili nostri. Perchè dunque non si obbligano la società dei nuovi quartieri al Vasto, all'Arenaccia, al Quartiere Orientale, di ridurre al minimo possibile le pigioni, in modo che le case fatte pel popolo siano abitate proprio da esso e non dalla piccola borghesia, in modo che ogni stanza non costi più di nove o dieci lire e non vi possano per regolamento stare più di due o tre persone, quando vi sono bimbi? Si tenti questo! E se ciò non basta, in tutte le nuove costruzioni sia nei quartieri popolari sia nei quartieri più aristocratici, perchè non si obbligano, con legge, con regolamento, ad avere un piano dei loro palazzi, l'ultimo, fatto in modo che la gente del popolo vi possa abitare, avendo delle stanze, delle soffitte, ciò che si chiama il suppenno che non costino, appunto, più di nove o dieci lire al mese ogni stanza? E se qualche società ancora, qui, vuol costruire sulle colline, o sulla spiaggia, verso la ferrovia o verso il mare, perchè non la si obbliga, per legge o per regolamento, se vuole tale concessione, a costruire al quarto o al quinto piano, tali stanze, a cui si accederebbe dalle scale di servizio? E nei conventi che il Municipio oramai possiede in gran numero, da cui sono state discacciate tante sventurate monache perchè albergano solo dei grandi elettori o dei servitori di consiglieri comunali? Perchè, poichè le povere monacelle furono buttate fuori alla strada, alla miseria e alla morte, non si fa una spesa, una santa spesa per pulire, per restaurare, questi numerosi monasteri e non si affittano, quelle stanze, diventate nette e salubri al popolo napoletano? Un poco di questo denaro che dovrebbe servire, per chiamar qui gente, dall'Europa e dalle Americhe, pochissimo di questo denaro dedicarlo, saviamente, mitemente ma costantemente, a creare delle modicissime, modestissime non case, ma stanze, stanze per il popolo! E qualcuno di quei vividi lampioni a gas che splendono nel Rione della Beltà, perchè non metterlo laggiù, anche meno splendido, ma lampione, ma acceso, dietro il paravento, dietro i famosi palazzi del Rettifilo, alle cui spalle, nella notte, si ruba, si commettono infamie e si uccide, nelle tenebre profonde e paurose? Perchè non dare un poco di luce, proprio un poco, perchè non si possa più nè rubare nè uccidere, almeno in alcune di quelle vie? Non è un dovere stretto, rigoroso, di qualunque municipio, di dare la luce, di sera, di notte, ai cittadini? Questo rigorosissimo dovere, perchè non si compie, in favore del popolo napoletano, dai due lati del Rettifilo, da Porto a Pendino a Mercato a Vicaria? L'idea semplice: qualche lampione, o edili nostri! E di questa schietta fresca, spumante acqua di Serino, vanto di Napoli, salvazione di Napoli, lavacro interiore, lavacro esteriore perchè laggiù, dietro il paravento, non vi è, pare, neanche la conduttura? Questo supremo beneficio che tanto è costato non era, non deve essere fatto solamente per il volto e per il ventricolo dei ricchi, forestieri, o non forestieri, dei borghesi, piccoli o grandi, ma chi lo volle, questo beneficio profondo dell'acqua, lo volle soprattutto per il popolo e il popolo non lo ha, dietro il Rettifilo, non lo ha, o lo ha scarsissimo e beve e si lava nell'acqua verminosa dei pozzi e delle cisterne: e in un modo qualunque, provvisorio, semi provvisorio, definitivo, come meglio si può, bisogna darla, darla questa buona acqua ai quartieri popolari e non servirsene solo per innaffiare la passeggiata di via Caracciolo! E qualcuno di quegli spazzini che dovrebbero rendere nitido come il cristallo il rione della Beltà, dopo aver spazzato questo rione, discenda dove non è mai stato, dove non si spazza mai, e scrosti, tenti di scrostare il sudiciume annoso, e trasporti via, oggi superficialmente, domani meglio, fra un mese completamente, i cumuli invecchiati e putridi d'immondizie. Vi sia un piccolo, piccolo servizio di spazzamento, laggiù, appaia la scopa, appaia il carretto, si compia il dovere oscuro ma preciso di nettare le vie, alla meglio, come si può, ma in qualche modo, ma ogni giorno! E qualcuno di quei gloriosi militi municipali che debbono tener lontani i pezzenti, i mendicanti, i fiorai, per non seccare gli stranieri della Riviera e del Chiatamone, penetri, penetri laggiù, e applichi le leggi di polizia urbana, laggiù ove non vi è traccia di tutto questo, laggiù ove ognuno fa quello che vuole, perchè niuno s'incarica di fargli fare quello che deve! E i militi della questura non si occupino solo a vegliare nei quartieri aristocratici che i cocchieri non vessino i viaggiatori del Grand Hotel e del Bertolini, ma qualche milite di essi si occupi a impedire, possibilmente, il vizio, l'infamia e il delitto nei quartieri popolari, dietro il Rettifilo! Che chiedo io, infine, per i miei fratelli del popolo napoletano, che chiedo io come tutti quelli che hanno cuore, e anima, salvo che finisca l'oblio e l'abbandono? Che chiedo io, in nome dell'eguaglianza umana e cristiana, salvo che il popolo di laggiù sia trattato come tutti gli altri cittadini, abbia una casa, abbia della luce, nella notte, dell'acqua, della nettezza, della sorveglianza, sia guardato e protetto contro sè stesso e gli altri? Che chiedo, io, se non l'applicazione della legge umana e sociale, trattar quelli come si trattano gli altri, dar loro quel che spetta loro, come esseri viventi, come cittadini di una grande città? Faccia il suo dovere chiunque, non altro che il suo dovere, verso il popolo napoletano dei quattro grandi quartieri, faccia il suo dovere come lo fa altrove, lo faccia con scrupolo, lo faccia con coscienza e, ogni giorno, lentamente, costantemente, si andrà verso la soluzione del grande problema, senza milioni, senza società, senza intraprese, ogni giorno si andrà migliorando, fino a chè tutto sarà trasformato, miracolosamente, fra lo stupore di tutti, sol perchè, chi doveva si è scosso dalla mancanza, dalla trascuranza, dall'inerzia, dall'ignavia e ha fatto quel che doveva. Napoli, primavera 1904

IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

683006
Bertelli, Luigi - Vamba 8 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
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Ma il fatto è che non posso star fermo e sento proprio la voglia di far qualcosa di grande, che faccia impressione a quelli che mi perseguitano, dimostrando che in certi momenti anche un ragazzo può diventare un eroe, purché abbia del sangue nelle vene come il Corsaro nero.. Ora ci penso, e qualcosa alla fine farò...

Pare dunque che la mamma abbia avvertito della cosa, con tutta la delicatezza possibile, il marito della signora Olga che è il signor Luigi, un bolognese che discorre in napoletano quando discorre, ma discorre poco perché è burbero e pare che ce l'abbia con tutti, benché invece sia il più buon uomo di questo mondo, pieno di cuore e che vuol bene ai ragazzi e li sa compatire. Il signor Luigi, a quanto ho sentito, rimase molto sorpreso della notizia che gli dètte la mamma, e stentava a crederci; ma quando toccò con mano che l'orologio della signora Olga era quello della mamma, si convinse... e, con una scusa fece visitare sua moglie da un celebre dottore, il quale sentenziò che la cosa era possibilissima trattandosi di un temperamento molto nervoso, e prescrisse una cura ricostituente. Il fatto che le hanno ordinato questa cura l'ha raccontato lei ieri sera alla mamma; ma lei crede che sia per una malattia di debolezza che il medico le ha riscontrato, e ha detto anzi, che se l'è levata di testa lui perché lei sta benissimo e che fa la cura unicamente per contentar suo marito. Naturalmente io mi son divertito molto a questa scena, e spero di divertirmi anche di più in seguito. Intanto stamani ho colto il momento che nessuno badava a me e sono andato in camera di Ada dove le ho preso tutti i fazzoletti che ho trovato; poi, passando dal salotto da pranzo, ho preso l'ampolliera d'argento e me la son nascosta sotto alla blouse; e finalmente sono andato in giardino, ho chiamata Marinella e, con la scusa di fare a nascondersi, sono andato in casa sua e ho lasciato l'ampolliera nella sua stanza da pranzo. In quanto ai fazzoletti li ho dati a Marinella dicendole di portarli in camera della sua mamma, ciò che ha fatto subito; e di lei son sicuro, perché Marinella è una bambina piuttosto silenziosa e sa tenere il segreto. E ora aspettiamo quest'altro atto della commedia!

