Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Antropologia soprannaturale Vol.I

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

La denominazione adunque di filosofia o scienza teoretica è poco esatta, riuscendo a un dire teoria teoretica , e la denominazione di filosofia o scienza pratica non è pure senza inesattezza e ambiguità, convenendo anzi dirla filosofia o scienza o teoria della pratica (1). Pratica vuol dire azione, e perciò la pratica si può dividere in tanti modi in quanti si possono dividere le azioni. Se le azioni non si fanno a caso nè divise, ma molte insieme varie e congiunte, con regole a cui obbediscano, per conseguire qualche effetto, queste azioni diventano un' arte (2). Le arti adunque appartengono alla pratica , e le scienze appartengono alla teoria ; nè si devono mai confondere queste due cose. L' uso però ha ristretto il significato del vocabolo arte a segnare solamente un complesso di azioni ed abito di porle, dalle quali si ha qualche produzione o formazione esterna: e tali sono le arti meccaniche e le liberali. Ma delle azioni legate insieme a uno scopo, si dànno anche senza che producano e formino nulla di esterno; e tali sono le operazioni intellettive e morali: anche queste, perciò che sono azioni, appartengono alla pratica e talora si denominano arti . Così la logica si suol dire che è un' arte, e arte della perfezione fu intitolato un libro che tratta della morale bontà; sebbene, accuratamente parlando, la logica che s' insegna non è l' arte stessa, ma la scienza dell' arte del pensare, e il libro del Pallavicini è la scienza dell' arte, e non l' arte della perfezione. Altra cosa è dunque essere artista, e altra essere scienziato: chi sa la teoria dell' arti meccaniche non ne prese con questo l' abito, non sa l' arte; e il giudicare di pittura o di poesia o di altra arte liberale fu sempre tenuto per cosa interamente diversa dal saper dipingere o poetare. E può avervi un fortissimo e dirittissimo pensatore senza che abbia mai apprese le regole logiche; e l' uomo probo e virtuoso può ignorare la definizione della virtù: come per l' opposto non è forse vero che chi sa la dottrina morale per filo e per segno sia poi talora lontano assai dal renderla in pratica, e che un filosofo sia spesso costretto di dire: video meliora proboque, deteriora sequor ? Queste poche osservazioni soprabastano a fare notare la differenza dell' azione dalla cognizione , della pratica dalla teoria . La Teologia è scienza, e la Religione è azione: l' una è cognizione , l' altra è culto : l' una appartiene alla teoria, l' altra alla pratica (1). Il teologo è quello che conosce le dottrine intorno a Dio: ma l' uomo religioso è quello che conforma la vita a tali dottrine, ed è assiduo in dar opera al culto della divinità. Nè il teologo è sempre uomo religioso; nè l' uomo religioso è sempre teologo. La Teologia è quella scienza che tratta di Dio. Essa si divide in naturale e soprannaturale . La Teologia naturale è quella che tratta di Dio in quanto può essere conosciuto dalle forze naturali della ragione umana e questa è una parte della filosofia: la soprannaturale è quella che tratta di Dio in quanto è conosciuto soprannaturalmente, e questa si chiama strettamente Teologia. Noi dobbiamo render chiara questa distinzione, il che faremo nel capitolo seguente, stabilendo in esso i confini della filosofia o dottrina naturale, e mostrando per che via si stenda oltre que' confini la Teologia rivelata. L' uomo, nel conseguire le varie maniere di cognizioni di cui è capace, ha bisogno di alcuni mezzi, ed è limitato a certe condizioni. In ragione poi che questi mezzi più gli abbondano e che quelle condizioni meglio si adempiono, più l' uomo s' arricchisce di cognizioni. Noi supponiamo dati all' uomo i mezzi necessari al suo naturale sviluppo ed adempite quelle condizioni a cui è legato, quando cerchiamo i confini a cui può giungere il suo senno naturale, o, che è il medesimo, quando cerchiamo i confini della filosofia. Una di queste condizioni, per le quali l' uomo può svilupparsi, sono gli oggetti esterni che irritano i suoi sensi e vi cagionano le sensazioni: un' altra è de' segni (una lingua), coll' aiuto de' quali possa dirigere e fermare il suo pensiero negli astratti (1): una terza è una società dalla quale prende almeno degli eccitamenti al pensare, e nella quale si conservano e tramandano le cose una volta pensate. Ma dati all' uomo, o anzi alla umanità, tutti questi mezzi, quanto può ella procedere innanzi nel cammino della cognizione? Dove è il punto, al quale si deve fermare? Quali sono, in una parola, i confini della filosofia? Ciò che abbiamo detto nel primo capitolo, intorno alla natura della umana cognizione, ci spiana la via a trovare la risposta conveniente a questa domanda. L' uomo non percepisce se non delle cose sensibili. La percezione è la condizione richiesta a poter formarsi delle idee positive delle cose. Dunque l' uomo non può avere naturalmente idee positive se non di quelle cose che naturalmente fanno una impressione sostanziale ne' suoi sentimenti, ossia che egli percepisce . L' uomo non percepisce se non il mondo sensibile e l' anima propria; il primo, oggetto dell' esperienza esterna; il secondo, oggetto dell' esperienza interna. Dunque la cognizione dell' uomo non comprende altre idee positive se non quelle delle cose materiali e dello spirito suo proprio. Vi sono alcune operazioni della mente che l' uomo può esercitare sopra quelle idee positive primitive e da esse cavarne alcune altre: queste medesime operazioni possono essere ripetute sopra il prodotto delle prime; e di nuovo possono ripetersi sopra il secondo prodotto; e così via indefinitivamente. Le operazioni della mente di cui parlo, sono: 1 l' analisi, 2 la sintesi, 3 l' integrazione. Coll' analisi si scompongono le idee, e così di una se ne fanno molte. L' astrazione , che propriamente consiste nello scomporre formalmente le idee, cioè nel dividere essenza da essenza, non è che un ramo dell' analisi stessa. La sintesi compone e lega più idee insieme, e così fa nascere le idee complesse; e anch' essa può legarle formalmente , cioè di più essenze farne una sola, ovvero solo materialmente , quasi per una justaposizione. La sintesi e l' analisi non portano la mente nostra fuori del materiale delle idee positive che sono la base di tutto il loro lavoro: ma fuori al tutto delle idee che la mente possiede, quasi per salto, la mente viene tratta dalla facoltà della integrazione. L' integrazione è come una facoltà indovina: essa slancia la mente a nuovi oggetti non mai percepiti e, non potendone conoscere la natura, ne mostra però la necessità: cioè dalla cognizione dell' effetto ella conchiude alla causa, di cui non ebbero ancora nissun indizio i sensi; ella va sino alla causa prima, dal relativo va all' assoluto, e scuopre Dio (1). Ma questa facoltà divinatrice non può produrre però, come abbiamo veduto, se non idee negative : essa è fonte della Teologia naturale. I confini della Teologia naturale sono segnati nell' idea che naturalmente aver possiamo di Dio, già dichiarata più sopra (1). La facoltà integratrice dell' intendimento , cioè quella facoltà che ascende dall' effetto alla causa, è il fonte della teologia naturale, come ho detto, e il limite di questa potenza segna pure il limite della scienza a cui essa dà l' esistenza. Il principio della Teologia naturale è l' idea dell' essere in universale , idea che non fa noto l' essere reale se non inizialmente, e che si può dire vuota , perchè non contiene nessuna determinazione positiva del medesimo, senza materia, perfettamente formale. Questa idea, applicata all' universo che cade sotto i nostri sensi esterni ed interni, mostra in sè la necessità di una causa di questo universo, per siffatto modo che noi acquistiamo la persuasione della sussistenza di questa Causa. Il concetto di questa causa (non mai sentita sostanzialmente e però incognita al tutto nel suo modo di essere); l' analisi di questo concetto; i ragionamenti che sulla medesima s' istituiscono; le proposizioni singolari che se ne derivano; ecco tutta la Teologia naturale. Ella è una scienza ideale7negativa, com' è il concetto naturale di Dio sua base. Ora veniamo a quella che si dice Teologia rivelata . Io esporrò, con quella chiarezza che mi saprò meglio, le dottrine della tradizione cristiana intorno alla divina rivelazione, quanto sarà uopo all' intendimento di questo libro. Fra le cose da Dio rivelate dicono i teologi cristiani avercene di quelle che non eccedono i confini della ragion naturale, le quali però fu utilissimo l' essere rivelate per la troppa difficoltà che avevano di essere trovate dal senno naturale e con certezza e pure da errore. Il che anche se gli uomini avessero fatto, e l' avessero da sè stessi ragionando trovate, non l' avrebbero fatto però che dopo lungo spazio di tempo; quando, per la necessità che di quelle verità avevano, bisognava loro conoscerle fin da principio e sempre averle alla mano, se salvar si volessero. La rivelazione poi di questi veri alcuni teologi l' hanno chiamata formale , volendo essi esprimer con ciò che la forma o il modo onde queste verità si fecer palesi è soprannaturale, ma che le cose stesse, la materia di questo sapere non trapassa i limiti del naturale ragionamento. Per un' altra cagione furono rivelate altresì cose, a cui forse il senno naturale poteva giunger da sè, vale a dire perchè queste sono indivisibili da quelle altre di un ordine superiore che eccedono al tutto le forze dello spirito umano, stretto nel circolo delle cose naturali. Giacchè i soprannaturali misteri sono veramente un compimento delle cognizioni naturali, le quali ne sono come i lineamenti e gli sbozzi vuoti di quelli; e quelli come i colori che si mettono sopra le linee dei contorni, o come la carne con cui si rimpolpa e si adegua l' ossatura ignuda di uno scheletro. I veri soprannaturali insomma suppongono e si richiamano ai veri naturali: e a quel modo onde non si può percepire intellettivamente l' elemento reale delle cose se non si abbia insieme l' elemento ideale, così similmente non potrebbe l' uomo essere atto a percepire le cose misteriose della divinità se non fosse ragionevole, ossia se non avesse in sè l' essere ideale, mezzo d' ogni cognizione e percezione intellettiva. Ma dopo di tutto questo, noi vogliamo riflettere che ciò che divide e parte la teologia rivelata dalla naturale non è propriamente la rivelazione puramente formale , ma bensì la materiale . Perchè se non ci fossero state comunicate se non verità, le quali non eccedessero le forze naturali del nostro intendimento, queste non avrebbero per avventura avuto virtù di sollevare l' uomo a uno stato sopra natura; nè altro sarebbe stato se non un aiutarlo a formare più presto, più facilmente e con più sicurezza una teologia e una religione naturale, e nulla più. Iddio in questo caso non avrebbe fatto coll' uomo se non l' ufficio di un sovrano paziente; giacchè di sè non avrebbe mostrato o comunicato nulla più di quello che un savio umano potesse conoscere. Ora la persona che comunica delle notizie, è indifferente se resta ignota, e per chi riceve le notizie non c' è altro interesse che quello che nasce dalla qualità delle notizie stesse. Le cognizioni naturali adunque intorno a Dio, o comunicate agli uomini da qualche savio sorto nel mezzo di loro, o da un angelo, o da Dio stesso (restando questi nascosto), si restano le medesime e non fanno per questo che un ordine soprannaturale di cose sia in mezzo dell' umano genere costituito. E` adunque necessaria una rivelazione materiale , perchè s' abbia una Teologia rivelata che per la sua materia sia distinta dalla Teologia naturale . E qui conviene dichiarare meglio questa materia propria della Teologia rivelata: perocchè insorge facilmente una difficoltà sulla possibilità stessa di una tale teologia, che è questa. Noi non possiamo avere nuove cognizioni senza che abbiamo nuove percezioni , perchè, come abbiamo detto, la percezione è il fondamento di tutte le cognizioni positive che aver possiamo delle cose reali. Ora di Dio noi non abbiamo la percezione in questa vita, il quale, secondo l' insegnamento della cristiana teologia, non si vede che nella vita futura. Non avendo adunque nuova percezione, in virtù della rivelazione, come possiamo aver cognizioni veramente nuove e di un genere essenzialmente diverso da quelle della teologia naturale? Questo argomento dimostrerebbe la impossibilità di una teologia rivelata senza la percezione di Dio, quando non ci fossero altre cognizioni che le positive . Ma ciò che pochi osservano, e che pure è degno della più attenta osservazione, si è che vi hanno, oltre le positive, delle cognizioni che abbiamo chiamate negative o ideali7negative , e che pure sono vere e preziosissime. Ora è appunto questa maniera di cognizioni che viene accresciuta dalla divina rivelazione, anche in questa vita, e di questo accrescimento nasce la Teologia rivelata. Conviene che mostriamo come ciò possa essere: ciò che avviene al cieco nato che acquista il vedere, ci darà la via di farci intendere. Se un cieco nato ricuperasse la vista, egli acquisterebbe, con questo nuovo senso, delle percezioni interamente nuove, di cui prima non si poteva formare imagine alcuna. Egli in queste nuove percezioni della luce e de' colori avrebbe acquistato il fondamento di una serie di cognizioni veramente positive che prima non aveva. Egli allora, con queste nuove sensazioni della vista che venne acquistando, si spiegherebbe tutti i molti discorsi che aveva sentito prima intorno agli oggetti colorati e lucenti. Ma prima di acquistare la facoltà di vedere, quali dovevano a lui sembrare que' discorsi? Intendevali egli? o erano a lui del tutto oscuri e nulli? Que' discorsi, che udiva fare intorno la luce e i colori, non erano prima nè intieramente chiari per lui, nè intieramente oscuri, sicchè fossero composti di suoni al tutto vani e nulla significanti. Egli è certo che delle parole luce , e colore nulla ne intende: nulla ne intende, dico, di positivo ; ma tuttavia intende che esser devono qualche cosa, intende che debbono esser cose che agiscano sullo spirito e vi producano delle sensazioni: non intende la specie di sensazioni che sono, ma intende il genere delle sensazioni, a cui appartengono. Intende ancora che quella specie di sensazioni che formano, non ha nulla di simile colle sensazioni de' suoni od altre da lui sofferite; poichè per intendere questo gli basta osservare che anche le varie specie di sensazioni, che egli patisce, sono tali che non hanno fra loro nessuna similitudine, cioè che i suoni sono interamente diversi dagli odori o da' sapori, non convenendo che in un elemento ideale e non reale, cioè nel genere ideale (1). Tutte le cognizioni insomma che egli acquista della luce, con sentire a parlare di lei, non sono tolte dalla sensazione reale della luce stessa, della qual sensazione egli è privo; ma sono tolte dalla relazione di una cosa che si chiama luce colle sue idee generiche e universali: il che è ciò che mi fa dar loro l' appellazione di cognizioni ideali7negative . La luce dunque e i colori nella loro specie rimangono per lui perfettamente incogniti, perchè non ne riceve l' azione reale nel suo senso, che sola può produrre le idee specifiche. Questo non aver l' idea specifica della cosa è la parte oscura, misteriosa, inintelligibile dei discorsi che vengono fatti dagli uomini intorno alla luce e ai colori. Ma dopo di ciò, egli acquista tuttavia, come dicevo, della luce delle idee generiche e universali. Se non sapesse altro se non che questa luce è qualche cosa, materia di sensazioni che egli non possiede, egli ne saprebbe oggimai qualche cosa e tanto da poter pensarvi. Ma egli oltracciò può conoscere molte altre proprietà della luce e dei colori, risultanti dalle relazioni di essa luce e colori colle cose, di cui ha la percezione, o colle sensazioni di cui è in possesso. Egli può sapere che luce e calore si trovano spesso insieme, e che col calore del sole che egli prova gli altri che hanno sana la vista provano quell' altra sensazione che si chiama della luce (1). Può sapere che la luce è un corpo leggiero e celere (secondo la credenza comune); giacchè di corpo, di leggerezza e di celerità anche egli ha idea: e può eziandio calcolare le leggi di questa celerità e leggerezza, se egli fosse matematico, come il celebre cieco Nicolò Sanderson che spiegò nell' Università di Cambridge l' ottica di Newton. Può sapere che un fascicolo di luce si spezza in sette fascicoli, passando per un prisma di vetro o per altro mezzo prismatico, perchè il prisma di vetro o di acqua e le idee di passaggio e di divisione sono a lui note per gli altri sensi. Insomma può conoscere intorno alla luce un infinito numero di verità, quante possono essere per avventura le relazioni ch' ella si abbia coll' altre cose che cadono sotto i sensi da lui posseduti e colle sensazioni dei medesimi. Questa è la parte chiara per lui della idea negativa della luce e dei colori. Ora dall' esservi in un' idea negativa , quale è quella che può avere un cieco de' colori, della oscurità e della luce, dell' inintelligibilità e insieme una generale e ideale concezione, nascono i misteri : cioè delle proposizioni che, sebbene chiare nei loro termini , tuttavia nel loro nesso riescono inesplicabili e misteriosi per quelli che hanno puramente idee negative delle cose, delle quali si ragiona. Così, per esempio, è un vero mistero per un cieco nato questa proposizione che gli dice un veggente, e gliela dà per vera:« Io percepisco una torre prima di avvicinarmi ad essa, ma essendo ancora lontano da lei più di trecento passi, e mi accorgo che sulla torre stanno delle campane appese, e sulla sua sommità una palla e una croce«. - Il cieco intende benissimo il significato di questa proposizione, egli intende ancora il senso di tutte le parole di cui ella è composta, perchè sa che cosa voglia dire percepire , che cosa è torre, distanza, campane, sommità, palla, croce. Ma che per ciò? Intende egli per questo come una simile affermazione sia possibile? Non gli sembra anzi un assurdo il percepire una cosa che nè si palpa, nè si odora, nè si assapora, nè si ode? Questo per lui è al tutto impossibile: non può imaginarsi in nessun modo la spiegazione di questo enimma: egli può solo crederlo a chi l' afferma, intenderlo non mai. Per questa ragione l' astronomia pel cieco nato è un puro mistero e non può impararla se non per via di fede a quelli che veggono le stelle e gli parlano de' loro apparimenti e movimenti. Ora lo stesso avviene circa la teologia rivelata, relativamente alla parte sua materiale . La rivelazione ci narra cose nuove di Dio, cioè di un Essere che noi non percepiamo in questa vita, di che la oscurità e la chiarezza insieme di cui si mescolano le verità rivelate, e l' esser la fede alla rivelazione la base di tutta la rivelata teologia. Questa dottrina è nelle divine Scritture perpetuamente insegnata. Esse non dànno all' uomo, finchè si trova in questa vita, il potere di percepire pienamente Iddio stesso, che è chiamato un Dio nascosto nell' antico Testamento; e nel nuovo è rappresentato in un padrone che, dopo aver distribuiti diversi capitali da trafficare a' suoi servi, se ne è partito per un viaggio in lontane regioni. Era questo un vero della tradizione più remota, come ce ne fa fede quella sentenza che si sta nell' Esodo: « Nessuno vedrà Iddio e vivrà« (1). » E S. Giovanni dice espressamente: « Nessuno ha mai veduto Iddio: l' Unigenito Figlio che è nel seno del Padre egli l' enarrò« (2). » Questo ultimo passo di S. Giovanni non può essere più acconcio all' uopo nostro, e alla similitudine del cieco, di cui abbiamo fatto uso. Egli ci dice manifestamente che, non avendo nessun uomo veduto mai Iddio, quello che ci narrò tante cose intorno alla divinità da lui veduta e a noi nascosta, è quegli che sta nel seno di Dio, che è Dio stesso, che è l' Unigenito Figliuolo di Dio Padre, e a cui perciò sono aperti e palesi tutti i tesori della divinità, in cui comunica. Tale è la rivelazione che venne fatta di una cosa a noi non percettibile, cioè di Dio, da tale che l' ha percepita: rivelazione che necessariamente deve riuscirci parte chiara e parte oscura e inesplicabile, che deve contenere per noi de' meravigliosi misteri, ai quali non possiamo altro che credere, come il cieco è astretto di credere a quelli che veggono, intorno alle proprietà e alla natura de' colori e della luce. Che cosa dunque più ragionevole, che più necessario della fede? Che più ragionevole che il cieco presti fede al veggente circa gli oggetti della vista? Egli deve certamente per l' udito raccogliere la narrazione che gli è fatta intorno alle cose colorate e visibili, perchè questa è l' unica via di venire in qualche cognizione, sebbene oscura e misteriosa, di esse. Ora rispetto alla divina natura i ciechi siamo noi, il veggente, che ci parla è Dio stesso, è Gesù Cristo suo Unigenito. Tale è il sistema della fede cristiana, della fede cieca: nulla di più ragionevole, nulla di più evidentemente necessario della fede cieca. Dal non percepire noi Iddio in questa vita, ma solo sentire ciò che ne vien parlato da chi lo vide, deve succedere necessariamente, che in ciò che ci vien narrato di Dio a noi appariscano delle oscurità e dei misteri. Ma questi lungi dal togliere o diminuire la ragionevolezza dell' assenso che noi diamo alle divine cose, sono anzi nuove prove della verità delle cose rivelateci: perocchè è la ragione quella che ci mostra la necessità, che a quelli che sono privi di un senso debbano riuscir misteriosi e inesplicabili que' discorsi che odono intorno agli oggetti di quel senso di cui mancano (1). D' altra parte questa fede ingrandisce infinitamente l' uomo, perchè lo avvisa che egli è limitato nelle sue percezioni e che vi hanno delle nature, degli esseri, vi ha un essere infinito, che si toglie intieramente al suo sentimento. Questo lo allarga nelle immense regioni che egli non conosce, ma che però con questo viene a sapere che esistono, e lo impedisce di restringere miseramente il tutto a sè stesso, chiudendosi nella sua piccola sfera, quando ha una natura creata per non avere limiti di sorte alcuna. L' Infinito poi volle in quest' atto di fede prestato alla sua parola, a questa sua parola misteriosa e inesplicabile, ricevere dall' uomo il più accettevole sacrificio: perocchè con quel medesimo atto l' uomo e nega sè stesso, confessando la propria limitazione, e confessa Iddio, riconoscendolo, anche non visto, per quell' infinito Essere che pur è. La materia della Teologia rivelata adunque primieramente è formata di alcune proposizioni intorno a Dio che, relativamente a noi, fino che siamo in questa vita, non riescono che in cognizioni ideali negative; e le quali comprendono necessariamente de' misteri, cioè delle affermazioni, nelle quali, sebbene s' intendano i termini, presi in separato, e anco si concepisca il nesso de' medesimi, tuttavia non si sa spiegare nè intendere come questo nesso sia realmente tale, perchè l' intendere come esigerebbe la percezione dell' oggetto, di cui si afferma, la quale a noi manca. Oltre queste verità poi, la Teologia rivelata comprende un' altra specie di verità, cioè le verità non razionali, ma positive ossia storiche, come la creazione, l' incarnazione, e altre storie sacre, cioè quei fatti che Iddio ha operato cogli uomini, i quali fatti non sono in sè stessi necessarii, ma dipendenti dalla divina volontà e arbitrio. Le idee o concezioni di questi fatti sono, almeno in gran parte, positive e non eccedono la cognizione che si fonda sulle percezioni che naturalmente abbiamo delle cose. Ma ciò che è soprannaturale in essi si è l' essere realmente avvenuti questi fatti, poichè l' avvenir loro, piuttosto che il non avvenire, dipese non da una legge della natura, ma da un decreto della divina volontà. E oltre ciò il miracoloso che in essi si racchiude, come pure il sistema dei medesimi, i fini o l' intendimento, a cui furono ordinati e operati. Si può adunque dire che la Teologia rivelata, in quanto si divide dalla naturale, compongasi di due maniere di verità, cioè: 1 di verità necessarie , le quali sono nella concezione dell' uomo ideali7negative ; e 2 di verità contingenti , la concezione delle quali è positiva , cioè tale di cui hassi la percezione. Ciò che abbiamo detto fin qui della fede, base della Teologia rivelata, rende chiara quella verità che si contiene nel sistema della cristiana teologia, cioè: « che la fede può aversi anche in un uomo che non si trovi attualmente in istato di grazia« (1). » E veramente le idee o concezioni che porge la rivelazione, posto che sieno communicate agli uomini, non hanno niente che ecceda la facoltà apprensiva della ragion naturale, appunto perchè tutto ciò che hanno in sè di soprannaturale è negativo, cioè non è che indicato con segni o idee naturali e note, come in ragion d' esempio in un problema determinato d' algebra le incognite sono espresse con quantità perfettamente cognite in un certo modo legate insieme fra loro. Sicchè per questa parte ciò che la rivelazione propone a credere può essere ricevuto nelle menti di tutti gli uomini che non hanno ancora la grazia, come in vero a tutti gli uomini fu ordinato da Cristo che fossero predicate. E certamente tanto quelli che assentono alla dottrina esternamente rivelata che vien loro annunziata, quanto quelli che la rifiutano, la concepiscono, la ricevono egualmente nelle menti, e intendono egualmente quelle proposizioni di verità che vengono loro poste innanzi: e appunto perchè egualmente concepiscono quelle verità le giudicano altresì, e gli uni hanno merito portando d' esse un giudizio favorevole, gli altri hanno demerito portandolo contrario. La semplice concezione adunque di queste verità non eccede i confini della ragion naturale, perchè non si dànno con esse nuove percezioni, nè per avventura nuove idee specifiche, ma solo si scuopre ed insegna nuove relazioni delle idee già note, un nuovo nesso onde risultano delle verità recondite, le quali pur non si veggono, come diceva, in sè stesse, ma ne' loro elementi, o termini co' quali sono quasi come in cifra e in enimma disegnate (1). Oltre la concezione delle verità rivelate per avervi fede in un uomo egli deve formare il giudizio col quale assente e dà credenza alle medesime. Or anche questo può esser fatto dalla naturale sua facoltà di giudicare e potenza di volere: giacchè la rivelazione esterna a cui presta l' assenso può essere concepita, come diceva, colle forze naturali: e a concezioni che non eccedono la virtù naturale di conoscere il dar l' assenso non è atto soprannaturale e non eccede la natural virtù del volere: non è atto molto diverso da quello che fa il cieco nato, per continuarci colla nostra similitudine, quando crede alle parole di quelli che gli parlano de' colori. Egli è bensì vero che il termine ultimo a cui finisce quest' atto è oggetto soprannaturale, ma, come diceva, l' esser concepito colle potenze che s' usano per le cose naturali gli toglie il dare, che farebbe se fosse altramente, all' atto del credere una soprannaturale energia. Perocchè l' atto di questa fede non prende l' elemento soprannaturale che implicitamente, all' istesso modo come chi dicesse« io credo a tutto ciò che afferma Tizio«; col quale atto se Tizio afferma cosa sopra natura, viene a darsi fede anche a questo per un cotal conseguente, senza però bisogno che queste cose soprannaturalmente sieno da colui concepite come tali (2). Indi è che le Divine scritture dicono: « anche i demoni credono« (3) »: mostrando con ciò non averci bisogno della grazia semplicemente per credere. E Gesù Cristo dice: [...OMISSIS...] . Le verità proposte dalla rivelazione esterna da credersi agli uomini sono, come abbiamo veduto, parte ideali7negative (verità necessarie, il dogma della Trinità, ecc.), parte positive (verità contingenti, la venuta di Cristo, ecc.), cioè tali di cui si ha o si ebbe la percezione, come della Chiesa, dell' umanità di Cristo, ecc.. La concezione di queste verità, abbiamo detto, non eccede le forze della ragione naturale, e l' assentire alle medesime non eccede le forze della naturale volontà. Ma tutto ciò non basta però ancora a caratterizzare e distinguere compiutamente la fede naturale dalla fede soprannaturale. Non è ancora indicata quella nota che tocca la sua essenza, cioè che indica che cosa sia questo essere di soprannaturale, che ha la fede di che parliamo. Perocchè se v' ha una fede naturale, può darsi anche un amore naturale, forse in grado minore ma pure un amore, possono darsi anche delle opere naturali e buone fatte in conseguenza di quell' amore. Egli è adunque da ricercarsi in che essenzialmente differisca la fede soprannaturale dalla naturale; ed essendovi due fedi, così due giudizi pratici, due amori, due maniere di operazioni naturali e soprannaturali, è da vedere qual sia quella essenza del giudizio pratico, dell' amore e dell' opera soprannaturale, della quale è privo il giudizio pratico, l' amore e l' opera naturale. Per veder questo, che cosa è, io domando, l' ordine naturale? che cosa è un' operazione dell' uomo naturale? - Quella operazione che l' uomo fa colle forze della sua natura, o spontaneamente, o stimolato e mosso da degli agenti naturali, come sono tutte le cose che compongono quest' universo e che per la via de' sensi influiscono sull' uomo, e un' operazione naturale. Tutte le cose dunque dell' universo sensibile che ci circonda, e noi stessi in esso, con tutte le mutue azioni che derivano da questo complesso di enti e i loro effetti, è ciò che forma quello che si chiama l' ordine naturale . Se dunque una cosa estranea a quest' ordine, una cosa superiore al medesimo, se Dio in una parola entra colla sua azione in quest' ordine, con una azione dico di tal fatta che non è l' azione di nessuna delle forze degli esseri creati; quest' azione di Dio introdotta nell' universo è un elemento soprannaturale, cioè d' un genere suo proprio, un elemento inconfusibile colla natura, e infinitamente superiore alla medesima. Ora applichiamo adunque questa nozione all' operare morale dell' uomo, secondo il cristiano sistema. Quando l' uomo concepisce delle verità, assente praticamente alle medesime, ama le azioni a quelle rispondenti, le produce e fa tutto ciò colle sue forze, o mosso dai naturali stimoli della bellezza naturale di quelle verità e di quelle azioni, dai beni che n' aspetta, o da altri eccitamenti esteriori quali si sieno; allora egli opera naturalmente perchè nessun agente estraneo alla natura delle cose create, nessuno stimolo divino, che eccede (la natura) ha influito in lui e lo ha mosso. E converso, se noi, la nostra volontà subisce l' azione di uno stimolo diverso da tutti quelli degli oggetti naturali, soprannaturale in una parola, verso il quale ella è passiva, dal quale è sollecitata e mossa, in tal caso comincia in noi uno stato nuovo, noi siamo entrati nell' ordine soprannaturale, in quell' ordine che nella lingua della cristiana teologia si appella l' ordine della grazia : allora la nostra azione, sebben nostra, ma per lo stimolo che l' ha mossa si suol pur chiamare, e a ragione, soprannaturale. Di questo stimolo parlano le sacre carte, quando narrano la conversione di S. Paolo: « Ti è duro, dice Cristo, calcitrare contro lo stimolo« (1); » e nel discorso di Santo Stefano al Concilio degli Ebrei, questi sono chiamati duri, che resistono al pungolo dello Spirito Santo: « Duri di cervice e incirconcisi di cuori e di orecchi, voi sempre resistete allo Spirito Santo, come i padri vostri, così anche voi« (2). » E conviene osservare, che se non si trattasse qui di un' azione interna di Dio nell' anima dell' uomo, di un' azione reale ; mai dentro l' uomo esser ci potrebbe niente di veramente soprannaturale, e lo spirito dell' uomo non sarebbe mai veramente sollevato a Dio e con lui congiunto, per quali si fossero gli emblemi esterni, i segni, le parole, le cerimonie, i riti. Tutte queste operazioni esteriori, dove nulla fosse operato nell' animo umano di nuovo e di diverso da ogni cosa naturale, sarebbero segni di religione e apparenze, non mai formerebbero una religione interiore nell' uomo, diversa veramente dalla naturale. Quindi l' operazione di Dio nell' interiore dell' uomo, questa operazione di grazia è un dogma del Cristianesimo, è propriamente quel dogma fondamentale su cui il Cristianesimo stesso si erige come sopra sua base, è quel dogma col quale la religione soprannaturale comincia, è l' essenza di essa religione soprannaturale, quella essenza che ricercavamo, di cui non v' è nulla di simile nella natura, nulla di simile in una fede, in un assenso, amore ed operazione naturale. Tutte le divine Scritture sono piene di questa grande verità, e lo stabilirla è lo stesso scopo delle Scritture, perchè è il medesimo che lo stabilire una religione soprannaturale. [...OMISSIS...] E Gesù Cristo mostrò che non si potea essere Maestro in Israello senza conoscere questa operazione interiore di Dio, quando parlando con Nicodemo dello spiritual nascimento che avviene per essa, gli disse: « Tu sei maestro in Israello ed ignori tai cose?« (2). » Pelagio poi, che il primo insorse nella Chiesa contro l' operazione interiore della grazia, sebbene ammetteva tutti gli esterni doni di Dio e la rivelazione stessa, a malgrado di questo fu stimato distruggere l' essenza del Cristianesimo e non ne lasciare che il nome vuoto di significato, perocchè toglieva via l' azione interna di Dio nelle anime. « Hanc debet Pelagius , » dice S. Agostino parlando di questa reale interna azione, « gratiam confiteri, si vult non solum vocari, verum esse Christianus (3) ». L' essenza del Cristianesimo è d' essere una religione soprannaturale, e l' essenza d' una religione soprannaturale dell' uomo è la reale azione della grazia nell' anima umana (4). Che diremo dunque del protestantesimo che nei nostri tempi s' è risoluto a negare i misteri cristiani, e a negare qualunque azione soprannaturale nell' interiore dell' uomo, riducendo tutto così alle forze della natura? Che egli non è più cristianesimo, ch' egli non ha più diritto di tenerne il nome, che i suoi seguaci sono usciti dalla grande comunione della cristiana società. Ma gli stessi cattolici non insuperbiscano per questo, non sieno soddisfatti del solo aver questo nome: io veggo fra noi stessi una quantità di persone irrigidite nella carità, dissipate, estenuate nella fede, a cui mancan quasi le forze da sollevarsi oltre il confine della natura, e che pare non sappiano oggimai più spingere i lor pensieri a concepir pure una potenza invisibile sì ma tuttavia infinita, posseditrice dell' uomo, la qual signora di sua natura v' insinui luce e calore, e non sappiano più credere a questa potenza: delle persone insomma che parlano e pensano alla religione, ma i lor pensieri e le parole non si ravvolgono mai che al di fuori da quel sacrosanto segreto dove ha la religione stessa sua sede e regio abitacolo: e parlano e pensano i riti del culto o la morale umana, o gli effetti salutari che dalla religione ridondano nella società: ma tuttavia la religione stessa, che in una divina real virtù ed efficacia consiste, che Agostino appella interna, occulta, mirabile ed ineffabile (1), non veggono mai, non la prendono mai veramente ad oggetto de' loro pensieri e de' loro religiosi ragionamenti. Il perchè oggimai, chi non vuole ingannarsi a sapere, non se alcuno si chiama cristiano, ma se è veramente, conviene far uso di questa tessera:« Chi dà fede ad una non ideale ma reale azione di Dio nell' anima per la quale questa sia mossa alla fede, carità e buone opere, questi tiene la cristiana dottrina; ma colui, il quale ammettendo anche l' esterna rivelazione, non presta però vera credenza a quella interna divina operazione, non professa punto il cristianesimo« (2). La fede che abbiamo fin qui descritta è bensì una vera fede come la chiama il Concilio di Trento, ma non è necessario che sia sempre anche una fede viva . Della fede viva parlò il Concilio Arausicano quando definì contro i Semipelagiani la necessità della grazia anche per il principio della fede (3): della fede viva parlò pure il Concilio di Trento, quando fece questo canone: [...OMISSIS...] V' ha dunque una fede che è opera di Dio nell' uomo, colla quale, se l' uomo non resiste colla sua mala volontà, viene conferita la grazia della giustificazione, e onde germoglia la nostra eterna salute. Di tal fede è che fu detto: [...OMISSIS...] . L' esito adunque di questa fede è la salute eterna (7). Cristo poi enumera e dichiara gli effetti di questa fede viva , e anche in generale della fede, nel capo XIV di S. Giovanni. Il primo di questi effetti è una specie di onnipotenza che vien data al vero credente: [...OMISSIS...] . Il secondo effetto è l' efficacia che da una tal fede acquista l' orazione, mezzo universalissimo di ogni grazia: [...OMISSIS...] . Questi due primi effetti della fede vengono dalla fede stessa (2), ma il terzo effetto non viene dalla fede come fede, ma dall' esser fede viva , cioè dall' aver congiunta la carità. Perciò Gesù Cristo continua a dire, così esponendo il terzo effetto che sono le buone opere: [...OMISSIS...] . Il quarto effetto è l' unione con Dio per mezzo dello Spirito Santo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole sono dichiarate le proprietà di questo ultimo effetto, cioè una consolazione , una perseveranza , un amore incessante della verità , un lume o cognizione tutta soprannaturale, una vicinanza , un possesso . Che cosa è dunque che fa sì, che l' assenso nostro a quelle verità sia soprannaturale? qual' è quella nota, quel carattere pel quale un assenso naturale si distingue da un assenso soprannaturale? Se noi consideriamo la differenza fra la fede morta e viva (l' assenso che si dice dato naturalmente alla verità rivelate, e l' assenso che si dice dato alle medesime soprannaturalmente) nei suoi effetti, essa consiste nell' essere questo assenso pratico ed operativo ; e nell' esser quello puramente speculativo e sterile : il primo perciò scompagnato da opere buone, e il secondo di opere buone fornito. [...OMISSIS...] E ecco in che modo descrive questo Apostolo i due assensi, l' uno solo speculativo e l' altro pratico, che si dà alle verità rivelate colla nostra fede: [...OMISSIS...] . Nel quale passo si vede come l' addentrarsi col pensiero nella legge divina, il meditarla, è il mezzo pel quale l' uomo rende pratico il suo assenso; mentre il solo crederne, quasi di volo, la verità, e così leggermente vedutala passar oltre, non può metterla nel cuore profonda, e farle di là portare i buoni effetti delle opere. Ma perchè questa meditazione della legge? questo riguardare in essa con attenzione e con assiduità? Certamente a percepirne la bellezza, a suscitarne in noi l' amore: questo amore, che come è effetto del meditarla, così è anco dello stesso meditarla insaziabilmente cagione: perchè noi non possiamo torci dal vagheggiare ciò che amiamo; ed è per alcune faville d' amore che spande nell' animo che la divina grazia ci rende meditativi della santa legge e delle cose divine, nè mai sazi di contemplarle. San Paolo, descrivendo la fede viva, la chiama « una fede che opera per la carità (2). » Ed è questa quella fede di cui dice che «« vive il suo giusto« (3). » Le opere buone adunque, la carità che le produce, e quel giudizio pratico che è il principio della carità (4) son tre caratteri che accompagnano la fede viva o soprannaturale. Io credo però che la fede che rimane in un uomo battezzato abbia qualche cosa di particolare, e in un senso più proprio ancora si possa chiamare morta . Il Battesimo ha impresso in lui il carattere indelebile , che rende tanto più colpevole e riprovata la sua incredulità. Oltracciò, s' egli è stato messo alla grazia, se ha ricevuto lo Spirito Santo, io credo probabilmente che nel suo spirito rimangano delle traccie profonde di questi doni soprannaturali, le quali aggravano la sua condanna: traccie che si possono in qualche maniera chiamare soprannaturali, perocchè trassero l' origine da un soprannaturale principio, e che forse in qualche maniera autorizzano a nominare in lato senso soprannaturale ancora quella fede morta che gli rimane. Riassumendo ciò che abbiamo detto, la Teologia dunque appartiene alla teoria, la Religione alla pratica: il principio della teologia è l' essere ideale, il principio della religione è l' essere reale: la Teologia appartiene all' ordine delle cognizioni, la Religione all' ordine delle azioni. La Teologia naturale è composta di cognizioni negative e a cui giunger può il naturale ragionamento degli uomini: la Teologia rivelata è composta di cognizioni negative anch' esse, ma tali a cui, quanto alla parte materiale della rivelazione, il naturale ragionamento non giunge, ma sono positivamente comunicate agli uomini. La Teologia rivelata si oppone adunque alla naturale, come si oppone il naturale (razionale) al positivo . La religione naturale all' incontro si oppone alla religione soprannaturale, come si oppone il naturale (l' azione naturale) al soprannaturale (all' azione soprannaturale). Stabilendo noi questo concetto della religione soprannaturale, egli è evidente che non facciamo consistere la sua base in nulla di esteriore all' uomo: ma che poniamo il fondamento nell' uomo interiore come lo chiama S. Paolo (1). Così Gesù Cristo avvertiva che questa religione (e la chiamava regno di Dio per la possanza che esercita Iddio nelle anime) non si poteva additare in nessun luogo esterno, nè dire: ecco qui, ecco là il regno di Dio; perchè stava al di dentro dell' uomo. [...OMISSIS...] Nè solamente la Religione soprannaturale è al di dentro dell' uomo, ma anche in generale il concetto stesso di religione sparisce e si annulla, ove si tolgano via gli atti di un culto interiore che presti l' uomo alla divinità. Quindi i riti esterni del culto per sè soli non formano, in modo alcuno, una religione, se non vi si accompagnano i sentimenti dell' uomo. Questi sentimenti poi non possono non essere appoggiati a una credenza, a delle cognizioni e opinioni intorno le cose divine, in somma ad una qualunque teologia. Questa dottrina poi che sottostà alla Religione, questa teologia, vera o falsa, che è sempre dalla religione supposta, può risultare o di pure idee negative, o essere anco vestita di simboli, rappresentazioni, miti. Ma questo addobbamento e talora questo ingombro di figure e immagini non costituisce che la parte accessoria e accidentale della teologia medesima, una parte che ha bisogno della prima, come il ricamo suppone il drappo, sopra cui si rileva, o il colore suppone il corpo, dal quale viene rimbalzato agli occhi di chi lo mira. Le quali cose ho voluto toccare per rimuovere quei falsi concetti di religione che furono proposti ne' nostri tempi. La quale religione è poi assai agevol cosa combatterla, quando si descrive per quella che non è, e, creato un ente odioso o frivolo o assurdo, si denomina poi esso medesimo Religione: come vediamo nei nostri tempi avvenire senza posa ne' libri di quelli che o la religione non istudiano o non l' amano. Ecco pertanto i due falsi concetti che furono dati della religione negli ultimi tempi, concetti a cui la distruzione di ogni Religione assai facilmente seguirebbe, se potesser valere. Beniamino Constant la ridusse al solo sentimento religioso, e la divise così dalla dottrina, da una teologia che deve servire di sostegno e giustificazione di quel sentimento, giacchè questo sentimento deve essere ragionevole: altramente l' esser cieco, sarebbe il medesimo, che renderlo dispregievole e arbitrario. Vittore Cousin (1) la ridusse alla parte simbolica della teologia, separando da questa le pure concezioni e denominando queste filosofia : non riflettendo che un simbolo cessa anco di essere simbolo, se nulla segna o rappresenta; e che quindi i simboli non possono mai stare dalle pure concezioni divisi, sebbene queste possano (fino a certo segno) star divise da quelli. Oltrachè egli dà il nome di religione a quello che non è veramente che una teologia . La Religione non è dunque una pura speculazione, una pura teologia: molto meno è ammasso di simboli. La Religione non è nè pure un puro sentimento , scompagnato da concezioni e credenze . Ma la Religione è un culto interiore; essa è« degli atti interni di adorazione e preghiera che si porgono alla divinità, e che nascono in conseguenza d' idee e credenze (talora involte in imagini e simboli ), dalle quali idee , quasi da luce calore, escono i sentimenti che sono poi cagione prossima di quelle interiori azioni di culto: le quali azioni (pel natural nesso dell' interno dell' uomo coll' esterno) si producono anche all' esterno e prendono la forma di preghiere vocali, riti e cerimonie religiose, che, quando sono abbracciate da tutto un popolo, diventano popolari e pubbliche«. Non si possono scompagnare e dividere gli elementi che formano la Religione, senza distruggere la Religione medesima. Essa non esiste se non allorquando esistano le azioni interiori di culto, e perciò queste sono la sua base e, se si vuole così, la sua essenza: ma esse azioni sono legate necessariamente : 1. ai sentimenti; 2. alle idee; e accidentalmente (se mi si permette di così dire, che meglio si direbbe per una loro conseguenza ) ai riti esteriori. La Religione adunque aggiunge alla Teologia , è qualche cosa più di lei, è cosa che la perfeziona e compisce, riducendola alla pratica, come l' azione reale compisce il disegno mentale, e l' idea di una casa che hassi a fabbricare colla erezione stessa della casa viene adempita. Non convien dunque straziare il concetto della Religione, separandolo da quelle parti che gli sono essenziali o concomitanti o accessorie. Se tutti per tanto gli elementi indicati entrano nel concetto generale della Religione, ove poi si discenda al più speciale della religione soprannaturale , scuopresi un nuovo elemento che conviene aggiungere ai precedenti, e che forma la differenza, per la quale la soprannaturale religione dalle altre naturali si divide e distingue: e questa è quella azione reale che Dio stesso opera nello spirito dell' uomo. Il perchè questa religione abbraccia di più della naturale; è quell' elemento divino che si suole appellare col nome di grazia , è quello che corona e compisce tutta la serie degli altri elementi, e reca questo tutto , per così dire, che religione si nomina, all' ultimo suo perfezionamento. Il perchè gli elementi che entrano a formare il concetto della religione soprannaturale, riassumendoli qui tutti, sono i seguenti: 1. Una Teologia , ossieno delle idee intorno alla divinità (1). Non è poi essenziale che queste idee sieno vestite di simboli e imagini. 2. De' sentimenti religiosi, nati in virtù di quelle idee. 3. Delle azioni religiose e interiori, cioè di culto. Queste azioni vengono naturalmente a prodursi anche al di fuori in riti e cerimonie, per le quali nasce il culto esterno (2). 4. Un' azione divina , che congiunge lo spirito umano ad intima e reale unione colla divinità. Recherò in prova di questa tesi quello che io credo il più autorevole raccoglitore della cristiana tradizione, S. Tommaso d' Aquino. Eccone la dottrina. Le potenze dell' anima, dice S. Tommaso, sono molte; ma l' essenza dell' anima è unica: quelle dunque sono diverse da questa, ma da questa derivano come tralci da un unico ceppo. Come poi l' essenza dell' anima è il principio comune delle potenze, così le potenze sono altrettanti principii delle varie maniere di operazioni che alle singolari potenze convengono. Ora le operazioni o azioni son buone o cattive, morali o immorali; e questa bontà o malizia delle azioni si deve riferire e riportare ai principii delle azioni stesse: quindi le potenze sono la sede delle virtù e dei vizii. Ma nell' ordine soprannaturale la grazia per sè considerata non è già una virtù od un vizio particolare, ma bensì il principio e la radice di tutte le soprannaturali virtù (1). Il perchè la grazia deve informare e perfezionare lo stesso principio delle potenze, cioè l' essenza dell' anima, giacchè le singolari potenze sono solamente la sede delle virtù singolari, e non di ciò che è il comune fonte di tutte. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Fermiamoci a sola quest' ultima parola di creazione che si applica dalle divine Scritture all' effetto che fa nell' uomo la grazia. S. Giacopo dice: « Volontariamente ci ha generati colla parola di verità, acciocchè siamo un cotal principio di una creatura sua« (3). » Nelle quali parole è mirabile quanto chiaramente sia espressa la nuova esistenza che riceve l' uomo dalla grazia. Non si contenta di dire che diventiamo per la grazia una creazione di Dio, ma si bene dice il principio di una creatura, per esprimere che è tutto nuovo ciò che pone la grazia, fino il principio dell' uomo dalla grazia rinnovato: e non dice diventiamo , ma siamo , cioè cominciamo ad essere , come le creature che ricevono l' essere dalle mani del Creatore, le quali pur allora sono , non trapassano da uno stato all' altro, non diventano diverse da quello che erano prima. E questo è parlare costante degli scrittori del nuovo Testamento, massime di S. Paolo. Egli afferma che noi siamo creati in Cristo Gesù (1): parla dell' uomo nuovo creato nella giustizia e nella santità della verità (2): e ripete frequente che siamo creature nuove (3). Non si poteva trovare una parola più vera di questa, più acconcia a esprimere l' operazione mirabile della grazia nella essenza dell' anima umana (4). Nella essenza dell' anima adunque, nell' IO è la operazione della grazia: in questo IO che è l' identico soggetto di tutte le potenze, perchè io medesimo che penso, sono quello altresì che vuole, che ama, che patisce, che opera: diverso è l' atto del mio pensare da quello del mio volere, diverso è il mio patire dal mio fare; ma non diverso, ma sempre identico e unico sono IO, a cui tutti questi atti appartengono, come a loro soggetto e principio. Conviene pertanto ascendere alla concezione di questo sentimento sostanziale, radicale e comune alle potenze tutte, che col nome di IO si segna; e allora solo si ha concepita quella essenza dell' anima, di cui parliamo, e dove in prima si eseguisce la mirabile operazione della divina grazia. Dottrina cristiana è che l' anima sia il soggetto della grazia in quanto essa appartiene alla specie delle nature intellettuali o razionali (5). Indi è che la grazia non è propria che dell' uomo, e non degli esseri inferiori: essa è qualche cosa di più eccellente a tutto ciò che ha l' uomo per natura; e perciò perfeziona l' uomo nella parte sua più elevata, sollevandolo via più su. Ma or da questa dottrina, che la grazia influisca immediatamente nell' uomo in quanto egli è intellettivo, riceve nuova luce una verità filosofica di molto valore, cioè che« l' intelletto, propriamente parlando, meglio che una potenza si deve chiamare un elemento della essenza dell' anima umana«. Ciò che non meno è conforme alle dottrine dell' Angelico, che alle ricerche ideologiche da me tentate e rese pubbliche. Il che gioverà che veggiamo in un distinto paragrafo. Che questo sia pensiero dell' Aquinate, si può rivelare dal seguente ragionamento: L' anima umana è di una specie diversa da quella de' bruti pel solo intelletto . Ora, secondo l' Angelico, il fondamento della specie delle cose è la loro essenza . Dunque l' intelletto appartiene all' essenza dell' anima umana. La proposizione minore di questo sillogismo è dottrina espressa dell' Angelico dottore. [...OMISSIS...] e non per qualche potenza solamente e per qualche accidente, appunto perchè è intelligente. Questa dottrina poi consuona al tutto con quella che io ho esposta nella Ideologia . Tra le essenze delle cose io ho messo in primo luogo quelle appunto che chiamo specifiche , perchè costituiscono le specie delle cose (2): ed è di queste che parla S. Tommaso. E facendoci in particolare alla intelligenza umana, io ho dimostrato che questa intelligenza non è che la visione costante dell' essere ideale ; che l' essere ideale, collo starsi presente e quasi affisso perpetuamente allo spirito nostro, crea in lui la ragione la quale non è altro che la potenza di usare dell' essere mentale, giacchè ogni ragionamento non è altro, ridotto all' espressione sua semplicissima, se non un' applicazione, un uso che fa il nostro spirito dell' essere ideale, di questa idea maravigliosa che è l' idea di tutte le idee, o secondo la frase aristotelica, la specie di tutte le specie ; poichè ciò, per cui ogni altra idea è idea, è per esservi mescolata la concezione dell' essere, tolta la quale, è tolta ogni idea, ogni pensiero (1). Ora se l' intelletto è formato da una visione permanente, non si dà in lui discorso da una cosa a un' altra; ma la sua indole è quella di avere il guardo fisso e immobile sempre a quel medesimo oggetto: il che non è proprio delle potenze. Perocchè la potenza , come indica il suo nome, esige una certa sfera, nella quale si muova, passando da uno stato all' altro, da quello di mera potenza a quello di atto, e cessando da questo, senza punto cessar essa nè distruggersi: il che è proprio, fra le potenze intellettive, della ragione . L' intelletto all' opposto è perfettamente immobile, e, se non gli viene mutato l' oggetto, egli per sè nè si rimuove da quel guardare equabilmente in esso, nè può in alcun modo rimuoversi o veder altra cosa, consistendo esso stesso in questa immobilità, per legge di sua natura (2). L' azione adunque della grazia nell' anima è un' azione nella parte sua intellettiva, è l' intelletto che nell' uomo viene accresciuto con quell' azione; e per questo alcune espressioni delle divine Scritture sembra quasi che parlino di un intelletto nuovo che l' uomo acquista mediante la grazia. Quando il reale Salmista diceva, a ragione di esempio: « Dammi intelletto e imparerò i tuoi comandamenti« (3); » non era che gli mancasse l' intelletto comune agli uomini tutti, ma dimandava quell' intelletto che aggiunge la grazia. Neppur dimandava egli un aumento della potenza della ragione , perchè questa gli veniva rinforzata e rinnovata per sè stessa, quando l' intelletto, da cui ella nasce, fosse invigorito e accresciuto: e perciò dice:« imparerò i tuoi comandamenti«; parole che esprimono appunto l' ufficio della ragione che è quello di ragionare e discorrere sulle cose e rilevarne i loro rapporti. Più ancora è chiara questa domanda del principio intellettivo, essenza della umanità, in queste altre parole del medesimo salmo: « dammi intelletto » (questa è l' essenza dell' anima intellettiva) «e io scruterò la tua legge » (questa è la ragione rinforzata che ne consegue), «e la custodirò in tutto il mio cuore« » (questa è la efficacia dell' amore che si aggiunge sempre a quella cognizione, non fredda, ma tutta calda, che si ha per grazia) (4). L' analisi delle idee dimostra, che il primo elemento intellettivo che concepir si possa in una natura, è la visione dell' ente. Per ciò, ove questa visione mancasse, non rimarrebbe più in quella natura niente d' intellettivo e di razionale (1). Un' anima, ove non fosse nulla d' intellettivo e di razionale, sarebbe un' anima irragionevole, qual' è quella dei bruti. Ciò posto, in Ideologia non vi hanno che due sistemi, l' uno che fa nascer l' uomo animale bruto e che gli dà la potenza di diventar ragionevole, di diventar uomo; questo fu il sistema de' sensisti: l' altro che fa nascer l' uomo uomo, cioè ragionevole; questo è il sistema che ammette congenita nello spirito umano l' idea dell' essere perchè non v' ha nulla d' intellettivo prima di questa idea; sicchè per lo meno conviene ammettere d' innato questa idea, acciocchè nell' uomo ci abbia l' elemento intellettivo. L' assurdità del primo di questi due sistemi si pare da sè stessa. Il secondo solo poi è compatibile insieme col sistema del cristianesimo, il quale suppone sempre che l' uomo sia uomo, cioè dotato del principio intellettivo fino dai primi istanti della sua esistenza. La Religione cristiana suppone che fino da quei primi istanti egli sia altresì suscettibile di accogliere la grazia in sè medesimo, il che è quanto dire, di partecipare della congiunzione colla divinità. Ora abbiamo veduto nell' articolo precedente che la grazia opera immediatamente nel principio intellettivo dell' uomo e esalta questo principio, l' illustra, lo reca all' intima unione coll' Essere Primo, che, nobilissima natura come è, non può comunicare immediatamente se non con ciò che vi ha di più nobile nell' uomo, con quell' elemento razionale, del quale S. Agostino non trovava nulla di più elevato, fuori che lo stesso Dio, e che riconosceva come un raggio della stessa divinità (2). Sebbene l' azione della grazia si operi nella parte intellettiva dell' anima, tuttavia essa è un' azione non ideale , ma reale . La distinzione dell' azione ideale dalla reale è quella stessa che passa tra l' idea e la cosa : l' azione ideale è quella che accompagna le idee nella mente, la reale è l' azione delle cose sussistenti. L' idea è fredda e non è un agente , ma un oggetto : la cosa è un agente, ha forze sue proprie. L' idea non è che una cosa possibile, una possibilità, un primo iniziamento della cosa: ma la cosa è una realità, una sussistenza, una cosa non solo iniziata, ma compita per modo che ha ricevuto l' essere in sè stessa. Non ci inganni il parerci che in molti casi grande sia la potenza delle idee. Convien riflettere che, quando si tratta di idee positive cioè di idee di cose, di cui abbiamo avuto la percezione, di cose che hanno agito sui nostri sensi, allora all' elemento intellettuale e ideale si mescolano degli altri elementi reali. Una cosa che ha realmente agito sopra i nostri sentimenti, lascia nei medesimi le reliquie della sua reale azione; e da questo residuo di azione reale si deriva la potenza che sembrano avere su di noi le idee positive delle cose. Si consideri quanto questo vestigio o effetto, che lasciano in noi le cose reali che hanno operato nei nostri sentimenti, valga a muoverci e a eccitarci. Primieramente quando la cosa reale, che supponiamola cosa buona (delle cose male si può dire il medesimo, rivolgendo il discorso in opposito), eccitava i nostri sentimenti ad appetirla, allora la nostra volontà fu mossa fortemente, ella se ne è dilettata, ha fortemente voluto. Questa volontà che fu così una volta mossa, si conserva piegata e inclinata di amore verso quella cosa; ella si ricorda di avere amato, di avere goduto; vorrebbe amare, vorrebbe godere ancora: la volontà in tale stato è già deliberata, non ha bisogno di forte spinta a ciò; l' idea della cosa non le serve già per darle movimento, ma ricordarle di eccitare in sè stessa quella grata percezione, per dirigere e mantenere quel suo movimento. Questa piega, questa mozione abituale della volontà è bensì mantenuta e pressata invece che dalla idea (possibilità della cosa) dalla memoria della percezione (1), e degli affetti dilettevoli, de' godimenti di cui questa fu alle volte accompagnata: ma la memoria ossia il ritenimento della percezione non è l' idea, è qualche cosa di più reale, di una impressione lasciata in noi dalla cosa reale, la quale impressione colorisce, per così dire, e incarna la pura idea. Si aggiunge alla piega della volontà e al vestigio che rimane in noi della percezione avuta, il giocare della fantasia o imaginativa, la quale ha virtù di risuscitare quel vestigio e rinnovare la percezione sensitiva . Poichè la fantasia, come ho mostrato, non è che un senso interiore, pel quale l' anima, come stimolo interno, eccita nell' organo sensorio dei movimenti simili a quelli che furono in lui eccitati dagli stimoli esterni dietro ai quali seguitano le sensazioni: sicchè le imagini o fantasmi sono vere sensazioni e simili di natura alle percezioni sensitive. Or anche questa della fantasia è azione reale e non ideale, e si aggiunge alle idee, nascendo contemporaneamente con esse. Quindi è che si spiega quella potenza, che pare sì smisurata, delle idee nell' uomo. La idea della ricchezza, a ragione di esempio, quante reminiscenze, quante imagini non richiama! E in quelli che ne hanno la passione, quanto decisa e fortemente piegata non è la volontà! Che se si spogliasse l' idea della ricchezza di ogni imagine, di ogni reminiscenza, di ogni affetto per lei contratto; se non se ne avesse che una pura idea astratta, come dicono, e come diciamo noi, negativa; se non si conoscesse se non per un segno, per una parola, come la si amerebbe? Che attrattive avrebbe mai una tale ricchezza per noi? Quanto non sarebbe fredda e nulla al muoverci una tale idea di ricchezza? Le idee dunque, per sè sole, sono fredde, e tanto più fredde e inefficaci a muovere la nostra volontà, quanto più sono astratte e negative, cioè tali che non ci dànno la rappresentazione positiva della cosa, ma ce la segnano solo e contraddistinguono (2). Le idee ci fanno semplicemente conoscere le cose, e il semplicemente conoscerle non è ancora l' esser noi congiunti con loro, nè il soffrire da loro un' azione sostanziale, cioè che venga dalla loro sostanza in noi prodotta. L' idea non è propriamente un' azione, ma il termine di un' azione: nell' idea quindi l' azione è finita, il moto non si propaga di più. Tutt' all' opposto è di un agente a noi applicato: in questa congiunzione di noi con un ente sussistente che in noi agisce, c' è l' atto in atto, per così dire, non l' atto già finito; e qui noi lo troviamo in quel momento, nel quale l' atto è vivo per produrre il suo termine. Or dunque distinta così l' azione ideale dall' azione reale, e veduta la inefficacia di quella e la viva efficacia di questa, diciamo che la operazione divina della grazia, sebbene si compia nell' intelletto, tuttavia è un' azione reale . Questa differenza fra l' azione ideale e l' azione reale, è quella stessa che pone la divina Scrittura tra la legge di Mosè e la grazia di Gesù Cristo. Di nessuna cosa è così sollecita la divina Scrittura quanto di farci notare questa distinzione, e dimostrarci quanto la legge di Mosè fosse inefficace per muovere la volontà dell' uomo, e quanto efficace fosse la grazia di Cristo. La ragione di questa inefficacia è appunto questa, cioè che la legge non faceva che presentare alla mente delle idee , la fredda cognizione dei doveri: ma la grazia di Gesù Cristo aggiunge a queste idee una forza che elle per sè non hanno, le infiamma, le rende veramente possenti nell' uomo. Egli è con ciò che S. Giovanni mostra quanto Gesù, il Legislatore nuovo, vincesse Mosè, il legislatore antico, in eccellenza e quanto sia più sublime la legge nuova sopra la legge vecchia. [...OMISSIS...] Tutta la lettera di S. Paolo ai Romani non è che un mirabile commentario di questa verità fondamentale dell' Evangelio. Il non aver distinta l' azione ideale dall' azione reale travolse i Pelagiani nel loro errore, che loro impedì il distinguere la legge dalla grazia : e quindi negarono la grazia perchè, non potendo concepirla, non sapevano risolversi ad ammettere altro che la sola legge , una cognizione del bene, ma non un aiuto interiore e possente che rendesse attiva e vivace questa cognizione. E veramente S. Agostino non negò loro che la grazia si potesse chiamare anche col nome di dottrina ; perocchè, operando essa nell' intelletto, ricever può anche questo nome. Ma ciò che negò loro fu, che questa dottrina fosse pura dottrina, puro e freddo conoscimento: era dottrina che teneva della percezione, che toccava, che produceva un sentimento, un' anima nuova piena di virtù e di forza da operare. [...OMISSIS...] La giustizia consiste nel dare a tutti il suo: la virtù consiste nell' adesione della volontà [all'] ordine dell' essere. Chi non vive secondo quest' ordine, chi non dà a tutti il suo, è vizioso e ingiusto. Ora quest' ordine richiede che noi stimiamo e amiamo Iddio per quello che [egli è], principio e fine di tutte le cose, l' essere stesso, il necessario, l' assoluto. Questo è il capo di tutto il sistema morale, come l' Essere divino è il capo dell' universo, il perno su cui tutto si mantiene e muove. Ma questo Essere, che deve esser l' oggetto d' un infinito amore, e verso cui dobbiamo esaurire tutti gli affetti del nostro cuore che non può amare nessun' altra cosa se non per lui, come per lui ella esiste, nessuno l' ha mai veduto, mai percepito. Egli è rimosso da questo mondo, egli si tiene occulto e invisibile agli occhi nostri: noi non ne abbiamo che una idea, e una idea negativa; ella è composta questa idea della relazione di Dio colle creature, ma appunto per questo le creature stesse ricorrono alla mente, si mescolano nel concetto di Dio, e ci mettono a pericolo di dare ad esse quell' adorazione e quell' amore, che noi dovremmo riserbare al solo Creatore. Una idea pura, negativa, senza percezione della cosa, senza rappresentazione nè imagine, è languida e fredda per sè stessa, non ha virtù di mettere in noi un efficace e vivo sentimento. Intanto sotto ai nostri sensi è continuamente l' universo creato: egli gl' inebria con tutte le sue delizie, li rapisce con tutta la sua vaghezza, li incanta, li distrae, li assorbe con tutta la sua infinita varietà e fecondità. Tanti beni, tutti sensibili, tanti mali, pure sensibili (perocchè anche questi cooperano colla loro vivissima molestia a renderci più avidi e più perduti dietro ai beni), esercitano in noi un' azione tutta reale , tutta efficace, contro la quale non ha schermo il nostro cuore che sembra simile a galeotto di leggera barchetta nuotante in mezzo alle onde immense di un oceano tempestoso. Come mai adunque quella forza che può venire all' uomo da quella tenue e sottilissima idea della invisibile e incomprensibile divinità, varrà a vincere gli impulsi delle passioni sommosse e gli eccitamenti di tanti beni umani presenti, visibili, irruenti continuamente sopra i suoi sensi, e, in una parola, esercitanti nel sentimento dell' uomo un' azione realissima? Come l' amore di questi beni, così vicini e attivi, sarà minore, più debole e cedente all' amore di quel Dio rimoto, che l' uomo nè pur positivamente conosce, perocchè la idea negativa non che dia il sentimento della cosa, ma non dà nè pure una vera cognizione della sua natura? Come insomma questi due amori, delle creature e del Creatore, potranno essere subordinati, quando vengano in collisione fra loro, per forma che quello a questo ubbidisca? (1). E questa collisione, nello stato presente della umanità, è continua. Si vede nei sensi dell' uomo una inordinazione manifesta: le sensazioni gli promettono più che non possano attenere. Non c' è uomo, neppure fra i mondani e alieni dalla religione, il quale non riconosca che le sensazioni illudono; che questa illusione viene dissipata dalla realtà; che questa « realtà delle cose », come confessava un uomo che se n' era voluto scapricciare, è « trista e fredda (2) »; e che è piuttosto il gioco della fantasia che abbellisce il futuro quello che seduce e imbaldanzisce l' uomo di speranze, che non la realtà del godimento presente, circoscritto, breve, avvelenato di segreto angore. E quindi la perpetua confessione che si ha dalle labbra di quelli che pure nella illusione e della illusione stessa vivono; cioè la confessione di Salomone: [...OMISSIS...] . Che dunque nelle sensazioni vi sia un principio illusorio, una inordinazione (perocchè questo è una inordinazione, l' infondere una vana speranza), è una verità di fatto, testimoniata dagli uomini di tutti i partiti e di tutte le opinioni. Ella è quella verità che agli uomini, i quali estinsero la morale nel piacere e fecero della sapienza un' arte di vivere con maggior copia di dilettazioni, suggerì lo strano sistema di pascere l' uomo di una continua illusione e di raffrenare i suoi appetiti appunto per questo di poter così maggiormente godere, tementi che, col procacciarsi solo tutti i diletti reali, l' uomo si disingannasse delle cose sensibili e svanisse per lui quell' errore, giudicato da lor fortunato, col quale il senso solleticato moderatamente promette, ove gli si dia più e più, di pervenire a un paradiso d' interminabili voluttà, e ripete l' antichissima menzogna: « Eritis sicut Dii ». E in quest' opera della seduzione e dell' inganno che viene da' suoi sensi all' uomo, ha gran parte la volontà dell' uomo, così piegata, aggirata e determinata a voler conseguire una felicità assoluta e piena, chè senza questa non gli pare di poter reggere: e quindi, ove non n' abbia una reale, essa precipita a crearsene una colla immaginazione e la trova appunto nelle cose sensibili, soli beni reali che a lei presenti la natura. Che se la volontà non avesse già quest' abito e questa irresistibile piega che la porta a volere un bene assoluto e infinito; e il senso non avesse in sè quella inordinazione, ma la sensazione non imbaldanzisse l' uomo a sperare e promettersi da lei più di quanto può mantenere; in tal caso l' uomo sarebbe sì inclinato alle creature, ma non istrabocchevolmente e inordinatamente, nè farebbe di ciò onta al Creatore, col mettere le creature nel posto suo e amarle come bene finale. E l' amore, apprezziativamente sommo, del Creatore potrebbe sussistere, sebbene più languido, senza venire in collisione con quello delle creature. In tal caso, fino che l' uomo fosse privo della vista di Dio, sarebbe imperfetto e limitato, non però reo per questo necessariamente, nè disordinato, come non può non essere nella condizione, in cui egli si trova presentemente. Egli è adunque impossibile alle forze naturali dell' uomo l' amare Iddio, di cui ha solo una fredda idea , a preferenza delle creature, di cui ha la percezione , e il raffrenare, il metter ordine, con quest' alto amore, all' amore seducente delle creature. E questa ragione del percepirsi, del vedersi gli uomini, e non Dio, apporta S. Giovanni a dimostrare, esser più facile l' amore del prossimo che quello di Dio: [...OMISSIS...] . La morale adunque alle forze naturali dell' uomo è impossibile, almeno per quella parte che riguarda Iddio: e come l' universo, privato di Dio, è senza principio, senza sostegno che il regga, non si può concepire; così la virtù morale, mozza di quel rispetto che riguarda Iddio, è troncata della sua parte capitale, è morta, è nulla per se stessa. Perocchè finalmente tutti gli amori verso le creature debbono terminare in Dio attualmente per essere perfetti, e debbono terminare in Dio virtualmente, debbono almeno non contraddire all' amor di Dio, per non essere delitti. Confessano questa impossibilità della morale religiosa i figliuoli stessi degli uomini. Non parlo di quelli che non hanno pudore di scoprirsi manifestamente inimici dell' Essere Supremo, i quali mostrano col fatto loro che non sanno levarsi ai doveri morali che hanno Dio per oggetto. Parlo di quelli che riconoscono e confessano la esistenza di un Creatore e conservatore del tutto, e che ne parlano con riverenza; parlo di quelli che sono i più dotti, che più s' affaticano nella ricerca della verità, che si mostrano più avidi di cognizioni e che fanno dei sistemi di morale. Tutto questo sapere, tutte queste notizie del loro intelletto valgono forse a sollevarli a Dio? Questo Dio si fa loro anzi così alto, che disperano di arrivarlo giammai. E veramente manifestano una segreta disperazione di conseguire la parte religiosa della morale quei tanti scrittori moderni che, con pensieri pieni di umana benevolenza, sicchè in leggere i loro scritti si prova una grata sensazione, e una cotal nobiltà di concetti vi si gusta per entro, pure sono tutti solleciti di schivare, siccome scoglio, le idee religiose, di restringere tutta la morale alle relazioni degli uomini fra di loro e, lasciato da parte non solo Dio, ma ben anco in gran parte l' uomo individuo, non parlano che di una morale sociale, come essi la chiamano, quasi che la morale non fosse più che una certa decenza del vivere esteriore, un certo pudore, o a dirlo più francamente, una certa finissima finzione. Molti di questi scrittori riducono la morale agli interessi umani, non difficili per vero ad amarsi: molti la ripongono nei sentimenti naturali; e nè pur questi prescrivono cosa impossibile. La religione però la descrivono sempre come una cosa tutta di diversa natura dalla morale, una cosa indipendente da questa, come questa la vogliono indipendente da quella. Insomma la relazione che l' uomo ha con Dio e i doveri essenziali che ne conseguono è una pagina che interamente cancellano e radono dal codice de' doveri: segno certissimo di una cotale disperazione che entra loro nell' animo di adempiere sì sollevati doveri, e pur chiarissima confessione del sentirsi mancar le forze a vincere quella potenza che esercita su di essi la continua percezione e azione delle cose reali esteriori e che li strappa e travolge da quella altezza, a cui la tenue e solo abbozzata idea di Dio, qual l' abbiamo pure, impone con autorevolissimo e severo comando. Quello che dissi dell' idea di Dio, impotente nelle nostre menti a muoverci in quell' amore che a un tanto Essere si conviene, può dirsi delle idee astratte della giustizia. Ogni qualvolta tutto ciò che vi ha di bello in un' azione non è altro che la giustizia, e l' azione contiene tutte le altre parti contrarie e ripugnanti ai nostri sentimenti, quell' azione per l' uomo naturale ha un' arduità insuperabile. Non è già che non sia autorevole quella idea del giusto, non è ch' ella non intimi chiaramente all' uomo ciò che è giusto e onesto; egli glielo intima con ogni chiarezza, e questa intimazione è sì severa, sì assoluta, che l' uomo ben capisce come nè pure la distruzione dell' universo sarebbe ragione atta a scusare l' infrazione della legge; niente insomma potrebbe mutare o la deformità o l' eterno bello di quella azione. Ma tutto questo addita una pura idea, sicchè è attissima a insegnargli ciò che deve fare, ma dopo ciò non è però che una pura idea, ella non ha alcuna forza reale, ella non può di più che pronunziare una sentenza: l' uomo in cospetto di questa idea si sente fiacco, impossente, reo e nulla trova che il rialzi dalla sua fiacchezza e dalla sua reità. Questa autorità e questa impotenza delle idee della giustizia, divise che sieno da ogni altro elemento reale, è stata sempre intesa, sempre sperimentata, sempre confessata da tutti gli uomini. Fra le stesse frivolezze delle scene comiche si manifesta questo gran vero, questo vero fatale, un doppio sentimento, di approvazione che riscuote la giustizia veduta (idea della giustizia), e di assoluta impotenza quando si viene al fatto. Il comprovano questi eleganti versi di Plauto: [...OMISSIS...] . Il « video meliora proboque, deteriora sequor » di Ovidio è un detto reso comune per la sua notoria verità; e esprime benissimo [la differenza] fra il veder le norme coll' intelletto, al qual fine basta l' azione ideale (l' idea in noi), e il seguirle colla volontà, al quale fine la volontà ha bisogno di essere mossa da un' azione reale , da uno stimolo che realmente la solletichi e impella. E qui è anche la spiegazione di quella terribile sentenza che ha pronunciato S. Agostino sulle virtù del gentilesimo, quando ha detto: « che quelle virtù si riducevano a essere de' vizii, vinti con altri vizii maggiori«; » per esempio, la intemperanza frenata dall' avarizia, la incontinenza doma dall' ambizione o dalla vanità, la crudeltà repressa dalla vana gloria. Aveva veduto il grande uomo che gli antichi moralisti, disperati d' indur gli uomini ad amare la virtù puramente per sè stessa, vi avevano opposti degli emolumenti umani, dei fini secondarii; che l' onesto e il retto si operava nel mondo allora che fosse accompagnato con delle reali utilità, e dove di esterne utilità venisse a sprovvedersi la virtù, erano forse tutti presti gli uomini a cantar i notissimi versi di Bruto: [...OMISSIS...] La grazia non fa solamente l' effetto di impellere nuovamente l' umana volontà al bene morale, come uno stimolo esterno che, dato il suo colpo, si ritira, senza incorporarsi stabilmente in noi. Iddio, con quell' azione che si chiama grazia, si unisce realmente con noi e permane con noi unito, sicchè in noi è per la grazia qualche cosa di divino che prima non esisteva, congiunto e quasi concorporato colla essenza dell' anima nostra. [...OMISSIS...] Questa azione divina, continua e immanente della grazia nell' anima, dà all' anima una stabile energia, la solleva a un potere che prima non aveva; il che è quanto dire gli aggiunge una nuova potenza, in virtù della quale può quello che non può per sè sola, senza la grazia. E S. Tommaso trova questo procedere di Dio coll' uomo sapiente e soave e tutto conforme a quella savissima dispensazione con cui tutto governa, e muove le sue creature al loro ultimo bene. Infatti sembrerebbe che Iddio avesse potuto spingere l' uomo alla operazione del bene con degli attuali eccitamenti, o anche con una continua azione sopra di lui, ma tale che in lui non fosse creata per questo una nuova attività, ma agisse Iddio come causa efficiente , e l' uomo come un oggetto tutto passivo verso di quella causa. Non volle: ma preferì di unire all' uomo la sua virtù, come una causa formale ; cioè dispose dare alla essenza dell' anima una nuova forma, una nuova attività; il che è quanto dire di creare in lei una nuova potenza di operare, rilevando così la natura stessa umana a uno stato e condizione di eccellenza intima e soprannaturale. [...OMISSIS...] Vi sono nello spirito delle potenze che hanno bisogno di esser mosse da altre potenze, che in ragione di attività sono ad esse superiori: per cagione di esempio, l' intelletto ha bisogno di essere mosso dalla volontà o dall' istinto. Vi sono delle altre potenze le quali non sono mosse da una potenza superiore, ma in esse è il principio del moto. Queste le ho chiamate principii attivi . Non tutte le potenze sono principii attivi, sebbene tutti i principii attivi o no, come ha detto San Tommaso, PRINCIPIA ACTUUM, si possano dire, per quanto mi pare, potenze. I principii attivi sono tanti quanti sono i sentimenti; perocchè la osservazione mostra che a ogni potenza passiva ne corrisponde una attiva, a ogni sentimento un istinto, ossia un' attività conseguente. Ora nell' uomo, fino che resta nello stato naturale, vi sono due sentimenti essenzialmente diversi, cioè soffre, è passivo da due nature che agiscono in lui e di diversa natura, i corpi e l' idea dell' essere . Indi due attività, cioè l' istinto animale e la volontà (1). Ora, operando Iddio con un' azione reale nella essenza dell' anima, vi produce un sentimento nuovo, e quindi un principio nuovo di agire che è quello che viene chiamato l' istinto dello Spirito Santo . Questo sentimento è essenzialmente diverso dai due primi, perocchè l' agente o stimolo, che lo produce, è essenzialmente da' due primi diverso; egli non può nascere da que' due primi; non v' è facoltà nell' uomo che il possa muovere o suscitare, ma si suscita e nasce da sè stesso improvviso, o più tosto da quell' Agente divino che ne è l' autore. Egli è dunque veramente non una mera potenza, ma un vero principio nuovo di azione, che vien creato nell' uomo da Dio, con quella influenza che egli esercita nell' anima. L' anima, l' IO, di quanto maggior forza si sente tocco, quanto più prova in sè un sentimento maggiore, tanto più trovasi pieno di vita e di valore: il sentimento che lo invade, lo diffonde, lo ingrandisce, lo afforza; pari alla grandezza, alla profondità, alla forza del sentire sorge altresì in lui la potenza e l' audacia. Il che si vede ne' sentimenti di ogni genere: indi le millanterie dell' ubbriaco, indi l' ardimento dell' innamorato, indi le imprese più temerarie dell' ambizioso e del mercatante, indi il coraggio, l' eroismo di chi si sacrifica per la patria e di chi muore per la giustizia, indi tutto ciò che v' ha e v' ebbe di grande, di nobile, di stravagante e di furente sopra la terra: tutto provenne dalla viva forza di qualche sentimento straordinario che invase l' uomo e, invadendolo, lo avvalorò, gli aggiunse quelle forze che non aveva, il trasse di sè, il rese di sè stesso maggiore. Anche uomini i più inerti, i più dappoco, si videro talvolta tramutati improvvisamente in altri esseri, se una forte passione si potè metter dentro in essi e signoreggiarli. Insomma sebbene il sentimento sia una passione , tuttavia egli produce sempre nell' uomo una corrispondente azione : il sentimento è il generatore dell' istinto , e questa attività, che s' ingenera in noi dal sentimento (giacchè noi stessi finalmente non siamo che un sentimento, e quindi il NOI è ingrandito, ingrandendosi il sentimento), è della stessa natura e forza del sentimento che l' ha prodotto, e come quello è debile o forte, nobile o vile, d' un ordine superiore o d' un ordine inferiore. Or ciò posto, ed essendo il sentimento naturalmente pari allo stimolo che il genera, egli è manifesto che quell' unione reale che fa Dio nella essenza dell' anima, deve ingrandire il suo sentimento fondamentale, che è quanto dire deve ingrandire lei medesima, e questa vena di sentire che a lei s' aggiunge, deve esser di un' indole al tutto superiore a ogni sentimento, infinitamente più nobile, infinitamente più possente. Indi il principio di azione , che aggiunge la grazia nell' uomo, forza è che sia supremo, nobilissimo, potentissimo. E con ciò si spiegano le maraviglie che nel loro vivere mostrano i servi di Dio. Ho detto che il NOI è un sentimento, che colla parola NOI esprimiamo l' essenza nostra, e quindi che l' essenza nostra è un sentimento (3). Questo sentimento essenziale l' ho chiamato fondamentale . Ho detto pure che l' azione della grazia è reale; e ho definita l' azione reale che viene esercitata in noi, quella che viene operata nella nostra facoltà del senso , a differenza dell' azione ideale che non è che il presentarsi dell' idea all' intelletto. Quindi l' azione divina opera nel sentimento . Ho detto che solo il senso intellettivo è atto a ricevere l' azione divina in noi: quindi ho detto che la grazia opera immediatamente nell' intelletto. Ho detto pure che l' intelletto è un elemento della essenza dell' anima nostra: quindi la grazia opera nella essenza dell' anima, e essendo questa un sentimento fondamentale, la grazia opera nel nostro sentimento fondamentale. La grazia accresce il NOI, questo fondamental sentimento, lo estende, lo eleva, lo approfonda: a cui alludendo S. Paolo, dice: [...OMISSIS...] . A malgrado di tutto ciò, della prima operazione della grazia in noi, noi non abbiamo coscienza alcuna. Per intendere la ragione del non essere noi consapevoli della prima operazione della grazia, conviene riflettere alle cose seguenti, le quali chi bene le avrà intese, sarà facile il persuadersi che tanto è lungi che ciò possa recar meraviglia, che anzi non potrebbe essere altramente, e si accorda colle leggi generali dello spirito umano. Primieramente, noi non abbiamo un' attuale coscienza di nessuna cosa di quelle che avvengono in noi, di nessuna mutazione, di nessun sentimento, se non a condizione che noi ci raccogliamo in noi stessi e ci badiamo a quel sentimento. Non badandoci noi, non ponendovi noi attenzione, sarebbe in noi tuttavia quel sentimento, ma noi non ne avremmo coscienza, sarebbe come se non fosse, nascerebbe, s' ingrandirebbe, cesserebbe, e noi non l' avremmo saputo e non ne conserveremmo alcuna memoria. Ora questo raccoglierci che noi facciamo sopra i sentimenti da cui siamo affetti, questo darvi la nostra attenzione, è un atto diverso da quello del sentimento stesso, e a quello posteriore; è un atto che suppone il sentimento, che rende questo sentimento oggetto della riflessione. Indi quelle leggi dello spirito umano che ho esposte altrove, sebbene in altre parole e che si possono anche proporre così:« Tutti gli atti primi dello spirito umano per sè sono privi di coscienza: nessuno de' primi sentimenti ha in sè la coscienza«. - E perchè ogni atto dello spirito è primo relativamente a quelli di una più alta riflessione, consegue ancor più universalmente, che« ogni atto dello spirito nostro è incognito a sè stesso«. Sicchè ogni atto viene illustrato da un altro atto da lui diverso, che lo mostra allo spirito e glielo fa conoscere; e quell' atto stesso che lo illustra e lo rende noto allo spirito nostro ha pur bisogno di un altro atto dello spirito che illustri e chiarisca lui stesso; altramente egli si rimarrebbe inatteso e dimentico. Ciò posto, è reso manifesto come anche il sentimento primo che in noi suscita l' azione divina, deve essere per sè stesso privo di consapevolezza in quel primo istante, nel quale egli nasce. Ma rimane un' altra questione a farsi. Se per sè stesso è privo di consapevolezza, non potrà egli essere percepito da noi, essere illustrato con un atto secondo del nostro spirito, con una riflessione sopra di lui? Non potremo in tal modo rendere presente la nostra attenzione e quasi spettatrice al farsi di quella operazione divina, e così procacciarcene la coscienza? Rispondo osservando primieramente che ciò non può avvenire quando la operazione della grazia si fa ne' bambini; perocchè questi non hanno ancora acquistato l' arbitrio delle loro potenze e non sanno rivolgere l' attenzione sopra ciò che avviene in sè stessi (2). Quando poi si fa negli adulti, è da distinguersi l' atto stesso della mutazione che nasce nell' uomo al primo cominciare ad avere la potenza soprannaturale creata in lui dalla grazia, da questa potenza già ottenuta. Il passare che fa l' uomo dal non aver la grazia all' averla, dal non aver all' aver in sè quella potenza soprannaturale che, col primo operare della grazia nell' uomo, nasce e si crea; questo passaggio maraviglioso non è osservabile in noi, perchè non è nè pur sensibile. Per quanto sembri maravigliosa questa proposizione, ella non riuscirà incredibile a chi osserva che ella dipende da una legge generale, a cui è soggetto il sentimento: la quale è questa, che« non si può sentire l' atto onde noi cominciamo a esistere«, con quell' atto onde noi veniamo naturati, cioè pigliamo la natura o la essenza: come medesimamente non si può sentir quello onde si disfà la nostra natura, o poniamo giù la stessa nostra [vita] o, se avvenir potesse, ci annulliamo. Perciò il bambino non può sentir l' atto onde vien concepito e comincia a essere, perchè in quell' atto ancora non è, e egli ha bisogno di essere già per sentire. Allo stesso modo non può esser sensibile l' atto del morire, perchè esso non è che un disfarsi, un annullarsi della nostra potenza di sentire animale: il che non è un adoperare questa potenza, ma un porla giù. (1). E veramente in un istante, nel quale sentissimo, non saremmo ancor morti, non avremmo ancor fatto l' atto del morire (2): quest' atto del morire non è fatto prima che noi siamo morti, e, prima di essere fatto, non può esser sentito; e, quand' egli è fatto, noi oggimai non siamo più esseri sensitivi e però nol possiamo sentire. Il che è confermato anco dall' esperienza in ciò che avviene negli accidenti, nei quali cessa subitamente in una parte del corpo la potenza di sentire, chè ciò avviene senza dolore, e l' apopletico si trova morto della metà, senza che egli medesimo sappia come gli sia ciò accaduto. Ma egli d' altra parte pare manifesto che il cessare di sentire non è sentire; anzi sarebbe contraddizione, se fosse. E questa osservazione dell' accidentato è notabile in questo che prova essere insensibile a noi non solo la cessazione di tutta intera la potenza di sentire, ma ben anco di una sua parte: e certo quella parte che cessa, in cessando, non si sente, sebbene l' altra parte che rimane può risentirsene a quel cessamento. Il medesimo è dell' accrescersi la potenza sensitiva: questo crescere non è materia di senso alcuno, e quindi il nostro corpo cresce, si rinforza o risana senza che noi sappiamo come; sebbene dopo cresciuto, rinforzato, risanato, godiamo dell' accrescimento, delle forze e della sanità. Applichiamo ora questa legge del sentire alla potenza soprannaturale, creata in noi dall' azione divina. Coll' azione divina viene creata in noi una nuova potenza: questa potenza comincia a esistere in noi quando prima non esisteva, ed ella è un elemento, una parte della nostra essenza. Per la legge esposta adunque deve essere necessariamente insensibile questo primo effetto della grazia in noi, perchè la grazia agisce, come dicemmo, in modo di creatrice, non fa altro che creare, che mettere in noi una potenza nuova, che ingrandire la nostra essenza. Dell' atto dunque di questa mutazione non possiamo avere alcuna coscienza, perchè non abbiamo di lui alcun sentimento (1). Lo stesso si può provare considerando la natura di ogni potenza. Io ho dimostrato che ogni potenza è un atto7primo : per esempio, la potenza di sentire è un primo sentimento che modificato si cangia negli atti secondi che si dicono atti verso al primo, il quale si dice potenza (2). Ora l' effetto della grazia è di produrre in noi una nuova potenza di sentire, un primo sentimento. Ora se questo sentimento è primo, se avanti di lui non vi ha nessun altro senso in quel suo genere e tutte le sensazioni partono da lui, come da principio; egli è evidente che, prima che quell' atto primo sia prodotto, non vi può essere senso alcuno di quella specie. Quell' azione adunque della grazia, colla quale si genera in noi la potenza soprannaturale o il primo soprannaturale sentimento, non è sensibile, nè può essere oggetto della nostra consapevolezza. Quando però la potenza, di cui parliamo, primo effetto della grazia, è già in noi formata, allora ella è sensibile a noi, perchè anzi è ella stessa un primo sentimento, un sentimento essenziale e fondamentale. Tuttavia non è così facile l' avvertirsi in noi immediatamente e l' averne coscienza. Perocchè avviene appunto di esso quanto abbiamo osservato avvenire di ogni altro sentimento primo e fondamentale in noi, che egli, essendo immanente e costituendo la nostra immutabile essenza, è oltremodo difficile a rendersi oggetto della nostra osservazione; mentre sono assai facili a osservarsi gli atti suoi, cioè le particolari sensazioni che da quel sentimento primo nascono, non essendo che sue modificazioni, verso alle quali egli è soggetto, e atti suoi, verso i quali egli prende nome di potenza. Nell' uomo naturale due sono i sentimenti fondamentali, l' animale e l' intellettivo; i quali piuttosto sono due parti di uno stesso sentimento fondamentale che si esprime col monosillabo IO. Ho già dimostrato altrove quanto l' uno e l' altro di que' sentimenti sieno difficili ad avvertirsi chiaramente e distintamente in noi: e sebbene il senso comune assai bene li ammetta e riconosca, tuttavia nei libri de' filosofi si trovano pressochè continuamente obliati. Ho dato ragioni, per le quali è tanto difficile osservarsi in noi il sentimento fondamentale corporeo, nel Nuovo Saggio , Sez. V: ho dato pure le ragioni, per le quali è difficile osservarsi in noi l' idea dell' essere che è lo stimolo del sentimento fondamentale intellettivo pure nel Nuovo Saggio , Sez. V: all' incontro quanto sia facile osservare in noi le sensazioni e le idee acquisite. Queste dottrine, che sarebbe troppo lungo qui ripetere, e per le quali mi riporto ai luoghi dove le ho trattate, vanno applicate al sentimento fondamentale soprannaturale. Per esse si parrà ragion manifesta dell' essere tanto difficile a osservare quel sentimento, e quindi a averne coscienza: mentre all' opposto non è punto difficile l' avvertire in noi e l' aver coscienza de' suoi effetti, quali sono i frutti dello spirito che l' Apostolo enumera ai Galati, dicendo: [...OMISSIS...] . Noi abbiamo veduto che, sebbene la divina rivelazione ci narri della natura divina delle cose assai più eccellenti di quelle che noi possiamo trovare col lume naturale, tuttavia non avendo noi mai avuta la percezione di Dio, noi non possiamo intendere di lui se non tanto quanto si comprende in un concetto negativo (2). Tuttavia questo concetto negativo ci contraddistingue Dio. Avendo in noi la operazione divina, la grazia, il primo suo effetto o atto si compie col mettere in noi, da parte sua, una viva fede alle cose rivelate, col muovere l' animo nostro a una piena e soave adesione a tutte le cose che intorno a Dio si contengono in quel concetto negativo di Dio. In quel concetto negativo di Dio poi si contengono virtualmente anche le notizie di Dio positive: e la grazia inclina e rende vaghissimo l' uomo di penetrare in quelle misteriose e occulte verità, delle quali tanto gli tarda lo scoprimento. Quest' uomo, tocco dall' azione della grazia, è divenuto il diletto « che sta dietro la parete e che riguarda cupidamente per le fenestre e rimira per le aperture de' cancelli« (1). » La grazia gli mostra qualche tenue lume, qualche particella delle infinite bellezze che gli stanno velate e nascose. Così la fede rende: I. da una parte efficace nell' uomo il concetto di Dio ideale7negativo che per sè è freddo e impotente (2); II. dall' altra fa travedere e quasi indovinare in esso alcuna cosa di ciò che tien questo concetto nel suo seno profondamente nascosto. In tal modo la idea di Dio, che nell' uomo privo della grazia è nulla verso all' idea delle cose sensibili, diventa per la grazia potentissima, a tale che può l' uomo nell' animo suo erigere veramente un tempio a quella divinità, la cui azione sente in sè stesso, e preferire il sommo Essere, anche nell' affetto e nelle azioni della sua vita, a tutti gli esseri lusinghevoli della terra. Sebbene adunque l' azione divina sia reale, tuttavia ella non è tale che comunichi Dio sè stesso all' uomo del tutto svelatamente ; ma è un' azione esercitata mediante le idee negative , somministrate all' uomo dalla rivelazione e mediante una cupidità che nasce nell' uomo di vedere il positivo altresì che quelle idee negative suppongono e annunziano, senza che il manifestino. Con quest' azione vengono rinforzate quelle idee negative e vien ringagliardita la forza del desiderio di percepire il positivo occulto, intorno al quale viene infuso però un sentimento, una profonda persuasione, una sicurezza maggiore di qualunque sicurezza, che in quell' occulto stassi l' OGNI BENE. Questa parte occulta di Dio, questa misteriosa essenza è propriamente l' oggetto della fede, ed il veicolo della grazia, lo stimolo divino, la punta, quasi direi, della divina sostanza, con cui Dio tocca l' uomo. Perocchè in questa parte occulta l' uomo percepisce però il concetto del TUTTO; e sebbene l' uomo non distingua niente o poco di ciò che è in questo tutto, egli sa però che ivi è il TUTTO. Il TUTTO, cioè tutto l' essere , tutto il bene sono sinonimi. Questo concetto che, sebbene indistinto, il tutto contiene, può rendersi nell' uomo vivo e possente, e ciò senza limite alcuno, appunto perchè nel concetto del TUTTO non v' è alcun limite: ed è di questo concetto di cui si serve propriamente la grazia divina per signoreggiare l' uomo, per sollevarlo, per renderlo potentissimo sopra tutte le sue passioni. L' uomo dunque colla fede soprannaturale non percepisce Iddio distintamente , ma lo percepisce indistintamente come il TUTTO, l' ogni bene. Questa percezione, sebbene oscura, abbraccia però quanto può l' uomo desiderare, perchè abbraccia tutto; e perciò l' uomo con questa percezione non ha a desiderare altra cosa fuori di essa, e solo ha da desiderare che ella stessa si renda distinta, più chiara e più compiuta. Quando questa percezione si fa viva e più sensibile, accade quella contentezza, di cui molto parla Santa Teresa, la quale all' uopo nostro dice acconciamente così: [...OMISSIS...] E ancora parlando d' un certo stato dell' anima, dice: [...OMISSIS...] Nella fede adunque soprannaturale c' è anche una percezione di Dio , se così è lecito chiamarla, sebbene iniziale e solamente indistinta ; e questa è la base che sostiene tutta la vita spirituale, cioè soprannaturale. L' Apostolo mette per base di tutto l' ordine soprannaturale la Fede in quelle parole: « Senza la fede è impossibile di piacere a Dio (3) »: e in quelle altre: «« Il mio giusto vive di fede« (4); » per modo che senza la fede il giusto, quegli che è tale non agli occhi degli uomini, ma a quelli di Dio, secondo l' ordine soprannaturale, non può esistere, gli manca onde essere e onde vivere. Questa è quella fede viva dalla quale l' Apostolo fa nascere la soprannaturale giustizia e che descrive come quel mezzo o istrumento generale, col quale operando la grazia divina conduce gli uomini all' adempimento della eterna loro predestinazione: ed è a questa fede viva che attribuisce come a principio e origine tutte le virtù. [...OMISSIS...] A queste dottrine dell' Apostolo consuona tutto il Vangelo; particolarmente S. Giovanni che in questa sentenza riassume quanto abbiamo fin qui esposto: « A quanti l' hanno ricevuto (Gesù Cristo) egli diede loro LA POTESTA` di diventar figliuoli di Dio (ecco la grazia che dà la potenza); a quelli che CREDONO (ecco il primo atto di questa potenza, la fede) nel NOME SUO« (2): » (ecco la natura della fede che è quella di ravvivare e rinforzare la idea negativa di Dio, la quale, come altrove dicemmo, chiamasi acconciamente nelle divine Scritture il « nome di Dio ») (3). Con ragione adunque S. Tommaso afferma la fede essere « il primo atto, nel quale la grazia si manifesta« (4). » Ed essendo questo primo atto necessario a tutti gli altri atti della grazia in noi abitante, si può dire che sia l' atto universale della grazia, un atto presupposto da tutti gli altri susseguenti, i quali a quel primo atto si appoggiano e partono da lui, come da radice: sicchè ottimamente si enumerano gli atti cristiani in quell' ordine in che li pose S. Paolo: Fede, Speranza e Carità; nel quale la fede rimane la prima e condizione delle due seconde. Per questa cagione è che si suole chiamare tutto il complesso della religione cristiana col nome di Fede , dicendosi la fede cristiana, la propagazione della fede, ecc.. Ma tutto ciò apparirà più manifesto, se noi faremo un' analisi accurata dell' atto della fede e troveremo gli elementi onde la fede risulta. La fede risulta da due elementi, la percezione divina incipiente , e l' assenso della nostra volontà, col quale solo si compie l' atto della fede. Consideriamo separatamente, l' uno dopo l' altro, questi elementi, riassumendo le cose dette sin qui. Iddio opera, con un' azione reale ed occulta, nella essenza dell' anima: fin qui tutto nasce senza di noi. Questa azione produce, crea nella nostra essenza, senza che noi n' abbiamo coscienza, un elemento nuovo, un sentimento fondamentale nuovo. Ricercando più profondamente che cosa sia questo sentimento, troviamo che è un sentimento, pel quale cominciamo a percepire Iddio come il TUTTO, l' Essere sussistente per sè stesso: percezione che ha necessariamente in sè dell' infinito e una specie di onnipotenza. Questo sentimento creato in noi è la creazione dell' uomo soprannaturale (1); come il sentimento fondamentale animale7ideale, è la creazione dell' uomo naturale; perchè questi sentimenti sono sostanziali , cioè costituenti l' IO, la essenza specifica, la sostanza dell' anima. E` singolare e degno di ogni attenzione il riscontro che vi ha fra l' ordine naturale e l' ordine soprannaturale dell' uomo, fra il sentimento che costituisce l' uomo un essere ragionevole, e il sentimento che costituisce l' uomo un essere congiunto a Dio. Tutti due questi sentimenti sono formati dall' unione dell' ESSERE allo spirito umano: il primo è la unione dell' essere ideale , il secondo dell' essere reale . La idea dell' essere data all' uomo il rende intellettivo; l' Essere stesso (Iddio), agente nell' uomo, solleva quest' essere intellettivo a una specie nuova d' intelligenza, quale è la soprannaturale: la prima è una concezione , la seconda una percezione (sebbene solo incipiente in questa vita): la prima è come una delineazione dell' essere, la seconda è il compimento, il realizzamento dell' essere nell' uomo (2). Procediamo innanzi. Posto nell' uomo un nuovo sentimento fondamentale, dovea esser data all' uomo una nuova potenza , perchè a ogni sentimento corrisponde un istinto, a ogni potenza passiva ne corrisponde una attiva: questa è la potenza soprannaturale, una nuova volontà. Il primo atto di questa volontà è la fede, come abbiamo detto. Questa consiste propriamente nell' assenso che si dà a ciò che quel sentimento soprannaturale ha percepito di Dio (3) e forma un tale assenso il secondo elemento , col quale si compie l' atto del credere. La cristiana dottrina insegna che nei bambini è sufficiente alla salute quel primo elemento della fede, che viene dato da Dio gratuitamente col battesimo, quella operazione della grazia, quella potenza di volere, sebbene non condotta all' atto; ed è ciò che si chiama virtù infusa della fede, fede abituale . Negli adulti, i quali possono muovere le loro potenze ai loro atti, si richiede altresì una fede attuale . Quindi Cristo disse: [...OMISSIS...] E ancora disse che pregava per solo quelli che credeano (2); esigendo così questo primo atto della fede per riconoscerli per suoi e metterli a parte delle ulteriori sue grazie. Ecco come Sant' Agostino ragiona di questa potenza di credere : [...OMISSIS...] . Ecco come Sant' Agostino descrive la formazione in noi dell' atto della fede, parte per la operazione di Dio, e parte per la cooperazione nostra. [...OMISSIS...] Succede adunque questo fatto del credere così. Iddio dà la percezione incipiente di sè stesso: qui non c' è ancor riflessione, appartiene all' ordine della cognizione diretta, ma è più che semplice cognizione ideale, perchè è percezione , sebbene solo incipiente. Questa percezione (nel ricevere la quale noi siamo interamente passivi, come in ricevere tutte le cognizioni dirette) è lucida, bella, dolce, tutta conveniente e adattata alla nostra natura: indi il sentimento di affetto verso a queste cose conosciute e percepite, che sorge in noi fornito di [quelle] soavi persuasive di cui parla S. Agostino, le quali inclinano (1) l' animo nostro a prestare adesione e fede piena anche a ciò che nelle cose percepite non è se non virtualmente e oscuramente compreso. E qui si leva in noi la riflessione, la quale rimira in quelle cose, e si pone nell' animo nostro la questione, se sono credibili, o no. Noi dobbiamo concludere questo giudizio in un modo affermativo; e non solo speculativamente ma praticamente altresì, perchè si formi in noi e si compia l' atto di fede. Ora questo è atto proprio della volontà nostra ed è soggetto alle leggi, a cui sono soggetti gli atti della volontà, esposte da noi più innanzi: fino a certo termine ella opera liberamente e può sospendere o negare l' assenso; ma ove la dilettazione, eccitata dalle cose divine conosciute e percepite, si acuisse oltre a certo grado, l' assenso sarebbe inevitabile, non più libero, sebbene volontario. Questo assentimento non è solamente dato per motivi di credibilità, prodotti da cognizione ideale, ma principalmente per un motivo di credibilità veniente da percezione immediata: è una certezza pratica, una sicurezza sperimentale che toglie ogni dubbio, e che è più ferma ben sovente di ogni ragionamento, perchè giunge a t“r via fino il poter di dubitare (3). La fede adunque è un giudizio pratico, non un puro giudizio speculativo: è un giudizio, con cui non solo affermiamo Dio e le cose divine, ma con cui gli diamo la nostra stima: è un atto di giustizia verso Dio da noi conosciuto e sperimentato, e non un conoscimento, ma un RICONOSCIMENTO volontario di ciò che conosciamo, quel riconoscimento, nel quale abbiamo veduto che s' inizia nell' uomo ogni moralità (4): la fede dunque è il principio della morale cristiana, cioè il primo suo atto. Questa questione si spiana, a mio parere, ove si schierino qui nel loro giusto ordine tutti i passi dello spirito che precedono, che costituiscono e che susseguono altresì l' atto della fede. Ecco qual è l' ordine loro: 1. Cognizione rivelata di Dio ex auditu (operazione esterna naturale). 2. Percezione di Dio (1), o lume efficace, uscente da quella cognizione rivelata, massime dalla parte che in essa è misteriosa (operazione che si fa nell' essenza dell' anima). 3. Sentimento conseguente o dilettazione soave e sublime, uscente da quella percezione, che ci persuade la verità delle cose percepite (2). 4. Potenza di credere e di operare santamente, effetto di quel sentimento (3). 5. Atto volontario del credere, giudizio pratico sulla verità ed eccellenza delle cose conosciute e percepite: atto di stima, il riconoscimento di Dio come luce, verità e autorità infinita, col quale atto se l' uomo non ricalcitra colla sua mala volontà (1), conseguitano l' amore, e le operazioni sante e meritorie con cui la fede diviene viva. 6. Amore che conseguita a quell' atto di stima pratica. 7. Operazione santa che seguita all' amore. L' uomo non comincia a operare colla sua volontà se non al quinto passo, col dare l' assentimento suo alle verità rivelate e interiormente sentite: per questo si dice che la fede è il primo atto della grazia. Dicendo ciò, per grazia s' intende la potenza del credere, prodotta in noi soprannaturalmente dall' azione della grazia. Essendo nostra questa potenza, uscendo dall' essenza dell' anima nostra, nostri devono essere gli atti di questa potenza, e per essere nostri devono procedere dalla nostra volontà: quindi la fede è il primo atto della potenza in noi creata dalla grazia, perchè è il primo atto della nuova nostra volontà. Tuttavia alla fede precedettero quei quattro passi che ho descritti, e fra questi il terzo, cioè una dilettazione o inclinazione (involontaria) della volontà; e questa fu chiamata da molti carità . Quelli che così l' hanno chiamata fecero precedere alla fede la carità: ma questa carità non è che un' inclinazione, come dicevo (involontaria, o certamente) non libera, e l' atto non è completo ancora, ma incoato, giacchè non si completa se non coll' assenso, nel quale sta la fede. Questa opinione pertanto che cominci la giustificazione dalla carità e non dalla fede, non parmi esatta e nè pure sana, avendo espressamente dichiarato il Sacrosanto Concilio di Trento, che la fede è il principio della umana salute, il fondamento e la radice di ogni giustificazione (2). I principii della morale naturale dimostrano, che la morale s' incomincia col giudizio pratico : che questo giudizio pratico è libero : ma che, dato il giudizio pratico o stima dell' oggetto, conseguita necessariamente il grado dell' amore verso il medesimo oggetto. Che, dato il grado dell' amore , è determinata conseguentemente anche l' azione esterna, tutta consenziente alla efficacia di quell' amore. Questo è quanto somministra la ragione naturale, quando si fa a investigare la natura della moralità umana. Applichiamo ora questa dottrina alla morale teologica e soprannaturale, e veggiamo se batton d' accordo con essa i documenti della cristiana tradizione. Nella morale teologica e soprannaturale abbiamo veduto che il primo atto morale, il giudizio pratico o stima dell' oggetto dell' azione morale (che qui è Dio) è la fede. Or se è che la rivelazione va d' accordo con que' supremi principii della morale naturale, dee conseguitare, che a quel giudizio pratico della fede conseguiti necessariamente l' amore, e le opere: e questo è appunto nè più nè meno la cristiana dottrina. Udiamo il Concilio di Trento ragionare su questo indissolubile nodo tra la fede viva , la carità e le buone opere , e vediamolo distinguere questa fede, che in un giudizio pratico consiste, da quella fede, che non consiste se non in un giudizio speculativo, il quale non è punto per sè morale. [...OMISSIS...] Questo nodo indissolubile tra la fede, la carità e le opere, sicchè data l' una di queste tre cose, non è in balìa dell' uomo il dividerne le altre due, spiega la ragione, per la quale nelle divine Scritture la salute eterna ora è attribuita assolutamente alla fede, ora assolutamente alla carità, e ora assolutamente alle opere buone. Della fede si dice: [...OMISSIS...] . Della carità poi si dice: [...OMISSIS...] Delle opere poi si dice: [...OMISSIS...] S. Giovanni, in un luogo della sua prima lettera, riassume questi tre generi di atti, cioè la fede, la carità, e le opere esteriori, e li dà per segni dello Spirito Santo in noi, cioè della grazia che sta nella essenza dell' anima e da questa per conseguente li distingue: [...OMISSIS...] . Ho già mostrato come nelle verità rivelate intorno a Dio si trovi una profonda oscurità e de' necessarii misteri (1). Iddio vi è celato e la grazia stessa non ne dà che una percezione incoata e indistinta: indi il gran desiderio dei santi che si squarci il velo e apparisca la bella faccia del Signore, il cupio dissolvi , e l' assiduità delle orazioni e delle contemplazioni per ire innanzi in quella notte oscura, dalla quale par loro di essere circondati. La fede però ha pure il suo lume, ed essa risponde a ciò che è la ragione pratica nell' ordine naturale. Il lume della ragione è l' essere ideale (3), il lume della fede l' essere reale: il lume della ragione è l' essere iniziale, il lume della fede l' essere compito, assoluto, Dio (4). Fra queste tenebre e questa luce cammina il cristiano nella vita presente per un alto ordine della divina Provvidenza, acciocchè cioè colle tenebre meriti di più, credendo, e colla luce più gli si acuisca il suo desiderio della eterna luce e sia da questo saggio di visione e da questo desiderio sostenuto e avvalorato nelle sue operazioni e nella sua aspettazione. Talora questo lume interiore della grazia si chiama cognizione , come allorchè Gesù Cristo disse: [...OMISSIS...] Talora poi questo lume è chiamato visione , che equivale a quello che io dico percezione , ed è una comunicazione dell' essere reale fatta al senso, e non solo idealmente all' intelletto. Gesù Cristo disse: [...OMISSIS...] . E S. Giovanni: [...OMISSIS...] . Consistendo la cognizione, propriamente parlando, nella concezione dell' essere ideale, farà maraviglia che si chiami cognizione nella divina Scrittura anche il lume della grazia che ci fa percepire l' essere reale; mentre sembrerebbe che solo gli convenisse il nome di percezione o di sentimento . Ma due ragioni si possono rendere del chiamarsi propriamente anche cognizione il lume che ci viene dato dalla grazia. La prima di queste due ragioni è, che la grazia opera mediante la cognizione ideale negativa di Dio , ella non fa che rendere viva ed efficace questa idea di Dio che non eccede la natura del puro conoscere , nel che sta appunto la natura della fede. Quindi è che l' operazione della grazia vien detta nelle divine Scritture anche un insegnare che fa Dio all' uomo, come in Isaia: [...OMISSIS...] . E Geremia non dice che Iddio darà una legge nuova, ma che la stessa legge, invece di scriverla sulle pietre, la scriverà ne' cuori, e così ognuno saprà da sè, per interiore ammaestramento di Dio, non per dottrina comunicata al di fuori dell' uomo. [...OMISSIS...] Egli è dunque acconcissimamente detta un insegnamento la operazione della grazia; giacchè non aggiunge idee nuove alla mente, ma solo rinforza e colorisce, per così dire, le idee che già abbiamo per la ragione e per la esterna rivelazione. Che se talora nella divina Scrittura si parla di una legge nuova data da Cristo, la novità di questa legge non istà tanto in aver date specie nuove, quanto in aver rinnovate, ravvivate, svolte le vecchie e compite, secondo quello che disse Gesù Cristo: [...OMISSIS...] La seconda ragione, per la quale si può dire cognizione il dono della grazia, si è che l' essere reale che si percepisce per la grazia, non è che il compimento dell' essere ideale ; e quindi non distrugge, ma compisce nella nostra mente l' essere ideale, senza il quale l' essere reale non si potrebbe all' intelletto nostro comunicare. Quindi sebbene nelle cose create la percezione sensitiva differisca essenzialmente, e non di solo grado, dalla cognizione , tuttavia ciò non si avvera trattandosi di Dio che è l' Essere stesso , del quale la cognizione e percezione non differiscono, se non di grado. Nelle cose create colla cognizione concepiamo l' essere stesso, quando colla percezione sensitiva non percepiamo punto l' essere , ma una sua appartenza, una sua accidentalità, una certa sua azione. Il contrario avviene rispetto a Dio, perchè è sempre l' essere che conosciamo o percepiamo; e quindi la percezione non differisce dalla cognizione essenzialmente, ma per gradi: sicchè, come noi abbiamo detto più sopra, la cognizione non è che un principio di percezione, e che la percezione è un grado di più, un finimento e perfezionamento della cognizione. L' essere insomma è essenzialmente conoscibile , e per ciò con ragione la percezione dell' essere stesso può dirsi cognizione . Per questo Cristo in S. Giovanni, volendo dire che gli Apostoli avevano il lume della grazia, la percezione del Verbo, disse che conobbero veramente (1); rinforzando con quel veramente il conobbero , quasi ad additare un grado di più intera cognizione. Il qual grado nuovo di cognizione che si aggiunge per grazia, viene espresso anco da Cristo in quelle parole: [...OMISSIS...] . Una interiore rivelazione adunque è l' operazione della grazia, per cui nelle idee che hanno tutti gli uomini, l' uomo illuminato da Dio vede ciò che gli altri punto non veggono. Da questo che abbiamo ora detto s' intende quale sia il carattere distintivo delle due cognizioni naturale e soprannaturale, in questa vita. Hanno tutte e due lo stesso fondamento, cioè i lineamenti fondamentali sono i medesimi: questi lineamenti sono le idee pure e negative di Dio. Nella cognizione naturale queste idee restano così nude, come traccie sottili di un disegno a contorni. Nella cognizione soprannaturale quelle idee non restano svestite e fredde, ma esce da esse un sentimento (percezione) che le avviva e mette in esse qualche cosa del positivo: il che è ciò che nelle divine Scritture si chiama intendere col cuore (3). Per questo sentimento l' uomo della grazia percepisce e vede in quelle idee ciò che in quelle medesime idee non vi percepisce nè vede l' uomo della natura. Quindi questi conosce e non conosce la stessa cosa che conosce quello, cioè ha lo stesso oggetto nella mente, ma non gli è rivelato allo stesso modo . Con questa osservazione si spiegano quelle parole di Dio in Isaia: [...OMISSIS...] . E quelle di Cristo, che alludono appunto al passo d' Isaia: [...OMISSIS...] . Già ho mostrato in che consiste questa imperfezione, cioè nell' esser essa indistinta , sebbene tale che noi ci accorgiamo di percepire con essa TUTTO L' ESSERE, TUTTO IL BENE. L' oscurità di questa percezione indistinta è insegnata nelle divine Scritture con una figura assai acconcia. Si distingue la faccia di Dio dalla schiena di Dio. Chi vede un uomo in ischiena, il percepisce, ma indistintamente, perchè è dalla faccia principalmente che si distingue un uomo dall' altro e che si acquista dell' uomo una ben chiara notizia. Ora parimente in questa vita si percepisce veramente Iddio pel lume della grazia, ma quasi in ischiena ; nell' altra vita poi si percepisce la stessa sua faccia , il che forma il lume della gloria. Questa figura è nell' Esodo. Mosè, desideroso di vedere Iddio, avevagli detto: Mostrami la tua gloria. Iddio gli rispose: [...OMISSIS...] Questo favore che veniva fatto a Mosè, esprimeva la operazione della grazia del Redentore, la quale, sebbene non dia la visione della faccia divina (la percezione completa ), tuttavia dà la visione della schiena di Dio ( la percezione incoata e indistinta ) (7). Conviene che dichiari il significato che io aggiungo a questa parola deiforme . Iddio fa più operazioni nell' universo: conserva le cose, ciò che è un continuo crearle, dà loro il moto, la vita, il senso, l' intelletto. Tuttavia nessuna di queste operazioni può dirsi deiforme , ma solo la operazione della grazia . Non è già che Iddio non faccia tutte quelle opere; chè anzi nessuno le potrebbe fare fuori di lui; e non è neppure che Iddio, anche colla sua essenza, non si trovi realmente in tutte le creature e tutte le creature in lui: egli vi si trova, ed è vero a capello quanto disse il poeta Arato, citato da S. Paolo: « In lui viviamo e ci moviamo e siamo« (1). » Ma tutto questo non fa sì ancora che tale intima azione di Dio nelle creature si possa chiamare deiforme (2). Per operazione deiforme io intendo una operazione che non solo ha per principio Iddio, ma che essa stessa e il suo termine è Dio. Della operazione della grazia Iddio è il principio e anche il fine, è la causa e anche l' effetto, per così dire: e perciò questa operazione è deiforme . La operazione sopra tutte le altre deiforme è la incarnazione del Verbo, la causa o principio della quale incarnazione fu la Triade augustissima, e il termine suo fu il Verbo incarnato. La operazione deiforme, avendo per iscopo la comunicazione della divina sostanza, non può operarsi che in esseri dotati di senso e di intelligenza, perchè la sostanza di Dio è vita e luce. Per ciò tutte le operazioni che Dio facesse relativamente alle creature non dotate di sentimento e di intelletto, per quantunque divine fossero e tali che solo alla potenza di Dio convenissero, come la creazione, non sarebbero però deiformi ; perchè in esse non vi sarebbe una comunicazione della divina sostanza, della vita, e della luce di Dio stesso. La maniera adunque diretta di conoscere la operazione deiforme, è il percepirla, l' esperimentarla. Conviene sentire Iddio, conviene sentirlo operante in noi: conviene sentire in noi qualche cosa che non si possa confondere con nessuna delle creature e che sia evidentemente qualche cosa di più di qualunque essere parziale; che non possa essere assolutamente altro che Dio stesso. Chi sente in sè stesso una operazione tanto grande, che non è comparabile a cosa alcuna, al saggio della cui immensità l' uomo è vinto e come annichilato, una operazione che è tutto e può tutto (e niente può contro lei o fuori di lei); questi ha in sè stesso una cotal percezione del sommo Essere , una comunicazione e, per così dire, un suo toccamento. Quanto insomma l' anima sente, deve essere tal cosa che sia evidentemente Dio (1); allora la operazione è deiforme. I Santi Padri provano, che l' operazione della grazia nell' uomo è deiforme , appunto dal sentimento che l' uomo soffre in essa. Essi fanno questa argomentazione. L' uomo non può essere pienamente accontentato se non da un bene compiuto, da un bene infinito, da Dio. Ma l' uomo giusto che ha la divina grazia, sente d' aver qualche cosa in sè stesso, che pienamente il sazia e accontenta. Dunque egli ha Dio, egli possiede Dio. Prima farò qualche osservazione su questo argomento de' Padri, rivolta a far osservare quanto una siffatta dottrina convenga a capello con tutto ciò che insegna un' accurata filosofia dello spirito umano, come pure con quanto io ho di sopra espresso intorno alla grazia: di poi recherò i luoghi de' Padri stessi. Di sopra io dissi che l' uomo per la grazia percepiva realmente Iddio; ma che però questa percezione nella vita presente non era che incoata e imperfetta. Ho esaminato in che consisteva questa imperfezione, e ho rilevato consistere nell' essere principalmente indistinta . Restava a cercare quale fosse questa essenza (1) che noi percepivamo, che costituiva la percezione indistinta . Ed entrato in questa ricerca, trovai che essa consisteva nel percepire noi una tal cosa, nella quale sentivamo solamente questo, che in essa era TUTTO L' ESSERE, TUTTO IL BENE, senza poter però determinare nessun bene particolare, nessun bene che avesse similitudine cogli altri beni da noi realmente percepiti. Ora è per una ricerca filosofica sullo spirito umano che si trova non poter l' uomo giammai pienamente soddisfare e quietare, come in suo termine, il suo appetito, se non perviene al possesso di TUTTO L' ESSERE, di TUTTO IL BENE. Nessuna cosa, nessun bene particolare, qualunque sia, può fermare e saziare veramente il desiderio della umana natura, perchè questa può sempre, dopo un bene già posseduto, immaginarsene, ossia proporsene un altro che ancor non possiede; e così portare d' una in altra cosa all' infinito il suo appetito, senza che possa mai trovare posa. La ragione di ciò fu esposta da me nei Principii della Scienza Morale , e nasce dalla natura della idea dell' essere che è la forma dell' uomo come essere intelligente, e quindi è il mezzo o istrumento ond' egli conosce. L' appetito, di natura sua, tende a ogni bene che gli venga proposto. Ora il bene vien proposto all' uomo dalla sua cognizione; un bene che conosce, già lo appetisce per natura. Ora la cognizione dell' uomo è tale che non ha limiti, perchè, dopo aver conosciuta una cosa, niente osta che non si proceda alla cognizione di un' altra: e ciò per la idea dell' essere che essendo perfettamente indeterminata , non è limitata a nessun essere particolare, ma a ognun de' possibili, qualsivoglia, si estende. Come dunque la facoltà razionale non finisce di conoscere, se non fino che l' essere (l' oggetto conoscibile) è esaurito, così parimente l' appetito della natura umana non finisce, se non quando tutto l' essere gli è dato per suo oggetto e pascolo. L' uomo dunque, per insegnamento della stessa filosofia, non si può acquetare se non percepisce L' ESSERE stesso dove è tutta la essenza e quindi tutta la pienezza dell' essere. Ma ciò appunto è che si trova per esperienza nella vita spirituale, nella quale si sente di percepire una pienezza di essere, ove nulla manca e tutto si comprende, e medesimamente una cosa che perfettamente appaga e sazia. Or la pienezza dell' essere non è che in Dio, perchè è appunto l' essere stesso, l' essere per essenza. Indi è che con ragione si può conchiudere, percepirsi Dio stesso nella operazione della grazia; e ciò per due vie, egualmente certe e che fortemente conchiudono, le quali son queste. L' esperienza, il sentimento nella vita spirituale depone che si sente in sè cosa ov' è il TUTTO, ove nulla manca dell' essere. Dunque si sente in sè Dio: l' operazione è deiforme . L' esperienza, il sentimento depone nella vita spirituale che si prova una perfetta soddisfazione e pienissimo appagamento dell' umano desiderio. Ma la filosofia dimostra che il desiderio della umana natura non si acquieta perfettamente mai, se non gli si dà per oggetto cosa, ove nulla manchi e ove sia tutto l' essere. Dunque si sente nella operazione della grazia tutto l' essere, dunque si sente Dio stesso, dunque l' operazione è deiforme . Udiamo ora i Padri della Chiesa. Didimo osserva che è frase della Scrittura il dire alcuni pieni di Spirito Santo. Or egli così argomenta. L' uomo non si empisce da nessuna creatura: dunque quello Spirito, che per la grazia inabita nell' uomo, è Dio stesso. