Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbagliato

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Da Bramante a Canova

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Argan, Giulio 1 occorrenze

Perciò insistono sulla stessa verticale il volto presago e già quasi abbagliato dalla vampa mortale e la mano che tiene, come un vano trastullo, la penna e la fune (un particolare aggiunto, che manca nel gesso conservato a Possagno): due temi o momenti (inutilità dell’artificio e, impulso interiore, ideale) che vanno afferrati assieme, combinati. Lo scarto del volume ovoidale della testa, che pesa tutto sulla verticale d’appoggio, è compensato dalla parte opposta dall’angolo sporgente del braccio di Dedalo, il cardine di tutte le forze combinate ed agenti. Accenna invece all’impercettibile cedimento alla forza traente del filo la gamba flessa, col ginocchio che s’accosta a quello del padre. Ma se il corpo del ragazzo è tutto modellato entro due piani paralleli e frontali, il corpo del vecchio è costruito per linee incrociate, a X, in profondità: ed il punto d’incontro è il pugno chiuso, che tiene e tira la fune. Ed è facile vedere che questa composizione chiastica, che si sviluppa in alto nelle ampie aperture angolari delle braccia, non è altro che la vecchia composizione a spirale, ridotta e schematizzata in un combinato movimento di rette e di angoli. Anche qui la testa e la mano insistono sul medesimo asse, sicché l’espressione intenta del volto rimanda immediatamente al gesto cauto, controllato del pugno; ma l’asse termina giusto nel malleolo del piede portato innanzi, la cui brusca torsione dà il via alla rotazione della figura. Testa e piede emergono allo stesso piano di affioramento, al di qua del piano mediano, e puramente «ideale», suggerito dalla corda tesa: sono le due punte realistiche con cui la figurazione esce dallo spazio figurativo, così chiaramente delimitato dalle braccia e dal filo, ed entra nello spazio empirico, esistenziale. Movimento avvolgente del padre, dolce ma fermo ritrarsi del figlio: è questo certamente il motivo psicologico dominante anche se, molto più del contrasto dei sentimenti, interessa all’artista il tema dell’educazione: Icaro potrebbe essere Achille, Dedalo Chirone. Ed il contrapposto pratica-ideale si preciserebbe nell’altro, insegnamento-vocazione.

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Vietato ai minori

656608
Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Il ragazzo è rimasto come abbagliato a occhi stretti. Gl'indicano la panca, si siede, viene fatto rialzare. Sulla stessa panca siede il minore del riformatorio, giudicato poco prima per furto, e in piedi accanto al termosifone l'agente in borghese che l'accompagna. Entrambi guardano il novellino, è l'agente ad accennargli di risedersi. Manca la difesa. Uno dopo l'altro sono usciti l'ufficiale giudiziario e il cancelliere in cerca di un avvocato. Non si occupano di lui per il momento e Risdonne Nicola con veloci occhiate sembra prendere cognizione del luogo. Dalla panca, sistemata a metà parete dove si entra per la porta piccola, guarda di sbieco all'emiciclo sulla pedana. Negli scanni di quercia sono sopraelevati i giudici, tré in toga uno senza. Lo scanno a sinistra è separato, a sé come un trono. Lo ha quasi di fronte e ci guarda diritto. In basso due tavoli vuoti, poi quella che deve parergli una staccionata da ovile. Taglia in due l'aula e di là s'apre l'altra porta. Lo spazio è deserto. Il ragazzo torna a mostrare il bianco dell'occhio volgendosi di nuovo al Tribunale assise in silenzio, si sofferma sul posto di centro con la spalliera più alta, riabbassa le palpebre e prende a mangiarsi un labbro. In atteggiamento ne spaventato ne umile (il ladruncolo al suo fianco è compunto e sornione) si tiene con le membra raccolte incrociando le lunghe gambe piegate al di sotto della panca. I quattordici o quindici anni, malgrado la carnagione di quel bruno smorto che non ha mai la freschezza dell'età, gli si attribuiscono per l'intensa pubescenza della faccia. L'alone al labbro quasi inverecondo, macchie alle guance, quella peluria diffusa che imbruttisce i ragazzi e li sporca, lo rendono sgradevole. Preceduto dal cancelliere, giunge l'avvocato dal bavero di pelliccia, cappello in mano, inchinandosi. Dal cappotto aperto si vede una sostanziosa giacca di tweed e le cosce grasse strette. Ossequiosamente comunica di essere impegnato alla Corte, chiede licenza. Avutala, si ritira con un duplice inchino. La faccia calma e cortese del presidente s'è corrugata. Volto ai colleghi: "C'è penuria oggi." E il pubblico ministero, piccolo irrequieto impaziente sul suo scannetto: "II foro cittadino teme i rigori dell'inverno. Via, se ne trovi uno." Il cancelliere allarga le braccia. "Nemmeno l'avvocato Lucrese? Si faccia il giro, si frughi nelle adiacenze dei termosifoni." Serpeggia un'ilarità discreta. Poco dopo fa il suo ingresso, a tentoni, guidato dal miope ufficiale, un vecchio basso e obeso, con lenti doppie sul naso minuscolo. In un paltoncino nero striminzito, privo di sciarpa, mostra anche da lontano sfilacci alla camicia e le punte del colletto storte. È l'avvocato senza più cause, assiduo frequentatore delle aule di giustizia. Ma saluta il Tribunale con dignità e tono curialesco ancora sonoro. Condotto al tavolo più vicino, tastando l'aria dietro di sé cade a sedere. Come capita ai minori, ha dimenticato di togliersi il cappello; lo posa sul tavolo, con visibili chiazze di grasso intorno al nastro. I capelli castani non sono da vecchio e le pieghe di carne accesa alla nuca ancora lisce. II presidente da inizio. "Imputato alzatevi." Risdonne stava sbirciando il suo difensore d'ufficio e non capisce, l'altro imputato lo spinge. Allora si tira su come a fatica sulle lunghe gambe, curvando il busto nella posizione di spalle della crescita improvvisa. "Sei tu Risdonne Nicola." Non è una domanda e non risponde, fa un passo avanti. "Risdonne Nicola, sei tu?" Accenna con la testa. Il sissignore gli viene suggerito dall'agente in borghese. Sì signore, risponde correttamente. Neppure un'ombra del suo impaccio fisico è passata nella voce che suona perfino troppo sicura. "Sai di che ti si accusa?" "Sì signore, ma non l'ho fatto." "Devi rispondere solo alle domande," ammonisce pacato il presidente. "Una notevole improntitudine," osserva il pubblico ministero rigirandosi sul sedile. È il piccolo sostituto Platonico, incredibilmente mingherlino benché porti la toga sul cappotto. "Ehi," strilla all'improvviso, "fuori il pubblico, qui non si accede." Sta entrando un individuo scheletrico in un impermeabile bianchiccio corto al ginocchio, che si fa avanti senza aver capito e gira la testa evidentemente in cerca di qualcuno. Orientatosi, l'ufficiale giudiziario lo rincorre. Dopo un breve parlottamento comunica che è il padre, accompagnandolo alle transenne. Solo allora l'uomo vede suo figlio là in piedi. È emaciato, con tristi occhi azzurri, inghiotte ripetutamente il pomo d'Adamo aguzzo attraverso la pelle del collo. Si mette dietro la transenna dalla parte dell'avvocato e appoggia al legno due grandi mani tutt'ossa. Si può finalmente cominciare. Aperto il fascicolo, e rivolgendosi ora al collega a latere ora al componente privato, sommesso e monotono, evitando ogni accentuazione, il presidente contesta il reato e ragguaglia per sommi capi sui fatti del processo. Presiede Toma, signorile distaccato, la sua faccia è composta ed equanime ma tutti sanno come certe cose lo indignino. Ha cinque bambini. Un uomo singolarmente onesto e un padre geloso. Dice forte "incensurato", con la stessa forza ma asciutta pronuncia l'imputazione : " violenza carnale ". All'avvocato d'ufficio non occorre altro. Insacca la corta testa senza collo e sembra appisolarsi, in attesa che si arrivi alla fine per poter chiedere con la consueta formula sbrigativa il perdono giudiziale. Ma una nuova interruzione sopraggiunge. Si è aperto l'uscio in fondo e un nugolo di ragazze invade l'aula. Con cappucci e sciarpe multicolori, ciuffi imbrillantati di neve, il rossetto vivido alle labbra e l'aria saltellante che hanno le donne sui tacchi troppo alti, appaiono disdicevoli. Lo si legge in faccia al pubblico ministero, voltatesi di scatto al trepestio dell'intrusione. Ma è solo una scolaresca femminile, allieve del corso per assistenti sociali, debitamente autorizzate e accompagnate. Le accompagna un uomo. Fra le udienze del mese la scelta era caduta a caso su quella giornata e su quell'ora, un'ora di lezione pratica. Disinvolte le ragazze prendono posto al tavolo libero e alle panche _una terza viene subito trasportata dentro _ occupando il lato vuoto al di qua della transenna. Vi fanno mazzo. Anche l'uomo ha un foulard chiaro al collo, i capelli ricci e la bocca tumida. Dietro, la neve infittita fa un brulichio ai vetri dei finestroni. Il presidente ha ripreso il fascicolo, lo tiene in mano soprappensiero, quindi da qualche spiegazione sul funzionamento di un tribunale minorile, in tono didattico, con lunghe pause come se esitasse o temporeggiasse. Mentre parla, gli sguardi irrequieti delle ragazze deviano alla sua destra sul giudice a latere. (Funziona Oliva.) È un giovane dai lineamenti perfetti, nobili e dolci, di bellezza inconsueta nella professione. Sia che qualcuna lo conosca, o più probabilmente che lo assomiglino a un attore, stanno indicandoselo con segni impercettibili. (La faccia di Platonico segnala: elemento perturbatore.) Intanto allentano le sciarpe, respingono i cappucci, liberano i capelli lucidi. Una, bionda, scoprendosi sfavilla. Perfino la massa torpida dell'avvocato deve risentirsi di qualche stimolo visivo se tenta di ruotare il busto in quella direzione. Il presidente ha terminato. Sarebbe necessario presentare i fatti del dibattimento in corso, ma si limita a designare il reato coi numeri degli articoli di legge. Senza trapasso, con la stessa intonazione, rivolge la parola all'imputato rimasto in piedi fra la panca e la pedana. "Venite avanti." Tutti gli occhi convergono sul ragazzo. "Avanti." Quando Risdonne Nicola capisce di dover salire sulla pedana, ha un urto alla spalla come un tic. Camminando si fa sbilenco. Sotto i passi il legno emette scricchiolii da vecchio palcoscenico. Si sentono poco le voci, bassa quella del presidente, più chiara quella dell'imputato benché di schiena. Nuca piena di capelli fin dentro il colletto, spalle strette in una giacca che tira alzando in fondo un becco e le lunghe gambe nella stazzonatura dei calzoni in posa disagiata a compasso. Non viene invitato a sedere. Si intuiscono le domande più che altro dalle risposte. Il nome sfugge al pubblico, lo raggiunge una dichiarazione, "studente", che suscita mormorio fra le studentesse. "Apprendista ciabattino," specifica il pubblico ministero. Ha la voce acuta curiosamente immatura. Il ragazzo si gira. "Mi preparo privatamente." Risulta dal fascicolo che possiede la licenza elementare, che è stato messo a bottega ma ci va poco, che un frate del locale convento gli da qualche lezione di grammatica latino e "metrica", che gli impresta libri "di autore". Le informazioni, anche dei frati, sono buone: si recava spesso da loro, cercava libri, leggeva molto, "letture edificanti". Non fa lega con gli altri ragazzi, non ama il gioco. Tipo risentito non però violento, temperamento chiuso, solitario. Nel rapporto dei carabinieri si definisce cupo. Cattiva situazione familiare, condizioni economiche misere. Nessuna tara. La tbc paterna è di guerra. Con una dizione stimbrata, a occhi chini o sollevandoli verso l'aula, il presidente legge a sbalzi, col meccanismo procedurale che non tiene conto della presenza del soggetto. Sviluppo normale con qualche carattere di precocità sessuale. Quando commise il delitto tornava dall'aver riportato al convento i sandali di padre Alessio. Allora Toma lo guarda. "Era lui a darti le lezioni e i libri?" "Sì signore." La domanda seguente si perde. Risposta: "Non l'ho fatto." La voce è pienamente formata e controllata. "Che impudenza," dice stridulo il pubblico ministero. Come si gira da quella parte, il ragazzo è investito dall'ingiunzione di rivolgersi al presidente e rià il piccolo urto alla spalla sinistra. "Ah dunque spalluccia," grida Platonico. Il ragazzo spalluccia di nuovo. Sopravviene un silenzio. La sfilata dei testimoni, nonostante l'ingresso circospetto, le esitazioni e le impuntature, la difficoltà a capire e la renitenza nel rispondere, si esaurisce rapidamente. Sono contadini le cui grosse scarpe toccando il legno della pedana fanno un tonfo sordo. Portano addosso indescrivibili assortimenti di vestiario, dal terraiuolo di panno rustico blu, ancora usato dai vecchi, al residuo militare, il grigioverde da truppa ritinto o no, fino al blusotto americano a quadroni. Gente mai entrata in un'aula di tribunale. Al "dì lo giuro" di rito s'insospettiscono o s'imbrogliano, i vecchi tentando di cavare tutt'e due le braccia dalla ruota del mantello come per accingersi a una fatica manuale e per lo più rispondono "dilogiuro" in un'unica parola senza senso. Malgrado la pazienza e gentilezza del presidente, essi non intendono il linguaggio della giustizia. Alla costante richiesta se confermano le dichiarazioni rese, rispondono subito no. Si tratta di testimonianze irrilevanti, vicini di casa, semplici conoscenze, parenti alla lontana, capitati in mezzo ai litigi donneschi o a discussioni di famiglia, coinvolti senza volerlo. Improvviso e secco interviene di tanto in tanto il pubblico ministero e come fanno per voltarsi a lui li redarguisce. Evidentemente non riescono a capire perché, interpellati da una parte, debbano rispondere dall'altra. Superate le frasi oscure confermano la deposizione, scritta là nelle carte con la firma o il crocesegno (ma non l'hanno riconosciuta) e tornano sui propri passi andando a rimettersi alla staccionata. L'ultimo, un pastore col pelo di pecora al bavero militare, reso esperto da qualche denunzia per pascolo abusivo, spontaneamente conferma le deposizioni d'istruttoria. È l'unico testimone diretto essendosi incontrato a passare per la straduccia, e viene trattenuto dal pubblico ministero. "Che ha visto?" La domanda è rivolta al seggio presidenziale. "Stavano dritti al muro," risponde il pastore guardando il presidente muto. "Che facevano?" Risulta che non aveva propriamente visto, solo, insospettitesi e tirato un sasso _ "come si fa ai cani", spiega _ il ragazzo, Nicola, quello _ e lo indica _era fuggito. Al primo equivoco verbale dei testi contadini, quasi a una barzelletta le studentesse avevano riso e con inattesa durezza il presidente minacciava di far sgombrare l'aula. Ora anche esse guardano a lui, come si guarda un docente noioso, con attenzione da alunne, le mani in grembo, senza accavalcare le gambe. Torcendo i piedi sui tacchetti aguzzi si chinano a osservarseli o si danno aggiustatine ai capelli _tranne la bionda immobile come se portasse in testa una raggiera _e così avvengono tutte le piccole manovre scolastiche per comunicare. Quando l'accompagnatore piega sul foulard la guancia grassoccia in atto di sorveglianza, stanno sempre chete. Non si capisce se si siano rese conto dei fatti del processo. Il gruppo dei ragazzini entra timorosamente spalla a spalla, l'ufficiale deve spingerli sulla pedana e strappargli i berretti dal capo. Raggiungono l'orlo del banco presidenziale coi menti puntati alla fontanella della gola. In principio le voci ristagnano nell'emiciclo. Curvatesi sul piano il presidente raccoglie mugolii e monosillabi; alle brevi risposte negative "no, non è vero, io no", si comincia a sentire l'accento spaventato; infine le accuse reciproche, "è stato lui", col tono dello strillo. "Lui chi," dice il pubblico ministero. Ripetuta la domanda, due indicano con la mano tra di loro, ma nel muoversi, visto il compaesano, quello accusato da tutti, dicono in coro: "È stato Nicolino." "Li facciamo arrestare?" celia il pubblico ministero provocando una esplosione di pianti. Nessuno è imputabile per l'età. All'invito di riprendersi i figli _ e con l'ammonizione che badino d'ora in poi a sorvegliarli _ un uomo lascia la transenna ricevendoli a braccia larghe alla discesa del gradino, sconvolti, impiastricciati dalle lacrime. Ma uno schiocco di sandali polarizza l'attenzione sull'ingresso del frate che avanza velocemente. Un frate di grande corporatura segnata dal cordone nel punto più ampio, in contrasto con l'asciuttezza dei piedi nudi quasi spolpati alle dita e alle caviglie. Al di sopra della barba nerissima che sale crespa fino alle tempie, due occhi lampeggianti, prima di riabbassarsi, fanno un'istantanea ricognizione dell'aula sostando un attimo sull'insolito pubblico femminile. Vi si confonde per l'aspetto anche l'accompagnatore. Il religioso sembra adeguarsi alla maniera coperta com'è condotto il dibattimento, la lunga deposizione a voce bassa risulta inafferrabile. Alzatesi e lanciato uno dei suoi sguardi precipitosi, va a raggiungere il padre dell'imputato. Si direbbe una nuova divisione delle parti. Essi due soli, alle spalle dell'avvocato, verso la panca dei colpevoli. Un lato vuoto dove persiste la sensazione dell'ambiente gelido. Mentre gli altri stanno ammucchiati alla transenna dall'altro lato in una zona piena. Ai finestroni, che ancora non s'appannano, viene giù neve pesante e sazia. Ma la luce si è scaldata, sulle guance rosse dei ragazzetti, sul colorito fresco delle giovani, nell'accozzaglia variopinta del vestiario. Al centro la chioma bionda, ossigenata o no, emana sfolgorii come se ci battesse il sole. Continua a udirsi, dalla porticina rimasta socchiusa, la voce dell'ufficiale giudiziario chiamare ripetutamente nel corridoio lo stesso nome. Affannata, con colpi di tacco tumultuosi, trascinandosi appresso le gambette infantili nelle lunghe calze nere, la donna che si presenta rompe quanto meno il silenzio. "Oh oh, su su, essù." Incita la creatura alle sue sottane. I modi sfrontati, una certa sguaiataggine nella voce e l'abito corto non sono da contadina. Grassa e sfatta, le mammelle gonfie alla vita, porta i capelli sparsi sulla schiena come una fanciulla. " Ha paura, " si lagna con le mani premute al petto. "Oh se me la debbono pagare." Vede il ragazzo. "Tu, faccia gialla..." Le si intima il silenzio. Immobilizzatasi un istante, gratifica il Tribunale di un sorriso. Ha le labbra sbafiate di rossetto e due vuoti ai canini. Stacca da sé la piccola forma con le smilze gambette nere e la spinge avanti. È un maschio. Si vede questo maschietto di sei o sette anni, messo un po' da femmina, la testa rotonda nel passamontagna come una cuffia. Il cappottello scopre un dito di brachina e un pezzo di coscia nuda sopra la calza. Le curiose calze di lana nera, tenute all'antica da una fettuccia che tira su di lato annodandosi a un'altra fettuccia interna. Lasciato solo, e per nulla impaurilo, il maschietto si svaga a bocca aperta. La madre è rimasta con una mano tesa, come additando in lui al Tribunale lo scempio commesso. Si gira perfino alle ragazze. Il cenno del presidente la fa accorrere sulla pedana, smuove tutta la carne. S'incrociano le domande e arrestata a mezza strada dalla voce del pubblico ministero si rivolge a lui senza essere ripresa. "Signore mio bello," gli dice, evidentemente divertendolo. Segue un flusso di parole, gesticolate disordinate, piene di contraddizioni. Glielo aveva raccontato il figlio piangendo e disperandosi, povera creatura, quello che gli faceva il mascalzone; poi invece era stato Nunzio (il pastore) ad avvertirla. Be', non può ricordarsi se prima o dopo, ma compa' Nunzio ha visto con gli occhi suoi per la straduccia. Una volta sola eh! chi lo può sapere, il bambino non si spiega. "È un innocente," confida, e intende alla maniera popolana dolce di sale. Quindi ammette che anche gli altri, si sa l'esempio, ragazzini incoscienti, ma lui faccia gialla pietra dello scandalo, è lui che deve pagare. Essa vuole giustizia. Bellicosamente si rigira puntando un dito non verso il ragazzo bensì sul padre. L'uomo scheletrico dagli occhi tristi, con quell'impermeabiluccio da cui sporge un collo sottile, i polsi ossuti e le mani livide. È stato detto che esce dal sanatorio. Per l'occasione, o dimesso, sembra esserne uscito coi panni che portava entrandovi in una stagione più clemente. "Tentiamo una speculazioncella eh?" Sorride il pubblico ministero. "E con che pagherebbero." "Hanno ancora la casa." "Ah, la casa." "M'hanno rovinato la creatura. M'hanno messa la gente contro. Voglio giustizia." "Basta," strilla improvvisamente quell'omino mellifluo nel seggio. Calmatasi di botto lei gli sorride, il suo sorriso senza canini, adescatore. "M'hanno insultata, Eccellenza, m'hanno provocata." Flauta la voce ora dando civettuole scosse alla chioma untuosa fluente. "Vado a lagnarmi, a protestare e nemmeno mi aprono la porta di casa. Grido le mie ragioni in mezzo alla strada, li ho svergognati, sissignore, allora aizzano la marmaglia. Mi venivano appresso per tutto il paese con quella parola." "Che parola." La donna risponde prontamente, spiccando le sillabe, con una sorta di sfida: Puttana. L'innocente è rimasto dove l'ha lasciato ma rivolto all'aula, una mascherina di faccia nel buco del passamontagna, a bocca aperta. Chiamato dal presidente, per nome, con dolcezza, subito si muove docile come un cagnolino. Nell' arrampicarsi sulla pedana troppo alta gli si rompe una fettuccia e la calza va giù denudando una gambetta esile bianchissima. Afferrato dalla madre, con l'altra mano cerca a gobboni di ricoprirsi. "Su su, eh bisogna trascinarlo, che paura ha." Ma la segue obbediente preoccupato solo della calza. "Essù, che mamma poi ti ricuce la zaganella." Il bimbo lascia andare, alzando la testa tonda sotto le facce degli uomini sorridenti benevole. Anche lui sorride, ma non capisce che stanno dicendo _ di togliersi il copricapo _ lo sguscia d'un colpo la donna dal passamontagna. Luccicano brevi peluzzi come un polverio d'oro sulla cute. È quello che si dice un rossino, senza risalto alle ciglia, lattiginoso, tenerissimo. Posto sulla sedia, s'incanta. Quando si decide a rispondere bisbiglia con una pronunzia non del tutto formata, da tardivo o da anormale. Ci ci sono dei sì e il suo nome Zovannino, il resto non si percepisce. S'è alzato il pubblico ministero e a passetti laterali raggiunge da dietro il varco fra le poltrone del giudice a latere e del presidente, fermandosi con la toga aperta e una mano nella tasca del cappotto ad ascoltare. Il suo viso corto e piccoso, all'apparenza imberbe, acquista malizia per un ciuffetto separatesi dalla riga e ricadente attraverso la fronte. Qualche cosa, un'idea (che poi esprimerà) lo diverte. Alle domande inutilmente rivolte: chi è stato, lo riconosci, guarda se lo vedi, guarda là _ ma il bimbo non si muove nemmeno _ suggerisce di sostituire "chi t'ha fatto quelle brutte cose". Il profilino rimane in aria attonito con la boccuccia aperta. Ma quando gli si chiede se è stato Nicola, risponde distintamente no. "Come no come no, che dice," sfuria la donna. "Ma se lo sapeva così bene. Non capisce, compatitelo. Nini, racconta dal principio. Stupidino, non ti ricordi quello che devi dire. È idiota è ..." Il presidente cala la mano aperta sul piano di legno che rimbomba. "Via," da ordine a malapena contenendosi, "via di qui, allontanatevi." Lei si scansa senza più fiatare e senza riprovarsi al sorriso adescante. Per nulla intimorito il bimbo sta mordicchiando come un animaletto l'orlo del legno. "Su Giovannino," si addolcisce il presidente, "leva la boccuccia, è sporco. Vuoi rispondere a me?" Risponde, come se a un tratto la mente gli si schiarisse. Dice "i ragazzi" e si volta, li riconosce, col ditino li indica alla transenna fra i grandi oltre il gruppo femminile. Un momento di nuovo svaga con gli occhi, forse incontrando la capigliatura bionda che risalta. Su domanda formulata dal pubblico ministero _ che cosa gli avessero fatto _ ricomincia a parlare e si capisce. Il coltello, dice, il muro, dice cattivi. (Non si era mai menzionato un coltello.) Sono parole slegate, frasi monche, che riesce a cavargli l'annuire dell'uomo piccolo affacciato in mezzo agli altri uomini, quei bei signori gentili tutti curvi ad ascoltarlo. Vuole spiegarsi, s'invermiglia nello sforzo, in ultimo è quasi spedito. Lo mettevano contro il muro e piangeva e uno alla volta glielo tagliavano col coltello. (Fingevano di tagliare il membro con la lama alla rovescia, viene scritto a verbale dopo un rapido accertamento.) "E poi dietro e col zeppo," strilla il bambino eccitato, girandosi come se dettasse anche lui al cancelliere. SÌ chiama sulla pedana Risdonne, immediatamente riconosciuto. Nicoli Nicoli, dice il piccolo tutto giulivo. È un confronto e l'imputato lo sostiene con un certo disdegno, quasi non valga la pena di negare o non ci sia niente da nascondere. Tiene il labbro superiore fra i denti, l'altro sporge troppo per essere intenzionalmente sprezzante, una smorfia dimenticata sulla faccia. Ma è una smorfia e indispone. Le domande rivoltegli suonano brusche, risponde due volte no due sì: non stava coi ragazzini, coi ragazzini non ci andava mai, sì che col bimbo un giorno s'erano incontrati, sì che era al viottolo del convento. E con questo?, sembra significare. Poi tace, rovesciando il labbro bagnato arrossato di morsicatura. Fanno scendere dalla sedia Giovannino perché lo guardi meglio e subito si butta a raccattare la calza tirandola inutilmente. S'è estraniato. Ma come risolleva il faccino purpureo e all'istante dimentica la calza, guardato di sotto in su il ragazzo grande lungo le gambe, si ricorda la cosa che vogliono sapere e la dice. Lui Gli ha fatto la pipi in bocca. Durante dieci minuti di serrato interrogatorio, Risdonne nega. Per quelli che lo conoscono è stato evidente il senso delle ultime battute del sostituto procuratore Platonico: non il senso letterale, abbastanza ovvio, ma l'intenzione: inscena una delle sue maliziose trame. Domanda se l'imputato, al momento del delitto, tenesse le mani sugli omeri della vittima, insistendo sulla posizione, se l'aveva costretto a curvarsi. Al primo no del bimbo, viene usata dal presidente la parola abbassarsi. Il bimbo risponde ancora no, forse non capisce e si ricorre a un'altra espressione. "Ti ha costretto a piegarti?" "Nono." Il componente privato, un ispettore di scuola elementare, suggerisce in dialetto, accompagnandosi col movimento delle spalle: "Ti fece acciuccare, così?" Sempre no. Ottuso ostinato o veritiero, bisogna smetterla col bambino e mandarlo via. Anche Platonico, sulle mosse per tornare al proprio scanno di accusatore, ha sorriso. Appoggiandosi allo schienale della poltrona vuota sul passaggio, rivolto ai colleghi, in una maniera spicciola discorsiva _niente da mettere a verbale _e usando con naturalezza la voce, del resto poco virile, fa notare quelle che chiama le proporzioni. "Sette e quindici anni, due diverse grandezze," agita un dito come se scrivesse un'equazione, "ma non evidentemente l'uno la metà dell'altro..." Si tratta insomma dell'altezza, un'obiezione (da difensore) che chiarisce proponendo il confronto fisico, come dire di livello. "Magari non è il caso..." Con un risolino accenna all'insolito pubblico. Questo discorso del livello irrita il presidente Toma, lo scansa con un gesto in aria nel chiudere il fascicolo. È venuta meno la ritenutezza imposta dal suo contegno e si sa quanto in certe occasioni lo contrari. Da un colpo d'occhio severo all'aula. Le facce delle ragazze sono inespressive. L'imputato ha ripreso posto alla panca, imperterrito. La donna siede sull'unica sedia, rifiutata dal frate, col figlio davanti alle gambe. Può darsi che, così da lontano, Toma l'assomigli a uno dei suoi, la bambina bionda salita qualche volta da lui. Lo sguardo che posa sull'avvocato è di sollievo. Anche d'ufficio, se si fosse trattato di altra persona sarebbe stato imbarazzante, gli avvocati si dilungano nei particolari scabrosi. O poteva capitare un giovane, uno di quei pivelli che sistemano sul tavolo volumi giuridici e trattati di psicologia col segno fra le pagine e infliggono lunghe letture di brani, mai rinunciando all'arringa. Bisognava concludere al più presto l'incresciosa udienza prolungatasi già troppo, per di più avanti a delle fanciulle. Uno sguardo all'orologio: passata la mezza, si potrebbe terminare per l'una. "La parola al pubblico ministero." Stringendosi la toga sul cappotto, Platonico si rialza. Parlava malissimo e brevemente, ma appare subito chiaro che intende concedersi una delle sue rare puntigliose requisitorie. Ha posto un dubbio, col cavillo avvocatesco dell'altezza, incidente la sostanza se non la gravita dei fatti, il che lascia prevedere una richiesta alla quale si adeguerebbe senz'altro la difesa. Nondimeno vuole prima infliggere una lezione al ragazzo, il ragazzo non gli piace. Platonico è un lindo scapolo quarantenne, con certo infantilismo fisiologico, poco vitale, illibato e nervoso. Vive con la madre. "In questa abominevole parodia dell'amore," comincia, "oltre le ben note causali della vita promiscua di paese con la vicinanza dell'animale domestico che da spettacolo di natura, oltre gl'istinti dell'età ancora confusi, età di manifestazioni d'approccio deviate, e si badi alla genitrice qualificata da un epiteto irripetibile, il cui influsso potè in qualche modo riflettersi sul bambino e attirargli oscure brame, oltre la cosiddetta evoluzione del costume che allenta ogni freno, raggiungendo come una mortifera radiazione _ il confronto è attuale _ anche le pastorali contrade dei monti, oltre tutto questo, o Signori, c'è dinanzi a voi una natura particolarmente e sfrenatamente volta alla turpitudine. Guardatelo..." Le ragazze hanno smesso di dirigere la coda dell'occhio verso il giudice bello come per ritrovarvi le fattezze dell'attore preferito (ciò che realmente all'inizio facevano). A mano a mano, dal futile un po' vanesio armeggio di scolaresca femminile passando a un'attenzione sempre più sostenuta, avevano seguito l'avvicendarsi dei testi sulla pedana: i contadini, che a loro erano sembrati buffi, quei ragazzucci, e il frate, poi la donna e il bimbo. (Un bimbo da tirarselo una con l'altra esclamando com'è carino pare una femminuccia, non fosse stato per il luogo e se non avessero capito.) Dal fermento del principio finiscono per cessare ogni minimo moto, per ridursi a un'immobilità che tuttavia ha dell'intrepidezza. Così immobili fissano l'imputato. L'indagine che da mezz'ora il pubblico ministero conduce su di lui è punteggiata da continui "guardatelo" in falsetto. "Guardatelo," ripete puntando gli ossicini di un dito, "guardate che indifferenza, che cinismo..." Ma esse tenevano di mira il ragazzo fin da prima, prima che cominciasse "la predica" (e l'omino già tra loro se lo indicavano carne "la zitella"). Probabilmente non seguono la requisitoria, astnisa per le contorsioni di forma e l'arcaicità dello stile (sembra un classico scolastico). Può essere impudente, anzi lo è, un sopracciglio alto, la bocca in giù, il labbro rovesciato. E quel riprenderselo coi denti e masticarlo torcendo le guance gialle. È brutto, certo lo trovano ripugnante. Non si distolgono da lui neanche quando viene additata "la vittima della laida deflorazione, l'innocente". Contro le gambe grasse della donna, con le iridi d'un celeste velato sotto le ciglia bionde, il bimbo apre ignaro i labbrini rosa. Poi la visuale è parata, una volta dall'impermeabile un'altra dalla tonaca, distraendo l'attenzione su particolari, le mani ossute che gesticolano, il bianco marmoreo dei piedi nudi nei sandali. I due parlano all'orecchio dell'avvocato. E anche l'avvocato si muove annaspando con la mano indietro come se chiamasse. Il padre torna a curvarglisi all'orecchio. Contemporaneamente Platonico, per un moto consuetudinario verso il tavolo a cui d'abitudine siedono gli avvocati, o che intenda rivolgersi al pubblico ospite con una notazione psicologica, guarda da quella parte spiegando come la negativa pervicace sia caratteristica di certi reati. Indica la panca. Il ragazzo è di nuovo scoperto. Scoperto. Sembra considerarlo il giovane magistrato Oliva. È noto a qualcuno di certe sue vicende di famiglia. Penserà al fratello. Abbiamo tutti avuto un fratello. O noi stessi come uno sdoppiamento. Quando ancora si avevano i giochi in comune e a un tratto ci si stacca. Un fratello cresciuto da un giorno all'altro (magari davanti al proprio specchio) che sorprende con un grosso naso improvviso e fa trasalire con una voce gracchiante, che ha la bocca inspessita, i labbroni, e i capelli non gli si aggiustano non s'abbassano più. Alterato, in preda a un'innaturalezza così difficoltosa. A tavola siede sbieco, forastico perfino coi suoi. Oliva _ o chiunque altro _ potrebbe ricordarsi le celie del padre: fa il mascherone. Lo guardano e ridono. E viene questo momento che si capisce come anche alla tavola di casa il fratello _ o si tratta di se stessi? _ doveva sentirsi esposto, che si riparava mantrugiandosi di smorfie. Simile a uno che nasconda qualche cosa di vergognoso. È quando sorge l'insofferenza col padre, un antagonismo che rende irragionevolmente nemici, il ragazzo addirittura torvo. Non succede poi niente. Solo le fattezze di un uomo uscite da quell'impasto di faccia in lievitazione, un uomo normale, oggi padre a sua volta domani incapace di riconoscersi nel figlio quindicenne. Malgrado l'esperienza professionale, o forse perché ne ha ancora poca, perché è ancora giovane, può succedere a Oliva di ritrovarselo davanti _ un fratello, se stesso? _ sulla panca degli imputati (e credere di vederlo ponendosi nella dirczione di tutti quegli occhi femminili). È Risdonne Nicola. Riunisce le sopracciglia, gonfia la bocca, curva il collo addensando la peluria in pieghe nere, ha un che di losco. E colpisce come su quella panca, a quell'età, così facilmente somiglino a degenerati. Riscuote la voce del pubblico ministero nella cadenza inconfondibile delle conclusioni. Platonico modifica il reato in atti libidinosi violenti in luogo pubblico, dando adito alla concessione del perdono. Non resta alla difesa che la normale procedura di alzarsi e far sue le richieste dell'accusa. L'avvocato Lucrese si alza con stento. A coprirlo della toga provvede l'ufficiale giudiziario posandogliela a cappa sulle spalle. "Signori del Tribunale," dice Lucrese. Incespica leggermente con la lingua contro i denti. "Signori del Tribunale," ripete come per provare la voce. Sta già scivolandogli la toga dalle spalle. "Tutti noi abbiamo avuto... tutti noi a quell'età..." "Parli per sé, avvocato," ritorce Platonico. È solito interrompere la difesa, come movimenta platealmente le udienze, con le sue battute di uomo suscettibile, qualche volta mordace. Non ottiene successo presso i colleghi. Sorride l'ispettore di scuola, il cancelliere si copre la bocca con una mano e il miope ufficiale rimane a ridere solo stolidamente. Si conosce Lucrese come un vecchio dongiovanni finito nelle mani di una serva scorbutica che apre l'uscio ai rari clienti squattrinati e li avvia borbottando allo stanzino polveroso che funge da studio legale. Dopo un lungo silenzio, la voce dell'avvocato esce dall'insaccatura del grasso con imprevedibile pienezza. "La vostra sensibilità di dabbenuomini è stata offesa," dice senza impuntature. Il tono è vagamente aggressivo e la frase può suonare sarcastica. "La sua no?" s'impermalisce difatti Platonico. Cortesemente Toma rivolge un generico prego. "Diciamo allora che vi sono state delle sensibilità offese, ma se le elencassi vi sembrerebbero alla rovescia," prosegue l'avvocato dando una penosa impressione d'incocrenza. "Non le elencherò, o Signori. È la carne che offende e bisognerà pure parlarne." S'interrompe, abbozza un gesto. "Dirò solo di un ragazzo, quello che avete dimenticato là sulla panca, un semplice ladruncolo al quale è stato dato modo di erudirsi in un'eretta in materia assai diversa dal furto." Il presidente si scuote. "Che cosa... Perché non è stato portato via?" E all'agente che fa segno verso le carte del cancelliere per giustificarsi; "Fuori. Si attenda fuori." Toma non ha alzato la voce, ma un leggero rossore gli sale alle guance. Nessuno si sarebbe aspettato da Lucrese il piccolo colpo di scena forense. E ha colto nel segno. Ora se ne sta vacuo, la toga penzoloni da una spalla, l'ufficiale giudiziario va a rimettergliela a posto. Girando il capo incerto come un cieco, dirige la parola al seggio isolato del pubblico ministero. " Poiché l'illustre rappresentante dell'accusa ha voluto compiere un'indagine psicologica, o forse patologica, della personalità del minore... dovremmo chiamarlo in conseguenza quanto meno lo stupratore... io devo riportarla alle sue reali proporzioni." Evidentemente si accinge anche lui a un'arringa in piena regola. Platonica ostenta di consultare l'orologio. È l'una e mezzo e sta affacciandosi qualche avvocato che risale dalla corte d'appello, giù dev'essere tutto finito. Il presidente, che teneva nelle mani l'incartamento come in atto d'alzarsi, compie un affabile tentativo rammentando le miti richieste dell'accusa che possono essere condivise. Il giudice Oliva si. è spinto avanti col busto. "Rivendico il mio diritto e l'imprescindibile dovere... il dovere..." Affannando un po' Lucrese alza il braccio e gli cade la toga. Questa volta, all'ufficiale subito accorso, da segno agitandosi maldestramente di volerla infilare. Appena se la sente addosso rialza il braccio. "Non abuserò del vostro tempo, signor Presidente, signori del Tribunale. E se volessi usare di certi motivi... abusati... in voga..." Gli occorre una ripresa di fiato. "Potrei presentarvelo come un figlio del tempo. La guerra, gioventù bruciata eccetera eccetera... Potrei additarvi il padre. O risalire ancora più indietro, oltre i limiti, ragionevoli certo, dell'istruttoria, che non sembra farne cenno (un'istruttoria si sa non è un romanzo) risalire cioè ai primi mesi di vita del ragazzo. Non dico per ridere, Onorevoli Signori, esigo anzi la massima serietà. Anche il paesetto di..." Non trova il nome che ignora non avendo avuto il fascicolo. "Anche il paesetto sperduto di questa povera gente servì da bersaglio. Un solo spezzone, all'ultima ora. Ed ebbe una vittima. Una donna caduta nei campi. Allattava sotto un albero il bambino e glielo trovarono appeso alla mammella già fredda. Eccolo, quel bambino." L'avvocato Lucrese allunga il braccio in dirczione della panca. Platonico, stridulo: "Stiamo giudicando, alla distanza di quindici anni, un atto di libidine." "Come... è possibile... Ma se anche un trauma prenatale..." "Veniamo al sodo, avvocato." L'indignazione strozza a Lucrese la parola. Gli s'inturgidiscono le voluminose guance e le pieghe del collo, accendendosi fino alle orecchie d'un rosso denso apoplettico. Lentamente si decongestiona, rimangono scure le orecchie. S'impunta in un balbettio, ma poi dice fluidamente: "Bene, allora parliamo della carne." C'era stato fino a quel momento un vago imbarazzo, sopravviene il disagio. (Più tardi si penserà ai due ponce bollenti che i colleghi avevano offerto al vecchio intirizzito nel bar di fronte al tribunale poco prima di salire.) Il pubblico non ha inteso. Tutto di sghimbescio sulla panca, il ragazzo si tiene con una spalla alzata come per pararsi. "Ma bisogna prima tornare al bambino," riattacca Lucrese indicando l'imputato. "Consentitemi, Signori, di rintracciarlo e di presentarvelo. Bisogna sempre andare in cerca del bambino per poter perdonare un uomo. O un ragazzo... O anche uno... uno come me..." Con la mano corta e grassa si batte ripetutamente il petto. "Il bambino... Che cos'è un bambino? Dicono le donne del mio paese che è un chicco di malvasia. Quell'uvetta piccola, sapete, chiara e zuccherina, a goccia di miele. Ogni chicco è così trasparente nella sua pellicola che si vedono dentro i semini schietti. Un'uva delicata e soda, ha un sapore... di profumo... È uva da vino. Non so se... Ma del resto comunemente si paragonano agli angeli. Il bambino di ciascuno di noi... di ciascuno... insisto... fu un essere meraviglioso. Dicono... le donne del mio paese... che se gli guardi la schiena scopri le ali. O almeno un'impronta... un indizio... in quelle scapolette, sapete... Esseri meravigliosi di purezza. L'ir...irr... l'irrefragabile purezza dell'infanzia, che abbiamo visto per nulla ombrata e nemmeno lievemente offuscata in un'altra creaturina proprio nel corso di questo dibattimento." Senza vederci, Lucrese tenta di girare il collo dove siede la donna col figlio. "E così era, non molto tempo fa, colui che dovete giudicare. Ho domandato al padre come era da piccolo Nicolino. Dice: era riccio e timido. Sapete, certe risposte semplici che vengono su spontanee. Riccio e timido. Un bambino senza madre, senza nemmeno una madre come questa che si è presentata dinanzi a voi, da farselo attaccare alle gonne e ricucirgli la zaganella. Lei gli rimetterà la zaganella, l'avete sentito che in fondo era dolce. "E lasciamo stare il trauma, la guerra è passata, quindici anni per cancellare tutto, va bene. Era riccio. In campagna li tosano presto, ma il padre se n'è ricordato. Un segno di bellezza di grazia, brunetto coi ricciolini. Adesso è ispido. È scontroso fino a mostrarsi bieco. L'età ingrata, ne riparleremo. Ma per carità non esigete da loro le manifestazioni del pentimento, la compunzione, l'umiliazione, le lacrime. Esposto al ludibrio generale non batte ciglio. Indigna? È dietro la maschera del cinismo, a ogni modo una maschera, che si nascondono le più conturbate sensibilità dei ragazzi. "Signori, io non ho figli." Alla inopinata dichiarazione, segue una pausa. "È un vantaggio?" domanda Lucrese come tra sé. Sembra riflettere. "Ho la memoria diretta del... senza interferenze... ho memoria..." SÌ tocca in fronte. Raddrizzando la bassa statura assume un atteggiamento togato. "Non impazientitevi, Signori, e non temiate che divaghi. Al contrario, vengo al sodo, come ha detto così efficacemente l'illustre Pubblico Ministero. Ciò che voglio è che non gli si butti il perdono. Non per procedura. È colpevole. Ne sono convinto io stesso suo difensore, difensore d'ufficio, sì, il che non cambia nulla. È colpevole. Fino a che punto, fisiologicamente e giuridicamente, crea il dubbio di cui beneficierà per concessione dell'accusa medesima. Ma è il modo..." Una voce interrompe. "Nicoli," chiama il padre dalla transenna, "Nicoli l'hai fatto?" È rauco. Guardandolo negli occhi per essere senza meno creduto, il ragazzo risponde con forza rabbiosa: No. "... il modo, Signori. Non bisogna avere repugnanza, il perdono evangelico non la prevede. Quello evangelico, certo, obiezione accolta. L'età ingrata. Oh se siamo brutti, infelicemente brutti. Nella piena coscienza di esserlo e sempre in un acuto rendersi conto del proprio corpo. La spontaneità ci è preclusa. Eravamo fluidi sciolti leggeri, eccoci legati, materia dura e greve. Eravamo soavi, eccoci aspri. Il mosto ribollendo si fa aspro. E fangoso. Siamo sporchi. Poi il torbido riposando si fa chiaro. Ma non è questo. O meglio, per quanto mi sforzi non riesco a rimanere sul piano realistico. Ciò d'altronde significa che vi è del lirismo nella cosa." "In quale cosa," si sdegna Platonico. "È intollerabile." Lucrese non sente. "Vediamo un po', che gli è successo? Domandateglielo, e non lo sa. È una metamorfosi. Le metamorfosi sono dolorose... dolorosamente oscure... se ne esce come da una febbre altissima. Oltretutto una metamorfosi alla rovescia. Si ripiegano le ali dell'infanzia in un bozzolo di carne e può capitare di uscirne strisciando. Dopodiché bisogna mettersi in ginocchio e che ci sia permesso di rialzarci all'impiedi. Eh! "La carne, Signori. A un tratto cresce addosso al bambino... era tale ancora poco fa ieri era ancora un cherubino... e lo copre... l'ottunde... lo tarpa... Ci si trova chiusi, separati dal mondo della puerizia, rinserrati in una morsa. Eccolo, guardatelo, il ragazzo: è l'età in cui deve farsi strada attraverso la carne, questo avviluppamento, questa opaca pesantezza. E questo accrescimento. Domani, se tutto andrà bene, sarà la crescita... oppure..." Il vecchio sembra di colpo mimetizzarsi lui stesso a quell'età, nello stadio di plasmazione, col minuscolo naso aperto, la testa incassata, il corpo informe, un grosso abbozzo di creta umida. Suda. "Per uscirne bisogna dibattersi e premere. Ciò che spinge, che sollecita, che urge... qui è il mistero... ciò che spacca riaprendo alla vita... che è? da dove viene? Succede a volte così bestialmente male. Eppure non si tratta di mera bestialità, sappiatelo. C'è una pienezza, un traboccamento di sé irreprimibile. Qualche cosa di erompente e inarticolato, come un muto che sta per mettersi a parlare. È la carne che deve rompersi. Come il legno di un albero da cui si sprigiona il virgulto. Una cosa che scocca da noi, dal nostro essere più profondo, come un'ispirazione e come un delitto." Nella foga il vecchio si è scomposto, gli tremano le labbra, trema tutta la sua massa gelatinosa. Da l'impressione di vederci bene dietro le lenti doppie che gl'ingrandiscono l'occhio e che scruti la carne degli altri. Con una faticosa torsione di lato punta sulla donna flaccida, poi i contadini duri e scuri, la carne pallida dei giudici, quella arida livorosa di Platonico. Accusatore, probabilmente senza volerlo. C'è un po' di suggestione. Il frate ha addosso più carne di tutti ma la regge sui piedi nudi. Riprende la parola con l'impuntatura. "D... d... dicono le donne del mio paese che ognuno serba dentro il suo chicco di malvasia. Ben custodito nella lucida pellicola, la perla dell'infanzia. Ogni uomo, il più brutale che ci sia, la possiede nascosta. E se anche il marito le picchia, esse credono che è il suo bambino che gioca. Hanno una grande facoltà di perdono. Si. è dato il caso del brigante che andò a costituirsi nelle mani della propria moglie. Serbava ancora il suo chicco di malvasia. Si capisce che non bisogna andare a strizzarlo con le dita. E questa è una parabola. Ma noi... abbiamo parlato troppo... abbiamo sbagliato tutti... Noi ci siamo andati con le dita..." Rimane a guardarsele brancicando sul tavolo. Nell'aula non si sente che il respiro del vecchio avvocato stanco. Ansima. Gli è caduto lo sguardo e come se si alzasse allora per la sbrigativa difesa d'ufficio, improvvisamente spento, balbetta le richieste. Ha cessato di nevicare. I contadini, sempre in piedi alla transenna, specolano i vetri grigi forse tentando di ricavare l'ora da quella luce smorta. SÌ tengono alle gambe i ragazzucci che mangiano a testa sotto piccoli pezzi di pane, vergognosi dietro le signorine. Nessuna si è mossa. Gli atteggiamenti non tradiscono stanchezza o impazienza, neppure la preoccupazione femminile del proprio aspetto che spinge le mani ai capelli alla faccia al collo. Col trucco stinto e il rosso delle labbra succhiato, guardano davanti a sé. Le raggiunge qualche spira di fumo dalle sigarette che gli uomini hanno acceso non appena si è ritirato il Tribunale. Tre avvocati e il cancelliere circondano lo scanno del pubblico ministero, in conversazione. Si alza l'accompagnatore della scolaresca, benportante ma un pò molle, e dandosi un tocco al foulard va a unirsi al gruppo. Si tiene sul davanti a due mani i lembi del cappotto sovrapposti. "La gioventù di oggi è impavida," sta dicendo Platonico nel circolo. Si riferisce alle ragazze. Senza rispondere all'inchino del sopravvenuto ne alle sue parole di convenevole, gli guarda la bocca grassa. A lui forestiero non occorre sapere quello che nella città di provincia in passato fece scandalo e ormai si mormora, per catalogarlo. Docente, sposato con figli, ma sempre riconoscibile a un occhio esperto. Lo esamina con acume professionale quasi insolente, dai ricci nel collo fino alla posa donnesca delle mani. Nell'altro settore dell'aula Lucrese è rimasto infagottato contro il tavolo. Sulle enormi guance smunte le orecchie pendono come bargigli malati. Non ha fatto caso ai colleghi, benché il più giovane nel passare gli abbia teso la mano congratulandosi. Ora sembra intento a osservarsi le dita come se non le riconoscesse, muovendole con difficoltà. Alle sue spalle, a occhi bassi, le braccia incrociate dentro le maniche, il frate. Accanto l'uomo sparuto fissa i tristi occhi azzurri sul figlio. Il ragazzo sta per traverso, di schiena. Dietro gli si è andata a mettere la donna col figlio, abbracciando il termosifone e posandovi vezzosamente una guancia. Dallo scanno dell'accusa si voltano, ma in dirczione di Lucrese. Commentano l'arringa. Platonico ha dichiarato che detesta le piaggerie letterarie in dibattimento. "E dovunque," aggiunge tenendo la mano sulla rilegatura nera del codice. Un'arringa, è la sua opinione, che si potrebbe scambiare per un'autodifesa. Chioccia un risolino. Ridono anche gli altri, con discrezione. "Canto del cigno," suggerisce l'avvocato in auge dal bavero di pelliccia. Il collega anziano si pronuncia per l'influsso del biondo in aula, occhieggiando dalla parte delle ragazze. Ma il giovane è rimasto impressionato. Schiacciano le sigarette al suono del campanello, abbandonando la pedana. Il Tribunale rientra. Viene letta rapidamente la sentenza. Sono passate le due. Scomparsi i giudici, si muovono tutti insieme, i contadini affollandosi alla porta grande, le studentesse alla piccola. Il ragazzo, capitato in mezzo fra vestiti e capelli, arretra di nuovo contro la panca. Respira come se fiutasse o gli mancasse l'aria, sempre così giallo. Il padre lo raggiunge e insieme rimangono accantonati. Gli va quasi addosso la donna, che sorride conciliante. "Nicolì, eh?, t'hanno perdonato." Lui spalluccia. Scaturisce fra loro la testa del bimbo e se lo ritrova davanti col mento alzato e la bocchina aperta. Deve ricordarsi benissimo di avergli premuto le mani sulle spalle, anche se non ricorderà altro. Stringe gli occhi sforzandosi a qualche cosa, pare contargli i peli sulla testa con disgusto, forse non ricorda nemmeno che allora aveva i capelli lunghi a riccioli d'oro, vede solo un rossino tosato un po' deficiente. Nell'aula semivuota l'avvocato si rimette a sedere al suo posto. La gente s'è mescolata per il corridoio. Dalla porta a vetri cominciano a sfilare le studentesse, con le braccia sollevate per ricoprirsi la testa. I contadini s'accalcano intorno a frate Alessio che se li porta via. Arrivando sul pianerottolo, padre e figlio fanno in tempo a scorgerli per la gradinata sporca di poltiglia nerastra. Sotto si agitano le teste con cappucci e sciarpe. Quella bionda ancora scoperta. Vi corre l'occhio del ragazzo, sfuggente, come se ai capelli fosse connesso un senso di colpa. Lascia andare avanti il padre. Nel guardarsi alle spalle riconosce l'uomo miope che viene dal corridoio scuro accompagnando l'avvocato traballante a passettirii come un cieco. Ha l'aria di sentirsi aggricciare la carne. La carne la carne la carne. Odierà anche lui per tutto quello che ha detto, non voleva essere difeso. "Nicolì," chiama il padre rauco. È a mezza rampa, stringendosi al collo il bavero sottile dell'impermeabile. Dalla tromba sale un'aria gelata. "Nicolì." Lo spinge a muoversi il rumore di altri passi che sopraggiungono. Imbocca le scale a precipizio, ma poi rallenta dinoccolato. Si mette al muro, non può più nascondersi. Scendono i giudici. Platonico non vede il ragazzo, Toma non lo guarda. È il giovane Oliva a fermarsi. Sembra aver capito l'espressione della schiena, di uno che porti la vergogna addosso come una gobba. Forse rimuginava quel chicco di malvasia e si rende conto che lo rimandano punito per tutta la vita. In faccia lo trova protervo. Ma allunga una mano e lo tocca, gli dice qualche parola. Allora il ragazzo avvampa, violentemente, ingenuamente, si stacca dal muro con un impeto come se volesse uscirsene da se stesso. Mentre padre e figlio passano per ultimi il portone del tribunale, nella sala degli avvocati l'ufficiale giudiziario sta tentando di far parlare Lucrese, che si guarda le dita colpito da afasia.

