Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbandonarsi

Numero di risultati: 39 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

EH!La vita...(Novelle)

662385
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1913
  • Tipografia agraria
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Allora Icilio Flores sembrava ritornare ai giorni più desolati del suo lutto, e abbandonarsi alla sopraffazione di esso con una specie di rabbiosa voluttà. Ne era maravigliata anche la signora Lizarri, che si spiegava con uno di questi improvvisi assalti di malata sentimentalità la scena di quella visita così stranamente interrotta. Si erano riveduti dopo più volte, e Flores aveva avuto l'audacia o la sfrontatezza - ella non sapeva quale delle due - di dirle che le sue parole confortevoli di quel giorno gli tornavano a ogni po' alla memoria e gli facevano bene quasi sentisse davvero ripeterle dalla gentile sua bocca. - Peccato - aveva audacemente e sfrontatamente soggiunto - che io non possa formarmi in casa mia l'illusione di un'immagine, di un profumo da farmi credere alla apparizione, a un passaggio della vostra persona colà! Un'ammenda? Un invito? Anche la signora Flores aveva perduto con quell'uomo la sicura padronanza del suo animo equilibrato... E sorridendo e con l'aria di chi accetta una sfida, rispose: - Se non è che questo! Egli non se l'attendeva. In quel fosco pomeriggio di aprile, con quella pioggiolina che veniva giù fìtta, uguale e metteva tanta tristezza, Icilio Flores sussultò sentendo annunziare dal cameriere la visita di una signora, e rimase interdetto vedendo la Lizarri, sfolgorante di eleganza, in piedi, quasi fosse lei che riceveva nel suo salotto. - Vi ho portato la mia immagine e il mio profumo - disse, stendendogli la mano. - Non potrete dire che non sono generosa con voi, per quanto tutto ciò valga poco. La prese per tutte e due le mani, baciandogliele ripetutamente; e invitandola a sedere, soggiunse: - Ecco la Primavera da me! - Lasciate stare la poesia, Flores! Una primavera che arriva con l'uggia del cattivo tempo, senza un sorriso di azzurro, senza un raggio di sole... e forse in un momento inopportuno.... - No credetemi! - Vi veggo star in orecchio, impacciato... - Ho gente... di affari... nel mio studio; ma possono attendere. - Io non ho fretta; a meno che la mia presenza non vi disturbi.... - Che dite mai? - Sarò indiscreta intanto: ammirerò il vostro appartamento fin dove è lecito.... penetrare. - Stimatevi in casa vostra... oh!... Non potevo prevedere; mi sbrigherò presto... Da prima la signora immaginò di aver disturbato una avventura; e, tra lieta e indispettita, si inoltrò, sperando di sorprendere un indizio; decisa a qualunque crudele vendetta... Niente! In una stanzina un armadietto a muro la tentò; esitò un momento, stese la mano alla chiave, la ritirò; poi si risolse; la curiosità ne potè più di qualunque sentimento di delicatezza.... Oh! Oh!... Un vero ripostiglio farmaceutico; boccette, boccettine, in gran parte vuote... barattoli di ogni specie, programmi, fascicoli... Credendo che si trattasse di articoli di toelette, sorrise della vanità maschile, e volle scoprire i misteri cosmetici di Icilio Flores... Spalancò gli occhi dallo stupore e buttò via con ribrezzo le due boccette, i barattoli dei quali aveva voluto leggere l'etichetta.... Poi un riso infrenabile la vinse, un riso che la faceva quasi contorcere, e insieme col riso un senso di pietà che non poteva però sopraffare la gaia impressione della scoperta. Dimenticò di chiudere l'armadietto, e tornando in salotto non potè fare a meno di fermarsi, fortemente commossa, davanti al ritratto di Ernestina. - Povera creatura! Che disinganno dev'essere stato! E n'è morta!... N'è morta! - Andate via? - esclamò Flores, riapparendo. - Questo ritratto mi fa capire che nessuna donna potrà mai consolarvi... Per certi tremendi dolori non ci sono... farmaci di sorta alcuna. Voi rimarreste sempre l'Inconsolabile! Dovete rassegnarvi! E c'era tanta velata feroce ironia nella voce di lei, e tale equivoco sorriso su le labbra, che il disgraziato trovando, poco dopo, aperto lo sportello di quell'armadietto, ne ebbe, per un momento, così profondo senso di avvilimento da pensare al suicidio. - Ma è possibile che la scienza... finalmente?... Questo filo di speranza, come tutte le vane speranze, resistette a ogni delusione. E Icilio Flores morì, a sessant'anni, " Inconsolabile ", qual'era vissuto.

Pagina 125

Racconti 1

662671
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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E scappava via con qualche pretesto, per abbandonarsi nella sua camera alla desolazione del proprio tormento: - Sono dunque di ghiaccio? ... Come mai non lo amo? ... Come mai resto impassibile di fronte a tanta delicatezza di passione che può chiamarsi eroismo? ... E durerà sempre cosí? ... No! no! - rispondeva spaventata. Avrebbe voluto fermare il tempo: - Se la convalescenza di lui fosse piú lenta! - Ah, diventava anche crudele! Quella mattina, scorgendolo in piedi in mezzo alla camera, ella trasalí, come davanti a un agguato. - Entrate, c'è qualcosa che vi aspetta - le disse Fasciotti, additandole il pianoforte verticale aperto tra le due finestre dov'era prima il tavolino. - Come siete buono! - Dite egoista - rispose andandole incontro. - È stato dunque per questo che mi avete costretta a fare una passeggiata? - Volevo farvi una sorpresa -. Ella resta sull'uscio, appoggiandosi su l'ombrellino, indecisa. Nella camera, tutta illuminata dai vivi riflessi del sole di giugno che splendeva fuori, qualcosa d'insolito e di sottinteso la metteva in diffidenza. Egli le porse la mano.. - È un Pleyel - disse Giustina avvicinatasi al pianoforte. - Molto da strapazzo. - Come la suonatrice. - Questo dovrà dirlo il pubblico: io. Sono inesorabile, sappiatelo! ... Dove siete stata? - Per la campagna, da questa parte. Lasciai subito la carrozza. Sono tornata a piedi ... Che giornata di paradiso! ... Ho rubato dei fiori per voi. - Grazie -. Ella guardava il pianoforte, tentata. La passeggiata per la campagna l'aveva scossa. Si sentiva per tutto il corpo un senso di freschezza e di leggerezza. Il fremito delle fronde e delle erbe al lieve alitare del vento, riprendeva a vibrarle dentro eccitato; e socchiudeva gli occhi, quasi ancora offesa dalla troppa luce, come poco prima sotto l'ombrellino, all'aria aperta. - A che pensate? - le domandò Fasciotti, vedendola immobile e silenziosa. - A niente -. Non era vero. Ella pensava al bel bambino veduto saltellare, a cavalluccio di un bastone, su la terrazza d'una villetta ... Pensava alla bionda signora vestita di stoffa grigia, e che sorrideva di gioia materna dinanzi al bel bambino saltellante ... Cosí aveva fatto anche lei, una volta! ... - A niente! - replicò. E per frenarsi, stese una mano su la tastiera del pianoforte, facendovi scorrere su, con scatto nervoso, le dita, quantunque impacciati dal guanto. Quelle poche note la punsero come colpo di sprone. Si tolse in fretta in fretta il cappellino e i guanti: - È il ringraziamento; compatitemi - disse. Appena il pianoforte cominciò a susurrare, a balbettare sotto voce, con suoni che s'interrompevano e si riprendevano, tremolanti, accarezzantisi fra loro, egli si allungò su la poltroncina, rovesciando indietro la testa, socchiudendo gli occhi, cedendo alla deliziosa sensazione che gli si rinnovava nel cuore. - Berlioz! - mormorò sorridente di riconoscenza. A un tratto, i bassi insorsero cantando un coro grandioso, che riempiva tutta la camera di mistica sonorità. Ed ella si rizzò su la vita, irrigidendo le braccia, quasi cercasse far ostacolo alle vibrazioni che sopraffacevano, squassandole i nervi, già tesi per lo sforzo di quell'esecuzione a memoria. Fasciotti si era levato lentamente in piedi, rapito, esaltato dalla voluttuosa frase musicale che in quel momento tintinniva e guizzava rapidissima sul cupo accordo insistente. A un tratto, le si avventò, divorandosela dai baci. - No! No! - ella balbettava supplichevole, quasi svenuta. E le corde del pianoforte ondulavano ancora fra l'incessante scoppiettio. Nell'immediato turbamento, aveva pensato fuggire e scrivergli: "Perdonatemi! ... Il sagrifizio è superiore alle mie povere forze!" - Ma, dopo? - aveva subito riflettuto. - Come ne godrebbero coloro che mi hanno dato la spinta! Prima tradí il marito; ora abbandona l'amante, e non ha aspettato neppur molto! Cosí direbbero, cosí. È orribile! Dunque una persona buona e onesta può diventar cattiva e miserabile anche quand'ella non vuole? E c'è chi grida: "La ragione! La ragione! ..." A che giova, a che mai, se non è buona a salvarci dall'improvviso accecamento d'un dispetto, se ci lascia addentare e stritolare da una circostanza che deci de, senza rimedio, dell'avvenire d'una vita? - E trambasciava al ricordo di quei baci, come a rinnovantesi offesa. - Che posso piú farci? ... È inevitabile. In un pazzo impeto, non son venuta a dirgli: "Mi accusano d'essere la vostra amante; e sia, almeno; eccomi qui!" Ah! Si era figurata che bastasse soltanto dir ciò, per diventare amante come tant'altre. Invece, la gentile raffinatezza dell'uomo innamorato che le stava attorno senza chieder nulla, appagandosi di poco, aspettando, paziente ... forse perché era sicuro; invece, quella gentile raffinatezza si mutava in martirio per lei. - Oggi andremo fuori insieme - egli le disse una mattina. - Cercheremo il vostro nido. Mi è stato indicato un bel posto. - Grazie. Voi pensate a tutto - rispose Giustina, sorridendo tristamente. - È per vedervi meno seria ... Mi sembrate cangiata. Dov'è andata la vostra bella serenità? Dove la tranquilla dolcezza del vostro sguardo? ... Non lo negate: siete cangiata. - Come potrei essere la stessa? - Non osavo dirvelo; per non importunarvi; ma io vi vorrei come prima. Vi ho amata a quel modo e, sí, vi voglio a quel modo! - Scendiamo -. Il cocchiere, per isbaglio, li menava lungo una strada di campagna, inoltrandosi verso Porta a Pinti senza ch'essi vi badassero. Quell'aria tiepida, smagliante di luce; quel rigoglio di fronde che traboccava fuor dei muri di cinta con lieta foga primaverile; quel cinguettio di uccellini nidificanti tra le siepi o inseguentisi su pei rami, pigolando d'amore; quella gioconda fioritura di erbe e di piante selvatiche che profondeva sui cigli e lungo i lati della strada tesori di ciocche pavonazze, di bocci ross i e bianchi, di calici gialli, violetti, sanguigni, turchini, aperti e tremolanti su gli steli o mezzi nascosti tra le foglie; quella gran pace sorridente all'ombra degli alberi o al sole, su i vigneti, sugli orti umidicci, su i seminati dalle spighe quasi bionde; ... oh, quel magnifico spettacolo essi non se l'aspettavano punto! E continuando a tenersi per mano, tacevano, distratti. - Via Lungo il San Gervasio? - domandò il cocchiere a un contadino. Bisognava tornar indietro. Fasciotti rise del contrattempo e disse: - Indovinate che pensavo? - Se fossi stata indovina! - ella rispose. - Pensavo ... No, non voglio dirvelo -. Giustina tacque. Le parve di veder lampeggiare in quegli occhi un affettuoso rimprovero meritato, e non volle mentire per iscusarsi. Le parve di veder lampeggiare in quegli occhi anche un'improvvisa fierezza d'amante risoluto di trionfare, come trionfava lí attorno tutta quell'irrompente forza di amor vegetale, ed ebbe paura di provocarla. - Siete muta oggi - egli le disse, vedendo che lo lasciava parlare senza interromperlo, o gli rispondeva con monosillabi. - Vi ascolto. Dite tante belle cose! - Ma il suo accento era triste. E al ritorno, scendendo l'ariosa via tracciata dalla nuova Firenze a piè dei colli fiesolani, sentendolo ragionare allegramente del grazioso nido trovato per lei nella palazzina al numero venti di via Lungo il S. Gervasio, sentiva un grande accoramento: - Quella carezzante allegria non era forse un'insidia? - Piuttosto avrebbe preferito ch'egli avesse adoprato la forza: - Cosí sarebbe finita! - E nelle notti insonni, ripassando a una a una le mute sollecitazioni indovinate in un bacio piú caldo o piú lungo, in un'occhiata, in una reticenza, ella s'incoraggiava. Chi sa? Quell'illogica repugnanza del suo corpo si attutirebbe nel possesso; sarebbe forse vinta; chi sa? ... Oh, non voleva piú avere l'apparenza d'un'ingrata! Sentendolo ritornare a casa, dopo una giornata di servizio alla Fortezza, gli uscí incontro sul pianerottolo. E la stessa rassegnata dolcezza che pietosamente le sorrideva negli occhi, le tremava anche nella mano stesa a dargli la buona sera. - Che ore eterne per me! - egli le diceva in camera, accarezzandole i capelli e dandole dei bacettini su la fronte mentr'ella tentava di sfibbiargli dal fianco il cinto argentato della sciabola. Le parve piú bello in quel punto, stretto nella divisa, con le spalline e i bottoni che luccicavano, e il maschio volto, dai baffi neri fieramente rilevati, rizzato sul collo chiuso nel goletto bianchissimo; e fece uno sforzo e gli tese le braccia teneramente. Ma nelle ombre della sera che invadevano la camera silenziosa, al mormorio di quelle affettuose parole che le sfioravano la guancia, calde del fiato di lui, la riluttanza le si ridestava già e piú brusca, piú forte, quasi i nervi e il sangue, ribellati all'impero della volontà, la spingessero a gridare: "No, non dev'essere! ..." mentre avrebbe voluto dire il contrario. Egli lo capí, da quel lieve tremito che l'agitava, da quelle labbra ghiacciate che non rendevano i baci: - Voi non mi amate ancora! L'ho sospettato. - No, Emilio, t'amo! T'amo! - ella mentí, disperatamente, ingannando anche se medesima. E poco dopo, mentre colui la ringraziava sotto voce, grato del possesso vittorioso, ella diceva internamente: - Almeno m'ha creduto! - E gli si abbandonava tra le braccia, scossa da un gran convulso di ribrezzo. - Devi annoiarti in questa solitudine. - Ho pianoforte, musica, libri! ... E poi, mi dai tu forse tempo? - Faccio quel che posso. - Fai troppo. Non è un divertimento salire cosí spesso fin quassú. - Non è neppure una marcia. In quei primi mesi discorrevano talvolta cosí, alla finestra del salottino di via Lungo il San Gervasio, intanto ch'egli fumava, un po' impensierito di quella specie di stanchezza della voce di lei; e Giustina, co' gomiti appuntati sul cuscino del davanzale, continuava a rispondergli guardando ora il bel panorama di Firenze che rizzava laggiú, nella pianura, la cupola di Brunellesco, il campanile di Giotto e la guglia merlata di Palazzo Vecchio torreggiante sui tetti; ora il piazzale Michelangelo che pareva là, a due passi, col David che quasi si poteva toccare stendendo il braccio; ora monte Morello e gli appennini di Pracchia, sfumati fra i vapori, lontano. - Ti annoi; perché negarlo? - Ti dico di no. - Tanto meglio -. Quella volta, verso le sette di sera, presero una strada di campagna, poi svoltarono per una viottola solitaria, serpeggiante su la collina. - Che bella veduta! - ella disse. - Bellissima! - E si sedettero sulla spalletta rustica d'un ponticello, simili a innamorati che abbiano ancora mille cosine da confidarsi. Infatti egli le confidava la sua speranza d'un prossimo avanzamento di grado; s'era già preparato a un esame. - Quando saremo maggiore, - aggiunse scherzando - avremo piú autorità. Ordineremo: "Cara signora, vogliateci un po' piú di bene." E la signora - la disciplina soprattutto! - ci vorrà un po' piú di bene. Con un maggiore non si canzona. Giustina sorrideva: ma in quei grandi occhi tranquilli e su quelle grosse labbra colorite, il sorriso prendeva un'indefinibile espressione di dolorosa tristezza. Il ragionare, dietro una cosa e l'altra, era cascato intorno all'amore. - Perché m'ami? - gli domandò improvvisamente Giustina. - Non sono bella, tutt'altro; non sono capricciosa ... - Che ne so io? Sei qualcosa di meglio; lo giudico dagli effetti. - Non hai detto la stessa cosa a tant'altre? Sinceramente, s'intende. - Oh! Io credo che si possa aver amato cento volte e non aver mai provato una passione. - Non lo capisco. - Lo capisco ben io. Tu m'ami; mi vuoi certamente bene, ma ... - Quando una donna ha già dato all'uomo tutta se stessa ... Gli uomini non possono figurarsi, neppure dalla lontana, che cosa significhi: darsi! - Vi date forse? Vi lasciate prendere. - Povere donne! E ne menate anche vanto. - Ma lasciarvi prendere è la vostra forza. Nella guerra di amore, qualunque vittoria risulta sempre al rovescio. Chi capitola detta i patti e le condizioni. - Come s'indovinerebbe il militare, anche senza la divisa! - Ecco, per esempio, questo bacio qui ... - Emilio! - ... parrebbe, a prima vista, una violenza. Ma potevo non dartelo? La violenza l'ho sofferta io, da questi occhi, da questa bocca, da questa personcina che s'appoggia trionfante al mio braccio, e quasi mi sgrida ... per un bacio! - Emilio! - Gli ulivi stormivano attorno, nel gran silenzio della sera. - Faremo tardi, - ella disse dopo breve pausa. - Avremo la "celeste paolotta ..." E additava, ridendo, la luna montante, rossa e grande, su le colline scure, nel cielo a pecorelle: - Pare che salga di fretta dietro le nuvolette biancastre. - - Di notte, la campagna mi fa paura - rispose Giustina. - Anche quando l'esercito marcia in armi al tuo fianco? - In verità ella aveva assai piú paura di quell'allegra eccitazione rivelata dalle parole, dagli slanci improvvisi, dal tono stesso della voce. Scendevano silenziosi, a passi corti e lesti, per la viottola deserta, mentre i grilli trillavano al lume di luna, e i "chiú" di due assioli si rispondevano, distanti, a intervalli, e il gracidio delle rane dal vicino Mugnone saliva, quasi coro, monotono e solenne. Egli andava accarezzando sul suo braccio la mano di lei. E a quella carezza insistente che le produceva su la pelle delicata un sottile bruciore, Giustina sentiva riempirsi il cuore d'immensa commiserazione di sé. La vita le sarebbe parsa quasi f elice, se tutto si fosse limitato a quella dolce intimità piú dello spirito che del corpo. Perché a lui non bastava? E il ricordo della terribile sensazione di ribrezzo che la frequenza, ahimè!, non attutiva e che l'illuso orgoglio dell'amante scambiava per tutt'altro, le faceva correre un brivido freddo per la persona e le inumidiva le palpebre. - Ecco un fanale; sei contenta? - egli le disse. - Siamo quasi in città ... Ma che hai? - soggiunse subito, vedendole inaspettatamente portare agli occhi il fazzoletto. - Sciocchezza! ... Pensavo ... a quella bambina di cui ti parlai l'altra volta. Povera creatura! ... Mi è venuta in mente tutt'a un tratto, con quel visino magro e palliduccio che sparisce tra i folti capelli castagni ... Quando s'affaccia alla finestra dirimpetto, raccolta nello scialletto anche in agosto, e mi guarda, e mi guarda intentamente ... mi fa quasi male. E nel pensare a lei ... che sciocchezza! Parlava affrettata, come chi vuole ingannare, con un misto di pianto e di riso che l e tremolava nella voce; e intanto si asciugava gli occhi. - Via - disse Fasciotti, senza sospettare niente - quando ne avremo una anche noi ... - No, no! - ella lo interruppe. Aveva dovuto mentire. Il bambino suo, il caro bambino suo le era venuto in mente in quel momento, quasi il venticello che faceva stormire gli ulivi le avesse portato all'improvviso qualche profumo della villa Rosati, situata in mezzo al ristretto parco, presso lo Scrivia, dov'ella passava l'estate col figlio e il marito, lieta della fresca serenità di tutto quel verde e di tutta quell'ombra, tra i gridi allegri e i colpi dei cacciatori risuonanti dalle macchie a piè del colle. E cosí mentiva tutti i giorni, ora che il rimpianto del passato tornava a riprenderla, ora che la sua ragione non dava piú torto a quegli altri che l'avevano spinta nell'abisso. Non provava piú contro di essi il cieco sdegno di prima; non ne parlava piú con quell'accento duro e sbalzante, vibrato come guizzo di frusta dalle sue labbra convulse, nei giorni seguiti all'arrivo di Giulia da lei richiamata. - Tu che sai! ... - le aveva ripetuto interrottamente. E il cuore le si era vuotato d'ogni resto di fiele. Era stata ingiusta, al pari degli altri, forse piú; lo riconosceva. Le apparenze non stavano tutte, tutte!, contro di lei? Qual testimone poteva ella invocare per giustificarsi pienamente davanti a suo marito e a suo padre? ... E non aveva, con quel colpo di pazzia, dato ragione all'accusa? Si strizzava le mani, si mordeva il labbro, aggirandosi smaniante pel salotto, quando non le riusciva di co ntinuare a leggere perché i caratteri le si confondevano sotto gli occhi turbati e il pensiero andava via via, lontano, quasi a piangere dietro il portone della casa di suo marito, dietro il cancello della villa in mezzo al parco presso lo Scrivia, dietro l'uscio della casa paterna; a piangere e a domandar l'elemosina d'un perdono ch'ella sentiva di meritare e che sapeva, pur troppo!, non le verrebbe mai accordato. E il pianoforte gridava allora, ripeteva la sua confessione, domandava perdono in nome di lei con le dolenti melodie dello Schumann e dello Chopin, con le divine suonate del Beethoven, con le rubeste sinfonie del Wagner e del Listz, che chiamavano alle finestre dirimpetto e a quelle del primo piano della casa i visi attenti e maravigliati di parecchi inquilini; e tutti gli amati fantasmi della sua vita le sorridevano attorno in quei momenti, la colmavano di carezze e la lasciavano commossa e spossata tosto che si dileguavano lontano, lontano, piú lontano della stessa infanzia, quasi in un'altra esistenza! ... - Ah, il mio bambino! ... Ah, il mio caro bambino! - sospirava con le lagrime agli occhi, vedendo quel visino affilato di creaturina malaticcia che ella trovava sempre alla finestra dirimpetto, ogni volta che, terminato di suonare, s'affacciava a cercare con la faccia ardente la fresca impressione dell'aria aperta. Un giorno la bambina le sorrise. - Come stai, carina? - ella le domandò. E la tenerezza di mamma desolata le addolciva la voce. La bambina non rispose, e continuò a sorriderle timida. - Che fai lí? - Mi diverto a sentirla suonare. - Vieni qui, col permesso della tua mamma; suonerò a posta per te -. Non le era parso vero d'aver potuto attirarsela in casa. Fasciotti la trovò agitata, rimescolata, con quella magra creaturina seduta su le ginocchia, stretta tra le braccia, e che aveva negli occhi la meraviglia di tutte quelle carezze inattese. - Se tu sentissi che vocina! Pare un flauto - ella gli disse. - Cosí, con lei, non ti annoierai in questa settimana di mia lontananza. - Vai via? ... Per l'esame? - Questa sera, coll'ultimo treno. - Signor maggiore, buon viaggio! - Era anche allegra in quel momento. Ci voleva tanto poco per renderla quasi felice. Appena però gli lesse in viso il malumore per la presenza della bambina, non ebbe piú coraggio d'accarezzarla, di baciarla, e la mise a terra, con cuore soffocato. - Vo a casa - disse la bambina. Giustina non osò trattenerla; e l'accompagnò fino all'uscio, facendosi promettere piú volte che sarebbe tornata - Verrai tutti i giorni, è vero? - Se la mamma vorrà. - Perché non dee volere? - E riprese a baciarla, indugiando. Un dubbio la tenne su la corda: - Sospettava egli qualcosa? - Era partito evidentemente malcontento dell'insolita resistenza di lei la sera del commiato. E per calmarlo, per scancellargli la brutta impressione, per cacciargli di mente ogni sospetto, gli aveva scritto parecchie lettere lunghe, affettuosissime. - Mentiva forse scrivendogli cosí? No. Gli era grata di quella passione che pareva moltiplicasse la sua delicatezza e la sua forza nella crescente intimità della loro vita; e lo amava, sebbene in modo diverso, con grande slancio dell'anima ... Che poteva farci se il suo corpo resisteva? ... Ah, se ella avesse avuto un po' piú di coraggio! Se avesse potuto essere sincera e dirgli ... Come dirglielo? Era impossibile. Gli dovea questo gran sacrifizio, dopo che quegli per poco non le aveva sacrificato anche la vita. E quand'egli le rispose: "Tu m'ami meglio da lontano. Scherzi a parte, nelle tue lettere mi sembri un'altra. Strana creatura! Una frase, una sola frase di queste trovate ora, come tu dici, in fondo al cuore, pronunziata dalla tua bocca, mi avrebbe fatto salire ai sette cieli. Ed hai taciuto, cattiva! ... Mille baci sui ditini che hanno tenuto la penna"; quand'egli le rispose cosí, il foglio le cascò di mano, e il subito lentore dello scoramento la fece anche impallidire. - È suo marito che le scrive? Tornerà presto? - disse la bambina, raccattando il foglio. Essa trasalí, ammutolita. I signori Castrucci, andati a farle una visita di ringraziamento per le tante cortesie verso la loro bambina, l'avevano fatta trasalire allo stesso modo, due giorni avanti, domandandole: - Suo marito sta bene? - Grazie - ella aveva risposto. La signora Castrucci, che ciarlava volentieri, si era messa a compatire le povere mogli degli ufficiali: - Dev'essere una vitaccia! ... Ora qua, ora là, come gli zingari. Le spalline e la sciabola, sí, fanno un cert'effetto; ma un cantuccio di terra ben ferma sotto i piedi ... Suo marito è capitano? - Capitano -. E se la conversazione si fosse prolungata un tantino di piú, i Castrucci l'avrebbero vista tramortire a quel: "Suo marito, suo marito" che le andavano ripetendo con l'idea di farle cosa grata. Ah, la terribile logica d'un passo falso! ... Non era mai giunta a persuadersi come si potesse mentire ... ed anche quest'altra volta aveva dovuto, stando zitta, mentire! Sí, il vero marito ella non se lo sentiva piú solamente dentro la testa, ma nel sangue, nei nervi, in tutto il corpo, incancellabile marchio di possesso fino a quel punto non avvertito! E il ribrezzo, il terribile ribrezzo che ogni volta quasi l'annientava, era appunto la sorda protesta di quel possesso, il rifiorire di quel marchio. Lo comprendeva finalmente, ora che la sua ragione vedeva chiaro, ora che poteva misurare dalla profondità del proprio abisso l'altezza da cui era precipitata in un momento di p azzia. - Si sente male? - le domandò la bambina. Ella la prese tra le braccia, coprendola tutta di baci. Ah, quelle gotine magre e palliducce non erano le gote piene e rosee della sua creatura lontana! Voleva però illudersi, voleva stordirsi; voleva, soprattutto, vincere il terrore che già la invadeva all'annunzio del ritorno del maggiore che quella lettera aveva recato. E il martirio stava per ricominciare! La giornata era grigia, come l'anima sua; l'aria afosa e pesante. Piú tardi, l'umidore della pioggiolina - che gettava un gran velo cinericcio su la pianura, sui colli attorno, su le montagne lontane - la penetrava fino al midollo, le si mutava addosso in tedio spossante, in torpida oppressione. Tuttavia ella ritornava spesso a osservare il tempo dietro i vetri della finestra, e rimaneva là con gli occhi fissi, quasi con l'orecchio teso ad ascoltare il lontanissimo fischio della vaporiera che in quel moment o doveva forse montare su pei fianchi degli Appennini, divorando la strada, infilando le gallerie, spuntando gioiosamente all'aria aperta sull'orlo degli abissi e attraverso le fosche vallate, com'ella si rammentava d'averlo visto una volta, in un'altra giornata di pioggia, col sole che si affacciava di tanto in tanto dalle nuvole squarciate e faceva sorridere ogni cosa. E il treno correva, correva, serpeggiando, arrampicandosi; le parea proprio di vederlo. E vedeva anche lui, in un angolo di vagone, sdraia to, con gli occhi socchiusi, sorridente alle visioni della prossima felicità che gl'ingannavano l'impazienza dell'interminabile viaggio. Ma il cuore le rimaneva triste, quantunque il cielo già si rischiarasse al soffio del vento che spazzava le nuvole verso monte Morello e verso Pracchia, gettando incontro al treno che veniva a gran velocità - le pareva ancora di vederlo - quello sprazzo d'oro risplendente su la campagna lavata allora allora dalla pioggia. - Signora, c'è l'uomo coi fiori - disse Giulia sull'uscio. - Sono le cinque? Aveva ordinato quei fiori per le cinque di sera, e la giornata era trascorsa cosí rapidamente ch'ella ne provava stupore. - Il pranzo è per le sette e mezzo? - Sí. Giustina andava disponendo quei fiori un po' da per tutto, con arte gentile, scegliendoli dal gran canestro che Giulia le portava dietro. Giulia, di tratto in tratto, arrischiava qualche parola: - Il signor capitano ... il signor maggiore - ora bisogna dirgli cosí, è vero? - chi sa come sarà contento! ... Dovrà fare una bella figura a cavallo; andremo a vederlo a le riviste ... - Giustina non rispondeva, e spargeva sul tappeto gli ultimi fiori rimasti, lasciandoseli cader di mano lentamente, preoccupata. L'odore delle rose, dei ciclamini e dei giacinti tuberosi riempiva il salotto. - E il martirio stava per ricominciare! - Ogni minuto che passava era un precipitarsi verso il fatale momento dell'arrivo. Colui tornava piú innamorato, piú illuso di prima. Vi aveva contribuito ella medesima; vi contribuiva ancora, abbigliandosi come per una festa, scancellando dal suo volto ogni traccia di sofferenza, tentando di farsi una maschera per continuare ad illuderlo ... - Poiché questa illusione lo rende felice! ... Non sarebbe assai peggio se dovessimo soffrire tutti e due? - E lo guardava quasi contenta, quasi illusa nei primi momenti, lasciandosi baciare una mano in ringraziamento delle bellissime lettere lette e rilette, e imparate a memoria ... - E tutti questi fiori? - Non hanno nulla di guerresco - ella rispose. - Decorazione sbagliata. Dimenticavo la marcia! - Suonate però poche battute della marcia del Tannhäuser, si levò dal pianoforte. La musica la eccitava, e non ne aveva punto bisogno. - Raccontami, raccontami tutti i particolari dell'esame. - Chi se ne rammenta piú? E poi ... lascia andare!. - Irrequietamente Giustina si levava da sedere col pretesto d'aggiustare un mazzo di fiori, di moderare la fiamma d'un lume, di spostare senza un perché qualche gingillo; e tornava a sederglisi allato, ripetendo: - Raccontami, raccontami - con tremito della voce che si comunicava a quella di lui. - Che vuoi che ti racconti? La cosa piú bella, piú deliziosa del mio viaggio è stato - occorre dirlo? - il ritorno; sono questi momenti, sono questi ... Giustina tentava di schermirsi: - Può venire Giulia lascia andare -. Tenendola stretta stretta tra le braccia, egli intanto le ripeteva nell'orecchio una frase dell'ultima lettera: - E hai taciuto! ... Cattiva! - Bevevano il caffè. Seduto presso il tavolino, sorridendo, tra un sorso e l'altro, Fasciotti spingeva verso di lei boccatine di fumo, come altrettanti colpi d'incensiere: - Non sei il mio idolo? Giustina, in piedi, assaporando lentamente col cucchiaino la calda bevanda e aspirandone il profumo, lo ringraziava con accenni del capo e degli occhi, ridiventata seria in quell'intimità del salotto che l'ora tarda e il paralume rosso, a testa di gufo, rendevano piú raccolta del solito. Nel punto che Giustina posava la tazza, egli la prese per la mano - Vieni, siedi qui -. E le passava un braccio attorno alla vita e le teneva stretti i ginocchi sui suoi ginocchi. - Voglio sentirti accosto, cosí. Fino a due settimane addietro, nel venire quassú, facevo la strada simile a un sonnambulo, dubitando sempre che e tu e questa palazzina e questo salotto e la nostra vita di amanti non avessero a sfumarmi dinanzi con lo svanire d'un sogno durato apparentemente sette mesi e in realtà qualche minuto. E quando penso che c'è stato un tempo in cui tutto questo non poteva avere per me neppure la fluida apparenza d'un sogno! ... Ti vedevo di rado; tu mi evitavi. Se potevo passart i accanto e sentire il suono della tua voce ... Ricordi? ... Ricordi? Parlava sommesso, come in un soliloquio, tenendo gli occhi socchiusi fissi in un punto della parete dirimpetto, dove quelle visioni del passato gli apparivano e sparivano, dissolvendosi nella rapidità dello sfogo: - Ricordi? ... Ricordi? - E Giustina gli rispondeva di sí, di sí, con lieve movimento della testa abbassata, stringendosi forte le mani perché egli non avvertisse come il cuore le spasimasse all'incosciente crudeltà di quell'effusione che continuava a sfiorarle il collo, verso la nuca, riandando i terrori, i dolori degli ultimi mesi, quando la sicurezza dell'amante felice traballava davanti a un ostacolo impalpabile e invisibile - non se n'era accorta? - che gli pareva si frapponesse a un tratto fra loro e li tenesse divisi, in dist anza, a dispetto dei corpi che s'allacciavano, delle labbra che confondevano i respiri ... - Non te ne sei accorta? No? Terrori e dolori d'un secondo; non lasciavano traccia; ma cosí intensi!, cosí intensi! ... Se tu avessi parlato prima! In quelle tue lettere, sí, c'era il suono, c'era l'accento della tua voce. Se tu avessi parlato prima! ... Ci voleva la lontananza - non ti pare cosa strana? - per legarci piú intimamente. Oh! Io credo all'amore, sai? La sola sensazione non mi basta. Son rimasto un tantino collegiale, come mi canzonano i miei amici. Peggio per loro, se non sapranno mai que l che valgano questi divini momenti. Mi sembra che noi stiamo ricominciando da capo, quasi io avessi avuto finora soltanto metà di te ... Ed ora tutta, tutta, tutta! È vero? - Ella seguiva a dir di sí con la testa, macchinalmente, nell'indistinta percezione del suono di quella voce diventata mormorio sommesso di baci parlanti o di parole bacianti, non lo capiva bene; zufolio agli orecchi; rimescolamento di tutta la persona; gran male; dove? Nel cervello o nel cuore, non lo capiva bene egualmente. E non s'opponeva all'improvviso movimento con cui egli sollevatala su le braccia, la portava di là, in camera, delicatamente, quasi temesse di svegliare una persona addormentata. Respira va appena, nella estrema prostrazione della volontà e di tutte le forze vitali, sotto l'aggravarsi d'un incubo che le impediva di fare la minima resistenza all'irrequieto agitarsi delle dita che le sfibiavano il vestito, le tiravano le maniche e la spogliavano senza scosse, con perizia femminile ... Ma appena, nel levar via il busto, le dita le sfiorarono, per caso, le vive carni del seno, Giustina scattò in piedi, appuntandogli le braccia contro il petto, con gli occhi smarriti: - Per pietà, no! ... Per pietà! - E, nascondendo il viso tra le mani cadeva di fianco su la sponda del letto, scossa da un tremito violento, in singhiozzi: - Per pietà! - Ella sentí, per qualche istante, un respiro grosso e frequente, quasi rantolo soffocato; e si restrinse tutta, aspettando il terribile scoppio di quel furore d'amante. - Non vi accadrà piú, ve lo giuro! - disse una voce irriconoscibile. E Fasciotti fece per uscire. Giustina gli si gettò a traverso, delirante: - Emilio! ... Emilio! ... - Senza rispondere, egli tentava di svincolarsi da quelle mani che lo brancicavano e lo afferravano e tornavano a brancicarlo. - Emilio, siate generoso! ... Fatemi male quanto volete ... Ah! - Aveva dovuto gridare; quegli le stritolava le mani, senza avvedersene, dalla rabbia di sentirsi ridicolo, sul punto di piangere come un bambino, con gli occhi che vedevano una pioggia di fiammelle attorno, e il cuore che gli scoppiava. Fu un baleno. - Perdonatemi ... il torto è mio. Entrate in letto ... vi ammalerete ... Te ne prego, entra in letto - soggiunse con l'apparenza d'un sorriso. Le ravviava le coperte, le aggiustava i guanciali sotto il capo: - Il torto è mio ... Avrei dovuto avvedermene -. E si buttò su la seggiola a piè del letto, molle d'un sudorino ghiaccio, quasi il rovescione che in quel punto riprendeva a sbattere furiosamente su i vetri della finestra lo avesse inzuppato da capo a piedi. La pioggia continuava, fra gli urli del vento che pareva si raggirasse attorno alla palazzina per sradicarla dalle fondamenta. Che gliene sarebbe importato? Un piú orrendo colpo aveva distrutto in un istante il superbo edificio della sua felicità ... e per sempre. Giustina non osava guardarlo, né rivolgergli la parola, cosí sbalordita dell'accaduto da non accorgersi ch'egli stava là, rattrappito su la seggiola, da piú d'un'ora, e non poteva passare la nottata a quel modo. Non se n'accorgea neppure lui. Finalmente si rizzò, scuotendo il capo, strizzando gli occhi; e visto che Giustina si levava anche lei e si metteva a sedere sul letto tenendogli le mani in atto supplichevole, le disse con voce alquanto calma: - Vado di là, un momentino. - Perché? - Ho bisogno d'aria ... - Aprite pure quella finestra ... Emilio, siate generoso! - ella ripeté, alla mossa di risposta sfuggitagli suo malgrado. - Oh, non dubitate! ... So il mio dovere -. Tornato a sedersi, con le braccia sui ginocchi, le mani intrecciate, curvo, abbattuto dall'incredibile disinganno, egli ruminava - Perché dunque è venuta da me? ... "M'accusano d'essere la vostra amante, e sia! ..." Chi l'ha forzata? Non lo sapeva forse che non avrebbe potuto amarmi? - Giustina, tenendo la faccia tra le palme, riprendeva a singhiozzare - Che ho mai fatto! ... Che ho mai fatto! - La pietà di lui, il terrore delle conseguenze di quella rottura - rottura irrimediabile, non poteva illudersi, con quel carattere - la inchiodavano lí, raggomitolata, quasi il mondo stesse per crollare ed ella attendesse di minuto in minuto il crollo finale: - Che ho mai fatto! - La pioggia sbatteva furiosa su i vetri, il vento urlava e fischiava. - Quanto mi ero ingannata! È stato assai piú generoso ch'io non osassi sperare -. E quei mesi d'autunno le parvero un paradiso, con le tiepide giornate, gli splendidi tramonti, le belle serate che in quel posto, tra la campagna e la città, le producevano una soave sensazione di pace e di benessere in armonia con la pace e il benessere della sua vita, ora ch'egli continuava a visitarla non piú da amante ma da amico, e come se niente di nuovo fosse avvenuto tra loro. Lo avrebbe voluto, è vero, un po' meno serio, un po' meno freddo; si vedeva, forse, in quella sua indifferenza un tantino d' ostentazione, una lieve ombra di vendetta ... - Ma, povero cuore!, deve costargli un gran sacrifizio mantenere le apparenze. Gli son grata infinitamente di questo contegno. Neppure Giulia, ch'è in casa, s'è accorta di nulla -. Ella si sentiva felice di poterlo amare a quel modo, come avrebbe voluto amarlo anche prima, come avrebbe voluto essere amata anche prima. - Ma allora, Dio mio, non poteva essere! Mi ero illusa io pure, un istante -. Ora respirava a pieni polmoni la libertà del proprio corpo in cui tutto era stato scancellato dalla purificazione del gran pianto. Delle atroci sofferenze dei mesi scorsi le rimaneva un'idea lontana, incerta, simile a ricordo di cattivo sogno; e in quanto all'avvenire, oh!, viveva perfettamente rassicurata. Ne aveva avuto parecchie prove. Una sera, verso le dieci e mezzo, appena i Castrucci erano andati via con la bambina che cascava dal sonno, Fasciotti, acceso un sigaro, s'era messo a leggere il "Fanfulla", senza dire una parola, senza voltarsi un momento verso di lei che lavorava con l'uncinetto nervosamente, a testa bassa, nell'ansia angosciosa d'un'apprensione ... - Assurda, ne conveniva. Ma ... che voleva egli insomma? Aveva già letto, da cima a fondo, il giornale; e intanto restava là, col sigaro spento tra le labbra, muto, mezzo imbroncito! - L'orologio a pendolo, dalla mensola del caminetto, suonò le undici e tre quarti. Fasciotti si scosse. Giustina, vistogli posare il giornale, riaccendere il sigaro e lisciarsi i baffi, aspettava, impaziente, ch'egli parlasse. Dopo quella trista nottata, non erano mai rimasti cosí a lungo da solo a solo. Convinti tutti e due dell'inutilità e del pericolo d'una spiegazione qualunque, in quelle prime settimane l'avevano prudentemente evitata ... - Ora, forse? ... - Agitatissima, Giustina stava per lasciarsi scappare una domanda trattenuta a stento su la punta della lingua da un quarto d'ora, quand'egli la prevenne: - Se volete andare a letto ... Io resterò qui un altro poco ... per Giulia, capite? Mandate a letto anche lei. Uscirò senza far rumore. È meglio che nessuno sappia ... Giulia sopra tutti. - Come vi piace. Buona notte -. Giustina, improvvisamente commossa, non aveva saputo rispondere altro, stendendogli la mano. - Buona notte -. E Fasciotti gliela strinse leggermente. Ma un'altra volta egli avea fatto di piú. Andata a letto per non contraddirlo, Giustina non poteva chiuder occhio, aspettando di sentirlo partire. Quell'incredibile prova di delicatezza e di riguardo le produceva una specie di contrazione alla bocca dello stomaco ... - Fino a che ora rimarrà in salotto? - Alle due era ancora là. Ella però non osava muoversi, temendo appunto che in quella circostanza, contro ogni proponimento, una parola non li trascinasse alla dolorosa spiegazione evitata. Quante ore erano passate? Non lo sapeva precisamente. S'era forse appisolata; non aveva inteso nessun rumore all'uscio di casa né al portone. E trepidante era saltata giú dal letto per accertarsi, con cautela, se c'era lume in salotto. E che respirone a quel silenzio e a quel buio! La mattina dopo, molto tardi, Giulia le domandava: - Signora, si sente male? - No, perché? - Il signor maggiore, prendendo il caffè, mi ha raccomandato d'aspettare che lei avesse sonato. - Ah! ... Gli occhi, tutt'a a un tratto, le si erano ripieni di lagrime. Dimenticava però ogni cosa per la beata certezza di sapersi amata tuttavia. Le apparenze non potevano ingannarla. E, in ricambio, il suo cuore gli si dava tutto, senza restrizioni, pieno di confidenza nelle promesse che leggevagli in viso vedendolo diventare di giorno in giorno meno riserbato, meno freddo, vedendogli smettere a poco a poco quell'aria diffidente e guardinga contro di lei e di se stesso, che aveva reso cosí penose le prime settimane della crisi; allora pareva che l'amico non potesse punto ada ttarsi a sostituire l'amante, e che sul capo di tutti e due pendesse la minaccia di crisi peggiore. La sua vita aveva già ripreso il tranquillo andamento d'una volta. Poco, quasi nulla le mancava per sentirsi nuovamente cullata nella lieta pace domestica, per tornare a rannicchiarsi nell'ingenuo egoismo d'indolente felice. Se lo rimproverava in certi momenti. Quella bambina malaticcia, ma buona e intelligente, che veniva a tenerle compagnia da mattina a sera e ch'ella conduceva attorno nelle frequenti corse per le gallerie, pei musei, pei negozi e nelle passeggiate alle Cascine, al giardino di Boboli, o lungo il Viale dei Colli, non usurpava lentamente l'affetto materno, a danno della creatura delle sue viscere ... alla quale forse avevano fatto credere che la mamma era morta? E le teneva un po' di broncio, per qualche ora, per mezza giornata, broncio di cui la bambina non s'accorgeva. - Oh, Dio! ... Come difendersi da quel naturale sentimento d'egoismo, ora che poteva finalmente riposarsi dopo tanti atroci dolori? Ora che almeno, a intervalli, le riusciva di sopire dentro di sé ogni ricordo del passato? - Quella pace interiore le fioriva fuori, sul volto, in piú sorridente vivacità degli occhi, in piú facile zampillo della parola che riprendeva la gentile festività nelle conversazioni serali, quando Fasciotti veniva lassú accompagnato da due o tre ufficiali del suo reggimento, ed ella - dopo il the - cedeva di buona voglia all'invito di suonare qualche pezzo della solita musica indiavolata, come diceva il tenente Gusmano che in fatto di musica capiva soltanto quella del suo compatriotta Bellini: - Il Dio della musica! ... E Dio ce n'è uno solo! - Les dieux s'en vont - gli rispondeva Giustina, ridendo. E per fargli dispetto si metteva a strapazzare un'aria della Norma, o una cavatina della Sonnambula: - Tralalalliero, tralalalà! - Né finiva il pezzo, ma attaccava subito, vigorosamente, la sinfonia del Vascello fantasma, un coro del Lohengrin, o qualcosa di simile. - Bum! Bum! Bum! Bum! - replicava Gusmano - È musica questa? - E Fasciotti rideva insieme con altri, dando ragione alla signora. Rovistando le carte di musica, il tenente Gusmano avea tirato fuori quella fatale sonata del Berlioz che rimaneva da un pezzo sepolta sotto un mucchio di fascicoli. - Ah! La signora ci nasconde le sonate. Berlioz ... È un tedesco? - domandò Gusmano - No? Dunque questa dev'essere una cosa assai bella. La signora, per gastigo, viene pregata di sonarla -. Gli occhi di lei s'erano subito rivolti verso Fasciotti, indecisi. - Sí, Giustina, suonatela - egli disse con un che d'ironia. - Vo' persuadermi se gli effetti di questa sonata non provengano, in gran parte, dallo stato dell'animo di chi la sente. Rischio di perdere qualche illusione. - Allora, no! - ella rispose. - Dunque non m'ama piú! ... Soltanto per pietosa generosità di gentiluomo egli fa il sacrifizio di continuare a venire da me. Sí, sí; lo vorrei detto piú chiaramente? ... Non m'ama piú! Non mi ama piú! Sul primo aveva sentito una leggera mortificazione d'amor proprio, lieve puntura di spillo al cuore, graffiatura a fior di pelle; nella nottata però non poté conciliar sonno, irrequieta sotto le coperte, con stupore e sbalordimento che aumentavano di mano in mano: - Non m'ama piú? - Le pareva impossibile. Fra le tante supposizioni fatte, il caso che Fasciotti potesse cessare d'amarla non le era mai passato per la mente. Doveva discutere un'assurdità? Lo stimava tale. - Infine, che deve importartene? - si diceva da sé. - Non è anzi meglio? - Non ne restava convinta. Si sentiva già venir meno la piú valida forza che le rendeva tollerabile quella vita d'isolamento e di sacrifizio a cui s'era volontariamente condannata. La sua pace, la sua tranquillità, dopo tante lagrime e tanti strazi, stavan per essere nuovamente distrutte? ... - E se m'abbandona col cuore, col piú terribile degli abbandoni, che sarà di me? - Tortura di nuovo genere. Come rifiatare? Come lagnarsi di lui? ... Quella settimana le parve un secolo. Ogni parola, ogni gesto di Fasciotti serviva a rischiararle, a confermarle la crudele certezza della scoperta. L'orgoglioso ritegno non le aveva impedito di mostrarsi piú cordiale del consueto con lui, d'umiliarsegli dinanzi con sfoggio di sottintesi imploranti misericordia. - Sentite - aveva osato poi dirgli - questa vostra affezione d'amico è l'unico soffio che mi tiene in vita. Se venisse a mancarmi ... - Che fareste? - Non lo so -. Fasciotti, guardatala un momentino attentamente, colpito della insolita stranezza di quell'accento, aveva soggiunto - Non vi è venuta meno finora. Il mio dovere ... - Disgraziatamente il cuore umano non conosce doveri. E poi, non si tratta di doveri. - Me lo dite voi? - Giustina non aggiunse parola. Credeva aver detto troppo; avea capito anche troppo. E appena fu sola, pianse. - Non m'ama piú! ... Ma perché non m'ama piú? Perché? A questo grido del cuore che le parve uscisse dalla bocca d'un'altra persona nascosta dentro di sé, rimase come fulminata. - Come? ... Lui mi tradisce cosí? Lui! ... E perché non mi ama piú? Perché? - Un atroce dolore alla nuca e alle tempie la distese per tutta la giornata sul canapè della camera e ve la tenne inchiodata fino a tardi. Giulia, sentendola lamentare, era entrata piú volte, domandando - Signora, debbo chiamare il dottore? - No. - Che si sente, signora? - Qualcosa qui ... Non è nulla -. E, all'arrivo di Fasciotti, trovò tanta forza da levarsi, da nascondergli il gran male che le spaccava la testa. - Dunque andrete a Pisa? - Per un'ispezione; due, tre giorni. - Mi scriverete? - La mia lettera arriverebbe insieme con me. Ella girava gli occhi attorno, con aria insospettita, cercando, annusando l'aria ... - Questo profumo ... L'avete addosso voi? - Io? - ... Mi va al capo, mi stordisce. Sí, l'avete addosso voi. - Ah, è vero! - egli rispose, ridendo con qualche impaccio. - Per fortuna non siete nel caso di diventare gelosa. - Oh, no ... per fortuna! - balbettò Giustina, pallidissima. - Vi fa proprio male? - Sí, molto! - Allora vado via; scusatemi. - A rivederci -. Si sentiva morire. Due giorni di stupore e di delirio, sotto il tremendo colpo della meningite. Giulia, atterrita, aveva telegrafato a Pisa: "La signora è in pericolo di morte." Fasciotti, credendo quel telegramma esagerazione di cameriera affezionata, non s'era affrettato ad accorrere. Non tornava il giorno dopo? La signora Castrucci, però, capita, dal continuo vaniloquio dell'ammalata, la vera condizione di Giustina, aveva detto a Giulia: - Bisogna telegrafare anche al marito e alla famiglia di lei. Non vorranno mica lasciarla morire abbandonata cosí -. Fu telegrafato. Nessuno rispose. La poverina, con la faccia congestionata, le labbra tumide e pavonazze, sfigurita, aveva appena forza di balbettare delirando: - Enrico! ..., Te lo ... giuro! Babbo! ... Sono innocente! ... Credimi almeno tu ... tu solo! ... - La suora di Carità, in piedi presso il capezzale, le passava spessissimo un po' di ghiaccio su le labbra infocate, poi rimaneva immobile, con le mani dentro le larghe maniche dell'abito grigio, mormorando preghiere. Sollevata una mano gonfia e contratta, Giustina cominciò ad accennare, quasi chiamasse qualcuno che credeva di vedere a piè del letto: - Enrico! ... Enrico! ... - Ah, il torto è tutto di suo marito! - disse Giulia alla suora che a quel nome aveva abbassato gli occhi. Giustina rantolava, continuando sempre ad accennare a piè del letto con la mano gonfia e contratta: - Enrico! ... Perdonami! ... En ... rico! ... - Povera signora! ... Se avesse saputo che, quando gli uomini non perdonano, c'è sempre Dio che perdona! - disse la suora. E inginocchiatasi, a mani giunte, cominciò a recitare: - De profundis! ... - Mineo, 25@ 25 marzo 1885@. 1885.

Racconti 3

662768
Capuana, Luigi 4 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Abbandonarsi al cattivo umore sarebbe una specie di suicidio all'età mia. Da lungo tempo, ho preso le mie precauzioni per evitare, a ogni costo, che s'impossessi di me. È quistione di igiene, fisica e spirituale. - Come? Un materialista suo pari? - esclamò il canonico Venini, che si compiaceva di punzecchiare il dottore, quasi per incitarlo. - Materialista e spiritualista, secondo le occasioni, per modo di dire. Queste due qualifiche si equivalgono ... Ma non mi faccia divagare. Dicevo dunque: divertiamoci pure coi nostri balocchi scientifici; non arriveremo mai a fare per l'umanità quel che la natura ha fatto per gli uccelli. - Anzi, anzi! - lo interruppe nuovamente l'avvocato Veraldi. - Ci ha dato l'intelligenza, l'ingegno per crearci da noi qualcosa di meglio delle ali. - I palloni dirigibili? Gli aeroplani? Balocchi! Balocchi! Nient'altro. Le ali non costano niente agli uccelli ... Io rimpiango i milioni - non faccio conti esagerati - che costano e costeranno gli aeroplani. Pochi, pochissimi, potranno darsi il gusto di «aeroplanarsi», direbbe lei, baronessa, che - ricorda? ... No, fui io che proposi «spallonarsi» invece del suo «scarrozzarsi in pallone». La paternità di queste due bruttissime parole è, pur troppo, mia ... Ah! C'è la guerra, l'offesa, la difesa ai confini! Benissimo; ammettiamolo pure; ci saranno però, se non ci sono già, cannoni che faranno fare dei capitomboli agli aeroplani con tutto il loro carico di bombe e di materie esplodenti ... Ma io non volevo discutere di questo, io volevo semplicemente raccontare ... - Ci siamo! - Ci siamo, signor canonico, perché non ci riuniamo qui per annoiarci con inutili ragionamenti che non caverebbero un ragno da un buco ... Le dirò soltanto: se fossi papa, invece di scomunicare certi poveri diavoli, autori di libri che nessuno leggerebbe se non fossero proibiti, sicuro, se fossi papa e avessi fede nell'efficacia del mio potere spirituale ... - Lasci stare il papa, dottore! - Non lo tocco; lo rispetto; è il piú elevato personaggio della terra ... Voglio dire che, se fossi papa, scomunicherei tutti gli inventori di ordigni di distruzione e coloro che se ne servono ... Disgraziatamente ... Ma permettetemi di raccontarvi la geniale trovata del marchese di Santa Pia che qualcuno di voi deve aver conosciuto o, per lo meno, sentito nominare. No? lo dimentico facilmente di esser troppo vecchio. Eppure questo ricordo mi richiama appena a trent'anni fa. Il marchese di Santa Pia passava per mezzo matto perché non faceva mai quel che fanno e possono fare tutti o quasi tutti. Bell'uomo, alto, robusto, con una salute di ferro, con molti quattrini che gli permettevano di cavarsi qualunque capriccio - e non ne abusava, bisogna aggiungerlo in sua lode - si era ultimamente dato a un allevamento strano. Diceva: «L'uomo ha già addomesticato il cavallo, il bue, il cane, il gatto; perché non dovrebbe tentar di addomesticare il re dei volatili, l'aquila?» - Era proprio matto quel suo marchese! Si vede! - Avvocato mio, passano per matti tutti coloro che tentano un'ardita invenzione a cui nessuno ha pensato prima di essi. - Tanto è vero che non è riuscito ... - È riuscito; se non che ... - Il diavolo ci ha messo la coda! ... - Non il diavolo, precisamente, a cui non poteva importare nulla del buon successo di quell'impresa. Egli ha ben altro da fare - è vero, signor Canonico? - per portarsi all'inferno tante belle signore ... - È riuscito? E non se n'è saputo nulla? - insisté l'avvocato Varaldi. - Si è saputo quel che si poteva sapere; la tragica morte del povero marchese, ma incompletamente. Santa Pia, l'antico dominio dei marchesi Contaris, non è neppure un villaggio ma un piccolo aggregato di case attorno al castello feudale in parte crollato. L'ultimo marchese ne aveva fatto restaurare un'ala e andava a passarvi parecchi mesi dell'anno accanito cacciatore solitario, tra le balze delle montagne che circondano il castello nascondendolo alla vista dei viaggiatori affacciati agli sportelli del treno nella lontana pianura, attratti dall'orrido del paesaggio. Io ero allora ospite del medico condotto di un paesetto vicino, mio antico compagno di università. Cosí mi accadde un giorno di incontrare il marchese di Santa Pia in completo arnese di cacciatore montanaro ... Eravamo armati di fucile anche noi, il mio collega ed io, cacciatori da ridere ... «Noi ci conosciamo soltanto di vista - egli disse al mio amico. - Le confesso che non mi dispiace. Coi medici, è meglio starne lontani. Brave persone! ... Mah! ... » Rideva cosí sinceramente, che le sue parole non offendevano. Lo incontrai altre due volte; e siccome ero solo, ebbi il piacere di essere invitato al castello. «Non invito pure il medico condotto, per una mia superstizione». Stavo per confessargli: sono medico anche io; ma la curiosità mi suggerí la ipocrita scusa che mi trovavo colà da villeggiante, da ospite, e non esercitavo. Se fossi stato sincero, probabilmente, non avrei visto né saputo niente della maraviglia che il marchese di Santa Pia voleva far conoscere soltanto ad opera compiuta. Tanto è vero che il valore morale di certe nostre azioni è molto relativo. «Lei ha una faccia che ispira fiducia, - mi disse. - Farà due cose: manterrà, finché occorra, il segreto; mi darà il suo schietto giudizio intorno al mio gran tentativo». Promisi; e fui introdotto nel - non so come chiamarlo ... Si dice: pollaio? Perché non si potrebbe dire: aquilaio? - nel vastissimo locale, specie di immensa gabbia, con da un lato finestre provviste di forti inferriate, e parecchi scompartimenti ridotti a nidi per l'allevamento delle aquile, dall'altro. Indicandomi la vecchia aquila, con a un piede la grossa catena fissata a un anello piantato nel suolo, mi disse: «È il mio trofeo di cacciatore. La colpii a un'ala sei anni addietro. Per farla vivere, dovei amputargliela. La curai, la guarii e - lo crederà? - mi ha dimostrato la sua gratitudine, addomesticandosi a poco a poco. Oggi posso accostarmele, accarezzarla; siamo buoni amici. Ma da principio ... Il mignolo di questa mano mi fu stroncato da essa con un colpo di becco, quando era ferita e non voleva esser fatta prigioniera. Stette due settimane senza prender cibo né acqua, terribilmente immobile, minacciosa, con atteggiamento proprio reale. Sembrava che volesse lasciarsi morire. Ora so che le aquile possono sopportare anche piú lunghe astinenze». Ho dimenticato di dire - soggiunse il dottore - che il luogo dove si trovava quell'aquila era uno stanzino che precedeva il vastissimo locale di cui ho parlato. Entrando colà, ebbi la straordinaria sorpresa di veder alzarsi a volo tre aquile che però non parevano spaventate dalla nostra presenza. Si libravano in alto, rasentando il soffitto, quasi senza battere le grandi ali aperte, e, di tratto in tratto, mandavano fuori un grido acuto, una specie di lamento che faceva strana impressione. A un fischio del marchese, si affrettarono ad accorrere e a posarsi ai suoi piedi, con le teste ritte e i fulvi occhi vivacissimi rivolti verso di lui, interroganti, pareva, e in attesa di ordini. «Sono state tolte dal nido - specie di grossolano corbello intessuto tra i rami di una quercia, in cima a quella montagna - e la indicò. - Erano implumi. Le ho imbeccate per parecchi mesi; non si saziavano mai. Appena mi vedevano entrare, tendevano il collo, col becco aperto; riconoscevano che ero - dirò cosí - il loro balio. Messe le penne, mi venivano dietro come tre cagnolini ... E sono cresciute domestiche. Ho fatto una prova. Ne condussi una all'aperto, libera ... Volò in alto, lontano; credei che non sarebbe tornata più ... E tornò subito, al richiamo del mio fischio. Ripetei la prova con le altre due ... Allora mi convinsi che la mia idea di render pratico l'allevamento delle aquile non era un'assurdità». «Che vuol farne?» domandai. «Voglio farne ... i nostri cavalli aerei, i nostri aeroplani viventi. Non sorrida, non spalanchi gli occhi cosí ... ! Tra le aquile, la specie detta reale è la piú forte. Credo che con l'esercizio si potrà rendere piú robusta ancora e piú svelta. Abbiamo fatto questo miracolo con la razza cavallina. Pare che tentino di farlo con gli struzzi, in Australia. Io sono a buon punto. Guardi». Staccò dal muro un arnese di cuoio, una specie di briglia, e l'adattò alla testa di una delle tre aquile, che pareva orgogliosa di esser preferita. Infatti aperse le ali, per dar comodo al marchese di cavalcarla, e prese il volo, lentamente da prima, andando su e giú pel vasto locale, obbediente alle redini, accelerando la corsa all'incitamento del fischio del cavaliere, abbassandosi e innalzandosi ... Io guardavo a bocca aperta, quasi non credendo ai miei occhi. «È maraviglioso!» esclamai. «Dovrebbe provare anche lei. Si faccia coraggio». «Sono sempre stato un meschino cavalcante ... Si figuri!» «Non le pare che il problema sia risoluto?» «Solamente ... » obbiettai. «Dica pure ... ». «Solamente non so fino a quanto si possa calcolare su l'obbedienza del re degli uccelli». «Si può calcolare assai meno su l'obbedienza degli ordigni di un dirigibile, di un aeroplano. L'aquila poi ha su di essi un gran pregio: non teme il vento piú impetuoso. Tra un anno mi propongo di fare esperimenti pubblici. Voglio essere assolutamente sicuro. E poi, non ci sarà mai una macchina che potrà sollevarsi cosí alto, fino a due mila metri. Non parlo della spesa. L'aquila non costa niente, appena il suo mantenimento. Le par poco? Tra cinquant'anni ... » Non potevo dire che il marchese di Santa Pia fosse un sognatore. La realtà che mi stava sotto gli occhi superava infatti le arditezze del sogno. Aveva inventato anche una specie di leggero sellino da fissarsi al petto dell'animale, all'attacco delle ali. Una solida tigna avrebbe mantenuto saldo il cavaliere sul sellino, per evitare che fosse preso dalla vertigine dell'altezza e dello spazio. Aveva pensato a tutto, fuorché alla orrenda possibilità ... - Il dottor Maggioli si fermò un istante, quasi volesse godersi l'ansiosa aspettazione suscitata negli ascoltatori. - Dopo un anno - riprese - di continuo allenamento - mi pare che si dica cosí - egli era sicuro del fatto suo. Esercitava le tre addomesticate all'aria aperta, tra le gole delle montagne che circondano il vecchio castello. I suoi contadini lo vedevano, con terrore, partire sul dorso di un'aquila, perdersi tra le nuvole, radere le aspre cime rocciose, scendere, risalire, e tornare dalla aerea passeggiata, col viso raggiante di sodisfazione; forse lo credevano un mago. E un giorno essi furono impotenti spettatori dell'incredibile combattimento, della spaventosa tragedia che avveniva nello spazio. Videro apparire due punti neri su l'azzurro limpidissimo, che rapidamente s'ingrandirono, accostandosi all'aquila cavalcata dal marchese, e cominciarono a rotearle attorno. Erano due aquile che agitavano le ampie ali minacciosamente. Il marchese dové capire il pericolo, e spinse la sua alla discesa. Allora quelle si decisero all'assalto, chi sa? forse con l'intenzione di liberare la compagna asservita, forse sospinte da aspro bisogno di preda. La lotta durò pochi momenti. Colpito alla testa dai furibondi rostri delle assalitrici, il marchese fu visto abbandonarsi sul dorso della sua aquila che tentava di resistere colpendo alla sua volta col becco, quantunque il suo collo fosse impacciato dalle redini strette dal pugno del suo cavaliere. Muti di orrore, i contadini videro che una delle due aquile, afferrate col rostro le redini, trascinava in alto, dietro a sé, quella che piú non opponeva resistenza, mentre l'altra con gli artigli sollevava il peso del corpo del marchese, agevolando il volo di tutte e tre verso la cima piú alta della montagna. Sparirono dentro un'insenatura della roccia ... E questa volta fu atteso invano il ritorno del marchese. Otto giorni dopo ne trovarono lo scheletro buttato via fuori dalla grotta dove le due aquile avevano il nido. La carcassa e gli arnesi della addomesticata, giacenti poco discosto dallo scheletro, fecero capire che anch'essa era stata uccisa e divorata. Nessuno, dopo la disgrazia del marchese, si ricordò delle tre aquile, di quella con un'ala, e delle altre due addomesticate. Un lontano parente del marchese, che ne raccolse l'eredità, arrivato al castello dopo un mese, le trovò morte di fame -. INDICE COSCIENZE I. PAROLA DI DONNA II. IN VINO VERITAS…? III. ELIGIO NORSI IV. MA, DUNQUE? V. L'ANELLO SMARRITO VI. ESITANZE VII. RETTIFICA VIII. IL PARANINFO IX. SFOGO X. L'ABATE «CASTAGNA» XI. RISPOSTA XII. UN CONSULTO LEGALE XIII. UN CRONISTA XIV. SORRISINO XV. LETTERA DI UNO SCETTICO XVI. UN SUICIDA XVII. IL BRACCACCIO XVIII. IL CASO DI EMILIO ROXA XIX. TORMENTATRICE UN VAMPIRO I. UN VAMPIRO II FATALE INFLUSSO LA VOLUTTÀ DI CREARE I. I MICROBI DEL SIGNOR SFERLAZZO II. UN GELOSO!!! III. L'INCREDIBILE ESPERIMENTO IV. LA REDENZIONE DEI CAPILAVORI V. LA SCIMMIA DEL PROFESSOR SCHITZ VI. IL BUSTO VII. LA CONQUISTA DELL'ARIA VIII. DUE SCOPERTE IX. L'INVISIBILE X. IL DOMATORE DI AQUILE 129

E il quarto «io» intanto, il fanciullone, stava ad ascoltare con un senso di doloroso smarrimento; profondamente indignato che qualcosa dentro di lui, a lato di lui (qualcosa che egli riconosceva cosí intima parte di sé da non riuscire a distinguerlo come fuori di sé) potesse badare alle scarpettine, al cappello azzurro, e fare osservazioni di scettica psicologia, invece di abbandonarsi tutto al voluttuoso dolore da cui egli si sentiva invaso e che era dolcezza e tormento nel medesimo punto. E in questo stesso punto in cui mi compiaccio di aver ripreso completa padronanza di me, di essere rientrato in quello stato d'animo che tu chiami scetticismo perché non sai qualificarlo piú esattamente e che io ho sempre negato di esser tale; in questo stesso punto in cui vorrei raccontarti freddamente come la nostra rottura sia avvenuta, e spiegarti il mio telegramma che ti ha tanto maravigliato, se rifletto un istante ... Ma lasciamo andare; riprenderemo, quando sarò tornato costí, o quando tu sarai venuto qua, le nostre discussioni, e allora tenterò di convincerti ... Ricordi quel tale da noi chiamato direttore delle pompe funebri perché vestiva sempre di nero, e che molti stimavano pazzo perché credeva di avere in corpo sette spiriti, ai quali imponeva di non parlare tutti a una volta, se gli accadeva d'imbrogliarsi nel discorrere? Ricordi? Tenterò di provarti che quel tale ... Perdona, caro Poldo: vorrei fare proprio lo scettico, prendere in burletta il mio dolore, i sentimenti che mi tumultuano nel cuore da due giorni in qua, recitare davanti a te la commedia che soglio recitare davanti a tutti dal giorno in cui mi son messa sul viso la comoda maschera dello scetticismo ... ma, no, non posso piú fingere. Ho bisogno di esser sincero, di sfogarmi liberamente, di buttar via la maschera almeno con te e mostrarmiti qual sono, povera creatura sofferente, umile e meschina come tutte le umane creature che non mentiscono agli altri e a se stesse. Tre giorni fa, ella era seduta presso quella finestra dirimpetto al tavolino d'onde ti scrivo, col libro da leggere posato su le ginocchia, e con gli occhi che evidentemente guardavano un punto lontano, o assorti in qualche visione che le velava gli oggetti circostanti. Ed io, osservandola a intervalli, interrompendo il lavoro che stavo per finire, pensavo freddamente: - Come siamo già estranei! - La risoluzione di dividerci per sempre era stata presa, di accordo, il giorno avanti, dopo cinque anni di un'unione che non aveva avuto niente da invidiare a un matrimonio all'infuori della sanzione legale. Se ci fossimo sposati, come due o tre volte, nei giorni piú felici, io le avevo proposto, a quest'ora ella non sarebbe chi sa dove, abbandonata a chi sa quale destino, né io qui solo, con uno sgomento nel cuore che mi dà la sensazione della inutilità della mia vita. L'ultima volta che io le ripetei, insistendo, quella proposta, ella rispose: - Che temi? Non dobbiamo essere piú orgogliosi di sentirci legati spontaneamente, invece di saperci legati quasi per forza dal giuramento civile e religioso? - E nota ch'ella si sdegnava quando sentiva parlare di divorzio. Ella pensava che la gran virtú del matrimonio insolubile consiste appunto nel salvarci, nostro malgrado, dalle viltà e dalle aberrazioni prodotte da passeggere circostanze che poi si lasciano dietro grandi rimpianti. Ella pensava anche che il matrimonio civile è incompleto se non va accompagnato al religioso; e non era fervida praticante. Soltanto ora comprendo la immensità del suo sacrifizio. Ella ha voluto che io fossi libero di dividermi da lei il giorno in cui mi fossi accorto di non poter piú vivere insieme, il giorno in cui ella avrebbe potuto essere un ostacolo, un impaccio, una gravezza con qualche ragione e anche senza nessuna ragione. La colpa è stata di tutti e due, piú mia che sua però. Giacché io ho dovuto essere un enimma per lei, che non è mai riuscita a penetrare se i miei atti e le mie parole fossero in contraddizione coi miei sentimenti, coi miei pensieri. E lei si è quindi sforzata di parere un enimma anche a me imitandomi in tutto, quasi per mettersi all'unisono con me, quando avrebbe dovuto, invece, lasciar trasparire la discordanza e mostrarsi proprio quale era. Cinque anni di stupida finzione da l'una parte e dall'altra; cinque anni di balorda commedia divenuta a poco a poco abitudine da non permetterci piú di riconoscere se quella nostra vita fosse una finzione o una realtà, e se noi non ci esaurissimo con quel cattivo gioco di cui ci compiacevamo come di un necessario elemento di felicità. E ci siamo esauriti, fino a non riconoscerci piú, fino a credere che oramai non avevamo piú niente da dirci, né da sentire insieme, e che era inutile e sciocco il continuare la prova. Ed io - la prima parola di accenno è venuta da lei - ho potuto sospettare ch'ella si fosse stancata o che qualche altro avesse preso il mio posto nel suo cuore! Ho avuto la spudoratezza di scrivertelo in questa stessa lettera quantunque fossi già convinto dal contrario, tanto l'abitudine di fingere e di mentire, per vanità di apparire affatto diversi dagli altri, superiori agli altri ed emancipati da qualunque pretesa convenzione sociale, persiste in noi anche nei momenti, come questi, che avrei dovuto essere sincerissimo. Ero risoluto di esser tale, per soddisfare un impeto del mio povero cuore, e intanto - hai visto? - ho cominciato la lettera lasciando parlare il finto me, il mentitore me, quello che tu chiami lo scettico e che è invece il miserabile vanitoso che pretende di apparir superuomo! Oh! Ci sarebbe un rimedio a tanto disastro: richiamare telegraficamente Teresa, ricominciare da capo, svelarle il segreto della mia miseria spirituale ... Ma chi le assicurerebbe che io non mentisco ora come ho saputo mentire per cinque anni? ... E chi mi assicura - caro Poldo, compiangimi, sono arrivato fino a questo! - chi mi assicura che questa resipiscenza, questo scoppio di sincerità non sia un inganno di quella stessa vanità che mi ha ridotto qual sono? E gli intimi «io» multipli mi si accapigliano dentro come i sette spiriti di quel tale e parlano tutti a una volta. E uno mi dice: - Lascia andare! Meglio cosí! - E un altro mi dice: - Troppo tardi ti sei accorto del tuo grand'amore per Teresa! Ormai! Ormai! - E un altro mi suggerisce: - Niente è perduto! Ella ti ama troppo da non essere felice di ricominciare da capo! - E un altro: - Non far ridere la gente della tua debolezza di spirito. La vita è una commedia; rappresentala bene fino all'ultima scena! - Ed è quel che piú s'impone a me, quantunque il suo suggerimento sia quello che mi fa piú soffrire e che non cesserà di farmi soffrire! Ho tralasciato di scrivere e mi sono aggirato, come uno sperduto, per queste stanze dove è rimasta la impronta del suo cuore, del suo spirito con la suprema eleganza della disposizione dei mobili, dei quadri, delle stampe, dei ninnoli, e direi quasi della luce e dei colori, perché tutto è opera di lei. L'unica trasformazione da lei voluta fare una settimana prima di partire è stata quella del suo salottino, ora mezzo vuoto, con un'espressione di tristezza, come di luogo saccheggiato da violenza sacrilega. Ed io non l'ho impedita! Ed io l'ho compiacentemente aiutata con inconsapevolezza che ha dovuto essere ineffabile strazio per lei! Ed ho potuto telegrafarti i saluti di Teresa e soggiungere: Incipit vita nova! No, continua e continuerà la misera vita bugiarda! E mi durerà questo sgomento, giusto castigo dell'aver falsato violentemente in me la natura umana per vanità, per orgoglio di esser stimato un ribelle, un vincitore su tutte le leggi sociali! Ed ero un vinto! Debbo riconoscerlo ... 2@ 2 pomeridiane. Ho riletto questa lettera. È assurda! Spero che tu non la giudicherai sincera ... Ho esitato a spedirtela ... e la spedirò ... La commedia continua! Applaudisci o fischia: non me ne importa niente. Ci rivedremo presto. Tuo aff.mo CESARE