Com'è bella Roma per uno che abbia passione per la storia! E che grande varietà di paste al caffè Aragno, dove sono stato iersera con mia sorella! Stamani andiamo con lei a fare una passeggiata a Ponte Molle. * * * Torno ora da Ponte Molle, dove sono stato in tranvai con Luisa. Le ho domandato perché si chiama Ponte Molle, ma lei non lo sapeva, e allora ci siamo rivolti a un uomo di lì il quale ha detto: - Si chiama Ponte Molle perché è sul Tevere che è sempre molle, ossia bagnato a questo modo, e non è come tanti altri fiumi che appena vien l'estate si asciugano subito. - Quando ho detto questa cosa al cavalier Metello, che è venuto poco fa per fissar la passeggiata di domani, si è messo a ridere a crepapelle, e poi, ritornato serio, ha detto: - Questo ponte si chiamava anticamente Molvius e anche Mulvius e v'è pure chi lo chiamava Milvius, a il nome che ha ora è forse una corruzione dell'antica denominazione Molvius, nome che deriva probabilmente dal colle che gli sovrasta di faccia, sebbene molti si ostinino nella denominazione Milvius, facendola derivare da Aemilius ossia da Emilio Scauro che si crede sia stato il costruttore del ponte, mentre d'altra parte è provato che lo stesso ponte esisteva un secolo prima che nascesse Emilio Scauro, tanto è vero che Tito Livio dichiara che quando il popolo di Roma andò incontro ai messi che portavano la notizia della vittoria contro Asdrubale, traversarono proprio quel ponte... - Il cavalier Metello è molto istruito, e certo pochi posson vantarsi di sapere la storia romana come la sa lui; ma in quanto a me, dico la verità, mi persuadeva più la spiegazione che mi ha dato stamani quell'uomo che tutti i Milvius, Molvius i Mulvius del cavalier Metello.

Ma l'unica cosa di divertente che abbia questa bambola è il movimento degli occhi che quando è ritta stanno aperti e quando la si mette a diacere si chiudono. Io ho voluto capacitarmi di questa cosa e le ho fatto un buco nella testa dal quale ho potuto scoprire che il movimento era regolato da un meccanismo interno molto facile a capirsi. Infatti l'ho smontato e ho spiegato a Maria come stavano le cose, ed ella si è interessata alla spiegazione, ma dopo, quando ha visto che gli occhi della bambola erano rimasti storti e non si chiudevano più, si è messa a piangere come se le fosse accaduta una disgrazia sul serio. Come sono sciocche le bambine! * * * La Maria ha fatto la spia al suo zio dell'affare della bambola, e stasera l'avvocato ,Maralli mi ha detto: - Ma dunque tu, Giannino mio, ce l'hai proprio con gli occhi degli altri!... - Però dopo un poco ha ripreso sorridendo: - Via, via, faremo accomodare gli occhi della bambola... come si sono accomodati i miei. E del resto, cara Maria, bisogna consolarsi nel pensare che tutte le disgrazie non vengono per nuocere. Guarda quella toccata a me, per esempio! Se Giannino non mi tirava una pistolettata in un occhio io non sarei stato così pietosamente ospitato e assistito in questa casa, non avrei avuto modo forse di apprezzare tutta la bontà della mia Virginia... e non sarei ora il più felice degli uomini! - A queste parole tutti si sono commossi, e Virginia mi ha abbracciato piangendo. In quel momento io avrei voluto dire tutto quello che mi passava nell'animo, ricordando le ingiustizie patite e facendo conoscere col fatto che i grandi hanno torto di perseguitare i ragazzi per ogni nonnulla, ma sono stato zitto perché ero commosso anch' io.