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C'ERA UNA VOLTA ... :FIABE

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Rimase abbagliato! E, senza por tempo in mezzo, disse al ciaba: - Io sono il Re: vo' la tua figliuola per moglie. - Maestà, c'è un intoppo. La mia figliuola ha una malìa: chi le parlerà la prima volta e le farà provare una puntura al dito mignolo, quello dovrà essere il suo sposo. Possiamo provare. Il Re a questa notizia rimase un po' turbato; ma poi pensò: - Se questa malìa è la sua buona Sorte, costei dev'essere destinata a sposare un regnante. E tutto allegro, disse al ciaba: - Proviamo. Il ciaba chiamò la figliuola, senza dirle del Re; e come questi se la vide dinanzi, restò più abbagliato di prima. - Buon giorno, bella ragazza. - Buon giorno, signore. Lei non sapeva nulla della malìa. Suo padre, che sarebbe stato felice di vederla Regina, le domandò: - Non ti senti nulla? - Nulla. Che cosa dovrei sentirmi? Il povero Re, gli parve di morire a quella risposta. E stava per andarsene zitto zitto; quando il servitore, ch'era rimasto in un canto, credette opportuno di dire sottovoce alla ragazza: - Badate, è Sua Maestà! - Ahi! Ahi! Ahi! La ragazza si sentiva un'atroce puntura al dito mignolo, e scoteva la mano: - Ahi! Ahi! Ahi! Figuriamoci il viso del Re, come capì che quella ragazza, la più bella del mondo, era destinata a quel tanghero del suo servitore! Prese in disparte il ciaba e gli disse: - Lascia fare a me; la tua figliuola sarà Regina. Tornato al palazzo reale, chiamò il servitore: - Prima che tu sposi la figliuola del ciaba, devi rendermi un servigio: mi fido soltanto di te. Portami questa lettera al Re di Spagna, e attendi la risposta; ma nessuno deve sapere dove tu vada e perché. - Maestà, sarà fatto. Prese la lettera e partì. A metà di strada incontrò quella vecchina: - Dove vai, figliuolo mio? - Dove mi portan le gambe. - Ah, poverino! Tu non sai quel che ti aspetta. Quella lettera è un tradimento! Se tu la presenti al Re, sarai subito ammazzato. Portagli questa, invece: farà un altro effetto. Allora lui prese la lettera della vecchina, e quella del Re la buttò via. Ringraziò e proseguì il viaggio. Era già passato un anno, e non si era saputo più nuova di lui. Il Re tornò dal ciaba, e disse alla ragazza: - Quell'Uomo dev'essere morto: è già passato un anno e non si sa nuova di lui. Il meglio che possiamo fare è lo sposarci noialtri. - Maestà, come voi volete. Il Re fece i preparativi delle nozze, e quando fu quel giorno, andò insieme coi ministri a rilevare la sposa con la carrozza di gala. In casa del ciaba trovarono una granata ritta in mezzo alla stanza, e il Re disse ai ministri: - Ecco Sua Maestà la Regina! I ministri, stupefatti, si guardarono in viso senza osar di rispondere. - Maestà, è una granata! Il Re in quella granata ci vedeva la figliuola del ciaba, la più bella ragazza del mondo; e, presala pel manico (lui credeva di prenderla per la mano) la portò in carrozza e cominciò a dirle tante belle cose. I ministri erano costernati e si sussurravano nell'orecchio: - Che disgrazia! Il Re è ammattito! Il Re è ammattito! Però, prima di arrivare in città, dove il popolo aspettava l'entrata della Regina, si fecero coraggio; e uno di loro gli disse: - Maestà, perdonate!... Ma questa qui è una granata! Il Re montò sulle furie; la prese per un'offesa alla Regina. Fece fermar la carrozza e ordinò ai soldati che legassero quell'impertinente alla coda di un cavallo, e così lo trascinassero fino al palazzo reale. Gli altri, vista la mala parata, stettero zitti. E il Re, giunto al palazzo reale, si affacciò alla finestra per mostrare al popolo la Regina: - Ecco la vostra Regina! Non avea finito di dirlo, che gli cadde come una benda dagli occhi e si vide lì, colla granata in mano, mentre tutto il popolo rideva, perché Sua Maestà pareva proprio uno spazzino. Con chi prendersela? La colpa era della sua cattiva stella, e di quella malìa della ragazza! Ma intanto s'incaponiva di più nel volerla per moglie. Il servitore tornò sano e salvo, colmo di regali. - Che rispose il Re di Spagna? - Maestà, il Re di Spagna rispose: Fai, fai, fai, Non l'hai avuta e non l'avrai. Il Re fece finta di esserne contento, ma chiamò un Mago e gli raccontò ogni cosa: - Come va questa faccenda? - Maestà, la faccenda è piana. Quell'Uomo possiede l'anello incantato della fata Regina, e finché lo avrà al dito, non vi sbarazzerete di lui. Bisogna trovare un'astuzia per portargli via quell'anello: la forza non vale. Pensa e ripensa, un giorno il Re, visto che il suo servitore era tutto sudato dal gran lavorare che aveva fatto: - Vien qua, - gli disse - vo' darti un bicchiere del mio vino; te lo meriti. Quel vino era conciato coll'oppio, e il pover'Uomo non l'ebbe bevuto, che cadde in un profondissimo sonno. Sua Maestà gli cavò l'anello dal dito, se lo mise nel suo, e così andò a presentarsi alla figliuola del ciaba: - Buon giorno, bella ragazza! - Ahi! Ahi! Ahi! La ragazza sentiva un'atroce puntura al dito mignolo e scuoteva la mano! - Ahi! Ahi! Ahi! Ora la cosa andava bene, e il Re ordinò di bel nuovo i preparativi per le nozze. E quando fu quel giorno, andò a rilevare la sposa colla carrozza di gala. Giunti al palazzo reale, disse alla Regina: - Maestà, questo è il vostro appartamento. Ma, poco dopo, quando il Re volle andare a vederla, gira di qua, gira di là, non trovava l'uscio e vedeva scritto sui muri: Fai, fai, fai, Non l'hai avuta e non l'avrai. La Regina veniva ai ricevimenti di Corte, veniva nella sala da pranzo dove c'erano molti invitati; poi si ritirava nel suo appartamento. Il Re voleva andare a vederla; ma, gira di qua, gira di là, non trovava mai l'uscio e vedeva sempre scritto sui muri: Fai, fai, fai, Non l'hai avuta e non l'avrai. Si diSperava, ma non diceva nulla a nessuno; non volea sentirsi canzonare. Quel pover'Uomo del servitore, dopo un sonno di due giorni, appena aperti gli occhi, si era subito accorto che gli era stato rubato l'anello, ed era uscito dal palazzo reale, piangendo la sua sventura. Fuori le porte della città avea trovato la vecchina: - Ah, vecchina mia! Mi han rubato l'anello. - Non ti diSperare, non è nulla. Quando il Re avrà sposato, appena la Regina sarà entrata nel suo appartamento, pianta questo chiodo sulla soglia dell'uscio e vedrai. Perciò il Re non trovava mai l'uscio, quando voleva entrare nelle stanze della Regina. C'era quel chiodo piantato lì, che glielo impediva. Il Re scoppiava dalla rabbia. Fece chiamare novamente il Mago, e gli raccontò in segreto ogni cosa. - Come va questa faccenda? - Maestà, la faccenda è piana. Quell'Uomo ha avuto un chiodo incantato dalla fata Regina, e l'ha piantato sulla soglia. E questa volta, Maestà, non c'è astuzia che valga: rimarrete un marito senza moglie. - Ma che offesa ho io fatto a codesta fata Regina? Non la conosco neppur di vista! - No, Maestà. Vi rammentate d'una vecchina che vi domandò l'elemosina il giorno che voi andavate la prima volta dal ciaba? Vi ricordate che la urtaste col cavallo e cadde per terra? - Sì. - Era lei, la fata Regina. Il Re dovette persuadersi che era inutile lottare con una Fata, e si rassegnò a sposare una bella ragazza, sì, ma non la più bella del mondo. Sposò la Reginotta di Francia. Il servitore sposò la figliuola del ciaba; e il Re gli diè una ricca dote e lo fece intendente di casa reale. Re e servitore ebbero molti figliuoli: E noi restiamo da cetriuoli.

IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Il pescatore rimase abbagliato; e portò una mano alla tasca, senza guardar in viso la figliuola: - Da' qua. Eccoti Bambolina. - Non le manca neppure un capello? - Neppure un capello. Egli tacque della ciocca tagliatele poco prima, temendo che la donna-pesce non volesse fare più il negozio, saputo che a Bambolina mancava qualcosa. La donna-pesce si accostò allo scoglio, porse il mucchio d'oro al pescatore, prese in cambio Bambolina e si allontanò dalla spiaggia: - Bada, pescatore! Chi inganna è ingannato. Si rituffò in mare e disparve con Bambolina tra le braccia. La moglie, vedendo tornare il marito, gli domandò premurosa: - Bambolina dov'è? - Eccola qui. E trasse di tasca il panierino col mucchietto delle monete d'oro. A quella vista, la povera madre cominciò a strapparsi i capelli, a piangere e a gridare: - Ah, figliolina mia! L'ha venduta, lo scellerato! Ah, Bambolina mia! - Zitta, o ti torco il collo. L'ho venduta per cagion tua. Dicevi sempre: É una bocca inutile! É la nostra disgrazia! Questa è una ciocca dei suoi capelli; te la manda per ricordo. - Tienti l'oro per te; a me i suoi capelli mi bastano. Li baciava, li ribaciava, li bagnava di lagrime. - E alla gente che dirai? - Dirò che Bambolina è caduta in mare e se la son mangiata i pesci. Il pescatore, riposto il suo tesoro in un cassettone, ne prese soltanto una manciata, per andare a far delle compere nei negozi più ricchi. Intendeva subito godersi la vita e sfoggiare. - Quanto lo Fate questo qui? - Cento lire. - Uh! Una miseria! Tenete. - A chi li date cotesti gusci di telline? Qui non si fa la burletta. Il pescatore diventò smorto come un cadavere. Mettendo le mani in tasca, sentiva di avervi una manciata di monete d'oro; cavandole fuori, si trovava in pugno tanti gusci di telline. Gli pareva impossibile; non si sapeva persuadere. E va in un altro negozio. - Quanto lo Fate questo qui? - Trecento lire. - Uh! Una miseria! Tenete. - Qui non si fa la burletta. A chi li date cotesti gusci di telline? Se ne tornò a casa sconsolato. Aveva perduto la figliolina e sarebbe morto di fame lo stesso! La Donna-pesce gliel'aveva detto: "Bada, pescatore! Chi inganna è ingannato". E già si trovava bell'e ingannato con quei gusci di telline. - Moglie mia, come faremo? - Faremo la volontà di Dio. - La gente, non vedendo più la bimbetta, domandava: - E la vostra Bambolina? - Cadde in mare e se la mangiarono i pesci. Il marito rispondeva così; e la moglie stava zitta e piangeva. Come mai nessuno aveva saputo niente di quel caso? La gente cominciò a sospettare e a ciarlare. - Chi sa che n'hanno fatto, povera creaturina! L'hanno ammazzata per levarsi di torno una bocca inutile. Scellerati! Le ciarle giunsero all'orecchio del Re. Il Re spedì le sue guardie e si fece condurre dinanzi marito e moglie ammanettati. - Che n'è di Bambolina? - Cadde in mare e se la mangiarono i pesci. La donna scoppiò in pianto: - Maestà, non è vero! L'ha venduta alla donna-pesce! - Ti do tempo un mese. Se fra un mese non avrai recuperata Bambolina, avrai accarezzato il collo dal boia. Il pescatore corse allo scoglio e si mise a chiamare: - Donna-pesce! ... O donna-pesce! La donna-pesce comparve a fior d'acqua tutta grondante. - Che cosa vuoi da me? - Se mi ridai Bambolina, ti restituisco il tuo oro con qualcosa per giunta, quel che tu vorrai. - Portami in cambio il Reuccio e la cosa è fatta. Il pescatore si tastò il collo, gli pareva di averci attorno la corda del boia che doveva strozzarlo. Quel cambio col Reuccio era impossibile. Pure si risolse di tentare. Ogni mattina andava davanti al palazzo reale: se il Reuccio fosse uscito fuori solo a fare chiasso con gli altri bambini, egli con belle paroline l'avrebbe attirato in riva al mare e l'avrebbe dato alla donna-pesce in ricambio di Bambolina. I giorni passavano e il Reuccio non si vedeva; o se usciva fuori, c'era sempre qualche servitore che gli faceva la guardia. Un giorno finalmente si diè il caso che uscisse solo. - Reuccio, Reuccio, il mare è tranquillo e ci sono tanti bei pesci. - Conducimi. I pesci di chi sono? - Sono vostri, se li volete. Venitemi dietro, per non farvi scorgere. E lo menò su lo scoglio. - Donna-pesce! O donna-pesce! Ho menato il Reuccio. La donna-pesce comparve a fior d'acqua tutta grondante. Il Reuccio ebbe paura di quella donna dalla coda di pesce e si mise a strillare. Ma il pescatore lo afferrò e glielo porse, e prese in cambio Bambolina. Egli s'era avveduto che Bambolina aveva strappato al Reuccio una ciocca di capelli, mentre questi si dibatteva per non andare in braccio del mostro. - Non gli manca nulla? - Non gli manca nulla. - Bada pescatore! Chi inganna è ingannato. E la donna-pesce si rituffò in mare insieme col Reuccio e disparve. Il pescatore si mise in tasca Bambolina. Per via la interrogava. - Bambolina, che cosa hai veduto in fondo al mare? Bambolina, zitta. - Bambolina, che cosa hai mangiato in fondo al mare? Bambolina, zitta. - Bambolina, non avercela col tuo babbo. La fame fa fare delle brutte cose. E Bambolina, zitta. Il pescatore si presentò al Re: - Ecco Bambolina. - Ah! Ti fai anche beffa di me! Impiccatelo! Il povero pescatore rimase. Invece di Bambolina bella e viva, aveva in mano proprio una bambola di legno che le somigliava perfettamente. La donna-pesce l'aveva ingannato. - Chi t'ha fatto questa bambola? Il Re la voltava e rivoltava fra le mani, meravigliato della rassomiglianza. Nel tastarla, tocca una molla, e la bambola di legno si mette a parlare: - Bambolina è in fondo al mare, Il Reuccio dee sposare. Chi l'ha fatta e può disfarla Vada subito a cercarla. - Il Reuccio? Dov'è il Reuccio? Cercate il Reuccio! Il Re pareva impazzito dal dolore. Il Reuccio non si trovava; nessuno l'aveva veduto. - Che n'hai fatto del Reuccio? Il pescatore tremante di paura, raccontò ogni cosa. La bambola di legno non si chetava: - Bambolina è in fondo al mare, Il Reuccio dee sposare. Chi l'ha fatta e può disfarla Vada subito a cercarla. Il Re si diè un colpo alla fronte: - Questo è un incantesimo! Non ci ha colpa nessuno. Radunò il Consiglio della Corona per consultare i Ministri. - Che vuol dire: Chi l'ha fatta e può disfarla? Nessuno riusciva a capirlo. Chi l'ha fatta è sua madre; ma come mai può disfarla? Ci perdevano la testa. - Lasciatemi andare - disse la madre che smaniava di rivedere Bambolina. Prese con sé le ciocche dei capelli della figlia e del Reuccio, e sola sola se n'andò in un punto di spiaggia deserto. Migliaia di pesciolini formicolavano nell'acqua. - Pesciolini di Dio, datemi retta: dove si trova la donna-pesce? I pesciolini si dispersero e sparirono quasi atterriti da quel nome. Dopo poco, ecco centinaia di pesci più grossi che formicolavano nell'acqua. - Pesci, pesci di Dio, datemi retta: dove si trova la donna-pesce? Anche questi si dispersero e sparirono, quasi atterriti da quel nome. Poco dopo, ecco un pesce grosso come un vitello. Apriva e chiudeva una bocca quanto quella di un forno, con doppie file di dentacci acuti e una lingua rossa rossa. - Pesce, pesce di Dio, dammi retta: dove si trova la donna-pesce? - Vieni con me e lo saprai. La povera mamma non esitò un istante in faccia al pericolo d'annegarsi; e si tuffò in mare, tenendo stretti in pugno i capelli di Bambolina e del Reuccio. Camminava sott'acqua come in terraferma; il pesce spaventoso avanti e lei dietro, fra torme di pesci di ogni sorta, che si scansavano per lasciarla passare. Cammina, cammina, scendi, scendi sempre più in fondo, non s'arrivava. E ad ogni lato, sotto, sopra, torme di pesci senza fine, di ogni forma e di ogni grandezza, che nessuno aveva pescato mai. Ella, che ne aveva veduti tanti e ne sapeva i nomi, di questi qui non ne aveva idea, e stupiva che ce ne potessero essere un sì gran numero. Scendi, scendi, scendi, finalmente ecco un bosco di piante strane che parevano vive e si movevano, e grotte in fila, tutte ornate di fiori che si aprivano e si chiudevano, e sembrava nuotassero anch'essi. - La donna-pesce abita lì. - Grazie, buon pesce. Che posso darti in compenso? - Mi basta il buon cuore. La povera donna picchia e chiama: - Donna-pesce! O donna-pesce! - Chi mi vuole? Chi sei? - Sono la madre di Bambolina. - Che sei venuta a fare? - Apri e te lo dirò. La donna-pesce aprì l'uscio e la fece entrare. La grotta era uno splendore, tutta di argento e d'oro e di perle e diamanti. - Tua figlia sta bene qui; lasciala stare. Senti? Fa il chiasso col Reuccio nella grotta accanto. - Fammela almeno vedere. - Non posso, non posso. - La bambola di legno ha detto: Chi l'ha fatta e può disfarla Venga subito a pigliarla. - E tu avresti cuore di disfarla? L'afflitta mamma fu imbarazzata. Pure disse franca: - Sì, sì! Le ciocche dei capelli, tenute strette nel pugno, le avevano suggerito di rispondere a quel modo. La donna-pesce si contorse tutta, e brontolando andò di là a prendere Bambolina. Figuratevi la povera mamma a quella vista! - Bambolina mia! Bambolina mia! Non finiva di baciarla; e se la divorava dai baci. - Basta, basta! Vediamo se sei buona a disfarla. La donna-pesce si contorceva tutta. La mamma strinse forte la ciocca dei capelli e si sentì suggerire: - Tirale le gambe. Afferrò Bambolina e le tirò le gambe. - Ahi! Ahi! Ahi! La donna-pesce si contorceva, quasi colei le avesse invece tirata la coda. E le gambine di Bambolina si allungavano quanto le gambe di una bella ragazzina di otto anni. La mamma le tirò le braccia. - Ahi! Ahi! Ahi! La,donna-pesce si contorceva, quasi colei le avesse tirate le sue. E, le braccia di Bambolina, si allungarono quanto le braccia d'una bella ragazzina di otto anni. La mamma le,tirò il busto, e poi il collo. - Ahi! Ahi! Ahi! La donna-pesce, si contorce più di prima, quasi colei le avesse tirato il busto e il collo, e casca morta per terra. La donna prese Bambolina per una mano e il Reuccio per l'altra e uscì dalla grotta. Fuori c'erano milioni di pesci che stavano ad aspettarli, facendo guizzi in mezzo all'acqua, quasi ammattiti dalla gioia di saper morta la donna-pesce. E salirono su, accompagnati da questo strano corteggio. Quei pesci erano così allegri, che non vedevano neppure le reti tese dai pescatori e v'incappavano a migliaia. Uscendo fuori dal mare, la mamma, Bambolina e il Reuccio trovarono su la spiaggia una gran festa. Le ceste dei pescatori rigurgitavano. L'arena della riva era ingombra di pesci mezzi vivi; ne prendeva chi voleva. Gli stessi pescatori li davano in regalo; non sapevano che farsene. Alla notizia corsero il Re, la Corte, il popolo tutto, e tra essi il povero pescatore che s'era già pentito del suo mal fatto. Al vedere Bambolina, diventata così bella che pareva un sole, il Re esclamò: - É proprio una Reginotta! Infatti, alcuni anni dopo, Bambolina e il Reuccio si sposarono. E quel giorno il Re volle che, in ricordo del caso, in tutto il suo regno non si mangiasse altro che pesce. Chi l'allunga e chi l'accorcia, La mia è detta; ora, la vostra.

La Colonia felice: utopia lirica (terza edizione)

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Dossi, Carlo 1 occorrenze
  • 1879
  • Stab. Tip. Italiano DIRETTO A L. PERELLI - Ditta Libraria di NATALE BATTEZZATI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Mario si sentì abbagliato. Vergognò di sè stesso, come, della nudità sua, il colpèvole Adamo, e chiese rifugio ad una siepe vicina. Di dove, battèndogli forte il cuore, vide passare lei e allontanarsi e sparire. E gli sembrò, insieme, farsi pàllido il sole. Ma, innanzi che tramontasse quel sole, Mario, fra lo stupore di tutti e l'applàuso, giurava obedienza alla legge, e rompèa un dei pani che avèan posato sul capo di quella biondìssima. --- Così spuntava un nuovo giorno per lui, il giorno di guadagnarsi la esistenza dal suolo, e da Forestina la vita. Mario non andava a cercare quale sorta di affetto unisse alla ragazza lui, non l'osava. Amore, sì certo; ma in che non scòrgesi amore? ... Eppòi, troppo divisi dagli anni! troppo dalla coscienza! ... Pur tuttavìa, quand'egli sedèa presso di lei, ch'era un solo sorriso, tacendo, chè nulla avèa ad insegnare a quella gentile, cui il Cielo era stato il maestro, e suggendo dall'aerino suo sguardo, e dalla lìmpida voce e dalla nivea semplicità della frase, il bene, dimenticato un istante di sè, sentìa ripullularsi in cuore, reminiscenze confuse, i disusati veri - l'oro si divideva dal piombo - e Mario ritornava fanciullo. Poi, sempre, si dipartiva da lei in un subbuglio di sangue, in un entusiasmo di proclamare la verità, di stènder la destra e di allargare le braccia, di perdonare, anzi, di chièder perdono. Ma, perchè, a volte, que' brìvidi? perchè, sulla fronte, quella procella d'idèe? e quelle pàvide occhiate? e quelle partenze improvvise, che imitàvan le fughe? Or venne un dì, che il Nebbioso trovò la ragazza con gli occhi infocati ... - O tu - gli diss'ella sospirosamente - mi han raccontato una storia di orrore, la storia di Abele e Caino. È una bugia, vero? - aggiunse, illuminàndosele il volto di una lieta certezza. Ma la certezza non fu che un lampeggio. Chè esterrefatto, il Nebbioso si nascondeva la faccia con ambo le mani, e fuggìa. Fuggìa, come cacciato dal fiammeggiante brando dell'àngelo di Abele. --- Dalle quali sue assenze, alcuna volta lunghìssime, ritornava egli sempre con qualche selvaggio dono per lei ... Èrano, o frutta dagli ingenui gusti o gagliardi fiori olezzanti il perìcolo; èrano gemme strappate alla inonora oscurità e ridonate al pregio del lume; èran pugnaci aquilotti, ancor trapassati da quelle saette, cui essi medèsimi avèano dato, a raggiùngerli, l'ali; o belve zannute, ch'egli gettava a' piedi di lei, tinte del sangue loro e del suo, e, benchè morte, odio immortale spiranti. Senonchè, un giorno, fu il dono un innocente augellino; di quelle voci vestite di penne, figlie d'arcobaleni e di echi di melodìe. - E tu avesti cuore di uccìderlo? - dimandò Forestina, avvicinàndosi il poveretto alla mòrbida guancia, quasi per ridonargli il calore. - Non te l'avrèi, altrimenti, potuto portare - Mario rispose. Ma a mezza voce rispose, come se già sentisse la vanità della scusa. - E, questo, chiami portarlo? - ella disse, stendendo la palma ver' lui, e sulla palma, freddo e stecchito, l'ucciso. Il Nebbioso fe' un gesto di raccapriccio, e additando violentemente sè: io l'infame! - sclamò - io il vile! - Ma, pochi dì poi - mare e cielo infuriati - fu, quell'infame e quel vile veduto a scagliarsi nelle ingordìssime onde, strappando loro la preda di un bimbo. --- Cinque anni si sono aggiunti al cùmulo delle memorie. La ragazza è diventata fanciulla. Amore die' l'ùltimo tocco al Belliniano suo viso, non bello tutto, e perciò appunto bellìssimo. E i suòi compagni d'infanzia, che già dividèvano seco l'allegra spensieratezza, per lei sospìrano ora e sògnan di lei. Nè la malinconìa, questa nutrice del bene, questa inevitàbile amica di ogni gentile, disdegnò la fanciulla. Soavemente la tonda gota affilò. Forestina, che, quando ridèa, ridèa tutta, o se piangèa, tutta piangèa, ora, velata di pianto, sorride, o canta di gioja col singulto nel cuore. Spesso la invade un senso di copioso bisogno, spesso rimansi estàtica in una indefinita attesa. E allorchè mira, scolorando, alle nubi non scorge nubi soltanto, e allorchè impòrpora al fuoco, non sente solo il calor della fiamma. E la fanciulla non chiede più baci al Nebbioso, nè questi osa farne, e si pèrita, a volte a darle del tu, e, perfino, a toccarle la mano. E se imparadisa, immergendo lo sguardo nell'aurèola dei capelli di lei e nelle cilestri profondità de' suòi occhi e fra le labbra succhiose, inferna, scorgèndole in seno fiori ch'ei non ha colto, o sul ciglio làgrime ch'egli non provocò. --- Era giunta la chiusa della mietitura. Si usava, nella colonia, di festeggiarla con una generale allegrìa, e, quell'anno, si scelse il teatro. Trè carri formàrono il palco; festoni di spighe e frondi di abete l'addobbo; fu la platèa un prato; fu il cielo stellato, il velario. Quanto al dramma, era pasticcio del Letterato. Egli ne avèa, naturalmente, attinto il soggetto al pozzo inesaurìbile della Bibbia, ed era, il soggetto, Giuseppe e i fratelli Ma, non mai, aveva egli sudato fatica più dura di quella di allora, nel dovere scartare man mano le ribalde espressioni, che una nativa nequizia gli affollava alla penna, o nel temperarle di artificiata bontà. Infatti, conversioni complete (conversioni, intendiàmoci, al bene, chè, per le altre, succede proprio il contrario) non se ne danno che nelle vite dei Santi, e, anche là, a tutto pasto di fede. Virtualmente, Aronne, era un briccone nè più nè meno di prima; lo era, come i compagni suòi, lo era, come il più di noi tutti. Oh quanti mai, scellerati nel santuario del cuore, sol rattenuti dall'opinione e dai còdici, sàziano in letterarie od artìstiche fantasìe le infamie che impunemente bramerèbbero còmpiere; oh quanti, nel bujo imaginoso della notte, sciolti da ogni paura e vergogna, sfògano col cervello i lor più malvagi appetiti, giacendo insieme alla madre maritalmente, uccidendo i lentìssimi genitori e i coeredi fratelli, nè li tornando alla vita, che per tornarli a morire in più atroci ingegnose maniere! Guài se la legge arrivasse ai pensieri! Non sopravanzerèbbero giùdici. Ma gli uòmini, per fortuna, se sono birbe al minuto, pônno anche, all'ingrosso, passare per brava gente; tanto è ciò vero, che la platèa applaudì alla Virtù sfortunata, e, al Vizio trionfante fischiò. Giovinetti e fanciulle èran gli attori. Bellìssimo, sovra ogni altro, il Giuseppe Sul viso di lui, che ancor serbava la mamma, Bontà e Salute con Letizia lor figlia stàvano in pieno fiore. Vedèndolo, non si poteva non ricordar Forestina, come, vedendo costèi, non ricordare quello. Imaginate i tormenti di Mario! Mario avrebbe voluto attossicar con gli sguardi quel giovinetto; la gelosìa dei dòdici Giacobiti non sommava alla sua. Ma l'incolpèvol Giuseppe ha trapassato, intatto, ogni insidia; non gli fu la prigione che scorciatoja alla reggia; ed ora egli gusta la soave vendetta di sentirsi implorare la vita da quelli stessi, che avèano alla sua tramato. Dinanzi a lui, stanno - umili e tremanti - i fratelli, e stà Beniamino. Beniamino era lei. Com'ella apparve, radiante di vereconda bellezza, un grido giulivo si alzò; com'ella aperse le labbra alla melodiosa sua voce, un trèmito di simpatia di vena in vena si sparse. E tutti la baciàron con gli occhi, e Giuseppe la baciò con la bocca. Fremette Mario. Quel bacio gli era stato rubato.

Un viaggio a Roma senza vedere il Papa

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Ed io, allucinato da questi pensieri e memorie e speranze, mi sentii abbagliato negli occhi; non vidi più i fumaioli, le fronti, i buchi delle case, delle torri e delle cupole: vidi davanti a me una massa di metallo corintio, che si muoveva, tremolava, balenava, vicina a liquefarsi; e vidi sorgere da essa la statua della nuova Roma, bella come la più bella signora che venga alla domenica in carrozza alla passeggiata del Pincio, alta come la gigantessa sognata e desiderata da Carlo Baudelaire, veneranda come una Vetruria, come una Madonna... E a quella immagine della nuova Magna parens mi sembrava proprio di toccare i capelli fulgidi, e di dare sulla fronte immensa un immenso bacio di venerazione. Mi sentivo commosso. Cacciai di nuovo nei capelli le dita delle due mani. Sentivo una musica sottile, trasparente, ineffabile come quella delle leggi degli astri. Mi voltai e vidi un bersagliere con le mani sotto la mantellina, con il cappello sulle ventiquattro, intento a guardare il busto di un musico illustre. Dalla tesa del cappello gli discendeva sulle spalle un pennacchio nuovo, folto, morbido, lustro, cambiante e ricco di arcobaleni bruni. Fra quelle piume di cappone scherzava uno zefiro caldo, che ricamava, filava e trillava dei ricciolini e delle movenze. Era da quel pennacchio che veniva a me la musica astronomica, veniva un soffio di poesia nuova e colma. Mi trovai sulla rivolta del soprabito una lacrima. Signore e signori! Posso piangere io, ora che a De Amicis glielo ha proibito la critica.