La mano, scrivendo a questo modo, è impedita di abbandonarsi all'impulso del pensiero; viene infrenata dall'attenzione di dover foggiare le lettere con meticolosa simmetria, di stupefacente grossezza, in guisa da riempire le pagine col minor numero di parole possibile e dare nello stesso tempo la illusione di ricevere lettere, come la vostra, di «venti» paginette che ricopiate da me si ridurrebbero appena a due paginette e mezzo. Eppure in queste due paginette e mezzo la vostra furberia ha saputo accumulare tanti cavilli, tanta malafede, tanta cattiveria, tanto veleno insomma da poter ammazzare facilmente un povero cuore come il mio. Badate: non vi scrivo per confutare ad una ad una le pretese ragioni che vi hanno spinto a questa rottura. Quindici giorni di riflessione, quanti ne sono trascorsi dalla sera in cui il postino mi ha recato la vostra lettera «raccomandata» (avevate forse paura che io fingessi di non averla ricevuta se fosse stata semplicemente affrancata?), mi hanno già fatto capire che si tratta di un fatto definitivo, e che avrei commesso un'imperdonabile stupidaggine tentando di dimostrarvi che vi siete ingannata, e che i vostri terrori di una vicina catastrofe erano allucinazioni facilmente dissipabili, dato che si trattasse davvero di allucinazioni prodotte da momentaneo eccitamento del sistema nervoso. Vi scrivo soltanto per farvi sapere che oggi sono calmo, rassegnato alla mia sorte di «uccello da richiamo», di allumeur di amore come mi sembra abbia qualificato lo Stendhal coloro che le donne destinano maliziosamente a tal ridicolo ufficio. Non sono ben sicuro della citazione stendhaliana; ma in questo momento mi sembra inutile riscontrarne l'esattezza. E poi ricordo che le citazioni non vi piacciono; le stimate pedantesche. So che c'è stato qualcuno che è andato ad informarsi dal mio portiere se ero ancora in città o se ero partito e per qual posto. Il portiere era stato prevenuto di spedirmi le lettere, ferme in posta, a Parigi. La mia prima risoluzione, dopo il fiero colpo ricevuto con la vostra inattesa lettera, era stata appunto quella di mettere quanto piú spazio potevo tra voi e me; e avevo scelto Parigi, città ricca di distrazioni per un deluso di amore come me. Avrei potuto darvi ad intendere che la vostra lettera mi ha lasciato indifferente e che vi sono anzi grato di non aver atteso che la mia passione fosse maggiormente divampata per poi buttarvi il freddo getto di acqua destinato a spegnerla evidentemente tutt'a un tratto. La mia grande sciocchezza mi induce ad esser sincero, e a confessarvi che ho sofferto terribilmente, quattro o cinque giorni, come innamorato e come uomo. L'amor proprio, il sentimento della dignità non sempre rimangono sopraffatti dall'impeto selvaggio della passione. E il mio era proprio selvaggio contenuto e represso da quasi un anno, quando non osavo di manifestarvi neppure con un accenno di quale amore vi amavo. Cinque giorni di mortale angoscia, di sconvolgimento dell'intelletto e del cuore molto vicino alla pazzia, non dovrebbero sembrar pochi al vostro orgoglio femminile. Certi sentimenti vanno giudicati, piú che dalla durata, dalla loro intensità. E la intensità di quel che ho sofferto in quei cinque giorni potrebbe soddisfare le pretese eccessive di qualunque donna anche piú vanitosa di voi. Se il mio dolore fosse stato meno intenso forse durerebbe ancora; ed io vi avrei scritto da Parigi una lettera probabilmente molto diversa dalla presente. L'eccesso mi ha salvato; e per questo, invece che dalla capitale della Francia, vi scrivo da una deliziosa villetta della riviera ligure dove potrò serenamente riflettere sul mio caso, se il lavoro, a cui mi son rimesso dopo un'interruzione di sei mesi, mi concederà il tempo di abbandonarmi a tale meschina occupazione psicologica. La villetta è quasi in riva al mare, circondata da tre lati da un giardinetto dove la mite temperatura di questo aprile ha già fatto esplodere una vigorosa fioritura che voi mi invidiereste, se poteste vederla, voi che amate tanto i fiori, dato pure che il vostro cuore possa amare qualcosa. Dall'altro lato, verso il mare, si stende un morbido tappeto di arena gialliccia a cui le onde rinnovano continuamente la loro ricca frangia di spuma. Sono solo solo, perché la vecchietta che ho presa per servirmi non m'importuna affatto con la sua presenza. È persona primitiva; non sa leggere né scrivere, e si stupisce della vita eremitica che io meno, specialmente del sapermi intento a scrivere da mattina a sera; giacché non faccio altro. Difficilmente avrei potuto trovare un posto piú adatto per continuare e finire il mio romanzo Primavera, che non dedicherò piú a voi, per non farvi immaginare che io voglia destarvi in petto qualche fugace rimorso. Voi, ne sono certo, non mi addebiterete a colpa questa mancata promessa. Senza la premurosa compiacenza di un amico, non saprei ancora spiegarmi il mistero della vostra lettera di rottura. Sarei stato cosí sciocco da stentare lungamente a trovarne la chiave, e chi sa? forse avrei finito con credervi sincera. Debbo soggiungere, per scrupolosità di esattezza, che in certi momenti, nel vostro salotto, ho avuto piú volte una sfumatura di presentimento di quel che stava per accadere. Ricordate? Vi ho manifestato in parecchie occasioni la mia istintiva avversione verso quella stupida figura di belloccione - se si può cosí tradurre il francese bellâtre - che voi, nella nostra intimità, chiamavate: «manichino da gran sarto», per convincermi che lo avevate destinato a servirvi da schermo contro i sospetti e la malignità dei frequentatori della vostra casa, specialmente delle vostre amiche. Ricordate? Una sera fin mi rimproveraste: - Non mancherebbe altro che essere oltraggiata dalla vostra gelosia per costui! - Oltraggiata! E pronunziaste questa parola con tale accento di disgusto, che io, dopo quella sera non ebbi piú ardire d'insistere. E avrei dovuto subito capire come mai quel belloccione poteva servirvi da schermo, se poi sdegnavate di prendere qualche precauzione per nascondere alle amiche, e a tutti coloro che in casa vostra avevano occhi per vedere, la vostra apparente predilezione per me; la quale poteva benissimo far sospettar ben altro di quel che, con sapiente indugio, vi eravate degnata di concedermi. Poco o niente, ahimè! e che pure sembrava molto alla facile contentatura (piena di dolci speranze, non lo nego) del mio cuore d'innamorato. Vi supponevo maestra nell'arte degli indugi che costituiscono, a quel che pare, la miglior maniera di accendere maggiormente gl'ingenui e di protrarre piú a lungo la natural durata dell'amore. Ingenuissimo, avevo ben altra idea di esso, giudicando da quello che sentivo per voi. Sono stato in adorazione, non ai vostri piedi, ma davanti alla vostra immagine che portavo nel cuore; era la prima volta che mi accadeva di amare davvero, e i miei trent'anni e la mia esperienza mondana non bastavano a difendermi dal commettere le inevitabili sciocchezze di un primo amore. Se avessi avuto il doppio di età e di esperienza, le avrei commesse egualmente. Infatti! Qualunque altro (io stesso forse, se avessi provato soltanto un passeggero capriccio per voi), si sarebbe quasi subito accorto del vostro gioco e vi avrebbe guastato le carte in mano. Non tutti i calcoli di una astuta e poco scrupolosa signora - è il caso vostro - riescono bene. Con un tantino dell'audacia che, in altre circostanze, mi ha fatto superare ostacoli per lo meno uguali a quelli che, certe sere, voi mi opponevate sorridendo e supplicando, a quest'ora io potrei stropicciarmi le mani dalla soddisfazione di essermi cavato un capriccio e di aver trovato l'imbecille che mi ha salvato dal pericolo di una incomoda relazione. Vi assicuro, Signora (e, se volete, posso confermarvelo con giuramento) che sono anzi lietissimo di non aver avuto quell'audacia. Voi, cosí fina, cosí intelligente, capirete che, affermandovi questo, intendo di farvi un altissimo elogio. Rimpiangerei oggi qualche cosa, e non saprei consolarmene, come ho rimpianto qualche volta, e me ne sono consolato a stento, il non aver prolungato la durata di un capriccio che forse meritava di divenire qualcosa di meglio. Spero non mi stimerete un vanesio leggendo queste che non vogliono essere poco modeste parole. Dovrei rimpiangere il tempo sprecato oggi a scrivervi; avrei potuto impiegarlo piú utilmente attorno agli ultimi capitoli del mio romanzo, Ma, che volete farci? non ostante l'indegno modo con cui mi avete trattato, io persisto a credervi migliore di quella che non volete apparire. La fatuità della perversione è difetto esclusivamente femminile. Per ciò non rimpiango affatto il tempo impiegato intorno a questa lettera. Voi forse sareste capace di foggiarvi l'acre delizia del rimorso di avermi reso infelice, e vorreste servirvene a insaporire piú ghiottamente la conquista del belloccione pel quale mi avete fatto recitare la parte di «richiamo», di allumeur stendhaliano. Forse avreste potuto avere, perché no? qualche giorno, qualche ora di sincero rimorso; ho voluto risparmiarvelo. Se alla vostra vanità può sembrare sufficiente la confessione di aver molto sofferto per quattro o cinque giorni, non ci trovo niente da ridire. Ma non abbiate nessun rimorso sul serio; io non mi sento infelice. E se soggiungessi che vi sono grato di avermi guarito un po' spietatamente, non importa, di una passione che minacciava di diventar pericolosissima, credetelo, Signora, non mentirei. Non vi accadrà tanto facilmente di far del bene senza volerlo. Vi lascio. È l'ora in cui, ogni giorno, esco a passeggiare su la spiaggia per riempirmi i polmoni di benefica salsedine di aria marina prima di riprendere a lavorare. Vi sono immensamente grato anche di questo beneficio. Sappiate conservarvi intanto ... il vostro «manichino da gran sarto»! E perdonatemi la piccola malignità di rammentarvi, finendo, questa veramente pittoresca frase che fa onore al vostro buon gusto, se non alla vostra sincerità. Cordiali saluti. RICCARDO

Il barone era stato assente tre giorni per sorvegliare alcuni lavori nel fondo di Saccorotto datole in dote dal padre; ed ella aveva cosí potuto abbandonarsi interamente al triste conforto del suo sogno. Per disgrazia, arrivando di assai buon umore, egli si era seccato di trovare la baronessa assorta a suonare un malinconicissimo pezzo. - Mancano funerali in questa casa? - aveva esclamato, ridendo sarcasticamente. E con brusco moto della mano chiudeva sul leggio del pianoforte il volume della musica. La baronessa continuò a suonare a memoria. Egli ebbe la malaccortezza di fermarle le mani e di abbassare il coperchio dello strumento. La baronessa scattò in piedi, svincolandosi da un abbraccio. Rimasero un istante a guardarsi negli occhi; il barone stupito di vederla reagire, ella mordendosi la lingua per non rompere il giuramento di non fargli mai piú udire il suono della sua voce neppur con la feroce parola che le stringeva la gola: e uscí dal salotto. Il barone le corse dietro. - Via! via! Sono stato un po' vivace ... - Ella entrò rapidamente nella stanza vicina e gli chiuse l'uscio in faccia. - Aprite! ... Vi dico aprite! O butto l'uscio a terra! - Lo sentiva gridare, imbestialito, battere coi pugni chiusi e con la punta delle scarpe ... - Aprite! O butto l'uscio a terra! Sono stanco di fare l'imbecille! ... Comando io in casa mia! ... Aprite! - Gettata bocconi a traverso il lettino che si trovava colà, la baronessa non singhiozzava, non piangeva. Si premeva desolatamente le mani su gli occhi, e col pensiero invocava: - Mammà ! Mammà ! - Due mesi dopo, la marchesa era accorsa chiamata in fretta da una lettera del barone che annunziava un peggioramento nella malattia di languore da cui sua figlia era stata colpita. Il marchese resistendo a ogni preghiera e al pianto della moglie, non avea voluto accompagnarla presso la figlia «ribelle», che con quel mutismo significativo contristava la sua vecchiaia. - Ha fatto la nostra volontà! - A modo suo! - rispose il marchese inesorabile. - Non v'impedisco di andare. - Cilia ! ... Figlia mia! - Quasi non la riconosceva, tanto sua figlia era cangiata. - Parla! parla! - insisteva. - Cosí ti uccidi! - Sembrava che, anche volendo, la baronessa ora piú non avesse forza di parlare. Ed era affliggente a vedersi quel viso scarno, di un pallore cadaverico, con gli occhi infossati, e che pareva sorridere con strana dolcezza, sotto i baci e gli abbracci della madre. - Perché? Come mai! - Colpa sua, marchesa! - rispose il barone duramente, indicando la moglie. - Di me non può lagnarsi! - Don Paolo Forti, che aveva accompagnato la marchesa, si teneva rispettosamente in disparte, con le mani giunte, girando i pollici l'uno attorno all'altro, e con le labbra strette e allungate. - C'è qui il cappellano, il tuo confessore! - La baronessa sorrise anche a lui, che si fece avanti invitato da un cenno della marchesa. - Non perché voscenza abbia bisogno di me ... La signora marchesa mi ha dato l'onore di accompagnarla ... Si ha bisogno soltanto di Dio ... E Dio le concederà la salute, presto! Ogni domenica, nella santa messa, «a palazzo», abbiamo pregato per lei. Ora che ha qui la mamma, voscenza si deve spicciare a ristabilirsi ... Un po' d'aria nativa le farà bene ... L'aria nativa è balsamo ... - Il pover'uomo era tutto confuso di aver detto tante vane parole; ci voleva un miracolo di Dio e della Madonna - pensava, parlando - per ridar vita a quel corpo estenuato che pareva respirasse a stento e non apriva le labbra neppure per lamentarsi! Perché avrebbe dovuto lamentarsi? Ella era lieta di morire. E affrettava la morte fingendo di prendere le pillole, le cartine ordinate dal dottore, levandosele con astuzia di bocca, sputandole senza farsi scorgere, sorridendo di triste sodisfazione quando sentiva maravigliare il dottore della incredibile inefficacia dei rimedi apprestati. Quel doloroso sorriso che le fioriva a ogni momento su le labbra smorte irritava il barone. Egli che si era immaginato di poter avere, presto o tardi, ragione degli ingenui scrupoli confidatigli dalla marchesina prima delle nozze, e non aveva creduto possibile l'attuazione della minaccia: «Il "sì" sarà l'ultima sillaba che mi uscirà dalle labbra!» tardi si accorgeva che le donne sono capaci di qualunque pazzia. - Non si tratta d'altro! - egli si sfogava col cappellano. - Avrei dovuto farla chiudere in un manicomio, e sarebbe stato bene per lei e per tutti! ... Queste cose non posso dirle alla marchesa ... E doveva capitare a me! - Chi lo sa? Qualche segreta ragione! - disse timidamente don Paolo Forti. - Pazzia, vi ripeto! ... Quale segreta ragione? Ve l'ha detta, forse, confessandosi? Avete fatto male a non rivelarla ... senza rompere il sigillo della confessione - soggiunse vedendo lo stupore del cappellano a quelle parole. - La paralisi ... - Che paralisi! Anche voi fingete di credervi? Atto diabolico! Io non so come abbia potuto resistere e come abbia resistito io ... Ma siamo alla fine! ... Vedete che mi fa dire? L'ho sopportata, l'ho compatita quasi due anni ... È stata implacabile! ... Ora non ne posso piú! ... E sorride, sorride ... perché l'ha vinta lei ... Per questo sorride! E mi rende spietato ... Dovea capitare proprio a me! - Misteri della volontà di Dio! - conchiuse don Paolo. Per consiglio della marchesa, due giorni dopo egli si presentava alla malata con la qualità di confessore. - La vita e la morte sono in mano di Dio! ... Non perché voscenza sia in pericolo, ma per precauzione, se mai ... La baronessa gli porse una mano e strinse forte quella del prete guardandolo fisso negli occhi. - Perdonate, figliuola mia? - Ella assentí con un'altra stretta. - Dite qualche parola di consolazione a vostra madre ... Parlate almeno una volta, solo per mostrare che non portate via nessun rancore! La baronessa ritirò lentamente la mano. Il prete, spaventato del repentino disfacimento di quel viso pallido e scarno, si affrettò a dare alla moribonda l'assoluzione ... Gli occhi della baronessa si dilatarono quasi errando con lo sguardo dietro una visione che spariva. Con la chiaroveggenza dei morenti vide forse che il sogno l'aveva ingannata? E il dolce strano sorriso di quelle ultime settimane (non si capiva se di sodisfazione o di delusione) le si fissava poco dopo su le aride labbra per sempre!

ARABELLA

663073
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Lorenzo stese le gambe sul divano e accese un sigaro per abbandonarsi meglio al corso dei suoi pensieri. Il mal tempo rumoreggiava e fiammeggiava sopra i tetti neri delle case vicine e sopra i tettucci logori d'un cortiletto chiuso come il fondo d'una torre, in cui tre o quattro canalacci di ferro versavano il diluvio universale con un frastuono d'inferno. L'acqua, passando tra le fessure d'una finestra lunga e mal chiusa, cominciò a versare un rigagnolo che si distese a poco a poco in una tortuosa biscia nel mezzo della stanza. La lampadina, a cui il padrone lesinava il petrolio, ben presto cominciò a crocchiare, a mandare dei guizzi, diffondendo ombre e puzzo, ombre in cui gli involti appesi ai ganci parevano i corpi degli strozzati di casa. Il Botola sotto quella casa del diavolo aveva coraggio di dormire come un bambino. Il vecchio batteva il selciato dalla mattina alla sera, sempre sulla traccia d'un piccolo buon affare, e al primo stendere le gambe nel canile l'accoglieva il sonno del giusto. Il suo russare pareva il verso d'un cane malato: e due volte Lorenzo gli dette sulla voce. Il vecchio si voltò sul fianco e ripigliò la musica in nota di contrabasso. A poco a poco Lorenzo poté mettere un ordine ne' suoi pensieri. Il pensare non era il suo forte, ma questa volta capì che stava per giocare una carta seria. Si arrabbiava dentro di sé all'idea che Arabella avesse scoperto l'intrigo, prima per il dispiacere che essa ne doveva sentire e poi per la serie di pasticci che ne dovevano derivare. Le donne non ammettono certe distinzioni, ma se egli avesse potuto persuaderla avrebbe parlato presso a poco così: Senti, Ara, bell'Ara , tu sei sempre mia moglie, io ti voglio bene; io anzi son superbo di te, e mi dispiace che tu possa essere gelosa di una cantante d'operette. Il cuore non c'entra. Tu sei stata così malata in questi mesi..." Ma capì che era tempo perso a seguitare su questa via, perché né egli avrebbe fatto un tal discorso a sua moglie né Arabella avrebbe avuta la pazienza di ascoltarlo. Come mai costei aveva trovato il coraggio di far quel che aveva fatto? Dunque non c'era in lei soltanto la devota cristiana e la madre della rassegnazione, ma anche un diavolo geloso che menava le mani maledettamente. Va a capire le donne! ti si cambiano nelle mani come le carte di prestigio. La donna di fiori ti diventa la donna di picche e viceversa. Il bello si è che, paragonando Olimpia, l'Olimpia dagli occhi pitturati e dalle carni floscie a questa donnina nervosa, a questa bionda dagli occhi intelligenti che col suo bel tòcco d'astrakan in testa si apposta dietro un uscio, sbuca fuori e batte senza parlare una sciocca rivale - confrontando le due donne come donne - il bello si è, che egli veniva a poco a poco a innamorarsi di sua moglie. E di nuovo tornava nel pensiero di prima: che Arabella non avrebbe mai saputo nulla, se non ci fosse stato di mezzo l'interessato a metter male, a seminare la zizzania tra marito e moglie, per raggiungere chi sa quali sue idee. Quando Lorenzo si scosse una prima volta da queste confuse riflessioni che gli riempivano la testa di nebbie e di dolori, si accorse di essere al buio. L'acqua batteva rabbiosa contro il telaio della finestra e sgocciolava dai travicelli. Il Botola faceva di là il verso della morte. Cercò i zolfanelli e s'indispettì di non trovarseli più indosso. Nel mettersi a sedere sul divano, posò i piedi in terra e sentì che l'acqua del rigagnolo era già arrivata fino a lui come una lunga biscia e faceva un lago. Che notte birbona! Un senso non so se di odio, o di stizza, o di paura, o di dispetto, o di noia, o di tutt'insieme l'assalì, l'avvilì, gli fece provare il tedio immenso della vita. Capì come si possa in certi istanti mettere la mano sopra una pistola carica, puntarla alla testa e finirla con una vita stupida. Finì coll'addormentarsi anche lui.

Il cappello del prete

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

"U barone" seduto in mezzo e quasi dimenticato fra tanti giovani illustri, venuti da tutte le parti d'Italia a rappresentare il fasto della patria aristocrazia, ebbe un momento di raccoglimento e di riposo e poté abbandonarsi un minuto al suo pensiero. Sentiva di avere ormai esaurite tutte le sue forze attive e che troppo disuguale era la lotta tra un vivo e un morto. Il prete era piú forte di lui. Ammazzato, sepolto, schiacciato da una grossa pietra e da un mucchio di mattoni e di sabbia, "u prevete" aveva cacciato fuori prima il suo cappello. Inutilmente egli aveva tentato di affogare anche il cappello in fondo al mare; "u prevete" aveva la mano lunga. Per Dio! se non basta uccidere un uomo con due tremende mazzolate sulla nuca; se non basta tutto il mare Mediterraneo a coprire un segreto; se uccidere un uomo significa farlo vivere piú di prima; se nasconderlo in una cisterna vuol dire fare in modo che egli occupi di sé tutta una città, tutta la stampa, la magistratura, il telegrafo, le botteghe dei barbieri, i botteghini del lotto: se tutto ciò accade nel mondo, per Dio! è segno che la ragione non è ragione, il verosimile non è vero, ma tutto è vero, specialmente l'impossibile, anzi l'assurdo, il tutto è niente, e il niente è tutto... Una grande risata accolse queste conclusioni filosofiche del barone di Santafusca: cioè, parve a lui che gli amici ridessero della sua minchioneria. Egli cominciava a odiare quei fastidiosi eleganti: e aveva torto. L'Usilli raccontava degli aneddoti galanti con tanta felicità di spirito, che avrebbe fatto ridere le finestre. Irritato da questa grossa ilarità, Santa, con atto d'uomo offeso si alzò, uscí di sala e senza salutare nessuno abbandonò il circolo, scese a precipizio le scale e corse un tratto verso il palazzo di giustizia, colla intenzione di parlare al cavaliere Martellini, ch'egli conosceva benissimo, per essersi trovato piú volte con lui al club degli Scacchi, dove l'egregio magistrato faceva testo di lingua. Strada facendo, gli parve che i monelli vendessero piú giornali del solito. Molti cocchieri delle vetture pubbliche avevano in mano un foglio e leggevano a parer suo la storia del prete e del cacciatore. E mentre pensava anche lui a questo strano cacciatore, gli parve improvvisamente di ravvisarlo al di là d'una lucida vetrina di pasticciere. Si arrestò come se un abisso si fosse improvvisamente aperto innanzi ai suoi piedi; e stette un momento a guardare l'immagine sua con un occhio atterrito. Per quanto egli avesse mutato di panni, la faccia del famoso cacciatore doveva essere rimasta impressa nella mente di Giorgio della Falda e degli altri contadini, specialmente l'occhio lucente e vivo e la barba intera di un nero di carbone. Se ne ricordava fin il conte Stagni! Se il cavaliere Martellini lo avesse messo di fronte all'accusato, era impossibile che questi non avesse a riconoscerlo. Se anche il barone avesse mentito fino allo spergiuro, era già troppo, al punto in cui si era arrivati, non che il sospetto, il suscitare l'ombra di un mezzo sospetto. Come fare? Egli non poteva tór via l'occhio da quella figura di là oltre i vetri che si accompagnava con lui. Il caso o un segreto istinto lo condusse davanti alla bottega del Granella. L'occasione favorí anche questa volta i progetti del nobile sportman. Il figurino della modavenuto d'Inghilterra portava quest'anno come il non plus ultra dell'eleganza in materia di corse e di sport, una giubba rossa, stretta alla vita, stivali alla scudiera, calzoni chiari, e barba tagliata alla "derby", con due brevi basette o spazzolette sulle guancie, rasato e pulito il resto della faccia. Granella, che era sempre al corrente dell'ultima parola della scienza, non ebbe bisogno di consigli per rendere il barone di Santafusca il piú inglese dei napoletani. - Anche il principe d'Ottaiano ha sacrificato per le corse di domani la sua bella barba alla "palmerston". È in queste cose che si conosce il vero sportman. Chi non sa sacrificare qualche cosa all'eleganza e alla moda non sa sacrificare nulla alla bellezza e all'amore. Voilà, monsieur"... se il barone di Santafusca riporterà domani piú d'un trionfo, il merito sarà un poco del suo "herdresser". Il barone rise a sentir Granella parlare inglese. Contemplandosi nello specchio, si rallegrò in cuor suo di essere ringiovanito tanto. Il cacciatore era morto nelle mani del primo "herdresser" della città. Giorgio della Falda non avrebbe piú riconosciuto nell'elegante sportman il nipote del curato di Santafusca. Ciò cominciò a tranquillare un poco il suo cuore, e volendo interrogare l'opinione pubblica, come l'altra volta, facendo cantare il Granella, domandò con fare di noncuranza, mentre si accomodava la cravatta innanzi allo specchio: - Ebbene, e questo prete? - Quale? - Quel dei terno, l'hanno trovato? - È una matassa imbrogliata e io credo che la signora giustizia questa volta batta una strada falsa. - Perché? - Perché mentre crede di aver nelle mani il colpevole, lascia al colpevole tutto il tempo di mettersi al sicuro. - Cioè... - Non per vantarmi, eccellenza, ma siccome ho l'onore di servire anche il cavaliere Martellini che ha in mano l'istruttoria, cosí posso sapere qualche cosa che i giornali non sono in grado di sapere. - Oh! oh! - esclamò "u barone" che ritto davanti allo specchio, disfaceva per la seconda volta il nodo della sua cravatta. - Ne discorriamo qualche volta insieme, io e il cavaliere, che è un uomo fino, alla mano... che sa il conto suo, non nego: ma alle volte vede di piú una formica in cima a un palo che non un elefante. - Ah! ah! ebbene? sentiamo... - Il prete, non quel morto, il vivo avrebbe deposto: primo, che egli non ha mandato mai nessun cacciatore alla Falda a riscattar cappelli; secondo, che non ha parenti, e tanto meno nipoti che facciano il cacciatore; terzo, che il cappello mandato da lui a Filippino era nuovo, mentre il suo era vecchio e usato, e che per conseguenza il povero diavolo arrestato sotto l'accusa di aver ammazzato "u prevete" non avrebbe nemmeno toccato il suo cappello. E intanto, un po' per le lungaggini, un po' per le ciarle dei giornalisti, il cacciatore piglia il largo, e addio suonatori. - Tu credi proprio che... il cacciatore sia il reo... - Non ho piú un dubbio, come non dubito che vostra eccellenza sarà dimani il piú elegante cavaliere di Napoli. Ci son troppi testimoni che l'hanno veduto. Anche un cantoniere della ferrovia asserisce che è passato il giorno tale, ora tale, che ha preso il treno di Napoli, che aveva un carniere al collo, e si sa d'altra parte che nel carniere c'era il cappello del prete... Dunque costui aveva tutto l'interesse a far scomparire il cappello del prete, che un caso, cioè la vincita del famoso terno, aveva reso a un tratto celebre in tutto il mondo. Il diavolo aiuta, sí, ma fino a un certo punto i suoi figliuoli... - Basta, staremo a vedere - disse "u barone" che cominciava a soffrire di quelle ciarle. Prevedo che sarò seccato anch'io per conto di Santafusca. Non vorrei che fossi chiamato dimani. - Non conosce per caso il cavaliere Martellini? - Molto bene. Ci troviamo qualche volta al club degli Scacchi. - Potrebbe scrivergli un biglietto. - Tu mi suggerisci una buona idea: sei degno di fare l'avvocato. - Sento che sarei riuscito. Vuol fuoco? Granella offrí un fiammifero e lo tenne alto finché il barone ebbe acceso il sigaro. Poi corse a ritirare la tenda, e facendo schioccare una salvietta come un frustino, esclamò nel suo inglese di Napoli: - "Got bai". - Una buona idea veramente! - tornò a dire tra sé il barone che ripassando davanti alle botteghe, si consolava di non rivedere più il cacciatore di prima. La speranza tornava a rinascere per la terza volta e le sensazioni paurose tornavano a cedere il posto alle riflessioni chiare e positive. Anche questa volta si era impaurito per un'ombra. Se il vero colpevole era il cacciatore, che cosa doveva temere ora il barone di Santafusca? L'opinione di Granella era l'opinione universale, e quella forse del signor giudice istruttore. I testimoni concordavano nell'aggravare la responsabilità di questo povero cacciatore, che oggi non aveva proprio nulla a che fare col piú elegante cavaliere di Napoli. Tratto dall'evidenza di queste ragioni, e in certi momenti credendo forse egli stesso al mitico cacciatore piú che non fosse necessario, entrò in un caffè, e sopra un suo biglietto di visita - con tanto di corona - scrisse al cavaliere Martellini queste righe: "Caro e amabile cavaliere, "Leggo ora che nel processo del cappello è implicata Santafusca. Il segretario comunale mi ha scritto che fu violata la santità del mio domicilio. Preparo forti proteste, ma perdonerò facilmente al cavaliere Martellini, se non mi citerà tra i testimoni il giorno delle corse. Se poi mi risparmia del tutto l'incomodo, piglierò volentieri il treno di Parigi. Però sempre pronto all'obbedienza - come don Abbondio". Il cavaliere Martellini, che conosceva ciò che si chiama il vivere del mondo e che nelle buone grazie dei signori nuotava come una tinca in un'acqua chiara, si affrettò a rispondere come segue: "Eccellenza, "Se fu violato il santo, faremo sacrificii di propiziazione. In quanto al sentir V. S. S.Illustrissima, spero che non sarà necessario, perché il processo manca di fondamento e si finirà con un non farsi luogo. Ad ogni modo, ho troppo desiderio di assistere anch'io alle corse per fare a me stesso il tiro di seder pro tribunali e di citar lei, mentre Andreina batterà di due teste quel povero Lazio. Ogni buon napoletano deve credere oggi in Andreina... - For ever!" . - Bene, bene! - disse il barone, che non si curò nemmeno di leggere i giornali della sera. Infine si meravigliò egli stesso di sentirsi cosí sicuro e sollevato. Un gran peso cadeva dalla sua coscienza sulla coscienza di un altro lui, uscito da lui, ombra pietosa che s'intrometteva tra la vittima e il suo assassino. In questo buon cacciatore bisognava credere quasi per riconoscenza. E a volte ci credeva proprio sinceramente, come se la sua personalità si sdoppiasse, come il fanciulletto crede all'esistenza reale dell'ombra che giuoca con lui. Era tratto a parlarne volentieri, nella speranza che, parlandone, fosse un mezzo di dare all'ombra una maggiore e reale consistenza. Cosí credeva di aiutare l'opinione pubblica ad allontanarsi dal vero e a concentrare sopra un essere impalpabile tutta la responsabilità della nefanda azione. Questa fu la sua grande preoccupazione per tutto il giorno che precedette le corse. Dovunque si trovasse, o al club o al caffè, o sul "turf", dovunque insomma si poteva tirare il discorso sul processo del giorno, egli esponeva le sue idee con un calore e una chiarezza singolare, con una insistenza quasi noiosa, finché l'Usilli gli disse una volta: - O senti, mi hai quasi rotta la testa con questo cappello! Essendo associato con Usilli, di Spiano e molti altri cavalieri una partita comune, in cui molte scommesse erano in giuoco, dovette correre tutta la sera e tutta la mattina, ora a cavallo, ora in carrozza, ora dal sarto che non aveva ancora pronta la giubba rossa, ora alla cavallerizza, ora presso alcune signore della aristocrazia, per gli opportuni accordi. In tutto questo lieto affaccendamento egli ritrovava l'animo, il brio, la grazia, l'eleganza dei suoi trent'anni. Il cavaliere Martellini non avrebbe mai immaginato il bene che aveva fatto a un'anima dei purgatorio. Fin la principessa di Palàndes, che non lo vedeva da un pezzo, trovò Santafusca ringiovanito di dieci anni. Era ancora una bellissima donna questa famosa principessa, in cui si fondevano due vecchie schiatte italo- spagnuole. Rimasta vedova ancor giovane, non andava ancora oltre i trent'anni, e la sua bellezza rifioriva di tutto il pieno sviluppo della seconda età, che nelle vaghe donne è di solito una edizione riveduta, aumentata e migliorata. La principessa si lasciava far la corte volentieri (non aveva altro da fare) e con lei trionfava facilmente l'impresa dell'" audaces fortuna juvat ". Il barone - l'abbiam visto - non mancava d'iniziativa, e seppe tanto bene presentarsi e ne disse in pochi minuti di cosí curiose, che la principessa lo volle per suo cavaliere. - Verrò a prendervi colla carrozza, principessa. - E perché non a cavallo? - Se vi piace, andiamo pure a cavallo, facendo suonare gli speroni. - Voi sarete il mio cavalier terribile. - Perché terribile, principessa? - Cosí, perché avete una faccia da brigante che mi piace. Poi la principessa, ridendo, con tutta la sua bella voce, soggiunse: - È vero che un vostro antenato morí appiccato? - Brigante sí, principessa, appiccato no. I Santafusca non si lasciano appiccare. A dimani. - Venite presto. Il barone partí quasi innamorato della bella vedova, e questo pensiero nuovo e ridente s'intrecciò come un filo d'oro alla trama lacera ed oscura della sua povera vita. Il giorno dopo, sul mezzodí, nel suo magnifico costume di panno rosso, con una lunga penna di gallo silvestre in un berretto di velluto, "u barone", a fianco della bellissima amazzone, usciva a cavallo verso il campo delle corse.

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Demetrio, quando si trovò solo nel suo scompartimento di terza classe, immerso nella poca luce d'un torbido lampadino giallognolo, poté abbandonarsi interamente, con minor soggezione di sé stesso, alla piena dei varii pensieri, che in quell'epilogo della sua oscura tragedia uscivano da cento parti a invadere l'anima. Sentendosi la testa calda come un fornello, quando il treno cominciò a muoversi nella crescente oscurità della sera, appoggiò la faccia al finestrino e stette a bevere l'aria con le labbra aperte, cogli occhi fissi a un cielo non ancora chiuso del tutto agli ultimi respiri del crepuscolo. Passando sul cavalcavia del vecchio Lazzaretto, da dove la città si apre ancora alla vista del viaggiatore in tutta l'ampiezza del corso, co’ suoi bianchi edifici, — e già splendevano di lumi case e botteghe — la salutò con un sospiro. Poi il treno, affrettando la corsa, cominciò a battere la bassa campagna nelle umide e fitte tenebre della notte, assecondando colle sorde scosse il correre tumultuoso dei pensieri. Non era una campagna ignota, anzi erano gli stessi prati suoi, dov'era nato, dov'era cresciuto ragazzo. Oltre il quarto o il quinto casello cominciò a riconoscere anche al buio i vecchi fondi di casa Pianelli, e piú in là San Donato, e tra una macchia bruna di pioppi il fabbricato chiatto e lungo del cascinale, da dove una volta un Demetrio bifolco usciva coi piedi negli zoccoli e coi calzoni rimboccati fino al ginocchio. In una bassura, nascosta da un muro sormontato da un tettuccio a triangolo, riposava da venticinque anni una donna, una povera donna, che inutilmente anch'essa aveva lavorato per il bene de' suoi. " Ciao , mamma ... " disse una voce, che un Demetrio irritato e sordo non volle ascoltare. Un tratto ancora e il treno avrebbe rasentato uno stagno, all'orlo del quale appare la stupenda abbazia di Chiaravalle: ed eccola infatti uscire quasi dall'acqua livida, a venir addosso nella sua nera e solenne costruzione, colla stupenda macchina del campanile impressa come un'ombra sull'aria oscura; e piú in qua, segnato da alcuni lumi rossicci, il solido edificio delle Cascine, la reggia del signor Paolino. A quella chiesa quante volte aveva accompagnato la sua mamma nei tempi che meno si pensava alle miserie del mondo! C'erano, in quell'antico convent o degli angoli cosí tiepidi e santi, con certe figure lunghe e patetiche su per i muri: c'erano dei corridoi cosí lunghi con cento cellette che davano sul verde luminoso delle praterie: c'era insomma in quella vecchia badia del medio evo un tal senso di riposo, che solo a pensarci il cuore se ne immalinconiva. Peccato non esserci vissuto trecent'anni prima! peccato non esserci due braccia sotto terra. In quella chiesa Beatrice avrebbe detto il suo sí un'altra volta. Ributtato da questi pensieri, Demetrio si ritrasse dal finestrino, appoggiò la testa nell'angolo delle due pareti di legno, chiuse gli occhi come se si atteggiasse a dormire; e mentre il treno lo portava via sbattacchiandolo, una canzone ancora in fondo al cuore sussurrò in tono quasi di canzonatura "To-to ... finito."

Il suo cuoricino batteva con precipizio: due volte tentò abbandonarsi, ma la paura del vuoto, spaventoso anche per lui, lo tenne aggrappato al legnetto. Amoretto, colle penne miste di verde, gli diede quasi una spinta. Demetrio sentí un frullo d'ala, guardò attraverso ai ferruzzi e scorse Giallino ansante e spaurito nella conca di un tegolo. "Ingrato anche tu ... " mormorò sorridendo. Amoretto gli tenne dietro e andò a posarsi sul cappello di ferro di un fumaiolo. Il Marchesino — cosí chiamato per il suo garbo — saltò sulla gabbia e volò di qua e di là per la stanza, seguíto dagli occhi di Giovedí, finché venne a posarsi sulla spalla del padrone. Demetrio lo prese delicatamente nel palmo, lo fece saltare sul dito e presentandolo a Giovedí, cominciò a dire: "Dunque si parte tutti quanti dimani. Mandiamo avanti questo signore a preparare gli alloggi? ... " E dopo aver accarezzato il canarino sulle ali, sporse la mano nel vuoto e gli diede la libertà. L'uccellino con un volo frettoloso e sgomentato andò a cadere sulla gronda di un tetto. La femmina lo seguí, gli volò d'appresso e sulla gronda si concertarono sul da fare. Qualche altro era già partito senza dir nulla. Le nubi d'oro cominciavano a scolorire. Sempre seduto in faccia alla finestra, Demetrio contemplava le gabbie vuote, assorto, immerso nel malinconico silenzio di quelle piccole case deserte, velando gli occhi d'una riflessione piena di mestizia. Si sentiva malato ancora, d'un male che non è febbre, ma che filtra come una febbre ghiacciata nelle midolle delle ossa. Giovedí, posata una zampa sul ginocchio, fece sentire ch’egli era lí. "Sí, tu ci sei, tu non vai via senza di me, tu sei fedele fino alla morte: tu vuoi bene a chi ti ha fatto un po' di bene!" La bestia rispondeva socchiudendo gli occhi, attraverso ai quali brillava un lume di tenerezza. Demetrio gli strinse il muso nelle mani e seguitò anche lui a parlargli cogli occhi, carezzandolo. Il silenzio dei tetti spopolati penetrava il cuore. Al chiaror sanguigno era succeduta una luce languida di un azzurro verdognolo, in cui svanivano, come piume di un immenso ventaglio, strisce lunghe di cirri bianchi e altissimi. L'uscio si aprí lentamente. Amor di Dio! era lei ... Era proprio Beatrice, un poco accesa per la fatica del salire. Era lei nel suo velo grande cascante sulle spalle, nel quale spiccavano i bei colori del viso ovale, la bianchezza del collo e la grandezza degli occhi. Giovedí, conosciuta la padrona, le corse incontro, spiccando salti di gioia, abbaiando, piagnucolando e tornò verso Demetrio, soffiando nella polvere, gonfiando le nari, leccandogli i piedi. "Che ... che miracolo?" mormorò Demetrio, alzandosi e rimanendo immobile colla mano appoggiata alla sedia. "Siete a Milano?" "Sí, per questa notte ... Son venuta a prendere Arabella che fa gli esami dimani. Ma devo prima parlarvi." Beatrice trovò Demetrio molto abbattuto e invecchiato, e lui s'umiliò al cospetto di una signora che pareva cresciuta di nobiltà nell'eleganza degli abiti nuovi e signorili. "Che cosa è accaduto?" chiese ella per la prima, mentre abbracciava con una rapida occhiata la povertà della stanza in disordine e la valigia fatta e pronta sopra la tavola. "Che cosa?" chiese distrattamente Demetrio fingendo di non capire il senso della domanda. "Sono venuta apposta anche per questo, e non voglio partire senza conoscere la verità." "Quale verità? sedetevi." Demetrio mandò avanti una sedia, dove Beatrice si pose a sedere, mentre egli tornava ad appoggiarsi colla vita alla tavola. "Paolino aveva bisogno di parlarvi, è venuto a Milano, andò a cercarvi all'ufficio e ha sentito ... " "Che cosa?" chiese con un filo di voce Demetrio, abbassando gli occhi. "Ha sentito che avete avuta una brutta scena col cavaliere in seguito alla quale siete stato licenziato. È vero?" "Non licenziato" mormorò languidamente con un tenue sorriso. "O vi hanno traslocato in un paese lontano: è vero? Perché non avete seguíto il mio consiglio? Avete forse voluto difendermi troppo ... e v'è capitato male." "Troppo? non si difende mai troppo una povera donna insidiata, calunniata" esclamò Demetrio con un tono vibrato e caldo di voce. "Voi non ne avete nessuna colpa." "Povera me, come sono disgraziata!" scoppiò a dire Beatrice, portando in fretta e furia il fazzolettino agli occhi. "Paolino è tornato a casa tutto fuori di sé, ha fatto una scena colla Carolina, vuole che io gli spieghi questo mistero del braccialetto, suppone non so quali tradimenti ... Che gli devo dire, per amor di Dio? Questo matrimonio si doveva fare in agosto e invece s'è scoperto che non si potrà fare prima dell'inverno: anche questa circostanza aiuta a rendere Paolino inquieto e di malumore. Scrivetegli voi, per carità, o lasciatevi vedere una volta. Voi solo potrete dimostrargli che io non ho avuta nessuna colpa in tutta questa scena dolorosa, dissiperete tutti i suoi sospetti, distruggerete le calunnie della gente cattiva." "Io?" esclamò Demetrio come se parlasse a sé stesso. Appoggiato colle mani alla tavola, fissò uno sguardo gentile e carezzevole su quella povera donna, che aveva ancora una volta tanto bisogno di lui: e provò in fondo al cuore ancora una volta una vanitosa compiacenza, un soave orgoglio di sé. Per un bizzarro ritorno d'impressioni gli venne in mente la prima volta ch'egli s'era incontrato in Beatrice, in casa sua, nel salotto elegante, e che la povera donna, dall'alto del suo trono di cartapesta, aveva disprezzato i consigli d'un galantuomo: quante cose da quel giorno in poi! quante mortificazioni, quanta pazienza, quanta rassegnazione c'era voluto per non perdere i frutti di una buona intenzione! Chi aveva vinto? La gente che giudica all'ingrosso poteva credere che avessero vinto gli altri, cioè i potenti e i fortunati; ma il suo cuore, davanti a quella bella creatura che piangeva e supplicava, seduta innanzi a lui nella luce blanda d'un tramonto di estate, esultava ancora nella coscienza di un trionfo appassionato, che Dio non concede né ai potenti, né ai fortunati. Beatrice non era salita per la seconda volta alla modesta soffitta per consolare le malinconie di un abbandonato: ma veniva come una regina a mendicare consolazione e consigli a un vecchio e dimenticato romito. Di chi la vittoria dunque? Ecco quello che passò rapidamente e senza ordine nel suo cuore, mentre Beatrice finiva di piangere. Il signor Paolino, nell'estasi della sua fortuna, alla vigilia di un ineffabile godimento, non aveva saputo resistere all'insidia del male. Una parola sinistra, una voce in aria, raccolta nell'anticamera d'un ufficio, era bastata come una goccia d'aceto a corrompere il latte della sua felicità; il sospetto, la diffidenza, l'ingiuria si mescolavano già ad un amore tutto fatto di bisogni e di ciechi desiderii, a un amore che non resiste alle prove dure e tiranniche della vita. Se un povero impiegatello destituito e traslocato, che aveva dovuto vendere il letto per mettere insieme i denari del viaggio, avesse in quel momento ritirata la mano dalla testa di quella donna: avesse — obbedendo a una ruvida istigazione dell'invidia e della passione — rifiutata una spiegazione a un uomo che non la meritava piú, che cosa sarebbe stato di Beatrice e de' suoi figliuoli? che cosa sarebbe stato di Paolino? Questa paurosa apprensione egli lesse bene negli occhi lagrimosi di Beatrice, quando si alzarono verso di lui quasi in atto di invocare misericordia. Se egli fosse stato un uomo cattivo ... ma che cattivo? se egli fosse stato soltanto una persona rispettabile come il suo superiore, o un galantuomo dei soliti sul genere di Paolino, avrebbe ben saputo trarre da questo gruppo di circostanze almeno l'interesse dei suoi sacrifici. È bene o male essere un po' diversi dagli altri? "Beatrice" disse, distaccandosi dalla tavola e avvicinandosi due passi. Si fermò davanti a lei in una attitudine tranquilla di padre indulgente e amoroso, e, lasciando sgorgare l'onda delle parole secondo l'ispirazione del cuore, soggiunse: "Io scriverò al signor Paolino, non solo per difendere la vostra innocenza e per risolvere tutti gli equivoci che possono essere nati, in mezzo a tante ciarle; ma gli dirò anche quanto si faccia torto e quanto divenga indegno di voi con delle diffidenze, che ingiuriano una donna onesta non meno delle insidie di chi la tenta coi piccoli regali." Beatrice, scossa dal suono vibrato con cui Demetrio pronunciò queste parole, alzò gli occhi e stette a sentire senza battere palpebra. Le fece subito piacere l'energia con cui suo cognato prometteva di difenderla. Era venuta apposta per avere in lui un valido avvocato difensore. Guai se Paolino si fosse intiepidito e avesse mandato a monte ogni cosa! che avrebbe dovuto fare co’ suoi tre figliuoli? e la vergogna, e le ciarle della gente, e la nuova miseria piú grande se non piú spaventosa della vecchia? Ecco cosa dicevano i suoi occhi, mentre Demetrio, fisso alla linea ancora luminosa del lontano tramonto, colle mani giunte, quasi appoggiate alla bocca, con una visibile tensione di tutti i nervi, seguitava: "Gli dirò che non vi merita, perché non ha avuto fede precisamente in ciò che voi avete di piú prezioso e di piú nobile, la vostra onestà. Questo sentimento, questa preziosa eredità, voi, anche povera, la lascerete in dote alla vostra Arabella" il nome della fanciulla fu come un gruppo che fermò un istante il discorso "e il signor Paolino non ci ha creduto. Anch'io, è vero, ho diffidato una volta, anch'io ho accolto leggermente le voci della malizia, ma erano diverse circostanze, e non vi amavo ... allora ... come dice di amarvi quest'uomo che vi manca di rispetto ... ." Beatrice aprí un poco la bocca a un fiato di sorpresa. Perché si corrucciava tanto suo cognato? Demetrio si accorse anche lui d'essersi lasciato trasportare un po' troppo. Si fermò, abbassò gli occhi verso di lei, stentando le parole, che si sprofondavano nella gola, parlando insomma attraverso al singhiozzo: "Gli scriverò," disse, "gli scriverò dimani da Genova ... Addio, state bene ... Aggiusterò tutto: addio!.. siate felice ... ." Beatrice, quasi sollevata da lui, s'alzò lentamente senza togliere gli occhi dal viso di suo cognato, che, dopo averla commossa in modo straordinario, si commoveva anche lui fino alle lagrime, e diceva parole strane, agitando la mano nervosa e smarrita davanti alla bocca, tremando in tutta la persona magra e rannicchiata come un uomo che cerca di fuggire da un tremendo disastro. Che aveva quel povero uomo? che fosse ancora ammalato? che gli rincrescesse di partire e di lasciare la sua gente? Furono tre o quattro questioni, che si presentarono insieme in quel momento all'intelletto non sublime della povera donna, che, abituata a vivere di sé, incapace di supporre mali lontani diversi dai suoi, e pur sentendosi cagione delle lagrime di Demetrio, stava lí in piedi, vittima anch'essa della sua meraviglia, lontana ancora molti passi dalla verità, incapace di andarle incontro. "Voi partite dimani? È proprio vero? È per causa mia che vi tocca di partire?" chiese con un naturale tremito di voce. "Non per causa vostra ... È il destino cosí. È forse meglio per me ... ." Rimasero un altro mezzo minuto l'uno in faccia all'altra senza poter parlare, egli combattendo una estrema e violenta battaglia colle sue lagrime, essa quasi stordita dal suo stesso non capire. Seguitava ad interrogare quel poverino cogli occhi grandi, incantati, senza un'idea chiara di quel che desiderasse sapere da lui, ma agitata da un senso misterioso di pietà e di paura. Demetrio con la faccia piú stravolta che rallegrata da un sorriso d'uomo malato, agitò ancora la mano nel vuoto, come se cercasse di ravvivare un discorso rimasto spezzato. "Che cosa avete, povero Demetrio?" A questa dimanda e piú che alle parole al suono intenerito della voce, come se tutta la vita gli rifluisse nel cuore, affascinato e tratto dalla sua stessa debolezza e da una vertigine soave, si abbandonò verso quella tenera compassione di donna, come un bambino impaurito, che corre a rifugiarsi nella gonna della madre. La stanza si riempí della luce ch'egli aveva negli occhi, in cui guizzavano le scintille del crepuscolo; la pregò ancora una volta, sigillando la bocca colle dita, di compatirlo, di andar via: la spinse anzi un poco verso la porta, allungando il braccio e la mano con cui teneva nervosamente stretta la piccola mano di lei, si attaccò, per non andare in terra, alla sponda della sedia, vi si rannicchiò, vi si rimpicciolí sopra, e gridando piú che pronunciando: "Andate via ... per carità ... " lasciò irrompere senza piú nessun freno quel torrente amaro di dolori, che lo rendevano cosí debole e vile. A uno scoppio cosí improvviso di lagrime, dalle quali usciva una confessione non meno impreveduta che imbarazzante, il volto di Beatrice si offuscò forse per la prima volta in vita sua di una nuvola di cupa tristezza. Sulle prime non osò credere; si sforzò anzi di non capire ciò che diventava sempre piú evidente, cioè che Demetrio l'amava. Si guardò intorno, come se cercasse di orizzontarsi in quel mondo di affezioni e di afflizioni nuove che il piangere di Demetrio andava suscitando vicino a lei. Si chinò un poco verso il meschino, provò a parlare, ma che cosa doveva dire? Avrebbe voluto che ciò non fosse, gliene rincresceva: che poteva fare lei? quando aveva dato un motivo a questo uomo di credere? All'urto di queste varie questioni, che balzavano e cozzavano nella sua testa, sentí anch'essa una gran voglia di piangere, come una fanciullina che, uscita troppo lontana da casa sua, si trova còlta dalla sera e comincia a temere di perdere la strada. Si sarebbe detto che la violenta necessità di non mostrarsi dura e cattiva coll'unico uomo che le aveva fatto tanto bene, spremesse quanto c'era di buono, di caritatevole, di delicato nel suo cuore. Provò un forte soffocamento di respiro, il petto le si gonfiò, il cuore cominciò a battere con immenso dolore, come se qualche cosa si rompesse in lei, come se in questo primo sforzo intelligente della sua vita, dalla bambola uscisse la donna. Certo qualche cosa di vivo e di caldo sgorgava da quel patimento. "Perdonatemi, Beatrice, sono malato, non so piú quello che mi dico e quello che mi faccio. Sono quattro mesi che soffro cosí, senza parlare mai con nessuno: e sarei partito cosí, senza piú vedervi, se voi non venivate quassú a cogliermi in un momento di malinconia." Demetrio parlava senza alzare la testa dalle mani. "Per amore dei vostri figliuoli, che ho amato come se fossero miei, non fate nessun conto delle mie parole, non dite niente, dimenticatevi anche voi ... Non ricordate se non quel po' di bene che ho voluto ai figli di Cesarino ... Andate via ... ." "Io non potrò mai dimenticare quello che avete fatto per me ... " provò a dire la donna, con una voce che risonò anche al suo orecchio in un tono piú caldo e diverso dal solito. "Avete detto bene: è il destino ... Abbiate pazienza, Demetrio." "Sí, sí, sí!" esclamò Demetrio, sollevando la testa e sporgendo sulla sedia le due mani giunte, come se volesse rinnovare una preghiera. "Sono uno sciocco ... lo so: addio, non vogliatemi male." E cercò di sorridere per togliere al discorso quanto vi poteva essere di penoso e d'imbarazzante per lei. "Abbiate pazienza ... " ripeté meccanicamente Beatrice, avviandosi verso l'uscio, tremando, stentando il passo, come se due forze contrarie si disputassero la sua pigra volontà. Sulla soglia si fermò, chinò la testa quasi contro lo stipite, soffrendo della sua ignoranza che non le suggeriva nulla da dire, nemmeno una parola di cortesia e di carità verso un uomo che aveva sacrificato tutto per lei, il suo pane, la sua pace, la sua libertà, il suo cuore, soffrendo in silenzio, senza chiedere mai nulla per sé. Si fece improvvisamente pallida ... Demetrio, accovacciato, piú che seduto sulla sedia, la contemplava coll'avidità con cui il morente segue l'ultima striscia di lume che tremola nella sua pupilla. Poi chinò un poco la testa. La credeva partita ... Beatrice, appoggiata colla mano all'uscio, si volse ancora una volta e con una voce ancora piú commossa esclamò: "Mi perdonate, Demetrio? vi ricorderete ancora dei miei figliuoli? volete che vi mandi Arabella? Il Signore compenserà le vostre buone intenzioni ... , fatevi coraggio: non datemi questo rimorso di sapere che, mentre io sono felice, voi soffrite tanto. Scrivete qualche volta e se possiamo fare qualche cosa per voi ... ." Di mano in mano che ella parlava, lasciando che le parole uscissero naturalmente, egli sentiva ritornare il calore della vita e il senso delle cose. Nella luce quasi estinta del crepuscolo, Demetrio vide avanzarsi di nuovo quella donna e sopraffarlo colla grandezza della di lei persona. Una mano si posava sulla sua testa, da cui scese un brivido a invadere il corpo. Sentí ancora un bisbiglio confuso di parole, e un'onda tiepida che lo travolgeva: e credette che fosse arrivato l'ultimo momento della vita. Quando si rivegliò, si trovò steso in terra ai piedi della sedia. Un raggio di luna, entrando dalla finestra aperta, disegnava sull'ammattonato i graticci delle gabbie vuote. Quando Beatrice venne via dalla casa di Demetrio era quasi buio, e, camminando tra la gente, si sentí come sola e perduta in una grande città. La scena straziante a cui aveva assistito, la miseria di quella stanza lassú, l'abbattimento fisico e morale del cognato, l'idea del castigo che, per cagion sua, se non proprio per colpa sua, cadeva addosso al povero disgraziato, la paura che Paolino tirasse da tutto ciò un pretesto per non mantenere la sua promessa e la lasciasse sulla strada, lei e i figliuoli, questi furono gli spaventi che l'accompagnarono a casa. Una volta arrivata e chiusa dentro, sentí anche lassú il doloroso silenzio d'una casa abbandonata che si sfascia. Della poca roba salvata dalle mani dei creditori, parte era andata alle Cascine, parte giaceva in disordine accatastata ai muri. Di intatto non rimanevano che la stanza da letto, dove avrebbe dormito forse per l'ultima volta in compagnia di Arabella, che, finiti gli esami, doveva seguire la mamma a Chiaravalle. La ragazza, che in questo matrimonio della mamma rappresentava una parte passiva di silenziosa protesta, andava cercando una scusa per rimanere a Milano presso i Grissini, o in collegio presso le monache, che d'estate conducono le allieve al mare. Ma il signor Paolino si lamentava già della mancanza della figliuola, e non era il momento di disgustarlo anche in una piccola cosa. Che brutta notte passò per l'ultima volta nel suo letto grande la vedova! Arabella, quantunque provasse un piccolo brivido nelle ossa, quando entrò a occupare il posto del suo povero papà, tuttavia, vinta dal sonno facile della sua età, verso le undici si addormentò. Ma la mamma contò tutte le ore e tutti i quarti senza poter raccogliere un'ombra di sonno. Troppe cose uscivano dal cuore, come il sangue cola da una fresca ferita. Ma piú ancora che il cuore, la testa andava mulinando e annaspando pensieri sopra pensieri, reminiscenze, casi sopra casi, immagini scomparse da un pezzo, risuscitando morti e vivi, avvicinando le cose piú secondarie, con tal precipizio, che piú di una volta si sollevò dal cuscino e si passò la mano sulla fronte. Quella testa, cosí poco abituata a riflettere, soffriva sotto la matassa delle cose che il destino le imponeva di dipanare. Ella lesse e rilesse, si può dire da capo, tutto il libro della sua vita. Si rivide fanciulla in collegio a Lodi, presso le Dame inglesi, non fra le prime, e nemmeno fra le ultime della sua classe; da Lodi tornò a Melegnano ancora a tempo per godere gli ultimi raggi della fortuna di suo padre; fu per alcuni anni una corte bandita. Prima che venissero i giorni tristi, eccola a Milano a braccio di Cesarino. Il suo noviziato di sposa fu pieno di care novità e di dolci sorprese. Cesarino, quantunque facile a irritarsi e di gusti difficili, non aveva mai risparmiato sacrifici, perché sua moglie facesse una buona figura nella società. Agli anni felici erano seguiti i mesi della espiazione. Ricordò il primo incontro con Demetrio, il piangere, il soffrire ch'ella aveva fatto sotto il suo bastone. In casa era la miseria e la fame; di fuori il fallimento di suo padre, l'insidia dei protettori, le trappole delle false amiche. Essa aveva vissuto piú in quei pochi mesi che in tutti gli anni prima. Ed ora, mentre stava per tirare il fiato e ricomporre la sua fortuna, ecco una nuova tribolazione. Quantunque Paolino parlasse soltanto del braccialetto e del cavaliere, era evidente che il contegno scontroso e freddo del cugino aveva fatto nascere in lui il sospetto che anche Demetrio avesse del fuoco al cuore. Forse tra lor due s'erano già dette delle parole vive, e nulla era di piú naturale che Paolino s'ingelosisse e mandasse a monte il matrimonio. Ella dunque era chiamata a scegliere tra questi due uomini, ossia non era piú nemmeno il caso di scegliere. Il suo destino non poteva essere che uno solo, quello di salvare un pane ai suoi figliuoli. Era dover suo di dimostrare a Paolino che mai aveva pensato a Demetrio, che nessuno gli era stato al mondo piú antipatico e piú odioso ... In questa lotta di due uomini, per non dire di due ombre, si mescolava nei brevi sopori della fantasia un'altra ombra, quella di Cesarino, che pareva quasi contento che tutto andasse a monte senza che Beatrice, immersa nel superficiale dormiveglia delle ore mattutine, potesse afferrarne il motivo. Sentí Arabella che parlava in sogno. Suonavano in quella tre ore a San Lorenzo. La bambina, che si era addormentata sopra una paurosa sensazione, e che continuava anch'essa ne' suoi sogni a leggere il piccolo libro della sua vita, a un certo punto balzò a sedere sul letto, esterrefatta, e gridò: "No, papà, no, papà ... Mandate via quel cane ... Mandate via quel cane ... ." "Arabella, che hai? che cosa dici?" dimandò la mamma, balzando anch'essa a sedere sul letto, stringendo la ragazza nelle braccia. Questa si lasciò prendere e cercò un rifugio nel seno della mamma. I cuori di quelle due donne battevano e balzavano insieme sotto i colpi della paura. Rimasero abbracciate fino alla mattina, tremando insieme e sospirando lo spuntar del dí. Beatrice pensò che gli spaventi d’Arabella derivassero da qualche bisogno che la pover'anima del suo Cesarino avesse nel mondo di là, e invitò la figliuola a togliersi subito dalle lenzuola per andare insieme fino al cimitero a pregare e a salutare ancora una volta il papà prima di lasciar Milano. Demetrio aveva fatto porre un piccolo sasso sulla fossa, approfittando di quello stesso che era servito per papà Vincenzo e che, passato il termine decennale, egli avrebbe dovuto rimettere pagando di nuovo il posto. Nel bisogno di fare qualche economia, sperò che il buon vecchio non se ne avrebbe avuto a male, e fece collocare la pietra con le altre parole sulla fossa del suo figliuolo prediletto, compiendo cosí quell'opera di misericordia e di perdono, che era cominciata per lui quasi trent'anni prima. Le due donne stavano ancora vestendosi, quando una forte scampanellata le fece trasalire. Chi poteva essere a quell'ora? Beatrice si fece il segno della croce e andò a dimandare all'uscio. "Sono io, il Berretta ... " disse la nota voce del portinaio. "Che cosa c'è?" dimandò aprendo la porta. "M'avete fatto un tal spavento!" "C'è abbasso un signore che desidera parlare a lei, sora Beatrice." "Un signore? non vi ha detto il suo nome?" "No, o forse non ho capito." "Non lo conoscete?" "Non mi è faccia nuova: pare un po' esaltato. Gli deve essere accaduta una disgrazia…" "Ditegli che veniamo subito abbasso ... " soggiunse Beatrice con un tremito nella voce. S'era ridotta quasi ad aver paura dell'aria e andò a immaginare che fosse qualche altra disgrazia. Quand'ebbero finito di vestirsi, madre e figlia discesero quelle benedette scale, forse per l'ultima volta. Arabella pareva una candela. Sotto il portico, a’ piedi dei gradini, passeggiava un signore grasso, che, al veder la signora Pianelli, le andò incontro colla furia d'un uomo disperato. Beatrice riconobbe in lui il signor Melchisedecco Pardi, il marito della bella Palmira, e capí dalla sua faccia smorta e stravolta che aveva poco dormito anche lui. Anche lui, come Demetrio Pianelli, come Paolino delle Cascine, era un'anima in pena per grazia di una donna, perché questi benedetti uomini, grandi e grossi, che sembrano a vederli i padroni del mondo, basta toccarli con un dito sul cuore e si smontano come le macchinette. I coniugi Pardi stavano una mattina facendo colazione, quando la donna di servizio consegnò alla signora una lettera arrivata allora allora dalla posta. Le lettere, lo ricordiamo, da qualche tempo in qua erano diventate gli spauracchi del signor Melchisedecco, il quale, sebbene, dopo la scena che abbiamo visto, non avesse piú motivo di lagnarsi di sua moglie, pure non poté nascondere un certo cipiglio, intanto che Palmira dava un'occhiata alla soprascritta. Ma questa volta fu un cipiglio inutile. Palmira, spinta la lettera verso di lui, cosí come era arrivata in tavola, gli disse: "Leggi tu." Secco, un po' mortificato d'essersi lasciato cogliere in diffidenza e in gelosia, crollò il testone, alzò le spalle e mormorò, mentre ripuliva il piatto con una mollica di pane: "Che bisogno?" "No, leggi. Dici sempre che io sono la donna dei misteri ... ." "Che cosa ho detto?" "Non è necessario parlare. Apri, guarda dunque." "Se è per capriccio tuo ... ." Il buon Pardone confuso e quasi commosso per questo straordinario attestato di confidenza, aprí la lettera, che veniva da Milano, mentre cogli occhi buoni carezzava quella sua cara traditora. "È la signora Pianelli che ti scrive" disse, dopo aver scorsa superficialmente la lettera. "Oh!" fece Palmira senza alzare gli occhi dal piatto con un tono di freddezza glaciale. "Che cosa vuole la signora delle Cascine?" "T'invita al suo matrimonio per giovedí mattina." "Che onore!" declamò Palmira, corrugando la fronte in uno sforzo come di concentrazione, che ella procurò di nascondere con un altro sforzo dei muscoli, mentre cercava di schiacciare nei palmi una noce contro un'altra. "Se accetti, dice che manderà la carrozza a prenderti mercoledí sera, perché tu possa assistere alle presentazioni e a un piccolo trattenimento ... ." "Anche la carrozza! vuol proprio farmi morire d'invidia! Conosci tu il suo Paolino?" "Non ho questo bene." "Una pertica con in cima un gran pomo d'Adamo." Palmira rise ella per la prima d'una ilarità sfrenata ed eccessiva, sforzandosi di coprire un altro movimento del cuore e seguitò: "Per sposare di questi lampioni non vale la spesa di andare fuori del dazio. Di lampioni è pieno Milano." Secco rise lui di gusto questa volta alla pittura del sor Paolino, e in cuor suo si consolò d'essere qualche cosa di piú d'un lampione. Lo spirito mordace e pittoresco di Palmira aveva sempre avuto il merito di piacere al buon fabbricante di nastri, sorto anche lui dal popolo, a cui piacciono i paragoni semplici e coloriti. Confrontando in mente la bella e pacifica signora Pianelli, che egli aveva conosciuto a Cernobbio e alle feste del Circolo Monsù Travet , nella sua beata e pacifica compostezza, colla sua faccia rotonda di bambocciona, a quest'altra donnina magra e spiritosa, che rosicchiava davanti a lui un amaretto con una delicata nervosità, il buon Pardone non poté a meno di fare anche lui il suo paragone. "Non basta" pensò "che una donna sia bella e prosperosa come una gallina. La bellezza va e viene e, in quanto a peso, vale di piú un cannone. Ciò che dà vita e illuminazione a una donna è lo spirito. Una donna senza spirito" seguitò nella sua pigra fantasia di buon ambrosiano, "è come un caffè buono, ma freddo." Secco non sarebbe stato capace di mettere in carta queste idee, ma le espresse cogli occhi, con cui avvolse teneramente la sua cara traditora, soffiando il ridere dalle ganasce gonfie, mentre ripensava al paragone della pertica con in cima un pomo d'Adamo. "Che ne dici, dunque? debbo accettare?" "Direi di sí. Se t'invita è segno che ha gusto d'avere anche te." "Non ne ho nessuna voglia" soggiunse Palmira, continuando a schiacciar noci, senza far altro che tormentare la pelle delicata delle sue manine da contessa. Ma forse aveva bisogno di quel tormento fisico per schiacciarvi dentro un pensiero piú duro e piú aspro. "Se non c'è motivo, non bisogna mai disgustare la gente" raccomandò il buon negoziante, rompendo con un colpo solo delle sue mani grassoccie e forti due belle noci, che mise in venti frantumi sul piatto di Palmira. "Non ho nemmeno un vestito adatto" seguitò a dire Palmira, come se si compiacesse di porre degli ostacoli ai propri passi. "Per questo siamo in un Milano ... ." In questi discorsi la colazione finí. Secco si alzò, accese una grossa pipa di ciliegio e andò in fabbrica, in mezzo al movimento de' suoi duecento telai, che mandavano un chiasso di cento pettegole. Quando l'uscio fu chiuso sull'onda sonora che entrò a invadere il salotto, Palmira afferrò con furia la lettera rimasta aperta sulla tavola, la scorse in furia con uno sguardo freddo e lucente, mordendosi le labbra sottili, avvicinò le prime e le ultime parole di ogni riga, traendone un senso che era sfuggito al suo segretario; si contorse quasi su se stessa come una foglia secca, e mormorò qualche cosa, che andò a morire negli abissi imperscrutabili della sua coscienza di donna vana e capricciosa. Si alzò, accese una sigaretta e, tolto dal caminetto un giornale di mode, andò a rannicchiarsi in una poltroncina posta sotto la finestra che dà sul Naviglio, cogli occhi apparentemente fissi alle belle signore del figurino, ma in realtà perduti in una contemplazione lontana molto piú bella e affascinante. Dalla fabbrica arrivava ancora fino a lei, per quanto smorzato, il continuo tric-trac, che assordava, intontiva le orecchie e l'anima, e sul quale tesseva anch'essa le sue giornate tutte d'un colore, trascinandosi dietro la vita lunga ed uguale come un nastro ordinario, senza una emozione, tediata, piena, gonfia della sua stessa fortuna di agiata borghese, sempre in lotta o colla tenera bontà di suo marito, o colle tentazioni de' suoi pensieri. Era piú felice forse quando lavorava di là, in fabbrica, e che poteva almeno sfogare l'umore, tirando uno zoccolo nella schiena a qualcuno. Per quanto non invidiasse né il temperamento, né il "lasciatemi stare" di Beatrice, per quanto non credesse alle sue massime di donna pacifica, doveva però confessare, con un piccolo risentimento d'invidia, che quella bambocciona era piú fortunata di lei. Anche un Paolino qualunque, che abbia cavalli, carrozza, una stalla piena, tre o quattro cascine popolate di oche e di galline, è qualche cosa di piú allegro e di piú vario che il passare la vita in una vecchia e quasi lurida casa del Terraggio, colla prospettiva del Naviglio melmoso, che manda su ogni sorta di malanni, nel perpetuo stordimento di una fabbrica che fila nastri e noia, noia e nastri. Quel che rispondesse a Beatrice non si sa: sembra però che vincessero la tentazione, il capriccio e la curiosità, perché il mercoledí, un'ora prima di sera, una carrozza di tipo campagnuolo, a due cavalli, si arrestò davanti alla fabbrica del signor Melchisedecco Pardi. Palmira partí sola alla volta delle Cascine. Secco arrivò appena a tempo per sporgere il capo dalla finestra dello studio e a gridare: "I miei complimenti; portami i confetti." La sera andò a far la solita partita a tresette ai Tre Scanni ed ebbe un monte di carte belle. In una mano sola accusò undici punti, e due volte di seguito i tre assi. "Caro lei, lo faccio arrestare" saltò su a dire il signor delegato Broglio, della vicina Sezione di Sicurezza, che non mancava mai al solito tavolino. "Questo si chiama rubare e non vincere. Faccio presto, sa: ho le mie guardie in via Lanzone e lo butto in cella a passare la notte." "Allora sí, povera signora Palmira ... " disse il compagno che vinceva col fortunato mortale. Secco rideva, soffiando la contentezza dalle gote gonfie, e picchiando con tremendi colpi le carte sul tappeto verde. "Fortunato nel giuoco, sfortunato in amore." "Tre assi ... " accusò per la terza volta il signor Pardi, chiudendo gli occhi e appoggiandosi coi gomiti grassi alla tavola per ridere in equilibrio. Il delegato, che perdeva già la terza partita, mormorò: "Tre assassini!" e, volgendosi al ragazzo dell'osteria, gli disse: "Guarda se c'è un agente lí di fuori ... ." Il Pardi tornò a casa piú tardi e piú caldo del solito. Entrò nell'andito buio al lume di un cerino e prese le lettere, che trovò nella cassetta ai piedi della scala. La donna di servizio uscí col lume e, mormorata la buona notte, se ne andò, lasciandolo solo nella deserta camera nuziale. Al di sotto della calda allegria che suscitava il Valpolicella dei Tre Scanni , la vista di quel letto vuoto a man sinistra destò uno strano sentimento o presentimento di malinconia, come se Palmira non fosse andata per un giorno a divertirsi a uno sposalizio, ma gliela avessero portata via morta. Era anche questo un effetto del bicchiere, che eccitava in quel buon uomo linfatico e grasso i pensieri patetici, che fanno piangere, mentre gli altri ridono e cantano volentieri quando li rischiara un po' di lumen luminis . Fece passare alcune lettere; buttò in disparte le solite fatture, gli avvisi commerciali, e si fermò a contemplare una piccola busta, attratto da una scrittura grossa a spina di pesce, che gli parve di riconoscere. Stando in piedi col cappello tondo quasi sugli occhi, il sigaro spento in bocca e il bastone sotto il braccio, ruppe la carta e lesse su un biglietto di visita del cavalier Lanzetti le seguenti parole: "Dimani scade la nostra cambiale; non si potrebbe rinnovarla? Gli affari sono stagnanti, e m'è mancato anche il baritono. Potrei intanto offrirle un palco per tutta la stagione." E piú sotto, conficcato nel piccolo angolo rimasto libero: "Per sua norma, Altamura è a Milano già da una settimana. L'ho saputo soltanto ieri." Tornò a leggere da capo: "Dimani scade la nostra cambiale, ecc.." E piú sotto: "Per sua norma, Altamura ... ." Gli occhi del signor Pardi si sollevarono e andarono a guardare, senza fermarsi troppo, il posto del letto a mano sinistra. Collocò il bastone sulla tavola, vi pose sopra il cappello, e data una rapida e paurosa occhiata alla porta, tornò a leggere la terza volta il biglietto, avvicinandolo piú che poté alla fiamma della candela. Lo buttò sulla tavola con una espressione di schifo. Era una trappola: ci voleva poco a capirla. L'egregio cavalier Lanzetti — oggi sono cavalieri anche gl’impresari e i suggeritori — avendo bisogno estremo che la cambiale fosse rinnovata, cercava di farsi dei meriti, inventando un Altamura a Milano, mentre Altamura cantava a Madrid, e la Gazzetta dei Teatri annunciava la sua prossima partenza per Montevideo. "Un cantante che fa la stagione a Madrid non passa da Milano per andare in America, caro signor cavaliere dalle cambiali insolvibili. Sarà per un'altra volta. Io ti posso regalare anche tre cambiali, ma non voglio che tu mi creda cosí gambero da bevere ... da ritenere che il signor Altamura è a Milano già da una settimana ... ." Il Pardi rideva con sé stesso, movendo tre o quattro passi nella stanza, fermandosi a rimirare con attonita attenzione la gamba di una sedia, stringendo nelle dita in un fascetto solo i peli dei baffi e del piccolo pizzo di barba; poi girava sui tacchi, dava un'altra occhiata di volo al letto ... Palmira non era quasi mai uscita di casa tutto quel tempo. Da qualche mese in qua si mostrava docile, discreta, savia, tollerante. Lettere non ne riceveva piú, e nemmeno giornali, dopo la gran burrasca di quel giorno che l'aveva còlta sulla porta della Posta. Essa non voleva nemmeno andare alle Cascine, al matrimonio della signora Pianelli, per non fare la spesa di un vestito nuovo: era stato lui a cacciarla via, perché prendesse una boccata d'aria, povera diavola ... Stava ancora concludendo il suo ragionamento che già la mano aveva aperto, operando per conto suo, un cassettone, in alto, dove Palmira teneva i fazzoletti, le gioie d'uso, le lettere, il borsellino. Quando si accorse di commettere una stupida ed inutile indiscrezione, spinse e chiuse con violenza, intascando sbadatamente la chiave. Non era il caso di credere che prima di andare alle Cascine, Palmira avesse a incontrarsi con ... qualcuno. Impossibile. Come poteva sapere questo qualcuno che il matrimonio della signora Pianelli era fissato pel giovedí mattina, e che il signor Paolino avrebbe mandata la carrozza a prendere Palmira il mercoledí? Ad ogni modo bisognava sempre supporre che Altamura fosse a Milano, mentre la Gazzetta dei Teatri dava per certo che egli aveva accettata una scrittura per l'America del Sud, dove i mariti non fanno complimenti e piantano fior di coltelli nel cuore ai Trovatori . Che diavolo gli passava mai per il capo? Ecco in qual maniera un uomo può esser felice per tre assi a tresette, e cinque minuti dopo diventare il piú disperato degli uomini per l'ombra di un'idea. Frugando nelle tasche della giacca, per una morbosa inquietudine e quasi curiosità delle mani, vi trovò una chiavetta. Da qual parte questa chiave? Non si ricordava già piú. Stette a guardarla con grossi sopracigli, finché gli venne in mente ch'era la chiave del cassettone. Aprí di nuovo il cassetto in alto, cercò, frugò, trovò una lettera, corse presso la candela. Era la lettera della signora Beatrice ch'egli aveva aperta e letta a Palmira, un gentile invito e non altro, a meno di credere che anche Altamura fosse stato invitato alle Cascine ... Ma se Altamura non era a Milano, non poteva essere nemmeno alle Cascine. Se era in America, non poteva essere in Italia. È vero che per poter dire che un uomo canta in America bisognerebbe essere là a sentirlo, ma d'altra parte, per credere la metà di quel che gli passava per il capo, bisognerebbe ammettere che l'uomo è una bestia feroce, e la donna la madre delle bestie feroci, che il mondo è una tana di tradimenti, che non c'è piú né legge, né fede, e che gli assassini di strada sono i piú galantuomini, perché almeno mettono a rischio la pelle. In queste riflessioni spasmodiche, colle quali il povero geloso procurava di assopire i suoi sospetti, cominciò a svestirsi. Si levò la giacca, che appese al solito chiodo, e caricò l'orologio. Portò l'orologio all'orecchio per sentirne i battiti: lanciò uno sguardo disperato all'altra parte del letto. Era mezzanotte. Palmira doveva essere arrivata da cinque ore almeno alle Cascine. Finite le presentazioni e il trattamento dell'acqua dolce, a quest'ora forse dormiva insieme alla sposa ... Coll'orologio in mano, cogli occhi fissi al quadrante, col panciotto slacciato sul petto, il Pardi seguiva ansiosamente il movimento quasi invisibile dell'indice, come un dottore che conta i battiti di un moribondo. Se fosse stato sicuro di poter trovare il Lanzetti al Biffi, dove andava di solito, sarebbe uscito a cercarlo. Non era ancora deciso se uscir di casa, o se buttarsi a dormire in santa pace, che, rimessa la giacca e col cappello sugli occhi, passava in fabbrica a far qualche cosa per ingannare il tempo. Non si dorme con un ferro rovente che t'infila il cuore. Entrato nel vasto camerone, dove stavano schierati in due grossi corpi i suoi duecento telai con una stretta corsía nel mezzo, ombre grandi e grottesche svolazzarono su per i muri al passare della candela. A mezzo della corsía, che metteva al bugigattolo dello studio, si fermò, e, premendo coll'unghia l'orlo e le croste della candela, tornò a rifare il suo ragionamento, mescolandovi ancora la geografia, la Gazzetta dei Teatri e la probabilità che il mondo sia una tana di ladri e di assassini. La testa, ridiventando pesante, piombava di nuovo sul petto, e nell'ombra della notte, nella fredda e livida compagine de' suoi duecento telai che l'avviluppavano come in una rete dura di ferro e di nodi scorsoi, un'accusa cupa e solenne, sviluppandosi dal fondo piú cieco della sua vita, saliva con un gran turbamento del sangue fino alla sede del pensiero. Che fossero già d'accordo? Che si trovassero già abbracciati in un sicuro nascondiglio? Si può diventare ubbriachi pel sangue che va alla testa. L'alba trovò il signor Pardi curvo sui mastri e sul libro campionario, assopito, piú che addormentato, in una dolorosa stanchezza, col corpo mezzo intirizzito dal fresco delle ore mattutine. Alzò la testa. Se avesse potuto guardarsi in uno specchio e vedere il colorito scialbo, i capelli duri e arruffati, l'occhio cinericcio e spento, avrebbe creduto d'essere molto malato. Tuttavia la luce chiara e onesta del sole che entrava rubicondo per le sei grandi finestre, sbattendo sui congegni bruniti dei cilindri e dei pettini, dissipò molti dei fantasmi che lo avevano assalito la notte. Rilesse ancora una volta il biglietto del cavalier Lanzetti, cercò e ritrovò nel cassetto segreto della scrivania la raccolta della Gazzetta dei Teatri , ch'egli leggeva attentamente dal marzo in poi, interessandosi al movimento di tutto il personale mimico-lirico- danzante del paese, e ritrovò facilmente una notizia, già segnata con matita rossa, che diceva: "Il celebre Altamura accettò per l'agosto un lauto impegno al teatro dell' Opera di Montevideo, dove l'esimio artista ha lasciato indimenticabili impressioni nell'intelligente colonia dei nostri connazionali. Auguriamo al nostro illustre amico larga messe di allori e di pesetas ." "Anch'io" mormorò il Pardi, associandosi di cuore all'augurio. "Ecco la prova stampata della bugia che farò scontare al cento per cento al signor Lanzetti." Intascò il giornale, accese il sigaro, che gli teneva alla mattina il posto del caffè nero, e, mentre le operaie cominciavano a entrare in fabbrica, uscí coll'intenzione di trovare in qualche buco l'impresario e di farsi spiegare l'intreccio di quest'opera buffa. Non erano ancora sonate le sette, quando, venendo per la via stretta di San Simone, nella corrente rumorosa dei muratori e degli operai, che ogni mattina inondano Milano, sbucò nel largo crocevia del Carrobio, già vivo e agitato come deve essere il cuore di una città grande piena di affari e di interessi, che non ha troppo tempo per dormire. Sapeva che i Pianelli abitavano in Carrobio, anzi si ricordò d'aver veduto Palmira uscire da una porta presso il droghiere, quel giorno che i coniugi Pardi s'erano trovati col tempo in burrasca, seduti, l'uno in faccia all'altra, nel medesimo tramvai. I piedi, che non sempre ragionano male come il cervello procura di far credere, ve lo portarono diritto. "Abitano qui i signori Pianelli?" chiese al portinaio. "Abitavano" rispose il Berretta, tenendo sollevata una scopa in mano come un campanello. "Però c'è la signora Beatrice. In quanto al signor Cesarino, saprà bene che ... ." "La signora è in campagna?" "Oggi è a Milano. È arrivata ieri a prendere la figliuola che deve fare gli esami." "Ieri, va bene: ed è partita" seguitò a dire il Pardi, sforzandosi di correggere gli spropositi di fatto che diceva il sarto. "No, no, è a Milano" confermò il Berretta. "Ha qui ancora quasi tutta la roba." "Che c'entra? deve sposarsi stamattina." "Ah ... io non so." "Insomma, c'è o non c'è?" "Chi?" domandò il Berretta, che si lasciava stordire per poco, sollevando gli occhi in faccia a questo signore grasso, che pareva in collera. "Avete detto che la signora Pianelli è a Milano" riprese a dire il signor Pardi colla pazienza di un professore, che torna a spiegare un problema astruso. "Sí, diavolo! le ho portata ieri sera l'acqua per lavarsi la faccia." "Fate il piacere di andar su e ditele ... " il Pardi pescò nel taschino del panciotto quei cinque soldi che occorrono per far correre un uomo "ditele che c'è un signore che desidera parlar con lei subito subito." "Vado in un momento." Secco si lasciò cadere coll'abbandono pesante dell'uomo stanco su di una sedia e si appoggiò al tavolo, in mezzo ai ritagli e alle filaccie, nella luce miope e sonnolenta che mandano a Milano le finestre dei portinai, senza pensar nulla di preciso, ma ripetendo solo con una espressione sforzata e quasi di sprezzo: "fare gli esami!" frase che, caduta come un ciottoletto negli addentellati dei suoi discorsi interni, urtava e guastava il meccanismo del raziocinio. Il Berretta tornò a dire che la signora Beatrice, dovendo uscire per alcune spese, sarebbe venuta dabbasso tra cinque minuti. Il Pardi non rispose, e dopo aver guardato il portinaio con un'aria di compatimento, come se il Berretta non sapesse quel che veniva a contare, si raccolse, si appoggiò colle braccia sui ginocchi e procurò di non pensar piú nulla, finché non fosse uscita questa signora Beatrice. Avesse dovuto aspettare non cinque minuti, ma cinquanta secoli, non sarebbe uscito di lí senza aver parlato coll'amabile sposina. Il portinaio venne a contare delle storie in cui entrava ancora Cesarino, il solaio, la trave, la mano ... che so io? tutte parole che non arrivavano fino alle orecchie di quell'uomo immerso fino ai capelli in una profonda oscurità, e che sentiva sé stesso come un sacco imbottito di stoppa. Di fuori il Carrobio mandava i suoi gridi, i suoi strepiti, i suoi rombi di carri pesanti, accalorandosi nella vita crescente della giornata. Dalla porta entravano e uscivano uomini, donne, ragazzi. Chi consegnò una chiave, chi ritirò una lettera, una donnicciuola in cuffia si lamentò del gatto, che andava sempre davanti al suo uscio ... che era una sporcizia. Un fornaio lasciò tre panini sul tavolo del sarto e se ne andò urtando nei vetri col cavagno. Nella corte strideva a brevi intervalli il manubrio della pompa, con un tonfo di roba pesante; risonavano voci di donne, piagnistei di bambini ... Tutti questi particolari, occuparono, distrassero un momento la sua attenzione durante il buon quarto d'ora che la signora Pianelli si fece aspettare. Erano sottili ricami sopra un fondaccio senza colore. La vita esterna arrivava onda morta fino al suo capo, ma non aveva la forza d'entrarvi. Se avessero gridato al fuoco, se la casa fosse crollata alle sue spalle, il signor Pardi non si sarebbe mosso di lí prima d'aver veduto e parlato colla signora Pianelli. Se essa era arrivata il giorno prima a Milano, come poteva aver invitato Palmira a prender parte alle presentazioni di famiglia? Che il matrimonio fosse andato a monte? "È qui" disse finalmente il Berretta, che stava in sentinella per farsi vedere degno dei suoi cinque soldi. Il Pardi si alzò di scatto e corse a incontrarla ai piedi della scala. Lo spingeva un'ultima speranza: che non fosse lei. Beatrice Pianelli, pallida, un po' abbattuta in viso, scendeva col suo passo tranquillo, tenendo raccolto un lembo del vestito. "È lei?" esclamò colla sua voce chiara e armoniosa. "Se mi avesse detto il nome ... Mi rincresce di averla fatta aspettare." Pardi salí un gradino e le si collocò davanti col pugno stretto, come se si preparasse a una lotta, tremando visibilmente in tutto il corpo, e pure sforzandosi di mostrarsi educato e gentile in mezzo agli aculei della sua sofferenza. "Scusi: Palmira ... ." "Che cosa?" "Non è qui?" "No" rispose Beatrice con candore. "Non è oggi il giorno che lei deve sposarsi?" "No" essa tornò a dire con semplicità, con una nota cantata. "Ma allora ... ." Si dominò. Voltò la testa indietro verso la corte per dar tempo al respiro, alzò una mano mezza chiusa, come se volesse continuare un'argomentazione impossibile. "Difatti il matrimonio si doveva fare in agosto, e se era possibile anche in fin di luglio. Ma non fu possibile, perché c'è un articolo di legge che lo impedisce." "Ah! un articolo di legge ... " ridisse il Pardi adoperando la frase già fatta, tanto per dire qualche cosa, e per tenere avviato il discorso, per non lasciarla scappare quella donna, volendo sapere da lei il resto, e non trovando in tutto il suo vocabolario, in quel momento, due altre parole per tirare innanzi la conversazione. "Scusi ... , lei non ha scritto la settimana scorsa a Palmira una lettera?" "No." "Ma sí!" gridò il Pardi, agitando e allungando la mano verso Beatrice. "Non si ricorda piú." "Che lettera?" "L'ho vista, l'ho letta io ... una lettera ... ." Beatrice raccolse il pensiero a riflettere. "Una lettera con cui lei invitava Palmira alle Cascine ad assistere al suo matrimonio per stamattina." "Non è possibile, caro lei." "Ah! non è possibile?" Secco, come se le forze lo abbandonassero del tutto, discese all'indietro il gradino e piombò sulle gambe, alzando le braccia grosse, congiungendo i due pugni collo sforzo di chi si attacca a una gronda e fa leva sui muscoli per non cadere dall'altezza di un tetto. Beatrice, non ancora vicina all'idea che dava al signor Pardi un'aria cosí stravolta, lo interrogò cogli occhi curiosi. Non era possibile ch'ella avesse invitato Palmira, l'amabile, la maligna, l'invidiosa Palmira, a una festa di famiglia. "Però" prese a dire il Pardi con l'affanno di chi ha lo stomaco rotto dalla nausea, "però ella ha mandato una carrozza a prenderla ... ." "Quando?" "Ieri, ieri sera. Oh, per Dio, l'ho vista io ... ." Il Pardi s'infuriò contro quella stupida donna, che non capiva nulla, e che stava ad osservarlo con gli occhi d'una bambola. Beatrice s'impaurí, entrò nell'idea, capí che Palmira ne aveva fatta una delle sue, divenne smorta, balbettò qualche parola a fior di labbra, e finí col dire: "Scusi, io non so proprio niente ... ." "Mi perdoni ... " disse il Pardi, allentando a poco a poco le braccia e chinando la testa sul petto, piegando il collo robusto e le larghe spalle al peso enorme che scendeva lentamente a comprimerlo. "Mi perdoni ... " balbettò. Colla mano irritata tastò qua e là sul corpo, finché trovò la tasca del fazzoletto, lo strappò fuori, lo strinse nel pugno come un cencio, lo compresse due volte nell'angolo degli occhi, schiacciandolo poi sulla bocca quasi per strozzarvi un grido, e, tirandosi ancora un passo indietro per lasciar passare Beatrice, tornò a dire: "Mi scusi tanto ... ." Beatrice discese gli ultimi gradini, e nel passar davanti a quell'uomo, che pareva fulminato, lo guardò con un senso di sincera e paurosa compassione. Avrebbe voluto salvare Palmira o la buona fede di suo marito. Ma per la seconda volta in poche ore si vergognò della sua povertà di spirito. Si sentí incapace, troppo ignorante delle battaglie della vita. Fece un piccolo saluto colla testa, scappò piú che non uscisse sulla strada, e col cuore pieno di dolori e di spaventi si mescolò al vivo movimento della città, che copre col suo frastuono le piccole e le grandi tragedie degli uomini. Arabella l'accompagnava in silenzio. Il cuore della fanciulla, ancora pieno delle brutte visioni della notte, non pigliava parte alla vita esteriore della città, che essa traversò come un'ombra sdegnosa e corrucciata. Il matrimonio della mamma, quel dover accettare, tacendo, un destino cosí contrario alle sue previsioni, e, oltre a questo, un senso confuso, dirò cosí, di gelosia che nasceva in lei col pensiero del suo povero papà, misto a un altro senso di ripugnanza e di antipatia per un uomo che doveva benedire come un benefattore, tutto ciò la rendeva triste d'una malinconia taciturna e irritata, che rendeva alla sua volta taciturna e irritata la mamma. Non si scambiarono quattro parole, cammin facendo: e tra una parola e l'altra ciascuna passò una fitta matassa di pensieri, che si attaccavano al passato e all'avvenire, ai vivi e ai morti, che sono la storia sacra dell'anima nostra. Una volta sola la ragazza uscí a dire improvvisamente, come conclusione di una riflessione compiutasi nella sua testa: "Di', mamma, se tu sposi il signor Paolino, non potrei io restare collo zio Demetrio?" La mamma non rispose nulla, ma di lí a un poco le si gonfiarono di lagrime gli occhi. Giunsero cosí al cimitero. Arabella, già pratica del sito, ritrovò subito il piccolo monumento. Mentre la mamma, inginocchiata sulla terra sabbiosa del viale, sfogava il suo pianto nelle mani giunte, Arabella perdevasi lontano cogli occhi verso un cielo lontano, che andava coprendosi di nuvoloni bianchi di temporale. Il soffio fresco che mandavano quelle nuvole dissipò a poco a poco come dolce lavacro quell'ultima nebbia di sogni cattivi che era negli occhi, e la compassione amorevole, la compassione che scalda il cuore e che fonde tutto, la trasse piú vicina alla sua mamma, che poco fa aveva conturbata colle sue parole. Pensò che la poverina non sapeva ancora com'era morto il papà e perché avesse voluto morire cosí: e in questa sua coscienza sentí su quella donna inginocchiata a' suoi piedi una superiorità morale, quasi una forza fisica di consolarla, di dominarla. Si accostò, le prese la testa tra le mani, la baciò sui capelli, col fazzolettino aiutò ad asciugare le molte lagrime che le bagnavano il viso, ma senza piangere essa, senza parlare. E rimase cosí un quarto d'ora, nel silenzioso e lento abbandono del dolore che non pensa, nell'aspro ed energico godimento della vita che soffre. Si mossero piú consolate e piú in pace. Nell'uscire, quando furono sul ponticello che traversa il canale, un uomo mal vestito, consunto dalla miseria, stese il cappello, supplicando con una nenia, in cui le parole si spezzavano come singhiozzi. Sui piedi trascinava due scarpe non sue, color della polvere, rigide nelle rughe e nelle infossature, sulle quali cascavano a brandelli certi calzoni flosci, mal sostenuti da un corpo sconnesso e febbricitante. Era il maestro Bonfanti. Un'altra malattia gli aveva dato l'ultimo colpo. Tocco da paralisi nelle dita e nella lingua, egli non poteva piú né sonare, né cantare, e tanto per trascinarsi vivo alla sepoltura, stendeva il cappello ai passanti, sulla porta dei cimiteri, scrollando la sua febbre intermittente, sonnecchiando tra un'Avemaria e l'altra sulle sue artistiche reminiscenze. A quell'uomo, che aveva sempre tenuta alta la bandiera del classicismo, discepolo del Pollini, quasi amico del Thalberg, non restava nemmeno la forza di lamentarsi, e la figura stessa andava ogni giorno scomparendo nel pelo selvatico della barba e nella sordidezza della povertà. Arabella si attaccò stretta stretta al braccio della mamma, quando riconobbe nel vecchio pezzente il suo buon maestro di pianoforte, e le parve che il cuore le cascasse nel petto. Il Bonfanti andava raccontando a furia di singhiozzi la sua dolorosa storia, agitando colla mano paralizzata il cappello, come se lo sventolasse per l'allegria. Gli buttarono una moneta d'argento, lo salutarono colla mano, e partirono in fretta. Tornarono in città a braccetto, sempre in silenzio, ma non piú in collera come prima. Purtroppo di miseria ce n'è per tutti, e chi si lamenta della sua fa torto un poco a quella degli altri.