Mio padre si mise a ridere, e poi disse, asciutto: - Va bene: ma poiché il socialismo vuole che ciascuno abbia la sua parte di gioia nel mondo, perché l'avvocato non ti prende con sé per qualche tempo? - E perché no? - esclamò il Maralli. - Scommetto che ho la maniera di farlo diventare un omino... - Sentirai che gioia! - disse il babbo. - In ogni modo, siccome io non voglio più vederlo, per me lo scopo è ugualmente raggiunto. Piglialo pure... - E così fu conchiuso il patto: io sarei stato bandito da casa mia e tenuto in prova per un mese dal Maralli, dove potrò riabilitarmi e dimostrare che non sono, in fondo, quell'essere insopportabile che dicono tutti. * * * Virginia e suo marito, fin dal loro ritorno dal viaggio di nozze che fecero quando prese fuoco il caminetto nel salotto da ricevere, vennero ad abitare questo quartiere che è molto comodo e centrale e dove mio cognato ha messo pure il suo studio d'avvocato, che ha un ingresso a sé ma che comunica con la casa per mezzo d'un usciolino che mette nella stanza degli armadi. Io ho una cameretta piccola, ma elegante, che dà sul cortile e dove sto benissimo. In casa, oltre mia sorella e il Maralli, c'è il signor Venanzio, zio del Maralli, che è venuto da qualche giorno a passare un po' di tempo presso il nipote, perché dice che questo clima gli giova di più alla salute. Però la salute non si sa dove l'abbia: è un vecchio cadente, sordo al punto che bisogna parlargli col corno acustico, e ha una tosse che pare un tamburo. Dicono però che è ricco sfondato, e che bisogna trattarlo con tutti i riguardi. Domani ritorno a scuola.

- Il curioso è che questo cambiamento di scena è avvenuto in seguito a un'altra mia birbanteria - per dir come dice Collalto - ma che pare abbia fatto molto piacere a mio cognato. Ed ecco come sta il fatto. Oggi, alla solita ora, cioè quando si era a colazione, è venuta la marchesa Sterzi, quella che fa la cura per non parlar più col naso. Io allora ho pensato, che, giacché il Collalto aveva scritto al babbo (allora credevo che avesse già impostata la lettera), potevo pigliarmi qualche altro divertimento senza pregiudicare di più la mia situazione; e còlto il momento propizio sono andato di corsa nella sala delle consultazioni. La marchesa stava seduta in una poltrona voltando le spalle verso la porta per la quale ero entrato io. Mi sono avvicinato piano piano alla poltrona, e, quando le sono stato proprio dietro, mi son chinato perché non mi vedesse e ho gridato: - Maramèo!..- La marchesa ha fatto un salto sulla poltrona, e quando mi ha visto accoccolato sul tappeto ha esclamato: - Chi è là? - Il gatto mammone! - ho risposto, inarcando la schiena, puntandomi sulle mani e sul piedi e sbuffando come fanno i gatti. Mi aspettavo che la marchesa Sterzi si risentisse per questo mio scherzo ma invece ella mi ha guardato un poco con ammirazione e poi si è chinata su me, mi ha rialzato, mi ha abbracciato, mi ha accarezzato, e ha incominciato a dire con voce tremante per la commozione: - Oh caro! Oh caro! Ah che gioia, che grande gioia mi hai recata, ragazzo mio!... Oh che grata sorpresa!... Parla, parla ancora... Ripeti ancora quella magica parola che mi ridà la pace dell'anima e suona al mio orecchio come una dolce promessa e il più gradito augurio ch'io possa mai desiderare...- Io, senza farmi pregare, ho ripetuto: - Marameo! - E la marchesa a raddoppiare le carezze e gli abbracci, mentre io, per farle piacere, seguitavo a ripetere: Marameo, marameo... Finalmente ho capito il motivo di tanta allegrezza: la marchesa sentendo che non discorrevo più col naso come la prima volta che mi aveva incontrato, mi credeva guarito e non finiva di domandarmi: - E quanto tempo è durata la cura? E quando hai cominciato a sentire il miglioramento? E quante inalazioni facevi al giorno? E quanti sciacqui? - Io da principio le rispondevo quel che mi veniva alla bocca; ma poi, siccome cominciavo a seccarmi, l'ho piantata li, e soltanto quando sono stato sulla porta, le ho ripetuto, sempre per farle piacere: - Marameo! - Ma proprio in quel momento stava per entrare il dottor Collalto il quale, avendo sentito quella parola, mi ha allungato una pedata nel corridoio che son riuscito a scansare per miracolo, e ha borbottato fremendo: - Canaglia, ti avevo proibito di venir qui!.. - Poi è entrato nella sala di consultazione, e io, ritornando indietro per il corridoio con l'intenzione di andare in camera mia e chiudermici dentro a scanso di altre pedate, ho sentito che diceva alla marchesa Sterzi: - Perdonerà, signora marchesa, se quel ragazzaccio maleducato... Ma la marchesa lo ha interrotto subito: - Che dice mai, caro professore! anzi non può immaginare quanto confortante sia stato per me il poter constatare i miracolosi effetti della sua cura... Quel ragazzo è guarito in pochi giorni!... - Qui ci è stata una pausa, e poi ho sentito il Collalto che diceva: - Già, già... infatti è guarito presto... Sa, un ragazzo! Ma spero col tempo di guarire anche lei... - Non ho voluto sentir altro; e invece dì andarmi a chiudere in camera, sono andato da mia sorella che ho trovato nel suo salottino da lavoro e alla quale ho raccontato tutta la scena. Che risate abbiamo fatto insieme! E così, mentre si rideva a crepapelle, ci ha sorpresi il Collalto che ha riso anche lui... e non ha spedito più la lettera al babbo. - Giannino - ha detto mia sorella - ha promesso dì esser buono, non è vero? - Sì, - ho risposto - e non dirò più bugie... nemmeno alla marchesa Sterzi. - Ah! - ha esclamato mio cognato - badiamo bene che tu non abbia a incontrarti più con lei, altrimenti c'è il caso che il bene vada a finire in male! -