Malombra

670408
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Steinegge scherzò su questo splendore di munificenza che aveva abbagliato il povero prete; ma Silla lo contraddisse risolutamente, sostenne che alle buone azioni non si piglia la misura, che non si arrovesciano per guardarne la fodera. Parlava vivacissimo, di vena, interrompendosi spesso per salutare i suoi conoscenti, per fare a Edith osservazioni gaie su persone e cose che gli passavano sotto gli occhi. Tutti coloro che lo salutavano, guardavano poi Edith curiosamente. Edith gli rispondeva breve, senza gu ardarlo, o solo quando non ne poteva a meno. Ella non sorrideva più, si era fatta grave. Prese il braccio di suo padre. Silla ammutolì poco a poco esso pure. Sospettò che Edith avesse attribuito un significato preciso alla sua dichiarata indifferenza per il matrimonio della marchesina di Malombra, e che volesse tenersi in guardia. Il cuore gli batté forte, una oscura dolcezza gli confuse i pensieri. Qualcuno, dall'onda della gente, lo salutò in quel momento; non rispose. Camminava in mezzo alla folla come se né vedesse né udisse alcuno. Erano giunti presso al bastione. Vi spirava un'aria men tepida, pregna dell'odor de' prati; ma la folla saliva tuttavia densa al viale di sinistra, e, al di sopra de' cappelli si vedevano sfilar lentamente nel viale di mezzo, facendo il giro, cocchieri pettoruti, cocchieri umili, cocchieri appaiati a staffieri, cocchieri solitari, cocchieri soddisfatti, cocchieri rassegnati, cocchieri scuri, cocchieri gialli, rossi, azzurri, e verdi. Edith avrebbe voluto ritornare indietro; l'aria le pareva umida; temeva ch e suo padre ne soffrisse. Steinegge ne rise. Quando mai aveva notato sua figlia ch'egli si curasse del secco e dell'umido? E il Corso lo divertiva tanto! Edith non insisté. All'entrata del viale Steinegge alzò in aria tutte e due le braccia e tirò una allegra mitraglia d'interiezioni tedesche a un signore piantato lì a vedere sfilare le carrozze. Questo signore, un tal C... col quale Steinegge aveva tentato fondare tempo addietro una Corrispondenza litografica si voltò, lo guardò e gli venne incontro stendendogli la mano. "Scusate" disse Steinegge a Edith e Silla "questo è C... Io debbo parlare. Andate avanti; vengo subito." Edith non ebbe tempo di rispondere perché suo padre era già sgusciato via attraverso la gente che, sopravvenendo fitta e continua, non consentiva di fermarsi. Fatti pochi passi, ella volle uscire sul gran viale a guardare indietro, ma non vide suo padre. Fermarsi lì ad aspettare non le garbava; le pareva di sentirsi più imbarazzata, più sola. Silla le consigliò sommessamente di andare avanti, come le aveva detto suo padre, ond'egli, passando oltre fra la gente, non li avesse poi a cercar senza frutto. Essi camminavano fra il viale affollato e il lungo cordone di curiosi intenti a guardar le carrozze che andavano al passo, fermandosi di tempo in tempo. Camminavano discosti l'uno dall'altra, senza parlare, guardando tutte le carrozze con grande attenzione, fossero calessi alla Daumont o sudicie cittadine. Ad ogni tratto Edith voltava il capo a guardar indietro. Intanto le sconfinate campagne di levante, al di là del bastione, si vedevano nelle ombre della sera sotto l'azzurro pallido del cielo che si confondeva quasi, laggiù all'orizzonte, con esse, distese, aperte avidamente agli inenarrabili amori della notte di aprile. Apparivano fra una carrozza e l'altra, scomparivano, riapparivano, grande immagine di pace, al di là di quel brulichìo mondano. A ponente le case oscure della città si disegnavano sul cielo aranciato che posava una languida luce calda nei bassi p rati dei giardini, il margine scoperto del viale. La striscia nera della gente a piedi moveva lenta, assaporando l'ora dolce, l'aria pura, odorata di primavera e di eleganza, il rumor soffice delle carrozze, musica della ricchezza indolente, piena d'immagini tentatrici. E le signore, negli equipaggi di gala, passavano e ripassavano sotto la nebbia verdognola dei grandi platani, come Dee infingarde, fra gli sguardi ardenti, la curiosità invidiosa del pubblico, blandite da questi acri vapori d'ammirazione, fi so l'occhio al di sopra di essi, in qualche invisibile. Quel moto lento e molle, quella stanca inquietudine umana pareano consentire col nuovo turbamento, con le nascenti passioni della terra. Silla avrebbe voluto parlare, interrompere un silenzio pieno d'imbarazzo e di trepide immaginazioni, ma non ne trovava la via. Arrivarono davanti al caffè dei giardini mentre molte persone se ne rovesciavano sul viale, rompendo la corrente del passaggio. Egli offerse allora il braccio alla sua compagna, che lo ringraz iò e vi pose appena la mano. Silla sentì sul cuore quel tocco leggero. Fendette la gente, facendo strada a Edith, guardando alla sfuggita la piccola mano che gli pendeva inerte sul braccio. Strinse, per istinto, il braccio e, senza saper bene quello che si dicesse, sentendo confusamente di fare un discorso avventato: "Scusi" cominciò "donna Marina Le ha mai parlato di me?" Edith non s'aspettava una domanda simile. Non ritirò più la mano e rispose semplicemente: "Sì." Certo ella stava preparando qualche spiegazione cauta per una seconda domanda, inevitabile; ma la seconda domanda non venne. "Che sera soave!" disse Silla. "Si rinasce. Si sente l'aprile nel cuore. Lei non voleva dirmi tutto quel che ha scritto quel signor curato: e io ho avuto tanto piacere di udirlo da Suo padre!" Il braccio di Edith si mosse un poco, ma non si ritrasse. "Ella non sa, quando si ha una mano ferita, come si eviti ogni stretta, anche d'un'altra mano amica, e quale consolazione sia sentirsela afferrare un giorno e non provare più dolore!" "Vuol dire" rispose Edith "ch'era una scalfittura e che questa persona teme molto il male. Se son poi ferite dell'anima, allora per me sarebbe un grande avvilimento non sentirle più, guarire come si guarisce da una febbre, come queste piante guariscono dall'inverno. Non le pare? Quanta gente! E papà che non viene?" Ella si sciolse pian piano da Silla e si fermò; Steinegge non compariva. "Perdoni, signorina Edith" disse Silla con voce leggermente tremante. "Ella mi giudica male. Ad esser giudicato male ci sono avvezzo sin da quando è morta mia madre. La colpa n'è in gran parte mia, del mio carattere; però è una cosa amara! Con un po' di orgoglio e di fede in altri giudici o qua o via di qua, si resiste; ma qualche volta anche l'orgoglio e la fede cascano in fondo al cuore; il cuore stesso pare che si sprofondi. Mi lasci dire una parola, signorina Edith. Io non trovo negli uomini che indiffe renza e nella fortuna che derisione. Vado tuttavia avanti a fronte alta, finora; ma, creda, è crudele di ferire uno cui tutti voltan le spalle. La prego di darmi il Suo braccio e di ascoltarmi un momento." "Non credo d'averla offesa" disse Edith, appoggiando ancora la mano al braccio di lui "son cose umane." Egli prese risolutamente con la sinistra quella mano restìa, allargò il braccio, la trasse avanti e parlò tra la folla indifferente, a voce bassa, con maggior effusione di cuore, con maggior franchezza di spirito che se si fosse trovato solo con Edith in un deserto: "Cose umane? Sì, certo, ma non la cosa che Lei crede. Non sono guarito come una pianta, a forza di sole e d'aria, dimenticando; ho voluto guarire, con indomita volontà; mi sono strappato dal cuore una febbre maligna che mi avviliva. Perché io non la stimo e non l'ho stimata mai." "No?" disse Edith con vivacità involontaria. "No, mai. Mi creda, Lei che ha l'anima tanto alta. Ho bisogno che qualcheduno come Lei mi creda e abbia un poco d'amicizia per me. Non ne parlo mai a nessuno, sa, ma mi succede spesso, solo come sono, senz'amicizie, senz'amore, senza genio, senza riputazione, senza speranze, mi succede di sentirmi morire nell'altezza in cui mi sforzo di tenere il mio spirito, studiando, lavorando, pensando a Dio. Sento allora tante voci sinistre, sempre più forti, sempre più forti, chiamarmi giù abbasso, in qualche fango ch e spenga il pensiero. Scusi, signorina Edith, Le dà noia che io parli tanto di me?" "Oh no" diss'ella piano. "Non avrei creduto quello che dice." "Lo so; il mio cuore è ben chiuso di solito. Questa sera parlo perché mi pare di essere in sogno." "Ella sogna" disse Edith "di parlare ad una persona morta da lungo tempo, cui si può confidarsi." "No, faccio un sogno da notte di primavera, come ne potranno fare questi vecchi platani pieni di speranze, quando si alzerà la luna e la gente andrà via. Sogno di mettere anch'io una volta foglie e fiori, di parlar sottovoce, dopo tanto silenzio, con la primavera blanda, di raccontarle tutte le tristezze dell'autunno e dell'inverno, come se fossero passati de' secoli. Dunque senta. Io non la stimavo. Premetto questo: nelle mie ore di sconforto ho sempre avuto lo stolido istinto di qualche fatalità oscura ch e mi domini. Ora Suo padre non ha potuto raccontarle tutto perché non sa tutto. Io mi confido alla primavera blanda. Qualche tempo fa ho publicato un libro anonimo, intitolato Un sogno." "Si potrà leggere?" chiese Edith. "Lo leggerà. Poco tempo prima ch'io partissi pel Palazzo, capitò, alla tipografia ond'era uscito il libro, una lettera diretta all'autore di Un sogno e sottoscritta Cecilia. Era una lettera sfavillante di spirito sarcastico, intarsiata di motti francesi, profumata, in cui si parlava molto di fatalità e di destino. Il tono di questa signora Cecilia non mi era pienamente simpatico, ma pure la lettera aveva un certo fascino d'ingegno e di stranezza: e poi sorrida pura, blandiva il mio amor proprio che ha ben d i rado assaporato la lode pubblica, e trovava una dolcezza molto più delicata nelle parole direttemi segretamente da una lettrice sconosciuta. Vede se Le confido anche le mie miserie. Insomma risposi. La replica di Cecilia mi capitò la vigilia della mia partenza per il Palazzo. Era piena di frizzi e di domande curiose, impertinenti. Decisi di rompere: le scrissi un'ultima lettera che cominciai a Palazzo e spedii qui nei due giorni in cui venni a prender i miei libri. Lei sa da Suo padre per qual cagione e i n qual modo partii dal Palazzo. Quel giorno stesso avevo scoperto per caso, indovini!... che Cecilia era donna Marina. Nella notte parto, trovo lei nella sua lancia. Avemmo un colloquio violento. Sopravvenne un temporale: dovetti ricondurla a casa. Non Le dirò come né perché, ma fui tentato fieramente di non partire più. Mi strappai da lei gittandole il suo finto nome, Cecilia. Fuggii pieno di sgomento, pieno della stolta idea che mi perseguita, d'esser giuoco di una potenza nemica che mi mostra ogni tanto la felicità vicina, me la offre, me la porta via quando sto per afferrarla. Ci volle tutto il mio orgoglio... Lei mi crede modesto, signorina Edith?... No, non lo sono, tranne qualche volta, nelle ore di scoramento; allora mi sento abbietto addirittura. Ci volle dunque tutto il mio orgoglio spiritualista per giungere a calcarmi ai piedi queste paure vigliacche; ci volle, per liberarmi da sentimenti non degni, un lavorar feroce, sia tuffandomi ne' libri antichi come in acque fredde, sia scrivendo di cose ide ali in cui il mio pensiero si esalta e si riposa. E così ho vinto. Solo questa sera potei comprendere quanto pienamente ho vinto. E Lei..." "Oh" disse allora Edith fermandosi "dove siamo?" Erano soli sul viale. Avevano oltrepassato senza avvedersene il punto dove le carrozze e la gente giravano indietro. Edith arrossì della sua distrazione e si voltò in fretta, lasciando il braccio di Silla. Poi temé forse di averlo offeso con quell'atto brusco. "Non potevo sapere queste cose" diss'ella. "Non ho compreso tutto quello che ha raccontato, ma lo credo. Se sapesse quale concetto ha di Lei mio padre! Non sono italiana" soggiunse con forza "non so se è vero ch'Ella non ha riputazione; ma non è certo vero" continuò abbassando la voce "che Ella non ha amicizie." Fosse per la tenera poesia d'aprile o per la emozione delle confidenze recenti, Silla era così disposto che le semplici parole di lei gli abbuiarono la vista. Le riprese il braccio. "Ah" disse "è vero, è vero ch'Ella mi crede anche se non mi comprende interamente, è vero che ha fede in me? Ebbene, la riputazione, la fama più splendida, io la darei cento, mille volte se l'avessi, non per un'amicizia, non basta..." Il braccio di Edith tremò nel suo. Egli proseguì con voce incerta, diversa dalla sua solita, camminando come se le gambe non sapesser tenere la via diritta né la misura del passo: "Per un'anima. Per un'anima che accettasse, che volesse da me, per sé sola, le creazioni del mio ingegno e del mio cuore; per un'anima chiusa a tutti fuor che a me, com'io sarei chiuso in lei. Dovrebbe essere appassionata e pura come il puro cielo. Noi ameremmo insieme, uno attraverso l'altro, Dio e il creato con un amore di potenza sovrumana. Pare a me che saremmo forti nella nostra unione, come tutta questa gente non sospetta neppure che si possa esserlo, più forti del tempo, della sventura e della morte; pare a me che intenderemmo l'essere delle cose, il loro spirito; che ci attraverserebbero la mente visioni del nostro avvenire, splendori incredibili di visioni. La troverò quest'anima?" "Sarebbe un'anima egoista" disse Edith, "se volesse tutte per sé sola le opere del Suo ingegno e del Suo cuore. La gloria, lo sento, deve avere in sé qualche cosa di vuoto, persino, di triste forse, per uno spirito come il Suo; ma aver la potenza di far amare, di far piangere, di muovere le anime al bene e non usarla! Avere della luce nel pensiero e nasconderla, non inviarla dritta a traverso questa gran confusione torbida del mondo!" "Questo non è per me, signorina Edith. Il poco che ho scritto è affondato in silenzio, partecipando della mia sfortuna. Forse qualcuno, un giorno, frugando, per farsi del merito, tra le cose dimenticate..." Ecco Steinegge, rosso, trafelato. "Finalmente!" diss'egli. "Io credeva che eravate saliti sopra qualche albero. Io ho corso su e giù come un bracco." "Perdonami, caro papà" disse Edith soavemente, staccandosi da Silla e prendendo il braccio di suo padre, benché questi, sempre cerimonioso, protestasse. "Siamo esciti per un breve tratto dalla gente." Ella gli parlò carezzevole, in tedesco, stringendosi a lui quasi volesse compensarlo, provasse un rimorso. Il povero Steinegge, imparadisato, si scusava di non averli raggiunti prima, come se la colpa fosse sua. Silla non parlava. Passeggiarono così un pezzo. La gente e le carrozze si venivano ormai diradando. I viali, i giardini, le case lontane s'intorbidavano di mistero. Le donne, camminando languidamente, guardavano i passeggeri con occhi fatti audaci dall'ombra. Si udiva parlare sotto i viali, da lontano; di là dai giardini, lungo le case tenebrose, i fanali, occhi ardenti della grande città pronta al piacere, si aprivano uno dopo l'altro. Sopra le case il cielo sereno, senza stelle, aveva ancora un tepido chiaror di perla che s i stendeva blando sul margine scoperto del bastione e sulla spianata bianca del caffè dei giardini, a cui Steinegge si avviava con propositi di munificenza. In faccia al cavalcavia era fermo un elegante calesse vuoto. Uno staffiere teneva aperto lo sportello, volgendo il capo a due signore che venivano dal caffè. Silla salutò. Una di quelle, nel passargli vicino, gli disse con una vocina piena di grazie: "Si ricordi. Dopo il Re." "Io mi congratulo molto, caro amico" disse Steinegge. "Oh, di che?" rispose Silla sdegnosamente. "È la signora De Bella. Un'antipatica bambola di Parigi. Non ci vado mai. Se sapeste come l'ho conosciuta! Lo scorso autunno un certo G... che studia filologia a Berlino, mi manda dei versi di un nostro antico poeta, Bonvesin de Riva, stampati colà. Contemporaneamente manda degli altri libri fors'anche delle fotografie, a questa signora che allora era a Varese. Per un equivoco della Posta, anche il mio libriccino fu portato a casa sua, qui a Milano. Ella fa una cor sa da Varese proprio quel giorno e m'incontra in via San Giuseppe con mia zia Pernetti che accompagnavo. Mia zia si ferma, e dopo molte chiacchiere ha la bontà di presentarmi. Questa signora fa un atto di sorpresa. "Ma io" dice "ho della roba Sua!" Io non capisco e non rispondo. "Lei" soggiunge "è ben l'autore di Un sogno?". Rimasi sbalordito. Allora ella mi parla, ridendo, del libriccino, e mi dice candidamente che G... ci aveva posto dentro un biglietto dove si leggeva: "Mandami una copia del tuo Sogno". Mi fece mille premure perché andassi a trovarla, e vi andai difatti un paio di volte in dicembre. Poi non ci tornai più. Oggi mi ha scritto che desiderava parlarmi e che ci vada domani sera dopo il teatro." Silla raccontò tutto questo con calore, come se volesse giustificarsi di quella relazione. Sedettero fuori del caffè. I fanali non v'erano ancora accesi e i tavoli quasi deserti. Uscivano invece dall'interno con la gran luce del gas, le voci vibrate dei garzoni, l'acciottolìo delle tazze e delle sottocoppe, il tintinnìo dei cucchiaini e delle monete buttate sui vassoi. Steinegge cominciò a parlare di quel tal C..., che aveva conosciuto in Oriente. S'erano trovati a Bukarest nel 1857 e, l'anno dopo, a Costantinopoli; quindi nel 1860 a Torino. Steinegge parlava assai volentieri del suo soggiorno ne i dominii del "sublime portinaio". Da C... passò a Stambul e al Bosforo. Tocca il cuore udir parlare nelle ombre del crepuscolo di paesi lontani, di costumi bizzarri, di strane lingue sconosciute. Silla guardava spesso Edith, ascoltava il narratore come chi ascolta una dolce musica leggendo e pensando, che le sue lettere e i pensieri si colorano di poesia, e neppure una nota gli resta nella memoria. Era la elegante forma bruna di Edith ch'egli vestiva di poesia, udendo parlare di cipressi, di fontane moresc he, di palazzi bianchi, di mare brillante. Ogni linea della bella persona gli appariva improntata di grazie nuove, gli pareva segno di un'idea attraente, impenetrabile. Non vedeva l'occhio, lo immaginava; ne sentiva sul cuore lo sguardo con la sua dolcezza. Immaginava pure i pensieri di lei; no, non i pensieri, ma piuttosto vagamente, la dignità e la tranquillità loro, la purezza altera. E sentiva in se stesso una luce serena, un calore così lontano, gli pareva, dall'indifferenza come dalla passione, un sor gere di non so quale indefinibile fede. Provava la sensazione di salire, alla lettera; e un singolare esaltamento della potenza visiva per cui le grandi ombre degli alberi del bastione, i profili taglienti delle macchie brune intorno a lui, gli oggetti vicini, tutto gli riesciva straordinariamente netto e vivo; nuovo, perciò, interessante come al tempo della sua fanciullezza. Steinegge intanto parlava. Descrisse un episodio comico della sua traversata da Costantinopoli a Messina. A quel punto il gas del fanale vicino, tocco dal lume dell'accenditore, divampò sonoro, arse in viso a Edith. Ella era pallidissima, grave, e non guardava suo padre. Si scosse allora e si pose ad ascoltarlo con attenzione troppo subitanea ed intensa per essere sincera. Silla se ne avvide, n'ebbe un lampo di piacere nel petto. Quando più tardi riaccompagnò a casa il padre e la figlia, pochissime parole furono scambiate fra loro. Nel separarsi, Silla stese la mano a Edith, che esitò ad accordargli la sua e la ritrasse tosto. Egli udì appena i saluti chiassosi di Steinegge: se n'andò via dolente e insieme avido di esser solo. Si allontanò a capo chino e a lenti passi, immaginando fortemente il viso pallido e gli occhi di lei quando il divampare del gas la sorprese; ripensando ad una ad una le parole scambiate, le proprie confidenze , la protesta d'amicizia, così singolare sulle caute labbra di Edith, la sua evidente trepidazione, nello staccarsi dal padre, dimenticato poi mentr'egli, Silla, le dava il braccio e le parlava. Non ne traeva nessuna espressa conclusione; si guardava il braccio là dove s'era posata la mano di Edith, odorava queste memorie come un profumo. E pareva che a poco a poco se ne inebriasse. Dalla via poco frequentata dove abitavano gli Steinegge, moveva inconscio verso il cuore della città. La gente cominciava a sp esseggiare, crescevano gli splendori dei negozi, lo strepito delle carrozze. Alzò la testa e affrettò il passo. Gli saliva dentro una foga d'orgoglio non del tutto insolita in lui che in tali condizioni di spirito cercava, godeva la folla per la voluttà acuta di sentirsele ignoto e di disprezzarla, di dominarla col pensiero. Trovatosi a un tratto sul corso Vittorio, si gettò nel fiume della gente. Egli aveva detto a Edith: "Un'anima! Un'anima sola che accetti le creazioni del mio ingegno!". Ma questo era il grido delle sue tristezze scorate, quando si sentiva debole a fronte del mondo indifferente e di un sinistro demonio confitto nel suo fianco. Grido dell'ora nera, vôta di fede e di speranza. Non sarebbe stato sincero quando l'ingegno gli ardeva di vigore audace e il demonio sinistro taceva; che allora l'uomo, ebbro di felicità fiera, disprezzava le dimenticanze del pubblico, le ingiustizie amare d ella critica, la insolenza dei fortunati, il maligno volto della stessa beffarda fortuna; scriveva, non per ambizione, né per diletto, né pel sublime amore dell'Arte ch'è la musa dei grandi ingegni, ma per la coscienza di un dovere ideale verso Dio, per obbedire alla vasta mano prepotente che gli si piantava tra le spalle, lo curvava, lo schiacciava sul suo tavolo di lavoro, spremendogli dal cuore il sangue vitale che ora ingiallisce ne' suoi libri dimenticati. Tra queste rade ore splendide gli correvano lu nghi intervalli bui. La vasta mano si alzava dalle sue spalle, ogni luce di pensiero si spegneva in una tenebra pesante d'inerzia; tutte le passate delusioni lo rimordevano al cuore, tutte le vecchie ferite sanguinavano; egli numerava con acre piacere doloroso le fallite speranze della prima giovinezza, le contrarietà strane, incredibili che aveva provate, sempre e dovunque, sul suo cammino, le funeste contraddizioni insite nella sua stessa natura; poco a poco non lavorava, non pregava più, non sentiva più Dio. Allora il suo paziente nemico mortale, il demonio confitto nel suo fianco, sorgeva e gli strideva nel sangue. Era il demonio della voluttà tetra. L'adolescenza e la prima giovinezza di Silla erano state pure. La santa protezione di sua madre, le tendenze artistiche e la squisita nobiltà del suo spirito, la fatica degli studi, l'ambizione letteraria, lo avevano preservato dalle corruzioni grossolane che avvelenano quell'età. Aveva allora il sangue tranquillo, la mente illuminata di bellezze femminili ideali, sovrumane per l'intelligenza ancor più che per la perfezione delle forme. Di tempo in tempo si credeva innamo rato. I suoi amori cercavano sempre lo sconosciuto e l'impossibile. Uno sguardo, un sorriso, una voce di qualche dama di cui non sapeva il nome, gli si figgevano in cuore per mesi. Allora il solo pensiero degli amori vili gli metteva orrore; tutto il fuoco della sua giovinezza bruciava nel cuore e nel cervello. Dopo le prime disillusioni letterarie, nell'abbattimento che ne seguì, quel fuoco divorante gli scese intero ai sensi. Egli vi ripugnò lungamente e quindi si gittò abbasso. Non cercò facili amori, gl i era impossibile piegar l'anima alla ipocrisia di parole menzognere: volle il tetro piacere muto che si offre nelle ombre cittadine. Ne uscì tosto stupefatto, palpitante, in ira a se stesso; ritrovò il calore perduto dell'ingegno e dell'affetto, ritrovò i suoi amori ideali, riprese la penna, afferrò il concetto del dovere verso Dio come una fune di salvamento. Ricadde quindi e si rialzò più volte, lottando sempre, soffrendo nella sconfitta incredibili prostrazioni di spirito, col presentimento angoscioso d i un'ultima caduta irrimediabile, di un abisso che lo avrebbe finalmente inghiottito per sempre. Perché in lui l'antagonismo dello spirito e dei sensi era così violento che il prevalere di una parte opprimeva l'altra. Non aveva mai conosciuto il giusto equilibrio dell'amore umano né potuto trovar durevole corrispondenza di quell'affetto sublime e puro ch'egli invocava con angoscia quando Iddio si ritraeva da lui. Gli era toccata due volte la rara e inestimabile ventura di essere amato come voleva egli, col fuoco dell'anima. Uno di questi amori fu troncato subito da necessità fatali e ineluttabili; l'altro scomparve misteriosamente, lasciando Silla pieno di terrore, come se avesse veduta l'ombra e udito il sarcasmo del destino. La passione di sensi e di fantasia ispiratagli da Marina lo attraversò quale una vampa di polvere. Tornato a Milano spense a forza il bruciante ricordo di lei in ostinati studi di greco e di filosofia religiosa alternati con un lavoro fantastico e uno studio morale. Non fu mai colto in quell'inverno dal cupo silenzio interiore che soleva precedere in lui le tempeste furiose dei sensi. Una così lunga tranquillità gli ritemprò lo spirito, gli rese quasi la freschezza dell'adolescenza; e ora, con lo sguardo e la dolce voce di Edith nel petto, egli si sentiva casto e potente, guardava in faccia all'avvenire aperto, vôto di fantasmi paurosi. Andava fra la gente colla voluttà del nuotatore gagliardo che fende da padrone la spuma e il fragore delle onde. Sentiva la stolta fede che sarebbe giunto un giorno a signoreggiar con l'ingegno quella folla così avida negli occhi di bellezza fisica, di piacere, ferma e densa intorno al fulgore dei gioielli, ferma e densa intorno alla ridente luce di certe altre vetrine, paradisi della gola; palpitante nel sinistro fascino dell'oro, abbrutita nelle cupidigie del ventre. Qual sogno opporsi a lei, sfidarne la viltà e la superbia, frustrarla in viso come una fiera, gittarla indietro sgomenta e doma, con la potenza di una divina ispirazione interiore e della paro la, amando ed essendo amato senza fine da una donna come Edith, sicuro, in questa fiamma, dal fango ignobile! Passava, così fantasticando, lungo il Duomo. La tacita mole enorme, assediata dai fanali a gas, pigmee scolte del secolo nemico, ne portava sul fianco il picciol lume che moriva a breve altezza nell'ombra; e l'ombra sfumava più in su in un fioco albor puro, dove salivano guglie, pinnacoli, trine marmoree color di neve lontana, prima dell'aurora. Quella visione di marmi e di luna, inutili, adorabili magnificenze dell'ideale, ruppe a Silla le fantasie, forse non vôte di ambizione e di rancori contro gli uomin i, gli refrigerò il cuore, vi mise un gran desiderio di silenzio. Egli si avviò verso casa sua. Abitava lontano, presso Sant'Ambrogio. Quando entrò nella chiara piazza deserta gli si affacciò, alta sopra le case di via S. Vittore, la luna. Silla trasalì e si levò il cappello involontariamente. Aveva ella presieduto alla sua nascita la fredda e solenne signora che veniva a guardarlo tristamente in faccia nei momenti gravi della vita, adesso come un'altra sera, quand'ella usciva tra i nuvoloni sull'Alpe di Fi ori e gittava nelle acque nere del lago una spezzata lama d'argento? Silla rise di se stesso e si disse che era un saluto di congedo alla vecchia amante. Egli vegliò a lungo nella sua cameretta al quarto piano, che guardava in un cortile quadrato, stretto e profondo. Tenne la finestra aperta. Fuori della finestra sul ballatoio c'eran de' vasi fioriti di violacciocche, che mandavano odore nella stanza. Dal suo tavolo Silla vedeva sopra la opposta muraglia bianca, tra gli abbaini e i fumaioli del tetto, una lista di cielo e qualche stella pallida nella luce lunare. Egli trasse il manoscritto di un racconto incominciato durante l'inverno con questo titolo Nemes i, ne rilesse alcune pagine e non gli piacquero. Depose il manoscritto, pensò a Edith. "Buona sera" disse una voce dalla finestra. Era uno studente dell'Istituto Superiore che alloggiava in fondo al ballatoio. Silla lo salutò. "Vengo di là, sa" soggiunse l'altro che si compiaceva di raccontargli i suoi amori. "Mi ha congedato subito e non vuole che ci torni prima di posdomani, perché dice di essere andata oggi a confessarsi. Ma che fatica ha fatto! Che fatica!" Il giovane pareva ubbriaco di questo pensiero. Parlava ridendo, ansando. "Sa, sono sentimentale per forza questa sera. Farò un po' di musica. Farò uscire dalla finestra quella bionda, quella ch'è venuta l'altro ieri. Come? non la conosce? Al terzo piano, prima finestra a dritta. Dove c'è lume. Una francese. Buona sera." Se ne andò cantando a mezza voce sopra un motivo dei Lombardi certa strofetta composta per il prof. B... Per ridurre all'orizzonte La pendenza del terreno Si moltiplica il coseno Per la stessa inclinazion. Entrato nella sua camera, lasciò l'uscio spalancato e tempestò sul piano un walzer diabolico, da far ballare i morti. Silla, infastidito dal dialogo e dalla musica, si alzò per chiudere la finestra. Ma era così soave l'odore dei fiori, gli piaceva tanto quella muraglia tutta bianca di luna, quel cielo puro! Guardò abbasso. La signorina francese era uscita sul ballatoio del terzo piano e si appoggiava alla ringhiera, fumando. Due cameriere ballavano da un'altra parte e rispondevano a interlocutori invisibili ; un capitano in pensione stava alla finestra, in berretto da notte, con la sua giovine governante. Silla chiuse la finestra. La santa notte di primavera gli pareva ammorbata e guasta. Chiuse vetri e imposte con impeto, tornò al suo tavolo, e dopo aver pensato a lungo con il capo tra le mani, afferrò un foglio di carta, scrisse precipitosamente: "È amore? Quale amore? Sono ancora tranquillo abbastanza, voglio riflettere, studiarmi finché mi è possibile. Io sento, pensando a lei, di desiderare qualche cosa di ignoto a me stesso, d'inconcepibile dal pensiero umano. Il mio desiderio è tanto puro che lo scrivere - è puro - mi costa uno sforzo, mi ripugna. Ma tuttavia vi è veramente una commozione fisica in me, specialmente nel petto. Vi è un reale movimento nel sangue o nei nervi, che corrisponde alla esaltazione del mio spirito. Sono incapace, in ques to punto, di ragionamento freddo, ma sento invincibilmente che se quello che io provo è amore, esso non è solamente spirituale. Lo penso, lo credo, sono barlumi di una vita futura più nobile che si destano in me, presentimenti d'uno squisito amore fisico, non concepibile in questa tenebra. Solo questo io so, che dev'essere immensamente più degno dello spirito, benché forse capace ancora di altre sublimi trasformazioni. Tento immaginare la unione intera, il mio sguardo nel suo, il cuore nel cuore, un fuoco d i pensieri commisti, un palpito che ad ogni momento ci divida e ci unisca. Sento altresì che queste idee esaltano la mia intelligenza e abbattono il corpo, ne troncano i desideri più vili. "Signore degli spiriti, tu me li doni questi divini fantasmi, ombre del futuro, questi ardori che mi levano dal fango verso te. Non abbandonarmi, fa ch'io sia amato. Tu lo sai, non è solo dolcezza che io cerco nell'amore; è lo sdegno d'ogni viltà, è la forza di combattere per il bene e per il vero malgrado l'indifferenza degli uomini, l'occulto nemico esterno, i tuoi silenzi paurosi. Padre, rispondi al grido dell'anima mia, fa ch'io sia amato! Vedi, tra queste sublimi speranze mi assalta l'angoscia che siano una derisione ancora e mi stringo ad esse e sospiro." "Ah no!" Gettò la penna, spiegazzò fra le dita lo scritto e lo arse alla candela. Prese poscia un libriccino di note. Rilesse queste parole tracciatevi anni prima: "È finito. Creare ancora, creare fantasmi di quanto ho desiderato invano, lasciare un ricordo, un'eco dell'anima mia profonda e partire attraverso gli abissi per qualche stella lontana da cui questa terra dura non si veda nemmeno! Dio, gli uomini, la giovinezza, la fede, l'amore, tutto mi abbandona." Vi scrisse sotto: "29 aprile 1865." "Spero."

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676095
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Era una testa che a primo tratto eccitava lo sgomento e il ribrezzo, ma l'occhio che sovr'essa osava arrestarsi un istante, ne rimaneva abbagliato. La corporatura, comparativamente tozza e deforme, si faceva ammirare per lo spiccato rilievo dei contorni. Sotto la elegante sopraveste del nano si indovinavano un torace di granito, due braccia di acciaio e una muscolatura da atleta. Il Virey, dopo aver contemplato in silenzio i singoli tratti di quel fenomeno vivente, prese animo a parlargli: - Potete voi affermare dei diritti legali sulla suora che io intendo esportare per opera di carità umana? ... In tal caso soltanto ... - Dessa mi appartiene! - interruppe il nano vivamente. - Interrogatela! ... Non posso supporre che ella abbia obliati gli impegni con me presi or fanno pochi minuti. - Noi apparteniamo alla umanità tutta intera - rispose l'Immolata sospirando; - ma quelli che soffrono, quelli che partono dalla terra hanno su noi dei diritti più urgenti. Così parlando, la donna guardava il nano fissamente, colla espressione supplichevole e mesta del delinquente che chiede grazia all'arbitro de' suoi giorni. E vedendo che quegli non accennava ad arrendersi, la trepida donna rivolse la parola all'uomo che le dava di braccio, invitandolo a mostrare il mandato di estradizione di cui era munito. Il Virey non esitò un istante a porgere il foglio. Il nano lo percorse rapidamente coll'occhio, e parve disarmato. - Intorno a questa mensa - riprese lo strano personaggio volgendo la parola al Virey con intonazione più mite - vi hanno ottocento suore disposte a prestarvi i loro servizi; non sareste voi abbastanza cortese per riferire la vostra scelta sovra una di quelle? - Ragioni di scienza me lo vietano - rispose il Virey gravemente. - L'illustre malato reclama l'applicazione di un assorbente eminentemente simpatico, e in questa donna soltanto ho potuto scorgere le facoltà che al mio caso si confanno. Il nano aggrottò le ciglia, le sue labbra impallidirono e parvero minacciare una violenta esplosione di collera. Girò una occhiata d'intorno, un'occhiata bieca, sospettosa, tremenda; ma scorgendo due ufficiali di sorveglianza che si avanzavano alla sua volta, coll'accento cupo di chi si reprime, disse: - Sia fatta la volontà della legge! Noi ci vedremo più tardi ... Il Virey fece un saluto del capo, e la donna, cui erano state dirette le ultime parole del nano, rispose con una intraducibile occhiata piena di angoscia e di sommissione. Poco dopo, la volante che stazionava sulla piazza della cattedrale, accoglieva nel suo grembo il Primate e la suora, e dirigevasi con moto rapidissimo verso la villa Paradiso. Durante il tragitto, l'Immolata appariva turbata. - Quest'uomo - le disse il Virey - ha prodotto sui vostri nervi una impressione dolorosa. Procurate di ricomporvi e di obliare. Per la missione che ora andate a compiere si esige molta calma e molta energia di volere. - Se voi conosceste quel mostro! - esclamò l'Immolata rabbrividendo. - Egli è dunque di una specie ben trista, se voi tremate e vi coprite di pallore al ricordarlo? ... - Egli è un mistero più buio della notte e più profondo del mare. - Voi dunque ignorate affatto chi egli sia? - Se ogni sua parola non è una menzogna, debbo credere che egli si chiami Cardano, e ch'egli sia ricco e potente come un re. - E viene spesso in cerca di voi? - Mi ama! - sospirò la donna con un gesto di orrore. - Se sapeste quale tremenda cosa sia per noi il dover subire di tali amori! ... Uno scoppio di lacrime troncò le parole della donna. Il medico accerchiò la bellissima testa col braccio e premendola al petto esclamò mestamente: - La società moderna, designandovi col titolo di Immolate, ha reso giustizia al vostro eroismo. - No! no! - riprendeva la desolata singhiozzando. - La mente dell'uomo non riuscirà mai a concepire le atrocità del nostro martirio. Uno dei più orrendi supplizii ideati dalla scelleraggine antica fu quello di legare ad un vivo il corpo di un estinto per seppellirli abbracciati nella medesima tomba. Orbene: nelle prepotenze a cui la Immolata si assoggetta vi è qualche cosa che assomiglia all'accoppiamento di un morto e di un vivo ... Essere amata da quel mostro, dover subire i suoi amplessi, dover fingere al segno, ch'egli talvolta possa illudersi di essere amato! ... È orribile ... è spaventoso! ... - Da quanto tempo conoscete quell'uomo? - domandò il Virey. - Da sei o sette mesi. Dal giorno in cui a Milano ebbe luogo l'esperimento della pioggia artifiziale ideata dal celebre Albani. Non potrò mai obliare le tremende parole ch'io lo intesi profferire in quella occasione. Al cadere delle prime stille, mentre dalla città si alzava un grido di sorpresa e di plauso, l'esplosione di un ghigno satanico mi trasse a rivolgere il capo. I miei occhi si incontrarono per la prima volta in quelli del basilisco. Ed egli, senza smettere il suo ghigno beffardo, e guardandomi fissamente: «applaudite! applaudite! - ringhiava colla sua voce cavernosa; - questo meccanismo, migliorato, corretto e opportunamente applicato, al meno danno potrà fra pochi mesi riprodurre il diluvio!» Il Virey prestava la massima attenzione alle parole della Immolata e a sua volta diveniva tetro. Il moto discendente della gondola avvertì lo scienziato che era tempo di avviare la conversazione sovra altro tema. - Adunate le vostre forze - diss'egli; - cacciate dalla mente ogni avversa preoccupazione; il nuovo sacrificio a cui andate incontro darà la vita ad un fratello che ha resi i più segnalati servigi alla umanità. Poco dianzi avete nominato l'Albani, l'inventore della pioggia artifiziale. Orbene, sappiatelo: gli è appunto quell'insigne cittadino che reclama le vostre cure. Poco fa, nel gettar gli occhi sulla di lui effigie, le vostre guance si animarono di un vivo rossore, e se io non mi sono ingannato, i vostri nervi furono scossi da un elettrismo simpatico. - Primate! - esclamò la donna rianimandosi improvvisamente - gli è che quella effigie ... quelle sembianze ... - Ebbene! - esclamò il medico colla impaziente curiosità di chi sta per afferrare l'ultima parola di un enigma. - Ebbene! - sospirò l'Immolata - quella effigie e quelle sembianze mi hanno ricordato ciò che una donna della mia condizione ha l'obbligo di obliare, che anch'io sulla terra ho amato una volta, e molto, e intensamente amato pel solo diletto di amare. Su queste parole della Immolata la gondola toccò terra. Il Virey offerse il braccio alla donna, e si inoltrò con essa nella galleria che metteva alla stanza del malato. - Nessun sintomo allarmante? - chiese il medico entrando. - Nessuno - rispose fratello Consolatore. - Lasciamo con lui questa suora e ritiriamoci. Ciò che importa - soggiunse il medico volgendosi alla Immolata - è che quest'uomo creda in voi prima che siano trascorse due ore. Tutti uscirono dalla stanza ad eccezione della donna. Questa si appressò tremando al letto dell'infermo. La luce melanconica della lampada azzurra, rischiarando il pallido volto, lo abbelliva di una tristezza funerea. L'Immolata, al vedere quelle sembianze, potè a stento reprimere un grido. Si gettò su quel corpo assiderato coll'impeto di una madre selvaggia che trova il proprio figlio ucciso da una serpe. Le sue braccia, incrociandosi tra le chiome dell'infermo, sollevarono dai guanciali il capo estenuato; le sue labbra tumide di sangue, esuberanti di ardore, corsero avidamente a baciare una bocca, dove la morte già delineava il suo glaciale sorriso. Quel bacio poteva essere eterno. L'Immolata, affiggendo le sue labbra a quelle dell'Albani, dovea trasmettere la vita o assorbire la dissoluzione. Ma i presagi del Virey non tardarono ad avverarsi. L'infermo dopo alcuni istanti aprì gli occhi. - Che è stato? - domandò con fioca voce. L'Immolata trasalì, e cadendo in ginocchio presso il letto del malato, gli mormorò all'orecchio una parola che parve rianimarlo. - Il vostro nome! il vostro nome! - ripeteva l'Albani, guardandola fissamente. E allora, con un accento pieno di soavità e di tristezza, la genuflessa prese a parlare di tal guisa:

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

E sulla soglia sosto abbagliato dinnanzi alla più delicata interpretazione vivente che mai sia stata fatta de la toilette de la Mariée Maria Carolina Antonietta di Savoia Duchessa di Sassonia è in piedi tra le sue cameriere chine o ginocchioni intente all'opera delicata. La cognata, che presiede da parigina esperta, le ha tolto lo specchio di mano: - Ti vedrai dopo, mignonne, quand le rêve sera achevé Maria Carolina è una visione abbagliante di neve e d'argento. Bianco il ciuffo di penne che le adorna l'alta acconciatura incipriata, bianco il viso passato alla cerussa bianca, la veste di raso splendente dal guardinfante mostruoso, bianche le scarpette, le ghirlande, il cagnolino, il ventaglio. In tanto candore spicca il rosso delle labbra e delle gote, il nero degli occhi e dei sopraccigli. La cognata stessa Adelaide di Francia, nipote di Luigi XV, ha dipinto il volto della bimba diciottenne secondo che l'ultimo dettame di Parigi consiglia: le ha cancellato col cosmetico i delicati sopraccigli biondi e due altri ne ha disegnato a mezzo della fronte, nerissimi, arcuati, imperiosi. Molto s'è discusso sull'acconciatura; il parrucchiere di Corte, De Regault, voleva riprodurre con gl'immensi capelli biondi il Palazzo Madama o la galera capitana degli Stati Sardi; ma la Regina, la Principessa, si sono opposte e l'artista ha costrutto con la chioma densa un edificio a tre piani coronato da un nido dove una colomba cova, teneramente assistita dal compagno. - Ravissante! Ravissante! - mormora la cognata che le sta alle spalle puntandole di sua mano un fiore o una piega del guardinfante. Ma ad un tratto vede le gracili spalle adolescenti scosse da un sussulto, si china, guarda: il volto dipinto con tanta cura è inondato di pianto. - Ah, mon Dieu, tu vas te ravager! ma per carità! Vieni, vieni a vederti e non piangerai più. Prende la sposa per mano, la conduce dinnanzi al grande specchio ovale della parete. Le lacrime s'arrestano d'improvviso. La bimba, che ieri ancora giocava alle dame in visita, sbigottisce d'essere oggi una dama davvero e non pensava di vedersi così bella. Sorride tra gli ultimi singhiozzi, sorride a se stessa, alla cognata, alle cameriere, cancella col batuffolo della polvere l'ultima traccia di lagrime. - Sua Maestà la Regina! - annunzia un servo. Camerieri, parrucchieri, servi balzano in piedi, rigidi, addossati alle pareti. La madre sosta sulla soglia, sorride, tende le braccia alla figlia, l'abbraccia, la bacia, ma con delicatezza trepidante, come si odora un fiore troppo fragile. - Un rêve, vraiment un rêve! *** ... Da già ch'a l'è cusì, da già ch'a l'è destin faruma la girada anturn a tüt Türin ... Oh, l'interminabile fila di berline, le berline di Casa Reale simili ad altissimi triangoli capovolti, sculpite, dorate, sovraccariche di tutta la mitologia e di tutto il simbolismo pazzesco del barocco; così goffe ed aggraziate, così snelle e tozze ad un tempo! Berline a quattro, a sei, a dieci cavalli gualdrappati, frangiati, impennacchiati, con non altro di libero che le zampe e la coda prolissa, cocchieri e staffieri a codino rigidi come automi tolti da un armadio centenario! ... Il corteo fantastico si svolge interminabile come in una fiaba dei Perrault, ma non reca il marchese di Carabattole, non il gatto dagli stivali, non Cenerentola fatta regina, ma tutte le belle dame della nobiltà subalpina, la Marchesa di San Damiano, la Marchesa d'Ormea, la Contessa Morozzo, la Contessa Della Rocca, la Marchesa di San Germano, la Marchesa di Cinzano, la Contessa di Salmour, la Marchesa di Verolengo ... E fra tutte, bellissima, come la Principessa della favola, come la Figlia del Re, leggendaria, è la sposa tutta bianca, tutta d'argento ... - La bela Carôlin! La folla che stipa Piazza Castello, i portici, i colonnati, che brulica sugli alberi, sulle ringhiere, sui tetti, acclama la sposa con un fremito che parte dal cuore. Il popolo ama quell'ultimogenita del Re, l'ama come una delicata bimbetta sua, la bela Carôlin è popolare ovunque, dai parchi della Venaria ai parchi del Valentino, dai bastioni della Cittadella ai bastioni della Dora, dove non sdegna di interrompere i suoi giochi per rivolgere la parola a un giardiniere che pota, a una lavandaia che piange. - Madama Carôlin! la bela Carôlin! Mai il popolo ha sentito così forte la sua tenerezza commossa come in quest'ora dell'ultimo addio. Il bel fiore sabaudo sta per essere còlto da altre mani per un giardino d'oltr'Alpe. ... Da già ch'a l'è cusì, da già ch'a l'è destin faruma la girada anturn a tüt Türin ... Il lungo corteo d'equipaggi passa da Via Dora Grossa a Porta Segusina, da Porta Segusina ai bastioni della Cittadella. Sono quivi schierate tutte le truppe: spiccano i Granatieri e i Guastatori dalla veste di scarlatto guarnita d'argento, con cappotto frangiato e banda intarsiata pure d'argento e d'azzurro, spicca la Compagnia Colonnella con le Corporazioni dei Mercanti e dei Droghieri a divise vivacissime. Lungo Via Santa Teresa e Piazza San Carlo, lungo Via Nuova, sono tutti gli altri Corpi della città: gli studenti della Regia Università col loro Sindaco, i Cavalieri dell'Ordine della SS. SS.Annunziata e dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Tutti formano tra la folla varia un disegno ordinato a colori vivacissimi dove il corteo passa come tra una doppia siepe di divise smaglianti. La sposa diciassettenne non ha mai visto tanto fasto nella sua vita breve e raccolta e pensa che tutta quella gioia di colori e di suoni è per lei e s'alza e batte le mani come ad un bel gioco. Dai bastioni della Cittadella ai bastioni di Po rombano i cannoni di salve, strepitano i mortai e i mortaretti, accompagnando senza tregua con un rombo guerresco il clangore esultante di tutte le campane di tutte le chiese: la Metropolitana, Santa Teresa, la Consolata, i Santi Martiri Tebei, tutti i provincialeschi templi torinesi. Il corteo regale s'avanza. Dame, cavalieri gettano di continuo a piene mani le dragées nuziali, i grossi confetti settecenteschi detti giüraje E la folla s'accalca, fluttua, acclama. La sposa protende le mani e mille mani si protendono affettuose in una stretta d'ultimo addio. - La bela Carôlin! La piazza San Carlo è convertita in una sala immensa: "sta una tavola ivi disposta la quale fa vedere un corpo di bacili di confetti canditi e di molte sorta di paste zuccherate e frutti molto lontani dalla stagione. I bacili suddetti, guarniti a piramidi nella sommità dei quali vagamente pompeggiano stendardi con armi e cifre, il tutto regalato di fiori con una piramide sostenuta da quattro tori argentati carichi di confetture. Per finimento godono le Altezze Reali dell'apparato più con gli occhi che con la bocca e prendono gran piacere in vedere a dare il sacco di detta tavola e dare la scalata alla piramide fruttata e inzuccherata". La sposa giovinetta ride a quel gioco, ride fino alle lagrime della folla che corre, sale, rotola, schiamazza. La sposa ha tutto dimenticato e pensa che la vita prosegua così in un corteo dorato e infiorato tra una moltitudine gaia e plaudente. L'allegrezza dell'ora è per lei come quell'orlo di miele che si mette sul calice della medicina troppo amara. Fuori di Porta Nuova la folla si estende fino al Parco del Valentino. Dinnanzi al Castello, "passatempo delle Dame", il corteo si ferma ancora una volta per un altro rinfresco e per ricevere il complimento del poeta Pancrazio da Bra, arcade di bella fama nell'Accademia degli Incolti. S'avanza costui in sembianza del fiume Po, seminudo, con manto di drappo d'oro e capelli a guisa d'alga ed è seguito dalla Dora fanciulla vestita a guisa di ninfa con le chiome sparse e incominciano un dialogo in versi dove il Po dimostra alla Dora sconsolata per la dipartita della Principessa la necessità che lo splendore della Casa Sabauda s'estenda oltre ogni confine ... Di che bell'astro il nostro ciel si priva! La bela Carôlin s'annoia mortalmente alle interminabili ottave accademiche, sbadiglia, s'abbuia, guarda altrove, s'alza impaziente, invano trattenuta dalla madre e dalla cognata. E l'amarezza del distacco, la realtà dell'ora triste la riprendono ancora e le stringono il cuore distratto per poco ... Il suo volto si vela d'angoscia quando il corteo riesce alla Porta di Po. Là sotto le arcate imbandierate e infiorate attendono le quattro berline di viaggio sulle quali bisogna salire fra pochi secondi; non più graziose berline dorate, ma grandi carrozze fosche e disadorne. Il corteo s'arresta presso la Porta. Bisogna scendere con la Marchesa di Cinzano, con la Contessa di Salmour, con il Marchese di Bianzé, bisogna passare con i compagni di viaggio nei tristi veicoli non più di gala. Un tappeto infiorato segna il breve percorso ... Ma la bela Carôlin che tormenta da mezz'ora la mano della Regina, s'è ora afferrata al braccio di lei e quando il Conte Lamarmora apre lo sportello e l'invita a scendere, la piccola si getta al collo della madre, disperata, folle. Il fratello è costretto a sciogliere le braccia di lei a forza come si spezza una catena; a forza la fanno scendere, le fanno attraversare il breve spazio giuncato di fiori, reggendola alle spalle, costringendola al passo, portandola quasi di peso nella carrozza da viaggio. E là dentro la bimba si vede perduta. - Maman! maman! - grida protendendosi dagli sportelli mentre le quattro carrozze s'aprono il varco tra la folla. - Maman! maman! Oimè, la madre, gli amici restano indietro, ritornano nelle berline dorate verso la Reggia, ch'ella ha dovuto lasciare per sempre. Allora la piccola è presa dal panico folle come chi è trascinato alla morte. Ha di fronte la severa Marchesa di Salmour, l'arcigno Ambasciatore di Sassonia. Si vede sola, perduta, si protende forsennata verso la folla invocando soccorso. - Maman! maman! E nella folla l'hanno udita le madri: molte donne s'accalcano tra le ruote, impediscono quasi alle carrozze di procedere, stringono le piccole bianche mani convulse. - Povra masnà! - Che Dio at giüta! - Fate courâge! - Arvëdse ancoura! - Arvëdse prest! Ma i cocchieri sferzano i cavalli: il convoglio s'affretta, fende la folla, procede di corsa, è sul ponte, è oltre il fiume, dispare ... *** Il Duca di Sassonia fu ottimo sposo per la bela Carôlin Il 17 marzo scriveva alla Regina ringraziandola del dato consenso e della conseguita felicità. "Aussi tous mes désirs ne tendront-ils qu'à me rendre dighe des bontés d'une princesse qui réunit aux charmes de la plus aimable figure, toutes les vertus de ses augustes parents". Il 28 dicembre 1782 la bela Carôlin moriva in Dresda, poco più di un anno dopo le nozze e a diciannove anni non ancora compiuti. Tuchè-me'n po' la man, me cari sitadin, Për vive che mi viva vëdrö mai pi Türin!

LA DANZA DEGLI GNOMI E ALTRE FIABE

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Gozzano, Guido 2 occorrenze

Il Re fu abbagliato di tanta bellezza e voleva sposarla all'istante. Ma la Principessa chiese che le si portasse prima una forcella d'oro tempestata di gemme che aveva dimenticato nello spogliatoio del suo castello. E Nonsò fu incaricato dal Re della ricerca, pena la morte. Il giovane non osava ritornare al castello della Bella dalle Chiome Verdi, dopo il rapimento, e guardava la sua giumenta, accorato. - Ti ricordi - disse questa - d'aver salvata la vita all'uccello impaniato? Chiamalo e t'aiuterà. Nonsò chiamò e l'uccello comparve. - Tranquillati, Nonsò! La forcella ti sarà portata. E adunò tutti gli uccelli conosciuti, chiamandoli a nome. Comparvero tutti, ma nessuno era abbastanza piccolo per entrare dalla serratura nello spogliatoio della Bella. Vi riuscì finalmente il reattino, perdendovi quasi tutte le penne, e portò la forcella al desolato Nonsò. Nonsò presentò la forcella alla Principessa. - Al presente - disse il Re - voi non avete più motivo per ritardare le nozze. - Sire, una cosa mi manca ancora e senza di essa non vi sposerò mai. - Parlate, Principessa, e ciò che vorrete sarà fatto. - Un anello mi manca, un anello che mi cadde in mare, venendo qui... Venne ingiunto a Nonsò di ritrovare l'anello, e quegli si mise in viaggio con la giumenta fedele. Giunto in riva al mare chiamò il pesce e questo comparve. - Ritroveremo l'anello, fatti cuore! E il pesce avvertì i compagni; la notizia si sparse in un attimo per tutto il mare e l'anello venne ritrovato poco dopo, tra i rami d'un corallo. La Principessa dovette acconsentire alle nozze. Il giorno stabilito s'avviarono alla cattedrale con gran pompa e cerimonia. Nonsò e la cavalla seguivano il corteo regale ed entrarono in chiesa con grave scandalo dei presenti. Ma quando la cerimonia fu terminata, la pelle della giumenta cadde in terra e lasciò vedere una Principessa più bella della Bella dalle Chiome Verdi. Essa prese Nonsò per mano: - Sono la figlia del re di Tartaria. Vieni con me nel regno di mio Padre e sarò la tua sposa. Nonsò e la Principessa presero congedo dagli astanti stupefatti, né più se n'ebbe novella.

Prataiolo entrò nella sala immensa, e fu abbagliato dallo sfolgorio degli ori e delle gemme. Sedevano a mensa più di cinquecento persone, con a capo il Re, la Regina e la Principessa, bella ed assorta, pallida come un giglio. Prataiolo fece legare da un servo le gambe della Principessa, senza che i commensali se n'avvedessero, poi si rifugiò in un angolo e cominciò le prime note. Ed ecco un agitarsi improvviso fra i commensali, un fremere di gambe e di ginocchia... Poi tutti s'alzano d'improvviso, scostano le sedie, cominciano a ballare guardandosi l'un l'altro, spaventati. Principi, baroni, ambasciatori panciuti, baronesse pingui e venerabili, servi e coppieri, e financo i veltri, i pavoni, i fagiani farciti nei piatti d'oro, tutti si animarono, cominciarono a ballare la danza irresistibile. - Basta! Basta! Per pietà! - gridavano i più vecchi e i più pingui. - Avanti! Avanti ancora! - dicevano i più giovani, tenendosi per mano. La Principessa, legata alla sua sedia, tentava anch'essa d'alzarsi e guardava gli altri, e rideva giubilante. Quando piacque a Prataiolo, il suono cessò e i cinquecento ballerini caddero sfiniti sulle sedie e sui tappeti, le dame senza scarpette e senza parrucca. La Principessa rise per un'ora e quando poté parlare disse al Re: - Padre mio, costui mi ha risanata ed io sono la sua sposa. Il Re acconsentì, ma Prataiolo esitava. - Ho lasciata al paese la mia sorella di latte, bella come il sole e alla quale devo la mia fortuna; vorrei farvela conoscere. - Partite, dunque, e portatela fra noi - dissero i commensali. I mille cavalieri comparvero, occupando la sala immensa, fra lo stupore generale. - Mi sia portata Ciclamina, la mia piccola sorella -. E l'armata attraversò la Reggia, le sale, gli scaloni, con gran fragore. Poco dopo era di ritorno con la sorella Ciclamina. La fanciulla fu trovata così bella, che un ambasciatore se ne innamorò all'istante. E in uno stesso giorno furono celebrate le doppie nozze.

IL TRAMONTO D'UN IDEALE

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Marchesa Colombi 1 occorrenze

