Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Nei primi mesi le cose procedettero abbastanza bene. Era la bella stagione: Mirate vogava la sera, studiava di giorno; il soprano co- piava con le sue proprie mani la musica che occorreva al tenore. Ma presto il remo gli principiò a pesare: diceva che quell'esercizio faticava il petto, che il respiro si faceva troppo frequente, che l'espirazione diventava corta. Il maestro Zen gli dava ragione: la gondola fu ceduta, e la svanzica non bastò più. Il padre e la madre del futuro grand'uomo, per soccorrerlo di qualche soldo, raddop- piarono il lavoro: quegli al traghetto, assumendo spesso il servizio dei compagni, questa al mastello, ove stava a lavare anche buona parte della notte. Il bucato della biancheria nuova del figliuolo, di bella tela fina cucita dalla mamma instancabile, si faceva a parte, essendo oggetto di cure speciali per la lisciva, per il sapone, pel modo delicato, quasi a dire rispettoso, di torcerla, di batteria, di sciacquarla, di tenderla. Il bianco lucente di quelle camicie con il largo goletto, con il davanti piegolinato, con i polsini che copriva- no metà delle mani, non sembrava mai abbastanza candido per toccare la pelle del nobile rampollo, dal quale la famiglia attende- va gloria e ricchezze. Egli di giorno in giorno gonfiava sempre più, e diventava nervoso. Bastava una macchietta gialla del ferro, un goletto poco inamidato, perché, bestemmiando, sbattesse a ter- ra innanzi alla madre due o tre camicie, che la poveretta, con gli occhi umidi e le labbra sorridenti, raccoglieva e tornava a lavare e a stirare. Lo stanzino, ch'egli occupava accanto alle due cameracce terrene dei genitori, non era più sufficiente alla sua voce ed alla sua persona; non rifiniva di lamentarsi che per andare in piazza di San Marco o dal maestro gli toccasse di fare un viaggio. Si trovò dunque una buona stanza nel centro, in Frezzeria, dove con i suoi gorgheggi metteva sossopra il vicinato. Da allora in poi andò tre volte la settimana dal barbiere, desinò all'osteria, mutò i compa- gni, frequentò donne galanti, si vergognò della madre e del babbo, che faceva passare per la propria stiratrice e per il proprio lustrino, e che andava di tempo in tempo a vedere con la speranza di spilla- re qualcosa. Ci voleva altro? Il rinfranco veniva dal soprano, il quale, dopo avere snocciolato parecchie centinaia di svanziche, si sentiva in- catenato al suo debitore assai più di quanto il debitore credesse di rimanere legato a lui. Già Mirate non si degnava più di andar a chiedere con questa scusa o con quella; mandava a dire all'altro che venisse, e subito. Le chiamate avevano luogo, per solito, verso le dieci della mattina, mentre il tenore era ancora a letto. "Mi occorrono quattrini". "Non ne ho". "Isacco figlio di Abramo, mi abbisognano dugento lire, altrimenti non posso saldare una cambialuccia al barbiere, il quale ha meno spirito di te, e mi caccierà dritto in prigione". "Non lo farà. Dovrebbe pagarti il vitto". "Pagherà, tanto è puntiglioso. E poi vuol dare un famosissimo esempio agli altri suoi avventori morosi, cui ha prestato al cento per cento". "Non lo farà, ti ripeto; ma se quell'usuraio sordido lo facesse, che cosa ne importerebbe a me?". "Non te ne importerebbe, cuore di vero soprano! È dunque sban- dito dal tuo animo ogni resto di pietà? Vuoi che ti canti una melo- dia in Mi minore per impietosirti? Poi, pensaci be- ne, l'umidità del carcere, la mancanza di moto, l'arrugginirsi della gola (perché non mi lascierebbero forse solfeggiare dalla mattina alla sera), gli insetti, il cattivo mangiare, e sopra tutto l'avvili- mento: in una settimana sarei bello e spacciato". E il tenore parlava con enfasi melodrammatica, mutandosi di ca- micia e mettendosi i calzini. "Anzi" replicava l'altro con lo sforzo di un sogghigno, che in quella faccia triste e macilenta diventava una contorsione pietosa "anzi la continenza forzata ti farebbe un gran bene. Usciresti di gattabuia, al pari d'un canarino, più grasso e più canoro". "Giacobbe figlio d'Isacco, sai che non mi piacciono gli scherzi, massime quando escono da una bocca tetra come la tua. Sono un buon figliuolo, ma non farmi scappare la pazienza. In fondo, chi mi spinse a chiedere danaro al factotum della città? Tu, che non volesti darmelo; ed io ne avevo urgenza per comperare musi- ca, pastiglie pettorali, eccetera, eccetera. Del rimanente non ignori che la mia vita costa una miseria. Il più è questa camera piccola e buia. A desinare e a cena sono spesso invitato, in grazia delle se- renate, dei concerti di famiglia o delle orgie musicali tra scapoli; e le donnette per me, piuttosto che una uscita, sono una entrata; la lavandaia mi serve gratis; il sarto confida nella mia prossima glo- ria, come confidi tu, mio protettore generoso". Parlava a intervalli, badando a vestirsi, finché, dopo essersi unto bene i capelli, i baffi ed il pizzo con una pomata di muschio, si ac- comodò i solini e la cravatta. Intanto l'antiquario lo seguiva con lo sguardo e lottava dentro di sé. Finalmente disse: "Insomma, anche questa volta farò un sacrifizio. Ti darò le du- gento lire". "Oltre la mesata, s'intende". "Oltre la mesata; ma, per carità, regolati nelle spese, non mi rovi- nare, se no avrai sulla coscienza la sventura d'un padre e di sei fi- gliuoli. A proposito, ieri pensavo a te". "Grazie di cuore. Vuoi dire che pensavi all'affar d'oro, che hai fatto meco". "No, proprio al tuo bene: pensavo a darti moglie". "Così subito?". "Fossi matto! Fra un anno o poco più, quando sarai entrato nel- l'arte sul serio ed avrai uno stato sicuro. Intanto si potrebbe gettare l'amo". "Intendo. Quel che ti preme è che io non pericoli in alto mare o non vada a frangermi in uno scoglio. Preferisci di farmi arenare tranquillamente, come una gondola, in secco. Poi un uomo inna- morato mangia meno, si svaga meno, spende meno. Poi la dote, perché ci deve essere una dote...". "Sicuramente". "La dote servirebbe subito a risarcirti col trecento per cento (altro che il parrucchiere!) delle tue liberali anticipazioni, senza nemme- no il disturbo di aspettare qualche anno". "Sei ingrato". "E chi è la bella?". "Ora non te lo voglio più dire". "Dimmelo, mio buono, mio adorato Giacobbe". Era, insomma, la nipotina del maestro Chisiola; la quale aveva ereditato dal babbo un capitaletto, che, fatto fruttare per molti anni e ingrossato dal nonno, poteva ascendere oramai ad una trentina di mila svanziche, senza contare che il nonno, benché rubizzo, non avrebbe tardato molto a lasciarle il resto. Il tenore dichiarò di non avere mai guardato molto attentamente quella monachetta, pure avendola veduta molte volte in chiesa e in istrada mentre accom- pagnava il vecchio, ed anche in casa di lui, ma di rado. Gli era sembrata una piccola beghina scipita; ma in conclusione, trattan- dosi di un affare lontano, non diceva né sì, né no. Avrebbe guar- dato e pensato meglio. I due si lasciarono questa volta pienamente rabboniti, sebbene in Mirate, malgrado la lettura di romanzi e poesie, cui s'era dato, e la nuova compagnia di persone abbastanza civili, rimanesse inalte- rata l'indole volgarmente sarcastica e impertinente del barcaiuolo. Ma nell'animo dell'altro era cresciuto un affetto quasi paterno e indulgente ed ansioso verso quel giovine, nel quale in principio non aveva veduto altro che l'utile vittima dell'usuraio; tanto che ora si compiaceva, in fondo, della bellezza, della forza, della spa- valderia, degli stessi vizi del suo pupillo musicale, idealizzando ogni cosa, e gli sarebbe sembrato impossibile che una fanciulla lo rifiutasse per marito ed una famiglia non si tenesse orgogliosa d'imparentarsi con lui. Trascorso poco più di un anno, Mirate entrò nella cappella di San Marco quale supplente del vecchio tenore sfiatato; ed, una setti- mana dopo, il soprano aveva già persuaso lo Zen di chiedere al maestro Chisiola per il novello cantore la mano della sua nipotina. S'è visto come il nonno rispondesse con una negativa tanto riso- luta ed asciutta, che lo Zen non ebbe più ardire d'insistere. Il ri- fiuto stupì e addolorò lo strozzino, in cui interesse e cuore cospi- ravano insieme; ma offese vivamente, nel suo amor proprio di bel giovane conquistatore e di famoso cantante, Mirate, il quale per la prima volta guardò con interessamento la modesta fanciulla, giu- rando a sé medesimo che di quel no il vecchio si sarebbe presto pentito.

Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Sicura di conoscere abbastanza i ragazzi da saper trattare con questi come con qualsiasi altro. E mi torna in mente la storia delle fotografie ascoltata poco prima nell'ufficio del censore. Fanno commercio di fotografie. Promosso dai più grandi e corrotti, dagli altri, perfino dai bambini (ma dove sono i bambini?) alimentato per guadagnarsene il favore, a volte solo per un avanzo di minestra, un pezzette di pane. Ma hanno fame? Sa com'è... le razioni... è un'età che non si saziano mai. Rivedo la foto della giovane turgida _ sorella _ sigaretta in bocca, gonna incollata, gamba fuori dello spacco, in atteggiamento così goffo da non risultare nemmeno provocante. Ai miei occhi beninteso. Requisita. A chissà quale prezzo ne era stata barattata un'altra, sempre sorella ma composta. Crocetta sul pube e dietro: ce la grasa che baia tuta, (Ortografia a parte, richiamava qualcosa di Celine.) Colpita. Sul momento. Presto capirò più in là del mio naso e di quello ben fatto del censore biondo. Ossigenato? Provo l'imbarazzo di essere donna, sono costretta a convenirne. Come tale forse mi guardano _ e per l'eccezionaiità dell'avvenimento: un'estranea, oltreché femmina _incerti se sia davvero concesso di parlare liberamente o non nasconda un tranello. Nessuno fiata. Mi tengo ritta al muro controllandomi con una certa tensione, tale è il potere di ambiguità dissimulazione diffidenza negli occhi di ragazzi reclusi. Finché Bilotte, il buffone della compagnia, quello che ha spalmato sul pane la pasta dentifricia (nel pacco delle "dame" di non so quale santo) mi si offre con un generoso: Ti rifaccio i tacchi. Lo riconosco, lui e anche altri, dal formato tessera nelle cartelle sfogliate col censore. Bilotte sa riparare le scarpe, sta imparando l'arte. Mica ciabattino, dice, calzolaio. Per adesso, nel seminterrato che ho visto durante la visita ai locali, con un vecchio "maestro d'arte" dal muso grinzo irascibile, fra scarpacce militari a bocche aperte, rappezza coi ritagli di questi residuati. Idem il laboratorio di sartoria, stesso maestro come gemello, sparsi sul tavolaccio pezzi del grigioverde avanzato alla guerra. Utilizzati perditempi. Lavoro senza compenso, non però obbligatorio. Apprendisti pochi. Ma Bilotte è ambizioso e forse, per quanto assurdo, sognatore. Ambisce a calzolaio di fino. Ha commesso qualcosa come una ventina di furti _ una ciliegia tira l'altra, anche ciliege infatti _ furterelli, cosette da poco, piccole fesserie le chiama lui. (Considerare su quale scala gli uomini hanno commesso le loro grandi fesserie in questa sciagurata guerra, e misurarvi le colpe di Bilotte: veniali.) Ora sembra fermo a non ricominciare. Sono ingenuamente disposta a crederci. Non gli creda, mi ha avvertito il censore, mangiano abbastanza, ritenendo che si sarebbero lamentati per il cibo. Invece no, ne per il cibo ne per altro, avranno paura. Dice Bilotte: Mi cascassero le mani. Se le guarda, ci sputacchia, le frega energicamente quasi per la soddisfazione d'intraprendere il qualcosa di nuovo che è una vita senza fesserie. Dopotutto bene o male qui si mangia. Sia pure senza ciliege. Qui è la sezione giudiziaria del carcere per minori, ossia riformatorio, alias casa di correzione, trasformata _ la dicitura _ in Centro di Rieducazione con annesso Istituto di Osservazione _ sulla carta _ ma si continua a dire sbrigativamente, cumulando, riformatorio o correzionale. Qui, sezione giudiziaria, scontano la condanna inflitta dai tribunali per reati non più passibili di perdono di condizionale o sono detenuti in attesa di giudizio. La mancanza di spazio costringe a unirvi i rieducandi, cioè i discoli, i disadattati, i vagabondi senza fissa dimora per abbandono o per elezione. Separare il grano dal loglio non si può. (E i bambini, dove sono i bambini?) Insomma non tutti autentici delinquenti, ancora secondo le espressioni del censore, la cui sola vista debba ispirare penosa repellenza. Oh sì certo, ragazzi. Certo certo, creature fresche senza fallo con qualcosa di vergine d'innocente e schietto. Dei disgraziati. Redimibili, sicuro. Me lo ha concesso con parole sue, retoriche. Accento sincero e falso, vorrebbe coprirsi, nascondermi la realtà senza riuscirci, spinto dall'idea di "apparire". Del resto la retorica è il linguaggio che s'impara a scuola, sovrapposto ai luoghi comuni che s'imparano in famiglia, e può esservi anche una sincerità di fondo venuta su deformata. Il linguaggio burocratico (i fascicoli) è la deformazione tout court. Abbiamo continuato mettendo sulla bilancia guerra e miseria e diosà che altro, perfino le loro stesse madri. Se fanno il mestiere li buttano fuori, quando non se ne servono... Sospensione. Perifrasi varie per significare il sesso. Aizzato dall'ambiente. O se non altro l'esplosione dell'età che di per sé può spingere a eccessi catastrofici anche in tempi normali e in ambienti normali. Nell'adolescente c'è sempre il delinquente potenziale: citazione dalle requisitorie di un PM che gode fama d'implacabilità. Tuttavia sembrava incerto se aprirsi con una donna _ o l'intrusa? _ sulla piaga della masturbazione. Le cose su cui si tace, anche in famiglia a scuola, come se fossero asessuati. Be' sì... ce n'è uno... qualcuno ... uno pare come se si volesse distruggere... pustolosi gialli... Lo ritiene ancora un vizio disgustoso e pericoloso o finge? Ho lasciato perdere l'omosessualità per non metterlo in condizione di negare. Contronatura. Detta e considerata impropriamente tale, giacché si riscontra negli animali e del resto è nella natura come le malattie. Delle quali pure si ha vergogna ma non si può certo eliminarle. E comunque repressa la natura trova il suo pertugio qualechesia. Bene, a ogni modo eccomi per cosi dire nella tana. A raffrontare l'immagine spesso terribile ricavata dai fascicoli, col ragazzo che mi trovo davanti. Il serafico biondino _ ogni domenica è lui a servire la messa _ per due volte "nella intemerata casa paterna in cui fin allora avevano spensieratamente giocato" (linguaggio delle note personali) usò violenza alla sorellina, "integra l'imene". Ma e quell'uomo (cronaca di quotidiano) che trovandosi accanto sul letto coniugale la figlia di pochi mesi, mentre la moglie era in cucina, l'ha stuprata? Improvvisamente mi trovo fin troppo propensa a capire, se non addirittura a giustificare, quello che ieri, due ore fa, prima di entrare qui, mi avrebbe per lo meno sconcertata se non proprio disgustata. Sgomento, sì. Riconosco Milli, taurino, faccia leale (bieca nel formato tessera inchiostroso) che ammazzò l'amico in un litigio. Tutti i ragazzi si picchiano, ma lui è forte e nell'ira perde il controllo. Ha il pugno proibito. Cadendo sotto quel suo pugno l'altro batte la testa a uno spigolo di pietra e ci rimane. Mi ha assicurato il censore che mai usa la propria forza coi compagni, non reagisce nemmeno alle più sfacciate provocazioni. E non è che qui manchino gli attaccabrighe. Ma il Milli diventa un masso inerte se si cerca d'indurlo alla lite. Quando un giorno dovrà rendersi conto, lui con questo acerbo senso di colpa in petto, d'un mondo in preda alla violenza, può darsi che finisca per sentirsi scagionato. Il mondo in cui l'altro compassionevole ragazzine nascosto al suo fianco, ha potuto ripetutamente giocare con una rivoltella tedesca "trovata in giro", divertirsi a puntare e minacciare per scherzo, uccidendo alla fine sua madre. Milli e questo orfano sono gli assassini dell'attuale gruppo di detenuti. Lo " studente " si considera l’avventuriere giustiziere, una specie di Zorro. Mi ride, cordiale, un po' spavaldo. Organizzò la banda, che si riuniva in certe cave fuori mano a banchettare con la refurtiva. Prelevata da dispense e cantine di ricchi o borsaneristi _ che è lo stesso, affermò in tribunale _lasciandovi il suo biglietto. Quei biglietti ornati da un teschio, con compiacimento ripetuto sui libri di scuola, e il fumo alle cave abbandonate, condussero a scoprire la banda. III B ginnasiale. Inoltre il mucchio delle bombe e armi varie "trovate in giro". Ragazzata definì l'avvocato quella che la pubblica accusa doveva fermamente sostenere autentica delinquenza. Associazione per delinquere. La stoffa di uno che voglia forzare la vita a mantenere le sue appassionanti promesse _ l'avventura, la punizione dell'avido adulto _ nello studente c'è ed è stoffa di qualità pregiata. Tutto dipende dall'uso che se ne fa, o si è indotti a farne. M'accorgo che manca nel gruppo il contino. Se n'era stato accanto al censore in abito borghese e il censore me l'aveva quasi presentato. Il suo buffo tendere la mano con l'atto mondanamente insufficiente di posare le labbra sulla mia. Si tiene appartato dagli altri. (Truffa e denunce del conte padre. Puttaniere, lo chiama il figlio. Va bene, tu mi tagli i viveri, io entro al cinema e mi trovo un frocio. Dal fascicolo processuale.) Grazie a Bilotte che ha rotto il ghiaccio (il dentifricio mai visto prima lo credeva sul serio roba da mangiare) posso ormai introdurmi nella sezione giudiziaria di un carcere minorile come in qualsiasi altro luogo dove si trovino riuniti, e sia pure costretti, dei ragazzi. Allora, non mettersi a scrutare in essi qualcosa d'ignoto temibile e repulsivo _ solo quel tanto di bene e di male esplosivamente mescolati nella natura umana _ piuttosto riconoscerli vittime. E ragazzi. Ricordarsi che sono ragazzi. Cioè esseri colmi d'un incoercibile slancio vitale e con quel tanto in sé d'intatto che è sempre, quasi sempre, nell'estrema giovinezza. Bisogna rifiutarsi comunque di ritenerli perduti, nutrire l'incrollabile fede che ognuno possa essere salvato. E sentirsi responsabili per ciascuno di essi. Avrò parlato con la mia parte di retorica, temo. Con entusiasmo e proponimenti da neofita. Lo leggo in faccia al censore mentre, io accalorandomi e lui annuendo docile, mi accompagna verso l'uscita. Attraverso una quantità di porte e il primo cancello interno, schiavardati via via da premurosi agenti. Agenti, un po' come angeli, di custodia. Oltre il cancello siamo ancora nell'ingresso che da sul cortile esterno, con la stanza di guardia a sinistra, a destra un altro uscio, chiuso. Ne proviene una sorta di pigolio, soffocato ma irreprimibile. I bambini, ecco dove sono i bambini. Sapevo che dovevano esserci: Istituto di Osservazione. Come si apre l'uscio c'investe un tanfo di polvere e pipì (alle camerate era di bugliolo). Ve ne sono, ristretti nella stanza angusta, con un solo custode, ventitré. Dai minori di quattordici anni a uno di sei. Si azzittiscono immobilizzati come topi alla vista del gatto. Con una strizzata al cuore riconosco il mio scolaro Augustino, paternità enne enne, prima elementare. Lui non mostra di riconoscermi. Guarda in terra. Lo chiamo, non risponde, fugge. Ma che ha fatto? Figlio unico di madre prostituta, è la risposta che vorrebbe essere spiritosa. Era venuta, quella madre, a scuola per giustificare l'assenza del bambino che entrava "in collegio". Mancano i locali e il personale è insufficiente, questo buco passa per l'Osservazione, c'è sopra la targa. Ma la verità è che, essendo il cortile l'unico posto per la ricreazione, li tengono tutti insieme, osservati corrigendi detenuti. Per riguardo alla visita... Prego di liberarli. Signor censore (e rex) non faccia complimenti con me, ormai sarò di casa. Prorompendo a mucchio s'attaccano alle sbarre del cancello come uccellini, non ancora abituati alla prigionia, ai ferri della gabbia. Nuovo schiavardamento fragoroso, le chiavi sono grosse, di ferro. E invasione del cortile claustrale. Assassini stupratori e rapinatori accolgono gli uccellini spennati coi quali giornalmente convivono, e non solo a ricreazione. Vedo il muscoloso Milli tirarsi su in braccio il mio Augustino rattrappito e piangente. "Sa, si spingono, sono tanti." Sono, per la precisione, al momento, centoventisette "ospiti", nello spazio per cinquanta frati del tempo antico di minuscole celle e sterminati corridoi, Potrebbero perfino ammutinarsi.

LE ULTIME FIABE

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

Ho mangiato abbastanza ...

Voi non mangiate mai abbastanza ... quanto si conviene a un Re pari vostro!

GIACINTA

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

. - Come se ella non fosse debole abbastanza, o Signore! E non avesse anzi bisogno di conforti pel gran sacrificio a cui si era disperatamente risoluta! ... Ma perché il Mochi indugiava a strapparla da quello stato di angoscia che la uccideva a poco a poco? ... Si era forse illusa? ... No, non poteva essere! Non si era illusa! Allora, nel mezzo della nottata, nel pauroso silenzio della camera fiocamente illuminata dalla lampada riaccesa quando l'insonnia si ostinava a tenerle sbarrati gli occhi - l'angolo della stanza rimasto in ombra le si popolava di allucinazioni, come se il suo intelletto acquistasse in quei momenti la felicità della seconda vista. ... Eran passati degli anni! Avvizziva, anima e corpo, inchiodata a pie' del letto dove quel vecchio, colpito da incurabile malattia che non gli concedeva un'ora di tregua, languiva. Gli faceva da infermiera, paziente come una santa; ma gli moriva dietro, assottigliata da uno sfinimento senza nome ... E mentre colui rantolava, rantolava, dai cristalli della finestra entrava il sole a traverso una larga striscia di pulviscolo turbinoso e luccicante ... Ah, quel sole! ... Ah, quell'alito di primavera! ... Ma la sua giovinezza era ormai perduta ... Lei non si riconosceva piú nemmeno allo specchio, con quei capelli mal ravviati, con quelle mani scarne, con quegli occhi senza vita! ... E non si lagnava, né si rassegnava, indifferente ... Era il suo cattivo destino ... Doveva essere cosí! ... Lo aveva già previsto! ... Oh, no, non era cosí! ... La sua giovinezza fioriva tuttavia, il suo povero cuore palpitava ancora! ... Il Mochi la trattava da figliuola, poco esigente ... Chi del resto, nell'intimo, le impediva d'amare un altro? ... Il passato le ritornava alla mente come un conforto ... Quel ballo, quella canzone napoletana, quella terrazza al lume di luna e quel giovane bruno dagli occhi neri, dai capelli neri e crespi, che le mormorava nell'orecchio parole dolcissime, indimenticabili ... Ma non commetteva ella, a quel modo, un'infedeltà senza scusa? ... E Andrea perché veniva a cercarla fin nella solitudine dove volontariamente s'era condannata? ... Che pretendeva dunque? ... No, non era generoso! ... Voleva abusare della propria forza, della fragilità di lei? ... Ed ella resisteva, lottando, mascherando con la bruschezza la debolezza che invadevala ... Sarebbe stata un'indegnità! ... E fiera della sua vittoria, si attaccava ancor piú al suo liberatore, al suo benefattore ... Non lo chiamava mai suo marito. I tocchi di un orologio che arrivavano lenti e fiochi, come da una gran lontananza, la riscuotevano qualche volta. Per terrore di quel silenzio turbato un istante, rivolgeva gli occhi alla palla di porcellana dentro cui la fiamma della lampada guizzava, a intervalli, con luce fredda, rischiarando i mobili scuri, dando un aspetto strano ai disegni della tappezzeria. Poi i suoi occhi attratti, tornavano, verso quell'angolo, dove l'ombra si addensava; e da lí a poco l'allucinazione riprendeva il suo corso. ... Che! Che! Quel vecchio assorbiva il giovane rigoglio di lei; e diventava rubizzo, ma geloso, riottoso, brontolone, dai modi bruschi e villani ... Una serva sarebbe stata trattata meglio! ... Che calice di avvilimenti e di amarezza non le toccava di tracannare giorno per giorno! ... Ella non aveva piú lagrime ... Non osava lamentarsene neppure in segreto, dalla paura che quello glielo leggesse in viso ... E cosí la vita le si consumava, lentissimamente ... ma al fine, si consumava! ... E si sentiva mancare presa da un torpore gelido ... Che interminabile agonia! Spesso, quando l'allucinazione confondevasi col sogno, Giacinta si levava da letto sbalordita, spossata dalla inconsapevole fatica. - Aveva sognato? Però la luce del giorno le infondeva coraggio: - Commetto una specie di suicidio? Lo so. Poiché non sono buona ad ammazzarmi davvero! ...

La mia condizione è abbastanza difficile. La gente ... - La gente? - lo interruppe Giacinta. - Ne ho mai tenuto conto? - No, no, sarebbe un capriccio soverchio ... E intanto che svincolatosi da lei si lasciava cadere sul canapè accosto, Giacinta con un rapido movimento gli si sedeva sulle ginocchia, avvolgendogli di nuovo le braccia al collo: - Mi vuoi bene? - Sí. - Mi vorrai sempre bene, sempre? - Sempre! - Oh, se un'altra Adelina, venisse a legarci ancora piú forte! - Ma! ... - Come ti voglio bene! Andrea, vinto, la faceva saltare leggermente sulle ginocchia baciandole e ribaciandole una mano.

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Non piú bambina oramai, perché aveva già troppo sofferto, e non abbastanza donna perché non aveva ancora sofferto abbastanza, la sua figura pareva diventata piú grande nella malinconia, gli occhi chiari si riempivano ogni momento di pensieri, una piccola ruga guizzava spesso nell'infossatura dei sopraccigli e la meschina era sempre in sospensione, in attesa, in paura o di qualche nuova disgrazia, o di una baruffa, o di un brutto incontro. Il piangere, senza lasciarsi scorgere, il mangiare poco e male fingendo d'averne abbastanza, il dormire affannoso, e quando non dormiva, quel continuo rotolare nel letto, quel sobbalzare improvviso a un improvviso abbaiamento ... Quante volte le pareva di udire la voce di Giovedí lamentarsi sulla scala! e insieme un'altra voce d'uomo che cerca la carità, che si raccomanda! Per quanto lo zio Demetrio avesse cercato di attenuare la triste impressione del fatto, velando e negando molti particolari, pure essa non aveva piú dubbio che il suo babbo si era ucciso lassú in quell'orrido solaio, tra quelle travi nere sotto il tetto, dietro quell'uscio massiccio che il vento scoteva spesso la notte, riempiendo la casa di terrore. Nel buio essa non vedeva che quell'apertura nera spalancata davanti come una tetra voragine, piena di ragnatele e di sordidezze nefande: e guai se sfinita di forze si addormentava nella lugubre immagine di quelle travi incrocicchiate! Un grido la faceva trasalire; balzava sul letto al suo stesso grido, colla fronte in sudore, col cuore in frantumi, stava a sentire, le pareva che qualcuno passeggiasse leggermente per la stanza, girando intorno al letto, rimestando nei cantucci, inquieto, bisognoso di qualche cosa, finché una voce sommessa, o, per dir meglio, un fiato d'anima errabonda le traversava il corpicciuolo, lasciandovi i brividi della morte. Se ella avesse potuto dare tutto il suo sangue per arrestare quell'anima in pena, per far tacere quella voce che, sibilando, le parlava di cose incomprensibili nel buco delle orecchie, non avrebbe esitato un minuto. Aspettava con ansietà il giorno della sua prima comunione. Forse Dio in quel dí avrebbe avuto pietà di lei, avrebbe ascoltato i suoi voti. Se fosse stata piú grande, avrebbe voluto rinunciare subito alle cose del mondo, farsi tagliare i capelli — quella bellezza di capelli —, vestirsi di nero, andare negli ospedali, nelle missioni, dovunque insomma si può fare del bene, non per sé, ma per dare un sollievo a quell'anima vagabonda, che non trovava requie. A furia di pensarci, fu essa che persuase zio Demetrio a pagare il debito verso il Martini e a rivolgersi per questo al signor Paolino delle Cascine. Col tempo avrebbe pagato col suo lavoro quel debito. E quasi subito le parve che la povera anima fosse piú sollevata. Forse ella aveva indovinato ciò che andava da lungo tempo sussurrando e se ne consolò; a poco a poco imparò ad ascoltarla e le parve di capire un'altra volta che aveva bisogno di una messa. Cosí si abituò ad averne meno paura. Un prete le aveva detto che un atto di pentimento sincero in extremis può salvare l'anima del piú feroce assassino, e che le buone opere dei vivi sono tante leve per i poveri morti. Dunque c'era speranza che l'anima del suo papà potesse salvarsi: per lui essa offriva a Dio il bene, che avrebbe potuto fare e godere quaggiú. Una domenica, coi denari prestati dal signor Paolino, si presentò insieme allo zio all'uscio del Martini, che abitava una modesta casa in via Larga. Strada facendo, mentre si attaccava al braccio dello zio, non si scompagnò mai da quello spirito che l’immaginazione eccitata e quasi ossessa trascinava con sé dappertutto, anche in mezzo alla folla e in piena luce di mezzodí. Piú d'una volta dovette fare un gran sforzo di volontà e di raziocinio per non voltarsi a guardarlo. Demetrio, tutto chiuso e conturbato ne' suoi pensieri per il difficile passo che stava per compiere, non sentí due o tre volte il braccio di Arabella guizzare sul suo e tutta la sua personcina vibrare come un filo preso dalla corrente. Quasi non vedeva due passi innanzi, come se la soggezione e la vergogna d'incontrarsi col Martini facessero una nuvola davanti agli occhi. Pensava a quel che egli avrebbe potuto dire, senza riuscir mai a mettere insieme due mezze parole in un'idea. Solamente la coscienza in fondo pareva dire brontolando: "Si fa presto ad ammazzarsi: la vergogna e la penitenza toccano a chi resta." "C'è il signor Martini?" chiese Demetrio a una vecchietta, che venne ad aprire con in braccio una bambina di pochi mesi. Erano la madre e la figliuola del disgraziato. "Che cosa desidera?" chiese la vecchina con un fare cerimonioso, invitandoli a entrare. "Avrei del denaro da consegnargli" balbettò Demetrio. "Vengano avanti. Vado ad avvertirlo." Rimasti un momento soli in anticamera, Demetrio disse ad Arabella: "Lasciami andar innanzi solo. Aspettami qui ... ." E a quell'uomo coraggioso tremavano le gambe. Quando tornò la vecchia, Arabella stese le mani alla piccina, e con quel diritto, che ogni donna ha sui deboli, la tolse in braccio nel suo guancialetto e andò a sedersi presso la finestra per contemplarla bene negli occhi. Essa aveva molte cose a dire a quella piccina. Appoggiò il viso al visino e nascose cosí le lagrime. Demetrio intanto era passato di là. La vecchia Martini, contenta delle carezze che la ragazza dava alla sua piccina, venne a fare delle confidenze. La sua Mimi era nata sotto cattiva stella: la mamma morí nel metterla al mondo, e ora il governo mandava via il papà lontano, fino in Sardegna. Era un trasloco senza promozione, senza miglioramento di stipendio, per colpa d'un birbone che l'aveva tradito, sotto la maschera dell'amicizia ... "Ne ha passate quel povero martire in questi quattro mesi!" continuò la vecchietta intenerendosi "ne ha patite piú che Gesú in croce. Il governo ha riconosciuto la sua buona fede, la sua innocenza, sta bene; ma ci vuole un esempio, e il meno che possono fare è di mandarlo via per qualche tempo collo stesso soldo. Ma i denari perduti ha dovuto rimetterli: e ora non può condurre una vecchia e una bambina fino in alto mare. Dovrà fare due case; lasciar me colla piccina e colla balia, e andarsene solo colle sue malinconie ... Questo si guadagna a fare il galantuomo." Mentre la buona donna sfogava il suo corruccio, contando per la centesima volta una storia che non poteva levarsi dal cuore, Arabella tuffava sempre piú il viso nel guancialetto, a cui si stringeva colle braccia come se cercasse un appoggio per non cadere. Demetrio passò in un salottino, sparso di roba in disordine, dove trovò il Martini tutto occupato a riempire delle casse. I due uomini s'incontravano per la prima volta. "Ho il piacere ... ?" mormorò il padrone di casa per avviare una presentazione. Aveva ragione la sua mamma: i colpi della vita avevano dimezzato il disgraziato. Demetrio, dopo aver fissato gli occhi in un angolo in terra, come se cercasse la parola, disse parlando al muro: "Io sono ... , io sono il fratello di Cesarino Pianelli, vengo a pagarle un debito che ... ." E per finire la frase trasse il portafogli, ne levò due biglietti da cinquecento, che collocò sopra alcuni libri della scrivania, agitando la testa sotto la violenza di piccoli scatti nervosi. Il Martini, che non si aspettava quella visita, còlto all'improvviso, assalito in mezzo alle sue dolorose preoccupazioni da una folla di piú dolorose rimembranze, non seppe sul momento che cosa dire. "La cosa ... veramente ... Io non so se devo ... " balbettò. "Non possiamo pagare il danno morale, questo no: ma se lei può perdonare a quel poveretto, anche per la pace de’ suoi figliuoli, fa un'opera di carità." Un urto di passione soffocò le sue parole, che finirono in un gesto lento e supplichevole. Il Martini chinò il capo e socchiuse gli occhi. Stese la mano e strinse fortemente quella di Demetrio, parlandogli vivacemente cogli occhi negli occhi. Sapeva che anche Cesarino aveva lasciata la famiglia in gravi imbarazzi ed esitava ad accettare; ma Demetrio lo persuase a non dir di no, non tanto per la cosa in sé, quanto per la pace dei vivi e dei morti. Poi soggiunse: "C'è qui una sua figliuola che vuol essere quasi perdonata per il riposo di una pover'anima. Se permette ... ." Andò all'uscio, fe' un segno ad Arabella, che sulle prime non ebbe la forza di muoversi. Alzò il viso inondato dal guancialetto, e, sentendosi chiamare, si alzò, consegnò la bimba alla vecchietta, che la guardava con un senso di meraviglia, e dopo tre o quattro passi involti e legati, sul punto di varcare la soglia, si sentí come presa alla vita e vivamente trasportata dalla forza invisibile che l'accompagnava. Corse, quasi volò incontro a quel signore pallido vestito di nero, gli gettò le braccia al collo con affettuoso abbandono, si attaccò a lui con tutta la forza, rovesciando indietro la testa, socchiudendo gli occhi, sospirando: "Ci perdoni ... ." La vecchierella sull'uscio crollava il capo nella sua cuffietta bianca, col guancialetto dimenticato sulle braccia. Lo zio e la nipote, senz'altre spiegazioni, uscirono da quella casa piú consolati, e strada facendo l'una si attaccava al braccio dell'altro con un senso di piú domestica intimità. Non si dissero una parola fino a casa: ma due persone non avevano mai parlato e non s'erano mai capite tanto. Prima di andare a letto, quella stessa notte, Arabella si chiuse nella sua stanza e scrisse una lunga lettera a Paolino delle Cascine, suo benefattore. Finiva col dirgli: "Non cesserò mai di pregare il buon Dio e il mio Angelo custode, perché possano essere esauditi tutti i voti del suo cuore. Ella ha fatto una grande carità a me, a’ miei fratellini, alla mia disgraziata mamma, al mio povero papà". E mentre scriveva il nome del suo povero papà, le parve di udire un fruscío nella stanza e vide la fiamma della candela piegarsi da una parte quasi mossa da un sottile alito di vento.