Che credi che abbia fatto quella stupida?... Dalla paura ha lasciato cascare in terra il vassoio che reggeva con tutt'e due le mani... Che peccato!.. Il bricco di porcellana celeste è andato in mille pezzi; il caffè e latte si è rovesciato sul tappetino che la mamma mi aveva comprato ieri; e quella sciocca ha cominciato a urlare così forte, che il babbo, la mamma, le mie sorelle, la cuoca e Giovanni sono corsi su tutti spaventati, per vedere quello che era successo... Ci può essere una ragazza più oca di quella?... Al solito, io sono stato gridato... Ma... appena sono guarito, voglio scappare da questa casa, e andare lontano lontano, così impareranno a trattare i ragazzi come si deve!...

L'altra settimana gli detti due o tre fotografie perché si divertisse a masticarle e può essere che lui le abbia portate fuori e le abbia lasciate per la strada... - Ah, dunque le hai prese tu! - ha esclamato Luisa, rossa come la brace e coli gli occhi che le uscivano dalla testa. Pareva mi volesse mangiare. Ho avuto una paura terribile e perciò, dopo essermi empite le tasche di torrone, sono scappato su in camera. Assolutamente non voglio essere alzato quando gl'invitati se ne anderanno via. Ora mi spoglio e vo a letto.

MILANO IN PERCORSA IN OMNIBUS COMPILATA DA GAETANO BRIGOLA ED ILLUSTRATA DA NOTIZIE STORICHE ED ARTISTICHE DA FELICE VENOSTA

683242
Brigola, Gaetano 5 occorrenze
  • 1871
  • Editore Librajo -PRESSO GAETANO BRIGOLA
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Dalla cittadinanza si fanno voti perchè il Municipio abbia a ricostruire questa Porta e renderla degna del gran fatto al quale è stata dedicata. Fuori la città, non molto lungi, evvi l'ospedale dei pazzi, detto la Senavra. _ Il locale era altre volte convento di Gesuiti.

