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PRIN 2012 - Accademia della Crusca
§Il tramonto d’una scura giornata di novembre, col cielo coperto di tediose caligini fra le quali l’ultima luce filtrava livida e triste; l’agonia del giorno e dell’anno, un senso di freddo in tutte le cose, nella campagna silenziosa e deserta, negli alberi dai rami sfrondati, nel mare d’un grigio metallico flagellato dal vento, nel cuore degli uomini che avevano visto cadere ad una ad una tutte le loro illusioni… – Pensate voi – diceva Ludwig –, alle primavere future?… Quante anime nuove esulteranno! Quante speranze fioriranno nelle vergini fantasie? Quante mai vite si schiuderanno ai sorrisi del sole! – Il nostro egoismo si ribella a questo pensiero – soggiungeva Franz.– Poiché noi ce ne andiamo, vorremmo che l’universo s’inabissasse con noi, che nessun altro potesse più dissetarsi alla coppa distolta per sempre dalle nostre labbra avide ancora… – Ma – ribatteva Fritz –, anche gli altri morranno! Anche gli altri vedranno mancare il dolce liquore prima di averlo assaporato… Perché li invidiate? Dovreste compiangerli!… No, i venturi non sono da invidiare; degni d’invidia son quelli che furono o che non sono mai stati…– Quando Fritz tacque, il silenzio ripiombò tutt’intorno; udivasi solamente il gemito lugubre del vento e il leggiero tremolìo d’un vetro mal commesso nella intelaiatura della finestra. Gli sguardi dei tre uomini avevano espressioni diverse. Ludwig guardava il mar grigio con i suoi grigi occhi profondi, e sembrava cercare qualcosa di là dalla linea in cui l’acqua e le nubi si confondevano; Franz, con una mano fra i capelli, mirava come affascinato un punto del pavimento ai suoi piedi, e Fritz batteva rapidamente le palpebre, girando il capo, quasi per sottrarsi ad una molesta visione. – I morti amori! – Franz, nel silenzio incombente, aveva pronunziato quelle parole; ma, poi che una medesima idea occupava lo spirito degli altri amici, essi si riscossero, ripetendo a fior di labbra: – I morti amori… – Vi fu ancora silenzio; poi Ludwig, il curioso, domandò: – Sapete voi dirmi in quanti modi può morire l’amore?… – No, nessuno può dirlo – rispose Fritz.– Possiamo dire questo soltanto: che l’amore muore in tanti modi quante sono le anime che lo nutriscono. – Ma qual morte è più trista? – Sono tutte tristi del pari –. A quel giudizio, Franz sorse in piedi. – Non dite così! Non dite così!… Tristi egualmente? Egualmente strazianti?… Vuol dire che voi non sapete!… Allora, sentite. Vi è una potenza terribile, misteriosa, fatale, che se piomba intorno a voi vi fa misurare d’un subito tutto l’abisso della vostra miseria; una potenza contro la quale non v’ha riparo che valga; una potenza che si rivela tutti i giorni, tutti i momenti, ma della quale voi non v’accorgete se non quando colpisce qualcosa di vostro. Questa potenza è la Morte… Sentite. Esiste nel mondo una creatura che è l’anima della vostra anima, per la quale voi dareste tutto il sangue vostro, lontano dalla quale voi non potete vivere neppure un istante. Questa creatura, bella, buona, soave, nel fiore degli anni, si è data a voi, per sempre; voi avete imparato, ogni giorno di più, ad apprezzarla, ad amarla. Tutte le vostre confidenze più intime, tutte le vostre parole più tenere, tutte le vostre carezze più blande sono per lei. Voi non vedete se non coi suoi occhi, non respirate se non con le sue labbra, non vivete se non della sua vita. A un tratto, la truce potenza si piega su lei. Voi potete inginocchiarvi dinanzi agli uomini che, per ironia, si chiamano della scienza, scongiurarli piangendo di sottrarla alla potenza malvagia; voi potete giungere le mani, alzare lo sguardo al cielo, ricordarvi le preghiere apprese da fanciullo, dire a Dio: "Io credo in Voi, abbiate pietà di me…", voi potete dire a lei stessa, con voce rotta, passandole una mano fra i capelli madidi di sudore, stringendo con l’altra la mano sua sempre più fredda: "Per pietà, non morire, non voglio che tu muoia, non mi lasciare, ho paura!…", voi non riuscirete ad arrestare un minuto l’opera di distruzione. E una notte tremenda voi vedrete il suo sguardo rovesciarsi, le sue labbra dischiudersi, irrigidirsi il suo corpo. Vorrete fuggire lo spettacolo orribile, e un’attrazione più forte della vostra volontà v’inchioderà lì dinanzi. Morta!… Morta!… Morta!… Allora esaurirete tutte le vostre lacrime e tutte le vostre imprecazioni. Morta!… Morta!… Morta!… E vi ripeterete quella parola fino a smarrirne il significato. A un tratto, vi sovverrete di quel giorno che un giorno ella vi disse: "Se morrò prima di te, vestimi di bianco, coi capelli disciolti; non voglio che i becchini mi tocchino…". Allora ella rabbrividiva da capo a piedi, a quest’idea; adesso non ha più un sol moto. Voi contemplate il suo viso dove una bellezza nuova, soprannaturale, divina, si va dipingendo; vorrete recidere una ciocca dei suoi capelli, e di repente vi ricorderete di quella che ella stessa recise, che vi diede un giorno, il giorno delle beate promesse. Voi vi dite: "Ho ancora molte ore per contemplarla" e quelle ore passano, volano. Allora vi mettete a gridare, a soffocare le vostre grida. E se un amico pietoso tenta di confortarvi, voi odiate quell’uomo, odiate ogni vivente, aborrite la vita… Ah, sono tutte tristi egualmente le morti dell’amore? Ma voi non avete composto in una bara le forme adorate che teneste strette fra le vostre braccia; non avete sentito opprimervi il petto pensando all’oppressione che ella soffrirà sotterra; non avete visto cadere la terra sulla bara, coprirla, nasconderla… Voi non avete provato cosa vuol dire sognare che ella è ancora accanto a voi, e risvegliarvi pensando alla vostra solitudine, alla vostra solitudine eterna!… E non avete provato, tormento ineffabile, strazio senza parole, il lento svanire del fantasma, dell’imagine, del ricordo, malgrado tutti i vostri sforzi per vivificarlo, per afferrarlo, per trattenerlo ancora… – Egli tacque. Ludwig pareva non avere ascoltato, immerso sempre nella contemplazione del mare. Fritz, che aveva nervosamente arricciati i suoi baffi, replicò: – Tu dunque credi che la più angosciosa morte dell’amore sia quella prodotta dalla morte della creatura amata? In verità, mi fai ridere –. Alla luce sempre più scialba del fosco tramonto, il suo viso appariva pallidissimo; le sue labbra s’atteggiavano a un sorriso sarcastico. – Tu accusi la morte! Non sai tu dunque di che cosa è capace la vita?… Ti duole che una potenza fatale distrugga il sogno d’una gioia senza fine! Ma tu non pensi che, in ragione di questa stessa fatalità, il tuo spirito finisce per acquetarsi! Sta dunque a sentire. V’è una creatura che t’ha detto: "Sono tua, per sempre". Chi è che distrugge il senso di queste parole? Ella stessa!… Ella t’ha detto che t’ama, e un bel giorno ti dice: "Non t’amo più!". Bada ancora: al tempo dell’amore felice, ella ti ripeteva, malinconicamente: "Sarai tu quello che mi lascerai!". Tu allora protestavi, giuravi, non sapevi né potevi darle una prova del suo inganno. Adesso, quando ella ti ha detto che non t’ama più, quando t’ha fatto comprendere che fra te e lei non v’è più nulla di comune, che cosa fai tu? Sei preso da un impeto di sdegno, la colmi di rimproveri, la minacci? No!… Tu ti getti ai suoi piedi, le ricordi le sue parole, le dici: "Com’è possibile questo? È impossibile, non è vero? È una prova alla quale tu vuoi mettermi, è una paura che vuoi farmi… Tu sei mia, tu m’hai detto che non potevi vivere senza di me… Che cosa t’ho fatto? quali colpe ho commesse?…". Ella tace. Tu ti batti la fronte e riprendi: "Sì, ho una colpa… Non t’ho provato ancora abbastanza quanto sia forte l’amor mio… Sai bene, la parola è importante, il pensiero non si esprime mai tutto. Ma guardami in fondo all’anima: non vedi come è tutta piena di te? Io sento in questo momento che non t’ho mai amata tanto…". Ella scuote il capo, ti oppone fredde ragioni, ti addebita colpe insignificanti di cui ella stessa non è immune. Tu non le rimproveri le sue; le prendi una mano, la scuoti, la guardi negli occhi, la chiami col dolce nome antico. Ella s’irrigidisce, ti respinge, evita il tuo sguardo; allora una luce si fa nel tuo spirito: ella ama un altro. E la terra ti manca sotto i piedi. Quella creatura, quell’anima, quel corpo, sono d’un altro! È possibile? Glie lo chiedi, con voce strozzata, gemendo ed urlando, ed ella protesta freddamente, risponde che non ha conti da renderti. Il tuo orgoglio d’uomo è ferito; ti senti un grande sdegno ribollire nel cuore; non dici nulla. Ti alzi, le stringi una mano, fai per andar via. Ma sei legato con tanti e così sottilissimi fili a quelle mura, a quella persona, che senti il tuo cuore lacerarsi. Che ti dice ella? Ti dice: "Addio!". All’uscir da quella casa, con la fronte in fiamme, un martello alle tempie, la gola stretta, le labbra inaridite, ti metti quasi a correre, incapace di coordinare le tue idee, non riconoscendo nessuna delle persone che incontri per la via, occupato soltanto dell’oscuro pensiero che ormai la percorri per l’ultima volta. E una parola ti risuona all’orecchio: quell’addio terribile, la parola che si pronunzia nelle agonie, nelle separazioni senza ritorno, nelle ore fatali della vita – la parola che fiacca il tuo sdegno, che seda i tuoi istinti di ribellione, e che ti stringe il cuore, ti brucia gli occhi, ti toglie il respiro… Tu pensi: "Non la vedrò dunque mai più?… Non sentirò il suo capo appoggiarsi al mio petto, non stringerò più la sua mano, non bacerò più la sua fronte?…". Passano giorni vuoti, monotoni, eterni. Tu ritrovi le sue lettere, i suoi ritratti; ed hai paura di toccarli, di mutarli di posto. Diventi superstizioso. Ad ogni squillo di campanello, pensi: "È lei che mi scrive, che si pente, che mi chiama…". Nulla! Tutto è finito! Tu non la vedrai più, mai più, mai più! Allora, a queste parole che tu ripeti incessantemente, disperatamente, la tua ragione vacilla. Perché mai più? Che cosa può vietare che due esseri viventi si rivedano ancora? Quali insuperabili barriere, quali distese di mare e di terre li posson dividere? Quali catene impedire che tu ti slanci verso di lei? E vuoi rivederla; a costo di tutto, bisogna che tu la riveda. Davanti a lei, la tua passione scoppia selvaggiamente. Minaccioso e supplice, cominci per dirle: "Ti ammazzerò!" e poi le mormori piano: "Io so ancora tante parole d’amore che non t’ho mai dette!…". Ella si scuote, ti blandisce, ti prega di non farle male, ti scongiura di rassegnarti, di farti una ragione, di accordarle la pace. Naturalmente, non si può sempre parlare, gridare, piangere, mordersi. E stanco, esausto, sfinito, vai via; questa volta, lo comprendi bene, per sempre. Solo, in silenzio, riprendi a piangere, la piangi come morta; ma ella non è morta per gli altri; è morta per te. Tu la scorgi, talvolta; e provi il bisogno pazzo di andare nuovamente a piangerle vicino, di toccarla, di contemplarla. Se ella fosse morta, se la terra la ricoprisse, un pacificamento avverrebbe nel tuo spirito; tu non avresti quelle tentazioni, la tua piaga non si riaprirebbe tutti gl’istanti. Tu non penseresti di tentare ancora una volta la resurrezione di quel passato il cui ricordo ti brucia come un carbone ardente – perché, rammentalo, l’idea dell’impossibile, dell’irreparabile ripugna in grado supremo all’anima nostra; per ciò la speranza è l’ultima a morire. La morte ha questo di buono: uccide la speranza. Invece, tu speri ancora, tu dici: "È forse impossibile che questo passato risorga? No: basta ch’ella voglia…". Allora pensi a tutti i suoi momenti buoni, a tutte le prove di tenerezza che ella ti diede; vorresti rammentargliele, vorresti gettarti nuovamente ai suoi piedi, fare appello alla sua pietà. Tu pensi: "Se ella dice di sì, che tripudio scoppierà nell’anima mia! Questa benda di ferro che mi fascia la testa cadrà! Che aria vivificherà il mio petto oppresso! E come impazzirò di gioia dopo essere stato sul punto d’impazzir di dolore!…". Ed ella ti risponde: "No!…". Accusa la morte, adesso!… Per la creatura morta, tu provi una infinita pietosa dolcezza, una soave malinconia rassegnata; per questa creatura viva il rancore, il livore si mescola alla tua passione e la intorbida e la corrode e ti strugge… – Tacque anch’egli, ansando un poco. Franz non aveva opposto nessuna ragione agli argomenti di lui; Ludwig se n’era rimasto sempre a guardar l’orizzonte che adesso, nella sera già calante, non si distingueva più. – Conosco – diss’egli finalmente, portandosi le mani alla fronte e passando le palme sulle sopracciglia –, conosco una fine d’amore più triste ancora di tutte coteste –. I due amici lo guardarono. – La fine d’amore più triste, più tormentosa, più tragica, è un’altra. Non è la brutale che segue alla morte, o all’abbandono, al tradimento: è la fine lenta, lunga e quotidiana, l’esaurimento continuo prodotto dall’azione del tempo, dal fatale svanire d’ogni cosa umana. Il giorno che voi avete confessato l’amor vostro, che ne avete ottenuto il ricambio, vi siete detto: "È per sempre! per sempre!". Voi credete a questa parola! pensate che se qualcosa d’indipendente dal vostro volere non accadrà, l’amor vostro durerà eternamente. Ed è, dapprima, il tripudio più puro fra le proteste più pazze. Un sentimento di meraviglia occupa il vostro spirito: pensate alla creatura che vedeste un giorno da lontano; alla quale parlaste col rispetto più timido, per la quale sentiste nascere il desiderio più disperato – e questa creatura adesso è vostra, vi appartiene tutta! Voi quasi nol credete; se la vedete, talvolta passar da lontano, il dubbio rinasce nel vostro spirito. Nel cuor vostro, una gratitudine immensa, una devozione sconfinata raddoppia l’amore. Tutti i giorni, voi le scrivete, le mandate qualcosa del vostro pensiero, del vostro cuore. Ella impara a memoria le vostre lettere, ve ne ripete dei passaggi, ve ne domanda delle altre. Voi ricominciate, ancora, sempre; ma, senza accorgervene, le antiche espressioni vi ritornano sotto la penna e, a poco a poco, finite col ripetervi. Sono le parole che vi mancano? Che importa! Voi pensate che da tutti i vostri atti, da tutta la vostra vita, ella dev’essere assicurata della saldezza del vostro affetto. Ella non pensa così; si lagna del vostro raffreddamento, fa consistere il bene in certe cose che per voi non hanno significato. State in guardia: voi cominciate a scorgere i difetti nell’idolo. E, se chiudete gli occhi per non vederli, altri invece se ne rivelano. Allora voi vi fate una ragione; tutte le creature umane non hanno forse i loro?