VECCHIE STORIE

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Suo marito se l'era tirata in casa ancor ragazzina, con una gonnella di cotone e un paio di zoccoli sui piedi; l'aveva mandata a scuola un po' di tempo dalle monache, e quando la servetta gli parve cresciuta abbastanza, se l'era sposata per avere una compagna fedele. Il poveretto, più vecchio una ventina d'anni, pativa d'asma e di mal di cuore, ed è sempre prudenza aver qualcuno che ti assista in un bisogno e ti faccia compagnia la notte. - Era bella? - Bellissima no, ma un musettino gustoso di servetta friulana, con dei riccioli biondi che incorniciavano un bell'ovale colorito e sano. Gaia, spiritosa come tutte le nostre venete, la fortuna non l'aveva fatta salire in superbia. Nella sua ignoranza aveva un fascino naturale, non guasto dalle solite compassature del galateo sociale. Gente in quella casa ce ne andava poca, tranne qualche provinciale, che capitava di tempo in tempo a trovar la Nina diventata parona . L'unica persona di riguardo, che visitava con qualche frequenza l'imp. reg. impiegato della contabilità era il dottor Franzon, un professore della facoltà medica, compatriota del Malgoni e suo medico curante. Franzon era già una mezza celebrità fin da quel tempo per le sue fortunate operazioni ostetriche, e la gran scienza faceva perdonare in lui il naso d'aquilotto e i modi di villan scozzonato e superbo, che gli avevano meritato il titolo di dottor Grobiàn . L'onore e la scienza di tanto uomo si riverberavano sulla modesta casa Malgoni, specialmente dopo che Franzon era salito in auge alla Corte per una felice operazione, che aveva salvato alla monarchia uno dei trecentotrentatrè arciduchini d'Austria. E poi fa sempre comodo d'aver un dottore amico, quando si soffre d'asma e di palpitazione di cuore. La siora Nina era in una continua trepidazione davanti a un omo de tanto riguardo , molto più che Malgoni, indulgente su molte cose, diventava ancor il paron terribile, quando si trattava d'invitare a pranzo l'illustre Franzon. Guai se il manzo non era a giusta cottura! guai se il caffè non aveva quel tal profumo delicato! guai se Nina non faceva gl'inchini bene e non rispondeva a tono: - Sior sì, sor dottor; sior no, sor professor.... "Un omo che aveva delle influenze a Corte, che, con poco rispetto parlando, aveva visto un'arciduchessa in camicia, un dottor di quella forza, un professoron come Franzon, che si degna de magnar la tua minestra, non è un caso che cápita a tutti; oltre all'onore, poteva sempre far del bene a un imperiale e regio impiegato, onesto, religioso e di sani principii." - Ho capito. La siora Nina non si divertiva troppo. - E no, poverina! quando i due cravattoni cominciavano a parlar di politica, e a tirare in scena la Dieta e Metternich e a parlare in barlich e barloch e in flit e futter , essa usciva volentieri col secchiello a prender l'acqua sul pianerottolo. Era in quei momenti e durante quelle brevi scappate ch'io coglievo l'occasione per recitarle il mio sonettino, per dirle che le volevo bene, per baciarle la punta di un dito. Non più in là, s'intende. Essa non era donna da dar confidenze agli studenti e io, povero matricolino, ero troppo ingenuo per far della concorrenza a Metternich. La cosa andò avanti così un bel pezzo, tra un trillo di flauto, un sonetto e un secchiello d'acqua, quando Malgoni ammalò gravemente di quel suo battito di cuore e parve sul punto d'andarsene all'altro mondo. Franzon si mise al letto dell'amico e gli usò una assistenza fraterna. Quando non bastava il dì, rimaneva la notte accanto alla siora Nina che scaldava i brodi; e siccome ogni servizio merita compenso, e non c'è amicizia che in qualche modo non si faccia pagare, il bravo dottor e professor, forte dell'amicizia di Metternich e della sua prepotenza, credette d'onorare anche la moglie del suo vecchio amico. La Nina, una povera servetta senza esperienza, còlta di sorpresa, nella sua suggezione, nella sua paura, al buio, di notte, accanto al marito quasi morente, dominata dalla forza d'una passione brutale e poi spaventata dal sofisma del fallo compiuto, dopo essere stata vittima, si credette quasi complice del tradimento. E tacque e simulò. Franzon poteva fare del bene a Malgoni; ma poteva anche fargli del male. La povera donna, sprovveduta nella sua ingenua ignoranza d'ogni energia morale, credette, simulando, di evitare a suo marito un gran dolore. C'era da farlo morire di crepacuore quel pover'uomo, se gli avesse detto di qual refe era fatta l'amicizia di Franzon. E non si accorse che intanto l'uomo scaltro ed erudito la dominava con la sua stessa paura e l'appoggiava come una schiava al carro della sua colpa. Quando tornai a Padova, dopo le vacanze, mi parve di leggere nel volto meno chiaro della bella Nina come una nota misteriosa di dolore e di avvilimento. Essa mi fece capire che aveva qualche ragione segreta di vivi dispiaceri. Malgoni stava abbastanza bene e aveva ripigliato il suo ufficio; ma l'amico di casa s'era impadronito così bene del cuore del suo malato, che ormai il pover' uomo non vedeva che per gli occhi del dottore, non parlava che per la sua bocca. Non ci vuole che un marito per non vedere: ma la gente cominciò a mormorare. Le donnette volevan quasi far credere che il dottore mirasse ad avvelenare Malgoni colla digitale o a corroderne la vita coi deprimenti. Questa calunnia, messa fuori colla solita sventatezza delle teste piccine, non fu senza conseguenza per una fantasia riscaldata come la mia; la malinconia, il pallore e le lagrime della povera siora Nina non erano per sé un terribile capo d'accusa? Da quel dì cominciai a guardare in cagnesco il piccolo dottor Grobian, dal naso d'aquilotto, dalle spalle di facchino, che andava schiacciato sotto l'enorme tuba e infagottato nell'enorme cravattone di seta. E siccome ringhio suscita ringhio, anche Franzon imparò a conoscermi e a guardarmi in cagnesco tutte le volte che m'incontrava sul pianerottolo o nell'androne della casa. Anche lui aveva le sue spie, e qualcuno doveva avergli parlato dei miei sonetti e de' miei trilli di flauto. Si arrestava con sfacciataggine a squadrarmi, colle mani dietro alla schiena, colle quali dimenava una grossa canna come una coda e con quegli occhi pesti pareva dirmi: - Ocio , matricolino che so tutto e ti posso far legare. - Il Trovatore , aveva delle velleità patriottiche, io era allora un bel giovinotto, con un bel pizzo di barba: e anche quel po' di barba poteva essere interpretata come un'idea sovversiva. Parlo dei tempi dei tedeschi. Messo tra un marito geloso e un ringhioso amico di casa, il meno che potessi fare era di usar prudenza, di rimettere il flauto nell'astuccio, di sacrificare qualche sonetto, di compatire da lontano a una povera donna caduta come un'agnella negli unghioni d'un orso buono e stupido e di un lupo furbo e affamato. E le cose sarebbero andate avanti un pezzo così, e sarebbero fors'anche finite in qualche maniera colla pace e colla noia, se tutto ad un tratto l'illustre Franzon non fosse stato ufficiato ad assumere la direzione dell'Ospedale delle partorienti a Venezia, carica che portava il grado di medico di Corte e il titolo di cavalier della Corona di ferro. Bagatella! Questa nomina che lusingava la sfrenata ambizione e l'avidità del bravo ginecologo, poteva essere per la siora Nina una vera liberazione. Ma la poverina aveva fatto i conti senza il lupo. Franzon non era un uomo da rinunciare troppo facilmente a una passione e a una comodità, neanche per l'onore della Corona di ferro. Scrisse da Venezia all'amico che c'era una bella combinazione, un posto vacante alla contabilità di quella delegazione, con qualche vantaggio di soldo, che lui poteva raccomandarlo a persone influenti: e poi tornò a scrivere che l'aria delle lagune più calma, più carica di sale, era fatta apposta per i mancamenti di respiro; non perdessero tempo, inoltrassero subito una domanda all'I. R. R.delegato: al resto pensava lui.... - Il lupo voleva avere la pecorella vicina.... - Precisamente così. La povera Nina che di quella maledizione ne aveva abbastanza, usò di tutta la sua influenza presso il marito perchè non si movesse; gli dimostrò che a Padova stavan bene, che vi avevano amici e parenti, una bella casa, tutte le migliori comodità, mentre un trasloco è una tempesta, un danno, un fastidio infinito. Pregò tanto, carezzò tanto la barba grigia del suo Malgoni, che costui, pigro già la sua parte e nemico dei trambusti, finì col ringraziare l'amico lontano e disse di no. Questa risposta non fece che aguzzare la voglia dell'illustre ginecologo e colla voglia il dispetto e la rabbia. Tornò a scrivere; ma vedendo che sprecava il suo inchiostro, e che Malgoni era deciso a non muoversi, cominciò a insinuare bel bello qualche sospetto nell'animo dell'amico. Gli fece capire che la Nina aveva qualche motivo di non abbandonar Padova, città allegra, piena di studenti e di capi scarichi, che fanno all'amore coi sonettini e coi trilli di flauto.... - Birbo! - ....Tre volte birbo! Il marito, facile a insospettirsi, aprì gli occhi, osservò dissimulò, e può essere che cogliesse qualche segno a volo. Ma non volendo far scene per paura d'uno scandalo, una sera, detto fatto, annuncia alla Nina che aveva accettato il posto: si preparasse a sbarazzare la casa e a partire per Venezia, La povera donna, che cominciava appena a respirare e a godere la sua libertà, còlta in un momento cattivo, dichiarò a Malgoni che lei a Venezia non sarebbe andata.... - Ah! tu non vuoi venire? - gridò con voce ironica il vecchio geloso: e siccome l'amico lontano in quei giorni aveva avuta la bontà d'inviargli tutta la raccolta de' miei sonetti innocenti, in cui il nome di Nina tornava spesso a rimare con divina , armato di quei documenti, si scagliò sulla povera donna e cominciò a batterla. - So tutto, svergognata! so tutto, brutta traditora, senza cuore e senza carità. E tu fai all'amore, mentre hai il marito malato, quasi moribondo? e tu dimentichi così il bene che ti ho fatto, brutta servaccia? E siccome non cessava di picchiare con un pezzo di riga sulla spalla e sulla testa della povera donna, alle grida, ai pianti di costei, sì risvegliò la casa, si aprì qualche finestra, comparvero dei lumi e cominciarono gli uhè.... di sotto e di sopra. La Nina che non capiva bene per colpa di chi la battesse il suo padrone, aveva cercato di scappare dall'uscio sul ballatoio; e fu allora che il vecchio esasperato, pensando che volesse fuggire di casa, le sbarrò il passo, l'afferrò pei capelli e la fece strillare come un'aquila. Era troppo ormai anche per un matricolino. Corsi di sopra, piombai su quel disperato, che al mio comparire si fece livido; poi non so dire quel che sia avvenuto. Pare che l'emozione fosse troppo forte per il vecchio malaticcio, o che una violenta stretta di cuore soffocasse insieme la bile, il sangue e la vita. Cadde come un sacco slegato, lo circondarono, lo portarono sul letto, e nella notte stessa morì, con infinito spavento della povera Nina, che s'immaginava quasi d'averlo ammazzato. Due giorni dopo questi fatti alcuni compagni corsero a casa mia ad avvertirmi che avevano arrestato Branchetti, il direttore del Trovatore e che la polizia era in cerca di me. Non era il caso di stare ad aspettarla. Le guardie entrarono in casa mia e sequestrarono le carte, le robe, il flauto. Padova non era più aria buona per me: e per non aspettare di peggio, la notte stessa presi la strada del confine. - Era anche questo un intrigo di Franzon? - ....Còlto nel segno! Coll'ingegno che natura gli ha dato, egli aveva saputo dimostrare alla polizia centrale di Venezia che a Padova si congiurava contro l'ordine costituito e che un branco di giovinastri mazziniani nelle conventicole del Trovatore inneggiavano all'Italia sotto l'allegorico nome di Nina. - Che talento! Non poteva vendicarsi con più spirito. E come finì? - Finì che, morto Malgoni e venuto al mondo, sei mesi dopo il funerale, un bel maschietto, la povera Nina trovò ancora della sua convenienza di andare a Venezia e d'acconciarsi in casa del suo nuovo padrone e tiranno; il quale qualche tempo dopo trovò della sua convenienza anche lui di sposare la vedova e tirarsi in casa quel po' di ben di Dio che Malgoni le aveva lasciato sul testamento. La siora Nina dev'essere morta qualche tempo prima che entrassero gli Italiani in Venezia. - Bella storia! e Franzon? - Franzon sano, robusto, vispo come un pesce, di trionfo in trionfo, oggi è diventato una mezza illustrazione della scienza europea. Si dice che alla prima infornata abbiano a farlo senatore. - ....È naturale! Non son più i tempi dei tedeschi.

La morte dell'amore

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De Roberto, Federico 1 occorrenze

… E si può dire di conoscerla mai abbastanza? Perché, guardi, tutto questo è ciò che suggerisce la logica, il buon senso; ma se io l’amo ancora, quest’uomo? Se il cuore mi sanguina, rileggendo queste fredde parole, queste frasi studiate, dopo le lettere pazze che gli scrivevo fino all’altr’ieri? Se non posso, non posso rassegnarmi all’idea di perderlo, dopo quel che mi costa, dopo quel che siamo stati l’uno per l’altra? Ma non è vero che io prevedessi di non poterlo più amare, non è vero che io fossi già stanca: se pensai questo, fui una sciocca, fui una stolta, perché non potevo giudicare della forza d’un amore che non era ancora stato ancor messo alla prova… – Badate: qui sotto potrebbe nascondersi quell’illusione molto frequente che consiste nell’apprezzare una cosa pel solo fatto d’averla perduta. – Illusione, realtà: dove cominciano? dove finiscono? – disse la giovane, voltando un foglio del suo taccuino. – Vi sono certe realtà di cui neppur ci si accorge, e certe illusioni che ci mantengono in vita… Io sento di non poter vivere senza quest’essere che è stato tanta parte, la miglior parte di me. Io sono impegnata da un giuramento, e lui pure… È una cosa sacra, il giuramento; non si può calpestarlo così. Ho il dovere di rammentarglielo, egli mi ascolterà; perché anch’egli deve soffrire. Io non sono stata eloquente abbastanza; se egli ha rifiutato di cedere, il torto è mio, che non ho saputo assicurarlo della forza di quest’amore. Forse in questo momento, mentre io mi struggo per lui, anche egli anela di rivedermi, anche egli vorrebbe chiamarmi. Un senso di falso amor proprio ci ha trattenuti: una sola parola basterà a dissipare quest’incubo… "No… – continuò Emilia, riprendendo a leggere nel suo taccuino – non è vero, non è possibile che tu m’abbia detto quelle parole. Certe volte, i sogni hanno l’intensità della vita vissuta: io ho sognato. Tu sei sempre l’amor mio forte e soave; se anche tu volessi, non potresti, intendi? lasciarmi. Tu hai dimenticato un momento quel che sono stata per te; ricordati, vedrai se ho ragione! Tu mi hai detto, colle tue labbra, che io sola t’ho compreso, io sola t’ho compianto, io sola ho cancellato i tuoi lunghi dolori, io sola ho compensato le tue infinite amarezze, io sola ti ho fatto pianger di gioia. Tu non me l’hai detto soltanto: io ho visto le tue lacrime, io ho pianto con te. Tu hai voluto riscattare col tuo sangue il mio pianto; ora, comprendi, quando questo è avvenuto fra due creature, esse non possono dividersi più. Vedi bene che noi siamo legati per la vita e per la morte, come tu mi giurasti, come io ti giurai. Ed ascolta: vienimi accanto, metti la tua mano nella mia, reclina il tuo capo sul mio petto: ti ricordi quante volte, restando così, tu mi chiedevi di dirti che cosa tu eri per me, com’era fatto il bene che ti volevo? ti ricordi come t’aprivo il mio cuore, come pensavo a voce alta; e come t’estasiavi a quelle prove d’amore che tu stesso mi suggerivi, senza avvedertene? Ebbene: nessuna di quelle prove era seria, nessuna aveva un valore: la prova vera, la prova grande, la prova unica io posso dartela ora, amandoti ancora, amandoti più, dopo quel che m’hai fatto: ora soltanto tu puoi credere a questa passione e andarne superbo. Quante volte mi hai fatto giurare che io non avrei mai avuto secreti per te! che t’avrei mostrato sempre tutti i moti più intimi del mio cuore, tutti i miei pensieri più reconditi! Vedi bene che tu devi sapere quel che io provo ora per te: lascia che te lo dica; farai, dopo, quel che vorrai; mi lascerai ancora, se ti piacerà… No; tu non farai questo!… Ascolta ancora. Se tu hai riacquistata la tua fede unicamente per me, io, sola fra quanti ti circondano, ho creduto in te. Non lo sai? Dicono che i tuoi sguardi sono falsi, che le tue labbra mentiscono, che l’anima tua è corrotta… Io sola ho creduto ad ogni tua parola; non è vero che io sola ho letto in fondo al tuo limpido sguardo? Che cosa sanno gli altri di quel che so io? Ma non fare che anch’io disperi di te; non disperare tu stesso: sarebbe troppo triste, troppo malvagio. Provami ancora una volta che io ho avuto ragione, abbi fede in te stesso!… No; non mi dar retta! Ho avuto torto di scriverti questo. Ma è che io non so più quel che dico… Se potessi vederti un istante!… Non ti direi nulla: credo che morirei ai tuoi piedi… Una volta, io ti dissi: "Come sai bene pregare!…". Ti ricordi quando te lo dissi?… Ebbene, oggi son’io che ti prego, ti supplico, ti scongiuro, in nome di Dio, dell’amor nostro, di tutto quel che hai di più caro al mondo, pei tuoi stessi dolori che io ho divisi, per la memoria dei tuoi poveri morti che io ho amati, per la morte che può cogliere d’istante in istante noi stessi, ti scongiuro di non abbandonarmi, di ascoltarmi… di lasciare, almeno che io pianga un’ultima volta al tuo fianco…" –. La voce della giovane tremava un poco; il suo sguardo velato si distoglieva dalla carta, intanto che la duchessa, visibilmente commossa anche lei, esclamava: – Come l’amate! – Ma, a quelle parole, come quando una brezza sottile increspa la superficie dell’acqua, la fisonomia di Emilia si venne corrugando fino ad atteggiarsi ad un sottile sarcasmo. – Come l’amo!… – ribatté, ridendo – vuol dire come sono sciocca!… Deve bene trionfare costui, non è vero, vedendo la mia disperazione; deve ben sorridere di vanità soddisfatta!… Il suo amor proprio sarà, senza dubbio, gradevolmente solleticato dallo spettacolo del mio cordoglio… – Allora, il vostro amor proprio s’impenna… – Allora, la mia tenerezza, la mia sommessione, la mia fiducia, tutti i miei buoni movimenti sono dispersi dallo sdegno, dall’odio, dal bisogno feroce di dirgli in faccia che non so che farmi di lui, che egli s’inganna stranamente se ha creduto al mio dolore! – E dopo la lettera d’implorazione, ne avrete scritta un’altra di disprezzo… – Ciò che ho scritto è appena la millesima parte di ciò che ho pensato. Ella si stupisce della contraddizione che scoppia tra gl’impulsi ai quali obbedisco? tra la ragionevole rassegnazione e la passione disperata, tra l’umile preghiera e la rivolta sdegnosa?… – Non mi stupisco affatto: nulla di più umano che la contraddizione e l’assurdo. – Io sento dentro di me dieci, cento donne diverse, una moltitudine di esseri ciascuno dei quali vorrebbe operare a sua guisa. E il più strano è che tutte costoro non parlano già ad una per volta, ma insieme, interrompendosi, contraddicendosi, confondendosi tumultuariamente. Lo scritto ha il torto di non dimostrare questo dissidio… – Consolatevi pensando che anche la parola sarebbe impotente. – È vero! La nostra mente è un abisso!… Io debbo dunque implorare costui, per dargli la soddisfazione di respingermi ancora? Ma è una cosa ridicola! Qual donna al mondo ha mai pregato un uomo così? Io potrei implorarlo se fosse un altro, se non fosse una creatura malvagia e bugiarda. Perché hanno ragione gli altri; e l’imbecille son io! Come ho fatto a pigliarlo sul serio, a soffrire tanto per lui? Ed egli avrà riso di me!… Ma se non l’amavo più! se ero così stufa da non saper che inventare per evitarlo! se non l’ho amato mai! – Oh, questo poi… – Ma sì, ma sì… anche al tempo del nostro idillio, io ridevo talvolta tra me delle mie declamazioni! Allora, soffocavo le mie risa; ora sono esse quelle che soffocano me! Ora ho bisogno di prendere la mia rivincita. Ma quel che ho tentato di scrivergli non può dare la più lontana imagine di quel che mi ribolle dentro… – La vostra lettera dice?… – "Caro signore, le sono oltremodo obbligata della iniziativa presa da lei, tanto più che m’ha risparmiato il fastidio di prenderla da me. La buffa commedia che abbiamo rappresentato insieme minacciava di finire tra le fischiate della platea: era proprio tempo di smettere. Non è da dire per questo che essa non m’abbia dato un bel da fare! Mi sono, come si dice, stillato proprio il cervello per mettermi nei panni del mio personaggio, ho soffocato una quantità prodigiosa di sbadigli per mantenere un contegno decente; e il più comico è questo: che m’accorgevo benissimo di sprecare le mie fatiche, perché ella sbadigliava senza tante cerimonie, spalancando talmente la bocca, soffiando così forte, che era, anzi non era un piacere a vederla. Ella pel primo non credeva a ciò che le dicevo: è stata una delle rare prove di spirito che m’abbia date; gli elogi della gente l’hanno guastato, caro signore, ella s’è formato, intorno ai suoi mezzi, un concetto, mi consenta di dire, molto esagerato. Oramai ci conosciamo intus et in cute, si scrive così? e non abbiamo più nessuna ragione d’ingannarci scambievolmente. Il suo spirito è, creda pure, molto inferiore all’opinione che ne ha ella stessa; riconosco però che ne possiede abbastanza, e spero che ne mostrerà ancora un poco nella circostanza presente, non credendo neppure alla scena che le recitai l’altro giorno. Mi premeva di fare certe osservazioni, volevo verificare certi miei antichi convincimenti: addebiti a tutto questo la mia soverchia insistenza. Non importa: debbo averle fatto l’effetto di una famosa seccatrice! Questo pensiero la conforti: che non sarò mai più tentata di occuparmi di lei – glie ne do parola d’onore! Del resto, se l’ho seccata, debbo anche averla fatta ridere un numero infinito di volte; sono però in dovere di aggiungere che il ricordo di certe sue sciocchezze allieterà i miei giorni più tardi… Probabilmente, questa mia lettera le parrà poco sentimentale: ma le sentimentalità, signor mio, sono una cosa; e la verità è un’altra. La verità è che ella m’ha dato ciò che poteva darmi, e che io l’ho pagato abbastanza. Adesso, ciascuno proseguirà per la sua strada. Si diverta sempre – e che le nostre menzogne ci siano rimesse…". – Eh!… non c’è mica male!… – esclamò la duchessa con un fine sorriso. La giovane rimase un poco a capo chino, senza dir nulla, poi, passatasi lievemente una mano sulla fronte, disse, molto piano: – Ma sa lei che cosa ho provato nello scrivere questa lettera?… che cosa provo adesso dopo averla riletta?… Un secreto scontento, un pentimento addolorato, quasi un rimorso. Mi par d’avere, con sacrilega mano, profanato tutto quel che v’era di più puro in fondo al mio cuore. Io potrò accusare quest’uomo, io potrò disistimare la creatura che si è rivelata improvvisamente in lui; non potrò dimenticare le divine emozioni che m’ha procurato. Comunque egli sia fatto, è stato per me l’oggetto di un culto; qualcosa delle virtù che io gli ho attribuite è rimasta in lui, come qualcosa della santità che i feticisti vedono nell’idolo di cartone resta in esso e lo sottrae alla derisione degli stessi miscredenti… Poi, io penso che quest’uomo, come tutti gli altri, non è responsabile di quel che fa; penso che forse ne sarà punito, un giorno, più crudelmente che io oggi non possa imaginare… E tutto quel che v’è di buono in me protesta contro i propositi di vendetta, m’ispira invece una grande compassione per quest’anima ammalata… Senza tornare ad illudermi sul prezzo che ha potuto dare all’amor mio, penso che non sono stata per lui un’indifferente, che egli ha avuto fede, almeno per qualche tempo, nelle mie parole. Allora giudico che sarebbe degno di un’anima non volgare il dimostrare come, malgrado i torti ricevuti, di questa fede si voglia sempre essere meritevoli... – In altre parole, voi volete fargli vedere che siete migliore di lui! – Sarà forse questo il secreto movente: che importa? Una buona azione non diventa già cattiva pel fatto che ci torna comodo compierla… – Certamente! Così, voi avete abbozzato un’altra lettera ancora? – Sì, ed è questa… – Sfogliato il suo taccuino, la giovane riprese a leggere: – "Voi non volete più rivedermi: parto oggi stesso. Ho l’anima straziata; se voi poteste soltanto imaginare quello che soffro, vi farei molta pietà. Tuttavia, qualunque sia il male che voi m’abbiate fatto, vo’ dirvi, prima di lasciarvi, che non vi porto odio o rancore. La mano che oggi colpisce è la stessa che un giorno si distese a soccorrermi; non potrò dimenticarlo mai. Non vi dico questo per intenerirvi: nessuna speranza mi sorregge, capisco bene che tutto è finito, per sempre. Come sarà triste la vita che comincerà domani per me! Come potrò sopportare il ricordo dei giorni luminosi nell’oscurità che m’aspetta?… Sarà di me quel che vorrà Dio – e perdonatemi ancora questo momento di commozione. Sul punto di lasciarvi, consentitemi di dirvi un’ultima parola. Se l’avvenire è incerto per me, potrà anche darsi che ore dolorose suoneranno per voi: un giorno, potrete aver bisogno di qualcuno che vi stia al fianco, che stringa la vostra mano, che v’infonda coraggio. Io desidero ardentemente che questo giorno non sorga; ma se dovesse arrivare, ricordatevi di me. Dovunque io sia, venite: nulla potrà impedirmi di accogliervi come s’accoglie un fratello…". – È bello ed è nobile ciò che voi avete scritto! – disse la duchessa. – Però, se nel vostro cuore si combatte una così fiera battaglia, quale di queste lettere vi risolverete a spedire? – Lo so io, forse? – ripeté la giovane. – Se fossi capace di decidermi, non ne avrei scritte tante!… A lei stessa, mia buona amica, io ardisco chieder consiglio… – La vecchia signora fece con la mano un piccolo segno di rifiuto. – Non è un argomento intorno al quale se ne possano dare. – Perché? Io sono ridotta, non vede? in tale smarrimento d’animo, che non so più discernere da me la via giusta: una parola suggeritami da una persona superiore come lei, mi toglierebbe a questa dolorosa incertezza, mi farebbe un gran bene –. La duchessa restò un poco in silenzio; poi, guardando negli occhi la sua compagna, chiese: – Allora, voi farete quel che vi dirò? – Può esserne certa. – Ebbene… se non vi dispiace, cominciamo col riassumere in poche parole la vostra situazione. Voi siete stata abbandonata da un uomo. L’avete amato, ma cominciavate ad essere stanca di lui; dopo la rottura, la vostra passione si è ridestata. Voi avete scritto quattro lettere che definiscono i principali sentimenti cozzanti adesso nel vostro cuore: in una vi rassegnate filosoficamente, in un’altra implorate con grande calore, la terza è l’espressione del sarcasmo sprezzante, l’ultima d’una tenerezza pietosa e disinteressata. Va bene? – È così. – Però, nello scrivere tutte queste lettere, una secreta idea vi ha guidata: quella di vivere ancora nel cuore o nella memoria di cotest’uomo, di produrre un’impressione nell’animo di lui, di obbligarlo a ricordarsi di voi, per ammirarvi, per rimpiangervi. Ora, voi volete sapere da me in qual modo potrete raggiunger meglio l’effetto. – Può darsi che sia per questo; ma siccome, qualunque di queste lettere io manderò, è quasi certo che sarò lasciata senza risposta, imagini che si tratti di prender commiato soltanto. – O per prender commiato, o per quell’altra ragione, il partito è uno solo. – Quale lettera debbo dunque mandare? – La vecchia dama rispose: – Nessuna –.

La Colonia felice: utopia lirica (terza edizione)

663225
Dossi, Carlo 1 occorrenze
  • 1879
  • Stab. Tip. Italiano DIRETTO A L. PERELLI - Ditta Libraria di NATALE BATTEZZATI
  • prosa letteraria
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E sò, che a mè non parèa di avere occhi bastanti a mirarti, nè tu mai mi sembravi abbastanza vicino ... eppure! a darti la mano temevo, ma, se la mano posava già nella tua, non più sapevo ritrarla; sò che, appoggiata al saldo tuo braccio, mi sentivo sicura e inturgidivo d'orgoglio … Eppòi, quando ti allontanavi, e già la distanza avèa superato la vista, l'ànimo mi si velava di una dolcezza amarìssima, gli occhi mi diventàvan lucenti, màdido il viso, e allora amavo i luoghi a tè cari, dove, meditando il tuo aspetto, allibivo, smarrita in un soave languore, in una soavità tormentosa … e sempre la notte ... oh la notte! notte immensa ... infinita! - E ora - ella aggiunse infiammando, misto al timore l'audacia - per tè, lascerèi lo stesso mio babbo, ed anche la mamma, se già in mè non siedesse per non partirsi mai più, e per tè mi sarebbe ben lieve il sacrificio di vita ... ah che dissi! perdona ... Non sacrificio; sarebbe un tripudio ... Oh parla! ... Mario! è così fatto l'amore? - Mario, in un rapimento di cielo, meno intendendo di quel che sentisse, bevèa la voce di lei, flessuosa, come l'àrido suolo la pioggia. Ma il dolce timore di Forestina, piovendo nel feccioso suo ànimo, accrebbe in terrore; ed egli si svincolò dall'abbraccio, aggricciando e gemendo: - Ah sapessi chi sono! - Quello che io amo! - esclamò la fanciulla, riaviticchiàndosi a lui. - Non toccarmi! - egli oppose con ansia. - L'ira di Dio è contagio. - Dio non è che perdono - sorrise la giovinetta - Vèdilo in croce con le braccia aperte! - Ma inchiodate - ribattè Mario sconsolatamente. - Vi ha colpe senza perdono. Dietro di mè cadde il ponte ... Odiami! - Neppur potrèi non amarti - ella fece. Il Nebbioso esitò, commosso a tanta fiducia: poi: - O Forestina! - seguì dicendo mestìssimo - I morti vanno obliati. Chiusa è per sempre la tragicomedia della mia vita. Io non sono più mio; son del rimorso, spàsimo muto, insaziàbile fame ... Perchè tu devi sapere (e oh meglio sarebbe che la tua vèrgine mente potesse ignorare pur i peccati non suòi) devi sapere, che in ben altro paese, lontan lontano da quì, in altri tempi lontan lontani da questi, anch'io avèa un padre, un padre al quale non si sarebbe potuto rimproverare se non la troppa clemenza, e che per mè avrebbe dato tutto il suo sangue, se la metà non fosse spettata a un secondo suo figlio. Ed ei faticava per noi, e si struggèa, e pregava. Io intanto, giuoco di una petulante salute e di un riottosìssimo ingegno, gozzovigliava, impaludato nei vizi, per le taverne e pei chiassi, tra falsi liquori attizzanti a più false passioni, tra pestìferi baci appigionati e contati, tra gente, la quale, fuorchè onesta, era tutto ... Or mi potresti tu amare? - Il Signore ti perdonerà, chè non portasti la taverna nel tempio - proferì la fanciulla in accento di fede. - Ma nella taverna - ei riprese - si dileguava il paterno risparmio e l'ingenuo rossore, ma il clandestino addentellato dei vizi spargèvami innanzi, a mè sfiancato e ubbriaco, un mazzo tentatore di carte. Ed io giocài ... e perdetti: non ero ancor tanto furfante da vìncere ai bari. E, tuttavìa, colùi che a mè dava una fàcile gioventù, e al quale io, in compenso, apparecchiavo una vecchiaja di stenti, trovò scuse al mio fallo che io stesso trovar non potèa, e il babbo pagò di nascosto del padre. Ma inutilmente pagò. Diminuisce il pudore, aumentando il delitto: nè io più chiesi, esigetti; non più esigetti ... gli tolsi ... Mi ameresti tu ancora? - Trasalì la fanciulla; pur disse: - Tuo babbo, in cuor suo, ti avrà ringraziato, chè non togliesti ad altrùi ... - Ma intanto - interruppe il Nebbioso con sempre crescente emozione - pur perdonando, sanguinava quel cuore, e già il bersaglio era scarso a così spesse ferite. Venne una notte, in cui, a me nel bagordo, fu susurrato di un padre e di una agonìa ... Balzài ... Come in un sogno, corsi alla casa natia, implorài di vederlo. Era la prima volta, dopo tanti anni, che comparissi da lui per chièder solo di lui. Ma, sulla porta, ecco il fratello, che mi contende l'entrata, e mi dice - (e quì il Nebbioso chinò turbatìssimo il capo) - fuggi! sei maledetto. - Angelicamente subentrò Forestina: - La maledizione di un padre non arrivò mai al Signore. A Lui non arriva che ciò che parte dal cuore, e il cuore di un padre non può maledire. - Ma io - fe' disperato il Nebbioso - io ... Còpriti il volto, o fanciulla! ... ho ucciso il fratello!- Forestina esalò un gèmito lungo. - E or ripeti che mi ami! - Ella taque. Era pietra. - Vedi! - diss'egli cupissimamente. --- Albeggiava. Si udìano voci. Il Nebbioso saltò all'aperto su 'n masso che soprastava al pendìo, e apparve staccando nel mattinale chiarore. Ma, sì tosto, un rintrono: due o tre palle, fischiando, schiacciàronsi contro le rupi. Amore die' un acutìssimo strido; rifatta è carne la pietra; e già Forestina, precipitàtasi a Mario, lo ha circonfuso di lei, gridando: - Uccidètemi seco, io l'inseguitrice! -

IL FIASCO DEL MAESTRO Chieco (Racconti musicali)

664501
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

L'uno d'essi, però, il vecchio signore, non fu abbastanza lesto e rimase prigioniero fremente del marito, che non gli dava quartiere con le sue mazzate di positivismo greggio. "Una prova" disse la signora, aprendo il fascicolo sul leggìo. "Io suono loro due pagine di musica. Se v'è musica che parli, è questa. Qui c'è una scena e una storia, chiarissime. Ciascuno di loro me la traduca subito in iscritto. E non ci sono scuse! - Lei tradurrà in versi" mi diss'ella. Chiesi venir dispensato dai versi, avendo posata, secondo il solito, la mia letteratura nell'anticamera, con il soprabito. E poi una traduzione in versi non s'improvvisa. Intanto i due zelanti accendevano una candela per ciascuno, e io nascosi male un sorriso, chinandomi a leggere, in capo alle due pagine di musica: R. SCHUMANN (Dall'Op. 68 ) Donna Valentina vide il sorriso e, perché ci conosciamo bene, v'intese un volume di cose, sorrise pure, con la finezza più europea, con uno sguardo molto lungo, molto sospetto; il quarto o il quinto che avevo da lei, quella sera. "Scettico!" diss'ella, sotto voce. E strappò dalle viscere del piano il ripetuto angoscioso gemito che apre quella stupenda pagina di musica e vi ritorna ogni momento. Aveva una sera felice. Nel 'pianissimo' del ritornello, dopo le prime otto battute, mi parve proprio udire il lamento di un'anima. Gli adoratori della dama, tuffati in tre poltrone, ascoltavano con una tal quale segreta angustia, contemplando l'astro azzurrognolo sospeso in aria. Finito il pezzo, ne chiesero ed ottennero la replica; dopo di che il salottino giallo diventò un Parnaso all'opera. L'ufficiale, che nel conversare sciabolava de omni re scibili , si trovò, dopo due minuti, tutto attonito di non essere in vena; smise, per il suo meglio, di tirarsi i baffi e le idee. Il vecchio signore, il giovine biondo ed io, presentammo a donna Valentina le nostre opere complete. "Adesso si legge" diss'ella. "Già la scena è nel deserto, e sono due amanti che vi muoiono insieme". Il giovine diventò rosso e voleva riprendere il suo parto, ma donna Valentina non lo permise, riconobbe che la musica era una lingua senza dizionario e senza grammatica da non potersi tradurre lì per lì con sicurezza, e lesse ad alta voce questa prosa del vecchio signore elegante, persona molto a modo, del resto, e ingegno colto, ch'era una pietà di vedere umiliato ai piedi di lei da una passione ridicola.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675865
Garibaldi, Giuseppe 4 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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Quella buona signora, benché non più sul fiore degli anni, si manteneva abbastanza fresca e grassetta, poi piena di gratitudine alle attenzioni che il capitano le avea prodigate in quel finimondo di tempesta pareva corrispondere un po’ ai segni di simpatia non cortigianeschi, ma leali ed aperti dell’inglese il quale ripeteva tra sé stesso un adagio spagnolo imparato a Cadice: Tiempo d’hamhra no hai pan duro

La tempesta aveva rimesso della sua furia ma non abbastanza perché le donne non ne fossero disturbate nel procedere; per buona sorte la pioggia avea cessato ma i frangenti del mare inviavano i loro sprazzi sul volto dei viaggiatori in guisa da incomodarli assai. Pur bisognava scoprire il lido pria di addentrarsi nel bosco ed Orazio salito su d’un monticello di sabbia con dietro John spingeva l’acuto suo sguardo su tutta l’estensione del litorale già abbastanza rischiarato dal giorno. Fortunatamente nulla scoprì che dasse indizio di naufragio in quello sconquasso spumante dell’onde infuriate sulle deserte e desolate spiagge romane. Tornati alle donne, ch’erano rimaste in una specie di avvallamento del terreno, Orazio disse: «I nostri amici sono fuori di pericolo, tocca ora a noi a fare altrettanto». Così dicendo prese a destra per un sentiero a lui conosciuto e s’internò nel deserto accompagnato dalla silenziosa comitiva.

Essa avrà tempo abbastanza per piangere e trascinare una vita di dolore e di pentimento».