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . E poco appresso: [...OMISSIS...] . Fu detto che si può conoscere l' operazione della grazia esser deiforme, dall' imprimere essa nelle anime nostre de' segni al tutto divini, dal darci il senso di tal cosa che non può essere se non Dio stesso. Ora, se ciò bastasse a costituire la operazione deiforme, anche nella mente umana, sebben posta nell' ordine naturale, una tale operazione si rinverrebbe. Perocchè nella mente umana vi è per lume e forma la idea dell' essere, la quale ha dei caratteri che non possono convenire se non alla divinità, come l' immutabilità, l' eternità, l' autorità di suprema legislatrice, ecc. (1). Rispondo esser vero che quella idea ha de' caratteri divini e da ciò essere stati indotti i Platonici e alcuni Padri della Chiesa, che ne hanno seguita la dottrina, a divinizzarla, a dichiararla anch' essa Dio. Io però sostengo essere ciò avvenuto per non avere bastevolmente conosciuta e osservata la distinzione fra l' essere ideale e l' essere reale . Che se si fosse conosciuta una tale distinzione, sarebbe stato facile a conoscere chiaramente che il lume della ragione, ossia l' idea dell' essere, non è Dio, e noi in esso non percepiamo Dio, ma solo una cosa divina, una cotale appartenenza che si può chiamare anche similitudine della divinità: laddove nel lume della fede noi percepiamo e sentiamo Dio stesso, e non la sua similitudine. Ragione di ciò si è che il vocabolo Dio è sostantivo ed esprime quindi una sostanza; onde noi non percepiamo Dio, se non percepiamo una sostanza, che è quanto dire un essere reale e sussistente, non una idea, una possibilità. Dio deve essere un BENE reale , anzi tutto il bene, come diceva, tutto l' essere, e non punto una idea. L' idea dell' essere adunque, come sta naturalmente nelle menti nostre, non si può dire Dio, perchè manca della sussistenza. Questa ragione è recata in mezzo anche da' più santi Padri: non sarà inutile che io la illustri e confermi colle loro testimonianze. S. Cirillo nel dialogo VII della Trinità, dalle frasi che vengono usate dalle divine Scritture in commendazione degli uomini che posseggono la grazia divina, i quali sono detti talora templi di Dio , talora essi stessi Dei ; argomenta e conchiude che Dio deve agire realmente e colla stessa sua sostanza nelle anime loro, e non puramente mediante idee o similitudini. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . S. Basilio nota espressamente la differenza fra l' idea e l' essere reale che opera in noi, e che ci imprime quello che egli chiama il carattere divino : ecco il passo. [...OMISSIS...] E perchè questo divino carattere non si tolga per una pura idea, soggiunge: [...OMISSIS...] . E prima ancora di S. Basilio e di S. Cirillo, il celebre cieco di Alessandria Didimo aveva egregiamente distinto l' ordine ideale, a cui appartengono le scienze, dall' ordine reale, a cui appartiene lo Spirito Santo; e mostrato quanto gran differenza ci corra fra il partecipare di quelle e di questo. Il luogo, di cui parlo, è bellissimo e lo recherò tradotto in nostra lingua. Dopo aver detto che si usa dire di un uomo, tanto esser lui pieno di scienza , quanto esser pieno di Spirito Santo ; prosegue a mostrar la differenza che passa fra il partecipare queste due cose così:« Essendo lo Spirito Santo partecipabile, come è partecipabile la sapienza e la disciplina, convien però avvertire, che egli possiede una sostanza che non istà già ne' vuoti nomi della scienza, ma che SUSSISTE egli medesimo buono, con tale natura che santifica e che empie di beni tutte le cose: secondo la quale natura diconsi anche alcuni esseri pieni di Spirito Santo, come è scritto negli Atti degli Apostoli (II): [...OMISSIS...] . Finalmente io non posso omettere l' autorità di Origene notabilissima appunto in questo, perchè un de' Platonici, i quali solevano, come dissi, confondere l' essere ideale col reale, le idee colle cose; fonte, chi ben guarda, di forse tutti o dei più errori del Platonismo. Ora all' uopo nostro Origene, cadendogli di parlare della inabitazione che fa Dio nelle anime sante, scorto dal lume rivelato, lascia la solita confusione delle idee colle realtà, e entra benissimo a distinguere ciò che sussiste realmente, e ciò che non è che una idea o scienza; e dice che Dio è partecipato dagli uomini, come per essi si partecipa di una scienza, a ragion di esempio, della medicina (e quindi formalmente , perocchè le notizie informano oggettivamente lo spirito): ma con questo divario tuttavia, che Dio è anche una sostanza , quando la medicina non è nulla più di un essere ideale . Udiamo lui medesimo: [...OMISSIS...] . Or, dopo aver detto questo, così acconciamente soggiunge, distinguendo la natura ideale della scienza medica dalla reale sostanza dello Spirito Santo. [...OMISSIS...] Dalle cose dette sin qui si può conchiudere, a quale sistema si deva attenersi circa la relazione dello spirito intelligente colla divinità: perocchè tre ve ne possono essere in questo; e sono i seguenti. Il primo sistema è platonico; e in esso si fa DIO anche il lume dalla ragion naturale. Con un tale sistema si riduce tutto all' esser reale e si perde di vista l' essere ideale . Il secondo sistema, opposto al primo, è di quelli che negano, che sia Dio anche ciò che si sente per la operazione della grazia; ma vogliono che noi partecipiamo per essa solamente di una similitudine di Dio, e non più: e questo sistema è di una celebre scuola di Teologi (1). Con un tale sistema si riduce tutto all' essere ideale e si perde di vista l' essere reale . Il terzo sistema è quello che noi seguiamo, e che stimo più conforme alla verità e alla ecclesiastica tradizione: è quello che stabilisce il lume della ragione non esser più che una appartenenza, o se si vuole anco una incoata similitudine di Dio, ma non Dio stesso; il lume poi della fede essere la stessa divina sostanza. Quindi l' ordine naturale esser costituito dall' essere ideale ; l' ordine poi soprannaturale esser costituito dalla partecipazione dell' essere reale : e quest' ordine essere un compimento e perfezionamento di quello, come l' essere reale non è che un compimento e perfezionamento dell' essere ideale . Che Iddio operi nell' anima, nell' ordine della grazia, come causa efficiente , è fuori di controversia: i teologi però sono divisi, se Iddio operi anche come causa formale . Io credo essere necessario di chiarir bene il significato di questa parola, causa formale . Per causa formale, o forma di una cosa, si suole intendere universalmente quell' elemento che entra in una cosa, per la quale la cosa è posta in atto. Ma questa definizione è generale, e si possono distinguere più specie di cause formali, dalla quale accurata distinzione verrà piena luce alla materia che abbiamo alle mani. Causa formale o forma di una cosa si chiama, in primo luogo, quell' elemento costitutivo della cosa stessa, per modo che esso, con le altre parti aggiunte, è la cosa stessa, il quale origina nella cosa la sua propria naturale attività: come sarebbe in un corpo, la sua forma sostanziale è quella energia onde esso sussiste; come forme accidentali sono quelle particolari attività a lui inerenti ond' egli si attua a degli atti accidentali. In questo senso parimente l' anima è la forma del corpo. Ora Dio non può essere, in tal modo, forma di nessuna creatura, perchè non può trasformarsi in alcuna creatura, nè in nessuna parte di una creatura. Questo è ciò che insegnano i maestri della Chiesa, quando, ragionando sul dogma della Incarnazione, avvisano che non si deve già credere che il Verbo siasi tramutato in sostanza umana, ma sì congiuntosi alla umana natura senza sofferire in sè nessuna passione: e il medesimo dicono dello Spirito Santo che si unisce ai redenti per la grazia. Il contrario de' Manichei che sostenevano una porzione della divinità collo spiracolo della vita, narrato dal Genesi, essersi trasformata nella umana natura: contro il quale errore scrive S. Agostino (1). Nella incarnazione però avvenne questo, che il Verbo assunse la natura umana in una sola persona; e questa è la massima unione fra le possibili della divinità coll' uomo, perchè fu tale che Cristo dicendo ego , quest' ego suonava il Verbo stesso così parlante. In tale congiunzione il Verbo si poteva dire bensì forma del Cristo, ma non era forma perciò di una creatura, perchè Cristo, nome personale, non significa una creatura. Una seconda maniera di causa formale , volgarmente, si reputa essere una cosa estranea che agisce in un' altra e la modifica e conforma a sè: in ragion d' esempio, il fuoco che entra nel ferro, lo infiamma, e quel fuoco nel ferro si piglia per una forma che il ferro ha ricevuto. Ma qui, sottilmente parlando, hassi a distinguere il corpo estraneo entrato, dal corpo da lui modificato, e la modificazione che questo riceve dalla causa che gliela produce: il che il volgo però non suol fare. Ora la modificazione stessa è una forma (un atto nuovo), di cui la cosa viene informata: ma il corpo eterogeneo a lei aderente, e non con lei contemperato e immedesimato, non è più che una causa efficiente, a vero dire, che ha però con quella forma uno strettissimo nesso, e che per ciò vien detto anche forma o causa formale , in quanto che imprime la forma (1). Ora non è dubbio, che Iddio opera in modo nell' anima, che egli sia causa efficiente, di somigliante natura, cioè tale che imprima la forma; e a questo si riferiscono le similitudini che usano le Scritture e i Padri, paragonando lo Spirito Santo ora al fuoco che riscalda la materia, in cui entra, ora agli aromi che si attaccano ed aderiscono alle vestimenta, onde sembra che queste stesse tramandino il grato olezzo da sè. Ecco due passi di S. Basilio e di S. Cirillo. [...OMISSIS...] Un' altra similitudine usata da' Padri e dalla Chiesa stessa ne' suoi riti per adombrare l' unione di Dio con noi, è quella del vino mescolato coll' acqua; la quale però non deve così strettamente intendersi, da credere che lo Spirito, significato nel vino, abbia sofferto qualche mutazione, ma bensì l' acqua. Il santo Massimo martire dice che Cristo [...OMISSIS...] Di una terza maniera di causa formale ci viene data notizia dalle sensazioni. Noi colle sensazioni percepiamo i corpi, cioè sentiamo la loro attività operante sullo spirito nostro, ove restano alcuni effetti sensibili di quell' attività operante, cioè restano le sensazioni che dànno la percezione dei corpi. Conviene riflettere che, nell' atto della sensazione, il corpo attivo operante sopra il nostro spirito termina realmente colla sua azione nel nostro spirito; sicchè il termine della nostra passione e della sua azione è uno e il medesimo. Indi quella unione , fra il paziente sensitivo, e l' agente sensibile, osservata dagli antichi, per la quale, con ogni ragione, può dirsi che l' agente , in quanto è attualmente sensibile e operante, come tale, sullo spirito, si renda forma del senso . Ma qui è da osservare con attenzione quanto sono per dire. Il corpo sensibile non è punto sensitivo, non sente punto sè stesso: quindi le sensazioni che produce non appartengono a lui, non sono il termine della sua attività, come tali. Il termine comune adunque, fra il corpo sensibile e l' essere sensitivo, è l' attività , cioè il moto delle parti, moto ove è numero e estensione; ed è per questo che io ho chiamata questa parte reale della nostra percezione de' corpi, chiamando le sensazioni stesse, la parte fenomenale (2). Ora la parte reale della percezione de' corpi non si divide dalla fenomenale, se non per una operazione dell' intelletto, al qual solo per ciò appartiene una conoscenza veritiera, sebbene limitata, di questi agenti che si dicono corpi . Ciò posto, nelle sensazioni il corpo, in quanto è sensibile , non è vera forma dell' anima, ma solo forma fenomenale, o apparente, come tale, all' anima stessa: in quanto poi esso è attivo , anzichè causa formale, è piuttosto causa efficiente: e, in tal causa, è a dir di lui quello che si è detto, parlando della seconda maniera di cause formali . Ora Iddio non può essere causa formale7fenomenale dello spirito umano perchè essendo egli semplicissimo, non gli si può attribuire cosa alcuna che non gli appartenga, senza che egli cessi dall' essere Dio: come, a ragion di esempio, se noi volessimo attribuirgli qualche umano sentimento, il concetto in noi suscitato e prodotto, che ne uscirebbe da questa aggiunta, non si potrebbe più chiamare Dio, secondo il valor comune della parola: a differenza di ciò che avviene ne' corpi, ai quali attribuiamo i colori, i sapori e le altre sensazioni e così formiamo ciò che si dice il corpo fenomenale. Ma nulla di ciò potrebbe avvenire in quanto alla idea di Dio, che se apparisse diverso da quello che è, nulla più vi sarebbe di divino, ma tutto si distruggerebbe il suo concetto. Per intendere la natura di questa quarta maniera di causa formale, è necessario ricorrere alla teoria dell' intendimento. L' intendimento, ove pensi un qualche oggetto reale, cioè da lui percepito, ha per termine della sua operazione l' oggetto stesso e non una qualche sua similitudine o idea. Quando io dico: - date anche a me di quelle frutta che voi mangiate - ; io non dimando già l' idea delle frutta, ma dimando le frutta stesse, di che altri mangia. Questo fatto, per quanto difficile sia da spiegarsi, è innegabile e ovvio. Conseguentemente a questo fatto si può stabilire questa verità, che, in virtù della funzione del giudizio o come io la ho anche appellata, del verbo, l' uomo intelligente col suo atto termina negli oggetti stessi reali. Questo è quanto dire, che gli esseri stessi reali sono oggetto dell' atto dell' uomo intelligente. Or come è possibile ciò? Io ho dichiarata questa grande verità nella Ideologia (1) dimostrando ivi che l' essere è l' oggetto essenziale dell' intelletto, cioè che l' essere ha questa singolare virtù, ossia attitudine, di poter venir ricevuto da un ente sensitivo, e che venendovi ricevuto, cioè percepito, egli fa nascere in quell' essere sensitivo l' intendimento, la cui funzione essenziale non è altro che la percezione appunto dell' essere . Ho dimostrato ancora che l' essere, ove sia percepito solo inizialmente , prende il nome di idea dell' essere o di specie (2), o di essere ideale o potenziale, ed è il lume della ragione e produce l' intelletto umano . Con questo essere iniziale , o lume, l' intendimento conosce tutte le altre cose anche reali, ossia sensibili. Che se l' essere stesso viene percepito non solo inizialmente , ma finitamente , questa percezione è la percezione di Dio; e in tal caso Dio stesso è la forma dell' intendimento. Questa percezione dell' essere così finito, cioè terminato, o è indistinta , ed è quella della grazia, come si percepisce Iddio in questa vita; o è distinta , ed è quella della gloria, come si percepisce Iddio nell' altra vita. Per ben conoscere la natura della causa formale, di cui parliamo, conviene fare le osservazioni seguenti: 1. Che quando lo spirito pensa un oggetto reale, questo oggetto nulla soffre dal pensiero; e che se questo oggetto è contingente, nè pure nulla opera nella mente: e tuttavia è indubitabile che quell' oggetto è il termine dell' attenzione del soggetto pensante e sensitivo insieme. 2. Che se questo oggetto è necessario, cioè l' essere stesso , allora questo opera nella mente, ed è per sè termine e oggetto della mente: il che si rileva osservando che la natura dell' intendimento è tale, che ella riceve passivamente la forma sua, cioè l' essere , e che quindi l' essere deve indubitamente esser attivo in lei. 3. Che quindi conviene separare l' essere, che opera nella mente, dall' essere reale sensibile e contingente: e che questa separazione si può fare osservando che, quando noi pensiamo un essere contingente, noi contrassegniamo quell' essere con ciò che di lui abbiamo percepito co' sensi nostri. Prima cioè della operazione nostra intellettiva, noi non abbiamo percepito dell' essere se non ciò che fu da lui operato nei nostri sentimenti: questa è operazione reale dell' essere stesso. Ma con questa sola operazione noi non conosciamo ancora quell' ente; noi non lo conosciamo in sè, come uno degli esseri. Tutto ciò adunque che abbiamo percepito non è l' essere, come tale, ma delle appartenenze, delle affezioni dell' essere. La mente poi è quella che supplisce l' essere da sè nella percezione intellettiva; per aver questa adunque non è maraviglia se non si esiga una nuova operazione di quell' ente nella mente nostra, ma bensì è necessario che si supponga l' operazione che soffre la mente dall' essere stesso, che le imprime appunto l' idea dell' essere. 4. Che questa recettività dell' essere nella mente è proprietà dell' essere stesso. 5. Conviene avvertire diligentemente che è proprio solo di questa forma una rilevantissima particolarità: ed è che ella, sebbene si unisca con uno spirito sensitivo, siccome sua forma , tuttavia ella non si mescola punto nè si confonde collo spirito stesso, ma si rimane perfettamente immune dalle qualità di lui, e colle sue proprie inconfusibili e inalterabili. 6. Finalmente questa forma, col pure unirsi collo spirito, agisce in lui, giacchè dallo spirito è sentita ; ed è perciò anche un agente, una causa efficiente. Ora come forma di questa natura, nulla ripugna che Iddio si unisca allo spirito umano. S. Tommaso dice espressamente che nell' altra vita la forma , colla quale i beati intendono, è Dio stesso (1). E poichè lo stesso Santo dice, che la vita eterna comincia col battesimo (2), pare che questo santo Dottore non fosse del tutto contrario che anco in questa vita per la grazia Iddio stesso divenisse forma dell' anima: e pare, cercando il fondo del suo pensiero, quando egli diceva che Dio nella operazione della grazia era causa efficiente e non formale, non avesse altro in vista, se non di ben distinguere la percezione che s' hanno i beati nell' altra vita, acciocchè non fosse confuso il lume della gloria con quello della grazia (3). Ed è degno di attenzione, questo, che nelle divine Scritture si applicano le stesse maniere di dire tanto al lume della gloria, come al lume della grazia: anzi lo stesso vocabolo di gloria viene adoperato talora a significare quella manifestazione che fa di sè Iddio in questa vita a' Santi suoi; come, a cagione di esempio, ne' passi seguenti: « Tutti peccarono, e abbisognano della gloria di Dio« (4). - « E non ti ho io detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?« (5). » E l' Apostolo dice la « gloria futura , » per distinguere quella del cielo dalla grazia che si ha in questa terra (6). E quando egli vuol parlare del presente, dice la « gloria della grazia (7). » Nelle quali maniere è solo da osservarsi questo, che la gloria della grazia in questa vita è tutta di Dio; laddove in cielo la gloria di Dio ridonda in noi: ossia, secondo il sentimento dello stesso Apostolo, l' uomo in questa vita ha bensì la gloria di Dio in sè, ma nascosta e velata, la quale poi nell' altra vita non fa che scuoprirsegli e rivelarglisi (1). Ma ciò, che merita ancor più osservazione, si è la frase di vedere Iddio , che si applica egualmente alla visione beatifica e alla visione o percezione di Dio che si ha per la grazia, come il mostrano apertamente i luoghi delle Scritture, più sopra da me riferiti (2), e altri che potrei recare. E questa frase di vedere Iddio è ancora più propria dell' altra di percepire Iddio; poichè la percezione sensitiva si fa tanto col tatto, quanto coll' occhio; ma la percezione del tatto, non è tanto manifestazione oggettiva, come quella che si fa coll' occhio. Poichè l' oggetto non tocca l' occhio e non si mesce con lui, ma rimane dall' occhio lontano e diviso: laddove lo stimolo del tatto colle sue qualità tattili s' immedesima coll' organo senziente. Ora meglio sta il dire che Iddio si vede, appunto perchè, sebbene si unisce, tuttavia non si confonde coll' anima, ma rimane da lei distinto, come è l' oggetto dal soggetto. Il perchè questa frase di vedere Iddio esprime assai acconciamente quell' essere Iddio, rispetto all' anima dotata di grazia, non una causa puramente formale, ma una causa oggettiva formale. Egli è in questo senso pertanto di causa formale oggettiva , che i Padri hanno detto, Dio essere formalmente congiunto colle anime dalla grazia rigenerante. Non sarà inutile sentire alcuna loro testimonianza di questa verità. S. Basilio osserva, nelle Scritture usarsi comunemente la frase che lo Spirito Santo sia in noi . Egli dunque dimanda, in che modo sia in noi, e risponde così: [...OMISSIS...] S. Atanasio parimenti fa forza su quelle parole di S. Pietro, colle quali afferma il santo Apostolo che noi veniamo fatti « partecipi della divina natura«. » Queste parole infatti, intese semplicemente e letteralmente, importano che la divinità diventi forma del nostro spirito. Ma sentiamo il grande Atanasio: [...OMISSIS...] Di che egli argomenta che lo Spirito Santo sia Dio (2). Il medesimo concetto viene pure espresso da S. Cirillo con altre parole: [...OMISSIS...] . Nè sembrami che inettamente lo stesso Padre dichiari quella qualità della divina natura cui l' uomo riceve dalla grazia, col paragonare Iddio a dell' oro e l' uomo a una statua dorata (1); poichè nella indoratura ci ha lo stesso oro, e non già qualche altra cosa, solamente prodotta dall' azione dell' oro. E veramente se Iddio non fosse formalmente congiunto coll' uomo in virtù della grazia, non potrebbero avere un senso vero queste espressioni della Scrittura: « l' uomo esser fatto consorte della divina natura, essere deificato »; come indicano quelle efficacissime parole approvate da Cristo stesso: « voi siete Dii ». Là dove, se la congiunzione fra l' uomo e Dio è formale, queste maniere di dire ricevono un senso tutto proprio e verissimo. La quale è comune osservazione dei Padri, massime Greci, dei quali ho recate già non poche acconcie testimonianze (2). Nè solo i Padri della Chiesa attestano che, nel senso sovra esposto, Iddio diventa forma dell' anima; ma esprimono inoltre quelle qualità di questa forma e quelle condizioni che furono da noi toccate, le quali in queste due si possono ricapitolare: 1 Che, sebbene Iddio operi in noi a tale da essere forma del nostro spirito, tuttavia questa azione di Dio non ha nessuna reazione sopra Dio: sicchè il nostro spirito punto non reagisce in Dio stesso. La quale condizione si verifica massimamente, perchè Iddio opera come Creatore, e il Creatore fa la cosa prima che sia, e quindi non patisce niente dalla cosa stessa. Il celebre cieco di Alessandria, Didimo, nella sua grande opera sullo Spirito Santo, esprime questa condizione assai acconciamente, dando alla divina natura la proprietà di essere capibile , e non quella di esser capace , cioè la proprietà di essere ricevuto, ma non quella di ricevere essa in sè cosa alcuna dall' anima ove inabita. [...OMISSIS...] (Ecco la ragione del non patir egli nulla dalle creature, in cui opera; ciò nasce pel suo modo di operare in attività di Creatore). 2 Che, sebbene Iddio si renda forma dell' uomo, tuttavia Iddio non si confonde coll' uomo: il che avviene, perchè è forma oggettiva , nel qual genere di forme non vi ha alcuna mistione o confusione, perchè l' oggetto ha per sua propria natura una cotale opposizione al soggetto , che non si può giammai con lui mischiare, fino che si rimane oggetto , sebbene esso agisca nel soggetto e di sè lo informi. Questa maniera di operare di Dio nell' uomo viene dalle Scritture e da' Padri dichiarata colla similitudine di un suggello, che opera improntando la imagine nella cera o in altra materia molle e si unisce con quella materia fino al contatto; e tuttavia riman sempre distinto, per sua natura, dalla materia che suggella. S. Paolo usa di questa similitudine in quel luogo agli Efesi: [...OMISSIS...] . E commentando queste parole S. Girolamo, dice così: [...OMISSIS...] . S. Basilio che usa spesso la medesima similitudine del sigillo chiama Dio « imagine effettrice d' imagine (5) »: il che conviene principalmente al Verbo che è imagine del Padre, e che, unendosi con noi, viene sentito dall' anima nostra e così l' anima nostra riceve la impressione e la imagine di lui. Egli è questa la distinzione che si deve fare fra l' oggetto e il soggetto. Allorquando noi soggetto contempliamo un oggetto (il verbo), avvi quest' oggetto, in cui termina la nostra azione, ma anche il soggetto ha sofferto una passione da quell' oggetto; e questa modificazione, questa passione sofferta dalla percezione dell' oggetto, è la imagine che viene in noi prodotta e che si può chiamar soggettiva. Sicchè il santo Dottore con quella espressione «eikon eikonopoios», ottimamente espresse la distinzione che sempre sussiste tra l' oggetto operante (Dio) e noi soggetto che riceviamo la sua operazione. E perchè si veda essere mente dei Padri, che quest' oggetto dello Spirito intelligente, che imprime l' imagine quasi a guisa di suggello, nella operazione della grazia, è Dio stesso immediatamente operante; odasi ancora S. Cirillo in uno de' suoi dialoghi con Ermia, che non lascia luogo a dubbiezza. Egli dice adunque così: [...OMISSIS...] . Nel qual passo si toglie ogni cosa di mezzo fra lo Spirito Santo, e lo spirito dell' uomo santificato. Da ciò che abbiamo fin qui ragionato risulta che negli uomini santi la stessa sostanza divina (2) opera immediatamente, e con essi formalmente si congiunge. Egli non sarà però inutile che io ancora un po' mi trattenga a provare colle testimonianze dell' antichità cristiana quello che in questa materia è il vero principale e di tutti il più degno da notarsi ben colla mente, cioè che Dio non è alcun' altra forma della mente, ma quella che abbiamo chiamata oggettiva . Si può intendere che è necessario che sia così, e non altramente, da tutto ciò che abbiam detto. Poichè, in primo luogo, abbiam detto che Dio nella operazione della grazia non agisce in altra parte dell' uomo, ma nella essenza sua e propriamente nell' intelletto che è l' elemento più nobile dell' essenza umana. Ora ciò posto, basta sapere la natura dell' intelletto per intendere che Iddio non può altro che farsi suo oggetto: conciossiachè la natura dell' intelletto è tale, che non riceve altra operazione se non quella de' suoi oggetti; giacchè cogli oggetti appunto si forma l' intelletto; e ogni altra operazione nello spirito dell' uomo sarebbe fuori dell' intelletto per la stessa definizione dell' intelletto. Ora coerente a questa dottrina, che appartiene tutta alla tradizione cristiana, è quello che fanno i Padri e Maestri della Chiesa, descrivendo la partecipazione che del Verbo di Dio fa l' uomo della grazia, colla similitudine della partecipazione delle scienze e delle idee: della quale similitudine non si può trovar nulla di più accomodato e di più vero. Poichè se l' intelletto è la sede delle scienze e delle idee, e il Verbo di Dio opera nell' intelletto, forza è che questa operazione avvenga appunto per le idee e nelle idee, o più generalmente avvenga in virtù di percezioni intellettive: con questa sola differenza che l' intelletto, fino che ha semplici idee, non vede più che un iniziamento dell' essere (essere ideale), laddove avendo il Verbo, ha tale idea, che non è solo idea, ma insieme sostanza e completamento dell' essere (essere reale). Udiamo adunque quanto acconciamente parlino i Padri della inabitazione del Verbo di Dio nell' uomo, togliendo la similitudine dalle scienze e cognizioni. Già innanzi (1) ho recati i passi dell' Alessandrino Didimo, di Origene e di S. Basilio, dove questi Padri parlano della inabitazione del Verbo nell' uomo, somigliandola a quella delle idee nella mente nostra e mostrandone la differenza. A quelli aggiungerò un altro bel passo di Didimo (2), riferito anche da S. Girolamo, dove toglie a dichiarare il modo onde lo Spirito divino ammaestra gli uomini: [...OMISSIS...] . - Se è dunque come la scienza, che Iddio viene partecipato da noi, egli si unisce a noi a modo di forma oggettiva dello spirito nostro. Lo stesso prova la similitudine del suggello adoperata a spiegare l' azione di Dio nell' anima giusta: solamente che nel suggello si mostra altresì non essere Iddio che si presenta al nostro spirito una pura e tenue idea, ma una specie operante e sostanziale nel nostro spirito, come uno stimolo che vi lascia un' impressione e vi suscita un real sentimento. Didimo mostra appunto che nel simbolo del suggello e della imagine da quello impressa si contiene un' analogia coll' altro modo di spiegare l' azione della grazia in noi tolto dalla partecipazione delle cognizioni, perocchè dice così: [...OMISSIS...] . Ricapitolando la prova dedotta dalla natura dell' intelletto, noi abbiam detto col sentimento dei Padri della Chiesa: L' intelletto non viene formato e non riceve altra azione che da' suoi oggetti: Iddio opera immediatamente nell' intelletto: Dunque Iddio si presenta allo spirito dell' uomo come oggetto, o sia si unisce all' uomo come causa formale oggettiva. Alla medesima conclusione possiamo venire, sempre camminando sulle vestigie dei Padri, ove pigliamo a considerare la cosa da parte della natura divina. Ecco l' argomentazione: Dio è l' essere: Ma l' essere non è partecipato che dall' intelletto, perocchè il farsi quest' essere visibile a uno spirito, è il medesimo che crearvi un intelletto: Dunque Iddio non può essere partecipato dall' uomo immediatamente che coll' atto del suo intelletto, che dall' essere appunto è formato. Questo ragionamento è evidente e irrepugnabile. Da esso si ricava questa bella verità:« Che se l' intelletto umano è formato dalla vista iniziale dell' essere (idea dell' essere in universale), questo intelletto, e l' uomo per esso, vien elevato alla dignità di uno stato soprannaturale con nulla più che essergli accresciuto il grado di quella vista dell' essere che ha per sua natura, cioè col venirgli mostrato l' essere non più solo inizialmente (idealmente), ma terminatamente , col termine della sua reale sussistenza (realmente): il che è Dio. Di qui è che essendo la forma dello spirito umano la idea dell' essere in universale, i Padri acconciamente dicono che lo Spirito Santo perfeziona in noi la forma , o che tiene luogo della forma. Si oda S. Basilio: [...OMISSIS...] . S. Agostino parla dell' intelletto o mente dell' uomo naturale colle medesime espressioni di quelle che usa parlando della mente dell' uomo soprannaturale. Egli dice nel libro delle LXXXIII questioni, che la mente dell' uomo considerata nel suo stato naturale, « nulla substantia interposita ab ipsa veritate FORMATUR (2) ». Io ho già dimostrato che questa verità , di cui parla S. Agostino, e che informa la mente umana, è l' idea dell' essere universale (3). Ora come si esprime il Santo Dottore parlando dell' uomo elevato allo stato soprannaturale? Egli nel libro III della Trinità (4) dice appunto così: « Iustificando FORMATUR a Deo iusti mens « ». Nello stato naturale la forma dell' uomo è la verità , l' essere ideale, la idea dell' essere: nello stato soprannaturale la forma dell' uomo è Dio stesso, l' essere reale terminato, sussistente (5). La forma dunque che si sopraggiunge all' uomo, che entra a partecipare della grazia divina, non è che quella che formava la sua natura, ma completata, elevata, mutata nella sostanza divina. Conviene riflettere di nuovo, a maggiore confermazione di ciò, che le cose create non possono informare la mente umana nel loro modo di essere reale , ma che la informano mediante il loro modo di essere ideale (mediante le idee); il quale è concepito dalla mente indipendentemente dalla realtà delle cose. All' incontro in Dio il modo reale è congiunto siffattamente al modo ideale , che è impossibile immaginarlo scongiunto, senza distruggere Dio stesso: sicchè non vi può aver idea di Dio (modo ideale) senza avere la percezione della sostanza di Dio (modo reale). Sicchè Iddio non può informare la nostra mente colla sua idea, senza che la informi con sè stesso: a differenza appunto di tutte le altre cose che non possono informare la nostra mente di sè stesse, ma di sole le loro idee. Di Dio dunque non si dà idea pura (positiva), ma si dà solo la percezione della sua sostanza. O convien dunque negare all' uomo della grazia ogni partecipazione di Dio, il che è contro all' autorità delle divine Scritture e di tutta la cristiana tradizione; o conviene accordare queste due proposizioni: 1. che Iddio è forma oggettiva dello spirito elevato allo stato di grazia; 2. e che Dio è forma oggettiva non già col suo modo ideale, come sono le altre cose, ma si bene con sè stesso immediatamente, colla sua propria sostanza. S' intenderà chiaramente la ragione di questa dottrina, considerando che Dio è l' essere stesso sussistente ; che perciò è per necessità, è per essenza, è per la stessa definizione. Per potere adunque conoscere Iddio, conviene conoscer[n]e la sussistenza. Ma io ho dimostrato che colle idee pure non si conosce che la possibilità sola delle cose Quindi è impossibile colle pure idee conoscere Dio, e non si può altro conoscerlo che avendone la stessa percezione. Quanto ho detto ha una riprova in quella dottrina comune de' Teologi, i quali insegnano che in Dio non vi ha distinzione fra l' essere e la essenza : mentre in tutte le altre cose si distingue l' essere dalla essenza , potendosi pensare la essenza di una cosa, senza che la cosa necessariamente sia. Conciossiachè che cosa è l' essenza? Pigliamo la nostra definizione:« ciò che da noi si pensa nella idea di una cosa.« - La essenza adunque è il modo ideale dell' essere. Che cosa è poi l' essere [reale] di una cosa? L' essere è l' atto della cosa, cioè l' atto onde la essenza è, sussiste. Or, ciò che dicono i Teologi sulla indivisibilità della essenza dall' essere nella natura divina, non è dunque ciò appunto che noi dicevamo sulla indivisibilità [in Dio] del modo ideale e del modo reale? Risulta adunque dalla teologia che di Dio non si può dare una idea pura positiva, ma che si può dar solo la« immediata sua percezione intellettiva«; e che senza di questa l' uomo non può avere nessuna reale e positiva comunicazione con la divinità. O convien dunque negare all' uomo della grazia qualunque reale cognizione e comunicazione della divinità: o conviene concedere che questa comunicazione delle anime giuste con Dio è immediata , che hanno la percezione di Dio , che Dio stesso colla sua propria sostanza si rende forma oggettiva di esse. Ai Padri della Chiesa non sono sfuggiti questi ragionamenti; e credo che la dottrina esposta sia ne' visceri stessi della cristiana religione. S. Cirillo pone questo inconcusso principio: « non si può partecipare per mezzo della creatura ciò che supera la creatura« (2) ». Il medesimo afferma in un altro luogo: quando noi siamo fatti partecipi, come dicono le Scritture, dello Spirito Santo, [...OMISSIS...] . Or dunque secondo questo principio, non per mezzo della idea pura si conosce Dio, ma per Dio stesso sussistente; perocchè l' idea pura che noi aver possiamo di Dio, non è Dio, ma è una creatura anch' essa, perchè limitata, è un lume creato. Qui batte quello che tante volte ripetono i Padri, massime Greci, che la comunicazione di Dio alle anime giuste si fa senza mezzo , «amesos», e che non si può col mezzo di nessuna cosa creata, e però nè pure di nessuna idea, dare alle anime la santificazione: come tante volte ripete S. Cirillo di Alessandria (4). Questo vero è tanto da loro ribadito e chiarito, che non rimane il più piccolo [luogo] a dubitare della loro mente: almeno a me, dopo aver considerati i loro detti, è stata tolta via ogni dubitazione su di ciò. I Padri riconoscono in Dio una cotale relazione essenziale colle creature, di diverso modo in ciascuna delle tre divine Persone. A quel modo che, essi dicono, che il Verbo divino è un cotal pensiero del Padre, col quale non solo ha pensato sè, ma tutte le creature altresì, e così pensandole, con quell' atto stesso della eterna generazione le ha create (5); così dicono parimente che, collo stesso atto della eterna spirazione, non solo il Padre e il Figliuolo ha amato sè, ma ha amato, infuso l' amore, santificate le anime sante; sicchè la stessa sostanziale persona dello Spirito Santo sia una cosa identica colla stessa virtù santificatrice dei giusti. [...OMISSIS...] - Così S. Cirillo (6). Quindi, come al Figliuolo conviene sostanzialmente il nome d' imagine , così allo Spirito Santo conviene sostanzialmente quello di dono (1). Una operazione più immediata di questa non si può concepire, ed è questa sola che può comunicare la cognizione di Dio all' uomo. Questa singolare proprietà di Dio solo, di essere conoscibile per sè stesso e non per nessun altro mezzo, sparge una luce viva, a mio parere, sopra un brano del grande Basilio, che, senza aver prima ben concepita nella mente questa dottrina, parrebbe oltremodo oscuro. Nel brano, di cui parlo, S. Basilio dice che, per conoscere Iddio, noi dobbiamo riceverne in noi medesimi la impressione, il carattere, ma che questo carattere, parlando di Dio, non è come le idee che si ricevono dalle altre cose, ma è un carattere vivo e efficace: col qual passo si distingue manifestamente il conoscere delle altre cose colla idea , che è un segno freddo e imperfetto, e il non potersi aver di Dio questa imperfetta impressione, il non potersi aver di Dio l' idea; ma sì bene solo il potersi aver di lui la immediata percezione viva ed efficace, come sono sempre le percezioni, giacchè con esse noi soffriamo dalle cose un' azione reale. Ecco il luogo assai notabile del santo Dottore: [...OMISSIS...] . Essendo questo un vero comune e famigliare de' teologi cristiani, non addotto in controversia da nessuno, mi basterà l' averlo indicato. [...OMISSIS...] . Quindi si può dire che l' operazione di Dio è una ; ma il modo della medesima è trino . Egli è principio costante de' maestri della cristiana dottrina, che l' operazione di Dio non si distingue da Dio stesso. Quindi, come Iddio è uno e trino, così la divina operazione deve essere una e trina: come Iddio è uno nella sostanza, trino nel modo in che sussiste questa sostanza, così l' operazione stessa di lui deve essere una, ma trino il modo della medesima. Confermiamo l' una e l' altra verità coi testimonii della tradizione. Dell' unità della operazione divina, dogma fermissimo, così dice l' undecimo Sinodo Toletano: [...OMISSIS...] . E S. Basilio: [...OMISSIS...] . Che poi il modo dell' operazione sia trino, si autentica dalle diverse preposizioni che la divina Scrittura adopera nell' indicare l' operazione del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Perchè parlando del Padre, il più si dice che« il Padre opera«, in caso retto: ma per indicare l' operazione stessa appartenente al Figlio, si usa della preposizione per , dicendosi che« il Padre opera per lo figliuolo«: e medesimamente la stessa operazione si attribuisce allo Spirito Santo mediante la parola in , dicendo che« il Padre opera per lo Figliuolo nello Spirito Santo«. Le quali particelle sono acconcissime a indicare non già una operazione diversa, ma un diverso modo , onde le tre divine persone entrano a produrre la medesima e semplicissima operazione. Sono costanti i Padri in questa maniera di esprimersi circa la divina operazione. A ragion d' esempio, in questo luogo di S. Atanasio, dove egli afferma l' unità della divina operazione, mostra ancora in che diverso modo concorra ciascuna delle divine persone in essa, mediante le accennate preposizioni: [...OMISSIS...] . E S. Ilario: [...OMISSIS...] . Nè questo trino modo dell' operazione divina può togliere l' unità della medesima, perchè come riflette S. Cirillo Alessandrino, « colà dove è identità di natura, sotto nessun rispetto divisa, ivi pure l' azione non può esser divisa, eziandio che s' intenda farsi quell' azione da alcuno in modi varii e diversi« (3) ». Se l' universo è l' opera delle tre divine persone, e se l' operazione di queste, sebbene una in sè stessa, è tuttavia trina nel modo; apparisce manifestamente ragionevole e consentanea a sè stessa la dottrina dei Maestri della Chiesa, i quali insegnano che nell' universo risplende il vestigio della Santissima Trinità: perocchè conviene che l' effetto sia simile alla sua cagione. E questa è appunto la ragione, che dà S. Tommaso d' Aquino, del trovarsi sparse nell' universo le traccie di una causa una e trina (4). Per trovare quale sia il vestigio più completo della Trinità nell' universo, o, a dir meglio, per trovare una formola che esprima completamente il più che esser possa la traccia che la Santissima Trinità impresse di sè nelle cose, in creandole, a me parve di tenere il metodo seguente. In primo luogo osservai l' essere creato sotto tutte le sue forme e modi possibili. Poi cominciai a classificare queste forme e questi modi; e riducendoli di classe in classe, li venni [riducendo] ne' generi reali (1), primi irriducibili l' uno all' altro, nè aventi sopra di sè altra essenza generica, ma solo la essenza universale, l' essere . Ora questa operazione mi condusse a rinvenire tre forme primitive e originali, inconfusibili fra di loro, che riconobbi esser le tre forme, di cui era informato l' universo, ossia i tre modi dell' essere creato . Queste tre forme o modi dell' essere sono: 1. l' essere reale ; 2. l' essere ideale ; 3. l' essere morale . L' essere reale vidi che costituiva il sentimento , e che i corpi non erano che la sua materia (2): vidi che l' essere ideale (le idee) costituiva la cognizione : e che l' essere morale costituiva la ricognizione pratica o riflessione (3). M' accorsi che l' essere reale è l' essere in quanto è sussistente ; che l' essere ideale è l' essere stesso in quanto è conoscibile ; che l' essere morale è il medesimo essere cognito in quanto è amabile . Mi si manifestò parimente che l' essere reale era quello che conosceva e che amava; e che l' essere ideale era il mezzo, pel quale l' essere reale amava ciò che aveva conosciuto (l' amabile); e che l' essere reale, in quanto conosceva e amava, si diceva aver le facoltà d' intendere e di volere. Ancora osservai che gli uomini riserbavano all' essere reale propriamente il nome di essere o di ente ; che all' incontro all' essere [ideale] davano più di frequente il nome di verità ; e all' essere [morale] quello di bene : e che l' essere, il vero, e il bene erano appunto stati i tre elementi, a cui l' antica filosofia aveva ridotte tutte le supreme nature dell' universo. Ora questa io credo essere appunto la formola che più completamente di tutte esprima il vestigio della Trinità, del quale è segnato il mondo. S. Agostino nel libro VI della Trinità (1) parla dei vestigi di lei nelle cose create, e trova questo vestigio in ogni creatura per questo, che qualsiasi cosa non esiste se non a tre condizioni, cioè: 1. che sia un qualche cosa ; 2. che sia informata di qualche specie ; 3. e che tenga in sè qualche ordine , cioè che sia ordinata a qualche fine (2). Di che conchiude « esser necessario che, contemplando il Creatore coll' intelletto per quelle cose che sono state fatte, veniamo all' intelligenza della Trinità, di cui nella creatura apparisce, come è degno, [un] vestigio« (3) ». E queste tre condizioni e modi d' ogni essere creato, come osserva S. Tommaso sono indicate in quelle parole del libro della Sapienza (4): « Tu hai disposte le cose tutte in misura, numero e peso« ». « - « Perocchè, dice il santo Dottore, la misura si riferisce alla sostanza della cosa limitata da' suoi principii, il numero alla specie, e il peso all' ordine« (5). » Le quali tre condizioni di ogni esistenza S. Agostino le nomina altresì con questi tre nomi di modo, specie e ordine : e dall' entrare necessariamente somiglianti elementi in ogni essere, induce la conseguenza che ogni essere, di sua natura, è buono. « Questi tre [elementi], dice egli, ove son grandi, ivi sono beni grandi: ove piccoli, ivi sono beni piccoli: ove nulli, non v' è nessun bene. E per egual modo, ove que' tre elementi sono grandi, ivi sono delle nature grandi; ove piccoli, ivi sono delle nature piccole: ove nulli, non v' è nessuna natura. Dunque, conchiude, ogni natura è buona. » Il primo elemento indicato da S. Agostino, che ogni cosa « unum aliquid est », è manifestamente ciò che noi chiamiamo l' essere reale . Il secondo elemento che ogni cosa « aliqua specie formatur », merita più attenta investigazione e analisi. Nell' Ideologia , a cui mi devo riferire e rimettere spesso in questo trattato, io ho dimostrato che la specie non è che il rapporto che ha la cosa colla idea (7); non è quindi che la cognoscibilità della cosa, non è che la cosa stessa in quanto è conoscibile, l' oggetto del pensiero. Ho dimostrato che la qualità comune di più cose (fondamento della specie) non è che la proprietà che hanno quelle cose, sebbene più, di essere conosciute con una sola e medesima idea della mente (1). Questa dottrina, che si rileva esser verissima da una perscrutazione profonda della natura della specie, è anco consentita e indicata manifestamente dal senso comune degli uomini, i quali per nominare una classe di cose dicono una specie , usando questa parola, che nella sua forza etimologica non altro significa se non una vista delle cose ( species, aspectus ); mostrando con ciò di credere che, appunto perchè la mente con una sola vista o sguardo o con una sola idea insomma tutte quelle cose conosce, per questo quelle cose formano una classe da sè, distinta dalle altre cose. Di che si rende manifesto che se noi rimovessimo dall' universo l' intelletto che contempla le cose, se noi ne togliessimo via le idee; i generi e le specie delle cose perirebbero. Ma, innoltrandoci di più, troviamo ancora che le cose, senza i generi e le specie, non si possono nè pur pensare; a tale che ci sembra che, anco rimosse le idee, le cose riterrebbero le loro specie. Ma questo è un sembrarci ingannevole: e ciò avviene per ragione che non si possono rimuovere le idee delle cose, come dicevo, senza annientare le cose stesse; poichè fino che noi concepiamo una cosa, concepiamo insieme la sua pensabilità, o cognoscibilità (2). Il che dimostra che la cognoscibilità della cosa è un elemento intrinseco alla cosa stessa, sicchè ella può aver sempre la idea, e quindi medesimo l' ha, se può averla; parlandosi qui d' idee possibili. Havvi dunque un rapporto essenziale e inalterabile fra la cosa reale e la cosa ideale, o l' idea sua; e quella non può star senza questa che intimamente considerata si trova essere il suo principio, ciò che la rende possibile, senza di che, cioè senza esser possibile, non è pensabile, e molto meno esistente. Da tutte queste cose apparisce che la specie di S. Agostino, propriamente parlando, è l' essere ideale della cosa, e che non si può attribuirla alla cosa stessa, senza inchiudervi un rapporto essenziale e primitivo col suo essere ideale . Veniamo al terzo elemento di S. Agostino, l' ordine che hanno le cose a un fine. L' ordine delle cose non ha prezzo alcuno se non a una condizione, che egli sia percepito da una intelligenza, dalla quale possa essere apprezzato. Io ho trattato a lungo questo vero nel libro de' Principii della Scienza Morale , a cui mi richiamo. Ivi mi sono fatta la obiezione:« che se la intelligenza apprezza l' ordine o la perfezione delle cose, conviene che quest' ordine abbia un prezzo antecedentemente all' atto della intelligenza che lo apprezza«. - Ma ho dimostrato che, sebbene l' ordine e la perfezione della cosa si concepisca da sè, anche antecedentemente all' atto particolare di una intelligenza che lo apprezza, anche a tutte le intelligenze create fosse nascosto; tuttavia vi ritiene, in quell' ordine, la proprietà intrinseca di essere apprezzabile, e quindi esso inchiude un rapporto fondamentale ed essenziale con una intelligenza possibile. E veramente l' ordine di cui parliamo, suppone un rapporto di fine e di mezzo, e un rapporto non è che un essere ideale , e non esiste punto per sè solo fuori della mente (1). Di più l' ordine, di cui parliamo, suppone de' fini e de' mezzi: ma io ho dimostrato che il concetto di fine non si trova se non negli esseri intelligenti e, completamente, in Dio solo (2). L' ordine completo adunque non si dà se non nelle intelligenze, nelle persone. Ma la personalità non si forma che dalla volontà , che è la parte attiva della intelligenza. Dunque il compimento dell' ordine esige delle volontà ordinate, cioè consenzienti alla verità. L' ordine morale adunque è ciò a cui tende ogni ordine, e senza il quale nessun ordine ha merito, ma riuscirebbe una sconciatura, un disordine. L' ordine adunque di S. Agostino completamente si esprime nella nostra formola colla espressione di essere morale . S. Agostino stesso, in un bel passo del libro che scrisse contro i Manichei sulla natura del bene, si accostò a questi nostri pensamenti. Perocchè, enumerando egli que' tre elementi di tutti gli esseri, invece di dire la specie , dice « ciò per cui si discernono le cose « », che è appunto quello che noi abbiamo più sopra detto: e invece di dire l' ordine , sostituisce la perifrasi, « ciò che è degno di approvazione o di riprovazione « », espressione che è sommamente propria dell' ordine morale. Non sarà inutile che io rechi tutto insieme il luogo importante del santo Dottore, anco perchè in esso deduce la Trinità della causa appunto dalla Trinità, per così dire, dell' effetto. Ecco le sue parole fatte italiane: « Ogni cosa che è, altro è per ciò onde consta, altro per ciò ONDE SI DISCERNE, altro per ciò onde ha convenienza. Se adunque qualsivoglia creatura ed è in qualche modo, e da ciò che al tutto non è grandemente si allontana, e conviene con sè stessa nelle sue parti; forza è dire che anche la causa di lei sia trina per siffatto modo che sia , che sia questa cosa , e che sia AMICA DI SE` STESSA ». (Si noti qui che egli ha bisogno di ricorrere ad una espressione tolta dall' ordine morale, cioè all' amore, per esprimere il suo pensiero). «Or la causa, cioè l' autore della creatura diciamo esser Dio. Fa d' uopo adunque che vi abbia la Trinità, della quale una perfetta ragione non può trovare nulla di PIU` PRESTANTE (ciò corrisponde alla sostanza, all' essere reale), nulla di PIU` INTELLIGENTE » (ciò corrisponde all' essere ideale), «nulla di PIU` BEATO » (ciò corrisponde all' essere morale)«. E di qui conchiude il santo Dottore che « nella investigazione della verità non vi possono essere più di tre generi di questioni, cioè se una cosa sia; se ella sia questo o altro; e se ella sia da APPROVARSI O DA RIPRENDERSI (1) ». Il perchè è manifesto che, compiutamente, non si trovano le traccie della Santa Trinità nelle creature, se non pigliandole tutte insieme, e non rimovendo dall' universo o l' intelligenza o la volontà, il modo ideale o il modo [morale] dell' essere; e che se nelle nature materiali appare qualche segno di Trinità, anche considerate da sè sole, ciò non è se non perchè non si giunge giammai ad astrarre da loro la conoscibilità e la ordinazione all' essere morale: qualità che non si possono veramente t“r via interamente, senza che siano tolte con esse insieme e rese al tutto impossibili le stesse nature (2). Sebbene d' una trina forma sia impresso l' universo, e risplenda ovunque luminosamente il carattere di una causa trina e di una trina operazione che lo produsse; tuttavia l' uomo, come dice l' Aquinate, senza la divina rivelazione non avrebbe avuto nelle creature sufficiente argomento da indurne la cognizione del mistero della santissima Trinità. La ragione di ciò si è che ben diverso è il poter inferire dalla trina forma delle cose una causa pure trina e una trina operazione di questa causa (la possibilità di che viene conceduta da S. Agostino e dallo stesso Aquinate); e il poterne dedurre il mistero delle tre divine persone sussistenti in una sola sostanza. Perocchè inducendo dalla trinità dell' effetto la trinità della causa, non si perverrebbe che a imaginare una causa, la quale fosse fornita di quella specie di trinità, di cui fornito si scorge l' effetto, e nulla più. Ora la Trinità divina è cosa interamente diversa da quel trino modo in che sussiste l' essere creato, ossia l' essere senza più. E veramente l' essere reale , l' essere ideale , e l' essere morale non formano già tre persone, nè sono unite in una sola sostanza: che anzi l' essere ideale nelle creature non è mai una persona, ma solo l' oggetto di una persona (soggetto), e quindi medesimo una forma che non sussiste da sè, ma che sussiste come aderente all' essere reale. L' essere morale parimente non è che una forma accidentale dell' essere reale intelligente, e quindi tale che in sè non ha veruna sussistenza propria e personale. Quindi nell' uomo, che è l' unico essere personale, di cui abbiamo esperienza, non vi è che una persona, la quale si regge dalla sostanza, sebbene abbia la sua base e la sua qualità dalla forma intellettuale7morale, di cui è informata quella sostanza (1). All' incontro il mistero della santa Trinità, che propone da credere la cattolica fede, consta di una sostanza, nella quale sono tre personali sussistenze, cioè tre distinte persone. Era dunque impossibile dall' effetto, cioè dall' universo, conoscere il mistero della santissima Trinità di Dio, sua causa. Prevedo ciò che [si] risponderà: - Se dall' effetto, cioè dall' essere creato, come da quello che ha tre modi, si può salire tant' alto fino a indurne la necessità di una causa che abbia pure tre modi, non deve essere impossibile, ragionando, il trovare altresì la Trinità divina. Perocchè venuti a questo punto che la causa prima abbia tre modi, già non è più possibile fermarsi qui col ragionamento, ma qui appuntandosi, si può spingersi più in alto, così argomentando: - La causa prima deve avere tre modi di esistenza. Ma essa non può avere niente di accidentale in sè, ed è assurdo l' ammettere che alcuno di questi tre modi fosse una forma accidentale. Non vi è dunque altro sistema che eviti l' assurdo, non vi è altra supposizione a farsi possibile, la quale nel medesimo tempo sia atta a spiegare l' esistenza dell' universo, se non il mistero della santissima Trinità, quale viene proposto dalla cristiana dottrina la quale insegna i tre modi in Dio essere altrettanti reali sussistenze, essere tre persone in una natura. Benissimo, io dico. Accordo che, ove non si ammetta il mistero della Trinità cristiana, nulla si spiega, e tutto l' universo è un enigma impenetrabile. Che per ciò? Avrebbe per questo la ragione sola trovata la soluzione di questo enimma? No certamente; perchè per ricorrere al mistero della santissima Trinità, se si vuol anco come a una ipotesi per ispiegare sufficientemente l' esistenza del mondo, bisognava poter concepire questo mistero, perchè non si ricorre mai a una ipotesi, se questa ipotesi non si concepisce. Ora la ragione non poteva e non può concepire il mistero della santa Trinità, e la sola fede lo ha proposto a credere. Era dunque impossibile che la ragion naturale ricorresse da sè a questo mistero per ispiegare il mondo, perchè non avrebbe giammai potuto pensare che una sostanza in tre persone fosse possibile. A quello stesso modo come il cieco nato non può pensare la possibilità dei colori, senza che gli vengano in qualche modo notificati da coloro che li vedono: e per ciò da sè solo, se dei colori non avesse giammai udito parlare, non potrebbe mai il cieco nato aver ricorso a colori per ispiegare qualsiasi fatto della natura giunto a sua notizia, sebbene la sola esistenza de' colori fosse la supposizione adatta a rendere di quel fatto ragione e convenevole spiegazione (1). E vedo che qui si può fare un' altra istanza. Le divine Persone hanno la causalità delle cose create secondo il modo del loro procedere (2): sicchè l' atto, onde il Padre ha generato il Verbo, è quello stesso, onde ha create le cose; e medesimamente l' atto, onde il Padre e il Figliuolo hanno spirato lo Spirito, è quello onde hanno amato le cose: sicchè nel Verbo divino il Padre pronunciò anche le creature, e nello Spirito le amò, e pronunciandole e amandole le creò. Posto questo principio, così si può ragionare: - L' atto, onde il Padre generò il Figliuolo, è un atto diverso da quello, onde il Padre e il Figliuolo spirarono lo Spirito Santo. Non è dunque vero il principio che una unica operazione sia quella colla quale Dio opera, creando le cose. Di poi, se l' effetto di queste operazioni interiori sono due persone distinte, cioè il Figliuolo e lo Spirito Santo; perchè parimente nell' effetto esteriore, cioè nel mondo, non si vedranno le traccie delle distinte persone? Per rispondere acconciamente all' istanza che mi si fa, dividerò le questioni: e prima parlerò della pluralità delle operazioni; poi dell' indurre che si fa da queste, doversi avere nell' universo sparse delle traccie adeguate della santissima Trinità. Cominciamo adunque dal chiarire le idee sul modo del divino operare. Primieramente è da osservarsi che gli atti , coi quali procedono le divine persone e che i Teologi chiamano nozionali , non sono già atti che abbiano movimento e progresso, come sono tutte le operazioni e gli atti, dei quali noi abbiamo esperienza nelle cose create. Direi quasi che essi si chiamano atti impropriamente, ove si osservi il valore che noi sogliamo attribuire a questa parola atto , che inchiude l' idea di passaggio da uno stato all' altro, inchiude principio dell' atto, mezzo e fine. Nulla di questo nella santissima Trinità; perocchè essa ab aeterno immutabilmente sussiste, nè si può assegnare in essa un prima e un poi. Quegli adunque che si chiamano atti nozionali nella santissima Trinità, non sono che le nozioni stesse, le stesse relazioni sussistenti, le stesse persone, da noi riguardate e considerate imperfettamente secondo l' imperfetto modo nostro di vedere le cose divine: perocchè, come dice S. Agostino, « tutto ciò che si può dir di Dio, non può mai riguardar altro se non una di queste due cose, la sostanza o la relazione « (1) »: perocchè non v' ha altro in Dio se non queste due cose (2). V' ha dunque in Dio, propriamente parlando, un purissimo atto che forma la sostanza, e quest' atto unico sussiste in tre persone, cioè ha in sè tre relazioni sussistenti, tre termini, ciascuno de' quali s' identifica colla sostanza, cioè è la sostanza medesima: ma in quanto que' termini della sostanza si oppongono e escludono fra sè scambievolmente, intanto distintamente nella sostanza stessa sussistono. [...OMISSIS...] Insomma il Padre è l' essenza sotto questa relazione che genera; il Figliuolo é l' essenza sotto questa relazione che è generata; lo Spirito Santo è l' essenza medesima sotto questa relazione che è spirata. Il considerare poi l' essenza sotto queste tre relazioni non è puramente opera della mente che le concepisce, ma è necessità della cosa, perchè quelle sono relazioni inerenti e intrinseche all' essenza stessa divina e costituenti tre divine persone. L' atto dunque, onde sussiste il Padre, non è diverso dall' atto, onde sussiste l' essenza divina; e così pure l' atto onde sussiste il Figliuolo e lo Spirito Santo. Vi ha dunque un solo atto, ma v' hanno in quest' atto tre relazioni sussistenti, in virtù del medesimo atto: per modo che i Teologi dicono, che la essenza nelle cose divine si piglia per la forma «( quo aliquid est et operatur ) (2) »; e che la divina natura è la potenza generatrice, cioè il principio onde il generante genera; « quo generans generat (3) ». Quinci si vede la differenza che passa fra la processione delle persone, e la creazione delle cose. Le operazioni, onde procedono le persone, non sono già una terza cosa media fra la natura divina e le divine persone: ma o si vogliono considerare anteriormente alla processione delle persone, e, in tal caso, non è che la potenza di produrre le persone, e questa potenza è la stessa natura divina, come è detto (4); ovvero si considerano questi atti nelle persone stesse, e, in tal caso, non differiscono dalle relazioni, cioè a dire dalle persone (5), perchè le persone non sono che relazioni. Gli effetti dunque degli atti nozionali, non diversi dagli atti nozionali stessi, cioè le persone, non escono dalla divina sostanza, ma nella divina sostanza si contengono e in essa sussistono. All' incontro le creature non si identificano già coll' operazione divina che le ha prodotte, nè colla divina sostanza; ma sono qualche cosa di separato e di esteriore alla stessa divina sostanza. La divina sostanza non esiste senza le persone, perchè sussiste nelle persone, come le persone nella sostanza; ma essa si pensa bensì sussistente nelle persone antecedentemente e indipendentemente dalle creature. Le creature adunque presuppongono le divine persone già procedute e sussistenti come loro causa. Quindi nella processione delle persone non viene prodotta nessuna natura nuova, ma non si fa che una comunicazione della natura divina che già è increata. Non essendo dunque una sostanza nuova che si produce, ma una sola relazione che procede, non è necessario che operi la sostanza vestita, per così dire, di tutte le sue relazioni, ma sol di quella relazione che consiste in quel modo di comunicazione di sè, a cui tende. E per ciò se questo modo è quello di generazione, non è necessario e nè pur possibile che operi la sostanza se non vestita di quella relazione che la costituisce generante (della quale relazione vestita è Padre): e se questo modo è quello di spirazione, non è necessario e neppur possibile che operi la sostanza divina se non vestita di quella relazione che la costituisce spirante (della quale vestita è principio dello Spirito, Padre e Figliuolo). Ma dovendo procedere da Dio non una relazione, ma una sostanza, è necessario che operi come sostanza, non in quanto ha una relazione, ma in quanto è sostanza, cioè in quanto le ha tutte in sè le sue relazioni. E quindi nella produzione delle creature non entra una sola persona, ma tutte e tre, sebbene ciascuna di esse in diverso modo, cioè nell' ordine in cui procede: onde avviene che la operazione creante si possa dire, come diceva, una e trina. Questa dottrina è enunciata da S. Tommaso con queste parole: [...OMISSIS...] . Ma soggiunge però dopo di ciò, che le tre persone concorrono a questa unica loro azione del creare in modo diverso , pari al modo del loro procedere; sicchè Iddio Padre operò la creatura pel suo intelletto e pel suo amore, cioè pel suo Verbo e per lo Spirito Santo. La ragione adunque data da S. Tommaso, per la quale la produzione delle cose create esige la cooperazione di tutta la santissima Trinità, è degna di ogni osservazione, ed è, per ripeterlo, perchè in una tale operazione non si tratta di produrre una forma o una perfezione, ma si tratta di cavare dal nulla tutto, la sostanza stessa della cosa, la sua specie, il suo ordine. Quindi si vede manifesto che se l' essere generante o spirante è proprio di singolari persone, il produrre le cose create non è proprio delle singolari persone, ma è comune a tutte tre, in quanto è atto della sostanza divina a tutte tre comune; e quindi non c' è cagione da inferire che nell' effetto, cioè nell' essere creato, le traccie delle divine persone si devano vedere adeguate e realmente distinte. Ciò che si è provato dalla natura della operazione creante, si potrebbe egualmente provare dalla natura dell' essere creato. Perocchè la natura di questo essere è limitata in modo, che per la sua limitazione non può ricevere delle relazioni personali a lei intrinseche e in lei sussistenti; non è atta a comunicarsi in tal forma e a riflettersi sopra sè medesima. Ma mi asterrò dall' aggiungere a questo cenno una dimostrazione che in un ragionamento difficile m' involgerebbe e menerei troppo a lungo il paziente mio leggitore (1). Nome proprio di Dio è quello di vita , la sua essenza è vita. Non è vera vita ove non è sentimento. Il sentimento adunque in Dio è essenza divina. Il Padre è l' essenza divina, un sentimento, un IO che conosce sè stesso. Questa essenza, in quanto è conoscente è sapiente , e perciò la sapienza conviene all' essenza divina, e non alle persone, perchè è comune a tutte e tre. Ma l' essenza, in quanto è cognita, in quanto è affermata, essa è l' oggetto di sè, conoscente sè stessa. Ora questo oggetto che non è la sapienza, ma l' oggetto della sapienza, è in un modo diverso interamente da quello che sono gli oggetti della mente nostra. Gli oggetti della mente nostra sono forme accidentali di essa mente, i quali, come oggetti, a noi non appartengono, fossimo anche noi stessi, perocchè noi come oggetti della nostra mente non abbiamo alcuna sussistenza propria, non alcun sentimento, non alcuna coscienza: noi non esistiamo che come soggetto che ha, ossia che vede degli oggetti. Tutt' altro è in Dio. L' essenza divina, come oggetto di sè, ha un sentimento che la fa sussistere senza cessare di essere oggetto, ella è un IO7OGGETTO. Questa sussistenza, questa essenza nella relazione di oggetto è il VERBO, e in opposizione a questo oggetto, l' essenza, in quanto è conoscente, è il PADRE. Così non è l' essenza sola, che ha generato il Figliolo per modum intellectus , come dicono le Scuole, ma è il Padre che ha generato, cioè l' essenza nella relazione di conoscente un oggetto, non qualunque, ma un oggetto sussistente. Se l' essenza conoscesse sè solamente, non esisterebbe ancora come Padre, perchè non sussisterebbe il Figliuolo: ma conoscendo sè come oggetto sussistente, avente la vita (1), il sentimento come oggetto, il Padre ha generato, e il Figliuolo per questa generazione esiste. L' essenza divina conoscente, sapiente, ama sè stessa, e in questo sta la santità. L' amore adunque e la santità è comune alle tre divine persone, in quanto appartiene all' essenza divina. Ma l' essenza divina generante (conoscente e pronunciante sè stessa come sussistente, come oggetto) è una e la medesima coll' essenza divina generata (oggetto della conoscenza, vitalmente sussistente). Ora questa essenza divina, una, generante e generata, ama sè stessa e, in quanto ama sè stessa, è carità e santità. Ma ella stessa come amabile, come amata, come termine dell' amore, sussiste. Nel che ci ha questa differenza fra l' amore che abbiamo noi di noi stessi, e l' amore che ha di sè il Padre e il Figliuolo. Noi sussistiamo come amanti; ma, come amabili e amati, non siamo più che una forma intellettiva accidentale, non siamo che un termine dell' amore, non esistente in sè stesso, ma solo nell' amore dell' amante. All' opposto in Dio l' essenza divina, come amabile e amata, sussiste (2), ella ha un sentimento, è un IO come amato. Questa essenza intesa e sussistente come amata, è lo SPIRITO SANTO. L' essenza amata è la stessa essenza intesa e pronunciata, come pure è la stessa essenza conoscente. Ma questa unica essenza sussiste come conoscente, conosciuta, e amata. E sussistendo in queste tre relazioni, in questi tre diretti sentimenti, essa acquista le proprietà di generante, generata, e spirante e spirata: essa è Dio insomma, Padre, Figliuolo e Spirito Santo (3). Il Padre adunque non è solamente la Potenza , ma la potenza viva, sussistente, generante, per via d' intelletto, il Figliuolo. Il Figliuolo non è adunque, semplicemente la Sapienza ma è l' oggetto vivo sussistente: il termine della sapienza del Padre (1). Lo Spirito Santo non è semplicemente la Carità , ma bensì il termine, vivo, sussistente della carità del Padre e del Figliuolo. Queste tre relazioni vive, sussistenti, sono tre persone, perchè ciascuna è « una sostanza intelligente IN QUANTO (questa espressione esprime la relazione costituitiva della persona) contiene un principio attivo, indipendente (cioè supremo) e incomunicabile« (2). » Ciascuna è suprema e indipendente, perchè tutte e tre sono perfettamente eguali, perchè sono non una sostanza diversa, ma la sostanza medesima numericamente una, e quindi non v' è maggiore o minore in esse, signore e servo, fine e mezzo; ma ciascuna è egualmente massima, egualmente dominante e operante, egualmente fine unico di tutte le cose. E con ciò si chiarisce la dottrina di quelle qualità che i teologi chiamano appropriate , e non proprie , delle divine persone. Perocchè si attribuisce, in ragion di esempio, al Padre la potenza e tuttavia egli solo non è potenza; si attribuisce al Figliuolo la sapienza , e tuttavia egli solo non è sapienza; s' attribuisce allo Spirito Santo la bontà , e tuttavia egli solo non è bontà: ma tanto il Padre, quanto il Figliuolo, quanto lo Spirito Santo è potenza, è sapienza, è bontà. La ragione dell' appropriarsi alle singole persone ciò che non è proprio, è perchè questi appropriati, sebbene non sieno le persone, ma anzi appartengano all' essenza, tuttavia si concepiscono da noi come fossero la via, per la quale le persone si costituiscono, e, nel nostro modo di veder le cose, troviamo una somiglianza fra la potenza e l' essere il Padre principio fontale della Triade, fra la sapienza e l' essere il Figliuolo una parola interiore del Padre, fra la bontà e l' essere lo Spirito Santo l' amore del Padre e del Figlio: e non ci avviene di riflettere molto che ciò che formano le persone, non sono la potenza, la sapienza, e la bontà, ma le relazioni sussistenti in queste tre cose come nella essenza divina. Di che si può conchiudere che la traccia della Santissima Trinità, che risplende nell' essere creato, non consiste già nel vedere nell' universo cosa appartenente a ciò che è proprio delle singole persone, ma bensì negli appropriati , i quali generi di cose si riducono come in loro fonte nelle proprietà della Trinità augustissima, dopo che la rivelazione ce le ha proposte a credere. Dalla definizione che abbiamo data dell' operazione deiforme apparisce la differenza che passa fra un' operazione semplicemente divina e un' operazione, oltre divina, anche deiforme . Abbiamo detto che operazione divina è ogni operazione, che abbia per principio e causa Dio; ma che un' operazione è deiforme, quando non solo Dio è il principio e la causa di quella operazione, ma è anche il termine, e, per così dire, l' effetto (1). Quindi la creazione è bensì una operazione divina, ma non è punto una operazione deiforme (2): perchè l' effetto, cioè le creature, non sono Dio, nè Dio è formalmente unito alle creature nell' ordine naturale. L' operazione della grazia all' incontro abbiamo detto essere non pur divina, ma ben anche deiforme , perchè con essa Dio si congiunge formalmente all' uomo (3): e quindi l' operazione deiforme appartiene all' ordine soprannaturale. La sostanza divina si unisce formalmente coll' uomo giusto. Ma la sostanza divina sussiste non in altro che in tre persone indivisibili, ciascuna delle quali è la sostanza stessa divina con una relazione, che la costituisce in persona. Dunque anche le tre persone dell' augustissima Trinità si uniscono formalmente all' uomo giusto. Ora se questa operazione della Trinità nell' uomo è tale, che l' uomo ne abbia un trino sentimento deiforme, rispondente alla Trinità delle persone; questa operazione si può acconciamente chiamare triniforme . Dall' essere dunque la santa Trinità termine della operazione della grazia e forma dell' anima santa, ci parve poter acconciamente chiamare questa operazione non solo deiforme, ma anco triniforme. Già ho detto che l' operazione deiforme si conosce essere nell' uomo dal sentimento ineffabile che produce (1), sentimento ove si sente Dio: dottrina questa della tradizione cristiana. I Padri della chiesa, dietro le divine Scritture, ci dicono lo stesso della operazione triniforme. E` una manifestazione interiore, un sentimento della santissima Trinità in noi quella che ci fa sperimentare e percepire appunto, sebbene imperfettamente in questa vita, la Triade augustissima. Mi restringerò al testimonio di S. Agostino, in tanta abbondanza di documenti. Egli parla così: [...OMISSIS...] . Ma perchè si veda meglio, come si conosca che Dio nell' uomo santo esercita una trina7deiforme operazione, conviene por mente alle cose seguenti. Se un divino sentimento, un sentimento onde sentiamo operare in noi qualche cosa d' ineffabile, di supremo, d' infinito, è quello che comincia a farci percepire Iddio; converrà che anche questo sentimento sia uno nella sua essenza, ma trino ne' suoi modi. Tentiamo adunque l' analisi di quel sentimento al tutto ineffabile e che è ignoto all' uomo animale, il quale ci rivela Iddio. Abbiamo detto che la natura, l' essenza di questo sentimento, che sorte da Dio in quanto è oggetto del nostro spirito, è di farci sentire una cotale forza, indistinta però, ma che tutte le forze e che tutte le cose racchiude, a cui non manca niente, che ci riempie perfettamente, ci sazia e perfettamente accontenta, che insomma con esso noi sentiamo e talora siamo consapevoli di percepire non una o altra parte dell' essere o del bene, ma sì TUTTO l' ESSERE, TUTTO IL BENE. Ora questo sentimento del TUTTO ha tre forme o modi. Il primo modo è di sentire una potenza o forza che opera in noi, invisibile, ma irrepugnabile, somma, intima nella nostra personalità; sentesi la presenza in noi di tal cosa che ci invade e domina sostanzialmente; e si sente in questa affezione tanto gran cosa che non è possibile neppure concepire niente che a lei sia opposto, perchè ella è come creatrice, cioè ha un vigore precedente alle altre cose, che di quel precedente vigore solo in qualche modo partecipano. Nella grandezza di questa forza si sente il tutto : e questo modo di sentire è il fonte del timore di Dio. Il secondo modo del sentimento del TUTTO è mediante una notizia di Dio, un' idea, una concezione, sebben negativa, nel che sta la fede. In questa notizia e pensiero di Dio noi veggiamo tanta bellezza, che l' intelletto nostro n' è rapito e vinto: sentiamo che è superiore a tutto quell' idea, che è insieme sostanza, cibo dell' anima che la sazia, la compisce a segno, che non le resta che desiderare se non il più e più profondarsi in quel pensiero, il più e più vagheggiare quella notizia, il venirne pienamente in possesso, alla qual solo l' uomo si chiama trabocchevolmente felice. Il terzo modo del sentimento del TUTTO è quando da quella notizia si diffonde e spande largamente in noi una luce che trae a sè irresistibilmente colla sua bellezza ineffabile la volontà e l' amor nostro, e ci prende allora tale un amore che è qualche cosa di pieno, di sostanziale, una manna che ci pasce, un vino che ci letifica: nutrimento e delizia incomparabile dell' anima ebbra e affogata come in pelago di amore, ove siffattamente riposa e quieta ogni suo desiderio, che sente non restargli altro a bramar e tutto possedere nel solo amore. Sentimento adunque di una forza e di una forza onnipossente che opera in noi: sentimento di una verità , ma di una verità sussistente che brilla vivamente nel nostro intendimento: sentimento finalmente di un amore che si diffonde e cattiva colla dolcezza di un gaudio ineffabile la nostra volontà: queste sono le tre forme o modi, in cui si appalesa in noi il sentimento soprannaturale e deifico, di cui parliamo. E si osservi bene la natura di questo triplice sentimento. Non vi è, si può dire, sentimento umano (1) che non sia trino , perciocchè in ogni umano sentimento si può distinguer sempre e la forza che l' uomo sperimenta ricevendo la notizia dell' oggetto del sentimento, e la notizia stessa, e l' affetto che esce da questa notizia. Ma questa trinità di ogni sentimento non è nulla più che quel carattere di trina forma, di cui abbiamo già detto essere suggellato e stampato l' universo e ogni cosa in esso; il qual carattere non è punto un vestigio adeguato della divina Trinità, ma solo un cotale adombramento e sparuta traccia di lei. Perocchè la percezione o idea dell' oggetto di questi sentimenti umani è finalmente la sola cosa che realmente tocchi l' anima, e l' amore, che ne proviene non è che una conseguenza di quell' oggetto e non ha nulla di sè, e se voi rimovete un solo di questi tre elementi, il sentimento stesso svanisce. All' incontro nel sentimento soprannaturale l' anima percepisce tre volte la stessa cosa, cioè tanto nel sentimento della forza, come nel sentimento della notizia, come nel sentimento dell' amore, acquista sempre una cotale persuasione che in ciò che percepisce ci abbia il TUTTO, e che ivi nulla manchi dove ha il suo sentimento: perocchè non le è possibile immaginare nè cosa maggiore, nè cosa che non sia nulla verso a ciò cui ella sperimenta. Indi avviene che tanto le divine Scritture, come i Santi uomini che hanno descritti questi fatti soprannaturali, di cui fu consapevole il loro spirito, parlando separatamente ora di uno e ora di un altro di questi tre modi del sentimento, usassero di ciascuno le stesse espressioni, dicessero di tutto possedere e tutto comprendersi in quel sentimento e nulla mancarci. E pure interamente diverso sembra il sentimento di una potenza e quello di una verità, e [quello] di un amore: ma quando queste cose vanno all' infinito, si compenetrano, per così dire, fra loro e in ciascuna di esse è ogni cosa. In ragione d' esempio, quando toglie la divina Scrittura a far l' elogio della sapienza , tutto dà a lei, nè rifinisce di enumerare i beni che in sè contiene, perchè tutti li contiene; ed è detta ella sola atta a far l' uomo beato: [...OMISSIS...] . Medesimamente nel nuovo Testamento Gesù Cristo nella cognizione pose la vita eterna, il che è dire ogni bene: tanto è il prezzo dato alla cognizione da Cristo! Egli disse: [...OMISSIS...] . Dunque le Scritture, quando parlano di sapienza , di cognizione di Dio , mettono in quest' unica cosa tutti i beni; nè sembra che sia punto nè poco necessario altro all' uomo. Ma quale maraviglia di ciò, se è detto altresì nelle Scritture che Dio è VERITA`; se ha detto lo stesso Verbo divino: [...OMISSIS...] . La sapienza e la cognizione appartengono all' intendimento: l' amore appartiene al cuore dell' uomo: sono certamente cose differenti, per quanto l' una possa nascere dall' altra. E pure le divine Scritture parlano in certi luoghi dell' amore, dell' unico amor di Dio, ed è in questo che affermano contenersi tutte le cose, avere un prezzo infinito, e in questo solo l' uomo bearsi, nè di altro avere uopo. Si legge che se l' uomo dovesse dare tutta la sostanza di casa sua per l' amore, dispregerebbe quella sostanza per l' amore: [...OMISSIS...] . Ed è a considerarsi che si parla dell' amore, senza aggiungervi nulla di più, perchè l' anima posseduta dall' amore ed ebbra in lui già perde quasi fino la specie dell' oggetto amato, o non l' avverte più, ma nuota in una affezione amorosa, semplicissima, e non sente altra cosa ormai che amore: l' intelletto le è come per niente, e l' amore le è tutto, perchè tutto le si trasforma in amore, quasi in una sostanza nuova che è amore; di che il chiamare che fa il Diletto non più con altro titolo che con quello di amor suo , mentre non ama oggimai più altra cosa, ma l' amore stesso. Ma questo amore essenziale, questa trasformazione in amore dell' oggetto amato, si può anche mentire: e indi fu l' idolatria dell' amore, indi le personificazioni dell' amore ne' poeti e negli amanti terreni; personificazioni che hanno l' esagerazione solita che fa sempre l' uomo degli affetti suoi, ma che addita un principio profondo rivelato dalla coscienza, un principio che ha una verità in Dio, nell' amore divino. Parlando adunque del solo amor divino, dove solo veramente avviene il fatto che accenno, di sentire tutto [unificato], per così dire, tutto sussistente nel solo amore, non è maraviglia se alcuni rispettabili autori, come Giovanni Gersone, giungessero fino a dire che si dava amore senza cognizione (1): al che nondimeno il più de' Teologi si opposero, come contrario all' amore razionale e umano. Ma si può fare una conciliazione di queste opinioni, acconciamente spiegate che sieno. Perocchè è da considerarsi che, rimanendo il solo amore nell' anima e smarrendosi la notizia precedente di Dio (il quale smarrimento non è altro che un non rifletterci più, un non porvi più attenzione), non è per questo che l' uomo ami senza cognizione, perchè l' amore stesso gli è cognizione, anzi cognizione vivissima e sperimentale (2); perchè in quell' amore è tutto, e quindi anche luce, fulgentissima luce, perchè è, a dirlo nuovamente, la percezione stessa di Dio, fatta sotto la forma di amore (3). E qual meraviglia di ciò, se la Scrittura dice espressamente che Dio è CARITA`? [...OMISSIS...] Non è tutto in questa carità senza bisogno di altro? Indi è che nelle Scritture si parla talora dell' amore, senza aggiungere alcuna determinazione di oggetto, quasi l' essenza stessa dell' amore a tutto sopperisse. Cristo disse della Maddalena « Le si rimettono molti peccati, perchè ha amato molto« (5) »: non disse perchè ha amato molto Iddio, o me, ma semplicemente, perchè ha amato giacchè vi ha un amore che è essenzialmente amore di Dio, nel quale amore si avverano appunto quelle parole di S. Fulgenzio: « Che si ama Iddio con Dio, perchè coll' amore si ama l' amore, che è Dio« (6) ». E in questo senso è vero che un tale amore basta a sè stesso, senza bisogno della precedente notizia dell' oggetto amato, che viene da lui come abbandonata per ritirarsi in sè solo; giacchè trova una nuova notizia e migliore in sè stesso, dove niente hassi a desiderare e tutto è luce. A ciò forse si riferiscono quelle parole di Cristo: « Lo Spirito spira ove vuole: e tu odi la sua voce, e non sai onde venga o dove vada« (1) »: il che parmi esprimere appunto quel non attendersi più quella notizia che prima cagionò l' amore, e il tutto concentrarsi e saziarsi di sè medesimo. Or, se talora nella cognizione dell' intelletto si sente il tutto, e lo si sente pure nell' affezione della volontà; gli è evidente che si sente la stessa cosa in due modi, in due forme; vi si sente lo stesso Dio, ma per guisa che il primo affacciarsi di questo sentimento è cosa interamente diversa, ma l' interiore di lui è il medesimo, perchè è il ricettacolo di ogni bene. Nè può mancare la sussistenza , ove il tutto si sente. Il perchè è a dirsi che, in que' due modi sentendosi Iddio, sentesi veramente nell' un modo la persona del Verbo, e nell' altro quella dello Spirito Santo. Quindi Gesù Cristo disse così di sè e del Padre: [...OMISSIS...] . Dello Spirito Santo parimente dice nello stesso capo di S. Giovanni: [...OMISSIS...] . Egli è anzi osservazione costante che nelle divine Scritture le Persone divine attribuiscono a sè stesse l' inabitare nella mente dell' uomo, e che non è accomunata questa prerogativa mai a nessun altro essere: di che è venuto l' adagio teologico che « sola Trinitas menti illabitur ». Dello stesso sentimento è tutta la cristiana tradizione. Recherò solo uno o l' altro passo de' Padri per non esser infinito, dove parlano della inabitazione delle tre divine persone nell' uomo. S. Cirillo d' Alessandria dice così: [...OMISSIS...] . S. Ambrogio pure dice: [...OMISSIS...] . S. Anastasio: [...OMISSIS...] . Finalmente S. Basilio dice delle divine persone l' una tirar seco l' altra, [...OMISSIS...] . Iddio può essere partecipato dall' uomo in diversi gradi, non mai pienamente, perchè egli è incomprensibile. Neppure i Santi che più prendono della divina sostanza, giungono a tutta in sè riceverla e concepirla, travalicando essa la capacità di ogni creatura. Sebbene l' uomo in cielo per la gloria e in terra per la grazia si faccia partecipe della divina sostanza in diversi gradi, tuttavia non è per questo Iddio divisibile: tutta la diversità della misura, in che l' uomo prende di Dio e ne fruisce, ha origine dalla parte dell' uomo, dall' essere questo più o meno capace di partecipare della divinità. Nondimeno l' uomo che partecipa di Dio deve partecipare di tutto Iddio, perchè altrimenti non si potrebbe dire che fosse Dio quello di che partecipa; ma di tutto Dio può partecipare in un modo più e men pieno. Non è mio intendimento di stendermi qui a dichiarare questa verità, già insegnata comunemente dai teologi. Tuttavia ne dirò una parola, perchè non sembri una cotale contraddizione questa di percepire tutto Dio, ma non percepirlo in modo pieno. Non è difficile intendere che nulla contraddizione v' ha in ciò, allorchè si consideri semplicemente che Iddio non è che l' essere, l' essere necessario, tutto l' essere. Ora è facile di vedere che il concetto del TUTTO può essere concepito superficialmente, o anche più o meno intensamente nella nostra mente. Il concetto del tutto è semplicissimo e ognuno lo intende a prima giunta. A malgrado però che s' intenda questo concetto con tanta facilità, io posso mettere più attenzione in questo concetto e colla mia forza pensante posso meglio internarmi in esso e attingere una vista più chiara di lui. E nondimeno è sempre il tutto che io ho contemplato, tanto contemplandolo io superficialmente, come contemplandolo intensamente. Ciò che ho detto dei gradi della mia cognizione e della mia forza pensante, dicasi di quella potenza onde l' uomo percepisce Iddio: e si vedrà che secondo la virtù di questa potenza, o secondo che Iddio farà di essere da questa potenza più o men penetrato, l' uomo ne parteciperà altresì più o meno. Di qui è manifesto che: 1 Iddio non si può dire parteciparsi dall' uomo, se l' uomo non sente tutto l' essere sussistente (1); 2 che questa partecipazione del tutto può aver diversi gradi. Nessuna maraviglia adunque che la natura divina si percepisca dall' uomo, ma non così intensamente, che si distinguano in essa le tre divine persone. A poter percepire le tre divine persone si richiede di percepire la divina natura in un certo grado eccellente e più intenso. Mi spiego tosto. Quando è che noi possiamo dire di percepire Iddio? di sofferire quella operazione deiforme di cui parliamo? Allora quando noi sentiamo in noi un sentimento tutto di suo genere, diverso da ogni sentimento che venir possa in noi eccitato dalle nature finite, un cotal sentimento sublime, infinito, ove sentiamo tal cosa che il tutto essenzialmente comprende: il sentimento, come dicevo, del TUTTO. Quando all' incontro è che noi possiamo dire di percepire le persone divine? Di sofferire quella operazione che chiamiamo triniforme ? Allora quando questo sentimento del tutto si fa triplice in noi: allora quando in noi sentiamo tre cose, tre sussistenze, e in ciascuna sentiamo egualmente che c' è il tutto. Ora che cosa vi ha di ripugnante nel concepire che noi abbiamo bensì il sentimento di una tal cosa, dove essere il tutto indubitatamente sentiamo, e tuttavia non abbiamo questo sentimento medesimo in tre modi o forme diverse? Nulla vi ha in ciò di ripugnante; e non osta il sapere che Dio ha tre sussistenze, perchè coll' averne un sentimento solo, la limitazione della partecipazione divina è tutta da parte nostra, ella si fa in noi e non in Dio: cioè è una limitazione nostra il non partecipare della distinzione delle persone e solo avere di tutte un sentimento confuso della divina sostanza. La possibilità, la nessuna assurdità che in questa supposizione si trova, si farà più manifesta allorquando si considererà che, sebbene in sè stesse le persone non sono realmente distinte dalla divina sostanza, tuttavia noi colla nostra mente, pel limitato nostro modo di concepire, possiamo pensare la natura di Dio, e non le persone. Di che possiamo prendere facile esperimento in noi stessi: e prova convincentissima son tutti quelli che ammettono il monoteismo , e tuttavia rifiutano la Trinità , come i Maomettani e gli Ebrei. E perchè ciò? Non per altro se non per una troppo limitata e tenue cognizione che abbiamo della divina natura: perciocchè se noi perfettamente conoscessimo questa natura, non potrebbe stare che non conoscessimo parimente le tre persone in che essa natura sussiste. Ed ora, che ripugnanza può averci mai che questa divisione delle persone dalla natura, che avviene nella nostra mente per la sua limitazione e perchè imperfettamente conosce quella natura, avvenga altresì nel sentimento nostro appunto per la ragione stessa della limitazione del nostro sentimento, pel modo incompleto e non abbastanza pieno, pel quale noi sentiamo la natura divina comunicarsi a noi nell' ordine della grazia? E anzi nè pur si può dire che l' operazione sia triniforme per sentirsi in essa non pure la natura divina, ma quegli attributi di lei che alle singole persone si sogliono appropriare. E veramente una cotale trinità ha essenzialmente ogni puro sentimento intellettivo: perchè in ogni sentimento intellettivo e sentesi una forza che ci fa passivi, ed una specie ed una bellezza ed amabilità che nella specie rifulge. Il che tutto si avvera in ogni sentimento soprannaturale dell' essere assoluto . Noi siamo consci in esso di essere passivi d' una potenza infinita, di godere di una sapienza che è degna di ogni amore . Ma il sentir questo non è ancora il sentire le persone divine in noi: perchè la potenza, la sapienza, e l' amore sono attributi comuni a tutte e tre egualmente le persone, e non si appropriano alle singole persone che per una cotale somiglianza che hanno col modo del loro procedere, siccome detto è innanzi, e non sono quelle loro proprietà, dalle quali vengono costituite. Conviene adunque perchè sentiamo in noi una operazione soprannaturale che dir veramente si possa triniforme , che percepiamo le proprietà delle persone, che percepiamo un essere infinito agente in noi con una forza infinita e sussistente, una specie prima o conoscibilità sussistente, e un amore o amabilità di quella specie prima pure sussistente: nel qual caso solo percepiremo tre sussistenze e in ciascuna il medesimo tutto, il tutto in tre modi, quasi per tre vie, ci inabisseremo nel medesimo infinito e assoluto essere. La dispensazione della divina provvidenza nell' opera dell' innalzare l' uomo di grado in grado alla sua perfezione e congiungerlo con Dio, tiene un modo tutto acconcio all' indole dell' umana natura. E però come la natura umana è composta di corpo e di spirito, e lo spirito riceve la materia delle sue cognizioni e l' occasione delle sue operazioni dai sensi; così anche nell' ordine sopra natura la divina Sapienza ha così provveduto, e di mano in mano che gli uomini riceverono l' esterna rivelazione, ebbero anche nell' interiore anima un lume corrispondente di grazia, mediante il quale percepirono spiritualmente quelle invisibili cose che loro venivano dalla rivelazione narrate. Questo si accorda e torna a un medesimo con quello che abbiamo per innanzi dimostrato, cioè che la fede è il fondamento del lume interiore (1), e la fede si appoggia e insiste su quelle idee negative della divinità, che la divina rivelazione ci somministra: il che è ciò che insegnava l' Apostolo, dicendo, che la fede viene dall' udito, cioè dalla esterna rivelazione che per l' udito si riceve (2). Ora la rivelazione delle divine verità fu data agli uomini per una serie successiva di secoli: non tutta svolta nelle sue parti a principio, ma a principio solo quasi ravviluppata come germe, e di mano in mano disviluppata. E` così che ci descrive l' Apostolo la mirabile dispensazione delle divine verità comunicate agli uomini, non tutte in un tratto, ma di tempo in tempo, secondo il bisogno e la capacità del genere umano a riceverle; fino che venne la pienezza de' tempi, la comparsa del Messia, di quell' Unigenito di Dio Padre che doveva rivelare ogni verità, completare ogni rivelazione, e con essa insieme rendere pieno e perfetto altresì quel lume interiore dell' anima, col quale solo la divina sostanza si attinge e percepisce. Ecco com' egli descrive a' suoi nazionali quest' ordine della divina sapienza: [...OMISSIS...] . Dalle quali parole si vede che tutte le antiche profezie e rivelazioni non erano che preparazioni alla venuta del Figliuolo, pel quale i secoli furono fatti e al suo servizio adattati (aptavit); e quindi quelle antiche rivelazioni, date pel ministerio degli Angeli, non erano che un crepuscolo del sole di giustizia che doveva apparire. E veramente la comunicazione della luce spirituale che a Dio piacque di fare all' umanità di mano in mano, nelle divine Scritture è rassomigliata al nascere e crescere di un giorno, che prima è l' alba, e poi s' arrosa e indora il cielo, e per gradi tutto si illumina fino che il sole stesso sorge e giunge rapidamente al meriggio: similitudine acconcissima a rappresentare non meno l' incremento successivo delle verità esteriormente rivelate, che quel della luce corrispondente, colla quale le anime partecipano delle cose divine (2). Osservando i gradi che distinguer si possono nella cognizione di Dio, si vede che essa comincia colla unità di Dio e cogli attributi che appartengono alla divina natura; e che fino che la cognizione della divinità è imperfetta, non eccede questi confini, nè si estende oltre al conoscere un Dio uno. Ma perfezionandosi la cognizione della divinità, è necessario che entri in essa altresì la cognizione delle persone, che diviene il compimento di quella cognizione; giacchè quella natura altissima non sussiste, se non appunto in tre distinte persone. Questo progresso della cognizione intorno a Dio viene eccellentemente descritto da S. Ilario, nel suo primo libro della Trinità, raccontando per quali passi egli pervenne alla fede cattolica. Dagli errori de' filosofi e del volgo pagano, col lume della ragione, passò all' unità di Dio: indi s' imbattè nei libri di Mosè, e da quelli attinse la cognizione dell' essenza divina consistente nell' essere, della sua eternità, infinità, incomprensibilità e inenarrabil bellezza: conosciuti i quali attributi, gli nacque in cuore un vivo desiderio di conoscere più innanzi Iddio, e una speranza della immortalità, e di poter godere per sempre della contemplazione di un tanto Essere: e allora fu che la divina Provvidenza gli mise fra le mani il Vangelo di S. Giovanni, dove lesse la generazione del Verbo, e per questa tutto il misterio della Santa Trinità gli fu disvelato. [...OMISSIS...] Quindi essendo il cristianesimo il compimento e perfezionamento della divina rivelazione, fu dato in esso tutto quel più che si può conoscere di Dio, cioè il mistero della Trinità delle Persone: dottrina propria e fondamentale dell' Evangelio. [...OMISSIS...] Perciò i Cristiani sono battezzati nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Tanto alto non ascese la dottrina mosaica, la quale non dava di Dio una cognizione ancora così compiuta, come l' Evangelio. Il mondo tutto cadeva nella idolatria. Iddio scelse il popolo ebraico, acciocchè si conservasse sulla terra la cognizione dell' unico vero Dio. Quindi l' intendimento della legge mosaica è primieramente quello di conservare intatto il popolo ebreo dalle idolatriche abbominazioni e di mantenere una sana dottrina intorno alla divinità (2). La base adunque del Giudaismo è propriamente l' unità di Dio, la dottrina della sua natura e de' suoi attributi (3). Nè per questo egli è men vero che in tutto l' antico Testamento vi abbiano delle traccie manifestissime della Trinità delle divine persone. Ma del più di queste traccie si può dire quello che detto abbiamo di quei vestigi della Trinità che si ravvisano sparsi nell' universo: i quali vestigi, sebbene sieno per sè manifesti a chi conosce già l' alto mistero, sono chiusi a chi nol conosce, poichè non insegnano il mistero direttamente, ma solo lo suppongono come una spiegazione di fatti che, senza lui, rimarrebbero inesplicabili. Così, a ragione di esempio, esaminando l' essere , si trova, che egli non puossi concepire se non trino, cioè fornito di tre modi, il reale , l' ideale , e il morale . Or questa è tal notizia dell' essere, che chi avesse una forza bastevole di ragionare, facilmente vedrebbe que' tre modi potersi ridurre se non in tre principii originari sussistenti in una sola sostanza divina. Ma chi ha tanta forza di mente che basti a fare questo ragionamento? Nessun uomo, il quale non sappia prima per fede il mistero della Trinità, come viene proposto dal cattolico insegnamento. Medesimamente quando Mosè, narrando la creazione, si esprime così: « Disse Iddio: sia fatta la luce, e la luce fu fatta« »; egli viene con ciò a dire che Iddio fece la luce e le cose tutte colla sua parola : ma chi può salire tant' alto fino a pensare che questa parola sia una persona divina? (2) Solo colui che ha ricevuto già la rivelazione e la fede, che la parola di Dio sussiste, che essa è una persona. Nè per questo è men vero, che non vi è altra via da intendere in un modo ragionevole quelle parole di Mosè, dove comparisce una parola di Dio creante, fuor di quello di supporre che questa parola sia una cosa, una sussistenza . Ma qual degli uomini non si sarebbe piuttosto appagato di dichiararsi inetto a spiegare la verità letterale della mosaica narrazione, ovvero non avrebbe tentato di dare a Mosè una spiegazione qualunque, deviando dalla forza della parola, anzichè poter giungere a immaginare la possibilità di una parola sussistente, di cui non ha mai avuto esempio alcuno sott' occhio nè trovasi un sì singolar fatto nell' universo? Nei libri mosaici adunque, e negli altri dell' antico Testamento, la Trinità vi è supposta per tutto (3), ad essa continuamente si allude, si menzionano gli appropriati delle persone; ma in nessun luogo si dànno chiaramente le proprietà personali, in nessun luogo vi è direttamente insegnata e [posta] come in base di tutto quel sistema religioso che all' Ebraico popolo fu assegnato. Il perchè giudiziosamente Dionigio Petavio, dopo aver recati tutti i migliori argomenti che dall' antico Patto si possono trarre in prova della Trinità, conchiude che quei passi hanno più forza di persuadere la Trinità ai Cristiani, che di convincerne gli Ebrei; perocchè i primi hanno il lume della fede che li scorge a intendere la forza di quei luoghi, il qual lume manca a questi secondi (1). Essendo adunque il fondamento dell' ebraica rivelazione l' unità della natura divina, e il fondamento della rivelazione evangelica la Trinità delle divine persone, nella quale la cognizione che Dio diede agli uomini fu completa e procedendo in bell' accordo l' interna operazione della grazia coll' esterna rivelazione ne' suoi progressi, essendo questa che opera e si avviva nell' uomo per quella; apparisce manifesto che la grazia, la quale santificò gli uomini avanti Cristo, si può acconciamente chiamare deiforme , e riserbare alla grazia del Redentore il titolo di una grazia deitriniforme . In quell' antico tempo, per quella grazia sua propria, si manifestava nell' uomo una potenza divina che rendeva superiore alle cose tutte la legge di Dio nel suo cuore e un sentimento di aspettazione, una speranza che prometteva il possesso del TUTTO, e ne dava qualche caparra. Conciossiachè non tutti gli Ebrei servirono per un basso timore; ma ebbe luogo in alcuni anche un timore ragionevole e un amore, i quali furono resi liberi per la grazia, come dice S. Agostino (2): grazia che ottennero per aver bene usato del primo aiuto dato loro insieme colla legge, umiliandosi, confessandosi incapaci di adempirla e dimandando a Dio ciò che essi non potevano. E che questa grazia dovesse esser deiforme, cioè dovesse dare all' animo di que' santi un sentimento di Dio, da questi due capi si può rilevare, che quei santi operavano tutto in virtù della fede, come mostra S. Paolo (3), la quale è pure un sentimento di Dio; e che questo sentimento dava loro una fortezza superiore a tutte le cose della natura e a quello stesso della vita, e pienamente li soddisfaceva. Il quale effetto non può prodursi che mediante un cotal saggio che l' uomo piglia di quell' ESSERE che avendo tutto in sè è a tutto superiore, e non v' ha cosa che messa al suo confronto non invilisca. Or chi non dirà che un sentimento superiore a tutte le cose e veramente divino non movesse Abramo che sacrifica il proprio figliuolo, e non parlasse in cuore a Giobbe, allorchè egli diceva di Dio: «Anche se mi ucciderà, io spererò in lui? (1) ». Tuttavia questa fortezza degli antichi giusti che mostra in essi un elemento soprannaturale e infinito, non è tal cosa che esiga una comunicazione delle divine persone; ma, per quanto a me pare, un' operazione che lascia bensì nell' uomo un effetto che sentesi manifestamente non poter essere prodotto da nessuna cosa creata, ma che sorte solo dalla fede di Dio, non dalla fede delle tre distinte persone sussistenti nella divinità. La fede all' incontro delle tre persone è il foco onde raggia, per così dire, la grazia del nuovo Testamento, la quale porta quel triplice effetto e si manifesta in quel triplice modo che più sopra ho descritto (2). Quando il Verbo si manifestò agli uomini fatto carne e costituito dal suo eterno Padre Capo e Redentore dell' uman genere, egli dapprima mostrò sè medesimo; di poi fece conoscere il Padre; e lo Spirito fu, per così dire, l' ultimo a essere chiaramente, distintamente e universalmente conosciuto per Dio dagli uomini (3). Gesù Cristo attribuisce a sè l' aver manifestato il nome del Padre suo agli uomini: « Ho manifestato, dice egli, il nome tuo agli uomini che hai dato a me dal mondo« (1) ». E questa era la missione che aveva ricevuto Cristo d' istruire e salvare gli uomini: la quale missione egli prosegue a descriver così, seguitando a parlare coll' eterno Genitore: [...OMISSIS...] Cristo adunque era mandato dal Padre per istruire gli uomini e rivelare loro la dottrina della salute, e senza lui « quanti vennero, dice egli stesso, furono rubatori e ladroni, e le pecore non li hanno uditi« (3) ». Quindi partendo da Cristo la cognizione della salute, egli è come la luce, la quale mostra le altre cose, ma ella si presenta da sè, è visibile per sè stessa: [...OMISSIS...] . Finalmente egli si annunzia come il principio della divina rivelazione, chiamando sè stesso appunto: il principio parlante ; quasi direbbesi il principio della parola: « Principium, qui et loquor vobis (io. VIII) ». Essendo Cristo chiamato l' Angelo del gran consiglio, cioè il ministro, o il mezzo onde gli uomini sono illuminati e salvati; i Padri della Chiesa insegnano che era il Verbo quello, che, anche nell' antico Testamento, comunicava all' uomo le verità sante, la legge, le profezie (6). Ma il Verbo non faceva questo immediatamente da sè, si bene pel mezzo degli Angeli suoi: dal che S. Paolo, nella Lettera agli Ebrei, trae buon argomento di mostrare l' eccellenza della nuova legge sopra l' antica, vantaggiandosi quella da questa di tanto, di quanto Gesù Cristo è maggiore degli Angeli (1). Le figure poi e imagini, che gli Angeli componevano, e nelle quali rappresentavano sè stessi o il Verbo, non erano punto la sostanza divina, come dice S. Agostino, e ben lungi dal poterne dare una positiva idea (2). Nulladimeno assai acconciamente si attribuisce al Verbo ogni rivelazione, ed anche l' antica, e ciò per quella appropriazione che abbiamo spiegata più sopra (3), cioè perchè essendo egli la parola del Padre, il modo del suo procedere per via di parola intellettiva ha similitudine col rivelare , che è appunto un parlare di Dio agli uomini. E d' altro lato questo parlare di Dio agli uomini è una cotal traccia del Verbo che riesce inesplicabile fino che non si ha la cognizione del Verbo divino sussistente; a quel modo come inesplicabile rimane il lume della nostra ragione, e quel dire di Dio, col quale Mosè afferma essersi create le cose. Il perchè sebbene prima di aver ricevuta la cognizione della seconda persona della santissima Trinità, questa persona in quegli antichi modi di rivelazione non poteva pienamente conoscersi; tuttavia nel tempo dell' Evangelio, in cui abbiamo quella notizia e quella fede, noi conosciamo manifestamente, essere stato il Verbo quel principio che in ogni tempo, quasi però occultato dietro una parete, fece sentire agli uomini la sua voce e comunicò loro le verità della salute. Ciò che dico del principio della rivelazione antica, può dirsi anche delle cose stesse rivelate. Certo in questa rivelazione si conteneva tutto ciò che spettava al Messia e fino la sua divinità era patentemente stata indicata (4). Tuttavia questa era cosa così grande, così incredibile, era tanto fuori del pensare umano, che vi avesse in Dio una seconda persona e che questa s' incarnasse, che egli è da credere, il comune degli Ebrei avere avuta la fede della divinità del Messia e dell' esser egli la seconda persona della santissima Trinità, piuttosto implicitamente che esplicitamente. Essi credevano cioè implicitamente che il Cristo sarebbe stato Dio e il Verbo di Dio, in quanto che credevano che egli sarebbe stato il Redentore del mondo, che sarebbe stato tutto ciò che era necessario perchè fosse tale, tutto ciò che avrebbe voluto Dio che fosse: sebbene poteva voler Dio che fosse ciò che essi non potevano giungere da sè stessi a pensare, molto meno ad imaginare, come fu veramente, avendo così ordinato che il figliuolo di Abramo e di Davidde fosse ad un tempo il Figliuolo di Dio e Dio come Dio Padre. In tal modo erano salvati, come dice S. Agostino, anche gli antichi per la fede in Gesù Cristo (1), ma per una fede implicita, per la fede nel Verbo incarnato, non ancora manifesto, ma occulto: di che avveniva che il Verbo occulto si può dire fosse nell' antico tempo il principio della rivelazione, non meno che della salute degli uomini. In tal modo ancora ricevono un senso chiaro non pochi passi de' Padri che affermano, la cognizione del Verbo appartenere solo al tempo del Vangelo. In ragione d' esempio S. Cirillo Alessandrino dice così: [...OMISSIS...] . E in questo passo vedesi ad un tempo come la cognizione di Dio trino appartiene al Vangelo, e come di questa cognizione il principio è la cognizione del Verbo (4). Conosciuta la diversità della rivelazione antica e della rivelazione evangelica, si può anche conoscere la differenza fra la grazia evangelica e la grazia dell' antico tempo. Giacchè abbiamo stabilito che la grazia non è che una cotale energia che si aggiunge alle verità divine da noi credute: le quali verità in noi dall' essere solo speculative si fanno pratiche e ingenerano nell' uomo un sentimento potente, il quale è di natura deiforme, cioè fa sentire Iddio. Or abbiamo già veduto che la fede, primo atto della grazia, nell' antico Testamento era radicata nell' Unità di Dio, nel nuovo nella Trinità; e che quindi se in quel tempo l' operazione della grazia era un sentimento di Dio uno (deiforme), in questo è un sentimento di Dio uno e trino (deitriniforme). Ora la fede nella Trinità, base dell' Evangelio, comincia dalla cognizione e fede del Verbo divino; il perchè l' operazione della grazia nel nuovo Testamento consiste, in primo luogo, nella comunicazione del Verbo. Nelle divine Scritture ci è descritta questa comunicazione del Verbo colle anime, come una vera inabitazione della seconda divina Persona in noi (2). S. Paolo dice appunto, che Cristo abita per la fede in noi (3). E qual maggiore e più intima comunicazione di Cristo con noi di quella che descrive Cristo stesso, quando prima