… Sapete che cosa vuol dire questo? Vuol dire che dal periodo epico e leggendario, voi già passate al periodo critico. Voi vi ammirate per la vostra penetrazione, per la vostra ragionevolezza. Il vostro egoismo vi mantiene pertanto in una illusione; vi dimostra che voi, dal canto vostro, non avete difetti di sorta; ella non può, non deve trovarne in voi. Un bel giorno, una sua parola, l’accento col quale ella la pronunzia, vi aprono gli occhi; ella ha scoperto i vostri difetti secreti, le vostre debolezze intime, quel che c’è in voi di manchevole, di men bello. Allora il vostro amor proprio s’impunta. E vi chiudete in un offeso riserbo, o vi vendicate dicendole apertamente i suoi torti. Adesso ciascun di voi giudica l’altro, senza riguardi, per quel che vale. Un istinto d’avversione si sveglia dentro di voi; ma i legami che vi stringono a quell’essere sono tanto forti che non si spezzano. E sapete a che cosa somiglia allora la vostra situazione? Rassomiglia a quella di due forzati avvinti da una stessa catena, ciascuno dei quali è costretto a non fare un passo che l’altro non faccia… Quando voi pensate all’illusione dei primi giorni, vi chiedete: "Come mai s’è dissipata?". E non sapete rispondere; il disinganno s’è venuto operando lentamente, inavvertitamente. Presto s’accresce ancora, presto voi vi domandate una altra cosa, la cosa opposta: "Come ho fatto ad illudermi?". Tanto profondo è l’abisso scavatosi!… Tutto questo vi fa paura, perché quel complesso di moti diversi ed opposti che si chiama l’amore è ancora in voi. Ecco: voi chiudete gli occhi, abolite la percezione del mondo circostante, guardate in fondo alla vostra memoria. Il ricordo dei giorni sereni vi brilla: perché non potreste riafferrarli? La donna che voi amate non è morta, non v’ha abbandonato, è sempre vicina a voi; ma sapete che avviene? Ella non è più la stessa che conosceste un giorno. L’assiduità con la quale l’avete contemplata, esaminata, studiata, ha finito per alterare le linee del suo viso, della sua persona; per farvi scoprire in lei degli aspetti, delle attitudini, delle espressioni, che prima non avevate visti. Voi vi sforzate di ritrovarla come al tempo in cui nacque l’amore; per questo, la rimettete nella stessa luce in cui prima v’apparve, ed esumate tutti i vostri ricordi, e vi riportate continuamente col pensiero al passato. Ogni sforzo è inutile: no, non è più lei… Le sue carezze d’ora non sanno più come le prime, le sue parole d’ora non hanno il suono delle antiche. Voi comprendete che uno stesso fenomeno accade in lei, ma nessuno di voi ha il coraggio di dirlo. Ella vi domanda di ripeterle le parole innamorate che le prodigaste; voi le ripetete, e un’ironia amara vi torce le labbra. Lontano da lei, vi proponete di dirle tutto, sinceramente, di non rappresentare più oltre una commedia; trovate le parole, cominciate una lettera, ma non avete la forza di compiere il vostro proposito. Se qualche momento di tenerezza ritorna, dovreste esultare, non è vero? Invece, il vostro scontento s’accresce; vi accusate di fiacchezza, di imbecillità; avreste voglia di percuotervi, di insultarvi… – L’ultima luce agonizzava, un chiarore verdastro si diffondeva sotto le nuvole pesanti, illividiva i volti dei tre uomini al cui sguardo la desolata campagna e il mare flagellato formavano come un paesaggio appartenente a un altro mondo, più vuoto, più freddo, più lugubre. – Chi non ha conosciuto questo – riprendeva Ludwig –, non sa nulla delle agonie sentimentali, della vanità degli affidamenti, dei giuramenti umani. Per sempre!… Non è una potenza ineluttabile, non è una volontà estranea alla vostra che distrugge questa promessa; è il vostro stesso cuore; siete voi che ridete di voi! La fine più brusca, la rottura più repentina non hanno nulla di tanto lacrimevole quanto questa agonia. La pietà si mescola allo sdegno ed al sarcasmo; in certi momenti, dimenticate il vostro scontento, pensando al dolore che si rovescerà su voi due quando le parole irrevocabili saranno pronunziate… E prolungate l’inganno, e soffrite, e fate soffrire; finché, un giorno, quando meno ve l’aspettate, a proposito di nulla, tutto finisce… Sapete allora quello che accade? – Nessuno rispose. L’oscurità invadeva la stanza; nessuno pensava a fare accendere un lume. – Accade, al morale, qualcosa di simile a quel che avviene al fisico, quando una parte del vostro corpo, mortificata, distrutta, è portata via dal ferro del chirurgo. Sapete quel che si legge nei libri: l’infermo, spasimante, s’acqueta sotto l’azione torpente dell’etere. Dapprima, un senso di liberazione, un’aura esilarante gli rinfrescano il cervello. Egli ride, si sente diventato più leggiero, quasi trasportato su per l’etere, per quell’altro etere, l’imponderabile. Poi s’accascia, s’addorme, non sente più nulla. Quando riapre gli occhi alla luce, tutto è finito; il suo piede sfracellato, il suo braccio incancrenito non sono più attaccati al suo corpo. Egli guarda il posto vuoto; ma che cosa è il nuovo portento che adesso si compie? Egli sente che il suo piede, che il suo braccio portati via aderiscono ancora a lui; le sue sensazioni vi si localizzano ancora; egli avverte come un formicolìo, crede di poterli muovere, adoperare… Così accade nell’anima. Quando la passione mortificata ne è stata staccata, quando il ragionamento vi dice che non potrà più tornare, il vostro sentimento si proietta ancora in essa e, più di ogni altro modo reale, di ogni altro affetto presente, l’anima avverte la presenza dell’amore perduto… – La notte era fonda e la voce moriva.
§– Bisogna pure riconoscere – proseguì Ettore Baglioni, fra l’attenzione simpatica dei suoi giovani amici – che noi siamo fatti a un modo assai strano, e che, se la felicità ci sfugge, il più grande ostacolo al suo conseguimento procede da noi stessi, dalle intolleranze, dalle contraddizioni di questa nostra inesplorabile natura… Io v’ho ben detto che l’amore di quella donna fu per me, in un periodo molto oscuro della mia esistenza, un divino nepente, un elisir di vita, la fonte deliziosa a cui si disseta avidamente l’arso pellegrino che già stava per accasciarsi sull’arena scottante, in attesa di entrare nell’Oasi eterna ed infinita. Quando io paragonavo l’uomo nuovo che quella passione aveva fatto di me, al lamentabile personaggio antico, dal cuore sanguinante, dallo spirito ottenebrato, dalle energie distrutte, io sentivo, sì, dilatarmi il petto come nel respirare l’aria purissima d’una vetta alpina dopo aver traversato una paludosa maremma: però, più forte della gioia era sempre la paura che quell’incredibile metempsicosi si risolvesse in un fatale ritorno alla sciagurata esistenza di prima. Dipendeva forse da me l’impedirlo? Se quella donna che era tutto il mio bene sulla terra non m’avesse voluto più, avrei forse potuto arrestare la nuova rovina?… Questo io le dicevo sovente. Nelle ore radiose – come fuggite! ma sempre risorgenti – che sole misuravano il tempo per noi, quando io non potevo dubitare d’una realtà prodigiosa più d’ogni chimera, quando la tenerezza diventava uno struggimento a cui le carezze non bastavano più, ma che aveva bisogno di traboccare in pianto, io le dicevo, guardandola negli occhi, tenendola per mano: "Se un giorno cesserai d’amarmi, tu me lo dirai, non è vero? Non temere, sai, ch’io mi ribelli, ch’io ti importuni, ch’io ti minacci. Accetterò tutto da te. Non v’è parola uscita dalle tue labbra che non sia cara e benedetta, degna di sommessa obbedienza. Vorrà dire che quel giorno crederò di destarmi dopo aver fatto un bel sogno, uno di quei rosei sogni che lasciano per lungo tempo l’anima letificata e quasi fragrante. Riconoscerò che non si può sognar sempre, vedrai che mi farò una ragione. Ma tu mi confesserai questo lealmente? Non farai come le altre, tu che sei dalle altre tanto diversa; non farai come quelle che hanno mentito, per innata malvagità, o per una falsa compassione più crudele, nei suoi effetti, dell’odio feroce?…". Allora, tentando di soffocare quelle dolenti parole, annodandomi le braccia intorno al collo, con voce rotta dai singhiozzi, ella protestava amaramente, mi diceva che io non avevo il diritto di sospettar di lei, di farla soffrire così; e le sue lacrime si mescolavano alle mie – dolcissime lacrime, rugiada benefica che irrorava i cuori innamorati e vivificava il fiore della nostra passione. Ma cogli sguardi chinati e intensamente fissi in un punto, a voce bassa, quasi parlando tra sé, ella soggiungeva che sarei stato piuttosto io stesso a cessare d’amarla, a lasciarla…Ah, i sorrisi che mi salivano alle labbra! le sfide superbe ch’io lanciavo al tempo, alla vita, alla morte! Io lasciarla? Ma il naufrago perduto in mezzo al mare procelloso lascia forse la tavola a cui gli è riuscito aggrapparsi? Ma sapeva ella soltanto che cosa fosse per me l’amor suo, il prezzo che io davo alla sua vista soltanto; il moto di superbia che mi sollevava sopra tutta l’umanità al solo pensiero che ella si fosse accorta di me?… Di che forza non mi sentivo animato! Come guardavo sicuramente all’avvenire!… E come m’ingannavo! Voi che sapete leggere nel vostro pensiero, che non soffrite più di vertigini nel discendere in fondo all’abisso della coscienza, che non avete paura di riconoscerne le più tenebrose latebre, comprenderete ciò che io vi dirò. Quello spirito di emulazione e di sacrificio che non lasciava ammettere a ciascuno di noi la possibilità di stancarsi, ma che ci dava l’ostinata previsione dell’abbandono che avremmo sofferto, nascondeva un suggerimento dell’egoismo, significava che ciascuno di noi si credeva più capace d’amore dell’altro, più sincero nei suoi affetti, più generoso e in certo modo più degno…E veramente quando io mi guardavo intorno, quando vedevo gli altri uomini da cui ella era circondata, pensavo bene, malgrado la fiducia che le dimostravo, che ella ne avrebbe potuto notare qualcuno. Provai più d’una volta i primi morsi della gelosia, ma le nubi che minacciavano la serenità del mio cielo spirituale si dissipavano tosto. Per una ragione od un’altra, nessuno di quegli uomini era molto pericoloso; io mi sentivo, ed ella stessa mi diceva, con quell’accento di sincerità che non si finge, superiore a tutti coloro. Un giorno, però, apparve uno dal quale quella specie di sesto senso che ci fornisce le così dette intuizioni, mi avvertì di guardarmi. Malgrado le persuasioni dell’amor proprio, io riconobbi con una stretta al cuore che quell’uomo valeva più di me. Sotto qualche aspetto, io mi sentivo ancora per lo meno eguale a lui, ma egli aveva vantaggi incontestabili: era più giovane, aveva fatto parlare di sé come d’un ingegno pieno di promesse, e – qualità che doveva agire più d’ogni altra sullo spirito di quella donna – era stato più fortunato di me nell’amore. Io l’avevo sedotta pei miei dolori, ma le fortune di lui dovevano ben altrimenti far lavorare la sua imaginazione. E col cuore sempre più chiuso, io riconoscevo che l’effetto temuto si produceva… Ora bisogna che io insista un poco su questo punto, perché voi non comprendiate più di quel che dico. L’amore di lei per me non era già intepidito, ella me ne dava prove sempre più eloquenti, io non avevo assolutamente nulla da rimproverarle; ma da certe domande che mi faceva intorno a quell’uomo, da una certa espressione che il suo sguardo prendeva quando si parlava di lui, da certi altri segni ancora più tenui, io comprendevo che quella figura s’imponeva all’attenzione di lei. In una altra età, o più semplicemente in altre condizioni dell’animo, io non avrei forse neppur notato quei segni; ma uscendo da prove funeste, con la dolorosa esperienza dei tristi processi sentimentali che finiscono per distaccare un’anima da un’altra, io non potevo negar valore a quei sintomi. Se quell’uomo avesse tentato di spiegare attivamente la propria seduzione, che cosa sarebbe avvenuto?…Io non osavo rispondermi; vedevo bene però che la mia pace, la mia fortuna, dipendevano da questo: che egli non facesse nulla per portarmela via. E questo, appunto, era l’insperabile. Che cosa poteva impedirgli di tentar l’avventura? Non aveva nessun dovere verso di me: ci conoscevamo da un pezzo, ma senz’essere quel che si dice amici – e quand’anche!… L’idea che quella donna non era libera, la passione di cui tutti mi sapevano oggetto, avrebbe potuto arrestare ogni altro – fuorché lui. Egli aveva le teorie dei conquistatori di mestiere, che deridono la passione, disistimano le donne, le credono capaci di tutto – ragione per cui esse li ammirano… Poi, egli doveva aver coscienza dei suoi vantaggi su di me; poi, con la sua esperienza di queste cose, una visita di cinque minuti aveva dovuto bastargli per comprendere di non essere il primo venuto per lei… Imaginate dunque la tortura a cui fui posto? Se qualcosa di fatale si fosse compiuto, se io avessi scoperto che quella donna era già sua col cuore, non so quel che avrei sofferto, ma certo mi sarei rassegnato. Però l’idea che era sempre possibile impedire la mia rovina mi metteva la febbre. Sarebbe stato da stolto fare un’accusa a lei dell’attenzione che quell’uomo sapeva accaparrarsi; io ero in presenza di un fatto umano e naturale, innocente e forse ancora incosciente; con grande probabilità, se egli avesse attaccato, ella avrebbe potuto resistere e trionfare. Ma io non volevo neppure che ella fosse posta alla prova. Reprimendo, adunque, l’ansietà che mi divorava, ricorrendo a sottili artifizii, io cercavo di sapere se quell’uomo si mostrava assiduo presso di lei. Era stato a trovarla due o tre volte, a lunghi intervalli; una sera, a teatro, si presentò nel suo palco e vi restò durante un intermezzo; poi non si fece più vedere. Ed invece di sedarsi, la mia inquietudine si raddoppiava. Voi sapete, infatti, che uno dei mezzi a cui i seduttori ricorrono frequentemente e con fortunato successo, è quello di mostrarsi indifferenti, di fare i difficili, di fingersi lontani dallo scopo verso il quale, invece, tendono con tutti i loro sforzi. Era dunque un calcolo raffinato che egli metteva in opera? La trascurava per farsi desiderare di più?… Non potendo altrimenti scoprire il suo giuoco, cercai di lui, lo vidi più spesso di prima. Un giorno che eravamo insieme, egli mi disse che andava via, che sarebbe stato molti mesi lontano. Non dovevo rassicurarmi? Al suo posto, se avessi desiderata quella donna, avrei potuto allontanarmi da lei? Supporre che il calcolo durasse ancora, era un po’ difficile; e il calcolo poteva anche essere sbagliato, produrre effetti del tutto contrarii! Nondimeno, durante la sua assenza, la mia tranquillità non fu mai completa: io prevedevo nuovi tormenti pel suo ritorno. Tornò, e le fece una sola visita in tre mesi. Un bel giorno, una notizia scoppiò come una bomba: egli era scomparso con una signora della nostra società. Avrei dovuto trarre un sospiro di liberazione, non è vero? – e lo trassi infatti. Però, in fondo alla mia coscienza, ma proprio nel fondo estremo dove non arrivava alcun riflesso della luce superiore, avveniva qualcosa d’imprevisto, che metteva in ogni mio pensiero come un lievito di scontento: un’assurdità che mi colmava di stupore. A poco per volta le tenebre si diradarono intorno a quella misteriosa operazione. Io consideravo, da una parte, il mio sentimento per quella donna, il valore inestimabile che avevo attribuito all’amor suo, l’inaudita fortuna della quale m’ero creduto degno, esaltandola continuamente, dubitandone perfino talvolta. Dall’altra parte stava il fatto che egli non aveva cercato di rubarmela, quantunque facesse questo mestiere, quantunque non mi dovesse nulla, quantunque l’impresa non gli dovesse sembrar disperata. Perché, dunque? Evidentemente, perché quell’impresa non lo tentava, perché quella donna non era oggetto del suo desiderio. Ora, l’idea che un conoscitore come lui non apprezzasse la creatura in cui io avevo riposto tutto il mio vanto, tutto il mio orgoglio, il cui possesso mi aveva fatto credere oggetto dell’invidia del mondo – questa era l’origine del mio scontento. Avrei dovuto esultare vedendo allontanarsi un pericolo, e invece mi sentivo umiliato scoprendo che il mio concetto intorno a lei non era diviso da chi gli avrebbe conferito autorità. Se egli l’avesse desiderata, avrei sofferto le pene dell’inferno; perché la sdegnava, ella quasi perdeva ai miei occhi una parte del suo valore, io cominciavo a dubitare d’averla posta più in alto che non meritasse, d’essermi abbassato un po’ troppo, d’aver fatto ridere di me con tanta esagerazione… In quel momento, io non cessai certo d’amarla, ma fu questo il primo sintomo d’una lenta evoluzione che s’operò nel mio spirito e che finì per togliermi quella donna dal cuore!… –