Il capitano Goulard, che sapeva abbastanza d’italiano per capire il discorso d’Attilio e che credette fosse a lui indirizzato: «Credo che non lungi di qui, - soggiunse -; i miei antenati Galli dessero delle famose sconfitte ai vostri padri Romani e senza le oche, a cui si raccomandarono, sarebbero scomparsi allora dalla terra». Attilio, stizzito, ma con calma, rispose: «Quando i vostri antenati camminavano su quattro gambe per le foreste della Gallia i nostri padri, i Romani, li trassero fuori, li piantarono su due piedi, e dissero loro: «siate uomini! a loro dovete la vostra civiltà moderna e la poca gratitudine verso di essi...». «Che mi parlate di gratitudine? - intervenne il legittimista. - Dovreste ricordarvi, che senza la Francia, questa vostra Italia una non sarebbe esistita mai e poca gratitudine dimostrate voi per tanti generosi francesi, che han seminato le loro ossa sui piani della Lombardia». «Oh! - ripigliò Attilio con veemenza. - Noi sappiamo distinguere la Francia generosa, ed i suoi prodi, pronti sempre a spargere il loro sangue per la libertà del mondo, dalla Francia Napoleonica che si è fatta propugnatrice del dispotismo dovunque, conculcando le giuste aspirazioni dei popoli». Ma soggiunse poi dopo un istante di pausa: «del resto noi siamo venuti per combattere e non per disputare». Il luogo che i dodici avevano raggiunto era uno di quei prati ameni che natura si compiace lasciare senza ingombro d’alberi nelle foreste e che sembra di nascosto compiacersi ad ornare con prodigalità di tutto lo sfolgorante suo lusso. Quel prato incantevole doveva servire a scene di furore, ed essere imbrattato di sangue. Il sito era scelto, misurate le distanze, i sei padrini sgombrarono dal centro, dopo aver gettato un’occhiata agli antagonisti; pronti a corrersi addosso. Il primo e il secondo segnale erano dati e si aspettava con ansia il terzo quando uno squillo di tromba che suonava la carica si fece udire improvviso dalla stessa via percorsa dai duellanti. Quasi simultaneamente si vide una compagnia di soldati stranieri del papa seguiti dal delegato Sempronio ed alcuni de’ suoi fidi ribaldi avanzarsi sul luogo della pugna. Qui conviene confessare che, quantunque mercenarii, gli ufficiali stranieri parvero mortificati e quasi sul punto di prender parte alla difesa dei loro avversarii. Certo poi li avrebbero consigliati ed aiutati a mettersi in salvo, se la truppa guidata dal delegato avesse dato tempo a riflessioni e non fosse venuta caricando impetuosamente alla baionetta la parte italiana. Contro gente comune, quella carica sarebbe stata decisiva e una fuga precipitosa, se fosse stato possibile fuggire, ne sarebbe stato il risultato inevitabile; ma i nostri romani erano tali da sostenere qualunque assalto per ineguale che fosse il numero. Al primo squillo essi gettarono un colpo d’occhio sugli avversarii, e riscontrarono con soddisfazione che non eran complici della sorpresa. Poi, facendo fronte agli assalitori, si ritirarono in ordine, senza precipitazione, senza sgomento, verso la selva, col revolver alla mano. La truppa, giunta sul luogo, vedendo che tra la gente che era venuta per assalire c’erano dei suoi ufficiali rimase perplessa senza sapersi che fare. Ma Sempronio che era prudentemente rimasto indietro, vedendo l’inutile risultato di ciò che chiamava il suo piano di battaglia, inferocì, gridando a tutta gola: «fuoco! fuoco! da quella parte! da quella parte!» segnando a dito i suoi concittadini del cui sangue aveva sete, e che vedea lentamente ritirarsi verso la foresta e raggiuntala far fronte alla truppa. I soldati, come abbian detto, esitarono un momento; ma i birri che accompagnavano il delegato fecero fuoco sugli italiani, i quali sebbene fossero coperti dalle prime piante del bosco ebbero due padrini feriti, ma leggermente. Il revolver d’Attilio fece immediata vendetta dei compagni feriti e la sua palla andò diritta al naso di Don Sempronio (poiché egli era un prete, vestito da birro) e gliene portò via una metà. Fu quello un colpo da maestro; perché Sempronio con grida e lamenti che destavano le beffe, non la compassione negli astanti se la diede a gambe verso Viterbo lasciando ad altri l’esecuzione del suo famoso piano di battaglia. Non tutti gli ufficiali stranieri erano vergognosi della brutta figura che facevano in questa circostanza: parendo evidente, che per paura di scontrarsi sul terreno cogli italiani, essi avessero preparato la sorpresa della truppa. La sorpresa era dovuta ad un maneggio del delegato di polizia che dalle sue spie, aveva conosciuta la presenza dei tre capi proscritti ed avea preso le sue misure per assicurarne la cattura, sperando con questo di meritarsi un berretto di cardinale. Ma, come dicemmo, non tutti gli ufficiali erano scrupolosi come i sei duellisti (e non lo era certo il capitano Tortiglia, comandante la compagnia di spedizione, carlista sfegatato). Allettato da un’impresa che credeva facile, contro pochi proscritti, si accinse ad inseguirli nel bosco col maggiore accanimento. Fin che durarono le cariche, i nostri amici che avevano pregato i due feriti d’inselvarsi, tennero testa agli assalitori; ma scarichi i revolver, furono obbligati a ritirarsi davanti ai soldati, che il comandante eccitava, spingeva, trascinava alla difficile impresa. Il capitano Tortiglia ripetendo ad ogni istante dei « Voto a Dios! e dei Caramba! »

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676078
Ghislanzoni, Antonio 5 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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Ma i due verdetti contradittorii della prima e non mai abbastanza deplorata vittima dell'infausto processo, mi hanno dato a riflettere ... «Io non mi accuso di aver mancato per negligenza o mal volere, ma temo che l'impotenza assoluta a lottare contro uno dei più abbominevoli trovati della industria moderna abbia tradito i miei calcoli. «Che qualche furfante, abusando della maschera-ritratto, a tanto sia riuscito da ingannare la mia accortezza non solo, ma anche quell'istinto di gentile penetrazione, quella direi quasi intuizione divina che è propria delle donne innamorate? ... Una tale ipotesi spiegherebbe molte cose; ed io non dispero che, profittando delle molte note da me tracciate in argomento, il mio successore riesca a scoprire la verità e a porgermi i mezzi di una giustificazione più completa. «E dopo questo, cittadini ladri, manutengoli, ecc. ecc., io rientro nella vita privata, ringraziando voi e la provvidenza, di avermi aperta, a svignarmela sano e salvo dal palazzo di Sorveglianza, una uscita abbastanza sicura, quale difficilmente vorrà offrirsi al mio successore. «L'EX BARONE TORRESANI» Quella sera al teatro Scalvoni e Barbetta si rappresentava una grandiosa tragedia-ballo in venti atti e sessantotto quadri, intitolata la Caduta di un Gran Proposto, ossia il tremendo verdetto della Giustizia divina per opera d'uno specillo galvanico Verso le ore sette, una ondata di oltre cinquantamila spettatori irrompeva nel gran teatro popolare. La impazienza e la concitazione del pubblico si rivelava dagli atroci latrati dei binoccoli canini(25).

Un secolo addietro, i ciarlatani della politica non giudicavano altrimenti il criterio dei pecoroni che si affidavano alle loro ciance; ma non eran abbastanza civilizzati per dichiarare alla Camera i loro apprezzamenti. Mentre il fascio degli equilibristi si andava scomponendo, i naturalisti guadagnavano aderenti. Nei centri più popolosi e più illuminati si aprivano nuovi Circoli. I recenti affigliati si prestavano con fervore da neofiti alla propaganda del principio. Nelle alte sfere governative, questa diversione dello spirito pubblico verso una riforma comparativamente retriva, era veduta di buon occhio. Pel giorno quindici dicembre i naturalisti furono invitati ad un solenne comizio nella capitale della gioia(35).

La famiglia non è abbastanza ricca per offrirvi dei lauti sussidii in denaro. Un lusso al giorno! ... è poca cosa, ne conveniamo. Ma alle spese delle gozzoviglie, dei capricci galanti, delle corse aeree, provvederanno i vostri talenti. «E infatti ... si è veduto: «Non appena questo bel trovato dell'amnistia generale ebbe scatenati sulle famiglie della Unione i trentamila fratelli detenuti, a tutte le porte delle abitazioni fu mestieri applicare la serratura a revolver. Il grande avvenimento venne festeggiato nelle principali città di Europa con luminarie e banchetti, ma tutti ricordano quali immediate prove di ravvedimento abbian fornito ai loro concittadini questi antichi martiri del cenobbio. Dalle finestre sparirono i candelabri, dalle mense le posate e le tovaglie. «Voi avete supposto che le multe, la denunziazione pubblica la nota di infamia e la morte civile potessero costituire, in un secolo illuminato, dei validi freni al delitto. Che faranno i ladri per soddisfare alle multe? La risposta è troppo ovvia: ruberanno. Le denunzie, le note di infamia potranno ancora far breccia, in quelle anime incallite al misfatto? Il più enorme dei vostri supplizi!, la morte civile ucciderà nel delinquente ogni senso di moralità; e voi lo vedrete, dopo i cinque anni di espiazione, ritornare al consorzio dei fratelli coll'odio di Caino nel cuore e con propositi atroci. I pochissimi rigenerati dalla espiazione, disperando dell'oblio promesso, soccomberanno alla lenta agonia del rimorso e della vergogna, o affretteranno il loro fine in una piscina dissolvente24).

Lo scenario è compiuto - le tinte locali son date - la ribalta è abbastanza illuminata - il coro ha recitato il suo prologo. È tempo che i personaggi principali si mettano in azione.

«A questi, sempre crescenti ausiliarii della iniquità e della corruzione, i governi opposero una resistenza in fino ad oggi abbastanza efficace. Nelle nostre mani le nuove armi fornite dal progresso alla depravazione ed alla colpa divennero una forza riparatrice. La nostra sorveglianza dalla terra e dal mare si estese alle amplissime regioni dell'aria. Abbiamo non pochi esempi di grandi ed audacissimi malfattori, catturati dai nostri agenti a poca distanza dalla luna. «Ma qual pro' da questa caccia affannosa e piena di pericoli? Noi inseguiamo il calabrone malefico, lo afferriamo, lo rechiamo trionfanti, esultanti, sul banco della giustizia, acciò questa si prenda il bel spasso di aprirci il pugno per ridonare il captivo al libero esercizio de' suoi perfidi talenti. «Tante grazie, signori riformatori del Codice penale! ... Ma non vi par tempo di finirla con questa buffoneria che si chiama il Ministero di Sorveglianza pubblica? A che serve lo inseguire, il catturare dei delinquenti, mentre alla giustizia più non rimane alcun serio mezzo di punizione? «Nei secoli addietro, allorquando a migliaia a migliaia i galantuomini, o dirò meglio, gli impregiudicati, morivano di fame, un cotal Beccaria finse di intenerirsi sulla sorte degli assassini appiccati alla forca. Tutti i filosofi dell'epoca fecero eco alla nenia, e la canaglia (ciò si comprende) proclamò il Beccaria altamente benemerito della Società umana. «La pena di morte venne col tempo abolita; tanto è vero che tutte le idee, anche le più strane e più esiziali, seguono il loro corso di rotazione e a lungo andare si traducono in fatto. I briganti, gli aggressori di strada, gli avvelenatori, i parricidi arsero dei ceri alla statua grottesta di Beccaria(23).

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

... ), ecco il solino che strozza, i bottoni inconciliabili col solino, la cravatta volubile, ribelle come una cosa viva, le bretelle mai allentate o raccorciate abbastanza, la giubba che si cosparge nei risvolti di polvere di riso ... Poi, con il cuore in tumulto, dover scendere nella sala da pranzo, doversi comporre per i duecento passeggeri, chè tutti si volgono verso il ritardatario, una maschera di calma disinvoltura, dover subire le peregrine arguzie del capitano: "Ecco il nostro caro avvocato ridotto all'estrema bellezza", con un tono che significa " ... poteva levigarsi un po' meno e non costringere gli stewards a ripassare due portate per lei ... ", e dover sorridere come un collegiale riverente; all'estrema bellezza! Veramente le febbri del Malabar mi avevano lasciato un volto scialbo, emaciato, nasuto ... Che importa? Ero amato, ero desiderato - direbbe l'eroe russo-napolitano di non so quale pochade - dalla più desiderabile creatura che ospitasse il Sumatra Non illividiscano i teneri amici d'Italia: saranno rivendicati alla fine della più spaventosa catastrofe che la mia civetteria maschile abbia patito mai ...

Vita da vita

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Mazzucco, Melania 1 occorrenze

Perché Rocco s'è caricato Vita in braccio: in mutande, con gli stivaletti slacciati e scombussolata com'è, non scendeva abbastanza veloce. Il tubo si stringe. Diamante si graffia le mani contro le giunture, s'incastra, si dimena, si libera, cade ancora a precipizio, sbatte, rimbalza contro le pareti di gomma. Non dubita mai di sfracellarsi. Rocco non lo permetterà. Da qualche parte, là in fondo, deve esserci qualcosa di accogliente. Rocco continua a vedere la cosa rossa. Continua a tentare di dimenticarla. Affonda il viso nei capelli di Vita. Vita gli serra le caviglie dietro la schiena, e le braccia attorno al collo. Trema come se piangesse, ma non sta piangendo. Non si mostrerà così debole, mai, mai, mai. Rocco scivola lungo il tubo, la giacca si lacera contro là gomma, i piedi frenano contro le giunture, il tubo dondola. Diamante pensa, è incredibile quanto possa essere buono un duro. Gliel'aveva detto di non venire con noi, e lei è voluta venire lo stesso, anche se nessuno disubbidisce a Rocco - e se ne pente, quando lo fa. Di più. Quando Vita non riesce più a trattenersi e svuota la vescica sulla sua camicia, Rocco non si arrabbia, non impreca, non la prende nemmeno in giro, come Vita meriterebbe che facesse e come Diamante stesso farebbe al posto suo. Finge di non rendersi conto che le mutande di Vita sono fradice, e fradicia è la sua unica camicia buona. Non la mette giù neanche quando cadono nel cassone della calce e affondano in un impasto molle che sembra fango. Si rialza e continua a tenersela avvinghiata al collo. Intreccia sotto le natiche di lei le grosse mani che non sa mai dove mettere e che gli sono sempre d'ingombro. E la porta, bagnata com'è, su e giù tra le buche del cantiere, lungo lo spiazzo illuminato dai fanali, su e giù per la recinzione, attraverso il filo spinato e poi, camminando con quella sua andatura inconfondibile, ciondolante, per decine di isolati, attraverso la città sempre meno grandiosa, sempre meno illuminata - Trentesima strada, ventesima, decima, zero - fino a casa.

Le Fate d'Oro

678876
Perodi, Emma 1 occorrenze

Non c'erano perle abbastanza grosse per farle il vezzo, brillanti abbastanza belli per comporle la corona, nè stoffe preziose degne di essere portate da lei. Il mercante lo sentì dire: pensò al suo bel vestito di teletta d'oro, e benchè fosse vecchio, stravecchio, volle mettersi in cam- mino per andare a vendere al re di Fran- cia la stoffa preziosa a gigli d'argento. Un re gliela avrebbe pagata da re, e Sgricciolina avrebbe avuto una bella dote. Abbracciò Sgricciolina, le raccomandò di essere buona, di star sempre in casa ad aspettarlo, e andò via. Cammina, cammina, arrivò finalmente alla Corte del Re di Fran- cia il giorno avanti le nozze; ma le guardie non volevano introdurlo alla presenza del sovrano. - Il Re ha già comprato tutti i re- gali; il Re non vuole essere disturbato. - Ma il mercante tanto insistè, che fu ammesso a udienza; e appena ebbe spiegata davanti agli occhi del sovrano la sua ma- gnifica stoffa, il Re ne rimase incantato: or- dinò che la Principessa non dovesse vestire altro abito il giorno seguente, che era quello delle nozze, e disse al mercante di sce- gliere quel che voleva nel suo tesoro, in compenso del tessuto prezioso che gli aveva portato. Il mercante, che era vecchio e che non poteva portare tanto peso di monete, scelse un brillante bellissimo; e, tutto con- tento, pensando alla sua Sgricciolina e alla dote che le aveva assicurato, si mise in cammino per tornare a casa. Lasciamo il mercante per la strada e torniamo alla Corte del Re di Francia. Furono subito chiamate dieci sarte per ordine del Re, e tutte e dieci lavorarono l'intera notte a tagliare, imbastire, cucire e guarnire l'abito della Principessa, sicchè all'alba era pronto. Ma appena le came- riere lo misero addosso alla Principessa, questa cadde in terra fulminata. Furono chiamati tutti i medici, gli scienziati della Corte per farla rinvenire: il Re era di- sperato; prometteva mari e monti a chi gli avesse richiamato in vita la sposa; ma per quanto facessero a nessuno riuscì. Allora furono sospese le feste; il Re volle che la sua sposa fosse messa, vestita com'era, in una cassa di cristallo, e subito diede ordine che le guardie montassero a cavallo e gli portassero vivo o morto il mercante. L’abito della Principessa doveva es- sere avvelenato, e doveva averle cagionato la morte. Le guardie raggiunsero il mercante in un’osteria dove s'era fermato per passare la notte; lo condussero alla presenza del Re, lo sottoposero alla tortura, lo minac- ciarono della morte se non confessava il suo delitto; ma il vecchio, sempre impas- sibile, rispondeva: - Giuro per la mia Sgricciolina che sono innocente. - Tu hai fatto il male, devi cono- scere anche il rimedio. - Sono innocente! Sono innocente! - Nonostante tutte quelle proteste, il Re dove, sopra un mucchio di foglie secche, passò la notte. Il moscone, posato sopra una frasca, le fece lume col suo chiarore. A giorno Sgricciolina riprese il suo fa- gotto, e via dietro al moscone. Quando venne la sera incontrò in mezzo a un bosco un’altra vecchina nuda bruca come la prima, e più grinzosa, se era pos- sibile. Sgricciolina le dette il secondo vestito per riscaldarla, e la vecchina, che basiva dal freddo, le disse appena potè parlare: - Giacchè sei una buona ragazza, ti voglio aiutare. Eccoti una boccetta d'olio; basta che tu unga il palmo delle mani della sposa del Re di Francia, perchè quella da morta ritorni viva. - E che me ne importa se la sposa del Re di Francia, è morta? Io cerco il mio nonno. - Prendi la boccetta e cammina notte e giorno. - La sera la fanciulla trovò una terza vecchina intirizzita dal freddo, e anche a quella dette il terzo vestito. - Giacchè sei una buona ragazza, - disse la vecchina - ti voglio aiutare. Pren- di quest'anello con un ametista. Basta che tu rivolti la pietra dal lato del palmo della mano, perché tu veda senz’essere veduta. - Sgricciolina non voleva l'anello. - Cerco il mio nonno, e che m'im- porta d'essere invisibile? - Prendilo e te ne troverai molto contenta. - Sgricciolina ringraziò e s'incamminò, sempre dietro al moscone, finchè non ar- rivò alla città dov'era la Corte del Re di Francia. Lì il moscone si fermò, e andò a po- sarsi in vetta alla torre del palazzo reale, dove splendeva come una stella. Sgricciolina non si mosse per tutta la notte dalla piazza, davanti al palazzo; e la mattina, appena aprirono le porte, voltò l'anello e vi s'introdusse. Gira, rigira per le stanze, per le sale, passava in mezzo alla gente senza esser vista, ma non le riusciva di trovare la torre dove era murato il suo nonno. Che fece allora Sgricciolina? Andò nelle cu- cine reali, guardò e osservò; vide final- mente che uno sguattero empiva un pa- niere di roba da mangiare e diceva al cuoco: - Porto il desinare al vecchio. - Sgricciolina si sentì battere il cuore; si mise alle calcagna dello sguattero, e salì, salì, passò corridoi, stanze, soffitte, e final- mente arrivò davanti a un foro praticato nella muraglia. Lo sguattero consegnò il desinare al prigioniero, e Sgricciolina vide da quel foro il suo nonno, diventato scarno da far pietà, con una barba lunga che lo copriva tutto, le unghie lunghe un braccio e gli occhi infossati dal piangere. Aspettò che lo sguattero fosse andato via, e poi rivoltò l'anello, mise il visino al buco e chiamò: - Nonno! - Il vecchio si scosse, chiuse gli occhi e non rispose. - Nonno! - ripetè Sgricciolina. Il vecchio, pur sentendosi chiamare, stava sempre zitto, ma piangeva. Alla terza chiamata socchiuse gli oc- chi, e mandò un grido. Allora Sgricciolina volle sapere per- chè l’avevano rinchiuso nella torre, ed il nonno glielo disse. - State tranquillo, - osservò la nipo- tina - che il mezzo di salvarvi ce l'ho io. Domani la Principessa ritornerà in vita, e voi sarete libero. – Rivoltò l'anello, diventò di nuovo in- visibile, ritraversò corridoi, scese scale, uscì fuori sulla piazza e si mise ad aspettare il passaggio del Re, che in quel giorno ap- punto doveva partire per la guerra. Quando lo vide uscire dal palazzo, Sgricciolina si gettò in ginocchio e lo sup- plicò di lasciarla mezz'ora soltanto nella stanza della Principessa morta, chè se dopo mezz'ora non le avesse reso la vita, doveva sottoporla, come impostora, a qualsiasi sup- plizio. Il Re fermò il cavallo, dette ordine che fosse rimessa la partenza a un altro giorno, e tornò al palazzo con Sgricciolina. - Bada, - le disse con faccia se- vera - se tu m'inganni ti faccio tagliar la testa. - Sgricciolina sorrise e fu lasciata sola nella stanza dove, su un piedistallo d'oro massiccio, riposava la cassa di cristallo contenente il corpo della Principessa. Sgricciolina alzò il coperchio, tolse alla Principessa tutti gli anelli che aveva nelle dita, e le unse il palmo delle mani con l'unguento della vecchina. A un po' per volta la morta incomin- ciò a batter le palpebre, ad alzare le braccia, a muover le gambe, finchè si alzò, sor- rise e andò alla presenza del Re suo sposo. Non si può dire la gioia del Re e le feste che furono fatte a Sgricciolina. Il Re voleva che rimanesse alla Corte, voleva crearla prima dama della Regina; ma Sgricciolina ricusò, e, come ricompensa, chiese la liberazione del nonno, che le fu subito concessa. Fu fatto lo sposalizio con gran pompa, e ci assistettero pure Sgricciolina e il nonno; e dopo, felici e contenti e carichi di regali, tornarono a casa loro. Ma allo sposalizio c'era pure un altro Re d'un paese vicino, che si commosse tanto al racconto di quel che aveva fatto Sgricciolina per salvare il nonno, che poco dopo andò a chiederla in moglie, e si spo- sarono e furono felici e contenti. E termina così la mia novella Ditene, se vi pare, una più bella.

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Al tempo dei tempi. Fiabe e leggende delle Città  di Sicilia

679157
Perodi, Emma 1 occorrenze

- Signor padre, non dovete negarmi quel che vi chiedo, abbastanza sono infelice; mi promettete che anderete dal Re e gli riferirete le mie parole ? - II mercante voleva molto bene a tutte le figlie, ma quella minore era la sua prediletta. Nel sentirsi pregare a quel modo da lei, non seppe dirle di no. Basta, partì, andò a Palermo e dopo che ebbe sbrigato i suoi affari, s'incamminò verso il Palazzo Reale, Anche quella volta passò l'ambasciata, fu ammesso alla presenza del Re, che lo squadrò con alterigia e gli chiese : - Buon uomo, avete merce preziosa da mostrarmi ? - Maestà, non ne ho, ma ho una figlia a casa, tanto buona e tanto bella che si strozza per Vostra Maestà. - Sì ? - disse il Re,e battè su un timbro d'argento. Comparve un cameriere, e il Re gli ordinò di portargli tre canne di corda ben solida. Quando gli fu recata, la porse al mercante perché la desse alla figlia. Il pover uomo si sentì morire dalla vergogna. Torna a Messina, e appena a casa, chiama la figlia minore e le dice : - Vedi a che? cosa m'hai esposto ? Il Re me ne ha fatta un'altra delle sue. Quando gli ho detto che volevi strozzarti per lui, m'ha dato questo pezzo di corda. - La ragazza, disperata, si mise a singhiozzare. Dopo alquanto tempo il mercante dovette partire di nuovo per Palermo per i suoi negozi, e quella volta non chiese alle figlie che cosa volevano che portasse loro, per non esporsi a fare per la minore un'altra ambasciata al Re.Ma lei stessa, vedendo che si preparava per il viaggio, gli disse : - Padre mio, per il bene che mi volete, dovete farmi un piacere : andate dal Re e ditegli che io m'ammazzo per lui ! - Figlia mia, sei pazza ! Ti pare che io possa tornare per la terza volta dal Re dopo che mi ha trattato come mi ha trattato ? - Padre mio, fatelo se non volete trovarmi morta al vostro ritorno. - E qui gli si gettò ai piedi e tanto pianse e tanto lo supplicò, che riuscì finalmente a strappargli la promessa che sarebbe andato dal Re e gli avrebbe fatta l' ambasciata. Il mercante giunge a Palermo, sbriga i suoi negozi, ritorna al palazzo e chiede udienza al Re. Fu ammesso alla presenza del Sovrano, che anche quella volta finse di non conoscerlo e gli domandò se aveva mercé preziosa da mostrargli. - Maestà, ho a casa una figlia tanto bella e tanto buona ! Questa figlia manda a dire a Vostra Maestà che si ammazzerà per lui. - II Re aveva infilato nella cintura un bel coltello col manico d'oro tutto lavorato. Lo prese e lo dette al povero padre, che perse il lume degli occhi e glielo avrebbe volentieri conficcato nel cuore. Torna a Messina e quando la figlia gli compare davanti, le dice : - Tieni, ecco che cosa ti manda il Re, - e le da il coltello. La ragazza, dopo quel giorno non ebbe più pace e smaniava sempre. Finalmente prese la determinazione di andare lei stessa a Palermo dal Re, e tanto disse e tanto fece, che il padre le procurò un cavallo e la provvide di danaro e di una lettera per un nipote che aveva a Palermo. La ragazza parte, giunge alla capitale, cerca il cugino e gli narra tutto. Alla fine gli dice che vuole essere messa fra le schiave che erano offerte in vendita al Re. Venne il giorno della vendita; tutte le schiave furono portate sulla piazza davanti al Palazzo Reale e il Re scese per fare la scelta. Quando vide quella bella ragazza, subito la comprò, e da quel momento, Rosetta fu addetta al servizio delle guardarobe reali. Il Rè s' informò dov'era, e ogni momento andava in guardaroba, con un pretesto o con un altro, per vederla e parlarle, e Rosetta gli rispondeva appena, fuggiva quando lo vedeva, e in ogni modo e maniera gli faceva capire di non poterlo soffrire. Un giorno il Re le disse : - Rosetta, vedi, io piango sempre per te ! - Questo voleva Rosetta. Presto presto cava di tasca il fazzoletto che il Re le aveva mandato per il padre e gli dice : - Ecco, vedete, Maestà, come è grande! Questo basta ad asciugare le lacrime di un anno. - il Re guarda il fazzoletto, lo riconosce e pensa : - Ma che questa schiava sia la figlia del mercante ! - Dopo alcuni giorni torna in guardaroba dove Rosetta rammendava i merletti e le dice : - Vedi, Rosetta, se tu non mi vuoi bene, io mi strozzo ! - Che Vostra Maestà si strozzi pure ! - E gli da la corda lunga tre canne. - Ah ! questa è proprio la figlia del mercante che si vendica, - pensò il Re. Dopo alcuni giorni torna in guardaroba. - Rosetta, mi vuoi bene ? - le domanda. - Se non mi vuoi bene, m'ammazzo ! - Ohe Vostra Maestà s'ammazzi pure! - E gli porge il coltello. Dopo questa prova, il Re si convinse che Rosetta era proprio la figlia del mercante che egli aveva tanto disprezzata e le disse : - Ti ho conosciuta e so chi sei. Un tempo mi volevi bene, perché non me ne vuoi più ? Perché tutto finisce, - risponde Rosetta. - - Vedi, se non mi vuoi bene, io m' ammazzo davvero. - Che Vostra Maestà s' ammazzi pure! - II Re, a quelle parole, sfodera il coltello, se ravvicina al cuore, finge d'uccidersi e cade disteso in terra. La ragazza, senza scotersi, scende in camera sua, dove c'era una finestra che guardava sulla piazza del palazzo. Il giorno dopo il Re si fece mettere su un cataletto e si fece portare sotto la finestra della camera della schiava. Questa s'affaccia, e accertasi che era tutta una finzione, gli sputa sul viso. - Puh, per una donna quant'ha patito ! - e poi fa una finestrata. Il Re, vedendosi scoperto, cessò l'inganno e incominciò a mandar gente da Rosetta a pregarla di non disprezzarlo. Prima le mandò il gran cancelliere, e Rosetta gli disse d'andarsene perché del Re non voleva sentirne parlare. Poi le mandò il gran tesoriere, ed anche a lui rispose sullo stesso tono. Poi le mandò l'arcivescovo, il gran siniscalco, e a tutti ella diceva che il Re poteva far miracoli ma per lei era come se non esistesse. Finalmente un giorno il Re scese dalla schiava. le si gettò in ginocchio e la supplicò tanto, che Rosetta, convinta che le voleva bene davvero e che era abbastanza punito del disprezzo con cui l'aveva trattata, acconsentì ad accettarlo per isposo. Fece venire il padre e le sorelle a Palermo e Io sposalizio si fece con gran pompa. E a me mi dettero un solo confettino Che è là ancora in quel buchino.

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FIABE E LEGGENDE

679308
Praga, Emilio 1 occorrenze

- La dama, con uno sforzo estremo, solleva il capo e volge gli occhi sullo straniero che segue: - Perdonatemi... fui troppo ardito, è vero, ma era grande il pericolo... e poi... benché la morte già mi fosse vicina, sentìa che il braccio forte abbastanza per trarvi in salvamento avrei... I più felici istanti vissi dei giorni miei; or Lïonello certo non tarderà a venire col legno... e partirete... ora posso morire... No, non è inganno: a Steno già già sfugge la vita, e la contessa Bella, trepida, impietosita, come attratta da un fascino dolce e misterïoso gli solleva il bel crine che quasi ha il volto ascoso, e, - Vi conosco! - esclama - giovinetto, quel nastro ch'io perdetti alla messa, l'anno scorso...- Se un astro fosse disceso sotto le pupille di Steno dippiù non brillerebbero; ma l'ansia del suo seno or si è fatta terribile. - Fu raccolto da voi, e da lontano sempre mi seguiste dippoi... Perché ? - Due grosse lagrime fur la risposta.

La chiave a stella 1978

679751
Levi, Primo 2 occorrenze

Mi sono accorto abbastanza presto che fare vernici è un mestiere strano: in sostanza, vuol dire fabbricare delle pellicole, cioè delle pelli artificiali, che però devono avere molte delle qualità della nostra pelle naturale, e guardi che non è poco, perché la pelle è un prodotto pregiato. Anche le nostre pelli chimiche devono avere delle qualità che fanno contrasto: devono essere flessibili e insieme resistere alle ferite; devono aderire alla carne, cioè al fondo, ma la sporcizia non deve aderirci su; devono avere dei bei colori delicati e insieme resistere alla luce; devono essere allo stesso tempo permeabili all' acqua e impermeabili, e questo appunto è talmente contraddittorio che neanche la nostra pelle è soddisfacente, nel senso che in effetti resiste abbastanza bene alla pioggia e all' acqua del mare, cioè non si restringe, non gonfia e non ci si scioglie dentro, però se uno insiste gli vengono i reumatismi: è segno che un po' d' acqua passa pure attraverso, e del resto almeno il sudore deve passare per forza, ma solo da dentro verso fuori. Vede che non è semplice. Mi avevano incaricato di progettare una vernice per l' interno delle scatole di conserva, da esportare (la vernice, non le scatole) in questo paese. Come pelle, le garantisco che avrebbe dovuto essere una pelle eccellente: doveva aderire alla lamiera stagnata, resistere alla sterilizzazione a 120äC, piegarsi senza screpolare su un mandrino così e così, resistere all' abrasione se provata con un apparecchio che non sto a descriverle; ma soprattutto, doveva resistere a tutta una serie di aggressivi che di solito nei nostri laboratori non si vedono, e cioè alle acciughe, all' aceto, al sugo di limone, ai pomodori (non doveva assorbire il colorante rosso), alla salamoia, all' olio e così via. Non doveva assumere gli odori di queste mercanzie, e non cedergli nessun odore: ma per accettare queste caratteristiche ci si accontentava del naso del collaudatore. Finalmente, doveva potersi applicare con certe macchine continue, dove da una parte entra il foglio di lamiera svolgendosi dal rotolo, riceve la vernice da una specie di rullo inchiostratore, passa in forno per la cottura, e si avvolge sul rotolo di spedizione; in queste condizioni, doveva dare un rivestimento liscio e lucido, di un color giallo oro compreso fra due campioni di colore allegati al capitolato di fornitura. Mi segue?" "Si capisce", ha risposto Faussone in tono quasi offeso. Può essere che invece non mi segua il lettore, qui ed altrove, dove è questione di mandrini, di molecole, di cuscinetti a sfere e di capicorda; bene, non so che farci, mi scuso ma sinonimi non ce n' è. Se, come è probabile, ha accettato a suo tempo i libri di mare dell' Ottocento, avrà pure digerito i bompressi e i palischermi: dunque si faccia animo, lavori di fantasia o consulti un dizionario. Gli potrà venire utile, dato che viviamo in un mondo di molecole e di cuscinetti. "Le dico subito che non mi si chiedeva di fare un' invenzione: di vernici così ne esiste già un bel numero, ma bisognava curare i dettagli perché il prodotto passasse tutte le prove previste, in specie per il tempo di cottura, che doveva essere piuttosto corto. In sostanza, si trattava di progettare una specie di cerotto a base di un tessuto di media compattezza, con le maglie non troppo serrate perché conservasse una certa elasticità, ma neanche troppo aperte, se no le acciughe e il pomodoro avrebbero potuto attraversarle. Doveva poi avere molti gancetti robusti per infeltrirsi con se stesso e per abbarbicarsi alla lamiera durante la cottura, ma perderli dopo la cottura stessa, perché se no avrebbero potuto trattenere colori, odori o sapori. Va da sé che non avrebbe dovuto contenere componenti tossici. Vede, è così che noi chimici ragioniamo: cerchiamo di farvi il verso, come quel suo aiutante scimmiotto. Ci costruiamo in mente un modellino meccanico, pur sapendo che è grossolano e puerile, e lo seguiamo fin che si può, ma sempre con una vecchia invidia per voialtri uomini dei cinque sensi, che combattete fra cielo e terra contro vecchi nemici, e lavorate sui centimetri e sui metri invece che sulle nostre salsiccette e reticelle invisibili. La nostra stanchezza è diversa dalla vostra. Non sta nel filo della schiena, ma più in su; non viene dopo una giornata faticosa, ma quando uno ha cercato di capire e non è riuscito. Di solito non guarisce col sonno. Sì, ce l' ho addosso stasera; per questo gliene parlo. Dunque, tutto andava bene; abbiamo mandato il campione all' Ente Statale, abbiamo aspettato sette mesi e la risposta è stata positiva. Abbiamo mandato un fusto di prova qui allo stabilimento, abbiamo aspettato altri nove mesi, ed è arrivata la lettera di accettazione, l' omologazione e un ordine di trecento tonnellate; subito dopo, chissà perché, un altro ordine, con una firma diversa, per altre trecento, quest' ultimo urgentissimo. Probabilmente non era che un duplicato del primo, nato da qualche pasticcio burocratico; ad ogni modo era regolare, ed era proprio quello che ci voleva per tirare su il fatturato dell' anno. Eravamo tutti diventati molto gentili, e per i corridoi e i capannoni della fabbrica non si vedeva altro che dei gran sorrisi: seicento tonnellate di una vernice non difficile da produrre, tutta della stessa qualità, e con un prezzo niente male. Noi siamo gente coscienziosa: di ogni lotto prelevavamo religiosamente un campione e lo collaudavamo in laboratorio, per essere sicuri che i provini resistessero a tutti gli articoli che le ho detto. Il nostro laboratorio si era riempito di odori nuovi e gradevoli, e il bancone dei collaudi sembrava la bottega di un droghiere. Tutto andava bene, noi ci sentivamo in una botte di ferro, e ogni venerdì, quando partiva la flotta dei camion che portava i fusti a Genova per l' imbarco, facevamo una piccola festa, utilizzando anche i viveri destinati al collaudo "perché non andassero a male". Poi c' è stato il primo allarme: un telex cortese, in cui ci invitavano a ripetere la prova della resistenza alle acciughe su un certo lotto già imbarcato. La ragazza dei collaudi ha fatto una risatina e mi ha detto che avrebbe ripetuto la prova immediatamente, ma che era sicurissima dei suoi risultati, quella vernice avrebbe resistito anche ai pescicani; io però sapevo come vanno queste cose, e ho cominciato a sentire dei crampi allo stomaco". La faccia di Faussone si è increspata in un inaspettato sorriso triste: "Eh già: a me invece viene male qui a destra, credo che sia il fegato. Ma per me un uomo che non abbia mai avuto un collaudo negativo non è un uomo, è come se fosse rimasto alla prima comunione. Poco da dire, sono degli affari che io li conosco bene; lì sul momento fanno star male, ma se uno non li prova non matura. È un po' come i quattro presi a scuola". "Io lo sapevo, come vanno queste cose. Due giorni, poi è arrivato un altro telex, e questo non era gentile per niente. Quel lotto non resisteva alle acciughe, e neppure quelli successivi che erano arrivati nel frattempo; dovevamo mandare subito, per via aerea, mille chili di vernice sicura, se no, blocco dei pagamenti e citazione per danni. Qui la febbre ha cominciato a salire, e il laboratorio a riempirsi di acciughe: italiane, grosse e piccole, spagnole, portoghesi, norvegesi; e due etti li abbiamo lasciati andare a male apposta, per vedere che effetto facevano sulla lamiera verniciata. Lei capisce che eravamo tutti abbastanza bravi in fatto di vernici, ma nessuno di noi era uno specialista in acciughe. Preparavamo provini su provini, come dei matti, centinaia di provini al giorno, li mettevamo a contatto con acciughe di tutti i mari, ma non capitava niente, da noi tutto andava bene. Poi ci è venuto in mente che forse le acciughe sovietiche erano più aggressive di quelle nostrane. Abbiamo subito fatto un telex, e dopo sette giorni il campione era sul banco: avevano fatto le cose in grande, era una latta di trenta chili mentre invece trenta grammi sarebbero bastati, forse era una confezione per i collegi o per le forze armate. E devo dire che erano ottime, perché le abbiamo anche assaggiate: ma niente, neanche loro, nessun effetto su nessuno dei provini, neppure su quelli preparati nei modi più maligni in modo da riprodurre le condizioni più sfavorevoli, poco cotti, a spessore scarso, piegati prima del collaudo. Intanto era arrivata la perizia di Sverdlovsk, quella che le dicevo prima. Ce l' ho di sopra, in camera mia, nel cassetto del tavolino, e parola mia mi sembra che puzzi. No, non di acciughe: che puzzi fuori dal cassetto, che ammorbi l' aria, specie di notte, perché di notte faccio dei sogni strani. Forse è colpa mia, che me la prendo troppo ..." Faussone si è mostrato comprensivo. Mi ha interrotto per ordinare due vodche alla ragazza che sonnecchiava dietro il bancone: mi ha spiegato che era vodca speciale, distillata di contrabbando, e infatti aveva un aroma insolito, non sgradevole, su cui ho preferito non indagare. "Beva, che le fa bene. Si capisce che lei se la prende: è naturale. Quando uno mette la sua firma su qualche cosa, non importa se è una cambiale o una gru o un' acciuga ... mi scusi, volevo dire una vernice, bisogna bene che ne risponda. Beva, che così dorme bene stanotte, non sogna i provini, e domani vedrà che si sveglia senza il mal di testa: questa è roba di borsa nera, però è genuina. Intanto mi racconti come è finita". "Non è finita, e neanche io me la sento di dire come finisce e quando finisce. Sono qui da dodici giorni, e non so quanto ci resterò; tutte le mattine mi mandano a prendere, delle volte con una macchina di rappresentanza, delle volte con una Pobieda; mi portano nel laboratorio e poi non capita niente. Viene l' interprete e si scusa, o manca il tecnologo, o manca la corrente, o tutto il personale è convocato per una riunione. Non che siano sgarbati con me, ma sembra che si dimentichino che io ci sono. Col tecnologo fino adesso non ho parlato per più di mezz' ora: mi ha fatto vedere i loro provini, e mi ci sto rompendo la testa, perché non hanno niente a che fare con i nostri; i nostri sono lisci e puliti, questi invece hanno tanti piccoli grumi. È chiaro che è successo qualche cosa durante il viaggio, ma non riesco a immaginare che cosa; oppure c' è qualche cosa che non va nei loro collaudi, ma sa bene che dare la colpa agli altri, e specialmente ai clienti, è cattiva politica. Ho detto al tecnologo che vorrei assistere al ciclo completo, alla preparazione dei provini, dal principio alla fine; mi è sembrato contrariato, mi ha detto che andava bene, però poi non si è fatto più vedere. Invece del tecnologo, mi tocca parlare con una donna terribile. La signora Kondratova è piccola, grassa, anziana, con una faccia distrutta, e non c' è verso di tenerla sull' argomento. Invece che di vernici, mi ha parlato tutto il tempo della sua storia, è una storia tremenda, era a Leningrado durante l' assedio, le sono morti al fronte il marito e due figli, e lei lavorava in fabbrica a tornire proiettili, con dieci gradi sotto zero. Mi fa molta pena, ma anche rabbia, perché fra quattro giorni mi scade il visto, e come faccio a tornare in Italia senza aver concluso niente, e soprattutto senza aver capito niente?" "Lei glielo ha detto, a quella donna, che le scade il visto?" mi ha chiesto Faussone. "No, non credo che lei abbia niente a che fare, col mio visto". "Mi dia da mente, glielo dica. Da come lei me lo racconta, deve essere una abbastanza importante, e quando scade un visto, questi qui si dànno subito da fare, perché se no sono loro che restano nelle curve. Provi: provare non fa peccato, e lei non rischia niente". Aveva ragione. Al solo annuncio della prossima scadenza del mio visto di soggiorno, è avvenuto intorno a me un mutamento sorprendente, come nel finale delle comiche di un tempo. Tutti, e la Kondratova per prima, hanno bruscamente accelerato le loro mosse e le loro parole, si sono fatti comprensivi e collaborativi, il laboratorio mi ha aperto le porte, ed il preparatore dei provini si è messo a mia piena disposizione. Il tempo che mi rimaneva non era molto, ed ho chiesto prima di tutto di esaminare il contenuto degli ultimi fusti arrivati. Non è stato facile identificarli, ma in mezza giornata ci sono riuscito; abbiamo preparato i provini con tutte le cure del caso, sono risultati lisci e lucenti, e dopo la notte passata in connubio con le acciughe il loro aspetto non era cambiato. Si poteva concludere che: o la vernice si alterava nelle condizioni locali di magazzinaggio, oppure che capitava qualcosa nel corso del prelievo fatto dai russi. Il mattino della partenza ho ancora fatto in tempo ad esaminare uno dei fusti più anziani: venivano fuori dei provini sospetti, striati e granulosi, ma ormai mancava il tempo di approfondire. La mia richiesta di proroga era stata respinta: Faussone è venuto a salutarmi alla stazione, e ci siamo lasciati con la promessa reciproca di ritrovarci, sul posto o a Torino; ma più probabilmente sul posto. Infatti, lui ne aveva ancora per diversi mesi: insieme con un gruppo di montatori russi, stava mettendo a punto uno di quei loro escavatori colossali, alti come una casa di tre piani, che si spostano su qualunque terreno camminando su quattro enormi zampe come sauri preistorici; e io dovevo sistemare due o tre faccende in fabbrica, ma senza dubbio sarei ritornato entro un mese al massimo. La Kondratova mi aveva detto che per un mese, bene o male, sarebbero andati avanti lo stesso: proprio quel giorno aveva avuto comunicazione che, in un' altra fabbrica di scatolame, si stava usando una vernice tedesca, che a quanto pare non dava inconvenienti; mentre si cercava di chiarire l' incidente, ne avrebbero fatto arrivare urgentemente un quantitativo. Tuttavia con una inconseguenza che mi ha sorpreso, ha insistito perché io tornassi al più presto possibile: "tutto compreso", la nostra vernice era preferibile. Da parte sua, avrebbe fatto tutto quanto poteva per farmi avere un nuovo visto prorogabile a piacere. Faussone mi ha pregato, già che andavo a Torino, di consegnare alle sue zie un pacco e una lettera, facendogli le sue scuse: lui avrebbe passato i Santi sul posto. Il pacco era leggero ma voluminoso, la lettera non era che un biglietto, e portava segnato l' indirizzo nella grafia chiara, meticolosa e leggermente sofisticata di chi ha studiato il disegno. Mi ha raccomandato di non perdere il documento valutario relativo al contenuto del pacco, e ci siamo lasciati.