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Dopo quasi un'ora di non interrotto viaggio in cui poté piú di una volta abbandonarsi e dimenticare sé stessa nella successione rapida e luminosa di immagini lontane, che uscivano dal fondo scosso della memoria, cominciò a scorgere, nel bianco della strada, un gruppo di case, un villaggio, o un grosso cascinale da cui sentiva venire un abbaiare ingiurioso di cani, che si chiamavano nella notte. Stette un momento e si chiese se doveva aspettare e unirsi al carro che brontolava dietro di lei. Ma vinse quest'ultima incertezza con un senso crudele di disprezzo verso di sé. Se anche i cani uscivano a sbranarla, tanto meglio. Si affrettò a raggiungere le case, che dormivano tutte chiuse in una quiete che aveva un non so che di pensoso e di accigliato. Attraversò un grosso borgo passando prima davanti ai tarlati portoni dei cascinali, dietro i quali sentiva l'urlare e il raspare della bestia, poi davanti alle botteguccie chiuse e alla chiesa che dominava col vasto profilo nel vuoto d'una gran piazza deserta, non incontrando anima viva, cercando inutilmente coll'occhio una fessura, da dove uscisse un filo di luce. Dormivano tutti: i vecchi che hanno il sonno scarso, i giovani che portano a letto il corpo inquieto, i ragazzi che giocano anche in sogno; dormivano anche le povere mamme, che hanno i figli al camposanto; essa sola andava come un'anima in pena per le strade deserte a cercare qualche cosa che nemmeno il Signore le poteva dare. Non avrebbe domandato a Giacomo che una parola. Era persuaso della sua innocenza? bastava un suo sí, che fosse la convinzione in lui che in tutta questa disgrazia il suo amore, non solo non gli era mai venuto meno, ma non era stato toccato. Capiva che non poteva essere piú sua, ma l'essere abbandonata da lui non era nulla, se egli diceva di credere alla sua innocenza. Il suo amore gliel'aveva dato tutto e nessuno glielo poteva togliere. Questo pensiero le avrebbe infusa la forza di vivere in qualche maniera, lavorando, mendicando: nessuno, nemmeno il Signore, le poteva togliere l'orgoglio di essere stata amata da Giacomo. Ma se lui la cacciava via, se non la voleva vedere, oh allora, chi poteva assicurare della sua testa? E come se si spaventasse all'insorgere intempestivo di questa nera previsione, si fermò sui due piedi, strinse la testa nelle mani per aiutarsi con un atto vivace a non disperare, invocò tre volte il nome di Gesú, che aveva tanto patito anche Lui su questa terra; e per chiedere un aiuto a una sensazione esterna, che la sorreggesse in quel momento di vertigine, si voltò a cercare il suo carro. Ma la strada era vuota, immersa nella tristezza d'una nuvola che passava sulla luna. Forse il carro s'era fermato al borgo. Allora, per non lasciarsi prendere dallo scoraggiamento, corse con affannosa precipitazione fino allo svolto della strada, che cominciava a discendere e a penetrare in certe boscaglie tenebrose piene di una neve piú bianca, che copriva un terreno piú tormentato e mosso. Sentendo passar nelle ossa un brivido di freddo, si strinse lo scialle indosso, si coprí di nuovo la testa per schermirsi dalle minute goccioline d'acqua, che stillavano dai rami sotto le scosse del vento: e fatto il segno della croce, trasse la corona e incominciò a intonare il rosario con una voce sostenuta ch'essa ascoltava. La preghiera lunga ed uguale, che nel suo sonoro meccanismo par fatta apposta per condurre gli spiriti piú inerti verso una lontana e indeterminata speranza, dopo aver rimesso in movimento la sua volontà, segnando quasi la battuta dei passi, la sottrasse per qualche tempo alla sofferenza de' suoi pensieri; non cosí bene però che gli sgominati fantasmi, sospinti da una parte, non rientrassero a poco a poco da un'altra, insinuandosi tra le avemarie, intralciandone la seguenza, interrompendone la benefica energia, finché a poco a poco la parola le moriva sulle labbra, i passi si facevan piú piccoli e pigri, l'infelice, continuando a muoversi collo spirito, dimorava coi piedi nel mezzo della via, rivolta e intenta a cercare dietro di sé qualche cosa di cui aveva piú il desiderio che la memoria. Una volta la scosse da quest'attonita immobilità il vociare grosso d'un carrettiere, che svegliatosi all'improvviso arrestarsi della bestia, gridava con anima assonnata a quest'ombra, che gli impediva di passare. Celestina trasalí con un guizzo acuto di spasimo in tutti i muscoli, balzò in disparte, si rimbacuccò nello scialle e riprese a correre sull'orlo della strada. Camminò un'altra mezz'ora, concentrando gli sforzi mentali nel richiamare la memoria di un sito, il cui nome ora le sfuggiva, dove sapeva che si passa l'Adda. Nel disordine sparpagliato delle immagini, la risonanza confusa del nome d'Imbersago, dov'è il passo del fiume, serviva come di nucleo e di centro a' suoi pensieri dispersi, in mezzo ai quali passavano delle fosforescenze febbrili. Lasciò indietro altri casolari isolati, sparsi nella campagna dai quali non usciva un filo di luce. Sentí muggire dal fondo delle stalle: incontrò altri carri schierati che seguivano il passo affaticato delle bestie e mettevano dei cupi rumori nell'aria intirizzita e chiusa. Scivolò, passò via non avvertita dagli uomini, che dormivan sulle robe, sempre sostenuta dall'orgasmo febbrile, che la faceva sognare a occhi aperti, aprendole davanti delle prospettive luminose, in cui nereggiavano i camini e i tetti bassi delle Fornaci. In questa mèta, che essa fabbricava a sé stessa, la fantasia inferma andava collocando le figure del suo pensiero, in costruzioni false ed illogiche. - Che avrebbe detto donna Gesumina, quando entrando la mattina nella stanza della guardaroba, non l'avesse piú ritrovata seduta davanti al solito telaio? forse avrebbe fatto bene a lasciare una parola scritta in un biglietto: le due signore l'avevano sempre trattata bene; ma Giacomo avrebbe scritto meglio di lei per giustificare la sua fuga. Non c'era che Giacomo che poteva disporre di lei: essa era sempre stata sua fin dal giorno che lo zio Mauro l'aveva condotta alle Fornaci sulla timonella, dopo la morte della povera mamma Mariannina. Aveva allora poco piú di cinque anni. Lo zio Mauro, che durante il viaggio se l'era tenuta sul ginocchio, nel calarla dalla timonella, l'aveva collocata in braccio a Giacomo, che la portò subito in vignetta a vedere i conigli. Fu ancora lo zio Mauro, che per una sua idea cominciò fin d'allora a chiamarla "Frulin", un nome senza senso, che pareva averli tutti al suo orecchio, quando ricordava i bei giorni passati. La zia Santina volle subito indossarle una sottanina di lana d'un color rosso vivo,che spiccasse bene in mezzo all'erba, quando andava a correre nel prato, perché non v'era buco in cui "Frulin" non si cacciasse, tanto era piccina e inquieta. E quando Giacomo sonava la chitarra nella stanza del torchio dell'uva? Lui sonava, zufolando sull'aria: Tant che l'era piscinin; e lei ballava, girando in una grande tinozza, che mandava il forte profumo del mosto. Nei sensi le parlava ancora questo acuto profumo d'uva calda. Un'onda spumante le pareva di veder scorrere qua e là in macchie purpuree sul candore della neve. E quando Giacomo se la recava sulle spalle nella gerla in mezzo alle colorite pannocchie del granoturco? Camminò su questi pensieri, senza poter distinguere sempre tra le impressioni reali e le immagini, che apparivano alla memoria, or più or meno confuse, fin che giunse all'incontro di piú strade. Qui si fermò, non sapendo per quale andare avanti, e novamente l'assalirono, come se fossero ivi appiattati ad aspettarla, i terrori della sua vita di ragazza oltraggiata, reietta, ingannata, figlia di nessuno, che nessuno voleva piú. Al chiaror della luna, che ricomparve un momento con improvvisa nitidezza, vide, sulla neve pesta, l'ombra della sua persona rimpicciolita, della sua testa nuda, che perdeva le treccie, dello scialle che, scivolando dalle spalle e mal trattenuto in vita, andava strascicando nel molliccio. Si vide, e cominciò a singhiozzare dolorosamente ed a cercare intorno a sé un'anima, che volesse aver compassione del suo stato. A sostenerla nel tristo momento venne un primo colorirsi del cielo dietro i monti, quasi un sospiro dell'alba in mezzo ad una nuvolaglia spessa, che si ammontonava sulle creste. Di là scendevano soffi piú densi, di un vento umido, pieno di ghiacciuoli, che le avviluppavano il capo, le stiravanoi capelli, le facevano desiderare qualche rifugio. Le strade del crocicchio partivano lunghe e larghe per direzioni diverse nel vasto piano di neve solcato dalle ruote, calpestato dai cavalli e dagli uomini: ma non un'anima viva nel deserto! Solamente uncapanno di paglia presso una pianta, un trenta passi fuori della strada, usciva dalla neve e pareva invitarla a prendere un po' di riposo. Vi si avviò, avendo creduto d'intendere voci di ragazze, che la chiamassero; ma, fatti alcuni passi nella neve molle, cominciò a sprofondare fino al ginocchio; e allora tornò indietro; poi, per quanto cercasse intorno, non vide né il capanno, né la strada. Si fece il segno della croce e, richiamate con uno sforzo acuto della volontà le energie dello spirito, avviò un secondo rosario colla intonazione alta, con cui soleva precedere la processione della chiesa al camposanto, durante la novena dei morti. La preghiera traboccava dalle labbra per un impulso meccanico della voce; ma il pensiero andava a ritroso, risaliva a tempi lontani, s'immedesimava con cose passate e morte, rivivendo, con lucida illusione i momenti trascorsi, indimenticabili, di una vita umile e dolce, piena di affetti, di tenerezze, di gioie nascoste, di pudibondi sogni, che non aveva mai osato esprimere asé stessa, quando il piú santo dei desideri le pareva cosí bello che non osava carezzarlo senza qualche rimorso. Si sparpagliavano come foglie trasportate dal vento le immagini, che illustravano la storia segreta del suo amore per Giacomo, dal dí che se l'era veduto venir davanti vestito da pretino (allora essa non sapeva ancora che cosa fosse amore) fino all'altro dí, cosí diverso, al tempo della guerra, quando, dopo aver provato tutti gli spaventi della morte, seppe che era tornato sano e salvo. Essa era in vignetta a coglier dei piselli per la minestra, quando il Manetta, che amava le grosse celie, le disse: - Cerestina , c'è il Garibaldi: non senti pim pum pam? - Essa rispose: - Che mi fa a me il vostro Garibaldi? - Ma non aveva ancora finito di parlare, che dietro il verde dei fagiuoli vide muoversi qualche cosa di rosso, come sarebbe stato un grembiale che sventolasse all'aria, e invece era lui, che, appiattandosi, cercava di avvicinarsi senza farsi scorgere: era lui, colla camicia rossa del garibaldino, arrivato improvvisamente; era lui annerito dal sole, lacero come un povero ladro; che, senza pensarci, se la prese tra le braccia: e anche lei, senza pensarci, gli aveva buttato le braccia al collo, mentre il Manetta cantava l'inno di Garibaldi e batteva le mani, piangendo come un ragazzo. Era cosí viva e presente questa scena che la poverina, come se l'allegria la portasse in aria, affrettava il passo, volando sulla neve, ridendo ancora giulivamente, mentre vedeva verdeggiare la strada e, in mezzo al verde, vedeva uscire il suo garibaldino. Cercava buttargli le braccia al collo senza poter raggiungerlo mai; e correva innanzi, sorretta dalla calda ebbrezza della febbre crescente, che non le lasciava sentire i brividi dell'aria mattutina. Una volta fu repentinamente arrestata e svegliata da un fischio acutissimo e dal passare rumoroso di un treno, che scivolò, lanciando una fiammata di scintille. Si fermò, girò gli occhi intontita, si raccapezzò, sentí la sua febbre, la sua pesante stanchezza; ma si consolò nel vedere già chiaro il cielo e nel trovarsi in mezzo alle note alture, poco lontana dalle sue montagne. Piovigginava da una mezz'ora, e non se n'era accorta. Sentendosi lo scialle e i vestiti inzuppati e freddi come ghiacciuoli, li scosse, si rimbacuccò, ringraziò il Signore d'averla accompagnata e (poteva dire d'aver camminato in sogno) si volse a cercar qualcuno, che le insegnasse la strada piú corta per andare al traghetto del fiume. Al rintocco d'un'avemaria, che venne da una chiesuola pocolontana, di cui scorse il campanile disegnarsi tra due cipressi, si avviò a quella parte, si mise a sedere sul gradino della chiesa, e stette ad aspettare che qualcuno aprisse la porta. Cosí accovacciata, colla testa sui ginocchi, si assopí un istante, rotta dalla fatica. Le furiose scosse della febbre la svegliarono: temette di morir intirizzita sulla strada, e colla forza nervosa ed esaltata, che dà il delirio, si mosse, si volse a tre contadine, che andavano al mercato a vender uova, e chiese loro la strada per il passo dell'Adda. Le fu indicata una stradetta, che scendeva al fiume, senza bisogno di girar tutta la carrozzabile; ed ecco dopo cinque minuti poté scorgere dall'alto della riva l'acqua incassata d'un color nero inchiostro, e al di là, nell'ombra grigia del crepuscolo, nel biancore della neve, la macchia del Santuario, il palazzo del Ronchetto e i neri camini delle Fornaci. Non sentí piú a quella vista né stanchezza, né brividi, né titubanze: di là c'era il suo Giacomo.

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

663944
Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Era abbandonarsi, ubbidire alla maggiore, alla più forte delle leggi, alla legge di Natura. Egli con la malinconia dell'animale, dopo il congresso, ricuperò un'apparenza di energia risolutiva; e si sciolse da Nerina, che indarno pretendeva trattenerlo ancora, e poi si profferiva di accompagnarlo al Comizio. Egli scese sulla strada infiacchito, estereffatto, barcollante del lungo amore subìto. Nell'avviarsi al teatro Vittorio Emanuele, egli invece del fremito di comunicare ad una folla pulsante, inondante, sentiva il bisogno di separarsi dal mondo e porsi a letto. Pure, obbedendo ad una consegna di onore cittadino e a un giuramento più patriottico che settario, si portò al teatro Vittorio, pregando Nerina, che pigliasse posto nelle sedie chiuse, mentre egli doveva salire al palcoscenico fra i promotori. Si trovò sul palcoscenico, confinato nel semicerchio di sedie, che incoronava il tavolo presidenziale e la tribuna degli oratori, spalleggiato da una foltezza di bandiere operaie, e davanti in platea un mare tempestoso scintillante di gente, e le gallerie rigurgitanti, come versanti di colline in vendemmia ideale. Ma egli è oramai un operaio inutile per la vigna del Signore. Trilla nel cuore trepidante di Losati il campanello presidenziale, che inizia il comizio. Ma la testa vana non gli risponde idee. Invano occhiate di aspettazione, e strizzature d'occhi invidi o intelligenti si rivolgono a lui. Egli si lascia pigliare il primo, il secondo, il terzo turno da un avvocatino petulante, da un deputatino procacciante, da un operaio indiavolato. Il quarto turno, il turno finale tocca a un Mosè dell'estrema sinistra garibaldina. Spirito Losati si è messo fuori di combattimento. Egli resta compresso, abbattuto dalla persuasione della sua impotenza e della sua indegnità, è l'imparità, è l'indegnità di sostenere la causa della Patria e della Ragione, quando si è in peccato carnale. Così egli è impedito dalla debolezza fisica e dalla coscienza morale a protestare italianamente contro l'andata del Soldato di Palestro a Vienna, e impedito a chiedere dantescamente e petrarchescamente l'abolizione della Legge delle guarentigie al Papa dell'empia Babilonia, che usurpa il luogo vacante di Pietro e di Cristo. Ma, appena cessato il comizio, lo invasa l'orazione, che egli avrebbe dovuto o potuto fare. A casa, a scuola, per via, egli soffre i tormenti del discorso rientrato, che gli ulula dentro. Egli si abbandona per parecchi giorni ad una masturbazione oratoria, declama il discorso nel suo gabinetto solitario, allunga le unghie per afferrare le settemila persone del Comizio già da tre giorni disciolto. * L'oratoria, egli riflette, rassomiglia un po' all'amore. Quando l'amante si incammina al colloquio con l'amato bene, ha l'anima rigurgitante di parole da Paradiso; ammutolisce poi nel colloquio; ed appena ritorna solo, quelle parole non dette gli rientrano, si amplificano, insorgono, lo accusano, lo assalgono, gli si ficcano nelle carni del cuore, nei precordii, gli scuotono, gli gonfiano il cervello, inferociscono ... Con un ghigno mefistofelico sull'utilità trapassata gli si matura la materia, gli si riordinano gli argomenti. Gli pare di trovarsi perfettamente nel precetto di Orazio: cui lecta potenter erit res, nec facundia deserit hunc, nec lucidus ordo ... Ed ora tutto è inutile, tutto è perduto ... No! Perviene a salvarlo, liberarlo dall'ossessione, a fruttificarlo nella vita degna essa, la fedele, l'ottima signora Consorte. La quale gli consegna un decreto ministeriale, che lo nomina Commissario Regio per gli esami di Licenza all'Istituto Tecnico di Trentacelle. Trentacelle era la città, dove Losati aveva compiuto gli studi secondarii, e dove il padre di Lorenzina si era arricchito con la macelleria gentile. Non per l'attrazione di un'aurea dote, ma per l'attrazione di due trecce nere più forti delle catene di un porto, per l'attrazione del volto di rosa ferruginosa, per l'attrazione di due occhi scintillanti, come il diamante, Losati si era sentito avvinto alla sua futura consorte cogli approcci dell'improntitudine, che la Provvidenza aveva stabiliti a salvezza e consacrazione della vita. Che bella cosa pel professore rifare a Trentacelle l'idillio studentesco! E l'ottima signora lo avrebbe volontieri accompagnato colà, se nominata dal Municipio di Torino ispettrice per le Scuole elementari di Borgo Dora non avesse dovuto essa stessa prendere parte ad una giunta esaminatrice. Il redento Losati giunse pertanto solo a Trentacelle con la migliore intenzione di purificare nei ricordi testimoni di un ingenuo santo idillio i trascorsi peccaminosi con la contessa De Ritz. Ma nella sera medesima del suo arrivo all'Albergo del Leon D'Oro , ecco riapparirgli Nerina, pantera misteriosa, fatta di ombra e di velluto, e di fascino sempre irresistibile. Pertanto egli venuto ad esaminare e giudicare i giovani per la direzione alla virtù, cedeva di nuovo scandalosamente al vizio. Inutile il suo rimorso della profanazione di innocenti primordii d'amore appositamente voluta dalla consumata peccatrice. Vicino all'Istituto Tecnico eravi l'asilo infantile " Calasanzio" . La Contessa, dopo essere stata a prendere il professore al termine d'una sessione d'esami, volle essere condotta da lui a visitare quell'asilo, che meritamente si decantava come un monumento d'arte applicata all'educazione, onde l'architetto cav. Domenico Gattelli era stato insignito della Commenda dei Santi Maurizio e Lazzaro. Di vero l'edifizio meritava una visita di ammirazione, specialmente il cortile, che rendeva la poesia d'un chiostro francescano. I pilastrini esili come steli coi capitelli di varietà floreale erano stati inspirati dal modesto e valoroso artista Giuseppe Maffei, che nel Biellese sotto il patrocinio munifico di Federico Rosazza ricreava un tipo genuino di arte primigenia. Quei portici parevano fatti, perché vi passeggiasse Gesù, mettendo la benedizione delle sue dita tra i ricci dei bambini; e parevano quelle volte echeggiare il cristianissimo: Sinite parvulos venire ad me! L'architetto aveva avuta una vera trovata amena ed economica. Verso la sommità alla parete degli atrii erano fisse mensole marmoree, ciascuna delle quali portava un angelo di gesso, che mostrava, quasi ventilava questa scritta: Datemi diecimila lire e vi cedo il posto. Un invito al busto per la fiera della vanità umana. Già tre benefattori avevano accolto l'invito; e sopra tre mensole avevano rispettivamente preso il posto degli angeli di gesso due impettiti in marmo di Carrara; un salsamentario decorato, che si era fatta inchiodare al petto, oltre la croce della Corona d'Italia, la medaglia di un'esposizione di suini; un droghiere improsciuttito dall'aria impepata, che faceva starnutare a guardarlo; terzo un canonico di bronzo. Anzi dal poeta cittadino doctor Malalingua si attribuiva al canonico l'idea bronzea di lasciare per testamento altre dieci mila all'Asilo Calasanzio, affinché erigesse un busto in marmo cipollino alla famosa cuoca di lui per quel panteon di beneficenza. Nerina commentò a Losati: * Mio papà ci morderebbe. * Poi ebbe un pensiero più irriverente: il pensiero, che in teatro le signore scollacciate mettessero sulle trine del seno: dateci dieci mila lire, ed anche meno, con quel che segue. Il professore Losati, utilitario nelle modernità pratiche, ammirava eziandio l'igiene e la decenza delle latrine. La Contessa si affisò davanti la lastra della soneria elettrica, compitando gustosamente il cartellino d'avviso al bottone: un colpo solo pella portinaia; due colpi per le suore maestre; una suonata lunga per la superiora. La Contessa si allontanò a braccetto del professore sghignazzando nel pervertimento dei doppi sensi d'interpretazione: e pretendendo per sé tutta la gamma dei campanelli elettrici, specialmente la suonata lunga della superiora da disgradarne la sonata a Kreutzer del Tolstoi. Il professore, pur incapace di reagire, ne sentiva ribrezzo, come se egli con quella diavolessa avesse importato la corruzione in quella antica città patriarcale. Davvero Trentacelle era in uno stato di quiete da offrire il maggiore spicco alla anormalità di una diavolessa eteroclita. Felicemente priva di quei superuomini sporadici, che intorbidano in certe epoche le città di provincia, era governata sistematicamente da vecchi patriottardi ingenui, che pigliavano sul serio anche i diplomi delle Società dei Salvatori di Napoli e dei vetrai perlacei di Venezia. La stagione estiva aumentava la solitudine acquitrinosa da capitale delle risaie. Viceversa le belle e ricche signore che Doctor Malalingua chiamava ambubaie gratuite o paganti, se ne erano andate alle acque più salubri dei mari, dei laghi e dei monti. Talune si erano spinte all'Esposizione Universale di Vienna; e con maggiore fracasso delle altre era partita per quella Mostra Mondiale la sfarzosissima marchesa, che Doctor Malalingua aveva soprannominata la Dea Reggimentale, dopo che essa in una cena al Circolo Ricreativo innalzando il calice spumeggiante aveva brindato: Viva Piemonte Reale! Abbasso i mariti! Desiderato Chiaves in una ricreazione filodrammatica, compassionando una vedovella solitaria nella sua villa, aveva fatto esclamare da uno zio rappresentativo: * Che fa il ministero della guerra, che non manda uno squadrone di cavalleria nei dintorni a consolare la solitudine della mia cara nipotina? * Così e converso gli ufficiali di Piemonte Reale Cavalleria pesante, di guarnigione all'uggia della melmosa Trentacelle nella state del 1873, potevano mitologicamente invocare Venere e Cupido: * Se non siete definitivamente morti, Dio dell'amore, Dea dell'amore, che fate? Spediteci qui una bellezza da ammirare e corteggiare. Si direbbe, che Venere e Cupido esaudissero i voti dell'Ufficialità di Piemonte Reale Cavalleria con la spedizione della Contessa Nerina a Trentacelle. Veramente essa vi era venuta per il professore Losati. Ma non è più lecito ignorare, che essa era uno di quei cuori ardenti, che non si appagano di nessun amore. Ed era più prepotente di una czarina slava nella molteplicità dei suoi capricci imperiosi. Della sua prepotenza aveva già dato saggio all'albergo, al caffè e nelle passeggiate, principalmente con gli occhi, che lucevano come una stella; una stella d'inferno, stella promettitrice di rapimenti, tempeste e rovine. La sua conquista decisiva fu a teatro. Al Politeama Tupinetti si rappresentava un drammaccio da arena: La colpa vendica la colpa. Però il maggiore spettacolo era quello che il pubblico si dava a se stesso, facendo licito il libito in sua legge per esalare seralmente l'afa della giornata estiva. Chi fumava, chi cicalava, chi beveva, chi ordinava scioppi di birra. Si sentivano come revolverate gli stappi della gazosa. Nel pandemonio si distingueva la barcaccia degli ufficiali di Piemonte Reale, che sporgeva al lato destro del proscenio, tanto da poter stringere la mano alla prima donna o dare un pizzicotto alla servetta. Irruppero cinque o sei tenentini reduci coll'ultimo treno dagli esami di promozione della Scuola di Pinerolo. Furono interrogati premurosamente sull'esito. Il più oratore di essi rispose con rassegnazione di iattanza nel latino maccheronico più che goliardico: Si passus, passus; si non passus, andabo a spassus, pigliabo uxorem et coglionabo professorem. Il cicaleccio venne interrotto dalla luminosa apparizione della Contessa De Ritz nelle sedie chiuse col professore Losati. Vista la puntatura pertinace del relativo binoccolo, un capitano osservò all'oratore dei tenentini di Piemonte Reale: * Mi pare che tu voglia pigliare la moglie degli altri, la moglie del professore. Pigliabo uxorem et coglionabo professorem, divenne il ritornello, il refrain , il leit motiv della barcaccia degli ufficiali di Piemonte Reale, che colle bande rosse sulle gambe lunghe si rizzavano, si protendevano, come diavoletti arroncigliatisi: chi spediva baci, chi pareva volesse gettare il fazzoletto di sultano, chi la rete di pescatore, chi il laccio di gaucho mato sulla Contessa imperatrice delle sedie chiuse. Il professore non dava segno di accorgersene, assorto come la maggiore parte del pubblico nella lettura dell' Eco di Trentacelle , il cui foglio uscito e distribuito di fresco, andava a ruba e costituiva l'avvenimento di quella sera. Tutti lo leggevano, ad eccezione degli ufficiali della barcaccia più dediti all'equitazione, alla scherma e alle conquiste, che ai pettegolezzi della letteratura provinciale. Eppure Spirito Losati, benché rotto alle letterature classiche, scopriva un nuovo filone di minerale letterario in quelle Cacature di Mosca , come il Doctor Malalingua dell' Eco di Trentacelle aveva voluto modestamente ed anche sprezzantemente intitolare i suoi ristretti di romanzo e spunti di commedia. Egli era il giovane farmacista Evasio Frappa, che a divagazione e sostegno della monotonia dei suoi pestelli e vasetti si era fatta coll'assidua lettura una cultura straordinaria, e si era formato uno stil nuovo caustico da rivaleggiare nella provincialità di Trentacelle con il rapido, plastico e mordente bozzettista americano Bret Hart, e da precorrere agli acidi corrosivi dell'amaro Massimo Gorki. Se un generoso editore (nella supposizione inverosimile che vi siano generosi editori in Italia) avesse la furberia di raccogliere dalle annate gialle dell' Eco o dell' Oca (come dicevano gli spiritosi dileggiati) di Trentacelle d'una quarantina d'anni fa, le Cacature di Mosca di Doctor Malalingua (Evasio Frappa) colpirebbe l'immaginazione del pubblico con un tesoretto postumo di osservazioni concrete da togliere il gusto della letteratura sbattuta e vuota oggi in voga. Segnalatamente gustosi gli scampoli: Un trombone isolato * Il burattinaio famelico * A che servono le donne d'altri * Lasciate amare * Il mestiere d'amare * Storia di una molecola * Le citte * Necrologia di una pipa * Al marito di cento, senza averne sposata nessuna , titolare di una commedia a soggetto. Noi per connessione di causa riproduciamo un profilo relativamente più debile intitolato: Formidabile , caricatura a chiave riconoscibilissima della Dea reggimentale, la cui attraente lettura in quella sera distraeva l'attenzione dal dramma " La colpa vendica la colpa" nonché dalle manovre di Piemonte Reale Cavalleria nella barcaccia, dagli inviti assordanti di gaseuse e bira , e dallo stesso splendore e fascino civettuolo della contessa Nerina sovrana nelle sedie chiuse. Ecco il profilo esumato: * Formidabile * sommario di romanzo I. Non è la storia di una pirocorvetta ad elice, ma è la storia di una nobile signora più formidabile di una fregata da cento cannoni. Nacque figliuola unica del barone Uvamico, proprietario rentier , insignificante, inconcludente e della baronessa Carissa dei nobili Scintilla morta con sapore di bambina. Fu battezzata Stella. Fu educata in un convento. Ritirata a casa a sedici anni giocava ancora con la puppatola. Sentiva bisogno di amare. In convento le era sembrato di amare un baritono venuto a cantare un pange lingua in una funzione religiosa. Ora avrebbe voluto amare uno scolare studioso, un avvocato eloquente, un giovane che si fosse reso benemerito verso sua madre o verso il prossimo, un fabbricante, che avesse trovata una tinta indelebile per i calzoni o per la cifra della biancheria. Un giorno le annunziarono, che ella avrebbe sposato il marchese Ercole Passerotto di Frappaglia. II. Chi era il marchese Ercole Passerotto di Frappaglia? Era figliuolo a un diplomatico di Carlo Emanuele ultimo e di Vittorio Emanuele I, che aveva abbandonato l'educazione del figlio per la diplomazia. L'aveva commesso a un prete, Don Procopio. Il tirone, di indole frigida, cioè pochissimo sensuale, si innamorò molto spiritualmente e poco spiritosamente del cappellano. Don Ercolino mostrava e sentiva entusiasmo per le benedizioni ed i santuarii: portava il baldacchino, la pellegrina e le conchiglie in processione: avrebbe fatto dieci miglia a piedi per sentire una messa cantata, accompagnata all'organo da padre David. Si soffiava il naso con fazzoletti dello stesso colore del piviale, che deve variare ogni giorno il prete a messa secondo il calendario rituale. Aveva divisato di immortalarsi con una monografia sulla Confraternita di Santa Caterina. I cosidetti sensi non li conosceva più nemmeno, avendo tarpato loro le ali, appena mettevano il cannone. A quindici anni, quando alcuno gli domandava chi intendesse sposare, egli rispondeva: * Voglio sposare Don Procopio! A venticinque anni, il padre gli replicò la domanda. Ed egli rispose, che voleva sposare la Chiesa. Il padre pianse alla pochezza d'ingegno del figlio, egli che voleva tirarne un diplomatico, un uomo di stato. Gli osservò, come per un figlio unico non c'era luogo a vocazione ecclesiastica, * e che per un nobile né prete, né militare era un disonore non avere moglie. Don Ercolino si acconciò e sposò la contessina Clara Faggio Del Poggio, florida bionda, che dal giorno del matrimonio al contatto di quella cartapecora intristì, fino a morire di lì a sette mesi. Il marchese Ercole ne pianse la morte religiosamente, ufficialmente e coralmente, perché così gli imponevano le sue convinzioni di gentiluomo, di galantuomo e di fedele cristiano. Ma nel suo sé fu contento di essersi spacciato dall'obbligo della moglie, e dal disonore di rimanere nobile celibe senza essere colonnello né monsignore. Durò cinquant'anni di fiera vedovanza, durante i quali fece fabbricare due organi nuovi, pubblicò le sue opere storiche su diverse confraternite e comperò la mula bianca per l'ingresso del nuovo arcivescovo. Protestò contra lo Statuto e l'abolizione del foro ecclesiastico e dei Conventi. Nel 1858 per l'epidemia clericale elettiva fu mandato deputato al Parlamento Subalpino. Vi si recava, dopo avere udito e servito due o tre messe a San Filippo. Avrebbe creduto di commettere un peccato di gentiluomo cattolico, se avesse toccato la mano a Brofferio o a Borella. Non parlò mai. Quando il padre Angius o il conte Solaro della Margherita nominavano il Padre Eterno od il suo figliuolo nostro Signore Gesù Cristo, egli si levava il berrettino pretesco, e si faceva fieramente il segno della Santa Croce in Parlamento. Dopo il sessanta, egli pianse su Casa Savoia e si recò nel suo Castello di Frappaglia, paese quasi tutto suo. Diceva il breviario, come i preti. Abolite le corporazioni religiose anche nel Napoletano, egli ospitò a Frappaglia un monastero di suore carmelitane. Una nobile monacella, dolce come una caramella, la Mirto La Chaine di Mostiafè, la quale non aveva ancora varcato gli ultimi voti, gli presentò nel giorno onomastico un mazzo di fiori con la grazia di un'estasi implorante da reclusa. Il vecchio marchese Passerotto di Frappaglia sentì uno strabiliante effetto di amore a settant'anni. Nell'orgasmo senile la baciò, ed onestamente se la sposò, dopo avere pagata una lauta dispensa alla Dateria apostolica di Roma ed ottenuta per sopramercato una particolare benedizione dal Santo Padre. La marchesina allontanava ogni adorazione altrui con un raggio d'occhio dolcemente superbo. Morì nella maternità martire. Inconscio Barbableu, il marchese Ercole Passerotto di Frappaglia pianse di nuovo ufficialmente e coralmente, e fece venire, oltre l'arcivescovo, due vescovi e dieci canonici per la sepoltura. Finito il rito funebre, convocò l'arcivescovo, i vescovi e i canonici a concilio nel coro della cappella, e tenne loro un'arringa, dicendo che per la salute della sua anima e del suo corpo aveva bisogno di una nuova sposa, purché aristocratica e cattolica; e glie la cercassero. Non fiutarono a lungo i monsignori per trovare la nubenda al vegliardo de cujus . Uno di essi propose la propria nipote baroncina Stella Uvamico, il cui padre era vicino a spiantarsi per la sua imbecillità. Nei primi giorni del suo terzo matrimonio, il marchese Passerotto lasciò in libertà la sposa, che aveva quartiere separato. Al sesto giorno la più vecchia delle dame di compagnia avvertiva la marchesa, che lo sposo sarebbe venuto a farle visita intima di sera, dopo il rosario. Venne ilare, rimpennacchiato, ossia vestito comicamente e lussuosamente alla Goldoni con trine bianche e parrucca nera, spadino e fioretti ... Contento della relativa conquista, egli si arrese a trasportare i lari in città. Quivi dava delle feste da ballo, come glie lo permettevano le sue trecento e cinquanta mila lire di rendita. Mentre gli altri ballavano o si divertivano altrimenti, egli diceva il breviario, e finito il ballo andava a messa. La marchesina Stella paragonò il poderoso scalpitio di un capitano di Nizza Cavalleria alla tosse e allo scricchiolare della carcassa del marchese. Dopo mille rimordimenti di coscienza, diede il suo cuore, la sua fotografia, le sue labbra all'ufficiale cavaliere, per crearsi una nuova vita di felicità perpetua, fedele, amorosa, permessa dalle leggi degli angeli. Il capitano cambiò di guarnigione. Inutilmente essa spedì il marito clericale nella capitale usurpata ad invocare dal ministero massone il ritorno di Nizza Cavalleria a presidio della consorte. Essa voleva fuggire, suicidarsi, farsi monaca ... Voleva recarsi a implorare un santo consiglio da un santo vecchio sacerdote ... Invece capitò a farle visita un giovane e bel canonico. Essa si accorse solo allora, come un prete poteva essere salacemente bello. Subì una dichiarazione amorosa sacerdotale. Stella amava misticamente il canonico, che venne graffiato dalla cuoca e piantò la marchesa, dopo averla accompagnata ostensivamente a braccetto nel visitare le cappelle artistiche del Sacro Monte di Varallo. Delusa dall'abbandono canonicale, la marchesa ritiratasi al Castello di Frappaglia, quivi amò rubestamente un contadino, che aveva adocchiato a un ballo pubblico, e giudicato più bello ed aitante di tutti gli ufficiali e di tutti i canonici ... Se ne disgusta una sera per il puzzo ... Stella non voleva cadere in una stalla. Ritorna in città più formidabile che mai. Allaccia, straccia, stritola, scarpiccia cento vincoli di amore. È un uragano in un bosco d'amore. Il marchese sopporta da gentiluomo del settecento; raccomanda solo di salvare le moderne apparenze. Stella riceveva docile e imperiosa i frequenti assalti, più che omaggi, dei tenentini impertinenti ed impetuosi; e dignitosa gli inchini dei grossi colonnelli, uno dei quali, grosso come un tamburo, nel forte della dichiarazione scappò in un petardo. Sgloriata nuovamente del militarismo, essa volle lasciare un'altra volta l'esercito per la chiesa; finse una malattia e una confessione per sedurre un celebre predicatore. Poscia si invaghì di un giovane pittore, il quale visibilmente segnato dalla Dea Gloria, aveva promesso di sposare al suo paese l'umile figlia di un fornaio, ricciuta come una pecora del sole, perché era stata la sua prima favilla artistica. Stella si fissò di rapire il nuovo Raffaello alla fornarina rusticana. L'artista cede alle lusinghe della superba matrona. Ma dopo la prima eclampsi d'amore, egli, già snebbiato di voluttà, sentì la plebea tentazione di imprecare: porca marchesa! Come il re Teodorico in una ammoniaca spirituale dell'ebrietà banchettante vide nella testa del pesce i teschi delle sue vittime Simmaco e Cassiodoro, così il pittore in una svenia della Donna formidabile vide rifiorire l'immagine della sua unica Fornarina, innocente fanciulla, che lo scacciava dalla filatessa degli amanti di Stella. Per riabilitarsi egli ha bisogno di un gran colpo: trae di tasca un portafogli; ne estrae un biglietto della Banca Nazionale di lire cento, rosso come la vergogna, e lo dà alla marchesa, dicendo: non ho mai pagato tanto niuna ... Se avesse pronunciata la parola, l'avrebbe detta in greco: etaira ... La marchesa urla, ma ritiene il biglietto, lo caccia in un medaglione; poi lo fa inquadrare e spianta la sua corte. Diviene una benefattrice. L'artista ha sposato la fornarina. Il marchese Ercole è morto. Morrà anche la marchesa lasciando il fatto suo allo Spedale. Sarà santificata." " Doctor Malalingua" Alla chiusa ottimista del bozzetto, il professore sollevò lo sguardo carico dall'appendice dell' Eco di Trentacelle, e colse in uno sguardo fragrante l'attacco più che formidabile di Piemonte Reale Cavalleria alla contessa De Ritz, e questa in posa smaniosa di fortezza prendibile, e quasi in accensione di Troia omerica; onde sospirò internamente con una sicurezza di virgiliana immagine: Nerina ruit in pejus.

IL Santo

669008
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Gli piacque di abbandonarsi almeno una volta alla pietà della propria sorte, di gustarla, almeno una volta, sino al fondo, di figurarsi la propria sorte anche più dolorosa e amara che non fosse. Tutti erano contro di lui, si accordavano contro di lui, tutti! Solo, solo, solo. E i suoi sostegni interni eran proprio buoni? Eran proprio sicuri? Quell'uomo là in alto, quel ministro di tanto ingegno, di tanto sapere, di tanta bontà personale, se avesse ragione? Se il Cattolicismo fosse veramente insanabile? Oh, ecco, anche il Signore, il Signore da lui servito, il Signore che lo colpiva nel corpo, che lo metteva in potere dei suoi nemici, adesso lo abbandonava nell'anima. Angoscia, mortale angoscia! Desiderò morire lì, aver pace. Le voci, in alto, del ministro e del sottosegretario che discendono. Benedetto si sforzò di alzarsi, si trascinò nella via, vide a sinistra, pochi passi oltre il portone, un'altra carrozza ferma. Un domestico in livrea stava sul marciapiede discorrendo col cocchiere. Al comparire di Benedetto il domestico gli si fece premurosamente incontro. Benedetto riconobbe alla luce del gas il romano antico di villa Diedo, il cameriere dei Dessalle. Gli balenò nel cervello torbido che Jeanne fosse ad aspettarlo in carrozza, diede un passo indietro. "No" diss'egli. Intanto la carrozza era venuta avanti. Benedetto immaginò di vedere Jeanne, esser fatto salire con lei, di non avere forza sufficiente a impedirlo. Preso da vertigine, retrocesse ancora e sarebbe caduto se il domestico non lo avesse raccolto nelle sue braccia. Si trovò in carrozza senza saper come, con un fastidioso lume vivo incontro e un forte ronzio negli orecchi. A poco a poco si raccapezzò. Era solo, una lampadina ad acetilene gli luceva in faccia. Lo sportello alla sua destra era aperto e il domestico gli parlava. Che diceva? Dove andare? A villa Mayda? Sì certo, a villa Mayda. Non si poteva spegnere quel lume? Il domestico spense e parlò ancora, di una carta. Quale carta? Una carta che la signora aveva fatto mettere nel taschino interno del coupé , coll'ordine di consegnarla al Signore. Benedetto non capiva, non vedeva. Il domestico prese la carta e gliela pose in tasca. Poi domandò, per ordine dei signori, stavolta disse così, come il Signore stesse di salute. Se lo avesse veduto morto, il rigido uomo avrebbe ugualmente eseguito l'ordine. Benedetto pregò, per tutta risposta, che gli fosse portata un po' d'acqua; bevette avidamente quella che il domestico gli recò da un caffè vicino, ne provò alquanto ristoro. Riprendendo la tazza vuota, il domestico credette bene di compiere la sua missione: "La signora mi ha ordinato di dirle, se Lei domanda, che i signori hanno mandato la carrozza perché sanno che Lei non sta bene e hanno pensato che qui, a quest'ora, non ne troverebbe." Il coupé aveva molle eccellenti e le gomme alle ruote. Che riposo era per Benedetto di correre silenziosamente così, solo dentro un'oscura carrozza soffice, nel cuore della notte! Di quando in quando apparivano a destra e a sinistra sfondi di vie lucenti e allora era per lui una sofferenza, come se quelle lunghe file di lumi fossero nemiche. Tornava subito l'ombra delle vie strette, la fuga, sui marciapiedi e sulle case, della luce trabalzante dai fanali del coupé . Il cocchiere mise il cavallo al passo e Benedetto guardò fuori, nel buio. Gli parve che incominciasse la salita dell' Aventino. Si sentiva meglio; la febbre, inasprita dai travagli fisici e morali di quella notte di battaglia, declinava rapidamente. Avvertì allora, per la prima volta, il sottilissimo profumo del coupé , il solito profumo usato da Jeanne, e lo morse la memoria viva del ritorno da Praglia con lei, del momento in cui, lasciata lei al piede della salita di villa Diedo, si era allontanato solo nella victoria profumata e tepida di lei; solo, ebbro del suo segreto di amore. Atterrito dalla vivezza dei ricordi, si strinse le braccia al petto, si sforzò di ritrarsi dai sensi e dalla memoria nel centro di sé, ansava a bocca semiaperta non riuscendo a spinger la immagine fuori dalla sua visione interna. E altre gliene lampeggiavano nel cuore senza vincere la sua volontà resistente ma facendola fremere come una corda tesa. Era l'idea che soltanto lei, Jeanne, lo amasse davvero, che soltanto lei soffrisse del suo soffrire. Era la voce di lei che si doleva di non essere riamata, la voce di lei che lo pregava di amore con una cantilena di Saint-Saëns, tanto dolce, tanto triste, nota ad ambedue, della quale egli le aveva detto a villa Diedo che nulla saprebbe ricusare a chi pregasse così. Era l'idea di fuggir lontano, ben lontano e per sempre, da Roma pagana e farisea. Era una visione di pace, di colloquî purissimi con la donna ch'egli conquisterebbe finalmente alla fede. Era un desiderio ardente di dire al Signore: troppo tristo è il mondo, concedi che ti adori così. Era il pensiero che in tutto ciò non vi fosse colpa, che non fosse colpa l'abbandono della sua missione a fronte di tanti nemici. Era il dubbio di non avere realmente missione alcuna, di aver ceduto a suggestioni d'inganno, di aver creduto a realtà di fantasmi, di essere stato illuso da parvenze del caso. Erano le fisionomie spirituali e morali dei suoi amici e seguaci, fatte difformi agli occhi suoi come da uno specchio convesso; era la scorata certezza che ogni speranza posta in essi gli fallirebbe. Era da capo la cantilena tenera e triste, con un senso non più di preghiera ma di pietà, di una pietà circonfusa alla sua lotta amara, dell'accorata pietà di qualche spirito ignoto che pure soffrisse e si dolesse di Dio ma umilmente, dolcemente, e parlasse per tutto che ama e soffre nel mondo. La carrozza si fermò a un crocicchio e il domestico scese dal serpe, si affacciò allo sportello. Pareva che tanto egli quanto il cocchiere non avessero un'idea chiara del posto di questa villa Mayda. A destra scendeva una stradicciuola fra due muri. Dietro quello più alto di sinistra colossali alberi neri ruggivano al tramontano che aveva spazzato le nubi. Nello sfondo nereggiavano al fioco lume stellare il Gianicolo e San Pietro. Era una stradicciuola da pedoni. Doveva il Signore scendere lì per andare a villa Mayda? No, ma "il Signore" volle scendere a ogni modo, uscire della carrozza avvelenata. Si trascinò, lottando col suo povero corpo infermo e col vento, fino a Sant' Anselmo. Rifinito, pensò a domandare l'ospitalità dei monaci ma non lo fece. Scese lungo il grande, silenzioso asilo benedettino di pace, passò sospirando davanti alla porta chiusa che dice vanamente quieti et amicis , giunse infine al cancello di villa Mayda. Il giardiniere venne ad aprirgli mezzo svestito e si meravigliò molto di vederlo. Gli disse che lo credeva in prigione perché verso le nove un delegato di P. S. e una guardia erano venuti a cercarlo. Anzi la signora, la nuora del professore, saputo questo, aveva dato senz'altro l'ordine di non lasciarlo entrare se per caso ritornasse; ma poi, con molta gioia del giardiniere, affezionato a Benedetto e al padrone quanto avverso alla signora, era venuto un fiero contrordine del professore. Udito ciò, Benedetto sarebbe ripartito subito se gliene fossero bastate le forze. Ma non era in grado di fare cento passi. "Sarà per questa sola notte" diss'egli. Abitava una cameretta nella casina del giardiniere. Sperò, nell'entrarvi, che vi avrebbe ritrovata la pace del cuore; ma non fu così. Lo cacciavano anche di là; ecco l'annuncio amaro che il suo cuore diede al povero lettuccio, ai poveri arredi, ai pochi libri, alla fumosa candela di sego. Fissi gli occhi nel Crocifisso pendente sopra uno sgabello a fianco del letto, egli gemette mentalmente con uno sforzo di volontà: "Come posso io dolermi tanto, Signore, delle croci mie?" Invano; il suo spirito non aveva senso vivo né di Cristo né della Croce. Sedette desolato, non volendo coricarsi così, aspettando una stilla di dolcezza che non veniva. Una folata di vento gli fece volgere il capo alla finestra che si era spalancata. Vide laggiù nel cielo lucidissimo, sopra i merli di Porta San Paolo e la nera punta della piramide di Cestio e le vette dei cipressi che cingono la tomba di Shelley, un grande pianeta. Il vento urlava intorno alla casina. Oh la notte nel manicomio dove sua moglie moriva, e le urla delle agitate, e il grande pianeta! Nel reclinare il capo grave di tristezza si accorse per caso della carta che il domestico gli aveva cacciata in tasca. Era una grande busta orlata di nero. La spiegò, vi lesse il nome e i titoli della sua povera vecchia suocera, la marchesa Nene Scremin, e le due semplici parole che seguivano: IN PACE. Impietrò col foglio aperto nelle mani e gli occhi fissi alle due parole anguste. Poi le mani gli cominciarono a tremare e dalle mani il tremito gli salì al petto, crescendo, crescendo, e dall'affollar del petto gli ruppe su per la gola una tempesta di pianto. Piange per il ritorno di tante memorie ricondotte a lui dalla povera morta, dolorose e soavi; piange affissandosi nel Crocifisso, in Cristo, al quale, oh certo, ella si abbandonò fidente, nel morire, come l'altra cara, come la sua Elisa; piange di gratitudine a lei che ancora dal mondo ignoto gli è pia, gl'intenerisce il cuore. Ricorda le ultime parole udite dalla sua bocca: "Allora, vederci, mai più?" Sorride nell'anima presaga, si volge alla finestra spalancata, contempla il grande pianeta.

Malombra

670409
Fogazzaro, Antonio 2 occorrenze

La fredda chiesa piena di tedio s'intepidiva, si ravvivava; era un acre piacere fissare le pietre ascetiche, trarne questa luce, questo calore dei sensi, conoscer la voce dolce e forte del tentatore; abbandonarsi a lei. La fantasia correva ad altre imagini febbrili. Marina era con lui, non più fra le onde, ma nella sua stanza del Palazzo, gli diceva "finalmente!", gli prendeva la mano, lo traeva a sé sorridendo con un dito alle labbra, nella notte profonda... Si alzò e uscì di c hiesa, vacillando. Dio gli aveva risposto.