§ - Che pensate dunque di fare? – chiese allora la duchessa di San Severo. Emilia di Sclàfani, rimasta a capo chino, cogli occhi immoti come attirati magneticamente da qualche visione, con le mani strettamente afferrate ai braccioli della poltrona, si scosse a un tratto con un piccolo brivido, portò la destra alla fronte e rispose sospirando dall’ambascia: - Lo so io, forse?… Ho una tempesta qui dentro… Sento che mi picchiano sulla fronte, sulle tempie, sul cranio, ferocemente, spietatamente… La febbre mi brucia… Mi par d’impazzire… - Suvvia, coraggio!… - esclamò la dama, scuotendo un poco la sua bella testa tutta bianca, con un’espressione piena d’indulgente compatimento, come dinanzi all’irragionevole cordoglio d’una fanciulla inesperta. - Fatevi d’animo!… Non è poi cascato il mondo!… Sapete che non vi riconosco? - Se non mi riconosco neppure io stessa!… Se tutto mi manca d’intorno! se non vedo più uno scopo alla mia vita! se qualcosa s’è spezzato nel mio cervello, nel mio cuore, in tutto l’essere mio!… Del coraggio? della calma? Ho cercato d’averne. Ho detto a me stessa, precisamente, che il mondo non è poi cascato. Ho pensato ad altri dolori, un tempo creduti inguaribili, ed ora dimenticati a segno da ridere della loro cagione. Mi son vista, cogli occhi della mente, di qui a qualche mese, uscita sana e forte dalla triste prova, forse anche contenta che tutto sia finito così. Ho chiamato a raccolta tutta la mia ragione, tutta la mia esperienza, per convincermi che non bisogna domandare alla vita, all’amore, alle creature umane, più di quel che possono dare. Ho chiesto tra me: "Credevi tu dunque davvero che quest’uomo t’avrebbe amata eternamente? Che cosa v’è d’eterno in noi? Non hai tu sorriso degli affidamenti superbi? Poni una mano sulla tua coscienza: alla lunga, non avresti finito d’amarlo anche tu? Sii ancora più sincera: non cominciavi a sentirti già stanca?…". - Brava! - interruppe l’altra, approvando insistentemente con una piccola mossa del capo. - Brava! Questo si chiama farsi una ragione… - Ho pensato tutto questo, ed altro ancora… Mi sono affacciata alla finestra, ho considerato un istante la calma sovrumana di questa sublime natura, delle Alpi nevose imbiancate dalla luna, del lago terso ed immobile come una lastra, delle miriadi di stelle splendenti da miriadi di secoli nell’etere infinito. Ho compreso, nel tempo d’un baleno, la vanità di tutto ciò che è umano, dei dolori, delle gioie, delle passioni da cui son travagliati questi atomi agitantisi un attimo sopra un granello di sabbia; ho visto sparire me stessa, l’umanità, tutta la terra, nel turbine formidabile che soffia sulla polvere dei mondi… Ho bevuto avidamente l’aria fredda, ho richiuso la finestra, sono andata al tavolino e gli ho scritto una lettera. – Che cosa gli avete detto? – L’altra parve non aver udito. Restava ancora assorta, come prima, guardando dinanzi a sé; e nel rilassamento dei muscoli del viso, nella piega sottile degli angoli delle labbra, si leggeva una tristezza così profonda, una contemplazione così sconfortata di qualcosa di pauroso e d’ineluttabile, che la duchessa non ardì ripetere la sua domanda. Emilia si riscosse al fine e riprese: – Ho scritto una lettera, non l’ho mandata. Non so neppure se potrò rileggerla per ricopiarla… Guardi, piuttosto… – Preso sopra un tabouret un minuscolo taccuino di cuoio rosso e tolto il piccolo porta-matita d’oro che lo chiudeva, ella voltò alcune pagine, fermandosi ad una ricoperta più che di caratteri, di segni informi tracciati con rapida mano. – Che notte è stata per me!… – esclamò, a bassa voce, guardando quel foglio e come rispondendo a un intimo pensiero. Poi, volgendosi alla duchessa: – Avrà la pazienza – chiese – d’aspettare che io decifri questa lettera?… Io gli ho scritto così: "Mio buon amico… Dopo tutto, e come sempre, avete ragione… Vi rammentate quante volte mi ripeteste queste parole, nel corso delle piccole discussioni che sorgevano un tempo fra noi?… Adesso sono cambiate le parti e tocca a me riconoscere che la ragione è con voi. Vedete bene che io sono giusta, e che le vostre adulazioni di un tempo non m’hanno guastata. Mentirei se vi dicessi che questa saggezza non mi costa nulla; ma mi dorrebbe egualmente che voi aveste a crearvi dei rimorsi per questo. La ragione ha spesso qualche ostacolo da vincere prima di farsi accettare; ma, in cambio, il suo riconoscimento procura sempre allo spirito un senso di forte serenità… Io non so precisamente che cosa sono stata per voi – potrei, è vero, rammentarvi tutto quel che me ne avete detto voi stesso; ma avrei l’aria di recriminarvi, e nulla è più lontano dal mio pensiero. Comunque, voi forse rammenterete, qualche volta, senza troppo pentirvene, le ore che passaste al mio fianco; da parte mia, io ne serberò sempre un dolce ricordo. È vero altresì: quella felicità avrebbe potuto durare più a lungo; ma ciò non era in potestà vostra né mia. Bisogna accettare la vita com’è, con tutte le sue leggi, e stimarsi fortunati se, fra i tanti giorni vuoti, fra i molti amari, essa ce ne ha concesso qualcuno di gioia. Grazie a voi, io ne ho visti sorgere molti, più di quanti potevo ragionevolmente aspettarne; contate sulla mia più sincera gratitudine. Fate assegnamento ancora sulla mia amicizia più fedele: giovatevi di me sempre che potrò esservi utile, e credetemi, con una cordiale stretta di mano…". – Benissimo! – interruppe vivamente la duchessa. – Mi piace la vostra lettera, sapete! È la lettera d’una donna che sa vivere, che conosce la vita!… – A qual prezzo? – disse l’altra, con un ambiguo sorriso. – A prezzo di quanti dolori?… E si può dire di conoscerla mai abbastanza? Perché, guardi, tutto questo è ciò che suggerisce la logica, il buon senso; ma se io l’amo ancora, quest’uomo? Se il cuore mi sanguina, rileggendo queste fredde parole, queste frasi studiate, dopo le lettere pazze che gli scrivevo fino all’altr’ieri? Se non posso, non posso rassegnarmi all’idea di perderlo, dopo quel che mi costa, dopo quel che siamo stati l’uno per l’altra? Ma non è vero che io prevedessi di non poterlo più amare, non è vero che io fossi già stanca: se pensai questo, fui una sciocca, fui una stolta, perché non potevo giudicare della forza d’un amore che non era ancora stato ancor messo alla prova… – Badate: qui sotto potrebbe nascondersi quell’illusione molto frequente che consiste nell’apprezzare una cosa pel solo fatto d’averla perduta. – Illusione, realtà: dove cominciano? dove finiscono? – disse la giovane, voltando un foglio del suo taccuino. – Vi sono certe realtà di cui neppur ci si accorge, e certe illusioni che ci mantengono in vita… Io sento di non poter vivere senza quest’essere che è stato tanta parte, la miglior parte di me. Io sono impegnata da un giuramento, e lui pure… È una cosa sacra, il giuramento; non si può calpestarlo così. Ho il dovere di rammentarglielo, egli mi ascolterà; perché anch’egli deve soffrire. Io non sono stata eloquente abbastanza; se egli ha rifiutato di cedere, il torto è mio, che non ho saputo assicurarlo della forza di quest’amore. Forse in questo momento, mentre io mi struggo per lui, anche egli anela di rivedermi, anche egli vorrebbe chiamarmi. Un senso di falso amor proprio ci ha trattenuti: una sola parola basterà a dissipare quest’incubo… "No… – continuò Emilia, riprendendo a leggere nel suo taccuino – non è vero, non è possibile che tu m’abbia detto quelle parole. Certe volte, i sogni hanno l’intensità della vita vissuta: io ho sognato. Tu sei sempre l’amor mio forte e soave; se anche tu volessi, non potresti, intendi? lasciarmi. Tu hai dimenticato un momento quel che sono stata per te; ricordati, vedrai se ho ragione! Tu mi hai detto, colle tue labbra, che io sola t’ho compreso, io sola t’ho compianto, io sola ho cancellato i tuoi lunghi dolori, io sola ho compensato le tue infinite amarezze, io sola ti ho fatto pianger di gioia. Tu non me l’hai detto soltanto: io ho visto le tue lacrime, io ho pianto con te. Tu hai voluto riscattare col tuo sangue il mio pianto; ora, comprendi, quando questo è avvenuto fra due creature, esse non possono dividersi più. Vedi bene che noi siamo legati per la vita e per la morte, come tu mi giurasti, come io ti giurai. Ed ascolta: vienimi accanto, metti la tua mano nella mia, reclina il tuo capo sul mio petto: ti ricordi quante volte, restando così, tu mi chiedevi di dirti che cosa tu eri per me, com’era fatto il bene che ti volevo? ti ricordi come t’aprivo il mio cuore, come pensavo a voce alta; e come t’estasiavi a quelle prove d’amore che tu stesso mi suggerivi, senza avvedertene? Ebbene: nessuna di quelle prove era seria, nessuna aveva un valore: la prova vera, la prova grande, la prova unica io posso dartela ora, amandoti ancora, amandoti più, dopo quel che m’hai fatto: ora soltanto tu puoi credere a questa passione e andarne superbo. Quante volte mi hai fatto giurare che io non avrei mai avuto secreti per te! che t’avrei mostrato sempre tutti i moti più intimi del mio cuore, tutti i miei pensieri più reconditi! Vedi bene che tu devi sapere quel che io provo ora per te: lascia che te lo dica; farai, dopo, quel che vorrai; mi lascerai ancora, se ti piacerà… No; tu non farai questo!… Ascolta ancora. Se tu hai riacquistata la tua fede unicamente per me, io, sola fra quanti ti circondano, ho creduto in te. Non lo sai? Dicono che i tuoi sguardi sono falsi, che le tue labbra mentiscono, che l’anima tua è corrotta… Io sola ho creduto ad ogni tua parola; non è vero che io sola ho letto in fondo al tuo limpido sguardo? Che cosa sanno gli altri di quel che so io? Ma non fare che anch’io disperi di te; non disperare tu stesso: sarebbe troppo triste, troppo malvagio. Provami ancora una volta che io ho avuto ragione, abbi fede in te stesso!… No; non mi dar retta! Ho avuto torto di scriverti questo. Ma è che io non so più quel che dico… Se potessi vederti un istante!… Non ti direi nulla: credo che morirei ai tuoi piedi… Una volta, io ti dissi: "Come sai bene pregare!…". Ti ricordi quando te lo dissi?… Ebbene, oggi son’io che ti prego, ti supplico, ti scongiuro, in nome di Dio, dell’amor nostro, di tutto quel che hai di più caro al mondo, pei tuoi stessi dolori che io ho divisi, per la memoria dei tuoi poveri morti che io ho amati, per la morte che può cogliere d’istante in istante noi stessi, ti scongiuro di non abbandonarmi, di ascoltarmi… di lasciare, almeno che io pianga un’ultima volta al tuo fianco…" –. La voce della giovane tremava un poco; il suo sguardo velato si distoglieva dalla carta, intanto che la duchessa, visibilmente commossa anche lei, esclamava: – Come l’amate! – Ma, a quelle parole, come quando una brezza sottile increspa la superficie dell’acqua, la fisonomia di Emilia si venne corrugando fino ad atteggiarsi ad un sottile sarcasmo. – Come l’amo!… – ribatté, ridendo – vuol dire come sono sciocca!… Deve bene trionfare costui, non è vero, vedendo la mia disperazione; deve ben sorridere di vanità soddisfatta!… Il suo amor proprio sarà, senza dubbio, gradevolmente solleticato dallo spettacolo del mio cordoglio… – Allora, il vostro amor proprio s’impenna… – Allora, la mia tenerezza, la mia sommessione, la mia fiducia, tutti i miei buoni movimenti sono dispersi dallo sdegno, dall’odio, dal bisogno feroce di dirgli in faccia che non so che farmi di lui, che egli s’inganna stranamente se ha creduto al mio dolore! – E dopo la lettera d’implorazione, ne avrete scritta un’altra di disprezzo… – Ciò che ho scritto è appena la millesima parte di ciò che ho pensato. Ella si stupisce della contraddizione che scoppia tra gl’impulsi ai quali obbedisco? tra la ragionevole rassegnazione e la passione disperata, tra l’umile preghiera e la rivolta sdegnosa?… – Non mi stupisco affatto: nulla di più umano che la contraddizione e l’assurdo. – Io sento dentro di me dieci, cento donne diverse, una moltitudine di esseri ciascuno dei quali vorrebbe operare a sua guisa. E il più strano è che tutte costoro non parlano già ad una per volta, ma insieme, interrompendosi, contraddicendosi, confondendosi tumultuariamente. Lo scritto ha il torto di non dimostrare questo dissidio… – Consolatevi pensando che anche la parola sarebbe impotente. – È vero! La nostra mente è un abisso!… Io debbo dunque implorare costui, per dargli la soddisfazione di respingermi ancora? Ma è una cosa ridicola! Qual donna al mondo ha mai pregato un uomo così? Io potrei implorarlo se fosse un altro, se non fosse una creatura malvagia e bugiarda. Perché hanno ragione gli altri; e l’imbecille son io! Come ho fatto a pigliarlo sul serio, a soffrire tanto per lui? Ed egli avrà riso di me!… Ma se non l’amavo più! se ero così stufa da non saper che inventare per evitarlo! se non l’ho amato mai! – Oh, questo poi… – Ma sì, ma sì… anche al tempo del nostro idillio, io ridevo talvolta tra me delle mie declamazioni! Allora, soffocavo le mie risa; ora sono esse quelle che soffocano me! Ora ho bisogno di prendere la mia rivincita. Ma quel che ho tentato di scrivergli non può dare la più lontana imagine di quel che mi ribolle dentro… – La vostra lettera dice?… – "Caro signore, le sono oltremodo obbligata della iniziativa presa da lei, tanto più che m’ha risparmiato il fastidio di prenderla da me. La buffa commedia che abbiamo rappresentato insieme minacciava di finire tra le fischiate della platea: era proprio tempo di smettere. Non è da dire per questo che essa non m’abbia dato un bel da fare! Mi sono, come si dice, stillato proprio il cervello per mettermi nei panni del mio personaggio, ho soffocato una quantità prodigiosa di sbadigli per mantenere un contegno decente; e il più comico è questo: che m’accorgevo benissimo di sprecare le mie fatiche, perché ella sbadigliava senza tante cerimonie, spalancando talmente la bocca, soffiando così forte, che era, anzi non era un piacere a vederla. Ella pel primo non credeva a ciò che le dicevo: è stata una delle rare prove di spirito che m’abbia date; gli elogi della gente l’hanno guastato, caro signore, ella s’è formato, intorno ai suoi mezzi, un concetto, mi consenta di dire, molto esagerato. Oramai ci conosciamo intus et in cute, si scrive così? e non abbiamo più nessuna ragione d’ingannarci scambievolmente. Il suo spirito è, creda pure, molto inferiore all’opinione che ne ha ella stessa; riconosco però che ne possiede abbastanza, e spero che ne mostrerà ancora un poco nella circostanza presente, non credendo neppure alla scena che le recitai l’altro giorno. Mi premeva di fare certe osservazioni, volevo verificare certi miei antichi convincimenti: addebiti a tutto questo la mia soverchia insistenza. Non importa: debbo averle fatto l’effetto di una famosa seccatrice! Questo pensiero la conforti: che non sarò mai più tentata di occuparmi di lei – glie ne do parola d’onore! Del resto, se l’ho seccata, debbo anche averla fatta ridere un numero infinito di volte; sono però in dovere di aggiungere che il ricordo di certe sue sciocchezze allieterà i miei giorni più tardi… Probabilmente, questa mia lettera le parrà poco sentimentale: ma le sentimentalità, signor mio, sono una cosa; e la verità è un’altra. La verità è che ella m’ha dato ciò che poteva darmi, e che io l’ho pagato abbastanza. Adesso, ciascuno proseguirà per la sua strada. Si diverta sempre – e che le nostre menzogne ci siano rimesse…". – Eh!