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Ci siamo messi nella coda per la dogana, ma è subito arrivata una donnetta di mezza età che parlava inglese abbastanza bene, e che ci ha fatti passare in testa alla fila senza che nessuno protestasse: ero stupito, ma Faussone mi ha spiegato che eravamo stati riconosciuti per stranieri; anzi, forse la fabbrica aveva segnalato per telefono la nostra presenza. Siamo passati in un attimo, avremmo potuto esportare una mitragliatrice o un chilo di eroina. Solo a me, il doganiere ha domandato se avevo dei libri; ne avevo uno, in inglese, sulla vita dei delfini, e lui, perplesso, mi ha chiesto perché lo avevo, dove lo avevo comprato, se ero inglese e specialista in pesci. Non lo ero? allora come mai lo possedevo, e perché lo volevo portare in Italia? Sentite le mie risposte, si è consultato con un suo superiore e poi mi ha lasciato passare. L' aereo era già sulla pista di decollo, e i posti erano quasi tutti occupati; era un piccolo turboelica, ed il suo interno presentava un aspetto casalingo. C' erano intere famiglie, evidentemente contadine; bambini addormentati in braccio alle madri; cesti di frutta e verdura un po' dappertutto, e in un angolo tre polli vivi legati insieme per le zampe. Non c' era, o era stata eliminata, la tramezza di separazione fra la cabina di pilotaggio e lo spazio destinato ai passeggeri; i due piloti, in attesa di ricevere il segnale di via libera, mangiucchiavano semi di girasole e chiacchieravano con la hostess e (via radio) con qualcuno nella torre di controllo. La hostess era una bella ragazza, molto giovane, solida e pallida; non era in uniforme, indossava un abitino nero e portava uno scialle viola avvolto negligentemente intorno alle spalle. Dopo qualche tempo ha dato un' occhiata all' orologio da polso, è venuta fra i passeggeri, ha salutato due o tre conoscenti, e ha detto che si chiamava Vjera Filìppovna e che era lei la nostra hostess. Parlava con voce dimessa e in tono famigliare, senza l' enfasi meccanica in uso fra le sue colleghe. Ha poi continuato dicendo che saremmo partiti fra pochi minuti o forse fra mezz' ora, e che il volo sarebbe durato un' ora e mezza o magari anche due. Che ci allacciassimo per favore le cinture di sicurezza, e non fumassimo fino al decollo. Ha tirato fuori dalla borsetta un fascio di lunghe bustine di plastica trasparente, e ha detto: "Se qualcuno ha in tasca una penna stilografica, la metta qui dentro". "Perché? _ ha chiesto un passeggero: _ Forse che questo apparecchio non è pressurizzato?" "Sì, un pochino è pressurizzato, cittadino; ma seguite ugualmente il mio consiglio. Del resto, le stilografiche spesso perdono inchiostro anche a terra, lo sanno tutti". L' aereo è decollato, ed io ho ripreso il mio racconto. "Come le stavo dicendo, c' erano, all' ingrosso, dei giorni buoni e dei giorni cattivi: e poi, in generale, erano peggiori i provini fatti al mattino di quelli fatti al pomeriggio. Io passavo i giorni a fare provini, e le sere a pensarci su, e non ne venivo a capo; quando mi telefonavano da Torino per sapere come andavano le cose, venivo tutto rosso per la vergogna, facevo promesse, tiravo in lungo, e mi sembrava di remare, voglio dire, di remare in una barca legata a un palo, che uno fatica come una bestia e non va avanti di un centimetro. Ci pensavo su di sera, e anche di notte, perché non dormivo; ogni tanto accendevo la luce e mi mettevo a leggere il libro dei delfini per far passare le ore. Una notte, invece di leggere quel libro, mi sono messo a rileggere il mio diario. Non era proprio un diario, erano appunti che prendevo giorno per giorno, è un' abitudine che viene a tutti quelli che fanno un lavoro un po' complicato: specie quando passano gli anni, e uno non si fida più tanto della sua memoria. Per non dare sospetti, non scrivevo niente durante la giornata, ma mettevo giù gli appunti e le mie osservazioni alla sera, appena ritornavo nella foresteria: che, tra parentesi, era una gran tristezza. Bene, a rileggerli era ancora più triste, perché veramente non veniva fuori un costrutto. C' era solo una regolarità, ma non poteva essere altro che un caso: i giorni peggiori erano quelli che si faceva viva la signora Kondratova, sì, quella che le erano morti in guerra i figli e il marito, si ricorda? Forse erano le disgrazie che aveva avute, ma sta di fatto che poveretta stava sullo stomaco non solo a me ma a tutti. Avevo annotato i giorni che veniva per via di quella faccenda del visto, perché era lei che se ne occupava, o insomma che avrebbe dovuto occuparsene, ma invece mi raccontava i suoi guai lontani e vicini e mi faceva perdere tempo sul lavoro. Mi prendeva anche un po' in giro per la storia delle acciughe: non credo che fosse cattiva, forse non si rendeva conto che ero io a pagare di persona, ma certo non era una che facesse piacere averla vicino: a ogni modo, io non sono uno di quelli che credono nel malocchio, e non potevo ammettere che le disgrazie della Kondratova potessero diventare grumi nella vernice. Del resto, con le sue mani non toccava niente; non veniva tutti i giorni, ma quando veniva arrivava presto, e come prima cosa sgridava tutti quelli del laboratorio perché secondo lei non era abbastanza pulito. Ecco, è stata proprio la faccenda della pulizia a mettermi sulla strada giusta. È abbastanza vero che la notte porta consiglio, ma lo porta solo se uno non dorme bene, e se la sua testa non va in vacanza ma continua a marciare. In quella notte mi pareva di essere al cinematografo e che dessero un brutto film: oltre che brutto, era anche guasto, tutti i momenti si interrompeva e ricominciava da capo, e il primo personaggio che veniva in scena era proprio la Kondratova. Entrava in laboratorio, mi salutava, faceva la solita predica della pulizia, poi il film si strappava: che cosa capitava dopo? Bene, dopo non so quante interruzioni, la sequenza è andata avanti di qualche inquadratura e si è vista la donna che mandava una delle ragazze a prendere degli stracci; quegli stracci si vedevano da vicino, in primo piano, e invece che stracci qualunque erano di un tessuto rado e bianco che sembrava quello delle bende da ospedale. Sa come succede, non è che fosse un sogno miracoloso, è probabile che io abbia proprio visto la scena, ma ero distratto, forse in quel momento stavo pensando ad altro, o la Kondratova mi stava raccontando la storia di Leningrado e dell' assedio. Devo aver registrato il ricordo senza rendermene conto. Il mattino dopo la Kondratova non c' era; io ho fatto finta di niente, e appena entrato ho messo il naso dentro il cassone degli stracci. Erano proprio bende, bende e filacce. A forza di gesti, di insistenze e di intuizione, dalle spiegazioni del tecnologo ho ricavato che era materiale di medicazione scartato al collaudo. Si vedeva bene che l' uomo faceva il tonto, e approfittava delle difficoltà di linguaggio; non mi ci è voluto molto a capire che era roba procurata illegalmente, forse con qualche baratto o per via di amicizie. Forse l' assegnazione mensile di stracci era mancata o tardava, e lui si era arrangiato: a fin di bene, naturalmente. Quel giorno era un giorno di sole, il primo dopo una settimana di nuvole: onestamente, penso che se il sole fosse venuto fuori prima anch' io avrei capito prima il fatto dei provini granulosi. Ho preso uno straccio dal cassone e l' ho scosso due o tre volte; un momento dopo, nell' angolo opposto del laboratorio, un raggio di sole che era quasi invisibile si è riempito di bruscolini luminosi, che si accendevano e spegnevano come fanno le lucciole a maggio. Ora lei deve sapere (o forse gliel' ho già detto) che le vernici sono una razza permalosa, specie per quanto riguarda i peli, e in generale per tutto quello che vola per aria: a un mio collega è toccato di pagare parecchi soldi a un proprietario perché facesse tagliare un filare di pioppi a seicento metri dalla fabbrica, altrimenti a maggio quei fiocchi con dentro i semi, che sono così graziosi e volano lontano, andavano a finire nei lotti di vernice in fase di macinazione e glieli rovinavano; e non servivano a niente zanzariere e moscaruole, perché i fiocchi entravano da tutte le fenditure dei serramenti, si raccoglievano di notte negli angoli morti, e al mattino, appena entravano in funzione le ventole di aerazione, giravano per aria come impazziti. E a me è successo un guaio coi moscerini dell' aceto. Non so se lei li conosce, gli scienziati gli vogliono bene perché hanno i cromosomi molto grossi; anzi, pare che quasi tutto quello che si sa oggi sull' eredità, i biologi lo abbiano imparato sulla loro pelle, facendoli incrociare fra di loro in tutte le maniere possibili, tagliuzzandoli, iniettandoli, affamandoli e dandogli da mangiare delle cose strane: dove si vede che tante volte mettersi in vista è pericoloso. Li hanno chiamati Drosofile, e anche loro sono belli, con gli occhi rossi, non più lunghi di tre millimetri, e non fanno male a nessuno, anzi, magari contro voglia ci hanno fatto del bene. A queste bestioline piace l' aceto, non saprei dirle perché; per essere precisi, gli piace l' acido acetico che sta dentro l' aceto. Sentono il suo odore a distanze da non crederci, arrivano da tutte le parti come una nuvola, per esempio sul mosto, che infatti qualche traccia d' acido acetico la contiene; se poi trovano dell' aceto scoperto sembrano ubriachi, volano in cerchio fitto fitto tutto intorno, e tante volte ci vanno a finire dentro e annegano". "Eh già: tanto va la gatta al lardo ..." ha commentato Faussone. "Come naso ... si fa per dire, perché il naso non ce l' hanno, e gli odori li sentono con le antenne. Come naso, dicevo, ci battono come niente, e battono anche i cani, perché sentono l' acido anche quando è combinato, per esempio nell' acetato di etile o di butile, che sono solventi delle vernici alla nitro. Bene, avevamo una nitro per unghie di un colore fuori serie, ci avevamo messo due giorni per metterla a tinta, e la stavamo passando al mulino a tre cilindri; non saprei dire come mai, forse era la loro stagione, o avevano più fame del solito, o si erano passati la parola: ma sono arrivati a sciami, si andavano a posare sui cilindri mentre giravano e rimanevano macinati anche loro dentro alla vernice. Ce ne siamo accorti solo alla fine della macinazione, non c' è stato verso di filtrarla, e per non buttarla via l' abbiamo dovuta recuperare in un' antiruggine, che così è venuta fuori di un bel colore rosé. Bene, scusi se ho perso un po' il filo. In conclusione, a questo punto io mi sentivo in piena rimonta. Ho esposto al tecnologo la mia supposizione, che nel mio cuore era ormai una certezza, tanto che avrei addirittura chiesto il permesso di telefonare la notizia alla fabbrica in Italia. Ma il tecnologo non cedeva: aveva visto lui con i suoi occhi diversi campioni di vernice, appena prelevati dai fusti, che scendevano dal viscosimetro a guizzi. Come avrebbero avuto il tempo di catturare per aria i filamenti degli stracci? Per lui era chiaro: i filamenti potevano entrarci o non entrarci, ma i grumi c' erano già nei fusti di fornitura. Bisognava dimostrargli (e anche dimostrare a me stesso) che non era vero, e che in ogni grumo c' era un filamento. Avevano un microscopio? Ce l' avevano, uno da esercitazioni con solo duecento ingrandimenti, ma per quello che volevo fare io bastavano; aveva anche il polarizzatore e l' analizzatore". Faussone mi ha interrotto. "Momento. Finché sono stato io a raccontarle le storie del mio mestiere, lei lo deve ammettere, io non ho mai profittato. Capisco che oggi lei è contento, ma anche lei non deve approfittarsene. Deve raccontare le cose in una maniera che si capiscano, se no non è più gioco. O non è che lei è già dall' altra parte, di quelli che scrivono e poi quello che legge si arrangia, tanto ormai il libro lo ha già comprato?" Aveva ragione, e io mi ero lasciato trascinare. D' altra parte, avevo fretta di concludere il mio racconto, perché Vjera Filìppovna era già venuta fra i passeggeri ad annunciare che, secondo lei, saremmo atterrati a Mosca entro venti o trenta minuti. Così mi sono limitato a spiegargli che ci sono molecole lunghe e molecole corte; che solo con le molecole lunghe, sia la natura sia l' uomo, riescono a costruire dei filamenti tenaci; che in questi filamenti, di lana, o di cotone, o di nailon, o di seta e così via, le molecole sono orientate per il lungo, e grossolanamente parallele; e che il polarizzatore e l' analizzatore sono appunto strumenti che permettono di rivelare questo parallelismo, anche su un pezzetto di filamento appena visibile al microscopio. Se le molecole sono orientate, cioè se si tratta di una fibra, si vedono dei bei colori; se sono disposte alla rinfusa non si vede niente. Faussone ha fatto un grugnito, a indicare che potevo continuare. "Ho anche trovato in un cassetto dei bei cucchiaini di vetro, di quelli che si usano per le pesate di precisione: volevo dimostrare al tecnologo che dentro ogni grumo che usciva dal viscosimetro c' era un filamento, e che dove non c' erano filamenti anche i grumi non c' erano. Ho fatto fare pulizia dappertutto con degli stracci bagnati, ho fatto eliminare il cassone, e nel pomeriggio ho incominciato la mia caccia: dovevo acchiappare al volo il grumo col cucchiaino mentre scendeva dal viscosimetro, e portarlo sotto il microscopio. Credo che potrebbe diventare uno sport, una specie di tiro al piattello che si può fare anche in casa; ma non era divertente esercitarmi sotto quattro o cinque paia di occhi diffidenti. Per dieci o venti minuti non ho concluso niente; arrivavo sempre troppo tardi, quando il grumo era già passato; oppure, spinto dal nervosismo, facevo scattare il cucchiaino addosso a un grumo immaginario. Poi ho imparato che era importante mettersi seduti comodi, avere una illuminazione forte, e tenere il cucchiaio molto vicino al filo di vernice. Ho portato sotto il microscopio il primo grumo che sono riuscito a catturare, e il filamento c' era; l' ho confrontato con un altro filamento che avevo staccato apposta dalle bende: benissimo, erano identici, cotone uno e cotone l' altro. Il giorno dopo, che sarebbe ieri, ero diventato bravo, e avevo anche insegnato il trucco a una delle ragazze; non c' erano più dubbi, ogni grumo conteneva un filamento. Che poi i filamenti facessero da quinta colonna per l' attacco delle acciughe sulla vernice, si spiegava abbastanza bene, perché le fibre di cotone sono porose, e potevano ben funzionare come un canaletto: ma i russi non mi hanno chiesto altro, hanno firmato il mio protocollo liberatorio, e mi hanno congedato con un nuovo ordine di vernice in tasca. Tra parentesi: anche senza sapere tanto il russo, ho capito che, con un pretesto o un altro, l' ordine me lo avrebbero dato comunque, perché la vernice tedesca di cui mi aveva parlato la Kondratova il mese prima era chiaro che, quanto a grumi e acciughe, si comportava come la nostra. E la scoperta del tecnologo, quella che mi aveva tanto preoccupato, è venuto poi fuori che aveva una causa addirittura ridicola: fra una misura e l' altra, invece di lavare il viscosimetro con solvente e poi asciugarlo, lo pulivano direttamente con le filacce del cassone, di modo che, in fatto di grumi, il viscosimetro stesso era il peggior focolaio d' infezione". Siamo atterrati a Mosca, abbiamo recuperato i bagagli e siamo saliti sull' autobus che ci doveva portare all' albergo in città. Ero piuttosto deluso dal mio tentativo di ritorsione: Faussone aveva seguito il mio racconto col suo solito viso inespressivo, senza quasi interrompermi e senza fare domande. Ma doveva seguire un suo filo di pensiero, perché dopo un lungo silenzio mi ha detto: "Così lei vuole proprio chiudere bottega? Io, scusi sa, ma al suo posto ci penserei su bene. Guardi che fare delle cose che si toccano con le mani è un vantaggio; uno fa i confronti e capisce quanto vale. Sbaglia, si corregge, e la volta dopo non sbaglia più. Ma lei è più anziano di me, e forse nella vita ne ha già viste abbastanza".

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L'altrui mestiere

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Levi, Primo 2 occorrenze

Se hai gli occhiali bifocali va ancora abbastanza bene; se non li hai, la tua mano sinistra è impegnata in una ginnastica faticosa di "metti e togli". Ci sono difficoltà più gravi perché più profonde. È noto che nel processo dell' apprendere si possono distinguere tre fasi: imprimere il ricordo, mantenerlo, e richiamarlo quando occorre. Le due ultime si conservano abbastanza bene: una volta che la nozione è impressa, resta tale indefinitamente; richiamarla non è difficile, anzi, con gli anni si finisce con l' imparare certi artifizi per cui il fenomeno della parola o del concetto che hai "sulla punta della lingua" si fa più raro. Ma incidere il ricordo, invece, diventa sempre più difficile. Bisogna "imparare a imparare": non basta più lasciare che la nozione arrivi per conto suo al magazzino e ci si depositi. Non ci rimane, o non a lungo: entra ed esce immediatamente, si volatilizza, lasciando dietro di sé solo una traccia irritante e indistinta. Si deve imparare ad intervenire con la forza, ad incastrarla nella sua nicchia come con un martello; si fa, ma ci vuole tempo e fatica. Bisogna prendere appunti con metodo, e rileggerli quante volte bastano, a distanza di settimane o di mesi. Ancora: ci si accorge che, paradossalmente, è altrettanto difficile cancellare, cioè disimparare le nozioni sbagliate. Tutto va come se un' ipotetica cera si fosse fatta più dura: dura da incidere, dura da eradere. Quegli errori di lessico o di grammatica che è così facile acquisire studiando in modo dilettantesco richiedono poi metodo, pazienza e molta energia per essere scalpellati via. D' altra parte, l' età non porta solo svantaggi. Qualche furberia, strada facendo, la si è pure imparata; è più facile distinguere la tara dal netto, cioè quali nozioni vanno accettate ed immagazzinate con cura, quali altre si possono prendere in visione e mettere in disparte. Si ha più tempo, più calma e meno distrazioni; si possiede (magari senza accorgersene) un corpo organico di conoscenze in cui le conoscenze nuove vanno ad inserirsi come la chiave nella toppa. Si hanno vecchie curiosità che aspettano da dieci o vent' anni di essere soddisfatte, e le nozioni che si aspettano e desiderano si imprimono meglio. Soprattutto, sono diversi gli scopi a cui si tende. Anche nei casi più fortunati, lo studente, anche dopo la scuola dell' obbligo (in cui la motivazione è generalmente scarsa), ha solo una motivazione indiretta. Non studia per imparare, ma per avere un titolo che gli dia modo di proseguire negli studi, o di guadagnarsi da vivere; è raro che si faccia pienamente capace della correlazione che lega l' apprendimento alla competenza professionale: anche perché, purtroppo, spesso questa correlazione non esiste. Ma anche quando egli è razionalmente convinto dell' utilità a lungo termine dei suoi studi, l' interesse vero e proprio può essere debole. Per contro, l' anziano che decide di intraprendere uno studio in piena libertà di scelta, senza costrizioni di orario, senza obbligo di presenza, senza paure di controlli, di esami, o anche solo di un giudizio sfavorevole, prova una sensazione di leggerezza, di arbitrio libero, che gli handicap sopra descritti e la durezza dei sedili non bastano ad inquinare. È studio, è migliorarsi ed accrescersi, ed è anche gioco, teatro e lusso. Il gioco, cioè l' esercizio fine a se stesso, ma regolato e ordinato, è proprio del bambino; ma giocando a tornare a scuola si ritrova un sapore d' infanzia, delicato e dimenticato. La competizione con i colleghi, vittoriosa o no, è un contatto con i giovani in condizioni di parità, una gara leale ed aperta che è impossibile realizzare altrove. Gli steccati fra le generazioni cadono; si è costretti a mettere da parte la noiosa autorità degli anziani, e si è portati a rendere omaggio alle superiori risorse mentali dei giovani, che ti siedono accanto senza irrisione, commiserazione né disprezzo, e ti si fanno amici. Per di più, il far dono a se stessi di un' attività gradevole e priva di uno scopo immediato è un lusso che costa poco e rende molto: è come ricevere, gratis o quasi, un oggetto raro e bello.

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È abbastanza strano che la parola baita, comune in tutto l' arco alpino, sia così simile all' ebraico bait, che appunto significa "casa". La coincidenza aveva cominciato a incuriosirmi quando avevo undici anni, e compitavo un po' di ebraico, purtroppo poi ampiamente dimenticato. Mi sembrava evidente che il termine alpino provenisse dall' ebraico, che era "la lingua più antica del mondo", e da questa presunta derivazione ricavavo una puerile fierezza: i Romani avevano bensì vinto i miei progenitori Giudei e distrutto Gerusalemme, ma almeno una parola ebraica aveva soppiantato la corrispondente parola latina. Insomma, era una piccola rivincita. Non sospettavo di essermi imbattuto in una conferma della teoria delle aree cara ai linguisti, secondo cui la presenza di una determinata parola in aree periferiche è testimonianza della sua arcaicità: è un affioramento di un linguaggio che nelle regioni intermedie è stato sepolto da parlate più innovative. Per decenni mi sono tenuta in corpo questa curiosità, frammista a innumerevoli altre, nel grande serbatoio dei perché senza risposta, finché non ho letto su un dizionario che si tratta appunto di una "parola alpina risalente al sostrato paleoeuropeo dall' area basca a quella egea": al che mi sono sentito pervadere da un' allegrezza altrettanto puerile. Dunque ero cascato su un fossile illustre, su un rarissimo resto di un passato linguistico che precede la storia, forse un relitto dell' età dell' oro, quando tutto il Mediterraneo parlava la stessa lingua, prima della Torre di Babele, prima che venissero dal Nord le armate feroci dei Dori, dei Galli, degli Illiri, a portare la guerra e la confusione dei linguaggi; quando un Basco poteva dire "andiamo a baita" a un Egeo, ed essere capito. Se ancora necessario, devo confessare che sto parlando qui di una mia vecchia debolezza, che è quella di occuparmi a ore perse di cose che non capisco, non per edificarmi una cultura organica, ma per puro divertimento: il diletto incontaminato dei dilettanti. Preferisco orecchiare che ascoltare, spiare dai buchi di serratura invece di spaziare sui panorami vasti e solenni; preferisco rigirare tra le dita una singola tessera invece di contemplare il mosaico nella sua interezza. Per questo i miei famigliari ridono benevolmente di me quando mi vedono (cosa frequente) con in mano un dizionario o un vocabolario invece che un romanzo o un trattato: è vero, preferisco il particolare al generale, le letture saltuarie e sminuzzate a quelle sistematiche. È certamente un vizio, ma fra i meno nocivi; al di fuori della lettura, si manifesta nella tendenza a fare le cose che non si sanno fare; così operando, può anche capitare che si impari a farle, ma questo è un accidente, un sottoprodotto: il fine principale è il tentativo in sé, il libertinaggio, l' esplorazione. Ricordo di aver letto molto tempo fa, su questo argomento, un bellissimo saggio, naturalmente dilettantesco, del povero Paolo Monelli: si intitolava "Elogio dello schiappino", e lodava chi si arrabatta a fare i mestieri altrui, l' autodidatta, lo sciatore che si avventura sulla neve senza aver frequentato i corsi e senza aver letto i manuali, chi si studia d' imparare una lingua straniera senza grammatica ma ponzando un giornale o conversando a ruota libera con il primo forestiero incontrato, il pittore della domenica, tutti coloro insomma che si sforzano d' imparare dall' esperienza greggia propria invece che dai trattati o dai maestri, cioè dal corpus sterminato dell' esperienza altrui. L' elogio, beninteso, è paradossale: si impara meglio e più in fretta se si seguono le vie tradizionali, ma le vie spontanee sono più allegre e più ricche di sorprese. Un caso particolare di questo libertinaggio "sportivo" consiste per me nella frequentazione inconsulta dei dizionari etimologici: esercizio tanto più remunerativo in quanto fatto a puro titolo gratuito, senza uno scopo pratico, senza intenti critici di cui del resto non sarei capace, e senza una seria preparazione linguistica. Ne posseggo cinque, per l' italiano, il francese, il tedesco, l' inglese e il piemontese: quello che mi è più caro è quest' ultimo, perché nasconde nelle sue pieghe insospettati diplomi di nobiltà per questo nostro dialetto, che io parlo male, ma che amo del "debito amore" che ci lega al luogo in cui siamo nati e cresciuti, e che diventa nostalgia quando ne siamo lontani. I diplomi a cui ho accennato sono i vocaboli piemontesi che derivano dal latino senza l' intermediazione dell' italiano. Non sono pochi, e quasi tutti appartengono al linguaggio della campagna: un' area in cui, dal latino rustico (spesso contaminato con parlate celtiche o liguri locali), si è passati direttamente ad un dialetto abbastanza simile a quello attuale, e in cui l' italiano è parlato solo da qualche decennio, imposto dall' amministrazione, divulgato dalle migrazioni interne, dalla radio, poi dal cinema, ed infine, trionfalmente, dalla televisione. È logico, ma insieme sorprendente e commovente, che la donnola si chiami tuttora musteila in piemontese (mustela in latino): nella italianizzata Torino le donnole non si sono mai viste, non c' è mai stato il bisogno di trasmetterne il nome di generazione in generazione. Il nostro bulé è il latino boletus: per quanto riguarda i funghi, nessun' altra parlata neolatina, né il patrio italiano né il francese viciniore, si è dimostrata altrettanto fedele al latino quanto quella di noi Allobrogi; del resto, nessun fritto misto dà tanto onore ai funghi quanto il fritto alla piemontese; e non mi stupirebbe, anzi, proverei una sciovinistica fierezza, se qualcuno mi dimostrasse che la filiazione è inversa, che insomma i latini hanno imparato a chiamare boleti i boleti da qualche oscura gente transpadana, cioè da noi. Altrettanta gioia ho provato quando, riguardando la "Copa" virgiliana di recente tradotta da Zanzotto per Vanni Scheiwiller, ho trovato nel testo latino riportato a fronte nulla meno che la nostra topia, ignorata dall' italiano, e usata da latini e greci in un senso solo leggermente diverso da quello piemontese (aiuola anziché pergolato). E piemontesi-latine senza intrusione italiana sono le tisoire (le forbici tonsorie), la pàu (paùra, pàvor), arsenté (sciacquare, recentare), ancheui (oggi, hanc hodie), l' aram (il rame, ma il termine dialettale è più vicino di quello italiano al latino aeramen), lo stibi tuttora usatissimo dai muratori (muriccio divisorio, stipes: l' italiano stipite ha un altro significato), il pré (il ventriglio dei polli, petrarius perché spesso contiene sassolini), il malavi, che non corrisponde all' italiano malato ma al latino male habitus. La perla di questa corona è, per un giusto ritorno, lo stesso aggettivo latin o ladin, che in piemontese vale "agevole, spedito, scorrevole". L' italiano d' oggi non sente più il latino come la lingua "facile" per eccellenza, ma tale la teneva ancora l' Ariosto, là dove dice che il conte Orlando intendeva la lingua saracena "come latino". Ebbene, non molti anni fa ho sentito un ragazzo del contado che lodava (in piemontese) la propria bicicletta, dicendo che era "più latina" di quella del suo fratello maggiore. Sono scoperte minori, e già fatte innumerevoli volte dagli addetti ai lavori; ma si prova ugualmente un gentile piacere nel riscoprirle. Allo stesso modo c' è chi, in mezzo alla selva degli impianti di risalita, prova piacere a salire fino alla Banchetta con gli sci e le pelli di foca.