della sua passione pregò pe' suoi Apostoli e per quelli che avrebbero ricevuta la fede del Redentore mediante la parola di quelli? Egli disse così: [...OMISSIS...] . Non vi possono esser parole che più di queste valgano ad esprimere la comunicazione intima di Cristo co' suoi eletti, e quanto sia stretta, quanto immediata e veracemente formale. Paragona in queste parole Cristo, l' inabitazione sua negli eletti all' inabitazione sua nel celeste suo Padre: del che non si può dar maniera più efficace a esprimere l' unione massima delle possibili, giacchè Cristo come Dio è una cosa sostanzialmente col Padre, e come uomo è unito personalmente col Verbo che è una sostanza stessa col Padre, di cui ha perciò la visione beatifica, cioè la massima intuizione comprensiva del Padre. Egli da questa stessa unione di lui col Padre toglie il tipo, al quale debbono conformarsi gli eletti, nell' unione fra loro, unione che nel Verbo viene a compirsi sicchè sieno consumati nella unità più perfetta: vuole che dove è egli, sieno essi pure, nè solo ama esser egli in essi, ma essi altresì in lui, l' uno e gli altri internatisi scambievolmente: e vuol dare loro quella chiarezza che il Padre ha dato a lui avanti della costituzione del mondo, la qual non è diversa dalla stessa divina sostanza che è pur la sola cosa, che ha ricevuto dal Padre, e nella quale ogni cosa è racchiusa. Ora chi può intendere, senza sforzo e violenza fatta alle parole, quelle ineffabili parole di Cristo, e non riconoscere, che egli abita formalmente nelle anime de' suoi Santi, i quali perciò appunto sono chiamati altrettanti Cristi nelle Scritture? Io sarei infinito se volessi riferire i luoghi innumerevoli del Vangelo e le similitudini acconcissime della veste e delle membra, del capo e del corpo, e altre tali che si usano per esprimere quella ineffabile unione che fa Cristo co' giusti suoi, massime ove si parla del quasi mescolamento dei discepoli col Maestro che si fa nel pane eucaristico e nel vino, e misterioso e pur verissimo contemperamento. Ma non lascierò di rammentare quella del tralcio e della vite; e mi si dica se può trovarsi modo di esprimere con più efficacia l' unione al tutto sostanziale e formale di Cristo co' seguitatori suoi: [...OMISSIS...] . Qui si parla di un' unione di sostanza, per la quale due parti formano un tutto solo. Tale è il congiungimento della persona del Verbo incarnato cogli uomini eletti che il seguono: il compimento di quella grazia, di cui scrisse S. Giovanni, « che la legge è stata data per Mosè, e che la grazia e la verità è stata fatta per Gesù Cristo« (1). » E veramente anche nell' antico Testamento i Santi che ci vissero, parteciparono della grazia del Redentore, nel quale avevano la fede. Ma la loro grazia non conteneva la comunicazione in essi della persona stessa divina del Verbo, ma solo dei doni spirituali che venivano loro compartiti. Questo conseguita da ciò che abbiamo detto, che la loro fede nell' uomo Dio venturo era implicita, e perciò non avevano nel loro spirito quella cognizione del Verbo, nella quale nasce la comunicazione appunto del Verbo stesso agli uomini. Non vedevano il sole di giustizia, perchè non era ancor nato sull' orizzonte, ma ne vedevano i raggi che facevano il cielo albeggiante e lucente, più o meno, secondo i vari tempi, ne' quali vivevano. Non poteva quindi comunicarsi ad essi la stessa divina persona, perchè non nota, non manifesta; ma bensì far loro sentire la sua possente e salutifera operazione in essi. Cristo creava in essi un sentimento che era deiforme, perchè niente era a lui comparabile: e in questo sentimento era quell' alta idea della divinità che gli empiva di un santo timore, gli eccitava all' adorazione e nessuna cosa anteponevano a Dio, nessuna posponevano alla sua offesa. Ma se tutto questo era Dio che sentivano in esso, non era però il Verbo, la seconda Persona sussistente nel seno del Padre: perocchè per sentir questa, conviene sentire la luce della verità come una cosa piena e sussistente. I doni si dividono secondo le idee che servono loro di base. L' idea della grandezza divina, per esempio, e della perfezione della sua giustizia, diviene madre di un sentimento, perchè afforzata dalla grazia: e così ogni attributo della divinità è fonte di un qualche dono. Il rispetto che intendevano doversi a Dio, moveva nei Profeti quell' altissimo sdegno, quel zelo divoratore che li spingeva talora a far scendere il fuoco dal cielo che incenerisse i bestemmiatori, e a chiamare le belve feroci dalle foreste che li divorassero. Un tale spirito usciva da un sentimento altissimo, acceso nell' animo non immediatamente dal possesso della Sapienza incarnata, che ogni idea e ogni cognizione comprende, ma da un' idea parziale, da un attributo particolare di Dio, altamente conosciuto, la quale conoscenza era però un dono della stessa occulta sapienza. A quanto fu detto sin qui si moverà contro il sembrare che alcuni grandissimi Santi, che furono nell' antico tempo, dovessero aver ricevuta l' unione col Verbo divino. E veramente S. Giovanni ci dice, che Isaia vide la gloria di Cristo, e che parlò di lui quando disse: « Accieca il cuore di questo popolo, e aggrava i suoi orecchi e chiudi i suoi occhi« (1) »: la quale gloria di Cristo non pare dover poter essere se non la sua stessa divinità (2). Così pure Cristo del Patriarca Abramo: « Abramo, padre vostro, esultò per vedere il mio giorno : lo vide e ne giubilò« (3) »: nelle quali parole il vocabolo giorno equivale appunto a chiarezza e gloria, e viene parimente a significare quella divinità, della quale Cristo era chiaro, prima che fosse stato fatto il mondo, appresso il Padre suo (4). Ora ciò io punto non nego (5): solo affermo che questo fu favore straordinario conceduto a' quei pochi personaggi dell' antico tempo, per singolarissimo privilegio: come accadde nel nuovo Testamento, che taluno sia stato innalzato fino a vedere Cristo glorioso e le magnificenze dell' altra vita; il che veggiamo nelle Scritture essere stato conceduto solo per grazia grandissima a S. Stefano, all' Apostolo Paolo e notabilmente a S. Giovanni. Per altro se l' uno o l' altro degli antichi ebbero la percezione del Verbo, la differenza fra il congiungimento del Verbo co' cristiani e con quei Santi antichi è però questa: che quel congiungimento fu dato per via di eccezione e solo di passaggio; ma il congiungimento che si fa dei redenti col Verbo divino, mediante il battesimo e la fede e i sacramenti, è costituito stabilmente per una cotal legge, è permanente, non [solo] attuale, ma altresì abituale. Quindi è che Gesù Cristo a nulla è più inteso, quanto a far ben notare e osservare questa permanenza di lui ne' Santi suoi e de' Santi suoi in lui. Egli raccomanda di averla sommamente a cuore e di non dar cagione col peccato che s' interrompa giammai una così stabile unione, che viene rappresentata appunto in un connubio indissolubile dell' anima con Cristo, della chiesa con lui suo sposo. « PERMANETE in me, dice Cristo, e io in voi. Siccome un tralcio non può portar frutto da sè stesso, se non PERMANE nella vite; così nol potete nè pur voi, se non PERMANETE in me« (1) ». Dove il permanere , tante volte ripetuto, dimostra esser esso la parola caratteristica, colla quale Cristo vuol far notare la stabilità , da parte sua, di quella unione già, per così dire, connaturata fra lui e i suoi eletti, e saldata per legge ferma. E prosegue ancora ripetendo lo stesso vocabolo più e più volte: [...OMISSIS...] . E` dunque solenne questa parola di PERMANERE Cristo in noi e noi in Cristo, nel nuovo Testamento; ed è inaudita nell' antico: perchè questa permanente unione dell' uomo col Verbo di Dio è la ricchezza del nuovo tempo di grazia. Questa unione stabile o abituale, dice Cristo, non si ottiene che colla fede al Vangelo: « E voi non avete, diceva egli agli Ebrei, la parola del Padre in voi PERMANENTE, perchè voi non credete a questo che egli ha mandato« (3) ». E via più si conferma e salda questa unione col Sacramento del pane e del vino di Cristo: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, ed io lo risusciterò nell' ultimo giorno. - Chi mangia la mia carne e beve il sangue PERMANE in me e io in lui« (4) ». E finalmente Cristo dà appunto questa PERMANENZA in lui per nota da contraddistinguere i discepoli suoi: « Se PERMARRETE nel mio sermone, dice, sarete VERAMENTE miei discepoli« (5) ». Questa verità è inchiusa nelle stesse denominazioni date dalla Scrittura e tradizione cristiana alle persone del Figliuolo e dello Spirito: il primo de' quali si nomina parola, ragione, verbo ; e la parola appunto e la ragione è il mezzo onde si manifestano e rivelano le verità, e onde si apprendono: il secondo è appellato spirito della santità , o Spirito Santo , quasi aura che spira nelle anime i santi sentimenti e vi infonde la santità stessa. Del Verbo, principio della rivelazione, fu parlato (2): ora qualche cosa dello Spirito, a mostrare che esso è riguardato nella cristiana teologia come il principio della religione e propriamente della religione interiore, della santità. I Padri Greci dànno allo Spirito Santo, non già come un' appropriazione, ma come sua proprietà, la forza santificatrice (vis santificatrix, «e agiastike dynamis»). S. Basilio lo dice espressamente l' origine della santificazione ( «agiasmu genesin»); e ancora: viva sostanza, arbitra della santificazione (1). Nè vi ha dubbio che il santo Dottore parli di proprietà , e non di qualità appropriata , perchè espressamente si spiega e, fatta la distinzione delle cose proprie e delle appropriate, in quelle mette l' essere il divino Spirito una sostanza santificante. Ecco come egli ragiona nella lettera che scrisse al conte Terenzio, dopo distinta la sostanza dalla persona: [...OMISSIS...] . Cinque secoli dopo, S. Giovanni Damasceno chiamava pure lo Spirito Santo: « virtù santificante per sè sussistente (3). ». Or questo viene a battere con ciò che dice S. Agostino là dove mostra che è proprietà dello Spirito l' esser dono , cioè che è quanto dire l' essere amore santificante : di che ne trae la ragione del non potersi dire generato, ma solo spirato, perchè dice: [...OMISSIS...] . Or hassi a portar oltre questa dottrina: al che ci fa il ponte questa denominazione di dono , che ab aeterno può darsi al divino Spirito. L' esser donabile agli uomini, diciamo noi, l' essere diffonditore di santità non può esser se non con quell' atto stesso, col quale egli è, con quell' atto, con cui procede dal Padre e dal Figliuolo, perocchè aver non vi può in lui distinzione di atti. Ma l' atto onde egli è, il fa essere l' amore nozionale del Padre e del Figlio, la santità loro. Di quel medesimo amore dunque onde si amano il Padre e il Figliuolo, di quella medesima santità onde il Padre e il Figliuolo sono santi, partecipano anco i Cristiani; sicchè è uno il principio di santità in Dio e in noi. Ora udiamo parlare i Padri della Chiesa di ciò; udiamo che cosa dicano dell' esser lo Spirito appunto in Dio santità. [...OMISSIS...] E S. Fulgenzio tenendo la traccia del Vescovo d' Ippona, dopo recati i passi di Agostino, così conchiude: [...OMISSIS...] . E` adunque proprietà intrinseca e costitutiva dello Spirito Santo, secondo le dottrine tradizionali della Cattolica Chiesa, tanto l' essere lui la santità o carità nozionale del Padre e del Figlio, come l' essere il principio della santità o carità nostra. Sicchè la nostra carità è una partecipazione della carità che ha Dio a sè stesso, e, come abbiam detto più sopra coi SS. Agostino e Fulgenzio, amiamo Dio con Dio, nè con altro si può amare, poichè con altro non si può nè pur concepire, se non con sè stesso. Indi esprimendo Cristo il suo desiderio al Padre che i suoi discepoli ricevessero lo Spirito Santo, dice così: [...OMISSIS...] . Questa verità consegue dalla precedente. La santità, la carità, tutto ciò che vi ha di morale insomma, ha la sua sede nella volontà (4). Ora lo Spirito Santo è la santità stessa, la carità originaria (5) che informa l' anima nostra. Dunque esso opera nella volontà . Nè meno opera per questo nell' essenza dell' anima, come il Verbo, perocchè anche la volontà si radica nell' essenza dell' anima. L' essenza dell' anima intellettiva è a un tempo passiva e attiva: in quanto è passiva, riceve le specie delle cose, il che costituisce l' intelletto; in quanto è attiva, riconosce le cose, le vuole, le ama, il che costituisce la volontà. All' incontro il Verbo, che è la intelligibilità dell' essere, risiede nell' intelletto, e ivi opera, ivi si manifesta. Egli è per questo che la terza persona della Santissima Trinità fu chiamata Spirito , come osserva S. Tommaso, poiche « il nome di Spirito nelle cose corporee sembra importare una cotale impulsione e mozione: or poi è proprio dell' amore muovere e impellere la volontà dell' amante nell' amato« (1) ». Abbiamo veduto che l' operazione della grazia non è già una pura operazione ideale , ma è una operazione reale . Noi veggiamo per natura l' essere ideale , e questo costituisce il lume della nostra ragione: ma solo per grazia abbiamo la percezione dell' essere reale . L' essere ideale, e il reale, è egualmente oggetto del nostro intelletto, ma in quanto percepisce quello, chiamasi propriamente intelletto: e in quanto percepisce questo più acconciamente direbbesi senso intellettivo. L' essere ideale, l' idea dell' essere, è una produzione in noi che si attribuisce al Verbo, ed è quello di cui s' intendono pur dette quelle parole di S. Giovanni, che il Verbo è « la luce, la quale illumina ogni uomo veniente in questo mondo« (2) ». Tuttavia l' essere ideale, sebbene sia effetto del Verbo, tuttavia non è il Verbo stesso, perchè privo, come l' abbiamo noi ingenito, di sua propria sussistenza. L' Essere reale all' incontro sussiste, ed è il Verbo. Ma come può egli entrare in noi? Forse colla comunicazione delle verità rivelate? No certamente con queste sole, perchè queste non appartengono che all' ordine ideale, e le verità teologiche possono essere sapute e intese anche da quelli che non sono punto nè poco in grazia. Veggiamo adunque in qual altro modo. Si osservi prima di tutto che anche rispetto alle verità e percezioni naturali, noi conosciamo e percepiamo in due modi, cioè con una cognizione diretta e necessaria, e con una cognizione riflessa e volontaria: con quella siamo passivi, con questa siamo attivi; con quella riceviamo l' essere ideale delle cose, ma con questa giungiamo alla loro sussistenza; quella poco ci affetta e muove, verso di questa che vede i pregi o i difetti delle cose e li rende volontariamente nell' animo efficaci. Si consideri la differenza che passa fra la semplice conoscenza di una persona, e quella conoscenza particolare che ha di lei il suo amatore. Quanti pregi vi trova questi, che tutti gli altri non trovano, fino a crearne di quelli che non esistono! E qual prezzo dà alla bellezza e alle grazie di quella persona, quanto maggiore di quello che i non innamorati punto non danno loro! Che è ciò? Certamente è l' amore in questo che assottiglia e affina l' occhio dell' anima e la contemplazione; la volontà insomma, che muove la riflessione e la tiene occupata nell' oggetto desiderato, e la sforza, col continuo vagheggiare, di attingere, gustare e applicare a sè il più che possa di quella amabilità, alla cui esca è stato preso il suo cuore. Ciò che degli innamorati, dicasi di [ogni] amore e di ogni odio. La volontà amante è quella che penetra molto addentro nell' oggetto amato, e ne conosce i pregi, sa per cognizione sperimentale i piaceri che indi si possono derivare: e se questo amore è retto, egli conduce ad assaporare un diletto vero e salutare. Tal accade a chi è vago della sapienza e della virtù, a chi s' innamora del ben fare, di una scienza o di un' utile impresa: più che vi pensa, più l' ama, più conosce meglio il prezzo della bell' opera; e questa è conoscenza tutta comunicata dalla forza della volontà che si pose nella cosa amata e a lei per così dire si diede benevolmente in braccio, come a suo bene. Ora s' applichi questo modo del procedere dello spirito umano nell' ordine naturale all' ordine sopra natura, s' applichi questa legge alla cognizione del Verbo divino. Il Verbo comincia egli ad operare nel nostro intelletto: a lui si presenta. Con questo mostrasi che egli fa in noi, è ancora entrato in noi? No certamente, perchè il NOI esprime la nostra persona , e la personalità nostra risiede nel nostro principio attivo, cioè nella nostra volontà intellettiva. Conviene adunque che il Verbo sia ricevuto dalla nostra volontà: allora egli è entrato in NOI, allora mette la sua sede nella nostra personalità . Questo è quello che vogliono dire quelle parole di Cristo: « Ecco, io sto all' uscio e batto: se alcuno udirà la mia voce e mi aprirà la porta, io entrerò a lui e cenerò con lui, ed egli con me« (2) ». E` il medesimo che dire:« Io mi presento all' intelletto: ora sta alla volontà che aderisca a me e a me si congiunga: senza questo, non sono entrato nell' uomo, sono fuori della porta«: l' uomo è la sua volontà, l' uomo è la persona dell' uomo. - Cristo adunque non entra se non in chi gli apre la porta colla volontà consenziente alla verità, come dice S. Paolo; il che comincia col prestare orecchio, coll' udire volontariamente la sua voce. Quell' udire è già un principio del giudizio pratico, una disposizione al medesimo: e quella parola è usata altre volte da Cristo, come quando rimprovera gli Ebrei di non aver udita la voce del Padre (2); o quando dice che le pecore odono la voce del loro pastore (3). Medesimamente è mostrato assai di frequente, che il Verbo non viene già nelle anime nostre per forza, ma per volontà egli s' invita per così dire, come ha fatto con Zaccheo, ma non ci viene se non venendo di buon animo ricevuto. E questa parola di ricevere è consacrata nelle Scritture per indicare appunto il buono accoglimento che fa l' uomo colla sua volontà al Verbo, quando il Verbo vuole entrare in lui. « Egli venne, dice S. Giovanni, alle sue proprie cose, e i suoi non lo hanno RICEVUTO« (4) ». E tosto per dimostrare che non s' incorporano col Verbo se non quelli che il vogliono, che il ricevono, soggiunge: « Ma quanti IL RICEVETTERO, a tanti diede podestà di rendersi figliuoli di Dio (5) ». E in altro luogo Cristo dice: «« Chi RICEVE me, RICEVE Colui che mi ha mandato« (6) » cioè il Padre. Ricevere adunque, secondo il parlare delle Scritture, è aderire a Cristo, è riconoscerlo volontariamente pel Redentore, è fare quell' atto di fede , col quale abbiamo detto cominciare la grazia in noi e che è azione della nostra volontà. Quelli che non hanno questa cognizione riflessa, volontaria e pratica del Verbo, nella Scrittura sacra sono detti tenebre (7). « La luce, dice S. Giovanni, luce nelle tenebre, e le tenebre non l' hanno compresa« (.). » Il che è quanto disse Cristo: « Il mio sermone non cape in voi (9) ». S. Paolo pure dice: «« Eravate un tempo tenebre, ma ora siete luce nel Signore ». A cui soggiunge: «« Camminate adunque siccome figliuoli della luce: e il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità« (10) »: perocchè dietro a quell' atto primo, a quel giudizio pratico che [segue] alla volontà, [vengono] (11), come abbiamo tante volte detto, immancabilmente i buoni affetti e le buone operazioni. E questo parlare nelle Scritture è comune, d' intendere per tenebre la volontà che ricusa di riconoscere ed aderire alla verità, e s' accieca da sè stessa (1), e per luce la volontà che si mette dentro nella verità e si compiace di lei. Nè può essere maniera di parlare più propria e verace di questa; perocchè l' uomo non si può dire già illuminato per le cognizioni ideali del suo intelletto, ma solo per la cognizione volontaria, colla quale cognizione la luce della verità entra veramente in lui, perciocchè l' uomo non è già l' intelletto, ma l' uomo, per ripeterlo ancora, è la volontà, quando dicendo« uomo«, s' intende dire la persona dell' uomo; perocchè, a dirlo di nuovo, la persona sta in un principio attivo e nel più alto principio attivo che trovisi in una natura. Egli è questo che insegna appunto il Redentore, quando fa dipendere l' essere l' uomo tutto o illuminato o tenebroso, dall' essere o luminoso o ottenebrato l' occhio dell' uomo: [...OMISSIS...] . L' occhio è appunto la volontà dell' uomo in quanto figge lo sguardo intellettivo nella verità e così s' alluma; o lo toglie dalla verità e rifiuta di accoglierne il lume, e quindi stesso di amarlo e seguirlo nelle opere della vita. Or dunque se la luce del Verbo si riceve in noi con un atto della volontà, e se è nella volontà appunto che il divino Spirito esercita la sua azione (3), movendola al riconoscimento del Verbo; egli è manifesto che il Verbo non entra nell' uomo nè vi fa sua sede se non per un' azione che convenevolmente allo Spirito Santo si attribuisce. Questa è dottrina che compare luminosamente nelle divine Scritture e che viene continuamente insegnata dalla Chiesa. S. Atanasio appunto da' testimonii delle Sacre Scritture prova che lo Spirito Santo può assomigliarsi a un suggello il quale imprime nelle anime nostre l' effige del Verbo; similitudine, pare a me, acconcissima a mostrare come il Verbo sia in noi non già solo idealmente, ma per un' operazione reale, per una vera percezione della sua sostanza. Usa anco della similitudine dell' unguento che unge l' anime nostre appunto col divin Verbo quasi con ottimo unguento: [...OMISSIS...] . Ora esser gli uomini fatti« dei«, non è altro, secondo il parlare delle Scritture e de' Padri, che un essere la natura umana sollevata sopra l' ordine della natura e messa nell' ordine soprannaturale per una reale congiunzione con Dio che è il principio dell' ordine soprannaturale, come la natura umana è il principio dell' ordine naturale. Ma basti fin qui, dovendo noi farci ancora su questa materia più sotto dove ci cadrà di parlare dell' ordine nel quale le divine persone operano e si manifestano nelle anime nostre. Solo conchiuderò con un passo di S. Tommaso acconcio all' uopo nostro, cioè a mostrare che dee concorrere insieme il nostro intelletto e la nostra volontà, al ricevimento del Verbo in noi, venendo in noi questo per l' ammettere che fa la nostra volontà la mozione dello Spirito Santo, e dietro questa mozione volere, ricevere, amare il Verbo. Dimanda l' Aquinate se il dono della sapienza sia nell' intelletto o nella volontà; ed ecco come risponde: « La sapienza, che è dono, ha la sua causa, cioè la carità, nella volontà, ma l' essenza l' ha nell' intelletto« (1) ». E veramente la sapienza è il Verbo, la cui sede è nell' intelletto: ma l' uomo non l' ha, no 'l partecipa veramente fino che colla volontà non ha voluto averlo e parteciparlo, cioè con una riflessione, che è bensì intellettiva, ma che dalla volontà sua bene inclinata è cagionata e mossa. Abbiamo detto che la santificazione dell' uomo è opera dello Spirito Santo, il quale ci fa percepire il Verbo. Ma questo ha bisogno di spiegazione, perocchè non sempre la santificazione dell' anima si opera in egual modo (2). Un effetto talvolta è prodotto da una causa in modo, che nell' effetto stesso può vedersi l' impressione, l' imagine della causa: sicchè la causa si fa, o in tutto, o in parte, forma dell' oggetto, in cui esercita l' operazione. Talora all' opposto la causa produce bensì l' effetto, ma senza lasciarvi la propria imagine, per così dire, scolpita e senza informare di sè l' oggetto. Il calore del sole in gran parte è certamente cagione della vegetazione delle piante, ma in nessuna maniera dalla sola vegetazione delle piante noi potremmo farci la minima idea del sole, se noi nol vedessimo, nol conoscessimo per altro mezzo. Ora io dico, che anche nella santificazione dell' anima non sempre la persona dello Spirito Santo opera in modo da congiungersi come forma con l' anima, ma solo lascia talora in essa degli effetti suoi, dei doni, i quali però non sono la sua stessa persona. Dico ancora che, in tal caso, la santificazione si attribuisce bensì allo Spirito Santo, ma solo per appropriazione , e non come una proprietà . All' opposto, quando la persona dello Spirito informa l' anima umana, allora è proprietà dello Spirito la santificazione: ed ecco perchè passi questa differenza. Se la persona dello Spirito non informa l' anima, ma solo nell' anima vi hanno i suoi doni, in tal caso l' effetto di questa operazione non è lo Spirito stesso, perchè non è lo Spirito stesso che personalmente e immediatamente sia congiunto coll' anima: quindi l' operazione non è deiforme , ma solo divina , secondo la definizione data da noi a queste parole. Si attribuisce adunque questa operazione allo Spirito non come a forma, ma come a causa o principio di questo effetto. Ora è cosa ferma nella teologia cristiana che la causa o il principio delle operazioni ad extra , come le chiamano, cioè che portano effetti fuori della Santa Trinità, non si possono attribuire all' una più che all' altra persona, se non per quella che si dice appropriazione e che abbiamo più sopra spiegata, e che sono comuni veramente alla Santissima Trinità. Ove dunque lo Spirito stesso non si faccia forma dell' anima, la santità dell' anima non si potrebbe dire Spiriti7forme , ma solo deiforme; e non si reputerebbe allo Spirito se non come una appropriazione . - Un ragionamento di egual maniera si convien fare circa la comunicazione del Verbo. Abbiamo detto, che nell' antico Testamento il Verbo non si comunicava personalmente : egli era occulto , se non forse a pochi Santi, ai quali si comunicò talora, ma non in modo permanente e per legge, ma in modo passeggiero e per una eccezione e privilegio. Tuttavia anche nell' antico Testamento il Verbo oltre la rivelazione esterna comunicò dei lumi interiori alle anime, di quei doni, di cui parla Davidde, ove dice di Cristo, che ricevette dei doni per gli uomini (2). Questi doni non erano la personale presenza di Dio, ma erano certe idee, dalle quali raggiava luce e vita, che divenivano il fondamento e come il fuoco di quegli spiriti parziali (3), che animavano i profeti ed i patriarchi e li facevano operare santamente e sublimemente. Or però come queste idee , che mercè lo Spirito che le avvivava, divenivano tante parole interiori, [tanti] tocchi dell' anima; così essi non erano però il Verbo di Dio che tutte le contiene e produce, il quale si rimaneva come in occulto. Quindi queste illustrazioni e lumi distribuiti a quegli antichi Santi non formavano propriamente un' operazione che si potesse dire verbi7forme , ma solo dei7forme ; nè si possono riputare al Verbo come a sua propria causa, ma solo a lui attribuire per appropriazione , in quel senso che abbiamo dichiarato (1). Quindi è ancora che, non essendo nell' antico Testamento nè il Verbo nè lo Spirito personalmente forma delle anime sante, ma provenendo quei doni parziali d' intelletto e di volontà di cui erano fornite quelle anime sante, dalla essenza divina che in esse operava, qualche Padre ne parla come se al Padre eterno appartenessero, giacchè il Padre, come principio della Triade, è quello che comunica la divina sostanza alle altre due persone, e a lui si suole applicare in modo particolare quanto dalla divina sostanza, senza vestigio di distinte persone, proviene (2). Ora io debbo dimostrare che la distinzione che io fo' fra i doni della persona e la persona stessa, non è nuova, ma è cosa che appartiene al deposito della cattolica tradizione. Quanto al Verbo divino, il modo stesso di parlare di S. Paolo convalida questa distinzione. Egli dice che Cristo diede dei doni agli uomini (3): ed enumerando questi doni, soggiunge che diede alcuni Apostoli, alcuni Profeti, altri Evangelisti, altri Pastori e Dottori. Dice ancora che a ognuno è stata data la grazia secondo la misura della donazione di Cristo (4). Altro è il dono dunque, e altro è il donatore: il donatore è un solo, sempre Cristo; i doni sono molti e varii. Ma che è di questo donatore? Egli stesso è stato a noi donato, ed è per lui che abbiamo le altre cose, secondo la dottrina dell' Apostolo: [...OMISSIS...] . Agli uomini dunque è stato dato il Figliuolo, la sapienza personale: e agli uomini sono stati dati altresì de' varii doni, delle varie rivelazioni, o illustrazioni o grazie. Queste non si debbono certo, secondo l' Apostolo, confondere con quello, come ciò che è parziale non si deve confondere col tutto, e un solo raggio non si può prendere per il sole. La stessa distinzione, fra la persona dello Spirito e i suoi doni , è stabilita dalle Scritture e dai Padri. Ecco come S. Epifanio la nota nelle parole dell' Apostolo. Dice così:« Il solo Spirito Santo, procedente dal Padre e dal Figlio, è nominato e spirito di verità, e spirito di Dio, e spirito di Cristo, e spirito di grazia. Poichè egli impartisce il bene a ciascuno in modi vari: ad altri lo spirito di sapienza, ad altri lo spirito di profezia, ad altri lo spirito di discrezione, ad altri lo spirito dell' interpretazione, e gli altri doni: e, come parla l' Apostolo, « uno e il medesimo spirito [è] che divide ai singoli, siccome vuole« (2) ». Altro è dunque lo spirito che dà i doni, e altro i doni suoi. Ora i Padri insegnano che non solo i doni dello spirito, ma lo spirito stesso viene dato alle anime: [...OMISSIS...] dice S. Basilio parlando dello Spirito Santo, [...OMISSIS...] . Nel qual passo chiaramente sono distinte le efficenze , o beni, o doni dello spirito, dallo spirito stesso, e si dice che non solo quelle, ma ben anco questo è dato alle anime. Tutti i doni dello Spirito Santo, che costituiscono la santità e che S. Paolo chiamò « charismata meliora » (dei quali soli noi favelliamo), si riducono dall' Apostolo nella carità . E in vero, non sarebbe difficile mostrare, con una diligente analisi di tutti i doni e grazie, delle quali parliamo, [come] essi non sono che carità sotto diverse forme, in diverse attitudini, in diverse relazioni. Ridotti così i doni tutti che santificano l' uomo alla carità, sarà più facile veder la ragione e il fondamento di quella distinzione che or ora abbiamo posta fra il comunicare che fa Iddio alle anime solo dei doni , e il comunicare che fa loro altresì la stessa persona del Santo Spirito, l' amore sussistente del Padre e del Figliuolo. Perocchè i Teologi cristiani distinguono in Dio un amore essenziale , il quale entra nell' essenza divina, e quindi è comune a tutte e tre le persone, e un amore personale , che costituisce la persona dello Spirito Santo. Ora il primo non forma una sussistenza da sè, il secondo è un amore sussistente, una persona; il primo è amore, ma il secondo è, come lo chiama il Petavio (1), il termine del mutuo amore del Padre e del Figliuolo; il primo è come la via, il secondo è il fine, a cui la via mette. Or l' uno e l' altro di questi amori vengono comunicati all' anima: il primo forma i doni, il secondo è la stessa persona dello Spirito, di cui l' anima si fa partecipe. Or quando è che si può dire, riceversi dall' anima i doni , e quando riceversi lo stesso Spirito ? L' anima, come abbiamo veduto, è essenzialmente viva, è sentimento. Non può dirsi che l' anima abbia ricevuto la persona stessa dello Spirito Santo se non allora che lo Spirito Santo sostanzialmente abbia operato in essa, abbia prodotto in essa un sentimento, del quale egli stesso sia la forma , un sentimento, per cui l' anima senta l' amabilità di Dio per modo che quest' amabilità sola, rimossa ogni altra considerazione, sia il TUTTO, sia per ciò qualche cosa di sussistente per sè colla pienezza dei doni. Nè per questo consegue la necessità che l' uomo ne abbia coscienza: giacchè altro è l' averne sentimento ed operare altresì dietro a quello; altro l' averne coscienza, il saperlo dire a sè stesso, il poter rendersi conto delle proprie operazioni. Quanti semplici e virtuosi cristiani non operano costantemente dietro un sentimento profondo che è in loro, al quale non hanno mai riflettuto, e del quale interrogati non saprebbero render ragione nè conto alcuno, molto meno farne l' analisi? Anzi qual uomo rozzo è mai che conosca, quali sieno i principii, dietro i quali egli opera e si dirige nel corso della sua vita? E anche l' uomo educato alle scienze e dato al meditare conosce egli mai perfettamente sè stesso? Conosce tutte le molle segrete che pur operano nel suo cuore? Tutti i movimenti e gli affetti e gli istinti che continuamente sono in azione nel fondo e talor, può dirsi, nell' abisso dell' anima sua? E quelli che più acutamente ritorcono lo sguardo in sè stessi, e che sono avvezzi a far abitualmente la disanima più scrupolosa delle proprie azioni e de' proprii affetti, con quanta fatica e assidua osservazione non pervengono a conoscere quel poco che di sè conoscono: conoscenza che si accresce bensì in essi ogni giorno, ma che l' acquisto di maggior lume, ottenuto in un giorno successivo accusa l' ignoranza del precedente? Nè pure è necessario che chi ha il fonte dei doni, abbia tutti i doni in sè spiegati e manifesti. Poichè lo Spirito Santo abitante nelle anime emette di sè quei doni che vuole, e quei che vuole li tiene nascosti; « spira ove vuole« », come dice Cristo. Nè meno avviene ciò per l' inabitazione del Verbo nelle anime: il quale sebbene sia tutta la sapienza del Padre, pure non comunica alle anime ove inabita, se non quei lumi e cognizioni particolari che a lui piace, e gli altri gli occulta alla riflessione dell' anima. Il che insegna appunto l' Apostolo là dove dice, che « in Cristo sono tutti i tesori della sapienza e della scienza NASCOSTI« (1) »: non nascosti certamente a sè stesso, ma nascosti alle riflessioni delle anime, nelle quali abita Cristo, le quali anime, dice, per consolarsene il cuore, devono essere istrutte nella carità e in tutte le dovizie della pienezza dell' intelletto (2). Or dunque, ove il sentimento di soprannaturale carità, di cui parliamo, non sia un sentimento TOTALE e che accusi nell' anima qualche cosa di sussistente, non si può dire che sia sentimento spiriti7forme ; non si sente in esso la persona dello Spirito Santo: si sente bensì un amor divino; ma quando non si sente la persona, quell' amore non è l' amore nozionale , è solo l' amore essenziale di Dio, è la divina sostanza che si fa sentire, ma in modo imperfetto, sicchè rimane insensibile, OCCULTA, la persona dello Spirito Santo: egli allora non si può nominare che dei7forme . Tuttavolta per l' appropriazione si attribuisce quel sentimento allo Spirito Santo e a lui si riduce come via a suo termine, a sua perfezione: sicchè quel sentimento non ha che a rendersi più perfetto, più integro per essere quello del divino Spirito. In tal caso, il divino Spirito è il principio della santità per appropriazione: all' opposto, ove lo Spirito Santo si comunichi all' anima personalmente, egli è il santificatore di lei con quella santità che gli è proprietà personale. Che la persona del Verbo non fosse comunicata spiritualmente agli uomini innanzi la sua venuta in carne, pare reso manifesto dalle cose dette fin qui (3), e particolarmente da quel principio più sopra stabilito: che la rivelazione interiore va di un accordo perfetto colla rivelazione esteriore (1). Quanto alla persona dello Spirito Santo, quello che abbiamo detto dimostra che essa non può essere percepita prima e indipendentemente dal Verbo, perocchè ella è l' energia del Verbo, quasi un calore, un affetto, che esce spirato da quella luce, resa oggetto divino del nostro sentimento (2). Non sarà però inutile che confermiamo questa dottrina, secondo il metodo seguito fin qui, co' passi dei Padri della chiesa e de' teologi. Ecco come favella un teologo de' più chiari, che ha illustrato assai questa materia, e che mostrasi sempre profondo nel ricercare ben addentro i più sinceri sentimenti de' Padri: [...OMISSIS...] . E di qui S. Cirillo toglie la spiegazione di quelle parole di Gesù Cristo: che quello che è il più piccolo nel Regno dei cieli era però maggiore di Giovanni (3). Egli trovava la ragione di tali singolari parole di Cristo in questo, che i cristiani, che sono nel regno di Cristo, cioè della chiesa, hanno in sè lo Spirito Santo personalmente; il contrario di que' santi che appartenevano all' antico Testamento, de' quali era ancora il Precursore, dotato bensì dei doni dello Spirito in tale abbondanza da vincere tutti gli antichi santi, ma non ancora in possesso della stessa persona dello Spirito Santo, perchè non erano ancora aperte le porte del cielo (1). Il che sebbene basterebbe a provare il mio assunto, tuttavia la chiarezza ond' è posta questa dottrina nel passo seguente dello stesso grande Vescovo di Alessandria, mi trae a riferirlo, e spero che mi sarà volentieri conceduto di farlo dal lettore. Dopo aver egli recate quelle parole di S. Giovanni: « che lo Spirito non era ancor dato, perchè Cristo non era ancora glorificato« (2) »; le quali contengono precisamente quanto noi qui sosteniamo si fa la questione: Se dunque non avevano lo Spirito i Profeti o, se l' avevano, per che altro modo l' avevano? E scioglie la questione colla distinzione appunto fra i doni e lo Spirito stesso. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Il Verbo apparito in carne umana agli uomini, si annunziò loro per quella divina persona che è, Figliuolo Unigenito di Dio Padre. A questo annunzio, a questa esterna rivelazione, compimento e spiegazione di tutte le rivelazioni fatte precedentemente per lo spazio di quattro mila anni agli uomini, corrispose la rivelazione interna, colla quale si manifestò il Verbo alle anime, diede alle anime credenti la percezione di sè stesso. E` questa la grazia della nuova legge, quella di cui dice S. Giovanni: « la legge fu data per Mosè; la grazia e la verità fu fatta per Gesù Cristo« (2) ». In tal modo il Verbo divenne forma delle anime, e quell' operazione della grazia che prima non era che deiforme , cominciò a essere verbiforme . Questa comunicazione del Verbo alle anime de' suoi, fatta ancor prima della sua morte, veniva comunicata dalla virtù delle sue divine parole e dello stesso suo umano sembiante, a quell' anime che prestavano fede a quelle e si lasciavano muovere dalla dolce vista di lui. Della grazia che usciva dalle sue parole, dice Cristo: « Già voi siete mondi pel sermone che ho parlato con voi (4) »; e tosto soggiunge: «« Rimanetevi in me e io in voi« (5) »; attribuendo appunto all' effetto delle sue parole la cognizione sua soprannaturale co' discepoli suoi. Dice ancora che la permanenza nel suo sermone era la nota caratteristica de' suoi discepoli: « Se voi rimarrete nel mio sermone, sarete veramente miei discepoli« (6) ». Nelle quali parole quell' avverbio veramente è atto a dare gran forza alla denominazione di discepoli , ed esprime propriamente l' immediato imparare che fa da Cristo l' anima per una comunicazione tale, che dà fino l' immortalità, che non viene se non dall' unione e percezione di Cristo stesso: [...OMISSIS...] . Della grazia poi che usciva dal suo sembiante, e per la quale veniva pur data, a chi n' erano fatti degni, la visione o percezione del Verbo; ecco come ne parla Cristo in quel colloquio con Filippo, che ho più sopra riferito e che qui di nuovo giova rammemorare. Aveva dimandato l' Apostolo Filippo a Cristo che mostrar gli volesse il Padre. Gesù Cristo si fa maraviglia, perchè non s' accorgeva che, vedendo lui, si vedeva il Padre stesso: il qual vedere non si può riferire alla semplice vista della umanità di Cristo, ma sì bene alla vista interiore della sua divinità, perchè non è nel corpo di Cristo visibile immediatamente il Padre, ma si bene nel Verbo, la cui visione o percezione veniva spirata e impressa pure dalla visione della divina umanità del Redentore, da cui usciva una virtù soprannaturale e misteriosa. Risponde adunque Cristo così alla dimanda di Filippo: [...OMISSIS...] . E dice: non credete; per indicare che quella visione di cui si parlava, fondavasi nella fede; che era una visione imperfetta, incipiente; che era quel conoscere insomma, di cui parla S. Paolo, ove dice che « conosciamo in parte e in parte profetiamo« (2) », cioè vediamo a segni e a enimmi (3). Ma per vieppiù provare che la persona del Verbo, quando egli apparì e si manifestò in carne umana, si unì formalmente a quelli che credevano alle sue parole, consideriamo quali sieno i caratteri da noi assegnati a quel sentimento che produce in noi l' operazione della grazia, nel qual sentimento percepiamo una divina persona. Questi caratteri, come risulta da ciò che fu detto, sono due, il primo che con quel sentimento noi dobbiamo sentire tale cosa, nella quale noi troviamo il TUTTO. Il secondo, che non è se non conseguenza del primo, si è che quel sentimento dee essere cotale che ci faccia sentire una cosa sussistente , e non puramente ideale. Ora Cristo ci fa notare questi due caratteri nella comunicazione che fece di sè a' suoi discepoli. La divina rivelazione aveva date agli antichi delle cognizioni e notizie separate della divinità: ma Cristo dichiara espressamente che egli comunicò tutto a' suoi discepoli, quanto aveva udito dal Padre: « TUTTE le cose che io udii dal Padre mio, le feci a voi note« (4) ». I Padri spiegano acconciamente questo passo, dicendo che voleva dire che Cristo fece nota ossia comunicò la propria persona agli Apostoli. Perocchè qual è il valore di questa misteriosa parola, udire dal Padre? Vuol dire sapere , e sapere vuol dire essere dal Padre, procedere da lui, come dice S. Agostino (1); perocchè il sapere del Figlio non è diverso dal suo essere. Ora se Cristo avesse detto: Io vi feci note molte cose che ho udite dal Padre, poteva intendersi che non avesse comunicata la sua stessa persona, ma solo alcuni lumi e cognizioni. Ma dicendo che ha fatte note agli Apostoli tutte le cose , non si può intendere altramente se non che gli abbia loro comunicata la propria persona ; perocchè essa sola è tutte le cose procedute [dal] Padre, avendo il Figlio nella sostanza divina ricevuta dal Padre le cose tutte. Nè quella frase di render note le cose , si può spiegare altrimenti che di una comunicazione sostanziale, giacchè la natura divina non ci si fa nota per altra via, come ho mostrato più sopra (2), se non per la percezione, e non si può conoscere per via di idee pure. Il passo citato di nostro Signore: [...OMISSIS...] ; si vedrà più chiaramente significare: [...OMISSIS...] , ove con lui si confronti un altro passo, pure di Cristo, cioè quello nel quale egli favella al suo divin Padre così: [...OMISSIS...] . Che cosa sono le parole di Cristo date a lui dal Padre? Certo quelle cose che egli ha udite dal Padre. E che sono le cose udite dal Padre? L' essere suo di Figliuolo dal Padre generato. Non dice« alcune parole ricevute dal Padre«; ma dice« le parole«, che è quanto« tutte le parole, « omnia quae audivi »«. Ora che cos' è« tutte le parole ricevute dal Padre«, se non tutto il suo essere, tutta la sua persona? Or tutte queste parole le ha comunicate a' suoi discepoli: ha comunicato loro la sua persona. Ma a qual fine ha comunicato a' suoi discepoli le parole date a lui dal Padre? Perchè intendessero, tutte le cose date a lui dal Padre essere dal Padre. Che è,« tutte le cose date a lui dal Padre essere dal Padre?«. La sua generazione, l' essere generato. Che cosa è« l' essere generato?«. L' essere Figliuolo del Padre, avere ricevuta la natura del Padre. Ha adunque date a' discepoli suoi le parole ricevute dal Padre, perchè conoscessero che egli era la persona del Figlio. Che cosa dunque è che volle far conoscere a' suoi discepoli? La propria persona, la generazione eterna. Qual è il mezzo onde la fa conoscere? Non altro che la propria persona: questa immediatamente lucente nelle anime sono quelle parole ricevute dal Padre, che fanno conoscere che tutta quella persona viene generata dal Padre. Ecco il grande scopo di tutta la predicazione di Cristo, far conoscere sè agli uomini, e in sè il Padre: ecco il peculiare ufficio della sua grande missione. Viene confermata simigliante interpretazione del passo di Cristo: « Tutte le cose che io ho udito dal Padre mio, le feci io note a voi«, dalla seguente osservazione. In che modo Cristo poteva aver comunicato agli Apostoli la notizia di tutte le cose udite dal Padre? In che modo si può spiegare con semplicità questo detto, che gli Apostoli sapessero le cose tutte, giacchè Cristo le sapeva tutte? So bene che ove vogliasi far violenza alle parole e sostenere che il tutte non voglia dir tutte, può trarsi agevolmente dalla difficoltà: ma questo non è uno spiegare le parole di Cristo, ma un sostituirne a quelle delle altre. In che maniera dunque di nuovo io chiedo, poteva dirsi con verità, che agli Apostoli tutte le cose fossero rese note? Certo ciò non poteva essere, ove s' intendano le verità prese singolarmente, staccate e distinte le une dalle altre: in questo modo anzi ci assicurò Cristo che gli Apostoli non le sapevano, perchè, dopo aver detto che tutte le cose udite dal Padre aveva rese note, disse ancora: « Ho molte altre cose a dirvi, ma non le potete portare di presente« (1) ». Qui dice che ha molte cose ancora da dir loro; e prima aveva pur detto che TUTTE le aveva loro fatte note. Si badi a quel TUTTE, che significa il complesso delle stesse verità. Il Verbo era quello che le aveva tutte in sè: comunicato il Verbo, era vero che avea loro comunicate tutte le verità, perchè esso stesso il Verbo era tutte insieme le verità. Perciò in altro luogo, in luogo di dire che aveva comunicate agli Apostoli tutte le verità, dice in singolare, che aveva loro dato il sermone del Padre, il quale tutte le conteneva. « Io ho dato loro il tuo sermone« - « Il tuo sermone« è LA VERITA` (2) », la quale abbraccia eminentemente tutte le notizie. E per dimostrare che questo dar il sermone del Padre a' suoi discepoli voleva dire dar loro sè stesso, segue mostrando gli effetti che ne vennero dall' aver dato il sermone del Padre ai discepoli; cioè che il mondo trattasse loro come lui, appunto perchè egli era in essi: [...OMISSIS...] . Eccoli dunque di un' altra origine, dopo che ebbero in sè il sermone del Padre: non sono più del mondo, sono originati da Dio, come il Figliuolo è nato dal Padre. Con quale efficacia maggiore si può spiegare che il Verbo si congiunse colla stessa persona dell' uomo? L' uomo col Verbo in sè, è già nato da Dio, non [può] più esser del mondo. Nascere indica il principio della personalità: l' uomo adunque, la persona dell' uomo ha un principio che viene da Dio, e questo principio è la base della personalità dell' uomo (1). Conviene adunque dire che il Verbo unito formalmente nell' uomo abbia eccitato nell' uomo un' attività suprema, la quale appunto perchè mossa dal Verbo, non è dal mondo, ma da Dio stesso. Nè paia strano ciò che affermiamo, che chi vede il Verbo, dove sono tutte le notizie, non abbia però tutte queste notizie in sè distinte, perchè varii sono i gradi della percezione del Verbo, non solo in terra, ma perfino in cielo (2) e, come dicono i Teologi, la visione del Verbo importa bensì che si percepisca ciò che è formalmente nel Verbo, ma non ciò che ci sta eminentemente , come le notizie di tutti i possibili e contingenti. Il secondo carattere, a cui si conosce il sentimento Verbi7forme, abbiamo detto essere, che in esso l' uomo sente la sussistenza della verità o del Verbo divino. E veramente S. Giovanni dice, che egli « era vita e la vita era luce degli uomini« (3) ». Ora la vita è sentimento, e chi nulla sente, non ha vera vita: il sentimento è la potenza di percepire l' essere reale e sussistente (4). La luce del Verbo adunque non è una luce ideale, ma l' essere sussistente da noi percepito. In nessun luogo poi più chiaramente risplende questa verità, come in quelli dove Cristo paragona sè stesso al cibo, o anche parla del cibo eucaristico. Un cibo che sazia veramente l' anima, non può essere una cosa ideale: il sentirsi paghi e sazi non è altro che il sentire in sè stessi una sussistenza, un bene che ci riempie: [...OMISSIS...] . E spiega in che maniera si chiami pane di vita, cioè perchè dà la vera vita, la pienezza della vita, che è quanto dire la pienezza del sentimento; e il sentimento, la vita, per essere piena, deve essere immortale. Onde soggiunge: [...OMISSIS...] . E qual è questa vita? Una vita fondata nell' azione stessa di Cristo, una vita che noi riceviamo da Cristo, come Cristo riceve la sua vita dal Padre. Quest' alta e ineffabile comparazione non si oserebbe pur a pensare, se Gesù Cristo stesso non avesse detto: [...OMISSIS...] . L' esser mandato dal Padre è ricevere l' essere del Padre. Dice adunque: come un' operazione del Padre è quella che dà a me l' essere e la vita, così un' operazione mia ne' miei diletti è quella che dà loro la vita. - Questa vita è ciò che vi ha di più sollevato ne' discepoli di Cristo e costituisce per ciò il loro essere personale (3) soprannaturale: e indi è che la similitudine di Cristo è sommamente vera ed espressiva, quasi dicesse: come il Padre dà a me l' essere personale, così io do a' miei diletti l' essere loro personale. - E questa personalità, che noi riceviamo dall' unione con Cristo, è significata assai acconciamente in assaissimi luoghi delle Scritture e, fra gli altri, in quello di S. Paolo che dice: « Vivo io? non più io, ma vive in me Cristo« (4) ». Non già che noi ci cangiamo nella persona di Cristo, o la persona di Cristo in noi, ma sì bene Cristo vive in noi, nella nostra personalità, e però la nostra vita personale non è più prodotta dalle nostre forze naturali, ma dalla forza di Cristo che colla sua sostanziale presenza opera ineffabilmente in noi e vi suscita un sentimento tutto nuovo, un' attività più nobile di gran lunga di tutte le altre nostre attività naturali. Già abbiamo detto che il Verbo non si percepisce, se non per una operazione dello Spirito Santo, che muove soavemente la nostra volontà e questa il nostro occhio intellettivo a contemplare e percepire la bellezza appunto della sostanzial verità. Ma abbiamo detto ancora, che questa operazione dello Spirito Santo non è sempre la persona stessa dello Spirito Santo, ma che a quella persona divina si attribuiscono gli effetti spirituali che riguardano i movimenti della volontà nostra e gli affetti santi, per appropriazione (5). Se dunque la percezione del Verbo si fa per la fede, anche prima della morte di Cristo dovevano di natural conseguenza esserci anche questi doni od effetti spirituali, di cui parliamo. E certo l' aver gli Apostoli lasciato tutto e seguito Cristo era amore e fede che a lui prestavano. Pietro dice a Cristo in ragione d' esempio: « Tu hai le parole di vita eterna; e noi crediamo e conosciamo che tu sei Cristo Figliuolo di Dio« (1) ». Certo, era l' amore che gli faceva parlare così, era lo Spirito Santo, del quale dice S. Giovanni: « Lo Spirito è quello che testifica che Dio è verità« (2) ». Ma sebbene lo Spirito Santo, con quell' amore spirato a Pietro, illustrasse la persona del Verbo e mostrasse in esso avervi le parole vitali; tuttavia non era ancor venuta la persona stessa dello Spirito Santo, perchè Cristo non era ancora reso glorioso, dicendo S. Giovanni espressamente così: [...OMISSIS...] . Quella energia dello Spirito Santo, che illustrava il Verbo nelle menti, si attribuiva al Figliuolo stesso, prima che la persona dello Spirito si comunicasse formalmente agli uomini, perchè emanava da lui e non costituiva da sè sola nel sentimento degli uomini una persona sussistente: e ciò a quello stesso modo, come abbiamo detto, che i doni del Verbo si attribuivano al Padre prima che la persona del Verbo fosse comunicata agli uomini, cioè prima che venisse in carne umana (4). Quindi anche il Verbo viene chiamato Consolatore, in quel passo: « Io pregherò il Padre, e darà a voi un altro Paracleto cioè Consolatore, acciocchè PERMANGA con voi in eterno« (5) ». Dove Cristo usa quella parola permanga , per indicare che egli stesso era il loro consolatore, fino che stava con essi visibile nella carne mortale; ma che poi sarebbe con essi in altro modo, cioè invisibile o colla sua divinità: ma che per questo non sarebbe loro mancata ogni piena di consolazione, perchè la persona dello Spirito Santo nelle anime loro sarebbe stato un fonte di gaudio perenne e inesausto che sarebbe ridondato in essi per la visione non più esterna, ma bensì interiore, del Verbo. Onde dice: « Non vi lascierò orfani: io verrò a voi«. E tosto appresso:« Ancora un poco e il mondo già più non mi vede; ma voi mi vedete, perchè io vivo e voi pure vivete« (6) ». Nelle quali parole viene a dire, che la vista interiore del Verbo rimarrà in essi anche sottratta ai loro occhi corporei la divina sua umanità; perchè egli è vivente ed essi pure vivono, cioè partecipano della stessa vita, sentono in sè la vita di Cristo e così veggon Cristo. Quindi il Padre celeste era chiarificato anche prima che discendesse lo Spirito Santo sopra gli Apostoli, perchè la persona del Verbo bastava a chiarificarlo, cioè a renderne nota la maestà nelle anime degli uomini: « In questo, dice, il Padre mio è stato chiarificato, che apportiate abbondantissimo frutto, e vi facciate miei discepoli« (1) ». E spiega tosto dopo, che ciò avviene per l' amore dicendo: « Siccome il Padre ha amato me, così ed io pure ho amati voi. PERMANETE nella mia dilezione« ». - La quale dilezione si attribuisce appunto allo Spirito: ma egli fa vedere che qui non parla ancora della dilezione sola come sussistenza, ma di una dilezione, che si appoggia e inerisce alle sue parole, giacchè continua così: « Se osserverete i miei precetti, PERMARRETE nella dilezione mia, siccome anch' io ho osservato i precetti del Padre mio e PERMANGO nella dilezione di lui« ». E perchè la dilezione di Cristo era certo personale, alla quale si raffronta quella de' discepoli che non è ancor personale; manifestamente apparisce, che quella dilezione che non è ancor personale, si considera da Cristo come una via a quella che è personale, un iniziamento di questa in che quella termina e si completa. La quale distinzione fra la dilezione de' discepoli, divina sì, ma non personale, e la personale, ancor più chiaramente è marcata nelle parole di Cristo che susseguono: « Ho parlato a voi queste cose, acciocchè il gaudio mio sia in voi, e il gaudio vostro si compia« (2) ». Ho parlato queste cose, cioè vi ho comunicate queste verità, ve le ho date a sentire, vi ho dato a sentire me stesso che sono verità. E perchè? Per comunicarvi il mio gaudio. Che è il gaudio suo in noi? Il gaudio suo in noi è la grazia sua, dice S. Agostino, che diede a noi pur quando ci elesse innanzi alla costituzione del mondo (3). Il gaudio suo e il gaudio nostro è dunque il medesimo: il gaudio nostro è una comunicazione del gaudio suo, come la dilezione nostra è una comunicazione della medesima dilezione sua. Ma in altro modo quel gaudio è in lui, in altro modo è in noi: il gaudio di Cristo è eterno, perfetto, sussistente; il gaudio nostro da lui comunicatoci non è sempre, nè necessariamente sussistente. Quindi, dopo aver detto che aveva parlate quelle cose, acciocchè il suo gaudio fosse in noi, soggiunge: « e acciocchè il vostro gaudio si compia« ». Prima adunque è in noi il gaudio, poi il compimento del gaudio. Non dice:« acciocchè si compia il suo gaudio perchè è sempre completo (4); ma dice: «« acciocchè si compia il gaudio vostro« ». Il gaudio nostro adunque è il gaudio di Cristo, il gaudio che viene dalle parole di Cristo: ma egli è o incipiente, o già pieno. Che cosa è il gaudio pieno? Il gaudio sussistente, altrimente non sarebbe pieno; la percezione adunque della sussistenza dello Spirito Santo in noi. Che cosa è il gaudio incipiente? Il gaudio che viene dalle parole di Cristo prima che discenda in noi lo Spirito Santo personalmente. Questo si spetta a Cristo, dalla percezione stessa di Cristo ancor non differisce, non è un altro modo nuovo di percepire: quello è lo Spirito Santo, è una percezione nuova, o, per dir meglio, un nuovo modo di percepire che noi facciamo il tutto. Come v' ha adunque una gradazione nel gaudio che esce dal Verbo, e solo il termine di questo gaudio, la pienezza sua è ciò che costituisce il sentimento dello Spirito nelle anime; così vi ha anco una gradazione di luce che esce dal Verbo, e solo la pienezza di questa luce è ciò che forma il sentimento dello Spirito nelle anime. La luce del Verbo fino che non è arrivata alla sua pienezza, non costituisce un modo di percepire nuovo nelle anime: è indivisa una tal luce dal Verbo stesso percepito. Quanto il Verbo è più sentito dalle anime nostre, o, che è il medesimo, quanto è più luminoso in esse, tanto più è chiarificato il Padre. Quando adunque Cristo diceva al Padre: « Io ti ho chiarificato sopra la terra« (1) »; mostrava con questo che anche il Figliuolo era chiarificato, giacchè è la sua chiarezza [che] fa vedere il Padre. Tuttavia il Figliuolo [prega] di essere chiarificato ancora, dimanda che sia completata la sua chiarezza appunto perchè sia più e più chiarificato il Padre: « Padre, dice, viene l' ora, chiarifica il Figliuol tuo, acciocchè il Figliuol tuo chiarifichi te« (2) ». Che cosa dimanda qui dunque il Figliuolo se non un aumento di luce? E quanta luce? Quanta di più non si può, una luce piena, una luce infinita: « E ora chiarificami, o Padre, appresso te stesso di quella chiarezza, che io ebbi prima che fosse il mondo, appresso te« ». Non dimanda certo questa chiarezza per ragion sua o del Padre, dove non ebbe mai adombramento veruno; ma la domanda per cagion degli uomini, domanda che una tal luce sia resa visibile agli uomini. Or questa luce infinita, che dimanda, è una luce eterna e divina; dimanda pe' suoi diletti la persona dello Spirito Santo. Egli rannoda questo discorso alla pienezza del gaudio che, come abbiam detto, indica appunto lo Spirito Santo personalmente comunicato, dicendo: [...OMISSIS...] . Questa gradazione di luce, che ammette la percezione personale del Verbo, è anche espressa in quelle misteriose parole che Cristo pronunciò nel cenacolo, uscito Giuda: [...OMISSIS...] . Le quali parole si possono interpretare di una maggiore luce di carità diffusasi nelle anime de' suoi Apostoli, dopo l' eucaristia, e la partita del demonio che trovavasi nel traditore. E` però notabile quel modo di chiarificazione che Cristo annunzia dover egli avere dal Padre suo. Dice che Dio lo chiarificherà in sè stesso: questa maniera esprime una chiarificazione non già esterna, ma tutta interiore, la chiarificazione che nasce a Cristo quando gli uomini conoscono e sanno che egli è Dio nel seno del Padre. Il sapere questo, l' aver questo lume nell' anima, dal penetrare in qualche modo nella generazione del Verbo, è tutto ciò che ci può essere di più grande nella cognizione, nella percezione di Dio stesso; e il solo Spirito Santo dà alle anime una tale intima cognizione. La frase è ripetuta nell' orazione di Cristo surriferita, dove parla non di gloria esteriore, ma di quella chiarezza ch' egli ha appo il Padre da tutta la eternità. Nella percezione adunque del Figlio è indivisibile una luce e un amore, ma questa luce e questo amore non costituiscono una percezione da sè diversa da quella del Figlio, fino che non diviene una luce e un amore tale, che lo si senta pieno e sussistente: allora quella luce e quell' amore forma da solo una cotale percezione, ed è quella che diciamo la percezione dello Spirito Santo. Tuttavia anche prima che quella luce e carità tocchi in tal modo il suo termine, essa allo Spirito Santo si appropria, perchè è un avviamento nell' anima al medesimo Spirito Santo; ed è anche in questo senso, che il Verbo divino dice: « Io sono la via« (2) ». S. Paolo distingue parimente i due gradi della santificazione dell' uomo, che noi fin qui abbiamo cercato distinguere: il primo consistente nella percezione del Figliuolo, per la quale diveniamo figliuoli di Dio; il secondo consistente nella percezione dello Spirito che illustra e attua vieppiù la percezione del [Verbo], e innalziamo con confidente amore a Dio le nostre voci di figliuoli. Così l' Apostolo tocca questi due gradi, scrivendo ai Galati: [...OMISSIS...] . Con questo solo la salute dell' uomo è assicurata, l' uomo è figliuolo di Dio. Ma lo Spirito Santo viene appresso e perfeziona quest' opera; prosegue l' Apostolo: « Ma poichè siete figliuoli » (ecco che precede l' essere fatti figliuoli), «Iddio mandò lo Spirito del Figliuol suo » (prima mandò il Figlio, or qui manda lo Spirito del Figlio) «nei cuori vostri » (la sede degli affetti, la volontà) « che grida: Abba, Padre« (1) ». Conchiuderò questo articolo con un' osservazione volta a levare una difficoltà che potrebbe sorgere nell' animo de' lettori. Nell' antico Testamento, abbiamo detto, i doni del Figliuolo, cioè le illustrazioni mentali non sono più che operazioni deiformi nelle anime sante, appropriate al Verbo; ch' esse però, come in loro causa, si riferivano al Padre, principio della Trinità. Abbiamo detto il medesimo dei doni dello Spirito Santo. Or poi resosi cognito il Figliuolo dopo incarnatosi, i doni dello Spirito Santo si riferiscono allo stesso Verbo, o anche al Padre. Or qui è da osservare la differenza che passava tra il riferirsi al Padre, o al Verbo, nell' antico tempo, quei doni, e il riferirsi ora. Ora il Figliuolo, e per esso il Padre, è conosciuto; e si ricevono in una percezione indistinta dal Figliuolo medesimo que' doni allo Spirito appropriati (2). Quindi la percezione del nuovo Testamento appartiene, propriamente parlando, alle persone divine, quando la percezione nell' antico apparteneva solo con proprietà alla divina natura. E` però degno di osservazione come nel nuovo Testamento medesimo si distinguano alcune grazie o doni dello Spirito come venienti dal Padre; e alcune grazie o doni come uscenti dal Figlio. Ciò è a dire, tutte le buone disposizioni della volontà umana precedenti alla fede in Cristo, alla cognizione del Figliuolo, le quali buone disposizioni inclinavano gli animi a udire docilmente e a dar fede alle parole di Gesù Cristo, Gesù le attribuisce al Padre suo: là dove i doni che susseguono la cognizione e la fede in Gesù Cristo, si fanno scaturire dal Figliuolo, cioè dalla cognizione e fede di lui. Le prime appartengono all' antico Testamento e sono grazie deiformi: le seconde appartengono al nuovo, e si possono dire grazie verbiformi. Cristo parla appunto di quelle grazie dispositive del Vangelo in questa maniera: « Ognuno che udì dal Padre mio e imparò, viene a me« (1) ». E acconciamente dice, udì ; perchè chi ode la voce di uno, non è necessario che vegga la persona che parla: la qual forza della parola, udì , si rileva da queste altre parole dette da Cristo: « Voi nè avete mai udita la sua voce, nè veduta la sua specie« (2) »; quasi dica: non avete udita la sua voce manifestatavi da Mosè e da' Profeti, e molto meno avete veduto il suo volto, come l' ho veduto io. Indi mette fra le male disposizioni a ricevere la sua parola il non prestar fede a Mosè, non potendo capire il significato spirituale e interno delle sue parole: « Se prestaste fede a Mosè, forse credereste a me pure, poichè Mosè scrisse di me« (3) ». Fra le buone disposizioni poi a udire la sua legge, si è la prima la volontà del bene in generale, l' amore della giustizia stessa naturale: [...OMISSIS...] . Dalla buona disposizione della volontà dice che procede quella della luce volontaria, colla quale si sa conoscere se è bene o male ciò che viene annunziato. [...OMISSIS...] . E` forse difficile il conoscere e accertarsi che la sua dottrina sia da Dio? No certamente: basta avere una buona volontà, basta desiderare il bene sinceramente, basta avere la fede implicita, e quindi volere implicitamente fare tutto quello che Dio fosse per manifestare. [...OMISSIS...] Nulla più ci vuole: la disposizione buona della volontà, l' implicito desiderio di fare la volontà del Padre. A questi doni e grazie dispositive a ricevere il Vangelo, che al Padre si attribuiscono, appartiene quel passo: [...OMISSIS...] . Sebbene le parole di Gesù Cristo, colle quali ebbe promesso lo Spirito Santo, [dovessero adempirsi] solo dopo ch' egli fosse salito al cielo sedente alla destra del Padre; tuttavia una grave difficoltà nasce a spiegare quell' atto e quelle altre parole di Cristo, onde dopo risorto, apparito in mezzo al cenacolo, soffiò la prima volta verso gli Apostoli e disse: « Ricevete lo Spirito Santo: i peccati di quelli a cui voi li rimetterete, sono rimessi, e a cui li riterrete, sono ritenuti« (1) ». E certo fu quello un dar loro lo Spirito Santo; ma il fine di quella comunicazione del Santo Spirito fu il darlo come fonte dell' autorità di legare e di sciogliere, non come forma della loro santità. Il dono della potestà di legare e di sciogliere che rimane nei sacerdoti, anche dopo perduta la grazia coi peccati, appartiene a un ordine di cose ben diverso da quello della santità. Ove non si voglia dire che perpetua è questa potestà nella Chiesa, appunto perchè perpetua è la santità di lei, pigliando la Chiesa tutta come esercitante pei suoi ministri il ministero penitenziale. Certo è insieme che molti doni incomparabilmente maggiori furono conferiti agli Apostoli da Cristo risorto, come il gaudio, la pace e l' intelligenza delle divine Scritture. Ma la promessa dello Spirito Santo non fu ancora compita prima d' ascendere al cielo; non disse già Cristo ai suoi: Ricevete lo spirito in maggiore abbondanza, ma disse semplicemente: « Ed io mando il promesso del Padre mio in voi« (2) »; facendo così manifestamente intendere che questo promesso del Padre suo non era ancora in essi venuto. Sebbene adunque nella percezione del Verbo sieno sempre uniti dei doni o grazie che allo Spirito si appropriano, perchè alla volontà appartengono, come la dilezione (1); tuttavia lo Spirito stesso fu promesso da Cristo e mandato, come dicevamo, solo il giorno della Pentecoste. Pigliamo i due caratteri, dai quali abbiamo detto conoscersi, se un sentimento in noi sia sentimento di una persona divina, i quali sono: 1. la totalità; 2. e la sussistenza. Gesù Cristo caratterizza sempre quello Spirito che promise di mandare colla totalità , e lo distingue da quegli spiriti o doni parziali che ha compartito egli a' suoi Apostoli mentre viveva, o dopo la sua risurrezione. Egli dice: [...OMISSIS...] . - Questa è la comunicazione di sè che fece il Verbo. Soggiunge: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole di Cristo due cose si devono notare: 1. Che quello Spirito è uno Spirito universale, che ha in sè tutte le cose, ed è atto a infondere le notizie tutte. 2. Che lo Spirito non insegna cose diverse da quelle che ha insegnate il Figliuolo; ma quelle stesse le suggerisce alle anime: « omnia quaecumque dixero vobis », come dice il sacro testo. Poichè anche Cristo aveva insegnate tutte le cose, come detto abbiamo (3). [...OMISSIS...] Perocchè anche nella percezione del Figliuolo tutte le notizie si comprendono; è anche con questa percezione che si percepisce il TUTTO, e il medesimo TUTTO, perchè il TUTTO è un solo, e non può essere due. Tanto dunque il Verbo, come lo Spirito insegnano alle anime in cui risiedono tutte le cose , ma le insegnano in diverso modo . E qual è questo diverso modo? Risulta dalle parole di Cristo: il Verbo le insegna in un modo diretto , le dà all' intelletto la prima volta; lo Spirito le insegna in un modo riflesso , fa sì che la nostra attenzione volontaria si porti di nuovo, aderendo, a quelle verità che sono già in noi: il Verbo insegna quindi la verità che nella cognizione diretta e percezione consiste (4); lo Spirito illustra quelle verità, il che è l' operazione della riflessione e massime di una riflessione innamorata della verità, su cui si porta e ripiega (5). Tutto questo dice Cristo con quelle parole, « che lo Spirito insegnerà tutte le cose« ». Ma in che modo? Suggerendo tutte quelle cose che io stesso vi avrò dette: « Suggeret vobis omnia quaecumque dixero vobis ». Questo suggerire alla mente le verità, per la mente non già nuove, ma in lei esistenti, è un eccitare la mente a piegarsi sopra di sè, eccitarla alla riflessione, a porre una nuova attenzione a ciò che ha già in sè prima ricevuto. Questo operare dello Spirito, mediante la riflessione sul Verbo percepito dall' uomo santo direttamente, viene espresso ancora dalle seguenti parole di Gesù Cristo: « Io ho ancora molte cose da dirvi; ma non le potete sostenere ora« ». Fin qui dice Cristo che ha molte cose da dire agli Apostoli in separato, perchè in complesso prese, gliele aveva dette tutte, contenendosi tutte nella luce loro data, nel Verbo: « tutte le cose, che ho udito dal Padre mio, le feci note a voi« ». E ora è la riflessione quella che trae le conseguenze implicitamente contenute in un principio, quella che analizza le idee e ne osserva, a parte a parte, gli elementi, di che esse si compongono, che sono le cognizioni distinte, le cognizioni particolari (1). Ora chi insegna all' anima nostra a penetrare colla riflessione nel Verbo percepito? a vedere in esso le verità distinte? La potenza di far questo ce la dà lo Spirito Santo, che, come dice S. Paolo, scruta tutte le cose, anche le profondità di Dio (2). E questo parimente viene a dir Cristo, soggiungendo, dopo aver detto: « Ho ancora molte cose a dirvi« », queste altre parole: «« Ma quando verrà quello Spirito di verità egli vi insegnerà ogni verità« »: ve la insegnerà in un modo riflesso. Perocchè insegnerà forse qualche cosa che non sia in me? Darà qualche notizia che non sia contenuta come in suo principio in quello che vi ho detto? Non già: « conciossiachè non parlerà da sè stesso (cioè cose nuove), ma parlerà tutto quello che udirà » (cioè quello che udirà da me, essendo io che dò la verità, la verità stessa sussistente), «e le cose avvenire annunzierà a voi« ». E sèguita ancora nello stesso sentimento: « Egli illustrerà me, perchè riceverà del mio, e lo annunzierà a voi« (3) ». Lo Spirito Santo adunque non fa che illustrare in noi la percezione del Figliuolo, renderla questa percezione possente, luminosa, feconda di tutte le verità che nel suo seno contiene e porta. Sapere non è il medesimo che conoscere di sapere: si sanno molte cose, e non si sa di saperle. Questo è un fatto che io credo di avere stabilito indubitatamente nella Ideologia. Or che è sapere di sapere? non è altro appunto che riflettere sopra quello che si sa. Ora la percezione del Verbo fa sapere il Verbo; ma la percezione dello Spirito Santo fa sapere che si sa il Verbo, fa che noi ci accorgiamo di saperlo, e ne tiriamo di quella nostra cognizione appunto molte conseguenze. Questo è quello che insegna S. Giovanni dove afferma: [...OMISSIS...] . Altro adunque è il tenerci noi in Cristo e Cristo in noi, ed altro è il conoscerlo : il tenerci in Cristo è aver Cristo, ma il conoscerlo si fa coll' aver lo Spirito Santo: per aver Cristo basta una percezione , per conoscere che lo percepiamo è necessaria una riflessione . Lo stesso sentimento espresse Cristo quando, parlando del giorno in cui i suoi discepoli dovevano ricevere lo Spirito Santo, dice così: « In quel giorno CONOSCERETE che io sono nel Padre mio, e voi in me, e io in voi« (2) ». Non dice già che in quel giorno essi saranno in lui ed egli in essi, no, perchè già sono: ma dice, che il conosceranno . E che è l' essere in Cristo e Cristo in essi? L' avere la percezione di Cristo, il sentimento, la visione di Cristo. Che l' avessero già questa percezione e visione, si raccoglie ancora più chiaramente dalle parole di Cristo che precedono le surriferite, perchè aveva detto: « Ancora un poco, e il mondo già non mi vede: voi poi mi vedete, perchè io vivo e voi vivete« ». Lo vedevano adunque, lo percepivano anche sottratto dai loro occhi corporei, lo vedevano con degli occhi che il mondo non aveva. E a mal grado di ciò, soggiunge, che però solamente in quel giorno, nel quale riceverebbero lo Spirito Santo, conoscerebbero di vederlo, conoscerebbero l' intima unione fra lui ed essi, e come egli era in essi, ed essi in lui. Qual più manifesto luogo per mostrare che l' illustrazione dello Spirito Santo si fa per via di riflessione? E innumerevoli sono i passi del Vangelo di S. Giovanni che confermano la stessa dottrina, appunto quel di San Filippo. Egli dimanda che gli mostri il Padre, perchè non sa di vederlo nel Figliuolo. E Cristo risponde appunto chiedendogli come possa fare questa interrogazione, se vede da tanto tempo il Figliuolo? Poco prima [aveva detto] a' suoi discepoli, ch' egli andava a preparare loro il luogo; e quindi disse ancora positivamente che essi sapevano dove egli andava e sapevano la via d' andarvi (3). E questa via che sapevano i suoi discepoli, era egli stesso, come spiega tosto appresso: il Padre che era in lui, era il luogo dove andava, perchè egli aveva in sè il Padre e tutto il Paradiso, la felicità che risulta dalla verità e dalla vita: « Io, disse, sono la via, la verità, e la vita« ». E sebbene Cristo così positivamente dica, che i discepoli suoi sapevano la via e il luogo ove andava, tuttavia esce uno di loro, cioè Tommaso, che facendosi tutto nuovo di ciò come se nulla ne sapesse, gli dimanda: « Signore non sappiamo dove tu vai: e come possiamo sapere la strada?« » come tu dì. Interrogazione che mostra chiaro, come Tommaso ignorasse di sapere tuttavia quella strada e quel luogo, ignorava di conoscere Cristo Via, e il Padre a cui andava; ciò che pur Cristo avea detto esser da essi conosciuto. Ma sebbene lo conoscessero, tuttavia Cristo risponde: [...OMISSIS...] . Dice che l' hanno già veduto e tuttavia promette che lo conosceranno : che è ciò se non un dir loro, che vi ha dunque un modo nuovo di conoscerlo, cioè per cognizione riflessa, per la quale sapranno anche di conoscere ciò che sanno? (1). Dichiarato così in che modo lo Spirito insegni ogni verità, coll' illuminare cioè in noi, mediante il movimento della volontaria riflessione, l' ogni verità che è in noi precedentemente; passiamo all' altro carattere della percezione dello Spirito, ch' ella cioè sia un sentimento pel quale noi sentiamo non già una tenue idea, ma una verace sussistenza . Che, col sentimento dello Spirito Santo, noi non sentiamo puramente l' essere ideale, ma qualche cosa di reale, di sussistente, si rileva per conseguenza dalla totalità di quel sentimento. Poichè se quel sentimento è totale, cioè si sente in esso il tutto, se ci sazia perfettamente, non può essere che sostanziale la sua forma. E ora, che ci sazii interamente, è insegnato nel discorso tenuto da Cristo colla donna di Samaria, nel quale paragona lo Spirito Santo a dell' acqua viva che estingue a pieno la sete dell' uman cuore: [...OMISSIS...] . Quella parola, dono , è caratteristica nella Scrittura e propria dello Spirito Santo, come già osservarono i Padri. Or ecco come descrive quell' acqua, ch' egli voleva dare alla donna, desiderandola essa e chiedendola: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole si noti quella del FONTE: altro è l' acqua, altro è il fonte: Cristo dà l' acqua, e questa diverrà poi nell' anima un fonte. L' acqua che dà Cristo, sono quelli che abbiamo nominati più sopra doni o grazie dello Spirito, ma il fonte è lo Spirito Santo; quelli sono un avviamento, un arra di questo; questo è il compimento di quelli. Il fonte è perenne e stabile, può attingersi acqua quanta sen vuole: il che esprime quella potenziale totalità di notizie e di grazie che nella persona dello Spirito Santo si comprendono e che si attingono colla buona volontà dell' uomo successivamente senza fine, cioè senza che mai si dissecchi il fonte. E dice: « Un fonte saliente alla vita eterna« ». Viene quell' acqua dall' alto e in alto ritorna: quell' alto è il Padre stesso onde quella fiumana di acqua derivasi; quell' alto è il luogo, di cui disse: « Vado a prepararvi il luogo« »; appunto allora quando andava al cielo per mandare di lassù lo Spirito. E questa abbondanza e quasi direi ridondanza di acqua viva, cioè di acqua che dà la vita e spegne la sete, propria della persona del Santo Spirito, è indicata più volte da Cristo, come là dove dice: [...OMISSIS...] . Dopo le quali parole, l' Evangelista soggiunge: [...OMISSIS...] . E medesimamente in più luoghi si dà allo Spirito questa proprietà di saziare pienamente, come là dove si distingue il « gaudio« » dal «« gaudio pieno« (2) », si distingue la « vita« » dalla «« vita più abbondante« (3) », si distingue la « chiarezza« » ricevuta dal Figlio, dalla «« chiarezza infinita e piena« (4) »; e finalmente, dopo aver Cristo consumata l' opera datagli dal Padre e santificati i suoi, ancor prega per essi, ancor dimanda al Padre che li santifichi nella verità, e desidera che siano essi pure là ove è egli insieme con lui (5). Questo compimento sovrabbondante dell' opera è il carattere appunto, a cui si distingue l' opera dello Spirito Santo. Un' altra prova che la percezione dello Spirito è di cosa reale sussistente, si trae da quel vero posto da noi già innanzi, che l' azione ideale non ha virtù di muovere gran fatto la volontà nostra, ma sì bene solo l' azione in noi di cosa reale (6). Ora quali sono gli effetti della percezione dello Spirito? Efficacissimi: il fatto l' ha mostrato, e la promessa di Cristo si è avverata. Egli aveva detto, prima di salire al cielo, in accomiatandosi dagli Apostoli: [...OMISSIS...] . Ecco il proprio effetto dello Spirito personalmente ricevuto, la virtù, cioè la fortezza, il coraggio, il zelo di testificare il nome di Cristo anco a fronte di mille pericoli, e della morte e de' supplizi: [...OMISSIS...] . A chi darà testimonianza di Cristo lo Spirito Santo? Agli Apostoli stessi che l' avranno ricevuto. Ora il dare testimonianza è proprio della persona , nè alle cose con proprietà di parlare conviene. Il terzo argomento adunque a provare, che nella percezione dello Spirito noi sentiamo una cosa reale e sussistente, è l' attribuirsi [a lui] dalle divine Scritture degli atti personali , che non alle idee , ma alle sussistenze sole possono convenire: come a ragion d' esempio, quando S. Paolo dice che lo Spirito domanda per noi con gemiti inenarrabili (3); che egli grida nel nostro cuore: Abba, Padre (4); che egli scruta le cose profonde di Dio (5); che egli diffonde in noi la carità e fa altre simili operazioni. Noi sentiamo in tutti questi passi supporsi sempre lo Spirito in noi come una persona sussistente: e anzi di più un principio operante nella nostra stessa personalità, sicchè gli effetti che in noi cagiona, a lui stesso si attribuiscono, appunto per essere fatti noi con lui una cosa sola, essendo egli la forma nostra e noi da lui informati. Ciò che viene espresso in questo mirabile modo di esprimersi che usa Cristo: « Chi è nato dalla carne, è carne; e chi è nato dallo spirito, è spirito« (6) ». Ciò che viene a dire, che chi ha la volontà attaccata alla carne, riceve da essa un istinto carnale, il principio attivo che costituisce la personalità viene ingenerato appunto in lui dalla carne: là dove la volontà, ove opera lo Spirito Santo e a cui essa consente, ha un altro principio attivo più elevato, eccitato in lei dall' azione del Santo Spirito e che s' identifica col principio operante dello Spirito stesso; ed è questa la nuova personalità acquistata dall' uomo santo per la santificazione dallo Spirito comunicatagli. Finalmente ai passi della sacra Scrittura aggiungerò qualche luogo de' Padri, ove si vegga esser pur questo loro sentimento che la venuta personale dello Spirito Santo fosse stata riserbata da Cristo a farsi il giorno della Pentecoste e non prima. S. Agostino così parlò in un sermone da lui tenuto al popolo nella seconda festa di Pentecoste: [...OMISSIS...] . Nulla di più chiaro di questo passo che non ha bisogno di commenti a provare la nostra proposizione. Osserverò bensì come S. Agostino nota con grande cura la PERMANENZA dello Spirito Santo, il che conferma e ribadisce quello che noi abbiamo più sopra tolto a provare, cioè esser carattere distintivo della grazia del nuovo Testamento la PERMANENZA della percezione divina, sia del Verbo, sia dello Spirito (2). Or qui S. Agostino assai acutamente aggiunge l' osservazione, che questa PERMANENZA non è propria dei doni e grazie particolari che anche attuali si posson chiamare; ma si è propria della congiunzione nostra colla persona divina, la quale è grazia universale e abituale . I doni poi e le grazie particolari e attuali stanno bensì insieme colla persona (3); ma l' unione della persona rimane costante, le grazie e doni passano e vengono in maggiore o minore abbondanza. Indi si spiega perchè, sebbene Cristo non cessasse mai dall' essere unito co' suoi discepoli, neppure nel tempo in cui si operava la sua passione e la sua morte; tuttavia descriva quel tempo, come tempo di grave pericolo e tentazione pe' suoi. Il che era per la diminuzione de' doni e grazie che, togliendosi la sua presenza divina, sebbene solo esteriormente, ne proveniva agli Apostoli; e per la permissione data all' inimico in quell' ora di operare più potentemente e liberamente. Quindi la predizione di Cristo sulla caduta di Pietro e fuga de' discepoli; quindi le parole: « Questa è l' ora vostra, e la podestà delle tenebre« (1) ». Le quali tenebre indicano anco la sottrazione de' lumi, che in quel tempo facevasi all' anime buone; e quindi finalmente l' orazione, onde raccomandò al Padre i discepoli per quel tempo che egli li abbandonava andando alla passione e morte: [...OMISSIS...] . Le divine Scritture dicono manifestamente che il Figliuolo è quegli che fa conoscere agli uomini il Padre: [...OMISSIS...] . E in altro luogo Cristo, rispondendo a Tommaso che gli domandò dove egli andasse, avendo prima Cristo favellato d' un andar suo in certo luogo misterioso, così gli dice: [...OMISSIS...] . L' operazione del Figliuolo nelle anime è di far loro conoscere Iddio Padre; sicchè sul fine della sua vita Cristo disse all' eterno Genitore: [...OMISSIS...] . Ma chi trae al Figliuolo? Chi fa sì che noi percepiamo quella verità sussistente nella quale si vede il Padre? Chi ci dà, chi porge alle nostre menti questa verità divina? Questa è l' operazione che fa nelle anime il Padre stesso. Nel Vangelo è di frequente data questa dottrina. Eccone i luoghi principali. [...OMISSIS...] E poco appresso, togliendo a spiegare quel detto de' Profeti, che saranno tutti capaci di venir ammaestrati da Dio medesimo, così nel commenta: [...OMISSIS...] . E nello stesso capitolo dice l' Evangelista che, sapendo Cristo che alcuni non credevano alle sue parole e conoscendoli disse: [...OMISSIS...] . Cristo diceva parimenti, che i suoi discepoli era stato il Padre, che glieli aveva dati: [...OMISSIS...] . Dice ancora che è opera del Padre la fede (6): ch' egli non faceva niente da sè stesso (7); che egli parlava le cose che udiva dal Padre (.); che la sua dottrina non era sua ma di chi l' aveva mandato (9); che il vero pane celeste, cioè egli stesso, è dato agli uomini dal Padre (10); in assaissimi luoghi finalmente dice di essere stato mandato dal Padre. Tuttavia il Padre a questo mondo non è visibile dall' anima per sè stesso, ma solo pel Figliuolo: e in questo non vedersi del Padre propriamente consiste la fede. A questo mondo non si vede il Padre, il Principio della Trinità immediatamente, ma si prova però il suo agire in noi e si crede ciò che del Padre ha rivelato il Figliuolo: la gloria futura consisterà nel vedere immediatamente e svelatamente il Padre. Perciò al Padre si attribuisce da Cristo la proprietà dell' essere nei cieli : e volendo descrivere la gloria celeste degli angeli, egli dice appunto così: « I loro Angeli veggono sempre la faccia del Padre mio che è ne' cieli« (11) »: additando questo come la nota caratteristica della visione beatifica; siccome pure allorquando vuole indicare che egli è comprensore e gode della visione beatifica, usa dire, che vede il Padre (1). Qui ancora è la ragione perchè Cristo, dopo aver detto che chi manterrà il suo sermone, sarà amato dal Padre, non soggiunge che il Padre verrà a lui, ma che verranno insieme: « ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus »; appunto perchè non il Padre in sè, ma il Padre viene in noi nel suo Figliuolo. Quindi poco innanzi aveva manifestato lo stesso sentimento in altre parole, dicendo: « Chi ama me, è amato dal Padre mio: e io l' amerò e gli manifesterò me stesso« ». Invece di dire, che gli si manifesterà il Padre, o che verrà col Padre, dice, che gli manifesterà sè stesso: il che era quanto dire che gli manifesterà anche il Padre che si vede in lui. Per la stessa ragione ancora non dice, che egli esaudirà le preghiere de' suoi discepoli semplicemente acciocchè il Padre suo sia glorificato, ma ci aggiunge il modo di questa glorificazione, cioè nel Figliuolo: [...OMISSIS...] . Da tutte queste parole del Vangelo risulta, 1 che il Padre è quello che manda il Verbo nelle anime, le quali nel Verbo conoscono il Padre; 2 che il Padre tira le anime al Verbo. Queste due cose rientrano nello stesso: il Verbo è la specie, la conoscibilità di Dio, per così dire, la [sua] luce. Nel ricevere noi questa specie, questa luce divina che illumina il nostro spirito, noi siamo passivi, noi la riceviamo, perchè una potenza occulta, irresistibile, infinita, ce la presenta, egli ce l' attacca, per così dire, allo spirito. Questa passività nostra e in conseguenza questa potenza infinita che mette nelle anime nostre la luce, il Verbo, noi la sentiamo; e il sentimento di questa potenza occulta è il sentimento del Padre. Dopo però che noi abbiamo questa luce, e dopo che per la rivelazione esterna noi sappiamo che questa luce procede dal Principio che la manda, e prestiam fede a questo; allora noi veggiamo nel Verbo il Padre, cel veggiamo perchè la rivelazione esterna ci ha detto esservi, e perchè il sentimento interiore ci dice altro essere la luce, e altro la forza onde cominciò a esserci presente la luce. E veramente, nell' analisi di qualunque sensazione si distingue la sensazione dalla forza o causa che l' ha in noi prodotta; e per la sensazione è che si conosce questa forza, sebbene questa forza sia stata quella che ha prodotto la sensazione. La forza dunque, causa delle sensazioni, è anteriore alle sensazioni, nell' ordine delle realtà; ma nell' ordine delle idee, o percezioni nostre, la sensazione precede la cognizione della forza che l' ha prodotta, andando noi col pensiero dall' effetto alla causa. Ciò che dico delle sensazioni, deve applicarsi a tutte le specie intellettive, idee e percezioni: solamente con questa differenza, che le sensazioni non sono che modificazioni di noi stessi, e quindi non hanno nulla in sè di reale e oggettivo, mentre la specie, o percezione intellettiva, è oggettiva essenzialmente, e oltre il rendere noi passivi, è anche in sè qualche cosa di indipendente al tutto da noi, sui quali ella opera. Egli è dunque evidente che, se è vero che il Verbo entra nelle anime nostre, vi opera, vi produce un deiforme sentimento; conviene che per lui veniamo anche in cognizione di quel principio che affigge in noi il Verbo e che [deve] esser realmente diverso dal Verbo stesso: si vede in questo che la specie, come specie, è diversa dalla potenza di agire, sebbene in quella si trovi poi anche la forza, e in questa anche la specie. Il Verbo dunque è il principio della conoscibilità del Padre: ed è questo che dicono quelle parole con le quali Cristo, interrogato chi egli era disse: « Il Principio che a voi parlo« ». Non disse solamente il Principio ma il Principio parlante ; per indicare appunto, che egli è il Principio di ogni cognizione e che qualsiasi cosa sappia l' uomo dal Padre, non può saperla che per lui (1). Le cose dette eccitano desiderio di sapere più avanti in una materia sì recondita e alta: nella quale però nulla è più da raccomandarsi che la sobrietà del sapere, la quale consiste nel non presumere di investigare ciò che non si può. Checchè però ci sia dato da Dio di poter conoscere in tale argomento, è cosa da averla come un tesoro; giacchè la minima parte di cognizione, come dice l' Angelico, che aver si possa intorno a cose sì degne e alte, come le divine, è più desiderabile di ogni altra certissima cognizione che si abbia delle cose inferiori (2). Mettiamoci adunque più addentro nella materia, rivolgendo però il discorso, più che ad altro, a dare tale chiarezza alle cose dette, per la quale apparisca assai manifesto quanto ciò che abbiamo detto sia conforme alla cattolica verità (3). In prima dunque è da considerarsi che non parliamo di una manifestazione del Padre per segni e figure esterne, nel qual modo non è dubbio essersi lui manifestato più volte agli uomini: ma parliamo di quella rivelazione interiore che l' augusta Trinità fa di sè nelle anime sante per la grazia, benchè ad altre più e ad altre meno: manifestazione che abbiamo chiamata deitriniforme , perchè porta in noi un sentimento triplice e di tal modo che in ciascuno qualsivoglia dei tre modi di questo sentimento noi abbiamo un sentimento tale, in cui non manca nulla, un sentimento onde siamo consci di sentire tale sussistenza, ove nulla manca e che è tutto l' essere , è Dio. Ciò posto, egli è manifesto che si vuol distinguere il modo di questo sentimento, che chiameremo il sentimento del TUTTO, dallo stesso TUTTO che in ciascun modo egualmente si sente. Questi modi di sentire corrispondono ai modi diversi onde il TUTTO sussiste; e sussistendo il tutto in tre modi, cioè come principio conoscente e amante (Padre, generante), come conoscibile (Figlio generato), e come amabile (Spirito, spirato), in tre modi pure si sente. Ora ciò che si dice si è, che noi non possiamo ricevere il tutto cognosibile , che è il medesimo che dire l' essere essenzialmente conoscibile, il Verbo, se non nella sua relazione col principio , da cui procede; perocchè la conoscibilità di una cosa suppone e chiama la mente che la conosce. Laonde col solo vedere la conoscibilità dell' essere, questa relazione, noi intendiamo che aver ci dee il principio da cui provenga: e questo è il Padre. Se fosse possibile che noi percepissimo l' essere in quanto è conoscibile , senza la sua relazione necessaria coll' essere quale conoscente , noi allora non vedremmo il Figliuolo, perchè il Figliuolo è questa relazione appunto che ha l' essere conoscibile, la relazione cioè intrinseca di avere chi conoscendolo, il rende conoscibile, ossia lo genera. Se all' incontro noi percepiamo questa relazione, egli è manifesto che in essa veggiamo anche la relazione della Paternità che è quella del generare , cioè del conoscere in modo che l' oggetto cognito sussista come cognito; siccome abbiam detto più sopra. Questo è ciò che dicono i Padri. [...OMISSIS...] E quando i singoli il conoscono e percepiscono? Non prima, secondo il santo Dottore, che essi abbiano conosciuto e percepito che egli è da un altro. Checchè abbiano conosciuto prima di ciò non si può dire che abbiano ancora conosciuto il Verbo, eziandio chè abbiano conosciuto cosa che si approprii al Verbo: poichè il Verbo è una relazione, la relazione di essere generato dal Padre. Ecco le parole del santo Vescovo: [...OMISSIS...] . Quindi quando il Verbo è nelle anime, egli vi è, nè vi può essere altramente, che come esistente dal Padre: onde è necessario che il Padre lo mandi nelle menti; e se si dice che egli viene, egli viene, ma come mandato, e però non si può conoscerlo senza che in lui si conosca la necessità del principio da cui è, cioè il Padre. Quindi i Padri della Chiesa dicono del Verbo, che è mandato nelle anime sante, mentre del Padre non si legge mai che sia mandato, perchè egli anzi non può essere ricevuto nelle nostre menti che tale come è, cioè come principio mandante. [...OMISSIS...] E` dunque necessario che il Verbo venga nelle anime nostre come mandato , perchè possiamo dire d' averlo in noi, e altresì fu necessario che come mandato s' incarnasse. E quindi è che Cristo ha potuto applicare alla sua incarnazione quelle parole: « Io sono uscito dal Padre e venni nel mondo« (3): e quelle altre:« Io venni in nome del Padre mio« (4) »; cioè egli ha potuto esprimere colle stesse espressioni l' eterna sua generazione e la sua generazione nel tempo , perchè egli apparì nel tempo come mandato dal Padre: onde l' incarnazione non fu che un comunicarsi alla umanità come generato dal Padre (5); fu, quasi direbbesi, un generarsi o, per dir meglio, un apparir generato nella umanità. Si dice dunque mandato Cristo, perchè viene nell' umanità, opera e si dà a conoscere nella sua qualità di eternamente mandato , che equivale al dirsi Figlio di Dio (6). E conoscendosi come mandato e come tale ricevendosi nelle anime nostre, in lui necessariamente si sente il mandante che opera nelle anime pel suo Verbo. Vero che in questa vita non ci viene svelato il modo di questa missione o generazione; e quindi il Padre nol veggiamo propriamente come generante , e come tale solo il crediamo , perchè ci è rivelato dalle parole del Figlio, e perchè nel generato il sentiamo. E di qui è che la santissima Triade rimane il gran mistero della fede, perchè il principio di lei è occulto in questa vita, e quindi non si può intendere il modo della generazione e della spirazione, che solo spiegherebbe il nodo del mistero. Gesù Cristo disse costantemente che le sue parole avrebbero ricevuto lume e splendore dalla venuta dello Spirito Santo; che questo divino Spirito avrebbe reso nelle anime testimonianza di lui, e avrebbe fatto via più conoscere lui stesso; venendo, la divina sua persona sarebbe stata dallo Spirito chiarificata: cioè le anime, nelle quali abita Cristo, come dice S. Paolo (1), ricevendo lo Spirito, avrebbero potuto percepire il Verbo in una luce più viva, fornito di una gloria più manifesta; visione che avrebbe eccitati e mossi i suoi discepoli a far conoscere Cristo ancora agli altri e dare di lui al mondo tutto testimonianza. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Ed egli è per questo che il divino Spirito si chiama Spirito della verità, che è il medesimo come dire,« Spirito del Verbo divino«, perchè emana dal Verbo come calore da luce. E` dunque l' impressione dello Spirito Santo nelle anime un cotale affetto di amore, una cotale gioia della verità che si diffonde nell' anima, pel quale affetto l' anima contempla e imbeve e s' innebria della luce della verità; e questo amoroso sentimento egli stesso è pieno di verità, e solo esso sazia e empisce il bisogno dell' anima intelligente. Per questo è che lo Spirito divino dà chiarezza nelle anime al Verbo divino. Indi in quella sublime orazione che fece Cristo nel cenacolo prima della sua passione, con quelle parole: « Padre, viene l' ora, chiarifica il tuo Figliuolo, acciocchè il tuo Figliuolo chiarifichi te« (1) »: egli domandava al Padre la venuta dello Spirito Santo e adempiva la promessa fatta prima agli Apostoli, quando aveva loro detto: [...OMISSIS...] . Di che si vede quale ruota, a così dire, di perpetuo movimento luminoso e gaudioso si giri nelle anime beate di quei santi che hanno in sè stessi la Trinità. Poichè l' amore è sempre in attività dentro essi a contemplare la sapienza, nella quale si vede il principio di lei come infinito e necessario. Alla vista del quale l' anima si congiunge più ed è tratta alla sapienza sussistente che emana di sè un amore infinito; il quale torna a riflettersi in quella sapienza che è lume che mostra l' eterno primordiale principio altissimo, il quale operando perpetua questa dilettosa vicenda e quasi ondulazione di recondito e secretissimo godimento. Conciossiachè la fede negativa della Trinità che si ha per la rivelazione esterna, non è ancora l' immensa azione interiore e il positivo sentimento delle persone divine. Ma allora quando lo Spirito da principio operando dà l' efficacia a quelle idee negative che già in essa erano [per la rivelazione esterna], un tutto veramente positivo si percepisce, e tosto già comincia quella perpetua azione e circolare rivolgimento dei[trini]forme che è una cotale partecipazione ineffabile della vita di Dio (3). Laonde, come dice S. Cirillo di Alessandria, quella pienezza che emana dal Padre e dal Figliuolo pel solo Spirito Santo sta in noi: non già quasi che egli imprimesse, a maniera di ministro, cose che altrui e non a sè appartengono, e facendo in noi di ministro le veci; ma perchè egli porta nella sua propria natura la natura propria degli altri due (1). Abbiamo fin qui distinto la rivelazione esteriore e la rivelazione interiore ; quella comune a tutti gli uomini perchè non richiede ad essere percepita se non le potenze naturali dello spirito umano, questa propria di quelli a cui Iddio comunica la grazia che trasporta l' uomo in uno stato soprannaturale e l' accresce di nuove potenze; quella tutta ideale, tutta composta di idee negative , questa effetto di una reale azione sull' uomo, composta di sentimenti, di percezioni; quella perciò tale che fa conoscere Iddio per certe relazioni colle cose naturalmente cognite, questa che fa conoscere Iddio per esperienza, immediatamente, per una comunicazione della sua propria sostanza fatta a noi. Or questa rivelazione interiore è tutta composta di sentimenti e percezioni: ma siccome noi abbiamo la facoltà di riflettere su tutti i sentimenti che noi proviamo, così possiamo anco riflettere sopra di lei ed osservare, almeno fino a un certo segno, ciò che avviene in noi in quella soprannaturale comunicazione, massime nel tempo delle grazie speciali e attuali, e finalmente mettere in parole queste osservazioni e ordinarle in corpo di scienza. Or questa è la Teologia mistica che dicono dottrinale : mentre la stessa comunicazione con Dio la dicono sperimentale , e anch' essa veramente si può dire scienza, perchè Iddio è un oggetto per sè conoscibile, e quindi, a differenza dell' altre cose, il sentir lui, come abbiam detto, è conoscerlo, e anzi non si dà di lui altro vero conoscerlo che pure il sentirlo (2). Di qui si vede sufficientemente la differenza fra la Teologia rivelata (3) o comune, e la teologia mistica o segreta; che sono come le due parti di quella cognizione che possono avere gli uomini di Dio in questa vita (4). Le parole non si intendono se non si sa che cosa significhino. Per intendere le parole che udiamo proferire, conviene dunque: 1 aver l' idea della cosa significata dalla parola; e 2 sapere altresì che questa parola fu istituita a significare quella idea. Or come abbiamo noi le idee delle cose? Noi non conosciamo propriamente le cose, cioè non ne abbiamo le idee positive, se non mediante le percezioni delle medesime, cioè mediante quei sentimenti che esse hanno cagionato in noi (1). Ora il sentimento della grazia, il sentimento deiforme è tal sentimento che è al tutto distinto da ogni altro, e tanto distinto, quanto è distinto Iddio da tutte le cose create. Dunque chi non ha questo sentimento, questa percezione, non può avere l' idea corrispondente: dunque quand' anco fossero trovate e istituite delle parole a significare quei sentimenti e percezioni, queste parole non avrebbero alcun valore positivo per tutti quelli che non avessero ricevuto in sè stessi e provati quei sentimenti. Con questo si spiega quello che dice S. Paolo d' aver udito (nel suo celebre ratto) delle arcane parole che non lice all' uomo di proferire (2): il che vuol dire delle parole che l' uomo non può usare, perchè sarebbero inintelligibili, giacchè gli uomini non hanno le idee corrispondenti alle medesime, perchè non provarono quei sentimenti a cui quelle idee si riferiscono; giacchè come il medesimo Apostolo dice, [...OMISSIS...] . Con questo medesimo parimente è chiaro, perchè delle stesse cose divine in tanto altro modo giudica il mondo e il cristiano, a segno tale che il mondo e il cristiano usano a giudicare due criteri diversi e opposti, e ognuno ha la sua propria sapienza, e l' una non intende l' altra; e per così dire si sono presenti, e non si veggono: quindi la sapienza del mondo giudica insania la sapienza del cristiano, la sapienza del cristiano stima manifestamente pazzia la sapienza del mondo. Ciò nasce perchè il mondo e l' uomo cristiano delle stesse cose non han già gli stessi sentimenti, le stesse percezioni: giacchè le cose divine si comunicano ineffabilmente e segretamente all' anima dell' uomo sollevato all' ordine soprannaturale e vi diffonde un sentimento nuovo, maraviglioso, del quale l' uomo del mondo è al tutto privo, non eccedendo il sentimento suo i confini della natura, e però non avendo di Dio e delle cose divine se non un' idea negativa: di che è quella sentenza dell' Apostolo, che « l' uomo animale non percepisce quelle cose che sono dello Spirito« (2) ». Colla dottrina medesima parimene s' intendono certi luoghi misteriosi delle divine scritture; come quello dove si legge: « Al vincitore darò la manna nascosta, e gli darò una bianca pietruzza e sovr' essa scritto un nome nuovo, che nessuno sa se non quegli che riceve la pietruzza« (1) ». Ora quella manna nascosta è appunto il dolce sentimento della grazia, nascosto a tutti quelli che nol provano: e il nome nuovo indica quella nuova natura che ha ricevuto l' uomo passando dall' ordine naturale al soprannaturale (2): e il non saper leggere questo nome altri ch' egli solo, è appunto quell' essere egli solo conscio di ciò che passa nel più riposto segreto del suo spirito, dove nessun occhio creato può mettersi a spiare ciò che ivi succeda, ma è perfettamente impenetrabile fuorchè a Dio solo, perchè è l' essenza intellettiva dell' uomo (3), sulla quale non può agire nessuna creata sostanza (4). Indi è che i Santi, come non s' intendono se non fra loro e hanno una lor propria lingua, così formano fra loro altresì una particolare società secondo la dottrina della Scrittura. L' Apostolo Paolo di questa società, che talora chiama una Società di spirito (5), dice così: [...OMISSIS...] . E S. Giovanni la descrive con quelle parole: [...OMISSIS...] . Ecco qua, lo stesso vincolo onde gli uomini si associano col Padre e col Verbo suo, è quello onde gli uomini si associano anco fra loro, una stessa carità li lega a Dio e fra loro, perchè appunto l' associarsi e l' essere fra loro legati non è altro che il trovarsi tutti simili in questo appunto, cioè nell' essere con Dio consociati, Dio essendo la forma e quindi medesimo il semplicissimo nodo a tutti comune, in che si semplificano ed unificano. Del quale effetto il principio è la fede; lo insinua S. Giovanni nelle riferite parole, con le quali promette di predicar Cristo, appunto perchè indi ricevendo la fede, possano avere insieme con lui quella segreta e tutta spirituale società e comunicazione che hanno insieme i soli credenti (1). Quindi s' intende ragione, per la quale i Padri insegnano che perfetto teologo non può esser mai di quelli che non congiungono allo studio la santità della vita e l' esperienza de' veri eterni: perocchè, privo di questa, l' uomo non potrebbe intendere tutta quella parte di cui parliamo, di segreta e sublimissima teologia. Un' altra scienza si potrà sapere senza la bontà della vita; quella delle cose soprannaturali e divine, no: perocchè di questa una grande e la miglior parte nasce dallo sperimento che l' uomo ha di Dio, il quale non comunica sè stesso a cui non fa degno (2). La Teologia è dunque dottrina comune e dottrina segreta. Indi è che le stesse parole delle due Teologie hanno una significazione infinitamente diversa, non opposta però, ma nell' una più profonda che nell' altra; cioè meno profonda significazione hanno intese da quelli che non ne ricevono che il suono esteriore e il significato negativo, e più immensamente, intese da quelli che ne sentono in sè e ne sperimentano l' interior virtù e valore. I primi hanno una cognizione naturale, il cui principio è l' idea : i secondi hanno una cognizione soprannaturale, il cui principio è il Verbo di Dio, che si dà loro a percepire mediante una sua reale azione che fa in essi. Una parola esprime una sola idea , ma se unitamente a questa parola havvi la percezione della cosa, significata, questa percezione è tale che non l' avrebbero potuta dare nè pure un milione di parole. Imperocchè che avvicinamento è fra le parole e le cose? Che possono far le parole se non risvegliare le percezioni avute delle cose? Ma chi è privo di queste percezioni, tutte le parole son vane, o certo non dànno che un assai freddo e tenue significato. Chi non avesse mai avuta la senzazione della luce, per aver gli occhi velati, potrebbe assai più facilmente conoscere ciò che fosse la luce in un istante col trargli da sopra gli occhi il velo, che non facesse in molti anni, parlandogli continuamente della luce, e tenendogli tuttavia bendati gli occhi. Così un atto istantaneo di esperienza vale più di un secolo di parole, di segni, e di imagini che non abbiano nessuna vera similitudine colla cosa che vogliono esprimere. La parola« Dio«, per esempio, racchiude ella sola e vale assai di più per un uomo, a cui Dio siasi degnato di palesarsi interiormente, che non delle biblioteche intere di volumi, cui a leggere non bastino le vite di molti uomini, per chi non ha mai avuto interna comunicazione e percezione delle divine cose. Questi nella lettura di tanti volumi raccorrà sì un gran numero di idee, ma nessuna di esse è Dio, in nessuna ha percepito la divina natura, tutte queste idee non gli dànno che semplici relazioni, insufficienti affatto a prestare un vero conoscimento dell' Ente Supremo: egli crederà di sapere grandi cose intorno a Dio, perchè ha pure pronto alla mano un subisso di distinzioni sottili, un profluvio di parole, un fonte inesausto insomma di pompose e dotte disputazioni. Ma che fa tutto ciò? L' uomo idiota, a cui ha parlato Dio stesso, ne sa più di lui (2). In questo consiste la sublime semplicità del Vangelo: ella è fatta per tutti gli uomini, perchè non ha bisogno di troppe parole, nè di troppe distinzioni e studiate sottigliezze, in pochissimi detti si può raccogliere. Sì bene ha bisogno dell' esperienza che dia il vero e immediato valore a quei pochi detti; giacchè poche ed anche una sola parola intesa in questa maniera racchiude in sè più scienza e più sapienza di quella che possano raccorre tutti gli uomini che sono vivuti e che vivranno unque mai sopra la terra, insieme presi. Non è evidente che dovrebbe usare più parole e più sottigliezze, più ingegno, il cieco che volesse parlare della luce, anzi che quelli che la vede cogli occhi suoi? E tuttavia quello dopo tanto parlare nulla direbbe a proposito, o certo nulla che egli stesso intendesse del proprio discorso. Con ragione adunque dice il pio autore del libro dell' Imitazione: [...OMISSIS...] . Indi è che la filosofia puramente naturale, ove voglia mettersi a parlare come maestra delle materie soprannaturali della cristiana Teologia, suole snaturare questa dottrina coll' introdurre in essa delle sottigliezze perniciose e false, delle interminabili dispute, dei raggiri implicatissimi di parole; perocchè ella crede di conoscere, per una cotal sua presunzione, ma veramente non ha mai conosciuto, non ha mai veduto la materia, in che temerariamente pon mano, ed è veramente il cieco che giudica dei colori. Indi le eresie tante nate dal Platonismo ne' primi tre secoli della Chiesa: quelle nate dall' Aristotelismo, cominciando da Ario (2) fino a...; e l' incredulità ne' più recenti secoli, germinata dalla confusione delle idee filosofiche, prodotta dalle scuole moderne. Indi i lamenti incessanti dei Padri, fino dai primi secoli, contro la filosofia cui chiamano infettrice e interpolatrice della verità (1); perchè colla filosofia insieme entravano nelle sacre cose le questioni interminabili, la moltitudine delle insulse parole e l' affettazione di una umana e veramente puerile dottrina: e così periva la semplicità, la maestà, la pace, l' evidenza della dottrina evangelica. Perciò S. Gregorio taumaturgo diceva: [...OMISSIS...] . Il Nazianzeno parimente deplora il vedere esser sottentrate nella chiesa le fallacie sofistiche e un male augurato artificio di arte aristotelica, e altre tali cose, siccome cotali piaghe d' Egitto (3). E nel carme della sua vita egli dipinge i filosofi e le loro disputazioni, nella chiesa introdotte a gran danno della Teologia (4). Da tutto ciò finalmente apparisce la ragione del modo grave, placido e sicuro, col quale s' insegna la dottrina evangelica: l' opposto dell' insegnamento filosofico, il quale è querulo, ansioso, incerto e burrascoso. Non avviene ciò solamente perchè la dottrina di Cristo procede da una autorità infallibile: ciò basta bensì a renderla certa in sè stessa, ma non a farla credere con fermo assenso e molto meno a farla intendere. Se il Verbo stesso colla sua azione reale non operasse nelle anime, le sole parole esteriori aventi un significato negativo sarebbero sempre soggette a una intelligenza continuamente variabile, a delle interpretazioni indefinitamente diverse e di continuo rimutabili (1): per creder loro si torcerebbero a significare un senso umano e naturale: altramente non si presterebbe punto loro fede. Questo è ciò che è appresso i protestanti. Il magistero adunque della chiesa non è già formato solo dal deposito della rivelazione, ma sopra tutto è sostenuto e reso possibile dalla grazia. Questo è ciò che significano le parole di Cristo: « Io sarò con voi sino alla consumazione de' secoli« ». E quelle altre dello Spirito Santo: « E io pregherò il Padre, ed egli darà a voi un altro Paracleto, acciocchè permanga con voi in eterno« (2) ». Perocchè lo Spirito e il Verbo sono che fanno l' azione reale nell' anima e la collustrano. Al filosofo, cioè all' uomo nell' ordine naturale, non [è data] la percezione interiore di Dio: non ne ha che l' idea negativa. Supponendolo in questo stato, egli è privo di fede, egli nega dunque tutto ciò che eccede i sensi crassi o le facoltà del suo spirito: il che è quanto dire che egli cade quasi direi naturalmente nella incredulità e nella empietà. Egli è certo che se il nostro spirito non fosse mai stato collocato in questo mondo, o non avesse ricevuto le impressioni delle cose sensibili, e tuttavia ne sentisse parlare, nulla ne intenderebbe o, se ne intendesse, negherebbe fede al narratore. Non è adunque che la filosofia sia per sè stessa mala cosa. [...OMISSIS...] E` bensì da incolparsi la inclinazione dell' uomo a negar fede a ciò che non conosce; su di che dovrebbe almeno sospendere il giudizio, e non partire nelle sue sentenze da quel pregiudizio pieno di presunzione, che niente sia, o sia possibile, se non ciò che non eccede i confini del suo sapere. Questa presunzione di giudicare, ed esser pronti a rifiutare ciò che non sanno, è l' errore de' filosofi; e di questo incolpa gli uomini del secolo San Paolo, ove dice che bestemmiano quelle cose che non conoscono (1). Nè v' ha un' assoluta necessità che così avvenga, ma pure così avviene il più per l' innata malignità che è nel cuore dell' uomo a quelli i quali dànnosi tanto alle scienze naturali, che tutta la loro confidenza in quelle ripongono e credono che tutto lo scibile si acquisti pei loro studi; quando la speculazione naturale ha corte le ali nelle regioni divine, se non soccorre la soprannaturale rivelazione e manifestazione che Dio fa agli uomini di sè stesso. Quindi è che fin gli Apostoli parlarono della filosofia presso a poco come fosse un equivalente di empietà: [...OMISSIS...] . E nulladimeno S. Paolo non rinunzia già alla sapienza, ma vuole il vero sapere, quel sapere reale che nelle cose divine sta appunto, non in vane idee , ma in vere percezioni soprannaturali. Ecco qual genere di sapienza propone l' Apostolo a quei di Colosse: [...OMISSIS...] . Vuole adunque l' Apostolo non solo la sapienza, ma ogni sapienza; e tuttavia esclude la filosofia come una fallacia: vuole la pienezza, e non la vanità: vuole le cose, e non le parole. Egli viene appunto a essere quello stesso che dice il libro Dell' Imitazione le cui parole abbiamo surriferite: [...OMISSIS...] E il medesimo Apostolo aveva descritta questa cognizione e percezione reale, non dell' orecchio al di fuori, ma dell' anima al di dentro, poco innanzi al luogo citato, dicendo a quei fedeli di Colosse che li voleva istrutti [...OMISSIS...] . Ecco dov' è la pienezza dell' intendimento, ecco tutte le ricchezze, i tesori tutti della sapienza e della scienza: stanno non nelle idee semplicemente, ma nella comunicazione che fa Cristo e lo Spirito di sè alle anime, nelle quali prende ad abitare. Da tutto questo si può conchiudere che la filosofia è buona nelle cose umane, perchè di queste ha le percezioni, ossia la materia del ragionare. Ma se ella si applica alle cose sovrannaturali prima della fede, non può che rovesciare negli errori: ella diventa quella « scrutatrice della maestà » che, come dicono le Sacre Carte, «« resta oppressa dalla gloria« (1) ». Gli uomini del secolo adunque, ristretti dentro il circolo delle cognizioni naturali, non sanno che esista altra cognizione delle cose divine se non quella che consiste nelle idee . Tutta la loro sapienza nelle idee è contenuta, cioè in idee negative e vuote, atte bensì a dare occasione a grande apparato di scienze, perchè atte a ingenerare innumerevoli parole e dispute e a riempire biblioteche intere di scientifiche ricerche. All' opposto l' uomo di Dio sa per esperienza che vi ha un altro genere di cognizione e di sapienza, consistente non già in pure idee, ma in sentimenti e perciò in reali percezioni, di cui egli ha sperimento. Questa sperienza gli dice, che vale più una sola percezione della cosa, di tutte le parole, le dispute, le scuole e le biblioteche della terra. La sua scienza pertanto di Dio consiste nel fatto , è una cognizione positiva , piena, soddisfacente, operante. Questa non è un fonte di tante parole, perchè le parole finiscono ove si è conseguita la cosa che si cercava colle parole. Indi nell' uomo di Dio, che ha in sè stesso una tale misura a cui confrontarla, nasce una cotal freddezza e indifferenza per quell' apparato di scienza esteriore fucata, verbosa, ambiziosa, conghietturale ed incerta, di cui solo fa pompa l' uomo del secolo perchè crede che sola essa esista e che fuori d' essa non siavi altro sapere. Indi è che la letteratura e la pietà non sono cose che vadano sempre insieme, ma bene spesso stanno dissociate e disgiunte. Ecco come S. Paolo parla della scienza, cui egli professava di sapere: [...OMISSIS...] Ecco le due sapienze a confronto: quella degli uomini, consistente in suono di parole, in gonfiezza di discorso, in lusinghe di persuasione: quella di S. Paolo, in fatti, nella virtù di Dio operatrice dentro l' anime, nello spirito e nella potenza soprannaturale. Ma negli uomini non capendo la sapienza di Dio, essi accusano appunto per questo quelli che alle divine cose sono applicati, di voler sperdere le scienze dalla terra e rimettere in fitte tenebre il genere umano (2). Per altro consente l' Apostolo che