Di stare a disagio in quello ed in altri luoghi che altre volte l'avevano abbagliato addirittura..." Per fortuna il treno stava per partire, ed il sermone fu interrotto. Giovanni prese un coupé per esser solo e comodo, si sdraiò sul sedile, e, coll'occhio fisso sul vasto piano verde che gli si stendeva dinanzi traverso la vetrata, pensava Rachele, la sua visita, il loro incontro. Si ricordava benissimo il disegno grandioso del castello, le sale vaste dalle volte immense, dai cornicioni a bassorilievo; i mobili di lusso. Rachele, che aveva ricevuta un'educazione fine, aveva certo saputo mantenergli il suo carattere antico. Ma lei era moderna, e doveva essersi fatto un nido più simpatico. Si figurava un salottino un po' piccolo, con dei mobili piccoli, delle poltroncine basse e morbide, delle sedie a dondolo, dei piccoli divani turchi, dei tavolini di lacca, un pianoforte, una tavola da lavoro ingombra di ricami e di fiori; dei begli arazzi antichi drappeggiati artisticamente da un lato della parete, delle statuine di terra cotta, delle mensole di ceramica, una pelle di tigre, un tappeto turco, una scrivania aperta con tanti oggetti di bronzo artistico, calamaio, tagliacarte, premicarte, portapenne, tutte le inezie costose e belle che sa trovare il buon gusto delle signore. E dei libri, i libri moderni, che una donnina intelligente si fa mandare dal suo libraio man mano che escono. E dei fiori sulle tavole, sulle mensole, nelle giardiniere di ferro a rabeschi addossate alle finestre, dei fiori da per tutto. Ed in mezzo a quell'eleganza semplice e di buona lega, Rachele, vestita con uno di quegli abiti neri o scuri, tagliati col garbo inimitabile delle sarte più rinomate, che disegnano le forme senza stringerle, che adornano senza sfarzo, e senza impacciare i movimenti della persona. Colla sua ricchezza le era stato facile di procurarsi tutti i raffinamenti delle dame cittadine; vivendo in quel castello isolato aveva potuto mantenersi esente dal pettegolismo, dalle grettezze, dalle ridicolaggini delle donne di provincia. Egli conosceva una signora che viveva da parecchi anni in una sua villa della Brianza, ed era una delle donne più attraenti che frequentasse. La trovava sempre in una serra di cui aveva fatto il suo salotto da lavoro. Una grande vetrata che occupava il posto di tutta una parete apriva sulla campagna, chiusa in lontananza dalle montagne rocciose ed irte del lago di Lecco. Le altre pareti ineguali, formate di tufi su cui crescevano delle felci, dei licopodii, delle edere, ogni sorta di sempre verdi, davano l'illusione d'una grotta naturale, alla quale si fosse applicata semplicemente quella vetrata per abitarla anche l'inverno. Accanto alla serra c'era il salottino; e là quella dama giovine, bella ed elegante, viveva solitaria tra i fiori, la musica, i libri, vedendo appena qualche amico ogni tanto, scrivendo delle lunghe lettere piene di spirito, passando la sera con pochi conoscenti, spesso uno solo, che venivano da Milano per vederla; senza teatri, senza feste. I suoi discorsi avevano sempre un'elevatezza speciale, perché erano scevri da qualsiasi personalità. Il tempo che non perdeva nelle visite e nelle corse come si fa a Milano, le rimaneva tutto libero di dedicarlo alle letture, alla musica, al disegno; e dal suo stesso isolamento traeva una certa indipendenza dai pregiudizi e dalle convenzioni sociali, che le dava una superiorità sulle donne comuni. Giovanni si figurava Rachele così, e pensava che conducendola a Milano, dove egli doveva continuare a stare in causa della sua professione, non le lascerebbe frequentare che le signore più ammodo, d'un'educazione squisita, d'una riputazione immacolata. Ed invocava le immagini di quelle sposine del gran mondo che lo accoglievano amichevolmente nei loro salotti; e si compiaceva di immaginarsi la sua sposa a far parte di quel gruppo eletto, ed a figurarvi al pari e meglio delle altre. Alla stazione di Borgomanero prese un carrozzino per Fontanetto. Era domenica, e quando vi giunse era l'ora della benedizione. Le strade erano deserte. Il castello nereggiava in lontananza co' suoi muraglioni vecchi ed il largo fossato. Era la sola cosa che avesse conservato l'aspetto solenne d'altre volte; era la dimora signorile che conveniva alla sua bella castellana. Tutte le finestre erano aperte per lasciar entrare l'aria profumata della primavera, ma non ci si vedeva nessuno affacciato, non c'era movimento, pareva un maniero disabitato. Infatti, quando Giovanni scese dal carrozzino, tutto freddo e pallido per la commozione, e bussò al portone, il giardiniere che venne ad aprirgli disse che la signora era alla benedizione. Giovanni lasciò andare la carrozza, e s'avviò a piedi verso la chiesa. Il sole era tramontato, ma c'era sempre quella bella luce chiara ed uguale dei lunghi giorni di primavera, che non hanno serata. Tutta la campagna era verde, del bel verde lucido e fresco dell'aprile, e l'aria era leggiera e profumata. Tuttavia Giovanni si trovava un po' perduto in quel paese silenzioso, con tutti i portoni chiusi, che pareva un paese di morti. Si ripeteva ancora ed ancora che era l'ora dei vespri, che tutti erano in chiesa; ma che dopo le funzioni e prima, le case erano abitate, e nelle contrade circolava la gente. Avvicinandosi alla chiesa, udì il canto alto e stonato del Tantum ergo. Dovevano star poco ad uscire. Si mise a passeggiare di fuori aspettando. Era veramente strano di vedere quella bella figura da gentiluomo su quel rustico sagrato di villaggio. Da tutta la sua persona traspariva la lunga abitudine del lusso e della ricchezza. Nella furia di partire non aveva pensato a provvedersi una toletta da viaggio, e la sua vestitura da città, lucida, scura, attillata, le scarpine scollate, le calze di seta a colori, i guanti di pelle del Tirolo, stonavano in quella scena campestre. La chiesa era affollata e la porta era aperta. Molti devoti, che non erano giunti in tempo per prender posto di dentro, erano inginocchiati fuori sul sagrato. Appena alcune donne s'avvidero di quel bel signore, urtarono col gomito le vicine, si misero a ridere, poi tornarono a sbirciarlo ripetutamente, e tornarono a ridere fra loro, guardandosi e dimenticando di cantare. Gli uomini intanto, avvisati da quella mimica, si voltavano colla bocca spalancata nello sforzo del canto, e fissavano lungamente quel nuovo venuto, mandandogli contro le note rauche, come se fosse lui il Padre Eterno dal quale imploravano il raccolto, nel suo stravagante linguaggio latino che non capivano. Finalmente tacquero. S'intese la voce del prete dire l'oremus, poi tutti chinarono il capo, si sparse intorno un buon odore ed un fumo denso d'incenso, vi fu un momento di silenzio profondo, poi, senza organo, senza canto, sorse la voce baritonale del parroco a dire: "Dio sia benedetto!" E tutti risposero: "Dio sia benedetto!" E per una decina di minuti s'udì il cinguettio alto ed ingrato dell'orazione di Pio Nono, come il gracchiare d'un volo di cornacchie. Poi i contadini cominciarono ad uscire pigiati e lenti, parlucchiando tutti del bel signore di Novara, che era arrivato durante le funzioni e non s'era inginocchiato, e non aveva fatto il segno della croce: "Quella Novara era una Gomorra, un centro di corruzione, uno scandalo. Non era per nulla che ogni anno c'erano tempeste, o siccità, ed i raccolti andavano male, ed i bachi pure. I proprietari non avevano più religione, e il Signore li castigava, ed intanto i poveri contadini non avevano da mangiare; pativa il giusto pel peccatore..." Le donne non la pensavano tanto lunga, e s'accontentavano di dire: "Hai visto gli scarpini lustri? Oh! Ha le calzette di seta. Ha la pezzuola col ricamo come una signora" e nel passargli vicino si accorsero che aveva buon odore; e risero nascondendosi l'una dietro l'altra. Soltanto i bambini, che non si pigliano tante soggezioni, gli facevano cerchio intorno, e, col capo rovesciato indietro fin sulla nuca, e le mani dietro il dorso, stavano a guardarlo fisso, come se fosse uno spettacolo messo là per divertirli. E, man mano che ne sopraggiungevano di nuovi, davano spinte di qua e di là per entrare nel cerchio che i primi avevano fatto intorno al signore, e, se questi tenevano sodo, dicevano rinnovando le gomitate: "Fammi un po' di posto. Vuoi veder tu solo?" Le ultime ad uscire furono le signore. La moglie del farmacista, una donnina bruna, piccina, la quale era sempre stata tanto scarsa di capelli e di denti, e tanto incartapecorita, che il tempo le era passato sopra senza poterle fare gran danno; la segretaria che non si sarebbe potuta più chiamare né biondina bella né biondina sventurata, perché era tutta incanutita, ma che camminava sempre solennemente, diritta, colla testa alta ed il viso arcigno, mentre discorreva con due giovinette di cose affettuose; quelle due giovinette cresciute troppo di recente perché Giovanni potesse conoscerle, e finalmente Rachele. Era vestita di seta nera, con un velo nero. Il suo bel colorito roseo da bionda aveva presa una tinta un po' troppo viva; la persona alta e ben fatta, ingrassando aveva perduta la sua sveltezza. I capelli, sempre d'un biondo cinereo, erano ravviati e lisci, tirati sulle tempia, e raccolti stretti stretti sulla nuca; una pettinatura che scopriva la fronte, ed incorniciava l'ovale del volto alla maniera di certe Madonne di Raffaello; ma, come quelle, apparteneva all'arte antica. Ella non portava, come le eleganti di provincia, le mode dell'anno precedente, e neppure l'ultima moda, copiata troppo fedelmente dal figurino con tutte le sue esagerazioni di cattivo gusto e gli ardimenti di colori. Il suo vestito si componeva semplicemente d'una vita e d'una gonna, senza guarnizioni né gale: ed il bel velo di trina di Chantilly era messo semplicemente sul capo e sulle spalle, e raccolto dinanzi come il pezzoto delle donne genovesi. Quella vestitura che non ostentava nessuna pretesa d'eleganza, e realmente non ne aveva, non era neppure ridicola perché nella sua estrema semplicità non attirava l'attenzione, ed in quel paese rusticano era più adatta che i fronzoli cittadini. Ma le dava un'aria vecchia. Giovanni ebbe una rapida visione della figura che avrebbe fatta quella giovine matronale vestita come una massaia ricca, in mezzo alle donnine nervose, brillanti, graziose della società ch'egli frequentava; e gli parve che dovesse riescire ridicola; e stette ad esaminarla con espressione di malcontento. In quella Rachele rivolse verso di lui i suoi grandi occhi limpidi ed il suo volto calmo, e quell'espressione quasi sprezzante non le sfuggì. L'aveva subito riconosciuto; ma a lei pure avevano fatta un'impressione dolorosa la figura giovanile, l'apparenza di lusso e d'eleganza di Giovanni, ed aveva sentita la distanza enorme che li separava. Si fece rossa fino sulla fronte, rivolse altrove la faccia e continuò la sua strada senza più guardarlo, come se non l'avesse riconosciuto. Nell'isolamento in cui viveva, non aveva potuto avvezzarsi a nascondere i suoi sentimenti sotto l'apparenza d'una cordialità gioviale, a salutare sorridendo un uomo che, al solo apparire, mette il cuore in sussulto, a porgergli la mano con apparente serenità, ed a parlargli delle cose più estranee ai loro rapporti. Il suo primo impulso al vedere Giovanni era stato di corrergli incontro colle braccia stese, e di sfogare nel suo seno l'impeto di pianto che quella sorpresa di gioia le faceva salire alla gola. Ma la timidezza naturale, che cogli anni e colla solitudine era aumentata, la paralizzò. Tutto questo non aveva occupato che il primo istante, l'attimo del vederlo e del conoscerlo; nel secondo istante aveva indovinato il sentimento di spiacevole sorpresa che aveva prodotto in lui, s'era sentita ricadere dal sommo della gioia ad uno sconforto infinito. Giovanni le tenne dietro coll'occhio lungamente. Camminava lenta, a passi lunghi e misurati. Era alta e forte, ed il suo incedere riesciva un po' pesante e matronale come la sua persona. In quella vasta cornice di campagna e di monti, quella figura semplice, quell'abbigliatura semplice, quei modi d'una timidezza selvaggia, stavano bene e piacevano. Un pittore avrebbe copiata Rachele per farne appunto una Rachele figlia di Labano. Uno scultore avrebbe ammirate quelle belle forme da Giunone. E Giovanni pure l'ammirava, ma come si ammira la bellezza d'una contadina un po' matura. L'idea ch'egli si era fatta della sua sposa era tutt'altra. Come per istinto, provò il desiderio di correre daccapo a Borgomanero, e di riprendere il treno per Milano senza neppur presentarsi a Rachele; di fuggire. Pure, un pensiero lo intenerì. Gli tornava in mente la bella fanciulla che aveva lasciata dodici anni prima, con tanto avvenire dinanzi a sé, e tanta gioventù, e tanta grazia naturale ed intelligenza da poter diventare una delle più attraenti fra le signore della sua età. Era ricca; avrebbe potuto maritarsi in una grande città, fare una vita brillante. Ed invece s'era rinchiusa nel suo vecchio castello, aveva trascorsi solitari gli anni più belli della vita, lasciando spegnersi la vivacità giovanile del suo carattere, trascurando le grazie della persona, secondando le tendenze di calma, di gravità, che il tempo veniva sviluppando nella sua anima, rinunciando onestamente ad ogni ambizione, ad ogni arte per rendersi piacevole, dacché aveva rinunciato a piacere a quelli che l'avvicinavano, ed il solo a cui avrebbe voluto piacere era lontano. E tutto questo per lui. Poi si ricordava la sera del fossato quando le aveva detto con tutto l'ardore della sua giovine anima: "Vuoi esser mia?" E la giovinetta arrossendo aveva risposto una parola d'amore. Ed egli, graffiandosi le mani, lacerandosi gli abiti, era riuscito ad arrampicarsi sulla sponda del fossato fin alla base del terrazzo, ed aveva afferrato un piede della fanciulla, e l'aveva baciato. Da quel giorno egli aveva patito ogni sorta di privazioni, di dolori, aveva lavorato degli anni, ed avevano sofferto in due, per giungere al momento in cui si trovavano. Ed ora, che quel momento era giunto, egli avrebbe data volentieri tutta la sua gloria e la ricchezza faticosamente acquistata, per risentire la gioia ineffabile che aveva provata allora, nello stringere e nel baciare quel piede. Invece quella gioia era morta e morta per sempre. Il tempo l'aveva uccisa. Bastava di vedere Rachele, per esser convinti che una lunga abitudine l'aveva trasformata così in una campagnola. Era ancora Rachele, ma non era più il suo ideale; ed il cuore di Giovanni rimaneva freddo e calmo nel ritrovarla. Fece un giro intorno al sagrato per lasciare che si disperdesse la folla; ma i bambini lo seguivano sempre, facendo un gran rumore di zoccoletti. Egli allora costeggiò un tratto il Sissone, da un lato dove la sponda addossata ad un muraglione è tanto stretta che ci può passare una sola persona alla volta; ed i piccoli selvaggi, meno insistenti di quelli dei dintorni delle città, vedendo che il signore li sfuggiva, rimasero un tratto aggruppati sulla strada a guardarlo, poi si dispersero. Giovanni percorse un lungo tratto di quella sponda dove aveva passeggiato tante volte solitario per non essere distratto ne' suoi sogni d'amore. Poi tornò in su lentamente, e si diresse verso il castello. Non gli riusciva più di figurarsi la serra pittoresca, le poltroncine a dondolo, i mobilucci artistici, e tutto il nido elegante e profumato nel quale aveva collocato la bella solitaria nella sua immaginazione. Era triste e scoraggiato. L'aria cominciava a farsi meno chiara. Tutt'intorno i colli e la pianura prendevano una tinta grigia, e dai prati sorgeva una nebbiolina bianca che dava l'illusione d'un lago. I contadini s'erano ritirati nelle case per la cena. Le cicale tacevano, ed appena qualche grillo interrompeva tratto tratto l'alto e mesto silenzio della campagna. Giovanni guardò il castello, e vide Rachele che era rimasta sul portone, curva sul ponte come se guardasse nel fossato. "Mi aspetta" pensò. Ma Rachele era così assorta ne' suoi pensieri che non l'aveva veduto. Soltanto quando fu a poca distanza lo sentì venire; si rizzò sgomentata, ed invece di movergli incontro, rientrò precipitosamente in casa come se fuggisse. Quell'eccesso di selvatichezza sconcertò più che mai il gentiluomo cittadino. Il rossore che l'aveva infiammata tutta al riconoscerlo laggiù sul sagrato, e quel fermarsi sola e pensosa sul ponte, erano prove che la presenza di lui l'aveva commossa. E tuttavia scappava dinanzi a lui come una selvaggia. Egli crollò il capo in atto di sconforto, e passò sotto il portone sospirando. Nel cortile trovò una serva che lo introdusse nella grande sala del castello. Quella sala, che gli aveva imposta tanta soggezione il giorno della sua ultima visita al signor Pedrotti, ora gli parve grottesca. I grandi seggioloni panciuti erano vecchi senza essere antichi, e la loro forma moderna, e le imbottiture stonavano coi cornicioni e le portiere medioevali della sala. Sul camino troneggiava un grande orologio di bronzo dorato, fiancheggiato da due candelabri monumentali, tutti e tre religiosamente protetti da campane di vetro. Accanto al vecchio pianoforte a coda, erano disposti in ordine sulla scansia dei fascicoli di musica fuor di moda. Non c'erano gingilli artistici, né libri, né fiori, né piante, né giornali, né fotografie, né incisioni, né nessuna delle cose interessanti e belle di cui amano circondarsi le donne di buon gusto. Invece del profumo acre dei coni fumanti, o di quello soave della violetta, si sentiva quell'odore di ammuffito delle stanze lungamente rinchiuse. Era la sala inutile e disabitata delle case dove non si riceve punto. La solitudine di Rachele non era quella della elegante amica di Giovanni, interrotta dalla visita di pochi eletti, da un tè con alcuni privilegiati, che mantengono viva l'abitudine della conversazione, tengono lo spirito in esercizio, e non lasciano morire quell'ombra di vanità femminile che serve a conservare ed a mettere in risalto le attrattive naturali. Era solitudine vera, era obblio, era distacco del mondo nel quale egli viveva, e del quale s'era fatto una necessità come dell'aria che respirava. Rachele entrò rossa in volto e con fare impacciato. S'inchinò dicendo: "O signor Giovanni, come sta?" Poi si pose a sedere sul divano. Anche Giovanni provò un minuto di soggezione dinanzi a quella matrona timida e muta. Ma, senza spiegarlo ben chiaro a se stesso, si sentiva più rinfrancato da quell'accoglienza contegnosa, che non sarebbe stato da dimostrazioni d'affetto più vive. Prese dunque coraggio, e porgendo la mano, nella quale Rachele pose la sua lentamente, per ritrarla subito, le disse: "Ho tardato molto a venire, Rachele?" Ella arrossì più vivamente. Dunque era venuto per lei? Si ricordava la promessa? Non era tutto finito? Non poteva quasi crederlo. Dopo tanto tempo, s'era avvezza a considerarsi dimenticata, a pensare che non si mariterebbe mai più... Quella grande sorpresa di piacere le diede un tal sussulto al cuore che quasi le mancava il respiro, e non le fu possibile di rispondere. Giovanni, imbarazzato da quel silenzio tornò a dire: "Non mi rimprovera questo lungo ritardo?" "Meglio tardi che mai" rispose Rachele tanto per parlare. Ma il senso preciso di quelle parole applicato al caso suo le sfuggiva. Troppi pensieri le turbinavano nel cervello, nuovi, vitali, e che la coglievano di sorpresa. Quel sogno della sua gioventù non era morto; s'era creduta vecchia per l'amore, ed invece poteva ancora essere amata; ed il suo cuore si risvegliava! Ma era possibile che quel bel signore dal volto altero e freddo fosse lo stesso Giovanni di tanti anni prima? E sentisse allo stesso modo? O no; tanti anni prima si sarebbe commosso al vederla, i suoi occhi fissandosi su di lei si sarebbero empiti di lacrime, o avrebbero mandato lampi di passione. Quelli che aveva dinanzi non erano occhi da innamorato; quei modi sicuri, disinvolti, quella voce tranquilla, quello sguardo acuto, indagatore, che la esaminava come per contarle i capelli sul capo e per cercarle una ruga sul viso, non avevano nulla di comune coll'amore. Quel bel cittadino non l'amava. Ed allora perché era venuto? Perché? Ecco; era lui che rispondeva a quella domanda che lei non aveva espressa. "Ah! sicuro; meglio tardi che mai" aveva ripetuto dietro lei. E dopo una pausa, una breve pausa durante la quale Rachele aveva fatte tutte quelle riflessioni rapidissime, riprese: "Dunque crede che non sia troppo tardi?" Troppo tardi! Eccola la spiegazione di quella freddezza. Credeva suo dovere di tornare a lei, ma dopo esser tornato, dopo averla veduta, s'era accorto che, sulla giovinetta che amava altre volte, erano passati dodici anni; dodici anni di vita solitaria, fra gente zotica, fra occupazioni triviali; e quei dodici anni l'avevano invecchiata, inselvatichita; avevano distrutto l'ideale ch'egli aveva vagheggiato giovine, elegante, gentile, per farne una buona donna campagnola. O di certo era troppo tardi. La bella fanciulla aveva perdute le sue grazie, ma aveva serbato il suo buon senso per comprenderlo. "È vero" pensò. "Sono troppo vecchia per l'amore, sono troppo provinciale per lui; è disposto a sposarmi per sentimento d'onestà, soltanto per questo". Ed un gran dolore, un immenso sconforto le strinse il cuore. Il dubbio che l'aveva colta per via d'avergli fatta un'impressione sfavorevole, si confermò, divenne certezza. Si sentì morire di dentro, mentre stava là ritta, immobile sul divano, colle mani incrociate in grembo e gli occhi sulle mani. Giovanni dovette ricominciare a parlar lui; ma andava cauto; era andato là col proposito di sposare Rachele; ed ora aveva paura di compromettersi. Ma tuttavia era impossibile evitarlo. La loro situazione reciproca, tutto il passato li comprometteva. Bisognava parlare di quello ad ogni costo, abbandonarsi al destino. "Sicuro; meglio tardi che mai" disse. "Siamo ancora in tempo a mantenere le nostre promesse..." "O Dio! No" esclamò Rachele col pianto alla gola dinanzi a quella calma fredda che la umiliava. "Non parliamo del passato". "Perché?" domandò Giovanni col tono di voce indulgente che si usa per confortare una persona a cui si vuol molto perdonare. "Perché non è più tempo per me di pensare a... certe cose...". Egli l'ascoltò con aria afflitta, e disse per cortesia: "Ma che, le pare? È ancora molto giovine..." Ma i suoi occhi la fissavano con aria di pietà come se dicessero: "Pur troppo è vero, che peccato!" "No no" riprese lei. "Ci siamo avviati per due vie differenti..." Aveva cominciato a dire con fermezza; ma intanto che parlava, le si erano empiti gli occhi di lacrime e la voce s'era alterata; se avesse aggiunta una parola di più, se avesse detto come aveva in mente di dire: "Le nostre promesse erano ragazzate" sarebbe scoppiata in pianto; perché, soltanto il pensiero di dire quella cosa crudele, le aveva gonfiato il petto d'un singhiozzo, e l'aveva obbligata a star zitta per frenarlo. Giovanni, vedendola turbata a quel modo volle lasciarla sola, e se ne andò dicendo: "Ci ripenserà, Rachele. Ora l'ho presa all'improvviso; ci ripenserà; tornerò quando sarà più calma..." Sicuro; Giovanni pensava di tornare. Non poteva decorosamente troncar tutto così. A Fontanetto non c'erano alberghi dove una persona a modo potesse alloggiare. Dovette riprendere solo ed a piedi la strada di Borgomanero. "Mi fermerò alcuni giorni" diceva, "intanto lei rifletterà meglio". La strada era lunga, e tutta dritta e bianca alla luce fredda della luna. Durante quella camminata solitaria di più d'un'ora, egli ripensava tutto quello che s'erano detto laggiù al castello. Pur troppo era vero; quei dodici anni contavano per venti su Rachele. Non aveva più nulla della giovinetta svelta, rosea, elegante d'altre volte. Non era lusinghiero pel suo amor proprio presentare nelle società di Milano quella sposa matura. Si sarebbe riso; si sarebbe detto che la sposava pel denaro; perché Rachele era anche ricca. Finché aveva vagheggiata una bella fanciulla, non s'era mai dato pensiero di questi commenti della gente sulla sua ricchezza; ma ora aveva bisogno di pretesti per giustificare le sue esitazioni. Un momento rifletteva che quei dodici anni erano passati anche per lui; ma tutti pretendono che gli uomini non invecchiano. Infatti egli ne conosceva molti che a trentasei, trentotto anni avevano sposate delle giovinette di diciotto o venti; e non erano ridicoli, per questo. Ma del resto non era all'età per se stessa ch'egli badava; che! era superiore a codeste leggerezze. Considerava la necessità in cui era di vivere nel mondo; era un avvocato famoso, doveva essere deputato alle nuove elezioni; aveva bisogno una moglie avvezza alla vita cittadina, ai ricevimenti, che sapesse presentarsi in società e fare gli onori della sua casa... Rachele tal quale l'aveva trovata, impacciata, selvatica, antiquata in tutto, non poteva convenirgli. Lei stessa l'aveva riconosciuto; aveva dato prova di buon senso, e sarebbe stato indelicato da parte di lui ritornare su quell'argomento, rinnovarle una scena che evidentemente le era riescita dolorosa. Il suo amor proprio di donna ne avrebbe sofferto, perché non è mai senza pena che una donna si rassegna a riconoscere la sua età ed i guasti che il tempo ha fatti sulla sua persona. Era una triste, triste cosa, che il suo ideale fosse svanito così. Ci pensò lungo la notte, e ci pensò il mattino in ferrovia, mentre, tutto considerato, tornava a Milano senza aver cercato di rivedere Rachele. Poi ci pensò a Milano, lungamente, sempre. Ma sempre all'ideale, come l'aveva adorato tanti anni prima, giovine, bello, gentile... Forse lo trovò ancora più tardi sul suo sentiero, perché la donna matura di Fontanetto non era più quella, non era il suo ideale. E Rachele, appena rimasta sola, s'era lasciata cadere sul vecchio divano scolorito, e s'era abbandonata ad un pianto convulso, lungo, disperato. Lei lo sapeva che Giovanni non sarebbe tornato.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Il Manovale, che non aveva mai visto una bellezza simile, rimase abbagliato, e, da seduto che era, si trovò in ginocchio. - Alzati, - gli ordinò la Fata, con una voce squillante come un campanello - alzati e seguimi: ho bisogno di te. - Il Manovale si alzò sbalordito e seguì la Fata, la quale, entrata nella stanza dove dormivano la moglie e il bambino, si avvicinò a questo e gli aprì l'occhio destro: - Avrai angustie per conto suo, - disse al padre; quindi gli aprì l'occhio sinistro. - Farà correre grave pericolo alla sua sorellina; - e sempre circondata di luce e portata dalle nuvole luminose, la- sciò la stanza e uscì dalla stamberga fa- cendo segno al Manovale di seguirla. Era una notte buia come la gola del lupo, e il Manovale, prima di passare la so- glia di casa, si fermò e si voltò addietro. Gli dispiaceva di lasciar sola la moglie e il bambino. La Fata se ne accòrse. - Non temere; non si desteranno fin- ché tu sarai con me. - Il Manovale, rinfrancato da quella voce così squillante, si avventurò nella buia cam- pagna, dietro alla Fata circonfusa di luce. - Conta bene quanti pioppi passiamo, perché dobbiamo fermarci al tredicesimo. - Il Manovale non c'era caso che s'affa- ticasse a contare: dei pioppi non ce n’era neppur uno. Entrarono in un bosco folto folto dove c'erano gli alberi fitti come se fossero capelli. Il Manovale stava attento e tremava come una foglia temendo che, fra tante specie di piante, gli sfuggisse un pioppo. Guardava a destra, guardava a sini- stra, e ogni tanto ne contava uno. Quando furono nel più folto del bosco, accennò alla Fata un tronco di pioppo scortecciato e vuoto come una canna secca. Era il tredicesimo. La Fata si fermò e gli dette una chia- vicina d'oro, dicendogli: - Entra nel tronco di quel pioppo: c'è una scala a chiocciola; scendi finché trovi scalini. Quando sarai in fondo vedrai una porta; cerca il buco della serratura, mettici la chiave, e girala piano piano, perché se svegli il Nano, che ora dorme, è finita. Io m'alzerò al disopra del pioppo e cercherò di far penetrare fin giù un raggio della mia luce. Una volta entrato, avvicinati al letto dove dorme il Nano e rubagli tre cose che tiene sotto il guan- ciale: il vasetto del balsamo che cura tutte le ferite; l'anello dell'invisibilità, e la tromba fatata. Il balsamo e l'anello sono per me; la tromba puoi tenerla e ti gio- verà. - Il Manovale non fece discorsi: scese nella cavità della terra al chiarore che tra- mandavano le nuvole lucenti della Fata, e fece come essa gli aveva detto. Il Nano dor- miva saporitamente. Il Manovale gli mise una mano sotto il guanciale, acchiappò i tre oggetti, e poi risalì su. La Fata lo aspettava ansiosa. - Senti, conserva questa tromba e nei momenti di grande angoscia soffiaci dentro. Io sono la Fata della notte e viag- gio per l'emisfero; ma in qualunque punto io sia, ti sentirò e accorrerò in tuo aiuto. Ma tienla ben nascosta, perché se altri che tu ci avvicina le labbra, perde tutto l'effetto. Potrei farti ricco.... ma ho viaggiato tanto che ho dovuto convincermi che anche i ricchi sono molto infelici. - E la Fata della notte si allontanò, sol- levata dalle nuvole lucenti. Il Manovale, rimasto solo nel bosco, si pentì di aver lasciato la moglie e il bam- bino, che avevano forse bisogno di lui, per andare dietro a quella Fata, che per tutta ricompensa gli regalava una tromba; e già stava per buttarla via, quando sentì una vocina, che veniva dall'alto, dirgli: - Serbala e riponila; ma riponila bene che nessuno la trovi; quella tromba è preziosa. - Il Manovale fece una spallata e si mise la tromba sotto il braccio. Arrivò a casa: la moglie e il bambino dormivano sempre. Dove doveva riporla quella tromba, lui che in casa non ci aveva neppure un mobile? Gli venne daccapo voglia di but- tarla via; ma anche allora sentì una vo- cina che gli diceva: - Serbala! serbala! serbala, testardo, disprezzante che non sei altro! - Il Manovale era stanco morto, ma sen- tendosi dire e ripetere che la serbasse, scavò una buca fonda nell'impiantito della cucina, ce la nascose e poi la ricoprì; ma fede nella tromba non ne aveva davvero. L'anno dopo, nello stesso giorno, al Manovale nacque un altro figliuolo ma- schio, e la sera gli comparve la stessa Fata dalla cappa del camino; costei guardò e riguardò il neonato, e se ne andò senza aprir bocca. Il Manovale rimase di sasso. Era più povero che mai e aveva sperato grandi aiuti nella visita della Fata. Il fuoco era spento, il lume pure era spento e pane non ce n'era nella madia; ma alla tromba non ci volle ricorrere. Non sperava in nulla, al- tro che nel lavoro delle sue braccia. L'anno dopo, nello stesso giorno, gli nacque un terzo figliuolo, ma quella volta era una femmina e il Manovale, sgomento, vedendosi crescere la famiglia, la chiamò Miseria. Alla tromba non ci pensò neppure, ma si mise in cucina al buio ad aspettare la Fata: la Fata quella volta non venne. Il Manovale andò in cerca del bosco, dove c'erano i tredici pioppi. Il bosco non c'era più. Passò le notti a ciel sereno per vedere se scorgeva la Fata nei suoi viaggi nel firmamento. La Fata non passò mai. Intanto la famiglia cresceva e le tribola- zioni aumentavano. La sera della Befana i tre bambini lo avevano pregato e ripregato che desse loro un balocco. - Tutti i bambini stasera sono felici e a noi non tocca nulla! —piagnuco- lavano. Il Manovale si ricordò della tromba. Se la Fata aveva voglia di aiutarlo, egli pensava, non aveva bisogno che la chiamasse. Doveva essere un inganno: era meglio che con la tromba contentasse i bambini. Difatti li mandò a letto, quindi scavò nel luogo dove aveva nascosta la tromba e la trasse fuori lucida come uno specchio. La guardò, la rigirò, ebbe per un momento la tentazione di mettersela alla bocca; ma. si vinse, e posò la tromba sul letto dei suoi bambini che dormivano. In quella notte però ebbe un sogno. Vide la Fata che lo guardava in atto mi- naccioso, e si allontanava lasciando sulla sua casa una striscia di fuoco. La mattina dipoi dormì a lungo, e quando si alzò era pentito; voleva provare la virtù della tromba. La Fata aveva ragione d'essere in col- lera. Perchè l'accusava d'inganno prima di sincerarsi? Allora egli andò nella stam- berga che gli serviva di cucina, ma non trovò altro che i suoi due maschi, che piangevano. Che cos'era stato, che cosa non era stato? Lo voleva saper subito. Il maggiore aveva soffiato nella tromba avvicinandola all'orecchio di Miseria, e su- bito era comparso un turco nano, brutto quanto mai, e aveva portato via la bimba insieme con la tromba. Il Manovale si mise a piangere, la mo- glie si mise a piangere, i ragazzi piange- vano: Miseria era il cucco di tutti, l'alle- gria di casa; ma i pianti non servivano a nulla. Il povero padre specialmente faceva pietà. Senza quella creatura non aveva più forza di lavorare, non aveva più forza di lottare, non aveva più energia: nulla. Si mise in cammino per cercarla, e cammina cammina arrivò sulla sponda di un gran fiume largo, sterminato, che pa- reva il mare. Il povero uomo si lagnava. Come avrebbe fatto a passarlo? Non c'era nè una barca nè un ponte; nulla. Quando annotò, era sempre lì che ge- meva da far pietà ai sassi. Ad un tratto vide sorgere dal fondo limpido del fiume un gran chiarore, ma un chiarore così forte che gli permetteva di vedere la ghiaia nel letto del fiume, e i pesci che guizzavano nell'acqua. Avvolta in quel chiarore c'era la Fata, non più bella e sorridente come l'aveva veduta le prime due volte, ma con lo sguardo severo come eragli comparsa in sogno. Lentamente la Fata s'innalzò sopra le acque. - Non mi hai creduto, - gli disse severamente - e vedi a che ti trovi! - Il pover'uomo si raccomandava. Giurava che ora la credeva; che sa- rebbe andato chissà dove per ritrovare la sua Miseria. La Fata, vedendolo piangere e suppli- care a quel modo, si rabbonì, e gli disse che bisognava che penetrasse nella fortezza, dove si era barricato il Nano dopo che gli aveva rubato il balsamo, l'anello e la tromba; lì dentro c'era la sua Miseria, ma l'unico ingresso a quella fortezza era di- feso da una porta tutta di ferro, per aprir la quale occorreva una chiave d'oro, e la forza di dieci giganti per farla girare sui cardini. Egli le rispose che se gli dava la chiave d'oro, la forza di dieci giganti l'a- vrebbe avuta, pur di riportarsi a casa la sua Miseria. La Fata si trasse dalla cintura la chia- vicina d'oro e ordinò alle nuvole di trasportare il Manovale dalla parte opposta del fiume. Poscia lo informò che sulla sponda avrebbe trovato una grotta; dentro la grotta ci era un vestiario da turco; doveva in- dossarlo per non essere riconosciuto dal Nano, che vegliava sempre da un finestrino. Per la strada avrebbe incontrato un altro turco: dovevano camminare in compagnia e aspettare che battesse la mezzanotte per girare la chiave. Il Manovale ringraziò la Fata e fece come gli aveva detto. Alla porta della fortezza, si avvicinò insieme col turco. Questi aveva una scimitarra ter- ribile nascosta sotto il mantello. Quando suonò la mezzanotte, il Manovale mise la chiave nella serratura, ma appena andò per girarla, cento cani incominciarono ad abbaiare, e gli si scatenarono addosso. Il turco, con la scimitarra, tagliò la testa a tutti. Erano i cani del Nano. Dopo poco il Manovale, facendo uno sforzo terribile, spinse la porta, lasciando il compagno a guardia. Entrò dentro la fortezza. Camminava a tastoni per le stanze; c'era un buio come in gola al lupo, e il Manovale disperava di trovare la sua Miseria, quando dai larghi finestroni vide entrare un grande chiarore, che illuminò le sale ricchissime, tutte tap- pezzate di seta. In mezzo a una di quelle sale c'era un baldacchino d'oro, e sotto quel baldac- chino un letto. In quel letto dormiva Mi- seria. Sognava e chiamava la mamma, il babbo e i fratellini. Il Manovale se la prese in collo, l'av- volse nel suo lungo mantello bianco, e la portò via addormentata, uscendo con lei sano e salvo dal palazzo del Nano. Il suo compagno era sparito. Egli portò la bambina nella grotta dove si era vestito da turco, per riprendere i suoi panni, e ci trovò la Fata, alla quale espresse tutta la sua gratitudine, e restituì la chiave. La Fata fu commossa dall'affetto che aveva quel pover'uomo per la sua bam- bina. - Miseria non conoscerà la miseria - disse dandogli la chiave. - Questa ti servirà ad aprire una cassetta piena d'oro, che troverai sotto il sasso quadrato, che è nel tuo giardino; ma non te ne valere al- tro che quando ti manca il lavoro. - La Fata sparì dopo aver ordinato alle nuvole di trasportarlo al di là del fiume. Sparì nella luce dell'aurora, e il Ma- novale vide il Nano, che, montato sopra un cavallo, volendola inseguire, precipitò nel- l'acqua. Quel tenero padre tornò a casa con- tento come una pasqua con la sua cara Miseria, che si svegliò nel suo letto e credè d'aver sognato; e allora: Fecero un gran festino, Goderon proprio tutti; Io sol nel cantuccino Rimasi a denti asciutti.

Pagina 129

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679349
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Non la vidi che un minuto, ma ne fui abbagliato. Splendeva più del cielo!, - andava cauta ma tanto leggiera che non pareva toccasse la terra. Dopo il primo stupore calai giù, passai il ponte dello Strona e, girando intorno alla collina, passai la strada di Sulzena. Allo sbocco del sentiero della Carbonaia incontrai don Luigi. Allora aveva dei dispiaceri ed era triste, afflitto più di adesso. Ma quel dì mi sembrò tutt'altro: mi passò vicino senza vedermi, incantato come uno che viene dal paradiso. Il paragone di Baccio non mi sembrò punto strano: il suo racconto in cui altri più positivo di me non avrebbe visto che una fiaba grossolana, mi interessava grandemente. Lo ascoltai come la più seria cosa del mondo. Egli era certo in buona fede. Eravamo in sacristia dove don Luigi ci aveva lasciati soli per entrare in chiesa a parare l'altare per la benedizione. Il sacrestano mi fece la sua confidenza agitando il turibolo a ravvivarne le brace. Il barlume del crepuscolo cadeva dall'alte e strette finestrello su certi visi pallidi di madonne e di sante; il bisbiglio sommesso dei devoti che entravano in chiesa, certi echi profondi, un acuto profumo d'incenso, - la maestà del luogo disponevano l'animo al meraviglioso. Un po' di prodigio cresceva attrattive alla misteriosa figura del curato.