Le signore che scendevano il bastione in carrozza, parevano correr giù verso l'orizzonte limpido, abbandonarsi con insolito languore, silenziose, alle carezze dell'aria tepida. E due lunghi rivi neri di gente, picchiettati d'abiti chiari femminili, scendevano a destra e a sinistra del Corso con un gran rombo confuso di passi e di voci, come due lunghe striscie di stoffa pesante trascinate pei marciapiedi fuori del fitto ombroso della cit tà. Tutte le finestre erano aperte. Pareva a Silla che tutti i cuori lo fossero pure, che quella corrente di uomini portasse tesori di pensieri gai, d'immagini ridenti, che riflettesse la ingenua giovinezza eterna della primavera. Anche nel color delle pietre, tuttavia calde di sole, egli sentiva il prepotente aprile che non valendo a mettervi la vita, ve ne metteva quasi il desiderio, la speranza lontana. Non gli toccava il cuore udir parlare del lago e delle montagne; nessuna voce del passato si ridestava in lui. "Non scrive altro quel signor curato?" disse egli a Edith. "Null'altro" rispose per lei Steinegge. "Come? Non parla del Palazzo?" "Oh, qualche parola, sì." "Non parla del matrimonio di donna Marina?" Steinegge non poté rispondere, perché un tilbury sopravvenne di gran trotto, tuonando sul ciottolato vicino a Silla che si voltò a guardare il cavallo, un bel sauro snello. "Bello" s'affrettò a dire il capitano di cavalleria, appena passato il tilbury "bello, ma troppo leggero. Cavallo ungherese; io conosco. Migliore da sella." "Dunque" ripeté Silla "non parla del matrimonio?" Steinegge lo guardò. Non gli pareva vero che fosse così indifferente. "Sì" diss'egli "mi pare che scriva qualche cosa." "Suo padre fa il diplomatico, signorina." "Non lo credo" rispose Edith. "Lo faresti troppo male, papà; non è vero? Ma, e Lei, signor Silla, cosa fa?" "Faccio il curioso, vuol dire. Ha ragione. Ma è curiosità innocentissima, lo creda." Disse queste ultime parole con enfasi, come per far loro esprimere più di quello che potevano. Allora Steinegge uscì dalle sue trincee; con qualche cautela, però spiegandosi lentamente. "Ecco" diss'egli "pare che le cose vadano liscie e che il matrimonio non tarderà molto a farsi." "Lo credo bene. Non è combinato da sei mesi?" "Sì, sì, ma capite bene, caro amico, i preparativi, questo è lungo. Adesso poi si fa presto, pare; prestissimo." "Me ne rallegro assai" disse Silla tranquillamente. Steinegge fece uscire anche le sue riserve. "Il matrimonio" diss'egli "si fa, pare, questa sera, ventinove aprile. Pare che il popolo vuol fare grandi cose; musiche, fuochi d'artificio. Ci è stata la scritta. Si dice che il conte Cesare voleva costituire a donna Marina una dote di trecentoventimila lire, ma che essa ha preferito un'obbligazione diretta del conte allo sposo per questa somma, da sottoscriversi all'atto del matrimonio. Il conte Cesare non è stato bene due giorni, ma ora è guarito. Il conte Nepo si è fermato al Palazzo una settimana, in principio di questo mese, e i domestici vanno dicendo che è molto avaro, ma il parroco afferma che non è vero e racconta di aver ricevuto cento lire per i poveri." Steinegge scherzò su questo splendore di munificenza che aveva abbagliato il povero prete; ma Silla lo contraddisse risolutamente, sostenne che alle buone azioni non si piglia la misura, che non si arrovesciano per guardarne la fodera. Parlava vivacissimo, di vena, interrompendosi spesso per salutare i suoi conoscenti, per fare a Edith osservazioni gaie su persone e cose che gli passavano sotto gli occhi. Tutti coloro che lo salutavano, guardavano poi Edith curiosamente. Edith gli rispondeva breve, senza gu ardarlo, o solo quando non ne poteva a meno. Ella non sorrideva più, si era fatta grave. Prese il braccio di suo padre. Silla ammutolì poco a poco esso pure. Sospettò che Edith avesse attribuito un significato preciso alla sua dichiarata indifferenza per il matrimonio della marchesina di Malombra, e che volesse tenersi in guardia. Il cuore gli batté forte, una oscura dolcezza gli confuse i pensieri. Qualcuno, dall'onda della gente, lo salutò in quel momento; non rispose. Camminava in mezzo alla folla come se né vedesse né udisse alcuno. Erano giunti presso al bastione. Vi spirava un'aria men tepida, pregna dell'odor de' prati; ma la folla saliva tuttavia densa al viale di sinistra, e, al di sopra de' cappelli si vedevano sfilar lentamente nel viale di mezzo, facendo il giro, cocchieri pettoruti, cocchieri umili, cocchieri appaiati a staffieri, cocchieri solitari, cocchieri soddisfatti, cocchieri rassegnati, cocchieri scuri, cocchieri gialli, rossi, azzurri, e verdi. Edith avrebbe voluto ritornare indietro; l'aria le pareva umida; temeva ch e suo padre ne soffrisse. Steinegge ne rise. Quando mai aveva notato sua figlia ch'egli si curasse del secco e dell'umido? E il Corso lo divertiva tanto! Edith non insisté. All'entrata del viale Steinegge alzò in aria tutte e due le braccia e tirò una allegra mitraglia d'interiezioni tedesche a un signore piantato lì a vedere sfilare le carrozze. Questo signore, un tal C... col quale Steinegge aveva tentato fondare tempo addietro una Corrispondenza litografica si voltò, lo guardò e gli venne incontro stendendogli la mano. "Scusate" disse Steinegge a Edith e Silla "questo è C... Io debbo parlare. Andate avanti; vengo subito." Edith non ebbe tempo di rispondere perché suo padre era già sgusciato via attraverso la gente che, sopravvenendo fitta e continua, non consentiva di fermarsi. Fatti pochi passi, ella volle uscire sul gran viale a guardare indietro, ma non vide suo padre. Fermarsi lì ad aspettare non le garbava; le pareva di sentirsi più imbarazzata, più sola. Silla le consigliò sommessamente di andare avanti, come le aveva detto suo padre, ond'egli, passando oltre fra la gente, non li avesse poi a cercar senza frutto. Essi camminavano fra il viale affollato e il lungo cordone di curiosi intenti a guardar le carrozze che andavano al passo, fermandosi di tempo in tempo. Camminavano discosti l'uno dall'altra, senza parlare, guardando tutte le carrozze con grande attenzione, fossero calessi alla Daumont o sudicie cittadine. Ad ogni tratto Edith voltava il capo a guardar indietro. Intanto le sconfinate campagne di levante, al di là del bastione, si vedevano nelle ombre della sera sotto l'azzurro pallido del cielo che si confondeva quasi, laggiù all'orizzonte, con esse, distese, aperte avidamente agli inenarrabili amori della notte di aprile. Apparivano fra una carrozza e l'altra, scomparivano, riapparivano, grande immagine di pace, al di là di quel brulichìo mondano. A ponente le case oscure della città si disegnavano sul cielo aranciato che posava una languida luce calda nei bassi p rati dei giardini, il margine scoperto del viale. La striscia nera della gente a piedi moveva lenta, assaporando l'ora dolce, l'aria pura, odorata di primavera e di eleganza, il rumor soffice delle carrozze, musica della ricchezza indolente, piena d'immagini tentatrici. E le signore, negli equipaggi di gala, passavano e ripassavano sotto la nebbia verdognola dei grandi platani, come Dee infingarde, fra gli sguardi ardenti, la curiosità invidiosa del pubblico, blandite da questi acri vapori d'ammirazione, fi so l'occhio al di sopra di essi, in qualche invisibile. Quel moto lento e molle, quella stanca inquietudine umana pareano consentire col nuovo turbamento, con le nascenti passioni della terra. Silla avrebbe voluto parlare, interrompere un silenzio pieno d'imbarazzo e di trepide immaginazioni, ma non ne trovava la via. Arrivarono davanti al caffè dei giardini mentre molte persone se ne rovesciavano sul viale, rompendo la corrente del passaggio. Egli offerse allora il braccio alla sua compagna, che lo ringraz iò e vi pose appena la mano. Silla sentì sul cuore quel tocco leggero. Fendette la gente, facendo strada a Edith, guardando alla sfuggita la piccola mano che gli pendeva inerte sul braccio. Strinse, per istinto, il braccio e, senza saper bene quello che si dicesse, sentendo confusamente di fare un discorso avventato: "Scusi" cominciò "donna Marina Le ha mai parlato di me?" Edith non s'aspettava una domanda simile. Non ritirò più la mano e rispose semplicemente: "Sì." Certo ella stava preparando qualche spiegazione cauta per una seconda domanda, inevitabile; ma la seconda domanda non venne. "Che sera soave!" disse Silla. "Si rinasce. Si sente l'aprile nel cuore. Lei non voleva dirmi tutto quel che ha scritto quel signor curato: e io ho avuto tanto piacere di udirlo da Suo padre!" Il braccio di Edith si mosse un poco, ma non si ritrasse. "Ella non sa, quando si ha una mano ferita, come si eviti ogni stretta, anche d'un'altra mano amica, e quale consolazione sia sentirsela afferrare un giorno e non provare più dolore!" "Vuol dire" rispose Edith "ch'era una scalfittura e che questa persona teme molto il male. Se son poi ferite dell'anima, allora per me sarebbe un grande avvilimento non sentirle più, guarire come si guarisce da una febbre, come queste piante guariscono dall'inverno. Non le pare? Quanta gente! E papà che non viene?" Ella si sciolse pian piano da Silla e si fermò; Steinegge non compariva. "Perdoni, signorina Edith" disse Silla con voce leggermente tremante. "Ella mi giudica male. Ad esser giudicato male ci sono avvezzo sin da quando è morta mia madre. La colpa n'è in gran parte mia, del mio carattere; però è una cosa amara! Con un po' di orgoglio e di fede in altri giudici o qua o via di qua, si resiste; ma qualche volta anche l'orgoglio e la fede cascano in fondo al cuore; il cuore stesso pare che si sprofondi. Mi lasci dire una parola, signorina Edith. Io non trovo negli uomini che indiffe renza e nella fortuna che derisione. Vado tuttavia avanti a fronte alta, finora; ma, creda, è crudele di ferire uno cui tutti voltan le spalle. La prego di darmi il Suo braccio e di ascoltarmi un momento." "Non credo d'averla offesa" disse Edith, appoggiando ancora la mano al braccio di lui "son cose umane." Egli prese risolutamente con la sinistra quella mano restìa, allargò il braccio, la trasse avanti e parlò tra la folla indifferente, a voce bassa, con maggior effusione di cuore, con maggior franchezza di spirito che se si fosse trovato solo con Edith in un deserto: "Cose umane? Sì, certo, ma non la cosa che Lei crede. Non sono guarito come una pianta, a forza di sole e d'aria, dimenticando; ho voluto guarire, con indomita volontà; mi sono strappato dal cuore una febbre maligna che mi avviliva. Perché io non la stimo e non l'ho stimata mai." "No?" disse Edith con vivacità involontaria. "No, mai. Mi creda, Lei che ha l'anima tanto alta. Ho bisogno che qualcheduno come Lei mi creda e abbia un poco d'amicizia per me. Non ne parlo mai a nessuno, sa, ma mi succede spesso, solo come sono, senz'amicizie, senz'amore, senza genio, senza riputazione, senza speranze, mi succede di sentirmi morire nell'altezza in cui mi sforzo di tenere il mio spirito, studiando, lavorando, pensando a Dio. Sento allora tante voci sinistre, sempre più forti, sempre più forti, chiamarmi giù abbasso, in qualche fango ch e spenga il pensiero. Scusi, signorina Edith, Le dà noia che io parli tanto di me?" "Oh no" diss'ella piano. "Non avrei creduto quello che dice." "Lo so; il mio cuore è ben chiuso di solito. Questa sera parlo perché mi pare di essere in sogno." "Ella sogna" disse Edith "di parlare ad una persona morta da lungo tempo, cui si può confidarsi." "No, faccio un sogno da notte di primavera, come ne potranno fare questi vecchi platani pieni di speranze, quando si alzerà la luna e la gente andrà via. Sogno di mettere anch'io una volta foglie e fiori, di parlar sottovoce, dopo tanto silenzio, con la primavera blanda, di raccontarle tutte le tristezze dell'autunno e dell'inverno, come se fossero passati de' secoli. Dunque senta. Io non la stimavo. Premetto questo: nelle mie ore di sconforto ho sempre avuto lo stolido istinto di qualche fatalità oscura ch e mi domini. Ora Suo padre non ha potuto raccontarle tutto perché non sa tutto. Io mi confido alla primavera blanda. Qualche tempo fa ho publicato un libro anonimo, intitolato Un sogno." "Si potrà leggere?" chiese Edith. "Lo leggerà. Poco tempo prima ch'io partissi pel Palazzo, capitò, alla tipografia ond'era uscito il libro, una lettera diretta all'autore di Un sogno e sottoscritta Cecilia. Era una lettera sfavillante di spirito sarcastico, intarsiata di motti francesi, profumata, in cui si parlava molto di fatalità e di destino. Il tono di questa signora Cecilia non mi era pienamente simpatico, ma pure la lettera aveva un certo fascino d'ingegno e di stranezza: e poi sorrida pura, blandiva il mio amor proprio che ha ben d i rado assaporato la lode pubblica, e trovava una dolcezza molto più delicata nelle parole direttemi segretamente da una lettrice sconosciuta. Vede se Le confido anche le mie miserie. Insomma risposi. La replica di Cecilia mi capitò la vigilia della mia partenza per il Palazzo. Era piena di frizzi e di domande curiose, impertinenti. Decisi di rompere: le scrissi un'ultima lettera che cominciai a Palazzo e spedii qui nei due giorni in cui venni a prender i miei libri. Lei sa da Suo padre per qual cagione e i n qual modo partii dal Palazzo. Quel giorno stesso avevo scoperto per caso, indovini!... che Cecilia era donna Marina. Nella notte parto, trovo lei nella sua lancia. Avemmo un colloquio violento. Sopravvenne un temporale: dovetti ricondurla a casa. Non Le dirò come né perché, ma fui tentato fieramente di non partire più. Mi strappai da lei gittandole il suo finto nome, Cecilia. Fuggii pieno di sgomento, pieno della stolta idea che mi perseguita, d'esser giuoco di una potenza nemica che mi mostra ogni tanto la felicità vicina, me la offre, me la porta via quando sto per afferrarla. Ci volle tutto il mio orgoglio... Lei mi crede modesto, signorina Edith?... No, non lo sono, tranne qualche volta, nelle ore di scoramento; allora mi sento abbietto addirittura. Ci volle dunque tutto il mio orgoglio spiritualista per giungere a calcarmi ai piedi queste paure vigliacche; ci volle, per liberarmi da sentimenti non degni, un lavorar feroce, sia tuffandomi ne' libri antichi come in acque fredde, sia scrivendo di cose ide ali in cui il mio pensiero si esalta e si riposa. E così ho vinto. Solo questa sera potei comprendere quanto pienamente ho vinto. E Lei..." "Oh" disse allora Edith fermandosi "dove siamo?" Erano soli sul viale. Avevano oltrepassato senza avvedersene il punto dove le carrozze e la gente giravano indietro. Edith arrossì della sua distrazione e si voltò in fretta, lasciando il braccio di Silla. Poi temé forse di averlo offeso con quell'atto brusco. "Non potevo sapere queste cose" diss'ella. "Non ho compreso tutto quello che ha raccontato, ma lo credo. Se sapesse quale concetto ha di Lei mio padre! Non sono italiana" soggiunse con forza "non so se è vero ch'Ella non ha riputazione; ma non è certo vero" continuò abbassando la voce "che Ella non ha amicizie." Fosse per la tenera poesia d'aprile o per la emozione delle confidenze recenti, Silla era così disposto che le semplici parole di lei gli abbuiarono la vista. Le riprese il braccio. "Ah" disse "è vero, è vero ch'Ella mi crede anche se non mi comprende interamente, è vero che ha fede in me? Ebbene, la riputazione, la fama più splendida, io la darei cento, mille volte se l'avessi, non per un'amicizia, non basta..." Il braccio di Edith tremò nel suo. Egli proseguì con voce incerta, diversa dalla sua solita, camminando come se le gambe non sapesser tenere la via diritta né la misura del passo: "Per un'anima. Per un'anima che accettasse, che volesse da me, per sé sola, le creazioni del mio ingegno e del mio cuore; per un'anima chiusa a tutti fuor che a me, com'io sarei chiuso in lei. Dovrebbe essere appassionata e pura come il puro cielo. Noi ameremmo insieme, uno attraverso l'altro, Dio e il creato con un amore di potenza sovrumana. Pare a me che saremmo forti nella nostra unione, come tutta questa gente non sospetta neppure che si possa esserlo, più forti del tempo, della sventura e della morte; pare a me che intenderemmo l'essere delle cose, il loro spirito; che ci attraverserebbero la mente visioni del nostro avvenire, splendori incredibili di visioni. La troverò quest'anima?" "Sarebbe un'anima egoista" disse Edith, "se volesse tutte per sé sola le opere del Suo ingegno e del Suo cuore. La gloria, lo sento, deve avere in sé qualche cosa di vuoto, persino, di triste forse, per uno spirito come il Suo; ma aver la potenza di far amare, di far piangere, di muovere le anime al bene e non usarla! Avere della luce nel pensiero e nasconderla, non inviarla dritta a traverso questa gran confusione torbida del mondo!" "Questo non è per me, signorina Edith. Il poco che ho scritto è affondato in silenzio, partecipando della mia sfortuna. Forse qualcuno, un giorno, frugando, per farsi del merito, tra le cose dimenticate..." Ecco Steinegge, rosso, trafelato. "Finalmente!" diss'egli. "Io credeva che eravate saliti sopra qualche albero. Io ho corso su e giù come un bracco." "Perdonami, caro papà" disse Edith soavemente, staccandosi da Silla e prendendo il braccio di suo padre, benché questi, sempre cerimonioso, protestasse. "Siamo esciti per un breve tratto dalla gente." Ella gli parlò carezzevole, in tedesco, stringendosi a lui quasi volesse compensarlo, provasse un rimorso. Il povero Steinegge, imparadisato, si scusava di non averli raggiunti prima, come se la colpa fosse sua. Silla non parlava. Passeggiarono così un pezzo. La gente e le carrozze si venivano ormai diradando. I viali, i giardini, le case lontane s'intorbidavano di mistero. Le donne, camminando languidamente, guardavano i passeggeri con occhi fatti audaci dall'ombra. Si udiva parlare sotto i viali, da lontano; di là dai giardini, lungo le case tenebrose, i fanali, occhi ardenti della grande città pronta al piacere, si aprivano uno dopo l'altro. Sopra le case il cielo sereno, senza stelle, aveva ancora un tepido chiaror di perla che s i stendeva blando sul margine scoperto del bastione e sulla spianata bianca del caffè dei giardini, a cui Steinegge si avviava con propositi di munificenza. In faccia al cavalcavia era fermo un elegante calesse vuoto. Uno staffiere teneva aperto lo sportello, volgendo il capo a due signore che venivano dal caffè. Silla salutò. Una di quelle, nel passargli vicino, gli disse con una vocina piena di grazie: "Si ricordi. Dopo il Re." "Io mi congratulo molto, caro amico" disse Steinegge. "Oh, di che?" rispose Silla sdegnosamente. "È la signora De Bella. Un'antipatica bambola di Parigi. Non ci vado mai. Se sapeste come l'ho conosciuta! Lo scorso autunno un certo G... che studia filologia a Berlino, mi manda dei versi di un nostro antico poeta, Bonvesin de Riva, stampati colà. Contemporaneamente manda degli altri libri fors'anche delle fotografie, a questa signora che allora era a Varese. Per un equivoco della Posta, anche il mio libriccino fu portato a casa sua, qui a Milano. Ella fa una cor sa da Varese proprio quel giorno e m'incontra in via San Giuseppe con mia zia Pernetti che accompagnavo. Mia zia si ferma, e dopo molte chiacchiere ha la bontà di presentarmi. Questa signora fa un atto di sorpresa. "Ma io" dice "ho della roba Sua!" Io non capisco e non rispondo. "Lei" soggiunge "è ben l'autore di Un sogno?". Rimasi sbalordito. Allora ella mi parla, ridendo, del libriccino, e mi dice candidamente che G... ci aveva posto dentro un biglietto dove si leggeva: "Mandami una copia del tuo Sogno". Mi fece mille premure perché andassi a trovarla, e vi andai difatti un paio di volte in dicembre. Poi non ci tornai più. Oggi mi ha scritto che desiderava parlarmi e che ci vada domani sera dopo il teatro." Silla raccontò tutto questo con calore, come se volesse giustificarsi di quella relazione. Sedettero fuori del caffè. I fanali non v'erano ancora accesi e i tavoli quasi deserti. Uscivano invece dall'interno con la gran luce del gas, le voci vibrate dei garzoni, l'acciottolìo delle tazze e delle sottocoppe, il tintinnìo dei cucchiaini e delle monete buttate sui vassoi. Steinegge cominciò a parlare di quel tal C..., che aveva conosciuto in Oriente. S'erano trovati a Bukarest nel 1857 e, l'anno dopo, a Costantinopoli; quindi nel 1860 a Torino. Steinegge parlava assai volentieri del suo soggiorno ne i dominii del "sublime portinaio". Da C... passò a Stambul e al Bosforo. Tocca il cuore udir parlare nelle ombre del crepuscolo di paesi lontani, di costumi bizzarri, di strane lingue sconosciute. Silla guardava spesso Edith, ascoltava il narratore come chi ascolta una dolce musica leggendo e pensando, che le sue lettere e i pensieri si colorano di poesia, e neppure una nota gli resta nella memoria. Era la elegante forma bruna di Edith ch'egli vestiva di poesia, udendo parlare di cipressi, di fontane moresc he, di palazzi bianchi, di mare brillante. Ogni linea della bella persona gli appariva improntata di grazie nuove, gli pareva segno di un'idea attraente, impenetrabile. Non vedeva l'occhio, lo immaginava; ne sentiva sul cuore lo sguardo con la sua dolcezza. Immaginava pure i pensieri di lei; no, non i pensieri, ma piuttosto vagamente, la dignità e la tranquillità loro, la purezza altera. E sentiva in se stesso una luce serena, un calore così lontano, gli pareva, dall'indifferenza come dalla passione, un sor gere di non so quale indefinibile fede. Provava la sensazione di salire, alla lettera; e un singolare esaltamento della potenza visiva per cui le grandi ombre degli alberi del bastione, i profili taglienti delle macchie brune intorno a lui, gli oggetti vicini, tutto gli riesciva straordinariamente netto e vivo; nuovo, perciò, interessante come al tempo della sua fanciullezza. Steinegge intanto parlava. Descrisse un episodio comico della sua traversata da Costantinopoli a Messina. A quel punto il gas del fanale vicino, tocco dal lume dell'accenditore, divampò sonoro, arse in viso a Edith. Ella era pallidissima, grave, e non guardava suo padre. Si scosse allora e si pose ad ascoltarlo con attenzione troppo subitanea ed intensa per essere sincera. Silla se ne avvide, n'ebbe un lampo di piacere nel petto. Quando più tardi riaccompagnò a casa il padre e la figlia, pochissime parole furono scambiate fra loro. Nel separarsi, Silla stese la mano a Edith, che esitò ad accordargli la sua e la ritrasse tosto. Egli udì appena i saluti chiassosi di Steinegge: se n'andò via dolente e insieme avido di esser solo. Si allontanò a capo chino e a lenti passi, immaginando fortemente il viso pallido e gli occhi di lei quando il divampare del gas la sorprese; ripensando ad una ad una le parole scambiate, le proprie confidenze , la protesta d'amicizia, così singolare sulle caute labbra di Edith, la sua evidente trepidazione, nello staccarsi dal padre, dimenticato poi mentr'egli, Silla, le dava il braccio e le parlava. Non ne traeva nessuna espressa conclusione; si guardava il braccio là dove s'era posata la mano di Edith, odorava queste memorie come un profumo. E pareva che a poco a poco se ne inebriasse. Dalla via poco frequentata dove abitavano gli Steinegge, moveva inconscio verso il cuore della città. La gente cominciava a sp esseggiare, crescevano gli splendori dei negozi, lo strepito delle carrozze. Alzò la testa e affrettò il passo. Gli saliva dentro una foga d'orgoglio non del tutto insolita in lui che in tali condizioni di spirito cercava, godeva la folla per la voluttà acuta di sentirsele ignoto e di disprezzarla, di dominarla col pensiero. Trovatosi a un tratto sul corso Vittorio, si gettò nel fiume della gente. Egli aveva detto a Edith: "Un'anima! Un'anima sola che accetti le creazioni del mio ingegno!". Ma questo era il grido delle sue tristezze scorate, quando si sentiva debole a fronte del mondo indifferente e di un sinistro demonio confitto nel suo fianco. Grido dell'ora nera, vôta di fede e di speranza. Non sarebbe stato sincero quando l'ingegno gli ardeva di vigore audace e il demonio sinistro taceva; che allora l'uomo, ebbro di felicità fiera, disprezzava le dimenticanze del pubblico, le ingiustizie amare d ella critica, la insolenza dei fortunati, il maligno volto della stessa beffarda fortuna; scriveva, non per ambizione, né per diletto, né pel sublime amore dell'Arte ch'è la musa dei grandi ingegni, ma per la coscienza di un dovere ideale verso Dio, per obbedire alla vasta mano prepotente che gli si piantava tra le spalle, lo curvava, lo schiacciava sul suo tavolo di lavoro, spremendogli dal cuore il sangue vitale che ora ingiallisce ne' suoi libri dimenticati. Tra queste rade ore splendide gli correvano lu nghi intervalli bui. La vasta mano si alzava dalle sue spalle, ogni luce di pensiero si spegneva in una tenebra pesante d'inerzia; tutte le passate delusioni lo rimordevano al cuore, tutte le vecchie ferite sanguinavano; egli numerava con acre piacere doloroso le fallite speranze della prima giovinezza, le contrarietà strane, incredibili che aveva provate, sempre e dovunque, sul suo cammino, le funeste contraddizioni insite nella sua stessa natura; poco a poco non lavorava, non pregava più, non sentiva più Dio. Allora il suo paziente nemico mortale, il demonio confitto nel suo fianco, sorgeva e gli strideva nel sangue. Era il demonio della voluttà tetra. L'adolescenza e la prima giovinezza di Silla erano state pure. La santa protezione di sua madre, le tendenze artistiche e la squisita nobiltà del suo spirito, la fatica degli studi, l'ambizione letteraria, lo avevano preservato dalle corruzioni grossolane che avvelenano quell'età. Aveva allora il sangue tranquillo, la mente illuminata di bellezze femminili ideali, sovrumane per l'intelligenza ancor più che per la perfezione delle forme. Di tempo in tempo si credeva innamo rato. I suoi amori cercavano sempre lo sconosciuto e l'impossibile. Uno sguardo, un sorriso, una voce di qualche dama di cui non sapeva il nome, gli si figgevano in cuore per mesi. Allora il solo pensiero degli amori vili gli metteva orrore; tutto il fuoco della sua giovinezza bruciava nel cuore e nel cervello. Dopo le prime disillusioni letterarie, nell'abbattimento che ne seguì, quel fuoco divorante gli scese intero ai sensi. Egli vi ripugnò lungamente e quindi si gittò abbasso. Non cercò facili amori, gl i era impossibile piegar l'anima alla ipocrisia di parole menzognere: volle il tetro piacere muto che si offre nelle ombre cittadine. Ne uscì tosto stupefatto, palpitante, in ira a se stesso; ritrovò il calore perduto dell'ingegno e dell'affetto, ritrovò i suoi amori ideali, riprese la penna, afferrò il concetto del dovere verso Dio come una fune di salvamento. Ricadde quindi e si rialzò più volte, lottando sempre, soffrendo nella sconfitta incredibili prostrazioni di spirito, col presentimento angoscioso d i un'ultima caduta irrimediabile, di un abisso che lo avrebbe finalmente inghiottito per sempre. Perché in lui l'antagonismo dello spirito e dei sensi era così violento che il prevalere di una parte opprimeva l'altra. Non aveva mai conosciuto il giusto equilibrio dell'amore umano né potuto trovar durevole corrispondenza di quell'affetto sublime e puro ch'egli invocava con angoscia quando Iddio si ritraeva da lui. Gli era toccata due volte la rara e inestimabile ventura di essere amato come voleva egli, col fuoco dell'anima. Uno di questi amori fu troncato subito da necessità fatali e ineluttabili; l'altro scomparve misteriosamente, lasciando Silla pieno di terrore, come se avesse veduta l'ombra e udito il sarcasmo del destino. La passione di sensi e di fantasia ispiratagli da Marina lo attraversò quale una vampa di polvere. Tornato a Milano spense a forza il bruciante ricordo di lei in ostinati studi di greco e di filosofia religiosa alternati con un lavoro fantastico e uno studio morale. Non fu mai colto in quell'inverno dal cupo silenzio interiore che soleva precedere in lui le tempeste furiose dei sensi. Una così lunga tranquillità gli ritemprò lo spirito, gli rese quasi la freschezza dell'adolescenza; e ora, con lo sguardo e la dolce voce di Edith nel petto, egli si sentiva casto e potente, guardava in faccia all'avvenire aperto, vôto di fantasmi paurosi. Andava fra la gente colla voluttà del nuotatore gagliardo che fende da padrone la spuma e il fragore delle onde. Sentiva la stolta fede che sarebbe giunto un giorno a signoreggiar con l'ingegno quella folla così avida negli occhi di bellezza fisica, di piacere, ferma e densa intorno al fulgore dei gioielli, ferma e densa intorno alla ridente luce di certe altre vetrine, paradisi della gola; palpitante nel sinistro fascino dell'oro, abbrutita nelle cupidigie del ventre. Qual sogno opporsi a lei, sfidarne la viltà e la superbia, frustrarla in viso come una fiera, gittarla indietro sgomenta e doma, con la potenza di una divina ispirazione interiore e della paro la, amando ed essendo amato senza fine da una donna come Edith, sicuro, in questa fiamma, dal fango ignobile! Passava, così fantasticando, lungo il Duomo. La tacita mole enorme, assediata dai fanali a gas, pigmee scolte del secolo nemico, ne portava sul fianco il picciol lume che moriva a breve altezza nell'ombra; e l'ombra sfumava più in su in un fioco albor puro, dove salivano guglie, pinnacoli, trine marmoree color di neve lontana, prima dell'aurora. Quella visione di marmi e di luna, inutili, adorabili magnificenze dell'ideale, ruppe a Silla le fantasie, forse non vôte di ambizione e di rancori contro gli uomin i, gli refrigerò il cuore, vi mise un gran desiderio di silenzio. Egli si avviò verso casa sua. Abitava lontano, presso Sant'Ambrogio. Quando entrò nella chiara piazza deserta gli si affacciò, alta sopra le case di via S. Vittore, la luna. Silla trasalì e si levò il cappello involontariamente. Aveva ella presieduto alla sua nascita la fredda e solenne signora che veniva a guardarlo tristamente in faccia nei momenti gravi della vita, adesso come un'altra sera, quand'ella usciva tra i nuvoloni sull'Alpe di Fi ori e gittava nelle acque nere del lago una spezzata lama d'argento? Silla rise di se stesso e si disse che era un saluto di congedo alla vecchia amante. Egli vegliò a lungo nella sua cameretta al quarto piano, che guardava in un cortile quadrato, stretto e profondo. Tenne la finestra aperta. Fuori della finestra sul ballatoio c'eran de' vasi fioriti di violacciocche, che mandavano odore nella stanza. Dal suo tavolo Silla vedeva sopra la opposta muraglia bianca, tra gli abbaini e i fumaioli del tetto, una lista di cielo e qualche stella pallida nella luce lunare. Egli trasse il manoscritto di un racconto incominciato durante l'inverno con questo titolo Nemes i, ne rilesse alcune pagine e non gli piacquero. Depose il manoscritto, pensò a Edith. "Buona sera" disse una voce dalla finestra. Era uno studente dell'Istituto Superiore che alloggiava in fondo al ballatoio. Silla lo salutò. "Vengo di là, sa" soggiunse l'altro che si compiaceva di raccontargli i suoi amori. "Mi ha congedato subito e non vuole che ci torni prima di posdomani, perché dice di essere andata oggi a confessarsi. Ma che fatica ha fatto! Che fatica!" Il giovane pareva ubbriaco di questo pensiero. Parlava ridendo, ansando. "Sa, sono sentimentale per forza questa sera. Farò un po' di musica. Farò uscire dalla finestra quella bionda, quella ch'è venuta l'altro ieri. Come? non la conosce? Al terzo piano, prima finestra a dritta. Dove c'è lume. Una francese. Buona sera." Se ne andò cantando a mezza voce sopra un motivo dei Lombardi certa strofetta composta per il prof. B... Per ridurre all'orizzonte La pendenza del terreno Si moltiplica il coseno Per la stessa inclinazion. Entrato nella sua camera, lasciò l'uscio spalancato e tempestò sul piano un walzer diabolico, da far ballare i morti. Silla, infastidito dal dialogo e dalla musica, si alzò per chiudere la finestra. Ma era così soave l'odore dei fiori, gli piaceva tanto quella muraglia tutta bianca di luna, quel cielo puro! Guardò abbasso. La signorina francese era uscita sul ballatoio del terzo piano e si appoggiava alla ringhiera, fumando. Due cameriere ballavano da un'altra parte e rispondevano a interlocutori invisibili ; un capitano in pensione stava alla finestra, in berretto da notte, con la sua giovine governante. Silla chiuse la finestra. La santa notte di primavera gli pareva ammorbata e guasta. Chiuse vetri e imposte con impeto, tornò al suo tavolo, e dopo aver pensato a lungo con il capo tra le mani, afferrò un foglio di carta, scrisse precipitosamente: "È amore? Quale amore? Sono ancora tranquillo abbastanza, voglio riflettere, studiarmi finché mi è possibile. Io sento, pensando a lei, di desiderare qualche cosa di ignoto a me stesso, d'inconcepibile dal pensiero umano. Il mio desiderio è tanto puro che lo scrivere - è puro - mi costa uno sforzo, mi ripugna. Ma tuttavia vi è veramente una commozione fisica in me, specialmente nel petto. Vi è un reale movimento nel sangue o nei nervi, che corrisponde alla esaltazione del mio spirito. Sono incapace, in ques to punto, di ragionamento freddo, ma sento invincibilmente che se quello che io provo è amore, esso non è solamente spirituale. Lo penso, lo credo, sono barlumi di una vita futura più nobile che si destano in me, presentimenti d'uno squisito amore fisico, non concepibile in questa tenebra. Solo questo io so, che dev'essere immensamente più degno dello spirito, benché forse capace ancora di altre sublimi trasformazioni. Tento immaginare la unione intera, il mio sguardo nel suo, il cuore nel cuore, un fuoco d i pensieri commisti, un palpito che ad ogni momento ci divida e ci unisca. Sento altresì che queste idee esaltano la mia intelligenza e abbattono il corpo, ne troncano i desideri più vili. "Signore degli spiriti, tu me li doni questi divini fantasmi, ombre del futuro, questi ardori che mi levano dal fango verso te. Non abbandonarmi, fa ch'io sia amato. Tu lo sai, non è solo dolcezza che io cerco nell'amore; è lo sdegno d'ogni viltà, è la forza di combattere per il bene e per il vero malgrado l'indifferenza degli uomini, l'occulto nemico esterno, i tuoi silenzi paurosi. Padre, rispondi al grido dell'anima mia, fa ch'io sia amato! Vedi, tra queste sublimi speranze mi assalta l'angoscia che siano una derisione ancora e mi stringo ad esse e sospiro." "Ah no!" Gettò la penna, spiegazzò fra le dita lo scritto e lo arse alla candela. Prese poscia un libriccino di note. Rilesse queste parole tracciatevi anni prima: "È finito. Creare ancora, creare fantasmi di quanto ho desiderato invano, lasciare un ricordo, un'eco dell'anima mia profonda e partire attraverso gli abissi per qualche stella lontana da cui questa terra dura non si veda nemmeno! Dio, gli uomini, la giovinezza, la fede, l'amore, tutto mi abbandona." Vi scrisse sotto: "29 aprile 1865." "Spero."

Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 2 occorrenze

Aveva un gran bisogno di abbandonarsi ad essi ed essi lo ripresero subito, gli cacciaron di mente le Carabelli, il Pasotti, la nonna, il bestione del Ricevitore. Essi? No, era un pensiero solo, un pensiero fatto di amore e di ragione, di ansia e di gioia, di tanti dolci ricordi e insieme di trepida aspettazione, perché qualche cosa di solenne si avvicinava e sarebbe giunto nelle ombre della notte. Franco guardò l'orologio. Erano le quattro meno un quarto. Ancora sette ore. Si alzò, si buttò a braccia conserte sul davanzale della finestra. Ancora sette ore e comincerebbe per lui un'altra vita. Fuori delle pochissime persone che dovevano prender parte all'avvenimento, nemmanco l'aria sapeva che quella sera stessa, verso le undici, don Franco Maironi avrebbe sposato la signorina Luisa Rigey. La signora Teresa Rigey, madre di Luisa, aveva un tempo lealmente pregato Franco di piegare al volere della nonna, di astenersi dal visitar la sua casa, di non pensare più a Luisa, la quale, dal canto suo, era stata contenta che per la dignità della famiglia, per il decoro di sua madre, si troncassero le relazioni ufficiali, ma non dubitava della fede di Franco né d'essergli già legata per sempre. Egli studiava ora leggi, privatamente, all'insaputa della nonna, per dedicarsi a una professione e aver modo di bastare a sé. Ma la signora Teresa contrasse da tante agitazioni una malattia di cuore che nel 1851, in fine d'agosto, si aggravò subitamente. Franco le scrisse chiedendole almeno il permesso di vederla poiché non poteva compiere "il suo dovere d'assisterla". La signora non credette di consentire e il giovine se ne disperò, le fece intendere che considerava Luisa come sua fidanzata davanti a Dio e che sarebbe morto prima di abbandonarla. Allora la povera donna, sentendosi mancar la vita ogni giorno, accorandosi di veder la sua cara figliuola in uno stato così incerto e considerando la ferma volontà del giovine, concepì il desiderio intenso che le nozze, poiché dovevan seguire, seguissero al più presto. Tutto fu combinato frettolosamente con l'aiuto del curato di Castello e del fratello della signora Rigey, l'ingegnere Ribera di Oria, addetto all'Imperiale R. Ufficio delle Pubbliche Costruzioni in Como. Le intelligenze furono queste. Le nozze si farebbero segretamente; Franco resterebbe presso la nonna e Luisa presso la madre, sino a che venisse il momento opportuno di confessar tutto alla marchesa. Franco sperava nell'appoggio di monsignor Benaglia, vescovo di Lodi, vecchio amico della famiglia, ma occorreva il fatto compiuto. Se il cuore della marchesa si indurisse, com'era probabile, gli sposi e la signora Teresa prenderebbero stanza nella casa che l'ingegnere Ribera possedeva in Oria. Il Ribera, celibe, manteneva ora del proprio la famiglia di sua sorella; terrebbe poi anche Franco in luogo di figliuolo. Fra sette ore, dunque. La finestra guardava sulla lista di giardino che fronteggiava la villa verso il lago, e sulla riva di approdo. Nei primi tempi del suo amore Franco stava lì a spiar il venire e l'approdare d'una certa barca, l'uscirne d'una personcina snella, leggere come l'aria, che mai mai non guardava su alla finestra. Ma poi un giorno egli era discesi ad incontrarla ed ella aveva aspettato un momento ad uscire per accettare l'aiuto, ben inutile, della sua mano. Lì sotto, nel giardino, egli le aveva dato per la prima volta un fiore, un profumato fiore di mandevilia suaveolens . Lì sotto si era un'altra volta ferito con un temperino, abbastanza seriamente, tagliando per lei un ramoscello di rosaio, ed ella gli aveva dato col suo turbamento un delizioso segno del suo amore. Quante gite con lei e altri amici, prima che la nonna sapesse, alle rive solitarie del monte Bisgnago là in faccia, quante colazioni e merende a quella cantina del Doi! Con quanta dolcezza viva nel cuore di sguardi incontrati Franco tornava a casa e si chiudeva nella sua stanza a richiamarseli, a esaltarsene nella memoria! Queste prime emozioni dell'amore gli ritornavano adesso in mente, non ad una ad una ma tutte insieme, dalle acque e dalle rive tristi dove gli occhi suoi fisi parevano smarrirsi piuttosto nelle ombre del passato che nelle nebbie del presente. Vicino alla mèta, egli pensava i primi passi della lunga via, le vicende inattese, l'aspetto della sospirata unione così diverso nel vero da quel ch'era apparso nei sogni, al tempo della mandevilia e delle rose, delle gite sul lago e sui monti. Non sospettava certo, allora, di dovervi arrivare così, di nascosto, fra tante difficoltà, fra tante angustie. Pure, pensava adesso, se il matrimonio si fosse fatto pubblicamente, pacificamente, col solito proemio di cerimonie ufficiali, di contratti, di congratulazioni, di visite, di pranzi, tanto tedio sarebbe riuscito più ripugnante all'amore che questi contrasti. Lo scosse la voce del prefetto che lo chiamava dal giardino per annunciargli la partenza delle Carabelli. Franco pensò che se scendeva avrebbe dovuto fare delle scuse e preferì non lasciarsi vedere. "Doveva romperglielo sulla faccia il piatto!", gli stridette su il prefetto tra le mani accostate alle guance. "Doveva romperglielo sulla faccia!" Poi se n'andò e Franco vide il barcaiuolo delle Carabelli scendere ad apparecchiar la barca. Lasciò allora la finestra e seguendo i pensieri di prima, aperse il cassettone, stette lì a contemplare, come distratto, uno sparato di camicia ricamata, dove lucevano già certi bottoncini di brillanti che suo padre aveva portati alle nozze proprie. Gli dispiaceva andar all'altare senza un segno di festa, ma questo segno, si capisce bene, non doveva essere facilmente visibile. Nel cassettone profumato d'ireos tutto era disposto con la particolare eleganza dell'ordine fatto da uno spirito intelligente, e nessuno vi metteva le mani tranne lui. Invece le sedie, lo scrittoio, il piano erano tanto disordinatamente ingombri che pareva esser passato per le due finestre della camera un uragano di libri e di carte. Certi volumi di giurisprudenza dormivano sotto un dito di polvere, e non una foglia della piccola gardenia in vaso, sul davanzale della finestra di levante, ne aveva un atomo solo. Questi eran già sufficienti indizi, là dentro, del bizzarro governo d'un poeta. Un'occhiata ai libri e alle carte ne avrebbe fornite le prove. Franco aveva la passione della poesia ed era poeta vero nelle squisite delicatezze del cuore; come scrittore di versi non poteva dirsi che un buon dilettante senza originalità. I suoi modelli prediletti erano il Foscolo e il Giusti; li adorava veramente e li saccheggiava entrambi, perché l'ingegno suo, entusiasta e satirico a un tempo, non era capace di crearsi una forma propria, aveva bisogno d'imitare. Conviene anche dire, per giustizia, che a quel tempo i giovani possedevano comunemente una cultura classica fattasi rara di poi; e che dagli stessi classici venivano educati a onorare l'imitazione come una pratica virtuosa e lodevole. Frugando fra le sue carte per cercarvi non so cosa, gli vennero alle mani i seguenti versi dedicati a un tale di sua conoscenza e nostra conoscenza, che rilesse con piacere e ch'io riferisco per saggio del suo stile satirico: Falso occhio mobile, Mento pelato, Lingua di vipera, Cor di castrato, Brache policrome, Bisunto saio, Maiuscolissimo Cappello a staio. Ecco l'immagine Del vil Tartufo Che l'uman genere E il cielo ha stufo. Il Giusti e la passione d'imitarlo erano quasi soli in colpa di tanta bile, perché davvero Franco non ne aveva nel fegato una così gran dose. Aveva collere pronte, impetuose, fugaci; non sapeva odiare e nemmanco risentirsi a lungo contro alcuno. Un saggio dell'altra sua maniera poetica stava sul leggìo del piano, in un foglietto tutto sgorbi e cancellature: A Luisa Ove l'aëreo tuo pensile nido Una balza ventosa incoronando Ride alla luna ed ai cadenti clivi Ch'educan uve a la tua mensa e rose Al capo tuo, purpurëi ciclami A me, sogni e fragranze, o mia Luisa, Da l'orror di quest'ombre ti figura L'amoroso mio cor. Tacita siedi E da l'alto balcon già non rimiri Le bianche plaghe d'occidente, i chiari Monti ed il lago vitrëo, sereno, Riscintillante a l'astro; ma quest'una Tenebra esplori, l'aura interrogando Vocal che va tra i mobili oleandri De la terrazza e freme il nome mio. Forse piaceva a Franco d'improvvisar sul piano con questi suoi versi davanti agli occhi. Appassionato per la musica più ancora che per la poesia, se l'era comperato lui, quel piano, per centocinquanta svanziche, dall'organista di Loggio, perché il mediocre piano viennese della nonna, intabarrato e rispettato come un gottoso di famiglia, non gli poteva servire. Lo strumento dell'organista, corso e pesto da due generazioni di zampe incallite sulla marra, non mandava più che una comica vocina nasale sopra un tintinnio sottile come d'infiniti bicchierini minuti e fitti. Ciò era quasi indifferente, per Franco; egli aveva appena posato le mani sullo strumento che la sua immaginazione si accendeva, l'estro del compositore passava in lui e nel calore della passione creatrice gli bastava un fil di suono per veder l'idea musicale e inebbriarsene. Un Erard gli avrebbe dato soggezione, gli avrebbe lasciato minor campo alla fantasia, gli sarebbe stato men caro, insomma, della sua spinetta. Franco aveva troppe diverse attitudini e inclinazioni, troppa foga, troppo poca vanità e forse anche troppo poca energia di volere per sobbarcarsi a quel noioso metodico lavoro manuale che si richiede a diventar pianisti. Però il Viscontini era entusiasta del suo modo di suonare; Luisa, la sua fidanzata, non divideva interamente il gusto classico di lui ma ne ammirava, senza fanatismi, il tocco; quando, pregato, egli faceva mugghiare e gemere classicamente l'organo di Cressogno, il buon popolo, intontito dalla musica e dall'onore, lo guardava come avrebbe guardato un predicatore incomprensibile, con la bocca aperta e gli occhi riverenti. Malgrado tutto questo, Franco non avrebbe potuto cimentarsi, nei salotti cittadini, con tanti piccoli dilettanti incapaci d'intendere e di amare la musica. Tutti o quasi tutti lo avrebbero vinto di agilità e di precisione, avrebbero ottenuto maggiori applausi, quand'anche non fosse riescito ad alcuno di far cantare il piano, come lo faceva cantar lui, sopra tutto negli adagi di Bellini e di Beethoven, suonando con l'anima nella gola, negli occhi, nei muscoli del viso, nei nervi delle mani che facevan tutt'uno con le corde del piano. Un'altra passione di Franco erano i quadri antichi. Le pareti della sua camera ne avevano parecchi, la più parte croste. Scarso di esperienza perché non aveva viaggiato, pronto a pigliar fuoco nella fantasia, costretto ad accordar i desideri molti con i quattrini pochi, credeva facilmente le asserite fortune di altri cercatori tapini, n'era spesso infocato, accecato e precipitato su certi cenci sporchi, che, se costavano poco, valevano meno. Non possedeva di passabile che una testa d'uomo della maniera del Morone e una Madonna col Bambino della maniera del Dolci. Egli battezzava, del resto, i due quadretti per Morone e Dolci, senz'altro. Com'ebbe rilette e rigustate le strofe ispirategli dal Tartufo Pasotti, tornò a frugare nel caos dello scrittoio e ne cavò un foglietto di carta Bath per scrivere a monsignor Benaglia, la sola persona che gli potesse giovare in avvenire presso la nonna. Gli parve doverlo mettere a parte dell'atto che stava per compiere, delle ragioni che avevano consigliato la sua fidanzata e lui di addivenirvi in questo modo penoso, della speranza che avevano d'essere aiutati da lui quando venisse il momento d'aprir tutto alla nonna. Stava ancora pensando con la penna in mano, davanti alla carta bianca, quando la barca delle Carabelli passò sotto la sua finestra. Poco dopo udì partire la gondola del marchese e la barca del Pin. Suppose che la nonna, rimasta sola, lo facesse chiamare, ma non ne fu nulla. Passato un po' di tempo in quest'aspettazione, si rimise a pensare alla sua lettera e ci pensò tanto, rifece l'esordio tante volte e procedette anche poi tanto adagio, con tanti pentimenti, che la lettera non era ancora finita quando gli convenne accendere il lume. La chiusa gli riuscì più facile. Egli vi raccomandava la sua Luisa e sé alle preghiere del vecchio vescovo e vi esprimeva una fiducia in Dio così candida e piena che avrebbe toccato il cuore più incredulo. Focoso e impetuoso com'era, Franco aveva tuttavia la semplice tranquilla fede d'un bambino. Punto orgoglioso, alieno dalle meditazioni filosofiche, ignorava la sete di libertà intellettuale che tormenta i giovani quando la loro ragione ed i loro sensi cominciano a trovarsi a disagio nel duro freno di una credenza positiva. Non aveva dubitato un istante della sua religione, ne eseguiva scrupolosamente le pratiche senza domandarsi mai se fosse ragionevole di credere e di operare così. Non teneva però affatto del mistico né dell'asceta. Spirito caldo e poetico, ma nello stesso tempo chiaro ed esatto, appassionato per la natura e per l'arte, preso da tutti gli aspetti piacevoli della vita, rifuggiva naturalmente dal misticismo. Non s'era conquistata la fede e non aveva mai vôlti lungamente a lei tutti i suoi pensieri, non aveva potuto esserne penetrato in tutti i suoi sentimenti. La religione era per lui come la scienza per uno scolaro diligente che ha la scuola in cima de' suoi pensieri e vi è assiduo, non trova pace se non ha fatto i suoi compiti, se non si è preparato alle ripetizioni, ma poi quando ha compiuto il proprio dovere, non pensa più al professore né ai libri, non sente il bisogno di regolarsi ancora secondo fini scientifici o programmi scolastici. Perciò egli pareva spesso non seguire altro nella vita che il suo generoso cuore ardente, le sue inclinazioni appassionate, le impressioni vivaci, gli impeti della sua natura leale, ferita da ogni viltà, da ogni menzogna, intollerante d'ogni contraddizione e incapace di infingersi. Aveva appena suggellata la lettera quando si bussò all'uscio. La signora marchesa faceva dire a don Franco di scendere per il rosario. In casa Maironi si recitava il rosario tutte le sere fra le sette e le otto, e i servi avevan l'obbligo di assistervi. Lo intuonava la marchesa, troneggiando sul canapè, girando gli occhi sonnolenti sulle schiene e sulle gambe dei fedeli prosternati per diritto e per traverso, quale nella luce più opportuna ad un devoto atteggiamento e quale nell'ombra più propizia ad un sonnellino proibito. Franco entrò in sala mentre la voce nasale diceva le soavi parole "Ave Maria, gratia plena" con quella flemma, con quella untuosità, che sempre gli mettevano in corpo una tentazione indiavolata di farsi turco. Il giovane andò a cacciarsi in un angolo scuro e non aperse mai bocca. Gli era impossibile di rispondere con divozione a quella voce irritante. Non fece che immaginare un probabile interrogatorio imminente, e masticare risposte sdegnose. Finito il rosario, la marchesa aspettò un momento in silenzio e poi disse le sacramentali parole: "Carlotta, Friend!" Carlotta, la vecchia cameriera, aveva l'incarico di pigliare, finito il rosario, Friend in braccio e di portarlo a dormire. "È qui, signora marchesa", disse Carlotta. Ma Friend, se era lì, si trovò altrove quando colei, chinatasi, allungò le mani. Era di buon umore, quella sera, il vecchio Friend, e gli piacque di giuocare a non lasciarsi prendere, provocando Carlotta, sgusciandole sempre di mano, scappando sotto il piano o sotto il tavolino a guardar con un ironico scodinzolamento la povera donna che gli diceva "ven, cara, ven, cara", con la bocca e "brütt moster" con il cuore. "Friend!", fece la marchesa. "Andiamo! Friend! Da bravo!" Franco bolliva. Venutogli tra le gambe l'antipatico mostricino infetto dell'egoismo e della superbia della sua padrona, lo scosse da sé, lo fece ruzzolare tra le unghie di Carlotta che gli diede per proprio conto una rabbiosa stretta e se lo portò via rispondendo perfidamente ai suoi guaiti: "Cossa t'han faa, poer Friend, cossa t'han faa, di' sü!" La marchesa non disse parola né il suo viso marmoreo tradì il suo cuore. Diede al cameriere l'ordine di dire al prefetto della Caravina, se venisse, e anche a qualsiasi altro, che la padrona era andata a letto. Franco si mosse per uscire anche lui dietro ai servi, ma si trattenne subito onde non aver l'aria di fuggire. Prese sulla caminiera un numero della I. R. Gazzetta di Milano sedette presso sua nonna e si mise a leggere, aspettando. "Mi congratulo tanto", cominciò subito la voce sonnacchiosa, "della bella educazione e dei bei sentimenti che ci avete fatto vedere oggi." "Accetto", rispose Franco senza levar gli occhi dal giornale. "Bene, caro", replicò la nonna imperturbata. E soggiunse: "Ho piacere che quella signorina vi abbia conosciuto; così, se mai sapeva di qualche progetto, sarà ben contenta che non se ne parli più". "Contenti tutt'e due", disse Franco. "Voi non sapete niente affatto se sarete contento. Specialmente se avete ancora le idee d'una volta." Udito questo, Franco posò il giornale e guardò la nonna in faccia. "Cosa succederebbe", diss'egli, "se avessi ancora le idee d'una volta?" Non parlò stavolta in tono di sfida, ma con serietà tranquilla. "Ecco, bravo", rispose la marchesa. "Spieghiamoci chiaro. Spero e credo bene che un certo caso non succederà mai, ma, se succedesse, non state a credere che alla mia morte ci sarà qualche cosa per voi, perché io ho già pensato in modo che non ci sarà niente." "Figùrati!", fece il giovine, indifferente. "Questi sono i conti che dovrete fare con me", proseguì la marchesa. "Poi ci sarebbero quelli da fare con Dio." "Come?", esclamò Franco. "I conti con Dio li farò prima che con te e non dopo!" Quando la marchesa era côlta in fallo tirava sempre diritto nel suo discorso come se niente fosse. "E grossi", diss'ella. "Ma prima!", insistette Franco. "Perché", continuò la vecchia formidabile, "se si è cristiani si ha il dovere d'obbedire a suo padre e a sua madre e io rappresento vostro padre e vostra madre." Se l'una era tenace, l'altro non l'era meno. "Ma Dio vien prima!", diss'egli. La marchesa suonò il campanello e chiuse la discussione così: "Adesso siamo intesi". Si alzò dal canapè all'entrar della Carlotta e disse placidamente: "Buona notte". Franco rispose "buona notte" e riprese la Gazzetta di Milano Appena uscita la nonna, gittò via il foglio, strinse i pugni, si sfogò senza parole, con un furibondo sbuffo, e saltò in piedi, dicendo forte: "Ah, meglio, meglio, meglio! Meglio così", fremeva in sé "meglio non condurla mai, la mia Luisa, in questa maledetta casa, meglio non farle soffrir mai questo impero, questa superbia, questa voce, questo viso, meglio viver di pane e d'acqua e aspettar il resto da qualunque lavoro cane, piuttosto che dalle mani della nonna: meglio far l'ortolano, maledetto sia, far il barcaiuolo, far il carbonaio!" Salì nella sua camera, risoluto di romperla con tutti i riguardi. "I conti con Dio?", esclamò sbattendosi l'uscio dietro. "I conti con Dio se sposo Luisa? Ah vada tutto, cosa me ne importa, mi vedano, mi sentano, mi facciano la spia, glielo dicano, glielo contino, gliela cantino che mi fanno un piacerone!" Si vestì in fretta e in furia, urtando nelle seggiole, aprendo e chiudendo il cassettone a colpi. Mise un abito nero, per sfida; discese le scale rumorosamente, chiamò il vecchio domestico, gli disse che sarebbe stato fuori tutta la notte, e senza badare alla faccia tra sbalordita e sgomenta del pover'uomo, a lui molto devoto, si slanciò in istrada, si perdette nelle tenebre. Egli era fuori da due o tre minuti, quando la marchesa, già coricata, mandò Carlotta a vedere chi fosse venuto giù correndo dalle scale. Carlotta riferì ch'era stato don Franco e dovette subito ripartire con una seconda missione. "Cosa voleva don Franco?". Stavolta la risposta fu che don Franco era uscito per un momento. Questo momento fu pietosamente aggiunto dal vecchio servitore. La marchesa ordinò a Carlotta di andarsene lasciando il lume acceso. "Ritornate quando suonerò", diss'ella. Dopo mezz'ora ecco il campanello. La cameriera corre dalla padrona. "È ancora fuori don Franco?" "Sì, signora marchesa." "Spegnete il lume, prendete la calza, mettetevi in anticamera e quando sarà rientrato venite a dirmelo." Ciò detto la marchesa si girò sul fianco verso la parete, voltando all'attonita e malcontenta cameriera l'enigma bianco, uguale, impenetrabile del suo berretto da notte.

Pensò ai tarocchi, poté, con uno sforzo, vedersi nella testa il tavolino da giuoco, i giuocatori, i lumi, le carte; ma quando cessò dallo sforzo per abbandonarsi ad una visione passiva di questi soporifici fantasmi, le comparve sotto le palpebre tutt'altra cosa, una testa che cambiava continuamente lineamenti, espressione, attitudini e che venne per ultimo lentamente ripiegandosi avanti sopra se stessa come nel sonno o nella morte, non mostrando più che i capelli. Altra scossa di nervi; la marchesa riaperse gli occhi e udì l'orologio della scala suonare. Contò le ore: dodici. Già mezzanotte e non poter dormire! Stette alquanto ad occhi aperti ed ecco adesso immagini nel buio come prima sotto le palpebre. Cominciavano da un nucleo informe e si svolgevano continuamente. Si disegnò un quadrante d'orologio, che diventò un occhio spaventato di pesce, un occhio umano severo. Ad un tratto venne alla marchesa l'idea che non riuscirebbe a dormire e il sopore già inoltrato andò rotto da capo. Allora ella suonò il campanello. La cameriera si fece chiamar due volte e poi venne mezzo svestita, dormigliosa. L'ordine fu di posar il lume sopra una sedia per modo che dal letto non si potesse veder la fiamma; di prendere un volume di prediche del Barbieri e di leggere a mezza voce. La cameriera era abituata a somministrare questi narcotici. Si pose a leggere e in capo alla seconda pagina, udendo il respiro della padrona farsi greve, andò pian piano smorzando la voce per un mormorio inarticolato, fino al silenzio. Aspettò un poco, ascoltò il respiro regolare e pesante, si alzò a guardar la faccia cupa, supina sul doppio guanciale con le sopracciglia aggrottate e la bocca semiaperta, prese il lume e si ritirò in punta di piedi. La marchesa dormiva e sognava. Sognava di giacer sulla soglia nello stanzone buio di un carcere, con i ceppi ai piedi, accusata di assassinio. Entrava il giudice con un lume, sedeva presso a lei e leggeva una predica sulla necessità della confessione. Ella gli si protestava innocente, ripeteva: "Ma non sa che si è annegata da sé?". Il giudice non rispondeva, leggeva, leggeva sempre con voce compunta e solenne, e la marchesa insisteva: "No, non l'ho uccisa". Non era flemmatica nel sogno, si agitava come una disperata. "Badi", rispondeva il giudice. "La bambina lo dice." Egli si alzava in piedi e ripeteva: "Lo dice". Poi batté forte le mani palma a palma ed esclamò: "Entrate!". Fino a questo punto la marchesa aveva sentito, sognando, di sognare; qui credette svegliarsi, vide con orrore che qualcuno era entrato infatti. Una forma umana debolmente luminosa stava a sedere sulla poltrona ingombra di vesti, presso il suo letto, sì ch'ella non poteva vedere la parte inferiore dell'Apparizione. Il busto, le braccia, le mani raccolte insieme avevano un colore biancastro e contorni alquanto incerti; la testa, appoggiata alla spalliera, era nitida e circonfusa d'un chiaror pallido. Gli occhi scuri, vivi, fissavano la marchesa. Che orrore! Era veramente la bambina morta. Che orrore, che orrore! Gli occhi dell'Apparizione parlavano, lo dicevano. Il giudice aveva ragione, la bambina lo diceva, senza parole, con gli occhi. "Tu, nonna, tu sei stata, tu. Io avrei dovuto nascer e vivere nella tua casa. Tu non l'hai voluto. Sei condannata alla morte eterna." Gli occhi soli, i fissi, tristi, pietosi occhi dicevano tutto questo ad un tempo. La marchesa mise un lungo gemito, stese le braccia verso l'Apparizione, credendo dir qualche cosa e non riuscendo che a rantolare "ah ... ah ... ah ..." mentre le mani, le braccia, il busto del fantasma sfumavano in una nebbia, i contorni del viso illanguidivano e solo rimaneva intenso lo sguardo, che finalmente pure si velò e rientrò quasi in un lontano e profondo Se stesso, null'altro rimanendo dell'apparizione che poca fosforescenza poi assorbita dall'ombra. La marchesa si svegliò di soprassalto, ansante, non si ricordò del campanello, si provò a gridare e non riuscì a metter fuori la voce. Con un impeto della sua volontà potente ancora nello sfacelo delle forze, cacciò le gambe dal letto, discese, fece due passi brancolando nel buio, incespicò nella poltrona, si aggrappò a una sedia, cadde con essa pesantemente sul pavimento, si mise a gemere. La cameriera si svegliò al tonfo, chiamò, non ebbe risposta, udì il gemito e, acceso il lume, accorse, vide nella penombra, tra la sedia e la poltrona, qualche cosa di bianco e d'enorme che si divincolava sul pavimento come una bestia mostruosa del mare tirata in secco. Gridò, corse al campanello, svegliò d'un colpo tutta la casa e si precipitò ad aiutar la vecchia che rantolava: "Il prete, il prete! Il prefetto, il prefetto!"

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675773
Garibaldi, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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LA DANZA DEGLI GNOMI E ALTRE FIABE

676814
Gozzano, Guido 1 occorrenze

Sogni d’inverno

677768
Loy, Rosetta 1 occorrenze

Ma come sopportare l'idea di loro due in una stazione della metropolitana piena di anfratti e di correnti gelate dove ognuno badava ai fatti suoi, aveva fretta, e una coppia poteva abbandonarsi a interminabili abbracci? Così erano andati al cinema e a Asia era venuto sonno (capitava ogni tanto e finiva per addormentarsi sulla spalla di chi le sedeva accanto). Aveva tanto insistito per vedere I racconti di Hoffmann ma già all'inizio del secondo tempo le si chiudevano gli occhi, aveva freddo e bisognava tenerla calda. Carlo aveva giacche più morbide, braccia lunghissime capaci di avvolgerla teneramente, lei inclinava la testa, il respiro appena avvertibile e la mano che cercava un appiglio tra i bottoni della camicia. Un abbandono senza riserve mentre i colori dello schermo si intersecavano, si accendevano e spegnevano sul suo viso, le voci diventavano musica, tonfi di remi nell'acqua. Una barcarolle. Una volta in camera Federico e Carlo avevano litigato dicendosi le cose più atroci. Il pretesto era stato dei più stupidi, Asia non era stata neanche nominata. Ancora a letto si erano girati e rigirati, ognuno con le proprie rabbie, le proprie speranze. Perché alla fine lei avrebbe dovuto scegliere, non poteva essere altrimenti; e sul cuscino la stanchezza era precipitata come piombo insieme alla gelosia e al furore, quella maledetta luce di fuori che si faceva strada tra la manica di un golf, un lembo pendulo di camicia. Un giorno avevano preso il pullman ed erano andati a Cambridge. La sera prima aveva piovuto e si erano messi a correre per Kensington Gardens mentre l'acqua zampillava giù dagli alberi, i capelli di Asia che grondavano sulla sua smilza giacchetta. Appena a casa lei se li era avvolti in un asciugamano quasi fosse un turbante e ancora in sottoveste era entrata in camera loro. Voleva un maglione e aveva scelto fra quelli di Carlo ammucchiati su una seggiola. Poi si era seduta sul letto di Federico, le gambe nude nella sottoveste. «Dovresti avere più pudore, - aveva detto Federico, - in fondo siamo uomini». Carlo aveva riso, l'idea che potessero saltarle addosso doveva sembrargli fuori luogo. «Non fare il maschio latino - lei aveva risposto, - non ci sei portato» e aveva tirato ancora più su la sottoveste mostrando una pelle segnata da tanti puntini rossi, niente bella. Federico stava per picchiarla, lei se ne era accorta e il sangue le era affluito al viso. Ma non voleva cedere e lo guardava negli occhi, le cosce forti schiacciate contro il materasso, quel turbante che le lasciava un viso indifeso, di grande bambina. Il mattino dopo il cielo era stato ancora nuvolo ma loro avevano preso lo stesso il pullman e durante il viaggio avevano fatto amicizia con dei ragazzi olandesi. Una volta a Cambridge si erano sparpagliati fra i Colleges e avevano cominciato a girovagare tra i grigi edifìci di pietra. Magiche porte si aprivano sul silenzio dei refettori e le lunghe tavole apparecchiate con posate d'argento sembravano essere lì in attesa da sempre, la luce delle alte finestre che cadeva fredda sui legni scuri Incidati a cera. Le note di un pianoforte giù da una scala di pietra, lo sfogliarsi di rose bagnate e il sole che andava e veniva sulle loro teste. Gruppi di studenti erano passati incuranti, lenti, gli occhiali che riflettevano il cielo e le nuvole della giornata. Le nere vesti svolazzanti degli scholars. Loro come paria con le scarpe che si ammollavano nell'erba, le siepi a dividere territori. Nella chiesa del King's College suonava un organo, la chiesa era vuota e Asia si era seduta su un alto scranno intagliato: e Hàndel, la navata nuda, la luce delle pietre che nessuna vetrata riusciva a addolcire, sembravano essere la Grande Rivelazione. Più tardi insieme ai ragazzi olandesi si erano ritrovati a mangiare in un locale basso e unto dove perfino i tovaglioli puzzavano di grasso e per smaltire il pasto si erano messi a fare uno stupido gioco lungo le rive del Cam dove ognuno doveva indovinare i segnali lasciati dall'altro. Perdersi e ritrovarsi. A Federico quel gioco era sembrato idiota e si era messo a camminare per conto suo: studenti passavano remando in lunghe e sottili barche che scivolavano sotto i ponti incrostati di muschio e le loro maglie colorate si perdevano fra gli alberi riversi in cupole sulle sponde, l'acqua verdastra rotta dalla caduta dei remi. Federico avrebbe voluto arrivare fino al Trinity College ma a un certo punto si era quasi scontrato con una delle ragazze olandesi e senza che l'iniziativa fosse stata dell'uno o dell'altra, si erano ritrovati abbracciati. Un impulso, il primo in tutti e due. La ragazza gli aveva premuto sulle labbra le sue che sapevano ancora della salsiccia che avevano appena mangiato. Dopo gli aveva riso nella bocca, Federico si era sentito goffo, la ragazza lo aveva turbato. «Ann» l'aveva chiamata carezzandole il viso, lei si era messa a ridere «I am not Ann, I am Elke!» Si sarebbero scritti quell'estate e ancora l'anno successivo, ma a un certo punto la corrispondenza si sarebbe interrotta per non riprendere più, Federico avrebbe mancato l'appuntamento a Verona preso con tanti mesi di anticipo. Una volta scesa dal treno la ragazza olandese lo avrebbe cercato invano, ogni volta sembrandole di riconoscerlo in un altro simile per proporzioni e statura. Quel giorno Federico sarebbe stato a Firenze, un lavoro occasionale in una casa editrice, in realtà impossibilitato a muoversi. A Firenze c'è Asia. Le macchine passano sul Lungarno, è primavera e un'aria di celesti e di lillà, di gialli ocra riluce sull'acqua, Asia ha tagliato i capelli, ha una storia sciagurata con un uomo. L'amore può anche essere pena e Federico la guarda passare in fretta, lei fa un cenno con la mano come per dire ci vediamo dopo, più tardi Gli sorride e porta un bei golf color caffellatte, belle scarpe di cuoio chiaro, un foulard al collo, e il sangue slavo della madre è tutto nella falcata un po' ondulante del passo, nel latte della pelle. Verrò, stai tranquilla: la mano di Federico la rassicura da lontano ma già lei svolta per via Tornabuoni. La giornata apre improvvise voragini, alza muri ciechi. Trappole dove il piede si divincola nella tagliola. A Verona la ragazza olandese ritta sotto il sole nella piazza della stazione tiene in mano una mappa della città, vuole sapere nel suo stentato linguaggio dove si trova l'Ostello della Gioventù. Tutti bugiardi questi ragazzi italiani. Ma quel giorno a Cambridge, dopo quel bacio, Federico si era detto se ci sta, anche stasera. Così mi tolgo questa maledetta idea dalla testa, cambio pensieri e la faccio finita; e aveva aspettato euforico il momento di risalire sul pullman e sederle accanto, prendere accordi. Come se di colpo fosse guarito, di nuovo libero, e potesse guardare tranquillo Asia mordere la cioccolata che uno dei ragazzi olandesi le aveva regalato, sorridere invitante inclinando la testa di lato mentre la pioggia sottile le cospargeva di goccioline i capelli. Ma già Elke sale sul pullman, Federico subito dietro per non perdere il posto accanto a lei. Eccitato, leggero. Elke non ha cioccolato ma labbra piene e pallide, quelle che Carlo definisce "rugose" e sono poi le migliori, le più sensuali. Quella sera stessa era andato a letto con lei. Tutto era successo molto in fretta, attenti a non fare rumore, e quando Federico era tornato nella casa di Kensington, Asia lo stava aspettando. Lo aveva chiamato a bassa voce dal fondo del corridoio e lo aveva fatto entrare in camera sua. Non era mai successo prima e Federico aveva sentito un tuffo al cuore. Asia aveva richiuso piano la porta e si era stesa sul letto «Vieni qui, accanto a me» aveva detto. Non aveva che la sottoveste addosso e Federico aveva accennato il gesto di spogliarsi, lei aveva riso piano «Ma che fai, stenditi cosi come sei». La luce era spenta e in quella poca che arrivava dalla strada Federico poteva vederla grande e bianca, i piedi nudi stesi diritti. Il letto era stretto e lei si era spinta contro la parete per fargli posto e come Federico le si era allungato accanto gli aveva preso una mano per appoggiarsela sul corpo, poco sotto il seno. Ma era inutile tentare un qualsiasi avanzamento, le sue dita forti e calde lo tenevano in trappola; Federico poteva sentire attraverso la stoffa il tepore della sua pelle con il leggero avvallamento dell'ombelico: era una sconfitta piena, totale. Una macchina era passata riverberando i fari sul soffitto e per un attimo Federico aveva visto gli orecchini con le corniole brillare sul comodino. Anche lei li aveva visti. «Sono bellissimi, - aveva detto, - non ho mai avuto niente di così bello». Federico guardava il suo profilo e con l'indice della mano era passato lungo la linea del naso, la breve curva delle labbra, fermandosi un attimo dove il mento si sollevava rotondo. «Stai bene così?» lei aveva chiesto, aveva chiuso gli occhi e le ciglia tremavano appena contro la guancia. La risposta Federico l'aveva data stringendole più forte le dita. La felicità, perché di felicità si trattava, era simile a brividi sulla pelle. Portava sfinimento, sonno. Quando Federico si era risvegliato Asia dormiva con la faccia contro il muro e le sue braccia la tenevano stretta per la vita. Più che vederla, la sua schiena, la sentiva contro il corpo larga e magra, traversata dalle bretelline della sottoveste; e gli sembrava che avesse un odore. Come di pioggia e di muschio (poca acqua per lavarsi, un filo sottile giù dal rubinetto e sempre qualcuno che bussava alla porta perché aveva bisogno del bagno). Asia si era girata, aveva freddo e la mano era scesa a cercare la coperta, gli occhi si erano aperti a fatica, appena una fessura tra le ciglia «Che fai ancora qui, vai a letto...» «Ma io sono a letto» aveva risposto ridendo. «Sciocco, nel tuo, dai vattene». Si divincolava ma era quasi un gioco, le parole uscivano dalle labbra impastate dal sonno, i piedi lo scalciavano via. Un giorno lo avrebbe sposato quello tanto ricco, avrebbe camminato sui sentieri tra i faggi rossi ad ombrello e avrebbe detto: qui voglio le rose Princess Margaret e qui invece le clematidi azzurre... «Dai, forza, vattene» la voce lagnava ma la fessura dello sguardo era nella semioscurità un piccolo animale, un insetto pronto a scattare. Carlo Angrisani non avrebbe mai saputo di quella notte. Era stato tanto sicuro che Federico l'avrebbe passata dalla ragazza olandese che aveva preso il cuscino dal suo letto e ci stava regalmente affondato con quella testa che sembrava di legno, una testa da pupazzo tanto era piccola e tonda con i capelli irsuti. Allo strappo di Federico aveva avuto un sussulto ma nulla si era scomposto, il respiro aveva subito ripreso il suo sibilo sottile. Pochi giorni dopo i ragazzi olandesi erano partiti con mille giuramenti di rincontrarsi in Italia. Alla stazione baci e abbracci, i lunghi sospiri di Elke nel collo di Federico. Ancora qualche giorno e partiranno anche loro, ormai non ci sono che scellini nelle tasche e per risparmiare energie passano gran parte del tempo a Kensington Gardens. Asia ha ricevuto una lettera e accenna dei passi di danza, le braccia sono come ali e le scarpe scalcagnate da tutto quel girovagare per strade e metropolitane, musei, giardini, si alzano sulla punta dei piedi e la gonna a quadri verdi e blu si allarga tonda: una stoffa che non è cotone, non è lana e di sicuro neanche seta, allora che è? Carlo la palpa, e con la stoffa le gambe. «Bob!» risponde alzando le spalle, un romanesco strascicato lei che ha una madre russa di antica famiglia e un padre che poteva essere ambasciatore se non avesse avuto la disgraziata idea di seguire le sorti della Repubblica di Salò. La lettera come una farfalla tra le dita. «Di chi è?» chiede Federico. «Cosa? la lettera? di un mio amico». «Fai vedere». «Non ci penso per niente» ha nascosto la lettera nella camicetta e ora ride. «E per quella che sei tanto allegra?» Un vento leggero sospinge le barchette nella vasca, con dei lunghi bastoni dei ragazzi dall'impermeabile flottante cercano di recuperarle e farle tornare a riva. Lei è incantata dallo spettacolo. «Allora è per quella?» insiste Federico. Asia si gira a guardarlo, è un attimo, tutto si sospende immobile: barchette, acqua, nuvole, impermeabili ondulati dal vento. Poi china il viso sul suo, gli occhi guardano negli occhi, le labbra si schiudono sull'umido dei denti «Tanto allegra?» chiede. E la tristezza è un tampone in fondo alla gola.

L'ANNO 3000

677895
Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

"E i poveri giurati davanti a così sfacciate contraddizioni, abbagliati e confusi dal cozzo dell'eloquenza avvocatesca, dalle liriche invettive dei giudici, sballottati fra la scienza che negava da sè stessa la propria efficacia colle flagranti contraddizioni e perduti nel labirinto dei sofismi, dei paradossi, della dialettica, che cadevano sulle loro spalle come tanti proiettili in un dì di battaglia, finivano per abbandonarsi alla suggestione del sentimento; il più infido dei giudici nel campo della giustizia, e sentenziavano col cuore, invece che colla ragione. "E in ultima analisi, non era la scienza giuridica, non la scienza dei periti che dava il supremo giudizio, ma era l'egoismo o la compassione. "Il primo diceva ai giurati: "Quell'uomo ha rubato: lasciato libero, potrà rubare ancora e mettere le sue mani anche nelle tue tasche. "Dunque in prigione, alla galera. "Quella donna, bella e giovane ha peccato in amore. Quanto volentieri avrei diviso il peccato con lei! "Poveretta! Le sia data la libertà. "E quando invece la compassione compariva o scuoteva le fibre sensibili dei giurati, era assolto il colpevole, quando la compassione per lui era più forte che per la vittima. Era invece condannato, quando gli avvocati eran riusciti, a far sentire più forte la compassione per la vittima. "Come vedete, - diceva il professore, - era un problema di affinità elettiva, era una lotta del sentimento colla ragione e la povera giustizia andava sommersa troppo spesso in queste lotte molto disuguali. "Ecco che cosa era la giustizia dieci secoli or sono. Ma non vogliamo essere troppo superbi noi altri uomini del secolo XXXI, perchè anche noi non sappiamo sempre disgiungere e separare nettamente il cuore dal pensiero, nei nostri giudizii." La lezione, spesso interrotta da risate di approvazione, fu fragorosamente applaudita al suo fine e i nostri, viaggiatori lasciarono il Palazzo della Scuola, molto contenti della loro visita.