… non c’è mica male!… – esclamò la duchessa con un fine sorriso. La giovane rimase un poco a capo chino, senza dir nulla, poi, passatasi lievemente una mano sulla fronte, disse, molto piano: – Ma sa lei che cosa ho provato nello scrivere questa lettera?… che cosa provo adesso dopo averla riletta?… Un secreto scontento, un pentimento addolorato, quasi un rimorso. Mi par d’avere, con sacrilega mano, profanato tutto quel che v’era di più puro in fondo al mio cuore. Io potrò accusare quest’uomo, io potrò disistimare la creatura che si è rivelata improvvisamente in lui; non potrò dimenticare le divine emozioni che m’ha procurato. Comunque egli sia fatto, è stato per me l’oggetto di un culto; qualcosa delle virtù che io gli ho attribuite è rimasta in lui, come qualcosa della santità che i feticisti vedono nell’idolo di cartone resta in esso e lo sottrae alla derisione degli stessi miscredenti… Poi, io penso che quest’uomo, come tutti gli altri, non è responsabile di quel che fa; penso che forse ne sarà punito, un giorno, più crudelmente che io oggi non possa imaginare… E tutto quel che v’è di buono in me protesta contro i propositi di vendetta, m’ispira invece una grande compassione per quest’anima ammalata… Senza tornare ad illudermi sul prezzo che ha potuto dare all’amor mio, penso che non sono stata per lui un’indifferente, che egli ha avuto fede, almeno per qualche tempo, nelle mie parole. Allora giudico che sarebbe degno di un’anima non volgare il dimostrare come, malgrado i torti ricevuti, di questa fede si voglia sempre essere meritevoli... – In altre parole, voi volete fargli vedere che siete migliore di lui! – Sarà forse questo il secreto movente: che importa? Una buona azione non diventa già cattiva pel fatto che ci torna comodo compierla… – Certamente! Così, voi avete abbozzato un’altra lettera ancora? – Sì, ed è questa… – Sfogliato il suo taccuino, la giovane riprese a leggere: – "Voi non volete più rivedermi: parto oggi stesso. Ho l’anima straziata; se voi poteste soltanto imaginare quello che soffro, vi farei molta pietà. Tuttavia, qualunque sia il male che voi m’abbiate fatto, vo’ dirvi, prima di lasciarvi, che non vi porto odio o rancore. La mano che oggi colpisce è la stessa che un giorno si distese a soccorrermi; non potrò dimenticarlo mai. Non vi dico questo per intenerirvi: nessuna speranza mi sorregge, capisco bene che tutto è finito, per sempre. Come sarà triste la vita che comincerà domani per me! Come potrò sopportare il ricordo dei giorni luminosi nell’oscurità che m’aspetta?… Sarà di me quel che vorrà Dio – e perdonatemi ancora questo momento di commozione. Sul punto di lasciarvi, consentitemi di dirvi un’ultima parola. Se l’avvenire è incerto per me, potrà anche darsi che ore dolorose suoneranno per voi: un giorno, potrete aver bisogno di qualcuno che vi stia al fianco, che stringa la vostra mano, che v’infonda coraggio. Io desidero ardentemente che questo giorno non sorga; ma se dovesse arrivare, ricordatevi di me. Dovunque io sia, venite: nulla potrà impedirmi di accogliervi come s’accoglie un fratello…". – È bello ed è nobile ciò che voi avete scritto! – disse la duchessa. – Però, se nel vostro cuore si combatte una così fiera battaglia, quale di queste lettere vi risolverete a spedire? – Lo so io, forse? – ripeté la giovane. – Se fossi capace di decidermi, non ne avrei scritte tante!… A lei stessa, mia buona amica, io ardisco chieder consiglio… – La vecchia signora fece con la mano un piccolo segno di rifiuto. – Non è un argomento intorno al quale se ne possano dare. – Perché? Io sono ridotta, non vede? in tale smarrimento d’animo, che non so più discernere da me la via giusta: una parola suggeritami da una persona superiore come lei, mi toglierebbe a questa dolorosa incertezza, mi farebbe un gran bene –. La duchessa restò un poco in silenzio; poi, guardando negli occhi la sua compagna, chiese: – Allora, voi farete quel che vi dirò? – Può esserne certa. – Ebbene… se non vi dispiace, cominciamo col riassumere in poche parole la vostra situazione. Voi siete stata abbandonata da un uomo. L’avete amato, ma cominciavate ad essere stanca di lui; dopo la rottura, la vostra passione si è ridestata. Voi avete scritto quattro lettere che definiscono i principali sentimenti cozzanti adesso nel vostro cuore: in una vi rassegnate filosoficamente, in un’altra implorate con grande calore, la terza è l’espressione del sarcasmo sprezzante, l’ultima d’una tenerezza pietosa e disinteressata. Va bene? – È così. – Però, nello scrivere tutte queste lettere, una secreta idea vi ha guidata: quella di vivere ancora nel cuore o nella memoria di cotest’uomo, di produrre un’impressione nell’animo di lui, di obbligarlo a ricordarsi di voi, per ammirarvi, per rimpiangervi. Ora, voi volete sapere da me in qual modo potrete raggiunger meglio l’effetto. – Può darsi che sia per questo; ma siccome, qualunque di queste lettere io manderò, è quasi certo che sarò lasciata senza risposta, imagini che si tratti di prender commiato soltanto. – O per prender commiato, o per quell’altra ragione, il partito è uno solo. – Quale lettera debbo dunque mandare? – La vecchia dama rispose: – Nessuna –.
§Ed eccoci ritornati al punto donde partimmo! Ella batte le mani, mia signora, perché, avendo cominciato coll’ironia, ho finito con la commozione. La feci arrabbiare sostenendo che le creature umane non si possono intendere, e ho addotto da ultimo un esempio di questa comprensione! Ora m’accorgo – ella dirà che guasto tutto! – come gli esempi non provino nulla, perché tanti se ne possono addurre a sostegno della tesi quanto a sostegno dell’antitesi. Varrà più l’una o l’altra? Ogni opinione è legittima; l’accordo dei concetti nel disaccordo delle espressioni mi pare che sia molto bene provato da queste due sentenze di due grandi scrittrici: Mademoiselle de Lafayette ha detto: "On pardonne les infidelités, mais on ne les oublies pas", "On oublies les infidelités, mais on ne les pardonne pas" ha detto Madame de Sevignê… Bene: siamo d’accordo: sarà possibilissimo comprendere l’anima altrui; ma, se ciò è possibile, non è già facile. L’Inquisizione aveva del buono. Quando un uomo vuole leggere nel cuore d’un suo simile, ma proprio nitidamente leggervi tutto ciò che sta scritto fino nelle ultime pagine, nei margini più ripiegati, qualche buon tratto di corda o meglio ancora qualcuno di quei più persuasivi congegni dei quali l’imaginazione dei Torquemada era fertile, rende comprensibile tutto. Mancando questo secolo di tanaglie e di cavalletti, come si potranno scoprire i pensieri e i sentimenti degli altri? E, veramente, non facciamo noi l’elogio dei Torquemada quando, per strappare a qualcuno la verità, lo afferriamo per le braccia, gli stringiamo le mani come dentro una morsa, gl’infiggiamo nello sguardo il nostro sguardo rovente?... Questi mezzi d’indagine sogliono essere adoperati dalle persone di natura violenta; le miti nature preferiscono anche patire piuttosto che far patire. E del resto che valore hanno le prove strappate per forza, specialmente quando si riferiscono ai casi della coscienza o agli stati dell’animo? Se è impossibile vedere con gli occhi i moti dell’anima amante, quali prove sicure noi potremo avere dell’amore? Chi ci confessa, ci attesta e ci giura l’amor suo, come potrà dimostrarcelo? Non potremo noi, non dovremo anzi dubitare delle sue parole? Come sapere se le parole sono vere, se sono tutte vere? Chi asserisce d’amare soltanto o soprammodo con l’anima, non può nascondere, non nasconde troppo spesso sotto questa dichiarazione una brama meno degna? Chi ci afferma di ripagarci d’un amore in tutto eguale al nostro, in qual modo, per qual via potrà farci leggere nel suo cuore così chiaramente come noi leggiamo nel nostro? Nell’anima altrui non si legge, ma le prove d’amore, le prove indiscutibili, luminose, lampanti, non mancano. Soi, dit-elle, je cède et me voici elément. Mais pour y croire, à votre amour, si je m’y prends, J’en veux un gage sûr et que rien ne démanté. Potrebbe essere accusata di soverchia esigenza costei? Non sono le donne quelle che hanno ragione di sospettare che l’amore degli uomini si riduca al desiderio torbido? Questo dubbio non esiste negli uomini, perché i desiderii delle loro compagne sono moderati e spesso mancano; ma, per ciò stesso, tutto l’amore femminile è tanto calmo e composto, che la maggior prova d’amore che le donne sappiano dare consiste nel lasciarsi amare… Dunque non basterà che questo amante confessi l’amor suo, bisogna ancora che lo dimostri! Las! fit-il, où trouver des serments assez vrands? E come è umano questo sentimento d’impotenza! Non solo l’anima dubita, ma lo stesso amante sa e sente che ella deve dubitare, perché i giuramenti, le parole, gli effimeri suoni non potranno mai esser prova valevole, espressione adeguata della meravigliosa efflorescenza che invade ogni piega dell’anima sua. – Las! les plus solennels n’ont plus rien qui mè meuve. Répondit-elle. Allor lui soudei: "Je conprends! La preuve qu’il vous faut je l’ai superbe et neuve". O toi que j’aime, tu vas voir si je t’aimais! Et somme en souvriant elle attendait la preuve. Sans retourner la tête il s’enfuit pour jamais. Se il senso è tutto egoistico, come dimostrar meglio che questo amore non era sensuale? Se lo stesso sentimento, d’ordinario, è fatto più di amor proprio che d’amore, e se pertanto le ragioni della persona amata sono proposte alle proprie, come dimostrare più luminosamente che questa volta l’amore non era amor di sé stesso? Infine, se amare qualcuno importa quasi sempre più che odiarlo, giacché chi odia può anche astenersi dal far male, mentre chi ama infligge sempre dolori e tormenti, la migliore, la vera prova d’amore sarà appunto questa: rinunziare all’amore… Che ne siano capaci molti, non è da credere. E poi, quand’anche molti ne fossero capaci, essa potrebbe parere un’ironia. Non sarebbe press’a poco come ucciderci per provare che viviamo? Allora noi dovremmo cercarne un’altra, meno paradossale; una prova non dell’amore represso ma dell’amore operante e attuale. – Io la conosco –, mi confidò una donna con la quale ragionavo un giorno di queste cose. Abbassato il capo e chiusi gli occhi, ella si raccolse un istante; e la sua faccia, non più illuminata dall’ardore degli sguardi, apparve qual era realmente: consunta dal tempo, rôsa dalle passioni, simile ad una maschera vecchia sulla quale tutti coloro che la portarono abbiano lasciato un’impronta. Quanti uomini avevano logorato a furia di baci quelle guance appassite, quelle labbra sbiancate, quelle rugose palpebre? Quante febbri avevano macerata quella carne flaccida e gialla? Quali spasimi avevano contorto gli angoli di quella bocca amara? Quali pensieri molesti, quali assidue cure avevano scavato i solchi di quella fronte? In quali notti di veglia s’erano brizzolati quei rari capelli che ella adesso stirava con una mano bianca e smagrita?… Bella non era mai stata, neppure ai giorni tanto lontani della prima giovinezza; ma qualcosa del fascino strano e irresistibile che aveva fatto di lei una creatura di turbamento rifulse ancora sul quel tragico volto quand’ella si scosse, guardò fiso lontano e riprese a parlare. – Chi di voi ha dunque affermato che il primo amore è l’amor vero? Non aveva ancora vissuto, costui; non sapeva i giuochi imprevisti dell’esistenza, l’avvicendarsi delle fortune, le rivoluzioni che s’operano da un giorno all’altro nel mondo e nell’anima! Dicono impossibile un secondo amore perché con la morte del primo la fede nella forza e nella durata della passione andò necessariamente dispersa; ma non si ricomincia piuttosto ad amare appunto perché questa fede è immortale e perché si riconobbe d’averla riposta in chi la tradì?… Sì, l’amor vero può essere il primo, ma può anche essere l’ultimo – se per amor vero intendete quello che altri vi porta come voi lo portate, quello che vi promisero i sogni e che mai vi consolate d’avere perduto. Poiché molte volte potete amare con tutte le forze dell’anima, molte volte essere amati sopra ogni cosa; ma non c’è amore integro se non nell’incontro, nell’accordo, nello scambio delle due passioni; e ciò è tanto raro che la turba infinita dei diseredati lo nega… Orbene ascoltate. Per un uomo io abbandonai la mia casa, distrussi la mia famiglia, avvelenai la vita di chi mi mise al mondo – feci, delle creature che misi al mondo io stessa, altrettanti orfani. Dovevo amarlo per far queste cose, è vero?… A giudizio del mondo egli mi costava sacrifizii non lievi – dite, è vero?… Ma se io li giudicavo insufficienti! Se non credevo d’avergli dimostrato abbastanza che mi teneva luogo di tutto, che era tutto il mio bene sulla terra, l’unico giudice del quale temessi le condanne! Che cosa non avrei fatto per dargli questa dimostrazione? Come lo scongiuravo, in ginocchio, con le mani giunte, di dirmi che cosa voleva da me per credere all’amor mio! Come sarei stata felice se fossi morta di sua mano! Egli m’uccise – altrimenti. Egli non credeva all’amor mio perché non credeva a nulla. Vi sono di questi esseri fatali su cui sembra pesare la maledizione divina: belli come l’arcangelo caduto, come lui aridi e falsi. Un sorriso che sembra beato ed è schernitore illumina i loro occhi, parole che voi credete mistiche e sono bugiarde escono dalle loro labbra. Se per vostra sciagura v’imbattete in qualcuno di essi, siete dannati. Alla loro seduzione non si resiste. Secondati dalle ingannatrici apparenze, voi non metterete più un freno alle vostre aspettazioni, educherete le più folli lusinghe e precipiterete tanto più in basso quanto più ardito sarà stato lo slancio. Voi crederete di trovare nella loro anima le rigogliose fioriture della vostra; crederete di fare un sol cuore e una sola vita; e quando v’accorgete che ciò non è, accuserete voi stessi! Come sospettare la loro colpa se tutto ciò che in essi è parvenza brilla ed incanta? E vi torturate, vi rimproverate torti imaginari, procurate di riscattare i difetti dei quali vi sentite pieni, sognate di conquistare tutte le virtù che vi mancano. E tutto ciò è invano; e voi pensate ancora: "La colpa è mia! Io non l’amo abbastanza, non so fargli vedere il suo pensiero all’origine d’ogni pensiero mio proprio, non riesco ad ottenere da lui la stessa fede ardente che io gli porto…". Infatti egli vi sfugge, e questa fede altri avrà forse saputo ispirargliela! Allora non vi rimproverate più nell’intimo della vostra coscienza, ma v’umiliate apertamente dinanzi a lui, lo scongiurate d’avere almeno pietà: almeno questo sentimento allignerà nel suo cuore! Improvvisamente, un atto, una parola, ve ne dimostra l’orribile vuoto: allora un crollo tremendo avviene dentro di voi; ma siete guarita – radicalmente –. Ella fece col braccio disteso, con le dita adunche, il gesto di svellere qualcosa. Tacque un poco battendo rapidamente le ciglia, poi continuò: – Questo fu il mio primo amore. Mi costava tutto, quell’uomo; ma io gli avrei tutto perdonato se non m’avesse tolto ciò che mi rimaneva di unicamente caro: il conforto d’esser stata compresa, almeno un giorno, almeno un’ora; la fiducia di non essermi perduta per niente – per niente! Gli avevo perdonato tante vergogne, tanti abbandoni, tanti tradimenti! Ero stata sorda agli stessi dileggi, agli stessi sospetti, agli stessi affronti! Credevo sempre in lui, suo malgrado. Volevo trovare qualcosa di buono in fondo al suo cuore; stimavo sempre che ne avesse. Mi accorgevo che l’amore boccheggiava in lui, che era già morto; ma pensavo almeno che fosse stato vivo, una volta! Con una parola infame egli mi tolse quest’ultima lusinga, calpestò la stessa illusione; quando volli ricordargli questo amore, le parole che m’avevano esaltata, i giuramenti che m’avevano ubbriacata, egli mi disse: "E tu li hai creduti?