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Il sistema periodico

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Levi, Primo 1 occorrenze

Sono sceso al torrente che era abbastanza impetuoso (mi ricordo che aveva l' acqua torbida e bianchiccia, come se ci fosse mescolato del latte, cosa che dalle mie parti non si è mai vista), e mi sono messo con pazienza ad esaminare le pietre: questa è una delle nostre malizie, i sassi dei torrenti vengono di lontano, e parlano chiaro a chi sa capire. C' era un po' di tutto: pietre focaie, sassi verdi, pietre da calce, granito, pietra da ferro, perfino un po' di quella che noi chiamiamo galmeida, tutta roba che non mi interessava; eppure, avevo come un chiodo in testa che in una valle fatta come quella, con certe striature bianche sulla roccia rossa, con tanto ferro in giro, le pietre da piombo non dovevano mancare. Me ne andavo giù lungo il torrente, un po' sui massi, un po' guadando dove si poteva, come un cane da caccia, con gli occhi inchiodati a terra, quando ecco, poco sotto alla confluenza di un altro torrente più piccolo, ho visto un sasso in mezzo a milioni di altri sassi, un sasso quasi uguale a tutti gli altri, un sasso bianchiccio con dei granelli neri, che mi ha fatto fermare, teso ed immobile, proprio come un bracco che punta. L' ho raccolto, era pesante, accanto ce n' era un altro simile ma più piccolo. Noi è difficile che ci sbagliamo: ma a buon conto l' ho spezzato, ne ho preso un frammento come una noce e me lo sono portato via per saggiarlo. Un buon cercatore, uno serio, che non voglia dire bugie né agli altri né a se stesso, non si deve fidare delle apparenze, perché la pietra, che sembra morta, invece è piena d' inganni: qualche volta cambia sorte addirittura mentre la scavi, come certi serpenti che cambiano colore per non farsi scorgere. Un buon cercatore, dunque, si porta dietro tutto: il crogiolo d' argilla, la carbonella, l' esca, l' acciarino, e un altro strumento ancora che è segreto e non vi posso dire, e serve appunto a capire se una pietra è buona o no. A sera mi sono trovato un posto fuori mano, ho fatto un focolare, ci ho messo sopra il crogiolo ben stratificato, l' ho arroventato per mezz' ora e l' ho lasciato raffreddare. L' ho rotto, ed eccolo, il dischetto lucido e pesante, che si incide con l' unghia, quello che ti allarga il cuore e fa sparire dalle gambe la stanchezza del cammino, e che noi chiamiamo "il piccolo re". A questo punto non è che uno sia a posto: anzi, il più del lavoro è ancora da fare. Bisogna risalire il torrente, e ad ogni biforcazione cercare se la pietra buona continua a destra o a sinistra. Ho risalito per un bel po' il torrente più grosso, e la pietra c' era sempre, ma era sempre molto rara; poi la valle si restringeva in una gola talmente profonda e ripida che non c' era neanche da pensare a risalirla. Ho chiesto ai pastori, lì intorno, e mi hanno fatto capire, a gesti e a grugniti, che non c' era proprio modo di aggirare lo scoscendimento, ma che, ridiscendendo nella valle grande, si trovava una stradina, larga così, che superava un valico a cui loro davano un nome come Tringo e scendeva a monte della gola, in un luogo dove c' erano bestie cornute che muggivano, e quindi (ho pensato io) anche pascoli, pastori, pane e latte. Mi sono messo in cammino, ho trovato facilmente la stradina e il Tringo, e di qui sono disceso in un bellissimo paese. Proprio di fronte a me che scendevo, si vedeva d' infilata una valle verde di larici, e in fondo montagne tutte bianche di neve in piena estate: la valle terminava ai miei piedi in una vasta prateria punteggiata di capanne e di armenti. Ero stanco, sono sceso e mi sono fermato dai pastori. Erano diffidenti, ma conoscevano (fin troppo bene) il valore dell' oro, e mi hanno ospitato per qualche giorno senza farmi angherie. Ne ho approfittato per imparare qualche parola della loro lingua: chiamano "pen" le montagne, "tza" i prati, "roisa" la neve d' estate, "fea" le pecore, "bait" le loro case, che sono di pietra nella parte bassa, dove tengono le bestie, e di legno sopra, con appoggi di pietra come ho già detto, dove vivono loro e tengono il fieno e le provviste. Erano gente scontrosa, di poche parole, ma non avevano armi e non mi hanno trattato male. Essendomi riposato, ho ripreso la ricerca, sempre col sistema del torrente, ed ho finito con l' infilarmi in una valle parallela a quella dei larici, lunga stretta e deserta, senza pascoli né foresta. Il torrente che la percorreva era ricco di pietra buona: sentivo di essere vicino a quello che cercavo. Ci ho messo tre giorni, dormendo all' addiaccio: anzi, senza dormire affatto, tanto ero impaziente; passavo le notti a scrutare il cielo perché nascesse l' alba. Il giacimento era molto fuori mano, in un canalone ripido: la pietra bianca affiorava dall' erba stenta, a portata di mano, e bastava scavare due o tre palmi per trovare la pietra nera, la più ricca di tutte, che io non avevo ancora mai vista ma mio padre mi aveva descritta. Pietra compatta, senza scoria, da lavorarci cento uomini per cento anni. Quello che era strano, è che qualcuno lì ci doveva già essere stato: si vedeva, mezzo nascosto dietro una roccia (che certo era stata messa lì apposta), l' imbocco di una galleria, che doveva essere molto antica, perché dalla volta pendevano stalattiti lunghe come le mie dita. Per terra c' erano paletti di legno infracidito e frammenti d' ossa, pochi e guasti, il resto dovevano averlo portato via le volpi, infatti c' erano tracce di volpi e forse di lupi: ma un mezzo cranio che sporgeva dal fango era certamente umano. Questa è una cosa difficile da spiegare, ma è già successa più di una volta: che qualcuno, chissà quando, venendo di chissà dove, in un tempo remoto magari prima del diluvio, trova una vena, non dice niente a nessuno, cerca da solo di cavare la pietra, ci lascia le ossa, e poi passano i secoli. Mio padre mi diceva che, in qualunque galleria uno scavi, trova le ossa dei morti. Insomma, il giacimento c' era: ho fatto le mie prove, ho fabbricato così alla meglio una fornace lì all' aperto, sono sceso e tornato su con la legna, ho fuso tanto piombo da poterlo portare in spalla e sono tornato a valle. Alla gente dei pascoli non ho detto niente: ho ripreso il Tringo e sono sceso nel grande villaggio dall' altra parte, che si chiamava Sales. Era giorno di mercato, e mi sono messo in mostra col mio pezzo di piombo in mano. Qualcuno ha incominciato a fermarsi, a soppesarlo e a farmi domande che capivo a mezzo: era chiaro che volevano sapere a cosa serviva, quanto costava, da dove veniva. Poi si è fatto avanti un tale con l' aria svelta, con un berretto di lana intrecciata, e ci siamo intesi abbastanza bene. Gli ho fatto vedere che quella roba si batte col martello: anzi, seduta stante ho trovato un martello e un paracarro, e gli ho fatto vedere quanto è facile ridurlo in lastre e fogli; poi gli ho spiegato che coi fogli, saldandoli su di un lato con un ferro rovente, si possono fare tubi; gli ho detto che i tubi di legno, per esempio le gronde di quel paese Sales, perdono e marciscono, gli ho spiegato che i tubi di bronzo sono difficili da fare e che quando si usano per l' acqua da bere fanno venire il mal di ventre, e che invece i tubi di piombo durano in eterno e si saldano l' uno sull' altro con facilità. Un po' alla ventura, e facendo una faccia solenne, ho tirato anche il colpo di spiegargli che con un foglio di piombo si possono anche rivestire le casse dei morti, in modo che questi non fanno i vermi, ma diventano secchi e sottili, e così anche l' anima non si disperde, che è un bel vantaggio; e sempre col piombo si possono fondere delle statuette funebri, non lucide come il bronzo, ma appunto, un po' fosche, un po' velate, come si addice ad oggetti di lutto. Siccome ho visto che queste questioni gli interessavano molto, gli ho spiegato che, se si va oltre le apparenze, il piombo è proprio il metallo della morte: perché fa morire, perché il suo peso è un desiderio di cadere, e cadere è dei cadaveri, perché il suo stesso colore è smorto-morto, perché è il metallo del pianeta Tuisto, che è il più lento dei pianeti, cioè il pianeta dei morti. Gli ho anche detto che, secondo me, il piombo è una materia diversa da tutte le altre materie, un metallo che senti stanco, forse stanco di trasformarsi e che non si vuole trasformare più: la cenere di chissà quali altri elementi pieni di vita, che mille e mille anni fa si sono bruciati al loro stesso fuoco. Queste sono cose che io penso veramente, non è che me le sia inventate per stringere l' affare. Quell' uomo, che si chiamava Borvio, stava a sentire a bocca aperta, e poi mi ha detto che doveva proprio essere come io dicevo, e che quel pianeta è sacro ad un dio che nel suo paese si chiama Saturno, e viene dipinto con una falce. Era il momento di venire al sodo, e mentre lui stava ancora rimuginando i miei imbonimenti gli ho chiesto trenta libbre d' oro, contro la cessione del giacimento, la tecnologia della fusione e istruzioni precise sugli usi principali del metallo. Lui mi ha controfferto delle monete di bronzo con sopra un cinghiale, coniate chissà dove, ma io ho fatto l' atto di sputarci sopra: oro, e niente storie. D' altronde, trenta libbre sono troppe per uno che viaggia a piedi, tutti lo sanno, e io sapevo che Borvio lo sapeva: così abbiamo concluso per venti libbre. Si è fatto accompagnare al giacimento, il che era giusto. Tornati a valle, mi ha consegnato l' oro: io ho controllato tutti i venti lingottini, li ho trovati genuini e di buon peso, ed abbiamo fatto una bella sbornia di vino per solennizzare il contratto. Era anche una sbornia d' addio. Non è che quel paese non mi piacesse, ma molti motivi mi spingevano a riprendere il cammino. Primo: volevo vedere i paesi caldi, dove si dice che crescono gli olivi e i limoni. Secondo: volevo vedere il mare, non quello tempestoso da dove veniva il mio avo dai denti azzurri, ma il mare tiepido, di dove viene il sale. Terzo: non serve a niente avere l' oro e portarselo sulla gobba, col terrore continuo che di notte, o durante una sbornia, te lo portino via. Quarto e complessivo: volevo spendere l' oro in un viaggio per mare, per conoscere il mare e i marinai, perché i marinai hanno bisogno del piombo, anche se non lo sanno. Così me ne sono andato: ho camminato per due mesi, scendendo per una grande valle triste, fino a che questa è sboccata nel piano. C' erano prati e campi di grano, e un odore aspro di sterpi bruciati che mi ha fatto venire nostalgia del mio paese: l' autunno, in tutti i paesi del mondo, ha lo stesso odore, di foglie morte, di terra che riposa, di fascine che bruciano, insomma di cose che finiscono, e tu pensi "per sempre". Ho incontrato una città fortificata, grande come da noi non ce n' è, alla confluenza di due fiumi; c' era un mercato di schiavi, carne, vino, ragazze sudice, solide e scarmigliate, una locanda con un buon fuoco, e ci ho passato l' inverno: nevicava come da noi. Sono ripartito a marzo, e dopo un mese di cammino ho trovato il mare, che non era azzurro ma grigio, muggiva come un bisonte, e si avventava sulla terra come se la volesse divorare: al pensiero che non aveva mai riposo, non l' aveva mai avuto da quando c' è il mondo, mi sentivo mancare il coraggio. Ma ho preso ugualmente la strada verso levante, lungo la spiaggia, perché il mare mi affascinava e non mi potevo staccare da lui. Ho trovato un' altra città, e mi ci sono fermato, anche perché il mio oro volgeva alla fine. Erano pescatori e gente strana, che veniva per nave da vari paesi molto lontani: comperavano e vendevano, di notte si accapigliavano per le donne e si accoltellavano nei vicoli; allora anch' io mi sono comperato un coltello, di bronzo, robusto, colla guaina di cuoio, da portare legato alla vita sotto i panni. Conoscevano il vetro, ma non gli specchi: cioè, avevano soltanto specchietti di bronzo levigato, da quattro soldi, di quelli che si rigano subito e falsano i colori. Se si ha del piombo, non è mica difficile fare uno specchio di vetro, ma io gli ho fatto cadere il segreto molto dall' alto, gli ho raccontato che è un' arte che solo noi Rodmund conosciamo, che ce l' ha insegnata una dea che si chiama Frigga, e altre sciocchezze che quelli hanno bevuto come acqua. Io avevo bisogno di soldi: mi sono guardato intorno, ho trovato vicino al porto un vetraio che aveva l' aria abbastanza intelligente, e mi sono messo d' accordo con lui. Da lui ho imparato diverse cose, prima fra tutte che il vetro si può soffiare: mi piaceva tanto, quel sistema, che me lo sono perfino fatto insegnare, e un giorno o l' altro proverò anche a soffiare il piombo o il bronzo fuso (ma sono troppo liquidi, è difficile che riesca). Io invece ho insegnato a lui che, sulla lastra di vetro ancora calda, si può colare il piombo fuso, e si ottengono degli specchi non tanto grandi, ma luminosi, senza difetti, e che si conservano per molti anni. Lui poi era abbastanza bravo, aveva un segreto per i vetri colorati, e gettava delle lastre variegate di bellissimo aspetto. Io ero pieno d' entusiasmo per la collaborazione, ed ho inventato di fare specchi anche con le calotte di vetro soffiato, colandogli il piombo dentro o spalmandolo di fuori: a specchiarcisi dentro, ci si vede molto grandi o molto piccoli, oppure anche tutti storti; questi specchi non piacciono alle donne, ma tutti i bambini se li fanno comperare. Per tutta l' estate e l' autunno abbiamo venduto specchi ai mercanti, che ce li pagavano bene: ma intanto io parlavo con loro, e cercavo di raccogliere più notizie che potevo su di una terra che molti di loro conoscevano. Era stupefacente osservare come quella gente, che pure passava in mare metà della sua vita, avesse idee così confuse circa i punti cardinali e le distanze; ma insomma, su un punto erano tutti d' accordo, e cioè che navigando verso sud, chi diceva mille miglia, chi ancora dieci volte più lontano, si trovava una terra che il sole aveva bruciata in polvere, ricca di alberi ed animali mai visti, abitata da uomini feroci di pelle nera. Ma molti avevano per certo che a metà strada si incontrava una grande isola detta Icnusa, che era l' isola dei metalli: su quest' isola si raccontavano le storie più strane, che era abitata da giganti, ma che i cavalli, i buoi, perfino i conigli e i polli, erano invece minuscoli; che comandavano le donne e facevano la guerra, mentre gli uomini guardavano le bestie e filavano la lana; che questi giganti erano divoratori d' uomini, e in specie di stranieri; che era una terra di puttanesimo, dove i mariti si scambiavano le mogli, ed anche gli animali si accoppiavano a casaccio, i lupi con le gatte, gli orsi con le vacche; che la gravidanza delle donne non durava che tre giorni, poi le donne partorivano, e subito dicevano al bambino: "Orsù, portami le forbici e fai luce, che io ti tagli il cordone". Altri ancora raccontavano che lungo le sue coste ci sono fortezze di pietra, grandi come montagne; che tutto in quell' isola è fatto di pietra, le punte delle lance, le ruote dei carri, perfino i pettini delle donne e gli aghi per cucire; anche le pentole per cucinare, e addirittura che hanno pietre che bruciano, e le accendono sotto a queste pentole; che lungo le loro strade, a sorvegliare i quadrivi, ci sono mostri pietrificati spaventosi a vedersi. Queste cose io le ascoltavo con compunzione, ma dentro di me ridevo a crepapelle, perché ormai il mondo l' ho girato abbastanza, e so che tutto il mondo è paese: del resto, anch' io, quando ritorno e racconto i paesi dove sono stato, mi diverto a inventare delle stranezze; e qui se ne raccontano di fantastiche sul mio paese, per esempio che i bufali da noi non hanno le ginocchia, e che per abbatterli basta segare alla base gli alberi a cui si appoggiano di notte per riposare: sotto il loro peso, l' albero si spezza, loro cascano distesi e non si possono rialzare più. Sul fatto dei metalli, però, erano tutti d' accordo; molti mercanti e capitani di mare avevano portato dall' isola a terra carichi di metallo greggio o lavorato, ma erano gente rozza, e dai loro discorsi era difficile capire di che metallo si trattasse: anche perché non parlavano tutti la stessa lingua, e nessuno parlava la mia, e c' era una gran confusione di termini. Dicevano per esempio "kalibe", e non c' era verso di capire se intendevano ferro, o argento, o bronzo. Altri chiamavano "sider" sia il ferro, sia il ghiaccio, ed erano così ignoranti da sostenere che il ghiaccio delle montagne, col passar dei secoli e sotto il peso della roccia, si indurisce e diventa prima cristallo di rocca e poi pietra da ferro. Insomma, io ero stufo di mestieri da femmina, e in quest' Icnusa ci volevo andare. Ho ceduto al vetraio la mia quota dell' impresa, e con quel danaro, più quello che avevo guadagnato con gli specchi, ho trovato un passaggio a bordo di una nave da carico: ma d' inverno non si parte, c' è la tramontana, o il maestrale, o il noto, o l' euro, pare insomma che nessun vento sia buono, e che fino ad aprile la cosa migliore sia starsene a terra, ubriacarsi, giocarsi la camicia ai dadi, e mettere incinte le ragazze del porto. Siamo partiti ad aprile. La nave era carica di anfore di vino; oltre al padrone c' era un capociurma, quattro marinai e venti rematori incatenati ai banchi. Il capociurma veniva da Kriti ed era un gran bugiardo: raccontava di un paese dove vivono uomini chiamati Orecchioni, che hanno orecchie così smisurate che ci si avvolgono dentro per dormire d' inverno, e di animali con la coda dalla parte davanti che si chiamano Alfil e intendono il linguaggio degli uomini. Devo confessare che ho stentato ad avvezzarmi a vivere sulla nave: ti balla sotto i piedi, pende un po' a destra e un po' a sinistra, è difficile mangiare e dormire, e ci si pestano i piedi l' un l' altro per mancanza di spazio; poi, i rematori incatenati ti guardano con occhi così feroci da farti pensare che, se non fossero appunto incatenati, ti farebbero a pezzi in un momento: e il padrone mi ha detto che delle volte succede. D' altra parte, quando il vento è propizio, la vela si gonfia, e i rematori alzano i remi, sembra proprio di volare, in un silenzio incantato; si vedono i delfini saltare fuori dall' acqua, e i marinai sostengono di capire, dall' espressione del loro ceffo, il tempo che farà domani. Quella nave era bene impiastrata di pace, e tuttavia si vedeva tutta la carena sforacchiata: dalle teredini, mi spiegarono. Anche nel porto avevo visto che tutte le navi alla fonda erano rosicchiate: non c' è niente da fare, mi ha detto il padrone, che era anche il capitano. Quando una nave è vecchia, la si sfascia e si brucia; ma io avevo una mia idea, e così anche per l' ancora. È stupido farla di ferro: si mangia tutta di ruggine, non dura due anni. E le reti da pesca? Quei marinai, quando il vento era buono, calavano una rete che aveva galleggianti di legno, e sassi per zavorra. Sassi! se fossero stati di piombo, avrebbero potuto essere quattro volte meno ingombranti. Chiaro che non ne ho fatto parola con nessuno, ma, l' avrete capito anche voi, pensavo già al piombo che avrei cavato dal ventre dell' Icnusa, e vendevo la pelle dell' orso prima di averlo ammazzato. Siamo arrivati in vista dell' isola dopo undici giorni di mare. Siamo entrati in un piccolo porto a forza di remi: intorno, c' erano scoscendimenti di granito, e schiavi che scolpivano colonne. Non erano giganti, e non dormivano nelle proprie orecchie; erano fatti come noi, e coi marinai si intendevano abbastanza bene, ma i loro sorveglianti non li lasciavano parlare. Quella era una terra di roccia e di vento, che mi piacque subito: l' aria era piena di odori d' erbe, amari e selvaggi, e la gente sembrava forte e semplice. Il paese dei metalli era a due giornate di cammino: ho noleggiato un asino col suo conducente, e questo è proprio vero, sono asini piccoli (non però come gatti, come si diceva nel continente), ma robusti e resistenti; insomma, nelle dicerie qualcosa di vero ci può essere, magari una verità nascosta sotto veli di parole, come un indovinello. Per esempio, ho visto che era giusta anche la faccenda delle fortezze di pietra: non sono proprio grosse come montagne, ma solide, di forma regolare, di conci commessi con precisione: e quello che è curioso, è che tutti dicono che "ci sono sempre state", e nessuno sa da chi, come, perché e quando sono state costruite. Che gli isolani divorino gli stranieri, invece, è una gran bugia: di tappa in tappa, mi hanno condotto alle miniere, senza fare storie né misteri, come se la loro terra fosse di tutti. Il paese dei metalli è da ubriacarsi: come quando un segugio entra in un bosco pieno di selvaggina, che salta di usta in usta, trema tutto e diventa come stranito. È vicino al mare, una fila di colline che in alto diventano dirupi, e si vedono vicino e lontano, fino all' orizzonte, i pennacchi di fumo delle onderie, con intorno gente in faccende, liberi e schiavi: e anche la storia della pietra che brucia è vera, non credevo ai miei occhi. Stenta un po' ad accendersi, ma poi fa molto calore e dura a lungo. La portavano là di non so dove, in canestri a dorso d' asino: è nera, untuosa, fragile, non tanto pesante. Dicevo dunque che ci sono pietre meravigliose, certamente gravide di metalli mai visti, che affiorano in tracce bianche, viola, celesti: sotto quella terra ci dev' essere un favoloso intrico di vene. Mi sarei perso volentieri, a battere scavare e saggiare: ma sono un Rodmund, e la mia pietra è il piombo. Mi sono subito messo al lavoro. Ho trovato un giacimento al margine ovest del paese, dove penso che nessuno avesse mai cercato: infatti non c' erano pozzi né gallerie né discariche, e neppure c' erano segni apparenti in superficie; i sassi che affioravano erano come tutti gli altri sassi. Ma poco sotto il piombo c' era: e questa è una cosa a cui spesso avevo pensato, che noi cercatori crediamo di trovare il metallo con gli occhi, l' esperienza e l' ingegno, ma in realtà quello che ci conduce è qualcosa di più profondo, una forza come quella che guida i salmoni a risalire i nostri fiumi, o le rondini a ritornare al nido. Forse avviene per noi come per gli acquari, che non sanno che cosa li guida all' acqua, ma qualcosa pure li guida, e torce la bacchetta fra le loro dita. Non so dire come, ma proprio lì era il piombo, lo sentivo sotto i miei piedi torbido velenoso e greve, per due miglia lungo un ruscello in un bosco dove, nei tronchi fulminati, si annidano le api selvatiche. In poco tempo ho comperato schiavi che scavassero per me, ed appena ho avuto da parte un po' di danaro mi sono comperata anche una donna. Non per farci baldoria insieme: l' ho scelta con cura, senza guardare tanto la bellezza, ma che fosse sana, larga di fianchi, giovane e allegra. L' ho scelta così perché mi desse un Rodmund, che la nostra arte non perisca; e non ho perso tempo, perché le mie mani e le ginocchia hanno preso a tremare, e i miei denti vacillano nelle gengive, e si sono fatti azzurri come quelli del mio avo che veniva dal mare. Questo Rodmund nascerà sul finire del prossimo inverno, in questa terra dove crescono le palme e si condensa il sale, e si sentono di notte i cani selvaggi latrare sulla pista dell' orso; in questo villaggio che io ho fondato presso il ruscello delle api selvatiche, ed a cui avrei voluto dare un nome della mia lingua che sto dimenticando, Bak der Binnen, che significa appunto "Rio delle Alpi": ma la gente di qui ha accettato il nome solo in parte, e fra di loro, nel loro linguaggio che ormai è il mio, lo chiamano "Bacu Abis".

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Storie naturali

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Levi, Primo 2 occorrenze

La padrona del caffè Alpino gli aveva fatto una accoglienza neutra (evidentemente non era abbastanza curiosa, o non abbastanza acuta); ma dal sorriso insieme deferente e materno e lievemente canzonatorio della tabaccaia aveva capito di essere ormai "il dottore nuovo", senza possibilità di dilazione. "Devo proprio avere la laurea scritta in faccia, _ pensò: _ "tu es medicus in aeternum", e, quel che è peggio, tutti se ne accorgeranno". Morandi non aveva alcun gusto per le cose irrevocabili, e, almeno per il momento, si sentiva portato a non vedere, in tutta la faccenda, che una grossa e perenne seccatura. "Qualcosa del genere del trauma della nascita", concluse fra sé senza molta coerenza. Ed intanto, come prima conseguenza dell' incognito perduto, bisognava andare a cercare di Montesanto, senza porre altro tempo in mezzo. Ritornò al caffè per ritirare dalla valigia la lettera di presentazione, e si mise alla ricerca della targhetta, attraverso il paese deserto e sotto il sole spietato. La trovò a stento, dopo molte inutili giravolte; non aveva voluto domandare la strada a nessuno, perché sui visi dei pochi che aveva incontrato gli era parso di leggere una curiosità non benevola. Si era atteso che la targhetta fosse vecchia, ma la trovò più vecchia di ogni possibile aspettativa, coperta di verderame, col nome quasi illeggibile. Tutte le persiane della casa erano chiuse, la bassa facciata scrostata e stinta. Al suo arrivo vi fu un rapido e silenzioso guizzare di lucertole. Montesanto in persona scese ad aprirgli. Era un vecchio alto e corpulento, dagli occhi miopi eppure vivi in un viso dai tratti stanchi e pesanti: si muoveva con la sicurezza silenziosa e massiccia degli orsi. Era in maniche di camicia, senza colletto; la camicia era sgualcita e di dubbia pulizia. Per le scale, e poi sopra nello studio, faceva fresco ed era quasi buio. Montesanto sedette, e fece sedere Morandi su di una sedia particolarmente scomoda. "Ventidue anni qui dentro", pensò questi con un brivido mentale, mentre l' altro leggeva senza fretta la lettera di presentazione. Si guardò intorno, mentre i suoi occhi si abituavano alla penombra. Sulla scrivania, lettere, riviste, ricette ed altre carte di natura ormai indefinibile erano ingiallite, e raggiungevano uno spessore impressionante. Dal soffitto pendeva un lungo filo di ragno, reso visibile dalla polvere che vi aderiva, e secondava mollemente impercettibili aliti dell' aria meridiana. Un armadio a vetri con pochi strumenti antiquati e poche boccette in cui i liquidi avevano corroso il vetro segnando il livello che per troppo tempo avevano conservato. Alla parete, stranamente familiare, il grande quadro fotografico dei "Laureandi Medici 1911", a lui ben noto: ecco la fronte quadrata e il mento forte di suo padre, Morandi senior; e subito accanto (ahi, quanto difficilmente riconoscibile!) il qui presente Ignazio Montesanto, snello, nitido e spaventosamente giovane, con l' aria di eroe e martire del pensiero prediletta dai laureandi dell' epoca. Finito di leggere, Montesanto depose la lettera sul cumulo di carte della scrivania, in cui essa si mimetizzò perfettamente. _ Bene, _ disse poi: _ Sono molto lieto che il destino, la fortuna _ e la frase finì in un mormorio indistinto, a cui successe un lungo silenzio. Il vecchio medico impennò la sedia sulle gambe posteriori e volse gli occhi al soffitto. Morandi si dispose ad attendere che l' altro riprendesse il discorso; il silenzio cominciava ormai a pesargli quando Montesanto riprese imprevedibilmente a parlare. Parlò a lungo, dapprima con molte pause, poi più rapidamente; la sua fisionomia si andava animando, gli occhi brillavano mobili e vivi nel viso disfatto. Morandi, con sua sorpresa, si rendeva conto di provare una precisa e via via crescente simpatia per il vecchio. Si trattava evidentemente di un soliloquio, di una grande vacanza che Montesanto si stava concedendo. Per lui le occasioni di parlare (e si sentiva che sapeva parlare, che ne conosceva l' importanza) dovevano essere rare, brevi ritorni ad un antico vigore di pensiero ormai forse perduto. Montesanto raccontava; della sua spietata iniziazione professionale, sui campi e nelle trincee dell' altra guerra; del suo tentativo di carriera universitaria, intrapreso con entusiasmo, continuato con apatia ed abbandonato tra l' indifferenza dei colleghi, che aveva fiaccato tutte le sue iniziative; del suo volontario esilio nella condotta sperduta, alla ricerca di qualcosa di troppo mal definibile per poter mai venire trovato; e poi la sua vita attuale di solitario, straniero in mezzo alla comunità di piccola gente spensierata, buona e cattiva, ma per lui irreparabilmente lontana; il prevalere definitivo del passato sul presente, ed il naufragio ultimo di ogni passione, salvo la fede nella dignità del pensiero e nella supremazia delle cose dello spirito. "Strano vecchio", pensava Morandi; aveva notato che da quasi un' ora l' altro aveva parlato senza guardarlo in viso. Dapprima aveva tentato a varie riprese di condurlo su di un piano più concreto, di domandargli dello stato sanitario della condotta, dell' attrezzatura da rinnovare, dell' armadietto farmaceutico, e magari anche della propria sistemazione personale; ma non vi era riuscito, per timidezza e per un più meditato ritegno. Ora Montesanto taceva, col viso rivolto al soffitto e lo sguardo accomodato all' infinito. Evidentemente il soliloquio continuava nel suo interno. Morandi era imbarazzato: si domandava se era o no attesa una sua replica, e quale, e se il medico si accorgeva ancora di non essere solo nello studio. Se ne accorgeva. Lasciò ricadere d' un tratto la sedia sui quattro piedi, e con una curiosa voce sforzata disse: _ Morandi, lei è giovane, molto. So che lei è un buon medico, o meglio lo diverrà: penso che lei sia anche un uomo buono. Nel caso che lei non sia abbastanza buono per comprendere quello che le ho detto e quello che le dirò ora, spero che lo sia abbastanza almeno per non riderne. E se ne riderà, non sarà gran male: come lei sa, difficilmente ci incontreremo ancora; del resto, è nell' ordine delle cose che i giovani ridano dei vecchi. Soltanto la prego di non dimenticare che sarà lei il primo a sapere di queste mie cose. Non voglio adularla dicendole che lei mi è sembrato particolarmente degno della mia confidenza. Sono sincero: lei è la prima occasione che mi si presenta da molti anni, e probabilmente sarà anche l' ultima. _ Mi dica, _ fece Morandi semplicemente. _ Morandi, ha mai notato con quale potenza certi odori evochino certi ricordi? Il colpo giungeva imprevisto. Morandi deglutì con sforzo; disse che lo aveva notato, e possedeva anche un tentativo di teoria esplicativa in proposito. Non si spiegava il cambiamento di tema. Concluse fra sé che, in definitiva, non doveva trattarsi che di un "pallino", come tutti i medici ne hanno, superata una certa età. Come Andriani: a sessantacinque anni, ricco di fama, di quattrini e di clientela, era arrivato ancora in tempo per coprirsi di ridicolo con la storia del campo neurico. L' altro aveva afferrato con le due mani gli spigoli della scrivania, e guardava il vuoto corrugando la fronte. Poi riprese: _ Le mostrerò qualcosa di inconsueto. Durante gli anni del mio assistentato in farmacologia ho studiato abbastanza a fondo l' azione degli adrenalinici assorbiti per via nasale. Non ne ho cavato nulla di utile all' umanità, ma un solo frutto, come vedrà piuttosto indiretto. _ Alla questione delle sensazioni olfattive, e dei loro rapporti con la struttura molecolare, ho dedicato anche in seguito molto del mio tempo. Si tratta, a mio parere, di un campo assai fecondo, ed aperto anche a ricercatori dotati di mezzi modesti. Ho visto con piacere, ancora di recente, che qualcuno se ne occupa, e sono al corrente anche delle vostre teorie elettroniche, ma il solo aspetto della questione che ormai mi interessa è un altro. Io posseggo oggi quanto credo nessun altro al mondo possegga. _ C' è chi non si cura del passato, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti. C' è chi, invece, del passato è sollecito, e si rattrista del suo continuo svanire. C' è ancora chi ha la diligenza di tenere un diario, giorno per giorno, affinché ogni sua cosa sia salvata dall' oblio, e chi conserva nella sua casa e sulla sua persona ricordi materializzati; una dedica su un libro, un fiore secco, una ciocca di capelli, fotografie, vecchie lettere. _ Io, per mia natura, non posso pensare che con orrore all' eventualità che anche uno solo dei miei ricordi abbia a cancellarsi, ed ho adottato tutti questi metodi, ma ne ho anche creato uno nuovo. _ No, non si tratta di una scoperta scientifica: soltanto ho tratto partito dalla mia esperienza di farmacologo ed ho ricostruito, con esattezza e in forma conservabile, un certo numero di sensazioni che per me significano qualcosa. _ Questi (le ripeto, non pensi che io ne parli sovente) io chiamo mnemagoghi: "suscitatori di memorie" Vuol venire con me? Si alzò e si diresse lungo il corridoio. A metà si volse e aggiunse: _ Come lei può immaginare, vanno usati con parsimonia, se non si vuole che il loro potere evocativo si attenui; inoltre non occorre che le dica che sono inevitabilmente personali. Strettissimamente. Si potrebbe anzi dire che sono la mia persona, poiché io, almeno in parte, consisto di essi. Aprì un armadio. Si vide una cinquantina di boccette a tappo smerigliato, numerate. _ Prego, ne scelga una. Morandi lo guardava perplesso; tese una mano esitante e scelse una boccetta. _ Apra e odori. Che cosa sente? Morandi inspirò profondamente più volte, prima con gli occhi su Montesanto, poi alzando la testa nell' atteggiamento di chi interroga la memoria. _ Questo mi sembrerebbe odore di caserma _. Montesanto odorò a sua volta. _ Non esattamente, _ rispose, _ o almeno, non così per me. È l' odore delle aule delle scuole elementari; anzi, della mia aula della mia scuola. Non insisto sulla sua composizione; contiene acidi grassi volatili e un chetone insaturo. Comprendo che per lei non sia niente: per me è la mia infanzia. _ Conservo pure la fotografia dei miei trentasette compagni di scuola di prima elementare, ma l' odore di questa boccetta è enormemente più pronto nel richiamarmi alla mente le ore interminabili di tedio sul sillabario; il particolare stato d' animo dei bambini (di me bambino!) nell' attesa terrificante della prima prova di dettato. Quando lo odoro (non ora: occorre naturalmente un certo grado di raccoglimento), quando lo odoro, dunque, mi si smuovono i visceri come quando a sette anni aspettavo di essere interrogato. Vuol scegliere ancora? _ Mi sembra di ricordare ... attenda .... Nella villa di mio nonno, in campagna, c' era una cameretta dove si metteva la frutta a maturare .... _ Bravo, _ fece Montesanto con sincera soddisfazione. _ Proprio come dicono i trattati. Ho piacere che lei si sia imbattuto in un odore professionale; questo è l' odore dell' alito del diabetico in fase acetonemica. Con un po' più d' anni di pratica certo ci sarebbe arrivato lei stesso. Sa bene, un segno clinico infausto, il preludio del coma. _ Mio padre morì diabetico, quindici anni fa; non fu una morte breve né misericordiosa. Mio padre era molto per me. Io lo vegliai per innumerevoli notti, assistendo impotente al progressivo annullamento della sua personalità; non furono veglie sterili. Molte mie credenze ne furono scosse, molto del mio mondo mutò. Per me, non si tratta dunque di mele né di diabete, ma del travaglio solenne e purificatore, unico nella vita, di una crisi religiosa. _ ... Questo non è che acido fenico! _ esclamò Morandi odorando una terza boccetta. _ Infatti. Pensavo che anche per lei questo odore volesse dire qualcosa; ma già, non è ancora un anno che lei ha terminato i turni d' ospedale, il ricordo non è ancora maturato. Perché avrà notato, non è vero? che il meccanismo evocatore di cui stiamo parlando esige che gli stimoli, dopo aver agito ripetutamente, collegati ad un ambiente o ad uno stato d' animo, cessino poi di agire per un tempo piuttosto lungo. Del resto è di osservazione comune che i ricordi, per essere suggestivi, devono avere il sapore dell' antico. _ Anch' io ho fatto i turni di ospedale ed ho respirato acido fenico a pieni polmoni. Ma questo è avvenuto un quarto di secolo fa, e del resto da allora il fenolo ha ormai cessato di costituire il fondamento dell' antisepsi. Ma al mio tempo era così: per cui oggi ancora non posso odorarlo (non quello chimicamente puro: questo, a cui ho aggiunto tracce di altre sostanze che lo rendono specifico per me) senza che mi sorga in mente un quadro complesso, di cui fanno parte una canzone allora in voga, il mio giovanile entusiasmo per Biagio Pascal, un certo languore primaverile alle reni e alle ginocchia, ed una mia compagna di corso, che, ho saputo, è divenuta nonna di recente. Questa volta aveva scelto lui stesso una boccetta; la porse a Morandi: _ Di questo preparato le confesso che provo tuttora una certa fierezza. Quantunque non ne abbia mai pubblicato i risultati, considero questo un mio vero successo scientifico. Vorrei sentire la sua opinione. Morandi odorò con ogni cura. Certo non era un odore nuovo: lo si sarebbe potuto chiamare arso, asciutto, caldo .... _ ... Quando si battono due pietre focaie ...? _ Sì, anche. Mi congratulo con lei per il suo olfatto. Si sente questo odore in alta montagna quando la roccia si riscalda al sole; specialmente quando si produce una caduta di sassi. Le assicuro che non è stato facile riprodurre in vetro e rendere stabili le sostanze che lo costituiscono senza alterarne le qualità sensibili. _ Un tempo andavo spesso in montagna, specialmente da solo. Quando ero giunto in cima, mi coricavo sotto il sole nell' aria ferma e silenziosa, e mi pareva di aver raggiunto uno scopo. In quei momenti, e solo se vi ponevo mente, percepivo questo leggero odore, che è raro sentire altrove. Per quanto mi riguarda, lo dovrei chiamare l' odore della pace raggiunta. Superato il disagio iniziale, Morandi stava prendendo interesse al gioco. Sturò a caso una quinta boccetta e la porse a Montesanto: _ E questa? Emanava un leggero odore di pelle pulita, di cipria e di estate. Montesanto odorò, ripose la boccetta e disse breve: _ Questo non è un luogo né un tempo. È una persona. Richiuse l' armadio; aveva parlato in tono definitivo. Morandi preparò mentalmente alcune espressioni di interesse e di ammirazione, ma non riuscì a superare una strana barriera interna e rinunciò ad enunciarle. Si congedò frettolosamente con una vaga promessa di una nuova visita, e si precipitò giù dalle scale e fuori nel sole. Sentiva di essere arrossito intensamente. Dopo cinque minuti era fra i pini, e saliva furiosamente per la massima pendenza, calpestando il sottobosco morbido, lontano da ogni sentiero. Era molto gradevole sentire i muscoli, i polmoni e il cuore funzionare in pieno, così, naturalmente, senza bisogno di intervenire. Era molto bello avere ventiquattro anni. Accelerò il ritmo della salita quanto più poté, finché sentì il sangue battergli forte dentro le orecchie. Poi si sdraiò sull' erba, cogli occhi chiusi, a contemplare il bagliore rosso del sole attraverso le palpebre. Allora si sentì come lavato a nuovo. Quello era dunque Montesanto .... No, non occorreva fuggire, lui non sarebbe diventato così, non si sarebbe lasciato diventare così. Non ne avrebbe parlato con nessuno. Neppure con Lucia, neppure con Giovanni. Non sarebbe stato generoso. Per quanto, in fondo, ... soltanto con Giovanni ... ed in termini del tutto teoretici .... Esisteva mai qualcosa di cui non si potesse parlare con Giovanni? Sì, a Giovanni ne avrebbe scritto. Domani. Anzi (guardò l' ora), subito; la lettera sarebbe forse ancora partita con la posta della sera. Subito.