. _ Crediamo abbia il primato sull'Eco del Battisterio di Pisa. Ciò che di questo fabbricato rimane, dimostra bastantemente quello che doveva essere di magnifico a' suoi tempi. _ Sulla costruzione di esso, la malignità, che non ha sempre torto, disse che fu eretto dagli appaltatori dei bastioni, e regalato poi a don Ferrante Gonzaga per gratitudine di avere questo governatore chiuso gli occhi sul prezzo e sul modo onde quell'opera fu eseguita. Per avere accesso nel palazzo si deve pagare una tassa di centesimi 50.

Una disposizione dell'Autorità non permette che si abbia a salire da soli.). _ È bello dall'alto mirare la sottoposta marmorea mole, stupenda per le 116 guglie piramideggianti, per le 4000 e più statue, poi trafori, balaustrate e terrazzi, lavori di più secoli; ed intorno l'animato spettacolo della lombarda metropoli; e più lungi l'ubertoso agro milanese, dove la celebre Abbazia di Chiaravalle, e più remota la maestosa Certosa di Pavia, e il memorabile campo di battaglia di Magenta, e gli ameni colli della Brianza colla Rotonda del Cagnola, e infine la catena dei monti che trasportano il pensiero fra le delizie dei laghi di Como e di Lecco. _ Nell'interno del Duomo, dove la luce penetra attraverso le vetriate dipinte, quali da artisti del 500, quali dai contemporanei Bertini, spiccano i monumenti eretti all'arcivescovo Ariberto, l'inventore del Carroccio; a Gian Giacomo de' Medici, che vuolsi disegno del Michelangelo con statue di bronzo di Leone Leoni; al Vimercate e al Caracciolo, del Bambaja, autore dell'altare della presentazione; a Ottone Giovanni Visconti; all'arcivescovo Arcimboldi; inoltre ammiransi l'urna di porfido del Battistero, le statue di Martino V e di Pio IV de' Medici, quella di San Bartolomeo dell'Agrati, i bassorilievi del capocroce allo svolto, e le statue del Bussola, la Madonna dell'albero del Buzzi, denominata dal ricco candelabro che sta dinanzi all'altare; i pulpiti rivestiti di rame stonati da Andrea Pelizzone e sostenuti ciascuno da quattro cariatidi `di bronzo; gli intagli degli stalli del coro, della cantoria; il tabernacolo all'altare maggiore, opera dei Solari lombardi e dono di Pio IV; infine nella segrestia meridionale il Tesoro, e nella cripta o cappella sotterranea, la preziosa urna ove riposa la salma dell'arcivescovo S. Carlo. Nel principio del Duomo ovvi una meridiana eseguita nella seconda metà. del secolo passato sotto la direzione dell'illustre astronomo Boscovich, la cui perfezione subì qualche pregiudizio in occasione in cui si rifece il pavimento.

Qualunque reclamo che il forestiero abbia per avventura a fare contro il servizio delle vetture da nolo, od ogni altro riflettente la sicurezza pubblica, notificazioni di smarrimenti, ecc., un ufficio di Sorveglianza urbana è posto nel Palazzo del Marino ad accoglierlo. _ Il forestiero può rivolgersi anche agli Agenti urbani. Ecco intanto alcuni dei principali indirizzi che crediamo segnalare al viaggiatore per gli emergenti suoi bisogni.