LA GENTE PER BENE

678069
Marchesa Colombi 1 occorrenze
  • 1893
  • F. A. Brockhaus - A. Asher e C.- Veuve Boyveau - Ernesto Anfossi
  • prosa letteraria
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C'è alle volte più generosità nell'accettare che nel dare, ed un gentiluomo deve saper accogliere con garbo e con riconoscenza gli inviti ed i doni, e ricambiarli con tatto, senza fretta, per scambio di cortesia, non per sdebitarsi. olti hanno contratta la dolce abitudine di abbandonarsi ad un pisolino riconfortante durante il chilo; e subito dopo un pranzo, in compagnia, cominciano ad inghiottire sbadigli con ogni sorta di boccacce come se ruminassero, se pure non cedono al bisogno prepotente di lasciarli partire come razzi, comunicandoli a tutta la società, che finisce per sbadigliare in coro fino a smontarsi le mandibole. Questi signori abitudinari, che hanno il loro lato buono, perchè facendo tutto per abitudine, anche l'amore, sono dei modelli di costanza, debbono essere gli inventori di quel motto che è la quintessenza dell'egoismo: "Il primo prossimo è se stesso." Ma sarebbero assai più amabili se si ricordassero un pochino delle giuste suscettività dell'altro prossimo, il secondo. Se un signore sa di dover essere presentato ad un pittore, ad uno scultore, ad un musicista, ad un autore, ad un uomo politico, ad un'illustrazione del teatro, deve se non li conosce già, informarsi dei quadri, delle statue, delle opere, dei libri, delle opinioni e gesta dei trionfi del nuovo personaggio, per poterne parlare con cognizione, e non con quegli accenni vaghi, quegli elogi generici e banali che fanno parer stupido lui, ed offendono l'altro. Si rammenti a questo proposito la bella storiella di quelle vicine del signor De-Amicis, che gli fecero dire che desideravano di conoscerlo, perchè ammiravano tanto i suoi lavori….. e poi quando lo videro gli dissero: "Lei si diverte scrivere, nevvero? Ma bravo! bravo!" e nel congedarsi gli ripetevano: "Scriva sa, scriva!" Ed era chiaro che de' suoi lavori non conoscevano che il titolo, o tutt'al più la copertina, soltanto di vista. - - - Vi sono degli uomini, non avvezzi alla società, pei quali una visita ad una signora è un vero supplizio, non per inurbanità, ma perchè vi si trovano impacciati, e non sanno come contenersi. Entrano col cappello fra le mani, e lo tengono sulle ginocchia, lo voltano, lo rivoltano, lo mettono sotto la sedia quando vogliono aver libere le mani, lo riprendono, gesticolano allungando la mano che tiene il cappello come un povero che domanda un soldo, precisamente come vedono fare ai lions È l'usanza, ed io non posso che ammirarli d'averla imparata così bene. Ma vi sono delle signore che non s'accontentano di dire al visitatore: "Posi il cappello," lasciando poi che non lo posi se non vuole. Si credono in dovere d'insistere, dicono al loro figliuolo o ad una ragazzina di prendere il cappello al signore. In questo caso un gentiluomo cede per non far scene. Ma il provinciale, che ha imparato dai lions a far visita con quel disimpegno tra le mani non sa privarsene, e difende energicamente il suo cappello come difenderebbe la borsa e la vita, e s'impegna in una lotta di cortesia, che sembra una vera battaglia, e mette lo scompiglio fra i visitatori. In tale circostanza gli raccomando un po' meno di tenerezza per quella parte suprema del suo vestiario. Sarà un po' più imbarazzato ne' gesti, ma in compenso non avrà fatto nascere tutto quel buscherio. E quando qualcuno lo presenta a signore o signorine, non spinga la dimostrazione di cortesia fino a stender subito la mano. I mariti ed i babbi avrebbero ragione di dirgli: "Et surtout pas trop de zèle." Non vorrei neppure che quel provinciale, nella sua semplicità, prendesse troppo sul serio il piacere con cui altri mostra di ricevere la sua visita e si credesse obbligato a prolungare quel piacere finchè il servitore vada a chiamare la signora in tavola. Il tempo e la conversazione di una signora sono troppo preziosi, perchè la cortesia non debba suggerire a chi non è intimo della casa, di lasciarne un pochino anche per gli altri. Ne goda venti minuti, una mezz'ora, via, e s'accontenti. E durante quel tempo se ci sono altre persone non cerchi di accaparrare l'attenzione della signora per sè solo. Quando si va in società bisogna lasciare l'egoismo a casa, e portarci invece un po' d'abnegazione. È a questo patto soltanto che si può essere veramente cortesi. - - - Alle volte accade che un giovine rimane colpito come un eroe da romanzo, da un bel visetto di fanciulla che passa per la via accanto ad un buon viso di mamma. Se è proprio un colpo.... da morire, allora cerchi di sapere chi è la fanciulla, e di giungere a lei per la via retta della presentazione e della domanda ai parenti. Ma se è di quei colpi che non lasciano la traccia a lungo, e lui non si sente inclinato alla via retta, un gentiluomo non deve pigliare quella storta. A cosa conduce per lo più? A mettere una signorina nell'imbarazzo, a farle commettere delle imprudenze, a comprometterla, qualche volta persino a impedire che trovi marito, senza contare le pene di cuore che a quell'età sono crudeli. E tutto questo per il misero gusto di mandare e ricevere delle letterine dolci che sa a memoria prima che sieno scritte, e che dovrà restituire in una scena da romanzo, ad epistolario finito. Mantenendo le signorine in quel grado di semplicità e d'inesperienza che è una delle loro attrattive, lasciando loro la fede, gli entusiasmi della gioventù, serbandole ingenue, confidenti per lo sposo a cui saranno destinate, le famiglie contano sulla cortesia dei giovani che non profitteranno di quella preziosa ignoranza, per indurre una signorina ad imprudenze, delle quali non può apprezzare la portata. Se ogni gentiluomo rispettasse in ogni signorina la futura sposa d'un altro, non accadrebbe a nessuno di scoprire più tardi, da qualche pettegolezzo maledico, che un altro non ha rispettata la sua. Seguire una signora o una signorina in istrada, passeggiare sotto le sue finestre, mandarle ambasciate dalle persone di servizio, sono impertinenze indegne di un uomo educato. E gli antichi, che hanno dipinto l'Amore con una benda, hanno voluto dire che le donne innamorate sono cieche se non distinguono quanto c'è d'offensivo in certe galanterie punto raffinate. Ad un ballo un ballerino non darà mai la mano alla ballerina per condurla in figura. Basta offrirle il braccio. E mentre aspetteranno il loro giro potrà intrattenerla a discorrere. È ancora un atto di fiducia che gli fanno le famiglie, le quali non odono i discorsi che può tenere alle loro figliole. Se ne abusasse sarebbe una enormità. Credo che l'abuso di fiducia sia un aggravante di molti delitti nel codice penale. E nel codice delle convenienze pure. Se la signora a cui domanda un ballo rispondesse che ha un impegno, il ballerino non dovrebbe mai rivolgersi a quella che sta accanto e che ha potuto udire quel rifiuto. Sarebbe quanto dirle che la prende per ripiego. Quando, fra le signore che ballano, vi sono la padrona di casa o le sue figliole, la prima domanda d'un giovine educato deve essere rivolta a loro. Dopo una festa in casa privata tutti gli uomini che vi sono intervenuti sono in obbligo d'una visita alla padrona di casa, e la faranno entro la settimana nel suo giorno di ricevimento. - - - Un giovinotto che in viaggio si trovasse in vagone con una signora non accompagnata, darà una buona idea della sua educazione se sorveglierà i suoi discorsi cogli altri uomini, come se fosse in un salotto, se le userà quelle piccole attenzioni che si usano in viaggio, di alzare un cristallo, tirare una cortina, aprire o chiudere una portiera, reggere e mettere a posto una valigia, senza insistere troppo per entrare in discorso se la signora vi si mostra restia. Si danno però casi in cui la civiltà diverrebbe eroismo. Un viaggiatore, che abbia fatto tutte le cose sue in fretta, si sia alzato di buon mattino, abbia fatta una colazione spiccia, per giungere in tempo a pigliare un posto d'angolo nel vagone dove possa appoggiarsi al riparo dalla polvere e dal sole, dovrebbe essere due volte gentiluomo per cedere tutti questi vantaggi ad una signora, la quale per fare il suo comodo, è giunta dopo di lui, e magari non ha uno di quei visi che incoraggiano al sagrificio. No; sarebbe troppo pretendere dalla cortesia d'un debole mortale. Basta che le usi i riguardi dovuti, che non le fumi sul viso, che non pigli atteggiamenti troppo comodi per dormirle dinanzi; del resto, quanto a' posti pagati non c'è diritto di sesso che valga; tutti i sessi sono uguali in faccia a' vagoni della strada ferrata. Ai tempi di Monsignor della Casa, ed anche a quelli del Gioia, quegli scrittori di galatei avevano bisogno di raccomandare a' mariti di non parlare continuamente delle loro mogli, di non tesserne l'elogio ad ogni momento. Povere mogli! Ora la fortuna ha girata la ruota; è venuta la moda insulsa di affettare l'indifferenza, e bisognerebbe raccomandare precisamente il contrario. I Turchi si offendono se altri nomina le loro donne anche per domandar nuove della loro salute, o per incaricarli d'un'imbasciata cortese. Essi si vergognano dell'amor coniugale, sia che abbiano parecchie mogli, sia che ne abbiano una sola, e lo nascondono come una spudoratezza. Lessi nel Constantinople i Theophile Gauthier che la moglie d'un console francese a Costantinopoli, conoscendo questa debolezza, ed essendo donna di molto tatto, nel presentare delle stoffe da signora, ad un personaggio illustre del paese, gli disse: * Voi saprete a che uso destinarle. Sapeva che lo avrebbe fatto arrossire e confondere nominandogli sua moglie. Conosco parecchi mariti, non molti per fortuna, che, sotto questo rapporto, potrebbero passare per Turchi. Ho delle conoscenti (tanto gentili che mi perdoneranno di vedersi accennate qui) che vedo da parecchi anni, e non so tuttavia che viso abbiano i loro mariti. Esse mi dicono:. * Mi scuserà, marchesa, mio marito è un uomo serio; non fa visite.... * Si figurino, se lo scuso, poverine! Ma loro, signori uomini seri, credono veramente che vi sia più serietà nel mancare de' riguardi elementari verso le conoscenti della loro sposa, che nel mostrare, accompagnandola almeno una volta da ciascuna, che la curano abbastanza per volere sapere dove va, e con chi tratta? Via; la mano sulla coscienza; lo credono davvero? Così accadrà loro d'incontrare per la strada delle signore che la loro moglie vede ogni settimana, a cui dà del tu, e non le saluteranno. E quelle signore non diranno certo: * È un uomo serio; è occupato di cose troppo gravi ed alte per curarsi di noi.... Punto, signori miei; me ne duole pel loro amor proprio; ma le ho udite molte volte dire con un sorriso che non era d'ammirazione: * È il marito della signora tale. Uno screanzato. Non conosce neppure le relazioni di sua moglie, poveretta! Io mi rallegro coi nostri uomini, che non passino la loro giornata metà ad azzimarsi, e l'altra metà in visite galanti, come i cavalieri serventi dell'altro secolo. Ma da un eccesso all'altro ci corre; ed almeno una volta all'anno, come il minimum ella confessione, un marito dovrebbe fare una visita a tutte le relazioni di sua moglie. Nelle famiglie modeste che hanno due, tre persone di servizio al più, alle volte anche una sola, la moglie si trova nel caso di rendere al marito una quantità di piccoli servigi; preparargli tutto l'occorrente quando deve vestirsi, provvedergli i piccoli oggetti di toletta, fargli trovar pronta la colazione, servirgli il caffè, o una bibita d'abitudine, fargli, a pranzo, l'improvvisata dei piatti che preferisce, cucirgli la biancheria, ecc., ecc. Queste cose per la moglie possono essere una delizia che tiene luogo d'ogni altro piacere o possono venirle a noia al punto da trascurarle o farle di mala voglia. Tutto dipende dal compenso che ne riceve. Se il marito non dimentica mai che la moglie è sua uguale, che è debole, che ha bisogno da lui il coraggio che le manca per affrontare le piccole e grandi miserie della vita, accoglierà quei servigi intimi e affettuosi come altrettanti favori, e li compenserà con una buona parola, con un ringraziamento, con qualche elogio. Oh, se lo sapessero tutti gli uomini, che largo compenso possono dare con una parola amorevole e cortese! Ma se tutto quello che fa è ricevuto in silenzio, come un tributo che lei deve per obbligo al suo signore e padrone, se lui non si dà la briga di mostrare che avverte le sue cure e le apprezza, anche la moglie più devota si stanca, e pensa: * A cosa serve? Da questo derivano le tante piccole mancanze, i bottoni staccati, i guanti scuciti, il pranzo in ritardo e poco accurato, e talvolta il disamore della casa nella moglie, il malcontento nel marito, la tristezza in famiglia, la pace perduta. Perchè? Per un'inezia. Perchè il capo di casa, che deve dare l'esempio del modo di vivere, ha dimenticato che nè l'affetto nè l'intimità non dispensano dalla cortesia. Perchè ha lasciata andare a poco a poco la buona e dolce abitudine della gentilezza, ha preso a trattare in casa come non tratterebbe fuori, e, senza avvedersene, è arrivato ad essere quasi inurbano, a ricevere un atto gentile senza ringraziare, a lasciar parlare senza rispondere o a rispondere con asprezza se non è di buonumore, o a rimproverare senza tutti quei riguardi di delicatezza che si devono ad una signora, la quale, al pari di lui, è padrona di casa. Un capo di casa deve insegnare alla famiglia il rispetto dovuto alla propria moglie. A lei deve il primo saluto entrando in casa; a lei deve offrire prima i piatti in tavola, e lasciare la destra al passeggio ed in carrozza, ed uscendo insieme, di sera od in campagna, deve offrirle il braccio, ed usarle tutte le attenzioni che userebbe ad un'altra signora. Se vi sono dispareri tra loro, se deve farle qualche osservazione, avrà cura di chiamarla in disparte e di risparmiarle qualunque umiliazione davanti alle persone di casa anche alle più intime, anche ai suoi genitori. Deve tener conto delle sue delicatezze di donna, e neppure le piccole critiche sopra un abito o una pettinatura, non deve farle presente a terzi per non obbligarla ad arrossire. Una volta sarebbe cascato il mondo se una signora avesse fatto un viaggio da sola. Allora il marito doveva sempre accompagnare la moglie in viaggio, e da ciò risultava che si viaggiava pochissimo. Ora la grande facilità dei mezzi di trasporto, la maggior istruzione, che va abolendo una quantità di pregiudizi, hanno reso il viaggiare assai comune, e gli uomini che hanno delle occupazioni possono, senza essere ineducati, lasciare che la moglie vada sola da un paese all'altro, se le circostanze lo esigono. Ma, per carità, non spingano la fiducia fino all'indifferenza. Il marito deve mostrarsi interessato dell'itinerario del viaggio, dell'orario più o meno comodo; deve accompagnare la signora alla stazione, non abbandonarla prima d'averla veduta a posto nel vagone, risparmiarle tutte le noie del bagaglio, del biglietto di ferrovia, ecc., raccomandarla a qualche conoscente pel viaggio se è possibile, ed assicurarsi bene che sia aspettata dove giunga. Se la signora va ai bagni o alle acque, deve scrivere lui stesso al medico o al proprietario dello stabilimento per avvertire dell'arrivo, e raccomandare che si usino a sua moglie tutti i riguardi possibili. Ed al suo ritorno deve trovarsi ad aspettarla alla stazione, se non foss'altro perchè i compagni di viaggio, dei quali ha potuto attirare l'attenzione, vedendola andare sola come la donna di nessuno, non facciano sul suo conto giudizi temerari. Vi sono mariti che non si dànno nessuna di queste brighe, e cercano di scusare la loro trascuranza dicendo: * Ho troppa stima di mia moglie per aver bisogno di curarla. So che sa regolarsi bene da sè. Questo eccesso di stima tradotto in buon volgare vuol dire: * Non credo che valga la pena di custodirla: non me ne curo. Le donne, signori miei, hanno la loro parte di amor proprio. Preferiscono un Otello che le strangoli, ad un marito placido che le stimi a quel modo. Una moglie che viene abbandonata a se stessa è come un gioiello che si lascia sopra una tavola d'anticamera, coll'uscio aperto. Non importa che venga rubato, o si giudica talmente privo di valore, da non poter attirare nessun ladro. E qualche volta il bisogno di affermare il proprio valore al marito, che non lo riconosce, induce la moglie a lasciar venire il ladro. Quando una signora va ad un ballo il marito deve accompagnarla; e se non può farlo, deve persuaderla a rinunciarvi anche lei. Soltanto nel caso in cui vi fossero delle figliole grandi, per non privarle di quel divertimento tanto caro alla loro età, se anche il capo di casa è nell'impossibilità di accompagnarle, potrà permettere alla moglie d'andarvi colle signorine, purchè vi sia un fratello maggiore, o un parente a cui affidarle. Se una signora ha una serata per ricevere il marito dovrà trovarsi in casa almeno una mezz'ora, tanto da mostrare che gradisce la presenza degli ospiti in casa sua, e non si considera estraneo alle conoscenze della sua signora. Giungendo in campagna dove la moglie passa l'estate, o tornando da un viaggio, chiunque siano le persone che si trovano al suo arrivo la prima a salutare sarà sempre la moglie, poi i figli. Uno che credesse di mostrarsi cortese salutando prima i forastieri, mostrerebbe che la sua cortesia è superficiale e non ha radice nel sentimento. E si farebbe torto, perchè, credano signori lettori, per quanto queste possano sembrare semplici formalità o leggerezze, la vera cortesia è strettamente legata ai sentimenti di umanità. Non c'è atto cortese che non s'inspiri ad un buon sentimento. Non c'è scortesia che non ferisca qualche cuore. Un amico che ci trascuri, che non ci visiti, che non ci scriva a tempo, che ci manchi di un riguardo, non possiamo considerarlo un uomo superiore che non si curi di quegli atti gentili perchè li crede pure formalità, e si riservi a dimostrare la sua amicizia nelle grandi circostanze. Le grandi circostanze, il caso di buttarsi nell'acqua o nel fuoco per salvarci, o di scendere in campo chiuso a spezzare delle lancie in nostro favore non accadono mai; quasi tutti si traversa la vita senza trovarsi nel caso di mettere un uomo a quella prova eroica. Ma si può apprezzarne ogni giorno la sua gentilezza d'animo, nelle piccole cortesie, e si può soffrire ogni giorno della sua rozzezza nelle scortesie che non sono mai piccole. E non serve la scusa pretenziosa ed assurda alla quale alcuni si aggrappano: * Sono un originale! Saranno originali, sì, ma brutti originali ed è da desiderare che non abbiano copie. Del resto, quegli originali là non saranno quelli di certo che mi avranno fatto l'onore di arrivare fino a questa pagina 230 del mio libro; ed è per questo appunto che ho intitolato il capitolo: Parole al vento. Quanto agli altri, agli uomini gentili di animo e di modi, se l'hanno letto, e se vi hanno trovato qualche cosuccia di buono, raccomandino il mio lavoro alle loro mamme, alle loro spose, alle loro figliole; ed io, che apprezzo ed ambisco l'approvazione delle graziose lettrici, ne sarò riconoscente "Finchè il sole Risplenderà sulle sciagure umane." Se al contrario non vi hanno trovato nulla, proprio nulla, che metta conto d'esser letto, non lo dicano a nessuno; non mi tolgano la simpatia delle signore, che ne' miei pochi lavori mi sono studiata di guadagnare, e di cui vado superba. Che male ho fatto infine? Un libro inutile? Dappoco? Una sciocchezza? Ma pensino che se si avessero a punire tutti quelli che hanno scritto delle sciocchezze, più di mezzo mondo ne patirebbe, perchè, come tutti sanno, "Les sots, depuis Adam, sont en majorité."

IL TRAMONTO D'UN IDEALE

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Marchesa Colombi 1 occorrenze