Se non ora quando

680648
Levi, Primo 1 occorrenze

L' uomo si guardava intorno stranito, confuso dagli scoppi e dalle voci concitate, abbagliato dalle lampade a carburo. Mottel gli chiese: _ Chi sei? di dove vieni? _ Al suono delle parole jiddisch trasalì sbalordito; non rispose, e chiese a sua volta: _ Ebrei? Ebrei qui? _ Sembrava una bestia presa in trappola. Cercava con gli occhi la porta, Mendel lo trattenne con un gesto, e lui si ritrasse in uno spasimo di difesa: _ Lasciatemi andare! Che cosa volete da me? _ Nella baracca ci si poteva oramai intendere solo urlando; ciò non ostante, Mendel finì col capire che l' uomo, che si chiamava Schmulek, era stato fermato dalla sentinella mentre passava di corsa accanto al posto di blocco: nel buio, era stato scambiato per un tedesco. Insieme, si rese conto che i polacchi stavano deliberando se aspettare sul posto l' Armata Rossa o disperdersi. Quando Schmulek ebbe capito che né gli ebrei erano prigionieri dei polacchi, né questi di quelli, e che nessuno voleva trattenerlo né fargli del male, scoppiò a parlare: che tutti lo seguissero, presto, subito. Lui era sfuggito a una bomba per miracolo, era rimasto sepolto dal terriccio smosso. Quasi a confermare le sue parole, ecco una esplosione assordante, vicinissima: la porta della baracca si sfondò, poi fu aspirata verso l' esterno dal risucchio. Le luci si spensero e il frastuono si fece assordante: adesso le bombe cadevano fitte, lontane e vicine, e le pareti della baracca scricchiolavano minacciando di schiantarsi. Non si capiva se venissero dagli aerei o dall' artiglieria. Tutti uscirono in disordine, nell' aria gelida illuminata dalle vampe: con l' autorità dell' uomo terrificato Schmulek gridava che gli venissero dietro, lui aveva un riparo, vicino, sicuro. Acchiappò a caso Bella per un braccio e la trascinò via a strattoni; Mendel ed altri li seguirono, forse più di una dozzina; gli altri si dispersero nel bosco. Schmulek correva curvo, di albero in albero, e gli altri venivano in fila indiana dietro di lui tenendosi per mano come ciechi. Alcuni alberi bruciavano. Mendel raggiunse Schmulek e gli gridò alle orecchie: _ Dove ci porti? _ ma quello continuò a correre. Li guidò a un bunker di tronchi, semiinterrato; accanto c' era un pozzo. Schmulek scavalcò il bordo, scese finché solo la testa emergeva, e disse: _ Venite, si passa di qui _. Nel bagliore rossastro degli incendi Mendel e gli altri scesero a loro volta; nell' interno del pozzo erano murati arpioni di ferro arrugginiti. A due o tre metri più in basso si apriva un foro, entrarono a tentoni e si trovarono in un cunicolo in leggera discesa; più oltre era una cavità scavata nella terra argillosa, con la volta puntellata da paletti. Qui li aspettava Schmulek, ansimante, con una torcia accesa in mano. _ Io vivo qui, _ disse a Mendel. Mendel si guardò intorno. C' erano Dov, Bella, Mottel, Line, Piotr; Gedale non c' era, c' erano invece sei o sette degli scampati di Ruzany e di Blizna, e quattro polacchi che non conosceva. Là sotto i rombi delle esplosioni arrivavano attutiti; l' aria era umida e odorava di terra. Nelle pareti erano scavate delle nicchie in cui si intravvedevano oggetti indistinti, coperte arrotolate, vasi, pentole. Lungo una parete correva una panca; sul pavimento di terra battuta c' erano frasche e paglia. _ Sedetevi, _ disse Schmulek. _ Da quanto tempo stai qui? _ chiese Dov. _ Da tre anni, _ rispose. Intervenne Line: _ Sei solo? _ Sono solo. Prima c' era mio nipote, un ragazzo. È uscito a cercare da mangiare e non è ritornato. Ma sei mesi fa eravamo dodici, l' anno scorso eravamo quaranta e due anni fa più di cento. _ Tutti qui dentro? _ chiese Line incredula e inorridita. _ Guardate laggiù, _ disse Schmulek alzando la torcia: _ il cunicolo prosegue, si dirama, ci sono altre tane. Ci sono anche altre due uscite, dentro due querce scavate dal fulmine. Vivevamo male, ma vivevamo. Se avessimo potuto rimanere sempre sotto terra, non ci avrebbero trovati, e sarebbero morti solo quelli che si sono presi il tifo. Ma dovevamo pure uscire, per trovare da mangiare, e allora ci sparavano. _ I tedeschi? _ Tutti. I tedeschi, gli ungheresi, gli ucraini. Qualche volta anche i polacchi: eppure noi eravamo tutti polacchi, eravamo fuggiti dai ghetti qui intorno. Non si poteva mai sapere: a volte ci lasciavano passare, a volte ci sparavano come alle lepri, altre volte invece ci davano da mangiare. Gli ultimi che sono venuti non erano partigiani, erano banditi, avevano solo dei coltelli. Sono venuti di sorpresa. Hanno scannato quelli che restavano e hanno portato via tutto quello che avevamo. _ Tu come ti sei salvato? _ chiese Mendel. _ Per caso, _ disse Schmulek. _ Nella vita civile io ero mercante di cavalli, giravo per i villaggi di questa zona, conoscevo tutte le vie dei boschi. Parecchie volte ho fatto da guida ai partigiani. In settembre ho fatto da guida a un gruppo di soldati russi che erano scappati da un Lager tedesco; volevano andare sui monti della Santa Croce, e io li ho condotti fuori della foresta. È stato allora che sono venuti i banditi e hanno fatto il massacro. Anche il ragazzo era fuori per caso. _ Li abbiamo trovati, quei soldati russi, _ disse Mendel. _ Sono stati accerchiati dai tedeschi; sono morti tutti. Ma adesso la guerra sta per finire. _ Non mi importa che finisca la guerra. Quando la guerra sarà finita, anche gli ebrei di Polonia saranno finiti. Non mi importa più di niente. Mi importa che voi avete avuto il coraggio di prendere il fucile, e io questo coraggio non l' ho avuto. _ Questo non vuole dire nulla, _ disse Mendel, _ ti sei reso utile diversamente. Combattere non è un mestiere per gente anziana. _ Quanti anni credete che io abbia? _ Cinquanta, _ tentò Dov: ma pensava settanta. _ Ne ho trentasei, _ disse Schmulek. Fuori, la battaglia continuava; nella tana di Schmulek non perveniva che un rombo sordo, interrotto a tratti da colpi più forti che facevano tremare la terra, e piuttosto che con le orecchie si percepivano col corpo intero. Ciò non di meno, a metà della notte dormivano tutti, benché sapessero che quelle ore erano decisive: l' ansia stessa e l' attesa li avevano estenuati. Mendel si trovò sveglio a tarda mattina, e si accorse che lo aveva svegliato il silenzio. La terra non tremava più; non c' era altro suono se non il respiro pesante dei dormienti. L' oscurità era assoluta. Tastò accanto a sé; riconobbe a sinistra il corpo sottile di Bella, a destra i panni ruvidi e il cinturone di un polacco. Poteva essere solo una tregua; o i russi potevano essersi ritirati, e il loro rifugio trovarsi nella terra di nessuno. Ma poi il suo orecchio, acuito dal silenzio, colse un suono improbabile, infantile, non sentito da anni. Campane: erano proprio campane, uno scampanio tenue, fragile, filtrato dalla terra che li seppelliva; un carillon giocattolo che suonava a festa, e voleva dire che la guerra era finita. Fu sul punto di svegliare i compagni, ma si trattenne: più tardi, c' era tempo, ora aveva altro da fare. Che cosa? Fare i conti, i suoi conti. Si sentiva come sfuggito a un mare in tempesta, e approdato solo su una terra deserta e sconosciuta. Non pronto, non preparato, vuoto; tranquillo e scarico, come è tranquillo un orologio scarico. Tranquillo e non felice, tranquillamente infelice. Gonfio di memorie: Leonid, l' usbeco, la banda di Venja, fiumi e boschi e paludi, la battaglia del monastero, Ulybin, il ritorno di Dov. La bambina di Valuets con le sue capre, Line, Sissl. Mendel il senza-donne. Rivide, al di là delle palpebre, il viso affilato di Rivke, con gli occhi suggellati, i capelli contorti come serpenti. Rivke sotto terra come noi. È lei che mi soffia via le altre donne d' intorno, come la crusca dal grano. Balebusteh ancora; chi ha detto che i morti non hanno più potere? Gremito di memorie, e insieme pieno di dimenticanza: le sue memorie, anche recenti, erano sbiadite, avevano contorni incerti, si accavallavano con sua fatica, come se qualcuno tracciasse disegni sulla lavagna e poi li cancellasse a mezzo e ne facesse dei nuovi sopra i vecchi. Forse ricorda così la sua vita chi ha cento anni, o i patriarchi che ne avevano novecento. Forse la memoria è come un secchio; se ci vuoi mettere più frutti di quanti ce ne stiano, i frutti si schiacciano. Le campane intanto continuavano a suonare, chissà dove: in un qualche villaggio i contadini dovevano fare festa, l' incubo nazista per loro era finito, il peggio era finito. Dovrei anch' io far festa e suonare le mie campane, pensava Mendel aggrappandosi al sonno perché non lo lasciasse. Anche la nostra guerra è finita, è finito il tempo di morire e di uccidere, eppure io non sono contento e vorrei che il sonno non finisse mai. La nostra guerra è finita, e siamo sigillati in una tana di terra e dobbiamo uscire e ricominciare a camminare. Questa è la casa di Schmulek che non ha casa, che ha perso tutto, anche se stesso. Dov' è la mia casa? È in nessun luogo. È nello zaino che mi porto dietro, è nel Heinkel abbattuto, è a Novoselki, è nel campo di Turov e in quello di Edek, è di là dal mare, nel paese delle fiabe, dove scorre il latte e il miele. Uno entra in una casa e appende gli abiti e i ricordi; dove appendi i tuoi ricordi, Mendel figlio di Nachman? Ad uno ad uno si svegliarono tutti, e tutti facevano domande ma nessuno sapeva rispondere. Il fronte era passato, non c' era dubbio; che fare adesso? Aspettare ancora, come raccomandava Schmulek? Uscire incontro ai russi? Uscire a cercare cibo? Mandare qualcuno in avanscoperta? Dov si offrì di andare ad esplorare la situazione: aveva le carte in regola, parlava russo, aveva addosso l' uniforme russa, un documento russo, era russo infine, più regolare di Piotr. Si avviò per il cunicolo ma subito tornò indietro: bisognava aspettare, qualcuno stava calando un secchio nel pozzo. Il secchio risalì pieno, Dov poté uscire, e si trovò in mezzo ad un plotone di soldati che, nudi fino alla cintura, si stavano lavando gioiosamente nell' acqua che avevano raccolta in un abbeveratoio. Sul terreno c' era un palmo di neve, scalpicciata e mezza sciolta dagli incendi della notte. Poco lontano altri soldati avevano acceso un fuoco e vi facevano asciugare gli abiti. Accolsero Dov con indifferenza bonaria: _ Ehi, zio! Da dove spunti? Di che reggimento sei? _ Per poco non ti tiravamo su dentro il secchio! _ Ve lo dico io, da dove viene: ha preso una sbornia e ci è caduto dentro. _ O ce lo hanno buttato. Di' , zio: sono stati i tedeschi a buttarti nel pozzo? o ci sei sceso tu per metterti al riparo? _ In questo paese si vedono delle cose strane, _ disse pensieroso un soldato mongolo. _ Ieri, in mezzo alla battaglia, ho visto una lepre: invece di scappare stava lì come incantata. E il giorno prima ho visto una bella ragazza in una botte .... _ Che cosa faceva nella botte? _ Niente. Stava lì nascosta. _ E tu che cosa hai fatto? _ Niente. Le ho detto "Buon mattino, panienka, mi scusi il disturbo", e ho richiuso il coperchio. _ O sei bugiardo o sei stupido, Afanasij; una lepre si fa arrosto, e con una ragazza si fa all' amore. _ Insomma, volevo solo dire che questo è un paese strano. Ieri la lepre, ieri l' altro la ragazza, e adesso salta fuori dal pozzo un soldato con i capelli bianchi. Vieni qui, soldato: se non sei un fantasma prendi un po' di vodka, e se sei un fantasma torna da dove sei venuto. Si avvicinò a Dov il caporale del plotone, lo palpò e disse: _ Ma tu non sei neppure bagnato! _ Nel pozzo c' è un' apertura, _ disse Dov; _ adesso ti spiego. Il caporale disse: _ Vieni con me al Comando: spiegherai tutto laggiù. Mezz' ora dopo Dov e il caporale ritornarono accompagnati da un tenente che portava al braccio la fascia dell' NKVD; al vederlo, i soldati interruppero le loro chiacchiere e ripresero a lavarsi. Il tenente disse a Dov di ridiscendere nel pozzo e di fare uscire tutti quelli che stavano nascosti. Vennero fuori uno per uno, nella luce bianca del cielo che minacciava altra neve, fra lo stupore silenzioso dei russi. Il tenente ordinò a due soldati di rivestirsi e prendere le armi, e fece scortare il drappello lungo il cammino inverso di quello che avevano percorso nella notte sotto la guida di Schmulek; li riportò cioè alle baracche del campo polacco. Qui trovarono Edek con Marian e quasi tutti i loro uomini; c' era anche Gedale con i gedalisti che non avevano seguito Schmulek. Sia i polacchi, sia gli ebrei erano stati disarmati, e la baracca dove essi erano rinchiusi era sorvegliata da due sentinelle russe. Per tutto il giorno non avvenne nulla. A mezzogiorno vennero due soldati e portarono pane e salsiccia per tutti; a sera arrivò una marmitta con zuppa calda di miglio e carne. I prigionieri erano più di cento, e nella baracca stavano stretti, protestarono con le sentinelle, venne il caporale e li divise in due gruppi, uno per baracca, per il che dovette raddoppiare la sorveglianza. Né il caporale né i soldati erano ostili; alcuni sembravano incuriositi, altri seccati, altri ancora avevano l' aria di volersi scusare. I polacchi erano inquieti, ed umiliati per aver dovuto consegnare le armi. _ Coraggio, Edek, _ disse Gedale. _ Il peggio è passato. Per male che vada, questi non ci tratteranno come facevano i tedeschi. Lo hai visto, con loro si ragiona _. Edek non rispose. Al mattino arrivò un bidone di surrogato di caffè, e poco dopo venne il tenente, accompagnato da uno scrivano. Sembrava di cattivo umore ed aveva fretta. Trascrisse i dati personali di tutti su un quadernetto da scolaro, e a tutti fece mostrare le mani, il palmo e il dorso, esaminandole con attenzione. Quando ebbe finito, ripartì i reclusi in tre gruppi. Il primo gruppo era costituito dalla maggior parte dei polacchi. _ Voi siete soldati, e continuerete ad essere soldati. Riceverete divise ed armi, e sarete inquadrati nell' Armata Rossa _. Ci furono commenti, mormorii, qualche protesta; le sentinelle abbassarono le canne dei mitra, e le proteste si spensero. _ Voi ci sarete utili in altro modo, _ disse rivolto al secondo gruppo. Questo era assai smilzo: ne faceva parte Edek con una mezza dozzina di ex studenti ed impiegati. _ Io sono il comandante di questo plotone, _ disse Edek pallido come la neve. _ Non c' è più plotone e non c' è più comandante, _ disse il tenente. _ L' Armia Krajowa è stata disciolta. _ Disciolta da chi? Disciolta da voi! _ No, no. Si è disciolta da sola, non aveva più ragione di esistere. La Polonia la stiamo liberando noi. Non avete sentito la radio? No, non la nostra, Radio Londra: sono tre giorni che trasmette un messaggio del vostro comandante. Vi saluta, vi ringrazia, e vi dice che la vostra guerra è finita. _ Dove ci manderete? _ chiese ancora Edek. _ Non lo so, e non mi riguarda. Io ho solo ordine di mandarvi al comando di zona; lì avrete tutte le informazioni che desiderate. Il terzo gruppo era costituito dai gedalisti più Schmulek, ossia da tutti gli ebrei più Piotr. Mendel non aveva notato prima, e notò allora, che Piotr aveva deposto la sua logora divisa di partigiano, quella che gli aveva vista indosso fin dal campo di Turov. Era alto e snello come Gedale, e indossava i panni borghesi che Gedale aveva sfoderati dopo il colpo di Sarny. _ Quanto a voi altri, _ disse il tenente, _ per ora non ci sono ordini. Civili non siete, militari neppure, non siete prigionieri di guerra, siete uomini e donne e non avete documenti. _ Compagno tenente, noi siamo partigiani, _ disse Gedale. _ I partigiani sono quelli che fanno parte dei reparti partigiani. Di partigiani ebrei nessuno ha mai sentito parlare, è una voce nuova. Voi non fate parte di nessuna categoria. Per adesso restate qui: ho chiesto istruzioni. Avrete il trattamento che spetta ai nostri soldati. Poi si vedrà. La banda di Gedale, ritornata dopo più di tre mesi allo stato puro originario, conobbe giorni d' inerzia e di sospetto. Verso la fine di gennaio, dalla finestrella della baracca videro partire i polacchi del secondo gruppo in mezzo alla neve che cadeva fitta. Per l' occasione, il tenente aveva fatto sbarrare le porte; dovettero accontentarsi di salutare Edek attraverso i vetri. Salito sull' autocarro, Edek agitò la mano verso di loro; l' autocarro partì con un sobbalzo, e Sissl scoppiò a piangere. A differenza dagli altri, Dov, Mendel, Arié e Piotr avevano appartenuto all' Armata Rossa, e non avrebbero avuto difficoltà a chiarire la loro posizione. Piotr non ebbe dubbi: _ Non hanno fatto distinzioni, e per me va bene così. È chiaro che all' NKVD in questo momento interessano solo i polacchi: Stalin non vuole partigiani polacchi fra i piedi. _ Ti hanno preso per un ebreo! _ disse Gedale divertito. _ Del resto, te lo sei meritato. _ Non lo so. Il tenente mi ha fatto due o tre domande, ha visto che rispondevo in russo e si è accontentato. _ Hm, _ disse Gedale, _ secondo me la tua faccenda non è ancora conclusa. _ Per me è conclusa, _ rispose Piotr. _ Io resto con voi. Neppure Dov ebbe dubbi, ma nel senso opposto. La sua decisione non era cambiata, anzi, era stata rafforzata dalle avventure più recenti; era stanco di combattere e di vagabondare, stanco di incertezze e di vita precaria, voleva tornare a casa, lui che una casa ce l' aveva. Una casa lontana, non toccata dalla guerra, in un paese che la distanza nel tempo e nello spazio aveva reso fiabesco: il paese delle tigri e degli orsi, dove tutti erano come lui, ostinati e semplici. In quel paese, che Dov non si saziava di descrivere, il cielo invernale era viola e verde: vi tremolavano le aurore boreali, e ne era scaturita quando lui era bambino la cometa terribile. Mutoraj, con i suoi quattromila abitanti confinati, nichilisti e samoiedi, era un paese unico al mondo. Dov se ne andò in silenzio, triste senza disperazione. Si mise a rapporto con l' intendenza russa, dichiarò la sua posizione militare e i suoi trascorsi, a loro richiesta stese in bella scrittura una relazione sulle circostanze in cui era stato prelevato da Turov, curato all' ospedale di Kiev e riportato in zona partigiana, ed attese. Dopo due settimane prese congedo da tutti, ed uscì decorosamente di scena. Quanto a Mendel ed Arié, sotto questo aspetto non si posero problemi, né alcun problema gli fu posto dai russi. Il fronte si era rapidamente allontanato verso ponente; il tenente dell' NKVD non si fece più vedere, e la sorveglianza intorno alle baracche si fece sempre più rilassata fino a sparire del tutto. La banda di Gedale, al completo, venne trasferita ai primi di febbraio in una scuola, nella cittadina di Wolbrom poco lontana, e qui abbandonata a se stessa: il presidio russo, che del resto era costituito soltanto da un vecchio capitano e da pochi soldati, non si curava di loro, se non per portare i rifornimenti prelevati dai magazzini militari: patate, rape, orzo, carne, sale. Il pane arrivava già pronto da un forno requisito, ma le operazioni di cucina dovevano essere svolte sul posto, e attrezzi nella scuola non ce n' erano né i russi ne avevano forniti. Gedale ne fece regolare richiesta, il capitano promise, e non arrivò niente. _ Andiamo in città e ce li procuriamo, _ disse Gedale. L' impresa si rivelò più facile del previsto. La cittadina era deserta e sinistra; doveva essere stata bombardata, e poi saccheggiata più volte, ma sempre con fretta. Nelle case smozzicate, nelle cantine, nei solai, nei rifugi antiaerei, si trovava di tutto. Non solo le marmitte, ma sedie, coperte imbottite, materassi, mobili di ogni tipo. Altri mobili arrivavano ogni giorno sul mercato che si era spontaneamente costituito sulla piazza principale. Cumuli di mobilio mezzo sfasciato venivano venduti come legna da ardere: l' offerta era grande e la quotazione bassa. In breve tempo la scuola venne trasformata in un ricovero abitabile, seppure poco accogliente; ma fornelli non ce n' erano, né nei locali né nelle vicinanze, e la zuppa doveva essere cotta su fuochi all' aperto, nel cortile, accanto alla pista di sabbia per il salto in lungo. In compenso, in una delle aule i gedalisti eressero un maestoso letto matrimoniale per Ròkhele Bianca e Isidor, sormontato da un baldacchino che avevano ricavato da coperte militari. Il capitano russo era un uomo malinconico e stanco. Gedale e Mendel andarono più volte a parlargli, per avere da lui qualche informazione sulle intenzioni delle autorità russe nei loro riguardi. Fu gentile, distratto ed elusivo; lui non sapeva nulla, nessuno sapeva nulla, la guerra non era finita, bisognava aspettare la fine della guerra. In guerra lui aveva perso due figli, e di sua moglie a Leningrado non aveva più notizie. Avevano da mangiare e da scaldarsi: aspettassero, come tutti aspettavano. Anche lui aspettava. Forse la guerra non sarebbe finita così presto; nessuno poteva saperlo, forse sarebbe continuata, chi sa? Contro il Giappone, contro l' America. Un permesso per andarsene? Lui non poteva dare permessi, era un' altra amministrazione; e del resto andarsene dove? Verso dove? C' erano in giro bande di ribelli polacchi e tedeschi, bande di briganti; su tutte le strade i sovietici avevano stabilito posti di blocco. Che non tentassero di uscire dalla città: non sarebbero andati molto lontano, i posti di blocco avevano ordine di sparare a vista. Lui stesso evitava di spostarsi, se non per obblighi di servizio; era già successo che i soldati sovietici si sparassero fra loro. Ma Gedale sopportava male la clausura. A lui, e non solo a lui, quel modo di vivere sembrava vuoto, umiliante e ridicolo. Uomini e donne svolgevano a turno le operazioni di cucina e di pulizia, e rimanevano valanghe di tempo libero; paradossalmente, con una città intorno, un tetto sul capo e una tavola attorno a cui mangiare, provavano un disagio indefinito, che era la nostalgia per la foresta e per la libera strada. Si sentivano inetti, stranieri: non più in guerra, non ancora in pace. A dispetto delle raccomandazioni del capitano, uscivano spesso, a piccoli gruppi. A Wolbrom la guerra era finita, ma continuava accanita non molto lontano. Attraverso la cittadina, e sulla strada di circonvallazione in terra battuta, passavano senza sosta, di giorno e di notte, i reparti militari sovietici diretti al fronte slesiano. Di giorno, piuttosto che un esercito moderno sembrava che passasse un' orda, una migrazione: uomini di tutte le razze, giganti vichinghi e lapponi atticciati, caucasici abbronzati e siberiani pallidi, a piedi, a cavallo, su autocarri, su trattori, su grandi carri trainati da buoi, alcuni perfino a dorso di cammello. C' erano militari e borghesi, donne vestite in tutti i modi possibili, vacche, pecore, cavalli e muli: a sera, le squadre si fermavano dove si trovavano, piantavano le tende, macellavano le bestie e arrostivano la carne su fuochi improvvisati. Questi bivacchi estemporanei brulicavano di bambini, infagottati in panni militari fuori misura; alcuni portavano pistole e coltelli alla cintura, tutti avevano la stella rossa appuntata sull' enorme berretto di pelliccia. Chi erano? Da dove venivano? Mendel e i suoi compagni si soffermarono a interrogarli: parlavano russo, ucraino, polacco, alcuni anche jiddisch, altri rifiutavano di parlare. Erano restii e selvaggi, erano orfani di guerra. L' Armata Rossa, nella sua avanzata attraverso paesi devastati, ne aveva rastrellati a migliaia, tra le macerie delle città, sperduti per i campi e i boschi, affamati e raminghi. I sovietici non avevano tempo di sistemarli nelle retrovie né mezzi per trasferirli più lontano: se li trascinavano dietro, figli di tutti, soldati anche loro, anche loro in cerca di preda. Si aggiravano intorno ai fuochi; alcuni militari davano loro pane, zuppa e carne, altri li cacciavano via infastiditi. Sorprendentemente diverse erano le truppe che attraversavano la città nelle ore buie. Mendel, che conservava il ricordo bruciante dei reparti accerchiati e fatti a pezzi nelle grandi battaglie di annientamento del '41 e del '42, stentava a credere ai suoi occhi. Ecco, era quella la nuova Armata Rossa che aveva spezzato la schiena della Germania; un' altra, irriconoscibile. Una macchina poderosa, ordinata, moderna, che sfilava quasi senza rumore per la via principale della città oscurata. Carri armati giganteschi montati su rimorchi dalle ruote gommate; cannoni semoventi mai visti né sognati prima; le Katijuse leggendarie, coperte da teli che ne nascondevano le fattezze. Frammiste alle artiglierie ed ai reparti corazzati marciavano anche squadre appiedate, in ordine chiuso, cantando. I loro non erano canti bellicosi, anzi melanconici e sommessi; non esprimevano sete di guerra, come quelli dei tedeschi, bensì il lutto accumulato in quattro anni di strage. Mendel, l' artigliere Mendel, assisteva al passaggio con l' animo scosso. Nonostante tutto, nonostante la sconfitta disastrosa e colpevole che lo aveva costretto alla macchia, nonostante il disprezzo e i torti che in altri tempi aveva subiti, nonostante Ulybin, era pure quello l' esercito di cui lui ancora portava addosso l' uniforme logora e stinta. Un "krasnoarmeetz": tale era ancora, anche se ebreo, anche se in cammino verso un altro paese. Quei soldati che passavano cantando, miti in pace e indomabili in guerra, quei soldati fatti come Piotr, erano i suoi compagni. Sentiva il suo petto sollevarsi per una piena di affetti che facevano lite: fierezza, rimorso, risentimento, reverenza, gratitudine. Ma un giorno udì gemiti uscire da una cantina; vi discese con Piotr, e vide dieci militi della Waffen-SS coricati sul ventre e seminudi: alcuni si trascinavano a forza di braccia, tutti avevano un taglio sanguinante a metà della schiena. _ I siberiani fanno così, _ disse Piotr, _ quando li trovano non li uccidono, ma gli tagliano il midollo _. Risalirono in strada, e Piotr aggiunse: _ Non vorrei essere un tedesco. Eh no, nei prossimi mesi non vorrei proprio essere un berlinese. Un mattino si svegliarono e trovarono, tracciata a catrame sulla facciata della scuola, una croce uncinata; sotto stava scritto: "NSZ _ Morte agli ebrei bolscevichi". Poco dopo, dalla finestra del primo piano, videro in strada tre o quattro giovani che parlavano fra loro e guardavano in su. La sera stessa, mentre erano seduti a mangiare, il vetro della finestra volò in schegge, e tra le gambe del tavolo piombò una bottiglia a cui era legata una miccia accesa. Il più pronto fu Piotr: in un lampo acchiappò la bottiglia, che non si era rotta, e la ributtò in strada. Ci fu un tonfo, e sul selciato si formò una pozza accesa che bruciò a lungo; la fiamma fumosa arrivava fino alla loro finestra. Gedale disse: _ Bisogna trovare armi e andare via. Anche trovare armi fu più facile di quanto si erano aspettato: vi provvidero, per vie diverse, Schmulek e Pavel. Nella sua tana c' erano armi, disse Schmulek: non molte ma ben conservate, sepolte sotto la terra battuta. Chiese a Gedale un accompagnatore, partì al tramonto e tornò all' alba con diverse pistole, bombe a mano, munizioni e un mitra. Dopo la morte di Jòzek, Pavel gli era subentrato nella funzione di furiere, e riferì che comperare armi al mercato era più facile che comperare il burro e il tabacco. Ne offrivano tutti, alla luce del sole; i russi stessi, sia i militari di passaggio, sia i civili che seguivano le truppe, vendevano armi leggere tedesche trovate nei depositi o sui campi di battaglia; altro materiale lo offrivano con disinvoltura i polacchi della milizia che i russi avevano frettolosamente messa in piedi. Molti di questi, appena arruolati, disertavano con le armi e raggiungevano bande che si preparavano alla guerriglia; altri vendevano o barattavano le armi al mercato. In pochi giorni i gedalisti si trovarono in possesso di parecchi coltelli e di una dozzina di bocche da fuoco scompagnate; non era molto, ma poteva bastare per tenere lontani i terroristi della destra polacca. A fine febbraio il capitano russo chiamò Gedale a rapporto, e lo tenne a parlare per più di un' ora. _ Mi ha offerto da fumare e da bere, _ riferì Gedale ai compagni. _ Non è così distratto come sembra, e secondo me ha ricevuto un' imbeccata. Ha saputo della bottiglia Molotov, dice che sono tempi difficili e che è preoccupato per noi. Che loro non sono in grado di garantire la nostra sicurezza, e che faremmo bene a proteggerci da soli: in altre parole, si è accorto delle armi e gli sta bene che noi le abbiamo. È naturale, l' NSZ gli deve piacere come a noi. Ha ripetuto che questo è un brutto posto; me lo aveva già detto l' altra volta, ma allora diceva che uscire di città era pericoloso, e invece oggi mi ha chiesto perché restiamo qui. "Potreste andare più avanti, ormai il fronte è lontano: più avanti, incontro agli alleati ...." Io gli ho detto che vorremmo andare in Italia, e di lì cercheremmo di passare in Palestina, e lui ha detto che facciamo bene, l' Inghilterra dalla Palestina se ne deve andare, e così pure dall' Egitto e dall' India: gli imperi coloniali hanno le ore contate. E in Palestina dobbiamo andarci noi, a costruire il nostro stato. Mi ha detto che lui ha molti amici ebrei, e che ha perfino letto il libro di Herzl: ma questo credo che non sia vero, oppure lo ha letto male, perché mi ha detto che in fondo anche Herzl era un russo, mentre invece era ungherese; io però non l' ho contraddetto. In breve: il capitano è uno che la sa lunga; ai russi fa comodo che noi andiamo a dare fastidi agli inglesi; e per noi è ora di partire. Ma niente permessi ufficiali: su questo argomento ha fatto subito macchina indietro. _ Ce ne andremo senza permessi, _ disse Line alzando le spalle. _ Quando mai abbiamo avuto permessi? Si udì la voce nasale di Bella: _ Quelli dell' NSZ sono dei fascisti e dei vigliacchi, ma c' è un punto su cui noi andiamo d' accordo con loro e con i russi: loro ci vogliono mandare via, e noi ce ne vogliamo andare. Pavel aveva preso l' abitudine di uscire dalla scuola di buon mattino e di non farsi più vedere fino a sera. Nel giro di pochi giorni l' atmosfera di Wolbrom era cambiata: adesso, sul flusso delle truppe dirette in Germania prevaleva il flusso inverso, di soldati che tornavano dal fronte. Alcuni andavano in licenza, ma per la maggior parte erano militari feriti o mutilati, appoggiati su stampelle di fortuna, seduti sui mucchi di calcinacci che fiancheggiavano le vie, con pallidi visi imberbi da adolescenti. Dai suoi giri di esplorazione Pavel non rientrava mai a mani vuote: sul mercato nero si trovava ormai di tutto. Portò caffè, latte in polvere, sapone e lamette da barba, polvere per budini, vitamine, tesori che i gedalisti non vedevano da sei anni o non avevano mai conosciuto prima. Un giorno si portò dietro uno spilungone dai capelli color sabbia, che non parlava né russo né polacco né tedesco, e solo qualche parola di jiddisch: lo aveva trovato sulle macerie della sinagoga di Wolbrom che recitava le preghiere del mattino, era un soldato ebreo di Chicago che i tedeschi avevano fatto prigioniero in Normandia e che l' Armata Rossa aveva liberato. Fecero festa insieme, ma l' americano non era bravo ad esprimersi ed ancora meno a bere; dopo il primo giro di vodka finì sotto il tavolo, dormì fino al mezzogiorno seguente, e poi se ne andò senza salutare nessuno. Per le strade vagabondavano ex prigionieri di tutti i paesi e di tutte le razze, e nugoli di prostitute. Il 25 di febbraio Pavel rincasò con cinque paia di calze di seta, e ne nacque un gran brusio eccitato: le donne si affrettarono a provarle, ma erano di misura tollerabilmente giusta solo per Sissl e per Ròkhele Nera; per l' altra Ròkhele, Line e Bella erano troppo grandi. Pavel fece tacere il brusio: _ Niente, non ha importanza, domani le cambio o ne porto delle altre. Ho altro da dirvi, ho trovato un camion! _ Lo hai comperato? _ chiese Isidor. No, non lo aveva comperato. Venne fuori che dietro alla stazione ferroviaria i russi avevano costituito un campo di rottami e di materiale smobilitato, e che qui si poteva trovare di tutto. Pavel non era pratico, bisognava che l' indomani stesso qualcuno andasse sul posto con lui. Chi era pratico di camion? Chi li sapeva guidare? La banda aveva fatto a piedi più di mille chilometri: non era forse ora di viaggiare in camion? _ Bisognerà pure pagarlo, _ disse Mottel. _ Non credo, _ disse Pavel. _ Il campo non è recintato, intorno non c' è che un fosso, e di sentinelle ce n' è una sola. L' importante è sbrigarsi: c' è già una quantità di gente che va e viene, proprio stamattina ho visto due ragazzi che si portavano via una motocicletta. Chi viene con me domani mattina? Avrebbero voluto andare tutti, se non altro per il diversivo. Line ed Arié fecero sapere che avevano guidato trattori; Piotr e Mendel avevano la patente militare, ed in più Mendel al suo paese aveva avuto occasione di riparare trattori ed autocarri. Gedale, con inconsueto abuso di autorità, disse che sarebbe andato lui perché era il capobanda, ma il più insistente era Isidor, che non poteva vantare alcun titolo. Voleva a tutti i costi andare con Pavel: per le macchine, per tutte le macchine, aveva una passione disinteressata ed infantile, e diceva che il camion avrebbe imparato a guidarlo in un momento. Andò Mendel, e vide che Pavel non aveva esagerato: nel campo rottami c' era veramente di tutto, non solo rottami. I russi, riforniti dagli Alleati di materiale militare di tutti i generi, non andavano per il sottile: non appena un' apparecchiatura o un veicolo davano qualche fastidio, lo scartavano e ne prelevavano uno nuovo. Altro materiale danneggiato arrivava giorno per giorno dalla zona di combattimento, su autocarri o per ferrovia; nessuno lo esaminava o controllava, veniva scaraventato nel campo e restava lì ad arrugginire. Nel lugubre cimitero metallico si aggiravano curiosi, esperti, e torme di ragazzini che giocavano a rimpiattino. I camion c' erano: di tutte le marche e in tutti gli stati di conservazione. L' attenzione di Mendel si appuntò su una fila di camion italiani; erano Lancia 3 Ro da trenta quintali, e sembravano nuovi: forse venivano da qualche deposito tedesco. Mentre Pavel cercava di distrarre la sentinella, offrendole tabacco e gomma da masticare, Mendel esaminò i veicoli più da vicino. Avevano addirittura ancora la chiave nel cruscotto e sembravano pronti a partire; Mendel provò a dare il contatto, ma non accadde nulla. Fu presto capito: i camion non avevano batteria, e non l' avevano mai avuta; i capicorda dell' impianto elettrico erano ancora coperti di grasso. Quando Pavel tornò, Mendel gli disse: _ Ritorna dal tuo uomo e tienilo occupato. Io vado a vedere se trovo in giro una batteria carica. _ Ma che cosa gli racconto? _ Arrangiati. Raccontagli di quando facevi l' attore. Mentre Pavel sforzava la sua memoria e la sua fantasia per intrattenere la sentinella senza insospettirla, Mendel prese ad esplorare metodicamente gli altri veicoli. Presto trovò quanto cercava, un autocarro russo della stessa portata dei Lancia, in condizioni relativamente buone: doveva essere arrivato da poco. Aprì il cofano e toccò i poli della batteria con la lama del coltello. Ci fu uno schiocco ed un lampo azzurro, la batteria era carica. Rientrò con Pavel alla scuola, le ore passavano lente, sembrava che la notte non venisse mai. Quando fu buio, presero le armi e tornarono al campo rottami. Della sentinella non c' era traccia, o dormiva nei pressi o era tranquillamente rientrata in caserma. Invece, fra le sagome buie dei veicoli e dei rottami si aggirava una popolazione furtiva: come termiti, smontavano e demolivano tutto quanto potesse dimostrarsi utile o commerciabile: sedili, cavetti, pneumatici, i motorini ausiliari. Alcuni sifonavano via il carburante dai serbatoi; Pavel si fece imprestare un tubo, fece altrettanto e versò un po' di nafta nel serbatoio del primo 3 Ro della fila. Poi Mendel smontò la batteria buona, ed aiutato da Pavel la trascinò all' autocarro. La rimontò, fece la connessione, salirono in cabina e Mendel girò la chiavetta. Cercò a tentoni la levetta dei fari, e i fari si accesero: "... e la luce fu", pensò tra sé. Li spense e fece l' avviamento: il motore partì subito, liscio e rotondo; rispondeva obbediente al pedale del gas. Perfetto. _ Siamo a posto! _ disse Pavel sottovoce. _ Vedremo, _ rispose Mendel. _ Bestioni come questo io ne ho riparati diversi, ma non ne ho mai guidato nessuno. _ Non hai detto che avevi la patente? _ Per averla, ce l' ho, _ disse Mendel fra i denti. _ A quel tempo la davano a tutti, c' erano i tedeschi a Borodinò e a Kaluga, sei mezze ore di lezione e via. Ma poi io ho solo guidato vetture e trattori; e di notte è un' altra faccenda. Adesso stai zitto, per favore. _ Solo ancora una cosa, _ disse Pavel, _ non uscire dalla porta. Lì c' è la garitta, ci potrebbe essere qualcuno. E adesso sto zitto. Con la fronte aggrottata, intento come un chirurgo, Mendel premette il pedale della frizione, ingranò la marcia e sollevò il piede: il camion si avviò con uno strappo selvaggio. Riaccese i fari, e col motore imballato si diresse lentissimo verso il fondo del campo, lungo una corsia sgombra. _ Non sperare che io cambi marcia. Cambio poi domani: per oggi andiamo avanti così. Il camion navigò fino al fossato, si inclinò in avanti e puntò maestosamente verso il cielo. _ Siamo fuori, _ disse Pavel aspirando l' aria piovosa: si accorse che da forse un minuto non aveva più respirato. Una voce gridò alle loro spalle: _ Stòj! Halt! _; Pavel si sporse dal finestrino e sparò una breve raffica verso l' alto, più per allegria anche per intimidazione. Arrivato sulla strada, Mendel raccolse tutto il suo coraggio ed ingranò la seconda ridotta: il ruggito del motore calò di un tono e la velocità aumentò leggermente. Nessuno li inseguì, e raggiunsero la scuola in pochi minuti. Gedale, armato anche lui, li aspettava in strada. Abbracciò Mendel ridendo e recitando la benedizione dei miracoli. Mendel, con la fronte imperlata di sudore a dispetto del freddo, gli rispose: _ Meglio l' altra, quella dello scampato pericolo. Non perdiamo tempo, partiamo subito. Svegliati di soprassalto, i gedalisti portarono giù i bagagli e le armi e si pigiarono nel cassone. Mendel riaccese il motore. _ Verso Zawiercie! _ gli gridò Gedale, che aveva preso posto accanto a lui nella cabina. Seguendo i cartelli indicatori che i russi avevano affissi alle cantonate, Mendel uscì di città e si trovò su una strada secondaria piena di buche e di pozzanghere. A grado a grado, e con parecchie grattate, imparò ad innestare le marce alte, e la velocità divenne discreta. Aumentarono anche gli scossoni, ma nessuno si lamentava. Superò una salita, imboccò la discesa: i freni rispondevano e si sentì rassicurato, ma la tensione della guida lo stravolgeva. _ Non resisto più per molto. Chi mi darà il cambio? _ Vedremo, _ urlò Gedale sul fracasso del motore e delle lamiere. _ Adesso pensa a uscire dall' abitato. A metà discesa incontrarono un posto di blocco: un tronco non sgrossato, appoggiato su due fusti ai lati della strada. _ Che cosa faccio? _ Non fermarti! Accelera! Il tronco volò via come una paglia e si udirono raffiche di mitra; dal cassone qualcuno rispose con colpi isolati. Il camion proseguì la sua corsa nella notte, e Gedale gridò ridendo: _ Se non così, come? E se non ora, quando?