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È stato il secondo passo: mi sono accorto abbastanza presto che il linguaggio delle api va parecchio oltre alla danza ad otto per segnalare il cibo. Oggi posso dimostrare che posseggono altre danze, voglio dire altre figure; non le ho ancora comprese tutte ma ho già potuto compilare un piccolo glossario, con qualche centinaio di voci. Eccolo qui: ci sono gli equivalenti di un buon numero di sostantivi del tipo di "sole, vento, pioggia, freddo, caldo", eccetera; c' è un assortimento molto vasto di nomi di piante: a questo proposito, ho notato che posseggono almeno dodici figure distinte per indicare, ad esempio, il melo, a seconda che si tratti di un albero grande, piccolo, vecchio, sano, inselvatichito, e così via: un po' come facciamo noi con i cavalli. Sanno dire "raccogliere, pungere, cadere, volare"; anche qui, posseggono per il volo un numero sorprendente di sinonimi: il "volare" loro proprio è diverso da quello delle zanzare, da quello delle farfalle e da quello dei passeri. Invece non distinguono fra camminare, correre, nuotare, viaggiare su ruote: per loro, tutti gli spostamenti a livello del suolo o sull' acqua sono uno "strisciare". Il loro patrimonio lessicale relativo agli altri insetti, e soprattutto agli insetti che volano, è appena inferiore al nostro; invece, si accontentano di una nomenclatura estremamente generica per gli animali più grossi. I loro segni per i quadrupedi, rispettivamente dal topo al cane e dalla pecora in su, sono due soli, e potrebbero essere resi approssimativamente con "quattro piccolo" e "quattro grande". Neppure distinguono fra uomo e donna; gli ho dovuto spiegare io la differenza. _ E lei parla questo linguaggio? _ Male, per ora: ma lo capisco abbastanza bene, e me ne sono servito per farmi spiegare alcuni fra i più grossi misteri dell' alveare; come decidono il giorno della strage dei maschi, quando e perché autorizzano le regine a combattere fra loro fino a morte, come stabiliscono il rapporto numerico fra fuchi e operaie. Non mi hanno detto tutto, però: mantengono certi segreti. Sono un popolo di grande dignità. _ Anche con le libellule parlano danzando? _ No: le api comunicano danzando solo fra loro e (perdoni l' immodestia) con me. Quanto alle altre specie, devo dirle prima di tutto che le api hanno rapporti regolari solo con le più evolute; specialmente con gli altri insetti sociali, e con quelli che hanno abitudini gregarie. Per esempio, hanno contatti abbastanza stretti (anche se non sempre amichevoli) con le formiche, con le vespe, e appunto con le libellule; con le cavallette invece, e in genere con gli ortotteri, si limitano a ordini e minacce. Ad ogni modo, con tutti gli altri insetti le api comunicano per mezzo delle antenne. È un codice rudimentale, ma in compenso talmente veloce che non ho assolutamente potuto seguirlo, e temo sia irrimediabilmente al di fuori delle possibilità umane. Del resto, se devo dirle la verità, non solo non ho speranza, ma neppure desiderio di entrare in contatto con altri insetti tagliando fuori le api: mi sembrerebbe poco delicato nei loro confronti, e poi loro si prestano a fare da mediatrici con grande entusiasmo, quasi come se si divertissero. Per tornare al codice, chiamiamolo così, interinsettico, ho l' impressione che non si tratti di un linguaggio vero e proprio: piuttosto che rigidamente convenzionale, mi è sembrato affidato alla intuizione e alla fantasia del momento. Deve essere vagamente simile al modo complicato e insieme compendiario con cui noi uomini comunichiamo coi cani (avrà notato, non è vero? che un linguaggio uomo-cane non esiste, eppure ci si intende nei due sensi in misura considerevole): ma certo molto più ricco, come lei stesso potrà vedere dai risultati. Ci condusse per il giardino e il pergolato, e ci fece notare che non c' era una sola formica. Non erano insetticidi: a sua moglie le formiche non piacevano (la signora Simpson, che ci seguiva, arrossì intensamente), così lui aveva proposto loro un contratto. Lui avrebbe provveduto al mantenimento di tutte le loro colonie fino al muro perimetrale (una spesa di due o tremila lire all' anno, mi spiegò), e loro si sarebbero impegnate a smobilitare tutti i formicai in un raggio di cinquanta metri dalla villa, a non aprirne di nuovi, e a sbrigare in due ore al giorno, dalle 5 alle 7, tutti i lavori di micropulizia e di distruzione delle larve nocive, nel giardino e in villa. Le formiche avevano accettato; però, poco dopo, attraverso la mediazione delle api, si erano lagnate di una certa colonia di formicaleoni che infestavano una fascia sabbiosa ai margini del bosco. Simpson mi confessò che a quell' epoca non sapeva neppure che i formicaleoni fossero le larve delle libellule: si era poi recato sul posto, e aveva assistito con raccapriccio alle loro abitudini sanguinarie. La sabbia era costellata di piccole buche coniche: ecco, una formica si era avventurata sull' orlo e subito era precipitata sul fondo insieme con la sabbia instabile. Dal fondo era emerso un paio di feroci mandibole ricurve, e Simpson aveva dovuto riconoscere che la protesta delle formiche era giustificata. Mi disse di essersi sentito fiero e insieme confuso per l' arbitrato che gli veniva richiesto: dalla sua decisione sarebbe dipeso il buon nome dell' intero genere umano. Aveva convocato una piccola assemblea: _ È stato nello scorso settembre, una seduta memorabile. Erano presenti api, formiche e libellule: libellule adulte, che difendevano con molto rigore e urbanità i diritti delle loro larve. Mi fecero notare che queste ultime non potevano in alcun modo essere tenute responsabili del loro regime alimentare: erano inette alla locomozione, e non potevano che tendere agguati alle formiche o morire di fame. Io allora proposi di stanziare per loro una adeguata razione giornaliera di mangime bilanciato, quello che usiamo qui per i polli. Le libellule chiesero una prova pratica: le larve mostrarono di gradirlo, e allora le libellule si dichiararono pronte a interporre i loro buoni uffici affinché ogni insidia ai danni delle formiche fosse sospesa. È stato in quella occasione che ho offerto loro un extra per ogni spedizione nel bosco dei mirtilli: ma è una prestazione che chiedo loro di rado. Sono fra gli insetti più intelligenti e robusti, e mi aspetto molto da loro. Mi spiegò che gli era sembrato poco corretto proporre una qualsiasi forma di contratto alle api, che erano già fin troppo occupate; per contro era in avanzate trattative con mosche e zanzare. Le mosche erano stupide, e non se ne poteva cavare molto: solo di non infastidire in autunno e di non frequentare la stalla e il letamaio. Contro quattro milligrammi di latte al giorno e a testa, avevano accettato: Simpson si proponeva di incaricarle di semplici messaggi urgenti, almeno finché in villa non gli avessero installato il telefono. Con le zanzare, le trattative si delineavano difficili per altre ragioni: non solo non erano buone a nulla, ma avevano fatto intendere che non volevano, anzi non potevano rinunciare al sangue umano, o almeno mammifero. Data la vicinanza dello stagno, le zanzare costituivano una discreta molestia, perciò a Simpson un accordo sembrava desiderabile: si era consultato col veterinario condotto, e si proponeva di prelevare da una mucca in stalla mezzo litro di sangue ogni due mesi. Con un po' di citrato non sarebbe coagulato, e a conti fatti avrebbe dovuto bastare per tutte le zanzare del luogo. Mi fece notare che in sé non era un grande affare, ma era sempre meno costoso di una irrorazione di DDT, e inoltre non avrebbe turbato l' equilibrio biologico della zona. Questo particolare non era senza importanza, perché il metodo avrebbe potuto essere brevettato, e sfruttato in tutte le regioni malariche: riteneva che le zanzare avrebbero capito abbastanza presto che era loro evidente interesse evitare di infettarsi col plasmodio, e quanto ai plasmodi stessi, anche se si fossero estinti non sarebbe stato un gran male. Gli chiesi se non si sarebbero potuti concludere analoghi patti di non aggressione con altri parassiti delle persone e delle abitazioni: Simpson mi confermò, che fino a quel momento, i contatti con gli insetti non gregari erano risultati difficili; che, d' altra parte, non vi si era dedicato con particolare diligenza dato lo scarso profitto che se ne sarebbe potuto sperare, anche nella migliore delle ipotesi; che riteneva inoltre che essi fossero non gregari appunto per la loro incapacità di comunicare. Tuttavia, in tema di insetti nocivi, aveva già pronta una bozza di contratto approvata dalla Food e Agriculture Organization, e si proponeva di discuterla con una delegazione di locuste subito dopo la stagione della metamorfosi, attraverso la mediazione di un suo amico, il rappresentante della NATCA per la RAU e il Libano. Il sole era ormai tramontato, e ci ritirammo in salotto: mia moglie ed io eravamo pieni di ammirazione e di turbamento. Non riuscivamo a dire a Simpson quello che pensavamo: poi mia moglie si decise, e con grande fatica gli disse che aveva messo le mani su un .... su una "cosa" nuova e grossa, ricca di sviluppi scientifici e anche poetici Simpson la arrestò: _ Signora, io non dimentico mai di essere un uomo di affari: anzi, dell' affare più grosso non ho ancora detto. Vi prego di non parlarne ancora in giro, ma dovete sapere che questo mio lavoro interessa loro profondamente, ai bigs della NATCA, e in specie ai cervelloni del Centro Ricerche a Fort Kiddiwanee. Li ho messi al corrente, beninteso dopo di aver definito la situazione brevettuale, e pare ne stia nascendo una combinazione interessante. Guardi cosa c' è qui dentro _. Mi porse una minuscola scatola di cartone, non più grossa di un ditale. La apersi: _ Qui dentro non c' è niente! _ Quasi niente, _ fece Simpson. Mi diede una lente: sul fondo bianco della scatola vidi un filamento, più sottile di un capello, lungo forse un centimetro; verso la metà si distingueva un leggero ingrossamento. _ È un resistore, _ disse Simpson: _ il filo è da due millesimi, la giunzione è da cinque, e il tutto costa quattromila lire; ma presto ne costerà duecento. Questo pezzo è il primo che è stato montato dalle mie formiche: dalle rufe dei pini, le più robuste ed abili. Ho insegnato in estate a una squadra di dieci, e loro hanno fatto scuola a tutte le altre. Dovrebbe vederle, è uno spettacolo unico: due afferrano i due elettrodi con le mandibole, una li attorciglia di tre giri e li fissa con una gocciolina di resina, poi tutte e tre depongono il pezzo sul trasportatore. In tre, montano un resistore in 14 secondi, compresi i tempi morti, e lavorano 20 ore su 24. Ne è nato un problema sindacale, si capisce, ma queste cose si accomodano sempre; loro sono soddisfatte, su questo non c' è dubbio. Ricevono una retribuzione in natura, suddivisa in due partite: una per così dire personale, che le formiche consumano nelle pause del lavoro, e l' altra collettiva, destinata alle scorte del formicaio, che esse immagazzinano nelle tasche ventrali; in tutto, 15 grammi al giorno per l' intera squadra di lavoro, che è composta di cinquecento operaie. È il triplo di quanto potevano raggranellare in un giorno di raccolta qui nel bosco. Ma questo è solo un inizio: sto allenando altre squadre per altri lavori "impossibili". Una a tracciare il reticolo di diffrazione di uno spettrometro, mille righe in . millimetri; una a riparare circuiti stampati miniaturizzati, che finora una volta guasti si buttavano via; una a ritoccare negative fotografiche; quattro a svolgere lavori ausiliari nella chirurgia del cervello, e già fin d' ora le posso dire che si dimostrano insostituibili nell' arrestare le emorragie dei capillari. Basta pensarci un momento, e subito vengono in mente decine di lavori che richiedono spese di energia minime, ma non si possono eseguire economicamente perché le nostre dita sono troppo grosse e lente, perché un micromanipolatore è troppo costoso, o perché comportano operazioni troppo numerose su un' area troppo vasta. Ho già preso contatti con una stazione sperimentale agraria per vari esperimenti appassionanti: vorrei allenare un formicaio a distribuire i fertilizzanti "a dimora", voglio dire, un granello per ogni seme; un altro formicaio, a bonificare le risaie, asportando le erbe infestanti quando sono ancora in germe; un altro, a mondare i silos; un altro ancora, a eseguire microinnesti cellulari .... È breve la vita, mi creda: mi maledico per aver cominciato così tardi. Da soli si può fare così poco! _ Perché non si prende un socio? _ Crede che io non abbia provato? Per poco non finivo in galera. Mi sono convinto che ... come dice il vostro proverbio? Meglio soli. _ In galera? _ Sì, per via di O'Toole, solo sei mesi fa. Giovane, ottimista, intelligente, instancabile, e poi pieno di fantasia, una miniera di idee. Ma un giorno ho trovato sulla sua scrivania un oggettino curioso, una pallina di plastica cava, non più grossa di un acino d' uva, con una polverina dentro. L' avevo io in mano, capisce, quando hanno bussato alla porta: era l' Interpol, otto agenti. Mi ci è voluto fior di avvocati per uscirne, per farli persuasi che io ero all' oscuro di tutto. _ All' oscuro di cosa? _ Della storia delle anguille. Sa bene, non sono insetti, ma anche loro migrano a banchi, migliaia e migliaia, tutti gli anni. S' era messo d' accordo con loro, quel disgraziato: come se io gli avessi fatto mancare il danaro. Le aveva corrotte con qualche mosca morta, e loro venivano a riva una per una, prima di mettersi in viaggio per il mare dei Sargassi: due grammi di eroina per una, nelle palline, legate sulla schiena. Laggiù, naturalmente, c' era lo yacht di Rick Papaleo ad aspettarle. Adesso, come le dicevo, ogni sospetto a mio carico è caduto: però tutta la faccenda è venuta alla luce, e ho il fisco alle calcagna. Si immaginano che io guadagni chissà che cosa: stanno facendo accertamenti. Una vecchia storia, vero? Inventi il fuoco e lo doni agli uomini, poi un avvoltoio ti rode il fegato per la eternità.

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La stampa terza pagina 1986

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Levi, Primo 5 occorrenze

Ci mettono undici anni abbondanti, ma arrivano fino a noi abbastanza distinte. Io, per esempio, ho imparato così la vostra lingua. Trovo interessanti i vostri sketch pubblicitari: sono molto istruttivi, e credo di essermi reso conto di come mangiate e di quello che mangiate, ma nessuno di noi ha idea di come digerite. Perciò la prego di rispondere alla mia domanda. _ Be' , sa, io ho sempre digerito bene e non saprei darle molti dettagli. Abbiamo un ... un sacco che si chiama stomaco, con degli acidi dentro, e poi un tubo; si mangia, passano due o tre ore, e il mangiare si scioglie, insomma diventa carne e sangue. _ ... carne e sangue, _ ripeté la voce, come se prendesse appunti. Elio notò che quella voce era proprio come quelle che si sentono in tv: chiara ma insipida e snervata. _ Perché passate tanto tempo a lavarvi e a lavare gli oggetti intorno a voi? Elio, con un certo imbarazzo, spiegò che non ci si lava che per qualche minuto al giorno, che ci si lava per non essere sporchi, e che se si sta sporchi c' è il rischio di prendere qualche malattia. _ Già, era una delle nostre ipotesi. Vi lavate per non morire. Come morite? A quanti anni? Muoiono tutti? Anche qui la risposta di Elio fu un po' confusa. Disse che non c' erano regole, si moriva sia giovani sia vecchi, pochi arrivavano ai cento anni. _ Capito. Vivono a lungo quelli che usano lenzuola bianche e dànno la cera ai pavimenti _. Elio cercò di rettificare, ma l' intervistatore aveva fretta, e continuò: _ Come vi riproducete? Sempre più imbarazzato, Elio si invischiò in una imbrogliata esposizione sull' uomo e sulla donna, sui cromosomi (su cui appunto era stato informato pochi giorni prima dalla tv), sull' eredità, sulla gravidanza e sul parto, ma lo straniero lo interruppe: voleva sapere a quanti anni incomincia a svilupparsi il vestito. Mentre Elio, ormai spazientito, gli stava spiegando che il vestito non cresce addosso, ma si compera, si accorse che stava spuntando l' alba, e nella luce incerta vide che la voce proveniva da una specie di pozzanghera ai suoi piedi; o meglio, non proprio una pozzanghera, ma come una grossa chiazza di marmellata bruna. Anche lo straniero si doveva esser accorto che era passato parecchio tempo. La voce disse: _ Mille grazie, scusi per il disturbo _. Subito dopo la chiazza si contrasse e si allungò verso l' alto, come se tentasse di staccarsi dal suolo. Parve a Elio che non ci riuscisse, e si udì ancora la voce che diceva: _ Per favore, lei che è così gentile, potrebbe accendere un cerino? Se non ho un po' di aria ionizzata intorno delle volte non mi riesce di decollare _. Elio accese un cerino, e la chiazza, come se succhiata da un' aspirapolvere, salì e si perse nel cielo fumoso del mattino.

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A questo paradosso si potrebbe aggiungere che chi nella propria vita ha avuto l' occasione di verificare queste affermazioni, anche se non fra i felici, è tuttavia da annoverarsi fra i fortunati, perché se i desideri alla cui soddisfazione dobbiamo rinunciare diventano troppi, o se essi contano fra i bisogni vitali, allora non è più il caso di parlare di felicità: l' infelicità che proviene da eccesso di soddisfazione, e da difetto di lotta per la vita, è tutto compreso di un tipo abbastanza raro, e infatti Russell stesso la definisce "infelicità byroniana", distinguendola da altre, più comuni e più concrete, che sono di segno opposto. In modo analogo si potrebbe osservare che, mentre è sgradevole essere giudicati, ed è umiliante e debilitante trovarsi continuamente sotto giudizio, il pretendere di sottrarsi a ogni giudizio è innaturale e pericoloso. È certamente difficile stabilire caso per caso quali giudici possano essere accettati e quali "ricusati", ma ricusare tutti i giudici è, oltre che presuntuoso, inutile. Inutile, perché ogni svolta della vita, ogni incontro umano, comporta un giudizio emesso o riscosso, e di conseguenza al riscuotere e all' emettere giudizi è bene abituarsi da giovani, quando è più facile contrarre abitudini. In mancanza di questo allenamento, che non si vede perché non debba coincidere con la carriera scolastica, e con la vaccinazione dei giudizi riscossi a scuola (sotto forma di voti o sotto qualsiasi forma: è indifferente), il primo giudizio negativo che si riceverà nella vita potrà essere percepito come una ferita profonda, o aggredire con la violenza di un morbo. Ora, questo giudizio negativo è inevitabile, perché nella vita ci si trova a confronto con i fatti, e i fatti sono giudici ostinati e spietati. Si deve essere cauti nell' accettare un giudice esterno, ma bisogna pure accettarne almeno uno: non se ne può fare a meno, dal momento che nessuno riesce a giudicare se stesso (chi lo fa, consapevolmente o no, riproduce i giudizi esterni che emotivamente gli appaiono più corretti, siano essi positivi o negativi), e dal momento che vivere senza che le proprie azioni vengano giudicate significa rinunciare a una retroazione che è preziosa, e quindi esporre se stessi e il prossimo a rischi gravi: è come pilotare una barca senza bussola, o come pretendere di mantenere costante una temperatura senza consultare un termometro. Per questo motivo, mentre è giusto insorgere contro una selezione scolastica impostata (di fatto, anche se non di nome) sul censo o sullo stato sociale, e contro un sistema scolastico fondato esclusivamente sulla selezione, mi pare sbagliato che si chieda una scuola che non abitui a ricevere un giudizio. Sarebbe forse un' istituzione caritativa e assistenziale, ma solo a breve termine: non credo che ne uscirebbero cittadini veramente liberi e responsabili.

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Sembrano a loro agio come pesci nell' acqua: si spostano con eleganza nel loro abitacolo, ormai abbastanza spazioso, sospingendosi con colpetti delle mani contro appigli invisibili, e navigano lisci per l' aria, approdando poi sicuri al loro posto di lavoro. Altre volte li abbiamo visti conversare con naturalezza fra loro, uno "a testa in su" e l' altro "a testa in giù" (ma è chiaro che in orbita non c' è più né su né giù); o farsi a vicenda scherzi infantili: uno schizzava coll' unghia del pollice una caramella che volava lenta lenta in linea retta per centrare poi la bocca aperta del collega. Altre volte abbiamo visto un astronauta spremere acqua nell' aria da un contenitore di plastica: l' acqua non cadeva né si disperdeva, ma si assestava in una massa tondeggiante, che poi, obbedendo alla pur debole tensione della superficie, assumeva pigramente la forma di una sfera. Che cosa ne avranno fatto poi? Non deve essere stato facile toglierla di torno senza danneggiare i delicati congegni che gremivano le pareti. Mi domando che cosa si aspetti per realizzare un documentario cucendo insieme queste visioni, trasmesse mirabilmente dai satelliti in volo fulmineo al di sopra delle nostre teste e della nostra atmosfera. Un film così fatto, attinto alle fonti americane e sovietiche, e commentato in modo intelligente, insegnerebbe tante cose a tutti. Avrebbe certamente più successo delle tante melensaggini che ci vengono propinate, e anche dei film a luce rossa. Spesso mi sono anche domandato che senso abbiano, e come siano stati realizzati, gli esperimenti o addirittura i corsi di simulazione a cui verrebbero sottoposti gli aspiranti astronauti, e di cui parlano i giornalisti come se niente fosse. A quanto pare, l' unica tecnica pensabile sarebbe quella di rinchiudere i candidati in un veicolo in caduta libera: un aereo, o un ascensore come quello che Einstein aveva postulato per l' esperimento concettuale atto a illustrare la relatività ristretta. Ma un aereo, anche in caduta verticale, è frenato dalla resistenza dell' aria, e un ascensore (meglio un discensore) anche dall' attrito contro le guide. In entrambi i casi l' assenza di peso (l' abaria per i grecisti a tutti i costi) non sarebbe completa; e anche nel caso più favorevole, quello abbastanza terrificante di un aereo che precipiti a picco dall' altezza di dieci o venti chilometri, magari aiutandosi con i motori nel tratto terminale, a conti fatti non durerebbe che qualche decina di secondi, troppo poco per un allenamento e per misurazioni di dati fisiologici. E poi bisognerà pure frenare .... Eppure, una "simulazione" di questa condizione decisamente non-terrestre l' abbiamo fatta quasi tutti. L' abbiamo fatta in un sogno giovanile: nella versione più tipica, il sognatore si accorge con meraviglia felice che volare è facile come camminare o nuotare. Come mai era stato così stupido da non averci mai pensato prima? Basta remare con i palmi delle mani, ed ecco, ti stacchi dal pavimento, avanzi senza sforzo, ti rigiri, eviti gli ostacoli, infili con precisione porte e finestre, ti libri fuori all' aperto: non con il frullo frenetico delle ali dei passeri, non con la fretta vorace e stridula dei rondoni, ma con la maestà silenziosa delle aquile e delle nuvole. Da dove ci viene questa anticipazione di una realtà oggi concreta? Forse è una memoria della specie, ereditata dai nostri proavi rettili acquatici. O forse invece questo sogno è un preludio di un futuro imprecisato in cui lo strappo ombelicale dal richiamo della madre terra sarà gratuito e ovvio, e prevarrà un modo di locomozione assai più nobile di quello sulle nostre due gambe complicate, discontinue, piene di attriti interni, e insieme bisognose dell' attrito esterno dei piedi contro il suolo. Di questa abaria così persistentemente sognata mi torna a mente una illustre versione poetica, l' episodio di Gerione nel xvii dell' "Inferno". Il "fiero animale", ricostruito da Dante su modelli classici, ma anche sulle dicerie dei bestiari medievali, è immaginario e insieme splendidamente reale. Sfugge al peso. In attesa dei due strani passeggeri, uno solo dei quali è soggetto alla gravità, si appoggia alla proda con l' avantreno, ma la sua coda mortifera flotta libera "nel vano", come la poppa di uno Zeppelin ormeggiato al pilone. Dante, all' inizio, se ne dichiara spaventato, ma poi quella magica discesa su Malebolge sequestra tutta l' attenzione del poeta-scienziato, paradossalmente intento allo studio naturalistico della sua creatura fittizia, di cui descrive con precisione la mostruosa e simbolica epidermide. Il breve reportage è singolarmente accurato, fino al dettaglio confermato dai piloti dei moderni deltaplani: poiché si tratta di un silenzioso volo planato, la percezione della velocità da parte del viaggiatore non è affidata né al ritmo delle ali né al rumore, ma solo alla sensazione dell' aria che "al viso e di sotto gli venta". Forse anche Dante, inconsapevolmente, ha riprodotto qui l' universale sogno del volo senza peso, a cui gli psicoanalisti attribuiscono significati problematici e inverecondi. La facilità con cui l' uomo si adatta all' assenza di peso è un affascinante mistero. Se si pensa che a molti il viaggiare per mare, o anche solo in automobile, dà luogo a fastidiosi disturbi, non si può che restare perplessi. In mesi di soggiorno nello spazio, gli astronauti non hanno lamentato che disagi passeggeri, e i medici che li hanno esaminati dopo la prova hanno riscontrato soltanto una lieve decalcificazione delle ossa e un' atrofia transitoria dei muscoli e del cuore: gli stessi effetti insomma, di una degenza a letto; eppure nulla della nostra lunga storia evolutiva ha potuto prepararci a una condizione così innaturale come la non-gravità. Abbiamo dunque margini di sicurezza vasti e imprevisti: il progetto visionario (uno dei suoi tanti) esposto da Freeman Dyson in "Turbare l' universo", di un' umanità migrante fra le stelle su vascelli dalle gigantesche vele sospinte gratis dalla luce stellare, potrà avere altri limiti, ma non quello dell' abaria: il nostro povero corpo, così indifeso davanti alle spade, ai fucili e ai virus, è a prova di spazio.

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Credete a chi ne ha fatto esperimento: provate a comparare il vecchio blu di Prussia, tutto compreso ancora abbastanza naturale, o il preistorico lapislazzuli, con il blu ftalocianina, e vedrete. La "plastica" è ritenuta cattiva, e questo mi rincresce, perché so di quanto ingegno sia figlia. L' originario aggettivo è diventato sostantivo, e il plurale ("materie plastiche") un assurdo singolare: infatti, sono ormai parecchie centinaia, tanto diverse fra loro quanto i metalli o i mammiferi, e sono oggetto di un' esecrazione che sa di mania proprio per la sua globalità. Ce n' è di buone, cioè solide, economiche e non inquinanti, e di cattive, viceversa; le buone possono diventare cattive se usate per scopi sbagliati, come chi facesse un vomere di piombo o un cavo telefonico di ferro. Il modo spregiativo "è solo di plastica" è gemello di "è solo un medico della mutua", e fa parte dell' universo riduttivo di coloro che J. Huxley ha acconciamente chiamato i "nientaltroché-isti" ("nothing-else-but-ists"). Questo dualismo senza sfumature è specialmente vigoroso in tutto quanto riguarda la salute. È recente il caso di un' acqua da tavola che, fino a qualche decennio fa, recava una vistosa etichetta: "La più radioattiva del mondo". La dicitura (che credo fosse veridica) si appoggiava a un vago nesso radio : energia : salute. La radioattività insomma era buona: infatti, a quel tempo si avevano ancora idee poco precise sugli effetti nocivi di un' esposizione prolungata alle radiazioni ionizzanti. Per fortuna, la radioattività di quell' acqua, per quanto relativamente alta, in termini assoluti era insufficiente a provocare qualsiasi effetto, sia buono sia cattivo; l' acqua era soltanto, e ovviamente, diuretica, come tutte le acque, radioattive o no, minerali, gasate, naturali, termali o di rubinetto. Quando i pericoli della radiazione sono stati riconosciuti, la dicitura, ridotta a un corpo minuscolo, è stata trasferita in calce all' etichetta. Infine, pochi anni fa, è sparita del tutto: l' acqua non ha cambiato nome, ma, prudentemente, viene attinta a una sorgente diversa, la cui radioattività è trascurabile. Qualcosa di simile è avvenuto in Francia con un tessuto di fibre sintetiche. Si era notato che a contatto del corpo umano esso dava luogo a scintille dovute a elettricità statica (come del resto hanno sempre fatto anche la lana e la seta); subito apparvero manifesti in cui un uomo vestito di "sintetico" ballonzolava felice su un fascio di fili lampeggianti: l' elettricità statica "faceva bene". Poi qualcuno ha varato la (altrettanto assurda) teoria che il mal d' auto fosse provocato proprio dall' accumulo sul veicolo dell' elettricità statica provocata dall' attrito dei copertoni sull' asfalto, e sono nate quelle buffe code che ancora si vedono appese ad alcuni paraurti. Le cariche statiche erano diventate cattive, e dovevano essere scaricate a terra. La credulità umana non ha limiti; o meglio, non ha limiti la fiducia dei pubblicitari nella credulità umana. Ci sono elementi chimici permanentemente cattivi: fra tutti primeggia lo zolfo, bello a vedersi come Lucifero, ma fetido e corrosivo. Brucia all' aria quasi volesse scimmiottare il carbone, ma genera un fumo caustico che distrugge i polmoni. Altri hanno avuto sorti varie, e fra questi è notevole il caso del cobalto. Fino all' avvento dei radioisotopi artificiali, "di cobalto" era solo il cielo per i letterati di poca fantasia; comunque, stava a indicare un blu bello oltre misura, un superblù. Adesso, dopo l' impiego del cobalto 60 nella terapia dei tumori, questo metallo ha acquisito risonanze sinistre: "Poveretto, gli fanno il cobalto". Eppure, a quanto sento, a molti ha ridonato la salute o la vita.

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Esiste insomma un confine abbastanza ben definito tra il pettegolezzo e la maldicenza, e tra questa e la calunnia (o l' accusa, se la colpa esiste). Inoltre, nel concetto di pettegolezzo mi pare sottinteso un elemento di segretezza: si spettegola a quattr' occhi, o al più in un ambiente con poche persone; fra intimi, insomma. Non mi sembrerebbe appropriato parlare di un pettegolezzo trasmesso a mezzo stampa o per tv. Il pettegolezzo è insomma un liquore da versare a piccole dosi in un orecchio, o magari in più d' uno, ma non in troppi, altrimenti cambia nome. Ciò detto annuncerei i seguenti capitoli: 1) Perché si spettegola. Io so una cosa che tu non sai; trasmettendotela, mi consolo, perché ho l' impressione gradevole di salire uno scalino. Sono diventato un insegnante, un docente, anche se per pochi minuti e su una materia esigua. Naturalmente, tu destinatario hai pieno diritto di (e ti senti spinto a) trasformarti a tua volta in docente, ritrasmettendo il mio messaggio o un altro qualsiasi, e consolandoti dei tuoi dispiaceri con questo piccolo piacere. 2) Il pettegolezzo piano. Consiste semplicemente nel riferire il messaggio al destinatario senza imporgli vincoli né limitazioni. È il caso più diffuso. Poiché i destinatari sono più di uno, questo pettegolezzo si diffonde con uno schema ramificato, e quindi, tendenzialmente, con legge esponenziale. Tende cioè a invadere l' ecumene, come avviene con le catene di Sant' Antonio; in generale non giunge a tanto, in primo luogo perché entra in concorrenza con altri messaggi più recenti, e quindi più appetiti, e pertanto tende a estinguersi; in secondo perché a ogni passaggio la notizia trasmessa si degrada, facendosi più vaga e insieme più ricca di dettagli spuri o sospetti. Da notizia, diventa diceria, sentito-dire, fino magari a nobilitarsi a leggenda. È raro che il pettegolezzo, come la calunnia, da "venticello" diventi realmente un "colpo di cannone". ") Il pettegolezzo vincolato: "Lo dico solo a te: non dire nulla a nessuno". Nell' xi capitolo dei "Promessi sposi", a proposito del mancato segreto del ricovero di Lucia nel monastero di Monza, il Manzoni osserva che questo schema. 4) L' esclusione del de quo, che mira appunto a evitare tale esito. "Dillo a chi vuoi, ma non a X", dove X è in generale l' oggetto del pettegolezzo, o comunque vi è implicato. Questa variante è recepita dal detto popolare che "l' ultimo a saperlo è il marito" (tradito). Si osserva sperimentalmente che in generale le cose vanno proprio così: forse perché il pettegolo si sente spiritualmente affine al coniuge infedele (anche lui, infatti, sta commettendo un illecito: ma la simpatia per l' infedele è comune a tutte le civiltà e letterature, a dispetto della legge e della morale); o perché, se rivelasse il fatto al naturale destinatario, farebbe finire il gioco troppo presto; o perché, invece, teme le conseguenze della rivelazione, come quando Macbeth aggredisce brutalmente il messaggero che gli porta la notizia del bosco di Birnam che sta salendo verso la rocca di Dunsinane. Se le cose vanno regolarmente, cioè se lo spettegolato non viene a sapere di esserlo, il grafo di questo tipo assume una forma caratteristica: un fitto intreccio di nervature, che circondano una piccola area bianca senza penetrarvi. 5) La fonte negata: "Dillo pure, ma non dire che te l' ho detto io"; oppure, in una variante, "non dire chi te l' ha detto". Denota estrema pusillanimità da parte del pettegolo; se compare, anche una sola volta, nella catena del pettegolezzo, la interrompe in modo irrimediabile, frustrando qualsiasi tentativo di ricostruzione, o di smentita, o magari di rappresaglia, da parte del danneggiato. Dedicherei la Conclusione al rapporto fra la credibilità del messaggio e la sua diffusione. Le due quantità non sono proporzionali, e neppure crescono insieme: anzi, si assiste alla vitalità di notizie assurde. Essa è parte della straordinaria vitalità intrinseca del fenomeno. Il pettegolezzo prospera sul terreno dell' ozio, forzato o volontario: nelle carceri, negli ospizi, nelle caserme, nei "sabati del villaggio"; e rispettivamente nelle villeggiature, nelle crociere, nei salotti. È irrepressibile, è una forza della natura umana. Chi ha obbedito alla natura trasmettendo un pettegolezzo, prova il sollievo esplosivo che accompagna il soddisfacimento di un bisogno primario. Torna a mente la terzina finale, genialmente ambivalente, di un sonetto del Belli dal titolo esplicito ("Na sciacquata de bbocca").

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Vizio di forma

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Levi, Primo 1 occorrenze

Mi rallegra perché rivive così il più trascurato dei miei libri, il solo che non è stato tradotto, che non ha vinto premi, e che i critici hanno accettato a collo torto, accusandolo appunto di non essere abbastanza catastrofico. Se lo rileggo oggi, accanto a parecchie ingenuità ed errori di prospettiva, ci trovo qualcosa di buono. I bambini sintetici sono una realtà, anche se l' ombelico ce l' hanno. Sulla luna ci siamo andati, e la terra vista di lassù deve proprio assomigliare a quella che io ho descritta; peccato che i Seleniti non esistano, né siano mai esistiti. Gli aiuti ai paesi del terzo mondo incontrano spesso il destino che ho delineato nella doppietta "Recuenco". Col dilagare del terziario, i "lumini rossi" sono aumentati di numero, ed è addirittura apparsa sui giornali, nel 19.1, la notizia di un sensore mensile identico a quello che io avevo descritto. Siamo ancora lontani da una realizzazione del racconto "A fin di bene", ma ("così s' osserva in me lo contrappasso") dopo alcune esitazioni la Sip ha assegnato alla mia seconda casa un numero telefonico che è l' esatto anagramma del mio di Torino. Quanto a "Ottima è l' acqua", poco dopo la sua pubblicazione lo "Scientific American" ha riportato la notizia, di fonte sovietica, di una "poliacqua" viscosa e tossica, simile per molti versi a quella da me anticipata: per fortuna di tutti, le esperienze relative si sono dimostrate non riproducibili e tutto è finito in fumo. Mi lusinga il pensiero che questa mia lugubre invenzione abbia avuto un effetto retroattivo ed apotropaico. Si rassicuri quindi il lettore: l' acqua, magari inquinata, non diverrà mai viscosa, e tutti i mari conserveranno le loro onde.

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Lilit

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Levi, Primo 5 occorrenze

Mi ero procurato un foglio di carta e un mozzicone di matita, e da molti giorni aspettavo che mi si presentasse l' opportunità di scrivere la minuta di una lettera, naturalmente in italiano, che avrei voluto consegnare ad un operaio italiano affinché la copiasse, la firmasse come sua, e la spedisse ai miei in Italia: a noi, infatti, era severamente vietato scrivere, ed ero sicuro che, pensandoci sopra un momento, avrei trovato il modo di compilare un messaggio chiaro abbastanza per loro, ed insieme tanto innocente da non destare l' attenzione della censura. Non avrei dovuto essere visto da nessuno, perché il solo fatto di scrivere era intrinsecamente sospetto (per quale motivo, e a chi, uno di noi avrebbe dovuto scrivere?), e il Lager ed il cantiere pullulavano di delatori. Dopo un' oretta di lavoro ai tubi, mi sentii abbastanza tranquillo da iniziare la stesura: i tubi scendevano dallo scivolo a intervalli radi, e nella cantina non si sentiva alcun rumore allarmante. Non avevo fatto i conti col passo silenzioso di Eddy: mi accorsi di lui quando mi stava già guardando. Istintivamente, o meglio stupidamente, aprii le dita; la matita cadde, ma il foglio scese a terra ondeggiando come una foglia morta. Eddy si avventò a raccoglierlo, poi mi stese a terra con uno schiaffo violento; ed ecco, mentre scrivo oggi questa frase, mentre batto la parola "schiaffo", mi accorgo di mentire, o almeno di trasmettere al lettore emozioni e notizie falsate. Eddy non era un bruto, non intendeva punirmi né farmi soffrire, ed uno schiaffo dato in Lager aveva un significato assai diverso da quello che potrebbe avere fra noi, oggi e qui. Appunto, aveva un significato, era poco più che un modo di esprimersi; in quel contesto voleva dire pressappoco "bada a te, guarda che l' hai fatta grossa, ti stai mettendo in pericolo, forse senza saperlo, e metti in pericolo anche me": ma fra Eddy rapinatore e giocoliere tedesco, e me giovane inesperto italiano frastornato e confuso, un discorso come quello sarebbe stato inutile, non capito (se non altro per ragioni linguistiche), stonato, perifrastico. Per questo stesso motivo, pugni e schiaffi correvano fra noi come linguaggio quotidiano, ed avevamo imparato presto a distinguere le percosse "espressive" da quelle altre, che venivano inflitte per ferocia, per creare dolore ed umiliazione, e che spesso conducevano a morte. Uno schiaffo come quello di Eddy era affine alla pacca che si dà al cane, o alla bastonata che si dà all' asino, per trasmettere loro, o rafforzare, un ordine o un divieto: poco di più insomma che una comunicazione non verbale. Fra le molte sofferenze del Lager, le percosse di questo genere erano di gran lunga le meno penose; il che equivale a dire che vivevamo in modo non molto diverso dai cani e dagli asini. Aspettò che mi rialzassi, e mi chiese a chi scrivevo. Gli risposi nel mio cattivo tedesco che non scrivevo a nessuno; avevo trovato per caso una matita, e stavo scrivendo per capriccio, per nostalgia, per sogno; sapevo bene che scrivere era vietato, ma sapevo anche che inoltrare una lettera era impossibile; gli assicurai che non avrei mai osato contravvenire alle regole del campo. Certo Eddy non mi avrebbe creduto, ma qualcosa dovevo pur dire, se non altro per indurlo a pietà: se mi avesse denunciato alla Sezione Politica, lo sapevo, per me c' era la forca, ma prima della forca un interrogatorio (quale interrogatorio!) per stabilire chi era il mio complice, e forse anche per avere da me l' indirizzo del destinatario in Italia. Eddy mi guardò con un' aria strana; poi mi disse di non muovermi, lui sarebbe ritornato entro un' ora. Fu un' ora lunga. Eddy ritornò nella cantina, aveva in mano tre fogli, fra cui il mio, e lessi subito sul suo viso che il peggio non sarebbe venuto. Non doveva essere uno sprovveduto, questo Eddy o forse il suo passato burrascoso gli aveva insegnato i fondamenti del tristo mestiere dello sbirro: aveva cercato fra i miei compagni due (non uno solo) che conoscessero il tedesco e l' italiano, e da loro, separatamente aveva fatto tradurre in tedesco il mio messaggio, avvisando entrambi che se le due traduzioni non fossero risultate uguali avrebbe denunciato alla Sezione Politica non solo me ma anche loro. Mi tenne un discorso, difficile da riportare. Mi disse che, per mia fortuna, le due traduzioni erano uguali e il testo non era compromettente. Che io ero matto: non c' erano altre spiegazioni, solo un matto avrebbe potuto pensare di mettere in gioco in quel modo la propria vita, quella del complice italiano che certamente avevo, quella dei miei parenti in Italia, e anche la sua carriera di Kapo. Mi disse che quello schiaffo era stato meritato, che anzi avrei dovuto ringraziarlo perché era stata una buona azione, di quelle che conducono in Paradiso, e lui, di professione "Strassenräuber", rapinatore di strada, di fare buone azioni aveva gran bisogno. Che infine non avrebbe dato corso alla denuncia, ma neppure lui sapeva bene perché: forse appunto perché ero matto, ma già gli italiani sono tutti notoriamente matti, buoni solo a cantare e a mettersi nei guai. Non credo di aver ringraziato Eddy, ma dopo di allora, pur senza provare alcuna attrazione positiva per i "colleghi" triangoli verdi, mi è capitato più volte di domandarmi quale sostanza umana si assiepasse dietro al loro simbolo, e di rimpiangere che nessuno della loro ambigua brigata abbia (che io sappia) raccontato la sua storia. Non so come Eddy sia finito. Poche settimane dopo il fatto che ho raccontato, scomparve per qualche giorno; poi lo abbiamo rivisto una sera, stava in piedi nel corridoio fra il filo spinato ed il reticolato elettrico, e portava appeso al collo un cartello con su scritto "Urning", e cioè pederasta, ma non sembrava né afflitto né preoccupato. Assisteva al rientro della nostra schiera con aria svagata, insolente ed indolente, come se nulla di quanto avveniva intorno a lui lo riguardasse.