Una sera, che in una festa da ballo s'era nascosto fra due vasi di camelie, per abbandonarsi all'estasi snervante di quei sogni, si vide dinanzi un braccio meravigliosamente bello, ed una voce soave ed affannosa gli disse: "Per carità, venga a ballare questa quadriglia. Ho dovuto ritirarmi per ravviarmi i capelli, e sono rimasta senza ballerino". Egli si rizzò sbalordito, cogli occhi fissi su quelle braccia, su quelle spalle, su quel seno, su tutta quella pelle bianco-rosata da bionda, che gli pareva la realtà della sua visione d'amore. Seguì la bella donna trasognato e muto, sbagliò tutte le figure della quadriglia a cui non badava punto; non cessò mai di fissare la sua ballerina con uno sguardo avido. Si sentiva oppresso. Aveva incontrata parecchie volte quella signora, era stato in casa sua, la conosceva, sapeva che era bella, ma non aveva mai provata nessuna commozione accanto a lei. Si erano trattati con quella certa confidenza compagnevole e gioviale che le donne avvezze alla società accordano spesso ai gentiluomini, e spesso Giovanni parlando di lei aveva detto: "Mi piace, perché non ha la pretesa che le si faccia la corte. Si può parlare con lei come con un amico". Invece, in quel momento d'eccitazione gli parve che quella bellezza fosse fatta per lui, che la rivelazione di quelle forme, provocantemente nude, fosse una conseguenza delle sue fantasticherie amorose; che le avesse evocate, e gli fossero apparse. Non parlava affatto, ed aveva l'aria turbata ed infelice. "Che cos'ha, avvocato?" gli domandò la contessa. "Siete troppo bella!" rispose Giovanni colla voce sommessa ed affannosa d'un uomo appassionato. La contessa rimase sbalordita. Ebbe un sussulto come se avesse ricevuto un colpo nel petto. Comprese che avrebbe dovuto risentirsi, rimproverare il suo cavaliere troppo audace, oppure voltargli le sue belle spalle e piantarlo solo. Ma in realtà non provò nessun risentimento. Aveva infatti ricevuto qualche cosa come un colpo nel petto, come l'urto d'una pila elettrica. Lo stesso turbamento che opprimeva Giovanni oppresse anche lei. Finirono la quadriglia muti, agitati, in uno di quegli affannosi silenzi d'amore, più eloquenti ed espansivi di qualunque parola. Le loro mani s'incontravano tremando, si stringevano a lungo, si separavano lentamente e con rammarico; i loro sguardi s'incrociavano e rimanevano avvinti come due lame calamitate; i loro petti erano oppressi da una grande malinconia, da uno sgomento ignoto, e lei aveva voglia di piangere. La contessa Gemma Castellani di Monte era una donna ambiziosa e scettica. Fin dall'adolescenza aveva amato il lusso sfrenatamente, e quella passione, crescendo cogli anni, aveva invaso tutto il suo cuore. Da bimba in collegio aveva sempre ricercate le compagne ricche e nobili, disprezzando quelle che non avevano una mamma elegante, delle carrozze e dei servitori in livrea. Fatta più grande, poi, desiderava un ricco matrimonio ed un titolo di nobiltà con tale ardore che non le rimaneva cuore per altri sentimenti. L'amore la faceva sorridere. Se udiva di due sposi innamorati che si isolavano per vivere l'uno all'altra, crollava le spalle con disdegno e diceva: "Che gusti!". In fatto di matrimonio s'interessava soltanto di conoscere la rendita, il corredo e le toelette della sposa; se questa andrebbe in società, se riceverebbe molto, se avrebbe molti cavalli e belle carrozze. Per conto suo, in fondo in fondo all'anima, aveva anche una speranza vaga di cavalcate eleganti e di lunghi abiti all'amazzone. Ma era figlia d'un banchiere che aveva una numerosa famiglia e che, per non dissestare i suoi affari, non poteva darle più di centomila lire di dote. Sua madre le aveva fatto capire che con una dote così modesta non bisognava manifestare molte esigenze per non impaurire i pretendenti. E la bella Gemma, che per nulla al mondo non avrebbe voluto diventare una zitellona, s'era tenuto in cuore il suo cavallo da sella, salvo a tirarlo fuori e ad imporlo al marito quando fosse ben sicura che questi non potesse sfuggirle. Ma faceva grande assegnamento sulla sua bellezza, e non volle sacrificare i suoi sogni d'ambizione ai giovani agenti di cambio, avvocati, piccoli possidenti, che le offersero il loro cuore ed una situazione modesta. Un giorno le fu presentato, in una casa aristocratica, un generale in ritiro, che aveva il titolo di conte, trenta capelli bianchi per tutta capigliatura, e sessant'anni sonati. Qualcuno bene informato disse che era milionario, e la bella Gemma confidò alla padrona di casa che nessun giovinotto le aveva mai fatta un'impressione tanto buona come quell'uomo "dall'aspetto nobile e dalla fronte intelligente". Del resto non era vecchio; lei non credeva che avesse più di cinquant'anni; certo non li dimostrava; ed a cinquant'anni un uomo è sul fiore dell'età. Lei aveva diciannove anni appena; ma era sicura che, se l'avesse domandata in moglie, non avrebbe avuto difficoltà a sposarlo; un marito deve avere acquistata una lunga esperienza della vita, per essere guida sicura ad una giovine sposa. Lei non capiva come si potesse affidare il proprio avvenire, la propria felicità ad un giovinotto spensierato... Sapeva con chi parlava, la bella Gemma. La sua confidente riferì i discorsi della giovinetta al generale milionario; riferì di nuovo a lei l'espressione della gratitudine del conte, e quanto avrebbe desiderato di possedere una giovine sposa così bella e ragionevole; ma, alla sua età, non osava domandarla; temeva di rendersi ridicolo... "So bene che lui non ci pensa" disse Gemma. "Neppur io ci penso; non ho mai sognato che mi toccasse una simile fortuna. So che il babbo ha in vista un banchiere ricchissimo, un giovinetto... Lo sposerò; ma se m'avesse domandato quest'uomo serio, l'avrei accettato con maggior fiducia..." Daccapo la signora confidente riferì quegli incoraggiamenti impliciti della sua giovine amica, e, dopo due mesi, la figlia del banchiere diveniva contessa e milionaria, ed aveva fra i suoi doni di nozze un bel cavallo da sella. Erano passati i primi sette anni di matrimonio con una rapidità vertiginosa. La contessa Gemma correva con una smania febbrile di festa in festa; lusso, divertimenti d'ogni sorta, ricevimenti sfarzosi che assorbivano in una serata la rendita di un anno, villeggiature splendide, l'avevano inebbriata. S'era abituata subito al suo titolo, ma si compiaceva sempre di sentirselo dire; e gli elogi alla sua eleganza, le ammirazioni, per quanto iperboliche, non la saziavano mai. Nei primi tempi il marito, prendendo sul serio la sua missione di guida presso la giovine sposa, aveva cercato di frenare quella foga esagerata, e ne erano nati dei dissensi, che avevano rese anche più vive per la contessa quelle soddisfazioni che doveva ottenere al prezzo di lotte acerbe. Era ancora un trionfo della sua vanità l'aver vinta l'opposizione del marito. Alla fine il generale s'era rassegnato ad essere semplicemente una guida materiale, per accompagnare sua moglie dovunque ella sapeva di trovare una soddisfazione d'amore proprio o un diletto. Alle bagnature di Baden e di Vichy, alle invernate di Nizza, alle mostre mondiali di Parigi e di Londra, ai ricevimenti di corte il vecchio soldato compariva immancabilmente presentando la sua bella dama. Con un simile treno di vita cinquantamila lire di rendita sono ben poco; si fecero dei debiti, si tirò innanzi finché si poté, ma all'ultimo s'era dovuto darsi vinti ai creditori, e ridurre le spese alla modesta rendita che era rimasta per non finir male. Allora la superba signora aveva abbandonate le società aristocratiche dove, per nulla al mondo, avrebbe voluto comparire meno splendidamente di prima, e s'era messa nei circoli della borghesia, nei quali si poteva far buona figura anche con una carrozza ad un solo cavallo, e senza nessun cavallo da sella. Ed ecco in che modo Giovanni l'aveva incontrata in casa della signora Berti, e delle sue conoscenti. La galanteria aveva sempre lusingata la vanità della contessa, ma la passione non aveva mai parlato al suo cuore. Il suo stesso lusso, il suo orgoglio, avevano intimidito gli amori nascenti. Quanto a lei, amava troppo se stessa, troppo le premeva di far parlare di sé come della dama più elegante di Milano, per aver mente e cuore ad innamorarsi. Forte della sua bellezza e della sua gioventù non aveva bisogno di civetterie per farsi ammirare: e quella mancanza di civetteria, e l'altezza che le veniva dalla grande opinione che aveva di sé, le avevano fatta una riputazione d'onestà ed era stata la sua salvaguardia. Era considerata una fortezza inespugnabile. C'era voluta tutta l'eccitazione, il rapimento, la follia a cui era giunto Giovanni quella sera, nella lotta tra la sua imperiosa vitalità giovanile ed i suoi desiderii d'amore insoddisfatti, per gettare così in faccia ad una signora, che tutti giudicavano onesta, quelle tre parole ardenti come un bacio: "Siete troppo bella!". La contessa aveva ventotto anni, e di tutte le ebbrezze dell'amore non aveva conosciute che le carezze del suo vecchio marito. La passione, latente nel suo cuore, si accese come una fiamma all'urto di quello sguardo, al suono di quella voce. Ella non pensò di resistere a quel fascino come non aveva pensato mai di resistere a nessuno de' suoi desiderii. Il suo egoismo era grande come una passione; non sapeva negar nulla a se stessa. Quella notte, rientrando dal ballo, sola nella sua stanza, pianse di gioia e d'impazienza, ripensando le strette di mano e gli occhi neri e profondi di Giovanni. Dove l'avrebbe riveduto? Quando? Era tutto un orizzonte inesplorato di delizie che le si apriva dinanzi: una vita nuova. Dopo l'orgoglio di sapersi ammirata e bella, l'orgoglio più intenso di sapersi amata e la gioia d'amare. Giovanni si sentiva attirato da quella donna. La ricercava, la seguiva, la avvolgeva in una rete di passione. E quando la lontana immagine di Rachele gli si presentava alla mente, non più come una visione di cielo, ma come una meta da cui si allontanava, egli diceva come per tranquillarsi: "Questo amore passeggero per una donna maritata è un fiore che si coglie per via. Non impegna a nulla". Ma per nessuna cosa al mondo avrebbe rinunciato a cogliere quel fiore. Andava dappertutto dove sapeva di trovare la contessa; le stava sempre accanto coll'occhio avidamente fisso sulla sua persona bella. Coglieva l'occasione, nelle figure delle quadriglie, per stringerle la mano, e pareva che tra quelle mani ci fosse un filo conduttore d'elettricità che le facesse tremare all'unisono, e le congiungesse così fortemente, che il distaccarle era una pena e, separate, si ricercavano. Giovanni ballava poco. Ma una sera, trovandosi accanto alla contessa mentre intonavano una polka, le porse la mano in silenzio, ed ella accettò. Allora se la strinse al cuore come se volesse rapirla, la riscaldò, la arse in quell'abbraccio, le sfiorò i capelli, la accarezzò tutta quanta nella stretta delle due persone congiunte, poi, nel ricondurla a sedere, le serrò le mani con una forza che compendiava tutte le strette amorose, supplichevoli, ardenti, intime con cui aveva parlato a quella mano cara durante il ballo. Ma non le disse nulla. Era felice di quella passione calda che lo invadeva tutto. Si sentiva amato, s'inebriava, s'inteneriva in quelle mute dolcezze; amava di assaporarle; non sentiva il bisogno di precipitare il romanzo colle spiegazioni che lo avrebbero abbreviato. Sapeva che una spiegazione verrebbe. Vedeva la gioia suprema che lo aspettava, e lasciava che venisse da sé, di tenerezza in tenerezza, temendo quasi che, affrettando il momento supremo, avesse a perdere una di quelle sfumature del sentimento, uno di quegli episodi puerili e muti, che lo deliziavano. Pensava le spalle bianche, la vita flessibile, i capelli biondi della contessa Gemma, ricordava fremendo le sue strette di mano febbrili, i suoi lunghi sguardi innamorati; ed ardeva tutto all'idea che quella donna sarebbe sua. Dove? Come? Quando? Non ne sapeva nulla, ma era certo di possederla; e quella certezza lo inebbriava. Un giorno la signora Berti gli aveva dato appuntamento in casa sua, perché doveva presentarlo a qualcheduno misteriosamente. Infatti Giovanni trovò nel salotto della sua amica la signora del banchiere Ipsilonne, il quale era seriamente compromesso in un processo che si stava iniziando per una grossa falsificazione a danno dello stato. Una somiglianza fatale della sua scrittura con una delle firme falsificate lo accusava, e, dei due periti calligrafici chiamati dal tribunale, uno dichiarava di conoscere la mano di scritto del banchiere, e l'altro esitava, senza osare di negare la sua colpabilità. Ma in realtà egli era innocente. La moglie desolata giurava per lui, e si raccomandava a Giovanni perché ne assumesse la difesa, coll'impegno, coll'amore che aveva posto nella difesa del povero acquavitaio omicida. Era un processo interessantissimo, che prometteva all'avvocato un nuovo trionfo, e la causa di quell'uomo integro, fatalmente implicato in una truffa vergognosa, lo appassionò. Mise il suo tempo, la sua mente, il suo cuore al servizio del nuovo cliente. Impose silenzio alla sua passione, e, senza accordarsi il tempo per rivedere e salutare la contessa, si recò a Napoli, a Roma ed a Torino, per assumere documenti, prove e testimoni in favore del banchiere. Poi tornò a precipizio, perché la mattina seguente dovevano cominciare i dibattimenti. Giunse a Milano coll'ultimo treno della sera, dopo essere stato assente più di una settimana. Rientrando in casa trovò un telegramma del parroco di Fontanetto che lo aspettava da sei giorni. Partecipo con dolore morte dottor Mazza, tuo padre. Trovato esanime in letto stamane; spirato, pare, iersera. Regolamenti sanitari vietano differire sepoltura oltre ventiquatt'ore. Telegrafa ordini funerali. Dopo sei giorni i funerali dovevano essere fatti e dimenticati. Non era molto che Giovanni aveva spedita al padre una piccola somma; poi c'erano i mobili di casa. Egli pensò che ormai non c'era più bisogno de' suoi ordini, e tanto meno della sua presenza a Fontanetto, che del resto il processo del domani rendeva assolutamente impossibile. Egli aveva fatto il suo dovere, anche a costo di grandi sacrifici, sovvenendo il padre nella sua miseria; ma non era un figlio devoto. La vita da parassita, le ubbriacchezze del Dottorino, la sua servilità verso i signori, le sue violenze in casa, e l'ultimo degradamento del delirium tremens a cui lo sapeva ridotto, non lo invogliavano a correre al suo paese, per raccogliere l'eredità di sprezzo, che doveva essere l'unica successione del povero morto. Sapeva che in quel momento non avrebbe inspirata nessuna simpatia, perché era troppo viva la memoria di quell'ignobile vita e di quell'ignobile morte. E d'altra parte non gli premeva più tanto di produrre un'impressione favorevole a Fontanetto. Non s'era bastantemente arricchito per domandare Rachele, pensava. Ma in realtà, mentre cinque anni prima quel momento gli era sembrato tanto lontano, ora trovava che era troppo presto per ammogliarsi. Rispose con un telegramma, che la notizia gli era pervenuta troppo tardi e per conseguenza non aveva potuto assistere ai funerali; che confidava nel parroco, il quale certo aveva fatte le cose ammodo. Giovanni pensò con profonda tristezza la vita miserabilmente trascinata per trent'anni da suo padre, la sua morte vergognosa, tutta quell'esistenza oscura, senza elevatezza e senza affetti, e ne sentì un infinito rimpianto Il Dottorino aveva forza ed ingegno. Senza dubbio avrebbe potuto far qualche cosa; ed era passato così. Ed egli era suo figlio; forse aveva ereditato il germe del carattere paterno; forse le passioni abbiette che avevano rovinato il padre gli stavano latenti nel cuore aspettando un momento di snervatezza, d'inerzia, per svilupparsi e per vincerlo. Questo pensiero lo impaurì, gli riaccese più viva nel sangue la smania del lavoro, l'ambizione della gloria che incalza, il desiderio della ricchezza per assicurarsi l'indipendenza. E passò tutta la notte allo studio del suo grande processo per prepararsi alla difesa. I dibattimenti durarono una settimana, e furono una serie di trionfi pel giovine avvocato. Ormai era noto e famoso; ogni sua parola era aspettata, ripetuta in giro, riferita dai giornali. Il fatto solo ch'egli doveva parlare, faceva accorrere una folla di gente, stenografi, giornalisti; le sue frasi erano ridette, commentate nelle conversazioni, i suoi criterii facevano legge per molti, ed erano discussi e presi in considerazione anche dalle persone più serie. Ogni sera egli trovava alla sua porta un fascio di biglietti da visita, riceveva lettere di congratulazione, parole d'ammirazione e d'amicizia. Egli però era ancora sotto l'impressione triste della morte del Dottorino. Rientrando in casa, gli pareva sempre di doverci trovare il cadavere di suo padre, decrepito anzi tempo, morto nell'ubbriacchezza. Avrebbe voluto non pensarci, e non poteva. Ogni giorno vedeva nella tribuna la contessa che stava ad ascoltarlo. Era splendida di bellezza e d'eleganza, ed attirava tutti gli sguardi. Ma lei non guardava che il giovine difensore. Giungeva presto; quand'egli entrava era già là ad aspettarlo. Gli fissava in volto i suoi occhi d'un turchino metallico, e rimaneva immobile, cogliendo al volo lo sguardo di lui quando alzava il capo, lanciandogli un'occhiata tagliente, acuta, penetrante, che gli andava all'anima traverso le pupille. Durante la sua difesa, più volte egli la guardò; era appassionato e commosso, e sentiva il desiderio d'un volto amico. Lei era sempre nella stessa posizione, coll'occhio intento su lui, come per forza magnetica. La pupilla azzurrina era velata da uno strato vitreo: piangeva; non colla pezzuola, né con una mano sugli occhi; piangeva lasciandosi cadere lungo le guancie le lacrime lente, che pendevano tremolanti ai lati del mento, e si staccavano come perle per caderle sul seno, dove segnavano dei larghi dischi plumbei sulla seta cenerina del vestito. Giovanni era turbato da quegli sguardi, da quelle lacrime, da quella bellezza affascinante, da quell'amore prepotente che sfidava le convenienze per rivelarsi a lui. In quei giorni di tristezza sentiva d'amare la contessa con una tenerezza dolce da sposo. Non provava gl'impeti di passione sfrenata di un mese prima, non aveva il desiderio febbrile di stringerla, di stritolarla sul suo cuore, di mordere le sue carni rosee da bionda. Avrebbe voluto sederle accanto in un misterioso silenzio, e piangere sul suo seno. Ogni giorno si proponeva di andar da lei; ma differiva sempre. Si deliziava di quell'aspettativa, della stessa intensità del suo desiderio. E non cessava di pensare a lei. Il Dottorino era caduto in un tale stato d'ebetismo, che era passato dall'ubbriachezza alla morte senza forse avvedersene, certo senza poter chiamare aiuto, né aiutarsi. La Matta l'aveva trovato freddo, stecchito nel suo letto, ed era corsa ad avvertire il parroco, e questi l'aveva mandata a chiamare il procaccio per spedirlo subito a fare il telegramma a Borgomanero. "È pel signor Giovanni" diceva la Matta al procaccio. Ed era in tale orgasmo all'idea di rivedere Giovanni che non pensava più alla tragedia che era avvenuta in casa. Si fermava all'ingresso delle botteghe, e susurrava come chi teme di destare qualcuno che dorme: "È morto il padrone! È morto briaco!". E faceva atti di meraviglia; pareva che ricevesse lei quella notizia invece di darla. E quando lo stupore dei bottegai era passato un pochino, ripigliava, raggiante di gioia, come se fossero trascorsi degli anni, e non ci fosse nessun rapporto tra la nuova luttuosa della morte, e l'avvenimento felice che annunciava: "Ora il padrone è il signor Giovanni; servirò lui". La sera il parroco, vedendo che il figlio non veniva né rispondeva, disse che bisognava seppellire il cadavere. La Matta rimase atterrita. Guardò il morto, che aveva la bocca contorta come se la schernisse dalla sua cassa, e pensò che stava per andarsene. Poi pensò alla lontananza ignota del padrone giovine, e si mise a piangere ed a gemere: "Oh Dio! Come farò a trovarlo? Come farò?" Era sempre stato il suo ideale, povera donna, di servire un giorno Giovanni, di vivere con lui. Nella devozione del suo amore da schiava, non aveva mai desiderato altro che di servirlo; ma lo aveva desiderato con un'intensità passionale, ne aveva fatta la méta della sua vita in questo mondo; e quando in chiesa pensava vagamente al paradiso si figurava ancora Giovanni in alto, e lei a' suoi piedi; un atteggiamento cui non avrebbe osato aspirare nel suo stato presente, ma che le pareva d'una dolcezza paradisiaca. Intanto pregustava piaceri più terreni. Passava delle ore incantevoli ad immaginarsi di preparare un pranzo per Giovanni. Sapeva che amava il risotto, pensava tutta la cucinatura d'un risotto squisito; vi aggiungeva idealmente dei funghi, e fin dei tartufi; e rideva di gioia all'illusione di vederglielo mangiare e di sentirsi dire: "Com'è buono!". Si faceva insegnare dalle cuoche del farmacista e del parroco una quantità d'intingoli complicati, per nutrire i suoi sogni d'amore. Ed ora dov'era mai quel padrone che voleva servire con tanto cuore? Dove trovarlo? E se si fosse smarrita per via? Ed anche il morto se ne andava. Lei non lo aveva amato; ma ne aveva presa cura perché era il padre di Giovanni, e perché sentiva vagamente che quel vecchio inebetito era un legame tra la casa ed il giovine assente. Il morto fu messo sotterra; e quando la Matta tornò dal cimitero, sfigurata dal piangere lungo e disperato, trovò il parroco, che era tornato prima di lei, e faceva esaminare a parecchi creditori i mobili del defunto. I denari che riceveva dal figlio il Dottorino li spendeva all'osteria, dall'acquavitaio, dal tabaccaio; ed aveva lasciati dei debiti presso tutti i bottegai e presso il padrone di casa. "È un debito di quattrocento lire in tutto" diceva il parroco. "Poi ci sarebbe quel poco funerale, e la messa... Sul figlio non c'è da contare, perché non ha nemmanco risposto e non è venuto; ma, vendendo i mobili, se ne caverà una piccola somma che forse basterà a pagar tutti". La Matta, che era stata ad ascoltare a bocca aperta, si fece pallida e tremò. Vendere i mobili! I mobili, fra i quali aveva sognato di vivere il resto de' suoi giorni con Giovanni! Il suo letto; la tavola dove pensava sempre d'apparecchiargli da pranzo. E quei libri che gli piacevano tanto! Rimase un poco assorbita in riflessioni difficili, senza più badare ai discorsi degli altri che parlavano di vendita amichevole di asta giudiziaria di altre cose che lei non capiva. Poi se ne andò, corse ad aprire la sua cassa, e ne tolse il libretto della cassa di risparmio, che portò al parroco, ridendo di gioia cogli occhi ancora gonfi di pianto. "Cosa vuoi farne?" domandò il parroco. "Comperare i mobili..." implorò la povera donna. "Sarebbe un prestito che faresti al figlio del tuo padrone?" "Sono suoi" disse la Matta con generosa convinzione. "E il padrone è lui". "Ma dei mobili cosa vuoi farne?" "Portarli al padrone. Ma bisogna insegnarmi la strada". Il parroco rimase perplesso. Non voleva abusare della generosità stupida della povera serva. D'altra parte sapeva che i mobili del Dottorino non potevano fruttare in tutto che un centinaio di lire. Invece, le cinquecento lire all'incirca che offriva la Matta erano bastanti per pagare i creditori ed anche la parrocchia. Ci pensò a lungo, perché non aveva la mente molto svegliata; ma finì per trovare una soluzione: "Tu comperi i mobili per conto dell'avvocato" disse alla Matta. "Più, gli presti il rimanente della somma per pagare i debiti di suo padre. Io farò in modo che ti rimanga da pagare il viaggio ed il trasporto dei mobili. E tu, andando a Milano colla roba, gli dirai la cosa com'è, e ti farai restituire il fatto tuo. Gli dirai che, se non ha fede nella tua parola, scriva pure a me, ch'io attesterò del prestito che gli hai fatto di cinquecento lire...". Di tutto questo la Matta non capì nulla, assorta com'era nell'idea d'andare a Milano da Giovanni e di portargli i suoi mobili, che dovevano fargli tanto piacere. Dove fosse Milano, come potrebbe arrivarvi, non ci pensava più. Il parroco le avrebbe insegnata la strada. Andava a servire Giovanni, a fargli da pranzo, a spazzolargli i vestiti, a rifargli il letto. Come si proponeva di rivoltare le foglie del pagliericcio! di farle stare sollevate perché il letto fosse morbido! Lei non conosceva ancora i pagliericci elastici. Diceva alle vicine: "Ora non gli mancherà più nulla, poveretto. Ora sono io che lo servo!". E lo diceva con un intenerimento, con un senso d'abnegazione, come se, dacché era lontano da lei, nessuno gli avesse più resi quei servigi, e stesse squallidamente abbandonato, aspettando lei. Era trasfigurata dalla gioia. Salutava tutti dicendo: "Non mi vedrete più". Ma quella parola tristissima delle separazioni eterne, la ripeteva giubilando: non poteva cessare di ridere; quel riso era diventato una contrazione involontaria del volto; una convulsione di gioia. Passò parecchi giorni e spesso vegliò anche la notte per pulire, involgere, imballare, sempre col pensiero smarrito nelle visioni, lungamente vagheggiate, di piatti in cucinatura, destinati a Giovanni, delle scarpe di lui infilzate nel suo braccio, e lustrate, lustrate, fino alla lucentezza d'uno specchio, fino ad indolorirle la spalla pel resto della giornata. La partenza da Fontanetto sul carro, la strada ferrata, che vide per la prima volta a Novara, non la distrassero dalle sue fantasie. Osservò con ispavento i facchini che portavano i mobili verso i carri delle merci, lontani dalla carrozza di terza classe, dove il carrettiere, dandole il biglietto, aveva indicato a lei di salire; poi si avviò verso le merci per viaggiare accanto al suo deposito. Ci vollero spiegazioni infinite per farla tornare al suo posto. Guardava con diffidenza quel pezzo di carta che doveva farle restituire i mobili a Milano e lo teneva preziosamente stretto in mano, sebbene dubitasse del suo valore. Il carrettiere le disse: "Vedrete come si va presto là dentro. Altro che sul carro!" Ma lei non gli diede retta rispose soltanto: "Siete sicuro che me li restituiranno quando sarò a Milano?" Si avvide appena della rapidità della corsa; non poteva essere bastantemente rapida pel suo desiderio. Scendendo a Milano si gettò sul primo impiegato delle ferrovie che vide, col suo biglietto in mano, e non badò a nulla, fuorché alla ricerca dei mobili. Il facchino che li caricava, vedendo quella specie di selvaggia, le disse: "È la prima volta che venite a Milano?" La Matta stese ansiosamente le mani verso uno stipo sgangherato che egli stava sollevando e non rispose. "Vedrete com'è grande e bella Milano!" tornò a dire il facchino. "Più del vostro paese. Di dove siete?" "Badate che non si rompa; posatelo pianino" gridò la Matta tutta assorta nella responsabilità di quello stipo. Percorse le contrade, a piedi, dietro i due carri tirati dai facchini, cogli occhi fissi sui mobili, senza badare ad altro. In piazza del Duomo il facchino ciarliero si voltò per godere della sua meraviglia. Ma la Matta non guardava il Duomo. Pensava che stava per veder Giovanni, per comparirgli dinanzi improvvisamente, le batteva il cuore, ed aveva una inesplicabile paura. Poi pensava alla gioia che proverebbe ricevendo i suoi mobili. "Tanta bella grazia di Dio che volevano vendere!" Il facchino le gridò: "Ohe! Guardate un po' in su. È più bello del San Gaudenzio di Novara". La Matta alzò gli occhi; vide una massa bianca e smisurata colla Madonna in cima, si fece il segno della croce, poi riprese a camminare a capo chino. "Stupidi villani!" mormorò il facchino ambrosiano; e diede un urtone al carro dei mobili, per vendicarsi. La Matta aveva un bigliettino che le aveva dato il parroco coll'indirizzo di Giovanni, Via del Capuccio N... Non aveva voluto darlo al facchino, l'aveva presentato tutto spiegazzato a due o tre persone domandando ansiosamente: "Dov'è? Da che parte si va?" Ed aveva preteso di dirigere i facchini dietro quelle indicazioni. Furono essi invece che la guidarono, e si fermarono al portone che a lei, incapace di leggere i numeri, sarebbe sfuggito. Giovanni non era in casa. Lo scrivano dello studio aperse l'uscio, e rimase sbalordito al vedere quella contadina seguita da due uomini carichi di vecchi mobili. Il giovine avvocato non aveva che lo studio, con un salottino annesso, e la camera da letto. Lo scrivano esitava a lasciar ingombrare le stanze con quelle anticaglie. Ma la Matta lo guardò ben bene in aria di sfida, e gli disse: "Sono i suoi mobili, ed io sono la sua serva". D'altra parte i facchini grugnivano "che non potevano rimaner sull'uscio eternamente con quei pesi sul capo". Bisognò lasciarli deporre il carico, una volta, due, tre, finché ebbero vuotati i carri. C'era una stia sulla scrivania dell'avvocato, e la vecchia libreria vuota, posata contro l'armadio della camera da letto, ne nascondeva lo specchio. Nel vano del balcone entrò come una nicchia il cassone dei libri, e dappertutto seggiole zoppicanti, materassi rotolati, fodere da pagliaricci, credenze. La Matta contemplò avidamente il mobiglio del piccolo quartiere che le parve splendido. "Questa però non è roba sua", pensava. Aveva una vaga rimembranza di discorsi uditi quando Giovanni era all'università, che non aveva bisogno di portarsi un letto né altro perché gli dava tutti i mobili la padrona di casa. "Sono più belli dei suoi" diceva fra sé guardando il letto di ferro vuoto, e le modeste poltroncine di damasco di lana, "ma sono troppo belli, danno soggezione. Non si potrebbe prendere la rincorsa e saltare su quel tavolino, lucido a quel modo; ci resterebbe l'impronta dei piedi..." E, tutta rasserenata a quell'idea gioconda dei salti che Giovanni faceva da fanciullo, riprese a sorridere alle vecchie tavole che ingombravano il passaggio. "Come si troverà più libero fra questi mobili suoi che conosce..." E si figurò di vederlo rallegrarsi di quegli oggetti come di vecchi amici; le pareva che dovesse guardarli ad uno ad uno, e ridere delle memorie che gli richiamavano, e quasi accarezzarli, e poi dire a lei che era contento di riavere la sua roba, e che aveva fatto tanto bene a portargliela, guai se l'avessero venduta! E fregarsi le mani, e saltare, e dire: "Ora sì che mi sentirò in casa mia, e staremo bene!" Era tutta animata evocando col pensiero l'immagine del bel giovinetto che era partito dal paese cinque anni prima, ma se lo figurava più gaio, più felice pel dono che lei gli portava. Guardò i suoi abiti appesi ad un attaccapanni, li rivoltò da ogni lato, introdusse timidamente una mano nella fodera d'una manica, poi sorrise e disse forte: "È seta!" Vicina al letto c'era una poltroncina, e sul tappeto una pianella capovolta. La raccolse, cercò sotto il letto la compagna, e le dispose una accanto all'altra. Accarezzò lo schienale imbottito della poltrona, passò leggermente una mano sul sedile; le batteva forte il cuore; si sentiva opprimere; cedendo ad un'attrazione irresistibile, si guardò intorno come se temesse di venir sorpresa, poi si mise a sedere sull'orlo di quella poltroncina dove sedeva lui. Una specie di ebbrezza la invadeva; tremava tutta; era commossa e finì per abbandonarsi ad un pianto silenzioso e dolce. Finalmente s'udì il campanello. La Matta balzò in piedi e corse all'uscio dello studio. Era lui che tornava di certo; e lei era là in casa sua a riceverlo, a servirlo. Come doveva essere contento di vederla là! Le si struggeva il cuore dalla tenerezza. Diede un'occhiata rapida al letto laggiù in fondo alla camera, ed all'uscio, e le splendevano gli occhi come due fiamme. Forse pensava se traverso la toppa si potesse vederlo dormire, come laggiù nella stanza di Fontanetto. S'udì lo scrivano aprire l'uscio del salotto, poi una bella voce, sonora come una musica di chiesa, disse in tuono di grande meraviglia: "Che cosa c'è?" "È giunta una contadina... La sua serva..." rispose lo scrivano. La Matta che s'era sentita commossa fin nelle viscere da quella voce, ringoiò un singhiozzo che la strozzava, e s'affacciò all'ingresso del salotto gridando: "Son io, signor Giovanni, son io!". Poi si mise le mani giunte fra le ginocchia, e stette a guardarlo dondolandosi e ridendo, ridendo finché gliene rimasero gli occhi pieni di lacrime. "Oh! sei tu, poveretta! Come va? Come va?" disse Giovanni cordialmente. La Matta non poté che rimettersi a ridere, perché quel gruppo in gola non la lasciava parlare. "Mi fa piacere di vederti" soggiunse l'avvocato, battendole una mano sulla spalla. "Brava! mi fa piacere". Questa volta il gruppo uscì dalla gola in un singhiozzo, e la povera donna si nascose il volto nelle cocche della pezzuola del capo che le pendevano sotto il mento. "Via via" tornò a dirle Giovanni affettuosamente, "non agitarti. Siedi. Riposati. Parleremo più tardi". Ed entrò nella sua camera. Ma ne uscì presto, stette un momento sull'uscio per assicurarsi che il primo impeto di commozione era passato poi disse: "E così? Com'è che hai portati questi mobili?" "Sono suoi" rispose la Matta, ed il suo volto s'irradiò di gioia nel dargli quella nuova consolante. "E tu hai fatto il viaggio apposta per accompagnarli?" domandò Giovanni, senza esternare il piacere che la Matta s'aspettava. "Sei stata ben buona, e te ne ringrazio". La Matta ripeté ancora: "Era giusto; sono suoi". "E non ci sono debiti da pagare laggiù?" "No, no. È pagato tutto". Giovanni aveva mandato sufficiente denaro a suo padre per poter credere facilmente che fosse morto senza lasciar debiti, ed avanzando da pagare i funerali. Fece un giro nello studio, guardando la stia sulla scrivania, due panche da letto ritte contro un casellario, pigliando in mano una vecchia cassetta pel sale, che era sulla tavola dello scrivano; poi tornò dalla Matta e ripeté i ringraziamenti. "Sei stata troppo buona davvero. Non metteva conto di venire fin qui per questi cenci. Si sarebbe potuto venderli là; oppure avresti potuto tenerli". "Oh, sono suoi" disse per la terza volta la povera donna col cuore serrato. "Non importa" riprese Giovanni, "te li regalerei volentieri in compenso delle cure che hai avute pel povero babbo". La Matta si sentiva gelare il sangue di dentro. Non era l'accoglienza che s'era aspettata; le pareva che la mettesse fuori dell'uscio, e tremava tutta di vedersi sola nel mondo. Giovanni, vedendo che rimaneva a capo chino senza rispondere, credette di comprendere, e ripigliò: "Ma forse non sapresti dove metterla questa roba; non puoi portartela in casa dei padroni. Dove andrai ora?" le domandò con affettuosa premura. "Hai trovato da collocarti?" Fu un colpo di pistola in mezzo al cuore per quella serva devota. Non la voleva! Non ci pensava nemmeno di tenerla con sé! Quella delusione la colpì così dolorosamente che si lasciò ricadere sulla sedia e si mise a piangere ed a sospirare: "Oh povera me! O povera donna me!" Giovanni le sedette accanto, cercò di consolarla. "Non affliggerti così. Se non hai padrone, lo troverai; intanto puoi rimanere qualche giorno qui, e poi ti darò del denaro perché tu possa aspettare in casa della tua balia finché non ti capiti da collocarti bene. Sai che non sei una donna abbandonata. Ho de' doveri verso di te, e li riconosco volentieri..." Passeggiò su e giù per la stanza, come impacciato dalla presenza di quella donna, poi guardò l'orologio e vide che erano le sei: "Ma tu avrai fame" disse con premura. "Io pranzo alla locanda e qui non ho nulla da darti. Ti farò accompagnare ad un albergo qui accanto, dove ti daranno da mangiare, ed anche da dormire. Potrai fermarti due, tre giorni, fin che vorrai. Sono buona gente. Le ragazze ti condurranno fuori a vedere Milano". La Matta non si moveva. S'era tirata giù la pezzuola fin sulla fronte, e rimaneva muta colla testa bassa. "Non vuoi venire? Che cosa vuoi fare?" domandò Giovanni con un lieve tono d'impazienza. Lei sentì che doveva rispondere, e facendo uno sforzo sovrumano balbettò: "Io non so". Egli era avvezzo a quella parola inconsapevole della povera scema, ma in quel momento, vedendo che rifiutava di andare a mangiare e dormire, mentre doveva averne tanto bisogno, pensò che forse le mancava il denaro, ed aprendo il cassetto della scrivania, ne trasse un biglietto da cento lire, e glielo mise in mano dicendole: "Prendi. Questo è per te. Ti pagherai le spese all'albergo, ed il viaggio quando vorrai tornare al paese. Ed in ogni occorrenza che tu abbia bisogno, fammi scrivere, perché sei sempre stata buona e non ti abbandonerò". Era una sentenza definitiva. Non voleva tenerla con sé. Era finita, non c'era più speranza. Il lungo sogno della sua povera vita svaniva, il suo grande amore da schiava era respinto dal padrone. In quella immensa rovina parve alla Matta che il mondo crollasse intorno a lei, che la spingessero sola in un immenso deserto. Le venne in mente l'asino del mugnaio che girava sempre sempre intorno ad un palo per far girare la macina, e, quand'era vecchio e non girava più, lo conducevano a Borgomanero e lo vendevano per poche lire. E pensò che lei era come quell'asino. Si rizzò convulsa, scese le scale barcollando, Giovanni la seguì. Provava una grande pietà per quella povera creatura. La condusse egli stesso in un piccolo albergo modesto, dove altre volte aveva mangiati i suoi modesti pranzi da una lira, e la raccomandò all'albergatrice. Poi le disse prendendole una mano come avrebbe fatto con una signora: "Sei stanca, poveretta. Ora mangerai bene, berrai un buon bicchiere di vino, e ti metterai a letto. Addio; stai di buon animo. Vieni a trovarmi prima di partire. E se hai bisogno di me, ricordati". Se ne andò commosso e pensoso. Quella comparsa gli faceva tornare alla mente vaghe e lontane le immagini del passato: il suo poetico amore, mezzo morto, soffocato dalla passione che lo divorava. Ma quello era l'amore dell'avvenire, l'amore dell'età tranquilla, il riposo, la pace. Ora aveva nell'anima la tempesta. Quell'ultimo giorno la contessa lo aveva magnetizzato, bruciato coi suoi lunghi sguardi. In certi momenti era penetrata nel suo cuore fino a fargli tremare la voce, a mettergli un singhiozzo in gola. Colla fissità innamorata di quegli occhi larghi e chiari gli aveva detto ancora ed ancora che lo amava, che era sua. Ed egli sentiva che era vinto, che non potrebbero più vivere separati, che avevano assaporate tutte le note dell'incantevole preludio dell'amore, che erano giunti a quello stato d'esaltamento che rende felici od uccide. E per essi non c'erano ostacoli, non dovevano morire. Quella notte vegliò febbrilmente sognando l'ultimo rapimento dell'amore confessato, la gioia ineffabile e crudele di possedere quella donna, d'abbandonarsi a lei, di confondere le loro vite in una passione colpevole. Il mattino fece sgombrare lo studio dei vecchi mobili di suo padre. Incaricò lo scrivano di farli mettere sul solaio, e di riporre i libri nella libreria. Aspettava qualche cosa; era agitato; avrebbe voluto che la sua casa fosse bella. Non osava pensare che la contessa poteva venire; ma aspettava qualche cosa da lei; era certo di vederla; quel giorno sarebbe andato e le avrebbe detto che la amava. Ma sperava che lo scrivesse prima lei. Andò a sedere alla scrivania; ma era impaziente. Ad ogni scampanellata guardava l'uscio ansiosamente; se tardavano ad entrare, gridava allo scrivano che era andato ad aprire: "Chi è?" Una volta lo scrivano gli rispose: "È il cameriere della locanda. Viene per quella donna di ieri..." "Ah! Va bene, pagalo" rispose Giovanni distratto. Ma poco dopo lo scrivano rientrò: "Dice che vuol parlare con lei". Giovanni accennò col capo di sì, e guardò il cameriere per invitarlo a parlare. Questi crollò il capo, poi disse: "Era disperata, povera donna!" "Disperata! Perché?" "Non so. Non ha voluto parlare. Andò a rannicchiarsi in un angolo della bottega e rimase tutta la sera cogli occhi da spiritata. Urlava come un cane rabbioso, e si cacciava le unghie nella fronte". "Ma cosa aveva?" domandò Giovanni. "Sie... Aveva un bell'interrogarla in tutti modi, anche la padrona. Non rispondeva nulla, la respingeva ed urlava più forte. C'è voluto tutto a farla andare in camera quando si dovette chiudere l'albergo. E tutta notte l'abbiamo udita gemere. Poi questa mattina la padrona la trovò ancora rannicchiata in terra; non s'era messa a letto. Disse che voleva tornare al suo paese, e non ci fu verso. Bisognò metterla nell'omnibus e condurla alla stazione pel primo treno di Novara. Non sapeva neppure prendere il biglietto; l'ho preso io..." Giovanni rimase impensierito. Aveva ascoltato un po' distrattamente, ma pure s'interessava della povera serva; disse a mezza voce: "Cosa potrà avere? Ma!". Poi pensò che i campagnoli non sanno stare lontano dai loro paesi. Quella poi non se ne era scostata mai, ed era un po' scema; s'era spaurita... Prima che il cameriere uscisse, s'udì un tocco del campanello; e portarono una lettera a Giovanni. Era la lettera della contessa. Egli si alzò, e corse a leggerla solo nella sua stanza. Alla Matta non pensò più. La bella contessa Gemma, avvezza ad appagare tutte le sue brame ad ogni costo, appena s'era sentita nascere nel cuore un amore, vi si era abbandonata senza la minima resistenza; l'aveva anzi fomentato coll'immaginazione, aveva pregustate con delizia le sorprese di quella nuova gioia che si prometteva. S'era figurata l'ora inebbriante e soave della confessione; le parole ardenti, gli sguardi innamorati e profondi, le carezze febbrili; ed aveva vissuto quell'ora col pensiero, coll'ansia del desiderio; ne aveva provate le emozioni, intense fino allo spasimo, fino al delirio; e di giorno in giorno aveva detto: "Sarà domani". Poi i domani s'erano succeduti monotoni e lenti senza portare nessun avvenimento nel suo romanzo d'amore; ed allora la contessa s'era sentito stringere il cuore da apprensioni paurose: "Se non lo vedessi più? Se non mi amasse? Se quella sera avesse ceduto ad un'eccitazione momentanea e poi l'avesse scordata come si scorda un'ora d'ubbriachezza?". Ed allora le era parso che le mancasse qualche cosa di profondamente caro, di necessario alla sua esistenza; aveva provato un bisogno potente che, comunque fosse, ubbriachezza, eccitazione, delirio, quella sensazione durasse nell'animo di Giovanni; oppure si rinnovasse, se quel breve tempo l'aveva dissipata. E s'era data a cercarlo affannosamente nelle case ch'egli frequentava, ai teatri, alle feste, studiando le abbigliature e le scollature più provocanti, facendosi bella e seducente per riconquistare quella dolcezza, che l'aveva inebbriata un momento ed era svanita. E da ogni ricerca tornava prostrata, irritata, nervosa; s'abbandonava a pianti convulsi, ed accessi di furia; spezzava quanto le cadeva sotto mano, maltrattava la cameriera, lacerava abiti e trine, scriveva lettere disperate, poi le lacerava anch'esse. Finalmente aveva saputo che egli era assorto in un processo di grande importanza; e lei era corsa a cercarlo alle udienze, aveva preso il posto più in evidenza nella tribuna, aveva fatto pompa delle commozioni che provava nell'ascoltarlo, s'era gloriata superbamente di quel sentimento tutto nuovo pel suo cuore frivolo, e che metteva una nota romantica nella sua vita. Per tutta la durata dei dibattimenti, aveva scandagliato il giovine avvocato colla fissità delle sue pupille metalliche; gli aveva trasfusa nell'anima traverso gli occhi un'onda d'amore, l'aveva attirato a sé colla potenza d'una passione imperiosa, d'una volontà irresistibile. E lo aveva veduto arrossire, impallidire, tremare, commoversi sotto suoi sguardi, ed aveva riprovata la gioia suprema di sapersi amata. Ma ancora i giorni s'erano succeduti, e Giovanni non era andato da lei. Tornando dalla grande seduta quell'ultimo giorno, ardente d'entusiasmo, ardente d'amore per quel giovine dalla voce armoniosa e profonda che strappava lacrime ed applausi a tutti, la contessa aveva rotto ogni freno di riserbo femminile, e, nella sua impazienza, aveva scritto: "Perché non venite? Non sapete che vi amo?" Quella lettera mise la febbre nel sangue a Giovanni. Dopo il lungo studio e la lunga fatica di quel processo che lo aveva occupato esclusivamente, si gettò con un ardore da assetato in quella festa d'amore che la fortuna gli offriva. Corse come un pazzo dalla contessa, dimentico dell'ora, delle convenienze, di tutto. Erano appena le undici del mattino. Fu introdotto in sala da pranzo, dove il generale e sua moglie stavano a colazione. Giovanni rimase istupidito come uno che si svegli improvvisamente da un bel sogno. Non gli pareva possibile che quella signora, seduta compostamente a tavola, che mangiava una bistecca discorrendo del più e del meno con quel marito vecchio, fosse la stessa eroina da romanzo che gli aveva scritto: "Non sapete che vi amo?" In un momento tutta la sua illusione inebbriante si dissipò, gli parve di aver delirato, e che non fosse vero nulla, e che dovesse trattare sempre quella bella donna come la trattava in quel momento davanti al conte. Quell'ambiente tutto impregnato d'odori di vivande, colla mensa coniugale, coi cerchietti dei tovaglioli marcati coi nomi dei due sposi, colle biancherie colle loro cifre, con una quantità di cosette di uso comune che li vincolavano, non era fatto per udire proteste d'amore, e le soffocava in gola. Un momento Giovanni pensò che quella lettera era stata un artificio per ottenere una visita che egli tardava troppo, e forse anche per ischernirlo di quel momento d'aberrazione, in cui egli s'era lasciato sfuggire quell'esclamazione stravagante: "Siete troppo bella!" Stette ad assistere alla colazione, comprendendo appena le domande che gli facevano sui particolari del processo, rispondendo lungamente come se, per giustificare in qualche modo la sua presenza a quell'ora, volesse persuadere il generale che era andato appunto per portare quelle nuove. Era imbarazzato di trovarsi là, e non sapeva come andarsene. Guardava la contessa e la vedeva così tranquilla, sorridente, felice, che non poteva più figurarsela tribolata da una grande passione. Senza dubbio il solo pazzo era lui. Finalmente il conte si alzò da tavola, porse la mano al visitatore, e, coll'aria rassegnata d'un uomo avvezzo a piegarsi alla volontà della moglie, domandò di uscire per fumare un sigaro: "Gemma non può tollerare l'odor di tabacco in casa". E se ne andò. Appena egli fu scomparso parve che l'ambiente della stanza si mutasse; la prosa era uscita con lui. La contessa, ritta accanto all'uscio che aveva chiuso dietro il generale, sembrava trasfigurata. Le sue pupille turchine mandavano lampi acuti come punte d'acciaio; tremava tutta. Giovanni le si fece incontro, e sentì che le parole d'uso, i saluti convenzionali non erano più possibili. S'erano compresi e spiegati troppo; erano due innamorati, soli per la prima volta, l'uno in faccia all'altra. Stese le mani in silenzio; Gemma gli porse le sue, e stettero così un momento colle mani strettamente congiunte, cogli occhi fissi, muti, palpitanti, inteneriti. Poi Giovanni se l'attirò accanto, la serrò in un abbraccio ardentissimo, silenzioso, mentre lei, sopraffatta dalla violenza dei suoi sentimenti, si abbandonava ad un pianto convulso. Da quel giorno Giovanni e la contessa Gemma divennero inseparabili. Dovunque essa andava, si era certi di vederla accompagnata da lui. Alle sue serate, ai suoi pranzi d'invito il giovine avvocato era immancabile come uno della famiglia. Era difficile giungere prima di lui e partire dopo. Dal canto suo la contessa era assidua in tribunale quando Giovanni perorava qualche causa; si teneva al corrente di tutti i processi che gli erano affidati, e si gloriava dei trionfi di lui come d'una cosa che la riguardasse. Quel primo amore a trent'anni, nella pienezza del suo sviluppo fisico, della sua esperienza di donna, s'era rivelato alla prima imperioso, violento, intollerante d'ogni freno. Pareva che ella si compiacesse a far pubblica la sua relazione con Giovanni come per dire alla gente: "Badate, questo uomo è mio". Vivevano quanto più potevano insieme; in mezzo ad un circolo di conoscenti sapevano cogliere il momento per rivolgersi qualche parola sommessa, per isfiorarsi la mano nel porgersi una tazza di tè, nel leggere insieme un giornale. Davano appena, lui al lavoro, lei alle esigenze della vita elegante, il tempo e l'attenzione che erano strettamente necessari. Poi si cercavano, si rinvenivano, dimenticavano ogni cosa per assorbirsi l'uno nell'altra. Sovente, a tarda sera, uscendo dal teatro, si facevano condurre fino ai bastioni lontani di Porta Nuova, poi mandavano la carrozza ad aspettarli a Porta San Celso e facevano a piedi sulla neve quel lungo tratto di strada, rabbrividendo di freddo, stringendosi l'uno all'altra per riscaldarsi, correndo, parlando poco, beati di sentirsi uniti e soli e liberi nella misteriosa oscurità. Se per necessità di professione Giovanni doveva allontanarsi da Milano, la contessa scompariva al tempo stesso, e ricompariva soltanto quand'era tornato lui. Si dava appena la briga di immaginare una parente lontana che era stata a visitare in campagna, ma senza curarsi di farlo credere. Inventarono alcune di quelle follie temerarie che i giornali pettegoli amano di narrare, nascondendo male i nomi dei protagonisti sotto il trasparente velo dell'anonimo Fecero l'ascensione del Monte Rosa vestiti tutti e due della medesima stoffa grigia, colla stessa cravatta, gli stessi stivaletti, lo stesso cappello di feltro ornato d'un pennacchietto e di una sciarpa bianca, gli stessi guanti. Sull'alpenstok, sotto il nome del picco e la data dell'ascensione, fecero incidere le loro iniziali riunite, e, lungo il viaggio, sugli album degli alberghi, s'inscrissero sempre come sposi in viaggio di nozze, mettendo accanto ai loro nomi delle frasi sentimentali. Un'altra volta andarono a Monte Carlo, giocarono fin all'ultimo soldo, e dovettero rimanere in pegno all'albergo finché Giovanni ebbe telegrafato a Milano, e gli fu spedito il denaro del ritorno. Il generale ignorava forse quelle spedizioni di sua moglie; oppure le conosceva, e si era rassegnato. Comunque fosse, la relazione della contessa col giovine avvocato non era un mistero per nessuno. Era una di quelle situazioni che la gente tollerante accetta malgrado la loro illegalità, che le persone ammodo tengono a distanza, ma a cui tutti finiscono per avvezzarsi. Anche i due amanti ci si avvezzarono, e dopo qualche tempo, esaurito il repertorio delle follie amorose, tirarono via ad amarsi tranquillamente come due sposi. Era un amore troppo sicuro e palese per creare situazioni da romanzo. Non c'era il mistero né la paura affannosa d'essere scoperti. Tutto procedeva liscio in quella passione spensierata e gioconda che si alimentava più di monellate che di sentimentalità languenti; era un amoretto più che un amore, e per questo durava. Tuttavia Gemma, sotto quell'apparenza giuliva d'amoretto galante, nutriva una forte passione nella quale aveva concentrata tutta la poesia d'un primo amore, tutto l'ardore dell'età matura. Mentre invece Giovanni, sedate le prime tempeste, s'era fatto de' suoi rapporti con la contessa una dolce abitudine, che lo riposava da' suoi lavori senza distrarnelo troppo, che non lo turbava con impazienze ardenti né con gelosie, che gli lasciava tutta la sua serenità di spirito. E gliene era grato, e le era affezionatissimo. Tratto tratto ripensava le sue lontane ambizioni di farsi ricco per strappare al signor Pedrotti il consenso di sposare Rachele. Ora era ricco, guadagnava cinquantamila lire all'anno. Ma quanto tempo c'era voluto! Fortuna che quella giovinetta non s'era impegnata ad aspettarlo. Ormai doveva essere maritata, e madre di famiglia. In certi giorni noiosi, monotoni, sospirava che anche lui avrebbe voluto esser padre di famiglia, e che invecchiava solo, e più tardi non avrebbe nessuno intorno per amarlo... Ma poi rivedeva la contessa, passava delle buone ore con lei, e non ci pensava più. Così passarono degli anni, durante i quali la fama, la fortuna, la situazione sociale di Giovanni si consolidarono. Non era più un giovinotto; aveva trentacinque anni: era un uomo serio; si trovava alla testa di uno dei principali studi legali di Milano; possedeva un appartamento signorile; era decorato della croce dei Santi Maurizio e Lazzaro, ed era certo d'essere portato candidato alle prime elezioni. La contessa era sempre bella, e, con quella tenacità che è particolare alle donne, sempre innamorata. Finché Giovanni fu assiduo presso di lei, e devoto ai suoi desideri, fu felice anche lei di quell'amore sereno in cui tutto era piacere e diletto. Ma venne il tempo in cui anche le formalità della galanteria furono messe da parte, e, gradatamente, senza quasi avvedersene, Giovanni trascurò di mostrarsi innamorato, e lasciò troppo comprendere che considerava l'amore coll'occhio d'un uomo serio. "Questa" diceva, "è la parte privata della mia vita: non deve invadere il terreno della parte pubblica. Ho altri doveri: lo studio, il tribunale, gli affari, la politica. Debbo leggere i giornali, frequentare i circoli. Quando sono libero non domando di meglio che stare con te. Ma non posso passare le giornate a farti la corte. Sai che ti voglio bene..." La bella Gemma invece s'era fatta delle idee da romanzo; sognava la passione esclusiva ed eterna, non poteva rassegnarsi a quel cambiamento di Giovanni, ne cercava le cause, scriveva lunghe lamentazioni, e quando rivedeva l'amante, occupava le poche ore ch'egli poteva dedicarle a fare scene di risentimento e di gelosia. Giovanni, in realtà non aveva fatto nessun cambiamento. Egli, che l'aveva sempre amata ad un modo, e soltanto aveva smessa un po' la galanteria e le dimostrazioni a misura che era cresciuta l'intimità, non capiva di che cosa ella si lagnasse, la trovava esigente ed ingiusta. "Alla nostra età" le diceva, "non possiamo più abbandonarci alle follie amorose come due giovinetti". Quelle parole sembravano crudeli alla contessa. Si disperava ch'egli la trovasse vecchia. "Ecco" diceva, "è per questo che non mi ama più". E si torturava di gelosia se egli avvicinava una donna più giovine di lei. Giovanni ci metteva della buona volontà per renderla contenta; tornava studiatamente alle frasi amorose, si metteva in ginocchio, le baciava le mani. Ma era troppo uomo per non avere un certo sussiego in società: ed in presenza della gente ripigliava il suo contegno serio che affliggeva tanto Gemma. "Debbo farlo per rispetto alle convenienze" diceva, "per rispetto a te stessa". Ma lei, che ripensava sempre con rimpianto il tempo in cui egli pure non si curava di quel rispetto, non rinunciava alla speranza di vederlo rinascere, ed insisteva a cercare la causa che rendeva freddo il suo amante. Più d'una volta lo mise nell'imbarazzo frapponendosi tra lui ed una supposta rivale. Una sera, mentre egli si disponeva ad accompagnare al pianoforte la giovine sposa d'un suo amico che doveva cantare una romanza, la contessa dichiarò che stava male, che aveva bisogno di ritirarsi immediatamente perché si sentiva svenire, e obbligò Giovanni ad uscire per ricondurla a casa, prima che la signora avesse potuto cantare. Giovanni uscì irritatissimo, ed appena fu solo in carrozza con lei si lagnò che lo rendesse ridicolo con quelle scene. Ne seguì una lite aspra, che durò per tutta la strada, poi un lungo malumore, uno scambio di lettere desolate, supplichevoli, umili da parte della contessa, fredde da parte di lui, e finalmente una riconciliazione stentata. Così tirarono avanti del tempo ancora, un po' in pace, un po' in guerra, ritrovando tratto tratto qualche raggio della passata felicità, illudendosi d'averla ricuperata, poi ricadendo nelle liti, nei malumori per una puerilità, per un saluto che Giovanni rivolgeva ad un'altra, per un atto di poco riguardo verso Gemma. Nell'inverno una signora, artista di canto, che aveva una lite con un impresario teatrale, andò a consultare l'avvocato Mazza e gli affidò la sua causa. Giovanni dovette recarsi più volte da lei per avere informazioni ed istruzioni. Era una bella donna e la gente pettegola non perdette l'occasione di ciarlare a proposito di quella nuova relazione dell'avvocato. La contessa divenne inquieta, sospettosa, pazza di gelosia. Pretendeva che Giovanni rinunziasse a quella causa. Implorava questo come una prova d'amore, e non poté ottenerla. Giovanni era infastidito di quelle esigenze strane, e diventava meno condiscendente ogni giorno. Fu un tristo carnovale per la contessa, che si sentiva trascurata, e vedeva con dolore il suo amante sfuggirle a misura ch'ella metteva più passione e studio per trattenerlo; sfogava il suo malcontento in dispettucci meschini che inasprivano tutti e due. Una sera in teatro uscì improvvisamente dal palco a metà dello spettacolo perché Giovanni aveva salutata la sua cliente, che era nel palco di contro. Poi venne la quaresima; non c'erano più spettacoli teatrali, e poteva meno sorvegliare Giovanni. Se non andava da lei, se non lo incontrava in qualche casa di comuni amici, si figurava che fosse dalla cantante; nessuna ragione valeva a persuaderla del contrario. Giovanni finì per impazientarsi e non iscusarsi più. Allora ella s'abbandonò ad una vera persecuzione contro l'artista. Fece inserire degli articoli malevoli sul suo conto in un giornale teatrale, e giunse persino a scriverle delle lettere anonime, accusandola di fingere una lite per sedurre un avvocato illustre e ricco. Giovanni, a cui la cantante comunicò quelle lettere, rimase male; s'irritò della situazione ridicola in cui lo metteva la contessa, e nel suo giusto sdegno le rimproverò acerbamente la sua ignobile azione. Fu la crisi decisiva che doveva rompere quella relazione già troppo prolungata e violenta. La contessa, quando si vide abbandonata, nella sua gelosia insensata, non pensò che a ravvivare l'amore di Giovanni rendendo lui pure geloso. E si fece vedere in pubblico accompagnata da un giovinotto che la corteggiava da qualche tempo, ed ostentò di trattarlo con confidenza, di accordargli delle libertà che lasciavano supporre relazioni molto intime fra loro. Giovanni lo vide, e ne provò un profondo disgusto; ma non fu geloso, non andò a rimproverare alla bella infedele la fede tradita, non scrisse lettere disperate. Il suo cuore s'era fatto freddo per lei e rimase freddo. Allora, nella sua nervosità febbrile, la contessa si abbandonò davvero ad un amore che non sentiva, per vendetta, o per dispetto, o per amor proprio, o per tutte e tre le ragioni unite; ed, eccessiva in tutto, prese una risoluzione pazza, che annunciò lei stessa a Giovanni, in un'epistola insensata e crudele. Forse prese quella risoluzione unicamente per scrivere quella lettera. Vi avevo giudicato troppo bene - diceva per concludere una serie di periodi amari e pungenti -. E voi non meritate il mio amore. Finché aveste bisogno d'una relazione nella società alta per farvi strada, fingeste d'amarmi. Ora che avete una situazione, mi abbandonate come un ingrato. Ma non vi state a figurare d'avermi avvilita col vostro disprezzo, e ch'io debba passare il resto de' miei giorni a rimpiangervi; non siete degno di tanto. Se voi non mi trovate più troppo bella, e neppure bella a sufficienza per riscaldare il vostro cuore d'uomo positivo, c'è chi mi trova ancora bastantemente bella per consacrarmi tutta la sua vita, per sacrificarmi la sua posizione come voi non avete saputo sacrificarla mai, per sfidare l'opinione del mondo, il vostro idolo. Siate felice colla vostra conquista da palcoscenico; io cercherò di dimenticare, nell'amore d'un uomo generoso, un altro che non lo fu mai... Prima che Giovanni ricevesse quella lettera violenta e verbosa da amante offesa, tutta Milano parlava della fuga della contessa Gemma col suo nuovo amante. Quella vendetta mostruosa di passare freddamente, e per pura pazzia gelosa, da un uomo che amava ad un indifferente, finì di disgustare Giovanni; si sentì deluso, oltraggiato, diffidò della dignità umana. Certo, nel suo amore per la contessa, non aveva mai posta molta idealità. Aveva subito il fascino della bellezza, dell'eleganza. L'aveva conosciuta quando egli era nel completo sviluppo della sua gioventù, dopo una vita di privazioni, e col cuore e la fantasia eccitati da un lungo amore contrariato. Aveva ceduto alle tendenze della sua età, ed era stato felice ed infelice con quella donna, senza averne un alto concetto morale, curandosi appena del suo animo, del suo carattere. Era certo di non trovarsi mai nel caso di darle il suo nome, e s'appagava di trovarla bella, spiritosa, ammirata. Era un'amante che lusingava il suo amor proprio, che lo rendeva felice e lo manteneva di buon umore, senza che egli la mettesse nel suo pensiero al disopra di tutte le donne. E tuttavia, la sua parte di vanità umana non gli avrebbe mai permesso di credere che la donna amata da lui potesse scendere tanto in basso. E quando dovette riconoscerlo, dubitò di tutte le donne, pur di non credere che gli era toccata appunto la peggio. E, mentre, non amando più la contessa, non provava alcun dolore nel perderla, si sentiva desolato, infelice, solo. Era la sua ultima illusione che la bella fuggitiva s'era portata con sé; ed era quella che egli rimpiangeva. Ebbe un momento di aberrazione, in cui si buttò a corteggiare disperatamente la sua cliente artista di canto, come per ravvivare con un'altra passione, o apparenza di passione, i sentimenti che si sentiva morire nell'anima. Ma quella giovine era talmente avvezza ad essere corteggiata, che trovò naturale di esserlo da lui, e non ne fece caso. Soltanto quand'egli volle spingere le cose più innanzi, gli disse netto netto che, in quel momento, aveva una relazione di cuore. Era facile capire che, senza quella circostanza, avrebbe accolte ad ogni modo le sue profferte, quand'anche la sua relazione con lui non avesse potuto essere di cuore. Fu una nuova amarezza per Giovanni. Egli si trovava appunto in quell'età in cui l'esperienza della vita è completa. Aveva provate tutte le illusioni poetiche della gioventù. Poi ne aveva compresi gli errori, aveva imparato a considerare il mondo dal suo lato più positivo, a riguardare come sogni giovanili i sentimenti puri, le passioni disinteressate, a prendere il mondo dal suo lato piacevole e gaio. Ed ora, anche di questo secondo apprezzamento comprendeva gli errori, e, fatto il confronto, si persuadeva che gli errori di prima erano preferibili. E ricordava con rimpianto il nobile ardore che lo infiammava altre volte per le prime cause sostenute, il lavoro fervente ed amoroso del giorno, le veglie, impazienti d'altro lavoro e d'altre scoperte. Ora le cause affluivano al suo studio senza procurargli nessuna gioia. Le esaminava coll'occhio freddo e sicuro dell'esperienza, le sosteneva senza eccitazioni, senza lacrime, qualche volta senza metterci neppure interessamento. Ricordava il suo punto di partenza. Un'estrema povertà, ed un grande amore. E ricordava la meta che s'era prefissa. La gloria e la ricchezza, sempre per quell'amore. Ora aveva ottenute la ricchezza e la gloria; ma l'amore lo aveva perduto per via. Forse, se, appena conseguita una situazione onorevole ed agiata, si fosse affrettato a domandare Rachele, sarebbe giunto in tempo prima che altri l'avesse ottenuta. Ma allora le mille curiosità della vita cittadina lo spronavano per un'altra via; la poesia serena di quell'amore verginale, la pace del matrimonio non l'avrebbero reso felice; avrebbe portate nella calma della vita coniugale le febbri ardenti del suo cuore giovine, le aspirazioni illusorie della sua inesperienza. C'eran voluti la vita burrascosa del mondo galante, gli amori adulteri ed avventurosi, per appagarlo, e restituirgli la pace; e lo avevano, più che appagato, saziato, deluso. E lo lasciavano malcontento di sé, sfiduciato degli altri, solo, senza speranze, col cuore assiderato. Furono i giorni più tristi della sua vita. Nel suo quartierino elegante, o nei salotti aristocratici dov'era accolto, ripensava con invidia il mezzanino del fornaio, l'assito mal connesso. Nell'aula affollata del tribunale, fra ammiratori, giornalisti, stenografi, che pendevano dalle sue labbra, fra gli applausi e le lodi, ripensava la sua prima arringa fatta agli zoccoli appesi nella sua stanza; ed avrebbe voluto tornare a quei tempi, povero ed ignorato, pur di avere ancora la speranza e la fede d'allora in quel trionfo che, conseguito, lo lasciava freddo. Non aveva fatto nulla di tanto anormale che dovesse rimproverarsi. Giovine e libero, aveva seguite le inclinazioni naturali della sua età. Ognuno al suo posto avrebbe fatto altrettanto. Ma gli doleva che le inclinazioni naturali fossero così; s'accorgeva troppo tardi che la prima strada era la buona; ed avrebbe voluto riprenderla; ma ormai non era più in tempo. La seconda festa di Pasqua ricevette un invito per una festa da ballo; e per abitudine vi andò. Si era fatto talmente alla vita elegante, era egli stesso così raffinato, così gentiluomo, e così uomo di mondo, che si trovava nel suo centro nelle sale sfarzose e nelle società delle belle dame, degli uomini illustri, dei diplomatici, degli artisti celebri, della nobiltà eletta. Da qualche tempo non danzava più, non giocava, non si divertiva; ma era nel suo ambiente. Quella sera era più triste del solito, e s'era messo a discorrere di politica con un vecchio senatore. Nel più bello d'una discussione seria sul macinato, che era allora la questione più interessante, il senatore sorrise da lontano a qualcuno, che poi s'avvicinò a salutarlo. "Il conte Tale; uno dei nostri futuri diplomatici..." disse il vecchio presentando a Giovanni il nuovo venuto, un giovinotto sui venticinque anni. Giovanni balbettò una delle solite frasi: "che era fortunato di fare quella conoscenza". "Ma la nostra conoscenza non comincia ora" rispose il giovinotto; "e se non mi sbaglio data per lo meno da sedici anni". Giovanni lo guardò attentamente, ma non lo riconobbe. "Non avevo che otto anni allora" riprese il giovine sorridendo. "E quand'ero invitato a pranzo mi mettevano alla tavola dei bambini..." Allora Giovanni si risovvenne del nome di quella famiglia, e riconobbe uno de' suoi piccoli commensali di casa Pedrotti. Tutta quella scena fresca, quell'ombra estiva, quelle mense signorili, quei vecchi barbassori, quella giovinetta bionda, gli si ravvivarono al pensiero come in quel giorno lontano; e stringendo le mani con effusione al suo nuovo conoscente esclamò: "Come mi fa piacere! Come mi fa piacere!" Era vero; gli faceva un grande piacere quel ritorno sul passato. L'imbarazzo che aveva provato allora, i suoi risentimenti feroci contro gli orgogliosi mecenati, la paura d'avvilirsi che lo rendeva scontroso, si erano dissipati per sempre colle circostanze che li avevano suscitati, colla gioventù che non torna. Quel quadro remoto di agiatezza e di pace gli appariva nella luce simpatica che gli dava l'esperienza de' suoi trent'anni, raggiunti traverso un lungo periodo d'avventure e di disinganni. Non si figurava d'esser laggiù ragazzo, seminarista, selvatico e disprezzato come era allora; ma nelle sue circostanze attuali, col suo bel nome, la sua sicurezza, e l'anima stanca anelante alla quiete. Gli rinacque in cuore tutt'ad un tratto una grande tenerezza pel suo paese patriarcale, per le sue colline verdi, pel vasto giardino del castello, e pei muraglioni neri che lo ombreggiavano. Tutto codesto gli parve bello e grandioso e pittoresco; e pensava che sarebbe stata una delizia di ritirarsi là, e di vivere in pace... S'impadronì del giovine diplomatico, e pel rimanente della serata se lo tenne al braccio, interrogandolo su Fontanetto e sulla gente ch'egli vi aveva lasciata. Quel giovinotto aveva dei ricchi possedimenti in paese, e vi faceva una corsa ogni anno, per cui era bene informato. Il signor Pedrotti era morto di gotta da parecchi anni e Rachele aveva continuato a vivere solitaria nel suo vasto castello. Né prima della morte del padre né poi, non aveva voluto saperne di prendere marito. L'aveva domandata l'ingegnere X di Maggiora, che era divenuto famoso fra gli architetti di Roma. Poi le avevano proposto il figlio d'Ipsilonne, quel possidente proprietario di quasi tutto il territorio di Fontanetto e Cavaglio e Ghemme, tanto ricco che lo chiamavano il Rotschild d'Italia. Poi era tornato a stabilirsi in paese quel fabbricante di violini, figlio della Tognina la mugnaia, il quale s'era fatto un patrimonio colossale ed un'educazione in America, e anche lui aveva offerto la sua mano ed il suo cuore ed i suoi milioni ed i suoi violini alla signorina Pedrotti; ma lei aveva rifiutati tutti. Alcuni dicevano che avesse un amore segreto, altri la credevano bigotta. Giovanni, nella disposizione di spirito in cui si trovava da qualche tempo, preferì la prima supposizione: che Rachele coltivasse un amore segreto nel cuore. Infatti perché non ammettere che avesse aspettato lui? Quando era partito da Fontanetto era certo che lo amava. Alla prima s'era lasciata intimidire dall'autorità del padre, e non aveva osato scrivergli né fargli una promessa contro la volontà espressa di lui. Ma col tempo aveva trovata la forza di resistere; dopo aver rifiutata una prima proposta di matrimonio, aveva capito che le era possibile, persistendo in quella via, restar fedele al suo primo amore senza mettersi in aperta ribellione con suo padre. Si sapeva amata, aveva fede nel suo innamorato, e rimaneva fanciulla per aspettarlo. Quella sera Giovanni, rientrando presto dalla festa, portò nel suo quartierino da uomo ricco, tutta la poesia de' suoi vent'anni. Salì le scale canticchiando la vecchia romanza della segretaria di Fontanetto, dimenticata da tanti anni, e che gli era tornata in mente coi ricordi del suo paese: "Non mi chiamate più biondina bella, Chiamatemi biondina sventurata..." Entrò nelle sue stanze col passo forte e la fronte alta, sorridendo come un giovinetto che torni dal primo convegno d'amore. Non aveva fin allora nessuna idea precisa, ma si deliziava nella dolcezza delle memorie; aveva la visione d'un paesaggio verde, d'un grande isolamento, d'una pace soave nella quale egli s'abbandonava all'ebbrezza d'un lungo idillio. E sorrideva al vuoto dinanzi a sé, come se dicesse: "Ora ho trovato il mio pezzettino di paradiso; il mondo non mi gabba più". Si buttò a sedere nella poltroncina accanto al letto, e cominciò a svestirsi lentamente, distratto da quei nuovi pensieri sereni, cercando collo sguardo i pochi mobili dell'eredità paterna che non aveva relegati cogli altri sul solaio, contemplandoli con amore, evocando da ciascuno una memoria, una persona, una scena d'altri tempi. E tutte queste cose, nel riapparire alla sua mente dopo tanti anni, si erano spogliate delle amarezze che le avevano accompagnate altre volte. Rivivevano soltanto nella loro parte bella, come le farfalle, che nel risorgere abbandonano la forma ingrata e lo strisciamento del bruco. Giovanni vi fissava sopra il pensiero intenerito. Quando fu coricato, prese il libro che era avviato a leggere; una relazione dei processi famosi di Londra. Ma quella sera le birbonate della grande capitale dell'Inghilterra non lo interessavano punto. Balzò dal letto, andò ad aprire la libreria, ed in punta di piedi, col lume alzato quant'era lungo il suo braccio, si mise a cercare nel piano più alto, dove teneva le opere letterarie, che non erano la sua lettura abituale. Ad un tratto fissò gli occhi sopra un volume ricoperto di marocchino rosso, lo prese vivamente come se avesse trovata una cosa smarrita e cara, e tornò a coricarsi lasciando la libreria spalancata. Era la seconda edizione dei Promessi Sposi che, tanti anni prima, aveva prestata a Rachele. Era il libro che aveva ridomandato al momento di abbandonare definitivamente il suo paese, nella speranza di trovare fra quelle pagine una promessa implorata, e che gli era tornato senza una parola, portandogli invece una delusione. Se allora vi avesse trovata quella promessa, sarebbe venuto a Milano vincolato da una parola d'onore; e non avrebbe badato ad altro che a mantenerla ad ogni costo. Appena fosse stato nella condizione di farlo senza paura di nuove umiliazioni, sarebbe corso a ridomandare la sua fidanzata; e la sua vita avrebbe preso tutt'altro indirizzo. Ora si troverebbe da parecchi anni ammogliato, alla testa d'una famiglia, e quel triviale disinganno della contessa non l'avrebbe avuto. Egli pensava queste cose colla rapidità vertiginosa con cui si pensa, mentre andava sfogliando quel volume, nel quale aveva fatte delle note in margine, degli appunti, dei segni che gli richiamavano tante memorie giovanili. Ad un tratto, nel voltare un foglio trovò una lettera. Una lettera un po' sucida, un po' gualcita ma ancora suggellata nella sua busta. Si sentì tutto rabbrividire, e gli prese un tremito, un batticuore, come se avesse veduto ricomparire un morto. Era la scrittura di Rachele. Era la lettera implorata tanti anni prima; era la promessa che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla sua vita. E non l'aveva trovata allora! La aperse agitatissimo, colle mani tremanti, colla mente ottusa. Gli pareva di essere appunto ancora a quell'epoca remota, e di stare aspettando, coll'angosciosa ansietà d'allora, quella sentenza che doveva decidere del suo avvenire. Erano poche parole: "Non mi metterò in ostilità con mio padre per esser tua (perdona questa debolezza al mio cuore di figlia). Ma non isposerò mai altri che te. Lo giuro". Giovanni rimase sbalordito, convulso. Era certissimo che quella lettera non era nel libro quando la Matta glielo aveva riportato. "Quella stupida donna!" pensò. "L'avrà tolta fuori per la curiosità di cercare gli o sulla soprascritta. Poi l'avrà rimessa a posto troppo tardi". E si ricordò con una lucidezza fenomenale tante circostanze che gli erano sfuggite allora. L'improvviso voltarsi della Matta per evitarlo quand'egli era andato, nella sua impazienza amorosa, ad incontrarla per via; il suo imbarazzo, la resistenza a dargli il libro, l'insistenza con cui reclamava ancora di portarlo lei quand'egli lo avea già ripreso; e finalmente l'averla trovata nella sua camera col libro in mano quand'era salito l'ultima volta per pigliare il baule. Coll'abitudine delle induzioni e delle ricerche acquistata nella sua lunga carriera legale, tutto questo gli risultò chiaro, e disse: "Allora aveva riposta la lettera nel volume". E si perdé a fantasticare da che piccole cause dipendono i nostri destini; e che cosa sarebbe stato di lui, se da bambino non gli fosse venuta l'idea di insegnare ad una serva scema le lettere dell'alfabeto... E tutto quel romanzo alla Dickens d'amor puro, di gioie intime, di vita casalinga che sarebbe stato la sua vita senza quella circostanza affatto casuale, gli si presentò alla mente, e gli parve un sorriso di cielo. Si fermava con compiacenza su certi particolari d'una dolcezza calma e serena, su certe scene tenerissime d'un amore senza lotte, senza vergogne, senza paure. E tutto codesto gli appariva tanto più bello, quanto più era differente dall'esistenza avventurosa e dagli amori burrascosi che lo avevano disgustato. A forza di fissarsi su quel pensiero, il rimpianto del tempo passato si dissipò. La gioia, la fede, l'amore gli rinacquero nell'anima. Infatti non gli avevano detto quella sera stessa che Rachele aveva rifiutate tutte le offerte di matrimonio? Ecco. Era appunto, com'egli pensava poc'anzi, per amor di lui. Aveva mantenuto il suo giuramento; l'aveva aspettato. Ed egli era libero, e l'amava più che non l'avesse amata mai. Cosa importava che quella lettera non gli fosse pervenuta? Che egli avesse ignorata la fedeltà generosa di lei? La situazione era la stessa; ritardata di parecchi anni, ma non alterata. Rachele era buona ed intelligente; era onesta, incapace di menzogne. Da lei non avrebbe mai a temere una bassezza né un atto sleale. Vegliò, vegliò a lungo, pensando a lei. Non poteva più essere una giovinetta. Doveva avere, poco più, poco meno, l'età della contessa: ma la contessa era piacevolissima, giovine ancora, e per lungo tempo. Rachele era bella e bionda come lei, ma i suoi lineamenti erano più regolari. Era certo di trovarla ancora più bella nel suo pieno sviluppo di donna. Se la figurava più alta, un po' più tondeggiante che a diciotto anni, e più disinvolta, più spiritosa, colle maniere cordiali ed espansive che si acquistano cogli anni e coll'abitudine del mondo. Aveva fin da giovinetta molta grazia naturale, un gusto fine, un'eleganza di modi, ed un'intelligenza... Doveva essere ormai una donna affascinante. Ed era orfana; l'avrebbe accolto sola, coll'ospitalità d'una castellana. Dopo tanto tempo forse non lo sperava più. Che commozione doveva provare al rivederlo! Doveva essere una scena da medio evo, rappresentata da una bella donnina moderna e da un lion. Si figurava di giungere a cavallo, sollevando un nembo di polvere, e di vedere la sua dama salita sull'alto della torre come la moglie desolata di Malbourough, pour voir s'il reviendra. S'addormentò in mezzo a quelle fantasie rosee, e sognò sogni di poesia e d'amore. La mattina si alzò presto, impaziente di correre a Fontanetto, di rientrare in quel romanzo d'amore giovanile e puro, di portare quella sorpresa di piacere alla donna onesta e fedele che lo aveva aspettato. Ma dovette occupare molte ore a riordinare le cose sue, a dare le disposizioni necessarie perché i suoi sostituti potessero supplirlo nello studio durante la sua assenza. Soltanto nel pomeriggio poté partire. Quanto poteva stare assente? Non lo sapeva, non volle dirne nulla. Andava incontro a tali gioie, che voleva esser libero d'abbandonarvisi senza misura di tempo, senza sopraccapi d'affari. Alla stazione di Novara dovette aspettare circa un'ora il treno per Borgomanero. Si ricordò come gli era sembrato bello altre volte il caffè della stazione. Appunto nella primavera era il ritrovo del mondo elegante di Novara. A Fontanetto se ne parlava come d'un luogo di delizie. Chi ne tornava, raccontava per un pezzo il lusso della sala, le cornici dorate ed i grandi specchi, i mobili di velluto, il marmo candidissimo delle tavole ed il sontuoso buffet apparecchiato con ogni ben di Dio. E poi si facevano descrizioni enfatiche dell'eleganza sfrenata delle signore, che nel pomeriggio di estate stavano ad udire la banda dai tavolini esterni nel giardino del caffè, mentre prendevano un gelato. Questa volta invece Giovanni si sentì soffocare entrando in quella piccola sala, che era rimasta fin allora senza riforme dopo la sua inaugurazione. I mobili di velluto di lana erano scoloriti, ed andavano perdendo il pelo come teste di vecchi. Le cornici dorate erano annerite e scrostate malgrado la mussola rosa ingiallita che le ricopriva. Sugli specchi migliaia di generazioni di mosche avevano depositate tante traccie che il viso vi si rifletteva cosparso di puntolini neri come dopo una malattia di vaiuolo. Il marmo delle tavole era deturpato da scritte e figure stupide. Era una rovina, tanta rovina, che poco dopo venne rimesso a nuovo ed ampliato, per farne una sala confortable. Al banco stava una giovine, a cui due giovinotti maturi, tra il cittadino ed il campagnuolo, facevano dei madrigali che ella accettava come roba che le fosse legalmente dovuta. Se ne stava impettita nel busto con una vitina sottile sottile da perderne il fiato: ed il capo, ornato da una pettinatura piramidale, liscia e simmetrica da parrucchiere, troneggiava dietro due piramidi di scatole da biscottini che ingombravano i due lati del banco. Di fuori un organetto suonò una polka, e la giovine caffettiera, con quella mania sfrenata pel ballo che distingue le provinciali, corse a pigliare un'altra ragazza in cucina, ed uscì a danzare con lei sotto il porticato della stazione, sbirciando i suoi due galanti, e ridendo colla compagna in modo provocante ad ogni osservazione un po' temeraria che essi facevano sulla sua persona. Poi cominciarono a giungere alcune famiglie borghesi; le signorine camminando innanzi coi vestiti chiari, ed i cappellini più stravaganti dei figurini di moda, il babbo e la mamma pochi passi indietro. Alcune giovani spose, in gran lusso, con molti gioielli, sfoggiando le ultime mode con più esagerazione che le signorine. Finalmente dei giovani eleganti che salutarono con un cenno la bella caffettierina, senza togliersi il cappello per non farsi scorgere dalle signore. Quella non era la società scelta di Novara; era la piccola borghesia; ma era quella appunto di cui si parlava molto a Fontanetto, dove si diceva una Novarese come in un villaggio del Poitou si direbbe una Parigina. Giovanni guardava quelle scene di provincia, e sorrideva tra sé dell'impressione che gli avevano fatta nella sua prima gioventù, e si abbandonava alle riflessioni di circostanza. "A misura che ci veniamo raffinando, avvezzandoci al benessere, al lusso, a tutte le delicatezze della vita signorile, ci rendiamo più difficile l'esistenza, perché soffriamo se ci troviamo in una cerchia meno eletta di quella in cui viviamo; troviamo tutto meschino, tutto brutto, tutto ridicolo, a torto ed a ragione, e non siamo mai contenti... Cos'aveva guadagnato lui diventando un personaggio ricco ed illustre? Di stare a disagio in quello ed in altri luoghi che altre volte l'avevano abbagliato addirittura..." Per fortuna il treno stava per partire, ed il sermone fu interrotto. Giovanni prese un coupé per esser solo e comodo, si sdraiò sul sedile, e, coll'occhio fisso sul vasto piano verde che gli si stendeva dinanzi traverso la vetrata, pensava Rachele, la sua visita, il loro incontro. Si ricordava benissimo il disegno grandioso del castello, le sale vaste dalle volte immense, dai cornicioni a bassorilievo; i mobili di lusso. Rachele, che aveva ricevuta un'educazione fine, aveva certo saputo mantenergli il suo carattere antico. Ma lei era moderna, e doveva essersi fatto un nido più simpatico. Si figurava un salottino un po' piccolo, con dei mobili piccoli, delle poltroncine basse e morbide, delle sedie a dondolo, dei piccoli divani turchi, dei tavolini di lacca, un pianoforte, una tavola da lavoro ingombra di ricami e di fiori; dei begli arazzi antichi drappeggiati artisticamente da un lato della parete, delle statuine di terra cotta, delle mensole di ceramica, una pelle di tigre, un tappeto turco, una scrivania aperta con tanti oggetti di bronzo artistico, calamaio, tagliacarte, premicarte, portapenne, tutte le inezie costose e belle che sa trovare il buon gusto delle signore. E dei libri, i libri moderni, che una donnina intelligente si fa mandare dal suo libraio man mano che escono. E dei fiori sulle tavole, sulle mensole, nelle giardiniere di ferro a rabeschi addossate alle finestre, dei fiori da per tutto. Ed in mezzo a quell'eleganza semplice e di buona lega, Rachele, vestita con uno di quegli abiti neri o scuri, tagliati col garbo inimitabile delle sarte più rinomate, che disegnano le forme senza stringerle, che adornano senza sfarzo, e senza impacciare i movimenti della persona. Colla sua ricchezza le era stato facile di procurarsi tutti i raffinamenti delle dame cittadine; vivendo in quel castello isolato aveva potuto mantenersi esente dal pettegolismo, dalle grettezze, dalle ridicolaggini delle donne di provincia. Egli conosceva una signora che viveva da parecchi anni in una sua villa della Brianza, ed era una delle donne più attraenti che frequentasse. La trovava sempre in una serra di cui aveva fatto il suo salotto da lavoro. Una grande vetrata che occupava il posto di tutta una parete apriva sulla campagna, chiusa in lontananza dalle montagne rocciose ed irte del lago di Lecco. Le altre pareti ineguali, formate di tufi su cui crescevano delle felci, dei licopodii, delle edere, ogni sorta di sempre verdi, davano l'illusione d'una grotta naturale, alla quale si fosse applicata semplicemente quella vetrata per abitarla anche l'inverno. Accanto alla serra c'era il salottino; e là quella dama giovine, bella ed elegante, viveva solitaria tra i fiori, la musica, i libri, vedendo appena qualche amico ogni tanto, scrivendo delle lunghe lettere piene di spirito, passando la sera con pochi conoscenti, spesso uno solo, che venivano da Milano per vederla; senza teatri, senza feste. I suoi discorsi avevano sempre un'elevatezza speciale, perché erano scevri da qualsiasi personalità. Il tempo che non perdeva nelle visite e nelle corse come si fa a Milano, le rimaneva tutto libero di dedicarlo alle letture, alla musica, al disegno; e dal suo stesso isolamento traeva una certa indipendenza dai pregiudizi e dalle convenzioni sociali, che le dava una superiorità sulle donne comuni. Giovanni si figurava Rachele così, e pensava che conducendola a Milano, dove egli doveva continuare a stare in causa della sua professione, non le lascerebbe frequentare che le signore più ammodo, d'un'educazione squisita, d'una riputazione immacolata. Ed invocava le immagini di quelle sposine del gran mondo che lo accoglievano amichevolmente nei loro salotti; e si compiaceva di immaginarsi la sua sposa a far parte di quel gruppo eletto, ed a figurarvi al pari e meglio delle altre. Alla stazione di Borgomanero prese un carrozzino per Fontanetto. Era domenica, e quando vi giunse era l'ora della benedizione. Le strade erano deserte. Il castello nereggiava in lontananza co' suoi muraglioni vecchi ed il largo fossato. Era la sola cosa che avesse conservato l'aspetto solenne d'altre volte; era la dimora signorile che conveniva alla sua bella castellana. Tutte le finestre erano aperte per lasciar entrare l'aria profumata della primavera, ma non ci si vedeva nessuno affacciato, non c'era movimento, pareva un maniero disabitato. Infatti, quando Giovanni scese dal carrozzino, tutto freddo e pallido per la commozione, e bussò al portone, il giardiniere che venne ad aprirgli disse che la signora era alla benedizione. Giovanni lasciò andare la carrozza, e s'avviò a piedi verso la chiesa. Il sole era tramontato, ma c'era sempre quella bella luce chiara ed uguale dei lunghi giorni di primavera, che non hanno serata. Tutta la campagna era verde, del bel verde lucido e fresco dell'aprile, e l'aria era leggiera e profumata. Tuttavia Giovanni si trovava un po' perduto in quel paese silenzioso, con tutti i portoni chiusi, che pareva un paese di morti. Si ripeteva ancora ed ancora che era l'ora dei vespri, che tutti erano in chiesa; ma che dopo le funzioni e prima, le case erano abitate, e nelle contrade circolava la gente. Avvicinandosi alla chiesa, udì il canto alto e stonato del Tantum ergo. Dovevano star poco ad uscire. Si mise a passeggiare di fuori aspettando. Era veramente strano di vedere quella bella figura da gentiluomo su quel rustico sagrato di villaggio. Da tutta la sua persona traspariva la lunga abitudine del lusso e della ricchezza. Nella furia di partire non aveva pensato a provvedersi una toletta da viaggio, e la sua vestitura da città, lucida, scura, attillata, le scarpine scollate, le calze di seta a colori, i guanti di pelle del Tirolo, stonavano in quella scena campestre. La chiesa era affollata e la porta era aperta. Molti devoti, che non erano giunti in tempo per prender posto di dentro, erano inginocchiati fuori sul sagrato. Appena alcune donne s'avvidero di quel bel signore, urtarono col gomito le vicine, si misero a ridere, poi tornarono a sbirciarlo ripetutamente, e tornarono a ridere fra loro, guardandosi e dimenticando di cantare. Gli uomini intanto, avvisati da quella mimica, si voltavano colla bocca spalancata nello sforzo del canto, e fissavano lungamente quel nuovo venuto, mandandogli contro le note rauche, come se fosse lui il Padre Eterno dal quale imploravano il raccolto, nel suo stravagante linguaggio latino che non capivano. Finalmente tacquero. S'intese la voce del prete dire l'oremus, poi tutti chinarono il capo, si sparse intorno un buon odore ed un fumo denso d'incenso, vi fu un momento di silenzio profondo, poi, senza organo, senza canto, sorse la voce baritonale del parroco a dire: "Dio sia benedetto!" E tutti risposero: "Dio sia benedetto!" E per una decina di minuti s'udì il cinguettio alto ed ingrato dell'orazione di Pio Nono, come il gracchiare d'un volo di cornacchie. Poi i contadini cominciarono ad uscire pigiati e lenti, parlucchiando tutti del bel signore di Novara, che era arrivato durante le funzioni e non s'era inginocchiato, e non aveva fatto il segno della croce: "Quella Novara era una Gomorra, un centro di corruzione, uno scandalo. Non era per nulla che ogni anno c'erano tempeste, o siccità, ed i raccolti andavano male, ed i bachi pure. I proprietari non avevano più religione, e il Signore li castigava, ed intanto i poveri contadini non avevano da mangiare; pativa il giusto pel peccatore..." Le donne non la pensavano tanto lunga, e s'accontentavano di dire: "Hai visto gli scarpini lustri? Oh! Ha le calzette di seta. Ha la pezzuola col ricamo come una signora" e nel passargli vicino si accorsero che aveva buon odore; e risero nascondendosi l'una dietro l'altra. Soltanto i bambini, che non si pigliano tante soggezioni, gli facevano cerchio intorno, e, col capo rovesciato indietro fin sulla nuca, e le mani dietro il dorso, stavano a guardarlo fisso, come se fosse uno spettacolo messo là per divertirli. E, man mano che ne sopraggiungevano di nuovi, davano spinte di qua e di là per entrare nel cerchio che i primi avevano fatto intorno al signore, e, se questi tenevano sodo, dicevano rinnovando le gomitate: "Fammi un po' di posto. Vuoi veder tu solo?" Le ultime ad uscire furono le signore. La moglie del farmacista, una donnina bruna, piccina, la quale era sempre stata tanto scarsa di capelli e di denti, e tanto incartapecorita, che il tempo le era passato sopra senza poterle fare gran danno; la segretaria che non si sarebbe potuta più chiamare né biondina bella né biondina sventurata, perché era tutta incanutita, ma che camminava sempre solennemente, diritta, colla testa alta ed il viso arcigno, mentre discorreva con due giovinette di cose affettuose; quelle due giovinette cresciute troppo di recente perché Giovanni potesse conoscerle, e finalmente Rachele. Era vestita di seta nera, con un velo nero. Il suo bel colorito roseo da bionda aveva presa una tinta un po' troppo viva; la persona alta e ben fatta, ingrassando aveva perduta la sua sveltezza. I capelli, sempre d'un biondo cinereo, erano ravviati e lisci, tirati sulle tempia, e raccolti stretti stretti sulla nuca; una pettinatura che scopriva la fronte, ed incorniciava l'ovale del volto alla maniera di certe Madonne di Raffaello; ma, come quelle, apparteneva all'arte antica. Ella non portava, come le eleganti di provincia, le mode dell'anno precedente, e neppure l'ultima moda, copiata troppo fedelmente dal figurino con tutte le sue esagerazioni di cattivo gusto e gli ardimenti di colori. Il suo vestito si componeva semplicemente d'una vita e d'una gonna, senza guarnizioni né gale: ed il bel velo di trina di Chantilly era messo semplicemente sul capo e sulle spalle, e raccolto dinanzi come il pezzoto delle donne genovesi. Quella vestitura che non ostentava nessuna pretesa d'eleganza, e realmente non ne aveva, non era neppure ridicola perché nella sua estrema semplicità non attirava l'attenzione, ed in quel paese rusticano era più adatta che i fronzoli cittadini. Ma le dava un'aria vecchia. Giovanni ebbe una rapida visione della figura che avrebbe fatta quella giovine matronale vestita come una massaia ricca, in mezzo alle donnine nervose, brillanti, graziose della società ch'egli frequentava; e gli parve che dovesse riescire ridicola; e stette ad esaminarla con espressione di malcontento. In quella Rachele rivolse verso di lui i suoi grandi occhi limpidi ed il suo volto calmo, e quell'espressione quasi sprezzante non le sfuggì. L'aveva subito riconosciuto; ma a lei pure avevano fatta un'impressione dolorosa la figura giovanile, l'apparenza di lusso e d'eleganza di Giovanni, ed aveva sentita la distanza enorme che li separava. Si fece rossa fino sulla fronte, rivolse altrove la faccia e continuò la sua strada senza più guardarlo, come se non l'avesse riconosciuto. Nell'isolamento in cui viveva, non aveva potuto avvezzarsi a nascondere i suoi sentimenti sotto l'apparenza d'una cordialità gioviale, a salutare sorridendo un uomo che, al solo apparire, mette il cuore in sussulto, a porgergli la mano con apparente serenità, ed a parlargli delle cose più estranee ai loro rapporti. Il suo primo impulso al vedere Giovanni era stato di corrergli incontro colle braccia stese, e di sfogare nel suo seno l'impeto di pianto che quella sorpresa di gioia le faceva salire alla gola. Ma la timidezza naturale, che cogli anni e colla solitudine era aumentata, la paralizzò. Tutto questo non aveva occupato che il primo istante, l'attimo del vederlo e del conoscerlo; nel secondo istante aveva indovinato il sentimento di spiacevole sorpresa che aveva prodotto in lui, s'era sentita ricadere dal sommo della gioia ad uno sconforto infinito. Giovanni le tenne dietro coll'occhio lungamente. Camminava lenta, a passi lunghi e misurati. Era alta e forte, ed il suo incedere riesciva un po' pesante e matronale come la sua persona. In quella vasta cornice di campagna e di monti, quella figura semplice, quell'abbigliatura semplice, quei modi d'una timidezza selvaggia, stavano bene e piacevano. Un pittore avrebbe copiata Rachele per farne appunto una Rachele figlia di Labano. Uno scultore avrebbe ammirate quelle belle forme da Giunone. E Giovanni pure l'ammirava, ma come si ammira la bellezza d'una contadina un po' matura. L'idea ch'egli si era fatta della sua sposa era tutt'altra. Come per istinto, provò il desiderio di correre daccapo a Borgomanero, e di riprendere il treno per Milano senza neppur presentarsi a Rachele; di fuggire. Pure, un pensiero lo intenerì. Gli tornava in mente la bella fanciulla che aveva lasciata dodici anni prima, con tanto avvenire dinanzi a sé, e tanta gioventù, e tanta grazia naturale ed intelligenza da poter diventare una delle più attraenti fra le signore della sua età. Era ricca; avrebbe potuto maritarsi in una grande città, fare una vita brillante. Ed invece s'era rinchiusa nel suo vecchio castello, aveva trascorsi solitari gli anni più belli della vita, lasciando spegnersi la vivacità giovanile del suo carattere, trascurando le grazie della persona, secondando le tendenze di calma, di gravità, che il tempo veniva sviluppando nella sua anima, rinunciando onestamente ad ogni ambizione, ad ogni arte per rendersi piacevole, dacché aveva rinunciato a piacere a quelli che l'avvicinavano, ed il solo a cui avrebbe voluto piacere era lontano. E tutto questo per lui. Poi si ricordava la sera del fossato quando le aveva detto con tutto l'ardore della sua giovine anima: "Vuoi esser mia?" E la giovinetta arrossendo aveva risposto una parola d'amore. Ed egli, graffiandosi le mani, lacerandosi gli abiti, era riuscito ad arrampicarsi sulla sponda del fossato fin alla base del terrazzo, ed aveva afferrato un piede della fanciulla, e l'aveva baciato. Da quel giorno egli aveva patito ogni sorta di privazioni, di dolori, aveva lavorato degli anni, ed avevano sofferto in due, per giungere al momento in cui si trovavano. Ed ora, che quel momento era giunto, egli avrebbe data volentieri tutta la sua gloria e la ricchezza faticosamente acquistata, per risentire la gioia ineffabile che aveva provata allora, nello stringere e nel baciare quel piede. Invece quella gioia era morta e morta per sempre. Il tempo l'aveva uccisa. Bastava di vedere Rachele, per esser convinti che una lunga abitudine l'aveva trasformata così in una campagnola. Era ancora Rachele, ma non era più il suo ideale; ed il cuore di Giovanni rimaneva freddo e calmo nel ritrovarla. Fece un giro intorno al sagrato per lasciare che si disperdesse la folla; ma i bambini lo seguivano sempre, facendo un gran rumore di zoccoletti. Egli allora costeggiò un tratto il Sissone, da un lato dove la sponda addossata ad un muraglione è tanto stretta che ci può passare una sola persona alla volta; ed i piccoli selvaggi, meno insistenti di quelli dei dintorni delle città, vedendo che il signore li sfuggiva, rimasero un tratto aggruppati sulla strada a guardarlo, poi si dispersero. Giovanni percorse un lungo tratto di quella sponda dove aveva passeggiato tante volte solitario per non essere distratto ne' suoi sogni d'amore. Poi tornò in su lentamente, e si diresse verso il castello. Non gli riusciva più di figurarsi la serra pittoresca, le poltroncine a dondolo, i mobilucci artistici, e tutto il nido elegante e profumato nel quale aveva collocato la bella solitaria nella sua immaginazione. Era triste e scoraggiato. L'aria cominciava a farsi meno chiara. Tutt'intorno i colli e la pianura prendevano una tinta grigia, e dai prati sorgeva una nebbiolina bianca che dava l'illusione d'un lago. I contadini s'erano ritirati nelle case per la cena. Le cicale tacevano, ed appena qualche grillo interrompeva tratto tratto l'alto e mesto silenzio della campagna. Giovanni guardò il castello, e vide Rachele che era rimasta sul portone, curva sul ponte come se guardasse nel fossato. "Mi aspetta" pensò. Ma Rachele era così assorta ne' suoi pensieri che non l'aveva veduto. Soltanto quando fu a poca distanza lo sentì venire; si rizzò sgomentata, ed invece di movergli incontro, rientrò precipitosamente in casa come se fuggisse. Quell'eccesso di selvatichezza sconcertò più che mai il gentiluomo cittadino. Il rossore che l'aveva infiammata tutta al riconoscerlo laggiù sul sagrato, e quel fermarsi sola e pensosa sul ponte, erano prove che la presenza di lui l'aveva commossa. E tuttavia scappava dinanzi a lui come una selvaggia. Egli crollò il capo in atto di sconforto, e passò sotto il portone sospirando. Nel cortile trovò una serva che lo introdusse nella grande sala del castello. Quella sala, che gli aveva imposta tanta soggezione il giorno della sua ultima visita al signor Pedrotti, ora gli parve grottesca. I grandi seggioloni panciuti erano vecchi senza essere antichi, e la loro forma moderna, e le imbottiture stonavano coi cornicioni e le portiere medioevali della sala. Sul camino troneggiava un grande orologio di bronzo dorato, fiancheggiato da due candelabri monumentali, tutti e tre religiosamente protetti da campane di vetro. Accanto al vecchio pianoforte a coda, erano disposti in ordine sulla scansia dei fascicoli di musica fuor di moda. Non c'erano gingilli artistici, né libri, né fiori, né piante, né giornali, né fotografie, né incisioni, né nessuna delle cose interessanti e belle di cui amano circondarsi le donne di buon gusto. Invece del profumo acre dei coni fumanti, o di quello soave della violetta, si sentiva quell'odore di ammuffito delle stanze lungamente rinchiuse. Era la sala inutile e disabitata delle case dove non si riceve punto. La solitudine di Rachele non era quella della elegante amica di Giovanni, interrotta dalla visita di pochi eletti, da un tè con alcuni privilegiati, che mantengono viva l'abitudine della conversazione, tengono lo spirito in esercizio, e non lasciano morire quell'ombra di vanità femminile che serve a conservare ed a mettere in risalto le attrattive naturali. Era solitudine vera, era obblio, era distacco del mondo nel quale egli viveva, e del quale s'era fatto una necessità come dell'aria che respirava. Rachele entrò rossa in volto e con fare impacciato. S'inchinò dicendo: "O signor Giovanni, come sta?" Poi si pose a sedere sul divano. Anche Giovanni provò un minuto di soggezione dinanzi a quella matrona timida e muta. Ma, senza spiegarlo ben chiaro a se stesso, si sentiva più rinfrancato da quell'accoglienza contegnosa, che non sarebbe stato da dimostrazioni d'affetto più vive. Prese dunque coraggio, e porgendo la mano, nella quale Rachele pose la sua lentamente, per ritrarla subito, le disse: "Ho tardato molto a venire, Rachele?" Ella arrossì più vivamente. Dunque era venuto per lei? Si ricordava la promessa? Non era tutto finito? Non poteva quasi crederlo. Dopo tanto tempo, s'era avvezza a considerarsi dimenticata, a pensare che non si mariterebbe mai più... Quella grande sorpresa di piacere le diede un tal sussulto al cuore che quasi le mancava il respiro, e non le fu possibile di rispondere. Giovanni, imbarazzato da quel silenzio tornò a dire: "Non mi rimprovera questo lungo ritardo?" "Meglio tardi che mai" rispose Rachele tanto per parlare. Ma il senso preciso di quelle parole applicato al caso suo le sfuggiva. Troppi pensieri le turbinavano nel cervello, nuovi, vitali, e che la coglievano di sorpresa. Quel sogno della sua gioventù non era morto; s'era creduta vecchia per l'amore, ed invece poteva ancora essere amata; ed il suo cuore si risvegliava! Ma era possibile che quel bel signore dal volto altero e freddo fosse lo stesso Giovanni di tanti anni prima? E sentisse allo stesso modo? O no; tanti anni prima si sarebbe commosso al vederla, i suoi occhi fissandosi su di lei si sarebbero empiti di lacrime, o avrebbero mandato lampi di passione. Quelli che aveva dinanzi non erano occhi da innamorato; quei modi sicuri, disinvolti, quella voce tranquilla, quello sguardo acuto, indagatore, che la esaminava come per contarle i capelli sul capo e per cercarle una ruga sul viso, non avevano nulla di comune coll'amore. Quel bel cittadino non l'amava. Ed allora perché era venuto? Perché? Ecco; era lui che rispondeva a quella domanda che lei non aveva espressa. "Ah! sicuro; meglio tardi che mai" aveva ripetuto dietro lei. E dopo una pausa, una breve pausa durante la quale Rachele aveva fatte tutte quelle riflessioni rapidissime, riprese: "Dunque crede che non sia troppo tardi?" Troppo tardi! Eccola la spiegazione di quella freddezza. Credeva suo dovere di tornare a lei, ma dopo esser tornato, dopo averla veduta, s'era accorto che, sulla giovinetta che amava altre volte, erano passati dodici anni; dodici anni di vita solitaria, fra gente zotica, fra occupazioni triviali; e quei dodici anni l'avevano invecchiata, inselvatichita; avevano distrutto l'ideale ch'egli aveva vagheggiato giovine, elegante, gentile, per farne una buona donna campagnola. O di certo era troppo tardi. La bella fanciulla aveva perdute le sue grazie, ma aveva serbato il suo buon senso per comprenderlo. "È vero" pensò. "Sono troppo vecchia per l'amore, sono troppo provinciale per lui; è disposto a sposarmi per sentimento d'onestà, soltanto per questo". Ed un gran dolore, un immenso sconforto le strinse il cuore. Il dubbio che l'aveva colta per via d'avergli fatta un'impressione sfavorevole, si confermò, divenne certezza. Si sentì morire di dentro, mentre stava là ritta, immobile sul divano, colle mani incrociate in grembo e gli occhi sulle mani. Giovanni dovette ricominciare a parlar lui; ma andava cauto; era andato là col proposito di sposare Rachele; ed ora aveva paura di compromettersi. Ma tuttavia era impossibile evitarlo. La loro situazione reciproca, tutto il passato li comprometteva. Bisognava parlare di quello ad ogni costo, abbandonarsi al destino. "Sicuro; meglio tardi che mai" disse. "Siamo ancora in tempo a mantenere le nostre promesse..." "O Dio! No" esclamò Rachele col pianto alla gola dinanzi a quella calma fredda che la umiliava. "Non parliamo del passato". "Perché?" domandò Giovanni col tono di voce indulgente che si usa per confortare una persona a cui si vuol molto perdonare. "Perché non è più tempo per me di pensare a... certe cose...". Egli l'ascoltò con aria afflitta, e disse per cortesia: "Ma che, le pare? È ancora molto giovine..." Ma i suoi occhi la fissavano con aria di pietà come se dicessero: "Pur troppo è vero, che peccato!" "No no" riprese lei. "Ci siamo avviati per due vie differenti..." Aveva cominciato a dire con fermezza; ma intanto che parlava, le si erano empiti gli occhi di lacrime e la voce s'era alterata; se avesse aggiunta una parola di più, se avesse detto come aveva in mente di dire: "Le nostre promesse erano ragazzate" sarebbe scoppiata in pianto; perché, soltanto il pensiero di dire quella cosa crudele, le aveva gonfiato il petto d'un singhiozzo, e l'aveva obbligata a star zitta per frenarlo. Giovanni, vedendola turbata a quel modo volle lasciarla sola, e se ne andò dicendo: "Ci ripenserà, Rachele. Ora l'ho presa all'improvviso; ci ripenserà; tornerò quando sarà più calma..." Sicuro; Giovanni pensava di tornare. Non poteva decorosamente troncar tutto così. A Fontanetto non c'erano alberghi dove una persona a modo potesse alloggiare. Dovette riprendere solo ed a piedi la strada di Borgomanero. "Mi fermerò alcuni giorni" diceva, "intanto lei rifletterà meglio". La strada era lunga, e tutta dritta e bianca alla luce fredda della luna. Durante quella camminata solitaria di più d'un'ora, egli ripensava tutto quello che s'erano detto laggiù al castello. Pur troppo era vero; quei dodici anni contavano per venti su Rachele. Non aveva più nulla della giovinetta svelta, rosea, elegante d'altre volte. Non era lusinghiero pel suo amor proprio presentare nelle società di Milano quella sposa matura. Si sarebbe riso; si sarebbe detto che la sposava pel denaro; perché Rachele era anche ricca. Finché aveva vagheggiata una bella fanciulla, non s'era mai dato pensiero di questi commenti della gente sulla sua ricchezza; ma ora aveva bisogno di pretesti per giustificare le sue esitazioni. Un momento rifletteva che quei dodici anni erano passati anche per lui; ma tutti pretendono che gli uomini non invecchiano. Infatti egli ne conosceva molti che a trentasei, trentotto anni avevano sposate delle giovinette di diciotto o venti; e non erano ridicoli, per questo. Ma del resto non era all'età per se stessa ch'egli badava; che! era superiore a codeste leggerezze. Considerava la necessità in cui era di vivere nel mondo; era un avvocato famoso, doveva essere deputato alle nuove elezioni; aveva bisogno una moglie avvezza alla vita cittadina, ai ricevimenti, che sapesse presentarsi in società e fare gli onori della sua casa... Rachele tal quale l'aveva trovata, impacciata, selvatica, antiquata in tutto, non poteva convenirgli. Lei stessa l'aveva riconosciuto; aveva dato prova di buon senso, e sarebbe stato indelicato da parte di lui ritornare su quell'argomento, rinnovarle una scena che evidentemente le era riescita dolorosa. Il suo amor proprio di donna ne avrebbe sofferto, perché non è mai senza pena che una donna si rassegna a riconoscere la sua età ed i guasti che il tempo ha fatti sulla sua persona. Era una triste, triste cosa, che il suo ideale fosse svanito così. Ci pensò lungo la notte, e ci pensò il mattino in ferrovia, mentre, tutto considerato, tornava a Milano senza aver cercato di rivedere Rachele. Poi ci pensò a Milano, lungamente, sempre. Ma sempre all'ideale, come l'aveva adorato tanti anni prima, giovine, bello, gentile... Forse lo trovò ancora più tardi sul suo sentiero, perché la donna matura di Fontanetto non era più quella, non era il suo ideale. E Rachele, appena rimasta sola, s'era lasciata cadere sul vecchio divano scolorito, e s'era abbandonata ad un pianto convulso, lungo, disperato. Lei lo sapeva che Giovanni non sarebbe tornato.

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Trepidavano insieme allorché vedevano partire un vapore carico durante una tempesta; si facevano una festa di abbandonarsi al mare in una barca nei giorni in cui il lavoro taceva nello stabilimento; facevano insieme lunghe passeggiate sulla riva mentre Maria raccoglieva le conchiglie, e sempre sul mare si posavano i loro sguardi allorché temevano che s'incontrassero. Nè Velleda nè Roberto in quelle passeggiate, in quelle ore che passavano insieme, parlavano mai della loro vita anteriore. I loro discorsi sì aggiravano sul periodo di tempo di quell'ultimo anno, come se entrambi non volessero confessar di vivere altro che dal momento che s'erano incontrati. E mentre si parlavano la loro voce acquistava un tono carezzevole, che non aveva per solito, e i loro occhi una espressione di infinita dolcezza. Essi evitavano di stringersi la mano, di star vicini quando erano soli e i loro atteggiamenti erano sempre rigidamente casti. Pareva che sprezzassero tutte le manifestazioni materiali dell'affetto per rinchiuderle nel cuore e dare maggiore intensità al sentimento che li univa. Velleda non aveva mai permesso che Roberto leggesse un libro scritto da lei e firmato col pseudonimo di "Melusina", sotto il quale era nota nel mondo delle lettere. Una volta egli le aveva chiesto I Vincitori e i Vinti Vintied ella avevagli risposto: Ora non scriverei più in quella maniera, i miei sentimenti sono cambiati; non provo più certi risentimenti, non vedo più l'amore sotto lo stesso aspetto, mi sono fatta più calma e più umana; mi faccia il piacere di non leggere quel libro, che rinnego. Roberto aveva ubbidito, ma per giudicare il suo valore di romanziera, non aveva avuto bisogno di leggere libri di lei; gli era bastato di ascoltarla mentre narrava a Maria le avventure commoventi di poveri bimbi, le novelle meravigliose delle fate per convincersi della ricca fantasia di quella creatura eletta, nella quale vibrava alta la corda del sentimento, e queste qualità essenziali per chi deve dipingere la vita andavano unite a un gusto finissimo, a una perfetta dizione che accarezzava dolcemente l'orecchio e che scendeva nel cuore di Roberto commovendolo. Velleda, in quella sera di dolcissima meditazione; aveva dimenticato di scendere, come faceva sempre, a chiùdere il cancello e a sguinzagliare i due mastini che vegliavano sulla villa solitaria, nella quale dormivano il cuoco, Costanza, la bambina e la signora soltanto, ora che Saverio stava presso Franco. I rintocchi della mezzanotte, suonati dall'orologio dello stabilimento, la fecero balzare in piedi e senza chiamare Costanza, che doveva essere in camera di Maria, ella scese in giardino e s'avviò al canile. In quel momento i cani si misero ad abbaiare e Velleda vide un' ombra sgattaiolare fra i palmizj a poca distanza da lei e perdersi sotto il fogliame scuro delle folte piante d'arancio. Ella tremò, ma vinta la paura, sciolse presto i cani dicendo : Cerca Lampo! cerca Etna! E i due cani, col muso in terra, abbaiando, s'allontanarono di corsa. Per Velleda fu quello un momento di suprema angoscia. Non sapeva che fare, se risalire in camera di Maria, o correre a suonar la campana per chiamare aiuto dallo stabilimento, quando un colpo di fucile ruppe l'alto silenzio della spiaggia, e uno solo dei cani tornò a lei spaventato latrando. I malandrini! - esclamò la signora atterrita, e senza riflettere più gettò un sasso contro la finestra della camera del cuoco e salendo a precipizio le scale si attaccò alla corda della campana. Costanza era andata sulle scale, pallida e tremante, il cuoco era corso su col fucile in mano, mezzo vestito; Maria sola dormiva placidamente. Velleda collocò Costanza accanto al letto della bambina, chiuse a chiave le porte e preso che ebbe un revolver di Roberto, incominciò a perquisire la casa, insieme col cuoco, premendo ovunque i bottoni della luce elettrica, affinchè se vi era qualcuno nascosto, fosse subito visto a quel chiarore vivo. Ella era ancora al piano superiore, allorché giunsero due guardiani armati, Saverio e il Varvaro. Quest'ultimo aveva in mano la lanterna e avanzandosi nel viale dei palmizj guardava a destra e a sinistra, proiettando in basso e in alto la luce e intanto gridava per annunziare il suo arrivo. Velleda udi quei gridi e scese incontro al direttore. Ma che cosa è avvenuto? - domandò questi. Non so precisamente" - diceva con voce interrotta cercando di ritrovare il filo delle idee, - mi ero un po' attardata prima di sciogliere i mastini e quando sono scesa per isguinzagliarli ho veduto un'ombra nera fra gli alberi. Allora immediatamente ho sciolto Lampo ed Etna. I cani certo debbono avere scoperto il malfattore, perché ho sentito un colpo di fucile e Lampo solo è tornato verso di me ed è rifuggito subito. Ponetevi a difesa della casa sulla terrazza e non lasciate avvicinare alcuno, - ordinò il Varvaro ai guardiani, - Saverio e il cuoco cercheranno insieme con me. Velleda risalì in camera di Maria e vi si rinchiuse ; Costanza, in preda a un cieco terrore, aveva acceso tante candele a una immagine della Vergine, e balbettava : Maria, bedda matri aiutatemi! Salvatemi! Maria dormiva sempre e Velleda, con l' orecchio teso, spiava ogni lieve rumore. La camera di Maria, che era pure la sua, non guardava sul viale dei palmizj ne su quella parte del giardino in cui erasi svolta poco prima la rapida scena, e per questo ella non poteva seguire le indagini del Varvaro. Però a un certo momento sentì un rumore di passi nell'anticamera terrena e non reggendo più, corse sul pianerottolo, spenzolandosi nel vano della scala per veder chi era. Saverio! Saverio! che cosa è successo? - diceva scorgendo il cameriere, che correva verso la cucina. Lampo ha fatto il suo dovere! - rispose il servo nel passare. Poco dopo Saverio ripassava portando una spugna e una catinella piena d'acqua. Ma Saverio, per carità, spiegatevi! - diceva Velleda che lo aveva atteso trepidante. Signora, un malandrino ferito. Laconico nelle risposte come ogni siciliano, non disse altro e tornò verso i suoi compagni nel giardino. Suonate! - gridò Velleda ai guardiani affacciandosi al terrazzo. - Sparate i fucili, fate che vi odano dalla Casa dei Viaggiatori. Lo Carmine con i suoi ci verrà in aiuto. Oh se i carabinieri fossero in perlustrazione, se i doganieri accorressero; sparate! Partirono quattro colpi di fucile a breve intervallo e poi la campana suonò a distesa. A un tratto s'illuminò la Casa de' Viaggiatori, s'illuminò il " Selino " e da quello partì un colpo per avvertire che l'appello era stato udito. Lampo abbaiava furiosamente e i cani dello stabilimento pareva che gli rispondessero. Velleda correva ansiosa dalla camera di Maria alla terrazza e il suo pensiero volava a Roberto. Oh.' come lo invocava in quel momento; come sentiva il bisogno di averlo accanto a sé, a difesa della casa! A un tratto vide Costanza, che rompendo la consegna, scendeva le scale e le ingiunse di tornare dalla bimba. Sotto la chiara luce lunare, la signora scorse una lancia del " Selino " accostarsi alla banchina e vide dalla Casa de' Viaggiatori uscire un gruppo scuro, che correva in direzione della villa. Ma intanto che tutti quei soccorsi si avvicinavano, e Velleda ne affrettava col desiderio l'arrivo, più colpi di fucile erano sparati nel cortile dello stabilimento. I marinari del "Selino, che erano giunti al cancello della villa, retrocessero di corsa, i due guardiani che erano sul terrazzo della villa traversarono la sala; gridando a Velleda : Era una finta per allontanarci; il pericolo è là. Il pericolo! - ripeteva la signora atterrita. Dunque attentavano alla proprietà di Roberto, al frutto paziente del suo lavoro? Il Varvaro anch'egli s'era unito ai guardiani e correva verso il luogo più minacciato. Velleda non sapeva più che cosa fare e le fucilate che continuavano a turbare l'alto silenzio della notte, le ferivano dolorosamente gli orecchi. Ella scese incontro al Lo Carmine e ai due tedeschi e non seppe dire altro che : Maria! Lo stabilimento! Anche il sottodirettore degli scavi e i suoi due compagni erano armati di fucile e nella cintura portavano il revolver. revolver.Signori, - ella disse ai due giovani architetti tedeschi, conducendoli sulla porta della camera di Maria, restino qui, non si muovano, non lascino uscir nessuno, veglino per me. Io devo correr là. Non si muovano! Ella aveva preso in mano il revolver e trascinava seco il Lo Carmine verso il cancello, quando s'imbattè in Saverio e nel cuoco che portavano sopra un asse un uomo con la gola aperta e sanguinante. Velleda si fermò un momento, lo fissò con raccapriccio e poi esclamò: Alessio, il capo degli scioperanti di quest' inverno! Proprio lui! - rispose Saverio. - Ma Lampo gli ha levato la voglia di ricominciare. Lo rinchiudo in camera mia e dopo frugheremo la casa. Lampo seguiva il ferito mandando latrati feroci annunzianti che non era soddisfatto dell'opera sua. La fucilata era cessata allo stabilimento e il Lo Carmine, che vedeva con dispiacere Velleda dirigersi verso quel punto più minacciato, la trattenne quando stava per varcare il cancello. Resti qui, - le disse. - Se Maria si destasse, non avrebbe forse bisogno della sua parola rassicurante? Pensi che questa bimba è quello che di più caro ha il signor Roberto. Là vi è il Varvaro, vi sono tanti uomini. A quel nome, invocato da un amico, Velleda non seppe resistere e dopo aver chiuso a chiave il cancello, disse : Frughiamo il giardino, Ella aveva preso nella sinistra la lanterna abbandonata da Severio e col revolver nella destra, coraggiosa e cauta, si avanzava sotto le piante di arancio e sulla sua testina piovevano i petali bianchi. A un tratto si fermò, In una pozza di sangue giaceva Etna, con la testa squarciata da una palla, gli occhi spalancati e vitrei e intorno, mescolati al sangue, i soliti fiori profumati. Povera bestia! - esclamò, - mi voleva tanto bene ed è andata incontro alla morte per ubbidirmi. Più là vi erano altre tracce di sangue; il sangue di Alessio e sempre fiori, ovunque fiori nivei. Una corda abbandonata era attaccata con un arpione alla sommità del muro del giardino. Velleda l'accennò al suo compagno, il quale la staccò. Camminavano in silenzio esplorando. In un altro punto era stata tagliata un'alta pianta di fico d'India, in terra trovarono un altra corda avvoltolata. Velleda e Lo Carmine andavano sempre avanti, senza scambiare una parola. Quando ebbero esplorato tutta la parte anteriore del giardino, passarono in quella a tergo della casa. Velleda alzò la lanterna e mandò un grido. Attaccata al davanzale della finestra di Costanza, attigua alla camera di Maria, stava una scala di corda, e in terra, sulle aiuole di margherite e di pelargoni si vedevano tracce di pedate e piante calpestate. Velleda impallidì. Ormai il complotto era palese. Volevano rubare Maria per esigere poi da Roberto una somma prima di restituirla. Sventato il colpo avevano tentato di penetrare nello stabilimento, per rifarsi, rubando i denari che vi erano sempre. Quando la signora ebbe la percezione esatta del pericolo corso dalla bambina, impallidì e rimase irrigidita senza poter fare un passo. Se i malandrini avessero avuto tempo di mandare ad effetto il rapimento, che sarebbe avvenuto di Maria? Come avrebbe lei, Velleda, sostenuto la vista di Roberto? Oh! si sentiva impazzire a pensarvi. Pochi momenti più che si fosse indugiata nella meditazione della lettera di Roberto, e il colpo era fatto. Posò la lanterna; strappò la scala con un atto repentino e poi invasa dal terrore di un nuovo pericolo, corse in casa, salì in fretta le scale e penetrata in camera di viaria s'inginocchiò accanto al letto di lei e pianse, pianse lungamente. Costanza, inginocchiata pure e con aspetto truce pareva pregasse. Così Franco vide Velleda giungendo, così la vide il Varvaro, che andava a dirle quello che era accaduto. Ella fece loro cenno di non fiatare per non turbare il sonno della bambina, e senza accorgersi dei due tedeschi che facevano sempre la guardia, come sentinelle, andò in sala e lasciandosi cadere sopra una poltrona; disse al Varvaro: Ora mi racconti tutto! L' attacco allo stabilimento non era preparato, disse il direttore, - ma appena i malandrini hanno udito il suo appello, hanno veduto che io mi dirigevo qui con i guardiani e che i marinari del " Selino " venivano pure alla villa, hanno dato la scalata al muro di cinta e senza esser visti dal solo guardiano che era rimasto là, si son diretti alla segreteria, ove sanno che vi sono danari. I cani hanno dato l'allarme, il guardiano ha incominciato a tirare schioppettate e s'è attaccato alla campana. Allora io, destato all' improvviso, - continuò Franco, ho preso il revolver e, spalancata la finestra, ho mirato su quello dei malandrini che stava dietro a tutti e gli ho messo due palle nella schiena. Gli altri - erano sette - hanno rivolto i fucili verso la mia finestra facendo un fuoco di fila. Io sono andato a quella accanto e di dietro la persiana ho continuato a tirare. I marinari del " Selino " allora sono entrati nel cortile insieme col signor Varvaro ed i guardiani ed hanno fatto fuoco. Due altri malandrini sono caduti, i quattro rimasti illesi, mettendo mano ai coltelli hanno attaccato i difensori per aprirsi un varco e fuggire. Due vi sono riusciti; due sono stati presi e legati. Velleda con gli occhi pieni di lagrime che le scendevano sul dolce visino coperto da un pallore mortale, narrò quello che era accaduto alla villa e come avesse acquistato la convinzione che il colpo era diretto contro Maria. Era una imprudenza di restar qui quasi sola, disse Franco, - da stasera in poi mi permetterà di occupare la camera di mio fratello, e Saverio ed io faremo una ispezione nel giardino prima di coricarci. Il Varvaro approvò quella risoluzione, ma Velleda che non dimenticava mai Roberto, rispose: Farò avvertire i carabinieri, grazie; essi veglieranno nella villa. Franco non rispose, e non insistè perché sapeva che era inutile. Intanto erano giunti i doganieri, i quali trovandosi in perlustrazione verso il porto di Palo, avevano udito la fucilata, e quando l'alba rosea già illuminava le imponenti rovine, la villa e lo stabilimento, nessuno pensava ancora a cercare il riposo, e Velleda, con gli occhi sempre pieni di lagrime vegliava onde sparisse dal giardino ogni traccia dell'assalto notturno e Maria potesse ignorare il pericolo che aveva corso. Alessio, il ferito, era vegliato da un guardiano, il cadavere di Etna era stato sotterrato nella sabbia, i due tedeschi e il Lo Carmine erano tornati alla Casa dei Viaggiatori, e quando Maria aprì gli occhi sorrise vedendo Velleda da un lato del suo letto e dall' altro Franco. Oh! zio che sorpresa! - disse e cinse con un braccio il collo del duca, mentre con l'altro attirava a sé Velleda. gàra sui capelli. Sì, amore, - le rispose, - la mattinata è tanto bella! Anzi faremo il primo bagno di mare. I carabinieri dovevano giungere presto e Velleda era impaziente di allontanare la bambina dalla villa. Non voleva che sentisse parlare di quell' eccidio, come non avrebbe voluto che quella notizia giungesse a Roma a Roberto. Ma come fare? Ella affidò Maria alla balia; che aveva ancora gli occhi rossi, e fatto cenno a Franco di seguirla nella sala, gli disse: I giornali di Roma avranno probabilmente stasera la notizia del fatto, suo fratello la leggerà; non sarebbe meglio avvertirlo con un lungo telegramma? Non so, - rispose Franco. - Forse è più prudente di avvertire le autorità di tener celato l'acccaduto. Certe cose non si nascondono; sono troppi i testimoni e a quest' ora una cinquantina di persone sanno tutto. Io non posso celar nulla al signor Roberto; egli ha diritto di saper quello che avviene in bene e in male e io non meriterei più la sua stima se tacessi. Telegrafi allora; ma gli dica che il pericolo è scongiurato, - rispose Franco il quale non pensava ad altro che ai suoi interessi che sarebbero rimasti abbandonati se Roberto fosse partito.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679345
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Tutti i sudditi dell'entomologia, dal paria al sultano alzavano la testa e si sentivano a rivivere, e le farfalle spalancavano l'ali per abbandonarsi alla caccia avventurosa degli effluvii e dei raggi. Le lumache appese alle scabrosità dei muri, esponevano i loro quattro tentoni filiformi, occheggiando. Le lucertole, svegliate dai primi tepori del sole, facean ballonzolare la coda fra l'una e l'altra fessura. I mosconi ronzavano: i ragni cominciavano a guatare le ragnatele e i moscerini cominciavano ad ingarbugliarvisi .... Dalla cucina del presbiterio usciva un odore delizioso di caffè tostato. Il cielo splendeva serenissimo. - Buon dì, mi disse scavalcando, il dottore, già desto così per tempo? La voce del signor De Emma aveva una vibrazione dolce di cui il giorno prima non la avrei creduta suscettibile. È certo che il buon curato gli aveva parlato sul conto mio a quattrocchi con quella strana benevolenza, non so come meritata da me fino a quel punto, che in lui pareva una divinazione di ciò che doveva accadere in seguito nei nostri cuori. Il dottore era salito alla camera del suo infermo. Io scontrai sotto un viale del giardino il povero Beppe. Egli andava davanti a me coll'indescrivibile incesso che hanno i sonnambuli, rimondando, sbadato, quasi senza saperlo, - per abitudine di campagnuolo forse, i vigneti delle giovani viti, con gesti da automa. Stropicciava ad una ad una le raffilature che gli restavano in mano, poi le lasciava cadere dietro di sè. Portava la testa immota, alquanto volta all'insù, ma quando l'ebbi accostato, senza che egli se ne avvedesse, rimarcai che gli occhi avea rivolti al suolo, semichiusi, immobili. Tutto il suo volto spirava il terrore e la pietà insieme che i poeti ci fanno supporre spirassero dalle maschere formidabili dell'antica tragedia. La desolazione e la sete della vendetta avevano tramutato in una notte quella faccia idillica di contadino, in una faccia di non so qual lugubre eroe. Giacchè le notti che seguono le sventure, sono le grandi trasmutatrici. Ogni loro minuto è un colpo di scalpello michelangiolesco. Il marmo candido, innocente, insciente s'atteggia in poco volgere d'ore a sovrumano furore di demone, la carne atteggiata alla espressione della pace, della mestizia, della mansuetudine, si è fatta brutale, freme, sogghigna, sembra volersi concentrare in un morso. Tale almeno la faccia di Beppe. Essa mi colmava di tanto stupore che non sapevo decidermi a rivolgergli la parola; e, poichè egli non aveva l'aria di accorgersi della mia presenza, continuai a camminare al suo fianco, pareggiando i miei ai suoi lentissimi passi. A un tratto al dissopra di noi, dalla finestra della camera di don Luigi si fe' udire la bella voce del medico. - Signori, diceva, l'ammalato non più ammalato, desidera la loro presenza, e prega il signor pittore a voler passare in cucina ad avvisar Monna Mansueta che si prenderà quassù il caffè in compagnia. Queste parole furono dette con un umorismo misto di serietà che mi piacque immensamente. - Si viene, risposi; ed a Beppe: - Saliamo. Egli mi guardò, si toccò la falda del cappello e mi seguì. Quando entrai con Beppe nella camera del curato, lo trovai diffatti intieramente riavuto. Sorrise a me, stese la mano a Beppe e, tirandolo a sè, gli disse: - Dunque senti figliuolo, abbiamo, il dottore e io, abbiamo concertato qualcosa per te. Tu non puoi rimaner qui: hai bisogno di far vita nuova. Il dottore t'ha trovato un posto di guardiano presso alcuni suoi ricchi parenti nel bresciano. Tu lascierai qui i bimbi, Mansueta n'avrà cura finchè non sii in grado di prenderli teco. Tu seguirai il dottore a Zugliano e domani ti condurrà egli stesso alla tua nuova dimora. Va bene così? Il poveretto teneva il capo basso, perplesso fra la reverenza e un gran desiderio di dire di no. Finalmente balbettò fra i denti: - Perdoni, ora non posso partire .... ancora qualche giorno per sbrigar certe faccende .... - Dimmi il tuo bisogno, - farò io per te ogni cosa ... Beppe fatto più ardito scoteva il capo. - Non hai più confidenza nel tuo vecchio amico ... di' su cosa hai da far qui .... di' su, - e gli figgeva con inquietudine i suoi grand'occhi in viso. Il mandriano stornava smarrito i suoi in cui balenavano lampi sinistri di ferocia. Il curato si turbò e, con voce tremante dallo sgomento, tendendo l'indice verso Beppe. - Ragazzo, tu pensi a colui .... soggiunse severamente. Beppe non potè più contenersi: lo vinse un terribil parossismo: si buttò a terra, si contorceva, si mordeva i pugni e con rantolo straziante: - Me lo levino dal sole .... lo nascondano .... lo mettano in un carcere profondo .... ci sono i tribunali per questo .... non lo lascino a mia portata .... Egli parlava dell'assassino della povera Gina. Io non ressi a questo spettacolo straziante; le sue istanze mi parvero giuste e dissi: - Egli ha ragione; perchè non consegneremmo quello scellerato alla punizione della legge? Il suo delitto è abbastanza accertato .... Io stesso andrò a far la denunzia. - No, sclamò il curato. Poi diventò smorto come un cencio lavato. Il medico mi avvertì con un'occhiata supplichevole di non insistere. Beppe era ricaduto nel suo cupo sbalordimento. Tuttedue gli furono intorno a confortarlo e a persuaderlo. Egli era tanto avvilito e tanto abbattuto che non durarono fatica a indurlo a scendere dopo il desinare col dottore a Zugliano. L'infelice baciò le sue creature senza far parola, senza spargere una lagrima e s' avviò barcollando come trasognato dietro alla mula del dottore. Lo accompagnammo sino in fondo al villaggio; poi il curato tornò indietro; io continuai la mia passeggiata.