…". E con la stessa bocca che li aveva proferiti disse ancora: "Ma sono la moneta con la quale si pagano quelle che non son da comprare!…". Allora, vedete, l’unico mio scopo, l’unico mio bisogno, ardente, imperioso, vorace, fu di diventar come queste… – La sua voce, che s’era fatta rauca tanto da costringerla a tossire replicatamente, si schiarì ad un tratto. – Non lo accuso più. Compresi, tardi, che la colpa non era stata neppur sua, che egli non poteva esercitare virtù che non aveva. Non crede chi vuole. Forse, chi sa, affinch’egli soffrì –. Ed alzò le spalle e scosse un poco la testa con l’espressione indulgente di chi ha visto molte miserie. – Comprendete bene dunque – riprese – la condizione mia all’apparire dell’Altro. Intatta, insaziata, esasperata, io portavo con me la mia fede – e non ero più degna d’esser creduta. L’Altro mi credette. Per lui era il primo amore. Nessuna donna aveva ancora sospettato il tesoro di sentimenti che egli portava in cuore; e questo tesoro tanto grande che non v’era purezza capace di pagarlo, io, l’ultima delle creature, l’ebbi, tutto. No, il povero linguaggio umano non potrà mai dir che cosa fu questo amore, l’esultanza divina di due esuli ciascuno dei quali ritrova nell’altro tutta la terra, tutto il cielo della patria lontana. Il linguaggio umano può dire soltanto le umane miserie, i dubbii, gl’inganni, i tormenti – e chi sa la vita comprenderà quelli che fatalmente ci aspettavano. Per un uomo che m’aveva avvilita, profanata, perduta, io avevo dato tanto, che nulla più mi restava da dare a quest’altro – per cui avrei voluto versare il mio sangue fino all’ultima stilla. Io avevo imparato a costo della salute dell’anima che non basta sentirsi giurare un affetto, che bisogna anche ottenerne la prova. Ed io non potevo dargli altro che le mie parole, e sapevo che le parole possono mentire, e sentivo che in bocca mia la menzogna doveva esser giudicata facile e pronta. Allora il dubbio che egli non mi credesse più cominciò a insinuarsi in me. Era dubbio e divenne certezza. Se quell’uomo avesse potuto leggere nel mio cuore come vi legge Dio sarebbe stato sicuro che tutti i palpiti del mio cuore erano suoi. Ma questo potere egli non lo aveva. Egli doveva paragonare, invece, sé stesso al mio primo amante, il bene infinito che mi faceva al male spaventevole che il primo m’aveva inflitto; ed avvertire che mentre il male era stato da me ricompensato con il massimo dei beni, a lui non potevo dare più nulla. E badate: non era già l’orgoglio suo che lo persuadeva a stimarsi di tanto superiore al suo predecessore, a pretendere che io facessi per lui molto di più che per costui: io stessa glie lo dicevo, glie lo ripetevo, glie l’attestavo. Ma come più gli parlavo dell’influsso maligno esercitato da costui sulla mia vita – per esecrarlo – più egli pensava ad esso – per temerlo. Egli non sapeva le sciagurate contraddizioni del nostro cuore, temeva che fossi ancora attaccata a quell’uomo in ragione degli stessi dolori che mi costava. Come dunque, come provargli il suo inganno, la dispersione assoluta di ogni memoria di quel passato, la fine della stessa esecrazione – poiché tutto l’orrore nel quale ero affondata non m’impediva la nuova felicità? E vedete di quali reazioni continue è fatto il nostro pensiero: mentre il conseguimento di questa felicità attutiva il sentimento dell’indegnità mia, questo sentimento si ridestava da un’altra parte, più acuto, più torturante – poiché la mia indegnità mi toglieva di dare a quest’uomo la luminosa dimostrazione che egli era in diritto di esigere! Allora qualcosa di più strano – di più umano – accadde in me. Quando io avevo portato nell’amore un cuor nuovo, un’anima vergine, tutto ciò che questa vita può dare di meno indegno, io m’ero accusata di non meritare abbastanza il ricambio dell’amore mio; ora che non me lo meritavo davvero, sentivo la ribellione prepararsi sordamente dentro di me. Dinanzi all’ideale Giustizia io era nel torto per avere criminosamente sperperato quei beni che andavano invece serbati con cura gelosa in attesa di offerirli a chi solo avrebbero dovuto appartenere; dinanzi a quest’uomo io ero in debito – e noi siamo così fatti da non tollerare il rimprovero dei nostri torti… E se ancora quest’uomo m’avesse apertamente rimproverato la mia miseria, se m’avesse buttato in faccia la mia abiezione, se m’avesse torturata ogni giorno, forse sarei stata meglio difesa contro le folli aberrazioni dell’egoismo; ma egli non fece questo, mai! Una tristezza senza fine velava talvolta i suoi sguardi, ma il suo linguaggio era sempre quello della dolcezza, della devozione, dell’umiltà. Allora io pensavo che egli parlasse così per compassione, che intendesse farmi un’elemosina, che non contento ancora dei suoi tanti vantaggi, volesse finire di schiacciarmi con la sua generosità – e la sorda ribellione diveniva più minacciosa. Avrei dovuto stargli in ginocchio dinanzi, e mi sentivo distaccare a poco a poco da lui … Il nostro cuore è così miserabile che non sopporta la gioia assoluta: una dose d’amore è necessaria al suo nutrimento. Quell’uomo aveva una gran colpa, non mi faceva soffrire. E come io lo disconoscevo, anch’egli disconosceva me. Perché la vita m’aveva contaminata, pensava che non fossi più capace d’apprezzarlo, che altre avrebbero saputo amarlo meglio di me. Presumeva ch’io dovessi portargli una gratitudine eterna per avermi sollevato fino a lui, che il pensiero di cercare altrove un altro amore – il pensiero che egli stesso accarezzava! – non dovesse neppure affacciarsi alla mente mia. E troppo sicuro d’essere amato, rispondeva meno all’amor mio, non pensando che questo fosse un torto, o pensando che fosse un torto minore e più tollerabile di quelli che altri m’aveva fatti. Ma le azioni umane non hanno tutte un valore relativo a chi le commette, alle circostanze nelle quali sono commesse, allo stato di colui che le apprende? E la freddezza d’un uomo come lui m’era più grave, dopo ciò che avevo patito, di tutti i tradimenti dell’altro amante… Così, giorno per giorno, il dissidio cresceva. L’ingrato destino ci era stato largo d’un bene incredibile; noi ce lo lasciammo sfuggire. L’amor nostro fu il vero, il grande, il solo amore; non sapemmo riconoscerlo. Come potevo riconoscerlo, io? Non m’ero ingannata altre volte? Non dovevo inevitabilmente sospettare di ingannarmi anche ora? A quel segno poteva riconoscerlo, egli che non aveva termini di confronto? Così il nostro inganno procedeva da opposte ragioni. Mancava ad entrambi la prova. L’avemmo –. Ella ripeté: – Fu questa –. E passatasi una mano sulla fronte, lentamente, da una tempia all’altra, disse, come in sogno: – Io lo tradii –. Dopo una pausa riprese: Imaginate voi che cosa dev’essere un pazzo che abbia perduto, insieme con l’intelletto, la vista? Soltanto un pazzo cieco avrebbe potuto fare quel ch’io feci – ragionatamente, deliberatamente. Pensai che egli non mi amava più, che non m’aveva amata mai. Credetti alle parole d’un altro, di quelli che ci troviamo attorno nelle agonie del sentimento, corvi che hanno fiutato il cadavere. No, non lo credetti! Non credevo più nulla. Ma questo scetticismo, la certezza che non c’era più nulla, la persuasione d’esser discesa tanto in basso da non poter cadere più giù mi buttò incontro ad un altro. Egli s’era accorto di quest’altro e non aveva trovata una sola parola per salvarmi. Io pensai: "Vuol dunque gettarmi via come una cosa inutile e vile!". E volli io stessa lasciarlo. Quando glie lo dissi …– Ella s’interruppe, esitante; e ad occhi chiusi, rovesciando un poco la testa, irrigidita come per catalessi, con voce lenta e gelata soggiunse: – Dopo che sarò morta, dopo che m’avranno chiusa dentro una bara, dopo che la terra mi avrà ricoperta, io udrò ancora quell’urlo –. Rimase quasi assorta qualche momento, poi ricominciò: – Saremmo stati ancora a tempo. Ma la benda non era ancora tutta caduta dagli occhi nostri. Io credevo d’averlo ferito nell’orgoglio soltanto, trionfavo provandogli che valevo ancora per gli altri, ottenevo la rivincita! Egli vide confermato il suo giudizio sulla mia infamia. Un intimo senso di sollievo, quella calma ingannatrice che precede lo scatenamento delle tempeste, ci pervase entrambi. Egli scomparve ed io ricaddi. Allora, allora soltanto, quando un altro prese il suo posto, quando io mi sentii nelle braccia d’un altro, quando questa carne miserabile fu preda d’un altro, un gemito sordo e lungo, il gemito d’una disperazione mortale uscì dal mio petto –. E un sorriso indefinibile, d’ironia, di pietà, di sprezzo, rischiarò quel viso. – Io sapevo, per averla tanta provata, la nausea del risvegliarsi accanto a qualcuno che fino alla vigilia è stato un estraneo e che dopo l’ultima intimità sarà più estraneo di prima. Io avevo curata questa nausea col procurarmene un’altra maggiore, e poi un’altra ancora maggiore. Ora non ne provavo alcuna. L’insensato stupore, il tremendo e senza fine sterile rimorso m’agghiacciavano troppo. No, io non credevo alla realtà; mi sentivo come sotto l’impero d’uno di quei sogni mostruosi durante i quali sappiamo però di sognare. Ed un pianto sconsolato, inesauribile, grondava dai miei occhi; uno di quei pianti che sembrano stemperare l’anima stessa, che nei sogni ci destano. Ma il mio risveglio era più tetro del sogno. E come in sogno io pensavo che qualche misteriosa potenza aveva certamente cambiato le fattezze, gli sguardi, la voce dell’uomo che fino a qualche giorno innanzi era stato mio, e come in sogno io cercavo di rivederlo attraverso quest’altro. Io figgevo il mio sguardo nel suo, lungamente, intensamente, fino ad abbacinarmi, per discoprire nel suo sguardo i lampi del Perduto; poi chiudevo gli occhi ostinatamente, inflessibilmente, imponendogli di tacere, per illudermi, per credermi ancora insieme col Perduto. Ed accadde questo: che i miei avidi tentativi, i miei funebri ardori, la mia lunga pazzia accesero l’animo non del tutto volgare del mio nuovo amante; egli credé ch’io facessi tutto ciò per lui – per lui! – e al soffio della grande passione quel fuoco divampò alto e gagliardo, ed egli trovò inaspettatamente una parola, l’accento dell’Altro… Illusione terribile!… Io m’afferravo a lui, gli prendevo il capo fra le mani, gli dettavo le parole che ancora, che sempre mi risonavano all’orecchio, e gli ingiungevo di ripeterle, ed egli le ripeteva, pensando che l’amore le suggerisse. E per un attimo io Lo ritrovavo! No, la nausea d’un tempo non mi soffocava più; no, io non potevo scacciare quest’uomo quando l’orrore invadeva l’animo mio, giacché per suo mezzo recuperavo in qualche modo colui che avevo disconosciuto; giacché la nausea, l’orrore, il pianto lungo e cocente mi rivelavano ciò ch’io avevo negato: la forza d’una passione che era la mia stessa vita! Non potevo scacciarlo; potevo soltanto e dovevo disingannarlo, dirgli a che mi serviva, perché facevo tutte queste cose – e glie lo dissi! Gli dissi che mai, mai avevo avuto un palpito, un solo pensiero per lui; lo costrinsi ad ascoltare la confessione dell’amor mio per un altro, gli dissi che cercavo quest’altro in lui; che invece di farmi obliare egli dava nuova forza alla passione mia; che ora, la prima volta, grazie a lui, grazie al mio tradimento, acquistavo la prova luminosa, sfolgorante, irrecusabile di quell’amore. E nella resurrezione della fede il mio spirito acquistava una sovrannaturale chiaroveggenza, un intuito fatidico: io sentivo che una rivelazione eguale alla mia doveva essersi fatta nell’anima del Perduto; che, lontano da me, attraverso nuove esperienze ed impreviste vicende, egli doveva piangere com’io piangevo perché sapeva che lo piangevo… Un giorno lo rividi. Corsi da lui –. Ella quasi gridò: – Chi avrebbe potuto arrestarmi? – Riprese con voce più sorda: – Gli dissi: "Sputami in viso, ma ascolta. Tu non mi credesti quando ti giuravo d’amarti. Dell’amor mio non seppi, non potei darti nessuna prova perché io stessa ne dubitai. Questa prova ora la posseggo. Pensai dimenticarti, e la tua memoria mi ha schiacciata. Ti abbandonai, e t’ho ritrovato da per tutto. Ti porto con me. Nessuno ti strappa più da questo cuore. Metti i tuoi piedi sulla mia faccia, ma lasciati dire, ora, che t’amo…". Egli… egli…– Giunse le mani, girò intorno lo sguardo come smarrita, e a poco a poco l’espressione dell’estasi si dipinse sulla sua faccia smorta. – Egli mi si fece vicino, mi guardava tacitamente. Tremava. Mi disse, così piano ch’io compresi piuttosto dal moto delle pallide labbra: "Sei tu?". Io potevo ancora parlare. Gli domandai: "Non m’aborrisci?". Ei rispose: "Ti piango…". Vedete voi queste mani? Qui caddero le sue lacrime, ed erano calde come gocce di sangue. Io non piangevo, sentivo il cuore battermi in gola. Tra le lacrime egli diceva: "Sei dunque tu? Non ho dunque sognato?… Quando io ti sospiravo, l’anima tua se ne veniva incontro a me?… Tu sai ora veramente quanto mi amavi? Nessuno di noi lo seppe, mai!… Povere creature umane, quali inganni sono i nostri!… Come fummo ciechi e sordi e ostinati nell’errore!… Ora la luce s’è fatta…". A quelle parole, alla certezza che egli mi dava, il cuore avrebbe dovuto allargarmisi dalla gioia, la fascia che mi cingeva la fronte cadere, tutto l’essere mio esultare… e invece un’ambascia muta, un terrore infinito mi piegavano, un gran freddo mi faceva rabbrividire… Egli diceva ancora: "Bisogna che l’aria ci manchi, per riconoscere che ne viviamo!… Neanch’io potei darti la prova d’un amore nel quale non avevo fede… Che stolto!… No, non accusarti: io fui colpevole al pari di te. Come te, ora soltanto sono sicuro e posso dire di amarti. Non pensar mai con rimpianto a tutto ciò ch’io ti dissi e che feci per te nei primi giorni della nostra fortuna; non rimpianger mai i giuramenti che l’ebbrezza dettava: nessuna prova d’amore vale questa che ogni giorno ti do…". E il mio terrore cresceva, lo sguardo mi s’appannava, le vene mi si vuotavano: perché se egli avesse detto che tutto era finito tra noi, io non avrei avuto di questa fine una certezza tanto disperata come udendo quelle parole. Nondimeno, dissi: "Allora, se tu mi ami ancora…". Un sorriso più triste di tutte le sue lacrime, il sorriso di chi muore mentre sente promettersi la salute e i beni della vita, passò nel suo sguardo. Egli prese le mie mani e rispose: "Noi non ci vedremo più". Mai la sua voce fu così dolce. Egli baciò queste mani e questa fronte – soltanto!…– E due lacrime, grosse e roventi come quelle da lei versate quel giorno, solcarono lentamente le sue guance. Quando la sua ambascia si calmò, ella ripeté: – Fu questa la prova dell’amor nostro, ed è questa la grande prova dell’amore operante e attuale. Ma come una legge spaventevole vuole che tutto si sconti, anch’essa s’acquista quando l’amore è perduto –.