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Oggi però Cesare non è più il reduce estroso, cencioso ed indomabile della Bielorussia 1945, e neppure il funzionario senza macchia della Roma 1965; incredibilmente, è un pensionato sessantenne, abbastanza tranquillo, abbastanza saggio, provato duramente dal destino, e mi ha sciolto dal divieto, autorizzandomi a scrivere "prima che te passi la vojja". Prima dunque che mi passi la voglia mi accingo a raccontare qui il modo in cui Cesare, il 2 di ottobre del 1945, stomacato dai ghirigori e dalle soste interminabili della tradotta che ci stava riportando in Italia, ed impaziente di mettere in atto le sue capacità inventive e la mostruosa libertà che ci era stata donata dal destino dopo la prova di Auschwitz, ci abbandonò perché aveva deciso di ritornare a casa in aeroplano. Magari dopo di noi, ma non come noi: non affamato, lacero, stanco, intruppato, scortato dai russi, su un estenuante treno-lumaca. Voleva una rentrée gloriosa, un' apoteosi. Ne vedeva i pericoli, ma "o a Napoli in carozza, o in màchina a fa' er carbone". La nostra tradotta, col suo carico variopinto di millequattrocento italiani sulla tortuosa via del ritorno, stava confitta da sei giorni nella pioggia e nel fango di un paesino della frontiera fra la Romania e l' Ungheria, e Cesare era furioso d' ozio forzato e d' impotenza-impazienza. Mi invitò a seguirlo, ma io rifiutai perché l' avventura mi spaventava; allora prese brevi accordi col Signor Tornaghi, salutò tutti e partì con lui. Il Signor Tornaghi era un mafioso del Nord, di professione ricettatore. Era un milanese sanguigno e cordiale sui quarantacinque anni: nei nostri vagabondaggi precedenti si era distinto per l' abbigliamento quasi elegante, che del resto era per lui un' abitudine, un simbolo di condizione sociale ed una necessità imposta dalla sua professione. Fino a pochi giorni prima aveva addirittura ostentato un cappotto col bavero di pelliccia, ma poi l' aveva venduto per fame. Un socio così per Cesare andava benissimo: Cesare non ha mai avuto fisime di casta o di classe. I due presero il primo treno in partenza per Bucarest, cioè in direzione contraria alla nostra, e nel corso del viaggio Cesare insegnò al Signor Tornaghi le principali preghiere del rituale ebraico, e da lui si fece insegnare il Pater, il Credo e l' Avemaria, perché aveva già in mente un programma minimale per il primo impianto a Bucarest. A Bucarest arrivarono senza incidenti, ma dando fondo a tutte le loro poche risorse. Nella metropoli sconvolta dalla guerra ed incerta dei suoi prossimi destini, i due si dedicarono per alcuni giorni a mendicare, imparzialmente, nei conventi e alla Comunità Israelitica: si presentavano volta a volta come due ebrei scampati alla strage, o come due pellegrini cristiani in fuga davanti ai sovietici. Non raccolsero molto, si spartirono i proventi e li investirono in abiti: il Tornaghi per restaurare l' aspetto onesto che la sua professione richiede, e Cesare per far fronte al secondo stadio del suo piano. Ciò fatto, si separarono, e di quanto sia avvenuto al Signor Tornaghi nessuno ha più saputo nulla. Cesare, in giacca e cravatta dopo un anno di cranio rapato e di panni a strisce da galeotto, si sentiva agli inizi come stranito, ma non tardò a ritrovare la sicurezza necessaria per il nuovo ruolo che intendeva assumere, e che era quello dell' amante latino: poiché la Romania (Cesare se n' era accorto presto) è un paese assai meno neolatino di quanto assicurino i testi. Cesare non parlava romeno, evidentemente, né alcuna lingua fuori dell' italiano, ma le difficoltà di comunicazione non gli furono d' impedimento. Gli furono anzi d' aiuto, perché è più facile dire bugie quando si sa di essere capiti male, e del resto nella tecnica del corteggiamento il linguaggio articolato ha una funzione secondaria. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto, Cesare incappò in una ragazza che rispondeva ai suoi requisiti: era di famiglia ricca e non faceva troppe domande. Sul suocero putativo le notizie fornite da Cesare sono vaghe; era uno dei padroni dei pozzi di petrolio di Ploesti, e-o direttore di una banca, e abitava in una villa il cui cancello era affiancato da due leoni di marmo. Ma Cesare è un pesce che nuota in tutte le acque, e non mi stupisce che sia stato accolto bene in quella famiglia di borghesi facoltosi, certo già spaventati dai prossimi rivolgimenti politici del loro paese: chissà, forse una figlia sposata in Italia poteva essere vista come una futura testa di ponte. La ragazza ci stette. Cesare fu presentato, invitato nella villa dei leoni , portò mazzi di fiori e si fidanzò ufficialmente. Fu chiamato a colloquio col futuro suocero, e non fece mistero della sua qualità di reduce dal Lager. Gli accennò che, per il momento, era a corto di denaro: gli avrebbe fatto comodo un piccolo prestito, o un anticipo sulla dote, per sistemarsi in qualche modo in città in attesa dei documenti per le nozze e di aver trovato un lavoro. La ragazza ci stette ancora: era un tipo di grinza, aveva capito subito tutto, da vittima dell' imbroglio era diventata complice; l' avventura esotica era di suo gusto, anche se sapeva bene che sarebbe finita presto, e dei soldi del padre non le importava niente. Cesare ottenne i quattrini e sparì. Pochi giorni dopo, verso la fine di ottobre, si imbarcò sull' aereo per Bari. Aveva vinto, dunque; rimpatriava sì dopo di noi (che avevamo ripassato il Brennero il 19 del mese), e quell' imbroglio gli era costato parecchio, in forma di compromessi di coscienza e di un affare sentimentale troncato a metà, ma tornava in volo, come i re, e come aveva promesso a se stesso e a noi impantanati nel fango romeno. Che Cesare sia disceso a Bari dal cielo non ci sono dubbi. È stato visto da numerosi testimoni che erano accorsi ad aspettarlo, ed essi non hanno dimenticato la scena perché Cesare, appena ebbe messo piede sul suolo, fu fermato dai Carabinieri, a quel tempo ancora Reali. La ragione era semplice: dopo che l' aereo era decollato da Bucarest, i funzionari della compagnia aerea si erano accorti che i dollari che Cesare aveva avuti dal suocero, e con cui aveva pagato il biglietto del viaggio, erano falsi, e avevano subito spedito un fonogramma all' aeroporto di arrivo. Non è chiaro se l' ambiguo suocero romeno abbia agito in buona fede, oppure se abbia fiutato l' inganno e si sia vendicato preventivamente, punendo Cesare e ad un tempo liberandosi di lui. Cesare fu interrogato, spedito a Roma con foglio di via e un viatico di pane e fichi secchi, nuovamente interrogato e poi rilasciato definitivamente. È questa la storia di come Cesare sciolse il suo voto, e scrivendola qui ho sciolto un voto anch' io. Può essere imprecisa in qualche particolare, perché si fonda su due memorie (le sua e la mia), e sulle lunghe distanze la memoria umana è uno strumento erratico, specialmente se non è rafforzata da souvenirs materiali, e se invece è drogata dal desiderio (anche questo suo e mio) che la storia narrata sia bella; ma il dettaglio dei dollari falsi è certo, ed ingrana con fatti che appartengono alla storia europea di quegli anni. Dollari e sterline falsi circolavano in abbondanza, verso la fine della seconda guerra mondiale, in tutta l' Europa e in specie nei Paesi balcanici; fra l' altro, erano stati usati dai tedeschi per pagare in Turchia la spia bifronte Cicero, la cui storia è stata raccontata più volte e in vari modi: anche qui, dunque, a risposta di un inganno. Si dice in proverbio che il denaro è lo sterco del diavolo, e mai denaro è stato più stercorario e più diabolico di quello. Esso veniva stampato in Germania, per inflazionare la circolazione monetaria in campo nemico, per seminare sfiducia e sospetto, e per "pagamenti" del tipo di quello accennato. In buona parte, a partire dal 1942, queste banconote erano prodotte nel Lager di Sachsenhausen, dove le SS avevano radunato circa centocinquanta prigionieri d' eccezione: erano grafici, litografi, fotografi, incisori e falsari che costituivano il "Kommando Bernhard", piccolo Lager segretissimo di "specialisti" entro la recinzione del più grande Lager, abbozzo delle saraski staliniane che saranno descritte da Solzenicyn in "Il primo cerchio". Nel marzo 1945, davanti all' incalzare delle truppe sovietiche, il Kommando Bernhard fu trasferito in blocco, dapprima a Schlier-Redl-Zipf, poi (il 3 maggio 1945, a pochi giorni dalla capitolazione) a Ebensee: erano entrambi Lager dipendenti da Mauthausen. Pare che i falsari abbiano lavorato fino all' ultimo giorno, e che poi le matrici siano state gettate in fondo a un lago.

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Ci furono varie schermaglie con l' Alfasud che gli era stata sorteggiata come avversario, l' uomo era abbastanza destro e riuscì a tenersi largo per due o tre minuti, poi l' auto lo investì, in 1* marcia ma rudemente, e fu sbalzato a una dozzina di metri. Sanguinava dalla testa, venne il medico, lo dichiarò inabile e i barellieri lo portarono via fra i fischi del pubblico. Il vicino di Nicola era indignato, diceva che quel Blitz, che poi si chiamava Craveri, era un simulatore, che si faceva ferire apposta, che avrebbe fatto meglio a cambiare mestiere, anzi avrebbero dovuto farglielo cambiare d' ufficio, dalla Federazione: togliergli il tesserino e rimetterlo nella lista dei disoccupati. A proposito del terzo, che di nuovo aveva contro un' utilitaria, una Renault_4, gli fece poi notare che queste erano più temibili delle auto grandi e pesanti. _ Per conto mio, metterei tutte Minimorris: hanno ripresa, sono maneggevoli . Con quei bestioni da 1600 in su non capita mai niente: sono buoni per i forestieri , solo fumo negli occhi _ . Alla terza carica, il gladiatore attese l' auto senza muoversi, all' ultimo istante si buttò piatto a terra e la macchina gli passò sopra senza toccarlo. Il pubblico urlò di entusiasmo, molte donne gettarono fiori e borsette nell' arena, una anche una scarpa, ma Nicola apprese che quell' impresa spettacolare non era veramente pericolosa. Si chiamava "la rodolfa" perché l' aveva inventata un gladiatore che si chiamava Rodolfo: era poi diventato famoso, aveva fatto carriera politica e adesso era un pezzo grosso del Coni. Seguì, come d' abitudine, un intermezzo comico, un duello fra due sollevatori a forca. Erano dello stesso modello e colore, ma uno portava dipinta tutto intorno una fascia rossa e l' altro una fascia verde. Pesanti com' erano, manovravano a fatica, affondando nella sabbia fin quasi al mozzo. Cercarono invano di spingersi indietro, con le forche intrecciate insieme come i cervi quando lottano; poi il verde si disimpegnò, fece una rapida marcia indietro, e percorrendo una curva stretta andò a cozzare col retrotreno contro la fiancata del rosso. Il rosso retrocedette a sua volta, ma poi invertì rapidamente la marcia e riuscì a infilare le forche sotto la pancia del verde. Le forche si sollevarono, il verde oscillò e poi crollò su un lato, mostrando sconciamente il differenziale e la marmitta dello scappamento. Il pubblico rise ed applaudì. Il quarto gladiatore aveva contro una Peugeot tutta scassata. Il pubblico incominciò subito a gridare "camorra": infatti, il guidatore aveva la sfacciataggine di accendere addirittura il lampeggiatore prima di sterzare. La quinta entrata fu uno spettacolo. Il gladiatore aveva grinta, e mirava visibilmente a spaccare non solo il parabrezza, ma anche la testa del pilota, e non ci riuscì per un pelo. Evitò di precisione tre cariche, con grazia indolente, senza neanche alzare il martello; alla quarta balzò in aria come una molla davanti al muso della macchina, ricadde sul cofano, e con due violente martellate sbriciolò il cristallo del parabrezza. Nicola sentì il muggito della folla, su cui si distaccò un breve grido strozzato di Stefania che si era stretta a lui. Il pilota sembrava accecato: invece di frenare accelerò e finì di sbieco contro la barriera di legno, l' auto ribaltò e si coricò su un fianco imprigionando nella sabbia un piede del gladiatore. Questo, pazzo di furia, attraverso il vano del parabrezza continuava a menare martellate contro la testa del pilota, che tentava di uscire dalla portiera rivolta verso l' alto. Lo si vide finalmente uscire, col viso insanguinato, strappare il martello al gladiatore e stringergli il collo con le due mani. Il pubblico urlava una parola che Nicola non capiva, ma il suo vicino era rimasto tranquillo, e gli spiegò che chiedevano al direttore di gara che gli fosse risparmiata la vita, il che infatti avvenne. Entrò rapida in pista una camionetta dell' Autosoccorso Aci, e in un momento l' auto fu rimessa in piedi e rimorchiata via. Il pilota e il gladiatore si strinsero la mano fra gli applausi, e poi si incamminarono verso gli spogliatoi salutando, ma dopo pochi passi il gladiatore vacillò e cadde, non si capì se morto o solo svenuto. Caricarono anche lui sull' autosoccorso. Mentre entrava nell' arena il grande Lorusso, Nicola si accorse che Stefania si era fatta molto pallida. Provava un vago rancore contro di lei, e gli sarebbe piaciuto restare ancora per fargliela pagare: solo per questo, perché di Lorusso non gli importava proprio niente. Per ragioni di principio avrebbe preferito che fosse Stefania a pregare lui di andare via, ma la conosceva, e sapeva che non si sarebbe mai piegata a farlo; così le disse che lui ne aveva abbastanza e se ne andarono. Stefania non stava bene, aveva degli impulsi di vomito, ma alle sue domande rispose ruvidamente che era la salsiccia che aveva mangiato a cena. Rifiutò di prendere un amaro al bar, rifiutò di passare la sera con lui, rifiutò tutti gli argomenti di conversazione che lui le offriva: doveva proprio stare poco bene. Nicola la accompagnò a casa, e si accorse che anche lui aveva poco appetito, e neppure aveva voglia di fare la solita partita a bigliardo con Renato. Bevve due cognac e si mise a letto.

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_ Ne ho abbastanza, _ mi ha detto. _ Cambio. Mi licenzio, mi trovo un lavoro qualunque, magari ai mercati generali a scaricare la roba. Oppure parto, me ne vado; se uno viaggia, spende meno che a stare a casa, e per strada qualche modo di guadagnare si trova sempre, ma in fabbrica non ci vado più. Gli ho detto che ci pensasse su, che non bisogna mai prendere decisioni a caldo, che un posto in fabbrica non è da buttare via, e che ad ogni modo era meglio se mi raccontava le cose da principio. Rinaldo è iscritto all' università, ma fa i turni in fabbrica: fare i turni è spiacevole, si cambia orario e ritmo di vita tutte le settimane, bisogna insomma abituarsi a non abituarsi. In generale, ci riescono meglio le persone di mezza età che i giovani. _ No, non è questione di turni: è che mi è partita una cottura. Otto tonnellate da gettare. Una cottura che parte, vuol dire che solidifica a metà strada: che da liquida diventa gelatinosa, o anche dura come il corno. È un fenomeno che viene descritto con nomi decorosi come gelazione o polimerizzazione precoce, ma è un evento traumatico, brutto da vedersi anche a parte i quattrini che fa perdere. Non dovrebbe succedere, ma qualche volta succede, anche se si sta attenti, e quando succede lascia il segno. Ho detto a Rinaldo che piangere sul latte versato è inutile, e subito mi sono pentito, non era quella la cosa giusta da dirgli; ma che dire alla persona per bene che ha sbagliato, che non sa ancora come, e che si porta la sua colpa sulla schiena come una gerla piena di piombo? L' unica è offrirgli un cognac e invitarlo a parlare. _ Non è per il capo, vedi, e neppure per il padrone. È per la faccenda in sé, e per come è andata. Era una cottura semplice, l' avevo già fatta almeno trenta volte, tanto che la prescrizione la sapevo a memoria e non la guardavo neanche più .... Anche a me sono partite diverse cotture nel corso della mia carriera, e così so abbastanza bene di cosa si tratta. Gli ho chiesto: _ Non sarà mica per questo, che è successo il guaio? Credevi di sapere tutto a memoria, e invece hai dimenticato qualche dettaglio, o sbagliato una temperatura, o hai messo dentro qualche cosa che non ci andava? _ No. Ho controllato poi, e tutto era regolare. Adesso c' è il laboratorio che ci sta lavorando sopra, per cercare di capire il perché; io sono l' imputato, insomma, ma mi piacerebbe che se ho fatto uno sproposito venisse fuori. Te lo giuro, mi piacerebbe: preferirei che mi dicessero "disgraziato, hai fatto questo e quest' altro e non dovevi", piuttosto che stare qui a farmi delle domande. Ed è poi fortuna che non è morto nessuno, nessuno si è fatto male, e non si è neppure storto l' albero del reattore. C' è solo il danno economico, e se avessi i soldi, parola, lo pagherei io volentieri. Dunque. Toccava a me il turno del mattino, ero montato alle sei, e tutto era in ordine. Prima di smontare, Morra mi ha lasciato le consegne. Morra è uno vecchiotto, che viene dalla gavetta; mi ha lasciato il buono di produzione con tutti i materiali spuntati alle ore giuste, le schede della bilancia automatica, insomma non c' era niente da dire: non è certo uno che ti faccia degli imbrogli, e poi non aveva motivo, dal momento che tutto andava bene. Incominciava appena a fare giorno, si vedevano le montagne che sembravano a due passi. Io ho dato un' occhiata al termografo, che marcava giusto; sulla curva c' era perfino una gobba alle quattro del mattino, segnava quindici gradi in più, è una gobba che viene fuori tutti i giorni, sempre alla stessa ora, e né l' ingegnere né l' elettricista hanno mai capito perché; via, come se avesse preso l' abitudine di dire tutti i giorni la sua bugia, e capita appunto come ai bugiardi, che dopo un poco nessuno ci fa più caso. Ho dato un' occhiata anche dentro la specola del reattore: non c' era fumo, non c' era schiuma, la cottura era bella trasparente e girava liscia come acqua. Non era acqua, era una resina sintetica, una di quelle che sono formulate per indurire, ma solo dopo, negli stampi. Insomma io me ne stavo tranquillo, non c' era motivo di preoccuparsi. C' era ancora da aspettare due ore prima di cominciare coi controlli, e ti confesso che io pensavo a tutt' altro. Pensavo ... beh sì, pensavo a quella confusione di atomi e di molecole che c' erano dentro a quel reattore, ogni molecola come se stesse lì con le mani tese, pronta ad acchiappare la mano della molecola che passava lì vicino per fare una catena. Mi venivano in mente quei bravi uomini che avevano indovinato gli atomi a buon senso, ragionando sul pieno e sul vuoto, duemila anni prima che venissimo noi col nostro armamentario a dargli ragione, e siccome quest' estate, al campeggio, la ragazza mi ha fatto leggere Lucrezio, mi è tornato anche in mente "Còrpora cònsta-bùnt ex pàrtibus ìnfi-nìtis", e quell' altro che diceva "tutto scorre". Ogni tanto guardavo dentro la specola, e mi sembrava proprio di vederle, tutte quelle molecole che andavano in giro come le api intorno all' alveare. Insomma tutto scorreva e io avevo tutte le ragioni di stare tranquillo; anche se non avevo dimenticato quello che ti insegnano quando ti affidano un reattore. E cioè, che tutto va bene finché una molecola si lega con un' altra molecola come se ognuna avesse solo due mani: più che una catena, un rosario di molecole, non si può formare, magari lungo, ma niente di più. Però bisogna sempre ricordarsi che, fra le tante, ci sono anche delle molecole che di mani ne hanno tre, e questo è il punto delicato. Anzi, ci si mettono apposta: la terza mano è quella che deve far presa dopo, quando vogliamo noi e non quando vogliono loro. Se le terze mani fanno presa troppo presto, ogni rosario si lega con due o tre altri rosari, e in definitiva si forma una molecola sola, una molecola-mostro grossa come tutto il reattore, e allora si sta freschi: addio al "tutto scorre", non c' è più niente che scorre, tutto si blocca e non c' è più niente da fare. Lo stavo osservando, mentre raccontava, ed evitavo di interromperlo, benché mi stesse dicendo cose che so. Raccontare gli faceva bene: aveva gli occhi lustri, forse anche per effetto del cognac, ma si stava calmando. Raccontare è una medicina sicura. _ Bene: come ti stavo dicendo, io davo uno sguardo ogni tanto alla cottura, e pensavo alle cose che ti ho detto, e anche ad altre che non c' entrano. I motori ronzavano tranquilli, la camma del programmatore girava piano piano, e il pennino del termografo disegnava sul quadrante un profilo uguale preciso a quello della camma. Dentro al reattore si vedeva l' agitatore che girava regolare, e si vedeva che la resina a poco a poco diventava più spessa. Verso le sette incominciava già ad appiccicarsi alla parete e a fare delle bollicine: questo è un segno che ho scoperto io, e l' ho anche insegnato a Morra e a quello del terzo turno, che siccome cambia sempre non so neanche come si chiama; è segno che la cottura è quasi buona, e che è ora di prendere il primo campione e provare la viscosità. Scendo al piano di sotto, perché un reattore da ottomila non è un giocattolo, e sporge due metri buoni sotto il pavimento; e mentre sono lì e armeggio col rubinetto del prelievo, sento che il motore dell' agitatore cambia nota. Cambia di poco, forse neanche un diesis, ma era un segno anche questo, e un segno mica bello. Ho sbattuto via il provino e tutto, in un attimo ero sopra con l' occhio incollato alla specola, e si vedeva un gran brutto spettacolo. Tutta la scena era cambiata: le pale dell' agitatore tagliavano una massa che sembrava polenta, e che veniva sempre più su a vista d' occhio. L' agitatore l' ho fermato, tanto oramai non serviva più a niente, e sono rimasto lì come incantato, con le ginocchia che mi tremavano. Cosa fare? Per scaricare la cottura, non c' era più tempo, e neppure per chiamare il dottore, che a quell' ora era ancora a letto: e del resto, quando una cottura parte è come quando muore uno: i rimedi buoni vengono in mente dopo. Veniva su una massa di schiuma, lenta ma senza pietà. Venivano a galla delle bolle grosse come una testa d' uomo, ma non rotonde: storte, di tutte le forme, con la parete striata come di nervi e di vene; scoppiavano e subito ne nascevano delle altre, ma non come nella birra, dove la schiuma scende, ed è raro che esca dal bicchiere. Lì continuava a salire. Ho chiamato gente, sono venuti in diversi, anche il caporeparto, e ognuno diceva la sua ma nessuno sapeva che cosa fare, e intanto la schiuma era già a mezzo metro sotto la specola. Ogni bolla che scoppiava, volavano degli sputacchi che si appiccicavano sotto il cristallo della specola e lo impiastravano; di lì a poco non si sarebbe visto più niente. Ormai era chiaro che indietro la schiuma non tornava: sarebbe salita a intasare tutti i tubi del refrigerante, e allora addio. Con l' agitatore fermo, c' era silenzio, e si sentiva un rumore che cresceva, come nei film di fantascienza quando sta per capitare qualcosa di orribile: un fruscio e un borbottio sempre più forti, come un intestino malato. Era la mia molecola grossa otto metri cubi, con dentro intrappolato tutto il gas che non riusciva più a farsi strada, che voleva venir fuori, partorirsi da sé. Io non me la sentivo né di scappare né di restare lì ad aspettare: ero pieno di paura, ma mi sentivo anche responsabile, la cottura era mia. Ormai la specola era accecata, si vedeva soltanto un chiarore rossiccio. Non so se ho fatto bene o male: avevo paura che il reattore scoppiasse, e allora ho preso la chiave e ho aperto tutti i bulloni del portello. Il portello si è sollevato da solo, non di scatto ma piano, solenne, come quando si scopron le tombe e si levano i morti. È venuta fuori una colata lenta e spessa, schifosa, una roba gialla tutta gnocchi e nodi. Abbiamo fatto tutti un salto indietro, ma appena si è raffreddata sul pavimento si è come seduta e si è visto che come volume non era poi gran che; dentro al reattore la massa è scesa di un mezzo metro, poi si è fermata lì e a poco a poco è diventata dura. Così lo spettacolo è finito; ci siamo guardati uno con l' altro e non avevamo delle belle facce. La mia poi doveva essere la più brutta di tutte, ma specchi non ce n' erano. Ho cercato di tranquillizzare Rinaldo, o almeno di distrarlo, ma temo di non esserci riuscito, e questo per una buona ragione: fra tutte le mie esperienze di lavoro, nessuna ne ho sentita tanto aliena e nemica quanto quella di una cottura che parte, qualunque ne sia la causa, con danni gravi o scarsi, con colpa o senza. Un incendio o un' esplosione possono essere incidenti molto più distruttivi, anche tragici, ma non sono turpi come una gelazione. Questa racchiude in sé una qualità beffarda: è un gesto di scherno, l' irrisione delle cose senz' anima che ti dovrebbero obbedire e invece insorgono, una sfida alla tua prudenza e previdenza. La "molecola" unica, degradata ma gigantesca, che nasce-muore fra le tue mani è un messaggio e un simbolo osceno: simbolo delle altre brutture senza ritorno né rimedio che oscurano il nostro avvenire, del prevalere della confusione sull' ordine, e della morte indecente sulla vita.

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Ho subito scartato l' idea di denunciare le svastiche ai carabinieri: sono abbastanza bravi ad acciuffare i ladri di galline, ma certe altre faccende, grosse o piccole, non destano i loro riflessi d' agguato, di caccia e di cattura. Invece, sono andato dal "casalinghi", l' unico negozio di B. che venda vernici: si capisce che la bombola poteva anche venire da molto lontano, ma perché non provare? La signora casalinghi è stata efficiente (lo è in tutte le sue cose, la conosco da un pezzo); senza visibili sforzi di memoria, mi ha risposto che sì, negli ultimi tempi aveva venduto una bomboletta sola, Verde Alfa 12004, venerdì scorso, al signor Fissore, alle dieci del mattino. Perfetto. A B. ci conosciamo tutti. Fissore è un assicuratore, buongustaio e bellimbusto, un po' fanfarone, scettico e credulone insieme, maldicente più per leggerezza che per malvagità; un tipo fuori del suo tempo, in ritardo di ottant' anni, e nei nostri anni infatti si muove a disagio, nega tutto, non vuole vedere le cose, si barrica nei week-end come i pionieri nei fortini. Non è uomo da svastiche. Per questo non avevo pensato a lui, né alla sua Giulia, che è proprio verde. Ma i suoi figli? I figli degli altri non mi interessano tanto. Mi interesserebbero se potessi entrare in contatto con loro, ma questo è impossibile. Sono amebe, nuvole; sono indescrivibili, ogni anno, ogni mese, mutano abiti, abitudini, linguaggio, viso; a maggior ragione le opinioni. A che scopo entrare in dimestichezza con Proteo? Lo loderai per la sua bianchezza, e te lo troverai davanti nero come la pece. Avrai pietà dei suoi dolori e ti strozzerà. Fissore ha un figlio e una figlia, ma questa era fuori questione: era in Scozia da un mese. Il figlio si chiama Piero, e corrisponde male all' immagine tentativa che mi stavo fabbricando, se non per il fatto di avere quindici anni. È magro, timido, miope, e non mi risulta che si occupi di politica: lo posso dire perché l' estate scorsa gli ho dato qualche lezione di algebra e geometria, e chi ha provato sa che le lezioni private sono mirabili strumenti di indagine, sensibili come sismografi. Non è neppure un introverso tipico, perché parla parecchio: è piuttosto un lamentoso, uno di quelli che tendono a vedere il mondo come una vasta rete di cospirazioni al loro danno, e se stessi al centro del mondo, esposti a tutti i soprusi. Da questa tendenza, che è debilitante, è difficile guarire, perché i soprusi esistono. Io penso che a questi perseguitati sia bene insegnare che ai soprusi non sono esposti loro soli, e soprattutto che lamentarsi non serve; occorre difendersi, individualmente o collettivamente, con tenacia e intelligenza, e anche con ottimismo. Senza ottimismo le battaglie si perdono, anche contro i mulini a vento. Ho incontrato Piero pochi giorni dopo: per caso, perché non mi era sembrato che valesse la spesa di pedinarlo, o di stare fuori del suo cancello in agguato come un leopardo. Gli ho chiesto come era andato con la scuola: primo errore. Male, era andato: aveva storia a ottobre, e anche matematica; me lo ha detto con aria di rimprovero, come se fosse stata colpa mia: non in quanto ex precettore, ma in quanto altro, in quanto non-Piero, e quindi membro della congiura ai suoi danni. Ne ho ricavato una vaga sofferenza, costituita da uno strato superficiale di dispetto, e da uno più profondo che mi sembrava rimorso, un rimorso impreciso, senza indirizzo, da analizzare poi: la sua evidente infelicità, e il gesto di cui lo sospettavo, potevano proprio essere colpa mia. Dare lezioni di geometria a un adolescente non è solo uno strumento di diagnosi, è anche, o può essere, una terapia drastica: può essere la prima rivelazione, in una carriera scolastica, della severa potenza della ragione, del coraggio intellettuale che respinge i miti, e della salutare emozione di ravvisare nella propria mente uno specchio dell' universo. Può essere un antidoto contro la retorica, l' approssimazione, l' accidia; può essere, per il giovane, una verifica allegra della sua muscolatura mentale, o l' occasione per svilupparla. Forse, di questa terapia avevo fatto uso scarso, o nullo, o inadatto a lui. L' ho guardato bene, da vicino. È piuttosto ossuto che magro, gli occhi dietro gli occhiali sono incerti, malfermi, come esitanti sull' oggetto su cui puntarsi. Non sapevo da dove incominciare per la mia indagine; alla fine, pensando che la via diretta era la migliore, gli ho chiesto se aveva visto le scritte verdi giù sulla strada. _ Le ho fatte io, _ mi ha risposto con semplicità. _ Ne ho abbastanza, è ora di finirla. _ Abbastanza di cosa? _ Di tutto. Della scuola. Di avere quindici anni. Di questo paese. Della matematica: a cosa vuole che mi serva? Tanto io farò l' avvocato; anzi, il magistrato. _ Perché il magistrato? _ Per ... così, per fare giustizia. Perché la gente paghi; ognuno paghi i suoi conti. Ci eravamo seduti su un muretto e Piero giocherellava con una mano nella tasca dei calzoni, che era stranamente gonfia. A poco a poco, macchinalmente, ne ha cavato una pallina da ping-pong, poi una caramella, una fotografia appallottolata, due sigarette contorte, un distintivo rosso e nero che non sono riuscito a identificare, una pinza per biancheria, un fazzoletto con due nodi, un pettinino fermacapelli. In silenzio, ha disposto tutto sul muretto, fra me e lui: fingeva di essere distratto, ma ho capito che si trattava di una scena, di una recitazione indirizzata a me. Infine ha detto: _ Anche lei mi ha piantato _; ha preso il pettine e con uno scatto iroso lo ha buttato nel rio che scorreva profondo, ai piedi del muretto, fra erbacce e imballaggi sfondati. Non mi è sembrato opportuno spingere più oltre l' indagine. Piero guardava nel vuoto rosicchiandosi le unghie: poi ha lasciato cadere nel rio, ad uno ad uno, anche gli altri simboli, per me indecifrabili, ad eccezione del fazzoletto, che ha rimesso in tasca. Io pensavo che, per quanto dipendeva da lui, i cinesi avrebbero potuto sopravvivere a lungo. Pensavo anche alla essenziale ambiguità dei messaggi che ognuno di noi si lascia dietro, dalla nascita alla morte, ed alla nostra incapacità profonda di ricostruire una persona attraverso di essi, l' uomo che vive a partire dall' uomo che scrive: chiunque scriva, anche se solo sui muri, scrive in un codice che è solo suo, e che gli altri non conoscono; anche chi parla. Trasmettere in chiaro, esprimere, esprimersi e rendersi espliciti, è di pochi: alcuni potrebbero e non vogliono, altri vorrebbero e non sanno, la maggior parte né vogliono né sanno. Ma pensavo anche alla misconosciuta forza dei deboli, dei disadatti: nel nostro mondo instabile, un fallimento, anche un risibile fallimento come quello di Piero quindicenne rimandato a ottobre e piantato dalla ragazza, ne può provocare altri, a catena; una frustrazione, altre frustrazioni. Pensavo a quanto è sgradevole aiutare gli uomini sgradevoli, che sono i più bisognosi d' aiuto; e pensavo infine alle migliaia di altre scritte sui muri italiani, dilavate dalle piogge e dai soli di quarant' anni, spesso sforacchiate dalla guerra che avevano contribuito a scatenare, eppure ancora leggibili, grazie alla viziosa pervicacia delle vernici e dei cadaveri, che si corrompono in breve, ma le cui spoglie ultime durano macabre in eterno: scritte tragicamente ironiche, eppure forse ancora capaci di suscitare errori dal loro errore, e naufragi dal loro naufragio.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

"Avrete forza abbastanza per salire?" "Lo spero, ma non ora. Sono sfinito ed ho le membra rattrappite. "Prendete, amico mio." L'ingegnere calò fino a lui una bottiglia di whisky già sturata e una cintola di pelle. "Bevete e legatevi alla guide-rope" disse. "Grazie, Mister Kelly" riprese l'irlandese. Si assicurò con la cintola per non cadere nel caso che lo cogliesse un capogiro per il forte liquore. "Mi pare che le forze ritornino" disse dopo alcuni istanti. "Cercherò di raggiungervi, Mister Kelly." "Volete che apra le valvole e che ci abbassiamo?" "No, Mister Kelly: avete sacrificato già troppo gas per raccogliermi. I nodi non sono lontani e mi riposerò" "Non guardate l'abisso." "Chiuderò gli occhi." Il coraggioso giovanotto sciolse la cintola, si issò, posando i piedi sulle patte dall'ancorotto, respirò alcuni istanti, poi cominciò quella pericolosa salita, adoperando i piedi, le mani e perfino i denti. Non osava guardarsi intorno, poiché si sentiva già prendere da un principio di vertigine, anche tenendo gli occhi chiusi: quell'immensità che si stendeva sotto di lui, lo attirava, lo affascinava. L'ingegnere, più pallido forse di O'Donnell, seguiva ansiosamente, col cuore stretto d'angoscia, le mosse di lui e cercava di tener ferma la fune, che l'àncora faceva ondeggiare.