lo si stimi privo di ogni sapienza? No certo: anzi per fermo crede di essere savio e di parlare pur anch' egli una sua sapienza; e soggiunge alle surriferite parole: [...OMISSIS...] . Ecco come agli uomini del secolo tutta resta occulta questa sapienza, e per ciò la dice ad essi tutta in ombra e in misterio, poichè la sola comunicazione interiore, che fa Cristo ai suoi, è quella che segretamente e senza romore di parole la comunica: come seguita a mostrare il medesimo Apostolo, insegnando quivi medesimo che l' uomo non può conoscere se non le cose umane, e il solo spirito di Dio le divine; il quale per ciò deve essere dato all' uomo, perchè quelle divine cose l' uomo conosca: il perchè la sua dottrina chiamala altresì« dottrina di spirito«. Dall' essere questa dottrina interiore di spirito totalmente diversa dalla scienza umana, viene appunto l' umiliazione dell' uomo e la glorificazione di Dio, come insegnano le divine Scritture: giacchè queste mostrano che tutto il sapere puramente umano non è atto a rendere l' uomo a Dio accetto, e che Iddio ha una occulta virtù, per la quale rende immantinente i semplici e gli idioti più savi agli occhi suoi di quei savi del mondo che con immense fatiche e studii hanno tutta la loro vita nelle speculazioni delle umane lettere consumata; e dichiara questi savi uomini veramente idioti, e gli idioti suoi veramente savi, ed egli il solo maestro e il solo verace datore di sapienza. E veramente non consistendo l' acquisto di questa sapienza nelle doti e nell' opera dell' uomo, ma bensì in un' operazione occulta che fa Dio nell' anima (1), alla quale dà il sentimento di sè; egli è manifesto che anche quelli che sono di piccolo spirito o che non hanno tempo da applicarsi agli studii, possono acquistare senza fatica: e di questo si compiace appunto Cristo, dicendo di essere stato mandato dal Padre suo a predicare a' poverelli (2). E` manifesto parimenti che questa sapienza può averla chi è ancora fanciullo e alla vista degli uomini inesperto e imperito: e in questo pure splende la gloria di Dio, la quale viene celebrata in quel Salmo citato da Cristo medesimo, che « dalla bocca de' fanciulli e lattanti hai cavato la lode perfetta« (3) ». E finalmente vedesi in generale ragione, onde Cristo ringrazia il Padre celeste di aver dato questo modo onde la operazione divina risplenda sopra tutta la possa dell' uomo, dicendo: [...OMISSIS...] . Non fa dunque meraviglia, dopo di ciò, se i savii della terra, rivendicandosi di queste verità, accusino gli uomini pii e cristiani teologi di voler annottare il secolo; giacchè il principio della scienza e il principio della pietà sono diversi: quello è idea , questo sentimento sostanziale e soprannaturale; e il sentimento soprannaturale è tal luce che il mondo non la comprende: « et tenebrae eam non comprehenderunt (5) ». E qui possiamo anco stabilire, dopo tutto ciò che detto è, con accuratezza la differenza tra il principio della religione, e quello della morale naturale. Il principio della religione è la grazia (1): il principio della morale naturale è la legge . La legge è nell' ordine delle idee, la grazia nell' ordine de' sentimenti; quella mostra teoreticamente alla mente ciò che si deve fare, questa è pratica, fa fare ciò che si deve. Gli uomini possono, fino a un certo segno, praticare la morale naturale riguardante i loro simili, perchè di questi hanno la percezione: ma quella parte della morale che riguarda Iddio resta per essi, almeno nella massima e spezial parte, vuota e ineseguibile. Faceva uopo che Iddio stesso si comunicasse agli uomini, acciocchè infondesse in essi il suo amore prevalente su tutti gli altri amori (1). Quindi è che gli uomini del secolo, trattando la morale, non parlano quasi altro che delle relazioni degli uomini che hanno scambievolmente tra loro; e molti a queste solo restringono la morale. D' altro lato gli uomini religiosi, per la propria imperfezione e limitazione e non già per difetto della religione, sembrano talora occuparsi talmente di Dio che rimangono meno pronti a curare le relazioni che li legano cogli altri uomini e meno solleciti di eseguire gli ufficii umani. Ma ove ciò nasca semplicemente dalla limitazione delle forze umane (2), e non da qualche malvagità (nel qual caso non sarebbero nè pure veri religiosi), ben presto a un tale difetto viene posto riparo. Perocchè appena l' uomo religioso riflette alle relazioni che lo legano co' suoi simili, egli si dà tutta la premura di eseguirle, e se prima per una cotale astrazione di mente le obbliava, poi tutto vi si dedica, e non solo le eseguisce appieno, ma fa ancora prodigi di carità che si sono veduti sempre farsi da' santi, e mai da altri fuorchè da' santi. Onde non si richiede se non di lasciare al principio religioso un pò di tempo ad essere appplicato, sviluppato, [perchè] possa influire su tutto l' uomo e [trarre] le sue conseguenze per mezzo degli atti successivi della riflessione; ed egli produce indubitatamente anche ogni migliore effetto morale rispettivamente agli uomini singoli e alla società. Del resto che gli uomini religiosi sieno privi di un affetto ingiusto sia verso i loro simili, sia verso le cose umane, non hassi a riputar male, se è cosa giusta e conforme alla verità; ma oltracciò si può dimostrare una tesi singolare, ma certissima,« che le stesse cose umane vantaggiano e prosperano di più ove sieno amate di un amore ragionevole e moderato, anzichè di una passione ingiusta e smodata«. Non è però maraviglia che popoli staccati dall' ordine religioso, di cui hanno sentito lungamente l' influenza, non precipitino tostamente all' ultima depravazione e empietà: poichè essi ritengono ancora del lume ricevuto, col quale assai bene conoscono la nobiltà e utilità della scienza morale. Anzi non è nè pur maraviglia che si sia veduto presso i protestanti in questi ultimi secoli uno studio di promuovere la morale, almeno come scienza, e in quella parte però che riguarda gli uomini; giacchè non più occupati dal principio religioso, ebbero tutta la loro attenzione libera per collocarlo nelle umane conseguenze e negli interessi di questa vita. Ma se pur mancano del principio religioso, che è il capo della morale, e se la loro morale però non si può considerare giustamente se non come acefala ; tuttavia le loro diligenze e studi sono commendevoli sotto un punto di vista, e sono utili a quelli che hanno il principio religioso, i quali fanno a gran senno a servirsene, come dee esser loro proprio e naturale l' abbracciare e distendere ogni sorta di bene. Vero è che havvi anco l' errore opposto a quello della morale naturale; ma egli non cade se non in quelli che, in luogo del principio religioso, non hanno in sè stessi che una simulazione di esso. Questi sono quelli che hanno una falsa pietà, vani, ipocriti e superstiziosi: questi col pretesto del principio religioso che pur non hanno, si dispensano dall' eseguire i doveri morali verso i loro simili. E contro costoro si sdegnò e tuonò sì alto lo stesso Uomo7Dio. Questi sono i veri distruggitori della morale; e la divina Provvidenza per provvedere incontro al male che fanno questi, si vale altresì dell' errore opposto, e permette che degli uomini, che hanno abbandonato il principio religioso, promuovano quella morale che loro ancor rimane e nella quale, da una cotale loro naturale onestà mossi, tutti si convertono (1). Di vero questa questione fu sempre fra gli increduli e i credenti: ma nei nostri tempi si è messa al nudo, non la si può più dissimulare, ciascuno la si propone direttamente e senza involture. I Riformisti del secolo XVI sono deviati dal principio religioso, ma la loro deviazione pareva piccola nei suoi cominciamenti; non dicevano di distruggere la fede, distruggevano la fede di soli alcuni articoli che stavano nel deposito del cattolicesimo; ma pretendevano ancora di credere alla Scrittura e alla [divina] ispirazione di questa: infatto però la fede soprannaturale era perduta per essi, perchè n' era perduto il principio (1). Scossa d' adosso l' autorità della chiesa, erano veri naturalisti ossia razionalisti di principio, perchè, abbandonata la tradizione, non restava modo d' interpretare la Scrittura, che colla pura ragione naturale; e la pura ragione materiale fatta giudice ultima delle verità religiose, che cosa potevasi farsi dei misteri? Quello stesso che abbiam detto avvenire alla filosofia naturale. Il protestantismo non era che il principio della filosofia naturale, applicato alla religione soprannaturale: questa non poteva reggere in faccia a tal principio, e il protestantismo divenne appunto come la filosofia un sinonimo di razionalismo, di empietà. Infatti oggidì i protestanti, che si sono più avanzati nello sviluppo progressivo del loro sistema, prendono a sostenere scopertamente, « che ogni soprannaturalismo è assurdo e che oggimai conviene ridurre ed emendare la Bibbia stessa, interpretandola in modo da restringere tutto ciò che ella insegna dentro i confini della semplice ragion naturale«. Quelli che videro questa conseguenza irrepugnabile e non ebbero coraggio di abbracciarla, come quella che parve loro un assurdo e un abisso, sono dati addietro, son venuti al cattolicesimo. Indi le ultime conversioni di non pochi valentuomini che dal protestantesimo rientrarono nella chiesa. Or non ci ha più mezzo fra questi due estremi: due soli sistemi sono concepibili, il naturalismo e il soprannaturalismo: il primo è l' empietà, il secondo è la fede [cattolica]: chi sta per quello, sta per l' abolizione di ogni religione soprannaturale, chi per questo, entra nella cattolica chiesa. Invano fuori della chiesa cattolica si cercherebbe ciò che veramente sia e per poco ciò che si dica soprannaturale; e quelli che ancora esitano tra questi due partiti non ne hanno alcuno, e la società gli ha lasciati lungamente dietro di sè solitari e negletti. Uno di questi protestanti che apertamente si pose dalla parte del razionalismo ed escluse ogni principio soprannaturale, è il signor Giulio Augusto Wegscheider. Nè sarebbe da farne parola, se si dichiarasse per un seguace della filosofia, senza più: ma egli insegna pubblicamente Teologia dogmatica nella università Federiciana di Hala, e stampò il suo testo in un libro da lui intitolato, « Institutiones Theologiae christianae dogmaticae »; della quale ben sei edizioni furono fatte nell' anno 1.29 (1). Ora in questo fa un continuo citare, o anzi accennare co' numeri, luoghi della divina Scrittura: ma non per altro se non per correggerla ed emendarla dove ella esce dai limiti della sana ragione (2), la quale sana ragione sta di casa nel cervello del teologo nostro, e per istiracchiarla e torcerla dove può e crede potere, a dire nulla più di quello che a lui par bene che ella dica: giacchè questo appunto mette per principio d' interpretazione, d' intenderla in modo conforme alla sana ragione e di far sì che ella dica solamente quello che può essere utile alla morale, quale nella mente egli l' ha concepita. Insomma nella mente sua egli ha posto una norma precedente, colla quale ha stabilito determinare ciò, che la Scrittura deve dire: la Scrittura non è letta per imparare la verità che ella annunzia agli uomini da parte di Dio, ma viene citata al tribunale dell' uomo per essere giudicata dalla legge che l' uomo si è formata da sè stesso nella mente sua e al rigore di quella emendata. La qual norma è questa:« che ogni detto, il quale parli di cosa che ecceda le forze della natura creata, si deve emendare o interpretare sanamente, cioè in modo che non parli più se non di cosa naturale; e ciò perchè questo solo è utile alla vita umana e ai progressi della morale naturale«. - Il giudizio dunque è fatto prima di aprire i libri delle Scritture: non si cerca sapere se nelle Scritture s' insegna qualche fatto o verità che ecceda le forze della natura, ma cercasi di far sì che elle al tutto non la insegnino, e di riprenderle e castigarle se mai la insegnano. Questo è il metodo notato da S. Atanasio ne' suoi avversarii, [...OMISSIS...] . Ma non sarà inutile che udiamo i fondamenti di quel suo razionalismo (2) che ci presenta come il frutto dei lumi e delle scoperte dei nostri tempi civilissimi. Ecco gli argomenti co' quali si sostiene (3): nessuno di essi è nuovo e non risoluto: ma gli errori rimettono, e conviene che sia nella chiesa chi abbia la pazienza di richiamare alla memoria le loro soluzioni. « Come tutti gli altri animali sono forniti di tali forze, colle quali possono ottenere i fini della loro natura; così senza dubbio , mediante la ragione, per la quale gli uomini superano gli animali, è stato a questi dato il potere d' intendere e di eseguire quelle cose che valgono a ottenere i supremi fini del genere umano, cioè a osservare i doveri e a coltivare la religione«. Tutte le facoltà degli animali si riducono al senso, pel quale non si esigono che degli oggetti materiali. L' uomo fornito d' intelligenza può estendersi oltre tutto l' universo materiale, può avere degli oggetti nobilissimi. Sarà dunque buono argomento di escludere la comunicazione dell' uomo con Dio questo, che perchè l' animale bruto non può godere dell' essere infinito, limitato come è ai sensi materiali, per questo non possa goderne nè pure l' uomo fornito di una intelligenza che non ammette confini? Non è forse quest' essere infinito un oggetto così reale come qualunque altro? O piuttosto non è egli l' oggetto più reale di tutti? E perchè Dio si tiene nascosto, non potrà mai rivelarsi alle sue creature? Sarà necessariamente fra queste e il loro Creatore un tal muro filosofico di separazione? Se la filosofia è quella che erige un tal muro, è migliore, a dir vero, la semplicità dell' uomo incolto, d' una tale sapienza. Ma la ragione, se avesse bisogno di Dio per illustrarsi, sarebbe una potenza imperfetta: l' uomo sarebbe un essere imperfettamente congegnato, perchè non basterebbe a sè stesso. - Che dunque? v' ha qualche essere in tutto quanto è ampio l' universo, che basti a sè stesso? Può trovarsene un solo che, isolandolo dagli altri, possa sussistere? Ed è per questo male ideato e congegnato dal Creatore, perchè ogni essere ha questa sua estrinseca limitazione di aver bisogno per esistere e per vivere di qualche cosa fuori di lui? E in quanto alla ragione, èvvi una sola facoltà che possa far senza de' suoi oggetti? E` imperfetto l' occhio, perchè ha bisogno del sole per vedere? E` imperfetto l' orecchio, perchè senza il fluido aereo, che ondula e trema intorno a lui, non può menomamente ottenere il fine, pel quale è stato dall' eterno artefice fabbricato? E qual ripugnanza vi ha che ci sia nell' uomo una potenza sublime che abbia per oggetto Dio, immediatamente Dio, per soddisfarsi e trovarsi veramente giunta al suo fine? Che è, che ci descrive tanto lontano questo Dio da noi? Che si teme tanto di avvicinarcelo? Che si vuol ostinatamente escluso dalle sue opere, sicchè non possa conversare con esse, sotto pena di commettere un assurdo filosofico? E` questa la scoperta de' nuovi savi? Di un tal regalo fanno essi presente alla nostra povera umanità, a cui si presentano con tante promesse, con tanta baldanza? Consentirà loro l' umanità di lasciarsi così privare del sommo suo bene, di Dio? Il possesso del quale, se fosse un' illusione, è della stessa verità migliore; il che essendo un assurdo [per] conseguente hassi a conchiudere: non è dunque illusione, è verità. « Come l' uomo perviene a essere consapevole della ragione e del dovere, egli è in necessità di considerare la ragione come la suprema forza di conoscere, i decreti della quale egli deve serbare in tutti i pensieri e le azioni. E quegli che, spregiato questo principato dell' umana ragione, pone essere tanta l' autorità della rivelazione, che dicesi comunicata a certi uomini in un modo soprannaturale, che debbasi ad essa consentire, senza muover dubbio, per un cotal cieco istinto o sentimento; questi toglie e rovescia la vera natura dell' uomo e la sua dignità«. Vedesi qui il perpetuo vezzo de' protestanti, il far dire cioè a' cattolici quello che mai non dissero. Se amore di verità li guidasse nelle loro ricerche, la prima cosa si darebbero tutta la cura di ben conoscere con ogni accuratezza le opinioni de' cattolici e di sporle con tutta fedeltà: ma, in luogo di ciò, pigliano a combattere quelle opinioni che nella loro immaginazione credono essere sentenza cattolica, e pur non sono. Così qui posso osservare che giammai i cattolici non tennero, nè dissero che si debba credere alla rivelazione divina per« un istinto e sentimento CIECO«: anzi dissero con Cristo che si doveva sempre camminare nella luce (1); che si doveva dare alla rivelazione un ossequio ragionevole (2); e che Cristo era la luce cui le tenebre non hanno compresa (3). Spieghiamo queste sentenze veramente cattoliche. Parliamo prima della rivelazione esterna , e poi della rivelazione interna . S' insegnò sempre appresso i cattolici che, prima di credere alla rivelazione esterna, erano necessari dei segni o delle prove certe che ella venisse da Dio. Questo non è un credere ciecamente, questo non è un rinunziare alla ragione: poichè è sicuramente la ragione quella che esamina e giudica del valore di que' segni o prove certe, alle quali si conosca che è Dio quegli che ha parlato. Ma dopo di essersi convinti di ciò, di nuovo è la ragione stessa quella che ha suggerito di fare questo semplice ragionamento: Iddio è stato quegli che ha parlato. Iddio non può ingannare nè ingannarsi. Dunque si può credere sicuramente a lui senza pericolo di prendere errore. - Non è questo, dettato di ragione naturale? Il credere dunque a Dio, dopo conosciuto prima, per mezzo della ragione, che egli ha parlato, non è un ubbidire alla ragione stessa? E si dirà questo un rinunziarvi, un credere ciecamente? Quante volte l' uomo non tiene per guida un simile principio che non è altro veramente che uno dei principii della ragione? Non dico solo ogni qualvolta l' uomo appoggia il suo ragionare su qualche grave autorità; ma dico che l' uomo segue un somigliante principio in tutte le scienze, nessuna esclusa, nelle quali, verificata una proposizione, va avanti e ne tira le conseguenze, supponendo oggimai per vera la prima, e non torna indietro ogni passo a riprovarla, ma le conseguenze le dà per certe e per dimostrate con questo solo supposto, che sia certo e dimostrato il principio onde provengono. Sarà egli necessario trovare una nuova dimostrazione diretta per ogni nuova conseguenza che si cava da un principio? O non basterà anzi il sapere che ella è conseguenza discendente da un principio certo per mettere anch' essa fra le cose dimostrate e certe senza più, dandole una pienissima fede? E il dar fede alle parole di Dio, che è se non un ammetter per certa la conseguenza d' un principio pur certo? Questo modo di ragionare, sebben comune alle scienze tutte, vedesi più manifestatamente nelle matematiche, scienze che giova recare in esempio come quelle che hanno forma di un rigoroso procedere e in ispecial modo. Or che si fa perpetuamente nell' algebra, se non assicurarsi prima di alcuni assiomi, principii, e del metodo, e poi, abbandonate al tutto le idee, seguitare con un meccanismo di segni e di operazioni e finalmente trovare un risultamento, il quale si ha senza più per certo? Si vede forse una ragione diretta e immediata di questo risultamento? Nessuna. Come lo si tien dunque per certo? Unicamente perchè si giudica che quel metodo, col quale si sono mutati di mano in mano e trattati que' segni, non possa fallire, si crede alla infallibilità di quel metodo: e su questa fede si ha per indubitato quel risultato. Nella rivelazione invece si crede alla infallibilità di Dio. Se si approva di abbandonarsi alle veracità di quel metodo di trovare la verità, perchè si disapproverà il credere alla veracità di Dio? La ragione adunque è quella che si prende per guida nel credere a Dio: ma si badi, diciamo la ragione , e non gli sviamenti della ragione . Conviene ben distinguere tra il lume della ragione e l' uomo che abusa di questo lume. Non vi ha sicuramente niente che sia superiore al lume della ragione e che possa giudicare di questo lume, il quale giudica di tutto. Ma stia avvertito l' uomo di non attribuire a sè stesso questa infallibilità, questa supremazia che è solo propria di quel lume che in lui risplende, e del quale se fa buon uso, perviene alla verità; ma se fa un mal uso, precipita nell' errore. Si attenda dunque: non trattasi di sottomettere alla rivelazione il lume della ragione, trattasi di sottomettervi l' uomo stesso; è questi che ha bisogno di essere istruito, corretto, scòrto, acciocchè non faccia mal uso del lume della sua ragione. I cattolici non vogliono dir altro, quando insegnano che è uopo sottomettere la ragione alla rivelazione, credere a Dio: è il medesimo che se dicessero: quando che voi avete verificato che Dio ha parlato, e poi nelle cose udite da lui trovate qualche difficoltà che non potete sciogliere, voi dovete credere tuttavia. Perchè il trovare questa difficoltà niente altro dimostra se non che voi, o uomo, nel far uso della vostra ragione siete limitato e circoscritto. Certamente la ragione per sè è infallibile; ma voi, o uomo, non siete già la ragione, voi non ne fate che uso. Ora chi è probabile che sappia meglio far uso del lume della ragione, voi, o Dio che parla? - Questo ragionamento persuade all' uomo quella stessa modestia e ritenutezza verso Dio, che ogni discepolo è obbligato di usare verso un suo maestro, ogni giovinetto verso un vecchio savio e sperimentato che lo ammaestri. In quanto alla rivelazione interiore poi deve considerarsi quanto segue. Le funzioni della ragione sono due (1), la percezione e la riflessione . La riflessione è quella onde nascono i ragionamenti e quindi le scienze dimostrative. Ma ad ogni riflessione sopra le cose percepite necessariamente deve precedere la percezione. La percezione è una funzione semplice, immediata, colla quale il nostro spirito percepisce, a primo tratto, gli oggetti che a lui vengono presentati. La percezione adunque non ammette ragionamento e dimostrazione : ella però non è meno certa della riflessione, perchè gode della evidenza , la quale evidenza è anzi il principio della dimostrazione stessa (2). Se la percezione adunque manca di dimostrazione, non devesi per questo dir cieca, nè escludere dalle funzioni ragionevoli, giacchè essa ne è anzi la prima e quella che somministra la materia a tutte le operazioni della riflessione. Ciò premesso, la rivelazione interna si fa, secondo il sistema cattolico, come noi abbiamo lungamente esposto, mediante una percezione interiore di Dio. Non è vero adunque che si presti fede a lei ciecamente, ma anzi con una evidente luce e irrefragabile. Questo spiega quel darsi fede dagli uomini al Vangelo pure la prima volta che l' hanno udito annunziare, senza dubbi, senza lunghe disamine e prove esteriori, e tuttavia il dar quella fede (3) in tal modo è a Dio gradevole e conducente alla salute eterna, secondo le divine Scritture: il che certo non sarebbe, se quel credere subitaneo fosse un operare con cieca temerità, perocchè a Dio niente piace di tutto quello che è cieco, temerario, irragionevole. Ma [è] vero che chi non ebbe questa percezione, non la può intendere; e questa è la ragione perchè i filosofi del secolo sono pronti in negarla, e a dichiararla stolta e veniente da un cieco e superstizioso entusiasmo (4). « L' umana mente, soggetta alle leggi innate del pensare, è necessitata di riferire tutto ciò che percepisce coll' aiuto de' sensi ovvero che trova col pensiero e colla meditazione, o prossimamente a qualche causa del mondo sensibile, ovvero a delle origini nascoste nella mente stessa. E per ciò è colpa di stolta arroganza il voler negare queste origini, e fingere un evento soprannaturale e miracoloso, di cui non si può assegnare in alcun modo un certo carattere, per questo che di un qualche avvenimento osservato nella natura egli non seppe veder subito la causa, o non iscoperse le origini recondite, nella facoltà dell' anima, della vera religione tra gli uomini rinvenuta«. Qui si dà colpa altrui di stolta arroganza. Ora egli starebbe a vedere se nel ragionamento surriferito ci fosse per avventura dell' arroganza aggiunta a della stoltezza di che si dà colpa altrui. In quanto alla stoltezza, l' affermare che nel sistema di quelli che seguono un vero soprannaturalismo, si finga la causa soprannaturale, e che si finga e inventi questa causa solo per questo motivo che non se ne vede subito una causa naturale o le origini recondite nelle facoltà dell' anima; parmi che non sia gran fatto indizio di buon senno. Poichè se udiamo tutti quelli che rettamente seguono la religione soprannaturale del cattolicismo, non credono già essi di fingere arbitrariamente una causa superiore alla natura, ma credono di essere necessitati ad ammettere una tal causa da prove certe, riconosciute tali o piuttosto suggerite loro dalla ragione: e perciò non stimano punto di essere mossi a questo unicamente dal non conoscere la causa naturale del fatto che trattasi di spiegare, perocchè sanno bene anch' essi (e ci vuol poco a saperlo) che delle cause, che restano occulte nella natura troppe ci sono, e quanto poco sia quello che noi conosciamo dei misteri naturali verso a quello che ignoriamo. Ora il signor professore di Hala ignora questo sistema de' cattolici (e in tal caso parla di ciò che ignora, il che è stoltezza), oppure conosce il sistema cattolico, e vuol dir loro quelle sue parole: Voi credete e affermate di porre una cagione soprannaturale, mossi da motivi e argomenti di ragione; ma non è vero, voi non fate che fingerla e inventarla ciecamente questa ragione. - Non parmi che si possa fare un maggiore oltraggio a' cattolici quanto parlando loro così, nè che si possa mostrare animo più villano e più arrogante. Perocchè o i cattolici affermano di fare ciò che non credono, e in tal caso mentiscono a tutto il mondo perpetuamente (e il signor professore di Hala si arroga di poter entrare ne' loro petti, spiarvi le loro intenzioni e credenze nascoste, accusarle altresì al mondo come contrarie alle loro parole, trovandosi queste conformi a ragione; e quelle, sulla fede del signor professore che solo ha un acume che penetra i segreti del cuore, cieche o stolte); ovvero i cattolici non solo affermano, ma anche credono di essere mossi da gravi e ragionevoli motivi per ammettere una causa veramente soprannaturale; e in tal caso la questione è interamente sul territorio della ragione e consiste in definire e sapere, se questi motivi ragionevoli ci sono, come opinano i cattolici, o non ci sono, come opinano i razionalisti. V' hanno adunque due parti, e nessuna di esse intende punto rinunziare alla ragione, che sarebbe il medesimo che darsi vinta; ma anzi ciascuna di esse pretende di seguitare essa sola la ragione e la verità, e accusa l' altra parte di non seguitarla, ma di abbandonarla, travolgendosi nell' errore per un cotale sragionare che fa o sia per fare un mal uso di essa ragione. Ecco la questione: ragionatori da una parte e ragionatori dall' altra. L' arma è pari, quest' arma è sempre la ragione per tutti e due gli osti. Or che fa il nostro professore? Chi vincerà in questa lotta secondo la sua sentenza? Se egli seduto pro tribunali pronunziasse questa sentenza che la parte de' cattolici usa male quest' arma della ragione, e chi la usa bene sono i così detti razionalisti loro avversari, sarebbe pur non poca arroganza; perocchè non è un nudo sentenziare che stia bene a privata persona eziandio che professore in università, ma anzi il disputare recando in mezzo quelle ragioni che provino il torto della parte contraria. Ma non è questo che fa il professore razionalista: ma egli in cambio di dirci che i cattolici usano male della ragione, vi dice che essi non ne usano punto, ma seguono un istinto cieco e non fanno [che] fingere ad arbitrio in luogo di ragionare. Ora il dir questo non veggo quanto modesto possa essere nè quanto secondo l' equità; perocchè è un dire: Non è vero che vi abbia nè pur lizza fra i cattolici e i razionalisti, i cattolici non trattano punto nè poco l' arma della ragione, vi hanno rinunziato; sono i soli razionalisti che della ragione fanno uso, essi soli sono i padroni del campo, non hanno in presenza avversarii di sorta, anzi non esistono altri uomini se non essi soli, perocchè i cattolici, in quanto tali, seguono un cieco istinto, il che è l' operar della bestia: sicchè i razionalisti non solo hanno la palma, ma la posseggono pacificamente, e in tutto il mondo non vi ha nè può essere chi loro la contrasti, nessuno più fiata contro essi, nessuno osa opporre loro la minima ragione, perocchè chi opponesse anche solo una minima ragione al sistema razionalistico, già non sarebbe più vero che avesse condannato sè stesso ad ammettere per un istinto cieco e senza visione una causa soprannaturale, ciò che il signor professore di Hala gentilmente afferma degli avversari suoi e de' razionalisti. Or grave e recisa sentenza è ben questa del signor professore! Ma è ella forse accompagnata dai motivi del giudicato? Nessun motivo s' adduce di essa perchè quella sentenza è tutta compresa in questo poco:« I soprannaturalisti rinunziano alla ragione, dunque han torto«. La ragione dell' aver torto è tutta nell' affermazione precedente, « che rinunziano alla ragione«: la quale viene supposta dal nostro autore, come quella che costituisce il sistema soprannaturalistico esposto da lui appunto così, che consista« nel rinunziare alla ragione«. E supposto per bell' e conceduto che il sistema degli avversari consista in un rinunziamento da lor fatto alla ragione, la conseguenza che ne trae il signor professore scorre dirittissima ed evidente: chi ha rinunziato alla ragione, ha torto, o anzi egli non ha nè torto nè ragione, perchè non è più uomo, ma bestia; non è possibile alcuna disputa con costui. Se l' esporre in questo modo il sistema degli avversari sia sapienza e modestia, o piuttosto matta arroganza, io non dico, ma il dica qualsivoglia protestante o cattolico, greco od arabo, ch' io lascio al comune senso deciderlo. Solo di far questa osservazione non mi posso tenere: il contentarsi di pronunziare col tuono il più deciso delle sentenze non sorrette da alcuna prova è ragionare questo? Intende che tale sia il metodo de' razionalisti, i quali dichiarano il ragionamento l' unica scorta sicura dell' uomo? Ovvero basta aver fatta questa dichiarazione per avere poi il diritto pienissimo di sragionare, o anzi si riserbano i razionalisti di sostituire al ragionamento un franco asserire? Distruggono adunque il ragionamento stesso? Che fa il nostro professore di filosofia razionale? Vuole che il mondo creda alla sua parola? Sostituisce adunque l' autorità sua a quella della chiesa? In tale alternativa io mi attengo alla chiesa. Ma oltre all' essere affatto gratuita e ignuda di ogni prova la sua asserzione, che il sistema de' soprannaturalisti consista in un rinunziamento che fanno alla ragione, è ella vera, è ella probabile, è ella possibile? Come abbiamo detto, se è vero [che] i soprannaturalisti rinunziano alla ragione, essi non disputano più con nessun avversario, perchè il disputare è, questo solo, un usare, bene o male, della ragione. Perciò i razionalisti dovrebbero essere pacifici possessori del campo, nessuno al mondo potrebbe loro contraddire; e gli uomini tutti o dovrebbero essere razionalisti, o rinunziare alla natura umana, al che ben pochi possono esser disposti, se non piuttosto pochi credono di esser disposti, perocchè ripugna che tali veramente siano. Ora è egli vero? Non vi ha nessuno che disputi con cotesti che si dicono razionalisti, perchè con assai modestia pretendono di far essi soli uso della ragione? Il fatto per avventura li smentisce, perocchè tutti i cattolici sostengono di credere ragionevolmente a un principio soprannaturale e che il razionalista sragioni; i cattolici disputano, i cattolici pubblicano continuamente delle scritture, stampano de' libri contro il razionalismo: il che, ragione o torto che si abbiano, non potrebbero far certamente, se non fosse vero, ciò che offerma il professore della università Fridericiana, che avessero rinunziato all' uso della ragione, e, in luogo di questa, avessero tolto a unica guida un cieco istinto. Era dunque facile il vedere che il supporre tanti milioni di avversarii, quanti sono i cattolici, aver rinunziato alla ragione, è qualche cosa di così improbabile, che l' affermarlo senza prove, in un libro a stampa dimostra una troppo grande presunzione e opinione di sè. Perocchè a conoscere, come diceva, l' improbabilità o piuttosto l' assurdità di somigliante proposizione, pur bastava l' osservare che i cattolici non istanno già muti come i pesci, ma fanno sentire la voce e pretendono di rifutare i sofismi dei naturalisti. Il che è almeno un pretendere alla ragione; e chi pretende d' aver ragione, non può incolparsi di non far nessuna stima della ragione e d' averla ceduta tutta ai loro avversari. Finalmente se vero fosse il sistema dei soprannaturalisti, come egli il presenta, a che lo sbracciarsi tanto in ribatterlo, come fa il nostro teologo razionale? A che l' addurre tanti argomenti? E` forse per mostrare di avere ragione? Ma se gli avversarii, come egli sostiene, hanno già rinunziato da sè medesimi alla ragione, lasciandola tutta come merce spregiata e di nessun pregio agli avversarii, e per sè ritenendo solo il cieco istinto? Si è forse il nostro acuto professore condannato da sè medesimo a rivolgersi in una perpetua contraddizione nella quale più seco combatte che cogli avversarii? Ma lasciamo ciò e passiamo a vedere un altro esempio inarrivabile di modestia che dànno i razionalisti nella maniera di maneggiare le loro disputazioni. In primo luogo, chi sono gli avversari del signor professore di Hala? Abbiamo detto i cattolici, cioè circa duecento milioni di uomini, anzi tutti quelli che, almeno in teoria, credono a un principio veramente soprannaturale: il che è quanto dire quasi tutto il genere umano, eccettuato il signor professore di Hala con alcuni rari come portenti, usciti in questo estremo periodo dallo spirante protestantismo. Ora parrà verisimile che il genere umano in corpo abbia rinunziato alla ragione, che è quanto dire all' umanità? Ma via, poichè questo non è; poichè il genere umano protesta contro al signor professore; poichè il signor professore medesimo, rinunziando necessariamente alla matta pretenzione che l' avversario gli cada ai piedi prima di combattere, si trae in campo e piglia il tuono della disputa e mette in mezzo argomenti, gioverà vedere il modo onde una tale disputazione si può convenevolmente avviare. Poichè se ambedue le parti pretendono d' usare della ragione e ciascuna vuol essere quella che ne usa meglio, quale mai viene a essere l' apparato di una somigliante tenzone? Due schiere d' uomini egualmente formate, e l' arma eguale. Da una parte io veggo uomini gridanti che, dopo aver fatto un sano uso della ragione, hanno avuto per risultamento che una causa soprannaturale non può essere: dall' altra parte veggo parimenti uomini gridanti alla lor volta che, dopo aver fatto anch' essi un sano uso di ragione, hanno avuto per risultato che una causa soprannaturale ed è possibile e v' hanno certi argomenti di doverla amettere di fatto. Ora la sana ragione da qual parte starà? Se io bado alle loro parole, i primi si chiamano razionalisti e vogliono possedere la ragione in esclusiva loro proprietà; simili a quel pazzo che diceva tutti gli uomini dover ben presto perire, perchè voleva respirare lui solo l' aria tutta dell' atmosfera. Ma se bado alle parole dei secondi, questi pretendono che i primi sieni pregiudicati e che restringano gratuitamente lo spirito umano entro sè stessi e il circolo delle materiali sostanze. Che cosa decidere fra tali contendenti? Non sembrerebbe dover essere secondo l' equità che, avendo io uomini da una parte e uomini dall' altra, i quali pretendono del pari di far uso della ragione e aver diritto di seguitare ciò che ella lor detta, io calcolassi imparzialmente la probabilità che può esservi, o che ambe le parti s' ingannino, o che l' una delle due dica il vero? Ora certo è che, non potendo io discernere uomo da uomo, e però dovendo riconoscere in ciascuno un diritto eguale di far uso della sua ragione, procederò equamente, ove io stabilirò questo principio: Nel fare un ragionamento, se molti insieme riescono ad avere un medesimo risultato, cresce la probabilità che il risultato sia vero in ragione che cresce il numero di questi uomini ragionatori che nel medesimo convengono: e, viceversa, la probabilità del risultato contrario sarà al più in ragione del numero di quelli che in quel risultamento medesimo non convengono (1). Il qual principio applicato a giudicare del naturalismo o razionalismo e del soprannaturalismo, quale risultamento mi dà? In favore del soprannaturalismo, immenso numero di uomini ragionatori: contro di esso, sì piccolo numero che svanisce e si può trascurare verso a quel primo; sicchè non rimane solo una probabilità, ma una vera certezza morale pel soprannaturalismo. Una frazione del piccolo corpo di questi votanti contro il soprannaturalismo è per avventura anche il nostro signor professore dell' Università Fridericiana; giacchè egli non è che un ragionatore solo, è uno dei tanti che tutti egualmente s' appellano alla ragione e stimano di fare di essa un uso sano e verace. Or che doveva consigliargli la virtù della modestia e della giustizia, volendo ragionare di un argomento, nel quale tutto il genere umano è interessato e tutto in corpo veramente pronunzia? Di prendere il suo posto, di presentarsi come una minima frazione di un minimo corpo, di portare il suo granello di arena, cioè di deporre modestamente il suo voto, aspettando per avventura che si faccia lo scrutinio e che esca la sentenza. Tiene quest' ordine ragionevole e savio il nostro professore razionale? E` questo il tuono, col quale si presenta nella discussione e trattazione di una tanta causa? Propone un voto? Eh! ben altro: egli non parla come uno dei mortali che non può se non far uso della ragione, sempre in pericolo di farlo bene o male; egli vi parla in nome della sana ragione, parla come fosse la ragione personificata, e come tale non esita, non teme di pronunziare sentenza assoluta, dicendovi non solo che non si dà alcun elemento soprannaturale, ma che non si può dare. E a tutti quelli, i quali non si contentano del suo giudicato, che è quanto dire tutti gli uomini, fuor solo dei filosofi razionali, e che stimano non aver egli seguito la sana ragione, egli per sanzione del suo giudizio imprime in fronte la nota di arroganza e di stoltezza! Ma sebbene in questo raffrontamento della società umana da una parte, co' razionalisti dall' altra, noi non abbiamo fatto altro che mettere a testa ragionatori con ragionatori, uomini a cui la ragione dice una cosa, con uomini a cui la ragione medesima dice tutto il contrario, e che s' onorano scambievolmente del titolo di stolti e di traviati dal sentiero della verità e della ragione; tuttavia il nostro professore si querelerà probabilmente con noi quasi l' avessimo citato piuttosto al tribunale dell' autorità che [a quello] della ragione, e quindi ci dirà al suo solito non volerne sapere di autorità alcuna, perocchè quello dell' autorità è un cieco procedere quello dell' autorità, ed egli colla sola ragione combattere. Ma che è l' autorità che voi odiate tanto, se non la ragione di un altro essere ragionevole? La mia ragione è per gli altri un' autorità: la ragione degli altri è per me un' autorità: ciò che a ciascun uomo è ragione a tutti gli altri è autorità. Che contrarietà può aversi dunque all' autorità il nostro professore, egli che mostrasi così tenero della ragione? Egli dice di combattere colla ragione sola. Ma questo è un non capire il senso della parola ragione , e quello della parola autorità ; perocchè chi dice lui combattere colla ragione? Lo dice egli medesimo. Or ciò non prova altro, se non che la sua opinione è per lui ragione: ma agli altri uomini può esser ella più che opinione, può esser più che autorità? Vi ha dunque nel nostro professore razionalista non poca oscurità e confusione d' idee che gli impedisce un retto e sicuro uso della ragione. Ma il professore razionalista dirà di tenere così, perchè la sua ragione gli dà per validi certi particolari suoi argomenti. - Debbono essere ben forti e risplendere di una evidentissima luce questi argomenti se possono dare a lui il diritto di credersi più ragionevole dell' intero genere umano, e del senso comune che gli dà torto (1). Non voglio però contendergliene la possibilità, prima che vediamo quali sieno questi argomenti, e se per avventura fossero atti a persuadere anche noi stessi colla loro evidenza. Nelle parole del professore di Hala, che noi abbiamo di sopra recate fedelmente tradotte dal latino e che stiamo ora ora qui esaminando (2), niun argomento si trova, se non questo che egli afferma e mostrasi persuasissimo della verità di questa proposizione: che la umana mente è necessitata di riferire tutto quello che percepisce coll' aiuto de' sensi, ovvero che trova col pensiero, e colla meditazione, a qualche causa naturale, cioè a qualche causa nel mondo esterno o nell' interno dell' anima. Il professore mette questo principio per inconcusso, e indi trae la condanna del soprannaturalismo e la prova del razionalismo. Ecco tutto l' argomento. Ma che è quella proposizione? Ella non prova già il razionalismo, è a dirittura il razionalismo stesso; poichè il razionalismo non è se non il sistema che afferma non potere l' umana mente trasportarsi a oggetti fuori della natura materiale e delle leggi stesse della mente. Il signor professore adunque suppone dimostrato ciò appunto che vuol dimostrare; e dopo aver messo per certissimo tale principio, che non è altro se non l' assunto stesso che aveasi a provare, facil cosa gli riesce il tirarne quella conseguenza, che dunque il suo assunto è certo, ciò che è quanto un dire che il ragionamento puòsignor professore, se ragionamento può chiamarsi, zoppica viziato di quel peccato logico che si chiama petizione di principio . Ma tant' è, l' umana mente, dice il signor professore, è necessitata di riferire tutto ciò che percepisce coll' aiuto de' sensi o che trova col pensiero e colla meditazione a qualche causa del mondo sensibile, ovvero a delle origini nascoste nella mente stessa: è arrogante e stolto chi contraddice. Poichè il signor professore razionalista non dà ragione del suo affermare, bisognando forse che la sana ragione gli suggerisca il canone di quel primo emendatore del Vangelo, alla cui santa anima ha dedicato il suo libro (1): che fu quel celebre: « stat pro ratione voluntas ». Non sarà inutile tuttavia che veggiamo noi quanto credito possa godere quella risoluta asserzione. Ella è tolta di peso dal celebre autore della filosofia critica in Germania. Veramente la filosofia critica , legata insieme colla teologia dogmatica , è il più bel nodo del mondo; questa di necessità deve venir criticata fino a che non ne rimanga più cica, e il nome« dogmatica « sul frontespizio di un tal libro mostra, che il razionalismo non può dire la prima parola, senza cozzare con sè stesso. Ma la filosofia critica, nemica essenzialmente di ogni dogma, essenzialmente protestante, anzi l' ultimo parto, il beniamino della religione riformata, spirata, come Rachele, in partorendolo, perchè la critica filosofia non conosce altra religione che sè stessa; questa filosofia, dico, seguita con tanta servil devozione dal nostro professore, è ella un' autorità, od una ragione? Se si considera come autorità , ella è già decaduta: in Germania stesso ha dato luogo ad altri e altri sistemi di filosofia; e in nessun luogo della terra, che io sappia, viene più insegnata, senza almeno averla sottomessa a notabili modificazioni. Vuol dunque che noi rinunziamo all' autorità di una dottrina, che conta diciotto secoli, nei quali ha convertito e mutato il mondo, per curvare il collo [a una filosofia] che, data dal torbido 1719, e che è oggimai decrepita? Se poi vuole che consideriamo la filosofia critica come ragione , se vuole che noi entriamo nell' esame di lei, noi rimandiamo il nostro professore a quei luoghi dove abbiamo trattato a lungo questo argomento e dimostrato: 1. Che l' uomo ha innata la visione dell' essere, colla quale egli è in contatto con qualche cosa di diverso da sè, e diverso dalla natura materiale. 2. Che per mezzo di quest' essere, col quale la mente umana è in comunicazione, l' uomo si vede fatto per un essere veramente e realmente infinito, fuori di tutta la natura finita e capace di conoscerlo e di goderlo. 3. Che quindi è falso ciò [che] pretende Kant, finire tutta l' attività dello spirito umano entro la sfera de' sensi e delle leggi soggettive del suo intendimento, mentre l' intendimento stesso è essenzialmente oggettivo , cioè è tale facoltà che ci spinge fuori di noi e ci fa tendere in un oggetto infinito. 4. Quindi che è un puro errore baldanzoso ad un tempo e sommamente tristo per gli uomini quello che toglie ad annunziar Kant, quando pretende facendo da correttore a bacchetta della ragione e dello spirito umano, d' imporre a lui confini oltre a' quali non possa stendersi e di serrarlo entro a leggi coniate arbitrariamente da una fantasia diretta nelle sue invenzioni dalle analogie tolte dalle materiali sensazioni (1). « Essendovi più religioni volgarmente dette positive che si attribuiscono l' onore d' una rivelazione divina soprannaturale e miracolosa, non v' ha modo e via da esaminarle (quando non si voglia preferire l' una all' altra con cieco arbitrio), se non di paragonare quelle dottrine con quelle altre che, per la natural via della retta ragione, si sono conosciute intorno a Dio e alla sua volontà, e di conformarle a una tal norma, senza alcuna superstizione. Perocchè chi ricusasse di adoperare questa norma di verità a esaminare la religione che si spaccia per soprannaturale, dovrebbe forte temere, non forse qualche demone o uomo che piglia la persona di legato di Dio e toglie a vendergli false e male sentenze, dandogliele per vere ed oneste, gli imponga da credere per rivelati dei dogmi indegnissimi dell' essere supremo«. Questo argomento in gran parte ruota e gira sul falso, sulla supposizione cioè che i soprannaturalisti ricusino di usare la ragione in discernere la vera dalla falsa rivelazione. Ma se vi abbia qualche setta di fanatici al dì d' oggi, i quali si appiglino a creder vera una religione pel criterio d' un interno furore di fantasia, e a un tale loro matto furore nelle cose loro religiose si lascino governare, io non vo' dire. Dico bensì che se una tal setta vi ha, questa è separata e condannata dalla Chiesa cattolica: dico che nessun uomo che vive la confonderà mai colla cattolica Chiesa, nè si sbraccierà a rifiutarla, come mostra di fare il nostro professore di Hala. I soprannaturalisti cattolici adunque si richiamano a lui come d' ingiustizia e di oltraggio che loro fa, mettendoli così nel mazzo di tali fanatici o veramente furiosi, e credono di poter dire del signor professore che sì villanamente li tratta, non dover esser per avventura la sua religione razionale molto amica della buona morale nel fatto, giacchè il calunniare e vilipendere è cosa dalla buona morale ripresa e proibita. Di poi havvi inesattezza nell' argomento del signor professore, dove dice che non c' è altra via di riconoscere se una dottrina religiosa è buona, fuor solo quella di confrontarla colla dottrina suggerita dalla retta ragione. Non è necessario punto che la dottrina rivelata si confronti colla dottrina della retta ragione punto per punto: basta solo che si confronti e convalidi colla retta ragione il principio supremo e generale onde la rivelazione si deduce, cioè l' essere veramente rivelata da Dio agli uomini; e poi egli è manifesto che tutta la religione si può prenderla a chiusi occhi, perchè non può essere che vera e conforme alla retta ragione, anche ovecchè a noi, come quelli che siam fallibili e limitati nel far uso della ragione, sembrasse il contrario. Convien dunque aver ben fermate colla ragione queste due cose: 1. la rivelazione divina è un fatto certo; 2. queste dottrine son quelle contenute in quella rivelazione. Ciò in un modo inconcusso dimostrato, è la ragione quella che mi spingerà a pigliare come certe e ammettere senz' altro esame, ma con interissima fede, tutte quelle dottrine, eziandio che dei misteri contenessero, cioè delle verità al mio debol vedere superiori di lunga mano. Ella è la retta ragione che mi insinua questa modestia, dicendomi: chi ti ha parlato è l' Essere Supremo, è la ragione stessa; questo ti basti, sottomettiti; perocchè la ragione tua non è che un raggio di quella cui tu partecipi; e se tu, ragionando, ti trovi discordare da quella ragione suprema, quale dubbio che ciò non avvenga dal tuo corto vedere, anzichè da falsità dell' Ente divino? Non sei tu fallibile? Non trovi da per tutto misteri, da per tutto difficoltà gravissime nella stessa natura? Non ti accade di prendere ogni giorno qualche sperienza della limitazione del tuo ingegno? E quante volte, anche in convivendo cogli uomini, non deferisci al maggiore di te sulla sua autorità, senza che possa tu ben vederne ragione? E non credi tu ciecamente a tutti gli artisti e periti nelle arti loro? - Questa è la modestia sapiente dei soprannaturalisti: i razionalisti all' incontro si contentano di tacciarli di arroganza e di stoltezza: ma io non veggo dove stia arroganza maggiore, quanto in contendere con Dio e disputare se egli ha ragione o se ha torto. Dipoi è egli nè anco possibile quel mezzo che chiama« unico« il nostro professore, di confrontare le dottrine rivelate su quelle della retta ragione? Ciò supporrebbe che la ragione di chi deve fare questo confronto fosse già fornita d' una religiosa dottrina, in tutte le sue parti compita e perfetta e lontanissima dall' andar soggetta al minimo dubbio. Ma che? qual ragione, qual uomo ha mai potuto dire di possedere una tale dottrina? Di essersi formato colle sole forze del suo ingegno il tipo, l' ideale della religione? Vi fu mai un tal genio sulla terra? Vi può essere? Forse che qualche filosofo se n' è vantato: ma dove è rimasta la religione mirabile di questo filosofo? Quale è, che n' è divenuto? Si può dare arroganza maggiore di quella di colui che si vantasse di ciò? E il professore nostro pretende di più, che ogni uomo deva far così, giacchè ogni uomo deve pure avere una religione e una religione sicura. Mirabile opinione che egli ha della ragione degli uomini! Ma se questo ideale della religione è in ogni mente, come può esistere più alcuna discordia in materia di religione? Il fatto veramente conferma la teoria del nostro professore: sono essi d' accordo gli uomini nelle idee religiose? non c' è che una religione al mondo? Nè io nego già che l' uomo non possa sentire la bontà intrinseca di una religione divina: purchè il voglia, purchè sia retto il suo cuore, può sicuramente sentire quanto ella sia a lui conveniente, quanto ella risponda ai nobili voti della sua intelligente natura; e se si vuole, questo è un giudicare della religione. Ma dico che lo spirito umano a fare questo giudizio della religione non ha già uopo di avere un tipo di religione perfetta in sè medesimo: non ha uopo di posseder prima la perfettissima dottrina religiosa: basta solo ch' egli abbia un principio, una regola, una norma innata, nella quale virtualmente si contiene ciò che è retto, onesto e degno di Dio; ma in modo tale che egli non avrebbe mai potuto fecondare questo germe e trarre da questo principio innato quella perfetta religione che gli bisognasse. Così per giudicare della bellezza, non è necessario avere ogni bellezza effigiata nella mente, nel qual caso non riuscirebbero punto più nuove e dilettevoli le tavole dipinte, a ragione di esempio da egregi artisti, nè queste apprenderebbero più all' uomo cosa alcuna in genere di pittura, perocchè egli saprebbe tutto precedentemente. Ma il fatto è questo, che l' uomo al vedere i quadri di Raffaello o i marmi di Canova la prima volta, ne rimane ammirato e ne trae una viva dilettazione: e questa dilettazione e approvazione che egli ne fa, col quale giudizio approva e riconosce quelle bellezze dipinte e scolpite e quindi è la sua intelligenza che gli fa nascere quel diletto. Ma per far ciò non è già necessario che nello spirito dell' uomo sieno state precedentemente quelle bellezze, e le maggiori ancora (l' ideale loro); ma solo che lo spirito portasse in sè un principio, una regola, su cui giudicarle. Così è nella religione medesimamente: non è necessario che nello spirito, dell' uomo, perchè possa vedere la dignità e santità di una religione, vi abbia quella religione stessa bella e formata, o anzi il suo ideale; basta che vi abbia la regola da giudicarla. La qual regola finalmente non è poi altro che il lume stesso della ragione, e come ho dimostrato, l' idea dell' essere , la quale informa la nostra intelligenza. Nè manco dal sentire, approvare e giudicare noi le bellezze delle eccellenti pitture, statue, poesie, musiche e ogni altro genere di bellezza, può trarsi la conseguenza, che dunque noi possediamo il principio onde noi potremmo formarci noi stessi quegli egregi dipinti, quei marmi parlanti, quelle poesie e musiche che tanto ci incantano e ci trasportano. Perocchè altro è il poterle riconoscere, quando ci sono date, e altro è il produrle in atto nella nostra mente: il perchè l' esserci presentati quegli eccellenti lavori è a noi utilissimo dono, e dalla contemplazione di quelli noi impariamo cose nuove e perfezioniamo le regole inferiori dell' arte, le quali altro non sono che applicazioni della regola suprema, la quale nuda e sola esiste da sè nel nostro spirito, e non ha bisogno di educazione: ma la quale non ci presenta alcuna bellezza, ma aspetta che glie ne vengano offerte per aver materia a cui applicarsi. Quindi medesimamente sebbene noi abbiamo la regola suprema onde giudicare della bontà d' una religiosa dottrina, tuttavia non ne viene che noi potremmo mai da noi stessi dedurre da quella regola essa dottrina religiosa: ma quella regola, come pura forma, se ne rimarrebbe del tutto inutile e infeconda, fino che non fosse data all' uomo quell' alta e divina religione, alla quale applicandosi quella regola, come a sua materia, quella trova in essa il proprio soddisfacimento, sviluppo e compimento. Ed è vero dunque che la nostra retta ragione è atta a giudicare di una buona o mala religione e deve farlo: ed è vero insieme che la nostra ragione non potrebbe per questo tuttavia comporci e somministrarci una religione perfetta e agli umani bisogni interamente corrispondente. « Nessuna rivelazione, appoggiandosi sull' istoria e testimonianze altrui, può produrre a noi una persuasione tanto certa, come quella che nasce dalla ragione, i cui decreti si appalesano all' uomo nella sua propria coscienza. E quanto più la religione sarà piantata e impressa nella coscienza dell' umana mente, tanto più sperimenterà l' uomo la sua benefica virtù nelle varie vicissitudini della vita.« Il nostro professore vi accerta che la storia e le testimonianze altrui non possono produrre una persuasione così certa, come quella della ragione. Che prove reca di ciò? La sua parola? Basterebbe a noi di negare gratuitamente ciò che gratuitamente afferma. Certo che la sua proposizione non è consentita universalmente dagli uomini: e l' affermarla con sì grande sicurezza non pare modestia, nè pare un aver tolto a seguir ragione, sebbene si pretenda che questa sia la sola buona guida. Noi tuttavia non ricuseremo di citare, seguitando, come abbiam fatto fin qui, il nostro razionalista alla ragione. E diciamo così: Il verificare se la storia e la testimonianza altrui possa produrre negli uomini una persuasione tanto certa come quella della ragione, non si può fare che interrogando il fatto stesso. Ora vi ha alcuno di quelli, i quali non furono mai a Roma e che non conoscono questa città se non sull' altrui testimonianze, che dubitino dell' esistenza di Roma? O si può dare persuasione più ferma e certa di quella di costoro? O v' ha alcuno il quale dubiti non forse sia una favola che Cesare o Cicerone abbia esistito? E il quale se ci fosse, non s' inviasse all' ospizio de' pazzi? Sebben che a noi è troppo questa persuasione universale; perchè dov' ella fosse anche solo in pochi, basterebbe a provar falsa la proposizione che l' istoria e la testimonianza altrui non possa produrre una persuasione altrettanto certa quanto quella della ragione. Ma se noi volgiamo il discorso a parlare di persuasione religiosa, ci cresce in mano assai d' argomento. Perocchè potè mai la ragione sola persuadere agli uomini qualche verità di persuasione così immobile e sicura come potè fare la religione? Peneremo noi a trovar prove o indizi della fermezza di persuasione che induce nelle anime la fede religiosa, massime la cristiana cattolica? Non si è sempre veduto in que' milioni di fedeli che conta questa religione, una tale persuasione che esclude qualsivoglia esitazione? E che perciò sta salda contro la morte e in presenza de' patiboli? Che supplizii e tormenti non si sono adoperati a provare se si poteva svellere o smuovere dal cuore de' fedeli questa persuasione? E che risultamento se n' ebbe, non in uno o due, ma in numero innumerevole d' uomini, in secoli diversi, ne' savi e dotti egualmente che negli idioti? S' ebbe un risultamento medesimo, di ridersi de' supplizii e de' carnefici, e di autenticare e suggellare col sangue quella loro invincibile persuasione della verità. Diede mai la ragione sola tale mostra di sè, diede tali segni e sì palmare dimostrazione della sua possanza sulla persuasione dell' uomo? O non anzi si è veduto la persuasione venuta dalla sola ragione umana esser sempre languida e inefficace a far il bene, sia a resistere fortemente, messa alla prova? E il professore di Hala poteva ignorare che di tutte le cagioni atte a produrre nell' uomo persuasione, quella della fede religiosa si trovò, nell' esperienza, essere di tutte la più efficace sugli uomini in ogni tempo e in ogni luogo della terra? E se non ignora questo fatto universale, che non si può ignorare da chicchessia, che affermava dunque in tuono sì dogmatico una proposizione che ripugna all' evidenza di tali fatti? E si credeva dispensato da sorreggerla e munirla d' alcuna prova? Ma pare che qui ci sia nè sana ragione, nè senso comune, nè pudore. Dirà per avventura che sebbene il fatto gli sia contrario, egli non ama i fatti, ma vuol teorie: giacchè i razionalisti deducono dalle leggi della mente le loro dottrine a priori e non dall' osservazione e dall' esperienza di ciò che avviene realmente nella natura e nell' umana vita: e quindi egli dirà che la sua sana ragione condanna a priori tutti i secoli e tutte le nazioni, perchè gli uomini si sono indotti ad ammettere la persuasione religiosa, cioè una persuasione storica, anzichè prestar fede alla ragione sola, e che questa ha diritto, e non quella, di signoreggiare la persuasione umana. Bene sta. Io avevo già preveduto meco medesimo che batteva qui il professore. La ragione adunque ha sola il diritto di produrre una persuasione al tutto certa negli uomini? Ma quale ragione, secondo il professore? Una ragione che si oppone alla storia, che è quanto dire una mezza ragione, o meno ancora; poichè se alla ragione togliamo via i fatti e la storia, ella si rimane per avventura come quel gigante Polifemo, a cui s' è cavato un occhio, e non ne aveva di più. Tale è la ragione dei razionalisti: un gigante, a dir vero, ma senz' occhi. Nemmeno può esser la ragione che commenda il signor professore di Hala, quella che hanno seguita i filosofi, o dell' antichità, o de' tempi nostri. Perocchè se ne' filosofi la ragione ha prodotto quella fermissima persuasione che il professore le attribuisce come suo esclusivo diritto, io mi credo di dover dubitare che se tal persuasione fu ferma veramente, non fosse ella però troppo certa e conforme alla verità: conciossiachè v' ebbe mai generazione d' uomini, i quali più sformatamente discordassero e combattessero fra loro, de' filosofi? Ora quale certezza può avere ove non vi sono due capi che convengono in pensare allo stesso modo e in affermare certe le istesse medesime [cose]? Tolgasi pur l' esperimento dai tempi moderni; cerchisi pure quanta certezza potè indurre la ragione de' protestanti e de' razionalisti. La variazione perpetua del protestantismo, venuta a tale che mise i protestanti stessi in disperazione di poter mai convenire fra loro, dimostra assai bene la confidenza che si può avere nella sana ragione. Dove andò a finire presso a' protestanti tanto variare e rimutare continuo di opinioni? A che condusse quella disperazione che nacque in loro, dopo aver tentato tante volte di accordarsi, di non potersi oggimai più insieme intendere e trovarsi nella medesima sentenza? Una tale disperazione produsse una conseguenza singolare che è da considerarsi con la più grande attenzione. Essi vennero dicendo a sè stessi in questa maniera:« Noi non possiamo in nessuna cosa essere insieme d' accordo: l' uno è persuaso che sia vero ciò che l' altro si persuade essere falso: noi non possiamo tenere una regola di fede nè comune nè che ci duri un anno: noi vogliamo variar sempre e non possiamo a meno di così fare. Ebbene, non potendo esser concordi in nissuna cosa, siamo almeno concordi e costanti in questo, nel mutar sempre, cioè nel non essere mai concordi, mai costanti, nell' avere ciascuno di noi il diritto di poter continuamente innovare e pensare diversamente da quello che gli altri pensano e che egli medesimo aveva pensato«. - Non si creda uno scherzo questo; questo è un fatto; una somigliante transazione è quell' unica che unisce i protestanti, l' unico loro modo di unione, e questo, singolare, a dir vero, e nuovissimo. E questo trattato di unione è appunto, a dir vero, nè più nè meno, il razionalismo, del quale il nostro professore di Hala si fa maestro. Strano viaggio dello spirito umano! La discordia irreparabile, continua, perpetua, disperata delle opinioni, che doveva pure mostrare qual confidenza meritasse, per la scoperta del vero, la ragione individuale e parziale, produsse in quella vece un sistema tutto opposto, nel quale si mette per solo e unico canone questo:« la sola ragione può indurre una certa persuasione della verità«. Tale e tanta è la cecità e tale l' orgoglio degli uomini! Se la verità non può essere discorde da sè medesima; e se il vedersi cento uomini divisi in cento sentenze contrarie dimostra evidentemente che novantanove di essi almeno sono nell' errore, e quindi non vi è se non la centesima parte di probabilità che la ragione di questi cento uomini abbia trovato il vero, e meno ancora di questa centesima parte, perchè potrebbero essersi ingannati anche tutti cento; egli è pure singolare che si osi dare alla sola ragione individuale la forza di persuadere con piena certezza, e che più fieramente vantino una tal forza coloro, i quali sono più degli altri ravvolti nelle perpetue dissensioni: e ciascun di essi parli con tuono sì alto e sicuro d' infallibil maestro, immemore delle migliaia di sistemi contrarii al suo, che pure il dovrebbe fare un po' dubitare di sè medesimo. Che se alcuni aprono gli occhi, in tanta cecità, e s' avveggono della natural conseguenza che procede dalla disparità di tanti sentimenti; necessariamente ad un irreparabile scetticismo si abbandonano, ad un feroce rinnegamento di quella stessa ragione che prima essi stessi avevano idolatrato, e alla vita materiale, nella quale preferiscono spensierati oggimai di rinchiudersi e riposarsi. A dir vero quella spaventevole discordia che ritrae ciascuno dal fidarsi, come a sicura guida, alla sola ragione individuale, non si rinviene nelle testimonianze istoriche, come si rinviene nelle opinioni filosofiche. Il perchè se il carattere della verità è concordia, convien dire che nella storia assai più riluce questo carattere di verità, che nei placiti dell' umana ragione, e per ciò che le storiche verità, munite di quel sentimento, abbiano eziandio più diritto d' indurre entro l' uomo persuasione certa, che le deboli forze della ragione individuale. Il che è quanto dire che la ragione stessa, pigliata nel suo ampio significato, ci conduce alla storia e concilia a lei la nostra fede: mentre questa ragione medesima ci fa sommamente diffidare e ci mette in iscredito la ragione de' razionalisti, una ragione mozza e sfiancata, una ragione altera e ambiziosa, una ragione che si isola da sè stessa e si sfornisce degli istromenti, coi quali soli potrebbe pervenire alla verità; cioè finalmente una ragione che non è ragione, ma che è l' uomo che fa la ragione, che mente a sè stesso e ad altrui e s' imbriaca del proprio mentire. Non è bisogno d' altre parole a mostrare l' inefficacità di una tale ragione, o piuttosto la sua funesta efficacia nelle cose dell' umana vita. Una sola ragione intiera e perfetta può ad un tempo essere efficace al bene, sostenitrice e consolatrice dell' uomo nelle necessitudini della vita: ma questa ragione è quella che fa un continuo e solo uso delle storiche e pratiche verità, e che addita la religione rivelata come il solo asilo ove l' uomo trovi la pace, la sicurezza e la stabilità fuori delle irrequiete e sempre mai tempestose fluttuazioni del proprio cuore abbandonato a sè stesso, e della propria mente girovaga, senza guida nè stella che la conduca. « Che vi abbia una rivelazione soprannaturale, s' intende dimostrare da quelle cose che si leggono in qualche libro che si dà per scritto in modo soprannaturale: e pretendesi di conciliar fede a questo libro da questo appunto ch' egli contenga una soprannaturale rivelazione. Qui havvi un circolo: si pone per dimostrato ciò che si vuole dimostrare«. L' argomento è irrepugnabile nel sistema dei protestanti; ma non ha valore alcuno nel sistema dei cattolici. I protestanti cominciano e finiscono col libro della Bibbia: questo è certamente un circolo vizioso. Essi dicono: l' unica regola di fede è la Bibbia. Si domanda loro: come provate che la Bibbia sia ispirata e l' unica regola di fede? Essi non avendo altra autorità che la Bibbia stessa, debbono ricorrere ai fatti contenuti nella Bibbia per dimostrare che la Bibbia è ispirata ed è la regola della fede. Questo è ciò che faceva conoscere a S. Agostino la necessità di una Chiesa infallibile che conservasse la Bibbia stessa, e che ne attestasse l' ispirazione della medesima, e che faceva dire a questo gran Padre: « Io non crederei alla Scrittura, se non mi movesse a ciò l' autorità della Chiesa« ». Era un po' più logico dei dottori riformati. Nel sistema cattolico adunque il circolo rimane evitato. Poichè i cattolici dicono:« Noi crediamo alla Bibbia, non sull' autorità della Bibbia, ma sull' autorità della Chiesa che ci dà la Bibbia. Noi abbiamo un' autorità infallibile, vivente, che si conserva sulla terra perpetuamente, avendo detto Cristo: « Io sarò con voi fino alla fine dei secoli « ». Ma come so io, si dimanda, che quest' autorità della Chiesa cattolica è verace, che esiste questo divino magistero vivente nei maestri della chiesa? Lo so io forse per altro se non per parole e i fatti di Cristo che sono tutti contenuti nella Bibbia? - Sì, certamente: io ne ho delle altre prove. I primi fedeli hanno creduto agli Apostoli sulla loro parola, per verbum eorum anche prima che il nuovo Testamento fosse scritto. Dunque v' ebbero degli argomenti e validi, ove non si vogliano condannare tutti i primi cristiani e con essi il cristianesimo. Gli argomenti che si hanno in favore della parola evangelica , non sono solamente validi singolarmente presi, ma è nel loro complesso, nel loro accordo mirabile e stupendo che sfolgoreggiano di una luce quasi concentrata da mille punti in un solo foco, e sforzano l' assenso umano. Il sistema del cristianesimo tutto insieme preso, sistema che non può essere finto da mente umana, perchè abbraccia il principio del mondo e si continua e consuma con tutta la serie degli avvenimenti, è quel solo che spiega la storia dell' umanità, che dà ragione di tutti i fatti più importanti avvenuti al mondo, che è conforme alla natura di Dio, che interpreta i bisogni dell' uomo e li soddisfa pienamente. Le profezie, i miracoli, la diffusione per tutta la terra della religione della Croce, la sua conservazione, i suoi mirabili effetti, tutte le circostanze insieme prese, e conosciute anche pei soli monumenti della storia accertati colla critica, e finalmente l' autorità del genere umano; tutto questo insieme ha un peso tanto grave, tanto importante, tanto solenne, sopra chi non ha lo spirito malamente preoccupato, che non può a meno di strappare da lui un pienissimo assentimento. Ma a tanti argomenti poi, illustrati dagli apologisti del cristianesimo, nel sistema cattolico, si sopraggiunge la grazia , la quale finisce di vincere e trionfa ragionevolmente dell' uomo. Dico ragionevolmente , perchè la grazia è luce interiore e compimento della stessa ragione: di che il sistema cattolico non può essere più uno, più coerente e logico, più serrato e inattaccabile, perchè perfettamente più consentaneo con sè medesimo. « La persuasione di una soprannaturale miracolosa e immediata rivelazione di Dio non si può conciliare coll' idea di Dio eterno, sempre costante a sè stesso, onnipotente, onniscio e sapientissimo, dalla virtù del quale eternamente attiva e fornita di ottimi consigli noi poniamo giustamente dipendere l' esistenza e la conservazione e la perpetuità di tutte le cose della natura. Perocchè in primo luogo quella differenza che volgarmente si pone fra le operazioni di Dio immediate e le mediate , si deve intendere non in sè, ma secondo l' umana maniera di giudicare; non potendo essere che l' uomo conosca menomamente la vera via e il modo della divina attività col contemplare i singoli effetti di lei apparenti nella natura delle cose. Le operazioni di Dio si possono dire immediate per sè, per questa ragione che non sono circoscritte da limite di tempo e di luogo, di tal modo che le cose che Dio fa, le fa tutte in un solo e primo suo atto, nè ripetonsi quasi nelle varietà de' tempi e di luogo: sebbene l' umana mente, astretta ai confini del tempo e dello spazio dal proprio suo modo di conoscere, non sappia comprendere in un solo sguardo quell' universale e quasi simultaneo operare di Dio, ma vegga solo le singole parti di lui, secondo che si palesano nel succeder del tempo e nel variar degli spazii, giusta la legge di causalità innata alla mente. Di che avviene che tutte le cose che Dio opera per sè immediatamente, l' uomo rettamente giudichi operarle mediatamente, cioè in un modo conveniente al tutto, alle leggi del suo proprio pensare. In secondo luogo se havvi nella natura qualche effetto che le forze di essa natura sebben limitate non possano produrre, per piccolo che sia quest' effetto, mostra però abbastanza una imperfezione non necessaria nella natura, e per ciò anche in quello che ha fatto la natura. In terzo luogo chi volesse affermare che un qualche avvenimento, per essere oltremodo mirabile, non si possa spiegare colle forze naturali, questi dovrebbe conoscere perfettissimamente tutte le leggi della natura. Il che non può cadere in uomo, e però non può conciliarsi nè pure in questo modo colla sapienza divina una rivelazione miracolosa: poichè se nessuno può a certi segni conoscere una tale rivelazione, ella non è neppure atta a fare il divino essere palese, perchè lascia l' uomo in dubbio e non si può ingerirgli una ben certa persuasione«. Quando la ragione d' innumerevoli e, fra questi, dottissimi uomini, sentenzia in un modo contrario a ciò che pare alla ragione mia, allora è cosa ben rara che, senza offendere la modestia, io possa parlare in tuono assoluto e pronunciare la mia sentenza come una indubitabile verità, senza nè pur fare menzione di sentenze opposte alla mia, dispettosamente trasandandole, quasi con quello: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa ». Ora il fatto è, che una moltitudine innumerevole di uomini di tutti i secoli, e fra questi tali che furono giudicati da tutto il mondo cima d' ingegni e di dottrina, non ebbero mai dubitato che la persuasione di una soprannaturale miracolosa e immediata rivelazione ripugni all' idea che si deve avere di Dio. Egli sarà perciò assai, se all' udir pronunciare dal nostro professore la sentenza assoluta e perentoria che« ripugna«, altri vi tenga dal dare a lui traccia di non piccola presunzione. Ma noi mettiamoci nei suoi argomenti giacchè qui tre ne reca in mezzo; e cominciamoci dal riassumerli in brevi e chiare parole. Il nostro professore sostiene ripugnante coll' idea di Dio la persuasione di una soprannaturale miracolosa e immediata rivelazione, perchè: 1 Il pensare che Dio operi mediatamente ripugna all' idea di Dio, giacchè Iddio fa tutto immediatamente , cioè con un atto semplicissimo, eterno, fuori dello spazio e del tempo: ed è l' uomo quello che, essendo soggetto per la legge del suo pensare allo spazio e al tempo, giudica che Dio operi successivamente e con varie azioni, e quindi mediatamente . Il perchè se si prende la parola secondo le leggi del pensare umano, Iddio opera sempre mediatamente ; se si prende in sè stessa, opera sempre immediatamente . Quindi non si dà questa distinzione di operazioni mediate e immediate, ma tutte le operazioni divine sono egualmente mediate e immediate. 2 Una rivelazione miracolosa ripugna ancora all' idea di Dio, perchè suppone che egli non abbia fatto la natura con sapienza, in modo che essa non abbia bisogno di tali aiuti miracolosi. 3 Ripugna in terzo luogo, perchè Iddio avrebbe fatto una cosa inutile, non potendo l' uomo discernerla con certezza dagli effetti naturali. Ora in quanto al primo di questi argomenti, io comincio a far osservare che tutti quei dotti teologi di ogni secolo, i quali hanno ammessa la distinzione fra le operazioni immediate e mediate di Dio, hanno tutti saputo, nessuno eccettuato, che Dio tutto ciò che fa lo fa in un atto solo, semplicissimo ed eterno: e questa è una verità ovvia in tutte le teologie, e non punto una scoperta, per avventura, del signor professore di Hala, o di quei filosofi, da' quali egli ha copiati i suoi argomenti (1). E pure questi nuovi sapienti ci dicono le sentenze più comuni con tanta gravità e con tuono sì solenne, che sembrano annunziare alla terra le verità più inaudite. Sebbene adunque tutti i mentovati teologi sapessero che Dio opera tutto con un atto solo e eterno, tuttavia non si sono tenuti per questo dal partire le divine azioni in mediate e immediate ; sicuramente perchè non vedevano nessuna opposizione e contrarietà fra queste due proposizioni, e che Dio opera con un atto semplice fin da tutta la eternità, e che quell' atto per la diversità de' suoi effetti si divida in azioni mediate e immediate . Or questo fa creder che il signor professore di Hala combatta per avventura una dottrina che non si è punto dato cura d' intendere: solito vizio, come abbiamo detto, del più de' protestanti, presso cui il disprezzo de' cattolici tiene solitamente quel luogo che tener dovrebbe lo studio accurato e fedele delle loro dottrine. Non è dunque vero, diremo al signor professore, che quando noi parliamo di azioni di Dio immediate e mediate, ci opponiamo punto alla verità, la quale per noi è un dogma, che l' operare divino è semplice e coeterno con lui. Noi non facciamo che considerare quest' unico atto nei suoi diversi effetti; ed essendo molte le relazioni di quest' unico atto con questi effetti, perchè i suoi effetti son molti, noi chiamiamo quest' atto medesimo nelle varie sue relazioni azioni di Dio ; le quali azioni non indicano moltiplicità di atti, ma solo moltiplicità di relazioni e di effetti di un atto medesimo. Ora queste sono quelle che noi denominiamo poi mediate e immediate , senza che ciò punto ripugni per nulla all' idea dell' operar divino unico e semplicissimo. Un altro sbaglio mostra di prendere parimente il signor professor di Hala nell' assegnare il fondamento di questa distinzione di azioni mediate e immediate. Pare che egli supponga che i soprannaturalisti cattolici chiamino mediate le azioni di Dio in quanto sono vestite dallo spazio e dal tempo; e che la parola d' immediate si riservi a significar quelle che sono immuni dallo spazio e dal tempo. Ma sebbene i cattolici ammettano una successione nelle cause, e però, oltre la causa prima, ammettano delle cause subordinate; tuttavia l' ordine di queste cause, per la concorrenza di Dio, nol fanno dipendere dal tempo, ma dicono che tutta la serie delle cause è da Dio percepita, creata e conservata con quell' atto eterno, col quale egli fa tutte le cose: giacchè, come dice S. Agostino, Iddio percepisce il tempo senza tempo; e non vi è dubbio alcuno che questo modo onde Iddio percepisce, non distrugge punto nè poco la vera subordinazione delle cause in fra loro e la loro temporale successione, poichè questa successione di tempo non si trasporta già con ciò in Dio, ma si lascia nell' effetto dell' operazione divina, nelle creature, in una parola, nelle cause subordinate. Ma queste dottrine cattoliche non possono essere intese da un uomo che si è intestato nel razionalismo critico, bevuto però come si beve un dogma filosofico, cioè per la via della materiale memoria, non della ragione: un critico che fa del tempo e della causalità nulla più che altrettante leggi dello spirito, altrettante forme soggettive, senza che si possa provare alcuna loro oggettiva realità (1), deve naturalmente negare la subordinazione delle cause, e quindi le cause mediate e immediate; perocchè questi nega altresì a dirittura che si possa provare l' oggettiva realità di ogni causa (2). Ciò però che è strano ed antilogico, si è la ragione che si adduce di questo negarsi la causa mediata (tolta via la quale il panteismo è irreparabile, conseguenza tirata già dal criticismo ), cioè a dire il non potersi comporre questa coll' eterno e semplice operare di Dio. La qual ragione non avendo sicuramente alcun peso, forza è dire che cada tutto il sistema. E che non abbia peso quella ragione, si mostra da ciò che ho detto esser dottrina della cattolica teologia, cioè poter essere l' effetto (la creatura) soggetto al tempo, senza che però sia soggetto al tempo l' operare della causa (Dio) che l' ha prodotto; come pure poter darsi degli agenti intermedii, senza che cessi di operare in tutti essi, creandoli a ogni istante, la causa prima e sempiterna. Di che si concluda che ciò che mosse il nostro professore razionale a produrre quell' argomento, si fu solo il non aver avuto ragione che bastasse a pur intendere chiaramente quale fosse la sentenza cattolica delle cause mediate e immediate. La stessa mancanza di cognizione sufficiente per parlare con qualche senno in tale argomento, dimostra egli nel far consistere la rivelazione miracolosa in un' azione immediata di Dio. Sarà difficile che egli possa provare essere sentimento comune della Chiesa cattolica che la rivelazione sia opera immediata di Dio. Può darsi che trovi di ciò qualche parziale autorità, la quale fors' anco, bene interpretata, gli cesserebbe dall' esser favorevole. Ma il sentimento comune, e, per mio avviso, il legittimo sentimento della Chiesa si è, che Iddio non diede la rivelazione esterna immediatamente, ma sì bene mediante degli Angeli, come dice S. Paolo, i quali sono anch' essi creature di Dio e entrano a formar parte della natura, se s' intenda per natura non la materiale solo, ma tutta la natura creata, il sistema intero dell' universo. E Cristo stesso, che pure è Dio, se si considera solo come ministro della rivelazione esterna e non della grazia, può dirsi che tanto ufficio esercitasse come uomo, o almeno col mezzo dell' umana facoltà della loquela, e quindi intervenendo la sua natura umana, quasi direi, fra gli uomini e il Verbo. Giacchè adunque in nessuna maniera la ragion sana del signor professore potè recarlo tanto innanzi da poter formarsi un giusto concetto di ciò che si debba intendere per azione immediata di Dio; io mi farò brevemente a esporglielo secondo il fondo de' cattolici insegnamenti. Ogni qualvolta l' uomo non prova quello che abbiamo [detto] sentimento deiforme (1), la percezione dell' infinito, percepisce solo qualche cosa di creato e di finito. Questo elemento creato e finito che percepisce, questo termine limitato, qualunque sia, della sua percezione, non è Dio che sente, perocchè Dio è illimitato e infinito. Questo elemento o termine adunque che non è Dio e che viene sentito e percepito dall' uomo, questo è ciò che sta fra lui e Dio; e sebbene Dio operasse, tuttavia dicesi che la sua operazione è mediata, perchè la cosa prossimamente sentita dall' uomo, anzi la cosa unica da lui sentita, non è Dio. Che se all' incontro la stessa percezione dell' uomo è deiforme, cioè tale che contiene una cotal pienezza illimitata, insomma il tutto , allora solo si dice acconciamente operar Dio senza mezzo, perchè egli stesso è divenuto forma dello spirito umano. E le divine Scritture e i Padri ravvisano questa maniera di operare di Dio nella grazia , come ho più sopra dimostrato. Certo duro è un siffatto discorso a un filosofo razionale, anzi inintelligibile: ma egli potrà intenderlo, se vorrà. E che gli bisogna per intenderlo? Che creda. « Non intenderete, se non crederete« »: dice Dio nella Scrittura (2). Ma crederà contro ragione? No: egli crederà a quegli uomini fedeli e illuminati, i quali gli testimoniano di provare in sè tale sentimento; e la loro testimonianza ha tutti i caratteri che può desiderare l' arte critica più rigorosa, veracità, scienza, moltitudine e consentaneità di testimoni, spassionatezza, eccetera. La ragione in tal modo lo condurrebbe alla fede, la fede all' esperienza, e l' esperienza lo farebbe pervenire all' intelligenza. Perciò i giusti (che hanno testimoniato indarno la verità) giudicheranno le nazioni (1). Ma veniamo al secondo argomento. Nel secondo argomento ci si presenta pur nell' esposizione stessa qualche cosa più tosto di ridicolo che d' assurdo. Dice: se havvi nella natura qualche effetto che le forze della natura nol possan produrre, esso mostra un' imperfezione non necessaria nella natura. Che cosa vuol dire il signor professore con tali parole: se havvi nella natura qualche effetto? Intende dire se havvi un effetto per sè naturale? Se intende così, certo che vi avrebbe difetto nella natura, se un effetto naturale non potesse essere prodotto dalla natura. Se poi intende« se havvi un effetto soprannaturale apparente nella natura«; che difetto può essere questo che la natura non possa produrre ciò a cui non si estendono le sue forze? Che difetto sarà per un sasso il non vegetare? Che difetto a una pianta il non sentire? Che difetto a un bruto il non intendere? Che difetto in una parola sarà alla natura intera il non poter far ciò, a cui ella non è ordinata, che è contrario alle sue leggi, e per cui fare non ha punto di natural virtù? Or s' ella è così, chi dunque disse mai al signor professore che i cattolici per avventura ammettono di tali assurdi? Chi lo ha persuaso, non dico di attribuire altrui, ma pur solo di pensare così vane sciocchezze, perocchè io credo che penerà assai di trovare in tutto il mondo un uomo così semplice, o più tosto così stupido, che abbia mai detto« Iddio aver formata la natura in modo da non esser sola capace di produrre i suoi effetti naturali«, e perciò aver egli bisogno di venirla soccorrendo a quando a quando, siccome una inferma, con frequenti miracoli? - La sua sana ragione par che assai poco l' aiuti non solo a conoscere e riferire fedelmente le opinioni altrui; ma nè a fingerle tali che siano tampoco verisimili, anzi pur solo intelligibili!!! Il terzo argomento del nostro autore è fondato sopra una difficoltà tante volte proposta e tante risoluta, che per accertarsi che un evento superi le forze della natura, sia necessario conoscere perfettamente queste forze, ciò che nessun uomo può. A lui era ben facile, degnandosi di aprire alcuno de' tanti cattolici scrittori che trattarono questa materia, trovare al suo dubbio una sufficiente risposta. Noi ci conterremo in poche osservazioni. In primo luogo non è necessario conoscere tutte le forze e leggi naturali, singolarmente prese, per accertarsi, che l' avvenimento sia miracoloso: sovente egli basta conoscere che la natura è limitata; e ciò basta ogniqualvolta trattasi di un tale effetto che porta in sè i vestigi di una forza infinita e però certamente sopra le forze possibili di una creatura. Tale sono: la creazione, le profezie; tali le operazioni interiori della grazia, tali le illustrazioni dell' intelletto a conoscere le cose lontane o quelle che altri ha chiuse nel segreto dell' animo. Parimenti soventi volte basta conoscere parzialmente una legge della natura e non tutte; e ciò ogniqualvolta l' avvenimento è direttamente contro quella legge, come apparisce nel miracolo del quatriduano, dell' apparire o scomparire di un uomo, e generalmente del rendere il proprio corpo fornito delle qualità de' corpi gloriosi, ecc.. Finalmente è da avvertire che di tali circostanze sono forniti i miracoli, generalmente parlando, come quelle delle subitanee guarigioni, che per lo meno inducono un sommo grado di probabilità e una morale certezza, la quale deve bastare a ogni uomo ragionevole; giacchè [è] dietro a una somma probabilità e morale certezza che ciascuno dirige le più gravi azioni della vita, e crede tuttavia di operare prudentemente. E l' esperienza ha mostrato che il sommo grado della probabilità, per dir poco, che mostravano in sè certi fatti miracolosi ha bene spesso ingerito la più alta persuasione dell' intervento di una forza soprannaturale, anche in quelli degli spettatori che si trovavano coll' animo interamente alieni dal prestar fede a dei fatti soprannaturali. Ma ciò che è sommamente necessario finalmente a poter discernere in fra tutte la dottrina che viene da Dio si è la buona disposizione della volontà. [...OMISSIS...] E la Chiesa cattolica per ciò può dire a quelli che non intendono la verità divina e salutare delle sue voci, quello stesso che diceva il suo Fondatore a quegli increduli che non rifinivano di domandargli argomenti e prodigi in confermazione della sua parola: [...OMISSIS...] . Riassumendo in breve e raccogliendo sotto un solo punto di vista tutto ciò che di più importante al nostro uopo abbiamo detto distesamente in varii luoghi intorno all' uomo, noi abbiamo veduto che il soggetto uomo nomina sè stesso col monosillabo IO. E come i vocaboli son quelli che dimostrano quali sieno le comuni opinioni, quelle cioè che vengono dagli uomini tutti generalmente assentite, per ciò basterà analizzare il significato che sta annesso a questo monosillabo IO per rivelare quello che per comune sentenza (2) si contiene nel concetto del soggetto appellato uomo . IO« uomo« veggo l' essere, Io veggo la verità (3), ma io non sono l' essere, io non sono la verità che pur veggo. Privo dell' essere, privo della vista della verità, l' IO ancora potrebbe sussistere, sebbene non potrebbe pensare se stesso perchè il pensiero non è altro che la vista dell' essere (4). L' IO che vede l' essere è intelligente, e senza l' essere, come si diceva, è privo d' intelligenza. Precedentemente adunque all' intelligenza è il concetto dell' Io, e un tal concetto quindi non può racchiudere che la nozione di un sentimento cieco, non essendo ancora illuminato dal lume della verità. Quest' Io sentimento, concepito privo d' intelligenza, la riceverebbe tosto che gli fosse dato di veder l' essere , che diventa in tal modo sua forma , ciò che lo adduce al suo più nobile atto. Un Io sentimento come l' abbiamo dedotto, privo d' intelligenza, è un Io animale; fornito d' intelligenza, si chiama uomo . Nel concetto dell' uomo adunque precede il concetto di animale a quello della facoltà intellettiva, e quindi acconciamente l' uomo viene definito un animale intelligente (1). L' essere che gli è dato a vedere è dunque nell' uomo, ma non è l' uomo; e l' uomo commette una usurpazione ogniqualvolta egli attribuisce a sè quelle prerogative che solamente all' essere sono dovute. L' usare di quest' essere che l' uomo vede, l' applicarlo ai sentimenti, cioè il considerare i sentimenti in relazione coll' essere, questo è ragionare . L' essere nell' uomo naturalmente si trova in uno stato molto imperfetto, cioè a dire l' uomo fino che non oltrepassa l' ordine della natura, non vede l' essere che imperfettamente, inizialmente, in un modo universale, indeterminato, senza una sussistenza in sè e per ciò come possibile. Quest' essere possibile e indeterminato che l' uomo vede per natura e che applica poi ai sentimenti, l' abbiamo chiamato essere ideale , ovvero modo ideale dell' essere . L' essere nell' uomo prende un nuovo stato allorchè l' uomo vien sollevato dall' ordine naturale all' ordine soprannaturale: quest' essere opera nell' uomo non più in un modo puramente ideale , ma in un modo sostanziale e reale; l' uomo prova allora un vero sentimento, non più una tenue idea; prova l' azione dell' essere reale che si manifesta in tal modo a lui presente; non è più solo la possibilità indeterminata dell' essere che ha in sè, ma la sussistenza medesima: insomma allora l' idea si cangia in percezione . L' essere reale che percepisce l' uomo in un tale stato, non è però limitato, ma bensì è determinato dalla propria sussistenza; non è possibile, ma tuttavia è universale in quanto il tutto [in] lui si trova; non è iniziale, ma anzi è completo. Quest' essere completo e reale è Dio stesso, il quale a questo mondo non si mostra se non in un cotal modo velato, e solo nell' altro si vede svelatamente e con pienezza. Ora chi considera bene la natura dell' essere naturalmente impresso nelle anime nostre, che anche si chiama« verità«, vedrà che non disconvenientemente si può dire esser egli una similitudine di Dio, sebbene non Dio stesso. Questo consegue dalle dottrine da noi esposte. Noi abbiamo spiegato in che consista il concetto di similitudine: abbiamo detto che due cose sono simili quando hanno una qualità comune: che non esistendo niente di comune fuori della mente, questa qualità comune non è che una eguale relazione che hanno le due cose colla mente, cioè con un' idea, onde si conoscono egualmente le due cose e si paragonano insieme: che perciò stesso l' idea si può dire la similitudine della cosa conosciuta, come acconciamente la chiamarono gli antichi (2). Ciò premesso è da considerarsi che noi conosciamo non solo le creature, ma Dio stesso colla vista dell' essere: per ciò questo essere di cui ci serviamo a conoscere Iddio convien che sia una similitudine di Dio. [...OMISSIS...] . Anzi dico di più che se noi conosciamo tutte cose coll' essere, quest' essere però che forma il lume della nostra mente, ha più similitudine con Dio che colle creature. Poichè che cosa è Dio? Dio è appunto l' essere: con questo è detto tutto, non conviene aggiungergli cosa alcuna, chè sarebbe un guastarne il concetto: nulla si può dire più di quello che insegnano i teologi cattolici, cioè che l' essenza di Dio consiste nell' essere . Questa grande verità Dio stesso l' ebbe comunicata a Mosè nell' antico Testamento, ingiungendogli di dire: « QUEGLI CHE E` mi ha mandato a voi« (4) ». Questa stessa verità insegnò pure il Verbo incarnato, dicendo: « Se non credete che IO SONO, morrete ne' vostri peccati« (5) ». Tutti i Padri commentano con delle sublimi riflessioni questi luoghi profondi delle Scritture dove si legge che l' essere è appunto Dio stesso. L' autore del celebre libro Dei nomi divini fa appunto osservare, dietro tali traccie di dottrina che dànno le Scritture, « come a Dio non conviene già la denominazione di ente sotto qualche aspetto particolare, ma semplicemente, e che egli abbraccia e occupa non già l' essere in un modo determinato, ma tutto l' essere« (1). » E ora l' essere è anche ciò che cade nella nostra mente prima di tutte le altre cose, poichè esso solo è intelligibile per sè medesimo, sicchè esso forma la nostra intelligenza. Di che Massimo, commentatore di quel libro sublime dei Divini nomi , trova la ragione del dare a Dio l' essere prima di ogni altra qualità, come la vita, la sostanza, ecc., in questo che « la mente, pur col suo primo posarsi, intende l' essere e pensa innanzi a tutto lo stesso essere e di poi considera essere in un cotal modo queste altre cose« (2) ». Conciossiachè era ragionevole che prima si desse a Dio ciò che prima cade nella nostra mente e per sè stesso s' intende; conciossiachè la natura divina deve certamente avere questa proprietà dell' essere la prima a doversi intendere, l' intelligibile per sè stessa, e però deve convenire con quell' essere che luce incommutabilmente nelle nostre menti. S. Bonaventura parla a lungo e profondamente in più luoghi delle sue opere della relazione che passa fra l' essere che forma il lume della nostra ragione e l' essere divino, e vi trova il più stretto nesso, trova [che] l' essere, col quale conosciamo le cose, non ci potrebbe prestare questo mirabile servigio di renderci note le cose tutte, gli esseri tutti, se egli non fosse una similitudine e una cotale partecipazione del sommo e perfetto essere. Perocchè assai acconciamente riflette l' acutissimo e santo Vescovo che non potremmo conoscere che i varii esseri, cui noi percepiamo, sono più o meno imperfetti, se in qualche modo non avessimo in noi il tipo della perfezione, se non potessimo consultare nel segreto delle nostre menti, in un modo maraviglioso e recondito, l' essere perfettissimo, poichè solo l' idea di ciò che è perfetto in qualsivoglia genere ci può aiutare a scorgere e conoscere e giudicare i varii gradi di perfezione delle cose che a quel genere appartengono. Egualmente si dica del giudicarsi che si fa dei pregi e difetti degli esseri, il qual nome di esseri abbraccia tutti i generi delle cose. Dice adunque il santo Cardinale così: [...OMISSIS...] . E perciò il santo Dottore dice questo essere, luce delle menti, una similitudine di Dio che in noi sta di continuo. « Essa ha, » (dice egli parlando della memoria, come quella che ritiene le verità sempiterne che tutte si trovano nell' unica idea dell' essere, come io ho mostrato nella Ideologia), «essa ha presente a sè stessa una luce incommutabile, nella quale si ricorda delle immutabili verità. E così apparisce nelle operazioni della memoria ch' essa... [che l' anima è imagine e somiglianza di Dio; per tal modo presente a sè stessa e avente Dio presente che e attualmente lo intende e potenzialmente è capace di parteciparlo«] (3) ». Nel qual passo sembra che il santo Dottore prenda la parola imagine per indicare il medesimo presso a poco che significa la parola similitudine. Nel lume della mente adunque, che è l' idea dell' essere in universale, si contiene una cotale similitudine di Dio: e la ragione intrinseca colla quale ciò si prova si è quella che abbiamo indicata, cioè che nell' essere da noi concepito non si trova che puro essere senza alcuna limitazione o aggiunta di sorta alcuna, il che medesimamente si può dire di Dio che è essere sincerissimo e purissimo, nè ha meschianza di alcun' altra cosa in sè: di che è, come dice S. Giovanni Damasceno, che [...OMISSIS...] . In questa sincerità e semplicità dell' essere che sta di continuo al nostro spirito presente, noi poniamo la similitudine di lui con Dio. E questa sincerità e purità dell' essere mentale e dell' essere divino merita che sia da noi attentamente contemplata. E` appunto perchè Iddio non è altro che essere , che Dio è tutto: in questo vocabolo si esprime tutto per modo che qualunque cosa si volesse aggiungergli che diversasse da lui, già non sarebbe un accrescerlo, ma un limitarlo, un diminuirlo. Il grande Abate di Chiaravalle nell' opera che scrisse al suo discepolo Eugenio III e che intitolò Della Considerazione , fa una riflessione simile a questa. Egli parla di Dio nella seguente maniera: [...OMISSIS...] . Or dunque nel solo e puro essere si trovano tutte le cose, e ove si volesse mescolare con lui altra cosa, non sarebbe che un mescolargli il nulla, poichè fuor dell' essere non è veramente che il non7essere, il nulla. Ora in questo noi dicevamo consistere la similitudine che passa fra quell' essere che è innato nelle nostre menti e Dio, in questa sincerità e purità: poichè tanto Dio quanto l' essere ideale innato in noi niente hanno in sè di diverso e, per così dire, di eterogeneo, ma sono impermisti e semplicissimi. Di questo è che anche nell' essere ideale si trova tutto, e dalla sola sua nozione potrebbe dedurre la cognizione di tutte le cose chi tanto valesse per forza dialettica, perocchè qualunque anche minima notizia dell' essere basta per sè a dedurne ogni notizia maggiore e a determinare, per così dire, il problema di trovare l' ordine intrinseco dell' essere, nel qual ordine tutte le divine verità e tutte le cose, come parti di esso ordine, si comprendono. Il che è l' effetto della somma semplicità e individualità dell' essere stesso, il quale non può essere mai partito dal suo tutto. E però chi ne riceve un raggio solo anche tenuissimo, riceve però tal cosa, la quale suppone e chiama per necessaria illazione, cioè per intrinseca sua esigenza e necessità, l' intero a cui ella si appartiene, e dal quale ella è, relativamente al soggetto che la percepisce, in certo modo, staccata. E questa è la ragione appunto, per la quale l' essere innato nella mente ha l' attitudine in sè di farci conoscere tutte le cose, o anzi piuttosto riconoscerle e quasi richiamarcele alla memoria: dal qual fatto è nata la reminiscenza de' Platonici. Perocchè veramente il fatto della cognizione, chi attentamente lo osservi siccome avviene e l' analizzi, mostra avvenire per siffatto modo che sembra piuttosto un ricordarci che noi facciamo di cosa già prima conosciuta e appresso dimentica, che non sia un ricevere una interamente nuova notizia. [...OMISSIS...] . E questa osservazione si può portar oltre, e estenderla alla sola cognizione de' primi principii, che non sono altro finalmente se non l' essere innato nelle varie sue applicazioni; ma sì anco alle cognizioni tutte in universale ed alla stessa percezione, almeno considerate in quanto sono cognizioni . Perocchè che è il conoscere e percepire una cosa, poniamo che essa sia anche contingente? Non altro se non vedere il rapporto di quella cosa (cioè dell' azione fatta da essa ne' miei sensi) coll' essere a me innato. E che è vedere questo rapporto? Non è altro se non accorgersi che vi ha convenienza fra l' azione da me sofferita nel senso e l' essere a me innato; cioè accorgersi che l' azione da me sofferita suppone un essere che la faccia, e quindi è un' appartenenza dell' essere, traendone così per illazione che l' essere suo corrispondente deve sussistere. Col conoscere adunque quella cosa contingente io non faccio che ravvisare nella sua azione sopra di me un atto dell' essere che io già conosco; non è che un riconoscere adunque in atto, e in un atto particolare, ciò stesso che io prima conoscevo in potenza e in un modo universale, perchè era nel mio spirito (1). Ma dunque se nell' essere ideale si trovano e sono già contenute tutte le cose in quanto sono possibili (2), in quel modo che la condizione è contenuta nel condizionale, la conseguenza nel principio; onde è che io non posso da lui solo svolgere la cognizione di tutte le cose? E ho bisogno che le cose stesse mi feriscano e portino in me un cotal sentimento di sè stesse, acciocchè io quasi mi svegli da un mio letargo e apra gli occhi a riconoscere che quelle cose erano anche prima in quella nozione, che in me luceva dell' essere, contenute e comprese? Ciò nasce appunto dalla mia tardità, da un cotal letargo della mia potenza di ragionare e prima di tutto dalla debolezza del mio occhio intellettivo che prende sì poco dell' essere e in cui non può quindi attingere ciò che pure vi sta, se non dopo di aver ricevuto l' impressione delle cose reali nei sensi e aver confrontate queste impressioni con quell' essere e vedutane la loro convenienza e uniformità con esso. Il che avviene in quella guisa appunto che negli enimmi, de' quali quando ci è comunicata la soluzione tutto ci riesce chiarissimo e vediamo come le circostanze indicate indicavano quella soluzione e altra non ne potevano ricevere; e tuttavia noi non l' abbiamo saputa trovare prima di udirla, per mancarci quel grado di perspicacia, che non è altro che una maggiore e più intima visione della cosa, la quale ci sarebbe stata necessaria per trovare il conveniente scioglimento dell' enimma proposto. Ora il grado di perspicacia dato alla natura umana dal Creatore non è tale, che nell' essere possa penetrar tanto da vedervi le cose determinate e compite, ma di aver bisogno per veder queste che le cose stesse agiscano nel nostro sentimento e ci lascino delle modificazioni, che sono altrettante traccie e segni di sè stesse, coll' aiuto delle quali noi interpretiamo l' ordine e la natura dell' essere in noi rispondente (1). Fissata così la similitudine che passa fra l' essere innato, che abbiamo detto anche iniziale perchè da noi si vede solo inizialmente, e l' essere divino che è l' essere completo, consistente nell' essere l' uno e l' altro puro e semplice essere; sarà facile di vedere la verità di quella proposizione da noi più sopra proferita, cioè che l' essere innato non solo è una cotale similitudine di Dio, ma altresì che egli ha più similitudine con Dio che non sia con tutte l' altre cose limitate che con esso essere noi conosciamo. Perocchè è manifesto che nessuna delle cose limitate è puro e sincero essere, ma ha in sè una limitazione, e quindi una cotale imperfezione, una potenzialità e una contingenza; condizioni che appartengono al non essere, le quali rendono quelle cose dissimili dal purissimo essere che è la luce delle menti. Anzi se noi attentamente consideriamo la maniera, colla quale noi veniamo a conoscere le cose contingenti, ci apparirà che si può dire in un senso verissimo, e l' hanno detta tutti i filosofi e i teologi, cioè che Dio solo E`, e le altre cose non sono veramente. Ecco come si spiega assai facilmente questa strana sentenza coi principii della nostra filosofia. Acciocchè noi percepiamo una cosa qualsiasi, egli è necessario che noi riceviamo la sua azione e impressione nel nostro sentimento, ed è questa impressione e sensazione che in noi produce ciò che ci fa indurre esistere la cosa che ci ha modificati: tale è la nostra percezione delle cose, e la cognizione loro è pure determinata dal fantasma o sensibile impressione rimasta nel nostro sentimento dalla loro azione su di noi. Questo discorso è così generale che vale per Dio stesso. Se non che il toccarci di Dio è un toccare proprio e distinto da ogni altra modificazione che noi riceviamo dalle altre cose. Questo è il toccamento dell' essere stesso, e ciò appunto che modifica quello che io chiamo senso intellettivo o spirituale, e non è diverso dall' intelletto se non perchè s' aggiunge un toccamento reale di un essere sussistente. Sicchè questo oggetto determina, specifica o piuttosto informa e costituisce di sè una potenza, quella dell' intelletto o del sentimento intellettivo, in una parola, la potenza dell' essere. Ora si consideri che in questa potenza niente altro opera nè può operare: essa è per tal modo esclusivamente la potenza dell' essere, e a ricevere questo solo destinata, che se un' altra cosa agisse in lei, sarebbe già per questo solo un' altra potenza, nascendo da questo la sua definizione, che essa è la potenza che presiede alla percezione dell' essere. Tutte le altre cose adunque, agendo in noi, non agiscono se non in sentimenti loro proprii, i quali sentimenti parimenti sono informati e costituiti dai loro oggetti o più veramente da quelle cose che colle loro azioni servono ai medesimi di materia. Or dunque, se col solo intelletto si percepisce l' essere, se nessun' altra cosa agisce nell' intelletto e se non percepiamo cosa alcuna se non in quanto opera su di noi, ne viene conseguentemente che delle cose tutte noi non sentiamo già l' essere, ma puramente la loro azione e che solamente per lo percepire che facciamo questa loro azione noi attribuiamo poi loro l' essere di nostro proprio moto: e così quelle che sono azioni in noi, ci diventano altrettanti esseri, non perchè, come dicevamo, noi le percepiamo come esseri, ma perchè noi le supponiamo tali, prestando e somministrando, quasi direi, noi stessi colla nostra intelligenza l' essere a tutte le cose e così costituendo in cotal modo le cose e facendole esistere. Quindi è che se non esistessero esseri intelligenti di nessuna specie, nessun ente sarebbe: il che spiega in qualche maniera quello che la teologia insegna, la creazione degli esseri nascere per un atto della intelligenza divina, cioè pel Verbo, luce di tutte le intelligenze (1); perocchè veramente la conoscibilità delle cose è ciò che le costituisce cose, e per la quale si possono chiamare enti (2). Senza la conoscibilità loro non sarebbero che come azioni o termini del solo essere, termini che non si potrebbero in alcun modo confondere coll' essere stesso, il quale, come dicemmo, è purissimo e impermisto, e rimarrebbero quindi da lui infinitamente distinti, sebbene per lui e in lui solo esisterebbero. Quindi è che la conservazione delle cose è veramente una continua creazione, e che noi, come dice la Scrittura, siamo, ci moviamo e viviamo in Dio (1); e che Dio porta tutte le cose colla sua parola (2); e che le cose tutte fuori di Dio sono vanità, sono tratte dal niente e sono niente (3). Platone, a cui piace di vestire le sue dottrine con imagini prese dalle cose sensibili, paragona le cose tutte alle ombre e Dio al corpo che produce l' ombra, e accusa di stoltezza gli uomini, i quali pigliano quelle ombre vane per cose reali e a quelle in luogo che a queste volgono i loro affetti (4). E una tale similitudine delle ombre dopo averla trovata Platone, fu ripetuta da tutta l' antichità; il quale consentimento prova la verità che in lei si riconosceva. Videro o certo travidero gli antichi savii questo vero, cui l' ideologia da noi esposta mette nella luce più patente, che altro è l' essere, e altro le azioni dell' essere e i termini di queste azioni: e videro che in tutte le cose contingenti ciò che noi percepiamo propriamente non è mai l' essere, ma unicamente sono azioni e passioni (5); e che queste azioni varie non sono l' atto primo (il quale è unico ed è l' essere stesso); e che perciò esigono un essere primo e supremo onde procedessero (6). Da questo conchiudevano che alle cose, appunto perchè mostrano in sè d' aver bisogno di essere prodotte, in una parola perchè mostrano la loro contingenza , non propriamente, ma quasi per opinione (1) si applica la parola di esseri, che solo propriamente conviene all' essere primo, per sè, non prodotto da altri, cioè a Dio. Perciò S. Girolamo: [...OMISSIS...] . Il perchè l' autore dell' Ipognostico (3) dice che anche dell' altre cose si può dire che abbiano la esistenza, ma non come si dice di Dio, il quale non ha PRINCIPIO del suo essere: laddove quelle, coll' aver preso da lui il principio di ciò che sono, cominciarono a essere. Il quale principio preso da Dio è appunto quel primo atto che, come dicevamo, le creature non hanno in sè stesse, ma loro viene in qualche modo attribuito. Il che pure esprime medesimamente il magno Gregorio, là dove, parlando delle create cose, dice: [...OMISSIS...] . E ciò rende luce su quella appellazione che Cristo dà a sè stesso di essere lui il principio, EGO PRINCIPIUM, che è quanto dire il primo atto e però l' atto universale (5). Questa è dottrina comune dei savii (1), la quale esige però non piccola fatica a così ben penetrarne chiaro il senso da non punto equivocare e prendere errore. Perocchè se Dio è quel primo atto onde tutte le cose sussistono, pare che egli si mescoli e confonda colle cose stesse: il che sarebbe non pure un dannoso errore, ma ben anco un manifesto assurdo l' affermarlo, perocchè si distruggerebbe con ciò quel Dio, che è appunto Dio per questo, che egli è tutto essere sincerissimo e da ogni mistura mondissimo. Di che è necessario tenere la dottrina del santo martire Massimo, che congiunge due veri, i quali sembrano fra loro opposti, e pure nol sono. Perocchè comincia egli dal dire che Dio si fa l' essere di tutte le cose. [...OMISSIS...] Il che S. Massimo segue poi a dichiarare più lungamente. Perocchè dopo aver detto che, rispetto alle cose che sono e si formano, Iddio è di tutte la sussistenza ed è tutte le cose, soggiunge: [...OMISSIS...] . Chi scruta adunque la natura delle cose create, chi bene attende a quello che realmente noi percepiamo quando di esse riceviamo la percezione, manifestamente conosce, che esse non sono l' essere, che esse non sono, e non ci si fanno conoscere se non come azioni e termini dell' essere (3): e che questa loro cotale vacuità, questa loro contingenza, questa deficienza di essere, ci conduce a vedere la necessità dell' essere, cioè di un primo atto immobile e universale il quale e le abbia create e le venga creando di continuo, cioè sostenendo, perchè non ricadano nel nulla. La quale mi pare una dimostrazione della divina esistenza così ferma e invincibile che nulla più: perocchè l' Essere supremo apparisce la condizione e l' origine di tutto l' universo, e ogni mente è costretta a pensare Dio prima di ogni altra cosa, come quello che è il mezzo della cognizione. Perocchè l' ente supremo è assai più certo, evidente e necessariamente esistente dello stesso universo o spirituale o materiale, che pur nessuno revoca in dubbio, perchè nessuno finalmente può nè vuole rinnegar sè medesimo. Tutto ciò prova che l' idea dell' essere, il quale luce nelle nostre menti, ha una vera similitudine [più] con Dio che colle creature, perchè le creature non sono l' essere, e Dio è l' essere, e l' essere è quello che nelle nostre menti risplende. Ma proseguiamo a rilevare i diversi tratti di questa maggiore similitudine che ha l' idea dell' essere con Dio, di quello che l' abbia colle creature. Fino che noi consideriamo la pura e sincera nozione dell' essere senza aggiungervi cosa alcuna, noi troviamo che quest' essere semplice non può non essere, perocchè [è] assurdo e contradditorio il dare all' essere il predicato di non essere. Quindi egli è necessariamente immutabile e eterno. Ora questa immutabilità e eternità si ravvisa egualmente nell' ordine delle idee e nell' ordine delle cose appartenenti alla divinità: il che costituisce una nuova similitudine fra l' idea dell' essere innata nella nostra mente e Dio. All' incontro tutte le altre cose non sono l' essere: non ripugna adunque per esse il non sussistere, quando anzi sussister non possono senza che l' essere a ciò [le] aiuti e spinga. Quindi la contingenza delle cose porta in esse la possibilità di mutazione e di una vicenda di nascimenti e di distruzione: il che le rende dissimili come dall' essere sussistente, così dall' essere ideale. E da questa mutabilità appunto delle cose e difformità loro dalla natura e proprie condizioni dell' essere i savii antichi conchiudevano, che ad esse non appartiene propriamente l' essere e il denominarsi enti. Eraclito, secondo la testimonianza di Plutarco, diceva non poter noi entrar due volte nello stesso fiume; e simigliantemente nessuno poter toccare due volte la mortale sostanza soffermata quasi in un medesimo stato, perchè essa per un continuo e repentino impeto di mutazione di subito si dissipa e di bel nuovo si raccoglie: o anzi non di nuovo e non di poi, ma nell' istante medesimo esiste e finisce, se ne viene e se ne va. E che è dunque, soggiunge, ciò che veramente è? Per fermo quel solo che è sempiterno, che non ha nascimento nè morte e a cui nessuna vice di tempo reca mutazione (3). Nel dichiarare il qual vero è in più luoghi delle sue opere Sant' Agostino, e particolarmente nel trattato XXXVIII sopra di S. Giovanni, in occasione di spiegare quelle parole di Cristo: « Se voi non crederete che io sono« ». Ivi fra le altre cose dice: [...OMISSIS...] . Per tutte queste considerazioni si rende quindi manifesto, che se le cose assolutamente parlando non sono l' essere, e se all' incontro la luce della mente è l' essere stesso semplicissimo, quelle non possono avere con questa luce quella vera e propria similitudine che ha colla medesima l' essere divino, cioè l' essere semplicissimo, assoluto, sussistente. E qui si chiederà in che modo il nostro spirito possa conoscere le cose, se non vi ha similitudine vera e propria fra le cose e l' idea colla quale il nostro spirito conosce le cose. E qui rispondo che perciò appunto noi per conoscere le cose contingenti abbiamo bisogno del senso e di un senso diverso al tutto dalla potenza intellettiva, perchè questa è troppo alta, e le cose contingenti non hanno alcuna proporzione con lei, sicchè esse non possono esservi ricevute. Sicchè è un' altra potenza, un altro senso quello che le percepisce, e per restringerci alle cose corporee, è il senso animale. Ricevute poi nel nostro senso animale, cioè a dire ricevuta la passione che esse vi cagionano con una reale azione, NOI che siamo pur quelli stessi, che come animali sentiamo e come intelligenti vediamo l' essere, diventiamo come i mediatori fra le cose contingenti e l' essere, diventiamo l' anello col quale si congiungono quelle a questo, veggiamo quelle e veggiamo questo, e veggiamo il rapporto fra quelle e questo. Allora annunziamo a noi stessi questo rapporto, il che è pronunciare la parola interiore ossia il verbo, e diciamo: questa passione è l' effetto di un essere; ossia qui dove c' è questa passione, c' è un essere operante: in tal modo diamo l' atto dell' essere, il primo atto a quelle passioni che per sè non sono se non atti secondi i quali perciò presuppongono il primo: e in dicendo così noi veggiamo tanti varii esseri quanta è la varietà delle passioni; ma conosciamo che tutti questi esseri non hanno se non la forza di un solo essere che li sostenti, cioè l' essere puro, fonte e creatore di tutti. Così è che al sentimento delle cose noi aggiungiamo un' operazione dello spirito che noi diciamo percezione intellettiva e che gli antichi chiamavano anche opinione . Perocchè è con questa dichiarazione che abbiam data, che rendesi facile a intendere quell' antica dottrina che abbiamo più sopra toccato sol di passaggio, cioè, che« le cose divine e sempiterne, dicevamo, e tutte, come io ho mostrato, si riducono all' essere ideale e reale, si conoscono mediante la mente; ma