§Credo, mia cara amica, che ella abbia ragione. Quantunque tutte le forme di morte dell’amore siano dolorose e strazianti, se esso muore soffocato, strozzato violentemente dalla persona che noi amiamo e che non ci ama più, il dolore e lo strazio sono massimi e veramente insopportabili. Ciò accade perché allora non solamente l’amor nostro è disdegnato e respinto, ma tutto il nostro amor proprio ferito e calpestato. Se ella dunque vuol sapere da me in qual modo questa pena estrema dei traditi e degli abbandonati guarisce, già è in grado di indovinare la mia risposta. Reprimere la nostra passione dicendo a noi stessi e dimostrando che l’oggetto nel quale la riponemmo ne è indegno, non vale a niente: già in una precedente mia lettera io le parlai della contraddizione per la quale proprio l’indegna persona sembra meritevole sopra ogni altra, unicamente. Alcuni credono che il riso sia un buon revulsivo, e non è infatti da disprezzare. Conosco un abbandonato il quale, struggendosi nel suo dolore, cominciò a sorridere e a sentirsi molto meglio quando vide la antica sua amante a braccio di un altro uomo, in un luogo oscuro, pendere dalle sue labbra e stringersi tutta a lui… Ha ella notato come lo spettacolo di due amanti e anche di due sposi ecciti spesso il sorriso beffardo? E perché mai la vista dell’amore felice, invece di disporre alla gioia dispone alle beffe?… Io credo che si possano assegnare due cause di questo fatto, cioè una sola causa che agisce in due modi differenti. Essa risiede in quelle leggi che dell’amore, d’una cosa cioè molto e fin troppo naturale, hanno fatto una cosa misteriosa, difficile e quasi vietata. Di questa prepotente passione non si deve quasi parlare nel civile consorzio; mentre di tutti gli altri bisogni noi vediamo quotidianamente lo sfoggio, questo qui dobbiamo piuttosto indovinarlo attraverso le ipocrite convenienze. Tutte le volte adunque che esso si rivela o traspare, come quando un corteggio nuziale attraversa le vie d’una città o quando una coppia di amanti erra nelle ombre propizie di qualche deserto bastione, allora l’improvvisa rivelazione d’una troppo celata e contrastata realtà dispone al sorriso. Aggiungo ancora che lo spettatore dell’amore vorrebbe anch’egli, ma non può, per le medesime leggi severe, prendersi sotto il braccio una persona con la quale poter fare ciò che fanno i due attori; e l’invidia umanamente le spiegherà il suo schermo. Chiudiamo questa parentesi e torniamo alla persona di mia conoscenza: costui, vedendo tubare le due tortorelle, una delle quali era il rivale, l’altra la donna che fino a pochi giorni innanzi giurava d’amar lui, sentì tanto più acutamente l’umorismo dello spettacolo e, ridendo, si sollevò. Un altro amante abbandonato guarì in modo che è alla portata d’ognuno; perché non sempre il caso ci è tanto propizio da farci spettatori dei nuovi idillii delle nostre antiche fiamme. Ecco il modo: l’abbandonato, spasimando alle memorie del perduto amore, tremava di paura al pensiero di vederne i materiali ricordi. Come contemplare senza entrare in agonia i ritratti dell’amata, i fiori, i nastri, le cose che ella gli aveva donate? Come rileggere senza morire le lettere sue?… Ed un giorno vide i ritratti ed i fiori, e il suo dolore crebbe veramente oltre misura: ma quando egli cominciò a leggere le lettere, le lettere piene di queste espressioni: "L’amor mio per te sarà senza fine… tu solo m’hai rivelato l’amore… fuori di te non c’è, non potrà esserci mai piacere e felicità… non solo l’amor mio è eterno, ma più eterna sarà la gratitudine… io voglio morire per provarti che non posso amare nessun altro fuori di te… tu potrai lasciarmi, tradirmi, scacciarmi, io ti sarò fedele da lontano, eternamente…", leggendo queste parole delle quali avevo avuto paura perché prevedeva che il dolore di non poterne ricevere più mai di simiglianti lo avrebbe soffocato, egli sentì improvvisamente il suo petto sollevarsi e il riso fiorirgli sulle labbra, perché la donna che aveva scritto queste cose, ella stessa in carne ed ossa, le scriveva in quel punto ad un altro… Tuttavia questi rimedi quantunque giovino spesso, spesso anche restano inefficaci. Se è vero – e come negarlo? – che l’amor proprio è massimamente offeso nel tradimento e nell’abbandono, bisogna, per guarire radicalmente, che l’amor proprio ottenga la sua rivincita. Chiodo scaccia chiodo, dice il proverbio; e se a noi parve finito tutto il nostro merito perché la persona che prima ci amava ora non ci ama più, basterà che, perduto quell’amore, noi ne otteniamo un altro perché il merito nostro torni a rifulgere. Eppure neanche questo rimedio è infallibile! Noi abbiamo ottenuto un altro amore e non ce ne contentiamo, perché non ne volevamo un altro, uno qualunque, ma precisamente quello che non potevamo avere: tale il bambino bizzoso grida e strepita e non si cheta se, offrendogli voi le cose più belle o le chicche più dolci, gli negate quel balocco o quella confettura che per l’appunto egli si è fitto in capo di avere! La guarigione infallibile e radicale non avviene pertanto se non quando il nostro amor proprio, offeso perché ci fu sottratto un amore, è soddisfatto all’idea di poterlo riottenere. C’è anche allora un’ironia, ed è la più sottile di tutte, perché noi ridiamo – di noi stessi… Eccole a questo proposito un curioso documento che mi fu mandato una volta: sopprimo l’esordio e le comunico la parte più degna della sua attenzione. "Questo amore era stato tutto ciò che di meglio avevo tenuto al mondo, il sogno della mia giovinezza, la felicità della mia vita, e nulla era valso a compensarne la perdita. Avevo, sì, tentato di affezionarmi ad altre creature; ma l’imagine di quella donna mi restava sempre dinanzi, impediva quasi materialmente che io scorgessi le altre, e se pure le scorgevo, toglieva loro ogni incanto e sembrava quasi ammonire: "No, mai più troverai dolcezze così grandi come quelle che io ti diedi!". E dalle sterili prove uscivo sempre più assetato di lei. Sentivo dire, a proposito di grandi dolori, di perdite irreparabili, che il tempo è un sovrano rimedio, che nulla resiste alla sua azione lenta e continua; quest’azione pacificatrice, questo rimedio infallibile, io l’avevo provato altre volte; ora ogni giorno che passava accresceva la pena mia. Il lavoro paziente ed assiduo non era anch’esso un diversivo sicuro? Ma non poter più lavorare, nessun’idea ormai spuntava più nella mia mente tutta invasa dai ricordi, oppressa dai rimpianti; e quando pure avessi potuto ridarmi all’arte mia, l’avrei ora sdegnata. Tutto ciò che avevo fatto non l’avevo fatto per lei, affinché ella fosse contenta di me, affinché le apparissi meno indegno di quel che mi sentivo? Le sole lodi ambite ed apprezzate non erano state le sue? Come tutto mi pareva ora inutile, vuoto ed oscuro! Nulla m’interessava più, nulla riusciva a strapparmi dal letargo nel quale ero caduto: contavo i giorni, contavo le ore. Esse scorrevano con lentezza mortale: come affrettarne la caduta? Pensavo: "Se potessi chiudere gli occhi e riaprirli di qui a due anni, a tre anni?…". E poi? Perché? Che cosa aspettavo? Che cosa avrei ottenuto? Sì, forse tra qualche anno quel cocente ricordo sarebbesi spento; ma, a quest’idea, al pensiero di perdere la stessa memoria di un amore che era stato tutto il mio bene, il cuore mi si stringeva talmente che io trovavo nelle torture presenti una specie di felicità e come l’illusione che tutto non fosse ancor morto… Così, invece d’insistere nei miei tentativi di stordimento e d’oblio, cominciai ad attizzare il mio dolore rappresentandomi tutte le gioie conseguite in quel dolce legame, dando un valore perfino alle cose futili, perfino alle cose delle quali mi ero stancato. Perché, infatti, mi ero stancato di certe esigenze che avevo giudicate irragionevoli, di certe sue superstizioni che avevo giudicate puerili. Ora vedevo in esse altrettante inestimabili prove d’amore, altrettante fortune impagabili: per ottenerne ancora una sola che cosa non avrei dato?… Ella aveva sempre voluto che io le scrivessi ogni giorno, anche un rigo soltanto; ed io che negli ultimi tempi non l’avevo più obbedita, pensavo adesso, ahimè troppo tardi, che scriverle continuamente, che aprirle ogni ora l’animo mio era ciò che avrei dovuto far sempre. Anch’ella mi aveva scritto tante volte; e rivedere le sue lettere, aspirare soltanto il profumo del quale erano impregnate, mi turbava fino alle lacrime. Altre volte io avevo restituite le lettere d’amore quando l’amore era finito; ma come paragonare questa passione alle antiche? Ed io non mi separavo da quelle carte, che non osavo rileggere per pietà di me stesso, ma dove era pure la prova che non avevo sognato la svanita gioia… Com’ero dunque stato folle nel lasciarmi sfuggire quel bene! Come incolpavo me stesso della morte d’un amore che invece ella stessa aveva ucciso!… Allora, ripensando alla premeditata freddezza di quella creatura che senza darsi la pena neppure di mendicare un pretesto m’aveva scacciato; ripensando alla crudeltà della quale aveva dato prova nel restar sorda alle mie preghiere, al mio pianto, alla mia disperazione; per un poco il mio dolore si mutava in un sordo rancore, in un odio secreto; ma io riconoscevo ben tosto, nel finale abbattimento di tutto l’essere mio, che questa sua freddezza, che questa sua crudeltà, che l’inflessibile rifiuto opposto a tutte le mie insistenze, erano l’origine della mia disperazione. L’idea di non averla potuta piegare, il sentimento della mia incapacità a ridestare una passione della quale ero andato superbo, mi prostravano, mi umiliavano, mi attaccavano a lei sempre più. E come se tanta miseria non bastasse, la gelosia, una gelosia terribile che non poteva fermarsi sopra una determinata persona, ma che comprendeva tutti gli uomini, mordeva il mio cuore. Perché dunque m’aveva lasciato, colei, se non per darsi ad un altro? Perché era stata così dura verso di me se non per riacquistare la libertà, per correre a nuove avventure? Un altro aveva preso il mio posto; e quest’altro poteva essere uno dei miei più intimi amici come il primo sconosciuto che mi passava accanto per la via! La credevo capace di tutto; e la disistima, invece di guarirmi, accresceva il mio male! Avevo pensato di partire, riserbandomi di porre ad effetto questo proposito quando null’altro mi sarebbe rimasto da tentare, come i medici riserbano per i casi disperati certi pericolosi rimedii che, se non affrettano la morte, riescono ad eccitare una crisi salutare nelle fibre vicine a distruggersi. I viaggi m’avevano sempre procurato la più gradita delle distrazioni. Dentro un treno che corre con la velocità di sessanta chilometri all’ora lasciandosi dietro monti, valli, fiumi e città; sopra un piroscafo che fende maestosamente il mare mobile e largo, avevo sempre respirato a pieni polmoni, m’ero sempre liberato da ogni oppressione. Ora non mi decidevo ad andar via. Quantunque la ragione mi dimostrasse fino all’evidenza che non c’era più nulla da fare, io aspettavo non sapevo bene che cosa. L’orgoglio mio era stato crudelmente ferito, nondimeno l’idea di tornar da lei a pregarla, ad umiliarmi, mi tentava certe volte ancora. Io mi ribellavo contro me stesso, m’accusavo di viltà, non facevo nulla – ma restavo. La divorante e mortale curiosità di sapere che cosa sarebbe accaduto di lei, se veramente un altro avrebbe ottenuto i suoi favori, mi tratteneva. E mi umiliavo altrimenti, spiandola da lontano, studiando il modo di far parlare di lei la gente che la conosceva. Alle volte mi sentivo sollevare da tale sdegno contro me stesso per l’incapacità di strapparmi quella donna dal cuore, che la risoluzione di partire era presa, irrevocabilmente. Ma il terrore di portar meco quel ricordo come un vampiro attaccato alla mia carne, intento a succhiare il mio vivo sangue, fiaccava il mio coraggio. E speravo ancora, accoglievo ancora qualche lusinga! Pensavo che ella avrebbe potuto pentirsi del male che m’aveva fatto e cercare un giorno o l’altro di me. E con l’istinto della salute che fa aggrappare anche ad un filo d’erba chi precipita in un abisso, m’afferravo a queste lusinghe, lavoravo a dar loro qualche apparenza di fondata speranza… Fu un giorno del settembre che ricorreva l’indimenticabile anniversario. Lo avevo aspettato con un’ansia ineffabile: i miei ricordi, i miei pentimenti, i miei rimpianti, le mie speranze, tutti i moti dell’animo mio s’erano esasperati talmente che non credevo possibile resistere di più a simile travaglio. Tanti disegni m’erano passati per il cervello, uno più pazzo dell’altro, che non sapevo veramente che cosa imaginare. Spuntò quel giorno, ed io non feci nulla di nulla. Ma se le fossi stato vicino, se l’avessi sentita tutta stretta a me, non sarei stato così pieno di lei come in quelle ore di agonia, occupate a ricordare le altre, le antiche, le divine, le prime e le sole che contassero nella mia vita. Che cosa faceva ella in quei momenti? Era possibile che non ricordasse anch’ella? Nonostante la lunga separazione, nonostante la lontananza, in quel momento le nostre anime non dovevano confondersi come s’eran confuse altra volta? E se così pensava anch’ella, se era pentita, se era libera, non toccava a lei di scrivermi una riga, una parola, perché tutto fosse detto?