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Al forestiere, che abbia tempo di fermarsi in Milano, consigliamo di visitare i suoi dintorni. In alcuni di essi vi si può recare col mezzo della ferrovia; ma val meglio prendere apposita vettura, e per ciò proponiamo la Società Anonima degli omnibus per l'ottimo servizio. Ne diamo l'apposita tariffa. Vetture per servizio di città. Durata del Servizio Per ore due a 2 cavalli L. 8 Per ore due ad 1 cavallo L. 5 Ogni ora successiva a 2 cavalli L. 2 Ogni ora successiva ad 1 cavallo L. 1 Andata e ritorno dal teatro a 2 cavalli L. 4 Andata e ritorno dal teatro ad 1 cavallo L. 3 Un servitore a 2 cavalli L. 2 Un servitore ad 1 cavallo L. 2 Si fanno abbonamenti settimanali e mensili, sia per la passeggiata del Corso, sia per il Teatro, a prezzi da convenirsi. _ Non competono mancie al personale. Vetture per servizio di campagna. Percorrenza Con cocchiere Con postigl.e Fino a chilometri 40 fra andata e ritorno, con cocchiere L. 15 Fino a chilometri 40 fra andata e ritorno, con postigl.e L. 18 Ogni chilometro in più Con cocchiere L. 0,30 Ogni chilometro in più Con postigl.e L. 0,50 All'uomo per vitto e mancia Con cocchiere L. 2 All'uomo per vitto e mancia Con postigl.e L. 4 Foraggio a carico dei committenti. Sconto del 10 per 100 nei giorni feriali e di ordinario concorso pei soli servizi con cocchiere. I principali luoghi da visitarsi sono: L'Abbazia di Chiaravalle, fuori di Porta Romana, innalzata nel 1135 da San Bernardo per desiderio dei Milanesi. La Cascina Linterna, fuori di Porta Magenta, ove è la villa abitata da Francesco Petrarca. La Certosa di Garignano, fuori di Porta Sempione, fondata dall'arcivescovo Giovanni Visconti. Vi sono le migliori opere di Daniele Crespi. La Chiesa di Saronno, una delle più belle e ricche chiese di Lombardia. La Certosa di Pavia, il più bel tempio dell'Alta Italia dopo il Duomo di Milano ed il San Marco di Venezia. Fu innalzato nel 1396 da Galeazzo Visconti. Il Santuario di Rho, assai rinomato. Nelle vicinanze vi è la principesca villa di Lainate. Cinisello, per la villa Ghirlanda_Silva, ricca di pitture, di oggetti d' arte e di libri preziosi, sopratutto del XV secolo. Monza, er la sua Cattedrale, la chiesa di Santa Maria in Strada, il più ricco lavoro gotico in mattoni del Milanese, ristaurato egregiamente nel 1870 dall'architetto Carlo Macciachini, e la sontuosa Villa Reale co' suoi giardini e il Parco. Desio ove evvi la bella villa Traversi_Antona. Como per la Cattedrale cominciata nel 1396, le chiese di San Fedele, del Crocifisso, di Sant'Abbondio e San Carpoforo; la Biblioteca Comunale, il Palazzo del Comune, il Palazzo Giovio, ecc. Il lago di Como, ove natura ed arte hanno intrecciati tutti i loro tesori. Vaprio, er la villa Castelbarco, detta Monastirolo, il palazzo Melzi. Evvi in Vaprio una grande manifattura di velluti di cotone e di cotonerie, ora del duca Visconti di Modrone, una grandiosa fabbrica di carta con macchine inglesi, della ditta Binda e Comp. Non sarà male impiegata anche una gita al Santuario di Caravaggio, ai dintorni di Varese, ricchi di ville amenissime, non che al suo Santuario la Madonna del Monte, a Magenta, che diede il nome alla battaglia combattuta il 4 giugno 1859, e vinta dai Francesi contro gli Austriaci; _ alla Brianza amenissima per vedute e luoghi incantevoli, al Lago Maggiore, ecc., e per ciò il viaggiatore può ricorrere alle Guide analoghe.

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Il maleficio occulto

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Zuccoli, Luciano 1 occorrenze

. - E siete sicuro ch'egli m' abbia ricono...., voglio dire che egli mi conosca? - insistetti. - Non v'è dubbio. Le dirò, anzi, che metà della descrizione sua l'ho fatta io, e l'altra metà l'ha fatta lui, senza nemmen lasciarmi finire.... - Figuriamoci come mi avrete conciato, fra tutti e due! - mormorai. Giacomo sorrise, gustando bonariamente la facezia. Io restai qualche tempo immobile; cercavo un'idea, una spiegazione; cercavo, sopratutto, di capir quale conseguenza potesse avere per me, per Clara, un avvenimento inopinato come il viaggio del barone. Ma mi accorsi che dovevo riflettere a lungo prima di vedere e comprendere la cosa con qualche esattezza. Alzai gli occhi e compresi soltanto che il buon valetto moriva di voglia di rimettersi la pipa in bocca. - Addio, Giacomo! - gli dissi voltandogli le spalle.

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