le cose contingenti o soggette a nascere e morire, si conoscono pel senso e per la opinione«. Togliamo dall' antichità un altro luogo dove sia espressa questa dottrina. Eusebio nell' opera della Preparazione evangelica (1) toglie a esporre la dottrina di Platone intorno a Dio, e comincia dicendo essere stata sentenza di quel filosofo ateniese, che « a Dio è proprio di essere, e delle altre cose è proprio di non essere« ». E poi seguita a narrare la platonica dottrina in questo modo: [...OMISSIS...] (cioè quello che si genera e muore e veramente non è) (1). Un' altra riflessione non posso ommettere qui. Le cose tutte, dicevano questi antichi savii del gentilesimo non meno che quei del cristianesimo, non sono veracemente, perchè di Dio solo è ogni essere, essendo egli solo tutto l' essere, e in breve e semplice parola, più della quale non si può andare, essendo l' ESSERE (2). E tuttavia le cose si fanno credere all' uomo come esistenti, cioè a dire l' uomo, dimenticandosi del primo essere, si ferma negli esseri secondi e in essi talora finisce colla sua mente: il che è un dar loro quello che solo a Dio è proprio, è un divinizzare le creature. Quindi ebbe sicuramente la profonda sua origine l' idolatria della natura e di tutte le cose create. Ora a ciò viene l' uomo tirato e lusingato da quella apparenza di esistenza che mostrano le creature stesse; e indi è che tutte le cose stesse per questa faccia di esistenza che mostrano, la quale è come una maschera e bellezza vana che seduce e trae a crederle qualche cosa per sè stesse, sono chiamate ora« vanità«, e ora« menzogna«, e che Dio solo è detto dai Padri essere verità. Questa dottrina s' incontra di frequente in S. Agostino; ma io mi restringerò qui a recare in mezzo solo un passo tolto dal libro intitolato Della cognizione della vera vita , per non essere infinito. Vi si dice adunque di Dio così: [...OMISSIS...] . Dalle quali cose apparisce, che l' essere impresso nella mente è una similitudine di Dio: che quell' essere ideale è più simile a Dio che non sia alle creature: che per ciò Dio si conosce immediatamente in virtù di quell' essere, ove che a noi si manifesti; ma che le cose contingenti non si percepiscono in questa pura nozione dell' essere, ma in un loro proprio sentimento; il qual sentimento sarebbe cieco e incognito se il nostro spirito non lo richiamasse all' essere stesso e non lo considerasse come un' azione sua, come un suo termine (2), e così lo illustrasse. Egli è mediante questa operazione che fa la mente che si predica l' essere di Dio e delle creature univocamente, come ho altrove affermato. Questa univocazione del nome di essere applicato a Dio e applicato alle creature, deve intendersi per modo che l' essere, che affermiamo comune, non sia tale se non nel concetto che noi possiamo avere delle creature e di Dio: perocchè noi non possiamo avere concetto di nessuna cosa se non a questa condizione che vi uniamo la nozione dell' essere, la quale in tal modo diventa comune. Laddove se noi vogliamo considerare Dio e le cose in sè, nella loro propria sussistenza, noi dobbiamo ben chiaramente accorgerci, che l' essere non si può applicare alle creature se non come loro sostegno e causa, ma non come elemento, il quale entri a comporle. Perciocchè l' essere non è proprio se non di Dio solo (4). E` dunque per l' imperfezione, nella quale sussiste l' essere nella nostra mente, che noi l' applichiamo indifferentemente a Dio e alle creature: il quale essere se fosse da noi in perfetto modo veduto, nol potremmo applicare più alle creature, quasi che esse lo avesser da sè, ma vedremmo piuttosto in lui, incommunicabile come egli è e indivisibile, le creature stesse come in loro causa e radice sussistere. Perocchè l' essere che è nella nostra mente, per sì tenue modo il veggiamo che è piuttosto un iniziamento di essere che l' essere stesso, e per ciò sotto questo aspetto, quasi diversando dall' essere, non disconviene applicarlo alle creature; e anzi applicandolo al Creatore non ci dà la piena notizia di lui (5). La quale non si può avere, come abbiamo mostrato, se non in percependo la stessa sussistenza sua, nella quale l' essere ideale viene compiendosi e unificandosi coll' essere reale. La volontà dell' uomo tende al bene conosciuto. Tanto adunque si stende l' affetto della volontà, quanto si stende il bene conosciuto. Perocchè fatta la volontà, come si diceva, pel bene, non può mettere un limite alle sue proprie forze, ma ove che un bene le apparisca, ivi necessariamente deve tendere coll' affetto del desiderio, e non può non volere qualsivoglia bene, se non a condizione di considerarlo sotto aspetto di male, cioè come impeditivo di bene maggiore: sicchè il movimento dell' umana volontà non è mai appieno e necessariamente quietato, se non ha t“cco e ottenuto il bene conosciuto. Chi vuol dunque vedere quanto si allarghi il pelago dell' umano desiderio, basterà che misuri quali e quanti sieno i beni che può conoscere: la sfera della volontà è quella medesima dell' intendimento. Ora l' intendimento è formato dall' idea dell' essere in universale e però non ha limite alcuno se non l' infinito. Perocchè, dopo aver conosciuto quali e quanti si vogliano degli esseri finiti, l' uomo può pensare e foggiarsene sempre degli altri, perchè nessuna eccellenza o quantità di beni finiti può mai adeguare l' essere universale, col quale l' uomo pensa, e però ha sempre mai in sè onde pensarne degli altri, e finchè non è pervenuto a pensare un essere al tutto senza limiti e da ogni parte infinito, resta sempre all' uomo un progresso d' intendimenti senza misura nè fine (1). Quindi come il moto dell' intelletto non trova posa e termine se non giunto nell' infinito essere, così parimente la volontà non può interamente cessare dal suo moto e desiderio se all' infinito bene non sia pervenuta. Tale è costituita la natura umana: e tale è pure la natura di qualsivoglia essere intelligente e volitivo. Or poi la volontà non si unisce pienamente al bene se non per una cognizione reale; non potendola soddisfare pienamente una congiunzione solo incoata, quale è quella dell' essere ideale (2). Premesse queste notizie sull' intrinseca natura dell' uomo e delle sue potenze, apparisce manifestamente che l' uomo costituito nell' ordine puramente naturale sarebbe stato imperfetto, perchè non avrebbe avuta giammai la congiunzione reale di quel sommo bene a cui la sua volontà è indeclinabilmente volta e nel quale solo può appieno saziare il suo desiderio: come pure il suo intendimento per trascorrere di una in altra cognizione di tutti gli esseri finiti, non avrebbe ottenuto giammai riposo alcuno, ma infaticabilmente si sarebbe aggirato in continua mutazione di oggetti da lui contemplati e non trovato cibo a sè proporzionato veramente in nessuno (1). Nè io voglio affermare per questo che l' uomo, anche lasciato da Dio nello stato naturale, sarebbe stato al tutto misero, o che sarebbe necessariamente scaduto a cercare nelle creature una felicità a lui impossibile di ritrovare rendendosi in qualche modo colpevole. Ma dico solo, e ciò appar manifesto dalla natura dell' essere e del bene in universale a cui tende in lui l' intendimento e la volontà, che gli sarebbe mancato il più e il meglio di quella felicità e tutta quella dignità morale, di cui la sua natura è capace, e che però sarebbe stato imperfetto. Indi appare sì conveniente all' uomo, come conveniente parimenti a Dio, le cui opere son tutte perfette, come dicono le Scritture, che l' uomo fosse non pure fornito d' intelligenza, ma ben anco costituito in grazia, solo mezzo onde possano essere compiutamente soddisfatte le supreme sue esigenze e riempita l' immensa capacità della stessa sua intelligenza. La grazia perfeziona nell' uomo e compisce l' essere a lui presente. L' essere che in quanto è veduto naturalmente dall' uomo, è una similitudine di Dio, quando è compiuto dalla grazia riceve una nuova nobiltà, un nuovo carattere, che può ricevere acconciamente e propriamente la denominazione d' imagine di Dio. Conviene ben determinare il valore di questa parola imagine per conoscere la verità di ciò che io dico: nel che seguiremo S. Tommaso che pone sempre grande accuratezza nel precisare il significato delle parole le quali egli usa. Dice adunque il santo Dottore, che ogni imagine è una similitudine ; ma tuttavia non qualsivoglia similitudine basta ad avere concetto d' imagine (1). L' imagine è una similitudine delle più perfette: e in che poi mette egli questa perfezione maggiore della similitudine per la quale essa prende convenientemente il nome d' imagine? In due note, sottilmente assegnate da S. Tommaso, dietro le ecclesiastiche tradizioni. La prima è che la similitudine riguardi la specie, cioè l' essenza specifica della cosa (2), perchè se le cose fossero simili solamente in qualche parte non riguardante la specie, l' una non potrebbe essere imagine dell' altra. La seconda, che l' imagine sia espressa, cioè cavata dalla cosa di cui essa è imagine; sicchè un fratello non direbbesi imagine del fratello, ma bensì direbbesi il figliuolo essere imagine del padre: e così parimente una testa idealmente dipinta non direbbesi acconciamente ritratto di chichessia, eziandio che si abbattesse a essere simile al volto reale di un uomo; perchè noi congiungiamo sempre col concetto d' imagine questa relazione di lei colla cosa imaginata, la quale fece da originale o modello onde l' imagine si ritrasse. Chiarito così il significato della parola imagine , parmi essere facile il vedere la verità della nostra proposizione: che la grazia nell' uomo è una vera imagine di Dio. E veramente l' essere che costituisce la naturale intelligenza dell' uomo, sebbene similitudine di Dio, non si può però chiamare propriamente imagine, se non potenzialmente, nel qual senso lo chiamano talora imagine i Padri (1). Egli non è se non un lume che precede la imagine, che la rende possibile, che le prepara la via e quasi direi ne fa nell' uomo il disegno a nudi contorni, il quale aspetta poi di essere dal sommo e eterno Artista realmente eseguito (2). E veramente l' essere in universale innato nella mente non è Dio, non è nè pure propriamente parlando una nozione di Dio: egli per ciò non può essere un' imagine di Dio, perchè nè è simile a Dio nella specie, nè è un segno della specie divina. Un segno della specie o natura divina è la concezione dell' essere divino che col lume naturale si può fare in un modo negativo, ma ella non importa una vera imagine, appunto perchè è negativa e nulla viene espresso in essa della divina natura. Oltracciò questa concezione, se si vuol anche chiamarla imagine, non è connaturata nell' uomo, ma acquisita e aderente come una pura idea. E noi favelliamo di quella imagine che sta impressa o può essere impressa nella stessa natura dell' uomo. Dicemmo che l' essere universale non è simile a Dio nella specie, nè ad un segno della specie divina. E veramente l' essere innato non può essere simile a un segno della natura divina, perchè la natura divina non ha segni naturali che sieno atti a rappresentarla, come la figura rappresenta l' uomo o un altro animale (4). Non può poi essere simile a Dio stesso in quanto alla specie, perchè la specie di Dio non è che la sostanza di Dio, ossia la divina sussistenza; e nell' essere noi non vediamo nè percepiamo alcuna realità, alcuna sussistenza, ma puramente una idealità che è quanto dire una possibilità di essere: dal che è intieramente aliena e dissimile la divina sostanza, che ha il sussistere per sè e in sè medesima. Or dunque qual cosa potrà essere imagine di Dio? Qual cosa potrà somigliar a Dio in quanto alla sua stessa specie o sostanza? Chi potrà avere qualche cosa di simile col sussistere stesso di Dio? Certamente perchè una cosa sia vera imagine dell' altra, questa imagine deve avere qualche cosa di comune coll' altra appartenente alla natura dell' altra. Questa è dottrina ferma della filosofia, non meno che della cristiana tradizione. [...OMISSIS...] E S. Giovanni Crisostomo parimente osserva: che nessuno a cui fosse ignoto l' oro potrebbe vedere la natura di questo metallo rimirando l' argento, appunto perchè una natura non si fa già vedere mediante un' altra natura diversa (2). Ora che cosa può Iddio aver di comune con qualche altro essere? Può forse avvenire che una parte della sostanza appartenga, sia posseduto da altri in proprio, come elemento o parte comune? Impartibile è la divina sostanza, e per ciò essa o deve trovarsi tutta, o non può trovarsene una sola parte, siccome può avvenire negli esseri creati che hanno delle qualità comuni e delle qualità proprie, appunto perchè non sono perfettamente semplici. Indi è a dire, che non può esistere una vera imagine di Dio se questa imagine non sia Dio stesso avendo in sè tutta intera la divinità: perchè rispetto a Dio non vale l' esempio delle creature delle quali si danno imagini che partecipano della sostanza o natura delle cose ritratte, ma non di tutto, e solo di una parte, e talora anche accidentale e tenue, ma bastevole però a sentire il segno della sostanza, come avviene de' corpi mediante le loro figure. Indi è che i maestri delle teologiche dottrine insegnano concordemente, non darsi di Dio se non una vera, propria e piena imagine, e questa essere il Verbo eterno che possiede in comune col Padre e collo Spirito Santo tutta intera la divinità dal Padre, ab aeterno ricevuta. Perciò dice S. Ilario: [...OMISSIS...] . Il perchè gli Ariani e altri eretici che detraevano alla divinità del Figliuolo, furono convinti di errore dai Padri pur con questa sola parola di imagine, attribuita dalla divina Scrittura al Figliuolo, che dimostravano non potersi punto nè poco dire imagine di Dio se non avesse tutta la natura sostanziale di Dio. E da questa sola dottrina, che vi ha una sola imagine di Dio e questa stessa è Dio, si rendono chiare quelle parole di Cristo: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio« (2) ». Imperocchè, se il Figlio è diverso di sostanza dal Padre, in che maniera si può vedere il Padre nel Figlio? Che se una statua di legno non può conoscersi in una statua di pietra, perchè non è della stessa sostanza; e se non una pietra nel legno e non il legno in una pietra si vede per la diversità delle sostanze, conseguente cosa è che Dio Re dell' universo si conosca nel suo Figliuolo consostanziale. Conciossiachè in quelle cose che sono della medesima specie, appena vedute, si ha notizie anche di quelle non vedute, per ciò appunto che sono consostanziali (3). Dalle quali tutte cose manifestamente apparisce, che Dio solo può essere vera imagine di sè stesso e che a nessuna creatura compete un titolo tanto eccellente. Or di qui tuttavia apparirà che per la grazia invece viene nell' uomo impressa l' imagine divina. Ciò risulta dalle cose esposte nel libro precedente, dove abbiamo mostrato, tenersi, secondo l' ecclesiastica tradizione, che la grazia si faccia mediante un' operazione reale di Dio nell' anima umana (4): per la grazia essere Iddio formalmente congiunto coll' uomo (5) e quindi diventar lui un vero tempio di Dio. Lo stesso vero apparirà fornito di maggior luce ove si consideri insegnare l' ecclesiastica tradizione, che il principio della rivelazione soprannaturale è il Verbo divino, l' imagine del Padre, sia in un modo occulto, come nell' antico Testamento, sia ancor più nel nuovo, nel quale parla il Verbo manifesto (7). Di più ancora, [ciò apparirà, se si considera] che il Verbo divino si fa ancora per opera dello Spirito Santo il principio della santificazione e della grazia (1). Perocchè lo Spirito Santo non fa, come insegnano i Padri, se non chiarificare e quasi accendere il Verbo nelle anime nostre. La relazione esterna è quasi simile ad esca preparata nel f“co di volta elittica, la quale s' accende agevolmente se nell' altro f“co della volta si mettano dei carboni accesi: oppure è simile a face che collocata innanzi a terso specchio pur col suo accendersi accende altresì nello specchio la stessa [face] e fa brillare una luce eguale a sè. Tale lo Spirito Santo pur coll' entrare nell' anima vi accende in essa il Verbo, che è quanto dire la vera imagine di Dio Padre. Egli è per questo, come abbiam veduto, che lo Spirito si paragona a un suggello che, impronta, per mezzo della fede che vi accende, nell' anime il Verbo, nel quale, cioè in Cristo, credendo, dice l' Apostolo Paolo, siete improntati collo Spirito di promissione santo (3). E ancora: E non vogliate contristare lo Spirito Santo « di Dio, nel quale siete suggellati pel giorno della redenzione« (4) ». Il perchè Didimo scriveva: [...OMISSIS...] . Quindi è che non pochi Santi insegnano che l' imagine di Dio nell' uomo non si dà se non per lo Spirito Santo, perocchè appunto allo Spirito Santo si attribuisce la grazia e il segnare le anime colla comunicazione del Verbo, de' quali recherò solo S. Cirillo di Alessandria: [...OMISSIS...] . Da tutte le quali cose apparisce che l' imagine di Dio non è l' uomo, se non perchè essa imagine è nell' uomo, a quella guisa che l' imagine di Cesare sulla moneta è sulla moneta, e non è la moneta materialmente considerata: la quale imagine di Cesare sulla moneta è tratta appunto da S. Agostino a significare l' imagine di Dio impressa nelle anime nostre (1). Apparisce per conseguenza esser la grazia quella che nell' uomo mette questa imagine, ad esser quest' imagine, di cui l' uomo si adorna, una partecipazione dell' unica e vera imagine della sostanza divina, il Verbo eterno. A queste verità si riferiscono le parole di S. Paolo: « Quelli che egli ha presciti, ebbe anche predestinati, acciocchè si facessero conformi all' IMAGINE del Figliuol suo« (2) »: a cui soggiunge l' Apostolo: « Acciocchè egli sia primogenito fra molti fratelli« ». Nelle quali parole si vede espresso il modo onde noi diveniamo imagini di Dio, cioè per diventar fratelli che facciamo del solo vero natural Figlio di Dio, di quello perciò che è solo naturale imagine del Padre, a cui noi ci rendiamo conformi appunto con affrattellarglici. Questa è dottrina comune de' Padri, ed è espressa da Prudenzio in que' versicoli: [...OMISSIS...] Conveniente cosa era sì al bisogno dell' umana natura e sì alla divina bontà che l' uomo fosse da Dio costituito in un ordine soprannaturale (3). E che in tal modo fosse costituito da Dio Adamo, è dottrina tradizionale della Chiesa. Nè vi era ragione perchè s' interponesse tempo in mezzo fra lo stato naturale e il soprannaturale dell' uomo, nè nulla vi ha di repugnante che Iddio nel medesimo istante desse all' uomo la natura e la grazia. Anzi non si dubiterà di ciò ove si facciano le seguenti considerazioni. In primo luogo, il lume della grazia congiunto a quello della natura non forma già due lumi o due vite, ma un lume solo e una vita sola: conciossiachè il lume soprannaturale può dirsi che è l' essere medesimo più manifestamente veduto, veduto di più forte luce a segno di percepirne, in qualche modo, la sostanza. Ed egli è pur verosimile che, volendo Iddio dare all' uomo luce e vita, gliel' abbia data in quella misura che gli bisognava e non già partita, cioè glien' abbia data prima una porzione insufficiente, per dover poi dargliene un' altra e così soddisfare al bisogno rimasto non adempito colla prima: quasi come chi non ha a pagare la somma intera di un tratto, che soddissfa al suo creditore pagandolo in tre rate. Il che non si può pensare di Dio. In secondo luogo a ciò consuona la narrazione, chi ben la consideri, che si fa nella divina Scrittura della istituzione dell' uomo. Perocchè dottrina fermissima della Chiesa è, come si disse, che Adamo ebbe da Dio non meno la grazia che l' intelligenza. Ora, dove si narrano queste due cose nel Genesi? Si descrivono forse due operazioni distinte di Dio, coll' una delle quali egli desse all' uomo il lume dell' intelligenza e coll' altra quel della grazia? Nessun vestigio di distinzione di questi due atti si ritrova. Vi si dice bensì che, dopo l' uomo di terra, Iddio soffiò in lui lo spiracolo della vita (1). Queste sole ed uniche parole si usano a narrar tutto ciò che l' uomo ricevette da Dio oltre il corpo (2). Ora o convien ammettere che in quello spiracolo di vita, che Dio soffiò in faccia di Adamo, si contenesse unitamente l' intelligenza e la grazia, oppure convien dire che il racconto del sacro storico sia manchevole e non narri pienamente l' istituzione divina dell' uomo primitivo, che è pure il massimo oggetto di cui tratta quel sacro libro. Perocchè se quelle parole: Iddio spirò nella faccia di lui lo spiracolo della vita; si devono intendere della sola intelligenza naturale, ove è la grazia datagli pur da Dio? o se si intende solo della grazia, ove è la narrazione dell' intelligenza, di cui l' ha fornito? Sicchè quello spiracolo di vita (3) si deve intendere non meno del lume naturale che del soprannaturale, che, ove sono insieme , non formano che uno e medesimo lume, perchè sono pur uno e medesimo essere. E quelle parole che seguono: « E l' uomo fu fatto in anima vivente« »; si devono intendere non meno della vita del corpo che di quella dell' anima: anzi ogni vita comprendono quelle parole e l' animale e l' intellettiva e, almeno in genere, la divina o di grazia. Perocchè tutte queste sono quasi altrettanti gradi di partecipazione d' una medesima vita: di che risulta che Dio fece vivo Adamo in quella maniera che gli bisognava essere vivo; diede a lui una vita non difettosa, ma piena, compita in tutte le sue parti; gli diede insomma quella pienezza di vita che alla capacità dell' umana natura si conveniva e alla sapienza dell' ottimo Creatore, le cui opere sono sempre perfette, come dice la Scrittura. Finalmente si può comprovare lo stesso vero da quel principio che pone l' angelico Dottore, fedele seguace anche in questo del gran Vescovo d' Ippona, cioè: [...OMISSIS...] . E veramente questo è secondo l' ordine di un sapiente operare, e tale costantemente apparisce in tutte le altre cose il modo dell' operare divino, cioè di porre a principio i germi di tutte le cose e quindi commetterne al tempo il loro sviluppamento, senza bisogno di rimettere quasi di bel nuovo la mano all' opera sua per t“rne via l' imperfezione. Quindi nel seme è racchiusa la pianta intera, quindi nell' embrione è già contenuto tutto l' animale. L' esser piccole le nature e nei loro esordii, non toglie loro l' esser in cotal modo perfette. E tale certamente fu da Dio fin dal momento costituito questo universo, sì nelle parti sue che Dio vide esser buone dopo averle create, sì nel suo tutto che vide essere buono assai. Le quali denominazioni di buone e di assai buone indicano manifestamente quella perfezione compiuta di che parliamo: perocchè Iddio non avrebbe semplicemente data l' appellazione di bontà alle cose, se fossero state manchevoli e disgiunte da quel Dio, a cui son fatte e il quale solo è buono. Di qui è che S. Tommaso conchiude che l' Angelo doveva essere stato creato in grazia; e che egualmente si può conchiuder dell' uomo, e dice che l' uomo ad un tempo coll' intelligenza deve aver ricevuto la grazia, quale seme e principio di tutto ciò, in che si doveva poscia sviluppare l' umana natura nell' ordine soprannaturale (2). E tutte queste cose dànno aiuto, perchè si dia un senso preciso e luminoso a quelle parole del Genesi, colle quali si narra appunto l' istituzione prima dell' uman genere: « Facciamo, dice Iddio, l' uomo a imagine e similitudine nostra« (1) ». Dove pare che per similitudine venga espressa l' intelligenza e per imagine la grazia: usa due parole a significare i due semi, per così dire, posti nell' uomo a principio dai quali germinassero poi i due ordini, il naturale, dico, e il soprannaturale (2). La quale dichiarazione sembra potersi confermare anche da ciò che il sacro storico, dopo aver detto che Dio si propose di formar l' uomo a imagine e similitudine sua e narrato come lo formasse, soggiunse: « E Iddio creò l' uomo a imagine sua, a imagine di Dio lo creò« (3) ». Dove non replica più la parola similitudine come quella che era già contenuta nella parola imagine: e questo che il fece a sua imagine il replica due volte, quasi per mostrare che in essa è tutto il nerbo e la perfezione della dignità umana. Ma io non dò tuttavia questa interpretazione per sicura: e se più si vuole, al mio intento giova egualmente e forse meglio, che quelle due parole d' imagine e di similitudine non si cerchi distinguerle e separarle, ma si prendano tutte due insieme per un cotal superlativo, che venga a dire un' imagine assai simile (4). Poichè con questo aumento di forza nel significato della parola si viene a dire, che non una semplice similitudine era messa nell' uomo da Dio, ma un' imagine assai somigliante, cioè non la sola intelligenza ove sta la similitudine, ma anco la grazia che rende questa similitudine una vera e viva imagine per la partecipazione appunto del Verbo, prima e sola imagine della divina sostanza. Nella quale interpretazione verrebbe ottimamente espressa quell' unità del lume naturale e soprannaturale, e si porrebbe questo come un cotal grado maggiore, un cotal perfezionamento di quello, che è ciò appunto che noi diciamo; il perchè questa interpretazione di buona voglia alla precedente noi preferiamo. E fatta una cosa sola di quella imagine e similitudine che accenna la Genesi, torna vero che quest' impronta non si scancella dall' anime interamente per lo peccato, dopo il quale rimane la natura umana e in essa il lume dell' intelligenza, come osserva S. Agostino. Ma questa cotale impronta non è veramente detta imagine con intera proprietà della parola (1). All' opposto se si voglia separare l' una cosa dall' altra e pigliare il primo grado di lume cioè il lume naturale per una similitudine, e al secondo grado di lume cioè al soprannaturale riserbare il nome d' imagine; in tal significato imagine di Dio è solo il Verbo, e l' uomo è per la partecipazione del Verbo, come dicevamo. In questo senso della parola imagine, che è il più vero, dice S. Ambrogio: « Nisi per imaginem Dei (per il Verbo) ad imaginem Dei esse non potes (2) ». S. Cirillo d' Alessandria nel medesimo sentimento così si esprime: [...OMISSIS...] . S. Atanasio parimente: [...OMISSIS...] . Indi è che S. Basilio chiama il Figliuolo imagine effettrice d' imagine (2), perchè egli, imagine di Dio vera, produce in noi la stessa imagine sè a noi comunicando: di che egli è come un suggello rispetto all' anima nostra e lo Spirito Santo è quello che lo usa sigillando in noi quella che viene chiamata anco faccia o volto di Dio (3). E di qui si sente il valore di quelle parole che disse Cristo parlando di sè stesso: « Hunc enim Pater signavit Deus (4) »; volendo dire: questo è il suggello improntato di Dio Padre che suggella l' anime mettendovi l' effige divina. E pare che il peccato di quel Cherubino di cui dice Ezechiele per ischerno: Tu sei il suggello della similitudine (5); fosse appunto questo, di aver usurpata quella prerogativa che al solo Verbo divino si addice, d' essere vera imagine di Dio e suggello che impronta la stessa imagine nelle intelligenze. E per conciliare questi Padri e molt' altri, i più della Chiesa Orientale, che potrei addurre (6); i quali sostengono che « l' imagine di Dio nell' uomo è solo il Verbo coll' anima dell' uomo congiunto« », con S. Agostino al quale non piace udire che l' imagine di Dio si spenga col peccato, ponendola perciò appunto quest' imagine non solo nella Grazia, ma ben anco nella natura dell' uomo; per fare, dico, questa conciliazione, senza mutare il significato vero e proprio della parola« imagine«, ecco qual mi sembra la via sicura e coerente colle teologiche dottrine. Il Verbo solo è l' imagine di Dio. Nell' uomo adunque preso naturalmente havvi l' imagine di Dio a quel modo che nella natura delle cose v' hanno i vestigi della Trinità. Questa è sicuramente la mente di S. Agostino e di S. Tommaso, i quali sostengono essere nell' uomo naturale l' imagine di Dio, non meno in quanto alla divina natura che alle persone (1). Ora i vestigi delle Persone divine sparsi nella natura eziandio ragionevole non sono tali se non per una cotale appropriazione che noi facciamo di quelle qualità all' origine delle divine Persone, e non perchè siano veramente atte a rappresentarle (2). Medesimamente l' imagine di Dio uno e trino è nella mente umana per una cotale appropriazione che noi facciamo. Ma là dove si parla di un' imagine non per appropriazione, ma secondo la proprietà della parola, l' imagine di Dio è nell' uomo per la Grazia, allora quando si fa nell' uomo l' operazione deiforme, e si compie quest' imagine mediante l' operazione triniforme, nella quale il Verbo a noi si comunica. Iddio creò l' uomo in tutte le sue potenze perfetto: lo rese immantinente attivo e parlante (3). Ma l' uomo con tutte le sue potenze non aveva in sè la propria felicità, appunto perchè le potenze non sono che mezzi di ottenere questa felicità, non sono che un vaso che dimanda di essere riempito. L' uomo non trovava dunque in sè stesso se non un vuoto: ma poteva egli forse meglio trovare il bene che lo satollasse nella natura? No, la natura, l' intero universo materiale era minore di lui, dotato d' intelligenza: e egli stesso, tanto eccellente, era pur solo una capacità, come dicevamo, una capacità infinita. Questa creatura adunque aveva un essenziale bisogno di Dio perchè fossero pienamente appagate le sue brame (1). I filosofi trovano strano che la creatura abbia bisogno del suo Creatore, e vogliono che essa pur basti a sè stessa. Ma quanto sono lontani dal conoscere la natura umana! Che questi sieno esseri così insociabili fra di loro, i quali non possano avvicinarsi, agli occhi della filosofia? Anzi qual ferocia d' animo muove i filosofi a decretare sì crudele separazione? Proibire alla creatura di accostarsi, rifugiarsi nel seno del suo Creatore? Proibire al Creatore di accogliere la creatura che a lui rifugge, o vietargli di trastullarsi a suo senno con essa, di non addomesticarsi amorevolmente all' opere delle sue mani? Che enti sono questi, che dicono all' Eterno che li ha formati: « ritirati da noi, noi non vogliamo la scienza delle tue vie?« (2) ». Ma e dove si ritirerà il Creatore, se deve uscire dalle creature? Vi ha cosa o luogo che non sia da lui creato? E uscendo da tutta la creatura, questa potrà sussistere da sè sola? Non si trova contro natura o inconveniente che il padre conversi coi figliuoli suoi e i figliuoli col padre, che conversino gli amici fra loro: e la filosofia razionale avrà finalmente scoperta questa sì grande verità, che a Dio solo sia proibito di manifestarsi palesamente agli uomini da lui tratti dal nulla, sotto pena di essere dichiarato stolto, perchè non ha formato gli uomini in modo da non dover avere bisogno di lui? Che dissennatezza, o piuttosto che furore è codesto? Imperocchè i selvaggi non hanno giammai pensato cose nè tanto goffe nè tanto ripugnanti nè tanto stomachevoli come queste dei filosofi naturali. Niente adunque di più confacevole alla natura dell' ordine soprannaturale alla natura congiunto; il quale non è poi altro se non un cotale compimento di perfezione che esige necessariamente la limitazione di essa natura, la qual solo coll' unirsi col suo Creatore ottiene la sua ultima cima e perfezione, e coronata, quasi da Dio, acquista consistenza, dignità, partecipa di quegli attributi divini nei quali solo risiede la nobiltà e l' eccellenza (3). E perocchè le opere di Dio sono tutte perfette, come dice la Scrittura, ed egli è senza modo sapiente ed ottimo, perciò non poteva tener l' opera sua dentro i termini di un finito e limitato bene; ma doveva naturalmente volgerla a un bene infinito, a sè ordinandola e congiungendola. Di che la Scrittura dice « aver Egli operate tutte le cose per sè stesso« »; chè veramente il dare un altro fine alle cose men grande che un infinito, sarebbe stata causa dissonante dall' infinita sua potenza, sapienza e bontà; e con questo fine, ogni universo che gli fosse piaciuto creare, grande o piccolo, conteneva tuttavia la dote di una somma perfezione e di un valore impregiabile (2). Ed ora questa comunicazione loro quasi per una cotal legge naturale riusciva come l' apice alle creature sue, per la quale Egli medesimo congiunto e direi quasi il comignolo dell' universo doveva finire nella« grazia«, cioè in una comunicazione interna e reale. La quale grazia attribuendosi allo Spirito Santo, avviene che il Santo Spirito riceva dai Padri la denominazione di « forza perfezionatrice« (3) », come quello che tutte le opere di Dio ultima e perfeziona (4). Non solo adunque non è indegno della sapienza divina l' aver creato il mondo con un bisogno essenziale del suo Creatore, ma Dio stesso non poteva anzi far altro, se pur voleva che nel mondo fossero degli esseri intelligenti, per la necessità che hanno questi di ricercare incessantemente un infinito; ma se anche avesse potuto fare altramente, non sarebbe stato il farlo condecente alla sua somma bontà, e perciò immensamente diffusiva. Se però era uopo che Dio si comunicasse ad Adamo, il modo però del farlo conveniva che fosse soave, come è tutto l' operare divino e accomodato in tutto e per tutto all' umana natura. Per ciò come l' uomo ha una parte di sè interiore consistente nell' anima intellettiva, e una parte esteriore, cioè il corpo sensitivo; e come questo corpo sensitivo col quale l' uomo è in comunicazione coll' universo materiale, è ordinato a dover essere ministro all' anima delle notizie delle cose e eccitamento alle sue nobili operazioni: così conveniva che anche il Creatore influisse nella creatura per questa via esteriore e per essa, quasi direi, si introducesse nell' anima, quasi pei meati proprii di questa natura, mista di materia e di spirito. E però il Genesi ci dipinge Iddio che va diportandosi per lo giardino della delizia, quasi a pigliarvi l' aria che spira dopo il meriggio, probabilmente con aver prese forme simili alle umane e fors' anco le forme stesse che furono poi della umanità assunta dal Verbo. Tutta quella descrizione che fa il Genesi del Creatore che conversa colla sua creatura, mostra cosa somigliante a un padre che vive dimesticamente in mezzo della sua famiglia e tratta con soavità e dignità insieme co' suoi figliuoli. Questo Dio non era il Dio inacessibile nè qualche cosa di straniero e di remoto in lontanissima regione, ma era unito col mondo e consociato coll' uomo e temperata la maestà sua da corporali sembianze, velato l' abisso della sua gloria dentro umili forme; si dava a contemplare dall' uomo a quel modo che si contempla il sole d' infra un vetro appannato od infra i vapori nell' aria diffusi. In tal maniera Dio si era adattato al bisogno dell' uomo, restringendosi e circoscrivendosi per essere accessibile ed acconcio all' umana bassezza: ma questo cotale esterno adattamento che faceva il Creatore di sè per avvicinarsi alla sua creatura e che il rendeva, quasi direbbesi, una parte della natura stessa, un essere connesso con tutti gli altri esseri, quasi il supremo anello della catena, non toglieva però a lui di potersi manifestare altresì nella propria grandezza della divinità, giacchè da quelle limitate apparenze egli diffondeva e le parole della vita e le opere della maestà, e indi il pieno dominio esercitava su tutto l' universo, e quanto egli voleva od occultamente od in manifesto modo operava. Questa sua sensibile e quasi direi corporal presenza nella natura doveva secretamente e in palese influire sopra di essa natura conscia della prossimità del suo Creatore (1): era un glutine quella divina presenza, per così dire, che attaccava e infra sè commetteva le parti dell' universo, era un aroma, una virtù corroborante, conservatrice di tutte le cose, onde queste ritraevano un vigore e una speciale vitalità che impediva loro la corruzione; e ivi finalmente risiedeva la mente provvida, a cui ogni cosa obbedendo rendeva un' armonia, più soave d' ogni più squisito concento alle spettatrici celestiali intelligenze (2). Il Creatore adunque in quest' abito, per così dire benignissimo e affabilissimo si interteneva coll' uomo, col mostrarsi a lui e favellargli, lo ammaestrava lo sollevava e ingrandiva. L' uomo non riceveva già solo ne' suoi orecchi i nudi suoni delle parole del Creatore, atti a eccitargli alcune idee, nè solo aveva la sensibile apprensione del Dio, che gli si manifestava, ma quelle parole erano vitali, e vitale era pur la vista e ogni sensibile percezione di Lui: cioè a dire quelle parole e quelle percezioni erano ministre di grazia interiore, la quale, purchè l' uomo avesse aperto l' adito del suo cuore, entrava abbondante, e tenendo però una cotal proporzione coi segni sensibili ai quali ella era per una cotal legge annessa. E questi erano i sacramenti del tempo dell' innocenza, dove pure veggiamo la grazia venire inserita per la via de' sensibili segni, siccome ad uomini, cioè ad esseri intelligenti, a cui è dato un corpo qual mezzo del loro sviluppamento e della loro perfezione, si conveniva. In tal modo uno è il disegno dell' Altissimo, una e sempre del medesimo tenore la sua sapienza e provvidenza pel bene del genere umano, una provvidenza, dico, sempre egualmente adattata all' umana natura. Sicchè Colui che ci ha dato i sacramenti nella legge evangelica dimostra d' essere il medesimo con quello che ha istituito da principio l' uomo dell' Eden: e come ora, così in quel primo tempo, ebbe la divina grazia co' segni esteriori accompagnato. Dal medesimo stile si riconosce la stessa mano. La grazia non entra propriamente nell' uomo, se l' uomo, con un assenso della sua volontà, non la riceve in sè medesima. Quindi per quantunque doni avesse Adamo da Dio ricevuti, doveva però accrescere in sè la santità e la grazia con degli atti successivi di buon volere. Vi aveva dunque una scala di meriti per la quale Adamo doveva ascendere, fino a essere confermato in grazia e nella immortalità. Sembrerebbe potersi dire che fra i segni sensibili a cui è fissa la grazia, gli atti della volontà onde l' uomo vi corrispondeva e gli aumenti successivi della grazia medesima, esistesse quasi un' armonia prestabilita. La volontà dell' uomo segue di pari passo lo sviluppamento dell' intelligenza. Sebbene Iddio avesse comunicato all' uomo, favellandogli, tutte quelle notizie di cui egli abbisognava, tuttavia restava all' uomo ancora di fare un grande uso di sue potenze intellettive colle quali acquistare molte cognizioni sperimentali e di riflessione. Dalla percezione de' suoi sensi e da quanto aveva udito da Dio, ebbe Adamo la scienza diretta: restava a lui a scomporre, ad analizzare questa scienza, e in una parola a cavarne tutto ciò che possono dare di distinzione, di lume e di ampiezza tutti quegli ordini delle varie riflessioni, il cui numero è indefinito. Tutto ciò modificava e perfezionava in lui le notizie dei beni sotto i varii aspetti ne' quali il bene all' uomo si presenta; e quindi venivano perfezionandosi continuamente gli atti della sua volontà. Allo sviluppo dell' ordine naturale dell' intelligenza e dell' amore corrispondevano, come abbiamo detto, i doni della grazia. Non è dunque a credere che la mente di Adamo fosse arrivata già nel primo istante alla percezione del sommo bene per tal modo, che questa non potesse ricevere nella sua mente maggior lume e evidenza, e farsi continuamente più attuale, più immediata: anzi doveva venir componendosi lo stesso concetto del bene in modo via più concreto, per un' induzione che movea dai beni sensibili, e conduceva al soprasensibile. Così il bene, in ragione di bellezza, si doveva comporre nella mente di Adamo prima dalle bellezze sensibili, e quindi dalle spirituali; e in queste stesse quasi per gradini di una scala ascendere al bello perfetto e ideale che pur trovava realizzato e in istato di sostanza nel suo sommo Fattore. Il quale progresso dalla bellezza terrena a una celeste e divina è quello che vide già Platone essere sommamente conforme all' umana intelligenza, e che mi ricorda di avere io espresso in alcuni versi sullo stato di Adamo, i quali, se la memoria non erra, furono questi: [...OMISSIS...] Or dove giungeva la mente col concetto, indi traeva la volontà il suo amore; e all' intelleto e amor naturale si accompagnava forse sempre un intelletto e un amore infuso per grazia, la quale grazia mostrava nell' idea la sussistenza del sommo bene e ne dava l' intima e beante comunicazione. E per questa via l' uomo doveva pervenire al sommo della perfezione morale e dell' unione con Dio: la quale unione, ove divenuta fosse per tal modo piena e compita, io penso che allora l' uomo quasi deificato avrebbe acquistate le doti della immobilità nell' unione con Dio, nell' immortalità e nella suprema beatitudine. Ma che questo corso di cognizioni, di affetti, di grazie si avesse per Adamo a trascorrersi, il provano altresì quelle parole colle quali il Genesi assegna il fine prossimo e più basso pel quale l' uomo fu creato e messo dentro il paradiso: [...OMISSIS...] . In queste parole viene descritto l' uomo come il padrone dell' Eden, come il Re dell' universo, come quello che colla sua maestà rappresentava Iddio, del quale portava l' imagine in fronte, alle altre creature sulle quali esercitava appunto per questo una pienissima signoria (1). Acciocchè poi questo piccolo dio della terra riconoscesse che egli era sottomesso al Dio del cielo, al Creatore del tutto, gli fu dato il fatale precetto. Ora in tutta questa descrizione apparisce che l' uomo fu posto, per così dire, in basso luogo rispetto a Dio, fu rivolto a lavorare e governare gli esseri privi di intelligenza; quindi doveva cominciare, e da questo primo fine della sua creazione, assai angusto, a dir vero, verso all' immensa capacità della sua anima, doveva poi per suo merito sollevarsi di mano in mano e sempre più congiungersi al suo creatore, togliendo la faccia dal ben finito e levandola più e più all' infinito e divino. A lui era dunque conceduta da prima quella felicità, se così vuol chiamarsi, che può dare la pienezza dei beni naturali a un' anima pura e innocente: ma in quest' anima dovevano poi risvegliarsi da sè altri desideri, altri bisogni, altri voti maggiori, tosto che la meditazione avesse rivelata a se stessa l' immensa sua capacità e l' infinito oggetto pel quale solo veramente era stata creata. La differenza fra l' ordine della santità e della grazia corrispondente nell' uomo innocente, e l' ordine della santità e della grazia nell' uomo redento, è il seguente. La grazia nell' uomo primitivo doveva perfezionare la natura e la natura di grado in grado perfezionata doveva passare a uno stato sempre più eccellente, doveva ognor più spiritualizzarsi, senza giammai, per così dire, tornare indietro. Doveva quindi per aumento di sapienza, di santità e di grazia accrescersi continuamente la vita, anche quella che consisteva nell' unione dell' anima col corpo, fino che questa vita doveva rendersi inamissibile: il che sarebbe avvenuto in quel tempo che si fosse resa inamissibile e piena anche la grazia e la fruizione di Dio. Noi ripugniamo alla morte, e ripugniamo eziandio che sappiamo per fede che dopo la morte ci sta preparata una nuova vita per Cristo: ma, come dice l' Apostolo, noi non vorremmo essere spogliati ma sopravvestiti, acciocchè dalla vita venga assorbito quanto vi ha in noi di mortale (2). Questo desiderio dell' umana natura veniva soddisfatto nello stato d' innocenza. Non avevamo bisogno di morire per essere ammessi alla visione di Dio, ma passavamo a tanta visione d' un passaggio soavissimo, la quale veniva a noi come una veste di gloria che ci sopravvestiva senza bisogno di spogliarci delle membra del corpo e deporre la vita della natura. Anzi ciò che vi aveva di difettoso nella vita naturale, ciò che vi aveva di mortale, veniva, secondo la calzante espressione dell' Apostolo, assorbito dalla vita, cioè da quella vita piena di Dio la quale nulla ha in sè di mortale e della quale venivamo fatti partecipi come di un cotale indumento di gloria e di incorruzione. Il contrario avviene nella condizione dell' uomo peccatore: perciocchè l' uomo peccatore fu condannato alla morte e non può andar vana la parola divina. Quindi il Redentore non tolse direttamente a camparlo dalla morte, ma a mettergli un seme di salute nell' anima, il quale, anche dopo morte, lo avvivasse e facesse risorgere con un corpo nuovo, cioè non più col corpo del peccato, alla morte soggetto. Qui veniva a battere quello che disse Cristo a Nicodemo: « Se alcuno non sarà rinato nuovamente, non può vedere il regno di Dio« (2) ». E` necessaria un' altra generazione: non è più ristorabile l' uomo vecchio, questo si deve abbandonare alla sua distruzione: tutta la speranza sta in un nuovo nascimento, in una nuova orditura e ricomposizione dell' umana natura. E il nascimento nuovo, cioè il principio della nuova vita che l' uomo deve ricevere, non è più dalla carne e dal sangue, non comincia dall' imperfetto per andare al perfetto, ma discende da Dio e viene dal perfetto a vivificare l' imperfetto. Non è il corpo, come nel tempo primo dell' uomo innocente, che manoduce lo spirito, e gli è ministro aiuto e compagno nell' acquisto della perfezione della vita: è lo spirito quello che domina e salva il corpo stesso. Nell' età dunque dell' innocenza tutto era in armonia nell' uomo, tutto si perfezionava, nulla si distruggeva, tutto l' uomo con tutte le sue parti procedeva all' acquisto dell' incorruzione e della vita beata. Di presente l' uomo non può sopravvivere, l' uomo deve perire, perchè è l' uomo del peccato. Solo in una delle due parti però dell' uomo, cioè nell' anima, Iddio che vuole pur salvo quell' uomo stesso che deve perire, con ammirando consiglio nasconde un germe vitale, cioè la grazia del Redentore; asconde anzi sè stesso, e in questo germe si accolgono tutte le speranze dell' uomo, tutti i suoi beni. In che adunque consiste, nello stato in cui ora è l' uomo, la santità? Nella fede, per mezzo della quale egli eseguisce quanto diceva a Dio Giobbe: « Eziandio se tu mi ucciderai, io spererò in te« (3) ». L' uomo spera nel suo Dio, sebbene sappia che lo darà in preda alla morte. Adamo si tolse da Dio quando gli prometteva l' immortalità: e Cristo e il suo discepolo confida in Dio quando sa pure che lo uccide. Anzi tanto confida, che egli si unisce colla giustizia di Dio medesimo contro di sè e contro tutto ciò che è macchiato di peccato, e tripudia che sia devoto alla morte tutto ciò che si è rivoltato al suo Creatore, e segue magnanimamente Colui che invitandolo a sè, gli dice: [...OMISSIS...] . Tanto è più sublime la virtù e la grazia dell' uomo peccatore, in Cristo, che non fosse quella dell' uomo innocente in Adamo! (2). Il perchè dice S. Paolo: che la conversazione dell' uomo cristiano è nei cieli. Non è come quella di Adamo sopra la terra. L' uomo cristiano sa che la terra è maledetta e non è più sua abitazione permanente, e deve andar cercandone una futura (4). Coll' intenzione pertanto del suo spirito il cristiano è già morto alle cose terrene le quali a lui tornano di peso e noia infinita, non foss' altro, perchè gli si sono fatte muro di separazione dal suo Dio, il quale si è allontanato da una natura prevaricata: sospira perciò il termine della sua peregrinazione, il rompimento de' suoi ceppi per essere con Cristo risorto per non più morire giammai, col quale il cristiano già vive fin di qua giù per una santa e inconfusibile speranza. Di che allontanato e staccato co' suoi affetti da ogni cosa sensibile, egli non cerca nè chiede che le celesti e spirituali, come quelle nelle quali ritrova anche la salute stessa della sua porzione corporea, la salvazione di tutto l' uomo. Di questi sentimenti è tessuto il Nuovo Testamento, e S. Paolo li esprime ben sovente con una forza maravigliosa: [...OMISSIS...] . Questa vita del cristiano nascosta, la quale non è altro che Cristo stesso, è appunto quel seme della grazia gittato nelle anime, la qual grazia è il Verbo stesso cui noi portiamo nell' essenza dell' anima, ma ancora velato, e che si rivelerà in noi alla morte nostra, apparendoci visibile Iddio siccome egli è. Il perchè sebbene nella prima istituzione dell' umanità in Adamo fosse fornito di grazia e nell' essenza della sua anima Iddio realmente esercitasse una segreta azione, tuttavia questo Dio che abitava nell' essenza dell' anima dell' uomo, non diffondeva però a prima giunta tanto la sua virtù per le potenze, in modo da investirne anche il corpo, fino a partecipargli l' incorruzione e quella spiritualità che lo rendesse definitivamente immortale: ciò che avviene nella seconda istituzione della umanità fatta in Cristo risorto, dopo che l' umanità prima progenerata da Adamo fu distrutta colla morte. L' umanità dunque riassunta e ricostruita dalla sua distruzione è simile all' umanità prima rispetto all' anima, in quanto che nelle due umanità non havvi peccato alcuno: ma non è simile rispetto al corpo, perocchè la grazia di cui è fornita l' umanità rifabbricata da Dio, si vantaggia tanto sopra l' antica, che di grazia è ricolma e trabocca sicchè il corpo stesso n' acquista e partecipa le doti degli spiriti, le quali sono principalmente l' incorruzione e la vita immortale. Indi è che l' Apostolo paragona l' uomo rigenerato in Cristo al primo creato in quanto allo spirito, dicendo: [...OMISSIS...] . Ma in quanto al corpo, il qual corpo non esiste rinnovellato se non dopo la risurrezione, mostra il vantaggio del secondo uomo sopra quel primo in queste parole: [...OMISSIS...] . Cioè a dire, nel primo uomo il corso della vita moveva dal corpo animale e andava allo spirito rendendosi ognor più spirituale, dall' imperfetto al perfetto: nel nuovo Adamo la vita procede dallo spirito, e va dal perfetto a vivificare l' imperfetto. E continua: [...OMISSIS...] . Così la grazia trionfa senza fine nell' uomo nuovo, spiegando tutta la sua forza rinnovellatrice: nell' uomo antico Iddio colla grazia non aveva che da aiutare la natura, ma qui egli ha da creare una nuova natura, qui fa tutto la grazia, e rigenera, e perfeziona; in quell' antico uomo la grazia non faceva che una parte e la natura era supposta e data precedentemente alla grazia per soggetto. Vero è che anche quella natura dell' uomo primo era operazione di Dio e Dio ne veniva glorificato; ma quell' operazione non era che divina . L' operazione di Dio all' incontro onde l' uomo viene rifatto, ricreato (giacchè è chiamato dall' Apostolo, una nuova creatura) è tutta operazione deiforme ; e qui sta ciò che il medesimo Apostolo chiama la gloria della grazia di Cristo. Questa seconda operazione è infinitamente più gloriosa a Dio della prima, cioè della creazione, perchè essenzialmente santa, sicchè tutte le cose si rendono obbedienti in tal modo alla santità: in una parola l' operazione divina della prima creazione aveva per termine la natura limitata, l' uomo; ma l' operazione deiforme della seconda ha per termine Dio nell' uomo: sicchè questa operazione è tanto più grande e a Dio più gloriosa da parte dell' oggetto, quanto è dell' uomo più grande Iddio. Nella prima istituzione adunque dell' uomo due erano i principii, sebbene contemporanei, la natura che veniva dalla potenza creante di Dio, e la grazia che veniva dalla potenza santificante e rendeva perfetta quella natura. Nella seconda istituzione uno solo è il principio, la grazia, e questa è creatrice insieme e perfezionatrice dell' uomo nuovo. Tutto qui fa la grazia, tutto qui è Dio, il principio, il mezzo e il fine: benchè l' uomo poi, venuto il tempo della libertà, possa corrispondere o no all' opera della grazia. Quella grazia antica insomma assorbiva bensì colla sua vitale virtù ciò che vi aveva di mortale nell' uomo, secondo l' espressione di S. Paolo: ma questa grazia nuova assorbe la stessa morte , come aveva predetto Osea: [...OMISSIS...] . Sebbene non era condecente all' infinita bontà del Creatore che avesse creato l' uomo abbandonandolo alla propria natura senza aggiungergli la grazia; tuttavia non è assurdo di supporre l' uomo in tale stato: ed è una di quelle supposizioni che aiutano ad analizzare ciò che si compone di più principii e a vedere che cosa a' singoli principii si debba attribuire. Così fanno i matematici quando spogliano i corpi di certe loro qualità anche essenziali per calcolare l' una dopo l' altra tutte le semplici forze di cui sono forniti. Supponiamo adunque l' uomo nelle pure condizioni naturali, non privo però degli stimoli esterni, senza i quali le sue potenze inerti e quasi raggomitolate in sè non avrebbero potuto avere nissuno sviluppamento: e fra questi stimoli esteriori uopo è che gli supponiamo data altresì la favella, colla qual solo vien tratta all' azione la sua potenza di riflettere e di astrarre, e quindi esce in atto la sua libertà, ligata senza di ciò e nulla operante; la qual favella, tale che gli bastasse, non potrebbe mai trovare egli medesimo. L' uomo può concepirsi in questo stato: e tuttavia privo di ciò che spetta a un ordine di cose divino o soprannaturale. Quale adunque sarebbe stato il grado di libertà che avrebbe avuto l' uomo in questo stato? Avrebbe egli avuto in sè tanto di vigore da mantenere fedelmente la legge morale? O anzi per un cotal mancamento di forze sarebbe egli stato necessitato a peccare? Rispondendo a sì fatta questione, in primo luogo osservo, che certamente non avrebbe peccato l' uomo posto nel detto stato di natura pura, se non ne avesse avuta nessuna cagione impellente (1), cioè se non gli fossero insorte tentazioni che il lusingassero di volgersi dal retto e giusto operare al torto e ingiusto. Ciò posto, veniamo a vedere quali tentazioni di peccare potevano darsi all' uomo in quello stato. Dalla teoria morale da noi esposta (2) risulta manifestamente che tutte le tentazioni di peccare, a cui può soggiacere una creatura intellettiva, si possono ridurre ad una sola formola e semplicissima, cioè« la tentazione si dà allora quando il bene soggettivo si trova in collisione del bene oggettivo«. Il bene oggettivo è il bene in quanto è bene, in quanto è mostrato dalla ragione: e il riconoscerlo praticamente per tale è l' essenza dell' obbligazione morale. Il bene soggettivo è il bene non considerato in sè stesso, ma considerato relativamente al soggetto che lo percepisce. Il bene oggettivo adunque è il fondamento della Morale : come il bene soggettivo è il fondamento della Eudemonologia , ossia scienza della felicità. Fino a tanto che quello che è bene oggettivo fosse egualmente anche bene soggettivo, egli è evidente che il soggetto non avrebbe alcuna tentazione che il togliesse dall' ammetterlo e amarlo per quel bene che è. Parimente se il bene oggettivo fosse indifferente, quanto al rimanente, al soggetto, e non gli fosse nè di noia nè di particolare piacere, egli è indubitato che il soggetto uomo sarebbe fedele al bene oggettivo e lo ammetterebbe e riconoscerebbe per quello che vale; perciocchè tale è l' indole della natura ragionevole che il bene oggettivo è già per questo solo suo bene e le è naturalmente dilettoso il fare un atto di giustizia e dare al bene conosciuto quel prezzo che egli pur merita. In questi due casi adunque non ci sarebbe cagione alcuna dalla quale la natura ragionevole fosse incitata a t“rsi dalla giustizia rendendosi ingiusta. Tutto adunque il cimento di violare le leggi della giustizia, a cui può esser messa una natura intellettiva e volitiva sì come è l' uomo, sta qui, quando da una parte la ragione gli presentasse il bene oggettivo, e dall' altra il sentimento fosse affetto da un bene soggettivo, e questo bene soggettivo avere o seguire non si potesse senza disconoscere e ripudiare il bene oggettivamente considerato, il bene in sè, il bene estimato col giusto suo prezzo e valore. In tal caso quindi la legge morale intima che non si deve stimare e seguire praticamente il bene se non per quello appunto che vale in sè: dall' altra il sentimento cieco suggerisce e persuade di seguire il bene non per quello che è, ma per quello che attualmente e momentaneamente diletta senza più. Queste due voci, della verità dall' un canto, della inclinazione sensitiva dall' altro, sono quelle che generano nell' uomo il combattimento morale e che formano l' essenza della tentazione. E ora dunque si domanda: L' uomo della natura non guasta sarebbesi mai scontrato a tal bivio nella sua vita dove, se avesse voluto seguitare la regola del bene oggettivo, gli convenisse privarsi in tutto o in parte del bene soggettivo (1) e quindi avesse provato una tentazione? E se questa tentazione si fosse trovata, di che natura e di che forza essa era? Poteva mai crescere in tal modo da dover vincere il valore della libertà di cui era l' uomo fornito? In quanto alla prima di queste dimande, io rispondo che essendo i beni soggettivi creati limitati, poteva, anzi doveva, avvenire che si desse collisione fra loro, cioè che l' uomo non li potesse avere e godere tutti insieme. E quindi che gli bisognava farne scelta, sì per sè, che per gli altri uomini: la qual scelta non poteva farla con altro che colla ragione di cui era fornito, e doveva essere ragionevole, cioè gli conveniva per obbligazione morale di scegliere il bene che nel complesso suo e finale risultamento fosse il migliore, e il maggiore, e il più perfettivo della sua natura, così in ordine allo sviluppamento di sue potenze, e sì in ordine al grado del suo godimento. Ciò è quanto dire che doveva stimare i beni soggettivi in un modo oggettivo, secondo quel valore appunto che avevano fra loro estimati e pesati sulle bilancie della ragione: per la quale stima solamente quei beni soggettivi si rendevano onesti, ossia di dignità morale forniti. Ora fino a che si fosse trattato di dover fare scelta tra beni soggettivi presenti, nessuna collisione cader poteva tra essi di tal natura che mettesse l' uomo in cimento di moralmente fallire: imperocchè era egualmente in tal caso interessato l' appetito dell' uomo a scegliere il complesso maggiore di beni e la morale sua coscienza; perocchè questa gli precetteva di scegliere il più che potesse del bene, e l' appetito nulla di meglio poteva volere. Ma ove si fosse trattato di paragonare insieme dei beni presenti con dei beni futuri, allora si poteva trovare in una cotale discordia l' appetito sensitivo e la ragione. Perocchè l' appetito di sua natura è cieco, e senza previdenza; e la ragione sola mette a calcolo il futuro. Quindi l' appetito con subitaneo moto persuade l' uomo al godimento istantaneo: la ragione tempera e regge questa persuasione inconsiderata che l' appetito vorrebbe ingerire, e impera la virtù della temperanza, ovecchè il presente bene impeditivo sia di un futuro e maggiore. In questa collisione pertanto non poteva l' uomo vincere, sempre, colla sua volontà ragionevole il torto suggerimento dell' appetito? facoltà che presiede alla soggettività del bene, senza più, e quindi essenzialmente priva di moralità? Rispondo che, trattandosi di beni naturali e sensibili (1), ciò poteva fare certamente il libero arbitrio dell' uomo fornito di una perfetta natura. Perocchè sebbene i beni presenti esercitassero una reale azione sull' appetito dell' uomo, e i beni futuri solo un' azione ideale , e sebbene questa fosse minore di quella (2); tuttavia la volontà ragionevole poteva sempre dominare e frenare la reale azione che esercitavano i beni presenti sul movimento dell' appetito. E ragione di ciò si è che la provvida natura fornì alla ragione uno strumento o un' arme da contrapporre al senso esteriore che presiede ai beni presenti e reggerne la veemenza; e questo è un senso interiore, cioè l' imaginazione, la quale nello stato di una natura perfetta stava in balia della volontà, la quale imaginazione presiede ai beni futuri. Ora trattandosi di beni naturali, l' uomo poteva sempre imaginarli, che è come un renderglisi presenti e l' eccitare in sè quella stessa azione reale, che, se presenti fossero, per la via degli organi esterni, ecciterebbero. Il perchè così mirabilmente fu costituita l' umana natura che essa due come sensorii avesse, l' uno riguardante le cose presenti, e l' altro le assenti; e l' uno de' quali, cioè quello delle cose assenti, potesse colla sua virtù equilibrare di continuo la violenza dell' altro, cioè di quello delle cose presenti; e che il primo fosse dato in pieno dominio della ragione, sicchè a questa facoltà che doveva essere la regina e signora di tutte le altre non mancasse tanto di polso da poter far eseguire coll' opera i suoi decreti. Fino a tanto adunque che si considera l' uomo entro la sfera delle cose naturali, e in cui egli non ha che a scegliere fra beni de' quali egli ha positiva cognizione ed esperienza, non poteva la sua virtù essere cimentata per modo da tentazione alcuna che egli col suo libero arbitrio resister non potesse: anzi piuttosto è da credere che assai difficilmente potesse peccare in tale stato, nel quale, per la lucidezza e prontezza della sua mente, non poteva mai errare il calcolo di ciò che più gli giovasse in questi suoi temporali interessi. E così si deve intendere, per mio avviso, la sentenza dell' Aquinate che dice: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole espressamente parla il Santo Dottore di un ordine di cose secondo la natura , ciò che corrisponde al caso, nel quale noi abbiamo considerato fin qui l' uomo naturalmente perfetto. In un tale stato l' uomo (al quale Dio non si fosse comunicato con una manifestazione positiva) dotato come era di nobilissima intelligenza e di un profondo sentimento, avrebbe senza dubbio, quasi per un cotal peso di tutta la sua natura, cercato di Dio nascosto; egli avrebbe tentato, per così dire, di trovare nell' intimo dell' universo e di sè stesso un sostegno e fondamento delle cose tutte, e non trovandolo, sarebbe andato al di là della natura stessa, al di là di sè stesso; avrebbe pensato la possibilità, la necessità di un Essere occulto che facesse tutto esistere, che rendesse tutto possibile: avrebbe anzi veduto che a tutte le cose mancava l' essere per sè e che pure l' essere gli risplendeva alla mente e gli faceva risplendere le cose tutte, e che pur dell' essere che lo illuminava e in cui le cose sussistevano, gli era maravigliosamente occulta la sussistenza, non partecipando egli che di un' aurora, che gli additava, senza mostrargli, la piena luce del sole. Egli avrebbe pertanto creduto al grande Essere a lui occulto dietro una misteriosa cortina, lo avrebbe adorato senza conoscerlo positivamente, e sarebbesi forse anco messo addentro di mano in mano e perduto in un sentimento abituale di profonda adorazione. Ma tutto ciò non esigeva da lui alcuna privazione, alcun sacrificio, se non anco era quanto di più dilettoso e di più solenne poteva desiderare e agognare la sua eccellente natura. Nè pur qui adunque, cioè nella sua relazione col Dio, naturalmente a lui noto, avrebbe l' uomo della natura incontrata difficoltà alcuna in essere giusto e in rettamente operare. Ma facciamo ora entrar l' uomo della natura in una positiva comunicazione con Dio: Iddio in qualche modo gli favelli e gli dia un precetto positivo, col quale venga imposto all' uomo una privazione, gli si ingiunga un sacrifizio di cosa appetita dalla sua natura: e non gli sia tuttavia comunicata alcuna grazia soprannaturale. Varrà il suo libero arbitrio a mantenere questo precetto? Certo varrebbe la sua ragione a conoscerne l' obbligazione, varrebbe la sua volontà a volerlo speculativamente: ma avrà eziandio tanta forza da imperare alla propria natura e a volerlo praticamente? Qui parmi di dover ricorrere al principio toccato di sopra:« la volontà razionale può vincere il senso e appetito di una cosa allorquando ella può contrapporre un altro senso e un altro appetito di forza almeno equivalente a quel primo«. Ora il senso e appetito che l' uomo può contrapporre ai beni presenti desiderati dalla natura è il senso imaginario col quale appetisce attualmente i beni futuri. Ciò stabilito, sono da vedere le condizioni del precetto positivo che si pone dato da Dio all' uomo. Se con quel precetto vien comandata all' uomo una privazione e sacrifizio cotale che l' uomo possa vincere colla libera volontà assistita dalla sua imaginativa virtù, egli potrà farlo: ma se l' imaginazione non gli bastasse a ciò, agevolmente rimarrà vinto. Il sacrifizio comandato è un male reale, presente: conviene dunque che colla imaginazione egli possa proporsi e rendersi efficacemente presente o un male maggiore nel quale inevitabilmente incorrerebbe non accettando quel sacrifizio, ovvero un tal bene che gli piaccia ottenere più che non gli dispiaccia il male che gli è offerto a sostenere. Così le Scritture dicono che Cristo stesso per sostenere la croce si propose innanzi a contemplare il gaudio che da quei patimenti gli sarebbe derivato (1). Ora all' uomo felice per l' affluenza di tutti i beni naturali e per la mancanza di ogni male non poteva essere desiderio di un bene che vincesse la ripugnanza di una privazione? Se si parla di un bene soprannaturale, in uomo privo di grazia , questo era puramente ideale e senza alcuno esperimento e quindi inetto a essere rappresentato nella sua imaginativa. Un tal bene perfettamente incognito, da lui sperato, pare che per sè stesso non sarebbe stato sufficiente da contrappesare l' avversione del male presente e tutto di sensibile sperienza. Pure poteva da lui essere imaginato un cotal cumolo di beni a lui noti, a cui quel bene incognito paragonato, gli paresse maggiore; e così vincere con questa imaginaria apprensione il male debito d' incontrare: purchè però due cose si fossero avverate, cioè per primo che fosse pervenuto a dar fede alla promessa di un tal bene; e secondo che un uomo già naturalmente felice ne avesse potuto concepire un vero desiderio (2). Ma se la speranza di un bene maggiore poteva dar forze alla volontà di sottomettersi a qualche sofferenza, ha poi in sè questa forza anche il timore di abbattersi in un male minacciato? L' uomo naturalmente felice non ha pigliato ancora sperienza di male veruno. Quindi sebbene egli abbia una cotal concezione tutta ideale del male, come di una cotal privazione o cessazione del bene che sperimenta; tuttavia la sua volontà non può punto nè poco far giocare in favore della giustizia l' imaginazione. Perocchè l' imaginazione, è un senso interiore e però non ha per suo stimolo il male ideale, ma il male reale e quel male reale che fu sperimentato nei sensi. Perocchè questa facoltà dell' imaginativa non ha altro ufficio nè potere se non di rinnovare internamente le sensazioni o più generalmente i sentimenti già sofferiti: e per ciò la libera volontà dell' uomo innocente e beato non poteva da questa parte far uso, come di forza ausiliare, della imaginaria potenza, e poco quindi avrebbe potuto ire innanzi per questa via del timore di un male minacciato. Quindi nella storia di Adamo, fra Dio che minaccia la morte e il demonio che promette scienza, immortalità e deificazione, il demonio aveva il partito migliore, perocchè prometteva un bene , men buono l' aveva Iddio minacciando un male : perchè del bene l' uomo avendo sperienza, poteva venire eccitato da esso imaginariamente, quando il male non poteva essere da lui se non idealmente concepito, il che lascia la libertà slenata a segno che non trova onde attingere forza e prender l' armi alla difesa. Il che non toglie però punto la sua autorità e augusta dignità alla legge divina: nel mentre che scuopre una limitazione e conseguente debolezza dell' umana natura. Se non che in Adamo questa debolezza era confortata dalla grazia, per la quale poteva, se avesse voluto, mantenere egualmente il divino comandamento: perchè, come abbiamo veduto, la grazia appartiene all' ordine dei sentimenti reali , dai quali la libera volontà trae le sue forze (1). E or qui un' osservazione si dee fare intorno all' intrinseca e necessaria limitazione di ogni natura finita, e per conseguente intorno altresì ai limiti che sono posti ad ogni libertà naturale di qualsivoglia creatura ragionevole. Ogni creatura ragionevole, per quanto eccellente ella sia, angelica, e sovrangelica, è limitata tuttavia in questo che ella non può volere nè l' assoluta infelicità propria, nè l' assoluta propria annichilazione. Ora ogni natura contingente, non essendo necessaria nè avendo in sè un prezzo infinito e incondizionato, egli è evidente che il prezzo della sua esistenza o quello della sua felicità è sempre inferiore al prezzo della legge morale il quale è infinito, incondizionato, eterno, ed è Dio stesso. Per ciò la legge morale esige e senza alcuna eccezione dimanda di essere preferita a tutto, fosse anche colla perdita totale della propria esistenza e della propria felicità: e questa esigenza è assolutamente obbligatoria, e di un' assoluta e intrinseca necessità morale, perocchè mai in nessun caso e per qualsivoglia danno, può essere la legge morale posposta e lasciata indietro a cosa alcuna. Egli è vero che l' ottimo Autore delle creature intelligenti non può permettere giammai una sì fiera collisione: ma tuttavia ella si lascia concepire; e la semplice concezione sua è sufficiente a poter trarre di ciò la seguente conclusione: [...OMISSIS...] : al qual termine non giunge veramente nessuna creata volontà. Indi è che nel fondo di ogni creatura esiste sempre una fallacità, esiste un difetto di pienezza di bontà morale: esiste una cotal limitazione non pur fisica, ma (quello che deve esser fonte inesausto di umiliazione alla creatura nel cospetto del Creatore) esiste una limitazione morale, benchè in nessun modo imputabile (2). E forse di questa limitazione morale altresì può intendersi quel passo di Giobbe ove dice che Iddio « trova la pravità negli Angeli suoi« (3) ». Di che conchiude che se vi ha questa deficienza di bontà morale nella natura angelica, molto più ella vi ha nell' uomo, il quale, oltre all' esser mosso dal principio razionale, è tirato e mosso altresì da un principio animale, attività cieca e inetta a percepire la luce della legge morale. Nel qual passo di Giobbe egli pare non parlarsi già di uomini particolari, ma della stessa natura umana e angelica, giacchè toccansi le condizioni comuni di queste nature, e in queste condizioni della stessa natura si fonda il ragionamento: [...OMISSIS...] . E qui pure giace sicuramente il senso più profondo e più vero di quell' alta parola di Cristo: « Uno solo è buono, Iddio« (2) ». Perocchè egli solo ha una volontà così ferma e immutabile nel bene, come è ferma e immutabile la legge stessa, mentre la stessa natura divina incommutabile è egualmente e la legge e la volontà della legge, onde questa volontà pareggia la legge perfettamente, le dà tutto ciò che le conviene e quindi sola adempie veracemente tutta la giustizia. Ciò che poi è mirabile, ciò che fa sentire la dignità sublime della grazia, si è il considerare che l' operazione deiforme della grazia rompe, per così dire, le angustie in cui sono le creature, toglie via, quasi direbbesi, i loro limiti, sana e giustifica questa cotale pravità, intesa nel senso sovraesposto, che rimane in fondo di tutte le creature, ove si considerino per sè sole. Conciossiachè la grazia opera nell' essenza dell' anima, ed è Dio stesso che all' anima formalmente si congiunge. Ora per una cotale unione l' esistenza dell' uomo partecipa dall' esistenza divina un cotal prezzo infinito, perocchè come dice S. Paolo, « chi aderisce al Signore è un solo spirito (5); e la Scrittura dice dei Santi: «« Voi siete dei« (6) ». Questa divinità partecipata fa sì che, desiderando la propria conversione, oggimai desiderino qualche cosa d' infinito, che sia Dio in essi il termine del loro desiderio, come è Dio in essi il termine della deiforme operazione. Lo stesso dicasi del desiderio della felicità. Non è più un desiderio vago, non è più un desiderio di una felicità universale: l' unica loro felicità è la giustizia stessa, è Dio stesso. Quindi la volontà della giustizia s' immedesima colla volontà di essere felici, perocchè questa felicità è oggimai determinata e tutta prefinita dalla sola giustizia trovata nella divina essenza. Quindi Adamo come quegli che era creato in grazia, poteva attingere forze alla sua libera volontà per essere compiutamente giusto. In Cristo dove non havvi altro che una persona e questa è il Verbo di Dio, egli è evidente che l' appetito, se così può chiamarsi, della conservazione e felicità di questa persona ha per oggetto Iddio. Ma questa stessa dirittura di affetti, che nasce per l' unione ipostatica in Cristo, nasce per l' unione sostanziale nei cristiani: tutto l' amor dei quali terminando in sè stessi, viene a terminare in Dio, per questo che sono fatti una cosa con Dio: « Io in essi dice Cristo parlando al Padre, e tu in me, acciocchè sieno CONSUMATI in una cosa sola« (2) ». Di gran valore e proprietà è quella parola, consumati ; poichè esprime una cotale consumazione di tutto ciò che vi è di naturale nella creatura, ridotto e quasi stemperato in Dio il quale è l' ultimo fine della creazione, acciocchè come dice S. Paolo, « Iddio sia tutto in tutte le cose« (3) ». Considerata dunque la creatura sola senza aiuto di grazia, egli è evidente potersi sempre concepire soggetta a cotal tentazione, alla qual vincer non basti il grado di sua libertà naturale: tentazione che, come detto è, procederebbe non da alcun precetto naturale, ma da un qualche precetto positivo che Iddio le imponesse e col quale le ingiungesse qualche sacrifizio; massime se il premio promesso non fosse che soprannaturale. In questo caso, l' appetito assai facilmente si renderebbe insensibile al freno della ragione: ed è sotto questo punto di vista che San Tommaso, con altri maestri in divinità, mostrano la necessità della grazia, perchè sia conservato nell' uomo l' ordine delle potenze, cioè la ragione dominante e il senso ubbidiente; ubbidienza che fanno derivare da quel rinforzo che riceve la ragione da Dio coll' essere a lui unita e sottomessa per grazia. Ecco le parole dell' Angelico Dottore: [...OMISSIS...] Il che sicuramente si deve intendere nel caso della tentazione da noi sopradescritta, che si potrebbe chiamare extranaturale ; perocchè, fuori di questo caso, abbiam già udito poco sopra S. Tommaso mesimo insegnarci, che l' uomo, colla sola natura integra, poteva però evitare ogni peccato sì mortale che veniale. E in tal modo parmi che debbansi conciliare e concordare fra sè questi due luoghi dell' Angelico, che a prima fronte sembrano fra di loro pugnare (2). Dalla quale dottrina dell' Angelico conviene qui tirare intanto questa conseguenza che ci gioverà poscia in futuro, cioè: che la grazia di Adamo innocente era perfettiva di tutta intera la natura umana. Perocchè per natura umana s' intende il complesso de' principii che entrano a comporre l' umanità. Se dunque la grazia saldava e rinforzava, anzi pur completava l' ordine , in cui debbono tenersi questi principii, sia di soggezione all' essere divino, sia di subordinazione fra loro; egli è manifesto che giovava mirabilmente a tutto il complesso di questi principii, mantenendo in loro e completando il giusto ordine: il che è quanto dire, giovava e nobilitava la natura umana. Adunque l' umana natura per la grazia acquistava un tal prezzo, pel quale si faceva possibile un' assoluta giustizia come partecipazione della giustizia divina, della quale dicono le Scritture: « La tua giustizia è giustizia in eterno« (1) ». E tal prezzo aveva Adamo innocente. Ma quale fu poi questa grazia di Adamo, considerata relativamente alla sua efficacità? S. Agostino dice che questa grazia fu un cotal dono, una cotal potenza, l' uso della quale fu lasciato al libero arbitrio dell' uomo (2). La ragione, dice il santo Dottore, per la quale il primo uomo non ricevette questo dono di Dio (cioè la perseveranza nel bene), ma fu lasciato in suo arbitrio il perseverare o non perseverare, si fu che la volontà sua, istituita senza alcun peccato e senza aver nulla in sè stessa che per mala concupiscenza resistesse, aveva tali forze che cosa degna parea che si dovesse commettere a tanta bontà e a tanta facilità di vivere bene l' arbitrio del perseverare (3). Questa grazia adunque era come una potenza nuova data all' uomo (4), il qual uomo poi poteva o adoperarla o no, a suo piacimento: era un cotal sentimento, pel quale poteva resistere, se avesse voluto, all' appetito, e frenare i suoi movimenti in sacrifizio e in obbedienza del Signore; suppliva questo sentimento soprannaturale posto nell' uomo alla debolezza del bene puramente ideale, quale era la giustizia che imponeva di ubbidire a Dio eziandio con qualche sacrifizio; e questo bene ideale in un cotal modo lo realizzava e avvalorava: come appunto l' imaginazione può rendere efficace su di noi un bene futuro, di cui si abbia avuto sensibile esperienza. Or dunque quest' arma, questa virtù messa nelle mani dell' uomo, era indubitatamente atta a farlo vincere la tentazione, purchè avesse voluto adoperarla. La stessa specie di grazia, secondo S. Agostino, era stata data agli Angeli e colla medesima grazia alcuni hanno perseverato nel bene, e altri sono scaduti: non già per diversità della grazia, ma sì dell' uso che il loro libero arbitrio ne fece. Ecco come Agostino dichiara la cosa: [...OMISSIS...] . Con quella stessa grazia adunque colla quale alcuni Angeli perseverarono, colla stessa altri decaddero: e con quella stessa grazia, avendo la quale, Adamo, decadde, con quella stessa poteva perseverare. E` una medesima grazia, sempre appieno sufficiente, ma talora adoperata dall' uomo e talora lasciata inoperosa: come una spada bene affilata che sempre vale per sè a tagliare eziandio che si lasci nel fodero dimenticata. All' uomo insomma costava tanto l' usare della grazia e l' attingere forze da lei, quanto gli costava alzare il braccio, muovere i piedi a camminare o attinger acqua alla fonte per dissetarsi: la forza di muoversi non gli manca e ha pure il fonte innanzi che gorgoglia: in lui sta l' usare o non usare di tali beni. Egli è per ciò, cioè per la natura di questa grazia lasciata nel libero arbitrio dell' angelo e dell' uomo da potersi usare o non usare, che S. Agostino dice, che Iddio in quella prima costituzione dell' uomo volle fare sperimento dello stesso arbitrio dell' uomo e vedere che cosa l' uomo gli avrebbe dato col suo proprio arbitrio di soggezione e di ubbidienza: [...OMISSIS...] . E come togliea a fare sperimento di ciò che far potesse il libero arbitrio dell' uomo? Forse perchè questo arbitrio fosse abbandonato a sè solo? No, giacchè aveva in sua compagnia la grazia: ma sì bene, secondo la mente del santo Dottore Agostino, perchè questa grazia era una forza, una potenza che non operava se lo stesso arbitrio, facendone uso, non la faceva operare in sè e fruttare. [...OMISSIS...] Quella grazia adunque di Adamo e degli Angeli era una grazia potenziale , affidata alle mani della creatura, nella quale stava il ridurla all' atto e cavarne i buoni effetti (2). Ma qui uscirà taluno dicendo: per questo uscire della grazia da quello stato di potenza alla sua attuale operazione, non era forse mestieri di un nuovo aiuto soprannaturale dato all' uomo? Di una di quelle grazie che chiamano attuali ? - Rispondo, e parmi secondo la mente del Dottore della grazia, se io nulla intendo, che perchè quella grazia potenziale operasse, si richiedeva che operasse il libero arbitrio, il quale in questo era lasciato a sè stesso. Or però quando dico che il libero arbitrio era lasciato a sè stesso, non escludo l' aiuto che Dio come Creatore e conservatore delle creature presta loro, non meno, acciocchè possano sussistere che operare: sicchè Iddio, come prima causa, cooperare e muovere doveva sicuramente il libero arbitrio dell' uomo che facesse buon uso della grazia. Oltre questo aiuto presente e continuo di Dio, il quale sta nell' ordine naturale, la grazia stessa pur col passare dalla potenza al suo atto non è che Dio operante in un ordine soprannaturale; perocchè la grazia non si può muovere, nè dare aiuto e forza al libero arbitrio, se non per virtù di Dio: essendo la grazia un' operazione deiforme . Ma tuttavia egli non è assurdo il pensare che il primo movimento nascesse dal libero arbitrio rinforzato dalla grazia abituale e mosso da Dio solo come Creatore, e dietro quel primo e tenue moto che il libero arbitrio cominciava, e mediante una volontà tendente alle cose soprannaturali in quella maniera che per natura e per grazia fossero conosciute, la grazia stessa si attuasse via più speculando e traendo innanzi a fine di sostenere via più l' arbitrio che in tal modo prendeva le sue forze da lei. Sicchè il consenso alla grazia nasceva dal libero arbitrio, rinforzato però dalla grazia abituale e con questo consenso stesso si attuava la grazia e rendevasi operatrice. Insomma il libero arbitrio dell' uomo in quel tempo era sano e naturalmente inclinato alla onestà naturale e di più soprannaturalmente per grazia, cioè inclinato anco al bene soprannaturale. Ora dall' uso di un tale libero arbitrio dipendeva la sorte dell' uomo, come quella degli Angeli. E questo soprannaturale abito di grazia veniva mantenuto e alimentato, per così dire, dalla presenza sensibile della divinità in mezzo alla natura, siccome dicevamo, quasi per l' uso d' un cotale sacramento. Dopo il peccato la volontà umana rimase, perocchè appartiene alla natura dell' uomo: ma le sue forze vennero meno; perocchè il senso animale prese baldanza e si falsificò; e tutte le altre potenze si addebolirono e alterarono; e nella parte stessa superiore del soggetto umano entrò una certa superbia e lusinga di ritrovare una cotal pienezza di felicità e quasi una divinità in sè medesimo. Sicchè come bisognò ricreare l' uomo animale già preda della morte, così bisognò pure che Dio ricreasse una volontà nuova nell' uomo: e questa è l' opera della grazia di Gesù Cristo. Perciò la volontà del bene, nell' ordine della grazia del Redentore, S. Agostino l' attribuisce interamente a Dio sì per riguardo alla potenza che all' atto conseguente alla potenza. [...OMISSIS...] L' atto adunque dell' operare bene, secondo il santo Dottore, nello stato di Adamo innocente viene attribuito al libero arbitrio: nello stato all' incontro dell' uomo riparato viene più attribuito alla grazia. La ragione di ciò consegue da tutto ciò che fu detto. L' atto si attribuisce sempre alla potenza onde esce. Ora nello stato d' innocenza questa potenza era il libero arbitrio dell' uomo, perocchè questo libero arbitrio era retto, cioè tendente naturalmente al bene morale, cioè inclinato secondo l' ordine del bene oggettivo. E questa inclinazione era il principio dell' atto buono: dunque l' atto buono aveva il suo principio nella buona inclinazione originaria naturale (sebbene avvigorita altresì dall' abito della grazia) dell' umano arbitrio. All' opposto l' arbitrio dell' uomo peccatore è essenzialmente disordinato, cioè ha perduto quella naturale rettitudine, non è più volto al bene secondo la considerazione oggettiva, ma anzi ha un' originaria tendenza infetta da disordine, perchè non interamente secondo l' ordine oggettivo (1). Nell' arbitrio adunque dell' uomo infetto ancora dal peccato originale e non rinato nel battesimo, vi ha bensì il principio dell' atto cattivo, e non il principio dell' atto veramente e compiutamente buono. Quindi è necessario che la grazia del Riparatore sia tale che non solamente avvalori il libero arbitrio, ma vi inserisca a dirittura il principio degli atti buoni, raddrizzandolo e piegandolo debitamente all' ordine oggettivo del bene: e quindi è che dal Santo Dottore Agostino si attribuisce alla grazia non solo la potenza del bene, ma gli atti stessi, e che la grazia opera nell' uomo tutto, cioè tanto il volere, quanto anche il perfezionare. Nascendo adunque nell' uomo riparato il principio del bene non già dalla propria natura, ma immediatamente da Dio autore della grazia, avviene che le forze morali dell' uomo riparato, secondo il medesimo S. Agostino, sieno tanto maggiori di quelle dell' uomo innocente, quanto la grazia è più forte della natura: il che è un dire, quanto Dio è più forte dell' uomo. L' abbattimento adunque e il mancamento della natura umana diede a Dio occasione di far risplendere tutta la gloria della sua possanza e della sua misericordia, facendo sì che nell' uomo infermo e nullo, si trovasse maggior fortezza e costanza di virtù che nell' uomo intero e per ogni sua parte perfetto. [...OMISSIS...] E non è già che l' impulso della grazia di Cristo ascenda tanto e prenda questo grado di vigore subitamente e in tutti i cristiani egualmente o gli eletti, pel quale vigore questi già sieno sempre così sollecitati e propriamente necessitati a dover il bene operare. Il dir questo non è sicuramente la mente del santo Padre che ora ci serve di guida. Ma che il fondo dei suoi pensieri io reputo che sia questo: che venendo il principio del bene operare nell' uomo riparato non dall' arbitrio, ma dalla grazia, il che è quanto dire da Dio; questo principio di bene operare, a cui convenevolmente tutte le buone azioni e l' attual volere si attribuisce, è di sua natura onnipotente , e non di forze limitate, come la libertà naturale dell' uomo integro; e per ciò è cotale quel principio onnipotente del bene che può sempre produr nell' uomo una invitta e felicissima necessità dell' operare il bene e talora la produce eziandio nella vita presente. La necessità adunque del bene operare, colla quale, come con carattere proprio, segna il santo Dottore e contraddistingue la grazia di Cristo da quella di Adamo innocente, riguarda la natura e condizione propria della grazia di Cristo, e non il suo costante effetto nell' uomo, perocchè questo effetto della necessità dell' operare essa non è necessitata a produrlo, ma ha bensì sempre virtù di produrlo: e il produrlo realmente è una speciale predilezione che usa Dio con certe anime predilette sue amiche (2). La volontà dunque dell' uomo, come Dio la fece a principio, era retta sì nell' ordine naturale, di tutta quella rettitudine che può avere la natura umana, e sì nell' ordine soprannaturale, di quel rinforzo che riceve la volontà umana dalla grazia. Ora una volontà pienamente retta è un supremo principio di operare nell' uomo: perocchè se vi avesse un altro principio che sorvolasse la volontà e si mettesse a imperare sopra lei, già la volontà con questo non sarebbe più retta, perocchè è proprietà necessaria alla sua rettitudine che ella non si lasci volgere da alcun altro principio soggettivo, ma sì che ubbidisca solo al principio oggettivo della legge di Dio. Ora la persona dell' uomo non viene costituita che nel principio supremo che opera nell' uomo, secondo la definizione che ne abbiamo data. Adunque quel pregio che aveva la volontà di essere retta era un pregio personale del primo uomo, cioè che nobilitava la sua persona. E perchè quando alla persona come a causa si può attribuire il bene e il male, allora si dice che l' uomo merita o demerita; perciò il bene morale, di cui il primo uomo si abbelliva e fregiava, era a lui giusta cagione di merito. Ma la dignità morale di che si fregiava il primo uomo non era solamente un bene della sua persona, ella era anche un bene della sua natura. E veramente si consideri ciò che forma la persona e ciò che forma la natura; e si troverà che queste due cose in Adamo erano in perfetto accordo e l' una, per così dire, rientrava nell' altra, sicchè i beni dell' una non potevano essere altro che i beni dell' altra. Mi spiegherò più chiaramente. La persona è una relazione che sussiste nella natura intelligente, cioè è quel principio supremo di operare che è mai sempre in una natura intelligente, e che di natura sua deve dominare gli altri principii tutti della natura stessa. Per natura all' incontro non s' intende quel solo principio attivo che ha la relazione di supremazia verso gli altri, ma s' intendono tutti i principii attivi individuamente connessi fra loro, senza riguardo alcuno al loro ordine, ossia alla relazione che ha l' uno coll' altro. Ciò posto, se un principio attivo qualsiasi che entra a costituire una natura acquista qualche grado di perfezione, si può dire a ragione che quella natura si è perfezionata. Ma acciocchè si possa dire essersi perfezionata altresì quella persona, conviene che il detto perfezionamento sia avvenuto o ridondato nel principio supremo che è il principio di attività personale. E perciò si deve distinguere il perfezionamento della natura dal perfezionamento della persona: e per la stessa ragione si deve distinguere il bene della natura dal bene della persona. A cagione di esempio, se l' uomo ha o acquista una perfetta sanità di corpo, egli ha o acquista un bene di natura: ma la sua personalità è ella per questo, necessariamente per questo, più perfetta? Se insieme colla sanità del corpo egli si fosse reso vizioso nello spirito, la sua persona avrebbe anzi perduto che guadagnato di perfezione, di bene. E viceversa se un uomo si rendesse più virtuoso nel tempo stesso che incontrasse una malattia, egli avrebbe, assolutamente parlando, perfezionata la sua persona nel tempo stesso che la sua natura avrebbe sofferto. Sebbene adunque non ogni bene della natura intelligente sia anche di necessità bene della persona, e viceversa non ogni bene della persona sia anche bene di tutta intera la natura; tuttavia si dà il caso che il bene della persona ridondi in bene di tutta intera la natura. Ecco quando si può dar luogo a questo caso, e quale sia il bene personale che gode di questo vantaggio. I principii attivi che entrano a costituire un individuo intelligente, per es. l' uomo, possono essere più o meno legati fra di loro, sebbene ciascuno si distingua dagli altri. E se si considera la natura umana nel suo ideale, cioè nel suo stato perfetto senza alcun guasto, si vede chiaramente che il principio attivo supremo deve possedere in sè una forza, colla quale domini e governi gli altri principii ordinati ad essere a lui soggetti. Questa prevalenza di forza nel principio attivo supremo, ossia personale, e questa relativa debolezza e sudditanza dei principii inferiori, costituisce appunto un legame che stringe questi a quello ed è il vero ordine intrinseco alla natura umana. Or questa prevalenza del principio personale è sicuramente un pregio e perfezione della persona stessa; ma egli non è meno un pregio e una perfezione della natura intera: perocchè tutti i principii che la costituiscono sono nel loro posto e senza alcuna discordia fra essi formano quella giusta e conveniente armonia, da cui la natura tanto riceve di nativa bellezza e nobiltà. Ora quest' ordine, quest' armonia di natura era nel primo uomo costituita da Dio perfettamente e decorava non meno la sua persona che la sua natura. Di che si vedrà ragione per la quale la morale dignità di Adamo, quella cioè in cui fu costituito, dovesse passare a' figliuoli suoi. E di vero, ciò che passa per generazione nei figliuoli è la natura. Perciò i figliuoli di Adamo innocente conveniva che portassero in nascendo quello stesso bene morale che era connaturale in Adamo, cioè che era in lui non pur bene della persona, ma bene della stessa umana natura. La grazia data da Dio al primo uomo era perfettiva, come abbiamo veduto, non pure della sua persona, ma ben anco della sua natura (1). Perocchè quella dignità morale che risiedeva nella personalità del primo uomo non decorava meno la natura sua, e ad un tempo colla natura, quasi divenuta con essa una sola cosa individua, gli era stata data. Essendo tale pertanto la legge della costituzione umana, che la natura umana non dovesse esistere se non completata dalla grazia di cui abbisognava, accadeva che questa natura, neppur comunicandosi per la propagazione, scadesse dalla sua perfezione in cui il Creatore tenerla voleva, ma che tutta intera e completa in diversi individui si venisse moltiplicando (2). Abbiamo veduto come l' anima intelligente si crea nell' uomo in venendo questo generato, cioè in virtù della visione dell' essere ideale che riceve il principio senziente nell' animale, il quale, ammesso a questa congiunzione dell' essere, partecipa tantosto l' intelligenza, e l' immortalità e la spiritualità (3). Ora la grazia non è che l' essere stesso mostrato all' uomo nella sua reale sussistenza , cioè con un grado di luce nuova e veramente divina. Perocchè quest' essere che così si realizza si muta in Dio. L' essere adunque che risplendeva innanzi all' anime di Adamo e de' suoi figliuoli non era l' essere puramente ideale, ma quest' essere con un cotal modo di realtà che il rendeva potente e di tutta la natura maggiore, che il rendeva insomma soprannaturale e divino. S. Tommaso insegna che, l' uomo ove fosse stato confermato in grazia e messo al premio della visione beatifica di Dio, non avrebbe da quell' ora più generati figliuoli (1). Però tutto quel tempo, nel quale sarebbe avvenuta la moltiplicazione del genere umano, l' uomo avrebbe meritato con degli atti virtuosi senza venire però ancora confermato in grazia. Il contrario insegnano le Divine Lettere essere avvenuto degli Angioli, i quali col primo atto meritorio furono al loro termine di perfetta beatitudine. E una tale dottrina scaturisce anche dalle nozioni della natura dell' Angelo e dell' uomo. Perocchè abbiamo veduto che la natura umana è intelligente e animale ad un tempo; e che la sua intelligenza è la inferiore di tutte nella gerarchia delle intelligenze, perocchè la natura di lei sta nel veder l' essere nel modo il più imperfetto, cioè al tutto indeterminato. Or poi per ispingersi innanzi da una cognizione così tenue dell' essere a una cognizione più intera e perfetta, essa naturalmente è fornita dei soli sensi animali i quali le fanno percepire solo degli esseri materiali: ed ella è costretta di usare di queste così limitate sue percezioni a sollevarsi all' intendimento degli esseri più nobili e di Dio stesso. Intendimento che non può mai pienamente conseguire per la tenuità e imperfezione del mezzo ch' ella adopera a pervenirvi; perocchè nè nella creatura materiale, nè in sè stessa e negli atti suoi trova mai cosa che tenga vera e propria similitudine cogli esseri più nobili, cioè cogli Angeli e con Dio. Di questo passo lento e improporzionato al gran viaggio è costretto di andare l' uomo considerato entro i limiti dell' ordine naturale. Ben è vero che la grazia il fornisce di un mezzo troppo più sublime e che troppo più innanzi il reca nella cognizione dell' essere assoluto. Ma la grazia stessa è data in modo che tiene proporzione al grado della natura: perocchè la grazia non fa che aggiungere splendore ed efficacia alle concezioni naturali, fino a tanto che nella vita presente l' uomo dimora; splendore ed efficacia che rende l' uomo senza dubbio più sapiente di prima in quanto alla profondità, dirò così, delle sue cognizioni e all' acutezza della sua vista spirituale per discernere dentro a esse il divino che gli si rivela; ma splendore però che non aggiunge alla sua mente percezioni interamente nuove di nature nuove. In somma come l' essere indeterminato che costituisce la specie umana è la vista più imperfetta dell' essere stesso, e però non fa che produrre tale specie di esseri intelligenti che è inferiore fra tutte le specie di esseri dotati d' intelletto; così la grazia congiunta a principio colla natura dell' uomo doveva essere la più tenue di tutte le grazie di cui fossero fornite le altre specie intellettive più eccellenti dell' umana. All' incontro la natura angelica, secondo la notizia che ce ne danno le divine lettere, non aveva un mezzo così limitato di perfezionare la sua cognizione dell' essere come sono i sensi animali di cui l' uomo è fornito. Ma in luogo di questi vedeva l' essere già per natura assai più perfettamente dell' uomo, cioè vedeva l' essere e nell' essere poteva scorgere immediatamente molte sue determinazioni, le quali sono ciò che i teologi chiamano specie infuse . Potevano adunque vedere dell' essere non pure il principio, come il vede l' uomo per natura, ma anche molti termini dell' essere stesso. Non già che gli Angeli vedessero da principio, per natura, o per grazia, il termine essenziale e assoluto dell' essere, cioè Dio: ma come essi cercavano nell' essere ideale, quasi in uno specchio che loro rifletteva l' essere reale, tutto ciò che a loro piacesse di trovarvi aguzzandovi la loro vista intellettiva; così vi potevano cercare dentro e le altre cose create e sè stessi e il Creatore. E l' amor loro che volgeva la loro volontà in questo ricercamento dell' oggetto della loro contemplazione, poteva essere giusto, recando la loro intellettiva attenzione di preferenza in Dio, od essere ingiusto preferendo di contemplare i pregi di altra cosa che Dio non fosse. E così avvenne che quelli, i quali dentro all' essere ideale che chiarissimamente risplendeva innanzi le loro menti, cercarono la divina essenza, ve la trovarono, e con quell' atto medesimo col quale perfezionavano la loro cognizione, conseguivano altresì il merito della virtù e in un cotal merito della virtù il premio della beatitudine. Laddove quelli che con ingiusto affetto cercarono nella chiara vista che avevano dell' essere ideale innanzi sè stessi che Dio, a questo preferendosi, commisero peccato nel tempo medesimo che abbuiarono il loro intelletto, col trattenerlo dalla contemplazione della luce divina; e non poterono poi più isguardare nella faccia divina a loro amica e ridente, ma solo nella faccia divina turbata e irata in essi: vista sommamente spaventevole, e onde ogni creatura per necessità di natura atterrita rifugge. Sicchè l' angelica natura pure col primo passo pervenir doveva o alla somma felicità o alla somma miseria. Non così è, siccome dicevamo, della natura umana, l' intendimento della quale non vede già nell' essere che gli sta innanzi tutto ciò che vuole, ma anzi non ci vede nulla se l' esperienza del senso animale non lo aiuta a vedervi alcune cose, il qual senso non lo può aiutare che assai debolmente e limitatamente, come detto è. Sicchè gli rimane sempre da fare un lungo viaggio innanzi che pervenga alla cognizione intuitiva di Dio, sebbene aiutato dalla grazia, perocchè anche questa procede con quella gradazione che la natura (1). Per la stessa ragione è che l' uomo anche peccando non perviene d' un tratto all' ultimo termine della malizia. Perocchè essendo graduata la sua cognizione e rimanendosi ella sempre imperfetta, rimansi graduato ancora il suo merito e il suo demerito che tien dietro alla cognizione. Poniamo che il suo peccato consista in disubbidire immediatamente a Dio. Ora egli è evidente che la gravezza di questo peccato non è tanta quanta è la grandezza e maestà del supremo Essere in sè stesso considerato; ma sì quanta è la grandezza e maestà di quest' Essere nella concezione dell' uomo che lo concepisce. Sicchè quanto l' uomo ha più di cognizione di Dio, tanto egli ha più di reità; e n' ha meno quanto la concezione del sommo essere è in lui più imperfetta. Fermata questa norma di giudicare della gravezza dei falli dell' uomo, egli è manifesto che la limitazione della cognizione nell' uomo ne limita il suo demerito, e che il graduato conoscere dell' uomo rende altresì graduato questo demerito stesso, il quale non è mai sommo se non allora che somma sia la sua cognizione. Di che avviene che l' uomo stesso, il quale potè offendere Iddio quando lo conosceva con un dato grado di cognizione, conoscendol poi con più gradi, si penta di averlo offeso. Sicchè Iddio per convertir l' uomo non ha talora che a donargli grazie di conoscerlo più sperimentalmente: di modo che coll' accrescergli la cognizione soprannaturale e sperimentale della divina natura, può talora salvarlo. Non così poteva avvenire degli Angeli, nei quali la cognizione naturale era massima nel primo atto e, corrispondente a questa cognizione naturale, era pur massima in essi la cognizione che loro derivava dalla grazia; secondo il principio che noi abbiam posto, che la grazia è proporzionata e come pedissequa della natura. Se dunque l' Angelo, col primo uso della sua volontà, poteva dare intero compimento alla sua cognizione di Dio, movendo l' intelletto a riguardarne la stessa essenza; l' uomo all' incontro non può mai giungere a questo, ma solo ad acquistare di mano in mano qualche grado maggiore della divina cognizione. E però l' Angelo col primo atto abusando della massima cognizione e della massima grazia (1), non gli rimase più onde riceverne alcun' altra maggiore che il potesse salvare (2). Ma nell' uomo fino che vive in terra può esser sempre messa una cognizione e una grazia maggiore, e con essa convertirsi: salvo che se abusasse dell' ultima delle grazie ch' egli può ricevere, perocchè allora nascerebbe quel peccato contro allo Spirito Santo di cui disse Cristo: « Che non sarà rimesso nè nel presente secolo nè nel futuro« (3) »; peccato in tutto simile a quello degli Angeli. Queste ragioni, nascenti dalla natura degli uomini e da quella degli Angeli, rendono ragione del mistero espresso dall' Apostolo con quelle parole: « Non sollevò gli Angeli, ma sollevò (apprehendit) il seme di Abramo« (4) ». Questa proposizione è naturale conseguenza della dottrina esposta nei due articoli precedenti. Perocchè non potendo l' uomo trasfondere ne' figli ciò che non ha egli medesimo per costituzione di natura, non può comunicarlo. Ora quando l' uomo innocente dava l' esistenza a dei suoi simili, non doveva ancora essere confermato in grazia, come vedemmo, e però nè pure i nati da lui potevano ricevere per nascimento quest' ultimo grado di perfezione. Ma se i nati dell' uomo innocente non ricevevano per generazione dal padre la confermazione della grazia divina, ricevevano però la grazia originale, come detto è. Ora la cristiana dottrina insegna che il contrario avviene della grazia del Redentore, la quale non passa nei figliuoli per la naturale generazione. Ora di che deriva adunque questa differenza? Ond' è che la grazia primitiva aveva questa singolar natura di essere ingenerata, per così dire, nei figliuoli, e non così la grazia riparatrice? La ragione di tale differenza sta pur sempre in quella gran distinzione fra la persona e la natura: la prima incomunicabile, comunicabile la seconda; cioè la grazia originale non era solamente affissa alla persona, ma era affissa anche a tutta la natura umana, come abbiamo veduto; sicchè per lei avveniva che tutte le potenze dell' uomo fossero indirizzate a un ordine soprannaturale, standone queste soggette senz' alcuna contraddizione nè repugnanza. All' incontro la grazia riparatrice è personale, cioè è affissa alla persona, ossia al principio supremo della natura umana, l' intellettiva volontà; e le altre potenze inferiori rimangono tuttavia ricalcitranti e ribellanti alla signoria di quella grazia, che però non sono da lei nella vita presente intieramente dominate e ristorate, ma tengono sempre la nativa corruzione che le mantiene ree di morte. Or ciò che è della persona non passa nel figliuolo, ma sol quello che è della natura. Il che vieppiù manifestamente apparisce ove si consideri il modo onde la umana natura mediante la generazione si comunica. Perocchè l' uomo genera non in quanto è persona umana, ma in quanto è individuo animale: sicchè il progresso della formazione dell' uomo nella generazione è dall' imperfetto al perfetto. Ed essendo l' uomo, considerato come animale, ancora disordinato e guasto, sebbene egli stesso come umana persona abbia ricevuta la grazia e la santificazione del Redentore, non può naturalmente produrre che un animale pure guasto e disordinato. Ed ora niente ripugna che un tale animale riceva il lume dell' intelligenza, perocchè questo lume non lo innalza già a stato di dignità morale e soprannaturale, potendo stare l' intelligenza anche insieme colla colpa. Ma sarebbe stato ripugnante e contradditorio che un essere moralmente disordinato fosse stato dotato contemporaneamente della grazia divina; perocchè questa non può stare col disordine morale e col peccato, giacchè la grazia è una comunicazione di quella natura divina abborrente essenzialmente da ogni peccato. E che l' uomo tosto che generato avesse in sè naturalmente un disordine morale, apparisce da questo, che l' appetito animale per suo disordine non ubbidisce da principio perfettamente alla ragione. Sicchè se l' uomo nascesse puramente coll' animalità senza ragione, dir non si potrebbe che in lui ci avesse deformità o guasto morale, ma solo alcun disordine fisico. Ma appunto col ricevere a un tempo stesso l' animalità e l' intelligenza, sorge in lui un disordine veramente morale per lo squilibrio di quelle due potenze, cioè a dire per la insubordinazione della prima alla seconda. Sicchè quella che genera è una natura guasta, e però genera una natura guasta: e questo guasto nella natura generata di natura sua è morale; e si richiede che Dio per un' azione esterna e sua propria vi porti riparo, non potendosi più comunicare la grazia pel veicolo della naturale generazione, ma convenendo che Iddio per nuovo straordinario dono l' affigga all' elemento intellettivo dell' uomo, nel quale vi è la verità ossia l' essere risplendente: essere che non è dato all' uomo per virtù propria della generazione, ma solo per una legge annessa da Dio alla generazione medesima, e il qual essere perciò non può mai venir macchiato nè alterato, perocchè è un' appartenenza a Dio medesimo (1). Sicchè risultando l' umana natura da un soggetto e da un oggetto, e venendo il primo formato dalla generazione, e il secondo venendo dato da Dio stesso, quantunque secondo una legge permanente; il punto di salute, e dove si poteva rappiccare la grazia era ciò che dava Dio all' uomo e non ciò che dava l' uomo all' uomo in generandolo. Di che apparisce che l' uomo doveva prima essere generato e poi redento, e che non poteva in uno colla generazione ricevere la grazia riparatrice. Un' altra dimanda si fa presente al pensiero: se i meriti e le grazie acquisite di Adamo innocente fossero dovuti passare nei figliuoli; e se no, per qual ragione passar non dovessero, quando pur passava la grazia originale? La cristiana dottrina risolve negativamente la questione: e il perchè anche qui giace nella intrinseca natura della cosa. La legge della generazione porta che passi nel figliuolo la natura del padre e della madre, ma non lo stato accidentale in che questa natura si trova nel padre e nella madre. La generazione è un' operazione animale, come abbiam detto, subordinata a certe leggi fissate dall' Autore dell' essere animale. Tutte le circostanze particolari e accidentali che entrano, o nella materia di cui si compone il generato, o negli organi generanti, o nel meccanismo dell' operazione medesima, tutto ciò insomma che realmente influisce in questa grande e arcana operazione, entra a determinare le accidentali qualità che ricever deve la natura nell' individuo generato: ciò che in esso resta sempre immutabile sono i principii costitutivi di questa stessa natura, che non è altro ella stessa che il complesso appunto di principii attivi individualmente congiunti. Ora tutti i meriti e le grazie acquisite del primo uomo innocente non avrebbero in lui accresciuto il numero de' principii attivi costituenti la sua natura; ma solo avrebbero sviluppati e perfezionati questi principii medesimi originariamente in esso esistenti. Come non è necessario che nascano i figliuoli coi detti difetti accidentali del padre; per esempio, non è necessario che da un uomo zoppo o senza braccia nascano altrettanti zoppi o monchi; così parimenti non è necessaria legge di natura che nascano i figliuoli coi pregi accidentali dei loro padri. Per questo gli adulti non generano già adulti, nè da uomini di grandi cognizioni nascono dotti i fanciulli: nè per la stessa ragione le virtù de' padri passano necessariamente ne' figli. Ma quello che è necessario per legge di generazione si è: che i principii attivi, che entrano a formare la natura de' padri e tutto ciò che traggono seco necessariamente, passino ne' figliuoli (1). Di che nasce che da uomini nascono uomini (nei quali vi sono per natura i due principii della volontà e dell' istinto); e che da bruti nascono bruti (nei quali non v' è che un principio solo, l' istinto). Se poi dei lunghi abiti di virtù acquistati dai genitori e delle abbondanti grazie possano giungere a migliorare intrinsecamente i principii attivi dell' umana natura e quindi influire sulla stessa generazione; se le lunghe virtù e i meriti dei padri insomma possano migliorare le schiatte, come pure se i vizii de' maggiori possano degradarle (il che io molto sospetto); questa è questione sottile e degna di essere chiarita colle più perseveranti e diligenti osservazioni sull' andamento delle famiglie e alterazioni che in un lungo corso di secoli ricevono le progenie. Ma per vantaggiosa che possa essere una tanta ricerca all' umanità, non è del mio ufficio nè delle mie forze il qui trattarla, giovandomi solo l' averla accennata (1). Si deve dunque distinguere i principii attivi, che entrano nella umana natura, dal loro sviluppamento. In quanto ai principii attivi si può distinguere 1. il loro numero, 2. la potenza di ciascuno, e 3. il loro ordine o scambievole armonia. In quanto al numero abbiamo già detto che la natura umana costituita nell' ordine naturale ne ha due, l' istinto e la volontà: e che costituita nell' ordine soprannaturale ne riceve un terzo, che è la volontà stessa operante dietro una percezione soprannaturale. In quanto alla potenza intrinseca di ciascheduno, questo è data per le leggi a cui soggiace la natura e la generazione, e ho manifestato di sospettare che possa essere accresciuta o diminuita per l' influenza degli abiti virtuosi o viziosi, e in generale pel bene e pel male a cui può soggiacere l' umanità nelle tante e sì varie sue vicende. In quanto al loro ordine, l' essere questo perfetto, mediante una perfetta subordinazione dei principii attivi, costituisce la perfezione dello stato morale dell' uomo. Questi tre elementi si debbono calcolare da chi vuol conoscere la perfezione maggiore o minore della costituzione umana. Ma oltre la perfezione annessa alla costituzione dell' uomo, havvi la perfezione del suo sviluppamento: la costituzione umana è formata dai principii attivi; il suo sviluppamento dall' uso ed esercizio dei medesimi. La perfezione che può conseguire l' uomo col suo sviluppamento, cioè col suo usare de' propri principii attivi, o appartiene alla persona o appartiene alla natura. Nell' uno e nell' altro caso è una perfezione accidentale: perfezione accidentale della persona, perfezione accidentale della natura. Io chiamo perfezione della persona quella che consiste e risiede nel principio personale, cioè nel principio supremo dell' uomo, nel principio morale. All' incontro perfezione della natura io dico quella che riguarda qualsivoglia principio attivo che forma parte dell' umana natura. Conviene afferrare bene questa distinzione fra perfezionamento della persona e perfezionamento della natura. Egli è manifesto che tutte le potenze dell' uomo possono svilupparsi e perfezionarsi e che la perfezione dell' una non è già sempre condizionata alla perfezione dell' altra; ma che l' una si avvantaggia e perfeziona talora senza dell' altra, se non anche a spese dell' altra. Però ogni sviluppamento e perfezione dell' uomo, come animale, non tiene già la proporzione e la norma onde l' uomo si sviluppa e si perfeziona come essere intellettivo. Anzi non di rado avviene che chi diede opera a conservare più studiosamente la sanità e le forze corporali si trovi aver negletto la coltura delle forze dello spirito, e che gli uomini più dotti e perspicaci non sieno già sempre i più sani e i più robusti. Medesimamente lo sviluppo e perfezionamento delle forze intellettive non va già sempre innanzi d' un passo collo sviluppo e perfezionamento morale dell' uomo: e non è infrequente che chi ha fatto tesoro di più cognizioni e ha rese le sue facoltà intellettuali più perspicaci e più pronte, si trovi aver trascurato la propria moralità e non data la sufficiente coltura al principio morale che in lui risiede. Or la coltura e il perfezionamento del principio morale forma la perfezione della persona: laddove il coltivamento e sviluppo della parte intellettiva o animale dell' uomo non forma che una perfezione della natura; perocchè il principio morale è il supremo principio attivo che sia dell' uomo, in che abbiamo detto consistere la personalità. Dissi che la perfezione della persona non solo differisce dalla perfezione della natura, ma talora si trovano queste due perfezioni in vera opposizione fra di loro. Questa verità che può parere assai singolare a chi non vi ha mai riflettuto, si rende manifesta mediante un' osservazione che fa colla solita sua acutezza S. Tomaso, cioè: che fra le virtù ve ne hanno di quelle che non esigono alcuna imperfezione nella natura; ma che ve ne hanno altresì di quelle che suppongono e richiedono per esistere una qualche imperfezione della natura. Delle prime il santo Dottore reca in esempio la carità e la giustizia: e in esempio delle seconde adduce la fede e la speranza, le quali suppongono che manchi il conoscimento o il possesso di ciò che si crede e spera; come pure la penitenza e la compassione, la prima delle quali suppone essere preceduto il peccato e si forma dal dolore, la seconda nasce dalla partecipazione dei mali altrui (1). E veramente non c' è dubbio che il rammaricarsi de' propri falli, il compatire alla miseria altrui, il credere e lo sperare le cose da Dio rivelateci sulla sua parola, sono altrettanti atti morali e meritorii, i quali per ciò ci accrescono la perfezione della persona. E tuttavia come si potrebbero fare questi atti perfettivi della nostra personalità, se non ci fosse data occasione a farli da quei difetti di natura che ne formano come la materia o l' oggetto? Per quanto possa parere altrui strana questa opposizione che talora s' incontra tra il perfezionamento della persona dell' uomo e quello della sua natura, egli è però un fatto innegabile e nessun filosofo di buona fede potrà sicuramente dissimularlo. La ragione di ciò si è che la natura umana, come la natura di qualsivoglia altra cosa creata, contiene in sè medesima una necessaria ed essenziale limitazione, la quale per ciò nè pur Dio stesso avrebbe potuto fare che non ci fosse. E una tale intrinseca e naturale limitazione impedisce che la natura umana sia suscettibile di ogni ingrandimento e perfezionamento, e l' assoggetta alla surriferita ed altrettali linee di confine: dimodochè, perfezionandosi da una parte, conviene che si renda imperfetta dall' altra, e fra queste due quantità, l' una delle quali cresce mentre l' altra scema secondo una certa legge, fissa e determina un maximum di bene totale, oltre il quale