… Quando arrivò la posta cercai con mano tremante in mezzo al fascio dei giornali e delle lettere. Non c’era nulla. Ebbi veramente un sorriso di profonda commiserazione per la mia sciocchezza. Calò la sera, e mai tenebre più paurose chiusero il mio cuore. Improvvisamente udii squillare il campanello. Il servo mi venne incontro con un dispaccio in mano. Poiché il cuore non mi si ruppe in quel punto, la fibra dev’esserne molto resistente. Apersi in quel foglio: era un mio creditore che mi mandava un vaglia telegrafico. Il giorno dopo partii. In verità l’esistenza più salda, più tenace, non è già quella delle cose o degli esseri, ma quella delle idee e dei sentimenti. Voi potete spezzare un oggetto materiale, calpestarlo, incenerirlo, darne al vento le ceneri, voi potete uccidere una persona, distruggere quel prodigio che è un corpo vivente: ma dinanzi a questa cosa semplicissima che si chiama un pensiero, così tenue, così alato, fuggevole tanto che un soffio parrebbe doverlo abolire, voi siete inermi. La volontà è l’unico mezzo del quale potreste disporre; ma tutti gli sforzi della vostra volontà per sradicarlo servono invece a configgerlo più profondamente nel vostro cervello. Non voler pensare a una cosa importa rammentarsela continuamente; contro l’invasamento spirituale non vi sono esorcismi… Sì, io partii, con l’anima abbeverata di fiele, con le labbra contorte da un sardonico riso; ma il fischio del treno che si metteva in moto mi parve l’urlo della mia disperazione, e quasi tentai rompermi la fronte contro la gabbia che mi serrava, tentai precipitarmi dallo sportello per finirla una buona volta… E quando fui lontano, quando mi vidi in un paese straniero, fra gente sconosciuta, quando udii risonarmi d’intorno una lingua ignorata, un immenso stupore mi vinse e sedò per un istante il mio cordoglio. Io domandai a me stesso: "Perché sono qui? Che cosa sono venuto a fare? E potrò respirare soltanto?…". Mi mancava l’aria, mi sentivo morire. In mezzo al vasto tumulto di quella metropoli, dinanzi allo spettacolo di migliaia e migliaia d’uomini correnti dietro agli affari, ai piaceri, agli amori, io sentivo di me stesso la pietà che certi poveri fanciulli smarriti tra la calca in un giorno di festa m’avevano talvolta ispirata. Provai d’annegare il mio dolore negli stordimenti dell’orgia; ma come un legno che noi spingiamo sottacqua risale rapido a galla appena abbandonato a sé stesso, così il mio dolore risorgeva ogni volta, più acuto. E senza più ritegno, senza più vergogna, mi abbandonai ad esso, interamente. Avevo portato con me le sue lettere, i suoi ritratti. Una sera mi chiusi in camera e li rividi. Terribile! Terribile! Era dunque lei? la sua fronte? le sue guance? le sue labbra che avevo tanto baciate? Era il suo sguardo che si fissava ancora su di me, pieno della mia visione? Tutte quelle lettere, quelle parole d’amore, quei giuramenti, quelle promesse erano stati ispirati da me? Ed io non avrei più riveduto quella figura reale come ora ne rivedevo la mera effigie? Non avrei più ricevuto nessuna di quelle lettere, mai? Era dunque come morta?… Allora, nella nuova e più dura crisi d’ambascia scatenata nell’anima mia, io pensai di fare ciò che prima non avevo voluto: restituirle quelle carte per poterle scrivere ancora. Rapidamente quest’idea mi soggiogò. Io le avrei scritto per mostrarle l’esulcerata mia piaga, per farle intendere che l’amavo ancora tanto da perdonarla, da accusare anzi me stesso, da implorare il suo perdono per me. Fra giorni ricorreva il suo natalizio: ella non aveva parenti, nessuno dei suoi conoscenti sapeva la data che io solo avevo festeggiata, altre volte. Volevo anche ora mandarle una buona parola per questa festa che è sempre un po’ triste… Nella notte alta, nel silenzio profondo, alla luce d’una candela che si struggeva con fiamma tremula e lunga, io mi misi a scriverle. Scrivevo tre righe e ne cancellavo due. Volevo mettere sopra un foglio di carta tutto ciò che avevo in cuore; ma le parole mancavano, ed anche temevo di contenermi troppo o di troppo lasciarmi trascinare. Ma ero deciso a non levarmi dalla scrivania se non dopo aver finito. Quando finii rilessi la lettera; ne rammento ogni parola, diceva così: "Lasciata l’Italia per un tempo non breve, compio il dovere di rimandarvi alcune carte che non posso esporre al rischio di cadere in mani indiscrete e che per altro mi dorrebbe troppo distruggere. Già io ho sempre pensato che le carte di questa natura si debbano restituire quando restano a testimoniare qualcosa che più non esiste, un passato perduto: serbarle è permesso soltanto quando sono le prove d’una realtà che ricomincia continuamente. Eccole adunque: distruggetele voi stessa, o voi stessa serbatele, secondo stimerete opportuno. Come passa rapido il tempo! Ecco tornare il vostro giorno natalizio che lo scorso anno noi passammo insieme. Mi permetterete di presentarvi ancora i miei augurii, fervidi come quelli d’un tempo? Ora e sempre, possiate voi ottenere tutto quel bene che il vostro cuore desidera…". Mi parve di non aver detto niente e d’aver detto fin troppo. Niente, perché quelle poche righe non mostravano la mia lunga passione; troppo, perché il rammarico e l’implorazione vi si leggevano, nonostante, in mezzo. Esausto della lunga veglia, andai a letto. Quando mi destai erano le undici; mancavano due ore alla partenza del corriere d’Italia. Senza più pensare a nulla, ricopiai la lettera, feci un pacco di quelle carte, lo suggellai e andai alla posta. Mi movevo come in sogno; non avevo coscienza dei miei atti. Consegnai dapprima il pacco all’ufficio di raccomandazione, poi mi avviai alla buca delle lettere. Quando vi fui vicino, quando cercai in tasca la lettera mia, parvemi che qualcuno m’afferrasse per tirarmi indietro. Il pacco non poteva partir solo? La restituzione di quelle carte aveva forse bisogno di commenti? Nella mia lettera io mi davo vinto, dicevo a quella donna che l’amavo ancora, imploravo ancora da lei il ricambio dell’amor mio – ed ella forse l’avrebbe letta fra le braccia d’un altro. Ella avrebbe riso di me, m’avrebbe risposto due righe di ricevuta – forse non m’avrebbe risposto neppure! Era stata così malvagia, m’aveva fatto tanto soffrire; ed io le davo ancora quest’altra soddisfazione!… Tutto ciò fu pensato nel tempo che la mia mano andò dalla tasca alla buca – perché vi andò, e vi lasciò scorrer dentro la lettera. Prima che potessi avere risposta dovevano passare cinque giorni. Impiegai questo tempo a imaginare la risposta. Poteva essere arida e fredda come avevo temuto, ma il pentimento era inutile, ormai. Se invece… se invece… Ed io dicevo a me stesso che, infatti, nel rivedersi dinanzi le sue lettere, le prove dell’amore che m’aveva portato, nel ritrovarmi supplice ancora dopo i torti che m’avea fatti, nel sapermi tanto lontano, ma nel sentirmi pure così vicino a lei, il suo cuore avrebbe dovuto palpitare più forte e, se non l’amore, almeno la pietà, la simpatia, la compiacenza dettarle una buona parola, indurla a consolarmi… Allora, sostenuto ed infiammato dalla divina speranza, io pensavo all’altra lettera che le avrei subito scritta: "Ebbene, non occorre più ch’io ve lo dica, voi già lo sapete: nonostante tutto, voi siete ancora l’amor mio, l’amor mio forte e grande, il mio unico amore, l’amore che non posso più scordare, che porterò eternamente con me… Se mi volete ancora, dite una parola e sarò ai vostri piedi. Se volete che aspetti, aspetterò quanto vorrete. Sempre, in tutto, la vostra volontà sarà la mia…". Ma una lettera avrebbe messo troppo tempo a dirle queste cose: io mi sarei piuttosto servito del telegrafo, le avrei mandato il mio pensiero con la velocità del lampo. E cercavo le parole del telegramma!… Al quinto giorno ebbi la sua risposta. L’ebbi alla posta, la lessi per via, tra le spinte della gente, lo strepito delle vetture, gli squilli delle cornette dei tram. Diceva così: "Grazie! Nessuna attenzione commuove, quanto quella che meno si prevede perché meno si sente di meritare. I vostri augurii d’oggi sono graditi come quelli di un tempo, anche perché come quelli di un tempo sono stati i soli che ho ricevuti in questa ricorrenza. Mi sono pervenute e non ho distrutto le carte che con rara delicatezza avete creduto di dovermi restituire: c’è un passato che si custodisce gelosamente, come il più reale dei beni, disperderne le tracce sarebbe delitto. Se voi vorrete ancora ricordarvi di questa vostra povera amica, sarà sempre una festa per lei". Orbene; quando io ebbi finito di leggere questa lettera me ne andai al caffè, perché avevo fame. Fu la prima volta, dopo tanto tempo, che mangiai con gusto. Tutto il giorno fui in giro al Museo, che non avevo ancora visto. Prima di desinare visitai una bella signora che avevo conosciuto di fresco. La sera andai al teatro con amici, dopo cenammo allegramente. Tornai a casa alle tre della notte e dormii d’un fiato sino alle due del domani. Svegliandomi, mi rammentai della lettera ricevuta la vigilia, e la rilessi. Non c’era bisogno di molta penetrazione psicologica per comprenderne l’intimo significato: "Un’attenzione che si sa di non meritare… i soli augurii, graditi come quelli d’un tempo… non ho distrutto le carte che avete creduto di dovermi restituire… un passato custodito gelosamente, come il più reale dei beni… se vorrete ricordarvi ancora di questa vostra povera amica…". Il suo rammarico, il suo pentimento, la sua solitudine: ella diceva apertamente tutto ciò; non diceva. "Tornate!", ma questa parola era come scritta su tutte le altre, io quasi la leggevo attraverso la grana della carta. Nel mio farneticamento dei giorni scorsi avevo mai sperato tanto? Non dovevo fremere di gioia, risponderle subito, aprirle il mio cuore?… Per una settimana non trovai il tempo di scriverle. Quando finalmente mi posi a tavolino le scrissi così: "Ho ricevuto la vostra lettera e vi ringrazio della buona memoria che serbate di me. Siate certa della devozione che vi porto, e lasciatemi sperare di potervene dare qualche giorno la prova. Io sono qui per fare qualche studio e per vedere un po’ di mondo. Se potessi giovarvi in qualche cosa, disponete pure liberamente di me: mi farete sempre un regalo…".
§La fiducia della quale ella mi onora è veramente grande e lasci parlare una volta la modestia! - immeritata. Nonostante la disparità delle nostre opinioni, e perdonandomi la vivacità di certe mie argomentazioni, ella si degna ricorrere ancora a me per farmi una domanda e propormi un quesito: – Ma insomma, qual è, a vostro parere, l’amore migliore? – Ahi contessa! Io potrei risponderle al modo molto laconico della duchessa di San Severo, e dirle – Nessuno!… – Questa passione è talmente difficile, si dibatte fra tanti contrasti, ha da superare così formidabili ostacoli, che la sua vita è troppo breve e troppo avvelenata. Io non le ripeterò a questo proposito i miei ragionamenti d’un tempo, poiché ella, bontà sua, li rammenta ancora e giudica che, nonostante le "solite" esagerazioni e l’"insoffribile" preconcetto di scetticismo, io potrei anche avere, in fondo in fondo, ragione. Ma ella dice – e la ragione è questa volta con lei! – che se pure in tutti gli amori c’è qualcosa di amaro e di guasto, nondimeno, paragonati gli uni con gli altri, li dovrà pur trovare che alcuni furono pessimi ed altri, se non ottimi, migliori. Il mio dovere è dunque di rispondere meno laconicamente alla sua domanda; ed ella si disponga anzi a temere che la risposta mia sia per essere troppo prolissa. Vuol dunque sapere quale sarebbe, secondo me, per un uomo e una donna, l’amor supremo? Sarebbe questo. L’uomo, fino a trent’anni, ha fatto sua l’antica divisa: Je prends mon bien où je le trouve. Egli ha amato in tutti i modi, e di tutti i suoi amori è rimasto scontento. A trent’anni – non un giorno di più! – incontra una vergine, il cui solo sguardo gli rivela – a lui che crede di conoscere tutta quanta la vita – come vi sia ancora un mondo nuovo, inesplorato, insospettato: il mondo dei sentimenti puri, delle cose degne e sante. Questa vergine non è neppur lei una bambina che s’affaccia appena alla vita: ha visto altri uomini, ha creduto d’amarne alcuni; poi, all’idea di legarsi con uno di costoro indissolubilmente, s’è accorta che le sue inclinazioni non erano forti e prepotenti. Quando incontra quest’uomo, ella comprende che il suo sentimento d’ora è invincibile; e questa vergine e quest’uomo si uniscono, per sempre. La loro gioia è l’invidia del mondo. Crede ella che sarebbe maggiore se entrambi fossero stati del tutto inesperti, e che la reciproca gelosia del passato li turbi? No, no. Appunto perché entrambi hanno altra volta creduto d’amare, la vergine soltanto con l’anima, l’uomo in tutti i modi, appunto per ciò possono ora dire di amar veramente. Ella non è gelosa delle donne che lo sposo suo in altri tempi amò, non le pensa neppure; o se anche le fa oggetto d’un pensiero, accorda loro la sua pietà, perché ella è buona, sovranamente; ma, nonostante la bontà sua – io le presento creature di carne ed ossa, non perfezioni fuor dell’umano – costei pensa con un moto di superbia: – Per me, per virtù mia, quest’uomo che poteva continuare a prendere il suo piacere dovunque, liberamente, ha fatto il sacrifizio di tutto sé stesso – Egli non è geloso degli uomini che ella altra volta pensò; egli dice: – A me, a me solamente questa vergine che tanti sospirarono invano ha dato gl’intatti tesori –. E poichè egli conobbe la vita, è ora in grado di difendere, di tutelare la sua fortuna. A questa vita egli inizia, accortamente, la sposa; e come ella gli ha rivelato cose ignorate ed ha fatto di lui un uomo nel miglior senso della parola, così egli fa d’una fanciulla una donna. L’amor loro è fruttuoso; le loro due vite, che si vorrebbero veramente confondere in una, ma che restano pur separate, si confondono nella vita dei figli. Il tempo passa, e col tempo l’impeto della loro passione si è venuto sedando. Fatalmente, perché tra due volontà diverse l’accordo non può essere costante ed eterno, essi non potranno evitare i malintesi e i dissensi; ma, comprendendone entrambi la fatalità, si accorderanno reciprocamente indulgenza. Conoscendosi sino in fondo, ciascuno avrà compreso – ma nello stesso tempo scusato – i difetti dell’altro – perché essi sanno che nessuno al mondo è senza difetti. La passione sedata non è più passione; e, per una legge ancor essa fatale, nelle anime tranquillate i germi di passione nuove, le tentazioni d’altri amori si verranno insinuando. Ma se ciascuno di essi avrà pensato di poter ritrovare altrove una scintilla della gran fiamma, avrà pure preveduto che la nuova fiamma si spegnerà troppo presto; e se pure questa previsione non sarà stata capace di trattenerlo, un sentimento che in questi due anime vince tutti gli altri avrà combattuto e distrutto il germe della nuova passione. Questo sentimento al quale entrambi sono educati, è il sentimento dell’onore, del rispetto, della dignità; è, in una sola parola, il Dovere. Obbedirne le voci imperiose sarà facile ad essi se ciascuno sarà, com’è, compreso di gratitudine per la gioia che l’altro gli diede e per il bene che gli fece; sarà ancora più facile solo che essi pensino ai figli, ai quali debbono nascondere gli esempii del male. E se la tentazione fu molto forte, se per seguire la via doverosa uno dei due ebbe a sostenere uno sforzo grande, tanto meglio: la sua soddisfazione sarà tanto maggiore, tanto maggiore sarà la stima che l’altro gli deve. Così varcheranno l’età delle prove, finché uno chiuderà con mano tremante gli occhi dell’altro. Ecco quale sarebbe l’amor supremo. Ella vede bene, mia cara amica, che io non ho imaginato un idillio, una favola troppo romantica, tutta ideale e fuor della vita. Io ho fatto molte concessioni alla realtà, tante concessioni che nessuno dirà impossibile un tale amore. Eppure di questo amore possibile, possibilissimo, di questo amore che è il sogno delle migliaia e migliaia di sposi che escono ogni giorno nel mondo dal municipio e dalla chiesa, quanti esempii le potrei addurre?