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Lilit

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Levi, Primo 1 occorrenze

Avrom rimase abbagliato dalla bellezza delle montagne, di quel lago e dei boschi, e gli sembrava assurdo venirci per fare la guerra: infatti, a quel punto avevano armato anche lui. Ci fu combattimento coi fascisti che venivano su da Locana, poi i partigiani ripiegarono nelle valli di Lanzo attraverso il Colle della Crocetta. Per il ragazzo, che veniva dall' orrore del ghetto e dalla Polonia monotona, quella traversata per la montagna scabra e deserta, e le molte altre che seguirono, furono la rivelazione di un mondo splendido e nuovo, che racchiudeva in sé esperienze che lo ubriacavano e lo sconvolgevano: la bellezza del Creato, la libertà e la fiducia nei suoi compagni. Si susseguirono combattimenti e marce. Nell' autunno del 1944 il suo gruppo discendeva la Val Susa, di borgata in borgata, fino a Sant' Ambrogio. Ormai Avrom era un partigiano finito, coraggioso e robusto, disciplinato per profonda natura ma svelto col mitra e con la pistola, poliglotta ed astuto come una volpe. Venne a saperlo un agente del Servizio Segreto americano, e gli affidò una radiotrasmittente: stava in una valigia, lui doveva portarsela dietro spostandola continuamente perché non venisse individuata col radiogoniometro, e tenere i contatti con le armate che risalivano l' Italia dal Sud, e in specie coi polacchi di Anders. Di nascondiglio in nascondiglio, Avrom arrivò a Torino. Gli avevano dato l' indirizzo della parrocchia di San Massimo e la parola d' ordine. Il 25 aprile lo trovò annidato con la sua radio in una cella del campanile. Dopo la Liberazione, gli Alleati lo convocarono a Roma per regolarizzare la sua posizione, che in effetti era piuttosto imbrogliata. Lo caricarono su di una jeep, ed attraverso le strade sconnesse di allora, attraverso città e villaggi gremiti di gente sbrindellata che applaudiva, giunse in Liguria, e per la prima volta nella sua breve vita vide il mare. L' impresa del diciottenne Avrom, candido soldato di ventura, che come tanti remoti viaggiatori nordici aveva scoperto l' Italia con occhio vergine, e come tanti eroi del Risorgimento aveva combattuto per la libertà di tutti in un paese che non era il suo, finisce qui, davanti allo splendore del Mediterraneo in pace. Adesso Avrom vive in un kibbutz in Israele. Lui poliglotta non ha più una lingua veramente sua: ha quasi dimenticato il polacco, il ceco e l' italiano, e non ha ancora una padronanza piena dell' ebraico. In questo linguaggio per lui nuovo ha messo giù le sue memorie, sotto la forma di appunti scarni e dimessi, velati dalla distanza nello spazio e nel tempo. È un uomo umile, e li ha scritti senza le ambizioni del letterato e dello storico, pensando ai suoi figli e nipoti, perché resti ricordo delle cose che lui ha viste e vissute. È da sperare che trovino chi restituisca loro il respiro ampio e pulito che potenzialmente contengono.

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I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Il cosacco, ancora abbagliato dalla luce della lampada, non poté subito sapere con quale avversario aveva a che fare. Tuttavia puntò risolutamente la rivoltella e scaricò, uno dietro l'altro, tre colpi. L'ombra mandò un urlo rauco, poi, con un balzo, varcò la balaustrata, precipitando giù dal fuso. - Colpito? - chiese Fedoro, che si era prontamente risollevato e che si preparava, a sua volta, a far fuoco. - Ferito, forse - rispose il cosacco, slanciandosi verso la balaustrata. L'ombra si era subito rialzata e galoppava fra i cespugli, cercando di guadagnare un folto gruppo di betulle. In quel momento il capitano e il macchinista comparvero sul ponte, entrambi armati di carabine. - Che cosa fate qui, signori? - chiese. - Contro chi avete fatto fuoco? - Ho sparato contro un animale che passeggiava sul cassero - rispose Rokoff. - L'avete veduto bene? - Vagamente. - Qualche leopardo delle nevi? - Mi parve piuttosto un orso, capitano - disse Fedoro. - È fuggito? - Sì - disse Rokoff. - Perché non avvertirci? Potevano essere più d'uno e assalirci. - Avevamo dodici colpi. - Signori miei, ammiro il vostro coraggio e sono ben lieto d'aver preso con me due uomini senza paura. Ha guastato qualche cosa quell'animale? - Non mi pare. - E come vi siete accorti che il ponte era stato invaso? - Ero ancora sveglio e ho udito qualcuno che cercava di arrampicarsi - disse Rokoff. - Gli orsi non sono rari nel Gobi, quantunque non molto pericolosi, se soli. Doveva essere un melanoleco, un plantigrado che si trova solamente nel Tibet e nella Mongolia. Domani cercheremo di scovarlo. Andiamo a riprendere il nostro sonno; ritengo che dopo simile accoglienza non gli salterà più il ticchio di venire a passeggiare sul nostro "Sparviero".

Quando, ancora stordito da quell'improvviso capitombolo e ancora abbagliato da quella luce che per poco non gli aveva abbruciato gli occhi, tornò alla superficie, lo "Sparviero" era scomparso! - Per le steppe del Don! - esclamò. - È saltato in aria o l'uragano l'ha trascinato entro la nube nera? Un'onda che lo investì impetuosamente, riempiendogli la bocca d'acqua amara e salata, gli tolse, almeno pel momento, l'idea di occuparsi dei compagni. - Pensiamo a salvare la pelle, per ora - disse. - Poi vedremo di sapere che cosa è avvenuto dello "Sparviero". Dove sono caduto? Sarà lontana la riva? Avrò molto da lottare per uscire vivo da questo lago. Le onde si succedevano alle onde, ora spingendolo in alto, ora precipitandolo negli abissi mobili e ora coprendolo e sballonzolandolo in tutti i versi. Anche il lago era in tempesta e non era cosa facile sottrarsi ai suoi assalti. Rokoff era però un valente nuotatore. Si lasciò portare dalle onde e come poté si sbarazzò della sua lunga casacca, che gl'impediva di muoversi liberamente. Era rimontato a galla, quando sentì sotto mano qualche cosa che le onde trastullavano. Credendo che fosse qualche albero o qualche oggetto caduto dallo e Sparviero", allungò le braccia e strinse un corpo umano che pareva privo di vita. - Mille steppe! - gridò, rabbrividendo. - Qualcuno dello "Sparviero"? Con uno sforzo supremo sollevò il capo dell'annegato, cercando di ravvisarlo. Proprio in quel momento un lampo vivissimo illuminò le acque del lago. Un urlo di disperazione gli sfuggì. - Fedoro! È morto forse? Gran Dio! No ... non è possibile! Pur continuando a nuotare con suprema energia per non venire subissato dalle onde che lo incalzavano da tutte le parti, col braccio sinistro si strinse al petto l'amico, cercando di tenergli la testa fuori dell'acqua. Nel fare quell'atto gli parve che un tremito avesse scosso quel corpo che poco prima aveva creduto inerte. - No ... non è morto! - gridò. - Salviamolo! La cosa però era tutt'altro che facile, perché non sapeva dove si trovasse, quantunque si rammentasse vagamente di aver scorto, poco prima della caduta, un promontorio e una vasta costruzione. E poi le onde erano ben lungi dal calmarsi e aveva da sostenere l'amico. - Se non potrò salvarlo, almeno morremo insieme - pensò il bravo cosacco. - Ah! Se ci fosse qui anche il capitano ad aiutarmi? Ma chissà se sarà ancora vivo. Nuotava con furore, facendo sforzi prodigiosi per non venire travolto dai marosi, girando gli sguardi in tutte le direzioni per vedere se scopriva la riva. I muggiti delle onde e i fischi acuti del vento lo stordivano, eppure continuava a lottare coll'energia che infonde la disperazione. No, non voleva morire. Nuotava da dieci minuti, quando gli parve, fra le urla del vento e lo scrosciare delle acque, di udire delle grida umane. Alzò gli occhi e distinse confusamente su una rupe la medesima costruzione che aveva veduto poco prima di venire precipitato nel lago. - La costa è vicina - pensò. - Cerchiamo di raggiungerla e badiamo soprattutto di non venire sfracellati contro le rocce. Si lasciava portare dalle onde, nuotando solamente coi piedi, per tema che la violenza della risacca gli strappasse dalle braccia Fedoro. A un certo momento si trovò dinanzi una superficie spumeggiante, quasi calma. Non più marosi e non più controndate. Era entrato in qualche piccola baia difesa da uno o più promontori o da qualche linea di scogliere? Almeno lo suppose. Comunque fosse, colà l'acqua era tranquilla e se vi era una terra vicina, l'approdo non doveva essere né difficile, né pericoloso. - Ecco una fortuna insperata - disse Rokoff. - Se ... Non proseguì. Le sue gambe avevano toccato un fondo duro, probabilmente roccioso, irto di punte. Si rizzò e s'accorse d'aver l'acqua solamente fino al petto. - Siamo salvi! - esclamò. A cinquanta o sessanta passi si estendeva un breve tratto di costa, una specie di punta abbastanza bassa per potervi approdare senza fatica. Più oltre, invece, s'alzava una rupe gigantesca sulla quale Rokoff aveva scorto, alla luce dei lampi, quella massiccia costruzione che gli era sembrata un monastero o una fortezza. Le onde, in causa d'una ripiegatura della costa e d'una scogliera altissima, non potevano giungere fino al luogo dove trovavasi il cosacco. Si frangevano con mille muggiti contro quegli ostacoli che non potevano rovesciare, provocando, in quella specie di baia o di cala, solamente una certa ondulazione. Tenendo sempre alto Fedoro, il quale non dava ancor segno di tornare in sé, Rokoff attraversò velocemente l'ultimo tratto e raggiunse la spiaggia, arrestandosi sotto la gigantesca rupe che cadeva a piombo. - Se vi fosse qualche rifugio - mormorò, gettando un rapido sguardo verso la parete. L'oscurità era però così fitta da non poter vedere a dieci passi di distanza, essendo ormai calata la notte e il cielo sempre coperto da quell'immensa nuvola nera che il vento non era ancora riuscito a disgregare e lacerare. - Lo cercherò più tardi - pensò. - Ora occupiamoci di Fedoro. Depose l'amico su uno strato di sabbia fine e lo spogliò della casacca e del panciotto, mettendogli una mano sul petto. - Il cuore batte - disse con voce giuliva. - Quale fortuna averlo trovato subito! Se le onde mi spingevano pochi passi lontano, era finita per questo povero Fedoro. Gli aprì la bocca, prese la lingua e si mise a tirarla con movimenti lenti e eguali per riattivare il funzionamento dei polmoni. Coll'altra mano intanto gli alzava ora l'uno ora l'altro braccio. La pioggia cadeva a torrenti e il vento spazzava rabbiosamente la spiaggia, ma Rokoff non se ne preoccupava e continuava a operare quelle trazioni con delicatezza. A un tratto un profondo sospiro sfuggì dalle labbra del russo. - La respirazione è riattivata - disse Rokoff - tutto va bene. Lasciò la lingua e si mise a strofinargli vigorosamente il petto con un pezzo di lana strappata dalla fodera della giubba. Fedoro tornava rapidamente in sé, rigettando di quando in quando, sotto quelle pressioni, delle boccate d'acqua. Finalmente anche i suoi occhi si aprirono. - Dove ... sono ... io? - chiese con voce debole. - Rokoff ... capitano ... - Eccomi, sono presso di te - rispose il cosacco, coprendogli il petto. - Tu ... amico ... Rokoff ... che cos'è accaduto? - Una catastrofe, un accidente, non lo so nemmeno io. Siamo stati scaraventati entrambi nel lago, forse dalla folgore e ti ho trovato per puro caso, nel momento in cui stavi per andare a tenere compagnia ai pesci. - Ah! Sì ... mi ricordo ... quella luce ... quel rombo ... poi le onde ... E mi hai salvato? - Ti ho portato qui. - E il capitano? - Non ne so più nulla. - E lo "Sparviero"? - Scomparso, forse caduto nel lago, fracassato dalla folgore o dallo scoppio dei serbatoi d'aria liquida o della macchina. - No ... no! ... - esclamò Fedoro. - No, caduto. - Come lo sai tu? - chiese Rokoff sorpreso. - Quando le onde mi hanno portato a galla, io l'ho veduto ... sì ... me lo ricordo ... il vento lo trascinava verso il nord ... rapidamente ... - Non è scoppiato? - No, Rokoff. - Quanto mi sarebbe rincresciuto che quel meraviglioso treno-aereo fosse stato annientato e che quel valoroso capitano fosse stato ucciso. Sei certo d'averlo veduto fuggire, Fedoro? - Sì, Rokoff, il vento lo travolgeva. - E non bruciava? - No. - Allora non sono i suoi serbatoi che sono saltati? - È stata la folgore che è piombata sul ponte e che ci ha precipitati nel lago. - Ah! Respiro! ... - esclamò il cosacco. - Allora lo rivedremo tornare dopo cessato l'uragano. - Ma noi dove ci troviamo? - Presso un monastero o una fortezza. - Non facciamoci scoprire, Rokoff - disse Fedoro. - Rimaniamo nascosti fino al ritorno dello "Sparviero". Il capitano verrà a raccoglierci, ne sono certo. - Non lo dubito nemmeno io. Sarà però necessario cercarci un nascondiglio; il monastero sta sulla cima di questa rupe e domani potremmo venire scoperti. Rimani qui, vado a vedere se posso trovare qualche crepaccio o qualche caverna. Mi pare che questa parete sia tutta screpolata. - Tu sei senza casacca! - esclamò Fedoro. - Indossa la mia. - Ho dovuto abbandonarla alle onde per poterci salvare entrambi, tuttavia non preoccuparti di me. Ho la pelle dura io e il freddo non ha presa sulle mie carni. Non muoverti e aspetta il mio ritorno. Il cosacco s'allontanò seguendo la rupe che appariva tutta screpolata alla sua base. Essendo i lampi cessati, era costretto a procedere a tentoni e cercare il rifugio colle mani. La burrasca, lungi dal calmarsi, imperversava con rabbia estrema. Onde gigantesche correvano pel lago, frangendosi furiosamente contro le coste con boati e muggiti formidabili e dalle nevose vette dei monti scendevano raffiche gelate e d'una tale violenza, che talvolta il cosacco si sentiva mancare perfino il respiro. - Sarà impossibile allo "Sparviero" poter tornare finché dura quest'uragano - pensava Rokoff, senza cessare di perlustrare. - Il vento soffia sempre dal sud e chissà dove lo avrà trascinato. A un tratto si fermò, mandando una imprecazione. Fra le tenebre aveva scorto dei punti luminosi gialli, verdi, rossi e azzurri che s'avanzavano seguendo la parete. Parevano lanterne cinesi, o qualche cosa di simile. - Che i monaci ci abbiano veduto approdare e vengano a cercarci? - si chiese. - O che ci abbiano anche veduto a cadere nel lago? Mi ricordo d'aver notato degli uomini, un momento prima che la folgore avvolgesse lo "Sparviero". Gridavano e alzavano le braccia verso di noi. Cosa fare? Attenderli o fuggire? Fuggire? E dove, se questa parete è tagliata a picco? Stette un momento esitante, non sapendo a quale partito appigliarsi, poi decise di raggiungere Fedoro, onde avvertirlo del pericolo che li minacciava. - Lui conoscerà i tibetani meglio di me - disse. I punti luminosi o meglio le lanterne continuavano ad avanzarsi, seguendo ora la parete rocciosa e ora la spiaggia. Pareva che gli uomini che le portavano cercassero qualche cosa, perché ora si fermavano e abbassavano le lampade, ora si disperdevano e ora si raggruppavano di nuovo. - Fedoro - disse Rokoff, quando fu vicino all'amico. - Stiamo per venire scoperti e non sono riuscito a trovare alcun nascondiglio. - Ho notato anch'io quei punti luminosi - rispose il russo. - Che quegli uomini cerchino noi? - Non ho alcun dubbio. Siamo stati veduti cadere dallo "Sparviero" o approdare. - Chi saranno costoro? - Dei monaci, suppongo. Mi hai detto d'aver veduto un'enorme costruzione. - Sì, Fedoro, ma poteva essere anche una fortezza. - Non ne esistono su questo lago; qui non vi sono che monasteri. - Sono cattivi i preti di questo paese? - Non credo, però avrei preferito non essere scoperto. - Bah! Se sono monaci, non ci faranno paura - disse Rokoff, mostrando i suoi pugni. - Mi sento in forza per affrontarne cinquanta. - Non vi è alcun modo di fuggire? - Ricacciarci nel lago. - Non pensiamoci; la tempesta invece di scemare aumenta sempre e le onde cominciano a giungere anche qui. Vediamo quale accoglienza ci faranno questi buddisti; se si mostrano ostili daremo battaglia. - Le mie braccia sono pronte a grandinare pugni santissimi che faranno loro vedere le stelle e anche il sole. Fedoro si era alzato. I monaci non erano lontani che cinquanta o sessanta passi e continuavano ad esplorare la spiaggia. Erano una mezza dozzina, non vi era quindi da temere con un uomo della forza di Rokoff. - Andiamo ad incontrarli - disse Fedoro risolutamente. - Anche rimanendo qui ci troverebbero egualmente. - Ti seguo - disse il cosacco, rimboccandosi le maniche della camicia. Avevano percorso mezza distanza, quando videro le lanterne fermarsi, proiettando la luce innanzi. Delle esclamazioni che parevano di stupore, sfuggirono agli uomini che le portavano. - Ci hanno veduto - disse Fedoro. - Chi sono, dunque? - chiese Rokoff. - Monaci, che portano delle tonache di grosso feltro con un manto bianco? - Sì, e che dà loro l'aspetto di fantasmi, specialmente fra questa oscurità. Fedoro mosse incontro a loro alzando le mani e dicendo in cinese: - Pace! ... Pace! ... I sei monaci stettero un momento immobili, col più vivo stupore impresso sui loro volti giallognoli, poi deposero le lanterne e si inginocchiarono dinanzi ai due naufraghi coi segni del più profondo rispetto, pronunciando delle parole che né il russo, né il cosacco riuscivano a comprendere. - Eh! che cosa ne dici, Fedoro? - chiese Rokoff. - Che questi uomini ci adorano. - Che ci prendano per figli della luna o delle tempeste? - Per i figli del grande Buddha, amico mio. Devono averci veduto cadere dallo "Sparviero". - Per le steppe del Don! Sapremo approfittare della loro ignoranza per farci regalare almeno una buona cena e un comodo letto. Spero che non saranno poi così stupidi da credere che i figlioli di Buddha vivano d'aria. Alzatevi, reverendi, basta colle adorazioni: abbiamo fame ed anche freddo. E siccome i monaci non accennavano a levare la fronte che tenevano posata al suolo, ne prese uno e lo sollevò come fosse un pupattolo, mettendolo in piedi. Gli altri s'affrettarono a rialzarsi, cacciando fuori le lingue lunghe una buona spanna e dimenandole in tutti i sensi. - Abbiamo capito, ci salutate - disse Rokoff. - Ma basta; conduceteci con voi. I monaci si guardarono l'un l'altro cercando probabilmente di comprendere ciò che chiedeva il cosacco, poi uno di loro, che portava al collo un grosso monile formato di pietruzze traforate e molto trasparenti, fece alcuni segni, indicando replicatamente la cima della roccia. - Che c'invitino a salire lassù? - chiese Rokoff. - Mi sembra - rispose Fedoro. - Non puoi farti capire da costoro? - Non comprendono il cinese. Nel loro monastero ci sarà, spero, qualcuno che lo parlerà, essendo i tibetani tributari della Cina. Sì, Rokoff, c'invitano a seguirli. - Andiamo - rispose il cosacco. - Mi sento gelare il sangue e desidererei un buon fuoco. Tre monaci si misero dinanzi, illuminando la spiaggia colle loro lampade e levando i ciottoli che potevano far cadere i due aeronauti, gli altri seguivano. - Molto gentili - disse Rokoff. - Mi pare che questa avventura debba finire meglio di quello che credevo. Purché lo "Sparviero" torni presto! ... Non si sa mai quello che può accadere, anche ai figli di Buddha, in questo paese che gode poco buona fama. Seguirono la parete per tre o quattrocento passi, poi salirono una stretta gradinata e raggiunsero il piano superiore, su cui giganteggiava una enorme costruzione, con alti tetti arcuati e doppi e due torri di stile cinese. - Che siamo caduti presso il monastero di Dorkia? - disse Fedoro. - È uno dei più belli? - chiese Rokoff. - Non solo, ma anche il più celebre del Tengri-Nor, visitato ogni anno da migliaia e migliaia di pellegrini e perfino dal Dalai-Lama. - Saranno ricchissimi questi monaci? - Prodigiosamente, Rokoff. - Allora siamo certi di trovare una buona tavola.

Vita intima

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Vertua Gentile, Anna 1 occorrenze

La ragione umana è finita e debolissima ; qual meraviglia, che volendo fissare lo sguardo nelle cose divine, ne rimanga abbagliato, perda l'equilibrio e cada nel dubbio e rigetti con superbo disdegno ciò che non può comprendere? ...E il ragionamento di parecchi uomini dotti. E a questo ragionamento di uomini dotti, egli aggiunge. « Si farebbe oltraggio a la verità se non si riconoscesse il progresso grandissimo che la ragione ha fatto in questi due secoli ». Conclude dicendo « che la moderna incredulità trae la sua precipua origine dalla scienza e cresce in ragione de' suoi progressi » l' incredulità è una malattia propria d'una società colta e progredita, come, nell'ordine fisico, lo sono il suicidio, gli enormi eserciti stanziali, le sètte anarchiche, i colossali fallimenti e andate dicendo. E spiega questa sua conclusione, che pare stolta, assurda, empia, condannata dalla chiesa. « Guardimi il cielo di considerare la scienza per se stessa quasi madre della miscredenza e nemica della religione ! Quando dico che la miscredenza si origina dalla scienza e cammina sui suoi passi, lo dico in quel senso nel quale il Vangelo afferma, che Cristo è posto in ruina e in salute di molti ; lo dico in quel senso, in cui altri potrebbe dire, che le acque distruggono le messi, che il sole brucia i campi, che la luce accieca, che il vino è un veleno, che le ricchezze corrompono, che l'ingegno è una sventura. Ciascuno intende che tutte queste cose per se stesse sono buone, utili, anzi necessarie ; ma pure sovente accade che per loro difetto, o per il loro eccesso, o pcl mal uso che se ne fa, anzichè vantaggio, rechino danno ed estrema ruina. La scienza fu ed è causa, o meglio occasione di miscredenza, per molti rispetti … E uno dei principali rispetti lo trova nella mancanza quasi assoluta della istruzione religiosa in quasi tutte le famiglie, nelle Università, nei Licei, nei Ginnasi, negli Istituti Tecnici e si può dire in tutte le scuole governative. Una delle cause più efficaci della miscredenza moderna e la massima, vuolsi calcolare nella separazione totale o parziale della istruzione religiosa dalla scientifica e nello squilibrio immenso tra questa e quella ; la prima è rimasta fanciulla, la seconda è divenuta adulta, e questa naturalmente, disprezza e schiaccia quella. E il Bonomelli a tal proposito riporta il linguaggio santamente audace che l'arcivescovo Ireland di S. Paolo negli Stati Uniti, ci fa sentire. L'epoca nostra è un' epoca intellettuale. Ella adora l' intelletto. Tutte le cose sono messe a la prova della ragione ; l'opinione pubblica, il potere che governa, sono formati da essa. La Chiesa stessa sarà giudicata a la stregua della ragione. I cattolici devono tenere il primo posto nella scienza religiosa. Essi devono mostrarsi in prima linea in ogni movimento intellettuale. Un'opera importante nel secolo futuro, sani, costruire scuole, collegi, seminari, e ciò clic è ancora più importante, inalzare le presenti e le future istituzioni al più alto grado di grandezza intellettuale. Solo le migliori scuole daranno a la Chiesa gli uomini di cui abbisogna. E queste scuole devono essere moderne nel corso degli studi' e nel metodo, per modo che gli scolari che escono dalle loro aule, siano uomini del secolo ventesimo. . . . Cercate gli uomini ; parlate loro un linguaggio non affettato e in istile del secolo XIX, ma ardente, che vada al cuore e a la mente ; rendete popolare la religione fin dove possibile. Se vogliamo guadagnare questa società, che nella parte sua più eletta, ha fatto divorzio quasi totale dalla Chiesa, e tenere nel suo seno quello che ancora vi sta, non illudiamoci ; dopo la virtù sia la scienza ; scienza vera, moderna, forte, spigliata, sciolta, da certe pastoie vecchie, create da un ridicolo convenzionalismo, accessibile a tutti; sia l'arma a cui diamo di piglio. Chi tiene le masse, regna ; le masse non sono tenute che dal loro Intelletto e dal loro cuore. Nessun potere le domina se non quello che tocca le loro anime libere ». Le legittime e veramente gloriose conquiste del progresso scientifico, non furono dunque sconosciute dal sincero pensiero cristiano nel secolo XIX. Il pensiero cristiano in urto con il progresso scientifico, sarebbe in urto con se medesimo. La via che la Provvidenza aperse al bene, a la verità , e al meglio a sollievo delle creature e a la loro esaltazione, non può essere disertata da chi perla in nome della verità e del bene. La scienza che dà ragione d' ogni cosa e studiando la bellezza dell' universo, innalza la niente commossa e grata al Creatore ; la scienza che avvicina i popoli rendendo possibile, anzi favorendo la santa fratellanza e la diffusione del bene ; che .allevia il dolore e diminuisce le malattie ; che stenebra la mente, distrugge i pregiudizi, insegna com' formata la terra e quali forze sono negli elementi, che indaga le vicissitudini del tempo, il moto degli astri , la natura della vita animale, le segrete virtù della vegetazione, la forza dei venti, non che un nuovo legame fra l'uomo e Dio.