Se non ora quando

680503
Levi, Primo 1 occorrenze

Sprofondò in lei, ma senza abbandonarsi, anzi, tutto intento e vigile: voleva godere tutto, non perdere nulla, incidere tutto dentro di sé. Sissl lo ricevette fremendo appena, ad occhi chiusi, come se sognasse, e fu subito finito: si udivano voci e passi vicini, Mendel e Sissl si sciolsero dall' abbraccio, scossero via il fieno e si rivestirono. Dopo di allora non ebbero molte altre occasioni di incontrarsi. Riuscirono a salvare la discrezione ma non la segretezza; i partigiani parlavano a Mendel di Sissl dicendo "la tua donna", e Mendel se ne sentiva appagato. Trovava in Sissl pace e ristoro, ma non era sicuro di amarla, perché aveva troppi pesi sull' anima, perché si sentiva come cauterizzato, e perché la presenza di Line lo perturbava. Davanti a Line, Mendel non poteva sottrarsi all' impressione di una sostanza umana preziosa ed insolita, ma inquieta ed inquietante. Sissl era come una palma al sole, Line era un' edera intricata e notturna. Doveva avere solo qualche anno più di Leonid, ma le privazioni che aveva patite nel ghetto le avevano cancellato la giovinezza dal viso, la cui pelle appariva opaca e stanca, segnata da rughe precoci. Aveva occhi grandi nelle occhiaie cineree e lontani fra loro, naso piccolo e diritto, e tratti minuti da cammeo che le conferivano una espressione insieme triste e risoluta. Si muoveva con sicurezza rapida, talvolta con scatti bruschi. Line aveva insistito con Ulybin per essere ammessa alle esercitazioni: era una partigiana, non una rifugiata. Mendel aveva ammirato a Novoselki la sua destrezza nel maneggiare le armi, e durante la marcia sulla neve la sua resistenza alla fatica, almeno pari a quella di Leonid. Questo non è un dono di natura, pensava: è una riserva di coraggio e di forza che va ricostituita ogni giorno, dovremmo tutti fare come lei. Questa ragazza sa volere; forse non sa sempre quello che vuole, ma quando lo sa lo porta a compimento. Invidiava Leonid, e insieme era preoccupato per lui: gli sembrava preso a rimorchio da Line, e che il cavo fosse troppo teso. Un cavo teso si può strappare, e allora? Line parlava poco, e mai inutilmente: poche parole meditate e senza enfasi, dette con voce bassa e leggermente velata, con gli occhi fermi in faccia all' interlocutore. Aveva modi diversi da quelli delle donne, ebree e non, che Mendel aveva incontrato fino allora. Non mostrava ritrosie né falsi pudori, non recitava e non faceva capricci; però, quando parlava con qualcuno, avvicinava viso a viso, come per osservare da vicino le sue reazioni; spesso appoggiava anche la sua mano piccola e forte, dalle unghie rosicchiate, sulla spalla o sul braccio di chi le stava di fronte. Era consapevole della carica femminile di questo suo gesto? Mendel la percepiva intensa, e non si stupiva che Leonid seguisse Line come un cane segue il padrone. Era forse effetto della lunga astinenza, ma a Mendel, quando osservava Line, veniva in mente Raab, la seduttrice di Gerico, e le altre ammaliatrici della leggenda talmudica. Ne aveva trovato le tracce in un vecchio libro del suo maestro rabbino: un libro vietato, ma Mendel sapeva dov' era nascosto, e l' aveva sfogliato furtivamente più volte, con la curiosità del tredicenne, quando il rabbino si addormentava nell' afa del pomeriggio sul suo seggiolone dall' alto schienale. Michàl, che affascinava chi la vedeva. Giaele, la mortifera partigiana di un tempo, che aveva trafitto le tempie del generale nemico con un chiodo, ma che seduceva tutti gli uomini col solo suono della sua voce. Abigaìl, la regina assennata, che seduceva chiunque pensasse a lei. Ma Raab era superiore a tutte, qualsiasi uomo pronunciasse soltanto il suo nome spandeva istantaneamente il suo seme. No, il nome di Line non aveva questa virtù. Tutti a Novoselki conoscevano la storia di Line e del suo nome, che non è russo né jiddisch né ebraico. I genitori di Line, entrambi ebrei russi e studenti in filosofia, l' avevano messa al mondo senza pensarci molto sopra negli anni roventi della rivoluzione e della guerra civile. Il padre si era arruolato volontario ed era sparito in Volinia, in battaglia contro i polacchi. La madre aveva trovato lavoro come operaia in una tessitura. In precedenza aveva preso parte alla rivoluzione di ottobre perché in essa vedeva la propria liberazione, come ebrea e come donna; aveva tenuto comizi nelle piazze e interventi nei Soviet: era seguace ed ammiratrice di Emmeline Pankhurst, la gentile signora indomita che nel 191. aveva ottenuto il diritto di voto per le donne inglesi, ed era stata felice di aver messo al mondo una bambina pochi mesi dopo perché così aveva potuto darle il nome di Emmeline, che poi tutti, a partire dalla scuola materna, avevano accorciato in Line. Ma neanche la nonna materna di Line, Anna Kaminskaja, era stata una donna da cucina, bambini e chiesa. Era nata nel 1.5. nello stesso anno, mese e giorno della Pankhurst; era fuggita di casa per studiare economia a Zurigo, ed era poi tornata in Russia per predicarvi la rinuncia ai beni terreni ed al matrimonio, e l' uguaglianza di tutti i lavoratori, cristiani od ebrei, uomini o donne. Per questo era stata confinata ad Omsk, dove era nata la madre di Line. Nella minuscola camera dove Line e la madre abitavano, a Cernigov, Line ricordava, incorniciata ed appesa al muro dietro la stufa, la fotografia della Pankhurst che la madre aveva ritagliata da una rivista: arrestata nel 1914, la minuscola rivoluzionaria in gonna lunga e cappellino con piume di struzzo stava sospesa a mezz' aria, a due spanne dal selciato di Londra lucido di pioggia, dignitosa e impassibile fra le zampe di un poliziotto britannico che serrava la sua schiena smilza contro la propria pancia colossale. A Cernigov, e poi a Kiev dove si era trasferita per studiare da maestra, Line aveva frequentato i circoli sionisti ed insieme anche il Komsomol locale: non vedeva contraddizioni fra il comunismo sovietico e il collettivismo agrario predicato dai sionisti; ma a partire dal 1932 le organizzazioni sioniste avevano avuto una vita sempre più travagliata, fino ad essere ufficialmente sciolte. Agli ebrei che desideravano una propria terra, su cui organizzarsi e vivere secondo le loro tradizioni, Stalin aveva offerto uno squallido territorio della Siberia orientale, il Birobigiàn: prendere o lasciare, chi vuole vivere da ebreo vada in Siberia; se qualcuno rifiuta la Siberia, vuol dire che preferisce essere russo. Una terza via non c' è. Ma che cosa deve e può fare l' ebreo che vorrebbe essere russo, se il russo lo esclude dall' università, lo chiama zid, gli aizza contro i pogromisti, e stringe alleanza con Hitler? Niente può fare, specie se è donna. Line era rimasta a Cernigov, erano venuti i tedeschi e avevano chiuso gli ebrei nel ghetto: nel ghetto aveva ritrovato alcuni degli amici sionisti di Kiev. Con loro, e questa volta con l' aiuto dei partigiani sovietici, aveva comperato armi, poche e inadeguate, ed aveva imparato a usarle. Line non aveva inclinazione per le teorie; in ghetto aveva sofferto fame, freddo e fatica, ma aveva sentito le sue molte anime unificarsi. La donna, l' ebrea, la sionista e la comunista si erano condensate in una sola Line che aveva un solo nemico. A fine febbraio arrivò il messaggio radio che da tanto tempo si faceva attendere, e mise il campo in subbuglio. Presso Davìd-Gorodòk, sulle paludi della Stviga gelate da quattro mesi, i tedeschi avevano attrezzato un terreno per i lanci aerei notturni: nient' altro che un campo di neve delimitato da tre fuochi ai vertici di un triangolo allungato; i fuochi, semplici cataste di rami, venivano accesi quando la radio trasmetteva un determinato segnale. Al reparto di Ulybin veniva dato l' incarico di preparare un terreno simile a quello, non lontano dal campo di Turov, e a dieci chilometri dal campo tedesco; che Ulybin stabilisse dove. Al segnale di avviso, una squadra avrebbe dovuto accendere i fuochi del campo falso; un' altra avrebbe dovuto distrarre i tedeschi e spegnere i fuochi del campo vero. Nell' uniformità della pianura, gli aerei tedeschi non avrebbero avuto altro riferimento se non i fuochi del campo allestito dai partigiani, e avrebbero lanciato i paracadute su questo. Erano attesi lanci di viveri, abiti invernali ed armi leggere. Ulybin mandò due sciatori, di notte, a rilevare le misure e l' orientamento del triangolo tedesco. Ritornarono poco dopo: tutto corrispondeva a quanto la radio aveva comunicato. Il campo era già predisposto, con le tre cataste ai vertici, orientato da ponente a levante; accanto correva una strada di campagna, che era stata resa praticabile facendovi passare uno spazzaneve. Sulla strada c' erano orme vecchie e recenti di cavalli, di ruote di carro e di pneumatici. Fra la strada e il campo di lancio c' era una baracca di legno, piccola, con il camino che fumava: non ci potevano stare più di dieci o dodici uomini. Era probabile che il materiale lanciato fosse destinato non solo al presidio di Davìd-Gorodòk, ma a tutte le guarnigioni tedesche disseminate in Polessia e nelle paludi del Pripet: in quelle zone la presenza partigiana si faceva sentire, e la via aerea non era soltanto la più rapida ma anche la più sicura. Trovare un terreno simile a quello attrezzato dai tedeschi non fu difficile: sarebbe stato più difficile trovarne uno diverso. Ulybin scelse un grande stagno a venti minuti di marcia dal campo, anch' esso parallelo a una strada carrozzabile, e vi fece costruire una baracca di assicelle in posizione corrispondente a quella dei tedeschi: era escluso che i tedeschi facessero lanci diurni, ma avrebbero potuto mandare un ricognitore a fotografare il terreno. Poi, in attesa del segnale radio tedesco, designò le due squadre. Della prima, incaricata di provocare i tedeschi e di spegnere i fuochi del loro campo, facevano parte nove uomini, fra cui Leonid, Piotr e Pavel. La seconda, che avrebbe dovuto accendere i fuochi nel campo falso, era costituita da sei uomini, fra cui Mendel. Tutti gli altri dovevano rimanere a disposizione. A lavoro finito, ne venne dato avviso per radio al comando operativo partigiano. Il tempo si manteneva freddo. Verso il cinque di marzo nevicò ancora, una neve asciutta, fine, a rade spruzzate intermittenti; fra l' una e l' altra, il cielo rimaneva velato di foschia. Per i lanci, certamente i tedeschi avrebbero atteso che il cielo fosse completamente sereno. Tuttavia, un mattino si sentì il fragore di un aereo: andava e veniva, non alto ma invisibile al di sopra delle nuvole, come se cercasse un terreno dove atterrare. Sembrava troppo basso per poter fare un lancio, e d' altra parte non c' era stato il messaggio radio di preavviso. Ulybin ordinò di piazzare la mitragliatrice pesante: era montata su una slitta, venne sbullonata e tenuta a mano puntata verso il cielo. L' aereo continuava ad andare e venire, ma il rumore si faceva più debole. I partigiani vennero fuori dalle baracche a guardare il cielo, luminoso ma impenetrabile; a intervalli si intravedeva il sole circondato da un alone, e poi subito spariva. _ Tutti dentro le baracche, stupidi, fannulloni! _ gridò Ulybin: _ se scende sotto le nuvole ci mitraglia tutti _. Infatti, ad un tratto l' aereo apparve, poco più alto delle cime degli alberi: puntava proprio verso di loro. I due uomini che reggevano la mitragliatrice manovrarono per inquadrarlo, ma si udirono diverse voci che urlavano: _ È dei nostri, non sparate! _ Era in effetti un piccolo caccia che portava sotto le ali i segni dell' aviazione sovietica; virò sulle baracche, e si vide un braccio che si agitava in gesti di saluto. Tutti gli uomini a terra si sbracciarono ad indicargli la direzione del campo di lancio, l' aereo puntò da quella parte e sparì dietro lo schermo degli alberi. _ Riuscirà ad atterrare? _ Ha sotto i pattini, non il carrello; se infila la direzione giusta riuscirà. _ Andiamo, seguiamolo _. Ma Ulybin si impose: solo lui, Maksìm e due altri calzarono gli sci e si avviarono, prima seguendo cauti l' itinerario a zig-zag che evitava i campi minati, poi diritti, col passo lungo ed agile dei corridori di fondo. Ritornarono dopo un' ora, e non erano soli. C' erano con loro un tenente e un capitano dell' Armata Rossa, giovani, ben sbarbati, sorridenti, inguainati in splendide tute imbottite e in stivaletti di cuoio lustro. Salutarono cordialmente tutti, ma si ritirarono subito con Ulybin nella stanzetta adibita a comando. Stettero a colloquio parecchie ore; ogni tanto, Ulybin mandava a prendere pane, formaggio e vodka. Nel campo, l' arrivo dei due messaggeri non attesi fu commentato a lungo, con simpatia, speranza, diffidenza ed un pizzico di irrisione. Che cosa portavano dalla Grande Terra? Informazioni, senza dubbio; nuove disposizioni; ordini. E perché erano arrivati all' improvviso, senza annunciarsi via radio? È come nell' esercito, rispondeva un altro: le ispezioni si fanno senza preavviso, se no non sono ispezioni. _ Se la passano bene, i signori della Grande Terra, _ diceva un terzo: _ scommetto che questa notte l' hanno passata nei loro letti, con i cuscini e le lenzuola, e magari anche con la moglie. Chissà se, oltre alla propaganda, avranno portato anche il sapone da barba! _ Perché i partigiani di tutti i luoghi e di tutti i tempi hanno molto in comune: rispettano le autorità centrali, ma ne farebbero volentieri a meno. Quanto al sapone da barba, questa voce stava in prima linea nell' inventario delle facezie del campo. A Turov, portare la barba era sconsigliato; in altre bande era esplicitamente proibito, perché un giovane barbuto era troppo facilmente riconosciuto come partigiano. Tuttavia, a dispetto dei divieti e del pericolo, molti fra gli uomini del bosco e delle paludi portavano barbe folte. La barba era diventato un simbolo della partisanscina, della libertà del bosco, della braveria senza regole, del prevalere dell' indipendenza sulla disciplina. A livello più o meno consapevole, la lunghezza della barba era ritenuta proporzionale all' anzianità partigiana, quasi un titolo nobiliare o un grado gerarchico. _ Mosca non vuole che portiamo la barba, ma il sapone e i rasoi non ce li manda. Con cosa dobbiamo raderci? Con le scuri, con le baionette? Niente sapone, niente rasatura: le barbe ce le teniamo. _ Tutta roba che non fa male a nessuno, _ venne ad annunziare Piotr, che era stato chiamato a smistare il materiale portato dai due ufficiali. _ Né armi né munizioni, solo carta stampata e pomata per la scabbia. No, sapone per la barba non ce n' è. Neanche sapone da bucato _. Di sua iniziativa, andò a portare la notizia alle due donne affaccendate nella lavanderia: _ Abbiate pazienza, signorine. Avanti con la cenere e con la lisciva, come facevano le nostre nonne. L' importante è che muoiano i pidocchi: ma tanto la guerra sta per finire. I due ufficiali ripartirono la sera stessa. Mentre essi, già rivestiti delle tute di volo, guardavano fuori dalla finestrella con pazienza ostentata, si vide Ulybin appartarsi con Dov e parlargli sottovoce. Poi si vide Dov che stipava in uno zaino le sue poche cianfrusaglie. Salutò tutti sobriamente; i suoi occhi si inumidirono soltanto quando prese commiato da Sissl con un breve abbraccio. Uscì zoppicando con i due messaggeri e con un partigiano che aveva la febbre, e sparì con loro nella luce livida del crepuscolo. Piotr disse: _ Non vi dovete preoccupare. Li porteranno in ospedale, nella Grande Terra: staranno meglio che qui, e li faranno guarire _. Mendel gli batté una mano sulla spalla senza rispondergli. Dopo quella visita, Ulybin si fece ancora più silenzioso ed irritabile. Come se volesse ridurre al minimo i contatti, si scelse fra i partigiani una sorta di luogotenente, Zachàr, lungo e magro come una pertica e silenzioso più di lui. Zachàr fungeva da portaordini in un senso, da portaproteste nell' altro, e da diaframma in entrambi. Non più giovanissimo, quasi analfabeta, cosacco del Kubàn ed allevatore di montoni di professione, Zachàr era un diplomatico d' istinto; si dimostrò subito abile nel sopire i contrasti, lenire le frustrazioni e mantenere la disciplina e lo spirito di corpo. Si era sparsa la voce che Ulybin avesse incominciato a ubriacarsi nella stanzetta del comando; Zachàr smentiva, ma l' andirivieni di bottiglie piene e vuote era difficile da nascondere. Il campo falso era pronto, tutti erano pronti, ma l' ordine di agire non veniva. L' intero mese di marzo passò in una inazione quasi totale, che si rivelò nociva per tutti, non solo per il comandante che non aveva più niente da comandare. Si faceva sentire la fame: non la fame lacerante che Leonid ed altri avevano sperimentata nei Lager tedeschi di retrovia, ma una fame-nostalgia, un desiderio sordo di verdura fresca, di pane appena cotto, di un cibo magari semplice, ma scelto secondo il capriccio del momento. Si faceva sentire il rimpianto della casa, pesante per tutti, straziante per il gruppo degli ebrei. Per i russi, la nostalgia della casa era una speranza non irragionevole, anzi probabile: un desiderio di ritorno, un richiamo. Per gli ebrei, il rimpianto delle loro case non era una speranza ma una disperazione, sepolta fino allora sotto dolori più urgenti e gravi, ma latente. Le loro case non c' erano più: erano state spazzate via, incendiate dalla guerra o dalla strage, insanguinate dalle squadre dei cacciatori d' uomini; case-tomba, a cui era meglio non pensare, case di cenere. Perché vivere ancora, perché combattere? Per quale casa, per quale patria, per quale avvenire? La casa di Fedja, invece, era troppo vicina. Fedja compiva diciassette anni il 30 di marzo, ottenne da Ulybin il permesso di trascorrere il compleanno a casa sua, al villaggio di Turov, e non ritornò. Passati tre giorni, Ulybin fece sapere attraverso Zachàr che Fedja era un disertore: due uomini dovevano andarlo a cercare e riportarlo in banda. Non faticarono a trovarlo, era a casa, non aveva neppur lontanamente pensato che un' assenza di tre giorni in un periodo di inattività fosse una faccenda così grave. Ma c' era di peggio: Fedja confessò pubblicamente che a casa si era ubriacato con altri ragazzi, e che da ubriaco aveva parlato. Di che cosa? Anche delle baracche? Anche del falso campo di lancio? Terreo in viso Fedja disse che non sapeva più; che non ricordava; che probabilmente no, di cose segrete non aveva parlato; che non ne aveva parlato assolutamente. Ulybin fece rinchiudere Fedja nella legnaia. Mandò Zachàr a portargli il rancio e il tè, ma all' alba tutti videro Zachàr che ritornava scalzo nella legnaia, e tutti udirono il colpo di pistola. Toccò a Sissl e a Line spogliare il corpo del ragazzo per recuperare gli abiti e gli stivali; toccò a Pavel e a Leonid scavare la fossa nel terreno intriso d' acqua di disgelo. Perché proprio Pavel e Leonid? Pochi giorni dopo, Mendel si accorse che Sissl era turbata. La interrogò: no, non era la faccenda di Fedja. Zachàr l' aveva chiamata da parte e le aveva detto: _ Compagna, devi stare attenta. Se rimani incinta, è un guaio; questa non è una clinica, e gli aerei dalla Grande Terra non arrivano tutti i giorni. Dillo al tuo uomo _. Zachàr aveva tenuto lo stesso discorso anche a Line, ma Line aveva scosso le spalle. Sempre in questo periodo, fu affisso alla bacheca un ordine del giorno scritto a matita in bella scrittura e firmato da Ulybin: presto sarebbe incominciato il disgelo, era urgente scavare un canale di gronda intorno alle baracche per evitare che queste venissero inondate. Il lavoro era importante ed aveva la precedenza assoluta, perciò la composizione delle due squadre pronte ormai da un mese per l' azione dei campi di lancio era modificata. Leonid e Mendel non ne facevano più parte, dovevano posare i fucili e prendere il piccone e la pala. Pavel no: Pavel rimaneva in forza alla prima squadra, quella che avrebbe dovuto spegnere i fuochi dei tedeschi. Mendel, Leonid ed altri quattro uomini diedero inizio al lavoro di sterro. La neve e il terreno gelavano durante la notte, e si scioglievano in un fango vischioso e rossastro durante le ore più calde del giorno. Come incuriosite, grosse cornacchie si posavano sui rami degli abeti a sorvegliare il lavoro, sempre più numerose, serrate l' una contro l' altra; a un tratto il loro peso faceva piegare il ramo, allora tutte prendevano il volo starnazzando e gracchiando ed andavano a posarsi su un altro ramo. L' ordine venne quando ormai nessuno lo aspettava più: i segnali della radio tedesca che erano stati intercettati indicavano che il lancio era prossimo. Doveva anche trattarsi di un lancio importante, poiché gli avvisi erano stati ripetuti più volte. Venne infine, il 12 di aprile, l' annuncio definitivo: il lancio era atteso per la notte. Le due squadre partirono immediatamente; Pavel, per ogni evenienza, raccomandò alle cure di Leonid il suo cavallo, che chissà perché aveva battezzato Drozd, il Tordo. Il resto del campo si preparò a passare la notte; non c' erano ordini particolari, ma tutti stavano con gli orecchi tesi, in specie Michaìl, il radiotelegrafista, e Mendel che si alternava con lui per concedergli qualche ora di riposo. La ricezione era pessima, disturbata da ronzii e scariche; i pochi messaggi che si riusciva ad intercettare erano concitati e ripetuti più volte, ma quasi indecifrabili, benché Michaìl e Mendel capissero il tedesco abbastanza bene. Alle due del mattino si udì a ovest un ronzio di motori, e tutti furono in piedi. Il cielo era sereno e senza luna; il ronzio si faceva sempre più intenso, modulato da battimenti, come quando vibrano insieme diverse corde musicali non perfettamente in fase. Non era certo un apparecchio solo, erano almeno due, forse tre. Passarono invisibili a nord delle baracche, poi il ronzio si attenuò fino a svanire. Un' ora dopo arrivò trafelato uno dei partigiani della seconda squadra. Tutto era andato a meraviglia: i fuochi accesi al momento giusto, quattro gli aerei, e i paracadute trenta, o quaranta, o anche più, molti sul terreno predisposto, altri in mezzo agli alberi, alcuni rimasti impigliati nei rami. Mandare subito uomini di rinforzo e una slitta, il materiale era molto. Tutti avrebbero voluto partire, ma Ulybin non si lasciò smuovere. Andò lui stesso, con Maksìm e Zachàr; non volle neppure che ritornasse sul posto il messaggero che aveva portato la notizia. Per la prima volta nella sua carriera di cavallo partigiano si rese utile il Tordo: Ulybin lo fece aggiogare ad una slitta che partì sulla neve resa compatta dal disgelo e coperta da una crosta fragile di ghiaccio notturno. Nel frattempo era rientrata anche la prima squadra, al completo, con un uomo ferito al braccio. L' azione era andata sostanzialmente bene, raccontarono Piotr e Pavel. Si erano appostati nei pressi della baracca, avevano sentito il ronzio degli aerei ed avevano visto tre tedeschi uscire con i bidoni di benzina da versare sulle cataste. Li avevano uccisi prima che accendessero i fuochi, e simultaneamente un partigiano che si era arrampicato sul tetto della baracca aveva lasciato cadere una granata a mano dentro il camino. Alcuni dei tedeschi dovevano essere morti, ma altri erano usciti dalla baracca sfondata ed avevano aperto il fuoco. Un partigiano era rimasto ferito e un tedesco era morto; altri due o tre erano riusciti ad avviare una motocarrozzetta, ma anche questi erano stati uccisi mentre si allontanavano. Nella baracca, oltre alle armi leggere e a un po' di viveri in scatola, non avevano trovato niente di interessante. La radio c' era, ma era stata distrutta dall' esplosione. Si erano appostati ai lati della strada, perché pensavano che dalla città sarebbe dovuto arrivare un automezzo per caricare il materiale lanciato, ma a metà mattina non avevano visto niente ed erano rientrati. La slitta rientrò carica, anche se il messaggero doveva aver esagerato: i colli paracadutati non erano più di una ventina. Ulybin non li lasciò toccare da nessuno. Li fece accatastare tutti nella sua camera, li aprì lui stesso aiutato da Zachàr, e permise che gli altri ne inventariassero il contenuto solo dopo averne preso visione. C' era un po' di tutto, come nelle lotterie di beneficenza: roba preziosa, inutile, misteriosa e ridicola. Generi di conforto quali Mendel ed i suoi amici non avevano visti mai: uova di cioccolato autarchico per la prossima Pasqua, altri grossi cioccolatini in forma di pecorelle, di scarabei e di topolini. Sigari e sigarette, acquavite e cognac in lattine: forse una confezione studiata apposta dai tecnici tedeschi per resistere all' urto contro il suolo? Scaldini di terracotta, evidentemente per i piedi delle sentinelle. Una scatola piena di medaglie al valore e decorazioni assortite, insieme con i diplomi relativi. C' erano pacchi di giornali e riviste, un pacco di ritratti del Führer, un pacco di corrispondenza privata destinata alle varie guarnigioni della zona, un altro di corrispondenza d' ufficio che Ulybin fece mettere da parte. Due cassette erano piene di munizioni per la Maschinenpistole della Wehrmacht, altre due contenevano caricatori per un tipo di mitragliatrice che nessuno riuscì ad identificare. In una cassetta c' era una macchina per scrivere e materiale vario di cancelleria. Altre casse contenevano sei esemplari di un congegno che nessuno a Turov conosceva e di cui non si comprendeva l' uso: un cilindro appiattito, grande come una padella e munito di un lungo manico smontato in segmenti. _ Questa roba è per te, orologiaio, _ disse Ulybin a Mendel. _ Studiala e dicci a cosa serve. A sera, Ulybin concesse di festeggiare l' avvenimento con una moderata baldoria. Poi si appartò con Pavel a esaminare i documenti che erano stati trovati: non erano in codice, non era materiale sensazionale, erano soltanto minuziosi elenchi, fatture in molte copie, documenti contabili di fureria. Ulybin si stancò presto, e incominciò a farsi tradurre da Pavel le lettere private, che erano più interessanti; erano scritte in termini che avrebbero dovuto essere cifrati ed allusivi, ma così ingenui che anche un lettore estraneo come Pavel li penetrava senza difficoltà; era chiaro, il maltempo che tutti i padri e le madri lamentavano era l' "offensiva senza soste" dei bombardamenti alleati, e la siccità era la carestia. Era propaganda disfattista involontaria: Ulybin disse a Pavel di tradurre pubblicamente alcuni passi. Pavel stava leggendo, in russo, ma con un accento tedesco deliberato e caricato che faceva ridere tutti. Ed ecco dal cielo buio venire a ondate lo stesso ronzio musicale della sera avanti. _ Presto! _ gridò Ulybin. _ La seconda squadra, calzare gli sci e via di corsa ad accendere i fuochi: questi ci regalano un secondo lancio! _ I sei uomini della squadra si precipitarono fuori, ed Ulybin guardò l' orologio: se correvano, entro un quarto d' ora sarebbero potuti arrivare sul posto prima che gli aerei si stancassero di cercare il terreno nel buio. Cercavano, infatti: il fragore dei motori si avvicinava e si allontanava; ad un certo momento la squadriglia passò proprio sopra le baracche, poi si allontanò di nuovo. Erano passati venti minuti esatti all' orologio di Ulybin quando si udì una salva di esplosioni. Tutti uscirono all' aperto, senza capire: i rombi erano troppo lontani e troppo profondi per poter essere dovuti ai campi minati intorno alle baracche. Si vedevano le vampe, a nord-est: dopo ogni vampa si udiva il colpo, con un ritardo di sei secondi. Non c' erano dubbi, erano bombe sul terreno falsificato. I tedeschi avevano capito e si vendicavano. Tornò la squadra: quattro uomini soli. Il caposquadra raccontò con parole rotte. Erano arrivati a tempo di primato, proprio mentre gli aerei incrociavano sulle loro teste. Avevano acceso la prima delle cataste, e subito erano piovute bombe: grosse, da almeno duecento chili. Se il ghiaccio fosse stato spesso come a gennaio, forse avrebbe resistito; ma era indebolito dal disgelo, le bombe lo penetravano e scoppiavano dal di sotto, scagliando in aria lastroni di ghiaccio. I due uomini che mancavano erano spariti, ingoiati dalla palude: inutile andarli a cercare. Per gli uomini di Turov ebbe inizio un tempo difficile. Era cominciato il disgelo, e fu più duro dell' inverno. Ulybin aveva mandato uomini a verificare la condizione del campo falsificato: era impraticabile, non soltanto nessun aereo vi avrebbe potuto atterrare, ma neppure sarebbe stato possibile chiedere lanci. Il ghiaccio profondo dell' inverno era stato squarciato dalle esplosioni: si riformava nella notte, ma talmente sottile che non avrebbe retto al peso di un uomo. Sulle altre paludi si era conservato meglio, perché la neve lo aveva protetto dai raggi diretti del sole, ma la neve stessa era stata tormentata dal disgelo e dal vento: si era mutata in una crosta dura e corrugata, su cui un aereo normale, anche se munito di pattini, non avrebbe potuto atterrare senza capotare. Ulybin dovette imporre il silenzio-radio, perché l' impresa del lancio dirottato sembrava aver risvegliato l' attività dell' aviazione tedesca. Per tutto l' inverno era stata minima, e apparentemente casuale. Adesso, invece, era raro che trascorresse un giorno sereno senza che si vedesse un ricognitore aggirarsi nei dintorni: e i giorni sereni erano molti. I viveri di lusso del lancio erano durati poco, e la farina, il lardo e le scatolette cominciavano a scarseggiare. Ulybin istituì un razionamento, e il morale di tutti discese: la fame, lo spettro degli inverni precedenti, stava per ritornare, come se il tempo fosse retrocesso ai mesi terribili degli inizi della guerra partigiana, quando tutto, il cibo, le armi, le baracche, i piani d' azione, il coraggio per combattere e per vivere, erano frutto dell' iniziativa disperata di pochi. Gli uomini insistevano per riprendere le spedizioni di approvvigionamento ai villaggi; preferivano di gran lunga la fatica e il rischio alla fame, ma Ulybin non volle. C' era ancora troppa neve; era già difficile capire come i ricognitori non avessero ancora localizzato le baracche. Era evidente che le stavano cercando; erano ben mimetizzate e forse sarebbero ancora sfuggite alle ricerche, ma di una pista fresca i tedeschi si sarebbero accorti senza fallo. Che fare? Aspettare, lasciare che il tempo passasse: l' unica soluzione possibile, tuttavia una pessima soluzione. Aspettare che la neve si sciogliesse, perché nel terreno nudo, anche se fangoso, le tracce si vedono di meno. Aspettare che i ricognitori andassero a cercare altrove. Aspettare in silenzio le notizie trasmesse dalla radio: i tedeschi avevano evacuato Odessa, ma Odessa era lontana. Il silenzio-radio è pesante come una mutilazione, come se un essere umano venisse imbavagliato al momento in cui vorrebbe chiamare aiuto: congiunto con la fame, aveva addensato sulle baracche di Turov lo stato d' animo dell' assedio. Quegli uomini non erano nuovi alle privazioni, alla fatica, ai disagi ed al pericolo, ma l' isolamento e la clausura li trovavano impreparati: abituati agli spazi ed alla libertà precaria degli animali del bosco, soffrivano l' angoscia debilitante della trappola e della gabbia. Ulybin continuava a bere: il fatto era conclamato, e criticato da tutti ad eccezione di Zachàr; sottovoce e non sempre sottovoce. Beveva in solitudine, ma non aveva perduto né la lucidità né la sua autorità burbera. Mendel gli aveva chiesto un chiarimento sulla partenza così frettolosa di Dov, e Ulybin gli aveva risposto: _ I combattenti feriti o ammalati si curano, nei limiti del possibile. Anche il vostro amico sarà curato, ma non so dirti altro. Forse alla fine della guerra saprete qualcosa di lui, ma i destini individuali non hanno importanza. Ulybin era troppo intelligente, e troppo esperto di cose partigiane, per non capire che qualcosa bisognava pure che fosse fatta; che le piste erano pericolose, ma l' angoscia lo era di più. Una pista unica che partisse dalle baracche avrebbe condotto i tedeschi alle baracche con certezza, ma se la pista avesse soltanto attraversato il piccolo bosco che nascondeva le baracche, la localizzazione del campo sarebbe stata meno immediata. Malvolentieri, Ulybin autorizzò dunque non una ma due spedizioni di approvvigionamento, che partissero nella stessa notte in direzione opposte verso villaggi diversi. Le squadre erano partite da poco, e cominciava appena ad albeggiare, quando si udì un rumore nuovo ed allarmante per gli ebrei, rassicurante ed inconfondibile per i vecchi di Turov. Sembrava il crepitio di una motocicletta, era tenue, lontano, ma si stava avvicinando. Aumentò di volume, scese di tono come un disco di grammofono che venga frenato, fece qualche starnuto e tacque. Gli uomini di Ulybin furono subito tutti in piedi: _Un p-2! È atterrato qui, sulla radura! Andiamo a vedere! _ Forse non c' era bisogno di mandare via le squadre, disse Piotr. _ Che cosa è un P-2? _ chiese Mendel. _ I P-2 sono gli aerei partigiani. Sono di legno, volano lenti, ma decollano e atterrano dappertutto. Volano di notte, senza luci; buttano granate sui tedeschi e portano provviste _. Poco dopo entrò nella baracca il pilota, tozzo e informe nella tuta di volo di pelliccia di agnello rovesciato. La depose, si tolse gli occhialoni dalla fronte, e si vide che era una ragazza, piccola, grassoccia, dal largo viso tranquillo e dall' aria domestica. Portava i capelli spartiti da una scriminatura e annodati dietro la nuca in due trecce corte legate con spago nero. I due uomini che le erano andati incontro recavano due bisacce, come se tornassero dal mercato. I partigiani le si accalcarono intorno, la abbracciavano e la baciavano sulle guance rotonde indurite dal freddo: _ Polina! Brava Polina! Benvenuta, anima mia, finalmente ti si rivede! Che cosa ci hai portato? La ragazza, che non dimostrava più di vent' anni, si difendeva ridendo, con la grazia schiva delle contadine: _ Basta, compagni! Mi hanno mandata a vedere che cosa succede qui, e perché la vostra radio tace, ma lasciatemi, devo ripartire subito. Non ci sarebbe un goccio di vodka? Dov' è il comandante? _ Si appartò con Ulybin nella cameretta del Comando. _ È lei, è Polina Michàjlovna, _ disse Piotr fiero e felice. _ È Polina Gelman, del Reggimento delle Donne. Non lo sapete? Sono tutte donne, sono loro che pilotano i P-2. Tutte brave ragazze, ma Polina è la più brava di tutte. Viene da Gomel, suo padre era rabbino e suo nonno ciabattino. Ha già fatto più di settecento missioni, ma qui da noi era venuta una volta sola, sei mesi fa. Si era fermata qualche giorno e avevamo fatto amicizia, ma questa volta si vede che ha fretta. Peccato. Polina si congedò e ripartì sul suo fragile apparecchio. Aveva portato un po' di viveri e di medicinali, e brutte notizie. Erano in corso movimenti di truppe e di mezzi corazzati; in vari villaggi intorno a Turov si stavano radunando unità dei corpi tedeschi ed ucraini specializzati nella lotta contro i partigiani. Si stava preparando un' azione concentrica di rastrellamento, con mezzi enormemente superiori alle possibilità di difesa del campo di Turov; altre bande nella zona non ce n' erano. Per qualche ragione, i tedeschi avevano sopravvalutato le forze partigiane; o forse si trattava di un' operazione su grande scala, in tutta la regione delle paludi del Pripet o in tutta la Polessia. Il ghetto di Soligorsk, dove avevano cercato salvezza gli anziani e i malati di Novoselki, era stato accerchiato e tutti i componenti erano stati fucilati; al presidio di Soligorsk si era aggiunta una unità delle SS specializzata nella ricerca della gente nascosta, munita di cani addestrati. Molti degli uomini di Turov conoscevano questi cani e li temevano più dei carri armati. Insomma, il campo doveva essere evacuato. Ulybin chiamò Mendel a rapporto e gli chiese se aveva capito che cosa erano gli ordigni che erano stati trovati fra il materiale paracadutato. _ Sono cercamine, _ rispose Mendel. _ Ossia cercametalli: segnalano gli oggetti metallici sepolti. _ E allora, se i tedeschi hanno questi aggeggi in dotazione, troverebbero i nostri campi minati? _ Certo, che li troverebbero; forse non subito, ma li troverebbero. Ulybin lo guardò torvo: _ Ma io le baracche le faccio minare ugualmente, che i tedeschi abbiano i tuoi cercamine o no. Troveranno le mine sepolte, ma non quelle che nasconderemo qui dentro. Ti farò vedere io se non ne faccio saltare in aria qualcuno, di quei figli di puttana. Mendel era spaventato. Che il comandante avesse bevuto, e anche un po' più del solito, si vedeva bene, ma il suo tono lo impauriva. _ Che cosa dici, Osìp Ivànovic? Perché mi parli così? Li ho forse inventati io i cercamine? Li ho regalati io ai tedeschi? _ Me ne infischio di chi li ha inventati. Sta di fatto che ce ne andiamo. Non vorrai che stiamo qui ad aspettare i carri armati e che ci facciamo massacrare tutti. Mendel uscì stravolto, ma poco dopo Ulybin lo richiamò: _ Funzionano, quegli aggeggi? _ Sì, funzionano. _ Prendi Dimitri e Vladimir e insegnagli come si usano. _ Vuoi minare le baracche con le mine sepolte qui intorno? _ Sei intelligente, hai proprio indovinato. Altre mine non ne abbiamo. _ Guarda che non è lavoro da ragazzi. Delle mine hanno più paura gli esperti dei principianti. E poi, più a lungo sono state sotto terra, più sono pericolose. _ Ti senti importante, eh? Smettila, va e fai come ti ho detto. Il comandante sono io, e le critiche non mi vanno. Già voialtri siete tutti uguali. Tutti bravi a discutere; e tutti mezzi tedeschi, Rosenfeld, Mandelstamm .... E tu, come ti chiami? Dajcer, no? Mendel Nachmanovic Dajcer: sei tedesco già fino nel nome. Mendel tenne la sua lezione con quanta più diligenza poté, mandò i due ragazzi a prendere ordini da Ulybin, e si ritirò pieno di amarezza. Un tempo, nel giorno dei perdoni, gli ebrei prendevano un caprone; il sacerdote gli premeva le mani sul capo, gli enumerava tutte le colpe commesse dal popolo e gliele imponeva addosso: il colpevole era lui e solo lui. Poi, carico dei peccati che non aveva commesso, lo cacciavano via nel deserto. Così pensano anche i gentili, anche loro hanno un agnello che si porta via i peccati del mondo. Io no, non ci credo. Se ho peccato, porto il peso dei miei peccati, solo di quelli, e ne ho d' avanzo. Non porto i peccati di nessun altro. Non sono stato io che ho mandato la squadra a farsi bombardare. Non ho sparato io a Fedja mentre dormiva. Se dovremo andare nel deserto ci andremo, ma senza portare sulla testa i peccati che non abbiamo commessi. E se Dimitri e Vladimir si fanno scoppiare le mine fra le mani, ne devo rispondere io, Mendel l' orologiaio? Invece i due ragazzi se la cavarono bene: otto delle mine interrate furono disinnescate e piazzate in vari punti delle baracche. A fine aprile era esplosa la primavera, annunciata da tre giorni di vento caldo e secco. La neve sui rami degli alberi si scioglieva in una pioggia continua, che rallentava il suo ritmo solo di notte; fondeva rapidamente anche la neve al suolo, e subito dal terreno fradicio e fra gli steli proni dell' erba giallastra, macerata dal lungo gelo, spuntavano i primi fiori, timidi e assurdi. I voli dei ricognitori tedeschi si facevano sempre più frequenti, e uno di essi, forse a caso, o forse insospettito da qualche movimento, mitragliò brevemente le baracche, senza provocare vittime né danni. Ulybin ordinò di prepararsi ad abbandonare il campo. Le slitte, ormai inutili, furono bruciate; carri non ce n' erano né c' era il tempo di procurarsene. Per il trasporto delle salmerie non c' erano che i due cavalli e le spalle degli uomini: una carovana di facchini, non un trasferimento di combattenti. Molti degli uomini protestavano, avrebbero preferito restare nel campo e far fronte ai tedeschi, ma Ulybin li mise a tacere: rimanere sul posto era impossibile, e del resto l' evacuazione del campo era stata ordinata via radio. La radio aveva anche segnalato la direzione più opportuna per filtrare attraverso l' accerchiamento delle forze antipartigiane: verso sud-ovest, risalendo il corso della Stviga, ma senza abbandonare la fascia delle paludi. Col disgelo, e con il loro labirinto di istmi, di stretti e di guadi, erano ridiventate un terreno amico. Avrebbero dovuto partire nella notte sul 2 di maggio, ma a sera le sentinelle diedero l' allarme: avevano sentito rumori a nord, voci umane e latrati di cani. Molti uomini diedero mano alle armi, incerti se prepararsi a resistere o anticipare la ritirata, ma Ulybin intervenne: _ Tutti ai vostri posti, stupidi, bambocci! Avanti con i preparativi, legare i sacchi, chiudere le casse. Siete nati ieri? I cani dei tedeschi non abbaiano, se no che cani da guerra sarebbero? Si rivolse alle sentinelle: _ State in guardia, ma non sparate. È probabile che sia gente amica: hanno mandato avanti i cani a cercare la pista attraverso le mine. Infatti arrivarono prima i cani: erano solo due, e non cani da guerra ma modesti cani da pagliaio, eccitati e disorientati. Abbaiavano nervosamente, ora verso le baracche, ora verso gli sconosciuti che tardavano a seguirli, fieri del dovere compiuto, inquieti per le nuove presenze umane; scodinzolavano e ringhiavano alternativamente, o anche simultaneamente; balzavano avanti e indietro, danzavano sul posto con le zampe anteriori rigide, e latravano a perdifiato aspirando aria a intervalli con un rantolo convulso. Poi si videro arrivare due vacche, cacciate avanti da giovani sbrindellati: badavano che le bestie non uscissero dalle piste tracciate dai cani. Infine arrivò il grosso della banda, una trentina di uomini e donne, armati e disarmati, stanchi, laceri e baldanzosi. In mezzo a loro c' era un uomo dal naso aquilino e dal viso abbronzato: portava a tracolla un parabellum e un violino. In coda al gruppo c' era Dov. Mendel disse tra sé: "Benedetto Colui che resuscita i morti". Nacque un trambusto, tutti facevano domande e nessuno rispondeva. Prevalsero alla fine le voci di Ulybin e dell' uomo alto, che era Gedale. Che tutti facessero silenzio ed aspettassero gli ordini; Ulybin e Gedale si ritirarono nello sgabuzzino del comando. Molti degli uomini di Turov ricordavano la lite che era scoppiata fra i due all' inizio dell' inverno; che cosa sarebbe successo ora, in questo nuovo incontro? Si sarebbero riconciliati, davanti alla minaccia imminente? Avrebbero trovato un accordo? Mentre si attendeva l' esito del colloquio, i nuovi venuti chiesero di essere accolti nelle baracche ormai sgombre; alcuni sedettero a terra, altri si sdraiarono e si addormentarono subito, altri ancora chiesero tabacco, o acqua calda per lavarsi i piedi. Chiedevano con l' umiltà di chi ha bisogno, ma con la dignità di chi sa di avere diritto: non erano mendicanti né gente girovaga, erano la banda ebraica radunata da Gedale, composta dai superstiti delle comunità di Polessia, Volinia e Bielorussia; una aristocrazia miseranda, i più forti, i più astuti, i più fortunati. Ma alcuni venivano da più lontano, per strade piene di sangue; erano sfuggiti ai pogrom dei saccheggiatori lituani che uccidevano un ebreo per avere un lenzuolo, ai lanciafiamme degli Einsatzkommandos, alle fosse comuni di Kovno e di Riga. C' erano fra loro i pochi sfuggiti al massacro di Ruzany: avevano vissuto per mesi in tane scavate nel bosco, come i lupi, e come i lupi cacciavano silenziosi in branco. C' erano gli ebrei contadini di Blizna, dalle mani indurite dalla vanga e dalla scure. C' erano gli operai delle segherie e delle tessiture di Slonim, che prima ancora di incontrare la barbarie hitleriana avevano scioperato contro i padroni polacchi ed avevano conosciuto la repressione e la prigione. Ognuno di loro, uomo o donna, aveva sulle spalle una storia diversa, ma rovente e pesante come il piombo fuso; ognuno avrebbe dovuto piangere cento morti se la guerra e tre inverni terribili gliene avessero lasciato il tempo e il respiro. Erano stanchi, poveri e sporchi, ma non sconfitti; figli di mercanti, sarti, rabbini e cantori, si erano armati con le armi tolte ai tedeschi, si erano conquistato il diritto ad indossare quelle uniformi lacere e senza gradi, ed avevano assaporato più volte il cibo aspro dell' uccidere. I russi di Turov li guardavano inquieti, come avviene davanti all' inatteso. Non riconoscevano in quei visi smunti ma determinati il zid della loro tradizione, lo straniero in casa, che parla russo per abbindolarti ma pensa nella sua lingua strana, che non conosce Cristo e segue invece i suoi precetti incomprensibili e ridicoli, forte solo della sua furberia, ricco ed imbelle. Il mondo si era capovolto: questi ebrei erano alleati ed armati, come gli inglesi, come gli americani, e come tre anni prima era stato alleato anche Hitler. Le idee che ti insegnano sono semplici e il mondo è complicato. Alleati, dunque: compagni d' armi. Avrebbero dovuto accettarli, stringergli le mani, bere vodka con loro. Qualcuno tentava un sorriso impacciato, un timido approccio con le donne scarmigliate, infagottate nei panni militari fuori misura, dai visi grigi di fatica e di polvere. Sradicare un pregiudizio è doloroso come estrarre un nervo. Il muro dell' incomprensione ha due facce, come tutti i muri, e dall' incomprensione nascono l' imbarazzo, il disagio e l' ostilità; ma gli ebrei di Gedale non si sentivano, in quel momento, né imbarazzati né ostili. Erano allegri, invece: nell' avventura ogni giorno diversa della Partisanka, nella steppa gelata, nella neve e nel fango avevano trovato una libertà nuova, sconosciuta ai loro padri e ai loro nonni, un contatto con uomini amici e nemici, con la natura e con l' azione, che li ubriacava come il vino di Purim, quando è usanza abbandonare la sobrietà consueta e bere fino a non saper più distinguere la benedizione dalla maledizione. Erano allegri e feroci, come animali a cui si schiude la gabbia, come schiavi insorti a vendetta. E l' avevano gustata, la vendetta, pur pagandola cara: a diverse riprese, in sabotaggi, attentati e scontri di retrovia; ma anche di recente, pochi giorni prima e non lontano. Era stata la loro grande ora. Avevano attaccato, da soli, la guarnigione di Ljuban, ottanta chilometri a nord, dove stavano confluendo truppe tedesche ed ucraine destinate al rastrellamento; nel villaggio era anche un piccolo ghetto di artigiani. I tedeschi erano stati cacciati da Ljuban: non erano di ferro, erano mortali, quando si vedevano sopraffatti scappavano in disordine, anche davanti agli ebrei. Alcuni di loro avevano abbandonato le armi e si erano gettati nel fiume ingrossato dal disgelo, era stata una visione che rallegrava, una immagine da portarsi nella tomba: gli ebrei la raccontavano ai russi con facce allucinate. Sì, gli uomini biondi e verdi della Wehrmacht erano fuggiti davanti a loro, entravano nell' acqua e cercavano di arrampicarsi sulle lastre di ghiaccio trascinate dalla corrente, e loro avevano sparato ancora, e avevano visto i corpi dei tedeschi affondare o navigare verso la foce sui loro catafalchi di ghiaccio. Il trionfo era durato poco, si capisce: i trionfi durano sempre poco, e, come sta scritto, la gioia dell' ebreo finisce nello spavento. Loro si erano ritirati nel bosco portandosi dietro quelli fra gli ebrei del ghetto di Ljuban che sembravano in grado di combattere, ma i tedeschi erano tornati e avevano ucciso tutti quelli che nel ghetto erano rimasti. La loro guerra era così, una guerra in cui non ci si volta a guardare indietro e non si fanno i conti, una guerra di mille tedeschi contro un ebreo e di mille morti ebrei contro un morto tedesco. Erano allegri perché erano senza domani e non si curavano del domani, e perché avevano visto i superuomini sguazzare nell' acqua gelata come le rane: un regalo che nessuno gli avrebbe più tolto. Portavano anche altre notizie più utili. Il rastrellamento era già cominciato, e loro erano stati sloggiati dal loro campo, che del resto era un povero campo di tane, provvisorio, non certo paragonabile a quello di Turov. Ma non era vero che fosse un grande rastrellamento: non c' erano né carri né artiglieria pesante, e un prigioniero tedesco che loro avevano interrogato aveva confermato che il punto più debole dell' accerchiamento doveva proprio essere dove pensava Ulybin: a sud-ovest, lungo la Stviga. Dov stava bene, non zoppicava quasi più, ma era più curvo di prima. I suoi capelli, di nuovo accuratamente pettinati, erano più radi e più bianchi. Sissl gli chiese se voleva mangiare qualcosa, e lui rispose ridendo: _ A un malato si domanda, a un sano si dà, _ ma aveva più fretta di raccontare che di mangiare. Intorno a lui si era formato un cerchio di ascoltatori, ebrei e russi: non erano molti quelli che dalla Grande Terra tornavano in territorio partigiano. _ Quanto tempo è che parlano, quei due? Un' ora? È buon segno: più parlano e più vanno d' accordo; e vuole anche dire che i tedeschi sono ancora lontani, o che hanno cambiato strada. Ma sicuro, che mi hanno curato: che cosa avevate pensato? All' ospedale di Kiev. Non aveva più il tetto, o anzi non l' aveva ancora, perché lo stanno ricostruendo, e sapete chi? I prigionieri tedeschi, quelli che si sono arresi a Stalingrado. _ Non c' era il tetto, non c' era da mangiare e non c' era l' anestesia, ma c' erano le dottoresse, e mi hanno operato subito: mi hanno tolto qualcosa dal ginocchio, un osso, e me lo hanno anche fatto vedere. Nelle cantine, mi hanno operato, alla luce dell' acetilene, e poi mi hanno messo in corsia, una corsia sterminata, più di cento lettini per parte, con dentro vivi, moribondi e morti. Non è bello stare in ospedale, ma proprio in quella corsia è arrivata la mia fortuna: se c' è la fortuna, anche un bue partorisce. È venuta una visita, uno importante, del Politburò, un ucraino: piccolo, grasso, calvo, con l' aria del contadino e il petto coperto di medaglie. In mezzo a quella confusione di portantini che andavano e venivano, si è fermato proprio davanti a me. Mi ha chiesto chi ero, da dove venivo e dove ero stato ferito; aveva dietro quelli della radio, e ha improvvisato un discorso dove diceva che tutti quanti, russi e georgiani e jakuti ed ebrei, siamo figli della gran madre Russia, e che tutte le questioni devono finire .... Si udì la voce di Piotr: _ Se quello era un ucraino, ed era un pezzo grosso, gli potevi dire che incominciasse a fare pulizia a casa sua! Sono gentaglia, gli ucraini: quando sono venuti i tedeschi, gli hanno aperto le porte e gli hanno offerto il pane e il sale. I loro banderisti sono peggio dei tedeschi _. Altre voci fecero tacere Piotr ed esortarono Dov a continuare. _ ... e mi ha chiesto, una volta che io fossi guarito, dove volevo essere mandato. Io gli ho risposto che la mia casa è troppo lontana, che avevo amici partigiani, e che avrei voluto ritrovarli. Bene, appena mi hanno dichiarato guarito lui si è dato da fare. Forse voleva dare un esempio, ha ripescato Gedale e la sua banda e mi ha fatto paracadutare vicino al suo campo, insieme a una cassa con dentro quattro parabellum come suo regalo personale. Scendere col paracadute fa abbastanza paura, ma sono finito nel fango e non mi sono fatto niente. Dov avrebbe avuto ancora una quantità di cose da raccontare su quanto aveva visto e udito durante la sua convalescenza nella Grande Terra, ma si aprì la porta del comando, ne uscirono Gedale ed Ulybin, e tutti tacquero.

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Darma e l'anglo-indiano ne avevano proprio bisogno, ed infatti nonostante i muggiti del mare e gli scrosci formidabili dei tuoni, non tardarono ad abbandonarsi sullo strato d'alghe. Yanez, più robusto e più abituato alle lunghe veglie, rimase di guardia. Di quando in quando anzi si alzava e, noncurante dei rovesci d'acqua e dei nembi di spuma che le onde avventavano contro la roccia, si spingeva fino sulla spiaggia per guardare il mare. Sperava certo di veder scintillare fra le tenebre i fanali del Re del Mare, speranza vana, però, poichè nessun punto luminoso appariva fra quel caos di flutti muggenti. L'orizzonte, quando i lampi non lo illuminavano, era sempre tenebroso, come se masse di catrame liquido calassero dalle nubi. Verso l'alba parve che la bufera accennasse ad allontanarsi verso l'est, ossia nella direzione presa dall'incrociatore. Il vento era scemato, quantunque lo si udisse a ruggire sempre sulla vetta del gigantesco scoglio. Anche le onde cominciavano un po' a spianarsi e non battevano più lo scoglio colla furia di prima. Yanez, credendo che Darma e l'anglo-indiano dormissero ancora, lasciò il rifugio per cercare la colazione. - Ci accontenteremo delle uova degli uccelli marini, - si era detto. - Dopo tutto non sono così cattive come si crede. Avendo scorto su una specie di piattaforma che si protendeva a quaranta metri d'altezza, numerosi uccellacci a nidificare, il portoghese cominciò a superare gli scaglioni e le piattaforme che da quella parte rendevano accessibile, almeno fino ad una certa altezza, il colossale scoglio. Si era già innalzato di una quindicina di metri, quando giunsero improvvisamente ai suoi orecchi delle grida. Yanez, assai inquieto, si era vivamente voltato tenendosi stretto alla punta d'una roccia. Una scialuppa dai fianchi larghissimi, entrava in quel momento nella minuscola rada, manovrata da una mezza dozzina di isolani. - Per Giove! - esclamò, lasciandosi scivolare rapidamente giù dalla roccia. - Ecco i nostri affari guastati! Che mi facciano pagare il carbone con qualche oncia di piombo nella testa? Giunto al piano si precipitò verso il rifugio, gridando: - In piedi, sir Moreland! - È giunto il Re del Mare? - chiesero ad una voce il capitano e Darma. - È giunto ben altro! - rispose Yanez. - Sono gli isolani che stanno per approdare. - Vi hanno veduto? - chiese sir Moreland. - Lo temo, trovandomi poco fa sulle roccie. - Dove sono? - chiese Darma. - Stanno girando le scogliere e fra poco saranno qui. - Che ci facciano prigionieri? - È probabile, - rispose l'anglo-indiano, mentre nei suoi sguardi brillava un lampo strano. - Vado a spiarli, - disse Yanez, gettandosi fra le dune di sabbia. - sir Moreland, - disse Darma, quando furon soli, vedendolo pensieroso. - Che quegli isolani si vendichino contro il signor Yanez? - Non ho alcun dubbio. Gli faranno pagare caro il carbone. - Voi che indossate la divisa britannica, potete salvarlo. - Io! - fece l'anglo-indiano, come stupito da quelle parole. - Non vi opporrete al suo arresto? Sir Moreland guardò Darma incrociando le braccia. La sua fronte si era annuvolata ed il suo viso aveva assunto una espressione dura, quasi selvaggia, mentre nei suoi occhi balenava una cupa fiamma. - Non lo farete, sir Moreland? - ripetè la fanciulla. - Non dimenticate che quell'uomo vi ha strappato alla morte e che vi ha trattato non come un nemico, bensì come ospite. Il capitano continuava a tacere. Pareva che nel suo cuore si combattesse un'aspra battaglia, dalle diverse espressioni del suo volto. - È un mio avversario, - disse poi con voce sorda. - sir Moreland! Non fatemi perdere la stima che nutro per voi. Anch'io al signor Yanez devo la vita mia e quella di mio padre. L'anglo-indiano aveva fatto un gesto come di collera, che subito represse. - Sia, - disse poi, - così non gli dovrò più nessuna riconoscenza. Poi uscì dal rifugio, in preda ad una viva agitazione, mormorando con accento tetro: - Saprò un giorno ritrovarlo. Gli uomini della scialuppa erano in quel momento sbarcati, dopo essersi armati di fucili. Erano tutti bianchi e fra di loro vi era uno dei consiglieri del governatore. Un uomo che doveva già aver scorto Yanez, aveva superata la duna, dietro la quale cercava di nascondersi il portoghese, gridando con voce minacciosa: - È inutile che ti nascondi, ladrone di mare! Mostrati! Il portoghese non si era fatto ripetere l'invito e si era alzato, dicendo con voce beffarda: - Buon giorno, signore, e grazie della vostra visita mattutina. - Avete un bel fegato, ladrone, - disse l'isolano. - Non siete voi uno di quelli che ci hanno portato via il carbone? - Un ladrone! Del carbone! - esclamò il portoghese. - Che cosa volete dire? Io non vi capisco. - Non facevate parte dell'equipaggio di quella nave di pirati? - Quali pirati! Io sono un naufrago, che non ho mai derubato nessuno. Sono un galantuomo io. - No, devi essere uno di quei ladroni! Una voce che pareva piena d'indignazione, si levò in quel momento dietro le dune. Era sir Moreland che giungeva a passo di corsa. - È a noi che date dei ladroni? - gridò. - Chi siete voi che osate offendere un capitano della flotta anglo-indiana e del rajah di Sarawak? L'isolano vedendo comparire quel nuovo personaggio che indossava la divisa di comandante, quantunque fosse ridotta in pessimo stato dopo il bagno fra le onde oleose, era rimasto muto. - Che cosa volete voi? Perchè minacciate? - chiese l'anglo-indiano affettando una superba collera. - Un capitano inglese! - aveva esclamato finalmente l'isolano. - Come va questa faccenda? Fece portavoce colle mani e volgendosi verso la spiaggia, si mise a gridare: - Ohe! Camerati! Venite! Altri cinque uomini, egualmente armati di vecchi fucili ad avancarica, avevano raggiunte le dune, prendendo un'attitudine minacciosa. Vedendo però sir Moreland, avevano subito abbassato le armi, levandosi i cappellacci di tela cerata. - Capitano, - riprese il capo. - Quando siete approdato? - Ieri sera assieme a mia sorella e a questo mio compagno. Siamo sfuggiti ad un tremendo naufragio, - disse sir Moreland. - Vi condurremo a Mangalum e vi offriremo larga ospitalità. D'altronde non rimarrete a lungo fra noi. - Deve approdare qualche nave? - Un piccolo legno da guerra che ci parve inglese, è stato segnalato sulle coste settentrionali dell'isola. L'uragano, però scoppiato subito dopo la partenza dei pirati, deve averlo respinto al largo. - Quando l'avete veduto? - Ieri sera, un po' prima del tramonto. Sarebbe il vostro? - No, perchè il mio è affondato a quaranta miglia da qui, parecchie ore prima che giungesse l'altro. - Davate la caccia al corsaro? - Lo cercavo. - Che disgrazia! Se foste giunto prima ... Quei ladroni non avrebbero osato importunarci. - Li riprenderemo più tardi. - Ma ... scusate capitano, voi dite che quest'uomo è vostro amico? - È vero, - disse sir Moreland. - Si è salvato insieme a me e a mia sorella. - Eppure somiglia ad uno di quei ladroni. - Quest'uomo è un onesto negoziante di Labuan. - Ah! - fece il capo della scialuppa. Darma in quel frattempo era giunta. Gli isolani, vedendola, la salutarono cortesemente e l'aiutarono ad imbarcarsi. Yanez che era rimasto impassibile, si era accomodato a prora tentando di accendere, senza riuscirvi, una delle sue sigarette. Era però una tranquillità fittizia, anzi era molto preoccupato dall'imminente arrivo di quella piccola nave da guerra annunciata dall'isolano. - Gli affari s'imbrogliano, - mormorava. - Quest'anglo-indiano si riprenderà senza dubbio la rivincita, conducendomi prigioniero su quella nave, se non mi accade di peggio. Questi isolani mi guardano con certi occhi! Dubito che abbiano bevuto la storiella di sir Moreland. La scialuppa si era frattanto scostata dalla spiaggia. Quattro uomini avevano presi i remi, il quinto si era messo a prora accanto a Yanez ed il capo alla barra del timone. Era quest'ultimo un bel vecchio molto barbuto e molto abbronzato, che ricordava a Yanez uno dei quattro consiglieri del governatore. Forse non s'ingannava, perchè l'isolano di quando in quando fissava i suoi occhi azzurri sul portoghese e con vera ostinazione. Nondimeno non aveva, almeno fino allora, manifestata apertamente alcuna diffidenza, nemmeno verso Darma, anzi le aveva offerto il posto d'onore a poppa e le aveva messa sulle spalle la sua casacca di tela cerata, onde difenderla dagli spruzzi delle onde. Fuori del bacino, il mare era ancora agitato. Frequenti cavalloni sollevavano bruscamente la scialuppa, scrollandola brutalmente e precipitandola improvvisamente in profondi avvallamenti. I rematori, però, tutti robustissimi e abituati a quelle lotte che durano quasi eterne intorno a quelle isole, sempre battute dai cavalloni e dai venti impetuosi del sud, lottavano vigorosamente, senza sgomentarsi per l'impeto dei marosi. Giunti al largo, fuori dalle scogliere, issarono una piccola vela triangolare e la scialuppa, meglio equilibrata, si mise a filare con velocità notevole verso Mangalum già non troppo lontana. Durante il viaggio, gli isolani non avevano pronunciata una sola parola. Di frequente però il capo guardava di sottecchi i tre pretesi naufraghi, fermando sempre lo sguardo su Yanez. La traversata fu compiuta felicemente, quantunque verso Mangalum le onde si mostrassero più violente che altrove, e dopo il mezzodì la scialuppa approdava all'estremità della piccola baia. - Scendete, - disse il capo, aiutando Darma. - Vi troverete meglio qui che sulle roccie dell'isolotto. Aveva pronunciato quelle parole con un accento quasi beffardo e che non era sfuggito a Yanez. - Questo vecchio volpone deve avermi riconosciuto, - mormorò il portoghese. - Se non torna presto il Re del Mare l'avventura non finirà certo bene per me. Sir Moreland si è messo in un bello imbarazzo. Anche l'anglo-indiano doveva essersi accorto di aver giuocato una pessima carta, poichè appariva molto preoccupato. Gli isolani tirarono sulla spiaggia la scialuppa onde non venisse guastata dalla risacca, la quale si faceva sentire violentissima anche dentro il bacino, si gettarono sulle spalle i fucili e raggiunsero sollecitamente i naufraghi, circondandoli. - Dove ci conducete? - chiese sir Moreland, il quale diventava sempre più inquieto. - A casa mia, - rispose il capo. Nessun isolano era uscito dalle abitazioni scaglionate lungo il declivio. Probabilmente non si erano accorti del ritorno della scialuppa o avevano preferito starsene nelle loro capanne, ricominciando a piovere. Il capo attraversò il piazzale e condusse i naufraghi in una casetta di bella apparenza, costruita parte in legno e parte in pietra, sul cui tetto a punta sventolava uno straccio rosso, l'avanzo di qualche bandiera inglese. Aprì la porta ed invitò l'inglese, Yanez e Darma ad entrare, poi, mentre i suoi uomini armavano precipitosamente i fucili, volgendosi verso un vecchio che stava fumando in un angolo, presso la finestra, gli chiese, indicandogli Yanez: - Signor governatore, conoscete quest'uomo? Guardatelo bene e ditemi se non è uno di quelli che ci rubarono la provvista di carbone affidataci dal governo inglese. - Ah! Briccone! - esclamò il portoghese, furioso. Il vecchio si era prontamente alzato guardando Yanez, il quale già colla sua invettiva si era tradito. - Sì, è lui che ci ha imposto la consegna del carbone! - gridò il governatore. - Ora non ci sfuggirai, mio caro, e ti faremo appiccare dai marinai inglesi e sull'albero più alto della loro nave. Pirata! - Io, pirata! - esclamò Yanez alzando il pugno. Sir Moreland fu pronto ad intervenire. - Nessuna violenza quando si trova qui un capitano di Sua Maestà la Regina d'Inghilterra. Il vecchio che pareva non si fosse nemmeno accorto, fino allora, della presenza dell'anglo-indiano, lo guardò con stupore. - Chi siete voi? - chiese. - Guardate l'abito che indosso ed i gradi che brillano ancora sulle mie maniche. - È approdata la vostra nave? - La mia è stata affondata dopo un terribile combattimento, al largo di Mangalum, dalle artiglierie del corsaro. - Non appartenete a quella che ci è stata segnalata ieri sera? - No, perchè sono stato raccolto sulle scogliere dell'isolotto. - Insieme a quest'uomo? - chiese il governatore, il cui stupore aumentava. - Sì, insieme a lui ed a questa miss, salvata da noi durante l'uragano. - E voi, capitano inglese, eravate insieme ai corsari! Là! là! Voi siete un ben abile commediante, ma io non sono così sciocco da credere alle vostre chiacchiere. - Ci aveva prima narrato di essere naufragato, - disse uno degli isolani. - Vi affermo, sul mio onore, che io sono James Moreland, capitano della marina anglo-indiana, ed ora ai servigi del rajah di Sarawak, - disse il giovane comandante. - Datemi le prove e allora vi crederò. - Non posso darvene alcuna per ora essendo la mia nave andata a picco. - E quest'uomo? Come si trova con voi, mentre due giorni or sono era con quei pirati? - Si è salvato con me in una scialuppa, durante l'abbordaggio, mentre la nave corsara veniva trascinata al largo dall'uragano e la mia affondava. - Sareste invece voi il capo di quei pirati nella pelle d'un inglese? - Vecchio! - urlò Yanez. - Finiscila di chiamarci pirati. Questo è un capitano anglo-indiano. - Siete dei pirati. - Che cosa ti ho preso io? - Il carbone. - Era del governo e non tuo. - E gli animali. - Che vi sono stati pagati, - ribattè Yanez che perdeva la sua solita flemma. - Avete ancora in tasca la tratta su Pontianak, ne sono sicuro, mentre avremmo potuto portarveli via tutti, senza pagare una sola sterlina. - E voi credete perciò che io vi lasci andare? - disse il governatore con un sorriso ironico. - La nave inglese non tarderà ad approdare e vedremo come ve la caverete con quel comandante. Io spero di vedervi ballare con un buon canapo al collo, l'ultima danza della morte. - Ed io vi dico che farete, per lo meno a me, le vostre scuse, - disse sir Moreland, il quale cominciava egli pure ad irritarsi. - Vi avverto intanto che se voi torcerete un capello a questa miss o a quest'uomo, farò bombardare il vostro villaggio dai cannoni inglesi, parola di James Moreland. - Bene, bene, - disse il governatore, sempre ridendo. - Soltanto rimarrete nostri prigionieri per diritto di guerra. Ah! Signori pirati, pagherete il carbone che il governo inglese ha affidato a noi e nuovamente le bestie. Non si prende a gabbo un uomo par mio. - Sia, lo vedremo, - disse sir Moreland. - Intanto segnalate alla nave da guerra, se è ancora in vista dell'isola, che avete delle comunicazioni importanti da fare. - Pare che abbiate molta fretta di farvi appiccare, - rispose il governatore. - Farò il possibile per accontentarvi. Si volse verso i suoi sudditi che avevano assistito al colloquio appoggiati ai loro moschetti, dicendo loro: - Ve li affido e badate che non vi fuggano. Ci sarà un premio da guadagnare oltre la riconoscenza del governo inglese. Nel magazzino e chiudete bene. - Andiamo, - disse il capo, spingendo ruvidamente Yanez verso la porta. - La commedia è finita per ora. L'anglo-indiano, il portoghese e Darma si lasciarono condurre via, senza tentare alcuna resistenza che sarebbe stata d'altronde inutile e pericolosa con quegli uomini rudi e brutali, e attraversata nuovamente la piazza, vennero introdotti in una massiccia costruzione di pietra che doveva servire di magazzino alla piccola colonia. Era uno stanzone lungo una cinquantina di metri quasi vuoto in quel momento, perchè non si vedevano che dei mucchi di pesce secco e dei barili contenenti forse dell'olio o della grassa, col tetto sostenuto da pilastri di pietra tenera estratta dalle colline dell'isola. - Avete fame? - chiese il capo. - Non mi spiacerebbe mangiare un boccone prima di venire appiccato, - disse Yanez, beffardemente. - A più tardi. Vi avverto intanto che al primo tentativo di fuga faremo fuoco contro di voi. Ciò detto rinchiusero la porta, sprangandola al di fuori. Sir Moreland, Yanez e Darma, meno spaventati di quanto si potrebbe supporre, si guardarono l'un l'altro, quasi sorridendo. - Che ne dite di quest'avventura, sir Moreland? - chiese finalmente la giovane. - Che se la nave inglese incrocia veramente nelle acque dell'isola finirà presto, - rispose il capitano. - Per voi, ma non per noi. - E perchè miss? - Quando i vostri apprenderanno che noi siamo corsari non ci appiccheranno? - O per lo meno ci condurranno a Labuan per essere giudicati, - disse Yanez. - Ciò farebbe certo piacere a quel governatore che ha dei vecchi rancori contro di me. - Cercherò di evitare che ciò possa succedere, - rispose il capitano. - Sarebbe pericoloso, specialmente pel signor de Gomera. - Vi metteremo in un grave imbarazzo, sir Moreland, - disse Darma. - Non lo credo, miss. E poi chi mi dice che il comandante di quella nave non sia un mio amico? In tal caso c'intenderemo facilmente. Il signor de Gomera si è comportato verso di me come un gentiluomo ed io non sarò da meno verso di lui. - Vi siete dimenticato l'avventura notturna a Redjang? - Astuzie di guerra, miss, e non ho serbato ràncore nè a voi, nè ai vostri protettori. - Siete troppo buono, sir Moreland. - Non sono nè migliore, nè peggiore degli altri. Ah! Un colpo di cannone era improvvisamente rimbombato al di fuori, facendo tremare le pareti del magazzino. - Una nave da guerra! - esclamò l'anglo-indiano. - È il Re del Mare o quella che attendono gli isolani? - si chiese Yanez. - Lo sapremo presto. Entrambi si erano slanciati verso la porta, percuotendola a calci e gridando: - Aprite! Vogliamo vedere gli inglesi a sbarcare! - Silenzio! - tuonò una voce minacciosa. - Se sforzate la porta faccio fuoco!