… Ahimè! Gli esempii, ho paura, sono rarissimi… Eccomi pertanto costretto, per rispondere alla sua domanda, di cercare altrove. Una volta io andai in casa del mio amico Hans Ruthe. Costui è, come ella sa, Don Giovanni redivivo. Sui mobili del suo salotto vidi molte delle sue fotografie di uomini e un solo ritratto di donna. Io pensai tra me: – Senza dubbio costei dev’essere stata la favorita di questo sultano; perché egli si tenga sotto gli occhi il solo ritratto di lei bisogna che ella gli abbia lasciato i ricordi migliori –. E poiché, per natura e per necessità di mestiere, io sono molto curioso, così non mi contentai di pensare questa cosa, ma la dissi all’amico mio. Il quale, udendola, si mise a ridere di quel suo riso che è pieno di tanta amarezza. – Mio caro – rispose – tu hai un intuito proprio meraviglioso! Sì, questa è la donna che m’ha lasciato migliori ricordi. I ritratti di tutte le altre io non li ho più: alcuni li dovetti restituire, quando i tristi amori finirono, altri li lacerai quando ebbi ben conosciuto gli originali; altri sono andati dispersi perché non avevo proprio ragione di serbarli, giaceranno inutili in mezzo a chi sa quali carte inutilissime. Questo solo ho custodito e tengo dinanzi agli occhi, perché questa è la sola donna che avrei amata ma che non amai, che forse m’avrebbe amato ma che non m’amò… – Ecco, ella dirà, una risposta "delle mie", cioè una risposta che non significa niente. Infatti, dire che il migliore amore è quello che non fu provato, potrebbe parere una cosa insensata. Vengo pertanto senza perder tempo a più concrete risposte. – Io ero – mi narrò una volta un amico –, in uno stato d’animo quasi disperato per una serie di ragioni che sarebbe troppo lungo spiegarti, quando una sera fui condotto in casa d’una signora, e poniamo che si chiamasse Donna Paola. La dama, proprio quella sera, stava poco bene e non riceveva. Tornai indietro con la stessa tristezza con la quale ero venuto, ma in cuor mio avveniva qualcosa di nuovo; quel contrattempo mi procurava un certo senso di contrarietà. Il nome di Donna Paola non mi era ignoto; anzi avevo molto udito parlare di lei dalle sue amiche; la marchesa Antonietta, specialmente, m’aveva detto: "Vedrete, vedrete: quando l’avrete conosciuta dimenticherete noi tutte". Chi era dunque costei? Forse una bellezza straordinaria? No: io avevo sentito dire, non solo dalle donne, probabilmente sospette, ma anche dagli uomini, giudici certamente credibili, che Donna Paola era tutt’altro che bella; uno, anzi, aveva soggiunto che non gli pareva neppure desiderabile. La fantasia non poteva dunque farmi intravedere, dietro quel nome, una figura affascinante; io non potevo costruire per mio uso e consumo un tipo ideale al quale attribuire tutte le perfezioni. La fama di Donna Paola era fondata sulle qualità intellettuali di lei, sul suo spirito, sulla sua coltura, sulla sua scienza del mondo; ora tu mi concederai che queste doti sono le meno capaci di sedurre da lontano. Nondimeno io ero curioso di conoscere questa donna, e la mia curiosità era alimentata dall’insistenza con la quale la marchesa voleva presentarmi e dallo strano rinnovarsi del primo contrattempo. Tre, quattro volte ancora io mi credetti sul punto di incontrarla, e Donna Paola rimase invisibile. Una sera che arrivai tardi in casa della marchesa, verso la mezzanotte, l’amica mi disse con un tono di irritazione quasi comica: "Ma dunque lo fate apposta?… Va via in questo momento!… Parrebbe quasi che ne abbiate paura!..". Io provai di dimostrare la mia innocenza; ma la marchesa non volle sentir ragione: "Lo fate apposta, la fuggite; non mi darete mai ad intendere che arrivate e andate via, per puro caso, proprio quando ella mi lascia o sta per venire! Adesso spero che la finirete; le ho promesso di presentarvi!". Io risposi, con un fare complimentoso che nascondeva un certo senso di stupore: "Dica piuttosto che ha promesso a me stesso!…", ma ella insisté: "Nossignore, ho promesso a lei"; e con un’espressione del viso che diceva molto più delle parole, soggiunse: "Vi conosce di nome, ha sentito parlare di voi. Vuol sapere se è vero tutto il male che se ne dice. L’altra sera non eravate al Costanzi? Qualcuno vi ha additato a lei…"; dopo una breve reticenza, concluse: "Badate: le piacete!". A un tratto la mia faccia s’imporporò, poi il sangue mi corse tutto al cuore, e da quel momento non ricordo più che cosa mi accadde nel resto della serate. Fu un vero coup de foudre, un fulmine senza lampo – poiché le tenebre che avvolgevano la figura di quella donna restavano impenetrabili. Fu anche come la ebbrezza prodotta da un liquore dolce, una eccitazione di tutte le sopite facoltà del corpo e dello spirito, il repentino sollevamento dell’anima oppressa, la rifioritura del sorriso negli occhi, del canto sulle labbra. E cantando i versi musicali di un Poeta come me tremante di gioia: Io sarò forse l’amante, Io felice le mie notti Dormirò sopra il suo cuore, mi misi a vagare le strade deserte, guardando il cielo, ignaro della terra. No; io ricordo qualche cosa di quella notte: ricordo il pianto muto e soave che sgorgò dai miei occhi quando la gioia dié luogo alla tenerezza, quando tutta la mia gratitudine della quale ero capace esalò dal mio cuore, come un vapore d’incenso, verso l’Ombra… E lo strano incontro di casi che m’aveva impedito di conoscere Donna Paola si rinnovò ancora: la marchesa partì improvvisamente per Parigi, chiamata da una malattia del marito; gli amici si dileguarono a uno a uno perché la stagione s’inoltrava; io stesso dovetti finalmente tornare a casa. La stessa ombra dell’ombra scomparve, io non udii più ripetere il nome di Donna Paola; ma il sentimento destato da quel nome sopravvisse, dolce e tenace, a lungo; e se non potei raffigurarmi quella creatura dalla quale ero stato pensato, alla quale pensavo, la vidi nell’anima quale doveva essere e provai per lei la vitale dolcezza della fede più pura. Questo è stato il mio più degno amore -. Ella dirà: "Se non è zuppa, è pan bagnato!". Infatti la passione dell’amico mio per una donna di cui non aveva visto neppure la punta del naso sarà stata, secondo egli dice, degnissima e suprema; ma difficilmente potrà esser presa sul serio. Ma che posso io farci, amica, se solamente gli amori che non hanno lasciato ricordi sono ben ricordati? Oda quest’altra storia; è un poco diversa, ma poco, in verità. È una confessione anonima, ma come tutte le altre autentica. – Io conobbi questa donna da bambino, quando avevo otto anni. Ella ne aveva il doppio di me. Bella, bella, tanto bella che non posso dire. Udrete fra poco quanto forte fu l’impressione che ne riportai. Aveva il doppio dell’età mia, era una signorina. Era intimissima della nostra famiglia, anzi mezza parente. Un giorno, salutandoci, ci baciammo in viso. Il domani ella mi disse, senza che altri potesse udire: "Come fu dolce il bacio che mi desti!". Io non seppi dir nulla e quasi non credetti alle mie orecchie; ma le inaudite parole s’incisero nel mio pensiero, indelebilmente. Cresciuto di qualche anno, ella soleva prendere il mio braccio e passeggiare con me "come due sposi", diceva. Io non dicevo nulla, trattenevo il fiato per paura che quella felicità finisse, e mi pareva che tutta la bellezza fosse in lei, e tutta la dolcezza, e tutto l’amore. La notte io la sognavo; e nel sogno, con lei, conobbi la voluttà. C’era fra noi troppa differenza di età perché potessi pensare a sposarla: quando ebbi sedici anni ella ne aveva ventiquattro. Ella mi aveva detto un giorno: "Ti aspetterò". Neppure allora io avevo risposto nulla; ero bambino ancora, ella si divertiva a giocare all’amore con un bambino. A venticinque anni andò a marito, in un’altra città. Io che ne avevo diciassette feci quello che fanno tutti, a diciassette anni. E quando provai la realtà dell’amore, risi dei miei sogni, dell’amoretto infantile. Ma accadde questa cosa: che il sogno, di tanto in tanto, tornò: io la vedevo in sogno, l’udivo dire arcane parole d’amore, la vedevo offerirmisi; e tra le sue braccia incorporee io spasimavo come non mai con le creature viventi. Alla lunga me ne venne quasi un senso di sdegno, anzi di vergogna: era possibile che solo un’ombra mi facesse tanto felice? Non dovevo io essere infermo perché questa cosa mi accadesse? Pensavo, per confortarmi, che ciò accadesse perché le creature viventi con le quali potevo trovarmi erano indegne; aspettavo pertanto di avere un’amante, un’amante che fosse mia soltanto e non già di tutti, affinché la realtà trionfasse finalmente del sogno. Ed ebbi l’amante e con l’anima i sensi tripudiarono, e mi credetti guarito; ma una notte, uscendo io dalla casa di lei estenuato dalla voluttà e caduto pieno di sonno sul mio letto, Ella, l’Altra, m’apparve. La sua fronte era velata dalla tristezza, il suo sguardo era pieno di lacrime. "Tu m’hai tradito! Hai potuto tradirmi!… Non ti rammenti più il nostro primo bacio? Come fu dolce il bacio che mi desti!…". Io le risposi, sentendomi struggere dal dolore: "Tu stessa m’hai tradito, sei d’un altro, te ne sei andata lontano…". Ella mi guardò con gli occhi lacrimosi e stupiti. "D’un altro? Ma non sai che io sono la sposa tua, soltanto? Non sai che mi sono serbata a te, intatta? Non sai che tu sei il mio desiderio, la mia speranza, il mio sospiro?…". E le nostre braccia si strinsero, e le nostre bocche si unirono, e io mi destai morente d’ebbrezza… Orbene: questo sogno tornò e tornò ancora, molte volte, durante quell’amore, durante altri amori. Tornò a intervalli or brevi ed or lunghi, talvolta di un anno, talvolta di due; ma quando l’ombra m’appariva e dopo che era svanita, io sentivo, destandomi, che quell’ombra, che quel ricordo trionfava d’ogni realtà. Un giorno, dopo moltissimo tempo, la rividi in persona; era una rovina, invecchiata, disfatta, non più donna. E dopo averla riveduta così nella vita, io la sognai ancora una volta, più bella di prima: "Che cosa hai creduto? Guardami bene: non sono sempre la stessa? Non sono la tua sposa, l’amante tua unica?…". E ancora le sue parole e i suoi atti d’amore mi inebriarono come non mai. Ora ella è morta; intendete: ella è putrefatta sotterra, è ridotta uno scheletro fra quattro assi marcite; e quantunque ella sia morta, pure ella continua ad apparirmi, a quando a quando, e a deliziarmi; e oramai ho compreso: il supremo amore della mia vita è il primo, l’amore dell’infanzia, perpetuato nella memoria, vivificato dal sogno…– Siamo sempre lì: ella dice che questi non sono amori nel vero senso della parola. Ella vuole che io parli di gente che abbia amato di creature di carne e d’ossa, non già sconosciute o meri ricordi. E il mio imbarazzo è troppo grande, perché tutti gli amori dei quali ella vorrebbe ch’io ragionassi lasciano tante amarezze che nessuno pare da preferire ad un altro. Senza le nequizie del tradimento, gli stessi malintesi inevitabili, il disaccordo, lo svanire dell’illusione, il ribadirsi d’una catena che pareva di rose ma che diventa un triste giorno di spine, sono causa di troppa pena. La vita è tanto malvagia e l’amore è tanto difficile, che bisogna quasi augurarsi il caso orribile del quale invece ci dogliamo, il caso di veder morire la creatura amata prima di odiarla e quando il piacere non s’è mutato ancora in disgusto… Se in questo augurio c’è un troppo feroce egoismo, non si potrà far altro che capovolgerlo e desiderare che la morte colga noi stessi nella troppo rapida fase dell’amore felice. Non se ella del resto che questo è il voto istintivo d’ogni coppia d’amante? Quasi una profetica voce ammonisca i due amatori della caducità della loro fortuna, quasi presaghi che questa fortuna è la massima e l’ultima ad un tempo, essi chiamano la morte, la pregano, e sfogliando le cronache dei giornali non è difficile trovare l’esempio di alcuni che se la sono procurata. E se pur vogliamo lasciar da parte la morte, vuole ella sapere quali sono gli amori migliori, quelli dei quali serbiamo una tutta pura e tutta dolce memoria? Sono gli amori troncati bruscamente, ma in tempo, cioè quando ancora il verme della dissoluzione non ha cominciato la nefanda opera sua. Quando Carlo Landini perdette, senza saper perché, Anna Solari; quando la contessa Bianca des Fayolles dovè lasciare per sempre Roberto Berni – ella forse rammenta ancora queste antiche storie – i ricordi di questi amori restarono nel cuore dei due uomini come uno struggimento ineffabile, come l’aspirazione suprema, come tutta la poesia della loro vita. E se finalmente le risposte che le ho date finora non la contentano, se ella vuole l’esempio d’un amore che sia sommamente raro e ineffabile, io ho ancora qualcosa per lei. È l’avventura della quale una sera, a Ginevra, udii la narrazione da uno degli stessi protagonisti. Non posso dirle i loro nomi, ma non le sarà difficile indovinarli. Per sapere chi è l’uomo cerchi fra gli scultori che in più fresca età sono venuti maggiormente in fama; se vuol sapere chi è la donna, cerchi fra la breve schiera delle scrittrici – italiane s’intende – di romanzi e di novelle. Lo scultore e la novellatrice non si conoscevano ancora di persona, vivendo in città lontane, ma molto di nome; e, senza conoscersi e neppure prevedendo di conoscersi un giorno, avevano pensato l’uno all’altra e l’altra all’uno. Udendo parlare dell’ingegno della scrittrice, ed anche della sua bellezza – ecco che ella ha indovinato chi è – lo scultore s’era messo a pensare a lei come a una creatura l’amor della quale doveva essere una gran cosa. E la scrittrice, pensando all’ingegno dell’artista ed alla sua maschia venustà – è uno dei più belli campioni del sesso mascolino, e un’altra volta, all’orecchio, le dirò un particolare inaudito e quasi incredibile – s’era messa a pensare a lui con lo stesso sentimento fatto di desiderio. Ora un giorno, a una festa giornalistica, a Roma, inopinatamente si incontrarono e qualcuno fece la presentazione. Restarono entrambi come fulminati. Tutto scomparve ai loro occhi: la gente che li circondava, il luogo dove si trovavano, lo scopo per il quale ciascuno d’essi era venuto. Un impeto, un’ansia, una febbre di vedersi, di toccarsi, di unirsi, faceva tremare i loro polsi. Egli le disse: – Vieni? – Ed ella rispose:– Andiamo –. Uscirono; non seppero, non rammentano più come; non dissero una parola per via. Egli la condusse nel suo studio. E appena entrati caddero sul tappeto disteso al suolo, avvinghiati furiosamente. Se la nativa freddezza o l’acquisita ipocrisia suggeriscono alle donne una resistenza che annoia ed offende gli uomini fervidamente amanti; se la diversità dei sessi fa che la coppia non si formi tosto; questo accordo fulmineo, questa perfetta intesa, questa esatta reciprocità degli impulsi sarebbero, come già dicemmo, l’ideale. Se non che le leggi della natura non sono arbitrarie. Ora l’amore del nostro scultore e della nostra scrittrice è per questo il loro migliore ricordo: perché durò un’ora e non ebbe domani. La donna partì quando lasciò quella casa; e i due non si sono riveduti mai più…