non si può andare. Della quale limitazione noi abbiamo trattato più lungamente altrove (2). Ora qual è l' ordine che devono avere fra loro la perfezione della persona e quella che è semplicemente perfezione della natura? Ove si abbia a mente in che noi abbiamo fatto consistere la persona umana, non sarà difficile avvedersi che la natura deve servire alla persona e non viceversa, e che la perfezione della persona vale infinitamente di più di quella che è semplicemente perfezione di natura, anzi è la sola che costituisca il vero pregio di tutto l' uomo. Perocchè la personalità risiede nel più nobile e più alto principio che nella natura umana si trovi, cioè in quel principio volitivo che è ordinato a seguire la verità e che perciò ha un prezzo assoluto e un potere di fatto e di diritto sopra tutte le altre potenze che compongono l' uomo e che da quel supremo principio devono essere mosse e guidate. Sicchè ove ci avesse difetto nel principio supremo, tutto l' uomo sarebbe con questo disordinato e guasto: quando avendovi difetto solamente nelle potenze inferiori, niuna delle quali per sè è morale, l' uomo però non si potrebbe dire assolutamente corrotto e disordinato perocchè la sua personalità sarebbe sana, e l' IO (1) non ubbidirebbe già, ma riterrebbe la sua dignità di comandare o almeno di non servire ad altre potenze. E qui di passaggio mi si permetta osservare l' illusione e l' inganno che si fanno gli uomini per ragione di queste due distinte perfezioni della persona e della natura. Si vedono sopra la terra gli uomini divisi in due parti. Una parte è intesa a cercare la perfezione della persona; un' altra parte intesa a cercare quella perfezione che è semplicemente della natura. E gli uni e gli altri vanno in cerca di un bene di cui godere: gli uni e gli altri tentano di acquistare una grandezza, della quale possano compiacersi in sè medesimi: perocchè ogni uomo, qualunque sia, vuol sempre esser felice, grande, perfetto; vuole almeno poter esser creduto e potersi creder tale. Intanto quelli, che non si affaccendano se non a conseguire una perfezione e una grandezza che appartiene alla natura ma non alla persona, sono manifestamente ingannati: perocchè la perfezione a cui volgono l' animo e le fatiche, migliora sì alcune parti dell' uomo, ma non l' uomo stesso. Tutti quelli che si mostrano infaticabilmente industriosi e zelanti per crescere sè stessi o anche gli altri uomini di beni materiali e che non altro mirano che a poter aumentare l' agiatezza, la prosperità, le delizie della vita, o se si vuole anche tutti i progressi delle scienze e la coltura dell' intelletto, a esclusione della cultura morale pratica, e che si fermano qui nè voglion conoscere alcun altro bene dell' uomo di ordine a questi superiore; tutti costoro, dico, procacciano una perfezione all' umanità, ma che non si può dire mai giungere al miglioramento dell' uomo come persona, ma solo ad un cotal miglioramento dell' uomo come natura. Senza far dunque questa distinzione, essi si vengono lusingando di meritare giustamente il nome di filantropi, e si arrogano di essere essi soli che promuovono gli avanzamenti progressivi e l' ingrandimento della specie umana. Ma chi bene e imparzialmente considera i loro intendimenti, trova che nasce bensì un vantaggio dai loro sforzi anche alla umana personalità per un effetto indiretto della maggior perfezione della natura: effetto dal genere di uomini dei quali parliamo non inteso nè apprezzato nè preveduto. Ma che però questi uomini allora quando essi astraggono dal perfezionamento veramente morale, per non avere in vista che il solo perfezionamento materiale dell' umanità, non innalzano bastevolmente le loro intenzioni e non si propongono un fine abbastanza nobile dei loro utili travagli; cioè non tendono a rendere grande e perfetta veramente la persona umana che è quanto dire tutto l' uomo, ma sola una parte della sua natura. E che s' illudono quindi se si persuadono di lavorare alla vera grandezza e alla vera perfezione dell' uman genere. E se intesi alla perfezione della natura, questi uomini che fin qui abbiamo descritto, si facessero coscienza di non nuocere mai alla perfezione della persona umana, un preclaro beneficio farebbero colle loro oneste fatiche e studi all' umanità. Ma ove si consideri che noi parliamo di quei soli, i quali non altra perfezione conoscono possibile nell' uomo se non quella che abbiamo nominata perfezione della natura, e che quindi disconoscono o non badan punto o certo niente apprezzano la perfezione veramente morale e personale; non sarà difficile avvedersi che nei loro tentativi e nelle loro imprese la perfezione della persona dovrà venir ben sovente posta a pericolo e sacrificata alla perfezione parziale della natura, che sola si vuole e s' intende. Conciossiachè, come di sopra abbiamo detto, queste due maniere di perfezione non sempre vanno di un perfetto accordo fra loro: ma l' una può cadere in collisione coll' altra per l' intrinseca limitazione della natura umana. In tutti questi casi di collisione, colui che non ha mai afferrato il pregio della perfezione morale e che tutto ripone nella perfezione della natura, non dubiterà [di lasciare] che quella prima venga soprafatta e distrutta da una cieca avidità che lo porta verso la seconda. Nè questo è un avvenimento peregrino e raro: perocchè egli è tanto universale che costituisce anzi egli solo quella grande classificazione di tutti gli uomini in buoni e cattivi. Non esagero punto: si consideri la cosa con diligenza. Non sono pur i soli filantropi quelli che vogliono il bene della natura umana: anche gli egoisti il vogliono almeno per sè stessi. Tutti dunque gli uomini, nessuno escluso, appunto perchè sono uomini, hanno voglia del bene, tutti cercano una perfezione ed altresì un ingrandimento. Qual è dunque la differenza per la quale alcuni sono detti buoni, ed alcuni altri sono detti cattivi? Non è altra che questa, che alcuni i quali sono detti buoni, ogni qualvolta si accorgono trovarsi in collisione la perfezione della natura e la perfezione della persona, antepongono questa a quella. Dimodochè ciò che vogliono per assoluto, a qualunque costo e senza condizione alcuna, è la perfezione della persona: ciò poi che vogliono con un volere relativo e a condizione che niente soffra la dignità personale, è la perfezione della natura. Ed al contrario che alcuni, i quali sono detti cattivi, preferiscono questa a quella: sicchè ciò che vogliono per assoluto e a qualunque condizione è una qualche perfezione o bene di natura; il qual loro volere assoluto, così determinato, impedisce che possano veramente volere il bene consistente nella dignità della persona, perocchè questo bene non si può volere se non assolutamente, e chi il volesse relativamente e sotto condizioni, non lo vorrebbe punto. Quelli adunque che vogliono in primo luogo il bene della persona e subordinatamente a questo il bene della natura, sono i buoni: quelli che non vogliono il bene della persona, sebben vogliano il bene della natura, sono i cattivi. Trasportiamo questa teoria nell' ordine soprannaturale, vestiamola col linguaggio della religione: noi avremo nelle due classi sovraccennate i figliuoli di Dio e i figliuoli degli uomini, i cittadini delle due città, i figli della luce e delle tenebre. La divina scrittura, parlando dei figliuoli degli uomini, fa nascer d' essi i giganti cui descrive come uomini potenti, uomini avidi di gloria, intraprendenti, fondatori di città, conquistatori, re (1). Or poi di essi, che pure avevano tante doti di natura, tuttavia dice che non ha eletti questi il Signore, ma li ha riprovati (2). Qui veggiamo da una parte uomini, i quali tendevano certamente ad una cotal loro perfezione, che risplendevano sopra gli altri per coraggio, intraprendenza, forza corporale, avvedimento e molti altri pregi; e dall' altra che tuttavia sono riprovati dall' Eterno. Ciò nasceva perchè la perfezione cui questi tendevano di conseguire e di promuovere non era la perfezione della persona, ma solo la perfezione di alcune parti della natura, la quale non si può dire semplicemente e assolutamente perfezione dell' uomo. Ora questa divisione grande del genere umano, queste due stirpi originali, dette di Dio e degli uomini, non cessarono mai, ma si perpetuarono e si perpetuano, sviluppandosi l' una accanto all' altra, senza venir meno sino alla fine dei secoli. E i due sistemi, tanto in teoria come in pratica, seguiti da queste due gran fazioni dell' umanità sono così opposti fra loro, così irreconciliabili, così esclusivi, che i loro seguaci non possono mai aver pace insieme: ed indi la perpetua lotta, che sempre si sc“rse e che non può mai cessare, de' malvagi e de' buoni (3). Veduto quale sia l' ordine della perfezione della persona e della perfezione della natura, resta a vedere in che modo e con che legge di relazione fra lor si sarebbero queste due perfezioni sviluppate e conseguite dagli uomini innocenti. Certo è che fino che gli uomini fossero rimasti innocenti, nessuno di essi, di spontaneo moto, avrebbe cercato la perfezione della natura a scapito della perfezione della persona; e che per ciò queste due perfezioni non si sarebbero trovate, quanto a sè, in lotta fra loro, ma con bella armonia sarebbero procedute. Nè meno si vede cagione (senza che fosse intervenuta una legge positiva), per la quale l' uomo fosse addotto in necessità di coltivare la perfezione della persona a spese e scapito della perfezione della natura, e può fors' anco [dirsi] che questa cagione per sè non sarebbe nata giammai (1). Tuttavia non è ripugnante allo stato di uomini innocenti che questi in grado diverso avessero dato opera all' una e all' altra perfezione e che alcuni si fossero dati più a sviluppare e perfezionare le parti della natura e altri si fossero applicati più di proposito a conseguire il pregio risiedente nella persona: senza però che i primi in perfezionando la natura guastassero il pregio della dignità personale; nè che i secondi coll' amore e collo studio tutto messo in aumento di questo pregio guastassero e corrompessero le altre parti della natura. In tanto però quelli che si fossero dati più di proposito al perfezionamento della persona, avrebbero fatto più degli altri tesoro di perfezione morale, di meriti e di virtù, e quindi avrebbero fatto più celere il loro viaggio verso alla somma perfezione umana a cui tutti pure eran volti. Di che s' intende come gli uomini, ancorchè innocenti tutti, pure si sarebbero distinti infra loro anche per li diversi gradi del merito morale, come pure per li diversi gradi dello sviluppamento delle altre parti della natura. E non è già che quelli, i quali avessero atteso più a lungo degli altri alla perfezione della natura, non avessero anche in ciò facendo raccolto del merito morale e con esso arrecato un poco di perfezione alla propria persona. Perocchè non poteva loro mancare la temperanza, la rettitudine e la giustizia, come nè pure una retta intenzione di obbedienza alla maestà del Creatore. Ma questo merito sarebbe lor venuto per indiretto e avrebbe illustrata la loro persona quasi come lume riflesso; quando quei primi che si fossero dati a contemplare le cose della sapienza, della virtù e la divina natura per collocare in essa direttamente tutto il loro amore, si dovevano guadagnare un merito diretto e molto più sublime e di un passo più celere giungere sicuramente all' altezza di tutta la personale perfezione. Or qui il pensiero naturalmente ci porta a dimandare a noi stessi: in che ordine gli oggetti si sarebbero offerti all' attenzione umana e le potenze dell' uomo si sarebbero sviluppate e perfezionate? E se, considerando come l' uomo è costituito, a lui fosse stato proprio e connaturale di dar tosto mano a perfezionare direttamente la propria personalità, o anzi se dovea prima prendere a sviluppare e perfezionare le altre parti di sua natura; e solo in fine, accorgendosi e quasi scoprendo in sè medesimo più chiaramente la personale dignità, si fosse volto a lavorare intorno a questa e occupatosi a perfezionarla? La divina Scittura, non meno che l' esame della costituzione dell' uomo, dà per risposta che sarebbe succeduto lo sviluppo diretto della persona in ultimo, e dopo essersi l' uomo alquanto occupato nello sviluppamento e perfezionamento delle altre parti della sua natura. Imperciocchè in quanto a quello che ci dice circa una tale questione l' esame della umana costituzione, vedesi manifestamente che le potenze più pronte a muoversi nell' uomo e le prime a svilupparsi sono quelle della sensibilità animale. Le quali si trovano pur in contatto, per così dire, coi loro oggetti, che è tutta la natura materiale la quale circonda l' uomo appena che esiste, e lo stimola con infinite sensazioni a porre in esercizio tutti i suoi sensi. Sicchè l' attenzione sua è tratta primieramente fuori di sè e volta all' universo materiale che le sta presente; e non può sicuramente pensare a se stesso, ai suoi atti interni, all' anima sua che non cade punto sotto i suoi sensi, se non in un secondo tempo e con un atto di riflessione, quando di ciò gli venga data alcuna occasione, dopo aver già fatto uso de' sensi suoi e sviluppate le sue facoltà anche intellettive sulla materia che gli fu posta e messa innanzi dall' universo materiale. E questo è quello che risulta ancora, come dicevo, dalla divina Scrittura. Perocchè Iddio, dopo creati gli uomini, non disse già loro direttamente: coltivate la vostra personalità, linguaggio che non avrebbero potuto intendere; ma disse: « Crescete e moltiplicatevi e riempite di voi la terra e sottomettetevela e dominate sui pesci del mare e sui volatili del cielo e su tutti gli animali che si muovono sopra la terra« (1) ». Nelle quali parole è descritto lo sviluppamento e perfezionamento non ancora della persona, ma della natura umana. E dice ancora la Scrittura medesima che il Signore Iddio, dopo aver fatto l' uomo, il prese e il pose nel giardino di piacere, perchè lo lavorasse e lo custodisse (2). Dove pure si vede che l' opera che viene immediatamente assegnata all' attività umana in quei primi momenti non fu direttamente lo studio della sapienza e la contemplazione dell' essenza divina, ma fu il lavoro materiale dell' agricoltura, la formazione e incremento della umana società e gli usi tutti che la società umana cavar potesse dall' universo materiale, dai bruti, dalle piante e dai minerali, in aumento della perfezione naturale dell' uomo, il quale veniva con ciò costituito signore e imperante su tutta la natura. All' opposto l' opera molto più grande e più sublime del perfezionamento personale prendeva il suo principio nell' essere servo obbediente di Dio. E col progresso del tempo Iddio aveva lasciato all' uomo stesso, nel quale aveva rinserrato la sua imagine e similitudine e fornitolo di tutte le facoltà più nobili, a scoprire in sè e quasi dissotterrare un universo più grande del materiale e un giardino da coltivare più vago dell' Eden; aveva lasciato a lui di rinvenire quasi direbbesi a caso, la via della celeste contemplazione, scoperta la quale, sarebbe allora cominciato in lui quell' arbitrio, di cui parlammo, di dedicare sè stesso o più direttamente al lavoro del perfezionamento della persona, o di continuarsi come prima nella occupazione rivolta al perfezionamento solo della natura. Dissi però che a questo perfezionamento della persona fin da principio Iddio non aveva lasciato di dargli una indiretta spinta. Poichè dopo di avergli donati in cibo tutti i vegetabili che produceva la terra, soggiunse però dandogli un precetto di obbedienza: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole il chiama all' obbedienza, la quale perfezionare doveva appunto la sua persona con un merito morale. Ed è degno di osservazione che questa perfezione o merito personale che Iddio intendeva di promuovere nell' uomo con quel precetto, doveva promuoversi a scapito o certo a mortificazione della natura, perocchè la natura veniva impedita dal dilettarsi e nutricarsi di quel frutto bello a vedersi e soave a mangiarsi, il quale eccitava in essa natura un appetito di sè che domandava di essere soddisfatto. Ma per la limitazione, che abbiamo accennata, dell' essere creato, quella perfezione personale che procedeva dall' obbedienza di un precetto positivo, non poteva in alcun modo acquistarsi se non a condizione che la natura ne rimanesse rattristata e cassa nelle sue voglie. Egli è dunque manifesto che l' umanità prima avrebbe atteso alla perfezione della natura direttamente e solo indirettamente alla perfezione della persona: ma che col progresso del tempo l' umanità sarebbe volta e applicata direttamente alla perfezione della persona; dal qual punto avrebbe fatti rapidissimi progredimenti verso l' altissimo suo fine. E poichè la ragione per la quale non avrebbe atteso a principio direttamente a coltivare la perfezione della persona, sarebbe stata perchè l' attenzione sua e con questa la sua volontà e le sue forze rimanevansi occupate degli oggetti esterni sottoposti per natura alla sua sensibilità e alla sua contemplazione, a cui la cognizione di sè stesso sarebbe succeduta poscia quasi come una scoperta; per ciò è da credere che i figliuoli dei primi uomini, dopo fatta già questa scoperta, sarebbero stati più direttamente educati e volti al perfezionamento personale, approfittando essi in tal modo del progresso fatto dai loro padri. Il che però non avrebbe tolto in nessun d' essi l' arbitrio di attendere a uno o ad altro ramo, ad una o ad altra maniera di perfezione, secondo che fosse più loro piaciuto; rimanendo in tal modo le differenze fra gli uomini de' meriti e delle specie di perfezione o pregi acquistati. Distinta adunque la perfezione della persona da quella che non è se non perfezione della natura, e trovato che nello stato innocente lo sviluppo e ingrandimento dell' una si verrebbe facendo a lato dell' altra, più o meno, secondo l' arbitrio della umana volontà, nasce la dimanda: se queste due perfezioni sieno di tale indole da poter crescere di lor natura sempre più indefinitamente. In quanto alla perfezione della natura io credo che si possa rispondere affermativamente. E del credere io alla indefinita perfettibilità della natura, la ragione è questa. Tale perfettibilità si estende a sottomettere tutto il mondo materiale all' uomo, cioè a trar da lui e dalle cose tutte in lui comprese gli usi tutti che possono prestare ai bisogni, ai piaceri, e ad ogni maniera di servigi che l' uomo possa da esse bramare. Di più consiste questa perfettibilità a riempire tutta la terra di uomini quanti ne può capire, e di questi uomini come di una sola famiglia concordissimi fra di sè, formare la più pacifica e virtuosa società che possa essere, dalla quale nascano agli individui tutti gli agi e i piaceri sociali. Consiste ancora nell' acquistare una perfetta cognizione di tutte le cose create di modo che ciascun degli uomini abbia ricca la mente di una scienza perfetta e appagata quella curiosità che li porta a bramare di conoscere l' indole delle cose quant' ella si stenda. Or se dei due primi punti non può sicuramente affermarsi che essi presentino all' umanità un campo tutto indefinibile a percorrere, benchè non vi ha dubbio che il presentino sì fattamente vasto che l' occhio umano non può fissarli confini; il terzo punto però, cioè quello che riguarda il sapere, pare che offerisca all' umanità un viaggio al tutto indefinitamente lungo. Perocchè la natura creata non solo è vastissima e profondissima materia al sapere dell' uomo, ma può dirsi a ragione che ella non ha fondo, conciossiachè si avvolge tutta di infiniti, e il vestigio della divinità che l' ha creata ove che sia risplende per modo che ogni pensamento umano vi si perde e smarrisce senza trovarne l' uscita: nè appieno si può giammai conoscere la creatura, se appieno non si conosce quel Creatore che non solo l' ha creata una volta, ma che di continuo la sostiene e la crea, e, per così dire, la nutrica di sè medesimo. Basta domandarne ai matematici che pure hanno alle mani la sola materia più esteriore e superficiale della natura, quale è la quantità , e pure a ogni passo si offre loro incontro quella terribile idea dell' infinito che li sgomenta e li fa trovar fuori di tutti i limiti delle cose reali. Che dirò della fisica, della fisiologia e della patologia? Nelle quali scienze, ove non si considerino alla superfice, ma con occhio profondo e metafisico, mirasi il volto della natura tanto maestoso, tanto pauroso e i suoi intendimenti così segreti, e le sue leggi così auguste e il suo principio un mistero così inesplicabile che pare assai più proporzionato all' intelligenza di una deità che a quella dell' uomo. Quanto poi al perfezionamento personale, si può egli considerare o nell' ordine della sola natura, o anco nell' ordine della grazia. Nell' ordine della natura questo perfezionamento personale io lo tengo di un progresso, al tutto indefinito, sotto ogni aspetto in cui si considera l' atto morale. L' atto morale, come ho mostrato nel libro dei Principii della Scienza Morale (1), risulta da due elementi, la legge e la volontà; e migliore è l' atto morale quanto la legge è più grave, e quanto è più ferma l' adesione della volontà. Or sia da parte della legge, sia da parte dell' adesione della volontà, la perfettibilità morale è indefinita. E veramente la legge non nasce che dalla cognizione dell' oggetto verso il quale si pratica l' atto morale. Or gli oggetti verso i quali si praticano gli atti morali sono Iddio e l' uomo: onde le due leggi supreme della morale imperanti l' amor di Dio e degli uomini. Ma la cognizione di Dio nell' ordine naturale può sempre mai crescere indefinitamente, non solo perchè Iddio, infinito di natura, è per sè inesausto fonte all' uomo di cognizione; ma perchè l' uomo colle forze naturali, sebbene possa crescere sempre nel conoscimento di Dio, tuttavia non può attinger mai tanto di questo conoscimento che appieno lo soddisfaccia e lo bˆi: vi ha dunque una gradazione indefinita nella cognizione che l' uomo può naturalmente acquistare della divina natura: ciò trae seco che la legge di onorare Iddio si renda per l' uomo sempre indefinitamente più grave e tale che egli possa esercitare verso Dio un maggior grado di amore e di riverenza, il che aggiunge all' atto suo di continuo un maggior grado di merito. Dalla parte poi dell' adesione della volontà non si vede modo parimenti di assegnare alcun termine al crescimento d' amore della medesima. Perocchè non essendo ella mai appieno soddisfatta e sazia del possesso di Dio che naturalmente potesse avere, non c' è ragione che ella mai si fermasse nel suo sforzo di vie più con vivo amore possederlo. Senza chè l' umana natura e l' umana volontà ha ella stessa in sè qualche cosa d' immenso e d' indefinito; nè mai accade che noi possiamo assegnare un grado di affetto tanto grande, che un altro maggiore non si possa pensare possibile di cader nell' uomo. Il perchè pare a non dubitarsi che la perfettibilità personale dell' umana natura sia pur essa suscettibile di un progresso al tutto indefinito, il quale non potrebbe interrompersi se non per morte. E il medesimo avviene tuttavia all' umanità; sebbene vestita della grazia del Riparatore. Perocchè fino a tanto che l' uomo vive, l' uomo può sempre accumulare un numero maggiore di meriti e crescere in perfezione di virtù. In quanto all' ordine soprannaturale noi ragioneremo nell' articolo seguente. La differenza fra gli aumenti successivi della grazia nello stato presente dell' umanità e nello stato primitivo, consiste in questo che il crescere della grazia nell' umanità presente non può giammai essere tale che ci rechi senza morte alla visione beatifica di Dio: laddove nello stato primitivo non v' aveva morte, e convenia passare allo stato di gloria per successivi incrementi della grazia. La ragione per la quale l' uomo non può ora congiungersi pienamente al Sommo Bene se non intervenendo la morte, è fondata nella natura della grazia del Redentore: la quale, come abbiamo detto, non è affissa alla natura, ma alla persona; e non tutte le parti della natura vengono perciò da essa medicate e redente, ma la parte animale rimansi sempre disordinata e sempre perciò degna di essere data preda alla morte. E la visione piena di Dio non istà nell' uomo con tale disordine; sicchè l' uomo non è atto a veder Dio fino che veste la carne del peccato. Perocchè quando dico uomo, dico prima un animale, e poscia gli aggiungo l' intelligenza e la grazia quasi su quel primo fondamento: onde sarebbe assurdo il dire che un animale corrotto potesse esser levato alla piena partecipazione e visione della divinità. Ma così non era degli uomini innocenti: la loro natura perfetta, la grazia affissa alla natura, la parte animale dell' uomo non ritrosa a seguire a suo modo l' altezza dell' intelletto e della volontà, la quale teneva dietro alla grazia fedelissima. Allora tutto l' uomo congiungevasi a Dio per grazia, nè egli aveva nulla a distruggere in sè medesimo, ma tutto era degno di vedere svelatamente la faccia di Dio. Egli è dunque a vedere come sarebbe probabilmente seguito questo discuoprimento graduato del volto di Dio all' uomo, col quale questo sarebbe stato pienamente inebbriato di beatitudine. Gli aumenti della grazia avrebbero tenuto una cotal proporzione cogli aumenti dei meriti morali. Ora il corso della crescente perfezione morale abbiam veduto esser doppio, cioè l' uomo avrebbe cresciuto di perfezione morale e di meriti tanto per la via di una più chiara notizia che avrebbe acquistato di Dio, oggetto principale de' suoi atti morali, come per la maggior forza dell' adesione della volontà nell' atto buono e morale. A questo doppio progresso di moralità e di merito corrisponder dovea una doppia successione o serie dei gradi della grazia. Si rifletta bene che il merito morale può aversi grande assai anche con una tenue o almeno indistinta cognizione dell' oggetto dell' atto morale: anzi egli avviene ben sovente che con meno cognizioni vada congiunta una maggiore bontà morale. Avviene ancora sovente nello stato presente dell' umanità che il buon volere e quindi il merito morale si congiunga con un errore della mente e coll' ignoranza: e quante volte non avviene che una coscienza erronea dia occasione di acquistare un merito? Certo colui, il quale fa un penoso sacrifizio, credendolo a Dio gradito e in sè stesso virtuoso, non perde il suo merito, eziandio che quell' opera riguardata per sè stessa non avesse alcun pregio, o fosse inopportuna e fuori di luogo. Nella fede pure v' ha sempre un' ignoranza ed oscurità: e di questa ignoranza appunto nasce in gran parte il merito di essa fede; sicchè colui, il quale non ha bisogno d' altro argomento a credere che l' autorità della divina rivelazione, va innanzi, per merito di fede, a quell' altro che viene sostenendo la sua credenza con degli argomenti tratti dalla ragione umana, ed ha bisogno di ricorrere a questi per rimuovere da sè ogni dubitazione. Nello stesso tempo però che si dà questa specie di merito da desumersi e misurarsi dal grado di energia della volontà buona, indipendentemente dal grado della cognizione o anche in proporzione opposta a questa; si dà anche un' altra specie di merito che tiene proporzione col grado di luce e di cognizione di cui gode la mente contemplante, dietro al quale grado di lume tende direttamente la buona volontà che insieme colla chiarezza di quell' oggetto s' innalza e si sublima. Or all' una e all' altra di queste due specie di merito, come dicevamo, corrisponde una grazia, e nelle due specie al grado del merito il grado d' aumento della grazia. La differente natura di queste due grazie apparisce ove si consideri che quella, la quale ha relazione al merito della volontà senza che abbia rispetto alla perfezione del conoscimento, è più positiva, per così dire e ha più ragione di premio: quando l' altra che s' aumenta proporzionalmente a quel merito che cresce di pari passo colla cognizione, procede per una legge, quasi direbbesi, più naturale e men dipende da un positivo atto di Dio che rimunera o certo che si compiace dell' opera buona della sua creatura. In ragione d' esempio: a colui che contempla la natura divina di una contemplazione amorosa per volontà di via più onorarla e servirla, viene crescendo di mano in mano non meno il lume che l' affetto con essa la grazia. Ma questo accrescimento pare che sia un cotal effetto naturale della sua contemplazione medesima; pare che il conoscere gli cresca unicamente per la virtù del contemplare, e l' affezionarsi gli cresca unicamente per la virtù del conoscere: benchè infatti la grazia si associ all' atto del contemplare e dell' amare, ed ella stessa il sollevi in un ordine soprannaturale e il faccia crescere di più e più lume e calore. All' opposto la virtù di quello che merita piuttosto anzi coll' efficacia della volontà che coll' aiuto del conoscimento, la virtù del semplice fedele il quale pochissimo conoscendo delle cose divine, pure mantiene la giustizia e cerca ovecchessia di fare ogni cosa ch' egli creda dover piacere a Dio; questa virtù non pare che produca di sè stessa aumento di grazia, per modo che quell' uomo virtuoso ne rimanga più e più abbellito e perfezionato: ma l' aumento della grazia che quest' uomo riceve par che sia più un dono spontaneo di Dio il quale vuol premiare con essa la fedeltà che gli piace di quell' uomo semplice cui distingue perciò e decora coi doni suoi. Tuttavia, chi ben considera, anche gli aumenti di questa grazia si legano colla natura degli atti virtuosi di quell' uomo. E come questi atti traggono più il loro merito dalla volontà che dall' intelletto, così anche la grazia che si accresce a quest' uomo è diretta più a crescere la perfezione della sua volontà che le notizie del suo intelletto. Di che si può fermare il carattere che segna e distingue non meno quei due meriti che queste due grazie; cioè il primo merito trae dall' aumentata luce dell' intelletto, e la grazia che a questo consegue è perfettiva del lume intellettivo; il secondo merito trae più dall' energia della volontà, e la grazia che a questo consegue è più perfettiva della volontà. E così dicendo, non intendo già che manchi nella prima intieramente la volontà, e nella seconda intieramente l' intelletto; i quali due elementi dell' azione umana e morale non possono mai mancare: ma intendo dire che nel primo caso domina più l' intelletto e i gradi di merito si computano secondo i gradi di luce ch' egli acquista; nel secondo caso domina più la volontà e i gradi di merito si computano secondo i gradi dell' energia che questa acquista. Il che nulla vieta che la grazia, che illumina l' intelletto, non si rifletta altresì a corroborare la volontà; nè che la grazia, che da prima corrobora la volontà, non abbia virtù di schiarire poscia l' intelletto medesimo. Ora nello stato degli uomini innocenti, io mi penso che per queste vie dell' intelletto e della volontà gli uomini pervenissero al pieno possesso di Dio; e alcuni di essi per l' una via, altri per l' altra prima vi pervenissero. Ciò è consentaneo con quello che abbiamo detto dei due modi nei quali l' uomo può vedere Iddio, cioè in forma di cognizione e di amore. Perocchè così io penso meco medesimo che crescendo nell' uomo quella grazia, che mostra Iddio all' intelletto, questa per successivi aumenti potea pervenire fino a mostrare sì chiaramente Iddio fino a che l' uomo vedesse di Dio lo stesso Verbo, che è quanto dire la stessa sussistente divina conoscibilità: e che crescendo nell' uomo quella grazia che raccende l' amore della sua volontà, ella potesse pervenire a segno sì che l' uomo vedesse in questo amore lo stesso Spirito Santo, ossia la sussistente divina amabilità. E di vero ho già dimostrato che quel conoscimento di Dio che l' uomo ha per grazia, è un principio della visione di Dio (2), il cui termine è il Verbo: e quell' amore onde l' uomo per grazia ama Iddio è un principio di quel possesso il cui termine è lo Spirito Santo. E ora egli è manifesto che giunto l' uomo o alla visione del Verbo o al possedimento dello Spirito, egli è pervenuto con questo solo alla visione beatifica della divina essenza; conciossiachè nulla si pare che distingua le persone dall' essenza nella deità. Di che doveano poscia conseguirne a una tal visione tutti quelli effetti che di lei son proprii, cioè a dire la beatificazione dell' intera umanità, la quiete del desiderio nel suo termine, e dalla pienezza riboccante di gloria onde ebbrio è lo spirito, un travasamento anche nelle inferiori potenze, e quella cotale spiritualizzazione, di cui parla l' Apostolo, del corpo stesso (3). Il che tutto però doveva avvenire, secondo che a me pare, di una maniera oltremodo soave e appieno conveniente alla costituzione della umana natura. Noi abbiamo descritto il modo del conversar d' Iddio colle sue creature innocenti, cioè vestito di alcune forme sensibili e forse non diverse dalle umane. Dal Creatore così circoscritto e reso accessibile agli uomini di recente usciti dalle sue mani, i quali non avrebbero altramente potuto sostenerne la maestà, ricevevan essi gli ammaestramenti e i precetti e i consigli che loro abbisognavano. Ma non solo le vocali parole del Creatore risonavano ai loro orecchi, e per essi nelle menti e nei cuori; ma egli cadeva ancora sotto gli altri loro sensi, conversando con esso lui come con un Signore simile a loro. Da tutte queste sensazioni che ricevevano immediatamente dal Creatore velato e atteggiato alla loro capacità, usciva la grazia, che per la via dei sensi entrava nelle loro anime e le condecorava, in un modo non dissimile a quello onde la grazia esce da quei segni sensibili che nella legge di Cristo si chiamano Sacramenti. E per questa grazia poi cresceva in essi la percezione di Dio medesimo, e quel loro Creatore conversante in forma da cadere sotto i loro sensi, sempre più rendevasi sensibile e visibile al loro intendimento: sicchè quei veli sensibili onde il Signore si avvolgeva, si rendevano, per così dire, sempre men densi e lasciavano ognor più penetrare la vista spirituale dell' uomo a percepire la faccia di Dio, cioè la divina essenza. Certo è che anche la umanità del nostro Signore Gesù Cristo tramandava di sè certi cotali raggi divini, sicchè per essa si potea travedere la sua divina natura. Per questo egli diceva a Filippo: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio« (1) ». E si faceva maraviglia di non essere ancora conosciuto: « Io sono con voi da tanto tempo, e ancora non mi avete conosciuto?« (2) ». Perocchè le parole di Cristo, l' aspetto e i modi suoi avrebbero dovuto tutti insieme mostrare agli uomini, se ben disposti fossero stati, la sua divinità. Il Creatore adunque conversante in forme sensibili colle sue creature innocenti, avrebbe, in un somigliante modo, cioè per via di parole e di sensazioni, secondate dagli interiori doni di grazia, più e più manifestato e rivelato sè stesso agli uomini, fino a tale che questi avrebbero percepito coll' intendimento la stessa divina essenza; nè, mentre l' intendimento si levava e afforzava a ciò, sarebbero periti i loro sensi, i quali pure dall' oggetto divino sarebbero stati pasciuti, fortificati, perfezionati. E perchè l' uomo fosse preservato da ogni maniera di separamento mentre succedeva nel suo intelletto questo successivo aumento di divino lume e nei sensi esterni questo avvaloramento e perfezionamento, doveva anche nell' interno del corpo umano ricevere aiuto e nutrizione vitale; il che gli avveniva col mangiare il frutto dell' albero della vita, che era anch' esso un sacramento di quella età, dando all' uomo non pure un cibo di corporea sostanza, ma insieme con essa un dono soprannaturale d' incorruzione, una grazia e una virtù speciale (3). Il perchè gli uomini innocenti dovevano essere forniti di quella perfezione, della quale la mente di Platone trovò convenire a delle divinità minori. Perocchè avendo voluto quel filosofo ideare degli esseri forniti di corpo e di anima, i quali fossero altrettanti dei, cioè a dire esseri perfetti, attribuì loro l' immortalità e introdusse il sommo Dio a parlare agli dei da lui formati, in questo modo: Voi che siete nati allo stato di deità, or vedete di che grandi opere io sia padre o facitore. Queste opere sono indissolubili per cenno mio; sebbene tutto ciò che è colligato, di sua natura possa disciogliersi. Ma egli non è punto buon consiglio disciogliere checchè è colligato con ragione e con sapienza. Pure voi, sebbene nati immortali, tuttavia non potete essere anche indissolubili. Ma nulladimeno non verrete disciolti nè i fati della morte vi uccideranno: chè i fati non saranno più vigorosi del mio consiglio, il quale è un vincolo più forte a mantenervi perpetuamente che non siano que' fati, coi quali foste colligati allorquando venivate generati (1). Sicchè il vigore che lo faceva immortale era dato al corpo dall' albero della vita; e le parole e sensazioni che riceveva da Dio erano segni che a lui servivano come d' altrettanti mezzi ed aiuti co' quali pervenire alla visione beatifica di Dio medesimo. Ciò che abbiamo detto mostra quale era e doveva essere lo stato morale degli uomini innocenti secondo le cristiane tradizioni e le tradizioni de' popoli. Di più quello stato in cui abbiamo contemplata l' umanità, non è solamente dato dalle tradizioni, ma egli è altresì un ideale di perfezione che dalla natura dell' uomo viene suggerito e proposto alla mente contemplante. La quale mente, tosto che ha un concetto, non può a meno di discernere in esso le parti imperfette e le perfette e imaginare e aggiungere tutto ciò che gli manca: e quel concetto recato così all' ultima perfezione ideale di lui propria è dilettevole spettacolo alla stessa mente contemplatrice. Solamente v' ha questa differenza fra l' ideale stato dell' uomo a cui la mente cerca di sollevarsi, e quello che ci narra la cristiana verità, che la prima colla sua contemplazione non eccede i confini dell' essere ideale , quando la seconda ci parla di uno stato che appartiene all' essere reale : cioè la seconda è una storia che racconta realizzato quello che il pensiero non poteva venir ideando che come possibile. Veduta pertanto l' ideale perfezione dell' umanità e il suo realizzamento nella storia de' primi uomini creati da Dio innocenti in mezzo a questo universo sensibile di cui erano costituiti regi, rimane di abbassare ora lo sguardo a considerare lo stato della umanità presente, a rilevare se con quello che dovrebbe essere consente quello che è. Dico quello che dovrebbe essere , perocchè, supponendo accordato che l' uomo e il mondo sieno l' opera di Dio, egli è manifesto che non si dovrebbe trovarvi difetto alcuno, ma che in essa opera tutto dovrebbe essere perfettamente ordinato, e l' uomo e le altre nature di tale guisa fatte e disposte che nulla si potesse pensare di meglio; giacchè egli è evidente che un Essere sapientissimo ed ottimo che possa fare tutto quello che concepisce, non deve produrre se non cosa la più perfetta che cada in pensiero di chicchessia. Altramente se l' operazione di Dio non producesse un' opera conforme all' ideale della perfezione, egli è manifesto che un altro artefice potrebbe concepire più nobilmente ed eseguire l' opera dietro una più eccellente idea di quello che facesse Iddio: ciò che ripugna, e il tipo della perfezione non poteva sicuramente mancare alla mente divina, nè la divina volontà aver altra norma di operare che quel tipo, a realizzare il quale non trovava ostacolo alcuno, attesa la somma potenza dell' operante. Ora se l' opera di Dio non può essere altro che un realizzamento dell' ideale perfezione, e se l' uomo e le altre cose tutte sono veramente opere di Dio, come ammettono tutti quelli a' quali noi rivolgiamo il discorso; noi dovremmo, isguardando l' umanità e l' universo che la circonda, trovarla fornita al tutto della perfezione che abbiamo accennata descritta come a lei propria. Ma è ella dunque in uno stato così desiderabile l' umana specie? Vediamolo brevemente. Che la umanità sotto il peso di gravi mali e di molteplici sofferenze, non è cosa che esiga troppe parole per essere provata. L' esperienza della vita che ciascun mortale ha preso in sè medesimo e quella che ha potuto cavare dallo spettacolo de' suoi simili, è una prova troppo dura e troppo convincente a riconoscere che dalle lagrime della culla al sospiro della morte quaggiù l' uomo non varca che un mare di guai, di minore angoscia se breve è il viaggio; benchè neppure è dato all' uomo il sollievo della brevità della vita, che per legge di natura ama la vita e con essa la prolungazione delle sue fluttuazioni e de' suoi patimenti. Quando si considera gli ampi voti del cuore umano e quella felicità indefinita e immortale a cui aspira continuamente l' anima dell' uomo, e si paragona coll' immensità di questi desideri nati e contemperati coll' uomo l' estrema limitazione di quest' essere medesimo che non può mai realizzare de' suoi voti nè anco la minima parte, ma li trova tutti contrariati, illusi, scherniti, e non ha in sua mano nè il fuggire i mali, nè il procacciarsi nè anco i beni più frivoli, che pur dipendono dagli accidenti; egli par sovente giuoco maligno, un trastullo crudele della natura stessa, acconciamente chiamata da un savio del paganesimo matrigna e non madre, la quale con una mano gli sparga in cuore immensi desiderii e speranze, coll' altra percuotendolo delle più inattese sciagure, produca lo spettacolo di un essere fatto per una somma felicità che lotta indarno con una somma sciagura. Nè notizie più confortanti noi raccogliamo circa lo stato della umanità se la consideriamo sotto l' aspetto morale. Noi abbiamo parlato della corruzione morale congenita con noi nella prima parte di quest' opera, e abbiamo descritto lo stato dell' umanità sotto questo lato considerata seguendo la scorta dell' osservazione (1). Aggiungeremo sole poche parole a conferma di ciò che ivi abbiamo detto. In ogni città, dice Bayle, vi è patibolo e spedale: ecco in breve tutta la umanità. Gli uomini riflessivi di qualunque secolo sono stati altamente colpiti al vedere quell' inclinazione al male che nasce coll' uomo, che opera in lui prima ancora dell' uso della ragione, che infaticabilmente lo aggrava e precipita a tutti i disordini della immoralità. Cicerone non finisce di stupirne e ne fa in più luoghi la descrizione tutta al vero: [...OMISSIS...] . Tale è il fatto dello stato dell' uomo: l' uomo ha in sè stesso e nelle cose che lo circondano una fonte inesausta di mali fisici e morali. Or questo fatto innegabile, veduto sempre, confessato sempre e che ha parlato sempre altamente nella coscienza dell' uman genere, di tutti i popoli e di tutte le sètte, ha pur sempre anco prodotto la più grande maraviglia nei filosofi di buona fede, privi della rivelazione, i quali hanno confessato di trovare in esso qualche cosa di solenne, di portentoso, di inesplicabile. La ragione di questa maraviglia, e di questa somma difficoltà in assegnare una conveniente e verosimile spiegazione di quel fatto, sta in quelle dimande o questioni singolari che un tal fatto offre alla mente di chi lo considera e che sono principalmente le seguenti: La natura in tutte le opere sue si mostra sempre consentanea con sè medesima, e piena di sapienza e di bontà. Or come nel solo uomo, che pur sembra il suo capo d' opera, può esser mancata a sè stessa? Forse nella produzione dell' uomo fece ella uno sforzo che vinse le sue proprie forze? Perocchè altramente come si spiega la contraddizione che racchiude la natura umana? Da una parte quest' uomo appena entra nel mondo delle cose reali, ignora sè stesso, è impotente, pieno di bisogni, sempre in cimento di morire senza conoscere d' esser vissuto: egli campa per accidente, e ogni passo che fa, ogni respiro con cui assorbe l' aure della vita, è anco un passo che lo avvicina alla morte, e un respiro di meno che gli rimane: con grandi fatiche e fra patimenti allevato e suoi ed altrui, egli non esiste quasi per far altro che per cercare i mezzi di vivere, giacchè alla massima parte del genere umano non sopravanza tempo se non per spenderlo nel sudore della sua fronte; senonchè questo tempo stesso viene sovente rapito da tante specie d' infermità che in varie e crudeli guise straziano i corpi già destinati al supplizio della morte. E son pochi i morbi che distemprano e dilacerano i corpi, che gli uomini non vi aggiungano la propria crudeltà contro sè stessi: le divisioni e discordie, innalzandosi e gonfiandosi gli uni sopra gli altri, e rincrudelendo di più maniere, di che le guerre, le schiavitù, le tirannidi. E di fianco a questo stato delle cose sta pure nell' uomo, inseritovi da natura, un focosissimo ardore della libertà, l' anelito dell' amore, il bisogno indeclinabile della felicità, un sospiro alla vita, una vita incorrotta e immortale. Quella natura che ha messo in noi questi indettamenti, or come ci ha poi fatti così infelici? Che maligno diletto potea rallegrarla a donarci sì alti e sì implacabili desiderii, i quali dovesser poi esser tutti frustrati? O è ella una stessa autrice colei che parla nel fondo dell' uomo di grandezza, di pace e di beatitudine; e colei che ha poi formato l' uomo stesso pieno di abbiezione, di inquietezza e di miseria? O pure che l' uomo tragga l' origine non da un solo principio, ma da due opposti, il principio del bene e quello del male? Egli è vero che anche gli animali sono soggetti al dolore: ma privi come sono d' intelligenza essi nè conoscono, nè posson bramare una felicità che si stenda nella eternità e che si sollevi alla dignità morale. Il loro dolore come il loro piacere sono de' fenomeni inerenti alla loro natura e che passan con essa. Nel solo uomo tutto mostra dovervi essere uno spirito immortale ordinato a una spirituale e immortale felicità: nel solo uomo può aver luogo la deformità morale: e solo in esso la morte è una contraddizione col voto e coll' indole della sua natura. Chi adunque può giustificare la natura? E se la natura non si giustifica, se si ammette in essa stoltezza e malignità, non vi ha dunque più una intelligenza divina che presiede all' universo? Ed ella stessa che è questa natura tanto sapiente in ogni fil d' erba e ogni vile insetto, e tanto stolta nell' uomo? O chi la limita nel suo sapere, e nel suo volere, e nella sua possa? - Queste interrogazioni resero pensosa tutta l' antichità e fecero la disperazione di tutte le scuole de' filosofi. Nè meno i mali dell' uomo, ove si considerino senza il lume della rivelazione, sono difficili a conciliarsi colla giustizia di Dio: perocchè sotto un Dio giusto, come dice un Padre della Chiesa, nessuno innocente può essere misero. Or dunque come è misero il bambino prima ancora che conosca le cose che lo circondano, e che acquisti l' arbitrio della sua volontà? Come può esser misero colui che nacque ebete di mente e non potè mai usare a sua voglia le proprie potenze? Come può essere misero anche quell' uomo che condusse una vita benefica e virtuosa e che tuttavia perì oppresso dalle sventure? Se l' uomo per natura è innocente, come poi per natura è misero? E che l' uomo nasca colpevole, può egli cadere in mente ad uomo alcuno? Chi può concepire che l' uomo prima di essere abbia peccato? O chi può spiegare in che modo nel fanciullo di pochi giorni sia entrata la colpa? Le due questioni proposte sin qui si offeriscono alla mente considerando il fatto rispetto allo stato eudemonologico dell' uomo. Ma il suo stato morale non reca meno d' imbarazzo e difficoltà a spiegarsi. Perocchè, chi può assegnar l' origine, esclusa sempre la rivelazione, d' una tanta inclinazione al male, da cui l' uomo viene senza posa impulso? Una legge che porta nel suo cuore gli intima di essere giusto: e una propensione della sua natura lo sospinge incessantemente nella ingiustizia. Questa propensione intorbida i suoi pensieri, mette in tumulto i suoi affetti e la sua volontà: o non vede più la luce, e va barcolloni per le vie della iniquità; o la vede, e tuttavia non può seguitarla, ma ubbidisce alla violenza d' una forza che lo soverchia e lo padroneggia. Chi ha messo nell' uomo questa reità così potente? Se egli è il figlio della natura, o d' Iddio, si può credere che la natura o Dio gusti inserendo in una creatura, fatta per la virtù, un seme che frutta la immoralità e che egli stesso è immorale? Queste dimande l' uomo le ha sempre fatte a sè stesso; s' assottigliò per rispondersi, stupì della difficoltà che trovava a soddisfarsi, si indegnò seco medesimo, disperò di riuscirvi. E pure l' uomo non può vivere senza farsi qualche risposta a queste dimande, e in mancanza di una verità, inventa un sistema che con ogni sforzo d' ingegno vuole imporre per vero non solo agli altri ma anche a sè medesimo. I sistemi però inventati a spiegare il disordine dello stato presente dell' uomo, sono degni di ogni attenzione; poichè da una parte attestano il fatto di questo disordine e provano quanto abbia colpito la riflessione de' più grandi filosofi; dall' altra mostrano l' impotenza della filosofia a spiegare la condizione dell' uomo reale a lui medesimo. Uno dei sistemi di cui parliamo, fu quello che trovando nell' uomo due principii contradditorii, cioè l' aspirazione a una immensa felicità e con essa una somma impotenza di ottenerla ed una somma miseria, dissero che la cagione di quest' essere non poteva esser unica e che si erano avvenuti a formare l' uomo due principii interamente contrarii, il principio del bene e quello del male, indipendenti, supremi, eterni, essenzialmente nemici. Tale è il sistema de' Manichei e di un gran numero di sètte e di nazioni. Un altro sistema è quello abbracciato da Platone. Come il sistema de' Manichei pare che avesse più risguardo al male fisico e alle questioni che da lui nascono, così quel di Platone pare che più togliesse di mira le questioni che nascono dal male morale inviscerato nell' umanità. Egli veniva imaginando che le anime umane, prima d' essere inserite nei corpi, fossero state abitatrici degli astri e che avendo colà peccato fossero poi per giusta punizione di Dio legate nelle carceri dei corpi. Cicerone, che espone questo sistema e che non lo attribuisce tanto a Platone quanto alla più remota antichità, dice così: [...OMISSIS...] . Un terzo sistema che ha grande affinità col Platonico, è quello della trasmigrazione delle anime, tolto a seguire e reso celebre da Pitagora, per la quale trasmigrazione gli spiriti, passando per varii corpi e secondo varie leggi, venivano appurandosi. Tutti questi tre sistemi si perdono colla loro origine nelle tenebre della più remota antichità. Nel passo seguente di un dotto autore che tratta della religione dell' Indo, si trovano tutti questi tre sistemi avviluppati insieme in quelle religiose tradizioni. [...OMISSIS...] . Altre tradizioni, tolte egualmente secondo ogni apparenza dal Bramaismo, ci parlano di una ribellione di spiriti o di angeli acciecati come Brama dall' orgoglio e come lui precipitati nell' abisso. Aggiungono che Iddio creò il mondo visibile perchè nella sua misericordia egli volle dare un mezzo agli spiriti caduti di ritornare a lui. Cominciò allora il tempo, e con esso le trasmigrazioni delle anime che già prima erano puri spiriti (3). Qui si vede a un tempo la dottrina de' due principii di Manete, quella di Platone sul peccato commesso dagli spiriti prima di essere inseriti nei corpi, e la trasmigrazione delle anime di Pitagora: o certo almeno tutte quelle dottrine vi hanno grande analogia con quelle indiane. Le tre opinioni sopra esposte si trovano nei libri dei filosofi vestite di forme filosofiche e acconciate a modo di sistema. Ed esse hanno bensì subita l' azione della meditazione filosofica, ma nel loro fondo sono più antiche del nascimento della filosofia; sono opinioni popolari tradizionali, e dal popolo i filosofi le presero e le si appropriarono, lavorandole e riducendole per quanto seppero ad espressioni scientifiche (1). I filosofi stessi però giammai non si contentarono del proprio lavoro e si trovarono sempre impacciati con quelle opinioni tradizionali alle quali essi non trovavano nulla da sostituire di meglio; e tuttavia vedevano toccar esse tali punti, sui quali gli uomini volevano assolutamente o sapere o almeno credere qualche cosa. Lasciando adunque i filosofi per ora e ricorrendo al fonte ond' essi stessi attinsero, cioè alle tradizioni de' popoli, veggiamo se in queste nulla si trova di uniforme e di consentaneo nella faraggine delle favole, ove si abbia qualche raggio di luce che renda una verisimile ragione del grande fatto di cui parliamo, cioè dello stato misero e triste della specie umana. Tutte le tradizioni e tutte le mitologie si accordano in questo che narrano nel principio delle cose l' esistenza di una età d' oro, tempo di felicità e di virtù, dalla quale poi gli uomini sono scaduti per qualche loro mancamento. Per ciò con ragione dice Voltaire: La caduta dell' uomo degenerato è il fondamento della teologia di quasi tutti i popoli (2). Conviene adunque distinguere e separare tutte le frasche, per così dire, di che è stato imboschito questo fatto semplice e fondamentale dalla stemperata e strampalata imaginazione dei popoli e considerare lui solo che per tutto uguale si trova; come pure convien separarlo da tutte quelle invenzioni e ingegnose giunte, colle quali si pretese di spiegare il modo onde quel primo fallo che degradò gli uomini sia avvenuto, e come egli potè infettare e nuocere il genere umano sì fattamente fino a tanto in giù degradarlo. Il che ove si faccia, ritenendo quella sola parte della tradizione che intorno a questa materia si trova uniforme e costante fra tutti i popoli, si cava questo risultamento, che nelle tradizioni e credenze di tutti i popoli della terra per cagione del gran fatto della condizione misera e trista dell' umanità si assegna un peccato primitivo e originale. Non è mio intendimento di recare qui tutti i documenti storici che provano questa verità, i quali d' altra parte oggi son resi comuni: ma mi restringerò a un cenno sulla credenza indiana, la quale colla illustrazione che ha ricevuto dalle recenti scoperte ha viameglio dimostrato, che il fondo di tutte le tradizionali dottrine è il medesimo e che si trova sempre in questo fondo il peccato originale. La più antica religione (dice uno scrittore che toglie a esporre le diverse religioni o credenze dell' Indo) la quale si confonde coll' origine stessa delle cose, è quella che fu rivelata da Brahmƒ, il creatore del mondo, e da esso prende il nome di Brahamaismo. Brahmƒ (1) è la prima persona della Trinità indiana, Dio padre che s' incarnò il primo per venire ad annunziare la sua dottrina avanti ben molti secoli. Gli uomini allora vestiti d' innocenza e di pietà offerivano a lui de' sacrificii puri come i loro cuori, le primizie dei frutti, il latte dei loro greggi e non mai vittime di sangue. Ma questo culto sì semplice e sì commovente non potè durare sopra la terra. Gli uomini divenuti peccatori ne scancellarono fin l' ultima traccia; ed ecco perchè oggidì non si trova nè pur vestigio di qualche tempio dedicato a Brahmƒ. Ma nè le tradizioni popolari, nè i sistemi filosofici soddisfacevano pienamente al terribile problema dell' origine del male. I filosofi avevano fatto la critica alle dottrine popolari e sebbene avessero preso da esse il meglio di loro filosofie, tuttavia le sdegnavano, pretendevano di essere usciti dal volgo e sollevati a più alte regioni: avevano appunto contrapposti i loro sistemi filosofici alle opinioni popolari e preteso di supplire con essi a ciò che ad esse mancava. Ma dopo aversi dato questo vanto, veniva il momento, in cui sentivano la voce della propria coscienza, che diceva loro i sistemi da loro inventati non esser meglio soddisfacenti delle comuni credenze ch' essi avevano rigettate e benanco dileggiate; e confessavano talora ingenuamente mancar loro il modo di rispondere a quelle questioni che pure la natura umana faceva incessantemente a sè medesima. Così Platone, dopo avere insegnato con tanta sicurezza i peccati commessi dall' anime abitatrici delle stelle, s' accorgeva poi di non aver fatto con ciò che un cotal sogno filosofico, e scrivendo a Dionisio di Siracusa che l' aveva interrogato su questo argomento, confessava seriamente di non sapere che rispondere, e di non aver mai trovato alcuno che lo illuminasse in una materia così oscura e misteriosa (1). Per due ragioni i popoli e i filosofi non potevano uscire dal labirinto della strana questione sull' origine del male. Primo perchè lo scioglimento di una tale questione dipendeva dalla notizia di un fatto , di cui i racconti tradizionali avevano col procedere de' secoli alterate e confuse in mille maniere le circostanze; il che rendeva incredibile e inverosimile il fondo stesso del fatto, reso antichissimo e narrato in modi sì varii e sì contraddicenti fra loro e sovente anche del tutto assurdi. Ciò che dava buon appicco ai filosofi di rigettarlo, a' quali parea d' ingrandirsi e nobilitarsi col negar fede a ciò che aveva vista di essere una favola di donnicciuole. Secondo perchè quel fatto, quando pur si fosse conservato nelle tradizioni de' popoli senza alterazione alcuna, tuttavia egli riuscir doveva cosa oltremodo misteriosa e oscura. Sicchè il voler spiegare con quel fatto l' origine del male era cosa superiore alle forze della ragione naturale o certo della filosofia; nè vi aveva un' autorità infallibile che potesse comandare alla ragione stessa una cieca credenza al medesimo e alla spiegazione che per suo mezzo si dava all' esistenza del male fisico e morale sopra la terra. Egli è vero che il peccato originale (che come ognuno si accorge è il fatto di cui parliamo) fu nel suo fondo creduto da tutti i popoli, come abbiamo osservato, quasi per istinto, per un bisogno di credere pure qualche cosa che desse ragione dello stato miserabile della umanità. Ma questo peccato originale che colla spontaneità de' popoli veniva creduto, reggeva poi alla riflessione? Quante difficoltà non presentava a chi si ponea a ragionarvi sopra? Quanti misteri non involgeva che ributtava la filosofica ragione, voglio dire quella ragione che non soffre mai di trovare un mistero superiore alle sue forze e che negherebbe il sole di mezzogiorno anzichè confessare la propria limitazione. Primieramente il peccato originale è congiunto colla storia di uno stato della umanità infinitamente diverso dal presente, nel quale Dio e l' uomo conversavano insieme, per così dire, a tu per tu, stato di cui non si può avere esempio e già esso solo difficile a credersi. Di poi in che modo il peccato del padre poteva passare nei figliuoli? O come questi esser rei prima ancora che venissero in possesso dell' uso della ragione? E come castigati d' un peccato che non fu in loro arbitrio il non ricevere e che essi stessi non commisero? Egli è evidente che, acciocchè gli uomini potessero credere a questo fatto e alla spiegazione del male che da questo fatto dipende, non ci voleva meno che la testimonianza di un' autorità infallibile, incontro alla quale la ragione umana dovesse ammutolire e ragionevolmente dovesse dire seco medesima: io non veggo l' uscita di questo intrico: il peccato originale che mi si propone è per me un mistero, ma finalmente l' autorità che me lo annunzia è infallibile. Le mie forze sono limitate: se io non veggo come il peccato si possa propaginare e derivare nei figliuoli, non è per questo che non possa essere e che io medesimo non potessi vedere se crescessero le mie forze. Or come io veggo per certo che l' autorità che me l' annunzia non può fallire, così m' è forza di ammettere questo fatto del peccato originale, eziandio che egli involga in sè un altro misterio. Era adunque necessaria un' infallibile autorità che annunziasse agli uomini quel gran fatto che contiene la spiegazione dell' origine del male, perchè la facesse lor credere, perchè la facesse creder loro ragionevolmente, la facesse credere a tutti, la facesse credere non colla sola spontaneità, colla quale credono gli uomini che ancor sono nello stato d' infanzia, ma con una credenza che potesse tenersi ferma contro la riflessione degli uomini già avanzati e inciviliti. Perocchè un' autorità infallibile ben provata è forte contro all' esame di qualsivoglia riflessione, nè questa potenza critica, che tutto tende a distruggere ciò che non partecipa dell' infinito e dell' eterno, può addentrarla sventarla ed offenderla. Posto dunque che nel peccato originale sia la soluzione del gran nodo che presenta la questione dell' origine del male, egli è manifesto che nissuna filosofia, quando anche avesse conosciuto l' esistenza di questo peccato, era in grado di ammaestrare gli uomini di una tanta verità e di farla lor credere, perchè sarebbe sempre stata sprovveduta di autorità sufficiente cioè di un' autorità infallibile, chè meno non si richiedeva per infondere negli uomini la ferma credenza a una cagione sì misteriosa contenente in sè tanti elementi che ripugnavano all' assenso di una piena persuasione. Per questo dice acconciamente Lattanzio, che [...OMISSIS...] . Ora essendo all' uomo cosa di prima necessità il conoscere un tanto vero senza il quale rimane un enigma a sè stesso, un enigma insostenibile alla propria natura, che pur vuol sapere di sè qualche cosa e col quale solo egli può tranquillare l' animo suo, tentato altramente di negar fede alla sapienza della natura, alla giustizia e all' esistenza stessa di Dio, i quali sono i fondamenti della morale; egli è manifesto il bisogno che v' ebbe di una divina rivelazione coll' autorità della quale il mondo intero potesse essere certificato di questo dogma del peccato originale; il quale assicurato nella credenza degli uomini servisse come di base ben ferma a fabbricarvi su la morale conveniente all' uman genere nello stato in cui ora si trova caduto. E questa certa notizia dell' origine del male fermata nella credenza degli uomini è uno di quei sommi beni che diede loro il cristianesimo, che è quanto dire l' unica religione vera che fu sempre al mondo. Poichè questa si presentò al mondo con un' autorità divina e dopo avere persuaso l' umanità che era in nome di Dio che parlava, annunziò il dogma del peccato originale, che venne ricevuto senza più avervi difficoltà sulla parola di Dio. Così fu la Fede quella che soccorse al bisogno degli uomini a cui non poteva soccorrere la ragione umana. La qual fede vinse, per così dire, la stessa ragione dell' uomo, convincendola della sua limitazione e della sua impotenza a satisfare alle questioni essenziali che l' uomo le rivolgeva, al bisogno supremo di conoscere sè stessa, di sapere che ha l' umanità, e di operare in conformità e coerenza della cognizione di sè stessa. Se non che egregiamente dice S. Agostino che « la fede prepara l' uomo alla ragione e la ragione conduce alla intelligenza e alla cognizione« (1) ». Poichè quelle verità stesse che da prima son credute dagli uomini come altrettanti misteri sull' autorità di Dio che le rivela, venendo poi meditate dalla ragione medesima si vengono alquanto chiarendo, e la ragione che prima non vi rinveniva che fitte tenebre e apparenti assurdi, finisce collo scoprire in esse un abisso di luce e cava dal loro seno delle stupende cognizioni e trova che in esse si nasconde il più profondo della stessa scienza, e che quello scuro che da prima mostravano al di fuori non veniva tanto dall' essere quelle verità al tutto inaccessibili alla ragione, quanto dall' essere difficili e non asseguibili dalla ragione senza lunghe meditazioni e fatiche, e ciò che è più difficile a conoscersi è bene spesso la parte più sublime e vitale del sapere. Laonde se la fede non avesse fermata l' attenzione dell' uomo in verità così alte e preclare, queste sarebbero state perdute per la umanità: conciossiacchè l' uomo non si sarebbe giammai fermato a pensare lungamente e faticosamente in cosa a cui non prestava fede e nella quale nulla cagione il persuadeva di trovarvi nascosto profondamente un tesoro; ma sarebbe ricorso a vie più facili invenzioni e ipotesi e avrebbe queste continuamente rimutate; come quelle nessuna delle quali il poteva lungamente accontentare, senza pervenire giammai al fermo della salutare verità. Ma la fede mise l' uomo a dirittura in possesso dei veri più necessarii e degni, e così l' uomo ebbe la materia sulla quale esercitare poi la sua meditazione, materia raccomandata troppo bene all' attenzione di sua ragione dalla fede medesima che aveva persuaso l' uomo ivi dentro contenersi il più pregiato e il più recondito della sapienza. E il dogma del peccato originale può servire appunto di esempio di questo servigio che presta la fede alla ragione. Perocchè questo peccato che ricevono i bambini pur nell' atto di esser generati e che consiste in una vera macchia dell' anima, come dicono i teologi, non già solo in una esteriore e legale imputazione (2), in una macchia che rende l' anima giustamente degna di eterna dannazione, è tal cosa di che sembra nel primo annunciarsi che non possa darsi nulla di più strano e assurdo. E tuttavia ove si mediti lungamente, egli viene perdendo sempre più di quello strano e incredibile che nella prima faccia dimostra, e finalmente si perviene a trovare che egli non ripugna punto nè poco alla natura umana nè alla natura del male morale; e che tutta quella apparente assurdità che parea contenere non aveva altra cagione se non il non conoscere noi a fondo la natura intima dell' uomo e quella della sua moralità: e in nostra ignoranza a giudicare della possibilità del peccato originale con dei pregiudizii e con dei principii falsi intorno alla volontà dell' uomo e alla malizia o bontà della medesima. Il che io spero di dover dimostrare nel seguente capitolo, nel quale non farò altro che esporre il dogma del peccato originale; non ignudo, ma vestito e corredato di tutte quelle cognizioni intorno all' uomo e alla sua dignità o pregio morale che somministra la ragione filosofica. Le quali cognizioni gli t“rranno d' attorno per avventura tutto quel duro e aspro che ripugna alla ragione di coloro che non l' hanno se non per poco e superficialmente considerato. Gli espositori della verità cristiana dicono che il peccato originale è una « macula« » dell' anima. Egli è evidente che non si deve intendere la parola « macula« » materialmente, perocchè nell' anima non si dànno macchie nel senso proprio e materiale: dicendosi macchia in questo senso a quell' imbratto di colore che rompe e deforma la candidezza o comechesia il colore naturale di un corpo. E` dunque in senso traslato che si piglia la parola macchia quando si applica all' anima, e viene a dire una macchia morale, una deformità morale che deturpa e disgrega quell' ordine e bellezza di giustizia, di cui l' anima doveva altramente essere decorata. Egli è evidente che nella sola concupiscenza animale non può consistere peccato alcuno, perocchè il peccato è una macchia morale (1) e ogni moralità esige una natura intellettiva e volitiva. Ora nella sola concupiscenza animale non vi è possibilità di cognizione e di volizioni, ma solo sensazione e istinto cieco. Dunque nella sola concupiscenza animale non possono trovarsi le condizioni del peccato. Chi dicesse il contrario, dovrebbe attribuire moralità e immoralità anche alle bestie, nelle quali v' è l' animalità, contro il senso comune e la cristiana dottrina. Che nella nozione di peccato debbano avere luogo i due elementi della legge e della volontà , è cosa universalmente consentita da' savii (1). Ma nel fatto del peccato originale alcuni trovano questi due elementi essere stati in Adamo, e di questo sono soddisfatti senza più. Ma il venire imputato al bambino uno sregolamento della sola volontà del suo antenato Adamo, non sarebbe che la imputazione estrinseca del Caterino e del Pighio o di chichessia; sistema escluso da ogni cattolica teologia. E come, in tal caso, si avverrebbe quello che ha deciso il Concilio di Trento, che il peccato originale non è solo comune, ma proprio dei singoli bambini che nascono? (2). Il disordine adunque della volontà di Adamo potè essere cagione della propagazione del peccato nei bambini (3): ma perchè il peccato sia proprio di questi e non a questi solo imputato; perchè sia una macchia morale che contamina l' anima loro; conviene che il disordine del peccato sia altresì nella loro propria volontà. E perciò acconciamente dice Gaetano de Fulgure, che il peccato originale [...OMISSIS...] . Ciò che ha in sè di difficile questa sentenza tutto si dissipa colla chiara distinzione del volontario e del libero . Fino che non si conosceva che la volontà si può trovare in uno stato di necessità e in uno stato di libertà (5), questa materia rimase involta nelle maggiori tenebre. Ma le questioni intorno alla grazia, eccitate nella Chiesa in occasione delle dottrine di Baio e di Giansenio, condussero a fissare l' attenzione sopra la volontà istintiva, cioè in uno stato non ancora libero, e a conoscere che non si può confondere con una tale volontà il libero arbitrio propriamente detto. Dopo di ciò fu facile di concepire che la volontà poteva esistere nell' uomo fino dai primi momenti di sua esistenza e anteriormente al suo libero arbitrio; e che questo l' uomo lo acquista di poi a un tempo che acquista le cognizioni e che viene sviluppando il suo intendimento, poichè solo dopo che è in possesso della cognizione di più cose, egli può scegliere fra esse ciò che meglio gli aggrada: e veramente sarebbe un errore manifesto a supporre che vi avesse un tempo in cui l' uomo fosse, e tuttavia non avesse la potenza della volontà, ma l' acquistasse poi in isviluppandosi: il che sarebbe un mutare di natura, e da non uomo cominciare ad essere uomo. Come sarebbe pure un errore a pensare che nei primi momenti di sua esistenza l' uomo si trovasse privo dell' intelletto. Ora se vi ha la potenza della volontà in un bambino, ella è però evidentemente priva di libertà, in uno stato legato e necessitato. Ammessa poi una potenza di volere nell' uomo fino dai primi momenti della sua esistenza, forza è di ammetter pure un primo atto volitivo, o piuttosto questo è ammesso tostochè è ammessa quella. Conciossiacchè una potenza è essa stessa un atto primo, e ove ciò non fosse, non s' intenderebbe più che fosse, sarebbe un nulla, una parola priva di significato, o al più la possibilità di una potenza, e non una vera potenza. Così io posso concepire in un soggetto qualsivoglia, poniamo in un bruto, la possibilità che egli venga a conoscere e volere, per opera di Dio: ma questa possibilità meramente passiva non costituisce in lui nessuna potenza di conoscere e di volere: non è che un affermare che la onnipotenza di Dio potrebbe per avventura dargli la potenza conoscitiva e volitiva. A chi avrà ben inteso quanto abbiamo esposto altrove sulla natura della volontà e delle potenze in generale, non rimarrà dubbio intorno alla verità di ciò che qui affermiamo intorno alla volontà (1). Questa dottrina intorno al primo atto della volontà è connessa colla teoria dell' intendimento; perocchè ogni volizione suppone una cognizione, e una volizione primitiva dimanda dinnanzi di sè e come suo termine una primitiva e originale cognizione. Questa primitiva cognizione o concezione, se si vuol meglio, è l' atto che costituisce la natura dell' intelletto; perocchè essendo l' intelletto una potenza, anch' essa deve esser un atto primitivo, secondo il principio accennato, ingeneratore di tutti gli atti successivi. Ogni atto poi dell' intelletto esige un oggetto; di che la necessità medesimamente di un oggetto primitivo dell' intendimento che sia il primo cognito e pel quale si conoscano le altre cose. E fatta poi diligente inquisizione intorno a questo oggetto primordiale per conoscere che possa essere, abbiamo trovato che egli è l' ESSERE INDETERMINATO: indi la notizia chiara della potenza, che l' uomo ha fino dal primo suo esistere, di conoscere e di volere e degli atti primitivi che racchiudono queste potenze e le costituiscono. Perocchè avviene che la potenza di conoscere sia la potenza di veder l' essere e la potenza di volere sia la potenza di appetire l' essere. Avviene ancora che l' atto primitivo ed essenziale della potenza di conoscere sia determinato dallo stato imperfetto nel quale l' essere originalmente è presentato all' uomo da vedere, cioè nello stato d' INDETERMINAZIONE; e da questo oggetto stesso sia determinato l' atto della potenza di volere. L' elemento conoscitivo adunque e volitivo che costituisce la natura umana e che entra nella sua definizione (2), sotto un aspetto si può dire un atto e sotto un altro una potenza . Egli è atto relativamente a quella parte di essere che fin da principio è scoperta e presente allo spirito umano: ed è potenza relativamente a quella parte di essere che non è ancora scoperta e presentata da vedere e appetire allo spirito, che viene presentata poi da sentimenti e che forma l' oggetto delle sue cognizioni acquisite e corrispondenti volizioni. Ora conosciuta in tal maniera la natura della volontà, consistente in una costante appetizione dell' ente conosciuto (sicchè da prima non essendo conosciuto l' ente che in universale, non è che un atto o tendenza universale ad appetire, poscia conoscendosi degli esseri particolari si sviluppa in altrettante volizioni di questi); non è più impossibile il concepire la possibilità di un disordine nella volontà fino dalla prima esistenza di questa. E veramente la volontà (volizione rispetto all' essere conosciuto per natura , e potenza di volere rispetto agli esseri non conosciuti per natura, ma coll' aiuto dei sensi) si può considerare o dalla parte del suo oggetto , o dalla parte del soggetto uomo, di cui essa è atto. Egli è evidente che la volontà può venire alterata e mutata intrinsecamente tanto per mutazione che nascesse nel suo oggetto naturale e primo, come per alterazione del soggetto volente, l' IO, l' uomo stesso. Lasciando qui di parlare di quella alterazione che potrebbe sofferire la natura della volontà da una mutazione dell' oggetto suo naturale, possiamo ancor concepire la possibilità che la volontà soffra nella sua natura una cotale alterazione e disordine dalla parte del soggetto a cui appartiene. Perocchè se l' uomo, l' IO, soggetto della volontà, è difettoso e guasto, e se è soggetto a delle perverse suggestioni, egli par naturale che dovrà fare anche della sua volontà un uso torto e sregolato. Come ciò avvenga, io dirò più sotto, parendomi qui aver detto abbastanza perchè si possa concepire la possibilità di un disordine nella potenza di volere, considerata anche nel suo stato primitivo anteriore a qualunque suo sviluppamento. Fatto così luogo a concepire la possibilità di un guasto della volontà anche in un bambino, egli perde tutto ciò che aver possa di più duro, come dicevamo, la sentenza che esige come elemento essenziale alla nozione giusta del peccato originale una prava affezione nella volontà dell' uomo, sebbene appena generato e non ancor venuto al libero uso delle proprie potenze. E non può essere altramente dall' istante che il peccato originale non si dice già con questo nome di peccato per una cotal metafora o traslato, ma s' intende cosa che, come ha definito il Concilio di Trento, ha in sè la vera e propria ragione di peccato (1): il che è quanto dire di cosa immorale e per ciò di cosa essenzialmente volontaria. Quindi è che S. Tommaso insegna che il peccato originale non è una mera privazione, ma un abito corrotto (2), e l' abito è sempre una cotale disposizione delle potenze; e poi cercando a qual potenza principalmente appartenga quest' abito corrotto, trova che alla potenza della volontà, come quella appunto che presiede alle cose morali. Ecco alcuni passi del Santo Dottore, tutti consentanei alla sentenza che abbiamo proposta. [...OMISSIS...] Ma sebbene il peccato originale tocchi la volontà e deve consistere sicuramente in una stortura della volontà, tuttavia non può consistere in qualunque stortura della volontà, non può essere semplicemente la inclinazione al male della volontà umana. E veramente nei rigenerati dal battesimo rimane la inclinazione al male della volontà, e tuttavia è definito dal Concilio di Trento che il battesimo ha efficacia di t“rre dall' anima pienamente la macchia del peccato. [...OMISSIS...] Dunque la mala inclinazione della volontà, secondo il dogma cattolico, non costituisce da sè solo l' essenza del peccato originale. Abbiamo veduto che il peccato originale non può consistere nella concupiscenza animale considerata per sè sola (2), e che non può consistere nella sola mala inclinazione della volontà. Ma esso non può consistere nè anco nella lotta che hanno insieme la concupiscenza animale e la volontà. E veramente questa lotta, per la quale lo spirito concupisce contro la carne e la carne contro lo spirito, come dice la Scrittura (3); rimane nell' uomo anche dopo il battesimo, il quale pure è di fede che toglie dall' uomo tutto ciò che ha vera e propria ragion di peccato, come definisce il Tridentino. Il quale così soggiunge: [...OMISSIS...] . Dunque questa battaglia non è punto, secondo la cattolica fede, ciò che costituisce il peccato originale. Fin qui le nostre ricerche ci condussero a vedere che cosa non è il peccato originale, cioè come egli non sia nè una macchia nel senso materiale della parola, nè il puro istinto animale, nè la sola inclinazione al male della volontà, nè la lotta fra la concupiscenza e la volontà. Abbiamo trovato nulladimeno anche qualche cosa di positivo intorno alla natura del peccato originale, cioè che egli deve essere una macchia morale dell' anima e che per conseguente deve affettare anche la volontà dell' individuo che nasce e non la sola volontà del primo padre dell' uman genere che attualmente lo commise. Dobbiamo adunque ora seguitare la ricerca per comporci, se ci riesce, la notizia positiva di questo misterioso peccato originale. Se il peccato originale non consiste nella sola mala inclinazione della volontà, ma pure questa inclinazione mala è qualche cosa di essenziale nel peccato originale, converrà cercare da qual principio proceda questa mala piega della volontà, che cosa è che urge questa potenza e la inclina verso il male. Trovandosi questa inclinazione mala nell' uomo fino da' primi istanti della sua esistenza, questa inclinazione non nasce da un atto sopraveniente della sua libertà, ma questa piega è nata in lui anteriormente all' uso della sua libertà, e all' acquisto delle cognizioni che attinge da' sensi. Ora se la volontà non si piega da sè stessa liberamente nè da un essere esteriore che agisca nell' uomo, conviene che nella stessa natura umana vi sia un principio cattivo che seduca la volontà e la inclini al male. Poichè la volontà è una potenza che come tale non è inclinata nè da una parte nè dall' altra, e conviene perciò che qualche principio naturale la inclini, se questa inclinazione, come dicevo, è necessaria e non libera. Per questo un peccato che sia nell' uomo fino dai primi momenti della sua esistenza deve procedere da un disordine della stessa umana natura. E questo rende ragione del perchè S. Paolo dica che noi siamo figliuoli d' ira PER NATURA (1): e del perchè comunemente il peccato originale sia chiamato dai Padri anco naturale . Per questo S. Giovan Grisostomo il chiama radicale (2), toccando la radice dell' uomo, cioè il principio soggettivo: e S. Agostino dichiara che esso trasfondersi « occulta tabificatione naturae ». Veduto che il peccato originale ha per primo seggio l' intima natura umana, conviene che noi veggiamo come il peccato si abbatta nella natura e che dichiariamo l' ordine della umana corruzione. Per natura umana intendiamo il complesso delle potenze che si trovano nell' uomo, non meno che il nesso che tutte le unisce in un solo soggetto. Ora perchè il peccato appartiene all' ordine razionale, conviene che esaminiamo l' uomo principalmente come soggetto intellettivo e nello stato in che Dio l' ebbe posto sulla terra: indi quale sconcerto abbia prodotto nell' uomo la colpa. E richiamando quello che abbiamo detto intorno a ciò, l' uomo è soggetto intellettivo per la visione dell' essere indeterminato. La volontà è l' inclinazione verso il bene conosciuto; e perchè ogni essere è bene, è la tendenza verso ogni essere conosciuto. Indi nell' uomo vi ha un atto primo d' intelletto e un atto primo di volontà. Quello è l' idea dell' essere indeterminato: questo è la tendenza appunto indeterminata verso quest' essere. La natura umana adunque ha nel suo seno fin dall' origine un intelletto e una volontà in atto, e da questi risulta e si crea come da' suoi proprii costitutivi elementi. Ma Iddio, oltre aver dato all' uomo in sul principio la contemplazione costante dell' essere ideale indeterminato, gli ha dato altresì la percezione di sè stesso, essere sussistente e assoluto. Indi una nuova tendenza della volontà, la quale naturalmente doveva quasi direi, precipitarsi verso la pienezza dell' essere offertasi da concepire all' intendimento. Questo primo e veemente moto della volontà rispondente alla grazia divina (2), fu l' originale inclinazione al bene dell' uomo innocente, e quello stato di originale giustizia, nel quale era costituito e col quale dovevasi propaginare. L' uomo fu costituito da Dio perfettamente fino dal primo istante, nè fu un tempo anteriore, nel quale egli fosse posto nel solo ordine di natura e non anco in quel della grazia. Quindi nel primo uomo per la sua stessa costituzione la volontà trovavasi edotta, non solo in quell' atto primo che termina nell' essere ideale e indeterminato, ma si bene anche in quello che termina nell' essere assoluto e completo. La volontà in tal modo si era volta fin dal principio con un atto pieno e, come diceva, precipitata in quell' oggetto che è il TUTTO, del quale cercava di pienamente sfamarsi, per così dire, e bearsi. Se la volontà dell' uomo primo si fosse terminata solo all' essere ideale indeterminato, non ci sarebbe stata cagione di volere di più, almeno per molto tempo. Ma coll' aver conosciuto e gustato l' assoluto, doveva nascere in essa un bisogno tutto nuovo, una necessità di esso e senz' esso uno sforzo di cercarlo per tutto, una incontentabilità, una affogata brama e tendenza di completarsi con un suo atto che il tutto abbracciasse. Così noi veggiamo che l' uomo educato in piccolo e ristretto cerchio di cose, è pago nè sa bramar oltre perchè oltre non conosce: ma tratto fuori del suo paesuzzo o fatto discendere dalla sua montagna e dai tugurii passato nei palazzi e dalla scarsezza di tutte le cose nell' abbondanza, non avviene poi che restituito nell' umile e povera vita che faceva prima trovi la pace e il suo cuore gli sembri oppresso e per poco soffocato dall' angustia del casolare e dal ristretto numero di oggetti che lo circondano e che cagionano in lui poche, e sempre uguali e perciò noiose sensazioni. Conciossiachè la volontà sua ritiene ancora le brame che in lei sviluppatesi in essa nello stato di vivere dovizioso e ampio in cui era passato e nel quale aveva tratti da sè de' nuovi voleri e soddisfattili. E ora egli avvenne appunto così che la volontà del primo uomo mossa originariamente dall' oggetto assoluto, fu poi privata dopo il peccato di questo oggetto. Perocchè essendosi Iddio ritirato dall' uomo, non fece più nella sua mente quell' azione deiforme che abbiamo di sopra descritta; gli tolse la sua grazia, gli sottrasse il senso dell' essere sussistente: non lasciandogli che l' oggetto del solo intendimento naturale, cioè la tenue idea dell' essere e questo indeterminato. Ma nel tempo medesimo che alla volontà attuata e piegata verso l' infinito fu sottratto il suo oggetto, ella però rimase così piegata e così attuata: e non trovando più l' oggetto reale infinito perchè sottrattole, il suo atto, col quale il cercava, diede nel vƒno e tentò di trovarlo da per tutto, quando non era più in alcuna parte in ch' ella potesse colpire e giungere. Sicchè la volontà di Adamo doveva rimanere con una brama infinita che non poteva essere appagata e che pure voleva ad ogni costo essere; e però con un bisogno di fingere a sè stessa quell' oggetto che non aveva, e nutricarsi, per così dire, di vento, cioè di sue vuote finzioni: e questo ancorchè null' altro fosse avvenuto se non se sottrarsi l' oggetto infinito, posto a lei nella sua prima costituzione, da dover per inclinazione spontanea volare. Ma a ciò si sopraggiunse un atto di libero arbitrio, col quale l' uomo stesso stolse la volontà dall' oggetto infinito resosi a lei naturale e la piegò verso la finzione del bene, cioè verso il frutto vietato, il mangiare del quale per la menzogna del demonio fu creduto atto a render l' uomo sapiente e trarlo in istato via migliore ancora che non sia quello stesso della grazia di Dio. Sicchè liberamente l' uomo volse la volontà che dava nel bene reale, a dover dare col suo atto nel vƒno del bene finto, cioè falsamente imaginato, col quale atto anco la facoltà di eleggere , non solo quella di volere, fu storta, e datale mala piega, datole un abito vizioso; e quindi procedette principalmente e direttamente il guasto del soggetto stesso a cui la facoltà di eleggere appartiene (1). Per sopraggiunta accade che nel mangiamento del frutto l' istinto animale medesimo si rinforzò e alterò, venendone alterata e pervertita la materia del sentimento animale. Sicchè nacque in lei un' aspettazione (2) esagerata e ingannatrice, la quale doveva a sè rapire naturalmente la volontà che voleva un tutto e non aveva più ove rinvenirlo, (toltolesi dinnanzi il tutto reale ); e l' istinto alterato o la concupiscenza si presentava ella, quasi direi, ogni bene promettendole a ribocco sopra quello che potesse desiderare e portare. E si consideri che, parlando noi di senso, di volontà e d' intendimento, consideriamo queste potenze nel loro primo atto in quanto determinano la costituzione del soggetto, l' ordine intrinseco del medesimo e di quelle abitudini di cui questo primo atto è vestito; e non già nelle loro operazioni. Quindi pertanto si potrà formarsi il concetto del disordine avvenuto nel soggetto uomo mediante il primo peccato: ed ecco in che guisa. Egli è manifesto che l' atto onde Adamo peccò fu atto di libera volontà. Ora atto di libera volontà non è già un atto puramente della potenza, ma è atto immediatamente del soggetto (3). Perocchè l' uomo, collo scegliere liberamente, ha da una parte quello che l' intendimento retto gli rappresenta di vero, e dall' altra quello che la concupiscenza gli rappresenta di falso bene: e come in mezzo egli a ciò che gli offrono innanzi queste sue potenze, sceglie quella parte che più egli vuole. L' energia dunque della sua libertà viene dal soggetto immediatamente, e sceglie fra i risultamenti delle potenze e quindi è superiore alle potenze stesse e per così dire le signoreggia. Questa forza intima del soggetto è per sè stessa cieca, per così dire, perchè non ha altra ragione che pur sè sola: ma ella può sottomettersi all' intendimento retto e illuminarsi, ovvero può sottomettersi all' intendimento fallace e al senso e può illudersi da sè medesima. Or dunque quell' atto tutto libero, tutto procedente dal soggetto di Adamo fu quello che ingegnerò nel soggetto medesimo, in questa forza intima e primitiva che è il fonte della libera energia o piuttosto è ella stessa la libera energia, una mala disposizione e propriamente un ISTINTO di piegarsi al male, convalidato dalla remozione nell' intendimento dell' essere sussistente, e dall' accrescimento e alterazione d' impulso nel senso animale (1). Il perchè convien dire che come l' atto della libera energia, che è atto immediato del soggetto, fu cagione della rovina delle potenze dell' intendimento e della sensibilità, così viceversa il guasto di queste potenze reagì sul soggetto stesso e rese la sua forza volitiva debole e tarda e comecchessia oltremodo difettosa nel suo operare. Riassumendo adunque, l' ordine del guasto originale nella natura umana è il seguente. Il peccato cagione di questo guasto nacque con un atto libero, col quale l' uomo mangiò il frutto e così disubbidì a Dio. L' energia prima e elettiva propria del soggetto, togliendosi dal bene percepito anche soprannaturalmente e violentandosi alla finzione del bene, esorbitò, pigliò un nuovo peso verso il male e propriamente un ISTINTO del male (inclinazione al male morale) (2). La volontà già edotta in quell' atto che ha per iscopo l' essere completo (tutto l' essere, Iddio) e quindi bisognosa di un bene infinito; poi privata di questo, fu volta a cercare di fingersi una infinità di bene nelle creature (inclinazione al falso) (3). L' istinto animale finalmente fu reso violento e senza il freno delle potenze superiori, distratte, traviate e congiurate con lui. Il difetto della volontà e del senso reagisce sul guasto del soggetto, come il guasto di questo perverte la volontà e lascia il senso senza freno. Perocchè la volontà vuota di beni reali e bisognosa di essi non può aiutare al bene la energia radicale del soggetto, ma lasciarla pesare verso il male; la violenza del senso animale, quella aspettazione istintiva , menzognera, di un immenso e perpetuo piacere, deve trarre a sè la forza del soggetto e snervarne la facoltà di eleggere, come abbiamo detto avvenire per alterazione che nasca nella materia del sentire (4). Quindi vi ha una mutua perniciosa influenza fra questi tre principii dell' uomo: 1 il principio soggettivo elettivo; 2 la volontà; 3 l' istinto animale: per modo che ciascuno esercita un' azione corruttrice sull' altro, che aggrava il male della umana natura. Abbiamo detto che il peccato originale infetta e guasta la natura umana; or diciamo ch' egli corrompe lo stesso soggetto umano che lo riceve: ella è una conseguenza delle cose dette fin qui. Abbiam veduto che la volontà è piegata al male fino dal primo istante della esistenza dell' uomo; e ciò per un principio seduttore giacente nella natura stessa dell' uomo. Ora in quel primo momento non ancora è sviluppata la libertà umana, nè vi ha alcun atto riflesso della volontà con la quale l' uomo possa correggere l' inclinazione al male dell' atto primo e diretto. La volontà in quel primo tempo non ha che un atto solo, anzi nè pure propriamente un atto ma un abito: e questo è l' abito per conseguente dell' uomo. Conciossiachè la potenza attiva, in cui il soggetto principalmente risiede, è l' atto prevalente, e molto più se egli è unico, della volontà. Egli riman dunque il soggetto stesso infetto e peccante. Si consideri la conseguenza che deve nascere dal guasto della parte animale. Esso basta a spiegare l' infettamento del principio costituente il soggetto uomo: perocchè, come abbiamo detto, la concupiscenza animale tira e rapisce a sè la forza intrinseca e radicale del soggetto, e così la indebolisce e la perverte: e la volontà cercatrice e al tutto bisognosa del bene di cui è privata, lungi dal poter aiutare il soggetto, dal non darsi giù e farsi suddito al senso, anzi fattasi al medesimo infida consigliatrice, lo persuade a ciò e lo impelle. Perocchè è in quel bene vago e illusorio che con tanta baldanza le promette il senso materiale, che ella si persuade di poter riparare la sua perdita e felicitarsi, nè ha verun' altra cosa in che menomamente sperare, massime innanzi che l' uomo conosca i beni ideali e astratti. E un tal guasto, che per tal modo ridonda dalla natura, cioè dalle potenze nel soggetto, non si dee far già per intervallo di tempo; di modo che vi abbia un tempo nel quale le potenze sieno corrotte e non il soggetto, e vi abbia un altro tempo [in cui] la corruzione del soggetto veniente dalle potenze sia già compita: ma forza è che in un tempo medesimo e comincino a essere le potenze e in esse il lor guasto, e la comunicazione di questo guasto fatta al soggetto. Di che la ragione è che il soggetto non ha un' esistenza da sè, divisa dalle potenze; ma egli comincia a esistere con queste e in modo a queste consentaneo. Ciò che non sarà difficile d' intendere a chi si rammenta il modo onde abbiamo descritta la produzione del soggetto: il quale abbiamo detto per sè subitamente esistere tosto che sia dato un sentimento, una materia o un oggetto di sentire. E finalmente, in terzo luogo, anche lo stesso guasto delle potenze si attribuisce al soggetto, ove egli pure è infetto, per quella unità e armonica comunicazione che le potenze hanno col soggetto nel quale risiedono. E` adunque il peccato originale una infezione della natura per la disarmonia (1) e l' intimo guasto delle potenze, dalle quali la natura risulta: è una infezione del soggetto perchè essa va a infettare e depravare quel principio supremo di tutte le potenze, quel punto più eminente della natura umana che costituisce propriamente il soggetto, l' IO dell' uomo. Da tutto ciò che è stato detto si fa palese una via di conciliare la sentenza de' Tomisti, i quali insegnano che il peccato originale risiede primieramente nell' anima stessa e dall' essenza dell' anima trapassi a contaminare le potenze; colla sentenza di San Anselmo (2), di Giovanni lo Scoto (3), e altri (4), i quali sostengono il peccato originale aver sua sede primieramente e propriamente nella potenza della volontà. Questi secondi facevano risiedere il peccato originale nella potenza della volontà per la ragione che abbiamo toccata di sopra, che la sola volontà è la potenza morale, e che tutto ciò che nell' anima vi è di morale esser vi dee per cagione della volontà; e che perciò anche il peccato, essendo morale, e non è altro, come si definisce anche da S. Tommaso, che una stortura della volontà, egli deve nella volontà come in sua propria e primitiva sede ritrovarsi: ragione irrefragabile ed evidente. E tuttavia non è men vera la sentenza di quelli che abbiamo nominati, i quali vogliono che nell' essenza dell' anima, anzichè nelle sue potenze, il peccato originale s' incominci: e il contrastare di questi a quelli parmi una di quelle battaglie delle scuole, le quali collo schiarire de' vocaboli o coll' approfondire la materia vanno intieramente a pacificarsi. Conviene dunque sapere che dall' essenza dell' anima, secondo la dottrina di S. Tommaso, fluiscono le potenze. Se dunque per essenza dell' anima s' intende il principio delle potenze, egli è manifesto che, parlando dell' uomo, ciò che costituisce una tale essenza è quel principio stesso che noi abbiamo chiamato il soggetto, l' Io. Ora il soggetto l' abbiamo fatto risultare da due elementi, cioè da un principio sensitivo e da un principio operativo (giacchè il passivo e l' attivo non si possono mai dividere insieme) (1). E questo principio operativo del soggetto abbiamo detto che è una volontà primitiva e propriamente una facoltà di eleggere , che abbiamo distinto dalla potenza comunemente detta volontà; che questo principio operativo e volitivo costituisce l' essenza dell' anima, il soggetto, e non v' ha niente di attivo a lei anteriore nell' uomo. Or ecco la sede del peccato originale: ella non è nella volontà comune (potenza), ma nella volontà primitiva, la quale costituisce il soggetto uomo e con esso l' essenza dell' anima. Egli è dunque anche vero che il peccato originale risiede nell' essenza dell' anima. Io spiegherò qui sotto in che senso dica il Dottore angelico che il peccato originale macchi prima l' essenza dell' anima che la volontà; e qui mi basterà solo di notare che il Santo Dottore riconosce così necessaria la perversione della volontà a costituire il peccato che, tolta questa, è tolta l' essenza del peccato e che per ciò il peccato non comincia se non dove questa comincia, sicchè tutto ciò che di dispositivo vi può essere nell' uomo antecedentemente al guasto della volontà non è ancora peccato. E veramente cercando egli ciò che vi ha di formale nel peccato originale, comincia dallo stabilire questo principio: [...OMISSIS...] . E poi immediatamente soggiunge: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole la mente del santo Dottore manifestatamente si appalesa. Perocchè ci riconosce in esse che non può avervi formal peccato prima che non sia storta la volontà: e per ciò qualunque infezione e guastamento fosse nell' anima anteriore allo storcimento della volontà, ciò non sarebbe peccato ancora se non materiale, cioè a dire materia del peccato sopraveniente e non essa stessa peccato. E mi gioverà aver fatta questa osservazione a schiarimento di ciò che mi converrà dire parlando più sotto della trasfusione del peccato di origine. Abbiamo veduto che il peccato originale è peccato della natura umana. E abbiamo veduto che egli è peccato altresì del soggetto umano. Or egli è manifesto da sè stesso che il peccato originale si fa peccato anche della persona, poichè il soggetto uomo, in tutti quelli che per naturale generazione discendono da Adamo, è una persona. Egli è per ciò che il Concilio di Trento definì essere il peccato originale non solo comune della specie, ma proprio di ciascuno che nasce (6). E S. Agostino nel medesimo senso dice: [...OMISSIS...] . Ed è per questo che il peccato originale tocca la persona, che ha tutta la sua proprietà la espressione del Grisostomo che chiama questo peccato radicale : conciossiachè la persona si può veramente considerare, sotto un aspetto, come il principio, la virtù, la radice della natura umana. Dalle cose dette noi potremo racc“rre finalmente una conveniente definizione del peccato originale. Perchè noi abbiamo veduto: che il peccato originale non è già una mera negazione o una mera privazione della grazia. Che esso non è già puramente un disordine nella natura animale, conciossiachè l' animalità non ha per sè stesso niente che sia bene o male morale. Che tuttavia il disordine dell' istinto animale, in quanto è congiunto individualmente al soggetto umano, si fa materia alla reità di questo soggetto. Che il peccato originale risiede nella natura intellettiva e volitiva dell' uomo: e principalmente in una stortura abituale della volontà (6), ma di quella volontà primitiva che entra come un elemento essenziale della natura umana e che costituisce il principio attivo del soggetto uomo e ancor più della persona (7). Di che abbiamo conchiuso che il peccato originale infetta la stessa personalità dell' uomo e che perciò, oltre al chiamarsi naturale, deve poter ricevere anche l' appellazione di peccato personale. Ora col nome di concupiscenza noi denomineremo in generale qualunque conversione dell' uomo al bene commutabile in onta di Dio (2): e dopo di ciò ecco la definizione che noi proponiamo del peccato originale: Il peccato originale è una cotal concupiscenza e inclinazione al male della volontà (non già solo dell' istinto animale) in quanto questa volontà è la suprema parte attiva dell' uomo, e però quell' elemento nel quale risiede la personalità umana. Noi abbiamo definita la imputazione delle azioni quello attribuirsi che si fa alla persona le azioni morali come a loro causa (3). Per ciò non vi è imputabilità dove il principio da cui muove l' azione non sia la persona. Ma il peccato originale abbiamo veduto essere anche personale, cioè infettare la stessa persona e ricevere da questa la sua qualità di vero e formal peccato come da suo primo principio formale. Per ciò è manifesto il perchè per cui il peccato originale venga imputato all' uomo che per generazione lo contrae. Ma di qual genere è ella l' imputabilità del peccato originale? Noi abbiamo distinto due specie di imputabilità, la imputabilità del peccato e la imputabilità della colpa (4). Noi abbiamo detto, quando la persona umana colla sua volontà è opposta alla legge, allora vi è peccato . Se questa opposizione della volontà è libera allora vi è colpa , cioè allora il peccato è imputabile a colpa (5). Or egli è manifesto, che il peccato di origine non si contrae già per un atto di libera volontà, ma si contrae solo per un atto di volontà personale sì, ma non libera, del qual atto non è in potere dell' uomo far senza, ma anzi egli vien generato e naturato in quell' atto; sicchè non è già un atto posteriore alla sua esistenza, ma è contemporaneo e congiunto con quell' atto medesimo, col quale da principio esiste. Dunque il peccato originale non può essere imputabile di quell' ultimo genere d' imputabilità che abbiamo accennato, ma sol di quel genere d' imputabilità che spetta al peccato che non è colpa personale: ad Adamo poi che lo commise liberamente fu imputabile eziandio a colpa. Egli è così che conviene intendere l' angelico Dottore quando, parlando dell' imputabilità del peccato originale, la riferisce sempre in Adamo: a quel modo che l' errore di una mano o di un piede s' imputa all' uomo o all' anima che mosse quella mano o quel piede. Si deve intendere che il santo Dottore parli del primo e del perfetto genere d' imputabilità, cioè della imputabilità a colpa: perocchè anche il peccato s' imputa alla persona, ma in altro modo, e talora non si diede a questo secondo modo il nome d' imputabilità. Ecco i passi dell' Aquinate: [...OMISSIS...] . E applicando questo principio al peccato di origine, così dice: [...OMISSIS...] . Sicuramente non voleva S. Tommaso con queste parole t“rre quella imputabilità del peccato originale che viene alla persona generata in esso dall' esserle peccato proprio: conciossiacchè è intrinseco alla natura del peccato che la persona che lo possiede abbia da lui vituperio e macchia di reità: il che è appunto quel genere d' imputazione che noi troviamo essere nel peccato originale e che è essenzial cosa in ogni peccato. Lo stesso si dica delle due specie di demeriti che corrispondono alle due specie d' imputabilità (2). Ognuno ben vede quale de' due appartenga al peccato di origine. Dopo fatta la sposizione della dottrina del peccato originale, egli è facile intendere come la rivelazione risponda alle tre grandi questioni che l' infelice stato dell' umanità offre al pensiero, che la filosofia non ha mai potuto sci“rre e che pur sono di tanta necessità all' uomo di saperne il risolvimento (3). Alla seconda questione che dimanda: come convenga alla giustizia dalle mani della natura, risponde la rivelazione che non la natura il fece tale, ma si corruppe da sè medesimo. Alla prima questione: come l' uomo possa essere uscito così misero divina che sia soggetto ai dolori e alla morte anche il bambino che non ha ancor commesso alcun peccato attuale, la rivelazione risponde che anche in quel bambino, pur colla sua medesima generazione, entrò una infezione segreta e intima che pervertì la sua morale natura e storse la sua volontà, rendendolo per tal modo di un volere perverso, e che è la pena di questa morale corruzione in tutti quei mali a cui va soggetto (1). Alla terza questione finalmente che cerca l' origine di quella perpetua lotta e contraddizione che l' uomo prova in sè medesimo, sempre sbattuto fra una legge augusta che gli intima il bene e un incalzante e perpetuo movimento che lo caccia al male, la rivelazione risponde esser quella legge impressa da Dio e non possibile a cancellarsi, ed essere quel funesto stimolo opposto alla legge la stessa ribellione dell' uomo al suo Creatore, ribellione mutata in una infelice servitù e in un istinto lagrimevole che il precipita al male. E così è sciolto il gran nodo e spiegato il grande enigma della natura umana. Questa proposizione è della fede cattolica. [...OMISSIS...] . Come abbiamo distinte due imputazioni, due meriti e due demeriti, così abbiamo distinte altresì due maniere di retribuzioni, di premii e di pene: l' una che consegue al peccato e che abbiamo nominata retribuzione e pena di fatto, l' altra che consegue alla colpa e che abbiamo nominata retribuzione e pena di diritto (1). La prima di queste due pene che si può dire anche pena naturale, perchè viene da sè come natural conseguenza del fallo commesso, è quella che appartiene al peccato originale. E veramente noi abbiamo detto che questo peccato è della natura e che essendo annesso alla natura come un cotal morbo, viene colla natura trasmesso, e per ciò una tal pena viene naturalmente comunicata. Abbiamo veduto che il principio supremo dell' uomo, la personalità, è quella che vien lesa dalla corruzione originale. Egli è appunto per questo che la corruzione originale ha la propria e vera ragion di peccato, sicchè l' infezione della persona è ciò che vi ha di formale nel peccato originale. Abbiamo veduto che anche tutte le potenze dell' anima sono state vulnerate dal peccato originale. Ora questa lesione e questo deterioramento delle potenze, quando si considera da sè solo, cioè prescindendo dal principio supremo costituente la personalità dell' uomo, allora non costituisce propriamente alcun peccato, ma solo ciò che si chiama la materia del peccato. Ove però questo guasto sia unito alla deformità della persona, allora forma una cosa sola col guasto personale per l' unità individua che formano le potenze col loro principio supremo: allora anche il guasto delle potenze partecipa la ragione di peccato: allora nell' uomo si considera una sola grande e universale corruzione, la qual tutta è morale e tutta insieme dicesi peccato originale: e solamente per astrazione della mente si può considerare il guasto delle potenze a parte dal guasto della persona, chiamando quello la parte materiale del peccato. Nè solo il guasto delle varie potenze si considera come formante un solo peccato di origine col guasto della persona; ma le stesse operazioni che fa l' uomo impulso e mosso dall' originale colpa si possono considerare come comprese nel peccato di origine. Di che si vede ragione onde nelle divine Scritture si dica che l' uomo è concepito non solo nel peccato, ma nei peccati: [...OMISSIS...] . Or da quello che fu esposto apparisce come le potenze, non solo prese in relazione con loro e col soggetto principio di esse, ma ben anche considerate singolarmente, soffrono dalla infezione originale una intrinseca alterazione e deterioramento. Considerate poi in relazione col soggetto che è il loro principio, le potenze ricevettero dalla infezione originale la disarmonia , per la quale non si trovarono più egualmente sottomesse al soggetto medesimo: e ciò era degno, dopo che l' uomo si era sottratto dalla soggezione a Dio (2). Una evidente prova di fatto di questo cotale indebolimento che ricevette la signoria del soggetto sulle potenze, e della prevalenza presa da queste su di quello, si ha in ciò che il soggetto trovasi impacciato e legato nell' operare delle potenze: di maniera che a ogni potenza, per così dire, riesce di tirare a sè il soggetto e interessarlo tutto, per così dire, dell' affare suo; quasi come un debole principe che vien guadagnato facilmente dai partiti e prende impegno degli interessi parziali, prodigando in servigio di essi la sua autorità e potenza che dovrebbe essere riservata solo all' interesse generale. Così, a ragione di esempio, l' istinto animale suol talora esercitare una tal forza sul soggetto che il soggetto o è impedito dall' usare della ragione, o vien tratto a usarne in servigio dello stesso appetito e, per affetto dato a questo, anche a traviare il ragionamento in errori e fallacie. Se il soggetto avesse un proprio sentimento sì forte e dignitoso, in cui trovasse più nobil diletto che in quello che a lui dà o promette l' istinto animale, non abbasserebbe mai sè stesso mendicando la sua felicità da questo istinto e nell' interesse di questo riponendo tutto l' interesse proprio. Or solo in tal caso egli potrebbe essere signore dell' istinto animale, facendone quel conto, nè più nè meno, ch' egli si merita: in tal caso egli avrebbe una indipendenza dall' istinto animale e potrebbe lasciar operare l' istinto animale, senza prendere egli parte nella operazione, senza mettere in azione la forza propria a vantaggio di quell' istinto e senza muovere a favore dell' istinto la potenza razionale. In tal caso avverrebbe ancora che le operazioni di istinto animale nell' uomo non potrebbero turbare, nè alterare o impedire la intelligenza ne' suoi esercizii; e che anche nelle massime commozioni del senso animale una tranquillissima calma e un' attività imperturbata regnerebbe nella mente. E infatti l' istinto animale non ha veruna diretta comunicazione colla intelligenza, e queste due parti sono due essenze separate, l' una delle quali, per così dire, non sa niente dell' altra e per ciò non può agire l' una sull' altra nè sturbarsi a vicenda. Ma mediatore fra esse è il soggetto, ed è questo che comunica con l' una e coll' altra e che muove l' una e l' altra (1): ed è perciò che quando l' istinto animale ha tirato a sè e guadagnato il soggetto, allora per mezzo del soggetto muove a sua voglia e turba l' intelligenza (1). Egli è per questo che nell' uomo perfettamente costituito dalla natura le massime dilettazioni animali non potevano menomamente turbare l' uso della intelligenza. Egli è per questo medesimo che nel divino Redentore i movimenti della natura animale non impedivano quelli della razionale, ma che gli uni e gli altri erano tenuti indipendenti come a lui piaceva. [...OMISSIS...] . E per contraddistinguere questa passione ammodata di Cristo che non trascorre fuori dei limiti della sensibilità animale nè va appunto a dominare la ragione, separandola da quella passione smodata a cui va soggetto l' uomo corrotto, i teologi inventarono il nome di propassione e dissero che quella di Cristo era una propassione, e una passione quella degli altri uomini (3). Un' altra prova della debolezza della forza del soggetto si è che ove le potenze inferiori non riescano a tirare a sè e disporre del soggetto stesso, stando questo saldo in opporsi a ogni smoderato lor desiderio, allora si partono da lui e operano senza sua dipendenza, rifiutandosi a ogni soggezione. Sicchè o tirino esse il soggetto nei proprii interessi, o nol tirino, mostrano egualmente che egli è troppo debole ed esse troppo forti, perocchè o lo hanno legato, o esse almeno vanno sciolte da lui. E perchè il soggetto umano è persona, le potenze, se operano d' accordo colla persona, hanno un atto personale, ed essendo riprovevole questo atto, il male che fanno è personale: o dove il loro operare dall' intenzione della persona discorda, ivi cessa dall' essere personale e rimane solo un disordine materiale. S. Agostino, parlando delle conseguenze del peccato originale, le distingue secondo le potenze passive e attive dell' umana intelligenza; e nelle potenze passive trova essere la piaga dell' ignoranza , e nelle potenze attive la difficoltà di fare il bene (1). Vi fu altri che, analizzando la difficoltà di fare il bene, trovò che ella nasce da tre infelici principii, cioè dalla malizia che impiaga la volontà , dalla debolezza che impiaga quella interna forza per cui l' uomo è atto alle cose difficili, e che fu detta irascibile ; e finalmente dalla concupiscenza che offende l' inclinazione al diletto, detta concupiscibile (2). Ora perchè tutti questi danni, in quanto riguardano la parte morale dell' uomo, ricadono tutti in detrimento e perversione della sua volontà , per ciò noi ci tratterremo solo a raccogliere qui in poche parole ciò che ebbe a soffrire la libertà umana dal peccato originale (3). Il potere della libera volontà nello stato dell' uomo innocente si stendeva non solo alla virtù naturale, ma ben anche alla soprannaturale. Ma il potere di operare soprannaturalmente venendo all' uomo conferito dalla grazia, egli è manifesto che, sottratta la grazia, l' uomo non ebbe più questo potere. E in ordine appunto alla virtù soprannaturale si devono intendere molti luoghi di S. Agostino, ove sembra dire che sia perito il libero arbitrio dell' uomo. L' uomo non potè più operare cosa alcuna di buono in quell' ordine dal quale era decaduto e nel quale non era in conseguenza di sua natura, ma solo in conseguenza di un dono sopraggiunto alla sua natura gratuitamente da Dio (4). Nello stesso ordine di cose soprannaturali si devono principalmente intendere quelle parole di Cristo: « Senza di me non potete far nulla« (5) »; e quegli innumerevoli luoghi delle divine Scritture ne' quali si afferma la necessità della grazia divina per qualsivoglia opera salutare, eziandio per le parole e pei pensieri (6). E ciò perchè sebbene l' uomo nell' ordine naturale possa fare qualche cosa colle forze della natura, purchè Dio lo aiuti come autore della natura, mantenendogli l' esistenza e le forze coi loro atti; pure questo qualche cosa è detto nulla nelle Scritture, perchè è un vero nulla per l' uomo, conciossiachè è nulla al fine di esso uomo, cioè all' eterna salute che è come il frutto, a portare il quale l' uomo fu creato. Perciò Cristo illustra il suo detto: « voi senza di me non potete far nulla« »; colla similitudine del tralcio che non può far nulla senza essere inserito nella vite. Questo far nulla del tralcio reciso dalla vite equivale a non portare il suo frutto: ed il tralcio della vite veramente non fa nulla se non vegeta e non produce il suo frutto, sebbene gli rimangono tuttavia le proprietà del legno secco e sia idoneo per avventura a certi usi e ad ardere. Cristo dichiarò ancora il suo pensiero in quei luoghi, nei quali, invece di dire che non potevano far nulla, disse in ragione di esempio: « Nessuno può venire a me se non gli è dato dal Padre mio« (1) »; o usò altre simili espressioni che evidentemente trattano dell' eterna salute degli uomini, del bene completo spettante all' ordine soprannaturale. Che cosa poi sia quest' ordine di cose superiore alla umana natura, appare manifestamente da ciò che abbiamo detto nel libro I di questa opera, dove lungamente abbiamo dei due ordini naturale e soprannaturale tenuto ragionamento: e le cose quivi ragionate or più che mai ci bisogna rammemorare. Conciossiachè risulta da quanto colà fu detto che la operazione soprannaturale fa due cose nell' uomo: 1 o dà delle notizie nuove; 2 o dà nuova luce e forza alle notizie naturali. E applicando questa distinzione alle cose morali, ne verrà che il lume della grazia produrrà nell' uomo che lo partecipa 1 delle obbligazioni nuove , le quali corrispondono alle nuove notizie da lui per tal lume acquistate; 2 e certe modificazioni circa le obbligazioni vecchie, cioè circa le obbligazioni che aveva l' uomo di eseguire i precetti naturali, di modo che egli debba, avuta la grazia, eseguire i precetti naturali in un modo nuovo (soprannaturale): le quali modificazioni corrispondono alla nuova luce aggiunta alle notizie precedenti e naturali. Or, ciò posto egli è evidente che, essendo perito nell' uomo col peccato tutto che aveva di soprannaturale, esso uomo perdette il potere non meno di eseguire i precetti naturali in modo soprannaturale. Ed è questa dottrina come evidente in sè stessa, così conforme alla mente dell' angelico Dottore, il quale, dimandandosi se l' uomo possa