I CORSARI DELLE BERMUDE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Il vento di libeccio, abbastanza fresco, gonfiava le tele, sibilando fra le centinaia e centinaia di cordami, sartie, manovre scorrenti e fisse e dentro le griselle. Una era una corvetta, lunga, sottile, ma di portata abbastanza grossa, perché ventiquattro cannoni uscivano dai suoi babordi mentre sul cassero e sul largo castello di prora si allungavano, disposti in barbetta, quattro grossi pezzi da caccia. Era coperta di vele, come abbiamo detto, dal ponte ai contrapappafichi. Perfino gli scopamari ed i coltellacci erano stati spiegati al di fuori dei pennoni bassi, delle gabbie e dei pappafichi. L'altra invece era una grossa giunca, larga di fianchi, pesante, di stazzatura assai inferiore alla corvetta che la precedeva, con pochissime artiglierie piazzate tutte in coperta. Entrambi i navigli portavano un numero considerevole di uomini. Sulla cima dell'albero maestro della corvetta sventolava una bandiera rossa, segnale di fuoco permanente, ad ogni ora, ad ogni istante, contro tutti e contro tutto; sulla giunca una bandiera rigata, bianca e azzurra, senza stelle, perché gli Stati Uniti allora non si erano ancora costituiti in Confederazione. Era l'ora della cena. Sulla coperta della corvetta, centocinquanta uomini, di razze diverse, stavano divorando, in piedi, la, cena, con lo invidiabile appetito marinaresco. Colle gambe allargate per reggersi ai colpi delle onde, il piatto posato sul berretto, ingollavano avidamente il merluzzo, sognando la guardia franca. D'un tratto un grido scende dall'albero maestro e li fa sussultare. - Vela a sinistra! Il gabbiere installato sulla crocetta dell'albero maestro tace per qualche istante, poi la sua voce piomba più imperiosa sulla ciurma: - Due vele sottovento! Ci dànno la caccia! I piatti, in un baleno, volano in mare insieme al contenuto. Cento uomini si gettano verso le murate, alle quali sono appoggiati numerosi archibugi dalla canna lunghissima e non poche carabine rigate, di marca inglese. Gli altri corrono alle batterie, pronti a far tuonare i ventiquattro pezzi. Il secondo di bordo, un bell'uomo sulla trentina, piuttosto alto, con una ricca barba nera e gli occhi che sprizzano lampi, non ha staccato dalle labbra la sua pipa, né ha interrotta la sua passeggiata sul piccolo ponte di comando. Ha solamente voltato la testa ed ha fissato per qualche po' il lontano orizzonte. Trascorsero due o tre minuti, poi la voce del gabbiere scese ancora dall'alto: - Ci cacciano! ... Son proprio due! Il secondo interruppe la sua passeggiata, si tolse la pipa, e dopo aver gettato in aria una gran boccata di fumo, chiese con voce perfettamente tranquilla: - Ne sei ben sicuro, Piccolo Flocco? - Sì, signor Howard. - Fregate o vascelli d'alto bordo? - La luce fugge troppo presto, tuttavia credo che quelle due navi siano d'alto bordo anziché fregate. - Ah diavolo! - borbottò il signor Howard. - La cosa cambia aspetto. È necessario avvertire il baronetto. Poi alzò la voce: - Testa di Pietra! - gridò. Un uomo di forme massicce, che poteva rivaleggiare per sviluppo di muscoli con un gorilla africano, colla barba brizzolata, dai peli irti come quelli di certe bestie selvagge, e con la testa enormemente grossa, si staccò dai due grossi pezzi da caccia che si trovavano sul castello di prora e scese sulla tolda, gridando: - Eccomi, signor Howard. Pareva un vero orso grigio, per le forme e le mosse pesanti. Guai però se uno si fosse imbattuto in quel vecchio figlio della vecchia Armorica, la terra delle pietre e delle teste quadre della Bretagna, che ha sempre dato alla Francia i suoi migliori marinai! Il nostro uomo attraversò la coperta senza troppo affrettarsi, dondolandosi comicamente, e salì sul ponte di comando, togliendosi prima dalla bocca un grosso pezzo di tabacco che stava masticando con una certa voluttà. - E dunque, tenente? - chiese, dopo d'aver salutato militarmente. - Che cosa ne pensate, mastro? - chiese il signor Howard fissandolo. - Penso, tenente, che abbiamo ventiquattro buoni pezzi e quattro cannoni da caccia piazzati sui ponti, - rispose il bretone. - E se fossero navi d'alto bordo? - Certo, l'affare sarebbe un po' serio, tenente; tuttavia abbiamo a bordo centocinquanta uomini che non hanno mai avuto paura di chicchessia, comandati da un prode come sir William. - Noi: ma la giunca? - Ah! quello è il punto debole - rispose il bretone. - Coi suoi otto pezzi riuniti potrebbe fare qualcosa; ma la polvere è tanto necessaria agli assediati di Boston! - Serberemo la nostra. Ne abbiamo duemila quintali. - I quali in un combattimento costituiranno un grave pericolo. - Lo so ... Va' a chiamare il comandante. - Sarà di cattivo umore. Da quando quell'uomo che comanda la giunca è giunto alle Bermude, il baronetto è sempre di cattivo umore. - Taci: non sai nulla dei segreti di sir William. - Hum! Ci deve essere sotto una donna. Che il diavolo se le porti via tutte! In quel momento, per la terza volta, la voce del gabbiere cadde sonora dalla crocetta dell'albero maestro. - Ci stringono! Testa di Pietra lanciò intorno uno sguardo. - Ci stringono - disse. - Bel tempo per montare all'abbordaggio! Prima che il sole ritorni, chi sa che cosa avrà preparato il baronetto! - Va' Testa di Pietra! - disse il tenente. - Chiacchieri come le donnicciuole del borgo di Batz. - Il mio borgo! - rispose il bretone con un sorriso misto ad un sospiro. Scese la scala, col suo passo pesante, mise il pezzo di tabacco nel berretto. cacciandolo sotto la fodera, e si diresse verso il quadro. - Diavolo secco! - borbottò. - Il comandante non sarà certo di buon umore. Si direbbe che dopo la nostra partenza dalle Bermude l'hanno stregato. Qui sotto c'è una donna, ne sono sicuro. Mary! Quante volte l'ho udito questo nome sfuggire dalle sue labbra! Mary! Che strega infernale sarà costei? Ma io, a vent'anni, sono scappato in mare per non rompermi il collo con quelle streghe e mi sono trovato bene. Vento, luce, sole, azzurro infinito, valgono più di tutti gli occhi azzurri delle fanciulle della nostra terra di pietre. Bah! Povera gioventù! Entrò nel quadro, sempre borbottando e facendo gesti. Scesa la seconda scala, sostò un momento, grattandosi, la capigliatura quasi argentata. - Per il borgo di Batz! - mormorò. - Sono certo di trovarlo di cattivo umore. S'avanzò nel corridoio, strascicando i suoi piedi da elefante per annunciare la sua visita, poi spinse una porta. Un salottino elegantissimo, alle cui finestre, erano tende di seta azzurra guarnite di pizzi di Bruxelles, illuminato da un alto candelabro d'argento, si offrì ai suoi sguardi. In mezzo, fra i divani di seta a fiori rossi e gialli, seduto dinanzi ad un tavolino d'ebano, stava un bel giovane di ventisei o ventisette anni, di statura piuttosto alta, dal colorito pallido, cogli occhi azzurri e la barba ed i capelli biondo fulvi. Invece di portare la bianca parrucca, aveva i capelli sciolti sulle spalle, leggermente ondulati. Stava bevendo: dinanzi a lui una bottiglia ed un bicchiere scintillavano sotto la luce delle candele. Vedendo entrare il mastro della corvetta, il giovane, che pareva immerso in un dolce sogno, aveva avuto un leggero soprassalto. - Testa di Pietra! - esclamò. - Che cosa vuoi? Che non possa mai riposare un momento? Non vi è sul ponte il signor Howard? Il mastro gli lanciò uno sguardo compassionevole e scosse la testa, poi disse: - È lui che mi ha mandato, sir William. - È scoppiato il fuoco a bordo? - Ah no, sir. - E allora? - È il fuoco invece che sta per caderci addosso. - Sulla mia corvetta? Ah! - Ci sono due navi che cercano di stringerci. - Due sole? - Ma non si sa ancora se siano due fregate o vascelli d'alto bordo, capitano. L'oscurità ci ha impedito di poterle scorgere a tempo. Il baronetto prese il bicchiere che gli stava dinanzi, lo vuotò lentamente, guardandolo nel fondo come se cercasse di scorgervi qualche immagine, poi disse: - Sei ben sicuro che siano due? - Sapete che Piccolo Flocco ha la vista lunga. Sir William si alzò, girò intorno alla tavola, tormentando colla sinistra la guardia della pesante sciabola d'abbordaggio, poi, fermandosi improvvisamente, chiese: - Americani o inglesi? - Per il borgo di Batz! ... Non hanno navi d'alto bordo gli yankees, lo sapete meglio di me; perciò bisogna concludere che siano proprio inglesi, distaccate da qualche squadra delle Antille. - Hai ragione Testa di Pietra. E così tutta la mia gente è inquieta? - Trovarsi fra due navi d'alto bordo non deve essere certamente una cosa allegra, comandante, quantunque la corvetta sia solida, bene armata e montata dagli ultimi corsari delle Bermude, che non hanno mai avuto nulla da invidiare a quelli del Golfo del Messico. - Che cosa dice il signor Howard? - Ha semplicemente comandato ai vostri uomini di prepararsi alla battaglia. Ha fegato, il vostro luogotenente, ve l'assicuro io. - Se non fosse stato tale, non l'avrei certamente imbarcato, - rispose il baronetto con un sorriso. Si appoggiò al tavolino, incrociando le. braccia, poi, dopo d'aver riflettuto un momento chiese: - Sentiamo un po'. Che cosa farebbe al mio posto il mastro d'equipaggio, che gode fama d'essere un vecchio squalo dell'Atlantico? - Per il borgo di Batz! Cercherei di svignarmela prima del sorgere del sole. - Tentando una falsa rotta? - Sì, comandante. - E se non riuscisse? - Allora monteremo all'abbordaggio come una muta di cani rabbiosi, e chi le prenderà le terrà. - Ventotto pezzi, forse contro cento o centocinquanta uomini, attaccati da due parti, forse contro cinquecento, sarebbe un giuoco pericoloso; non ho nessuna voglia di morire, devo andare a Boston, - disse il Corsaro. - Vi è la giunca che ci segue: ecco lo scoglio. Bah! l'affonderemo. - Coi suoi cento quintali di polveri? - esclamò il bretone, allargando gli occhi. - Sapete che gli americani hanno estremo bisogno di munizioni. - Per ora si contenteranno delle polveri che si trovano nella stiva. Non ho la potenza di Dio. Vi sono rasoi a bordo e in abbondanza, mi pare. - Rasoi? Volete segare le gole agl'inglesi? - Poi vi sono molte casse di vestiti da donna che abbiamo preso a quella nave proveniente da Belfast e destinati alle belle cubane; casse piene di cappelli per signorine ed ombrellini e guanti e ventagli. Ne abbiamo abbastanza per mettere a posto le due navi. - Coi rasoi, le sottane, gli ombrelli e i ventagli! - esclamò il bretone. - Scherzate, sir William. - Sarà un bellissimo scherzo che mi farà risparmiare polvere, palle ed uomini - disse poi. - La giunca se ne vada. - Che sia diventato pazzo per quella misteriosa Mary? - borbottò Testa di Pietra, guardandolo con spavento. - Peccato! Così audace e valente! Il Corsaro depose il bicchiere, rifece il giro della tavola, poi, fermandosi davanti al bretone, il quale non si era ancora rimesso dal suo stupore, gli disse: - Fa' affilare i rasoi e fà cadere i baffi e le barbe ai nostri uomini. Se vuoi cipria, ne ho alcune scatole che metto a tua disposizione. Poi farai aprire tutte le casse che abbiamo preso all'inglese e vestirai i miei uomini come tante miss e ladies. Non dimenticare i parasoli, i guanti, i ventagli e i cappelli. Voglio che la mia nave, prima che il sole ritorni, sia carica di belle o brutte donzelle. - Per il borgo ... - Lascia Batz ed il, suo cadente campanile! - rispose il Corsaro. - Ah, vi è la giunca! Manderai quattro o cinque scialuppe per portare il suo equipaggio sulla nostra corvetta, poi farai sfondare uno dei suoi fianchi e la lascerai colare a fondo. - Insieme alle polveri? - Non abbiamo il tempo necessario per trasbordarle, mio caro pesce-cane. Se gl'inglesi ci sorprenderanno ai primi chiarori dell'alba, il mio scherzo potrebbe finir male. E poi ci sono troppi baffi e troppe barbe da tagliare e otto ore non sono molte. - E voi credete di evitare un disastroso combattimento a colpi di rasoio? - Certo. - Hum! - Ne dubiti? - Un poco. - Possiedi una vecchia pipa alla quale tieni molto? - La comprò mio nonno a Smirne, centocinquantanni or sono. - Benissimo, - disse il baronetto. - Se riuscirò nel mio giuoco, mi regalerai quel vecchio ricordo di famiglia; se perderò ti darò cento ghinee, che andrai a raccogliere in fondo al mare dopo la battaglia, perché il baronetto William Mac Lellan morrà sul ponte di comando, ma non si arrenderà. Va', Testa di Pietra. Il bretone rimase qualche istante immobile, come trasognato, poi se ne andò col suo passo che marcava, ora il rollio ed ora il beccheggio. Sir William, appena rimasto solo, era tornato a sedersi dinanzi al tavolino. - Mary! - mormorò. - Sposa di lui? Mai, mai!.. L'infame che ha pure nelle vene il sangue di mio padre, me l'ha rapita; ma saprò riprendergliela. Sono un bastardo, dicono nella Scozia; un bastardo, dice mio fratello, perché sono nato da un'altra donna che non si chiamava lady Anna dei duchi di Lorne. Che colpa ho se mio padre si è innamorato d'un'altra donna che non era inglese e che non poteva sposare? Un marchese d'Halifax non sono, è vero. Giorgio IV mi ha creato nobile, eppure sono costretto, scozzese, a volgere le armi contro l'Inghilterra ... Succeda quello che deve succedere, riavrò Mary o mi uccideranno dentro le mura di Boston. Si accomodò i capelli fulvi, prese da un tavolino un paio di grosse pistole, e salì lestamente la scala che conduceva sul ponte, mormorando: - Andiamo a vedere se i barbieri lavorano.

. - Non voglio denaro da voi: ne ho guadagnato abbastanza. Non fatemi l'offesa di pagarmi questa bottiglia. - Sei un brav'uomo! - rispose il bretone con voce grave. - lo sapevamo. Si alzò e, battendogli su una spalla, aggiunse: - Spero di rivedervi presto. Credo che allora Boston non si troverà più in mano del signor Hower. Così saremo più sicuri e più allegri. Buona notte, mastro Taverna. - Da quale parte usciremo? - chiese il bretone al boia. - Dalla pusterla del bastione n. 7 - Avete il lasciapassare? - Certo, e porta la firma del generale Howe. - Potremo scendere fino alla corvetta? - E perché no? Taglieremo la discesa per traverso, e raggiungeremo il suo ancoraggio. In un quarto d'ora i tre marinai giunsero alla linea delle fortificazioni. Il comandante delle batterie, accorse munito d'una lanterna, lesse il lasciapassare, e diede l'ordine di aprire la pusterla. Due soldati, guidarono il carnefice ed i suoi due aiutanti fino all'estremità d'un tenebroso corridoio. La porta di ferro fu aperta, e mastro Testa di Pietra poté finalmente respirare l'aria pura che saliva dalla baia. - Orizzontiamoci - disse e badiamo alle palle. Le teste dei bretoni sono dure come le pietre del loro paese, tuttavia una disgrazia può toccare, e quando una zucca è rotta, il suo proprietario non ha altro da fare che lasciarsi portare al cimitero. Aveva appena terminato di parlare, quando sulla riviera della Mistica balenarono quattro lampi, seguiti da altrettante fragorose detonazioni. Avevano sparato i quattro mortai della corvetta, ed i quattro lampi avevano illuminata abbastanza bene, sebbene fugacemente, la nave. - È laggiù, sempre al medesimo posto - disse il bretone. - Si direbbe che i nostri marinai hanno voluto segnalarcela. Veniamo, camerati, non dubitate! Si erano messi a scendere la china, piuttosto ripida ed ingombra di cespugli. Aiutandosi l'un l'altro, in breve si trovarono sulla riva sinistra della Mistica, proprio di fronte alla corvetta. Il bretone, fece colle mani portavoce, e approfittando d'un momento in cui le artiglierie tacevano, gridò con tutto il fiato che aveva nei suoi ben capaci polmoni: - Marinai della Tuonante! Venite ad imbarcare il vostro mastro I quattro grossi mortai, che dovevano essere già pronti, fecero la loro scarica destando l'eco della riviera, ma appena il fragore cessò, si udì gridare: - Chi ci domanda? - Io. Testa di Pietra. - Attendi un momento. - Va bene, signor Howard - rispose il bretone, il quale aveva riconosciuto in quella voce il secondo della corvetta. Un momento dopo una baleniera veniva calata nel fiume e si dirigeva rapidamente verso la riva, dove il mastro continuava a gridare: - Ohè! Doë! In meno di mezzo minuto la baleniera prese terra, ed il contromastro della Tuonante balzò sulla riva, dicendo: - Voi, Testa di Pietra? E il comandante? - Zitto! - rispose il bretone. - Non è qui il luogo da svelare certi segreti. Si volse verso il boia, il quale si era seduto su una roccia e fumava la pipa. - Volete venire con noi? - domandò. - Qui non corro alcun pericolo, quindi posso aspettare il vostro ritorno. Testa di Pietra e Piccolo o Flocco balzarono nella baleniera, montata da sette rematori, e presero subito il largo, fendendo le torbide acque della Mistica. Giungere alla corvetta fu un momento. Testa di Pietra salì i gradini a quattro a quattro, e si trovò subito dinanzi al signor Howard e al colonello Moultrie. La stessa domanda, e nello stesso tempo, gli fu rivolta dai due uomini. - Dov'è sir William? - Signor tenente, - disse il bretone, mentre Piccolo Flocco abbracciava i marinai che se lo disputavano l'un l'altro - venite nel quadro. Ho gravi cose da dirvi. Sappiate per ora che il nostro comandante domani sarà impiccato nel forte Johnson. - Impiccato?- gridò Howard, diventando pallidissimo. Ora guardate un po' il costume che indosso, tenente, - rispose il bretone. - Non vedete che sembro un vero carnefice? Tutto rosso come il sangue che i boia fanno spillare in un modo o nell'altro ai poveri giustiziati. E questo mantello nero? Il bretone in poche parole li mise al corrente di quanto era avvenuto. - Preso! - esclamarono ad una voce il colonnello ed il tenente. - Adagio, miei signori; sé è preso non è però ancora stato impiccato - osservò il bretone. - Io e Piccolo Flocco siamo gli amici, anzi, gli aiutanti del carnefice. Il colonnello alzò una mano. - Avrete detto che l'hanno tradotto nel forte Johnson? - Dove andiamo per impiccarlo! - Voi? - Io? Impiccherei il comandante del forte, piuttosto! Per il borgo di Batz! Un bretone tradire il suo capitano? Oh, mai! Darei la mia testa per salvare la sua! - Signor Howard, - disse il colonnello assai preoccupato - da tempo i nostri capi hanno deciso di fare una scorreria sulla punta di Hoddrel per distruggere le difese inglesi alzate sul canale di Hog Island. Quel fronte Johnson, che batte coi suoi pezzi tutto il porto di Imes's Island, è il nostro incubo. Lo assalteremo. - Abbiamo debiti di riconoscenza verso il vostro comandante rispose il colonnello con voce solenne. - Senza l'arrivo della vostra corvetta, saremmo rimasti senza polveri, e l'assedio ed il bombardamento si sarebbero prolungati indefinitivamente. Abbiamo ancora estremo bisogno della vostra nave, la sola che possa tener testa ai pezzi delle fregate, dei brik e dei brigantini inglesi. - Concludete - disse il secondo, che era uomo di poche parole. - Quando appiccheranno il baronetto? - chiese il colonnello, rivolgendosi a Testa di Pietra. - L'esecuzione è stata fissata per domani sera alle sei - rispose il bretone. - Ho la parola del boia. - Signor Howard, alle quattro voi scenderete la Mistica colla vostra corvetta, e forzerete il canale di Hog Island per appoggiare il nostro attacco. Sarò là con duemila americani, scelti fra il fiore delle truppe e vi prometto di prendere d'assalto il forte. - Siamo d'accordo. - Qualunque cosa dovesse accadere troverete i miei uomini intorno al forte - rispose il colonnello. - Spero che i nostri provinciali, come li chiamano sprezzantemente gl'inglesi, sapranno fare miracoli. Dovete farmi però una promessa. - Dite. - Siamo ancora a corto di polveri. Salveremo il vostro comandante a prezzo del nostro sangue. Incrocerete fuori del porto, le prenderete d'abbordaggio, forzerete un'altra volta il blocco, e risalirete la Mistica. Boston è agli estremi, ormai lo sappiamo, e vogliamo averla al più presto nelle nostre mani. Non sarà che questione di giorni ma guai se ci difettassero le polveri! Sarebbe la nostra rovina. Trecento pezzi che tuonano giorno e notte ne consumano, e la grossa provvista che ci avete portata è già quasi esaurita in una sola settimana. - Colonnello, - disse il tenente, - checché debba succedere, io condurrò la Tuonante nel canale per tenere indietro le fregate inglesi; ma conto assolutamente su di voi. Il mio comandante non deve morire sulla forca. - Impegno il mio onore e la mia vita! - rispose l'americano. Howard si volse verso Testa di Pietra, che aspettava ansiosamente i suoi ordini: - Il boia vi aspetta sulla riva della Mistica, è vero, mastro? gli chiese. - Sì, tenente. - Che non vi abbia giocato qualche brutto tiro? - Quell'uomo? È un bretone come me! - Allora mi sento più sicuro; tuttavia nella baleniera farò collocare un petriere e raddoppierò l'equipaggio. I tradimenti piovono addosso in tempo di guerra. - Del mio uomo sono sicuro come di me stesso. I tre uomini salirono sul cassero. Howard diede rapidamente alcuni ordini al capomastro affinché si raddoppiasse l'armamento della scialuppa, poi disse: - Testa di Pietra, vegliate sul comandante. - Vi assicuro che non morrà impiccato, perché il laccio è stato già abilmente preparato dal boia. Si romperà subito, ed egli cadrà in piedi. - Andate, mio valoroso. - Piccolo Flocco, a me! - gridò il mastro. Il giovane gabbiere, fu lesto a raggiungerlo. Scesero frettolosamente la scala, e presero posto nella baleniera. Un petriere abbastanza grosso era stato collocato a prora, pronto a scagliare un nembo di frammenti di pietra, nel caso che fosse stato necessario, e l'equipaggio era stato portato a quindici uomini. - Voga, John! - disse Testa di Pietra al contromastro. - Non aver paura delle palle. - Oh! Ci siamo abituati - rispose il timoniere sorridendo. La baleniera, riattraversò il fiume e approdò dinanzi alla roccia, sulla quale il boia di Boston fumava ancora la pipa senza preoccuparsi del pericolo cui era esposto. Testa di Pietra e Piccolo Flocco balzarono a terra, dopo d'aver salutato i compagni, che avevano ripreso prontamente il largo. - Come vedete, sono stato di parola - disse il carnefice. - Andiamo? Testa di Pietra rispose con una vigorosa stretta di mano. Seguirono la riviera della Mistica, discendendola verso la foce, poiché la scialuppa inglese, che doveva portare il boia al forte, si trovava al di là della seconda barra. Dopo venti minuti i tre uomini giungevano in una piccola cala, dove aspettava una scialuppa, illuminata da un piccolo fanale, montata da otto fuciliere e da una mezza dozzina di marinai con un timoniere. - Chi siete? - gridò, mentre i fucilieri puntavano rapidamente i loro archibugi. - Il boia di Boston coi suoi due aiutanti - rispose l'ex-galeotto. - Imbarcate. I tre uomini salirono sulla scialuppa, mentre il timoniere, tenendo in una mano una pistola e nell'altra la lanterna, li esaminava attentamente. - Aprite i vostri mantelli! - comandò. I bretoni obbedirono. - Tutto rosso - va bene. Sedetevi a prora e non pronunziate parola. - Avreste paura di svegliare i pescicani? - chiese Testa di Pietra. - Chi siete? - Il primo aiutante del boia, capace d'impiccare anche voi, senza l'aiuto dei miei due compagni. - Silenzio! Non voglio farmi catturare dagli americani. Vi è quella maledetta corvetta che da un momento all'altro può piombarci addosso e sventrarci la scialuppa. - Macché! - rispose Testa di Pietra. - Dorme sulle sue àncore. I sei marinai tuffarono i remi, e l'imbarcazione attraversò velocemente la foce della Mistica, filando dietro l'ultima barra. Per sua fortuna i cannoni da caccia della Tuonante erano rimasti silenziosi. In lontananza scintillavano i fanali della flottiglia inglese, composta per lo più di navi invecchiate nelle acque americane e di scarsissimo armamento. Non vi era che una fregata, che potesse tentare di misurarsi colla corvetta. La scialuppa, dopo una buona ora giungeva dinanzi all'isola di Imes, su una punta della quale s'alzava minaccioso il forte Johson. Era questa una salda fortezza che, colle sue artiglierie, danneggiava gravemente la cittadella di Charlestown. I comandi americani, consigliati dal colonnello Moultrie, che godeva molta considerazione e molta fama, ne avevano decisa da tempo l'espugnazione e la distruzione, d'accordo col colonnello Ashe. Fra tutti disponevano di circa tremila stanziati, di tre o quattrocento scorridori, di cinquanta pezzi d'artiglieria di diverso calibro e di parecchie grosse scialuppe. Il colonnello Moultrie con una banda di arditi scorridori aveva devastata una parte dell'isola, costringendo le navi ad allontanarsi e la guarnigione a rinchiudersi più che in fretta nel forte: ma non aveva osato tentare l'attacco. Quindi non era da stupirsi, se Moultrie ed Ashe, si trovavano in quel momento imbarazzati. - Ci siamo? - chiese Testa di Pietra. - Ci siamo - rispose il carnefice. Il timoniere prese il fanale, vi sostituì un vestro rosso a quello azzurro che aveva posto prima, poi disse con voce rude e con una certa impazienza: - Venite! - Adagio, signor mio, - disse il bretone. - Non abbiamo i piedi dei marinai, e dobbiamo guardare dove li mettiamo. Anzi, favorite darmi una mano. - Io dare la mano ad un impiccatore! ... Oh, mai! - esclamò il timoniere. - Mi porterebbe sfortuna. - Invece le corde degl'impiccatori portano fortuna, e noi le vendiamo ad alto prezzo. - Non sarò certamente io che ve ne chiederò un pezzo - rispose il timoniere - Orsù, scendete prima che la risacca riempia d'acqua la scialuppa. Piccolo Flocco, spiccò per primo il salto e cadde sulla sabbia asciutta. Il boia di Boston fu il secondo, e vi riuscì per bene. Testa di Pietra prese così malamente le sue misure, che andò addosso al timoniere e si aggrappò a lui per non cadere. L'aveva fatto apposta? Vi era da crederlo. Il primo timoniere si era sbarazzato della stretta con una scrollata che non aveva per altro gettato a terra il malizioso bretone. - Voi mi avete toccato! - urlò. - Volevate che mi rompessi il naso? - chiese candidamente Testa di Pietra. - La vostra stretta mi sarà fatale! - Come se i carnefici non avessero carne, ossa e sangue al pari dei marinai. - Su, venite! Non ho tempo da perdere! - gridò il timoniere. - Ma fateci lume, perché, vedete, ho sempre tenuto alla conservazione del mio naso Si misero in cammino e giunsero dinanzi ad una delle due pusterle, che erano guardate da un grosso drappello d'artiglieria con due pezzi. Il timoniere scambiò col comandante della guardia alcune parole poi il drappello si divise in due, e lasciò libero il passo ai tre carnefici. Attraversarono un ridotto, passarono sotto parecchie volte, e furono introdotti in una sala dove si trovava un capitano. - I signori di Boston! - disse il timoniere. L'ufficiale, che stava seduto dinazi ad un tavolino, li guardò attentamente, poi chiese: - Chi è il boia? - Io, signore - rispose l'ex galeotto, facendo un passo innanzi. - Avete qualche lettera del generale Howe? - Eccola, signore. Il capitano la prese con un certo ribrezzo, l'apri e la lesse. - Va bene - disse poi. - avete portato con voi il laccio? L'esecuzione è stata fissata per domani, ad un'ora prima del tramonto. Pensate voi a innalzare domani mattina la forca; non abbiamo pratica di tali faccende. Nei magazzini del forte troverete il legname occorrente.. Avete fame? - Non abbiamo ancora cenato, signore - fu pronto a rispondere Testa di Pietra. - Vi farò mandare viveri. Per questa notte riposerete qui. Là vi sono brande. Ciò detto, si alzò e usci senza guardarli in viso, seguito dal timoniere.

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

"Pare che ne abbiano avuto abbastanza," disse il marchese. "Che si siano decisi a rinunciare ai loro progetti ladreschi?" "Non speratelo, marchese," disse Ben. "Finché ne rimarrà uno non ci lasceranno tranquilli. Torneranno presto. Hanno da seppellire i loro compagni e da buoni mussulmani verranno ancora qui per scavare le fosse." "Che vadano ora in cerca di aiuti?" domandò Rocco. "Sepolti i compagni, probabilmente si spingeranno fino all'oasi più vicina per levare armati," rispose Ben. "Quando però torneranno, noi saremo ben lontani." "Lasciamoli correre e raggiungiamo la carovana," disse il marchese. "Ci avanzeremo a marce forzate per giungere presto ai pozzi di Marabuti." Vedendo che i Tuareg non accennavano a fermarsi, spronarono i cavalli e con una galoppata di mezz'ora raggiunsero la carovana, la quale in quel frattempo aveva continuato la sua fuga verso il sud. Alla retroguardia trovarono Esther colla piccola carabina in mano, pronta a proteggere la carovana e a portare soccorso al marchese ed ai suoi compagni. I due beduini ed il sahariano mostravano invece uno sbigottimento tale, da far scoppiare dalle risa Rocco. "Non potremo fare molto assegnamento su questi uomini," disse il marchese, osservando i visi sconvolti dei marocchini. "I due beduini parlavano di abbandonarvi," disse Esther. "Se non avessero avuto paura della mia carabina e del fucile di El-Haggar, non sarebbero forse più con noi." "Ed anche El-Haggar mi pare abbastanza spaventato," disse Ben. "Signore," disse in quel momento El-Haggar, accostandosi al marchese, "è necessario marciare senza perdere tempo; quei Tuareg torneranno con altri compagni. Essi non cesseranno l'inseguimento finché non avranno vendicato i loro morti." "E tu hai una paura indiavolata di loro, è vero, El-Haggar?" rispose il marchese. "So quanto sono tenaci nelle loro vendette, signore. Avete fatto male a prenderli subito a fucilate." "Volevi che mi lasciassi ammazzare come quei disgraziati che abbiamo veduto ieri?" "Non dico questo; si poteva venire a patti con quei predoni. Probabilmente si sarebbero accontentati d'una terza o quarta parte delle vostre mercanzie come diritto di passaggio." "Io sono uso a non tollerare imposizioni da parte di chicchessia, mio caro El- Haggar. Il deserto appartiene a tutti e chi vorrà impedirmi d'attraversarlo avrà a che fare col mio fucile. Lascia andare i Tuareg e le tue paure insieme e cerchiamo di frapporre fra noi e quei bricconi il maggior spazio possibile." "Ben detto, marchese," disse Esther. "Noi non abbiamo paura di quei ladroni. Partiamo." La carovana, che aveva fatto una brevissima sosta, si ripose in cammino attraverso quelle eterne ondulazioni sabbiose, le quali pareva non dovessero avere più confine. Quelle immense pianure non variavano. Sempre dune, poi dune ancora, con qualche magro cespuglio quasi disseccato dal sole e qualche scheletro di cammello biancheggiante sinistramente fra quelle sabbie ardenti. Nessuna palma che annunciasse la presenza d'un pozzo si scorgeva in alcuna direzione, come pure non si vedeva alcuna roccia che rompesse la desolante monotonia di quelle pianure. Il marchese e Ben si erano collocati alla retroguardia onde prevenire qualunque sorpresa, mentre Rocco e El-Haggar si erano messi all'avanguardia, tenendo i fucili dinanzi alle selle. El-Melah invece aveva ripreso il suo posto a fianco del cammello montato da Esther. Il sahariano, poco ciarliero come la maggior parte dei suoi compatrioti, non aveva ancora rivolto alla giovane una sola parola, però mostrava verso di essa un attaccamento strano. Ogni volta che la giovane lo guardava, era certa d'incontrare gli occhi neri, brucianti di lui, e ne riceveva un'impressione disgustosa e di paura. Nel lampo di quegli sguardi vi era qualche cosa di misterioso ed insieme di bestiale e di minaccioso, che la giovane non sapeva spiegarsi. Non aveva però fino allora avuto di che lamentarsi di quell'uomo. Anzi non aveva nemmeno il tempo di formulare un desiderio, che già El-Melah, come l'avesse indovinato, la esaudiva. Se una scossa del cammello apriva troppo la tenda, s'affrettava a richiuderla onde il sole non vi penetrasse; se vi era da salire una duna, prendeva subito la briglia e guidava l'animale adagio, con prudenza, onde non cadesse; se Esther aveva sete, lo indovinava dallo sguardo ed era pronto ad offrirle l'otre. Mai però una parola, né un sorriso, né un gesto che tradisse una qualche compiacenza nel renderle quei servigi, che d'altronde nessuno gli chiedeva. "La paura provata durante quella lunga agonia, e fors'anche quell'orribile scena del massacro, devono avergli sconvolto il cervello," aveva detto la giovane. "Lasciamo che mi guardi." Un momento però, aveva avuto un timore ben diverso. Aveva sorpreso negli sguardi del sahariano un lampo terribile nel punto in cui il marchese si era appressato al cammello che la portava, per scambiare con lei qualche parola. Quello sguardo però si era subito spento ed il viso di El-Melah, per un poco alterato, aveva ripreso la sua impassibilità consueta. Alla sera la carovana, sfinita da quella lunga marcia, s'arrestava fra due alte dune che formavano due bastioni naturali, nel caso che i Tuareg avessero cercato di approfittare delle tenebre per sorprenderli. "Con due sentinelle sulla cima delle dune, noi potremo dormire tranquillamente alcune ore," aveva detto il marchese, dando il segnale della fermata. Mentre si preparava la cena e si alzavano le tende, fece una galloppata verso il nord in compagnia di Ben, onde accertarsi che i Tuareg non li avevano seguiti, tenendosi nascosti dietro alle dune. "Pare che abbiano rinunciato ad inseguirci," disse il marchese a Rocco ed al moro. "Non abbiamo veduto nessuno." "Non illudetevi, signore," rispose El-Haggar. "Quei predoni non ci lasceranno tranquilli, lo vedrete." "Io dico invece che ne hanno avuto abbastanza e che non ci seccheranno più." "Badate a me, signore, che ho assistito al massacro della spedizione della signora Tinnè." "Chi? Tu?" esclamò il marchese, stupito. "Sì, signore, e dovrei essere morto fino da allora." "Chi era questa signora Tinnè?" chiese Esther, con curiosità. "Una donna europea forse?" "Una delle più ricche e delle più belle giovani dell'Olanda," rispose il marchese. "Ed è stata assassinata qui?" "Sì, in questo deserto. Ceniamo ora, poi vi narrerò quel massacro che ha commosso l'intera Europa. Forse da El-Haggar udremo dei particolari che tutti ancora ignoriamo." "Se i Tuareg ce ne lasceranno il tempo," disse il moro, i cui sguardi si erano volti verso una bassura che si estendeva verso l'est. "Si avvicinano?" chiese il marchese, alzandosi vivamente. "Non sono essi per ora; ma se quei giganteschi volatili fuggono, ciò significa che degli uomini li inseguono o che li hanno spaventati." "Di quali volatili parli?" "Non vedete una nube di polvere alzarsi dietro quelle dune e avanzassi velocemente verso di noi?" "Vediamo," rispose il marchese. "È una banda di struzzi, signore." "Una bella occasione per procurarci un superbo arrosto," disse Rocco. "Devono essere stati i Tuareg a costringerli a prendere il largo," insistette El-Haggar. "Ne sei certo?" chiese il marchese. "Lo suppongo, signore." "Ebbene," disse il marchese con voce tranquilla, "prima occupiamoci di questi superbi volatili; poi penseremo ai Tuareg. E tu, Rocco, fà preparare un bel fuoco: vi sono qui molti sterpi da raccogliere." La nube di polvere ingrandiva a vista d'occhio e s'avvicinava con una rapidità prodigiosa. La banda doveva passare in mezzo alla bassura, a meno di mezzo chilometro dall'accampamento, a quanto pareva. Il marchese, Esther e Ben si slanciarono in mezzo alle dune e andarono ad appostarsi dietro un monticello di sabbia, il quale sorgeva isolato quasi nel mezzo della bassura. Gli struzzi s'avanzavano in fila, correndo e sbattendo vivamente le ali per aiutarsi meglio. Erano una diecina, tutti bellissimi e di statura gigantesca, e ricchi di quelle piume preziose che sono così ricercate e così ben pagate sui mercati europei ed anche americani, bianche sotto il ventre e sotto la coda e nere lungo il dorso e le ali. Questi volatili sono ancora numerosissimi nel Sahara e vivono là dove altri animali non potrebbero resistere, potendo sopportare lungamente la sete al pari dei cammelli. Raggiungono talvolta un'altezza superiore ai tre metri, hanno il collo e le gambe spoglie di piume, un becco robustissimo e piedi poderosi. Le loro ali invece sono così brevi da sembrare piuttosto moncherini, sicché non possono che aiutare la loro corsa, ma non servono per volare. Sono nondimeno rapidissimi corridori e vincono facilmente i cavalli. È nota la prodigiosa robustezza dei loro stomachi poiché in mancanza di altro, si nutrono perfino di sassi che digeriscono come fossero pagnottelle! I dieci struzzi, i quali parevano realmente in preda ad una viva agitazione, sfilavano come trombe, col collo teso, gettando in aria coi loro robustissimi piedi nembi di sabbia e di pietre, muovendo diritti attraverso la bassura. Pareva che non si fossero ancora accorti della presenza dei cacciatori, quantunque siano dotati d'una vista acutissima e d'un olfatto perfetto che permette loro di fiutare i nemici a grandi distanze. "Sembrano veramente spaventati," disse il marchese, il quale li osservava con viva curiosità. "Sì," confermò Ben; "però non credo che siano stati i Tuareg a metterli in fuga. Mi pare d'aver veduto degli animali correre dietro le dune." "Che gli struzzi siano inseguiti da qualche banda di iene?" "Rimarrebbero subito indietro, marchese," disse Ben. "Ah! Guardateli i cacciatori!" Essendo le dune terminate, gli inseguitori dei giganteschi volatili erano stati costretti a smascherarsi onde attraversare la radura. "I caracal!" esclamò il marchese. "Ah! I ladroni! Adagio, miei cari! A voi gli struzzi, a me quegli arditi predoni." I caracal, chiamati anche, e forse impropriamente, le linci dei deserti, erano almeno una trentina e correvano disperatamente sulle orme degli struzzi, facendo sforzi prodigiosi per isolarne qualcuno. Erano bellissimi animali, non più alti di settanta od ottanta centimetri, con una coda lunga trenta, di corporatura svelta, cogli orecchi lunghi e sottili ed il pelame giallo fulvo sul dorso e biancastro sotto il ventre. Vivono di preferenza nei deserti inseguendo con un coraggio incredibile struzzi e gazzelle e facendo gran vuoti fra le pecore dei duar. Svelti corridori, percorrono distanze straordinarie e non lasciano le prede finché non le hanno raggiunte e fatte a pezzi. Selvaggi, indomabili e astutissimi, costituiscono un vero pericolo per tutti gli abitanti del deserto, escluso l'uomo che non osano assalire, ed il leone che seguono a distanza per divorare gli avanzi delle sue prede. I caracal manovravano con una rapidità ed una precisione veramente ammirabili, cercando di tagliar fuori uno degli struzzi che pareva il meno resistente e che malgrado i suoi sforzi disperati rimaneva sempre l'ultimo della banda. Gli mordevano ferocemente le zampe, senza badare ai calci furiosi che lanciava il volatile, e gli balzavano dinanzi tentando di azzannargli il petto. Pagavano di frequente cara la loro audacia, perché qualcuno di quando in quando veniva scagliato in aria colla testa fracassata dai robusti piedi dell'uccello gigante. "Strappiamolo ai caracal," disse il marchese. Approfittando del momento in cui lo struzzo era riuscito a guadagnare sui suoi avversari una dozzina di metri, fece fuoco sul caracal più vicino. L'animale mandò un acuto guaito e cadde. Quasi nel medesimo istante anche il povero struzzo, colpito dalle palle di Esther e di Ben, stramazzò. Udendo quegli spari, i caracal si erano arrestati guardando le tre nuvolette di fumo che s'alzavano dietro alla duna. Vedendo comparire subito i cacciatori, abbassarono le code e partirono ventre a terra dalla parte donde erano venuti. Frattanto lo struzzo, abbandonato dai compagni già lontanissimi, era tornato ad alzarsi. Fece ancora cinque o sei passi zoppicando, poi tornò a cadere e questa volta per non più rialzarsi. Il marchese in pochi salti lo raggiunse, gli strappò un bel mazzo di:i piume candidissime e porgendole a Esther, le disse con galanteria "Alla bella cacciatrice." "Grazie, marchese," rispose la giovane, arrossendo di piacere. Ben si era accontentato di sorridere.

IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

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Bertelli, Luigi - Vamba 3 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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È passata una notte sola, da che il babbo, la mamma e Ada sono andati via, e posso dire di essere abbastanza contento di me. È vero che ieri ruppi lo specchio in camera della mamma, ma quella fu proprio una disgrazia. Ero con Carluccio a giocare a palla in quella stanza, con l'uscio chiuso, perché Virginia non sentisse, quando la palla, che avevo legata alle calosce di mia sorella, per vedere se rimbalzava di più, andava a colpire lo specchio sul cassettone, che, com'è naturale, si ruppe in mille pezzi, rovesciando sul tappeto nuovo una bottiglia d'acqua di Colonia. Allora pensammo di andare a giocare in giardino; ma ecco che dopo pochi minuti comincia a pioviscolare. Fummo costretti a rifugiarci in soffitta e rovistare tutte quelle antichità. Quando più tardi andai a pranzo, mi misi addosso una vecchia zimarra del nonno, che avevo trovato appunto in soffitta; e non so dire le risate che fecero Virginia e Caterina nel vedermi così travestito. Avrò la bicicletta? Mi pare di essere stato abbastanza buono.

La scena alla quale avevo assistito dal palchetto era stata brevissima, ma abbastanza interessante. Se non altro essa mi aveva dimostrato che l'altra notte la direttrice parlando delle patate non si era rivolta al cuoco come mi aveva fatto supporre la grande libertà di linguaggio adoperato, ma aveva parlato col direttore... La signora Geltrude quando diceva: imbecille! si rivolgeva proprio al suo marito in persona!... Oggi è una grande giornata; è venerdì, e noi della Società segreta aspettiamo con ansia l'esito del nostro strattagemma per scoprire se la minestra di magro è fatta o no con la rigovernatura dei piatti...

Ma in quanto a proseguirlo, caro mio, lo proseguirai a casa tua, perché io ne ho abbastanza! -