Era tempo perchè sir Moreland stava per abbandonarsi. Yanez aiutò Darma a superare la spiaggia, poi l'anglo-indiano che era incapace di reggersi. - I salvagente! - balbettò sir Moreland. - Ah, sì! E vero, - rispose Yanez. - Sono troppo preziosi per perderli. Ridiscese la spiaggia e li tirò a secco, assicurandoli alla punta di una roccia. - Come vi sentite, sir Moreland? - chiese premurosamente Darma. - Un po' debole miss, ma tutto passerà. La ferita fortunatamente non è riaperta. - Cerchiamo qualche riparo, - disse Yanez. - Il Re del Mare, coll'uragano che ingrossa al largo, non potrà tornare molto presto - Che corra qualche pericolo, signor Yanez? - Non credo, Darma. Resisterà meravigliosamente anche a questa seconda prova. Fortunatamente ha completato a tempo le sue provviste di combustibile. - Sicchè saremo costretti a passare la notte qui, - disse Darma. - Nessuno verrà a disturbarci: non vi saranno delle pantere nere su questa roccia. Rifugiamoci sotto questa sporgenza e aspettiamo l'alba. Il portoghese prese una bracciata d'alghe e si diresse verso una rupe, la cui cima si sporgeva molto innanzi formando un riparo abbastanza sufficiente per tenere al coperto i tre naufraghi. Sir Moreland e Darma l'avevano seguìto, portando altre alghe per formarsi un giaciglio.

I FIGLI DELL'ARIA

682314
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Non fu che dopo la mezzanotte, quando il vento cominciava a scemare di violenza che, si decise a spegnere il lume e ad abbandonarsi tra le braccia di Morfeo. Tutta la notte però non sognò che battaglioni di orsi accampati intorno al fuso, per impedire agli aeronauti di uscire e di riprendere il volo. Quando i primi albori cominciarono a diffondersi nell'interno delle cabine, passando attraverso le grosse lenti di cristallo incastrate sui fianchi del fuso, il capitano svegliò il russo e il cosacco, gridando: - In piedi, signori; spero di potervi offrire per colazione un eccellente zampone d'orso, un boccone da re. Si era armato di tre carabine Express armi di corta portata, non superando i quattrocento metri, preferibili a tutti gli altri fucili da caccia, perché le loro palle, vuote internamente, oltre a raggiungere una grande velocità, producono delle ferite terribili in causa della loro larga espansione. Ne diede una a ciascuno, poi fece aprire il boccaporto e, dopo aver ascoltato qualche po' salì sul ponte, girando all'intorno un rapido sguardo. L'orso non doveva più essere tornato. Gli strumenti, bussole, barometri e termometri sospesi alla balaustrata, occupavano ancora il medesimo posto di prima, mentre sarebbero stati per lo meno guastati dal plantigrado, nel superare la murata. Solamente una cassa era stata rovesciata, probabilmente nella fuga precipitosa dell'animale. - Non ha più osato arrampicarsi sul fuso, - disse il capitano - che sia stato ferito? Si diresse verso prora e scorse sul ponte alcune gocce di sangue. - L'avete colpito - disse volgendosi verso Rokoff. - Può essere già morto in mezzo a qualche macchia. Andiamo a cercarlo. Discesero dal fuso e si avventurarono fra i cespugli che ingombravano la cima della collina. Procedevano cauti, non essendo certi che quell'orso fosse stato solo, anzi Rokoff sospettava il contrario, avendo udito contemporaneamente raschiare la parete e il ponte. A cinquanta metri dall'aerotreno s'alzava una fitta macchia di betulle, circondata da cespugli di noccioli selvatici. I tre aeronauti, supponendo che l'animale si fosse rifugiato là dentro, si diressero a quella volta, tenendo pronte le carabine, onde evitare qualunque sorpresa. Avevano già superata mezza distanza, quando udirono improvvisamente il macchinista urlare: - Aiuto, capitano! Aiuto! - Per centomila orsi! - esclamò Rokoff, facendo un rapido voltafaccia. - Chi assale il nostro giovane? Il macchinista, con un solo salto, si era precipitato giù dal fuso e correva a tutte gambe verso i cacciatori, cogli occhi strabuzzati dal terrore e i lineamenti sconvolti. - Cos'hai? - chiese il capitano, muovendogli rapidamente incontro. - Là! ... là! ... sul fuso ... un animale! ... - rispose il giovanotto, con voce strozzata. - Stava per balzarmi addosso! ... - Un animale sul nostro "Sparviero"! - esclamò il capitano. - Hai sognato? - No, signore ... l'ho veduto ... usciva di sotto la tenda che copre le casse di poppa - Un orso? - chiese Rokoff. - No ... non era un orso ... pareva una tigre. - È impossibile! - esclamò il capitano. - Vi dico invece che è possibile - disse Fedoro. - Non è raro trovarle anche nella Manciuria. - La cosa diventa seria - rispose il capitano. - Preferirei affrontare una coppia d'orsi. L'hai veduta fuggire? - Non so se sia rimasta sul ponte o se sia balzata fra i cespugli - rispose il macchinista. - Appena l'ho veduta comparire sono saltato a terra. - Signori - disse il capitano, volgendosi verso il russo e il cosacco. - Siete bravi tiratori? - Entrambi - rispose Fedoro. - Non mancate ai vostri colpi; le tigri non hanno paura e si gettano coraggiosamente sui cacciatori. - Le ho già conosciute in India - disse Fedoro. - E io farò la loro conoscenza ora - aggiunse Rokoff. - Dove si trovava nascosta? - chiese il capitano al macchinista. - A poppa, signore. - Attaccheremo dalla prora. Tenendosi curvi per non farsi vedere dal sanguinario felino, si diressero lentamente verso l'aerotreno, seguiti a breve distanza dal macchinista, il quale si era armato d'un grosso ramo di pino che aveva trovato al suolo. La tigre, (supposto che fosse veramente tale) non dava segno di vita. Era fuggita approfittando del terrore del macchinista o si teneva nascosta dietro alla macchina e alle casse, per poi piombare improvvisamente sui cacciatori? - Pare che non sia troppo coraggiosa - disse Rokoff. - Che si sia accorta che noi siamo uomini capaci di levarle la pelle? Non riesco a vederla. - Si terrà nascosta - rispose il capitano. - La vigliacca! Saremo costretti ad andarla a prendere per la coda. - Un'impresa che affiderò a voi solo, signor Rokoff. - Se si ostinasse a non mostrarsi, bisognerà andarla a cercare. - La snideremo egualmente prendendola alle spalle. Erano giunti dinanzi alla prora del fuso, ma la tigre non si scorgeva sul ponte. Il capitano fece il giro del tribordo per vedere se si trovava rannicchiata dietro la macchina. - Nulla, - disse - deve essere fuggita. - Peccato - rispose Rokoff. - Sarei stato contento di vederla balzare fuori. - Sarà per un'altra volta - disse il capitano. - Saliamo. - E l'orso? - chiese il cosacco, che voleva assolutamente affrontare qualche animale. - Passeremo sopra le macchie e se lo vedremo scenderemo. Macchinista innalziamoci. - Non domando che due minuti, signori. Salirono sul fuso e si accertarono che il pericoloso animale non vi fosse più. Sotto la tela, però, trovarono alcuni fiocchi di pelo che non appartenevano certo a un orso. - La briccona si era nascosta lì sotto - disse Rokoff. - Contava di fare colazione colle nostre bistecche. Deposero i fucili a prora, appoggiandoli alla balaustrata e si radunarono a poppa per sorseggiare una eccellente tazza di tè, che il capitano aveva preparato servendosi d'una lampadina ad alcool. Lo "Sparviero" intanto s'innalzava lentamente, descrivendo una specie di spirale, onde raggiungere i trecento metri. - Adagio - disse al macchinista. - Cerchiamo di scoprire l'orso. Mi rincrescerebbe non mantenere la promessa. - Quale, signore? - chiese Rokoff. - Di offrirvi per colazione uno zampone squisitissimo. Aprirò per bene gli occhi. Le macchie non sono molto folte e, se è vero che l'orso è stato ferito, non deve essere andato molto lontano. Lo "Sparviero", raggiunta l'altezza voluta, stava filando sopra i pini e gli aceri, quando Rokoff e il capitano videro il macchinista abbandonare precipitosamente la macchina. - Che cosa c'è ancora? - chiese il comandante, stupito. - Signore ... - balbettò il giovane pallido come un morto. - La tigre è a bordo! ... - Ma tu vaneggi, giovanotto mio - disse Rokoff. - Tu hai una tigrite acuta indosso. - Ho udito ... un grido rauco ... là ... sotto il boccaporto ... - Per l'inferno! - esclamò il capitano, impallidendo. - Possibile! Stava per slanciarsi a prora onde prendere le carabine, quando vide sorgere dal boccaporto una testa che lo fece retrocedere precipitosamente. Un animale si era aggrappato al margine della botola e tentava di giungere sul ponte. Era una bestia superba che rassomigliava un po' alle tigri, di corporatura massiccia, con zampe corte, la testa allungata col muso sporgente e il pelame grigio biancastro a riflessi giallastri, sparso di macchie nere di forma circolare. Un animale pericoloso senza dubbio. Se non raggiungeva la mole delle grandi tigri reali, non la cedeva di certo, per grossezza, a quelle comuni. Pareva molto sorpreso e fors'anche spaventato di sentire il fuso ondulare. I suoi grandi occhi dalle pupille giallastre, manifestavano un vivo terrore e il suo pelame era irto. - Un irbis! - aveva esclamato il capitano. - Un leopardo delle nevi! Badate! Vale una tigre! - Per le steppe del Don! - gridò Rokoff. - E i fucili sono a prora! ... - Non muovetevi! - Comandò il capitano. - L'irbis potrebbe precipitare l'assalto. II cosacco, invece di obbedire, fece due passi innanzi e s'impadronì rapidamente d'una specie d'arpione, che serviva al macchinista per tendere la seta dei piani inclinati. - Almeno servirà a qualche cosa - disse, raggiungendo sollecitamente i compagni. - La punta è acuta e forerà la pelle della belva. - Se potessimo abbassarci, l'irbis sarebbe ben contento d'andarsene - disse Fedoro. - Mi pare che sia più spaventato di noi. - Bisognerebbe avvicinarsi alla macchina - rispose il capitano. - Chi oserebbe farlo? - Volete che provi io? - chiese Rokoff. - No, sarebbe troppo pericolosa una tale mossa. - Volete continuare il viaggio con un simile compagno? Non oserei chiudere gli occhi. - Come abbassarci? - chiese Fedoro. - Non v'è alcun mezzo, capitano? - Nessuno se non rallentiamo la battuta delle ali - rispose il comandante. - Ah! Pare che si decida a sgombrare! Se si provasse a saltare! - Un capitombolo di quattrocento metri! Non lo tenterò di certo - disse Rokoff. L'irbis, dopo essere rimasto qualche minuto immobile presso il boccaporto, rannicchiato su se stesso, aveva fatto un passo indietro, senza staccare gli occhi dai quattro aeronauti. Non pareva troppo contento di quel viaggio intrapreso involontariamente. Brontolava sordamente, arricciava il pelo e agitava nervosamente la lunga coda inanellata. Di quando in quando un brivido lo faceva sussultare e girava la testa a diritta e a manca come se cercasse di scorgere qualche albero su cui slanciarsi. Aveva cominciato a indietreggiare lentamente allungando, con precauzione, prima una zampa e poi le altre, senza abbandonare tuttavia la sua posa d'assalto. Vedendo Rokoff fare un passo innanzi coll'arpione teso, arrestò la sua marcia retrograda e si raccolse su se stesso come fanno i gatti quando si preparano a slanciarsi sul topo. Aprì le formidabili mascelle, mostrando due file di denti, bianchi come l'avorio e aguzzi come triangoli, mandando un rauco brontolio che finì in un soffio poderoso. - No, Rokoff! - disse Fedoro. - Si prepara ad assalirci. - Fermatevi - comandò il capitano, il quale si era impadronito d'una pesante cassa per scaraventarla contro la belva, nel caso si fosse slanciata innanzi. - Lasciatela indietreggiare. - Finiamola - disse il cosacco. - Siamo in quattro. - E tre sono inermi - disse Fedoro. - Vuoi farci sbranare? - Lasciate che si allontani dalla macchina - rispose il capitano. - Poi scenderemo. L'irbis stette qualche po' immobile, continuando a brontolare, poi con un balzo di fianco si avventò verso la balaustrata, aggrappandosi ai ferri e guardando abbasso. Per un momento i quattro aeronauti credettero che si slanciasse nel vuoto; la loro speranza però ebbe la durata di pochi secondi. La fiera, spaventata dall'abisso che le si apriva dinanzi, si era lasciata ricadere sul ponte. Tremava, come se avesse la febbre e gettava all'intorno sguardi smarriti, nei quali però balenava sempre un lampo di ferocia. Ricominciò a retrocedere verso la prora, guatando cupamente gli aeronauti che non osavano ancora muoversi e si rannicchiò dietro una cassa, manifestando la sua rabbia con frequenti brontolii e con un incessante agitare della coda. - La macchina è libera - disse Rokoff. - Approfittiamone. - Lasciate fare a me - rispose il capitano. - Voi non muovetevi. - Non vi assalirà? - Può darsi. - Allora signore vi domando il permesso di affrontare io il pericolo. Voi siete il capitano e dovete essere l'ultimo a esporre la vostra vita. - Ma anch'io reclamo l'onore di farmi divorare per salvare voi - disse Fedoro. - Né l'uno né l'altro - rispose il comandante. - D'altronde voi non sapete maneggiare la macchina. Vedendo poi che il russo ed il cosacco aprivano le labbra per replicare, aggiunse con voce quasi dura: - Basta, signori. Mi rincresce ricordarvi che il capitano sono io e che perciò voi mi dovete obbedienza assoluta. Poi con un sangue freddo ed un'audacia ammirabile, s'avanzò verso la macchina, dardeggiando sulla fiera uno sguardo che pareva di sfida. L'irbis non si era mosso; solamente le sue poderose unghie si erano infisse profondamente sulla cassa, sgretolando il legno. Il capitano fece agire la leva, poi retrocesse tranquillamente, senza staccare i suoi occhi dal feroce avversario. - Ecco fatto - disse con una voce perfettamente tranquilla. - Fra cinque minuti saremo a terra. Lo "Sparviero" cominciava infatti a discendere. Il movimento delle eliche era stato arrestato e le ali non battevano più che leggermente. - Dove cadremo? - chiese Rokoff. Il capitano si curvò sulla balaustrata. La collina era stata attraversata e l'aerotreno scendeva sul deserto che in quel luogo era coperto da un lieve strato di neve già indurita dal gelido vento del settentrione. - Tutto va bene - disse. - Tenetevi pronti ad afferrare le carabine, appena il leopardo ci lascerà. Lo "Sparviero", sorretto solamente dai piani inclinati, continuava ad abbassarsi dolcemente. L'irbis sempre più spaventato dalle ondulazioni che subiva il fuso, continuava a brontolare e a dare segni d'inquietudine. S'alzava sulle zampe posteriori fiutando rumorosamente l'aria e girava continuamente la testa in tutti i sensi. A un tratto avvenne un urto: lo "Sparviero" aveva toccato terra. - Attenzione! - gridò il capitano. Il leopardo con un salto immenso aveva varcata la balaustrata precipitandosi sulla neve. Stette un momento immobile, stupito forse di trovarsi a terra, poi spiccò tre o quattro salti dirigendosi verso un gruppetto di betulle nane. Il capitano, Rokoff e Fedoro si erano precipitati sulle carabine. - Fuoco! ... Tre spari rimbombarono formando quasi una sola detonazione. Il leopardo che si trovava a solo cento passi dal fuso, si rizzò di colpo mandando un urlo prolungato, girò due volte su se stesso, poi cadde in mezzo alla neve, agitando pazzamente le zampe. Quasi nel medesimo istante si udirono dei clamori selvaggi, poi degli spari. - Mille folgori! - esclamò Rokoff. - Che cosa succede ancora? - I mongoli! - gridò il capitano. - Su, alziamoci! - E il leopardo? - Lo lasceremo a quei banditi; ci manca il tempo di raccoglierlo. Presto: grandina e s'avanzano al galoppo. Un istante dopo lo "Sparviero" s'alzava maestosamente, salutato da una scarica di fucili.

I PREDONI DEL SAHARA

682438
Salgari, Emilio 1 occorrenze

I fragori della tempesta non giungevano che vagamente alle sue orecchie e si sentiva invadere da un torpore delizioso, che lo invitava ad abbandonarsi. Lottò ancora qualche momento, poi, vinto da un estremo languore, si lasciò cadere, mentre le sabbie, spinte dai venti, continuavano ad accumularsi dinanzi al rifugio, minacciando di seppellirlo vivo colla giovane ebrea.

LEGGENDE NAPOLETANE

682473
Serao, Matilde 2 occorrenze

Ma se la gelosia scoppiava irresistibile, l'ingiuria correva sul loro labbro: - Le donne di Spagna sono esse le prime ad abbandonarsi all'amante - diceva Donn'Anna, con la sua voce dura e grave. - Le donne di Napoli si gloriano del numero degli amanti - rispondeva vivamente Donna Mercede. - Voi siete l'amante di Gaetano Casapesenna, Donna Mercede. - Voi lo foste, Donn'Anna. - Voi obliaste ogni ritegno, ogni pudore, dandoci vostro amore a spettacolo, Donna Mercede. - Voi tradiste il duca di Medina Cœli, mio nobile zio, Donn'Anna Carafa. - Voi amate ancora Gaetano Casapesenna. - Voi anche lo amate ed egli non vi ama, Donn'Anna. Vinceva la bollente spagnuola e Donna Anna si consumava dalla rabbia. Ma egualmente l'odio glaciale della duchessa contro cui s'infrangeva ogni slancio di Donna Mercede, tormentava la spagnuola. Esse avevano nel cuore un orribile segreto; esse portavano nelle viscere il feroce serpente della gelosia, esse morivano ogni giorno di amore e di odio. Donn'Anna celava il suo spasimo, ma Donna Mercede lo rivelava nelle convulsioni del suo spirito e del suo corpo. La duchessa agonizzava sorridendo; Donna Mercede agonizzava, piangendo e strappandosi i neri capelli. Fino a che ella scomparve d'un tratto dal palazzo Medina Cœli e fu detto che presa da improvvisa vocazione religiosa, avesse desiderato la pace del convento e fu narrato del misticismo ond'era stata presa quell'anima, e delle lunghe giornate passate in ginocchio dinanzi al Sacramento, e del fervore della preghiera e delle lagrime ardenti: ma non fu detto né il convento, né il paese, né il regno dove era il convento. Invano Gaetano di Casapesenna cercò Donna Mercede in Italia, in Francia, in Ispagna ed in Ungheria, invano si votò alla Madonna di Loreto, a San Giacomo di Campostella, invano pianse, pregò, supplicò. Mai più rivide la sua bella amante. Egli morì giovane, in battaglia, quale a cavaliere sventurato si conviene. Altre feste seguirono nel palazzo Medina, altri omaggi salutarono la ricca e potente duchessa Donn'Anna; ma ella sedeva sul suo trono, con l'anima amareggiata di fiele, col cuore arido e solitario. Quei fantasmi sono quelli degli amanti? O divini, divini fantasmi! Perché non possiamo anche noi, come voi, spasimare d'amore anche dopo la morte?

Tutto quel Cristo è un dolore supremo, ma è anche una suprema speranza; ma il mistero di quella testa divina è così grandioso, ma l'ammirazione per la meravigliosa opera d'arte è così sconfinata, ma la pietà del bellissimo estinto è così invadente che il pensatore si scuote e non frena più le acute indagini dalla sua mente, l'artista s'inchina nella esaltazione del suo spirito ed il credente non può che abbandonarsi, piangendo, sui piedi del morto, cospargendoli di lagrime e di baci. Singolare anima d'artista doveva esser quella dello scultore che ha dato all'arte questo Cristo morto. Nell'opera sua vi è tutto il suo spirito. Uno spirito dove sorgevano uguali, immensi, due amori: quello per una donna, quello per l'arte. Infelicissimo, terribilmente doloroso il primo. Solamente chi ha conosciuto il furore acuto di una sofferenza senza nome può far passare tutta la poesia di questa sofferenza nel marmo senza vita; solamente chi è vissuto nelle lagrime, nell'angoscia, nella esaltazione di un'anima innamorata e solitaria, può infondere nel marmo il solitario e cupo dolore di questo Cristo. Lo scultore ha saputo, ha sentito. Ha saputo, ha sentito che cosa fosse il tormento sottile che stride come una sega piccina ed inesorabile; la desolazione grigia, lunga, monotona, dove tutto è cenere, tutto è nausea, tutto è disgusto: la disperazione larga e vasta e lenta come una fiumana di pianto; la disperazione fragorosa e tumultuante come un torrente che tutto trascina. Chi ha fatto quel Cristo ha spasimato d'amore; ha amato ed ha pianto; ha amato ed un fremito mortale gli ha travolto le fibre; ha amato ed una convulsione ha contorta e spezzata la sua vita; ha amato senza speranza, senza gioia, senza diletto, abbruciando la propria esistenza nella tormentosa voluttà del dolore. Solo un uomo che ama può creare quel Cristo morto; solo colui che soffre col trasporto, con la passione delle sofferenze, può mettere in una statua tutta la sublime epopea del dolore. Ogni colpo di scalpello che scheggiava, rompeva, carezzava, curvava, ammorbidiva il marmo, era una parola, un gemito, un lamento, un grido, uno scoppio furente di questo amore. La passione dell'uomo vivo creava la passione del Cristo morto. E ne veniva fuori un'anima d'artista che imprimeva il suo carattere in un capolavoro dell'arte. - Perché quella tomba non ha ritratto? - chiesi di nuovo uscendo dalla chiesa, mentre il custode faceva tintinnire le chiavi. - Lo scultore non ebbe tempo di finirlo ... - Quale scultore? - Il Sammartino. - Ah!... - ... Morì prima di finirlo. Fu trovato in una straduccia buia, di notte, con un pugnale nel petto. - Fu ucciso o s'uccise? - Si crede che si fosse ucciso. Come nello strazio dell'ignota agonia, la testa del morto scultore doveva rassomigliare a quella del Cristo morto!

IL PAESE DI CUCCAGNA

682496
Serao, Matilde 1 occorrenze

Egli era un uomo, non un fanciullo: aveva i capelli bianchi, non doveva abbandonarsi a escandescenze di ragazzo. Lacerò la lettera: ma dopo si sentì vincere da uno scoramento. Il primo, purissimo fiore di poesia del suo amore era troncato: l'idillio era dileguato: tutto l'avvenire non poteva essere che un dramma. Sì, il combattimento era fra Antonio Amati e il marchese Carlo Cavalcanti, segreto ma ostinato, sordo ma acutissimo. Il vecchio esercitava un grande potere sulla sua figliuola, si potea dire che ne piegasse la volontà, con una imperiosa affascinante occhiata: e non voleva che nessun altro arrivasse a dominarla, tremava di vedersi sfuggire quella influenza. Per amor proprio paterno, per quella esagerata gelosia dei genitori che cominciano per detestare coloro che amano i loro figliuoli, per qualche altra misteriosa ragion spirituale, egli si metteva fra sua figlia e Antonio Amati, quando vedeva che il dominio di costui potesse allargarsi. Se erano soli, padre e figlia, non ne parlavano mai: ella per senso di obbedienza, aspettava sempre di essere interrogata per parlare, e Cavalcanti si asteneva dal nominarle il dottore: la fanciulla avvertiva quella riservatezza e si chiudeva sempre più in sé stessa, vedendo già i primi, tristi segni di quella lotta. Una sola lettera Amati le aveva scritto: e quella ella conservava, preziosamente, rileggendola, ogni tanto, perché vi spirava una onestà, una serenità, una forza che mancava totalmente alla sua esistenza misera e torbida, uscita da un dolente passato, avviantesi a un oscuro avvenire. Già piegava il capo, ella, comprendendo che neppur nell'amore avrebbe trovato la sua salvazione, poiché le pareva fosse legata a una bizzarra fatalità, poiché una incantagione sembrava che fosse stata gittata su tutta la sua esistenza. Quando Antonio Amati ricompariva la sera, ostinato a non cedere il campo alla tirannia singolare paterna, ella levava gli occhi, timidamente, sopra ambedue: e la falsa disinvoltura, la falsa cordialità con cui si trattavano, la rianimava, il roseo colore risaliva alle sue guance bianche; ma se suo padre aggrottava le ciglia, se la voce del dottore si facea dura, ella impallidiva, di nuovo, spaurita. Il padre le aveva accuratamente nascosto i servigi pecuniarii che il dottore gli aveva resi e che continuava a rendergli: si vergognava di confessare a sua figlia la diminuzione di dignità, che la sua passione gli aveva strappato. E la creatura buona e pura che si rincorava, vedendo la salda mano coraggiosa che a lei si stendeva per strapparla all'ambiente di decadenza, ogni tanto trasaliva, poiché suo padre, bruscamente violentemente, allontanava da lei quella mano. Ella non chiedeva il perché: sua madre aveva languito troppo rassegnatamente sino alla morte, perché ella osasse ribellarsi: soltanto viveva alla giornata, così, senz'approfondire il dissidio fra suo padre e Amati, lasciandosi andare alla dolcezza del novo sentimento, tentando fuggire all'amarezza dei presentimenti. Ma egli, che era uomo di scienza e in cui l'osservazione primeggiava, trovando incomprensibile il contegno del padre, cercava frenare il suo cuore, per giungere a strappare il segreto del cuore di Cavalcanti. Sapeva che la febbre del giuoco lo rodeva; qualche volta, mentre egli era lì, in quel grande salone, accanto a Bianca Maria, si erano presentati due o tre del gruppo dei cabalisti, a cercare il marchese: costui era restato imbarazzato, e una volta si era chiuso con costoro nel suo studio, donde le voci arrivavano smorzate, confuse: due altre volte, impaziente, nervoso per la presenza del dottore, era uscito con loro. - Che persone sono costoro? - aveva egli domandato alla fanciulla. - Amici, - ella aveva detto, volgendo il capo dall'altra parte. - Vostri? - No: di mio padre. Aveva fatto intendere di non voler parlare di costoro; ed egli aveva taciuto. Un'altra volta, un venerdì sera, si era presentato don Pasqualino De Feo, l' assistito, on la sua ciera morbosa e i suoi vestiti sciatti e sporchi: d'un tratto il dottore si era rammentato di averlo visto, sì, proprio all'ospedale, dove era giunto tutto lividure e contusioni, quasi avesse preso una solenne bastonatura, e si rammentava il parlar fantastico di costui. Mentre l' assistito iscorreva sottovoce col marchese, nel vano di una finestra, il dottore aveva chiesto pian piano alla fanciulla. - Anche costui è un amico? Ma l'aveva vista così smorta, con gli occhi così pieni di sgomento, tanto vinta dalla paura di qualche cosa che egli non sapeva, che aveva taciuto. Si ricordò che nel giorno del deliquio, rinvenendo, ella aveva voluto mandar via di casa, quell'assistito. Vi è antipatico, è vero? - No, no - disse ella, - io sono sciocca. Temeva che Amati avesse disturbato il colloquio di suo padre con l' assistito; a costoro trovandosi impediti a discorrere, si disponevano a uscire. L' assistito passava, con gli occhi bassi, ma Amati gli gridò: - Siete guarito, eh, De Feo, di quella bastonatura? Quello si scosse, si passò una mano sulla fronte e rispose, senza guardare il medico. - Ho avuto la grazia, da chi mi ha mandato la disgrazia. - E da chi? - chiese il dottore, ridendo del suo riso di scettico. L' assistito acque. E Cavalcanti, il cui volto si era acceso, i cui occhi scintillavano, soggiunse subito, con la sua voce turbata da una emozione: - Dallo spirito. - Quale spirito? - domandò, con una risatina, il medico. - Caracò, lo spirito che assiste on Pasqualino, - rispose enfaticamente il marchese. - Voi ci credete, marchese? - ribattè Amati, gittandogli uno sguardo scrutatore. - Come nella luce, - replicò il nobile, levando gli occhi al cielo, esaltatamente. - E voi, signorina? - chiese il dottore a Bianca Maria, investigandone la fisonomia. Ella fu lì lì per rispondere, che non ci credeva, che non ci voleva credere, che aveva grande paura di crederci: ma le parole le furono gelate sulla labbra, da uno sguardo stralunato del padre. Si vide, sulla faccia, lo sforzo che ella faceva per mandare indietro il suo grido di dolore e, vagamente, facendo un gesto largo, ella disse: - Non so nulla di ciò. L'assistito ogguardava obliquamente il medico: e per la prima volta alla espressione di misteriosa umiltà, si frammischiò, sul suo volto, un'aria di rabbia. Torse il collo, come se trangugiasse un osso duro. E tirò nascostamente per la manica il marchese Cavalcanti, per andarsene: ma costui, nelle parole, nel sogghigno di Amati, aveva intravvisto lo scetticismo più completo: e come tutti gli allucinati, sentì in sé crescere a mille doppii la fede nello spirito assistente e provò un grande ardore di convincere Amati: - Voi non credete allo spirito, dottore? - No - disse seccamente costui. - Né allo spirito buono, né al cattivo? - A nessuno di essi. - E perché? - Perché non esistono. - Chi ve lo ha detto? - Ma la scienza, ma i fatti: basta, mi pare, - replicò semplicemente il dottore. - La scienza è sacrilega! - gridò il marchese, irritandosi, - e i fatti hanno dimostrato che gli spiriti esistono. Posso dimostrarvelo. - È inutile: non ci crederei, - e sorrideva lievemente per compatimento. - Gli spiriti ci sono, signor mio, ed è in mala fede che i cosiddetti increduli negano la loro esistenza: in mala fede, perché non sanno i fatti e li dichiarano falsi. Poiché non hanno visto nulla, coi loro occhi foderati di scetticismo, dicono che nulla vi sia. Mala fede, mala fede. Il medico aveva sorriso di quella sfuriata: ma guardando Bianca Maria, vide che ella era alla tortura, intese che in quella discussione, forse, si celava il segreto di quella ostilità. Ed essendo abituato alle escandescenze degli infermi e degli esaltati, guardava il marchese con l'occhio medico, seguendo le violente fasi di quell'eccitazione. - Mala fede, mala fede, - strillava il marchese, dando le volte nel salone e parlando a sé stesso. - Centinaia di galantuomini, di scienziati, di gentiluomini, di donne, hanno veduto, toccato, parlato con gli spiriti, hanno avuto con essi comunicazioni importanti, hanno stampato libri, grossi volumi, ed ecco che si nega, così, a priori. a che credete voi che sia, quest'assistenza degli spiriti? Si era fermato innanzi ad Amati, dirigendogli questa domanda. Per quanto il medico non volesse aumentare, con la contraddizione, l'accesso di esaltamento di Formosa, la domanda era troppo diretta, per non rispondervi. Il medico guardò la fanciulla: e lesse in lei tanta ansietà segreta di conoscere il vero, la vide così agitata, che la sua credenza gli sfuggì nettamente dalle labbra: - Credo che sia un impostura, - disse. L'assistito evò gli occhi al cielo, pieni di lacrime. Una serenità si diffuse sul viso di Bianca Maria. Ma la voce di Cavalcanti fischiava di rabbia: - Dunque, mi credete uno sciocco? - No, ma l'animo vostro è troppo leale e generoso insieme, per non essere accessibile all'inganno. - Frottole, frottole, - gridò il marchese, convulso. - Da qui non si esce: don Pasqualino è un impostore e io sono uno stupido. - Nego la seconda parte, - replicò seccamente il dottore. - Ma confermate la prima? - Sì, - soggiunse, coraggiosamente, il medico. - Come lo dimostrate? - Non ho bisogno di dimostrarlo: rispondo, perché m'interrogate. D'altronde, ora che mi ricordo, don Pasqualino fu bastonato da due giuocatori, esasperati di non avere mai i numeri giusti. A voi, ha detto che è stato lo spirito Caracò… - Finzioni, finzioni, la bastonatura dei giuocatori, per non rivelare il segreto dello spirito! - Ma i due bastonatori furono arrestati e confrontati con lui, all'ospedale: debbono anzi essere stati condannati a un mese di carcere. - È vero, questo, don Pasqualino? - domandò severamente il marchese. L'assistito ece un atto di desolazione, quasi gli riescisse impossibile di difendersi contro un'accusa ingiusta. Ma il dottore era stato ferito, da quella domanda di conferma. - Signor marchese, - disse gravemente, - io sono una persona troppo seria e troppo disinteressata, perché mi si metta in confronto con costui. Se per poco ho conquistato la vostra stima, in qualche modo, vi prego di risparmiarmi questa discussione. - Sta bene, sta bene, - disse subito il marchese il cui fiero animo era accessibile a quanto si diceva in nome della lealtà. - Tronchiamo. Le discussioni fra scettici e credenti, non possono essere che dolorose. Andiamo, via, don Pasqualino: forse un giorno il dottore vi renderà giustizia. Andiamo; veggo anche che Bianca Maria soffre. Convincilo tu, il dottore, figliuola mia, - soggiunse il padre, non senza malizia. - In che modo? - chiese costui, stupefatto. - Ve lo dirà lei, - replicò, ghignando, Formosa, e a uno sguardo smarrito di sua figlia, soggiunse: - Diglielo, diglielo quello che sai, te lo permetto, Bianca. A te, forse, crederà, tu sei innocente tu non hai interesse a ingannare, tu non sei un apostolo falso. Narragli tutto. Lo convertirai forse… E risolutamente, mettendosi il cappello, prese il braccio dell' assistito come per dargli una prova di affettuosa fiducia, dopo le ingiurie dettegli dal dottore. Il vecchio nobile, discendente da Guido Cavalcanti, con sei secoli di nobiltà, mise il suo braccio sotto quello del truffaldino ignobile, di cui la menzogna gli era stata provata pochi minuti innanzi. Ma chi badò a questo atto dove ancora una volta naufragava la dignità di Carlo Cavalcanti? I due erano già fuori di casa e Bianca Maria e il dottore stavano in silenzio, in un silenzio dove pareva si maturasse tutto il dramma di quell'amore. Con una sagacia incosciente, dicendo a sua figlia di parlare, di narrar tutto al dottore, lasciandoli soli, con questo segreto fra loro, il marchese si era vendicato del coraggioso scetticismo di Amati e della passività di sua figlia. Aveva acceso la miccia di una mina, allegramente, ferocemente, e ora si allontanava, lasciando che la miccia consumata desse fuoco alle polveri e che crollasse, così, tutto l'edificio di quell'amore. - Dunque? - disse il dottore, finalmente, con l'ansia di conoscere il vero. - Che cosa? - mormorò ella, uscendo dalle sue riflessioni dolorose. - Non dovete dirmi qualche cosa? Vostro padre non ve lo ha consigliato, quasi imposto? Ella trasalì, il tono della voce di Amati era aspro. Non le aveva mai parlato così. E offesa da quell'asprezza, la sua anima si chiuse. - Io non so niente, - ella rispose, a voce bassa. - Non ho nulla da dirvi. Egli si morse le labbra, per la collera. Ma quale ispirazione maligna lo aveva deciso a mettersi fra quel padre e quella figliuola, in quell'ambiente così bizzarro di follia, d'infermità, di miseria e di vizio? Che veniva egli a fare, con la sua rude onestà, con la sua integrità popolana, in quell'esistenza che fluttuava fra la demenza e la povertà? Che impicci, che legami creava al proprio cuore, che sinora si era mantenuto puro e tranquillo? L'ora suprema era giunta. Bisognava spezzare bruscamente ogni cosa, se ancora egli voleva scampare da quei vincoli, dove tutti i suoi antichi istinti erano soffocati. Si ribellava, finalmente, a quei complicati romanzi, a quei sottili e tormentosi drammi: egli era l'uomo dalla semplice storia. Si levò, risolutamente dicendo: - Addio. Ella anche si levò. Comprendeva che prima suo padre e, dopo, lei, avevano esaurito la pazienza di quel leone. E fiocamente, gli chiese: - Domani, verrete? - No. - Un altro giorno, dunque? - No. - Qualche altro giorno, quando non sarete occupato? - No. Le tre negazioni erano state pronunziate assai recisamente. Bianca Maria fremeva di spasimo. Egli andava via, non sarebbe più ritornato. Aveva ragione. Era un uomo forte e serio, dedito al suo lavoro, a un lavoro che era una carità e una salvazione, e lo si travolgeva in una decadenza della ragione, della dignità, in una compagnia dove egli faceva la parte di un amico, di un salvatore, ed era invece offeso, insultato e, finalmente, preferito a un ciarlatano, a un truffatore. Aveva ragione di partire, di non tornare mai più. Ma ella si sentiva perduta, in preda agli attacchi della demenza, se lo lasciava partire, e guardandolo supplichevolmente, gli chiese: - Non ve ne andate, restate! - Che resterei a fare? Debbo farmi scacciare, domani, da vostro padre? Perché ho sopportato la scena di poc'anzi, dovrei sopportare ancora? - Io non vi ho fatto nulla, - disse lei, torcendosi le mani delicate, per frenare il suo strazio. - Addio, - replicò lui, senz'altro. - Non ve ne andate, non ve ne andate! E due grosse lacrime che non aveva potuto frenare, le si disfecero sulle guance. Egli aveva resistito alla voce, alle preghiere, a quel pallore, a quella commozione, ma alle lacrime non resistette. Era un uomo duro nella sua grandezza, ma il pianto di una donna o di un bimbo gli faceva dimenticare tutto. Vedendolo tornare indietro, sedersi di nuovo, vinto dalla sua naturale bontà, ella non resistette al pianto, che le soffocava la gola. Ricaduta a sedere, con la faccia nascosta nel fazzoletto, singhiozzava. - Non piangete, - le mormorò lui, sentendo che quel pianto le faceva bene, ma non potendo sopportarlo. Ma perché ella si calmasse, ci volle qualche tempo: aveva troppo represso i suoi sentimenti, perché lo scoppio non fosse clamoroso e lungo. La serata di giugno era assai calda e il soffio dello scirocco deprimeva i nervi delle persone sofferenti. Solo, di lontano, dalla salita Pontecorvo, un suono brillante e plorante di mandolino arrivava. - Ascoltate, - cominciò a dire il medico, senza asprezza, ma freddamente, quando vide che ella era diventata più tranquilla, - vi prego di ascoltarmi in pace. Io sono un intruso nella vostra famiglia: non m'interrompete, so bene quel che mi volete dire. Vi ho curata, una, due volte, ma questo era, è il dover mio, e voi non avete con me nessun obbligo di riconoscenza. Non protestate, conosco la misura dei sentimenti umani. Sono dunque un intruso. Fra me e voi, non vi è nulla di comune: siamo gente diversa. Non importa: io che non sogno mai, vedendo che deperivate qui, vedendo che avevate bisogno di una grande, luminosa, salubre solitudine campestre, ho tentato di farvi uscire di qui. Se il mio sogno non si è avverato, di chi è la colpa, mia o vostra? - È mia, - ella disse, umilmente. - Un giorno, - riprese il dottore, maggior lentezza, come se ripensasse, parlando, a quello che era accaduto, - un giorno voi, proprio voi, mi avete detto che volevate andar via, che vi portassi via. Rammentatelo… - Me lo rammento… - …ho creduto… è inutile che vi dica quello che ho creduto, mi debbo essere ingannato, ma qualunque uomo, al mio posto, si sarebbe ingannato. Ebbene, quando il nostro ogno si poteva avverare, Bianca, ditelo voi, chi lo ha fatto dileguare? - Io stessa, io stessa! - Vedete bene, che io, l'uomo della realtà, l'uomo dell'azione, avevo troppo sognato: e che presso vostro padre, presso voi, sono un qualunque intruso, che si mischia dei fatti vostri, senz'averne il diritto e senza risultato. E d'altra parte, Bianca, credetelo, tutta la mia vita è stata perturbata dal desiderio di vedervi sana e felice, dalla lotta che ha questo desiderio, lotta inutile, lotta sterile, in cui voi stessa mi combattete! Non facevo dunque bene ad andarmene, a non tornare mai più? - Avete ragione, - disse ella, con gesto desolato. - …pure, - riprese Amati con uno sforzo per celare la sua agitazione, - credo… non credo, anzi sono certo, che questa partenza m'imporrebbe un cruccio grave. Forse… forse anche voi ne soffrireste… - e la interrogò con lo sguardo. - Io ne morrei, - pronunziò lei, profondamente e candidamente. - Non dite ciò. Ma per restare accanto a voi, Bianca Maria, per tentare anche contro la vostra debolezza, anche contro la vostra volontà, la salvezza della vostra salute e della vostra fortuna, io bisogna che sia l'amico vostro, il più grande vostro amico, l'unico amico vostro, intendete? Bisogna che abbia tutta la vostra confidenza, tutta la vostra fiducia, bisogna che dopo Dio, crediate in me! Vedete, qui, in casa vostra, in vostro padre, in voi, vi è un segreto doloroso, che tutti invano tentate nascondere, ma che la febbre del marchese Cavalcanti rivela confusamente, oscuramente, in ogni momento. Oltre a questa febbre, che è una malattia, una passione e un vizio, insieme, vi è qualche cosa di anche più crudele, che è il vostro tormento, e che voi, per pietà filiale, per rispetto alla autorità paterna, chi sa per quale sgomento, mi nascondete. Bianca, Bianca, se io non so tutto, debbo andar via, per sempre, e lasciar perdere la vostra vita e perdermi io stesso, inguaribilmente colpito! - Io vi voglio tanto bene, - diss'ella, abbandonandogli il dominio della sua anima. - Oh cara, cara, - le sussurrò lui, carezzandone i capelli bruni, mentre la testa della fanciulla si riposava, per un minuto, su quel forte e fedele petto di uomo. - Promettetemi una cosa… - chiese ella, con atto infantile. - Ditela… - Promettetemi che non giudicherete male mio padre, promettetelo! Sappiatelo, egli è il più buono, il più affettuoso fra i padri; qualunque figliuola sarebbe gloriosa di averlo per padre; io stessa ho per lui una reverenza, un amore che nulla può far crollare. Io voglio che voi non lo accusiate, di nulla, dovete promettermelo: il suo traviamento fatale è ancora una forma della sua bontà, egli è così infelice, così infelice, in fondo! - Vi prometto, Bianca, di essere indulgente, come voi potete essere indulgente. - Mi basta. È un infelice, amico mio, da anni e anni che la nostra casa è declinata. Quando, perché? Non mi rammento, ero piccina: non so neppure di chi sia colpa, questa decadenza, non voglio saperlo. Mi ricordo solo che mia madre era una creatura pallida e languente, dalle sottili mani sempre gelide… - Come le vostre, povera cara. - Come le mie, - replicò ella, con uno smorto sorriso. - Di che è morta, la mamma? - Di anemia… di languore… negli ultimi giorni, non sempre il suo spirito era presente… - Delirava? - Sì: dolcemente, - ella rispose, arrossendo sino alla fronte. - Non pensate a ciò, - disse lui, intuendo la causa di quel rossore. - Mio padre soffriva tanto delle sofferenze di mia madre! E da anni, lo teneva un gran sogno, quello di rifare la fortuna di casa Cavalcanti, di far vivere a mia madre e a me una vita magnifica, di tenere corte bandita, e di prodigare in elemosine, in un giorno, quanto… quanto ora ci serve a vivere per un anno, - soggiunse, con un nodo di pianto alla gola. - Calmatevi, cara, non vi agitate. - No, no, lasciatemi dire, se non parlo, soffoco. Un grande sogno, grande come il cuore di Carlo Cavalcanti, nobile e generoso come il suo animo, qualche cosa di così nobile e generoso, che mia madre e io gli consacrammo una gratitudine che non finirà con la vita, che continuerà in quel mondo delle anime, oltre la tomba, dove ancora si sente, si ama e si prega. Ma nella sua accesa fantasia, egli desiderò un mezzo pronto, bizzarro, dalle forme amplissime e immediate, per realizzare questa fortuna: un mezzo dovuto al caso, poiché un Cavalcanti non lavora e non fa speculazione… - Il Lotto, - concluse Amati. - Il Lotto; come lo sapete? - Lo so. - La sciagura nostra è nota a quanti ci avvicinano, - riprese ella, fremendo di dolore. - Una così grande sciagura, a coronare tutte le altre! Una sciagura per cui è morta mia madre, di mali fisici e morali, una sciagura in cui si è sommersa, prima e dopo, tutta la nostra fortuna; una sciagura che mi ha tolto il cuore di mio padre e che dopo aver distrutto tutto quello che era a me più caro, mi darà alla miseria e alla morte! - Non temete, non temete, tutto ha rimedio, - disse lui, vagamente, cercando di attenuare quell'impeto di desolazione. - È irrimediabile! - disse lei, profondamente. - Mia madre, morendo, in un lucido intervallo, baciandomi, mi disse: "Non giudicare tuo padre, figliuola mia; non esser mai dura con lui; obbedisci, obbedisci. La passione che lo divora e di cui io muoio, non può che crescere con gli anni: questa febbre peggiorerà, io non l'ho guarita, tu non la guarirai. Lascialo in questo suo sogno; non lo tormentare; se sei infelice, raccomandati a Dio; ma rispetta questo vecchio, che ha per solo desiderio la nostra felicità e che mi uccide per questo, che ti farà soffrire atrocemente, sempre essendo nobile e generoso. Abbi pietà di tuo padre, intendi? Solo così potrai morire tranquilla di coscienza, come io muoio". Aveva ragione, mia madre egli è diventato, con gli anni, più infelice, più fantastico, inguaribile oramai dimenticando tutto, tutto, mi capite? Un giorno o l'altro, io temo che questo vecchio gentiluomo, che questo padre di cui io debbo venerare la canizie, su cui vorrei riunito il rispetto del mondo dimentichi le leggi dell'onore, in qualche oscura combinazione di giuoco! - Che Dio lo guardi! - augurò Amati, trasalendo. - Che Dio vi ascolti! - esclamò lei. - Ma prego tanto, e il male si fa sempre più aspro. Se sapeste! Qui manchiamo di tutto; è la prima volta che parlo di queste cose, a qualcuno; tremo dalla vergogna, ma non posso celarvi niente. Egli ha venduto tutto, prima gli oggetti d'arte, poi i mobili, finanche i pochi gioielli che mi aveva serbati mia madre, ed egli l'adorava! finanche i ritratti dei vecchi Cavalcanti. mentre è così fiero della sua stirpe! finanche le lampade di argento della cappella, ed è un credente! Io vivo con questi due vecchi servi, così fedeli che non li ha potuti allontanare né la sciagura né la povertà! Egli non li paga, costoro servono casa Cavalcanti senza esser pagati, capite? Ed è al loro studio sottile, se la casa continua ad andare avanti, se abbiamo da mangiare la mattina e da accendere il lume alla sera! Io sollevo innanzi a voi i veli del santo pudore familiare, non mi tradite! Egli si chinò sulla mano che Bianca Maria gli stendeva e la baciò: era la conferma della sua promessa. - Tutto questo denaro, ed altro che se ne procura non so come, non voglio saper come, ho paura di saper come, va al giuoco: il venerdì e il sabato egli è demente. Vengono a trovarlo altri miserabili simili a quell' assistito il cui solo nome mi fa trasalire di onta e di paura; fanno conciliaboli bizzarri e spaventosi; si esaltano, gridano, litigano, proferiscono parole incomprensibili in un gergo oscuro. Questi sono i suoi amici: i gentiluomini del suo ceto, i suoi parenti, lo hanno abbandonato. Forse… cercò loro denaro; ne ebbe forse senza restituirlo: o forse è l'alito istesso della sciagura che li ha fatti fuggire. Questi cabalisti, questi uomini che vedono e rabbrividì, guardandosi intorno - gli levano il suo denaro, lo eccitano al giuoco. E il giorno si approssima in cui mancherà di tutto, e non potrà giuocare, e in quel giorno, Dio mio, Dio mio, illuminatelo voi, se non volete farci tutti perire, col nostro nome e con la nostra casa! - Bianca, Bianca, vi scongiuro di calmarvi, - disse lui, allarmato da quell'eccitamento, seguendone le variazioni con la mente del medico e col cuore dell'uomo. - Non posso! - esclamò ella. - Non vi ho detto tutto. Ascoltate, io sono una povera creatura debole; il sangue è povero e lento, nelle mie vene, voi lo sapete, voi me lo avete detto; ho vissuto fra questa triste casa e il convento di mia zia, cioè in compagnia di mio padre, sempre in preda alle sue fantasie, e in compagnia di mia zia, a cui la fede dà visioni quasi profetiche; in questa casa è morta mia madre: e come la passione del giuoco è diventata allucinazione nella mente di mio padre, l'allucinazione si è infiltrata in me contro la mia volontà. Mio padre mi parla di ombre, di fantasime, di spiriti, in tutte le ore, massime in quelle della sera e della notte, e io ci credo: intendete, voi, che vi è di orribile, in ciò? La luce del sole, la vista delle persone cancellano questi terrori: ma quando scende la sera, ma quando questa mia casa si empie di tenebre, ma quando mio padre mi parla dello spirito, l mio sangue si gela, il cuore arresta o precipita i suoi movimenti: io mi sento morire dallo spavento. Misteriosi rumori mi ronzano nelle orecchie, passi leggieri, voci sommesse; veggo dinanzi agli occhi della mia fantasia passare spettri ammantati di bianco, e guardarmi, e lagrimare, guardandomi; mi pare che mani evanescenti mi carezzino i capelli; mi pare di sentire aliti gelidi sulle guancie, e le mie notti, oramai, non sono che una lunga veglia affannosa, o un sonno lieve turbato da visioni! - Questi spiriti on esistono, Bianca, - disse lui, con voce ferma e dolce. - Ah io sono così debole, così inetta a difendermi, contro le allucinazioni! Quando ho riconquistato un poco di tranquillità, ecco, mio padre, per fantasia propria, o per bieco suggerimento di quell' assistito viene a tormentarmi. Vuole che io veda e senza curarsi della mia debolezza, della mia paura, senza capire la tortura che mi dà, mi parla dello spirito, vuole che io lo evochi, io che sono una fanciulla, io che sono innocente! Invano io tento di resistere, invano io mi dibatto, invano io chiedo a mio padre di risparmiarmi, di non farmi bere questo calice amaro, egli è ostinato, egli è acciecato, egli vuole che io veda lo spirito, e che gli chieda i numeri da giuocare. Ed è così forte l'influenza che mio padre esercita su me, è così terribile il modo con cui egli mi comunica la sua follia, che io finirò per essere come lui, una povera allucinata, consumantesi fra le visioni delle sue notti, e le ardenti delusioni delle sue giornate! Ella si nascose il volto fra le mani, convulsa. Il dottore la guardava esterrefatto, non osando più dirle niente. - E ancora non sapete tutto, - riprese ella convulsamente. - Un giorno, voi mi avete scritto una lettera, una buona lettera confortante, proponendomi di partire, di andare da vostra madre. Che conforto è stato quello! Ah avrei finalmente fuggito questa casa, di cui ogni vano nero di porta, alla sera, mi fa paura, di cui ogni mobile assume forme spettrali: sarei andata dove vi è luce, sole, calore, e gioia. Ebbene, in quella notte, preso da un accesso di stravaganza, mio padre è venuto nella mia stanza. In quell'ora, al chiaror vago di una lampada, svegliandomi dal sonno, buttandomi in un sogno con le sue parole, non curando le mie preghiere, non sentendo che mi faceva agonizzare, per due ore egli mi parlò dello spirito he doveva apparirmi, che era lì lì per apparirmi, che mi avrebbe detto le parole sacre. E tenendomi le mani, soffiandomi il suo alito nella faccia, comunicandomi il suo ardore e la sua fede, egli ha ottenuto il suo scopo. - In che modo? - Io ho veduto o spirito, mico mio. - Come, veduto? - Come vi vedo. - Era la febbre: non vi è nulla di ciò, Bianca, - disse lui, aspramente, per ricondurre quella mente smarrita alla pace. - Voi lo dite, vi credo. Ma quando voi sarete partito, quando io avrò finito di pregare, di leggere, quando sarò sola nella mia stanza, fra le penombre della lampada, io vedrò la visione di quella notte, e la vertigine mi coglierà dì nuovo, facendo roteare il mio cervello e battere i miei denti! Ma mio padre, oramai, disperato, perché i numeri di quella notte non sono mai usciti, dice che io non seppi interpretarli, vuole che io evochi di nuovo lo spirito! Ma egli mi crede assistita oramai, e non mi lascia più un'ora di riposo! Ma io non sono sua figlia oramai, egli mi considera solo come intermediaria fra lui e la fortuna, e sorveglia ogni mia parola, e mi guarda talvolta con invidia, talvolta con alterezza, e non so quali strane discipline vada pensando, perché io possa vedere, i nuovo, non so quali bizzarre privazioni egli voglia impormi, perché la mia anima sia pura come il mio corpo e possa avere la veggenza lucidissima! Nei primi giorni della settimana mi lascia più tranquilla, ma la notte del giovedì egli viene da me e mi prega, capite, mi prega di chiamare lo spirito: questo vecchio bianco, a cui io bacio la mano per rispetto, s'inginocchia innanzi a me, come innanzi all'altare, per commuovermi! In quella del venerdì, le sue preghiere diventano furiose, egli non si accorge delle convulsioni di spavento che squassano il mio corpo, egli crede che siano l'approssimazione dello spirito! L'altra notte, per sottrarmi a questa tortura che mi pareva ormai insopportabile, ho chiuso a chiave la mia porta, ho avuto il coraggio di negare l'accesso della mia stanza, a mio padre! Ebbene, egli è venuto a bussare, prima piano, poi forte; mi ha parlato, supplicando, comandando, passando dalla collera all'umiliazione, voleva che io vedessi lo spirito, a forza, a forza, quella notte - io mi turava le orecchie, per non udire, nascondevo la testa nel cuscino, mordevo le lenzuola per soffocare i miei singhiozzi, venti volte avrei voluto aprire quella porta, ma il terrore m'inchiodava sul letto. Mio padre ha pianto! Oh mamma mia, mamma mia, io ti ho disubbidito! Tu hai saputo morire per mio padre, ma io non so imitarti! - Poveretta, poveretta, - mormorava lui, tentando di cullarne l'esaltamento con quella dolce parola di compatimento, carezzandone le mani, quasi per addormentarla, per magnetizzarla. - Oh sì, sì, compatitemi, perché io sono così misera, così disgraziata, che l'ultima mendicante della via mi fa invidia: compatitemi perché la sola persona che dovrebbe amarmi, cercare la mia salute e la mia felicità, sogna invece di darmi del denaro, molto denaro, e m'impone per questo tutti i sacrifici materiali e morali; compatitemi, perché sono una disgraziata creatura, votata a una oscura catastrofe; compatitemi, perché in tutto il vasto mondo, io non trovo altro, per me, che la vostra compassione! Tacquero. Il sangue era salito alle guance pallide di Bianca Maria; gli occhi di lei scintillavano; e le parole dove si era sfogato tutto il suo cuore, erano uscite convulsamente, tumultuariamente dalle sue labbra. Taceva, ora. Aveva detto tutto. L'aspro segreto che torturava implacabilmente la sua esistenza, evocato dall'amore, aveva dato i brividi di una paurosa sorpresa, al forte uomo che l'ascoltava. Egli taceva, cercando di dominare la propria stupefazione, cercando di riunire le proprie idee confuse. Certo, egli era avvezzo a udire il racconto lugubre di tutte le miserie spirituali e fisiche dei suoi ammalati, egli aveva sollevato i veli di tutte le onte, di tutte le corruzioni, e come al confessore si erano aperti a lui, affannosi e contriti, i cuori che racchiudevano i più orrendi umani misteri. Ma in verità, l'affanno di Bianca Maria era così profondo, attaccava così profondamente le sorgenti stesse della vita, che lo aveva fatto sgomentare, dinanzi allo spettacolo di una miseria inaudita. Ma quella povera creatura che si consumava sotto le strette di un morbo non suo, che aveva il suo carnefice in suo padre, quella povera buona e bella creatura, era la donna che egli amava, senza la quale egli non poteva vivere, la cui felicità, la cui salute gli era necessaria, più della propria. Perturbato, non sapendo ancora raccapezzarsi innanzi a quel duplice problema di malattia e di passione, che rendeva il marchese Cavalcanti l'uccisore della sua famiglia, egli non trovava nulla da dire a Bianca Maria, per confortarla. Adesso, ella era accasciata: e provava un vago rimorso di aver accusato suo padre. Ma non doveva Antonio Amati essere il suo salvatore? Non si sentiva ella tranquilla, sicura, forte, quando egli era là? E traendosi dal suo abbattimento, levandogli gli occhi nel volto, timidamente gli disse: - Voi non dite che io sono cattiva ed ingrata, nevvero? - No, cara. - Voi non lo giudicate male, lui? - Io lo guarirò, - egli disse, pensando.

STORIA DI DUE ANIME

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Serao, Matilde 1 occorrenze

E Domenico Maresca che li guardava, senza esser visto, senza esser curato, da un quarto d'ora, abbandonarsi alla seduzione del ballo, della musica, della gioventù, Domenico, che sentiva il fiotto dell'amarezza invadere largamente, le sue vene, il suo cervello, il suo cuore, Domenico, taciturno, obliato, udì un grande fracasso di applausi salutare la fine della mazurka, che i due avevano ballato così bene, e gli evviva entusiasti salutare la coppia perfetta. Nella casa di via Donnalbina, salutati e abbracciati il padre e il compare, senza dar segno della più fugace emozione, Anna Maresca era entrata da padrona nella stanza da letto, tutta mobiliata di nuovo, e che ella conosceva perfettamente, poichè ogni mobile, ogni arredo, era stato scelto da lei, collocato da lei. negli ultimi due mesi del fidanzamento. Interdetto, Domenico Maresca era restato nel modesto salottino, mobiliato di una bourrette crema e rossa, tappezzeria voluta da Anna, poichè andava di accordo con la sua tinta calda e bruna; e disfatto da quella giornata di travagli materiali e morali, si era gittato sovra una poltroncina. Innanzi a lui, in piedi, era Mariangela, la vecchia serva fedele, tutta grigia nei capelli, tutta rughe nel volto, vestita di scuro, coi fazzoletto bianco al collo delle donne assai divote a Dio, col grembiule bianco. Ella taceva, un po' in ombra, essendo restata in casa per amore del suo padrone, che aveva servito dalle fasce, ma dubbiosa della sua sorte, con la nuova padrona. E una voce breve, imperiosa, risuonò dall'altra stanza: - Mariangela! - Signora? - Un lume. Suonavano le sette e il vicolo di Donnalbina è assai oscuro, con le alte case vecchissime che lo serrano, dalle due parti. Mariangela ripassò, con un lume a petrolio acceso, ed entrò nella stanza da letto, ove si trattenne. Vagamente, Domenico, udiva un andar e venire, un fruscio di seta, e qualche ordine dato con tono freddo e rapido. Dopo un poco, Mariangela uscì di nuovo, accese il lume del salotto, e salutò il padrone col consueto augurio. - La santa notte! - Santa notte, Mariangela. La serva si ritirò, in una stanzetta accomodata a sala da pranzo, e si mise a dire il rosario, all'oscuro, in un cantone, aspettando di esser chiamata. Domenico era sempre solo, nel salotto, non osando di entrare nella camera da letto. Udì un passo, alle sue spalle: Anna si era spogliata del suo bell'abito di seta bianca, aveva tolto i fiori di arancio dai suoi neri capelli; tolti i suoi orecchini, i suoi anelli: indossava una vestaglia di leggera lana rosa, guarnita di merletti color avorio, con un nastro avorio che ne formava larga cintura. Senza dire nulla, si andò a sedere dirimpetto a Domenico, sovra un'altra poltroncina. Egli la guardava intenerito, commosso, gustando tutte le emozioni di quella quiete tanto ambita, di quella solitudine in due, nella loro piccola casa, che era stata quella di suo padre e di sua madre, nella casa che doveva esser quella del loro amore e della loro felicità. Tutte le brutte impressioni, tutti i tristi presentimenti, tutti gli amari dubbii, tutte le penose incertezze della giornata erano sparite, ora che si trovavano, colà, soli, oramai, come egli aveva desiderato e voluto, e come gli era tanto costato, per ottenere. E cento cose egli le avrebbe voluto dire con voce amorosa, con parole amorose, per ringraziarla di averlo accettato per isposo, per donarle, ancora una volta, il suo cuore, la sua anima, la sua vita. Ma non sapeva profferire un solo motto, di quelli che gli fremevano dentro. Anna, seduta, con le braccia prosciolte, taceva. E così, banalmente, egli le disse: - Sei stanca? - Un poco. - Quella festa è stata troppo lunga... - No - ella rispose, subito. Un silenzio. - Vuoi qualche cosa, Anna? - Io? No. - Non hai fame? - Non ho fame. - Mariangela deve aver preparato la cena. - Non ho fame. - Forse prenderesti una tazza di caffè? - Non ne voglio. Prendila tu, se ti pare. - No. M'impedisce di dormire, di sera. Un silenzio, ancora. Un suono limpido e armonioso lo interruppe: era l'Ave Maria, che suonava dalla piccola, vicinissima chiesa dell'Ecce Homo. - Diciamo l'Angelus Domini... - mormorò lui, segnandosi. Anche essa si segnò, macchinalmente, e insieme pronunciarono le parole pie: - Angelus Domini, qui nunciavit Maria ... Domenico si era avvicinato a lei, dopo la comune preghiera. Anna era immersa in quel silenzio e in quella immobilità, ove pareva si assorbisse e si concentrasse la sua vita. Egli la chiamò: - Anna, Anna! - Che è? - esclamò lei, scuotendosi. - Mi vuoi bene, almeno? Tanta supplicazione, tanta malinconia, tanto rimpianto in quell' almeno ! - Eh, sì, sì! - rispose ella, fastidiosamente.

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

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Serao, Matilde 1 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Quante volte ella mi ha chiamata a sè per comunicarmi una sua idea schietta, provvida, generosa e io, come altri miseri esseri, con le mani e con le anime legate dall'incertezza e dalla debolezza, come tanti altri infelici che, guasti dal dubbio, temono di abbandonarsi alle imprese audaci, rischiose e magnifiche, le ponevo, miserabilmente, delle obbiezioni meschine sempre sgomentandomi delle complicazioni, in cui ella comprometteva la sua salute, la sua pace, il suo tempo. Ella crollava il capo: sorrideva: riconciliava il suo discorso, in cui tutto il suo progetto ideale di soccorso, di sussidio, di protezione appariva magicamente colorito: e a un tratto, io, come gli altri, eravamo colpiti dalla grazia, e innanzi a lei ci sentivamo stupiti e fiacchi, e sentivamo che una volontà alta e bella ci trascinava, e tutti eravamo travolti in un'onda di bene che, da lei emanava, che ci rendeva capaci di cento cose più forti di noi, che ci dava la forza di servirla, Teresa Ravaschieri, nei suoi miracoli di tenerezza che ci metteva dietro a lei, come discepoli di un Maestro divino. Ah Ella, sì, avrebbe seguito, col capo avvolto nel manto e i piedi nudi nei sandali, Gesù, per le altitudini del Thabor, per le pianure di Elsdrelon e per le balze della Samaria, fino a Gerusalemme, fino al Calvario, sin oltre il Calvario: ma alla sua parola di pietà, al suo sentimento di amore, a questa luce costante e generatrice di ogni bene che emanava da lei, ognuno di noi sarebbe con lei partito, dove ella volesse, con lei, ove ferveva il più crudele morbo, ove giacevano i morti del cataclisma, ove strideva il grido di guerra. Chi, chi mai dirà più a noi, come Teresa Ravaschieri la diceva, la parola che desta l'anima e che la sospinge alla divozione suprema? Chi più, chi più indicherà a noi, con la mano bianca e l'occhio scintillante, la via del sacrificio sublime? Ah che noi siamo soli, freddi, tristi e dubbiosi di ogni cosa e dubbiosi di ogni persona, e giammai, più udremo la voce che ci dava la forza di vivere, l'energia di vivere per gli altri, l'abnegazione di vivere per tutti gli altri, tutti, amici, indifferenti, estranei, nemici. Non è morta una donna, l'anno scorso, il dieci di settembre: si è dileguata la più incomparabile forza spirituale: è scomparsa la miglior parte di noi, quella che riassumeva le tre virtù dell'anima, la carità, la fede, la speranza: abbiamo perduto, con lei il segreto della nostra vita di cristiani operosi e di creature umane degne di questo nome, il senso della tenerezza fraterna, si è spento, in noi, poichè lei, l'Evocatrice, l'Animatrice di tutte le fraterne tenerezze, è spenta Giusto è che, oggi, in un tempio, i maggiori cittadini napoletani e le più pietose donne e quanti sono i più noti che amarono e ammirarono Teresa Ravaschieri, convengano per onorar la sua memoria e per pregar pace a lei. Tali feste funebri solenni, sono assai belle, e commoventi, anche. Ma se io penso che, in quel tempio, dovrebbero entrare tutti coloro che essa ha beneficati, esso è piccolo, troppo piccolo, infinitamente piccolo: la folla dei poveri, degli infelici, degli infermi, degli abbandonati, cui ella provvide di dignitosa elemosina, di ricovero, di sanità recuperata, di cure materne, la folla, a cui ella dette il suo amore e la sua fortuna, il suo tempo e la sua anima, la folla a cui ella dette sè stessa, in un lungo ed entusiasta olocausto, è immensa. Niun tempio la potrebbe contenere e ognuno di costoro, poichè gli oscuri, i derelitti non dimenticano, certo, ogni volta che il suo spirito si effonde nella preghiera, rammenterà il nome di Teresa Ravaschieri. Ed è, forse, più giusto domandare a Lei, dal suo eterno riposo che ella ci preghi pace: assai più giusto che noi, combattuti, trafitti, stanchi, oppressi, senza più guida nell'esistenza, chiediamo pace a Lei. Ella lottò e vinse, nel nome di Dio e nel nome della virtù d'amore che raccoglie tutta l'umanità. Assai prima di morire, ella era in pace. Ella aveva detto a Dio le parole estreme, assai prima di morire: e aveva avuto il dono della pace. È alla nostra nave pericolante, in gran tempesta, nella notte, che bisogna chiedere l'aiuto di uno spirito orante, nella beatitudine celeste: è al nostro naufragio che l'anima eletta deve dar soccorso, dal misterioso mondo delle anime. La grande anima aveva la consuetudine dei miracoli, per la forza della preghiera, e della bontà. Preghiamo che Ella continui! Napoli, autunno 1904

CONTRO IL FATO

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Steno, Flavia 2 occorrenze

In quel salone dove era entrata poche ore prima, tanto felice, provò come un capogiro: ma non potè abbandonarsi al suo dolore. In un momento Belitzine, d'Ostrog e il direttore del Casino le furono intorno. - Finalmente, eccovi, duchessa, vi abbiamo cercata tanto! - esclamò Belitzine, radiante d'essere il cavaliere di quella splendida bellezza. - Infatti mi sentivo poco bene e sono andata a riposarmi nelle sale del buffet.... buffet....- Oh, quanto me ne dispiace! Come state ora, duchessa? - Poco bene ancora:... e per questo desidererei di ritirarmi.... Sapreste dirmi dove sia il duca?... Belitzine o d'Ostrog si guardarono un po' impacciati. - Lo sapete voi, d'Ostrog? - Era andato a giocare con Lovere, credo.... Sarah sentì una fiamma d'indignazione salirle al viso. - Se poteste essere tanto buono di cercarlo.... - Ai vostri ordini, duchessa - disse d'Ostrog ancor più imbarazzato. Uscì e rientrò poco dopo dicendo: - Il signor duca è impegnatissimo in una partita a maccao: prega la signora di volerlo attendere un istante, oppure di concedermi l'onore di accompagnarla.... - Venite, d'Ostrog - rispose essa.

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E tutto queste ragioni, tutte queste proteste, erano avvalorate da tanti baci discreti e timidi, da un viso così sinceramente addolorato, da un accento così schietto, che Sarah cominciava a lasciarsene penetrare, ad ammetterle buone, ad abbandonarsi ancora, ebbra di felicità, alla gioia immensa di credersi amata. - Ma, - obiettò ancora timidamente - tu eri appoggiato sulla spalla di quella donna.... - Oh, mia povera innocente! - sussurrò lui, abbracciandola. - Credi tu che quelle sieno donne? Sono femmine e nulla più! Non si trattano certo col rispetto che si ha per una signora, e non si sciupa, non si profana con esse l’amore! M'ero appoggiato su di lei, dici? Non rammento! Può darsi che un po' squilibrato dallo sciampagna bevuto poco prima al buffet e dai profumi della festa, mi sia dimenticato al punto d'appoggiarmi alla spalliera della sua seggiola, ma non certo su di lei.... e ciò per discorrere meglio con Lovere che mi stava proprio di fronte.... E tu, tu, povero amore, hai tanto sofferto? Hai creduto che io non ti amassi più, che ti dimenticassi per quelle miserabili! Oh, Dio, Dio! come se fosse possibile non amarti! Come se si potesse trovare una donna più bella, più buona, più cara di te!... Cattiva che sei!... Non hai veduto come son tornato ansioso dei tuoi baci? - soggiunse più dappresso, più piano, sicuro di aver trionfato, soffiandole in viso tutto il folle desiderio poco prima represso. Essa si schermiva ancora un po' dubitosa tuttavia, ma felice, oh, tanto felice e credula per l'immenso bisogno di illusione che le teneva il cuore, già vinta e inebriata da quella che credeva gran passione, ancor più dolce e soave dopo lo strazio sofferto. E gli tese la bocca avida di baci e gli aprì le braccia desiderose, offrendosi finalmente tutta, povera cara, tanto bisognosa d'affetto e di tenerezze. Fu con un sorriso di trionfo che Luciano le diede quella notte l'ultimo bacio. - È tutto passato, non è vero? - le sussurrò prima di lasciarla. - Sì, amore. Ma senti, partiremo domani, eh? - ella implorò, colle braccia sempre avvinto al collo di lui. - Voglio prima dare una lezione a quel vigliacco! fece il duca sdegnoso. - Oh, no, no, ti supplico! Lascialo stare, fuggiamo soltanto al più presto, perchè io ho paura, ho tanta paura!... - Faremo come tu vorrai!... - egli rispose galantemente. Quella promessa finì di rassicurarla. Ma la mattina seguente, quando Luciano risalì dopo la colazione portando a Sarah la notizia che il signor Rook era partito improvvisamente la notte stessa e che aveva lasciato ordini perchè gli spedissero subito tutta la sua roba a Parigi, essa, felice come una bimba, abbracciò lieta il marito e non parlò più di partire. Il terribile signor Rook se n'era andato, dunque si poteva ben prolungare di qualche settimana il delizioso soggiorno a Biarritz. Anzi, ella avrebbe cominciato solo allora a goderlo, perchè per la prima volta in quindici giorni, non aveva più da tremare. Quando scese in un fresco abbigliamento roseo, tutta coperta di trine bianche, era più bella e più attraente che mai. Accanto a lei, Solange si lagnava di quel cattivo signor Rook ch'era partito senza neppur salutarle. Lovere, Gleunitz e d'Ostrog le attendevano rispettosi. - Due vere aurore! - disse il marchese sorridendo. Per la prima volta Sarah accettò lieta il suo braccio per fare un giro in giardino, mentre Solange li seguiva con miss Lucy, e la baronessa flirtava molto correttamente col buon d'Ostrog. - Non vieni, Luciano? - gridò Sarah al marito. - Se permetti, prendo la rivincita della partita perduta ieri.... - disse questi, sedendosi a un tavolino di fronte a Belitzine. Splendeva il meriggio luminoso lì intorno, su nel cielo, sulla terra, sul mare. Lontano le vele bianche solcavano l'Oceano, quasi tenui fragilissime speranze.... - Che splendida giornata! - disse Sarah commossa. E ancora in fondo al giardino sentirono la voce del duca ch'era su nella terrazza: - Scusi! era fante di cuore, principe!

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