adempiere i precetti della legge colle sue forze, risponde: [...OMISSIS...] . I precetti adunque naturali si possono eseguire in qualche parte, ma non già in un modo soprannaturale, e solo in un modo naturale: altramente il libero arbitrio dell' uomo sarebbe interamente perito, contro la definizione del sacrosanto Concilio di Trento. E qui conviene avvertire che l' uomo, il quale si trova nell' ordine della natura, e a cui perciò è impossibile l' operare nulla nell' ordine soprannaturale, poichè in ciò fare non ha nè meno la facoltà, non è obbligato di eseguire i precetti naturali in un modo soprannaturale, conciossiachè, come dice il Concilio di Trento, Iddio non comanda le cose impossibili. Chè se l' uomo, che si trova nell' ordine della natura, fosse obbligato ad eseguire i precetti naturali in un modo soprannaturale, in tal caso egli peccherebbe ogniqualvolta operasse il bene naturale: il che è contrario a quanto è stato definito dalla Chiesa nella condanna di quella proposizione: Che tutte le opere degli infedeli sono peccati (2). Egli è bensì vero che la virtù naturale non porta alcun effetto soprannaturale e perciò non dà all' uomo in alcun modo l' eterna vita, la quale consiste nella visione di Dio; ma se l' uomo che fedelmente eseguisce la legge della natura viene escluso dal celeste regno, il quale aver non si può che per la grazia di Gesù Cristo, non ne siegue da questo che egli debba venire anche positivamente punito con giudizio proprio e speciali supplizii destinati a farvi scontare le sue buone opere naturali. La quale dottrina, sebbene noi sappiamo spiacere a certi Teologi di stretta sentenza, tuttavia noi la teniamo, intimamente persuasi di aderire con essa ai sentimenti della Chiesa cattolica e alle decisioni dell' Apostolica sede. E forse la divergenza delle opinioni fra i teologi che trattano di queste materie nasce dal non essersi ancora dopo tante dispute sufficientemente chiarite le idee elementari della controversia: il che vogliamo provarci a far qui noi brevemente. Ma prima, o simultaneamente, rendiamo ragione della nostra sentenza. La difficoltà che trovano gli avversarii è nel precetto dell' amore di Dio. Perocchè, dicono essi, egli è necessario che i precetti stessi naturali, acciocchè sieno bene eseguiti, si facciano pel motivo dell' amore di Dio. Ma l' amore di Dio è certo non potersi avere se non per dono di Dio stesso. E perciò l' uomo senza la grazia non può eseguire i precetti naturali pel giusto motivo; e in questa mancanza di motivo è il peccato che lo condanna anche allora quando egli adempie la materialità del precetto naturale. Ora noi crediamo che in questa materia si deva primieramente esaminare la vera natura del precetto di amare Iddio. Egli è espresso in queste parole: « Amerai il Signore Dio tuo di tutto il cuore tuo e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua« (1) ». Egli è il medesimo che dire che l' uomo deve amare Iddio con tutte le sue forze, cioè con tutta la facoltà di amare che ha l' uomo, o, come è in S. Marco, con tutta la sua virtù, la quale risulta dalle forze del cuore, della mente e della stessa vita animale. Perciò in questo precetto non si comanda già all' uomo che ami Iddio con quelle forze che egli non ha: nè gli si comanda che egli impieghi all' amore divino quelle facoltà o potenze che non sono ordinate a questa operazione. Perocchè se tutte le potenze, anche di altra natura non ordinate all' operazione dell' amore, soggiacessero al precetto di amare Iddio, converrebbe che questo precetto obbligasse anche le pietre e gli animali, i quali hanno pure delle forze e delle potenze, ma il cui oggetto non è Dio conoscibile e amabile. Sarebbe ciò contro la natura delle cose: e questa oppugnazione della natura non può essere nella legge che viene da Dio, il quale è l' autore di essa natura. Laonde ciò che è comandato all' uomo si è di amare Iddio con tutto il potere che egli ha, sia questo potere naturale, sia soprannaturale. E perchè la grazia aggiunge una cotal forza alla essenza dell' anima congiungendola con Dio, della quale partecipano tutte le potenze; per questo in virtù della grazia viene ordinato all' amore divino il cuore, la mente, e l' anima, e a tutte e tre queste parti dell' uomo viene aggiunto un potere dalla operazione della grazia di tendere soprannaturalmente in Dio. Se ciò non fosse, ne verrebbe anche un altro assurdo, che la quantità del divino amore non potrebbe crescere, nè diminuire negli uomini: ovvero che in quell' uomo nel quale il divino amore non fosse pervenuto al sommo, cioè a tale che non potesse più crescere, per quantunque grande fosse il suo amore, non valesse nulla, ma sempre in lui esistesse il peccato e la violazione di quel massimo precetto di amar Dio con tutto il cuore, con tutta l' anima, e con tutta la mente. Il che è sommamente assurdo e sommamente contrario alla cattolica verità, la quale ci ammaestra anzi a credere che anche il giusto, fin che trovasi in questa vita, può crescere sempre in amore, e cresce e crescerebbe tuttavia ove anco la vita sua fosse lunga come quella de' Patriarchi e più. Or che è ciò? Ciò nasce da questo che l' uomo non è obbligato di amare Iddio con quel potere che egli non ha, ma sì solo con tutto quello che egli ha; e che l' amore può crescere perchè può continuamente crescergli questo potere con un grado maggiore di grazia che Dio gli conferisca. E perciò nessuna maraviglia che vi abbiano molti giusti i quali, amando disugualmente Iddio, sieno nondimeno tutti giusti, perocchè tutti amano Dio col potere che hanno e tutti adempiscono il precetto che loro comanda di amare Iddio con quel cuore, con quell' anima e con quella mente che hanno. Perocchè quel precetto non dice amerai Iddio col cuore, coll' anima e colla mente; ma dice col cuore tuo, coll' anima tua, colla mente tua: che è quanto dire con quelle parti e facoltà che tu hai. E una dottrina contraria a questa addurrebbe, per mio avviso, ogni uomo in disperazione: perocchè qual uomo mai potrebbe vivere con buona fiducia di adempire il gran precetto dell' amore se fosse altramente? Or posto che abbiamo questo fondamento, egli mi par certo altresì e consentaneo agli insegnamenti dell, Apostolica sede, avervi un duplice amor divino, l' uno naturale, e l' altro soprannaturale. Egli è notabile la proposizione condannata da Pio V: [...OMISSIS...] . Dunque è vera la contraria, che la distinzione di un doppio amore, naturale e gratuito o soprannaturale, ha suo ragionevole fondamento. Vero è che l' amor naturale e l' amore soprannaturale non è ben descritto ed espresso in quella proposizione: conciossiachè la natura dell' amor naturale non consiste già in questo che si ami Iddio come autore della natura, ma che lo si ami con forze e facoltà naturali, insomma con amore naturale. Conciossiacchè può Iddio amarsi come autore della natura, e tuttavia amarsi soprannaturalmente, se ciò si fa per istinto dello Spirito Santo. E questa è una di quelle distinzioni per mancanza delle quali io dicevo non essersi ancora intieramente chiarite le idee elementari di questa controversia. Il perchè non pochi teologi ritennero che fosse uopo la grazia per amare Iddio anche come autore della natura: e bene e ottimamente così ritennero secondo il loro intendimento, perocchè intesero di un amor di Dio, il quale si riferisse bensì all' autore della natura, ma fosse insieme un amore supremo, un amore sufficiente alla salute; ciò che è quanto dire un amore soprannaturale (1). L' amore dunque naturale di Dio consiste in amare Dio colle forze naturali, in amarlo come naturalmente il conosciamo. E certo è che esiste nella umana natura un potere di amar tutto ciò che l' uomo conosce come buono. Ma l' uomo può conoscere naturalmente Dio e conoscerlo come bene; perciò sarebbe affatto gratuito e contrario a ciò che insegna l' osservazione intorno alla umana natura il dire che questo bene che naturalmente conosce, nol possa altresì amare a quel modo che l' uomo ama qualunque altro bene tosto che da lui è conosciuto. Egli è vero bensì che la cognizione che l' uomo può avere di Dio per natura è sommamente tenue, perocchè essa non si appoggia a nessuna percezione, ma finisce tutta in una cognizione che abbiamo chiamata ideale7negativa, e che abbiam di sopra diligentemente descritta. Egli è vero ancora che un oggetto, che non si conosce se non mediante una cognizione così tenue e imperfetta, non si può amar vivamente; perocchè sebbene si conosca per bene sommo e infinito, tuttavia il modo di questa cognizione fa sì che questo bene sommo e infinito sia presente al nostro spirito debolissimamente e non vi eserciti se non una minima azione: un' azione che noi abbiamo chiamata ideale per distinguerla dall' azione che fanno su di noi le cose reali, cioè le cose di cui abbiamo la reale percezione. E tutto ciò prova la poca efficacia che deve avere questo amor naturale di Dio: ma non prova già che questo amore naturale non esista: prova la necessità della grazia perchè l' amore di Dio domini stabilmente nelle anime nostre: prova finalmente che questo amore non può reggersi a lungo contro a delle forti tentazioni, delle quali tentazioni è piena la vita umana, che le percezioni delle sensibili cose colla loro violenza tirano e governano a loro talento. Ma non prova già che alla forza che ha la natura umana di amare e che fa suo oggetto tutte le cose anche solo idealmente concepute, non possa punto fare suo oggetto anche Dio medesimo. S. Agostino dice che la natura invita ad amare Iddio e invita non solo quelli che hanno l' abito della grazia, ma tutti indistintamente gli uomini. « Il cielo e la terra, egli dice, e tutte le cose che in essi si contengono, ecco da ogni parte mi dicono che riami, nè cessano di dirlo a tutti acciocchè sieno inescusabili« (1) ». E il medesimo ripete di continuo la divina Scrittura intesa a far delle cose create scala al Creatore, come specialmente in quel sublime passo di Giobbe che comincia: « interroga i giumenti e ti ammaestreranno; e i volatili del cielo e ti daranno cenno« (2) ». Dove l' uomo è sollevato a considerare la grandezza del Creatore dalle cose dell' universo. Or se l' uomo ha questa cognizione di Dio, se da questa cognizione esce il debito di amarlo e ne sente la convenienza e suprema necessità; onde poi si dirà che per solo questo oggetto, il maggiore di tutti, gli sia impossibile fare un atto di amore, quando pure ha per natura il poter amare ogni altro oggetto che conosca sotto specie di bene? Egli è vero che il grado e la qualità dell' amore non è in proporzione dell' oggetto conosciuto, ma del modo di conoscerlo , come dicevamo: ma ciò non prova se non che l' amor naturale è tenue e inefficace, sebbene è amore. Egli è di questa inefficacia che deve parlare S. Agostino; è dell' amore soprannaturale che ei vuole alludere quando, dopo aver detto che il cielo e la terra il chiamavano ad amar Dio, soggiunge: « Ah! da più alto tu fai misericordia a cui fai misericordia, e misericordia farai a cui la farai: chè altramente il cielo e la terra parlano ai sordi le lodi tue« (3) ». Perocchè quelli che non hanno la grazia non possono intendere appieno le voci della natura, le quali certamente chiamano ad amar Dio non solo naturalmente, ma soprannaturalmente ancora: e così le intendevano i Santi, i quali da ogni oggetto naturale venivano innalzati ad atti di amor di Dio soprannaturale. Dopo di tutto ciò ancor resta a vedere se sia cosa del tutto sicura che i precetti naturali non si possano onestamente compire se non pel motivo dell' amore di Dio, e che adempiti senza questo motivo contengano una reità, una colpa. E intanto mi par di poter affermare come cosa certa che quell' uomo, il quale non abbia se non le sole forze della natura, tutto al più non possa essere obbligato se non ad adempire i precetti naturali pel motivo di un naturale amore di Dio, il quale abbiamo veduto esser possibile. Perocchè in tal modo egli dà al Creatore tutto quell' onore e quell' ossequio supremo del quale egli è capace, nè più esige dalle sue creature l' ottimo degli enti. Ma dopo di ciò io sostengo che nè pur tutto questo sia necessario, acciocchè l' esecuzione del precetto naturale sia interamente buona; ma che basti che il precetto naturale si eseguisca per amore della giustizia. Egli è vero che l' amore della giustizia si può, in un cotal senso, prendere per un amore di Dio, perchè Iddio è la verità e la giustizia stessa: e dove si prenda in tal senso, accordo anch' io che ogni precetto naturale, perchè sia onestamente eseguito e non abbia in sè alcun morale mancamento, debba essere adempito pel motivo dell' amor di Dio. Ma più propriamente parlando, mi sembra doversi distinguere l' amore di Dio e l' amore della giustizia: perocchè la giustizia, come noi naturalmente la veggiamo, non è che un ente ideale, una regola della mente nostra, una idea, e propriamente la grande, la prima idea, l' idea dell' essere in universale. Ora un' idea non è ancora Dio, perocchè Dio è anche una sussistenza. Egli è vero che quell' ente medesimo che da noi idealmente si concepisce, ha una sussistenza in sè che noi non veggiamo e che veggendola noi ci si rivelerebbe in forma divina e lo percepiremmo allora come Dio. Ma fino a tanto che lo percepiamo idealmente, non lo percepiamo come Dio, e ciò che facciamo per la riverenza e l' amore che riscuote da noi questo ente ideale, non si può, a tutto rigore, dire che noi il facciamo ancora per riverenza e amore di Dio; sebbene divina sia quella forza che riscuote da noi tanta riverenza e tanto amore. Ove non contendo di parole, come dicevo, e se si voglia mi accompagnerò a quelli che dicono operarsi da noi per amore di Dio tutto ciò che si opera da noi per amore della giustizia: purchè però mi si conceda di denominare l' amore della giustizia un amore di Dio mediato , e l' amore di Dio come essere sussistente, un amore di Dio immediato . Ciò adunque che io accorderò sarà questo solo, che perchè nel modo di eseguire i precetti naturali non ci abbia peccato, è necessario che essi si eseguiscano per un amore di Dio mediato . Che se poi si eseguiscono per un amore di Dio immediato , allora l' operazione nostra non solo non ha in sè stessa alcuna immoralità, ma ella ha un grado di perfezione: e questa è la perfezione della giustizia naturale. Che se poi essi si eseguiscono pel motivo dell' amor di Dio immediato e soprannaturale, l' operazione nostra ha conseguita la perfezione anche nell' ordine soprannaturale. Ciò che mi persuade questa dottrina è non solo la ragione dell' assurdo che ne seguirebbe se vera fosse la contraria, cioè che Dio giustissimo punisce le operazioni fatte per l' amore della giustizia; ma ben ancora il parermi solo fra tutte consentanea alle decisioni della Chiesa. Consideriamo le proposizioni condannate da Alessandro VIII intorno al peccato filosofico. Esse sono le seguenti: [...OMISSIS...] . Se queste proposizioni sono condannate, dunque convien dire che sieno vere le contrarie: dunque un atto umano contrario alla retta ragione è un' offesa di Dio per sè, senza bisogno che colui che lo commette conosca Dio o a lui pensi. Ora un atto umano contrario alla retta ragione è lo stesso che un atto contro alla giustizia: dunque chi pecca contro la giustizia, offende Iddio senza più; la deformità dell' atto va a offendere Dio stesso appunto perchè Dio è la giustizia. Se dunque ciò è vero, sarà vero, altresì al contrario che quegli che opera in ossequio della giustizia, opera in ossequio di Dio (2); che il suo atto terminando nella giustizia, termina in Dio stesso e che perciò non può essere disaggradevole a Dio. Egli è che Dio non è conosciuto nel suo essere sostanziale e reale, ma dal momento che si conosce la verità e la giustizia, egli è con questo solo conosciuto almeno nel suo essere ideale: e questa cognizione della verità è comune a tutti gli uomini. Il perchè egli è certo che tutti gli uomini in questo senso conoscono Iddio per natura, sebbene molti il possano ignorare nella sua sostanziale e personale sussistenza (3). Egli pare dunque certo che nell' ordine della natura l' uomo, il quale opera pel motivo della giustizia naturale, non pecca nè in quanto alla sostanza del precetto, nè in quanto al modo. Si dirà probabilmente che consistendo la giustizia nell' amare le cose secondo quello che meritano e il lor merito essendo determinato dal modo della loro esistenza, non si può amare nessuna cosa legittimamente se non in Dio, perchè dipende da Dio l' esistenza di ogni cosa. - Ma rispondo che la obbligazione che abbiamo di amare le cose non è proporzionata all' esistenza delle cose come ella è in esse, ma come questa loro esistenza è nella nostra cognizione. Or in quelli che non conoscono Dio come essere sussistente o che attualmente non ci pensano, basta come dicevamo che le operazioni loro sieno riferite in Dio mediante quello che abbiamo chiamato l' amore mediato , cioè l' amore della giustizia, la quale luce sempre presentissima nelle anime intelligenti; perocchè in questa disposizione di operare è compreso virtualmente anche l' amore di Dio immediato. Si ripiglierà dicendo: che l' uomo essendo a principio costituito in uno stato di grazia, si trovò obbligato con ciò stesso a praticare la virtù anche nell' ordine soprannaturale. Or l' uomo si rese impotente a ciò col peccato. Ora egli è dunque sua colpa se gli mancano le forze a praticare la virtù soprannaturale. - Ragionevole è la istanza; e io non nego che l' uomo sia riprovevole in causa del mancargli le forze soprannaturali. Ma tutto ciò che ho detto non riguarda la causa dell' operazione, ma riguarda l' operazione stessa, e l' operazione non è punto difettosa se vien fatta per la giustizia. Vero è che gli manca un pregio, cioè la grazia: ma questo mancamento rifondesi nel peccato originale, è un elemento, una parte del peccato originale stesso. L' uomo cioè che nasce col peccato originale, operando giustamente secondo la legge naturale, non si aggrava già di un nuovo peccato; ma non resta nè meno di essere peccatore nella sua origine. E questa risposta credo poter soddisfare a qualsivoglia ragionevole avversario. Da tutte le quali cose consegue che all' uomo, sebbene infetto dal peccato originale, rimane qualche parte di libero arbitrio con cui può fare degli atti di virtù naturale (1). Sarebbe poi un entrare in altra ricerca chi si facesse a stabilire qual grado di forza s' abbia una cosifatta libertà, e per farne un cenno, dico che questo grado di libertà non si può con una universal misura definire, poichè varia nei varii uomini. Solo due cose si può dire in universale, la prima che in qualche modo definisce questo grado negativamente; e la seconda positivamente. Negativamente si viene in qualche modo a definire il quanto di questa libertà dicendo, che ella è poca e non tale che valga a vincere gravi tentazioni: ciò che consegue dalle dottrine già da noi esposte (2). Ove dunque la causa della virtù sia congiunta con quella della felicità ossia de' beni temporali, l' amore della virtù non riceve alcuna scossa e può operare. In ragione di esempio, la santità del giuramento nel caso di Regolo e il dovere di difendere la patria erano sostenuti e congiunti coll' amor della patria e della gloria e mediante questa alleanza di beni temporali e reali potè vincere la grave tentazione de' supplizi che gli vennero minacciati (1). Ma questa grave tentazione non l' avrebbe probabilmente vinta col solo motivo dell' onesto e del giusto, quando nessun altro motivo di amor temporale non fosse concorso ad aiutarlo in ciò. Dove adunque l' amore della giustizia non è combattuto da veruna tentazione, egli è uno stimolo sufficiente all' uomo per operare: ma dove abbia incontro delle tentazioni forti, l' uomo con lui solo non regge, vincendo l' amore della cosa reale sopra l' amore della cosa ideale, sebbene tanto più nobile e autorevole; ed è necessario in questo caso che il forte urto che produce contro il proposito della giustizia l' amore della cosa reale sia eliso da qualche altro amore pure di cosa reale acciocchè la giustizia prevalga. Positivamente poi si può in qualche modo determinare il grado di forza della naturale libertà dell' uomo, dicendo che egli è pari a quel grado di forza che può avere od acquistare nei diversi uomini l' amore della giustizia. Or quest' amore della giustizia varia di forza secondo le indoli naturali degli uomini, le educazioni e le abitudini contratte. E a tutte queste cose si deve aver riguardo ove vogliasi determinare in qualche modo quanto l' uomo colle forze naturali possa essere giusto (2). Certo che si ha per dimostrato da una funesta e universale esperienza che l' uomo non vale a reggersi giusto colle forze naturali per tutta la vita, nè per molto tempo, nè relativamente a tutti i precetti naturali; conciossiacchè troppe sono le tentazioni e troppo violente. E ciò basta a poter affermare che ogni uomo anche nell' ordine della virtù naturale è infermo e aggravato d' ingiustizia. Abbiamo veduto che pel peccato originale rimase infiacchita la forza della libertà con la quale l' uomo esercita la virtù naturale. Ora ci rimane a dichiarare meglio la natura di questo infiacchimento. Ogni atto onesto si pone in virtù di un giudizio di special natura che noi abbiamo chiamato giudizio pratico (1). La forza dunque della libertà non è altro che la forza di formare questo giudizio pratico a favore della virtù. Egli rimarrà dunque spiegato come la libertà sia stata vulnerata e indebolita, allorquando avremo dichiarata la ragione perchè in noi sia scemata la forza di formare il giudizio pratico in favore della legge della giustizia. Il giudizio pratico è quello pel quale noi in sull' atto dell' operare nostro, diciamo, considerate tutte le circostanze del momento, che qui e ora sia più bene per noi l' azione onesta, che la sua contraria: conciossiacchè, come abbiamo veduto, ciò che noi giudichiamo essere più bene per noi, tutto ponderato, nell' istante in cui operiamo, quello indubitatamente operiamo. Pratico adunque è quel giudizio che è il più particolare di tutti, e che precede prossimamente l' azione; cioè quel giudizio che determina del bene particolare, del bene risultante da tutte le circostanze in cui ci troviamo. E questo è ciò che il distingue dal giudizio speculativo, il quale è universale e non calcola le circostanze tutte dell' istante in cui cade l' operazione: ma solo ha riguardo all' oggetto e alle circostanze idealmente e specificamente considerate. Quindi è ancora che il giudizio speculativo non suole riguardare che una classe di bene, per esempio il bene onesto: come sarebbe che uno dicesse: si deve fare la tal cosa, la legge comanda la tal' altra; ovvero il bene eudemonologico, come chi dicesse: è utile questa operazione, è velenosa questa specie di frutti. Ma all' incontro il giudizio pratico abbraccia tutte le specie di beni, e, consideratele tutte, conchiude dicendo: qui e ora è meglio che faccia questo. E da questa differenza fra il giudizio speculativo e il giudizio pratico si vede la ragione per la quale il giudizio pratico si trova molte volte in opposizione collo speculativo; e quindi qui è altresì la spiegazione di quel verso che è tanto ripetuto, perchè descrive un fatto solenne della natura umana: « Video meliora proboque, deteriora sequor ». Il giudizio speculativo dice, a ragione d' esempio: la legge comanda di non fare la tale azione. L' uomo che trascinato dalla passione la fa, non ignora questo giudizio speculativo e parziale, cioè riguardante il bene onesto. Ma egli nell' atto dell' operare contrappone a quel giudizio speculativo un giudizio pratico il quale dice così: è vero che io perdo facendo questa azione il bene onesto, ma dall' altra parte il diletto che ha congiunto è tanto grande che io lo preferisco al bene onesto, e per ciò giudico che, nel momento presente, per me sia meglio il farla. Questo è un giudizio ingiusto ed in ciò sta la reità dell' azione: ma egli appare però da tutto questo come la facoltà che ha l' uomo di peccare, sia preceduta dalla facoltà di errare volontariamente: poichè tale doveva essere il nesso fra il conoscere e l' operare in un ente ragionevole; per modo che ogni colpa è figlia di un errore (1). A conoscere dunque onde procede l' infiacchimento della libertà relativamente alla naturale virtù, conviene investigare quali sieno le cagioni che sebbene l' uomo conosca speculativamente il diritto e l' onesto, e sebbene egli sappia altresì che il bene onesto non ha comparazione con altro bene alcuno, ma possegga una somma e infinita dignità; tuttavia nell' atto di operare preferisca a esso il bene eudemonologico quale di presente gli apparisce. Or ciò nasce dall' apparirgli questo bene sommamente vivace, quando l' onesto nol percepisce che assai languidamente, e ciò per quelle ragioni che abbiamo accennato altrove lungamente. Il primo male conseguente al peccato di origine dalla parte di Dio è la perdita della grazia. A cui consegue la morte dell' anima. Perocchè abbiamo definita la vita una incessante produzione del sentimento. E abbiamo anche veduto che la grazia è una percezione incipiente di Dio, il quale collo starci aderente all' anima e operante in essa colla sua propria sostanza, vi suscita continuamente un sentimento deiforme, il quale è propriamente la vita soprannaturale dell' anima intelligente. Perocchè l' anima in quanto ha il sentimento animale, intanto non vive come intellettiva, ma unicamente come sensitiva, ovvero soggetto animale: ed egli non sarebbe assurdo il dire piuttosto che di questa vita vive il corpo e non l' anima, sicchè, distrutto il corpo, anche l' anima sensitiva non è più (1). Or vero è che l' anima intellettiva naturalmente concepisce l' essere ideale, ma questa sola tenuissima e uniforme concezione non gli dà un sentimento di cosa reale e tutto al più è un cotal principio di sentimento, e non un sentimento intero. Perciò l' anima intelligente senza la grazia non ha più per natura che un principio di vivere, ma le manca la vita intera, e per ciò dicesi morta. A intender meglio questo vero si consideri primieramente che l' anima col solo essere indeterminato non vede ossia non sente nessun essere finito; e l' essere e perciò il sentimento che le può venire dall' unione con l' essere indeterminato, è egli stesso al sommo confuso e indefinito. In secondo luogo, l' anima colla vista di questo solo essere, non discerne sè stessa, ma tutta esiste, per così dire, nel suo oggetto. In terzo luogo, ella non ha alcun movimento, ma solo quell' atto immanente pel quale esiste, e quel qualsivoglia principio di sentimento è pure immanente, nè racchiude un' azione, ma un cotal principio di azione che non va più là, che non si compisce. Or a un tal principio di sentimento non si può dare il nome di vita, la quale abbiamo fatta consistere non in un principio di sentimento, ma in un sentimento compito e anzi in una incessante produzione di questo sentimento; nelle quali parole viene descritta una azione incessante e che, per così dire, continuamente si rinnova e si finisce. Or perchè l' azione che produce o della quale è il sentimento sia compita, perchè nell' anima vi abbia, per così dire, un moto continuo, non è sufficiente che essa anima possegga il solo essere indeterminato e ideale, ma è necessario che soffra l' azione di un essere reale, dalla quale azione l' anima riceve un sentimento compito e comincia da questo il suo moto che consiste principalmente in un continuo passaggio della sua attenzione, ossia della sua attività dall' essere reale all' ideale e dall' ideale al reale, e dall' idea al sentimento e dal sentimento all' idea. Ora cessando nell' anima l' azione degli esseri finiti e materiali colla morte del corpo, ove Dio non le sia presente, cader si deve necessariamente in quel cotale immobile sopimento che ragionevolmente cessazione della vita, ossia morte si può denominare. E perchè la vita animale è precaria e non propria dell' anima, quindi è che l' anima priva della grazia non ha anche unita al corpo se non una vita effimera e porta in sè stessa la morte (1). Tutto questo ha luogo anche considerando l' anima umana come semplicemente priva della grazia, sebbene difformata non fosse da nessun proprio peccato. Che se ella, oltre esser priva della grazia, sia anche peccatrice, come avviene nell' uomo infetto dalla original colpa, allora vi ha nell' anima anche un' avversione, come abbiam detto più sopra, dalla verità e da Dio, che pur è sua vita: e in questo doppio senso giustamente il peccato originale è dichiarato dal Concilio di Trento morte dell' anima (2). Un' altra conseguenza del peccato di origine, considerato dalla parte di Dio, si è che l' uomo viene rimesso a una provvidenza generale e di mezzo, in luogo di esser governato da una provvidenza speciale e di fine. L' uomo innocente era il fine dell' universo: Iddio faceva di lui le sue delizie, stava congiunto intimamente con lui e quindi aveva di lui una provvidenza immediata e veramente di fine, sicchè tutte le cose dell' universo erano ordinate e volte a servire quest' uomo, delizia di Dio e in cui era Dio. Ma dall' uomo peccatore Iddio si separò: la causa dell' uomo da quell' ora non fu più la causa stessa di Dio. L' uomo peccatore non poteva essere vero fine dell' universo, poichè Dio solo è fine, e intanto l' uomo era fine dell' universo, in quanto partecipava di Dio e era fatto una sola cosa col Creatore. Rimase adunque l' uomo una semplice creatura: fu abbandonato alle proprie forze: la natura stessa e tutti gli esseri che la compongono furono abbandonati alle sue forze e l' uomo si trovò esposto a tutti quegli accidenti che potevano naturalmente intervenire dall' azione simultanea di tutte le innumerabili forze degli innumerabili esseri creati che esistono. Se la cosa fosse rimasta così, l' universo avrebbe perduto il suo fine; ogni straordinaria provvidenza sarebbe cessata dal mondo, e del mondo e dell' uomo sarebbe avvenuto tutto ciò che avessero prodotto il complesso delle forze naturali con tutti i loro ordini e collisioni. Ma essendo fra la umanità predestinato un Individuo che non doveva essere macchiato di peccato, e congiunto della massima congiunzione con Dio e di congiunzione indistruttibile; avvenne che questo Uomo rimase il vero Capo e il vero fine dell' universo: e questo fu l' Uomo Redentore anche degli altri uomini. Perocchè Iddio conservò per quest' uomo la sua provvidenza speciale, o piuttosto specialissima, e così tutti gli altri uomini decaduti, come tutte le altre cose dell' universo divennero mezzo alla grandezza, alla felicità e alla gloria di quest' Uomo7fine. Di che accadde che molti uomini furono sanati dal peccato e ricongiunti con Dio, appunto perchè anche questo era necessario, acciocchè l' Uomo7fine riuscisse il più grande, il più felice, il più glorioso che esser potesse. Conciossiacchè egli desiderò che fossero associati a lui i suoi simili; e non potevano essergli associati se prima non venivano giustificati: e giustificati che furono, ripresero anch' essi lo stato e la condizione di fine insieme con quegli che era fine per sè stesso e che chiamava altri in parte di questa sua dignità. Ma considerandoli però come peccatori, essi, come dicevamo, maggior grado non tengono che di mezzo : e per ciò fino che sono peccatori, di tanto la divina provvidenza a loro soccorre e provvede, di quanto è uopo perchè servano acconcissimamente al fine , a cui sono subordinati. Per la massima gloria adunque di Cristo sono stabiliti tanto quelli che si salvano come quelli che periscono. Se non che i primi passano a esser fine insieme con Cristo coll' uscire dallo stato di peccato; ed i secondi rimangono eternamente puri mezzi. Ai primi per ciò è destinata una piena beatitudine e soprannaturale che non può loro fallire, e nello scorgerli a questa consiste la speciale provvidenza che guarda sopra di loro e veglia a questo scopo tutti gli avvenimenti (1): ai secondi poi viene amministrata nella vita presente quella misura di beni e di mali che più conviene, acciocchè servano nel miglior modo alla gloria de' buoni: e nella futura parimenti vien fatto di loro ciò che valga a rendere più magnifico e glorioso il regno del prediletto di Dio Padre e degli amici suoi. Di che apparisce che la provvidenza universale e di mezzo, che sola presiede al governo di quelli che hanno in sè il peccato, contiene questi tre scapiti: a ) Che essi considerati nello stato di peccato rimangono in preda ai mali naturali e alla morte, perchè nessuna provvidenza soprannaturale li difende da quelli. Laddove i giusti non vengono sottomessi ai mali se non con certa misura e con un certo modo di amorosa predilezione; assicurandoci le divine Scritture che Iddio si serve a questo fine del ministero degli Angeli (2). I peccatori all' incontro di loro natura non hanno alcuna virtù soprannaturale che temperi e guidi in lor favore le forze della natura e delle creature tutte, se non per accidente, cioè in quanto ciò potesse tornare bene ai giusti (1). b ) Ed essendovi fra le creature anche degli esseri malefici, cioè i demonii, i quali sono forniti di forze atte a nuocere alla umanità, viene in conseguenza che l' uomo pel peccato originale rimane altresì in balìa dei demonii e, come dicono le Scritture e i Padri, sotto la servitù e potestà del diavolo (2). Tanto più che l' uomo del peccato originale è fatto speciale conquista del demonio, come di quello che fu il tentatore e la cagione della lamentevole caduta che tolse il genere umano di Dio. c ) Dai quali principii procedono alcune conseguenze che ci dànno lume a far probabile conghiettura dello stato dell' anima la qual passi all' altra vita macchiata del peccato originale senza più. Perocchè le conghietture che si possono fare dal detto sono le seguenti: PRIMO. - L' anima che macchiata dal peccato originale passa all' altra vita, è priva di ogni visione di Dio, perchè priva di ogni grazia o comunicazione colla divina sostanza. SECONDO. - Essa è morta, cioè a dire esclusa dalla vita eterna; il che è quanto dire priva di quella vita che nasce dalla reale percezione di Dio, la quale è eterna, perchè Iddio che la produce colla sua azione nell' anima è eterno; ed essendo vita eterna, è sola vera vita. TERZO. - Essa è esclusa dal consorzio di Gesù Cristo e dei Santi, perchè priva di Dio non può aver comune l' oggetto della loro felicità e quindi non può formare una società, una unità con essi, giacchè questa sociale unione viene dall' unità dell' oggetto comune del loro godimento, ciò è quanto dire che è esclusa dal regno de' cieli. QUARTO. - L' anima divisa dal corpo col solo peccato originale, quell' anima deve essere in un cotale stato che possiam dire di assopimento, nel quale trovasi priva di sentimento e di vita, e non ha che un principio di vita e un principio di sentimento, portando di più un' inclinazione a rifuggire dalla verità e dalla vita. QUINTO. - L' anima in tale stato è esposta all' azione delle creature, come dicevamo, anche le più malefiche, ma essendo essa priva di corpo e non avendo che la sola vista dell' essere universale, non pare dover essere suscettiva dell' azione delle forze a lei nemiche. Perocchè il sentimento materiale non lo ha più, e l' intellettuale è tale che nessun essere creato può alterarlo, conciossiacchè nell' intelletto non ha virtù di operare che Dio stesso. Sicchè converrebbe supporre che all' anima per essere tormentata dai demonii, fosse aggiunto un cotal corpo. E ciò crediamo avvenire coll' anime ree di peccati attuali, dicendoci le divine Scritture che esse ardono nel fuoco, ma rispetto a quelle anime che sono aggravate dalla sola colpa originale, riteniamo assai probabile che non sia. SESTO. - Senonchè colla risurrezione dei corpi esse racquistano i corpi. Il riacquistare poi che fanno dei corpi è un aggiungersi loro un sentimento di cosa reale. Io non so in che stato questi corpi verranno raggiunti a quelle anime: non certo in istato glorioso, perchè la gloria viene dalla unione con Dio. Anche lo stato dunque di cotesti corpi risorti par verisimile dover essere un effetto dell' universal Provvidenza, cioè a dire essi saranno tali quali li vogliono le leggi universali che presiedono al gran patto del risuscitamento dei corpi. Io inclino a credere che essi corpi verranno ripristinati in buono stato, d' una bontà però loro naturale. E ciò che mi fa creder questo verisimile si è il general principio che mi guida in tutto questo discorso delle pene de' fanciulli morti senza battesimo o più generalmente di quelli cui non altra colpa danneggia che originale, il quale è: « la pena essere meglio negativa che positiva, cioè dipendere dall' abbandono che fece Dio di essi a sè medesimi e alle forze e leggi naturali« (1) ». Conosciuta ora l' indole e la natura del peccato di origine, conviene che esponiamo la dottrina della sua propagazione. E a tal fine ci è bisogno cominciare dal riassumere ciò che abbiamo detto circa il modo onde l' animale si propaga, e onde si propaga l' uomo, considerato secondo la natura. Abbiamo dunque veduto che negli animali generanti vi ha una cotal massa carnosa, la quale unita con essi forma parte de' loro corpi e vive in questo stato di parte. Ma staccata da essi per la generazione, non muore, anzi quella vita, che aveva prima, acquista una virtù e attività maggiore, per la quale sussiste da sè, ossia forma un animale nuovo, indipendente dai primi, da' quali provenne (1). Così si costituisce il soggetto sensitivo. Ma se questo soggetto sensitivo, per legge da Dio fissata, è ordinato a dover avere anche la visione dell' ente, egli si fa con ciò un soggetto ragionevole. E tale avviene il nascimento dell' uomo, al quale, tosto chè è naturato come soggetto sensitivo, è presente l' ente; conciossiacchè l' ente per legge costitutiva, come dissi, è fatto presente alla natura umana: e perciò moltiplicandosi i soggetti sensitivi nella natura umana, è dato loro di veder sempre l' ente, ossia, che è il medesimo, di essere incontanente intellettivi. Ma abbiamo ancora veduto che l' ente a principio si congiunse alla natura umana in un modo perfetto, cioè che si diede a vedere ad essa natura non solo nella sua forma ideale, ma ben ancora nella sua forma reale e sussistente (3). Ciò è quanto dire che l' uomo venne a principio costituito non solo in un ordine naturale, ma ben anco in un ordine soprannaturale. Perocchè tutte le nature, in quanto sono create, costituiscono ciò che si chiama l' ordine della natura. Ma la sostanza del Creatore è essenzialmente distinta dalla natura ed è superiore ad essa. Per ciò la percezione della sostanza del Creatore è ciò che costituisce l' ordine soprannaturale. Or l' ente universale in quanto non è puramente ideale, ma si dà a vedere ben anco come reale e sussistente, non è altro che il Creatore istesso, Dio. Perciò si dice che quegli esseri creati, i quali non solo concepiscono l' essere nella sua forma ideale e massime in uno stato indeterminato, ma percepiscono altresì la stessa sussistenza e realità di quest' essere sono costituiti in un ordine soprannaturale. E tale fu Adamo, come abbiamo provato. All' opposto, privo lo spirito umano della percezione dell' essere nella sua sussistenza e realità e solo fornito della concezione dell' essere ideale e in uno stato d' indeterminazione, egli trovasi esser posto dentro i confini della natura: perocchè l' essere ideale si può dire creato nel modo in cui è veduto dall' uomo, cioè in quanto egli è separato dalla real sussistenza e in quanto è privo de' suoi termini o determinazioni. Fino a che pertanto la natura umana si trovò congiunta coll' ente completo, ella fu fornita di tutto ciò che appartener potesse alla sua natura, e altresì della grazia. E perchè questa grazia nel modo detto era congiunta per legge costitutiva alla natura umana, ella doveva essere annessa di conseguente a tutti gli individui ne' quali si fosse moltiplicata questa natura: ed è per ciò che i figliuoli di Adamo innocente avrebbero ereditata dal padre la grazia santificante. Perocchè Iddio e l' uomo erano congiunti in modo da formare, per così dire, una cosa sola: cioè Iddio si comunicava all' uomo ove che si trovasse o cominciasse a esistere il soggetto animale umano (1). Or avendo Adamo peccato cioè ribellatosi a Dio, egli perdette la vista della divina sussistenza, cioè la grazia; e, morto all' ordine soprannaturale, non gli rimase che la natura. Egli fu da quel momento che l' essere universale non fu congiunto alla natura umana che idealmente, non più in una forma divina, ma creata e naturale. Si può qui domandare se questa perdita che fece la natura umana della grazia e di Dio, sia avvenuta dalla parte di Dio, cioè per essersi Dio tolto da lei, o dalla parte dell' uomo, cioè per essersi la volontà rivolta da Dio e non trovato più il modo di vederlo, a quel modo che l' uomo che volta le spalle in faccia al sole nol vede più. Egli è certo essere ripugnante alla divina natura che essa faccia copia di sè ad esseri suoi nemici. Lo Spirito Santo, dice la divina Scrittura, non abita in corpo soggetto a peccato (2). Però giustamente può dirsi che Iddio fece colla natura umana prevaricata quello di che minacciò gli ebrei: « Io asconderò la faccia mia ad essi e starò a vedere a che mali termini da loro soli si condurranno« (3) ». Ma con non minore verità si può dire che la privazione di Dio nacque perchè si stolse l' uomo da Dio, perchè l' uomo si mise in uno stato, nel quale egli sarebbe ripugnante e intrinsecamente assurdo che vedesse Iddio, come sarebbe ripugnante che vedesse il sole chi si cavasse gli occhi. Conciossiacchè Iddio si vede coll' occhio della buona e retta volontà: e però il pervertire la propria volontà, cioè il darsi ad amar la creatura in luogo del Creatore, e cercare in quella anzichè in questo la propria felicità, è un rendersi impossibile la vista del Creatore, un accecarsi. E perduta una volta tal vista del Creatore, ristretto lo spirito dell' uomo nelle sole creature, non gli è più possibile di rilevarsi e trovare con gli occhi suoi dell' animo quell' oggetto d' infinito bene che ha perduto, il quale è tale che, cessando un solo istante di vederlo, non si può veder più. Perocchè la volontà non può esser tratta da cosa incognita, e perduto una volta il sentimento di Dio, la divina sostanza le rimane come un bene incognito che non può essere più appetito o desiderato: sicchè non le restano all' appetire e desiderare se non i beni materiali; perocchè il sentimento di questi non cessa, e non cessando, essi beni rinnovellano continuamente le loro impressioni sull' uomo e le producono di nuovo. E nella stessa maniera perchè l' uomo tornasse a gustare di Dio, converrebbe che Dio medesimo riagisse nell' uomo e eccitasse in lui nuovamente il sentimento della divina sostanza (1). Egli è per questo che i santi Padri riconoscono una cecità volontaria e anche peccaminosa, ove questa cecità appartenga a una volontà personale. [...OMISSIS...] . Questa cecità si chiama nelle divine Scritture cecità del cuore, per distinguerla dalla cecità dell' intelletto; conciossiacchè il cuore vien preso per la sede della volontà. Il perchè dove la cecità consiste in un traviamento della volontà, e ove questa volontà sia personale, come dicevamo, acconciamente quella cecità si può chiamare peccato. E con quest' avvertenza si devono intendere alcuni passi di S. Agostino, nei quali chiama peccato la cecità originale, come pure la concupiscenza; siccome a cagion d' esempio nel passo seguente: [...OMISSIS...] . La natura umana adunque dopo la commissione del peccato rimase: 1 privata di Dio: 2 con una irreparabile gravitazione della volontà verso il bene creato e avversione dall' increato che più non percepiva. Or essendo questo stato proprio, come abbiam veduto, della umana natura, egli doveva necessariamente ripetersi in altrettanti individui, in quanti essa natura si moltiplicava. E perciocchè questa cecità e questa mala piega della volontà personale ha in sè ragion di peccato, per ciò qui s' intende la necessità che v' avea della trasfusione nei posteri del peccato adamitico. La ricerca come passasse da un uomo nell' altro il peccato originale diede cagione alla celebre questione dell' origine dell' anima. Per ciò non vorrà essere inutile che qui frammettiamo alcune considerazioni sopra un tal punto, valendoci ciò a render più chiara e più piena la trattazione nostra della trasfusione del peccato, che dopo questo quasi episodio riprenderemo. Tre furono le principali opinioni, nelle quali si partirono gli scrittori ecclesiastici circa il sapere come cominci l' anima intellettiva in un uomo che vien generato. Altri sostennero che le anime tutte furono create da Dio a principio e mandate o venute poscia ne' corpi nuovamente ingenerati: e di questa sentenza fra gli altri fu pure Origene. Altri pretesero che come il corpo ingenerava il corpo, così simultaneamente l' anima ingenerasse di sè un' altra anima, e per tal modo che l' uomo intero, anima e corpo, fosse naturalmente ingenerato: e questa sentenza tenne Tertulliano, Apollinare e, per testimonianza di S. Girolamo, quasi tutta la Chiesa occidentale (1). Altri finalmente opinarono che le anime fossero create immediatamente e per singola da Dio e da Dio infuse ne' corpi, mano mano generati: e di questa sentenza fu pure Innocenzo III, che così esprime la origine dell' anima intellettiva: « infundendo creatur, creando infunditur ». Così pensò anche Pietro Lombardo. La prima di queste tre opinioni fu al tutto di qualche autore particolare e non seguìta. Circa lo scegliere fra le altre due stettero in forse i più bei genii della Chiesa. S. Agostino, che chiama una tale questione caliginosissima , per quanto bilanciasse col suo raro ingegno, non potè mai venire a capo, sia per l' una, sia per l' altra parte (2); e invitava chi più di lui avesse potuto conoscere in questa parte a dargli in ciò aiuto di ammaestramento (3). La maggior parte degli antichi non vollero parimente decidersi, ma lasciarono in dubbio tal controversia (4). S. Fulgenzio pure dice la cosa dubbiosa (5): dubbiosa la trova Cassiodoro (6): dubbiosa il grande S. Gregorio. Ecco il luogo in che quest' ultimo ne parla in una lettera che scrive a Secondino: [...OMISSIS...] . Tal parve forte e non così facile a risolversi una questione siffatta a quei sommi uomini. Nè è da credere che loro sfuggissero quelle ragioni ovvie che si presentano in siffatta materia alla mente di ciascheduno. Ma essi vedevano molto addentro nella cosa, e però non si decidevano leggermente. E questa incertezza e dubbiezza in siffatta questione passò, quasi direi, per ecclesiastica tradizione, a tale che fu tenuta da taluno qual parte della cattolica verità. Così S. Isidoro Ispalense non dubitò di porre fra le cose da doversi tenere per fede, che l' origine dell' anima fosse incerta (1). Nel IX secolo la questione era nel medesimo stato, come si può vedere da un luogo di S. Prudenzio Vescovo di Troyes, che citeremo più abbasso. Solo due secoli dopo Ugone di S. Vittore tolse a provare: « probabilius animas ex traduce non esse (2) ». Colle quali parole mostravasi non darsi da lui la cosa per al tutto assicurata. Nel secolo susseguente però S. Tommaso d' Aquino insegnò: « haereticum esse dicere, quod anima intellectiva traducatur cum semine (3) ». E dopo di lui si ritenne per cosa certa e fu universalmente ammesso da' Teologi, che non venisse propaginata col corpo, ma creata da Dio. Egli è però da considerarsi che la sentenza ricevuta universalmente da' Teologi, sull' autorità principalmente dell' Angelo delle scuole, non è precisamente quella di cui trattavasi e questionavasi dai Padri, e che però non può dirsi che essi abbiano al tutto recisa o sciolta quell' antica questione. Perocchè due cose diverse sono a dimandarsi:« se l' anima sebbene spirituale si propagini in un modo spirituale simultaneamente al propaginarsi che fa il corpo dal corpo«; e domandarsi:« se l' anima si propagini mediante la generazione corporea, di maniera che il corpo ingeneri l' anima«. La prima era la questione dei Padri: ed ecco come ella viene accuratamente espressa dal luogo indicato da S. Prudenzio che viveva nel secolo IX sotto Carlo il Calvo: [...OMISSIS...] . All' incontro la seconda di quelle due questioni si può dire che non fosse nè pure mai messa in controversia. Nel IV secolo Prudenzio riprende la sentenza che l' anima venga generata dal corpo, non come dubbio, ma come certo errore. E non avrebbe parlato con tale sicurezza, se avesse inteso di toccare la questione che S. Agostino dichiarava superiore alle forze del suo intendimento. Ecco i versi del poeta cristiano: [...OMISSIS...] . Medesimamente il luogo del libro degli Ecclesiastici Dommi (6) attribuito a Gennadio, scrittore del secolo V, che si trova citato nella Somma di S. Tommaso, si riferisce all' opinione del venire le anime dai corpi, dichiarando erroneo l' affermarsi che le anime ragionevoli si seminino per l' unione de' corpi. Lo stesso e nulla più è riprovato dall' Angelico Dottore in quell' articolo cui egli intitola come questa dimanda: Se l' anima intellettiva sia cagionata dal seme? Nel quale articolo è da osservarsi come egli non trae punto le obbiezioni che fa alla sua sentenza dall' autorità di S. Agostino e degli altri Padri, quasi avessero lasciata la questione dubbiosa, ma anzi da ragioni naturali. Il che dimostra, che egli non intendeva di dichiarare già eretica quella sentenza che da S. Agostino e da' Padri antichi non era stata provata riprensibile: perocchè se voleva questo, il santo Dottore, che è sempre sommamente studioso di conciliare la sua dottrina con quella di S. Agostino e dell' antichità cristiana, ne avrebbe fatto indubitatamente parola. Se non che dalle ragioni stesse che apporta si fa manifesto, che egli altro non condanna in quell' articolo se non il farsi produr l' anima dalla materia; giacchè ecco come egli dice. Riferirò le sue stesse parole, perchè si renda evidente la verità che asserisco. [...OMISSIS...] Egli è manifesto da questa prima ragione, che l' assurdo che vuol dinotare qui S. Tommaso si è quello che noi dicevamo fuori di controversia, cioè che la materia non ha virtù a produrre lo spirito. Udiamo la seconda ragione del santo Dottore: [...OMISSIS...] Anche in queste parole si par chiaro, che tutto l' assurdo che si fa rilevare consiste nella incommunicabilità dell' intelligenza colla materia corporea anche sensitiva: perciocchè il principio intellettivo non fa uso di alcun organo corporeo alla sua operazione; e perciò il corpo non può agir nulla nell' intellettivo principio. Udiamo l' ultima ragione che reca l' Aquinate: [...OMISSIS...] . Il quale argomento viene a dire così: Se il corpo producesse l' anima, o l' anima dovrebbe essere una sostanza corporea, oppure una modificazione, un atto del corpo stesso. Sostanza corporea l' anima non è: e non è nè pure una semplice modificazione o atto di un corpo, poichè un tal atto non è sostanza per sè. Dunque l' anima non può esser fatta dal corpo. Ma per condurre la cosa all' evidenza e rimuovere ogni dubbio sulla partizione che abbiamo fatta della questione, volgarmente una, in due diverse, basterà recitare qualche passo di S. Agostino e mostrare che quando si tratta di dedurre l' anima dall' anima, niente risolve (2), e piuttosto il tengo favorevole, che contrario (3). Laddove quando trattasi di dedurre l' anima da corporea materia, è risoluto in negarlo come un errore manifesto e pernicioso. Pigliamo sott' occhio la lettera che il santo Dottore scrive a Ottato, il quale aveva proposta a S. Agostino la questione dell' origine dell' anima e ricercato il suo parere. Si veda adunque in qual parole tale questione era proposta. Dimandavasi: se le anime nascano per propagazione come i corpi e vengano da quell' una che nel primo uomo fu creata? (4). Parlasi dunque di trar l' anima dall' anima; e non altro. Or su questa ecco come si tiene in bilico S. Agostino. Egli dice: [...OMISSIS...] . Egli è dunque questo il costante modo di pensare di S. Agostino, quando si tratta di propaginare l' anima dall' anima. Ma vuolsi vedere all' incontro, come egli la senta quando trattasi di una propaginazione dell' anima materiale? Il santo Dottore avvertì benissimo che alcuni materializzavano l' anima col farla venire dai corpi, e fa colpevoli di questa sentenza i seguaci di Tertulliano, de' quali ecco come ragiona: [...OMISSIS...] . Or che cosa qui soggiunge il santo Dottore? Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Or dunque non era dubbioso S. Agostino se l' anima nascesse dal seme corporeo, che è la proposizione chiamata eretica da Tommaso. Ma ciò che non trovava assurdo, sebbene oscurissimo e inintelligibile, era che l' anima potesse propaginarsi dall' anima. Il primo diceva un errore sopra ogni altro pernicioso, un sogno e sino una pazzia; nel secondo vedeva un mistero. Il perchè, tosto dopo ripreso l' errore di Tertulliano, soggiunge: [...OMISSIS...] . Intorno alle quali cose conchiude che [...OMISSIS...] . Dalla storia della questione dell' origine dell' anima fin qui esposta apparisce, aver essa avuto tre periodi. Il primo anteriore al pelagianismo, nel quale essa non fu mai trattata di proposito, nè sottoposta a un rigor teologico. Il secondo, che comincia da Sant' Agostino, indottovi a trattarne per cercare un modo di spiegare la propagazione del peccato originale, e che non venne a capo d' altro se non di dichiarare la questione insolubile; e questa sua sentenza fermò ogni altra investigazione e fu tenuta per indubitabile almeno sette secoli. E il terzo, a cui diedero luogo gli scolastici, i quali, si può dire, diedero nuovo movimento agli intelletti che da tanto tempo riposavano; periodo che toccò il suo colmo in S. Tommaso, il quale, omessa ogni altra ricerca, tolse a dichiarare essere sentenza condannata dalla Chiesa di dire che le anime si propagano come i corpi (1). E dopo tanta autorità ognuno tenne la cosa per definita: senza però badare che S. Tommaso non condannò la sentenza se non a quel modo che veniva attribuita a Tertulliano e Apollinare (2) e che induceva irreparabilmente nel materialismo, il quale è certamente riprovato dal giudizio ecclesiastico. Ed egli è appunto perchè rimane, anche dopo la trattazione dell' angelico Dottore, una via alla disputa non chiusa dal giudizio perentorio della Santa Chiesa, che degli eccellenti teologi dichiararono la dottrina della quotidiana creazione delle anime non essere punto cosa di fede; fra i quali è l' Estio (3), il Berti (4), il De Rubeis (5), il Noris (6), e il Bellarmino (7). E così sarebbero rimaste le cose, se lo spirito umano non avesse ricevuto nei tempi moderni una nuova scossa e movimento dalle scuole de' filosofi: il che diede luogo a un quarto periodo nella storia della questione che noi trattiamo. A questo diedero origine le ricerche dei naturalisti (ai quali la filosofia moderna deve il suo primo movimento inquisitivo, come già nella Grecia) intorno alla generazione e allo sviluppo dei germi. Perocchè par loro di ritrovare i germi sì delle piante, che degli animali, non crearsi mai, ma non altro fare che svilupparsi, come quelli che sono ravviluppati gli uni negli altri continuamente: sicchè nelle ovaie delle prime femmine fosser già posti da Dio tutti i germi delle piante e degli animali che dovevan poi nascere. Cosa a cui la impercettibile lor piccolezza non fa punto di ostacolo, dopo che si è conosciuta la divisibilità per poco indefinita della materia e la sottigliezza a cui ella può pervenire, come vedesi nella luce e suoi colori e nella diffusione degli odori e negli animaletti microscopici (1). Or questo sistema de' germi involti diede cagione a Leibnizio di immaginare che a questi germi fossero già annesse le anime fino da principio e così gli animali tutti esistettero creati da Dio a principio, a tale che altro non facesse la generazione se non edurli alla luce e dar loro il successivo e convenevole crescimento. Quasi nello stesso pensiero caddero molti altri filosofi contemporanei di Leibnizio, tra quali lo Swammerdam, il Malebranche, il Baile, il Picarne, l' Hartst”ocker, e altri. Vero è però che Leibnizio affermava, riguardo all' uomo, che non preesistessero nella prima madre se non delle anime sensitive e animali, dotate bensì di percezione e di senso, ma prive di ragione, cui acquistassero poi mediante la generazione (2). Ma confesso di non sapere come egli intendesse che quelle facessero un tale acquisto: in che sta appunto tutto il forte della questione (3). Leibnizio fu seguitato dal Canzio (4) ma principalmente da Cristiano Wolfio, il quale però suppone inchiuse nell' ovario di Eva le anime spirituali e però intellettive, e non già puramente animali e sensitive (5). Si andò finalmente ancora più in là e si arrivò sino a dire che le anime inchiuse nel corpo di Adamo o di Eva ricevettero da Dio, insieme coi primi parenti, il precetto, e lo hanno insieme con lui, sebben men gravemente, violato (6). Non si può confondere in alcuna maniera col sistema Leibniziano e Wolfiano l' opinione da noi proposta sopra l' origine dell' anima. Perocchè sebbene noi supponiamo vera la preesistenza dei germi, tuttavia questi non sono già per noi dei piccoli animaletti, nè molto meno degli omicciuoli, ma de' puri germi, i quali diventano poi animali da sè per la generazione. Se non che noi abbiamo dato di questa una spiegazione tratta dalla natura dell' animale cui abbiam definito: un sentimento che sussiste da sè, in quanto esso si considera come principio senziente (1). Or noi abbiamo veduto che questo sentimento in ogni animale ha per materia il continuo, il quale non ha parti, e però tanti sono i sentimenti semplici quanti i continui. Il continuo però è divisibile, formandosi di un continuo solo due o più continui minori: e però se questi minori continui sien tali che possano sussistere come materia di sentimento (il che dipende da certe leggi fisiche, chimiche e animali), in tal caso la divisione del continuo ha fatto nascere due sentimenti per sè sussistenti, i quali, considerati come senzienti, sono altrettanti animali. Così ho spiegato la generazione negli animali più imperfetti come i polipi, i quali per diventare di un animale solo due o più, basta segarli con certa avvertenza in due o tre parti, senza bisogno di far altro. Perocchè le parti che ne nascono sono tali che corrispondono alle leggi fisiche, chimiche e animali che presiedono alla conservazione della materia animale; cioè a dire, le parti che si fanno di un animale solo ciascuna ha in sè un cotale equilibrio di forze per le quali si può conservare nello stato suo e non perdere quel tessuto e quella organizzazione che è necessaria a conservare l' animalità. Secondo gli stessi principii: 1. di una divisione che succede nella materia del sentimento; e 2. di un equilibrio o sistema di forze che conservasi nella materia divisa; spiegasi anche ogni altra maniera di generazione che avviene nelle diverse specie di animali più perfetti. Dove si vede che il seme del maschio non è, assolutamente parlando, necessario alla generazione; e forse anche negli animali perfetti esso non fa se non dare al germe quell' attività e forza vitale, per la quale, anche staccato nel debito modo dalla madre, possa avverarsi quell' equilibrio di forze, di cui abbiamo ragionato, il qual valga a conservare quella massa carnea staccata dalla madre in istato normale, cioè atto a conservare la vita e il sentimento e avere un dato particolare sviluppamento. Chè ove anche alcune particelle del seme virile si apprendano al germe e con esso lui s' impastino (forse delle parti sottilissime e quasi un' aura vitale che da esso spiri), la cosa però sarebbe la medesima: poichè queste particelle non sarebbero mai morte, ma vive e col vivo germe contemperate, sicchè dal maschio e dalla femmina, come da una sola carne, si staccherebbe quella vivente materia che, appena staccata e unita, sarebbe un animale. Generato così l' animale, che non è se non il costituirsi un sentimento da sè, a cui è inerente di sua natura il principio senziente; non è più difficile il concepire come il principio che è senziente diventi anche intellettivo, dopo che è stato ritrovato, essere l' intelletto null' altro che il sentimento dell' ente. Perocchè solo che si renda l' ente percettibile, egli è già con questo prodotto anche il percipiente: ciò che è conseguenza di quel principio, che ove si dà in natura la percezione, nella percezione si comprende il percipiente; come nel sentimento si comprende il senziente. Ora nella generazione umana noi diciamo succedere contemporaneamente, che l' animale si costituisca col precidersi e confondersi delle parti che costituiscono l' embrione; e che si costituisca l' intelligente principio coll' essere data al medesimo la veduta dell' essere. La quale veduta è già da principio conceduta all' umana natura a sola condizione che questa si costituisca nella sua parte organica: ed è data perciò a tutti i discendenti del primo uomo con quell' atto stesso con cui fu data al primo uomo. In tal modo non è che l' animale e molto meno l' anima intelligente preesista nei padri, ma bensì in essi esistono i germi o rudimenti, i quali in virtù della generazione stessa dell' umana natura, tal quale la fece Iddio da principio, si costituiscono poi naturalmente quasi sarei per dire in uomini. Egli è difficile conciliare molti passi delle divine Scritture colle opinioni da questa diverse; e confesso che la maniera nella quale i seguaci di quelle opinioni hanno tentato di conciliare con le medesime i luoghi delle Divine Scritture, non mi pare scevra di un cotale sforzo, e quasi direi che li traesse dal senso loro più ovvio e naturale. Tuttavia non essendo paruto a S. Agostino di trovare passo nelle Scritture che assolutamente recidesse la questione e che non potesse essere altramente inteso, io non vorrò dire il contrario. Ma sottoporrò a qualunque uomo equo e ai teologi di buona fede qualche testo, perchè veggano se non forse egli dalla nostra sentenza dell' origne dell' anima venga a ricevere l' interpretazione più piana e naturale. Iddio dopo aver creato l' universo, come dice la Genesi che riposò da ogni opera che aveva fatto (1): e in memoria di questo suo riposo stabilì il settimo giorno, dedicato al Signore, nel quale era interdetto agli Ebrei qualsiasi opera materiale e servile, a ricordo appunto di quella cessazione dal creare che Iddio aveva fatto, compita ch' ebbe l' opera dell' universo. Ora non è vero, che se si fanno a Dio creare continuamente dell' anime intieramente nuove, conviene fare una eccezione a quel gran riposo del sabbato e a quei passi tutti dove si legge che il cielo e la terra e ogni parte dell' universo era stata compita, sicchè non restava più altro a Dio che il conservare? O conviene almeno dare a quel luogo solenne una interpretazione sottile e tirata dalla lungi? In un altro luogo dice la Scrittura che Iddio fece a un tratto tutte le cose: « Fecit omnia simul (1) ». Le quali parole pure nella sentenza nostra vengono ad avere il più naturale significato. Perocchè in essa con quell' atto di Dio, che Mosè esprime con questa frase: « Inspirò nel suo volto lo spiracolo della vita« (2) »; verrebbe ad avere dato il principio intelligente alla umana natura e perciò a tutti i suoi individui; conciossiacchè quell' atto significherebbe propriamente aver dato l' ente a percepire ad essa natura. E questa interpretazione appunto dell' « inspiravit in faciem eius spiraculum vitae », è la sola, per quanto io ne capisco, che possa render chiara e giustificativa ragione di una maniera di dire così sublime. Perocchè se per quello spiracolo della vita (3), s' intende l' ente percepibile, allora nulla ha in sè che tiri al panteistico quell' espressione o che favoreggi l' assurdo sistema delle emanazioni. Conciossiacchè l' ente è veramente una appartenenza della divinità, un cotal raggio del Verbo divino; e però egregiamente si dice che questo ente è spirato da Dio medesimo e corrisponde a quell' altro passo di Giobbe: « Negli uomini vi è lo spirito, e la ispirazione dell' Onnipotente dà l' intelligenza« (4) ». All' incontro quelli che intendono per lo spiracolo della vita l' anima umana in quanto è soggetto, e non l' oggetto di quest' anima, l' ente, questi e devono sfuggire d' intendere quelle parole alla lettera e deviarle dal loro ovvio significato, o far l' anima una particella emanata dalla divina sostanza. E qui di passaggio siami lecito l' osservare che conviene intendere colla stessa avvertenza certe espressioni dei Padri della Chiesa, nelle quali fanno l' anima umana quasi una particella di Dio. Nell' anima vi è l' ente, e questo è il divino dell' anima, questo un riflesso, uno spiro di Dio: l' anima non è l' ente ma il vede, e per questo ella è così sublime, per questa sua congiunzione con un elemento divino, e attribuita a lei, quasi direi contenente ciò che spetta al contenuto, son date a lei delle divine attribuzioni. Per questa S. Giustino nel dialogo con Trifone chiama l' anima « Reginae mentis particula (1) ». Taziano allo stesso modo dice dell' uomo che è una porzione di Dio (2). Delle espressioni uguali si trovano in Clemente Alessandrino (3) e in S. Ireneo (4). Tertulliano dice che l' uomo è animato dalla divina sostanza (5): espressione con cui egli commenta il soffio divino della Genesi. L' autore delle false Clementine dice pure che l' anima ha una stessa sostanza con Dio (6). E Sinesio nelle sue poesie non dubita di chiamarla: Semente di Dio, scintilla del suo spirito, figlia, parte di Dio stesso. Nella sentenza da noi proposta ricevono parimenti un ragionevole significato alcune singolari espressioni de' Padri: come quella di S. Metodio che dice « il seme umano contenere, per così dire, una parte divina di potenza creatrice« (7) ». Perocchè ciò viene a dire pel seme essere il germe condotto a farsi animale intelligente, cioè a ricevere tale stato, nel quale possa vedere quell' ente che Dio ha fatto visibile fin dal principio agli individui della umana natura. E maggior verità e evidenza pure riceve quel dire del Genesi: « Tutte le anime che sono uscite dal femore di Giacobbe« (.) ». E quelle di S. Paolo ove dice che Levi fu decimato nei lombi di Abramo (9). E chi volesse sostenere che Dio crea di tutto punto l' anima e la mette nel corpo viziato, parmi che, di buona fede parlando e senza prevenzione alcuna, incorrerà una difficoltà grandissima nel conciliare in modo persuadente la giustizia e bontà divina con questo fatto. Perocchè questa sostanza spirituale non potendo uscire dalle mani del Creatore se non pura, senza alcuna colpa precedente, innocente e perfetta, difficil cosa è il pensare che ella, senza alcuna sua colpa precedente, sia condannata nel carcere di un corpo corrotto e astretta per necessità e violenza di esso corpo a rendersi fino dal primo momento della sua esistenza peccatrice. Io so bene che si suole assottigliarsi per dare una plausibile risposta a tanta difficoltà: ma so ancora non potersi dissimulare che in quelle risposte, se io punto nulla intendo, manifestasi più che altro uno sforzo di salvare la teoria preconceputa. Il perchè il dottissimo Gazzaniga, dopo aver recate queste soluzioni (1), ingenuamente soggiunge così: [...OMISSIS...] . All' opposto nella nostra sentenza Iddio diede l' intelligenza alla natura umana con quel soffio, col quale animò Adamo, e poscia non fece se non lasciare che essa natura si moltiplicasse per se stessa. Perocchè supponendo che in quel primo atto Iddio avesse posto, per così dire, visibilmente innanzi alla umana natura l' ente, dalla parte di Dio era fatto tutto, e solo restava a fare da parte della natura umana, cioè a generare; perocchè ciò che venia generato da questa natura avea sempre dinnanzi da sè l' ente, onde attinge l' intelligenza e nasce per tal modo l' anima intellettiva. Si consideri ancora che solo supponendo vera la nostra sentenza, prende sua forza quella ragione per la quale S. Tommaso risponde alla difficoltà, come l' anima venendo non dall' uomo, ma da Dio, ricever possa per eredità il peccato originale. Perocchè la sua risposta è questa: [...OMISSIS...] . Ora che cosa è l' umana natura? Non certo il solo corpo, ma il corpo e l' anima insieme, e principalissimamente l' anima intellettiva che costituisce la specifica differenza di questa natura. Or dunque sarebbe egli vero che per virtù del seme si traduca l' umana natura, non traducendosi se non il corpo, sebben disposto in modo idoneo a ricever l' anima? Non veggo in che modo. All' incontro se il principio senziente, che si traduce pel seme, è già di natura sua, tosto che è costituito, ammesso alla visione dell' ente e così costituito intellettivo, prende un senso verissimo il dire che la natura umana si traduce per virtù dell' umana semente. Si consideri ancora come solo nella nostra sentenza si senta tutta la verità di quel celebre passo di San Paolo: « Eravamo PER NATURA figliuoli d' ira« (1) ». Perocchè la nostra natura, per dirlo di nuovo, è composta di corpo e di anima, e questa ne è la parte principale e formale, mentre il corpo non è che la parte materiale. Il solo corpo non siamo noi , ma l' anima anche sola può pronunciare questo monosillabo NOI: al corpo non appartiene l' ordine morale, e però solo nell' anima si trova giustizia o peccato. Or come, in senso proprio e stretto, potrebbesi dire che per la nostra stessa natura (2) fossimo figliuoli d' ira, se l' anima è di sua natura creata pura e monda e solo rimane viziata non per la sua origine divina, ma pel corpo nel quale s' introduce o dove si crea? All' incontro se l' anima si produce insieme coll' uomo in virtù di quell' ente che è legato coll' umana natura, egli è nel più stretto senso della parola che noi siamo figliuoli d' ira per natura, cioè per lo stesso nostro nascimento (3), per le leggi che presiedono al contemporaneo nascimento del corpo insieme e dell' anima, in una parola dell' uomo. Chiamo ancora ad osservare quelle altre parole dell' Apostolo, dove toccando in che modo tutti gli uomini nascano infetti da peccato dice: « Che il peccato entrò in questo mondo per un solo uomo - NEL QUALE tutti hanno peccato (4) ». E il sacro Santo Concilio di Trento dice: «« Che NELLA PREVARICAZIONE DI ADAMO tutti hanno perduto l' innocenza« (5) ». Quel testo dell' apostolo che i Concilii ecumenici hanno ripetuto o parafrasato merita tutta l' attenzione. Egli è evidente che si esprime in esso una congiunzione fra il padre dell' uman genere e i suoi discendenti siffatta, per la quale possa passare il peccato dall' uno negli altri. Tutti i Padri, su questa autorità di S. Paolo e altre somiglianti delle divine Scritture, parlano di una unione e comunanza fra il genere umano e Adamo loro capo. Ora tutti questi luoghi dei Santi Padri e quelli delle Scritture sui quali insistono non possono essere intesi nel loro vero significato, in tutta la loro forza, se non allora quando sia ben chiarita la natura di questa comunione e unione di tutti noi con Adamo. Udiamo a ragione di esempio S. Ambrogio. Egli dice: [...OMISSIS...] . Or resta a vedere in che modo appunto io fossi in Adamo, in lui peccassi, in lui fossi scacciato dal paradiso; in che modo tutti gli uomini non fossero che quell' uno e solo Adamo. Alcuni proposero una unione morale o sociale. [...OMISSIS...] . Usa anche S. Tommaso la similitudine delle membra che sono colpevoli e punite del peccato commesso dal capo. Ma egli è evidente che questi esempi, sebbene giovino a far concepire una cotal congiunzione fra i posteri e il primo padre, tuttavia non giungono a dimostrare l' intrinseca ragione della trasfusione del peccato originale e la inerenza interna di questo peccato al fanciullo che nasce di nuovo: come confessa anche il valente Domenicano Pietro Maria Gazzaniga (4). Perocchè non si può dir seriamente che una mano sia colpevole o che una mano si punisca; ma solo per un cotal modo traslato: e la imputazione che si fa ai membri di una società pel peccato del capo, in cui essi non abbiano avuta alcuna parte, nè l' abbiano potuto impedire, non può essere vera imputazione morale, ma solo una cotal imputazione legale per la quale sono involti in una pena che, considerata intrinsecamente, o non è pena, ma disgrazia, come una famiglia incendiata per negligenza di un membro che appiccò il fuoco alla casa; o se ella si dà per pena, è pena ingiusta. Vi ha dunque bensì fra i discendenti di Adamo e il padre una unione morale e sociale: ma questa, eziandio che bastasse a spiegare in qualche modo la trasfusione della pena, non basterebbe però a rendere una ragione plausibile della trasfusione del peccato (1). Altri proposero una unione intellettiva fra il genere umano e Adamo, cioè consistente nell' unità della natura o specie. Giacchè il comunicare più individui nella natura, come abbiamo altrove notato, non è altro che l' avere una stessa relazione coll' intelletto che tutti li percepisce con una sola idea o specie, la quale è appunto il fondamento della natura comune (2). Quest' unione di specie è toccata universalmente dai Padri. S. Ambrogio dice: [...OMISSIS...] . Ma ne è pur questa unione intellettuale, o di una medesimità di specie, sebbene vera, e atta anch' essa a facilitarci il modo d' intendere l' unione nostra fisica con Adamo, non è però bastevole a rendere ragione della trasfusione del peccato. Perocchè una tale unione è vera nell' ordine delle idee e non nell' ordine delle realità: e il peccato all' incontro appartiene a questo secondo ordine, non al primo. Nè fa bisogno in ciò insistere molto, quando si può dire essere cosa di fede o prossima a [esser] di fede, che il comunicare nella specie non basta a comunicare nel peccato: perocchè se bastasse, Cristo stesso che comunica nella specie, doveva esser soggetto al peccato. Ma la cattolica dottrina anzi insegna che Cristo ne fu immune: e ciò non per alcun privilegio, ma sì bene perchè egli non fu concepito per opera umana, ma dello Spirito Santo. Sicchè è intrinseco nella dottrina cattolica il principio che solo per la generazione si trasfonda il peccato e che in questa vi abbia un' unione non pur morale o sociale, non pur intellettiva o di specie, ma fisica fra il padre ed il figlio. Ora hassi a considerare che quest' unione, perchè sia vera, deve succedere fra la natura del generante e la natura del generato. E parlandosi di uomini, questa natura è un composto sostanziale di anima e di corpo, e non è il solo corpo: e perciò perchè vi abbia fra l' uomo generante e l' uomo generato l' unione di che parliamo, conviene che tutto l' uomo che genera sia legato e comunicante con tutto l' uomo che vien generato, altramente le due nature non hanno legame fisico insieme ma pur solo lo ha una parte della natura generata, la quale nè costituisce la detta natura, nè riceve il nome con cui la medesima natura si appella. Vi ha dunque una terza unione fra i posteri e il primo parente, e questa è fisica, unione e comunicazione di natura con natura: e questa sola rende un' acconcia ragione della trasfusione del peccato originale. Questa è intrinseca al sistema cattolico, per quanto a noi pare: questa è indicata nei passi delle divine Scritture e massime in quelli di S. Paolo: e per misteriosa che ella sia, non si può in alcun modo rifiutare. Or ella non può, se io nulla intendo, aver luogo se non nella sentenza dell' origine dell' anima che noi abbiamo proposta. Perocchè venendo l' anima creata di tutto punto da Dio, essa non comunicherebbe fisicamente con Adamo, col quale non rimarrebbe in comunicazione se non la bruta materia. E dico la bruta materia , perocchè quel Dio che creasse l' anima intelligente, creerebbe anche l' anima animale conciossiacchè non vi sono nell' uomo due anime, ma un' anima sola. Egli è vero che la sentenza da noi proposta non occorse fosse alla mente con tutta chiarezza degli uomini grandi dell' antichità: ma S. Agostino però diceva, che egli non proferiva giudizio sull' origine dell' anima, poichè non riputava impossibile che altri dopo lui trovasse il modo di ben accertare questa origine (1); e d' altro lato non deve recar molta meraviglia che dopo trascorsi tanti secoli, dopo fatte tante investigazioni e tentativi, dopo accresciute le scienze di tante osservazioni positive, venga acquistando luce qualche verità metafisica che prima solo si travedeva. E certo si travedeva, sebbene non si potesse chiarire interamente e liberare dalle difficoltà che si affacciavano: si travedeva, dico, scorti dalle autorità delle Scritture e dai dogmi cattolici che nel loro seno racchiudono le più profonde notizie della natura umana, ma che non è necessario sempre il penetrarle, ma solo il credere i dogmi stessi. In tanto colla fede de' dogmi si conservano nel mondo quelle notizie, fino a tanto che quasi direi uscendo dal profondo dell' oscurità in cui sicuramente si custodivano e venendo a galla secondo l' ordine della divina Provvidenza, sono donate agli uomini da quel Dio che rende sempre più splendida la parola del suo Verbo e ai bisogni degli uomini nei varii tempi diversamente la apparecchia. E che almeno oscuramente la verità di cui parlo si trovi deposta negli scritti di quelli che dànno testimonianza nella successione de' tempi alla cattolica verità, mi varrà a provarlo tutti quei passi dove i Padri della Chiesa parlano della comunicazione reale e fisica di Adamo co' suoi figliuoli, e in questa ripongono la vera ragione della trasfusione del peccato, dentro ai quali passi e quasi direi come sostrato potrà vedersi giacere la nostra dottrina. Si ponga attenzione primieramente a questo passo del gran Vescovo d' Ippona, dove accenna quella congiunzione fisica di cui parliamo: [...OMISSIS...] . Si noti in che modo S. Agostino dica qui che tutti nella natura di Adamo erano un solo uomo; ecco il modo: «ILLA INSITA VI QUA EOS GIGNERE POTERAT ». Il medesimo Santo Dottore parla di questa congiunzione fisica nel libro I dell' Opera imperfetta in questo modo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole il Santo Vescovo confessa che in quella esistenza de' figli nei lombi de' Padri, toccata dall' Apostolo, si nasconde un vero profondo e misterioso; che ci confessa di avere bensì il desiderio di vedere e penetrare, ma che pure non ispiega: ed esorta tuttavia Giuliano, contro cui scrive, a tenerlo per fede, quantunque per argomento d' intelletto nol vegga (1). La stessa parola solenne di originale che si dà al peccato adamitico mostra la congiunzione fisica e propria di cui parliamo, secondo la quale origine , dice S. Agostino, tutti erano in quell' uno e questi tutti erano quell' uno, quando in se stessi ancora non erano (2). E questa origine, per mostrare che è la origine generativa del figlio al padre, è chiamata dallo stesso santo Dottore seminale . [...OMISSIS...] E chi considererà tutto il parlare delle Scritture, troverà che nelle stesse frasi, nelle parole, nella lingua scritturale insomma vi è inserita e supposta la sentenza dell' origine dell' uomo da noi indicata: così che questa sentenza, per misteriosa e difficile che possa parere, forma per così dire il fondo dell' eloquio biblico. Si consideri, a ragion di esempio, come i figliuoli sono, secondo quelle maniere di parlare, il padre stesso. Che cosa è il popolo ebreo? E` Abramo ovvero Giacobbe. Che cosa sono i discendenti di Davide? E` Davidde stesso. Giacobbe ossia Israello è quello che entra nella terra promessa; e tutto ciò che gode o soffre la discendenza di questo patriarca, è Giacobbe che il soffre, e che il gode (5). « A te darò questa terra« » dice Iddio ad Abramo (1). « Ti farò regnare in sempiterno« » dice Dio a Davvidde (2). Nei figli è il padre stesso il quale si moltiplica. « Io farò crescere te oltre modo, dice Iddio ad Abramo, e porrò te nelle genti« (3) ». I figliuoli son chiamati ancora il seme del padre e talora la scintilla (4). Si dice che tutte le generazioni saranno benedette in Abramo, volendo dire nel suo gran figliuolo Cristo (5). Egli è per questa maniera di vedere il padre propaginato nel figlio, che le divine Scritture parlano di Cristo sotto i nomi di Adamo, di Abramo, di Davidde e di Salomone, e questa è la chiave per la quale somiglianti profezie si possono letteralmente interpretare, e senza bisogno di alcuna stiratura. Or solamente nella sentenza sull' origine dell' anima da noi esposta tutti questi passi delle divine Scritture si fanno chiarissimi: altramente l' interpretazione loro ha bisogno di una certa condiscendenza, che tutti non sono presti egualmente di concedere. Finalmente si consideri ancora un passo dell' Apostolo, de' molti che potrei addurre, e sarà questo: « Siccome tutti muoiono in Adamo, così e in Cristo tutti saranno vivificati« (6) ». Ora in che modo nasce la vivificazione di Cristo? Per la rigenerazione. E in che modo la morte? Per la generazione. Or la rigenerazione si fa, come abbiamo altrove veduto, perchè Cristo ci comunica un principio nuovo vitale. Simigliamente la generazione ci deve comunicare un principio di morte spirituale. Questi due principii sono indicati dall' Apostolo in quel passo: « Il primo uomo fu fatto in anima vivente; e il secondo in spirito vivificante« (.) ». Per la generazione adunque si ha l' anima che dà la vita naturale: per la rigenerazione si ha lo Spirito Santo che dà la vita soprannaturale. La prima, infetta di peccato e morta: il secondo, incorruttibile giustizia e immortalità. Nella prima al soggetto è dato una imperfetta visione dell' ente: col secondo una incipiente visione di Dio (9). Nella medesima sentenza della origine dell' anima cadono a terra tutte quelle obbiezioni che i Pelagiani e i filosofi fanno contro il peccato originale e che troppo a lungo ci menerebbe il riferirle. Ma non credo però inutile anzi necessario il mostrare quanto si avvantaggi quest' opinione sopra quella degli scolastici: il che farò toccando le difficoltà che implica quest' ultima sentenza e di cui va immune la nostra. Al che fare destineremo un apposito paragrafo. Una sentenza di Aristotele, che non posso mai a meno di ammirare ove che la consideri, si è quella ove trattando della generazione degli animali e facendo venir tutto dal principio generatore, continuamente applicando all' uomo la sua dottrina, conchiude con queste parole: « Rimane adunque che il solo intelletto venga dal di fuori« (1) ». Questa sentenza direbbe tutto, se invece di dire l' intelletto, dicesse il lume dell' intelletto (2). Poichè la parola intelletto può racchiudere anche il principio soggettivo; laddove ciò che viene dal di fuori è il solo oggetto , dal quale, nella nostra sentenza, viene edotto all' atto anche il soggetto percipiente. Gli scolastici adducono in loro favore questo luogo di Aristotele; ma egli non può valere, preso nel senso in cui lo dice Aristotele, se non nel sistema delle tre anime separate, le quali sono giustamente rifiutate dalla Scuola (3). Insegnando dunque questa, che l' anima intellettiva è creata di tutto punto da Dio, quest' anima stessa, come essi dicono, racchiude anche dell' anima sensitiva e della vegetabile. Però in questo sistema non è più il solo intelletto che venga dal di fuori, come dice Aristotele, ma è ben anco il principio del sentire e del vegetare, in una parola l' anima tutta con tutte le sue parti e potenze. Ma esponiamo brevemente il sistema della Scuola intorno all' origine dell' anima umana; e poi additiamo le difficoltà che esso involge. Dicono adunque gli scolastici, che in primo luogo l' embrione è animato da un' anima nutritiva o vegetabile; ma che questa nello sviluppo dell' embrione si corrompe e a lei succede un' anima sensitiva; e finalmente si corrompe anche questa, e Dio allora vi crea un' anima intellettiva, la quale ha in sè le proprietà anche delle due precedenti. Ora su questa dottrina primieramente osservo, che l' anima vegetabile par cosa del tutto abbandonata: e però in questa parte non credo che nessuno t“rrà a difendere oggidì la sentenza scolastica. In secondo luogo il progresso delle osservazioni sullo sviluppo del feto umano, fa credere inverisimile che esso venga animato con anima umana solo dopo tanti giorni dalla concezione, come pone Aristotele, ma che piuttosto abbia l' anima sin dal principio del concepimento. Opinione che viene anche ricevendosi dalla Chiesa, giacchè ora certo in molti luoghi non si tralascia di battezzare, ove ciò sia possibile, anche l' aborto, almeno sotto condizione. Finalmente si consideri come torni forte a dover credere che prima s' abbia un' anima sensitiva nel feto, la quale si corrompe e perda; e poi v' abbia quella che Dio vi crea in suo luogo. Perocchè a qual fine un' anima sensitiva, se ella non è fatta se non per corrompersi? Forse per apparecchiare il corpo a ricevere l' intellettiva? Ma egli può essere apparecchiato senza lei, nel punto che l' anima intellettiva non entra se non dopo che ha sgombrato la sensitiva: perocchè altramente si troverebbe un istante, nel quale si troverebbero due anime in un corpo, l' una sensitiva e intellettiva l' altra. Dunque quando l' anima intellettiva entra nel corpo, essa non trova già un corpo animato da un' anima, ma il trova privo di anima; e un corpo privo di anima non ha bisogno di un' anima per apparecchiarsi a essere tale. Conciossiacchè corpo privo di anima non può avere altra disposizione che quella che consiste in un cotal ordine delle sue particelle materiali, ed ogni altro atto che appartenga alla vita anche animale, il deve ricevere dall' azione dell' anima intellettiva, che ha in sè anco la virtù sensitiva. Oltre ciò, se l' anima sensitiva si corrompe e si perde, in che modo avviene essa questa corruzione? Si fa in un istante o per successione di tempo? Se per successione di tempo, vi sarà dunque nel feto un' anima mezzo corrotta e mezzo non corrotta prima che entri l' anima intellettiva. E questo stato di mezza morte, questa vicissitudine a cui andrebbe soggetto il feto, non la mostrerebbe alla osservazione? E che nessun osservatore n' abbia mai trovato indizio? Ancora, l' anima intellettiva entrerà quando l' anima sensitiva è corrotta tutta, o quando è corrotta una parte? Se quando è corrotta tutta, dunque entrerà nel feto già morto. Se quando è corrotta una parte, dunque vi sarà un momento, nel quale il feto avrà in sè un' anima intellettiva e un' anima sensitiva mezzo corrotta. Se poi l' anima sensitiva si corrompe in un istante e in quel medesimo istante entra l' anima intellettiva, come mai il feto non darà nessuno indizio di questa gran metamorfosi? L' anima sensitiva è pur anima vera e propria del feto: or come si potrà ella staccare da lui, come si potrà corrompere e perir l' anima che è sua propria, senza che egli punto nol senta? Mutar l' anima a un corpo è egli poco? Sopravvenendo poi in un istante l' anima intellettiva, quale immenso passaggio! qual salto! un essere tramutato in un punto da bestia in uomo! Ma vi ha di più. Vi ha egli un modo possibile a concepirsi nel quale un' anima sensitiva perisca, se non corrompendosi il corpo a cui è aderente? Noi appronfondendo la natura dell' anima sensitiva, abbiamo trovato che essa è indivisile dal corpo, che forma la sua materia: che la materia del sentire e il principio senziente non formano che una sola individua natura, e che l' una ripugna a immaginarsi senza l' altra. Ora dato adunque un corpo animato, una materia del sentire, è dato pure un principio sensitivo, un' anima. Ma questo principio sensitivo non è mica cosa che si possa staccare da quella materia, perchè staccata non ha da sè sussistenza. Essa è passiva e il corpo a cui aderisce è attivo: ella nulla può adunque soffrire se non dal corpo, giacchè l' azione del corpo è appunto quella che le dà la sussistenza. Sarebbe adunque non solo superiore alle forze create, ma al tutto assurdo e contradditorio l' ammettere che un' anima perisca, restando intatto e senza alcun detrimento il suo corpo; perocchè questo corpo animato continua nella sua azione medesima, se egli non si disorganizza e guasta. Egli è qui che batte anche la dottrina di Aristotele, che definisce l' anima sensitiva un atto del corpo. Se ella è un atto del corpo (definizione ricevuta dalla Scuola), è il corpo che deve soffrire immutazione e stogliersi dal suo atto, perchè l' anima sensitiva cessi di essere. Nè vale il dire che gliene vien data un' altra; perocchè prima si cerca come si corrompa la prima. Tanto più che il corpo animato non riceve nè più nè meno dall' anima intellettiva, perocchè questa non comunica col corpo in quanto è intellettiva, ma solo in quanto è sensitiva. Il corpo dunque non fa che cangiar forma, non punto diversa di natura, ma solo di numero. Ed è egli ciò possibile? E` egli ciò concepibile? Sarebbe come se si dicesse che una pera, a ragion di esempio, viene spogliata di quella forma e qualità di pera bergamotta, poniamo, per darle una forma in tutto eguale alla prima nè più nè meno! Non è un tal cangiamento di forme assurdo anche secondo i principii medesimi della Scuola? Conciossiacchè la forma è unica, e non viene individualizzata se non dalla materia: sicchè tai cangiamenti di forme non si possono intendere, quando non si immaginassero queste forme come tante camicie uguali, e il cangiar di forme che le sostanze fanno, si prendesse per un cangiare di camicie. Io non intendo se non un solo cangiamento di forme possibile, ed è quello appunto che descrive Aristotele medesimo, per successive corruzioni e generazioni. Ma il cangiamento dell' anima sensitiva e la sostituzione dell' anima intellettiva non serberebbe nè pure la legge imposta dal duce degli scolastici alla generazione di nuove forme. Perocchè nella corruzione e successiva generazione di Aristotele gli elementi sostanziali della cosa rimangono ed è la loro forma che solamente cangia. Laddove l' anima che viene creata da Dio nulla ritiene, nella sentenza scolastica, della precedente, e nasce non per generazione, ma per creazione: oltre che non è possibile che a lei si attribuisca un successivo formarsi come nella generazione. E pure la Scuola è sollecita di applicare all' origine dell' anima i principii della generazione aristotelica (1). E finalmente noi dunque non abbiamo l' anima che abbiamo ricevuto dai nostri padri per generazione: non abbiamo nè pure ricevuto da essi l' animalità nostra, mentre quella che avevamo ricevuta da essi, è perita: non abbiamo tratto dall' origine se non la pura materia bruta e inanimata di cui è composto il nostro corpo; ed in tal caso, nè pur questa, perocchè la materia bruta e inanimata si cangia continuamente nei corpi umani mediante le sempre nuove particelle che questi ricevono e da sè emettono. In tal caso sarebbe convenuto meglio, che Iddio avesse comandato ai primi padri, che prendessero a comporre e effigiare delle statue di creta e di loto, come aveva fatto egli stesso con Adamo, e che poi infondesse Iddio le anime in queste statue; perocchè questo modo di moltiplicazione sarebbe stato, in un tal caso assai più semplice e nessuna anima sarebbe con esso andata a male. Ma l' assurdo maggiore che voglio far notare nell' ipotesi scolastica si è, che per la infusione dell' anima intellettiva che succede alla sensitiva, è perduta l' identità dell' uomo. Perocchè in un animale o in un uomo, quando gli si cangi l' anima, non è più quel desso, ma è un altro: il perchè i genitori non avrebbero per figlio se non il feto fino che ha l' anima sensitiva; ma quando egli riceve l' anima intellettiva il loro figlio è perito, e non rimane più che un figlio di Dio. Conciossiacchè l' identità dell' animale e dell' uomo non consiste se non nell' identità del sentimento e della coscienza; e l' identità del sentimento e della coscienza dipende dall' identità dell' anima. Cangiate dunque l' anima, un altro sentimento, un' altra coscienza, un altro animale, un altro essere ne è divenuto, e non più quello che fu conceputo dal padre. Che se questo nuovo essere è venuto da Dio, se è venuto da Dio immediatamente non solo l' intelletto, ma ben anco la sua facoltà di sentire, insomma il principio intelligente e senziente, che è tutto ciò che vi ha di formale non solo nell' uomo ma anche nell' animale, come questa nuova creatura di Dio potrà trovarsi viziata dal peccato dell' origine, quando l' origine sua è purissima? E se vi avesse alcuno a cui piacesse di negare questa verità evidente, che l' identità dell' animale e dell' uomo consiste nell' identità del sentimento, e volesse farla consistere piuttosto nella identità delle particelle materiali, per soprabbondanza e non per necessità, io chiamerò costui a considerare, che come di sopra ho detto, in nessuna maniera si può provare l' identità materiale delle particelle che compongono un corpo umano, le quali sono in un continuo movimento e partono dal medesimo per dar luogo a delle nuove. Se non che io giungo fino a dubitare, che una tale sentenza rinserri delle conseguenze, le quali non si possano sostenere, salva la verità della cattolica fede: anzi tali io tengo che siano anche quelle che ne ho finora dedotte, chi ben addentro e senza prevenzione le considera. Ma tale poi soprattutto parmi che deve essere riputata la seguente. Io tengo intrinseco alla fede cattolica essere, che il peccato originale passi per generazione e perciò nell' atto della generazione. Io potrei addur qui una nube di definizioni e di testimonianze che autenticano questa sentenza: ma mi limiterò ad addurre, ciò che ha dichiarato il Concilio di Trento, il quale afferma che il peccato passa nel figlio nell' atto del concepimento. Io recherò le sue stesse parole, nè pur traducendole, perchè non si trovi cagione forse di cavillare sul volgarizzamento. Eccole quali sono: [...OMISSIS...] . Ecco adunque, che mentre sono concepiti gli uomini, dice il Concilio, ricevono l' ingiustizia. Dopo la conceziione il seme paterno non ha più da fare cosa alcuna; e cresce il feto da sè nel seno materno. Ora supponendo che il feto appena concepito non abbia che un' anima sensitiva, egli non potrebbe essere soggetto capevole di peccato e di ingiustizia, meglio che una bestia qualunque; argomento insuperabile, dove non si voglia eludere con delle sottili e vane distinzioni. Di più, quell' anima sensitiva non è quella che resta all' uomo, ma ella va perduta e ne entra un' altra creata di tutto punto da Dio. Dunque, quando ancora quell' anima sensitiva fosse soggetto capevole di peccato, andando essa a perire, perirebbe con essa il peccato ricevuto dai padri. E sebbene l' anima nuova che viene infusa da Dio, dopo quei tanti giorni assegnati dalla sentenza aristotelica (2), venisse viziandosi e corrompendosi pel contatto del corpo in cui viene infusa, come liquore da un vaso infetto; tuttavia l' ingiustizia in essa anima non comincerebbe se non allora allora, e non nell' atto del concepimento: e quindi in questo solo punto, cioè quaranta o venti giorni dopo il concepimento, comincerebbe ciò che avesse propria e vera ragione di peccato. Conciossiacchè tutto ciò che precedentemente vi fosse nel corpo non potrebbe essere che sensitivo e qualsivoglia altra qualità vogliasi imaginare, ma non mai cosa che abbia propria e vera ragione di peccato. Nè basta il dire, che tale istinto e morbosa affezione della carne animale diventa poi cagione di peccato nell' anima intellettiva che sopraviene perocchè inclina questa al peccato; giacchè ciò sarebbe al tutto contro la mente del Concilio Trentino, il quale definì che sebbene la concupiscenza e il fomite che rimane dopo il battesimo inclini al peccato e per questa cagione si chiami dall' Apostolo peccato (1), tuttavia non è questa il peccato originale, perocchè ella non è peccato in senso vero e proprio, come è il peccato originale. Sicchè nella sentenza scolastica il vero peccato originale non si trarrebbe dai parenti, ma dai parenti si trarrebbe solo una cotal mala affezione della carne, che produce poi il peccato nell' anima, quando Iddio la vi crea. E il dir questo non saprei come non fosse un affermar cosa contraria alla cattolica fede circa il peccato originale, ed alla mente dell' Ecumenico Concilio di Trento. Io ho parlato fin qui della sentenza scolastica a quel modo che la espone l' Angelico Dottore (2). Il più dei teologi moderni si contentano di dire, che Dio crea e infonde l' anima nel corpo, senza parlare del tempo e del modo in che succede questa creazione e infusione. Ma egli è manifesto che dove anche si supponga, che venga creata e infusa nell' atto del concepimento, molte delle difficoltà sopra indicate sussistono egualmente in tutta la loro forza, e principalmente l' ultima. Perocchè se egli è vero, come è verissimo, che nell' uomo non vi ha se non un' anima, la quale è sensitiva insieme e intellettiva, sarà pur vero che nell' atto del concepimento Iddio crea tutto ciò che vi ha nell' uomo d' intellettivo e di sensitivo; e che per ciò i parenti non somministrano che la pura materia bruta e inanimata. Or dunque ciò che viene da' parenti non è nè l' uomo nè l' animale, non siamo NOI che siamo figliuoli dei padri nostri, perchè questa parola NOI indica la nostra coscienza, il nostro sentire, e tutto il nostro intelletto e la nostra animalità. NOI dunque non abbiamo l' origine da Adamo, ma da Dio, e non possiamo per ciò trarre da Adamo alcun peccato, ma tutto al più possiamo venir viziati in virtù dell' azione che sopra di noi esercita una materia bruta, che essa, e non noi, è venuta da Adamo. Ne verrebbe parimente l' assurdo, che essendo l' uomo un animale come tutti gli altri, ed anzi il più perfetto di tutti, tuttavia egli solo nel generare farebbe meno di quello che fanno tutti gli altri animali. Perocchè tutti gli altri animali in generando producono ne' lor figliuoli delle anime sensitive e animali, mentre l' uomo sebbene abbia una maniera di generare simile alla loro, tuttavia non potrebbe produrre neppure un' anima sensitiva e animale, giacchè Iddio crea l' anima umana da sè intellettiva e sensitiva a un tempo: e all' uomo sarebbe solo riservato come diceva, quel tanto che farebbe un vasaio, il quale mentre fabbrica colle sue dita una statua di molle terra, Iddio suo compagno di operazione le fabbricasse interiormente l' anima. Il che, se così pure avvenisse, non potrebbe succedere che per un miracolo; terzo assurdo che contiene la sentenza che confutiamo. Conciossiacchè, giacchè l' uomo è pure un animale come gli altri ed ha pur come gli altri la facoltà generativa, solamente per un miracolo potrebbe essere la virtù di questa sospesa e impedita dal produrre almeno un' anima sensitiva. Sicchè quelli che ammettono che le anime umane sieno create e infuse nell' atto del concepimento, sono costretti di non ammettere già un miracolo solo, facendo intervenire Iddio Creatore nella natura e accusandolo così di non aver fatta questa natura a sufficienza perfetta, ma due, l' uno del crear l' anima, l' altro d' impedire la potenza generativa dell' uomo dal produrne una ella, come fanno tutti gli altri animali. Se non che dovendo esser questa potenza generativa nell' uomo continuamente sospesa, e non potendo giunger essa mai a produrre un animale, cioè un corpo animato, ma solo a somministrare della materia bruta, da essere animata da un' anima che Dio stesso crea e v' infonde; perchè Iddio dar pure all' uomo una tale potenza? Ad effigiare e comporre una massa senz' anima non è necessario deputare una potenza e un apparato generativo; ma una forza meccanica ed esterna è sola bastevole a ciò. Avrebbe dunque Iddio operato in questo solo e unico fatto della natura stoltamente; poichè avrebbe posta una potenza inutile, anzi una potenza che serve d' impaccio, impedimento, e la cui azione gli conviene contrariare e sospendere con dei continui prodigi. Una difficoltà si affaccia alla mente contro la nostra sentenza dell' origine dell' anima, quando questa non s' abbia perfettamente compresa. E io intendo qui di risolverla, appunto perchè ciò mi dà luogo ad agevolare la conveniente intelligenza della medesima. Si dirà adunque: l' anima sensitiva non sussiste per sè, ma solamente unita al corpo, di maniera che, distrutto il corpo, anche quella è dissipata e distrutta. Or come passa questa a sussistere da sè? E se diventando intellettiva, non si fa sussistente, ella rimarrà materiale o mortale? Ma io rispondo: L' anima sensitiva, ove il corpo a cui aderisce distruggasi, ella pure si strugge e si dissipa: ciò è verissimo. Ma perchè nasce questo suo dissipamento? Perchè le vien tolta la materia del suo sentire, e senza materia di sentire non vi ha sentimento, senza sentimento non vi ha principio senziente, e senza principio senziente non vi ha anima, perocchè esso principio è l' anima stessa. Cioè a dire, nel sentimento fondamentale che costituisce l' essenza dell' animale, io ho distinto due elementi, cioè il principio e il fine, il senziente, e il sentito. L' animale si distrugge perchè è distruttibile il termine del sentimento, il sentito; ma non v' è altra maniera in cui concepir si possa dissolvibile l' animale, come dissi di sopra; sicchè se il termine o la materia del sentire non sofferisse alcuna alterazione, il principio senziente per sè non cesserebbe mai, e sarebbe immortale. Io non dubito adunque di chiamare spirituale l' anima delle bestie, considerata nel suo principio, e solo dalla parte del suo termine è materiale. Io non dubito di chiamare l' anima, considerata come principio senziente, spirito, e questa mia maniera di parlare è conforme a quella delle divine Scritture che dicono: « lo spirito di ogni carne« (1) ». Or dunque se il principio senziente per sè non perisce, ma solo per il termine suo, ossia per la cosa sentita; che sarà ciò che il possa rendere al tutto immortale? Basterà cioè che gli si dia un termine, il quale sia di natura sua indistruttibile e eterno. Perocchè avendo egli questo termine, allora il connubio fra il senziente e il sentito è fatto per guisa che non può più venir dissipato; e quel principio senziente che solo non può sussistere, congiunto con questo termine, non può perire, non venendogli mai meno qualche cosa cui senta. Or questo appunto succede in darsi che si fa la intelligenza al principio senziente, perocchè non è altro che un dargli a sentire l' ENTE, il quale è di natura sua eterno, immutabile, necessario, universale e fornito di altri caratteri divini. Un principio che senta l' ENTE, sussiste eternamente, perchè ha sempre un oggetto da sentire, che non gli può venire mai meno. E se questo principio, oltre avere per cosa sentita l' ente, abbia per cosa sentita anche la materia corporea, in tal caso esso è un' anima intellettiva e animale a un tempo, la quale ha due termini, uno eterno e industruttibile, e l' altro distruttibile. Venendo dunque a perire la materia corporea, quest' anima non si dissipa nè distrugge, ma rimane sussistente per sè, cioè per l' oggetto a cui è aderente e cui sentendo ha sua vita (2). Ed egli, chi ben considera, fu da un consimile ragionamento che fu provata la immortalità e la semplicità dell' anima dai maggiori filosofi dell' antichità e dai Padri della Chiesa. Perocchè essi indussero queste sue preclare doti da qualche cosa di sublime, d' immortale, di eterno, a cui la trovarono essere aderente. Fu perchè la videro dotata della cognizione della verità e della giustizia, dell' ordine e del bene, che la dichiararono di stirpe divina e partecipante dei pregi di questi oggetti a cui ella aderisce; e per ciò della loro immateriale e eterna consistenza. E ora che abbiamo fatto noi, se non meditare appunto la natura della verità, della giustizia, del bene, dell' ordine, e trovare che tutte queste cose si accolgono in una sola, cioè nell' ENTE universale, luce semplicissima, di cui è partecipe e dove sussiste l' anima intelligente? Sicchè quando noi abbiamo detto, che l' anima umana è intelligente, immateriale, sussistente per sè, appunto perchè è congiunta coll' ente, noi abbiamo con una sola parola indicato quello che tutta l' antichità ha predicato con molte; e abbiamo ridotto alla formola più precisa e più filosofica i vaghi e alquanto indeterminati ragionamenti della filosofia ancora immatura e la sapienza comune del genere umano. A confermare queste affermazioni non sarà inutile che io rechi qualche passo fra i moltissimi che potrei addurre degli antichi savi, nei quali si parla appunto di questa cognazione dell' anima colle cose eterne, che essi nominavano anche Dei, appunto perchè vedevano come quell' elemento che rende l' anima immortale sia divino, e non trovavano nè come unificarlo, nè come preciderlo dalla divinità. Iamblico, raccoglitore di dottrine antichissime, dice così: [...OMISSIS...] . Si sostituisca in questo passo alla parola Dio e alla parola cose divine l' ENTE IN UNIVERSALE, e si avrà appunto espressa la nostra teoria. Altrove il medesimo autore dice: [...OMISSIS...] . Finalmente aggiungerò ancora un passo di Iamblico, degno di considerazione all' uopo nostro: [...OMISSIS...] . Il che è un esprimere quanto più si possa al vivo la natura dell' anima, formata da un principio senziente, soggetto, e da una cosa divina, oggetto: le quali due parti sono così coerenti tra sè che nulla più; sicchè di due, senza mescolarsi, o confondersi punto, fanno risultare una sola natura. Ora i platonici di tutti i tempi e con essi molti altri filosofi, e con essi il comun dire medesimo parlò sempre nella stessa sentenza (2). Da ciò che abbiamo detto risulta, che Adamo peccando commise un peccato personale, come sono tutti i peccati attuali liberi. Che questo guasto della persona in Adamo guastò e corruppe la natura. Che la natura guasta fu comunicata ai posteri per generazione. Che nei posteri la natura guasta, aggravando e torcendo la volontà personale, guastò la persona (6). Ora la natura è una cui egualmente partecipano molte persone. Or questa natura o che è moralmente sana, o moralmente infetta. Essendo dunque stata infetta già col primo peccato, gli altri peccati non possono più infettarla e rimangono solo peccati personali senza più. La quale ragione viene esposta egregiamente dal Dottore angelico in queste parole: [...OMISSIS...] . Tuttavia chi sostenesse avervi nei padri talora delle disposizioni morali perverse, le quali vengono comunicate ai figliuoli per generazione, sicchè anche i figli rimangono maggiormente inclinati a certi vizii (2), siccome pure avervi delle buone abitudini morali che sembrano conservarsi in certe schiatte e tramandarsi per eredità; questi non terrebbe forse cosa contraria alla esperienza (3), nè sottosterebbe punto contro a quella decisione apostolica con la quale fu condannata questa proposizione di Baio: [...OMISSIS...] . Nel fanciullo la natura è quella che infetta la persona . Per natura abbiamo detto intendere il complesso dei costitutivi dell' uomo. In modo più proprio però la natura, che trae l' origine da nascere , significa le prime [qualità] costitutive dell' uomo con una relazione alla loro origine; quasi si definisce la parola« natura« con dire: ciò che si porta nascendo. Or per vedere adunque quel principio contenuto nella natura umana che va a pervertire colla sua azione la volontà, converrà cercare appunto nel nascimento dell' uomo, in ciò che per primo egli ha e riceve dall' origine, la causa prossima del peccato originale; perocchè questa sarà quella stessa causa prossima e istrumentale per la quale egli vien concepito. Ora la causa istrumentale e prossima, che muove il germe al suo sviluppo, è il seme paterno. E la tradizione cristiana di pieno consenso attribuisce appunto a una mala qualità del seme il ricevere che fa la natura generata in sè una cotal corruzione e disordine che ridonda nella volontà, ove così in uno colla generazione si forma il peccato. Le divine Scritture parlano senza ambiguità di questa rea qualità, che viene anco chiamata immondezza del seme umano. Giobbe deplorando la malizia della umanità, dimandava: « E chi può far mondo ciò che è stato concepito da un seme immondo?« (3) ». E di cui perciò tanta è la miseria che la corruzione abita ne' primi stami e rudimenti stessi di sua natura? E Davidde deplorava di esser stato concepito dalla madre sua « nelle iniquità e nei peccati« (4) ». A spiegazione e commento delle quali parole, Innocenzo III dice: « il corpo si concepisce corrotto e fedato nato da semi corrotti e fedati« (5) ». Un segno che infetto era il mezzo della generazione, e col quale Iddio volle mantenere la cognizione e la fede del peccato originale, fu la circoncisione; e quelli si avevano per soggetti alla morte presso gli Ebrei che non subivano questa ceremonia, indicandosi per tal modo e il principio del male e la necessità di una originale riformazione della natura umana. Questa infezione del seme è fisica , e perciò non è che in essa stia la propria e vera ragione di peccato, ma bensì la ragione istrumentale del peccato. Perocchè questa infezione fa sì che l' uomo nasca guasto nella sua parte animale, e ricevendo così un istinto animale alterato, questo istinto animale tira a sè le forze della volontà soggettiva, e in questo piegamento della volontà la ragione del peccato si assolve. Vi ha dunque, 1. la infezione del seme paterno: 2. l' istinto animale alterato, ossia la concupiscenza animale che viene prodotta nel generato: 3. la volontà stessa inclinata e condiscendente tutta alla concupiscenza: e in quest' ultima parte trovasi, come dicevamo, un vero e proprio peccato abituale. Niente adunque ripugna, anzi sembra consentaneo alla cattolica verità l' ammettere una morbosa qualità nel seme; purchè non si faccia consistere in essa l' essenza del peccato originale: niente ripugna che si ammetta una morbosa qualità della carne, ossia un' alterazione dell' istinto animale, purchè non si confonda con essa la piega della volontà, che sola può esser sede di moralità. E parmi che certi teologi parte si sieno male spiegati, parte sieno stati troppo severamente intesi in questa parte. Così Enrico di Gand, a cui si appone di far consistere l' essenza del peccato originale in una morbosa qualità della carne, si esprime pur chiaramente quando dice: [...OMISSIS...] . Delle quali parole si può egli dar nulla di più chiaro e di più preciso? Ed egli pare che questa morbosa qualità della carne tanto meno doveva essere occasione di censura, quanto che tutte le Scritture son piene di questo stesso sentimento, fino a chiamare carne lo stesso peccato originale, sicchè essere nella carne, nello stile di S. Paolo, vale essere ancora nel peccato originale (2). E S. Agostino secondo lo spirito di esse Scritture dice, che il peccato originale « è una cotal affezione di mala qualità e come una malattia« (3) ». E altrove parimente disse, che il corpo trasse pel peccato originale una qualità morbosa e pestilente (4). Alcuni per questa mala qualità intendono la concupiscenza stessa. Ma se per concupiscenza s' intende quell' insulto che fa la carne allo spirito quando, occupandolo di sè tenta di trarlo giù dalla sua padronanza e assudditarlosi, egli è manifesto che la concupiscenza deve essere piuttosto un effetto di quella morbosa qualità della carne. Perocchè se la carne è fatta così superba e stimolante, ella deve avere indubitatamente sofferita un' alterazione pari appunto a quella che ha sofferita la cute dello scabbioso o di colui che soffra delle insolite pruriginose sensazioni (1). Nè si potrebbe immaginare nella carne questo effetto senza pensar in essa esser succeduta appunto una morbosa alterazione: ed è questa che assai agevolmente s' intende potersi contrarre per via di generazione; come succede di tutti i mali gentilizii, i quali vanno comechessia a portare la loro corruzione contagiosa nelle prime radici della vita. Per ciò S. Agostino dice che Adamo peccando viziò in sè come in radice la propria stirpe (2). Nè però mai s' intenda, come qui sopra ho avvertito, che in questa alterazione morbosa della carne stia l' essenza del peccato originale, ma solo lo stimolo che dalla natura è applicato alla volontà, del quale stimolo questa viene sedotta e tolta dai beni intellettivi per bearsi degli animaleschi. Confermano questa dottrina tutte quelle maniere efficacissime di dire che usa la divina Scrittura; nelle quali l' uomo peccatore si dice nato di carne. In S. Giovanni è scritto: « Ciò che è nato di carne è carne; e ciò che è nato di spirito è spirito« (3) ». Che cosa vuol dire qui essere carne, se non essere peccatore, cioè schiavo della carne? E che cosa esprime quell' essere nato di carne, se non venire la nostra schiavitù dalla carne appunto male condizionata e violenta; il che è quanto dire avere in sè un' alterazione fisica indebita? E si noti quella frase esser carne , la quale indica che il soggetto, in luogo di applicare la sua forza più lungamente alle cose intellettive, si abbandona tutto a percepire la materia sensibile e da essa trae la sua esistenza: secondo ciò che detto abbiamo più sopra, che il principio senziente trae il suo essere dal termine sentito. Il medesimo sentimento esprime S. Paolo in tanti luoghi, nei quali alla carne attribuisce tutta l' origine del male. [...OMISSIS...] . Ora una tal carne, di cui anche più sopra aveva detto: « Io so che non abita in me, cioè nella carne mia bene alcuno« (2) », sarà ella la carne di Adamo innocente? O non si dirà anzi una carne alterata, impestata dal peccato? Anteriore dunque alla concupiscenza è una morbosa e pestifera qualità della carne, che si trasmette per generazione e che è la cagione prossima della concupiscenza, come la concupiscenza è la cagione prossima della stortura della volontà ossia del formal peccato. Or ciò posto, io non vedrei altresì che si potesse riprendere come contraria alla fede l' opinione di quelli ai quali par verisimile che nel frutto vietato da Dio ad Adamo potesse ascondersi un cotal veleno, il quale contaminasse l' uomo e principalmente ammorbasse la potenza generativa (3). Tale opinione, sostenuta da un' antica tradizione presso gli Ebrei (4), a me sembra verisimile e conforme a quelle leggi, secondo le quali Iddio suole governare le sue creature. Dirò di più, quando si dovesse fare in tal materia delle conghietture, più volte essermi passato per la mente che Iddio potesse aver permesso al demonio di prendere sua sede in quel frutto vietato appunto, e che insieme colle particelle di quel frutto, le quali si devono essere convertite nella carne e secondo la loro propria natura andate per avventura a unirsi colla seminale sostanza, il demonio avesse potuto trovare l' adito nel corpo dell' uomo peccatore e tenerlo come sua conquista e passare egli stesso per il mezzo della generazione in tutti i figliuoli di Adamo, travagliandoli appunto principalmente e insultandoli per via di carne. Or non sarebbe questo conforme a quel dire che fanno le divine Scritture, che tutta l' umanità fu pel mangiamento di quel primo frutto in potestà del demonio e che ogni carne fu da lui posseduta? Non mostra la santa Chiesa negli esorcismi che fa al bambino prima di battezzarlo, tener essa che dentro lui stia il demonio? Non gli dice, soffiandoli in volto: Escitine, o maledetto diavolo? E quanto naturale intendimento non riceverebbero pure quelle parole di Cristo: [...OMISSIS...] . Da questa morbosa qualità del seme adunque, dalla quale rimane infetto l' embrione, prima conseguenza è, come dicevamo, la concupiscenza, ossia un sentimento animale che agisce con forza sulla volontà soggettiva e tutta a sè ne tira l' attività, per modo che ella rimane distolta e avulsa dai beni intellettivi. Perciò i Padri parlano della concupiscenza come di cosa costitutiva del peccato stesso originale. Ma ella si deve intendere esser tale solo considerata come vittoriosa sulla volontà, sicchè la volontà le sia serva: cessando poi dall' essere peccato tosto che la volontà soggettiva e personale riprenda le redini e torni a signoreggiare sopra di lei colla forza della grazia divina; poichè allora lo stimolo della concupiscenza, sebbene rimanga, non serve che ad accrescere il merito della vittoria. Perciò il serafico Dottore esaminando un passo del Maestro delle Sentenze, dove afferma che il peccato originale sia la concupiscenza, dice egregiamente che ciò si può sostenere, purchè s' intenda non qualunque concupiscenza, ma quella che in sè racchiude la privazione della debita giustizia (1). La concupiscenza considerata nel fanciullo abbiamo detto esser cagionata da una morbosa qualità di cui è infetta la carne, nella quale egli fu generato. Ora egli sembra, che se la concupiscenza si considera nei generanti, ella possa essere stata, anzi che effetto, cagione in buona parte della morbosa qualità propagata nei figliuoli. Questo è ciò che S. Agostino dice tanto di frequente: in ragione di esempio, in un luogo così parla: [...OMISSIS...] . E S. Tommaso sulle vestigia del suo Maestro: [...OMISSIS...] . Nè mi farebbe maraviglia che la voluttà annessa alla generazione fosse partecipata dal generato, in quanto prima la massa carnea di cui egli è composto formava parte di essi, e poi diviso ed acquistato un essere da sè, non morì però mai, ma restò con quel vigore di vita e con quel sentimento che in lui fu suscitato e acceso pure in generandolo. Sicchè la causa istrumentale e prossima della trasmissione nei figliuoli del peccato originale è la morbosa qualità del seme paterno e la concupiscenza che accompagna l' atto della generazione, ove questa si faccia per via di esso seme paterno. Le quali due cose mancarono nella generazione di Cristo: perocchè, non essendo intervenuto in essa opera di uomo, non ebbe luogo l' effetto che suol produrre il seme guasto nella madre a un tempo e nel figlio, cioè la carnale concupiscenza. Il che apparisce assai più chiaro nel sistema de' germi inviluppati gli uni negli altri; perocchè in questo sistema, sebbene il germe da cui dovea poscia svilupparsi Cristo, passasse di parente in parente per tutta la serie de' suoi ascendenti, tuttavia rimanendosi egli sempre inviluppato fino al momento, in cui fu depositato nel corpo purissimo di Maria Vergine Immacolata, fu protetto per modo, che non venne mai tocco nelle generazioni antecedenti da seme umano, e così non potè contrarre mai, nè pure se ne fosse stato capace, alcuna macchia o infezione. Così si trovano conciliate e insieme contemperate le sentenze apparentemente diverse intorno alla ragione per la quale Cristo naturalmente fu immune da peccato. Perocchè innumerevoli sono i luoghi de' Padri co' quali affermano che ciò fu perchè non vi intervenne uman seme; e molti pure e evidenti sono quelli nei quali si legge che fu perchè non vi intervenne alcuna concupiscenza. Questo secondo sentimento ripete assai di sovente S. Agostino, come a ragion di esempio là dove dice: [...OMISSIS...] . Considerando adunque l' alterazione e il guasto del seme umano come cagione di questa concupiscenza, è vero l' uno e l' altro, che Cristo fu immune dal peccato perchè non ci intervenne l' uso del seme, e non quella concupiscenza che accompagna quest' uso. Quella concupiscenza adunque è propriamente la cagion prossima della trasfusione del peccato, che accompagna il concepire in virtù dell' uman seme; non altra, se ella essere vi potesse. E con ciò io credo di cogliere la mente del Dottor della grazia, il quale non si potrà provare che in nessun luogo parli di altra concupiscenza se non di quella che accompagna appunto la umana seminagione: il che dimostra nel passo sopracitato, chiamandola non puramente concupiscenza, ma concupiscenza di uomo che con femmina si accoppia, « concumbentis concupiscentia ». E ancor più precisamente altrove dichiara il suo pensiero determinando di quale concupiscenza egli parli, dandole l' epiteto di concupiscenza seminatrice . E per ciò dice di Cristo che quantunque anche egli sia secondo la carne seme di Abramo, perocchè la Vergine Maria ond' egli tolse la carne fu di quel seme propagata, tuttavia egli non fu sottoposto all' azione di quel seme, non venendo da viril seme concetto, e libero rimanendosi dal legacciolo della seminatrice concupiscenza (1). Ricapitolando ora e paragonando ciò che abbiam detto sulla natura e sulla trasfusione del peccato originale, noi abbiam parlato sì in quella trattazione, che in questa del principio di esso peccato e ne abbiamo parlato in modo diverso. Perocchè parlando della natura, noi abbiamo posto il principio del peccato originale nella personalità dell' uomo: e parlando della trasfusione, abbiamo posto questo principio nella rea qualità e concupiscenziale del seme virile. Colà abbiamo detto che il peccato prima è nella persona ossia nella volontà soggettiva: e qui abbiamo mostrato il disordine originale cominciare dalla carne ossia dall' animalità. Colà abbiamo fatto discendere il peccato dal punto superiore della umana natura e condottolo a contaminare le potenze subordinate: e qui abbiam fatto nascere il disordine nel punto inferiore di tutti, cioè nella carne dell' uomo, e l' abbiamo fatto ascendere e comunicare la sua infezione alle altre potenze più nobili, deturpando ultimamente l' altissima di tutte, cioè la volontà soggettiva. Insomma colà abbiamo assegnato al peccato un principio diverso e opposto da quello che gli abbiamo assegnato in quest' ultima trattazione. Come si conciliano e stanno insieme queste dottrine? La natura umana ha veramente due estremi, che sono, quasi direi, i due poli della medesima: il più nobile è ciò che forma la personalità, e il men nobile è ciò che forma l' animalità. Ora la generazione della umana natura procede dalla parte men nobile alla più nobile, dall' imperfetto al perfetto, dall' animale alla persona. Questo processo risulta da tutto ciò che abbiamo detto intorno all' umana generazione, la quale è una operazione animale sicchè ha virtù di formar l' animale. Ma essendo da Dio congiunto con questo animale per ferma legge l' ente percettibile, egli non può essere formato questo animale se non a condizione che veda l' ente: e per ciò all' operazione generativa, che di natura sua non avrebbe virtù se non di produrre un animale, tiene dietro, immediatamente la percezione dell' ente, mediante la quale il principio senziente in quell' animale si eleva a stato di soggetto intellettivo e di persona; il che succede senza progressione alcuna di tempo , ma è contemporaneo l' animale e l' uomo. Nasce adunque la formazione dell' uomo mediante una mozione animale dall' imperfetto al perfetto. Ora comunicandosi il disordine adamatico per generazione, di che è che si chiama originale , egli deve in producendosi nell' infante tenere lo stesso ordine e processo che tiene l' infante stesso in generandosi e formandosi. Quindi è che egli deve cominciare a infettare e corrompere le parti basse e da queste passare il suo disordine alle più sublimi. Il che è ciò che esprimono le Scritture collocando nella carne tutto il fonte del male morale dell' uomo e usando di questa parola carne a significare il nido, quasi direi, di tutte le tentazioni e il complesso di tutti gl' inimici contro lo spirito della virtù e della giustizia. « Perocchè la carne, dice S. Paolo, concupe contro lo spirito e lo spirito contro la carne: conciossiacchè queste due cose si contrariano insieme, pericolandone la vostra libertà« (1) »; della quale la baldanza della carne vorrebbe pure spogliarvi. In questo senso adunque, parlando della trasfusione del peccato, noi abbiamo messo il suo principio nella parte più bassa della umana natura, per la quale entrato il disordine si comunicò alle altre. Ma convien riflettere, che questo disordine fino che si resta nelle parti basse dell' uomo, non ha vera e propria ragion di peccato, nè però peccato si può denominare. Ma bensì può dirsi principio di peccato , in quanto che egli produce nell' uomo uno stimolo che tenta la sua volontà, e come priva di aiuto e di forze, qual' è la volontà di quello cui manca la grazia, la trae agevolmente dalla sua e la fa quietarsi nella vita animale e nella carnale dilettazione. Egli è però certo, che il formal peccato non è prodotto nell' uomo se non da quel punto che questa volontà soggettiva non ha piegato e ceduto al dilettico animale. E però noi abbiam detto, che il peccato non comincia se non nella volontà soggettiva, nella più alta parte dell' uomo, che è quanto dire nella personalità: perciocchè tutto il male che precede al guasto della personalità non è cosa per sè morale, ma fisica e animale, essendo sola la persona la vera e propria sede di ogni bene e di ogni male morale. Sebbene adunque il disordine cominci nell' uomo prima della sua personalità, tuttavia solo in questa e con questa comincia propriamente il peccato . Quando poi la personalità stessa ha allettato in sè il disordine, rendendo con ciò morale quello che prima era fisico e animale, allora la persona comunica per così dire l' immoralità propria alle potenze subordinate e tutto diventa immoralità, tutto peccato nell' uomo. La concupiscenza è peccato, l' ignoranza e la cecità di cuore è peccato, come dicono a una voce i Padri. Relativamente dunque al peccato di che vengono infette le potenze dalla volontà personale, prima e propria sede del peccato, noi abbiam detto che il principio del peccato originale risiede nella persona, nella più alta parte dell' uomo, e che da quest' apice discende e macchia le parti inferiori. Se si considera dunque il disordine in generale, il suo principio è nella parte più bassa dell' umana natura. Se si considera poi l' immoralità di questo disordine, il suo principio è nella parte più alta di essa natura. E questo ci valga a conciliare, a legare insieme e a ricapitolare quanto abbiamo detto sul principio del peccato originale in questo e nel capitolo precedente. Trovata la cagione prossima del peccato originale, egli è facile render ragione perchè anche i figli di coloro che sono rigenerati nel santo battesimo, ricevano il peccato originale. La grazia del santo battesimo non è che personale , cioè non riforma che la persona, come abbiamo accennato e come più a lungo dimostreremo nel libro seguente. Il disordine originale all' incontro contamina non meno la persona che la natura. Riformata adunque la persona col battesimo, rimangono le altre parti della natura umana ancora disordinate. A queste parti disordinate dell' umana natura appartiene principalmente la facoltà generatrice, e quindi la causa prossima e istrumentale per la quale s' insinua nel neonato e vi si eccita il peccato originale rimane viziata anche nei fedeli battezzati. Il perchè una natura corrotta produce una natura corrotta e che ha pur bisogno di essere rigenerata. Questa ragione adduce S. Agostino contro i Pelagiani che dimandavano perchè se il peccatore genera il peccatore, anche il giusto non generi il giusto. [...OMISSIS...] . La quale medesima ragione adduce in altre parole S. Tommaso, il quale afferma rimanere il peccato originale, materialmente preso, negli stessi battezzati; [...OMISSIS...] . Dalla natura del peccato originale, dottrina fondamentale della Chiesa Cattolica (4), si spiega lo spirito di questa, e per l' opposto lo spirito da cui è animato il mondo. La Chiesa professa che l' uomo nasce corrotto per natura: e quindi il figliuolo della Chiesa riceve da questa dottrina un sentimento di umiltà che lo accompagna in tutti i suoi passi. Il mondo niente ode più mal volentieri quanto la dottrina del peccato originale: egli fa di tutto per ritorcere gli occhi da questa profonda piaga dell' umanità, e dice volentieri: l' uomo nascere uomo, ovvero le indoli formarsi per la educazione senza più. Dell' ignoranza pertanto, in cui il mondo si tiene volontariamente del peccato originale, è effetto a un tempo e cagione lo spirito di superbia di cui sempre è gonfio il figliuolo di questo secolo. Quanto più lo spirito del mondo prevale anche nel mezzo delle nazioni cristiane, tanto più si vede allontanarsi e rimuoversi la memoria del peccato originale, massime dai libri di educazione; e dipingersi in essi in quel cambio l' uomo sempre con dei lieti e ridenti colori, ma, ohimè! purtroppo menzogneri, e simili per avventura a quelli che facevano si bello e desiderabile il pomo di Eva. La Chiesa col peccato originale insegna, che ciò che portiamo di corrotto fino dalla prima origine è la carne; e deduce da essa il fomento d' ogni peccato. [...OMISSIS...] . Per questa dottrina che possiede la Chiesa, avviene che il suo spirito sia di mortificazione della carne e di penitenza: e ciò a tal segno da desiderare fino la distruzione totale della carne, riguardando tale distruzione come l' abolizione del peccato e la liberazione dell' anima dai ceppi di una tediosissima schiavitù. Fino poi che questa felice distruzione non sia avvenuta, il figliuolo della Chiesa si propone di non prendere giammai a principio del suo operare il desiderio della carne, di non riconoscere nè pure la carne quasi come parte di sè, ma di riguardarla già come fosse al tutto morta. Questo è il proposito che si fa nel battesimo, questo è il sentimento che esprime S. Paolo là dove dice: [...OMISSIS...] . Or questa è nuova cagione per la quale il mondo non riceve o rifiuta di considerare la dottrina del peccato originale, la quale gli è troppo triste e malinconiosa, eziandiochè vera. Indi lo spirito del mondo si fa uno spirito di solazzo, di gaiezza e di accontentamento appunto della carne, così dalla Chiesa ripresa e vituperata. Il peccato originale adunque è quella gran dottrina la quale mette quella grande separazione che pure è tra l' operare della Chiesa e del mondo. Egli è manifesto che il peccato originale è il fatto solenne della umanità, il quale determina il vero e proprio suo stato. Or la morale deve esser acconcia al soggetto per il quale ella è fatta: e però un fatto che modifichi l' uomo, soggetto della morale, egli è evidente che deve recare una modificazione corrispondente in tutta la morale dottrina. Ma la filosofia non è stata solita di considerare i fatti solenni che hanno modificata la natura umana e hanno condotto l' uomo a essere quello che è: ma ha preso in veduta la natura umana astrattamente presa senza più. E il fatto del peccato originale tanto più lo ha negletto che esso è un fatto soprannaturale per così dire, cioè a dire un fatto che si lega con un ordine di cose soprannaturali e con una primitiva e immediata comunicazione col Creatore; e per la stessa ragione questo fatto fu di sua natura proprietà della cristiana teologia. Quindi principalmente nacque il carattere che divide la morale de' filosofi dalla morale cristiana. Perocchè quelli non poterono considerare l' uomo se non imperfettamente nelle sue qualità universali e comuni date dalla sua natura: laddove la rivelazione e religione cristiana lo considera fornito di tutti i suoi accidenti e alterazioni da lui sofferte e nei varii stati nei quali egli si trovò di fatto. Egli è perciò che la predicazione del Cristianesimo tende direttamente a sorreggere e riformare la umana natura in quelle parti, nelle quali fu più vulnerata dal peccato originale: onde è suo proprio carattere di inveire contro la superbia e la carnalità, e di soprammodo promuovere la virtù dell' umiltà e della castità, nomi peregrini e al tutto insoliti in bocca alla filosofia. Di più la morale teologica mettendo tutta la forza, per la quale divien possibile all' uomo di resistere contro all' ingiustizia cui gli vien suggerendo la concupiscenza originale, nella grazia del Redentore che solo vinse e riparò il peccato originale; avviene che rivolga la sua morale predicazione principalmente a indurre e consigliare l' uomo di provvedersi di questa grazia nell' orazione e nei sacramenti della Chiesa. Ed egli è per queste vie, di domare la carne colla penitenza e colla grazia, che la morale cristiana trae l' uomo alla reale virtù, mettendo la scure alla radice del male e insegnando quello che diceva di pur fare l' Apostolo: [...OMISSIS...] . Questo scopo determinato e che batte il sodo e nel vero dell' uomo, è appunto ciò che manca alla morale filosofica. Essa vi propone dei bellissimi precetti, ma tutti vaghi e universali, i quali non discendono ad applicarsi allo stato dell' uomo infermo e caduto sì come egli è, e non insegnano onde attinger egli possa le forze da rilevarsi; non gli fanno nè conoscere il suo male, nè il rimedio del medesimo; e finalmente da una parte non ha coraggio di proporgli tutta intera la virtù, temendo di sgomentarlo; dall' altra non la conosce: perchè una tale morale è essa stessa l' opera di quel medesimo uomo infermo e scaduto cui solo può guarire e rilevare un medico maggiore di lui, un altro essere sopraumano che tenda a lui soccorrevoli delle braccia piene di pietà e di misericordia. Le dottrine cattoliche da noi esposte sul peccato originale mi chiamano a lumeggiare meglio con esse una osservazione altrove per me fatta, cioè che la divina rivelazione, ossia quel complesso di dogmi che forma la sostanza della fede cattolica, suppone sotto di sè e accenna una filosofia, il ricercamento della quale Iddio commise alla umana ragione da lui stesso sovvenuta e aiutata, acciocchè col trovare i principii e le ragioni delle verità, dia essa ragione un tributo alla fede, la quale acquista di continuo una vie maggior luce e bellezza. Così noi veggiamo nelle divine Scritture e nei libri de' Padri della Chiesa che contengono il deposito della fede, parlarsi di verità le più sublimi e recondite colla massima precisione e sicurezza: e tuttavia confessare assai di sovente di non avere ragione naturale con la quale provarle, ma solo l' autorità di Dio che le ha fatte conoscere agli uomini. Tuttavia mettendosi poi l' ingegno umano a partito, procedendo innanzi le investigazioni filosofiche della umana natura e della divina, e a questo fare venendo stimolati principalmente i maestri stessi della Chiesa dalla disposizione della divina Provvidenza, la quale permette che gli eretici o gli infedeli o tutti quelli che si fanno nemici a Cristo, insorgano contro alle verità rivelate e accampino contro di esse delle obiezioni cavate dalla ragione naturale; allora, dico, si vanno trovando e scoprendo altresì tali verità naturali, le quali e valgono a ribattere le opposizioni avversarie e sorreggono o fiancheggiano mirabilmente gli stessi dogmi rivelati, mostrandoli di un perfetto consentimento ed accordo coll' intima natura delle cose e resi fin necessarii da questa natura delle cose ben conosciuta, di modo che l' ordine stesso delle cose naturali diverrebbe un assurdo, non che un enigma inesplicabile, quando quell' ordine di verità soprannaturali non fosse. Insomma, come ho detto ancora, la verità rivelata è un cotal compimento della verità naturale e presuppone questa sotto di sè, a quel modo che una dipintura suppone sotto di sè la tela sopra di cui è lavorata; e molte dottrine rivelate, o non sono misteriose se non perchè rimangono ancora a trovarsi quelle naturali verità che formano come l' addentellato a cui esse si continuano, o certo, trovate queste, cessano dall' essere difficili a credersi, e come che sia sublimi si fanno però tali che riesce sommamente difficile a non credersi. Il che forma una manifestissima prova della verità della divina rivelazione. Perocchè non può esser l' opera degli uomini una dottrina che gli uomini, i quali per molti secoli l' hanno insegnata, confessano inesplicabile e di cui non dànno altra prova che la divina rivelazione: una dottrina che tuttavia nel correre dei secoli acquista sempre più luce: una dottrina che per quantunque nuove verità naturali si scoprano, ella non si trova mai in contraddizione con alcuna: una dottrina che anzi si mostra in mirabile accordo colla filosofia più che questa si approfondisce e che perciò mostra supporre sotto di sè la più profonda filosofia, quasi un suo preliminare: quindi una dottrina che non potè essere annunziata se non da un Essere che fosse già in possesso precedentemente di una tale filosofia, che ad essa dottrina forma quasi direi un sotterraneo e tutto occulto fondamento. Queste generali osservazioni ricevono appunto lume dal dogma del peccato originale. Esso è annunziato nelle divine Scritture come un fatto, nè si pone cura ad accompagnarlo di alcuna ragione. Egli anzi alla ragione umana di prima giunta si presenta siccome il più mostruoso assurdo o certo come un impenetrabile mistero. Tuttavia la Chiesa lo insegna costantemente, non adducendone altra prova che l' autorità di Dio rivelante; e sicura di questa sola fede, sebbene alla ragione apparentemente contraria, lo proclama in modo che il toglie anzi ad uno de' principali cardini di tutto il suo insegnamento. I Padri della Chiesa, quelli stessi che sono riputati come ingegni naturali i più straordinarii, confessano di non poter penetrare la oscurità di questo mistero. S. Agostino stesso, la cui mente era considerata da un filosofo dei nostri tempi inimicissimo della religione (1), dichiara che « come non vi era nulla che fosse più noto del peccato originale per la predicazione della Chiesa, così non vi aveva nulla che fosse più secreto e nascosto all' intelligenza« (2) ». Questo gran Padre, dopo le più profonde meditazioni sopra questo argomento, non trovava che sempre nuovi imbarazzi. La natura del peccato originale lo sconfidava di penetrarla e piegava la fronte dicendo che vi si inchiude una occulta giustizia di Dio (3). La propagazione di esso peccato non gli era men forte nodo, e traendolo nella questione dell' origine dell' anima, il faceva perdersi in quest' altro labirinto, giacchè da una parte non poteva concepire alcun modo onde le anime potessero propaginarsi; e dall' altra « confessava di non poter spiegare a sè medesimo, come mai l' anima possa trarre il peccato da Adamo, se essa stessa non viene pure da Adamo« (4) ». Or dunque se la ragione umana nel suo massimo vigore non poteva dare alcun suffragio al dogma del peccato originale, non è egli evidente che questo dogma, conservato pur dalla Chiesa senza dubitazione alcuna, non poteva venire dagli uomini, ma da una sapienza più sublime? Dico da una sapienza più sublime, perocchè quantunque questo dogma non presentasse alla ragione se non un inesplicabile mistero, tuttavia da una parte la ragione stessa non potè mai trovare in nessun tempo un principio evidente che fosse in evidente contraddizione con esso, e dall' altra oggimai io credo non essere difficile d' accorgersi che si possa dare e che veramente si dia una filosofia, la quale rechi molta luce sulla stessa dottrina dell' original peccato e faccia in essa dileguarsi molte di quelle nubi che l' ignoranza umana vi vedeva, o piuttosto vi produceva. E se questa filosofia si dà veramente, parmi che a lei dovesser far buon viso tutti i cattolici. Perocchè l' accordo perfetto in cui ella verrebbe a trovarsi col Cristianesimo, e segnatamente con questo terribile dogma del peccato originale che essi credono per fede, dovrebbe fare a lei appo loro buona raccomandazione e prova efficace di sua verità. All' opposto persuasa colla virtù delle sue prove intrinseche una tale filosofia a coloro i quali discredono la cristiana religione e per troppo forte nodo hanno il peccato originale, essa dovrebbe avvicinare costoro, quanto può ragione naturale, al cristiano insegnamento. Sicchè la filosofia e la teologia si darebbero così insieme mano e l' una aiuterebbe l' altra in vantaggio degli uomini. Ora, egli è appunto questa filosofia la quale giace occulta nelle viscere della cristiana teologia, che noi ci siamo proposto di aiutare perchè venga alla luce: facendo ancor noi, (se ci è permesso di usare in altro senso la frase di Socrate) l' ufficio, quasi direi, di levatrice. E veramente tutta la dottrina del peccato originale riceve chiarissima luce da due verità filosofiche, le quali noi abbiamo provato con ragioni naturali e che costituiscono per così dire la teoria filosofica dell' uomo, cioè: 1. Che si ha una distinzione reale tra l' esservi nell' anima un sentimento ed un' idea qualunque, e l' avvertenza di quel sentimento e di quell' idea. Di modo che vi possono essere e vi sono nell' anima dei sentimenti e delle idee di cui l' uomo non ha nessuna avvertenza per molto tempo, acquistandola poi mediante l' uso della sua riffessione. 2. Che l' uomo fino dal primo istante del suo esistere ha un sentimento fondamentale e l' idea dell' essere universale, dei quali però egli non ha ancora avvertenza. Dai quali due elementi succede poi tutto lo sviluppo umano, perocchè tutte le sensazioni che riceve appresso non sono che modificazioni di quel primo sentimento; e tutte le idee che egli acquista e i ragionamenti che fa, non sono che i sentimenti veduti in rapporto coll' idea dell' essere, o rapporti di rapporti. Ben provate queste due verità, tutto ciò che ha di più oscuro la natura del peccato originale si chiarifica. Perocchè non è più un assurdo apparente, ma anzi una verità chiarissima di dire, che nel fanciullo appena nato vi abbia una volontà verso l' essere in universale, la quale sia piegata e tirata dalla violenza del sentimento animale; sebbene questa volontà non sia libera. Ed or, ciò posto, una immoralità si trova nell' uomo fino dalla prima sua esistenza, la quale ha ragione di peccato , sebbene non abbia ragione di colpa , perocchè a formare il peccato abbiamo detto bastare la volontà , a formare poi la colpa esigersi altresì la libertà . Ora ciò che è peccato nell' infante, considerato in lui solo, niente vieta che si chiami colpa, considerato in relazione colla prima libera volontà che il cagionò, cioè colla volontà di Adamo (1). Egli è per ciò che con molta assennattezza, per nostro avviso, Vincenzo Palmieri in un suo libro scrisse così: [...OMISSIS...] . Da questo passo apparisce che il citato professore di Teologia dogmatica sentì lo stretto nesso che aveva la questione filosofica dell' origine delle idee col dogma teologico del peccato originale, e che questo portava la risoluzione di quella nel suo seno. Egli è vero che l' acuto teologo che ciò vide, non potè però indicare un sistema delle idee innate che potesse al tutto reggersi e sostenersi contro gli avversarii; perchè non ne aveva altri che quello di Cartesio e quello di Malebranche: ma ciò non toglie che egli intravedesse la verità che noi tocchiamo. Il peccato non accennava se non la necessità di un sistema filosofico che ammettesse qualche cosa d' innato, ma non diceva che solo una diligente e fedele investigazione della natura della mente umana doveva poi trovare che cosa fosse questo che d' innato; e questa ricerca da noi affrontata ci condusse alla teoria della naturale intuizione dell' essere in universale. Si dica il medesimo circa la questione dell' origine dell' anima, che ha pure un così stretto rapporto, sebben filosofica, col dogma puramente teologico della trasfusione del peccato originale. Il dogma della trasfusione poteva egli essere inventato da chi non conosceva la soluzione di quella prima questione? Ma si consideri la soluzione che noi ne abbiamo dato; e poi quanta luce, ci si dica, non manda fuori di sè un insegnamento sì strano a prima giunta come quello che dichiara originario un peccato? Quel maestro che lo insegnò il primo, non doveva essere qualche gran cosa, se confidò agli uomini un risultamento che non poteva dare se non una dottrina, che non sarebbe stata nota se non quando il mondo fosse ben vecchio? Delle riflessioni simili a queste mi potrebbe somministrare la dottrina della Chiesa intorno alla maniera nella quale ella insegna che i fanciulli vengono mondati dal peccato originale nel santo battesimo. Perocchè la Chiesa chiaramente e costantemente insegna ed ha sempre insegnato, che nel battesimo non solo vien rimesso il debito contratto dalla natura umana con Dio, ma che viene purificata l' anima stessa del fanciullo dalla macchia originale e che in quest' anima viene infusa la grazia dello Spirito Santo e gli abiti delle virtù teologiche della fede, della speranza e della carità. Ma cerca ella la Chiesa di spiegarci come avvenga tutto ciò nell' anima del fanciullo che non dà ancora nessun segno esterno di uso di ragione? Non cerca: solo ci dice che questo è la verità e ci ingiunge di crederlo. - Ma non è egli una tale dottrina opposta al pensare comune degli uomini e apparentemente assurda anche agli occhi della filosofia che non iscopre in quel bambino appena nato nè idee, nè volontà, nè perciò discernimento e amore del bene e del male? - Di tutto questo non si dà veruna pena la Chiesa: non risponde a tali obbiezioni se non solo con queste parole: Chichessia ciò non crede, sia anatema. I maestri poi anche più insigni della religione cristiana parlando di ciò confessano assai spesso la loro ignoranza ed è loro frequente in bocca: così è, ma in che modo ciò sia la ragione lo ignora, perocchè vi giace un mistero. Non si è parlato così solamente nei primordii del cristianesimo, ma dai più gran genii dei secoli moderni: e quando è venuto a questo punto lo stesso Bossuet, ha dovuto conchiudere con queste parole: « Egli è questo il mistero dello Spirito Santo« ». A me pare di veder ben chiaro l' impronta di un magisterio divino in questa maniera di enunziare le più sublimi verità e apparentemente contrarie alla ragione come altrettanti fatti indubitabili senza fornirli di loro ragioni e spiegazioni: il ciò farsi per molti secoli e il venir solo in ultimo col progresso delle scienze trovate quelle ragioni che rendano quei misteri chiari, o certo che li dimostrino, anzi che contrarii alla ragione, ad essa medesima necessarii e d' essa nobile finimento. E veramente quando si conosce lo stato del fanciullo a quel modo che egli risulta dai principi filosofici per noi dimostrati, non ci rende egli manifesto come la infusione delle virtù teologiche e il raddrizzamento e sollevamento a Dio della volontà possa aver luogo? E poichè ho toccato di sopra una parola di Bossuet da lui proferita nella celebre disputa che tenne col ministro Claudio, non sarà inutile che io arrechi ancora un passo dello stesso insigne prelato, tolto dalla relazione di quella medesima disputa. Questo passo mi varrà a dimostrare due cose: 1 Come il gran Vescovo di Meaux colla sua solida mente giunse a vedere il rapporto strettissimo della dottrina della Chiesa colla questione filosofica intorno alla natura dell' anima intelligente, e come quella dottrina della Chiesa richiedeva assolutamente che questa questione si risolvesse in modo che l' anima dovesse avere una comunicazione primitiva e naturale colla verità: 2 Mi varrà a mostrare quanto cautamente la sana mente di quel prelato toccasse questa risoluzione, non buttandosi perciò nel sistema delle idee innate di Cartesio (come poco avvedutamente vedemmo fare più sopra un teologo italiano), ma anzi si contenesse dentro a' giusti limiti, non avanzando più di quello che la necessità richiedesse ed esigesse di quelle cattoliche dottrine delle virtù infuse. Perocchè avendo ridotto il ministro protestante e strettolo a confessare che sviluppandosi nel fanciullo battezzato la ragione, questo non può premettere alla fede delle verità che gli sono proposte da Santa Chiesa alcun esame e alcuna dubitazione, ma deve crederle subitamente; e che il mezzo onde può far ciò non è altro che la fede infusa nel battesimo; restava a levare la difficoltà che faceva il protestante, come questa fede infusa potesse essere ragionevole nel fanciullo, senza esame e non facendo uso della ragione. Or ecco come l' egregio prelato si fa a rispondere: [...OMISSIS...] .

Antropologia soprannaturale Vol.II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Quest' ordine col quale la divina Provvidenza guida innanzi la perfezione dell' umanità, è l' opposto di quello della filosofia. Questa fa gran caso di qualche errore materiale e perde di mira la perfezione morale. Non solo è ciò ingiusto, anteponendosi il bene minore al maggiore, ma è anche contro natura. Perocchè l' ordine della natura umana esige e chiede di tendere prima a ciò che è immediatamente morale, e allora questa ha prese forze e agio di rettificare con pace e frutto gli errori puramente intellettivi. Conosciuto questo essere l' ordine proprio e legittimo del progresso della perfezione umana, non sarà maraviglia di vedere la divina Provvidenza che, non contrariando punto l' uomo nel credere che fa i bruti simili a sè nell' operare, tolga anzi questi per emblemi co' quali ammaestrarlo: appunto in un modo simile a quello che faceva quel filosofo greco che inventò più tardi le favole (Esopo). Ecco pertanto alcune prescrizioni emblematiche che Dio fece agli uomini de' primi tempi intorno agli animali bruti, acciocchè fossero segno e specchio di ciò che dovevano fare gli uomini fra di loro. Agli uomini usciti dall' arca proibisce di mangiare la carne col sangue: e ciò per rimuoverli dalla ferocia e dal metter le mani nel sangue umano: [...OMISSIS...] . Un altro ammaestramento voleva Iddio dare agli uomini con questo precetto, ed era di inculcargli il rispetto all' anima dell' uomo, e così chiamarli a riflettere alla dignità di quest' anima intelligente e fatta a similitudine di Dio, alla quale l' uomo animalesco non sapeva anco p“r mente. E per far ciò metteva innanzi agli uomini quest' anima come principio della vita animale, giacchè in quest' atto era più facile a quegli antichi poter fissare colla mente quest' anima e riconoscerla per qualche cosa. E conciossiachè la vita animale comincia nel sangue, per ciò s' inculca il rispetto al sangue, appunto come alla sede dell' anima (3). Laonde prosegue a dire Iddio in conferma del precetto di non mangiare carne col sangue: [...OMISSIS...] . Egli vi ha qui un' altra cosa a riflettere. Iddio a Noè uscito dall' arca dà la potestà di ammazzare e di mangiare gli animali: [...OMISSIS...] . Or non esclude dal potersi mangiare se non la carne col sangue. Si manifesta dunque chiaramente che questo rispetto al sangue delle bestie è puramente emblematico, non per sè, ma per ragione del sangue dell' uomo, che solo dicesi fatto a imagine di Dio. Ove si consideri questo vero, che le bestie in questa antica e primitiva scuola che dà Dio agli uomini, sono prese per emblema a significare uomini, verso cui sono i doveri morali, si vedrà come falsamente il Calmet ed altri assai vogliano indurre da siffatti luoghi dei divini libri la conseguenza: che la Scrittura supponga nelle bestie qualche parte d' intelligenza (2). Per altro lo stesso permesso, che Dio dà alla famiglia di Noè dopo il diluvio di ammazzare gli animali, è emblematico. E in quegli animali (di cui si fa pure rispettare emblematicamente il sangue), si ravvisano gli empi condannati da Dio a morte, e però indegni di vivere: tipo rinnovellato nello sterminio, che da Dio fu comandato agli Ebrei, dei Cananei e di que' varii popoli idolatri coi quali ebbe guerra il popol di Dio. E dove si rifletta che la famiglia di Noè rappresentava l' umanità rinnovellata da Cristo, perseguitata e martoriata che dimanda a Dio vendetta del suo sangue, verrà agevolmente alla memoria il Salmo che dice: [...OMISSIS...] . Insomma si viene a significare per quel permesso, che l' uomo non ha diritto alla vita se non per Iddio e per l' imagine che di Dio ne porta in sè stesso; e che l' uomo empio è abbandonato alla morte. Per ciò egli sembra, che a Noè e alla sua famiglia sia stato dato altresì il diritto della pena di morte da infliggersi pel delitto di omicidio, secondo quelle parole: « Chiunque effonderà il sangue umano, il sangue di lui sarà sparso« (4). » Dove si vede che l' imagine di Dio su cui è fatta l' anima umana varrebbe a riparare i buoni dall' essere uccisi, ma non gli uccisori perchè cattivi e da Dio alla propria ventura lasciati. Questo tipo viene illuminato da diverse osservazioni. Alla umanità antidiluviana, tipo dei peccatori, fu diniegato di far vendetta di Caino, di Lamec e degli altri micidiali. Voleva insegnarsi con questo, che Dio solo è il padrone della vita degli uomini; e che per far vendetta dei malvagi, siccome gli uccisori sono, egli non cede il suo diritto di morte agli stessi malvagi: ma incarica di fare questa sua giustizia i buoni, che vengono così a rappresentare la persona di Dio stesso. Conciossiacchè Iddio ha dominio della vita non solo perchè Creatore, ma, rispetto ai peccatori, anche perchè giudice e vindice della giustizia; e se conserva loro la vita, ne è anche per ciò sempre padrone. Or la divina giustizia non si può placare se non colla distruzione del peccatore, e però colla effusione del sangue, sede e simbolo della vita di lui: indi il Signore aveva riserbato a sè il sangue nei sacrifizii, per additare questo suo diritto sovrano di vendetta e di conquista. Il dir poi che egli fa che col sangue effuso nei sacrifizii si sarebbe placato, era un tipo del sangue di Cristo, solo atto a placarlo: [...OMISSIS...] . Che gli uomini attribuissero alle bestie intelligenza, ciò è facile di spiegare coll' ignoranza loro. Ma parlando Iddio, non si può assegnar questa causa al dare che egli fa ragione alle bestie, e convien prendersi ciò per un emblema volto a significare ben altro. Con quest' avvertenza medesima si deve intendere quello stringere che fa Iddio alleanza dopo il diluvio non solo cogli uomini ma colle bestie ancora: [...OMISSIS...] . Che questo parlare sia simbolico e venga a dire: io risparmierò d' ora innanzi tanto quelli che vivono da uomini come quelli che han costume di bestia, pare manifesto (3): massime raffrontando insieme tutti i diversi luoghi della Scrittura che dànno luce a queste maniere di parlare. La Scrittura si spiega da sè stessa. L' Apostolo S. Paolo, a ragion d' esempio, ci dichiara nascondersi una legge simbolica in quella nella quale si proibisce di mettersi la musoliera al bue che tritura, e dice il Santo: « Forse che Iddio si dà cura de' buoi?« (1) » trovando chiarissimo che con quella legge si voleva provvedere di cibo l' operaio evangelico che ha cura delle anime, e che nel bue triturante veniva rappresentato (2). Sarei infinito ove io volessi discendere a divisare il simbolo che si traeva da tutte le specie di animali, e mi rimetto all' opera de' Principii discussi dalla società Ebrea7Clementina, dove si traggono fuori i diversi enimmi che la divina Scrittura toglie dagli animali bruti (3). 5. I giganti, emblema dell' umana superbia e impotenza (4). 6. La famiglia di Noè nell' arca, tipo della Chiesa di Gesù Cristo salvata pel legno della croce (5). 7. Cogli usciti dall' arca uomini e bruti, Dio fa un' alleanza sempiterna. Ella era il tipo di quella alleanza che doveva farsi fra Dio e il popolo nuovo redento da Cristo (1). L' eternità e immobilità del patto con Noè e suoi discendenti non poteva avere altra ragione che questa tipica. Indi è l' efficacia delle parole che usa Dio ad annunziare quest' alleanza. Egli odora la fragranza del nuovo sacrificio che gli offerisce Noè: egli ripete più volte la formola dell' alleanza: [...OMISSIS...] . Pone per segno di questa alleanza l' arco celeste che avrà tale ufficio per tutte le generazioni avvenire (2): [...OMISSIS...] . Certo non vi ha patto sempiterno, secondo i dogmi cristiani, fra Dio e l' umanità se non quello del mediatore Gesù Cristo (4). E quando così si descrive il Figliuol dell' uomo che verrà sulle nubi, le quali sono l' emblema degli Angeli (5), apparisce assai chiaro, che l' arco celeste è un' acconcissima figura del Verbo incarnato che congiunge la terra al cielo. Ora il tipo del nuovo patto, del patto sempiterno venne più volte rinnovellato di poi presso il popolo Ebreo (6). Il Deuteronomio, che significa seconda o nuova legge, il patto rinnovato da Giosuè con Dio dopo entrati gli Ebrei nel possesso della terra promessa, e principalmente l' alleanza rinnovata da Neemia dopo il ritorno dalla schiavitù di Babilonia, come detto è innanzi, sono altrettante figure di una verità così importante, che non era mai abbastanza rammemorata e impressa negli uomini, perchè la fondamentale a cui tutte le altre si riferivano. .. La torre di Babele tipo delle opere dei malvagi che cominciano con grandi e superbe speranze, ma che restano imperfette e confuse. Questa maniera d' istruire gli uomini da Dio tenuta non è semplicemente una nostra opinione: ella è una verità positiva insegnataci dalla stessa Scrittura, la quale a un tempo registra i simboli e li spiega, mette innanzi gli enimmi e ci dice che sono tali, chiamandoci a penetrarne il senso nascosto. Tutta la storia ebraica, secondo l' Apostolo, è una serie di segni e di figure colle quali Iddio venivasi formando e ammaestrando quel popolo (1): e i Padri della Chiesa sono così uniformi in questa sentenza, sicchè ella si può dire a tutta ragione essere dottrina cattolica. Iddio scelse dal genere umano l' individuo Abramo: a questo suo eletto fece una famiglia in Isacco: questa famiglia la cangiò in nazione al monte Sinai, quando le diede la legge e strinse il patto solenne con essa col quale si faceva suo Re (2): questa nazione fu cangiata nella umanità tutta mediante il Messia. Il titolo di Dio di Abramo, d' Isacco e di Giacobbe che prese, è un titolo che esprime un Dio adorato da degli individui (3). Quando egli è per trarne i discendenti dall' Egitto, assume il titolo di Dio degli Ebrei, denominazione di un Dio nazionale, cioè coltivato da una nazione (4). Il Messia all' incontro si chiama Dio di tutta la terra (1). Quel tempo che passò dalla morte di Giacobbe in Egitto (2) fino al tempo della liberazione, è un anello di mezzo fra lo stato di società domestica e quello di società nazionale; e propriamente si può dire una continuazione della società familiare che si prepara a divenir nazione. Iddio si acconciò alla limitazione umana, e i segni istruttivi emblematici che diede al suo popolo furono corrispondenti a questi diversi stati nei quali la riflessione di lui e particolarmente la facoltà di astrarre si andava in lui sviluppando e perfezionando (3). 1. L' abbandono della propria casa . - L' abbandono comandato ad Abramo della propria casa e della patria era un simbolo del distacco spirituale dalle cose terrene, condizione necessaria della virtù soprannaturale. Egli spicca questo simbolo nella efficacia delle parole che usa Iddio per separarlo dagli altri uomini: [...OMISSIS...] . Questa separazione influiva anco allo sviluppo delle naturali facoltà di Abramo: conduceva la mente di questo Patriarca a formare una grande astrazione, a metter da una parte Iddio, la fede alla sua parola, la virtù; dall' altra tutto ciò che più piace al cuore umano, il luogo natale, le abitudini, i parenti, i familiari; e a scegliere fra queste due cose, infra loro partite e contrapposte (5). 2. Il seme promesso . - Il seme promesso ad Abramo era un simbolo del Messia che doveva appagare pienamente la umana natura, nutrendola di virtù e di felicità. 3. La terra promessa . - Venuto Abramo nella Cananea dove l' aveva chiamato Iddio apparendogli (6), promette di dare al seme di lui quella terra, simbolo della Chiesa di Gesù Cristo e del cielo (7). 4. Melchisedecco - e il suo sacrificio di pane e di vino è quel simbolo del Messia che viene spiegato da San Paolo nella lettera agli Ebrei. 5. Il primo patto stretto da Dio con Abramo . - Passò non poco tempo dopo le promesse fatte da Dio ad Abramo, e questo indugio era un' occasione di esercizio alla fede del santo Patriarca e giocava mirabilmente a condurre la sua mente a pensare più spiritualmente, più in grande, venendo ad apprezzare non solo il presente, ma più ancora il futuro. Avvicinandosi però il tempo in cui le promesse dovevano cominciare ad avverarsi, Iddio conforta Abramo nella sua aspettazione, dicendogli: [...OMISSIS...] . Ma il santo Patriarca non sapeva ancora colla sua mente fare astrazione da tutte le cose sensibili e terrene e massime dalla felicità familiare: non poteva concepire una felicità al tutto spirituale, come gli veniva proposta, da trovarsi in Dio solo, anche soprabbondantemente. Perciò come Iddio non gli avesse ancor promesso nulla con avergli promesso sè stesso, soggiunge Abramo: [...OMISSIS...] . Il Signore lo condusse fuori a cielo scoperto e facendogli guardar le stelle, gli disse: « Così sarà il seme tuo«. » E dice la Scrittura, che qui Abramo credette e il creder suo gli fu riputato a giustizia: [...OMISSIS...] . La cerimonia che sacrò questo patto di alleanza si fu da parte di Abramo un sacrificio solenne; e da parte di Dio una fornace fumante e una lampa di fuoco che apparì nella caligine della notte passando fra le vittime divise in due parti, e una orrenda visione che ebbe Abramo caduto in profondo sopore, nella quale gli fu mostrato che egli sarebbe morto in buona vecchiezza e il suo seme peregrino per quattrocento anni, solo dopo i quali doveva divenir possessore di quella terra. Con questi segni Iddio istruiva Abramo, che pur non era tutto la felicità di questa vita e lo sollevava a pensieri più ampii che si stendessero fin oltre il sepolcro, degni di un' anima che sopravvive alla distruzione del corpo. 6. Il patto sempiterno e la circoncisione . - Passarono quindici anni e ad Abramo nasceva la figliuolanza promessa: indugio che sforzava Abramo a sostenersi e a operare vie più con virtù spirituale, staccandosi dalle cose della terra. Quando fu giunto il sant' uomo all' età di novantanove anni, il Signore rinnovò il patto col suo seme, e ciò con parole più alte e magnifiche che non aveva fatto; perocchè allora gli promise che quel patto sarebbe sempiterno (1) tanto con lui che col suo seme; il che supponeva l' immortalità dell' anima, e dimostrava che il patto era nell' ordine delle cose non transitorie, ma che non passano, nell' ordine che riguarda l' uomo nella sua parte immortale. E acciocchè meglio apparisca la diversità delle promesse temporali dalle eterne, dice Iddio ad Abramo di averlo esaudito anche nei suoi prieghi in favore di Ismaele e che gli benedirà anche questo figlio, ma il suo patto sempiterno sarà con solo Isacco (2), chè da questo doveva nascere il Messia. A questa alleanza e protezione dalla parte di Dio doveva rispondere da parte di Abramo la perfezione morale, che Iddio gli intima fino a principio: « Io sono Dio onnipotente: cammina dinanzi a me e sii perfetto« (3). » E segno di questa giustizia morale, che colla fede nella parola di Dio doveva rinunziare e quasi toglier da sè il male della carne venuto per origine, si fu la circoncisione allora appunto data al santo Patriarca. 7. Simboli della Santissima Trinità . - I tre Angeli, fra i quali parla un solo e un solo è adorato da Abramo a cui dànno l' annunzio del prossimo nascimento d' Isacco, sono riconosciuti da' Padri per simbolo della Trinità. Il numero tre è con frequenza ripetuto negli avvenimenti e nei riti (4), appunto perchè gli uomini si assuefacessero a congiungere a questo numero qualche cosa di misterioso e divino, e così si apparecchiassero a ricevere poi il dogma della Santissima Trinità che il Messia doveva chiaramente annunziare al mondo. Gli stessi tre Patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe sono emblemi delle tre divine persone. 1. Agar e Sara . - Agar e Sara, l' una serva e l' altra libera, sono tipi della Sinagoga e della Chiesa. E` l' apostolo che ne dà l' interpretazione (1) e accusa d' ignoranza gli Ebrei che non intendessero questo tipo. [...OMISSIS...] Anche in Rebecca si può ravvisare un tipo della Chiesa dei Gentili (3). Lo stesso tipo trovano i Padri nelle due mogli di Giacobbe Lia e Rachele (4). Lo stesso di nuovo nel nascimento di Fares e di Zara, figliuoli gemelli di Tamar; quegli che prima aveva sporto il braccio e che pur nacque dopo, simbolo della Sinagoga; questi che nacque innanzi, della Chiesa che prevalse alla Sinagoga (5). 2. Sacrificio d' Isacco . - Il tipo del sacrificio di Isacco, sì efficace a significare il sacrificio di Cristo, non è solo spiegato nelle divine Scritture, ma è uno di quelli altresì di cui par che dica l' Apostolo che allora stesso furono intesi e conosciuti per tipi quando furono dati. Conciossiacchè dice che per la fede Abramo l' offerse e lo ebbe per una parabola (6). 3. Giuramento colla mano sotto il femore . - Non vi è traccia di questa cerimonia presso altri popoli: e nella Scrittura non si narra usata se non due volte dai due santi Patriarchi Abramo e Giacobbe (7). Egli è manifesto che vi si nasconde un mistero, spiegato da S. Agostino e altri Padri, cioè che con quel segno si voleva additare il Cristo che doveva uscire dai lombi di quei Patriarchi, pel qual Cristo si faceva il giuramento (.). 4. Giacobbe e Esaù . - Questi due figliuoli furono un tipo dei predestinati e dei presciti, spiegatoci dall' Apostolo (1). Giacobbe uomo semplice rappresenta il giusto del Vangelo che coll' umiltà e colla mansuetudine giunge a soverchiare gli uomini feroci: e però è tipo principale di Gesù Cristo. Le pelli caprine di cui egli si copre per ottenere la benedizione paterna, sono un tipo, secondo S. Agostino, dei peccati degli uomini di cui apparve Gesù caricato (2). 5. La scala di Giacobbe . - Questa era un bellissimo emblema del mediatore che congiunger doveva il cielo colla terra e che doveva discendere da Giacobbe. Gli angeli che ascendevano e discendevano possono significare le anime sante che per Cristo ascendono in cielo, e le grazie che di colassù i ministri di Dio ci riportano. 6. Lotta coll' angelo . - Giacobbe, che lotta coll' angelo e rimane vincitore e solo ratratto il nervo del femore, è un tipo di Cristo che pugna col suo Padre sdegnato contro l' uman genere peccatore, e disarma la sua giustizia sol col sofferire la morte nella sua umanità, che è rappresentata nel femore di Giacobbe: di che acquista il nome di gran principe, che è il significato della parola Israele. 7. Giuseppe venduto . - Questo tipo di Gesù Cristo è mirabilmente dichiarato da tutti i Padri ed interpreti. .. Schiavitù di Egitto e liberazione . - La schiavitù del popolo Ebreo sotto i Re Egiziani è il tipo della schiavitù del demonio da cui ci libera Gesù Cristo figurato in Mosè. Già ho accennato come il Mar Rosso indica, per testimonio di S. Paolo, le acque battesimali tinte della virtù del sangue di Cristo. 9. Pasqua . 1. Peregrinazione pel deserto . - L' uomo, dopo liberato dal peccato per Cristo colle acque del battesimo, si mette per questa vita piena di tentazioni e di pericoli viaggiando alla patria del cielo. Il viaggio del popolo di Dio che fa pel deserto dopo passato il Mar Rosso, era il tipo di tutto ciò. Non c' è avvenimento in questo mirabile peregrinaggio che non sia un emblema o segno istruttivo, come insegna S. Paolo. 2. Legge morale . - Iddio fu Re di questo popolo, la cui forma di governo da Giuseppe Ebreo fu chiamata acconciamente Teocrazia (1). Il Signore pubblicò una triplice legge, cioè morale, giudiciale e cerimoniale (2): e in tutte queste tre parti della legge ebraica si trovano moltissimi precetti emblematici, anche fra le stesse leggi morali. Eccone alcuni (3): a ) Il Sabbato in cui ogni uomo si doveva astenere dalle opere servili, rappresentava la libertà e la pace dei figliuoli di Dio, cui pienamente goderebbero nella requie eterna. Questo è uno dei primissimi emblemi, giacchè si trova nella narrazione della creazione fatta da Dio, il quale, riposatosi dopo creato il mondo, è modello ai giusti che, dopo le fatiche sostenute a conseguir la virtù, vi riposano, fatti simili a Dio (4). b ) La legge, comandata di portarsi scritta sul braccio e innanzi la fronte, indicava come essa doveva dirigere le azioni e i pensieri nostri. Lo scriversi poi sopra la soglia delle porte delle case mostrava, il non doversi vergognar punto l' Israelita di lei; ma pregiarla come il più caro ornamento (5). c ) Molte cose, come fu accennato innanzi, furono prescritte verso gli animali, a emblema di ciò che doveva farsi verso gli uomini. Si proibisce di cuocere il capretto nel latte della sua madre (6); di non pigliare i pulcini mentre sono ancora nel nido (7); di non uccidere la pecora cogli agnellini; di non legare la bocca al bue che tritura (.); di non mutilare gli animali (9): coi quali precetti si comanda di rispettare le affezioni naturali; di coltivare l' umanità, la dolcezza, la gratitudine, e la consideratezza in tutto ciò che si fa. d ) E` legge di non vestir vestimento contessuto di lana insieme e di lino; di non seminare la vigna di due specie di sementi (1). Il decreto è emblematico, e dimostra la schiettezza e semplicità che deve usare l' Israelita nelle sue parole e nell' operare. e ) Non arerai col bue accoppiato insieme coll' asino (2). S. Paolo medesimo ci spiega l' emblema di questa legge dicendo ai Corinti: [...OMISSIS...] . Torna a un medesimo lo spiegarla coi santi Basilio e Agostino (4) degli operai evangelici, de' quali non si deve congiungere nella vigna del Signore un sapiente con un insipiente. Dell' una e dell' altra interpretazione la sostanza è, che non si deve mescolare il sacro e il profano e evitare la compagnia dei malvagi. f ) La donna non vestirà veste di uomo, nè l' uomo userà veste di donna (5). Che qui si nasconda un simbolo si scuopre dal dirsi, che è abbominevole innanzi al Signore chi fa tali cose. Le quali forti parole appalesano, che si intende coprirsi sotto quella legge un più grave delitto che non il vestire vestimento di altro sesso, a rendere odioso ed abbominato il quale delitto mira quella terribile dichiarazione. g ) Colla proibizione di far sì che animali di diverso genere non fossero accoppiati insieme per la generazione, emblematicamente si condannano i vizii contro natura (6). Finalmente i Padri della Chiesa dicono in generale che tutti i precetti della legge mosaica significavano la giustizia di Cristo, a cui disponevano altresì gli uomini (7). 3. Legge cerimoniale . - E` dottrina dell' Apostolo che la legge cerimoniale fosse emblematica. Basti recar qui un solo luogo delle sue Epistole. Ai Colossesi egli scriveva: [...OMISSIS...] . Egli non sarebbe bisogno recare tante prove di questa verità di cui tratta tutto il presente libro, se degli eruditi, o più veramente grammatici de' nostri tempi, non mostrassero un' avversione incredibile a trovare emblemi e figure negli avvenimenti registrati nelle Scritture e nelle ebraiche leggi. Io credo che costoro si mostrano assai lontani dal conoscere lo stato intellettuale e il genio degli antichi popoli che nell' Oriente tuttora si conserva; e dall' aver fede in quella divina Provvidenza che, regolando le cose tutte con materno affetto, alla condizione degli uomini cui voleva istruire e abbonire si accomodava. Ma non è mio intendimento di entrare con cotestoro in una lotta erudita (la quale però non temerei, attesa la bontà della causa e gl' immensi monumenti a mio favore che gli studii critici, fatti modernamente intorno alle antichità e il genio di tutti i popoli, mi somministerebbero). Mia intenzione e fine di queste carte è solo di esporre la dottrina della Chiesa cattolica: e credo un fatto innegabile questo, che in tutti i secoli, massime i più antichi, i Padri e scrittori della Chiesa con grande unanimità riconoscono le antiche Scritture essere tutte piene de' segni istruttivi emblematici , di cui parliamo. A suggellare un tal fatto sostenga il lettore che io aggiunga un testimonio di somma autorità nella Chiesa quale è l' Aquinate, che come è noto raccolse il succo di tutta la tradizione e la midolla per così dire della dottrina cattolica sparsa negli innumerabili monumenti dell' antichità. Così adunque epiloga il grand' uomo la dottrina tradizionale della Chiesa intorno alle figure contenute nella legge cerimoniale di Mosè e alla natura di queste figure paragonate con quelle che si trovano nella legge nuova. [...OMISSIS...] Da queste ultime parole si vede il filosofo che parla. Egli è lo stato intellettivo dell' umanità nei diversi tempi che si deve meditare e dal quale solo si può conoscere quale maniera di insegnamento fosse acconcia nei diversi periodi della vita del genere umano; e massime dal diverso grado di sviluppo che venne conseguendo negli uomini la facoltà di astrarre. Il santo Dottore prosegue dunque a determinare due stati della cognizione umana così: [...OMISSIS...] . Fin qui l' Aquinate. Venendo poi a divisare le varie parti della legge cerimoniale, ella si compone di due parti cioè di segni istruttivi emblematici (3), e di Sacramenti . Di questi secondi ragioneremo in appresso: ora il nostro discorso non si volge che intorno ai primi. I segni istruttivi emblematici contenuti nella legge sono di tre specie, vale a dire: 1. i sacrificii ; 2. le cose sacre , come sarebbero il tempio, i vasi sacri, le vesti sacerdotali; e 3. le osservanze . I primi formano il culto dovuto a Dio, le ultime determinano la conversazione e la vita dell' uomo, e le seconde sono strumenti e mezzi che servono tanto al culto come alla vita. Diremo qualche cosa di tutte tre queste maniere di segni istruttivi emblematici. Giusta la dottrina del Cristianesimo due sono le vite dell' uomo, la presente e l' eterna: nella presente l' uomo è imperfetto e si perfeziona nell' eterna. Ma l' una è simile all' altra, perciocchè quelle stesse cose che quaggiù credute per fede formano la santità, colassù vedute nel proprio loro essere formano la gloria. Sicchè ciò che è emblema della vita santa deve essere per sua natura anco emblema della gloriosa. Dell' una poi e dell' altra vita il modello è Cristo, nel quale è espressa la perfezione delle due vite. Non deve adunque far maraviglia se gli antichi emblemi esprimessero, secondo i Padri, tutte due queste cose a un tempo, conciossiacchè non poteva essere diversamente, giacchè se aver dovevano similitudine con una di quelle cose, per la ragione stessa dovevano averla colle correlative (1). Laonde anche i sacrifici ebraici sono a un tempo figure della santità della vita e figure della celeste gloria e figure di Cristo che quelle due vite in un modo perfetto ebbe in sè medesimo. Gli animali immolati a Dio sono emblema degli uomini che devono essere tanto in questa vita che nella futura a Dio dedicati con intero e perenne sacrificio: particolarmente poi rappresentano tutti il sacrificio dell' eterno Sacerdote Gesù Cristo. Di tre specie di sacrificii erano nell' antica legge, l' olocausto, il sacrificio per lo peccato, e il sacrificio pacifico. Nell' olocausto, dice l' Angelico, si bruciava tutto per significare che come tutto l' animale risoluto in vapore si alzava in alto, così tutto l' uomo e le cose sue erano soggette al dominio di Dio ed a lui da offerirsi. Nel sacrificio per lo peccato una parte della vittima si bruciava, e un' altra cadeva in uso dei Sacerdoti; e ciò a significare che l' espiazione dei peccati si faceva da Dio pel ministero dei Sacerdoti. Nell' ostia pacifica che si offeriva, o in rendimento di grazie, pei beneficii ricevuti, o per ottenerne di nuovi, una parte si bruciava in onore di Dio, un' altra cadeva in uso de' Sacerdoti, e una terza in uso degli offerenti: e ciò a significare che la salute dell' uomo procede da Dio secondo la direzione de' suoi ministri e colla cooperazione degli stessi uomini che si salvano. I primogeniti dovevano essere tutti offerti al Signore in segno della sua signoria tanto come Creatore, sì come per la qualità di vendicatore dei peccati. Ma gli animali immondi dovevano essere riscattati con certo prezzo e i mondi dovevano essere immolati senza riscatto. E ciò a significare che a Dio non è grato se non il sacrificio di cose monde. Or poi il primogenito dell' uomo riscattavasi collo stesso prezzo onde si riscattava l' asino, animale immondo, che era di cinque sicli: efficace modo di significare la immondezza dall' uomo contratta col peccato originale, e la necessità del nascere un giusto il quale potesse essere sacrificato in odore di accettevole sacrificio; il quale non poteva essere che Cristo. Tutto era figurativo negli istrumenti e utensili delle sacre funzioni del popolo Ebreo. Ecco alcune di queste figure. a ) Il tabernacolo è in piccolo il tempio: e l' uno e l' altro rappresentavano la Chiesa, o certo il corpo dell' umanità nelle sue relazioni con Dio. E` l' Apostolo S. Paolo che chiama Cristo « il ministro della santità e del vero tabernacolo cui ha formato il Signore e non l' uomo« (1). » L' antico tabernacolo adunque non era il vero, ma una figura del vero. Questo vero tabernacolo non è terreno ma celeste, cioè tutto spirituale (2): non si tratta di un luogo santo materiale ma della santità stessa, dell' essenza della santità. Perciò continua a dire: [...OMISSIS...] . Cristo adunque era quel Sacerdote che offeriva un dono celeste, un sacrificio spirituale: laddove i discendenti di Aronne non offerivano che doni terreni ed erano simboli, secondo l' Apostolo, dello spiritual sacrificio (3). L' entrare che faceva una sola volta all' anno il solo sommo Sacerdote nel santuario, secondo l' Apostolo, era il tipo dello entrare che doveva far Cristo in cielo una sola volta per sempre, pel sacrificio della sua morte: un solo sacrificio, la sua morte; un solo gran Sacerdote in cielo vivente in perpetuo. E si osservi che lo stesso sacrificio eucaristico è più veramente celeste che terreno, poichè la vittima è ivi nascosta agli occhi terreni e non si parte dal cielo; sicchè tanto la vittima quanto il Sacerdote anche nella Eucaristica è veramente in ciel; e in questo gran rito può dirsi veramente che è il cielo che comunica colla terra. Aperto poi il cielo per Cristo, è tolto quel divieto che non entrasse che il solo Sacerdote in quel verace Santuario: e perciò l' antico rito è abolito perchè oggimai a tutti è aperto l' adito nel Santuario (1): [...OMISSIS...] . b ) I monti santi erano due, il Sion ed il Moria. Il monte di Sion, sopra il quale era edificato il palagio di Davidde, figura del Cristo, rappresentava la giustizia nella quale è fondata la Chiesa. Basta confrontare fra loro i varii luoghi della Scrittura per accertarsene. Giacchè in essi or si dice che Gerusalemme ha i suoi fondamenti sopra Sionne, come nel Salmo LXXXVI, 1: [...OMISSIS...] . E or che è fondata nella giustizia, come nel profeta Isaia che della nuova Gerusalemme dice con parole proprie e non enigmatiche: « Tu sarai fondata nella giustizia« (3). » Dai quali due luoghi confrontati insieme si vede che i monti santi e la giustizia sono sinonimi significando la stessa cosa, quelli in enigma e questa fuor di ogni velo (4). I Salmi esprimono la stessa cosa non in forma di enigma solamente, ma anche di espressa similitudine, là dove dicono: « La tua giustizia è come i monti di Dio« (5). » Egli è a questo fondamento solidissimo che attribuiscono le Scritture Sante l' immobile fermezza della casa del Signore. Cristo dice colla stessa maniera di parlare, che la sua Chiesa non può essere scossa dall' inferno, perchè fondata sopra la pietra (1) e i Salmi dicono che egli « prepara i monti della sua potenza (2). » Per questo ancora Davidde e in lui Gesù Cristo disse [...OMISSIS...] . c ) In generale il Re del popolo di Dio era l' emblema del vero Re del popolo eletto, Gesù Cristo. Per ciò era stato ordinato nel Deuteronomio, che questo Re dopo che sarà assiso nel solio del suo regno si trascriverà il Deuteronomio di questa legge in un volume, ricevendone l' esemplare dai Sacerdoti della tribù di Levi (4). I Re di Giuda seduti sopra una cattedra di legno nell' atrio principale del tempio (5) leggevano nell' anno sabbatico a tutto il popolo la legge nuova, ossia il Deuteronomio: e così leggiamo che faceva il santo Re Giosia (6). d ) Anche il monte Moria su cui era edificato il tempio, era uno de' monti santi. I quali erano due, [come due] sono i principii della giustizia (7) e della legge, cioè la ragione e la rivelazione, la natura e la grazia, la giustizia ideale e la giustizia reale: e due sono parimente gli oggetti della giustizia, cioè Iddio e la creatura ragionevole; inde i due precetti della carità. e ) La giustizia ideale non eccede l' ordine delle idee, ma la giustizia reale appartiene all' ordine delle cose: questa tocca il sentimento, quella la sola norma dell' operare: questa seconda è il lume, e quella è la forza di operare secondo questo lume. Appartengono queste due cose ai due modi dell' essere, l' uno ideale e l' altro reale. Queste due giustizie, se così mi lice chiamarle, sono egualmente necessarie all' uomo, perchè l' uomo ha bisogno di un lume per conoscere i suoi doveri e di una attività che il faccia capace di eseguirli. Que' due santi monti, su l' uno de' quali era la casa del Re che comunica al popolo la scienza della legge, sull' altro la casa di Dio che comunica la grazia la quale muove la volontà, sono gli emblemi delle due parti della giustizia di cui parliamo. Poichè questi sono i due perni di tutto l' universo morale, non è maraviglia che l' emblema di essi sia ripetuto sì di frequente nelle divine Scritture. Già l' abbiamo trovato al principio delle cose in quelle due piante della vita e della scienza del bene e del male (1) locate nel mezzo del paradiso. Entro il tabernacolo e il tempio avevaci lo stesso emblema, e questo era ripetuto nel sancta e nel sancta sanctorum . Perocchè nel sancta vi aveva il candelabro, simbolo della luce che illumina l' intendimento, e appartiene alla scienza, e i pani della proposizione, simbolo della vita e della forza che avvalora la volontà, ciò che appartiene alla grazia. Medesimamente nel sancta sanctorum v' avevano le tavole della legge o la scienza, ordine ideale: e la manna o cibo vitale, ordine reale. Questi due elementi sono della natura delle cose; e quindi la spiegazione che io do di tali [simboli] non può sembrare in conto alcuno ricercata e speculativa al lettore sensato. E perchè si vegga che questa dottrina appartiene anzi al deposito delle più comuni tradizioni cristiane, io citerò un brano di un pio libro, dove si contiene quanto ho detto. Il celebre autore dell' Imitazione dice appunto così: [...OMISSIS...] . (Ecco le due cose di cui parliamo, l' una appartenente all' essere reale e all' ideale l' altra. Seguita in questo modo toccando come queste due cose si abbiano nella legge nuova). [...OMISSIS...] (Or ecco come accenna dopo di ciò il tipo di queste due cose nella legge antica). [...OMISSIS...] f ) Gerusalemme, o città santa (4), era l' emblema della Chiesa di Cristo per l' unione degli eletti nel mezzo de' quali abita il loro Re. g ) La terra promessa significa il medesimo dal lato dell' abbondanza di tutti i beni di cui godono i Santi che compongono la Chiesa, massime nella consumazione della loro predestinazione in cielo. E però quella è detta la terra che scorre latte e miele, con una espressione che sarebbe soverchia a pigliarsi alla lettera e non trasportandosi al significato traslato che viene sempre indicato da quelle espressioni che nella divina Scrittura mostrano di eccedere prese materialmente. h ) La lunghezza della vita promessa ai mantenitori della legge era simbolo dell' immortalità, e tutti gli altri beni terreni simboleggiavano i celesti (1). i ) Le feste degli Ebrei erano sette temporanee e una continua: perocchè, dice S. Tommaso, era come una continua festa pel popolo di Dio, perocchè ogni giorno la mattina e la sera s' immolava l' agnello. E per quella continua festività del perenne sacrificio si rappresentava la perpetuità della divina beatitudine: come anche più prossimamente il perpetuo sacrificio di Cristo che sempre è vivo a interpellare per noi. Le sette feste erano le seguenti: 1. Il Sabbato, in memoria della creazione, simbolo della vita spacciata dalle cose terrene. 2. La festa della nuova luna, in memoria della conservazione e del governo divino dell' universo: e rappresenta la Chiesa di Gesù Cristo e Maria che a questa presiede. 3. La Pasqua era in memoria della liberazione degli Ebrei dall' Egitto, e rappresentava l' agnello che toglie i peccati del mondo, immolato appunto nell' anniversario dell' agnello mangiato dagli Ebrei in Egitto. 4. La Pentecoste che celebravasi, cinquanta giorni dopo Pasqua, in memoria della legge data al Sinai, e rappresentava lo Spirito Santo che doveva discendere in quel giorno appunto sopra gli Apostoli. 5. La festa delle trombe nel primo giorno del settimo mese, in memoria della liberazione d' Isacco quando Abramo trovò l' ariete intricato colle corna nella siepe: e questa significava la predicazione degli Apostoli. 6. La festa dell' espiazione il decimo dì del settimo mese, alla quale la festa delle trombe era come l' invito, in memoria dell' essersi Iddio placato alle preghiere di Mosè, quando il popolo Ebreo ebbe adorato il vitello d' oro: e rappresenta l' emendazione del popolo Cristiano dai peccati. 7. La scenopegia o festa de' tabernacoli, in memoria della protezione da Dio accordata al popolo nel deserto, l' ottavo dì della quale era la festa della Colletta, in cui mettevasi a parte ciò che il popolo voleva offerire per mantenimento del pubblico culto, e ciò in memoria dell' unione, pace e abbondanza del popolo di Dio nella terra promessa dove erano dopo la peregrinazione: le quali feste figuravano la peregrinazione dei fedeli pel deserto di questo mondo e la loro unione in cielo. a ) Gli animali figuravano i Gentili e nella varietà di questi animali erano significati i varii vizii di cui i Gentili erano macchiati. Il mangiare nelle sacre Scritture è l' emblema del congiungersi intimamente, acquistare la stessa natura e ripor[vi] la propria felicità. Era dunque vietato con quell' osservanza agli Ebrei di addomesticarsi coi Gentili, pigliare la natura ossia i costumi di questi, e riporre la propria felicità non in Dio ma nei beni sensibili nei quali gli incirconcisi (i viziosi) ponevan la loro. L' immondezza legale era figura della immondezza spirituale: pena di tale immondezza era la scomunica, cioè la separazione dal popolo puro e mondo, acciocchè questo non contraesse pure la stessa macchia. b ) Le frutta dei tre primi anni erano immonde; e ciò a significare il peccato originale per il quale le cose tutte di questa terra sono infette sino a tanto che Cristo non le purifichi. Per ciò quel lasciarsi dei primi frutti è detto circoncisione nelle Scritture, poichè come questa richiamava alla mente l' original peccato, così quei frutti de' primi tre anni; dopo il quale venivan quelli del quarto anno che si offerivano al Signore, e così si purificava la pianta che produceva negli anni seguenti frutti puri, di cui potevano raccogliere e mangiare i figliuoli d' Israello. Ecco come è espressa questa legge nel sacro Testo: [...OMISSIS...] . c ) Le fimbrie poste nei quattro angoli del pallio, e le bende color celeste che indi pendevano, erano simboli della purità degli occhi, che dovevano allontanare lo sguardo dalle cose seducenti e impure, e dar opera alla contemplazione delle celesti. Anche questa spiegazione risulta manifesta dalla lettera del sacro Testo: [...OMISSIS...] . d ) Nel Deuteronomio (3) è comandato: [...OMISSIS...] . I Farisei secondo la lettera scrivevano in membrane la legge e le si tenevano legate alle mani e alla fronte le appendevano, acciocchè si muovessero innanzi agli occhi loro. Ma il precetto era simbolico, e per le mani significavasi l' operazione e per gli occhi la contemplazione, volendo dire che la legge si doveva meditare colla mente ed eseguire coll' opera e così averla del continuo presente allo spirito. e ) Molte poi osservanze erano volte a conservare la politezza esteriore de' corpi, la quale significava la mondezza interiore dello spirito. 4. Legge giudiziale o politica . - Anche le leggi politiche degli Ebrei non erano senza figure. S. Tommaso non fa altra distinzione da queste leggi alle cerimoniali, quanto al contenere figure, se non che le cerimoniali osserva essere state istituite direttamente e principalmente a dover essere figure, e « i precetti giudiziali sono figurativi, non in primo luogo e per sè, ma per un cotal conseguente. » [...OMISSIS...] . 5. Sangue delle vittime, nell' alleanza contratta ai piedi del Sinai . - Mosè, che disceso dal Sinai per ratificare l' alleanza innalza i dodici altari e fa sacrificio, usa fra gli altri riti quello di aspergere col sangue delle vittime non solo il popolo ma ancora il libro dell' alleanza. Ciò rappresenta il doppio effetto dell' applicazione del sangue di Cristo che salva i fedeli e rende possente la parola di Dio, ossia la lettera della legge collo Spirito Santo. 6. Tavole della legge spezzate . - Le prime tavole della legge spezzate da Mosè rappresentano l' antica legge che doveva essere abolita e rinnovellata. 7. Serpente di bronzo e altri simboli nel deserto . - Notissima immagine di Gesù Cristo è quella del serpente di bronzo. E così pure il legno che indolcisce le acque amare, la pietra percossa colla verga di Mosè, la manna e altri tali sono troppo noti simboli del Messia o dei fatti della sua vita. .. Uomini grandi del popolo Ebreo . - Tutti gli uomini grandi del popolo Ebreo, come Mosè, Giosuè, Sansone, Davide, Salomone e i Profeti furono parimenti tutte figure di Gesù Cristo. I simboli enumerati fin qui vogliono essere altrettanti esempi che mi valgano a provare la verità generale, che Iddio usò ad ammaestramento degli uomini questo mezzo delle sensibili rappresentazioni. Or raccogliendoci a contemplare quei simboli in massa, non ci sarà difficile il conoscere quali maniere di cognizioni essi miravano a far entrare nelle menti degli uomini. Due specie di cognizioni sono insensibili, cioè le astratte e le negative . Queste ultime hanno bensì per oggetto qualche cosa di sussistente e di reale, ma questo ci è piuttosto indicato al vedere della mente che offerto da percepire (1). Per ciò non potendo questi due oggetti cadere sotto i sensi corporei, ai quali l' uomo è condizionato, hanno bisogno di simboli per essere dall' uomo ricevuti nello spirito e impressivi con qualche efficacia, cioè di rappresentazioni sensibili che abbiano con essi una cotale similitudine, analogia, relazione, come già fu detto. Lumeggiamo via meglio la cosa con qualche esempio: pigliamo l' idea della giustizia, la quale è un' idea astratta che non cade punto sotto i sensi. Gli uomini avevano bisogno di ben fissare un' idea sì importante, di fissarla in modo che l' avessero nel loro spirito netta, spiccata dalle altre cose che a lei non pertengono e possente in modo che prevalesse in forza alle stesse idee delle cose sensibili. Ora gli uomini primitivi erano tutto senso, non percepivano che pel senso, non credevano che al senso, perciocchè non essendo ancora formate in loro le grandi astrazioni, queste nulla operavano sullo spirito. Come adunque poteva il divino istruttore condurre tali uomini a formarsi l' astrazione della giustizia e renderla questa nelle menti lucente, cioè rendere atte le menti a vedere e quindi gustare l' ineffabile bellezza della giustizia, che di sua natura sfugge ai sensi corporei? (2). Questo era il primo problema che si era proposto di sciorre il gran Maestro degli uomini; ed ecco in che modo lo sciolse ed operò dietro ad un tale scioglimento. Egli cominciò dal far andare unite insieme la felicità temporale e la virtù, il vizio e la temporale infelicità, promettendo dei premi temporali a quelli che avessero operato secondo le norme della sua legge, e delle pene temporali a quelli che avesser violati i suoi comandamenti. Or posciachè i beni e i mali sensibili e terreni erano i soli ben conosciuti dagli uomini primitivi, e però i soli che fossero sopra loro efficaci e possenti, col fare Iddio questa congiunzione aveva resa importante la virtù e il vizio anche agli occhi di quegli uomini non atti che a percepire le cose sensibili. Se la virtù e il vizio fossero stati al tutto sciolti dai beni e dai mali temporali, non era possibile agli uomini primitivi di mettere in tali oggetti una grande importanza: tali oggetti non potevano chiamare la loro attenzione, col solo lungo affissare della quale solamente le idee astratte acquistano vita ed efficacia nell' animo degli uomini e prendono per così dire un corpo. Ma con quella congiunzione avvenne, che tutto l' amor degli uomini posto ai beni sensibili e tutto il timore dei mali serviva alla virtù e alla giustizia come al solo mezzo unico di ottenere quei beni desiderati e di schivare quei mali temuti. Furono dunque gli uomini per tal modo condotti a dire seco medesimi: « Or ella deve essere pure la bella cosa questa giustizia se essa sola trae con sè tutta l' abbondanza dei beni desiderabili; egli deve essere pure brutto e deforme il vizio, s' egli arreca tutti i mali temibili, se in odio di lui l' essere supremo castiga così severamente i viziosi«. Qui si vede eccitata l' attenzione umana a riflettere seriamente sulla natura della virtù e del vizio, del giusto e dell' ingiusto: qui si vede gli uomini stimolati di continuo a vigilare e spiare se nelle proprie azioni si intromettesse furtivo quel peccato che li renderebbe subitamente sventurati, e fatti anzi tutti solleciti e industriosi a dover conoscere e introdurre nella maniera del loro vivere quella virtù che aveva possa di far stillare il cielo in ubertose rugiade, e dare la pinguezza alle biade della loro terra e la fertilità ai loro armenti. Con ciò si era fatto il primo passo, ed era un gran passo quello di far conoscere agli uomini tre cose. 1. che la giustizia valeva almeno altrettanto di tutti i beni terreni di cui era madre; 2. che questa giustizia sebbene insensibile meritava pure una grande attenzione e doveva nascondere in sè stessa qualche cosa di misterioso e di sublime; 3. che la natura divina era sommamente amante di questa giustizia, dal momento che distribuiva i beni in ragione di lei. Ma pervenuta la mente umana a questa istruzione, ella già doveva salire più alto, e aveva acquistato il punto di appoggio, per così dire, dal quale spingersi al di là di tutte le cose terrene e pervenire al concetto puro della giustizia. E veramente Iddio con quella congiunzione del bene e del male morale al bene e al male temporale aveva per così dire resa sensibile la giustizia, le aveva aggiunto un corpo, era, se mi lice usare questa similitudine, l' anima tutta spirituale che si vede mediante un corpo da lei animato. Trovato così il modo di far vedere all' uomo sensibile la virtù e la giustizia, questa era già entrata nel pensiero dell' uomo. Or non restava altro se non spogliarla di ciò che non le apparteneva, e così ridurre a perfetta purezza quell' idea che era bensì formata, ma che si trovava ancora grossolana e materiale, quasi come l' oro non appurato nella miniera. La materia dunque su cui esercitare l' estrazione non mancava più: era posto da Dio un gran fatto esterno, sensibile, dal quale era contrassegnata e marcata la giustizia, come da un segno luminoso, che non permetteva che ella non fuggisse più dall' occhio spirituale dell' uomo. Ma Iddio doveva ancora aiutare l' uomo a fare una tale separazione del concetto della giustizia da ogni altro concetto. Questo era il secondo problema dell' educazione umana; ed ecco anche di questo problema, la divina soluzione. Prima Iddio aveva congiunta la giustizia coi beni terreni, e con questo artificio trasse gli uomini a porre la loro attenzione sulla giustizia come cosa di molta importanza. Poscia divise questi beni terreni dalla giustizia e lasciò questa sola, e con tale artificio ridusse nella mente dell' uomo la giustizia isolata, la pura astrazione di giustizia; ciò fu la soluzione del secondo problema. Per tal modo fece Iddio nascere nelle menti umane un' operazione simile a quelle che fanno i chimici quando vogliono isolare qualche sostanza, che prima la congiungono a un' altra che poi separano per la maggiore affinità che ha questa seconda con una terza. Col congiungere la giustizia coi beni temporali Iddio indusse gli uomini a fissare col pensiero questa giustizia. Fissata bene che l' avessero, ella non aveva più bisogno dell' accompagnatura dei beni temporali; e però questi furono staccati da lei ed ella rimastasi sola reggentesi da se stessa come una volta a cui si tolgano di sotto le armature e le centine. Ora tutto il tempo che precedette la venuta di Cristo fu speso principalmente nella prima operazione (1): al nuovo Testamento appartiene la perfezione della seconda. Per questo nell' antico patto sono sempre promessi ai giusti dei beni temporali e nel nuovo è detto che la mercede loro copiosa è nei cieli. Nulladimeno anche nell' antico si cominciò la seconda opera che dal Messia si doveva al tutto perfezionare (2). Per ciò si vede quanti patimenti fossero dati anche in quel tempo a Giobbe e a Tobia, uomini giusti: ma furono però patimenti che ebbero fine con un esito buono anche temporalmente. Vi aveva un amore del luogo natale; e Iddio per ammaestrare Abramo che qui non istà il vero bene, chiama quel Patriarca fuori della Caldea. Vi aveva un istinto alla figliuolanza; e Iddio nol contraria in tutto, ma rende sterili le donne più sante (1), e fa che i genitori debbano spesso aspettare i figliuoli fino all' ultima vecchiaia e ad averli come suo dono, acciocchè lo servano lungamente anche senza mercede temporale, e così imparino a pregiare la giustizia per sè stessa e a riconoscere Iddio come datore de' beni: il che mirava a fissare nelle menti questa idea per sè negativa di Dio (2). Abramo è tentato fino ad esigere da lui il sacrificio di quel figliuolo, natogli in vecchiezza, sul quale era appoggiata tutta la speranza della sua gran discendenza. Il santo uomo messo in quella prova, aveva da una parte l' amore del figlio, dall' altra la giustizia: doveva scegliere, e per scegliere doveva riflettere al valore delle due cose fra cui cadeva la scelta. Preferendo la giustizia al figlio, egli aveva pronunciato seco medesimo questo giudizio:« la giustizia è una cosa tanto preziosa che va anteposta agli stessi figliuoli«. Di più aveva giudicato:« Iddio che mi comanda tal cosa è un essere così grande e buono che mi può riccamente compensare della mia perdita«: ed essendo costretto di dover formare colla sua mente questo giudizio, egli veniva a fissare la potenza, la fedeltà e la bontà di Dio. Così queste idee negative s' imprimevano e scolpivano nella sua mente, condotta dalle circostanze, guidate dal supremo maestro a dover fare somiglianti riflessioni. Non c' è forse un solo bene temporale che Iddio già nell' antico tempo non l' abbia fatto venire in collisione colla giustizia e di cui non abbia richiesto il sacrificio (3). Grande era l' amor naturale della ricchezza temporale e del dominio. Iddio promette tutto ciò ai Patriarchi, promette loro la Cananea, vasto e reale possedimento, se a lui saranno fedeli e ubbidienti. Ecco la prima operazione colla quale Iddio impegnava quegli uomini a porre tutta la loro attenzione nella giustizia. Dopo di ciò egli fa che vivano tutta la loro vita pellegrinando in paese straniero, senza possedere pure un palmo di terra e che si contentino di una parola, di una promessa da eseguirsi solo molto tempo dopo la loro morte, quattrocento anni dalla chiamata di Abramo (1). Quest' era la seconda operazione colla quale li teneva staccati dai beni temporali e faceva loro riflettere che vera ricchezza è solo il timore di Dio, la vita giusta e il fidarsi della sua parola: tutte idee astratte e negative. Ora convien qui porre una osservazione. Le idee astratte possono formarsi nella mente umana coll' aiuto de' simboli naturali. Ma per condurre la mente bambina dell' uomo a fissare e bene imprimersi le idee negative appartenenti alla natura divina e ai suoi attributi, ciò non era egualmente acconcio: e la ragione ne è manifesta a chi considera la differenza fra le idee astratte e le idee negative di Dio. Il principio di ogni astrazione si trova naturalmente nella mente umana, che ha in proprio l' idea dell' essere, l' astrattissima di tutte le idee; e le altre idee astratte non sono che la stessa idea dell' essere limitata, circoscritta, applicata. A ragion d' esempio, l' idea della giustizia è l' essere applicato a giudicare del prezzo delle cose poste in relazione colla volontà che sente di doversi accomodare a tali giudizii. Questi giudizii si fanno in tutte le azioni: e l' astrarli dalle azioni e il ridurli ad una formula generale è il medesimo che formarsi gli astratti del giusto e dell' ingiusto. La materia adunque da cui si toglie l' idea della giustizia è data nell' ordine della natura, come è pur dato il principio dell' astrazione (l' idea dell' essere). Non si richiede adunque altro acciocchè la mente si formi tali idee, se non di rendergliele importanti, sicchè ella dal bisogno che n' ha sia stimolata e mossa a fissarle e formarsele, contemplandole anche con diligente attenzione. Al che la provvidenza usò della industria sopra descritta, di congiungere la giustizia colle prosperità temporali, e poi da queste spartirla. Ma le idee negative di Dio non hanno alcuna materia nell' ordine naturale; hanno solo delle analogie. Non si poteva dunque con dei simboli puramente naturali condurre il pensiero umano a formarsi accurate idee della divinità; chè anzi tali simboli, se fossero stati puramente naturali, l' avrebbero agevolmente ingannato, facendogli credere che Dio fosse simile alle cose naturali. Per condurre adunque il pensiero degli uomini a Dio, dovevasi sollevarlo sopra tutta la natura e fargli intendere, che Dio era un Essere principio di tutte le cose, il quale da queste interamente differiva e la cui natura era tanto grande e levata che da mente umana concepire non si poteva perchè non vi avevano cose dall' uomo percette che rendessero di lui similitudine. Ora a far questo Iddio tolse a divietare agli Ebrei tutte le imagini delle divinità (1), per pericolo appunto di confondere la natura con Dio, attribuendo o le divine proprietà alla natura o a Dio le proprietà naturali; il che era stato larghissima fonte d' idolatria, massime presso gli Egiziani, fra i quali gli Ebrei avevano lungamente abitato e non lasciatili senza andarne tinti di loro costumanze. [...OMISSIS...] Veramente di nessuna cosa sono più sollecite le divine Scritture quanto di far conoscere Dio incomprensibile: di che è ragione contenersi nella incomprensibilità quel più e quel tutto che può conoscere l' uomo di un tal essere; e a significar questo para anche il nome ineffabile, conciossiacchè quel non potersi pronunziare un tal nome doveva significare non potersi comprendere un sì grande Ente. Chiamasi anche Dio nascosto e che abita una luce inaccessibile (3). Per sì grande concetto non usavansi dunque più i simboli, ma solo il linguaggio proprio, e l' esclusione di ogni simbolo, la quale esclusione essa stessa significava, e potrebbesi chiamare un efficacissimo simbolo. Questo esser però di natura incomprensibile doveva esser conosciuto dagli uomini colla indicazione de' suoi effetti. Tutto l' universo era effetto che indicava questa causa prima: ma la mente umana doveva essere eccitata a fissarla principalmente col nuovo e collo straordinario; e quindi la necessità de' portenti. Non che questi disvelassero la natura divina o a pieno ne esprimessero gli attributi, ma determinavano però meglio l' Ente supremo, il quale per essi acquistava un nome. A ragione di esempio, egli si chiama il Dio di Bethel (1) per la visione che ebbe in questo luogo Giacobbe. Egli si dice il Dio che ha tratto gli Ebrei dall' Egitto con mano forte (2): il Dio che ha parlato dal Sinai (3): e così di tutti gli altri grandi e straordinarii avvenimenti. Quando anche la lingua che esprimeva Iddio non avesse guadagnato con questi fatti un nome o una espressione di più, doveva però imprimersi nelle menti e contrassegnarsi con quel fatto Iddio, ciò che era un aiutare l' umano intendimento ne' suoi primi sviluppi a fissarsi e aderire a Dio e alle cose divine e insensibili. E l' uomo pur coll' essere condotto a vedere Iddio negli avvenimenti straordinarii e mirabili come invisibile cagione, veniva a imparare in che modo il doveva vedere anche negli ordinarii e comuni, sebbene questi non lo scuotessero e quasi dire svegliassero come quelli. Sebbene nelle età prime quando l' uomo era nuovo e nuova era la natura, questa aveva una cotal forza maggiore di farsi considerare come opera stupenda e di levare a Dio le menti collo stupore (1). Perchè adunque l' uman genere ancor fanciullo e vuoto di cognizioni si conducesse a formarsi e ben imprimersi le idee negative di Dio , si richiedeva un magistero maggiore della provvidenza che non sia per condurlo a formarsi le astrazioni. A condurlo a queste bastava il linguaggio e i simboli naturali: ma per le idee negative di Dio voleva anzi la cassazione di ogni simbolo od imagine, ed in una la considerazione degli effetti divini, in tra' quali vi dovevano apparire di quelli che si togliessero al tutto dal corso regolare e ordinario della natura. Ma un altro spediente messo in opera dalla sapienza di Dio per maggiormente scolpire nella mente all' uomo quelle idee negative che gli bisognavano e che nella natura non avevano ritratto alcuno, furono i simboli moltiplici e mostruosi . Non servivano già questi a esprimere la natura divina. Come abbiamo veduto, erano divietate tutte le rappresentazioni, o naturali o anche artificiali di essa divina natura in sè stessa considerata. E che il divieto delle imagini non fosse universale ma si restringesse a quelle che si ordinavano a significare la divina essenza, mi par provarsi anche con quel luogo della Scrittura dove si parla di Dio disceso sul Sinai a dar la legge. [...OMISSIS...] . Per tal modo col non mostrarsi Dio sotto figura alcuna volle insegnare, che la sua essenza è cosa al tutto diversa da quanto si trova nella natura; e quindi proibì che non l' effiggiassero. Qui è manifesto che la proibizione delle imagini e sculture si restringe a quelle che si facevano per rappresentare la natura divina; l' uso delle quali avrebbe rovesciati gli Ebrei nella idolatria, come era avvenuto sotto il velo delle imagini. Ragione che dà lo stesso sacro Testo, del non essersi Iddio mostrato figurato sul Sinai: [...OMISSIS...] . Ma altro è a considerarsi Iddio nella sua recondita maestà e pura essenza, e altro nelle comunicazioni che di sè fa alle sue creature. La maggiore di queste, la più solenne, quella che regola tutte le altre è la divina Incarnazione. Or la natura divina circoscritta per così dire e velata dall' umanità è il principale soggetto dei simboli mostruosi che si scontrano nelle sacre pagine. La ragione di questi accozzamenti di varie figure che non sono in natura è questa. Iddio anche circondato dalla carne è però cosa così augusta e così lontana dal trovare in tutte le altre cose acconcie similitudini, che non si può altramente avvicinarsi a simboleggiare i suoi molti e singolari pregi, che col pigliare a simbolo di lei, non già alcun essere naturale, ma un qualche ente imaginario e artificiale che congiunga in sè le membra e le proprietà di molti. Con un tal simbolo mostruoso si viene a significare, che la cosa che si rappresenta eccede i confini degli esseri che sono nella natura, e unisce in sè medesima le qualità e virtù separate in molte e varie nature. Per chiarir meglio questa sapientissima economia che tenne Iddio nell' ammaestramento degli uomini, scegliamo fra i simboli moltiplici e mostruosi usati nelle Scritture il più solenne di tutti, che abbiamo già accennato, ma che gioverà un po' più distesamente descrivere, voglio dire il carro di Dio . Questo carro è un simbolo costante nelle divine Scritture. Egli rappresenta la Provvidenza, colla quale Iddio conduce le creature tutte, ma una Provvidenza trionfatrice; rappresenta la Provvidenza nell' atto che trionfa de' suoi nemici e li disperde; egli è perciò principalmente un carro terribile di battaglia. Per ciò si dice ch' egli porta « la gloria del Signore« (2), » ossia il Signore glorioso. Essendo poi Gesù Cristo quegli dalle cui mani è condotta la Provvidenza del mondo, secondo il detto d' Isaia, che « la volontà del Signore sarà diretta nella sua mano« (3); » per ciò Gesù Cristo è altresì l' auriga di questo carro maraviglioso. Chè la Scrittura fa espressamente menzione di questo auriga, come si può vedere nelle parole dette da Eliseo quando Elia fu rapito, il quale sclamò: [...OMISSIS...] . Questo carro dicono le divine Scritture va circondato da dieci milioni di spiriti esultanti e beati (1), ed è carro di fuoco (2). Con questo fuoco Iddio incarnato accende, vivifica e immortala i suoi santi e incenerisce altresì gli empi: egli è un carro di guerra e ne sono l' armi le fiamme; i Cherubini l' attirano, o anzi il portano (3). La prima visione di questo misterioso carro, terribile e trionfale sembra quella che ebbe Adamo (4), quando s' avvide dei Cherubini stanti alla custodia della porta orientale dell' Eden (5) minaccevoli di morte contro chi si attentasse di inoltrare il passo oltre a quella soglia (6). Dice la Scrittura che essi custodivano « il legno della vita« (7), » al quale non va l' uomo se non passando per le fiamme, e non può passarvi illeso, quando prima non abbia ricevuto da Dio quella tempera al tutto divina che resiste a tali fiamme, anzi che innatura l' uomo con esse e il fa in esse vivere la vita immortale. Perocchè queste fiamme sono quella potenza misteriosa e irresistibile, colla quale Dio brucia e distrugge nell' uomo tutti i godimenti de' beni creati e naturali; di che avviene che essa distruzione sia intollerabile a quelle anime che non hanno null' altro per bene se non le creature, anime che diventano miserissime pur coll' essere spogliate a forza di tutti i beni lor cari, ed è in cotal modo un annientarle, un crucciarle d' indicibili affanni: e non altro fa il fuoco dell' inferno e del purgatorio (1). La tradizione di questa terribile forza di cui va Dio circondato passò a tutte le genti; ed è per questo che si reputava anche dalle nazioni idolatre che la visione di Dio fosse insostenibile all' uomo, e che l' uomo il quale vedesse Iddio, morrebbe di tratto: sentiva il genere umano l' alienazione che egli aveva dalla divinità; era la profonda coscienza della colpa originale che in lui parlava (2). Un' altra insigne visione di questo carro divino fu quella che ebbe il solo Mosè e non il popolo sul Sinai medesimo. [...OMISSIS...] Nei Salmi si dice espressamente che si mostrò a Mosè il carro di Dio (4). Questo carro di vittoria fu l' esemplare veduto dal Santo Legislatore in quel monte a cui similitudine fece poi l' arca (5), perpetuo trofeo della sconfitta degli Egiziani: e perchè quest' arca era appunto rappresentativa di quel carro di vittoria e trono di gloria ove Iddio siede e vola sui Cherubini; perciò il Salmo LXVII dice che il carro di Dio è nel Sinai e nel Santuario, cioè nel Tabernacolo dove fu riposta poi l' arca (6). L' incarnazione e l' ascensione al cielo viene simboleggiata da questo carro. Il Verbo di Dio discende e si mostra sopra la terra terribile a' suoi nemici per l' infallibile effetto della sua volontà: egli riascende in cielo trionfatore sul carro medesimo e si trae dietro i vinti captivi (7). Egli viene in soccorso dei suoi eletti sbattuti e perseguitati dagli empi e seco traendoli li campa da tutti i pericoli (1). Sta alla testa come capitano del popol suo e lo conduce siccome un pastore (2). Ma la visione di questo mobile trono ossia carro di Dio provisore e del Verbo incarnato più manifesta e più compiuta, fu quella che ebbe Ezechiello nel quinto anno della trasmigrazione del Re Joachino sei anni innanzi la distruzione di Gerusalemme. Iddio mostrava di dovere uscire del tempio profanato e della città santa, non più santa, in cui abitava, abbandonandola in preda a nemici ministri dell' ira sua. Veniva il bellico carro dell' Onnipotente da Babilonia quasi alla testa non più delle armate del suo popolo, ma bensì degli eserciti dei Caldei che sotto la sua guida dovevano fare scempio e rovina della infedele Gerusalemme (3). Or quest' azione del giustissimo sdegno dell' Eterno era pure un tratto di sua provvidenza e faceva parte del grande ordine secondo il quale Iddio con un solo pensiero governa tutte le cose sia nei momenti della sua misericordia, sia in quelli del suo furore. Questa unità di pensiero è manifestamente espressa nella visione di Ezechiello. In quella non si figura già Iddio occupato di un atto solo e passeggiero, ma sì bene quell' Ente sapientissimo che quando si occupa di un fatto non perde la memoria degli altri; che non si lascia assorbire come fa l' uomo da una passione di iracondia o di benevolenza per modo che nol guidi sempre la considerazione di tutta la serie degli avvenimenti che formano una indisgiungibile catena; insomma quel Dio che da Babilonia viene guerriero a oppugnare Gerusalemme è il Dio provisore, è quel Dio che governa insieme le cose tutte dell' universo. Ciò è quanto si rileva dall' analisi della visione. La visione del figliuolo di Buzi (1) ha tre parti. Nella parte superiore è il firmamento, simbolo della immobilità di Colui che muove tutte le cose. « E sul firmamento era come un trono di pietra zaffiro (altro simbolo d' immobilità e durevolezza) e su quella figura di trono era la figura come dell' aspetto di un uomo« (2). » Quest' uomo era l' auriga, cioè, Gesù Cristo, il Verbo, vero Dio che doveva rendersi vero uomo. La parte di mezzo erano i Cherubini, simbolo degli spiriti celestiali e beati della Chiesa trionfante (3). Essi portano gli stemmi del Figliuolo di Dio, che è il loro Signore e l' auriga loro, cioè hanno forma di uomo nel tutto insieme, perchè fu l' umanità che Dio volle innalzare al di sopra degli Angeli coll' unirla alla persona del Verbo. L' auriga, il guidatore della Provvidenza è finalmente un uomo divinizzato, un uomo Dio, così piacendo all' Eterno di sollevare sopra tutte le nobilissime creature quella che per sè fra le intelligenti occupa il più basso luogo, cioè la creatura umana. Ma quest' uomo è tanto innalzato perchè è anche Dio (4): e però quei Cherubini sono anche aquile, avendone la testa e le ali. Ed essi hanno ancora il capo di leone e il capo e i piedi di vitello, stemmi delle due qualità del Signor loro, che sono l' esser egli Re di tutte le cose e unico sempiterno Sacerdote. Conviene dire, che i celesti spiriti sieno santi e beati appunto pel profondo conoscere di tanto mistero e pel continuo ammirar che fanno un sì profondo senno di Dio nell' incarnazione; sicchè portano di tutte queste cose l' impronta nelle loro anime, indi deducendo la loro vita e il loro movimento, devotissimi sì come sono a servire a effettuazione e consumazione di un tale disegno, superiore a quanto può stendersi il pensiero della finita intelligenza. Ma la parte inferiore di quella grande visione erano le ruote le quali toccavano terra (1), e simboleggiavano il mondo delle cose mobili e esteriori nel quale ciò che è formale è propriamente quella parte che costituisce la Chiesa che milita nella presente vita, e colla quale Iddio e Cristo in cima ai beati comunica per mezzo di essi spiriti angelici e delle anime già pervenute a stato di angelo (2), che sono le cagioni medie per le quali opera Iddio e Cristo in sulla terra. Nè questo ministerio dei celesti, anello di mezzo fra Dio e gli uomini in istato di via, toglie punto, nè impedisce che lo stesso Dio operi anche immediatamente nella Chiesa militante collo spirito suo che tutto penetra, e tutto accende, ed avviva: di che il Profeta: [...OMISSIS...] . Ma questo spirito spira da Cristo, e non fa che imprimere Cristo nelle anime (4): e però anche le ruote portano gli stessi stemmi de' Cherubini e hanno quattro faccie (5), di uomo, di leone, di bue, e di aquila, impresse nei dossi de' due cerchi di cui ciascuna è composta, incrocicchiati l' un nell' altro e formante come una sfera rivolubile da ogni parte: conciossiacchè anche la Chiesa militante non ha altre insegne che quelle di Cristo, alla cui similitudine si deve volgere tutta e conformare e per lo spirito parteciparne le sublimissime qualità. Fin qui noi abbiamo parlato dei tre primi generi di segni istruttivi, gli avvenimenti, le cerimonie, le visioni. Ci rimane a dire del quarto genere, ossia della « lingua simbolica (1). » La lingua per sè stessa non è rappresentativa se non in una piccola parte, cioè nelle parole e costrutti onomatopeici. Ed essendo ella un aggregato di suoni, manifesto è che non può imitare se non cose sonore e che però questa sua imitazione si restringe a una minima parte degli innumerevoli oggetti segnati dalle parole. Ora il nostro discorso non si volge a questa minima parte, ma ha in mira l' uso della lingua in generale. La lingua richiama le idee e le idee richiamano le imagini; le imagini sono somministrate da quei tre fonti che ho toccato, gli avvenimenti, le cerimonie, le visioni. Sotto la parola di avvenimenti abbiamo voluto raccogliere tanto 1. le cose esistenti nella natura come 2. i fatti che vi succedono. Sotto quella di cerimonie tutti i fatti che sono stati posti dall' uomo in pruova all' uomo di significare e perciò 1. tanto le cerimonie stabili, quali son quelle stabilite da Mosè pel culto divino, 2. come quelle azioni che venivano fatte dai Profeti a intendimento di significare le cose avvenire, verbigrazia il maritaggio del Profeta Osea colla donna peccatrice e i nomi imposti ai figliuoli che ne nascono (2). Sotto la parola di visioni finalmente intendiamo tutte le [visioni] imaginarie che dipingono alcuna cosa sensibile alla fantasia del veggente, gli si presentino esse in sogno o in veglia, palesi a tutti, o visibili a lui solo. Ora le parole possono richiamare e risuscitare nella fantasia le imagini ricevute in queste varie maniere, cioè: 1. esse possono significare un oggetto sensibile nella natura esistente; 2. un fatto avvenuto; 3. una cerimonia sacra; 4. un' azione cerimoniale o significativa; 5. una visione avutasi. In tutti questi casi le parole significano una cosa significativa. Non sono esse stesse le imagini sensibili, ma bensì le cose da loro significate sono queste imagini e simboli di idee astratte o negative. Ma le parole prestano di più un altro servigio. Quando anco non sia avvenuta una visione (la quale consiste sempre in accozzamenti di oggetti sensibili già da noi percepiti in separato), le parole possono tracciare e comporre una specie di visione nella nostra fantasia. E ciò esse fanno col risuscitare nel nostro spirito degli oggetti sensibili componendoli variamente in modo che essi rappresentino al nostro pensiero alcun che appunto per la loro composizione o per l' accordo che hanno colle circostanze presenti. Così fa il linguaggio nelle allegorie e nelle parabole. Ora questi sono i due fonti di tutta la lingua simbolica: ella o annunzia una cosa reale sensibile e rappresentativa, o eccita nello spirito delle imagini variamente accozzate dalla efficacia della lingua stessa in modo che pel loro accozzamento quelle vengano a rappresentare o indicare l' oggetto insensibile che è lo scopo del ragionamento. Discendiamo più al particolare. La parola terra non è già per sè stessa simbolica se non significa altro che la terra: ma se questa terra stessa si considera come un simbolo o segno di altra cosa, allora la parola terra è simbolica. Sicchè non è già che una lingua possa essere mai simbolica per sè stessa, ma bensì, tale si appella perchè ella segna ed esprime degli oggetti che sono dei simboli (1). E ciò che si dice di un oggetto particolare simbolico si può dire di un complesso di oggetti i quali uniti insieme formano una storia, una cerimonia, una serie di azioni, una visione o un prospetto d' imaginazione, secondo la classificazione che noi abbiamo data de' simboli (2). Quando la lingua esprime un oggetto che egli stesso è preso per segno di qualche altro oggetto, ella si chiama simbolica (3). Ma questo oggetto7segno non può essere sempre così atto a segnarne un altro che al tutto ed esclusivamente lo determini; anzi quasi mai avviene, e le più volte, per non dir sempre, un oggetto stesso può usarsi a segnare più e più oggetti, cioè tutti quelli che hanno con lui qualche somiglianza, o qualche rapporto qualunque si voglia. A ragion di esempio se io prendo per simbolo un fiume che si rigonfia e minaccia di rovesciare le città co' suoi flutti, quale sarebbe l' Eufrate, il mio simbolo potrà significare l' impeto e la superbia di un conquistatore: e in tal caso il dire l' Eufrate minacciò colle sue onde sterminio, in lingua simbolica significherà, il Re o l' esercito nemico che si accosta con empito. Ma questa parola Eufrate potrebbe esser simbolo egualmente atto a esprimere i popoli abitatori delle sue sponde pel rapporto di vicinanza che ha con questi; e quindi dicendo l' Eufrate esultò di gioia, in lingua simbolica può significare il tripudio degli abitatori di Babilonia. Ora questa indeterminazione, che ha il simbolo, si deve rimuovere in qualche maniera, perchè la lingua simbolica si possa interpretare con sicurezza; altrimenti ella non presenterebbe se non dei discorsi equivoci e sempre incerti. Ora questa via d' interpretare la lingua simbolica ora è più, ora meno difficile. Indi avviene alla lingua simbolica primitiva ben sovente una certa oscurità , non assoluta ma relativa, ed è allora quando vi si trova questa oscurità, che ella viene nominata enimmatica . In che modo si può dunque giungere alla determinazione sicura del significato del simbolo? Or dissi che la oscurità della lingua enimmatica primitiva non è assoluta, cioè non nasce della perplessità della stessa lingua, ma relativa alle cognizioni e all' abilità dell' interprete, poichè vi ha sempre una via che conduce alla sua piena e certa intelligenza. Ma qual' è questa via? Questo si fa in sette maniere, ed ecco quali sono: 1. Coll' aggiungere al simbolo la spiegazione in parole proprie. Così Ezechiello nel capo XVII narra quello che due aquile operavano. Ora esse non erano che simboli di due Re. Ma come saperlo? E come indovinare quali Re fossero? Il profeta stesso spiega il suo simbolo dicendo, che per quelle due aquile intendeva figurare il Re di Babilonia e il Re di Egitto. 2. Coll' intrameschiare alle parole simboliche tali parole proprie che mostrino le prime esser simboliche e a che significare ordinate. A ragione di esempio Osea (II) parla di una vigna di cui spianterà le viti e le ficaie. Ma egli è facile d' intendere che questa vigna è simbolica e segna il suo popolo, se si considerano le parole proprie che seguono alquanto dopo, ove il Profeta dice, che una tal vigna rientrata a Dio in amore « canterà come a' giorni della sua gioventù e come a' giorni della sua uscita dalla terra di Egitto« (1). » 3. Talora il discorso simbolico si rende chiaro e determinato in virtù delle circostanze di chi parla e di quelli a cui parla. Sapendosi che chi parla è un inviato dal cielo a minacciare di castighi sopravenienti le scelleratezze del suo popolo, questo solo già mette sulla strada a intendere i simbolici detti del Profeta: per lo meno il sapere ciò, esclude una quantità d' interpretazioni che potrebbero forse avere luogo non sapendosi al tutto la qualità dell' uomo che parla e de' suoi uditori. Ridotto così il numero de' sensi possibili assai minore, viene fra questi stessi determinato l' unico ammissibile dal considerare tutte le altre circostanze. Quando Isaia minaccia che il Signore chiamerà con un fischio la mosca che è nelle estremità dei fiumi di Egitto, e l' ape che è nel paese di Assur (1), è facile l' intendere che la mosca e l' ape qui sono due simboli e che voglia segnare il Re di Egitto e quello di Babilonia: e ciò dal sapersi la circostanza che la Giudea era collocata fra questi due Re potenti, e che erano essi i nemici più formidabili da cui aveva essa a temere. 4. Può togliersi l' incertezza del simbolo da una circostanza storica straniera a quelle di chi parla e di chi ascolta. Poniamo esser noto che la colomba era lo stemma di Babilonia: si farà chiaro con ciò che la colomba nominata nel Salmo LXVI è un simbolo di quel potente impero. 5. Può il simbolo rendersi chiaro e certo per convenzione. Se la convenzione è privata, la lingua diventa un gergo , e questo non ha mai luogo nella Scrittura. Una metafora venuta in tant' uso che si è fatta proprietà di una lingua, sicchè appena ritiene più qualità di metafora, ma corre come parola che fosse propria, giacchè non si bada quasi più al suo primo senso, egli si può dire un simbolo chiaro e palese per convenzione comune e pubblica (2). Non però è questa una convenzione al tutto arbitraria, ma è sempre fondata nella similitudine o in qualche altra relazione che passa fra il significato primitivo e proprio della parola, e quello che le fu dato traslatamente. Così nella lingua ebraica un legame materiale è simbolo di una legge, e però stringere vale il medesimo che comandare , per un traslato comunemente usato presso gli Ebrei. Nel primo libro de' Paralipomeni, ciò che la volgata traduce « praecepit Dominus Moysi » dovendosi tradurre il testo ebraico alla lettera, riuscirebbe: Iddio strinse Mosè (3). 6. Il simbolo si rende ancor chiaro per la notizia storica della sua istituzione. Dovendosi tenere il nostro discorso entro i limiti della lingua simbolica, ed essendo ordinato solo a porgere un chiaro concetto di quella lingua primitiva colla quale Iddio doveva venire istruendo il genere umano bambino, non faremo parola che della istituzione di parole simboliche. Già ne abbiamo veduta la necessità per l' uman genere bambino: ne abbiamo veduto anche il modo onde queste parole dovevano stabilirsi. Non faremo dunque qui che riassumerci, ma secondo il nostro solito non colle stesse parole colle quali abbiamo esposte tali dottrine altrove, ma dando loro un aspetto nuovo e una nuova luce. A venire a capo di ciò noi dobbiamo in primo luogo schierare sott' occhio del nostro lettore gli aiuti che prestò il linguaggio allo sviluppo della umana intelligenza. In secondo luogo sarà nostro carico il dimostrare che tali aiuti non poteva il linguaggio prestargli allo spirito se non avesse ammesso in sè stesso i simboli, e così non si fosse reso simbolico. Ecco adunque il riassunto dei diversi vantaggi che dà la parola allo spirito nel suo intellettivo sviluppamento. I. La parola: 1. completa , 2. fissa la percezione. Dico che la completa. Quando l' uomo privo d' altre idee percepisce un oggetto sussistente, egli se ne forma una cotale idea ma imperfetta. Solo quando gli pone il nome a questo oggetto percepito, la sua idea di lui è completa. La ragione di ciò si è, che la percezione è un atto molteplice dello spirito, cioè composto di più parti, è un prodotto di più facoltà, come il prova l' analisi di essa percezione. Ora ciò che dà unità a queste molteplici operazioni dello spirito, ciò che unisce quelle varie parti è un segno a cui se le attacca. Questo segno, cioè la parola, acquista virtù per una cotale associazione di risvegliare a un tempo 1. l' imagine sensibile (materia dell' idea), 2. l' essere (sua forma) e 3. la veduta dello spirito che nell' imagine vede l' essere. Per questa parola l' essere per sè indeterminato viene meglio determinato, precisato; e lo spirito con tale guida è volto a cogliere per così dire l' oggetto reale scopo di tale operazione, e quello che viene propriamente nominato nella intenzione dello spirito col nome proprio . Dico ancora che la parola fissa la percezione. Una percezione innominata è tenue, e svanisce tosto dalla mente. Ma quando il suo oggetto ha acquistato un nome, questo nome gli lega, per così dire, le ali, e nol lascia sfuggire, il tien fermo nella presenza della mente, il richiama presente quando se ne è partito e il rende atto a poter venir colto quando si voglia dall' attenzione, che col mezzo del nome suo si rivolge a lui e il contempla e il lavora con quante riflessioni meglio gli piace. II. La parola relativamente alle idee positive , che sono il fondamento della classificazione specifica delle cose, ritiene innanzi allo spirito la specie e la richiama: il che fanno i nomi comuni . III. Relativamente alle idee negative la parola 1. fissa un sussistente nel comune , mediante la facoltà del verbo: 2. rapporta a questo sussistente esse idee, che diventano altrettante indicazioni di quel sussistente fissato nel comune, con una operazione che si può acconciamente nominare una cotale creazione intellettuale; e 3. ciò che è il più, fissa un sussistente nell' universale , il che è quanto dire sostantivizza l' ente, la verità, la giustizia e la bontà, e così ascende alla più grande e perfetta idea di Dio che a lui sia possibile di avere nel presente, congiungendosi in questa mirabile operazione il comunissimo (l' ente possibile) e il particolarissimo (il sussistente). IV Finalmente rispetto alle astrazioni generiche è la parola quella 1. che eccita la veduta dello spirito, 2. che la dirige questa veduta, e 3. che la limita e determina; senza le quali tre condizioni non potrebbe lo spirito nè muoversi, nè procedere, nè quietarsi nella visione di que' rapporti o caratteri, che costituiscono appunto la natura delle idee generiche. Veduti e classificati i vantaggi che la parola presta allo spirito nella formazione e nel perfezionamento delle idee, non ci sarà difficile d' intendere come la parola, a poter prestare sì nobili servigi, non poteva non essere stata nella prima sua istituzione simbolica. E veramente riprendiamo in mano questi vantaggi nell' ordine in cui gli abbiamo registrati; cominciamo dalla percezione, a cui corrisponde l' istituzione de' nomi proprii . Ho detto che il nome proprio che esprime l' oggetto della percezione unisce insieme diversi elementi e ne fa risultare un solo oggetto d' intelletto, e che questi elementi sono: 1. l' essere universale, 2. l' imagine o percezione sensitiva, 3. la veduta dello spirito. Ma in tutto ciò non c' è ancora la sussistenza , ed è solamente quando il nome si riferisce a un oggetto reale, individuo, sussistente, che si dice nome proprio. Pigliamo un esempio: il nome del primo uomo era un nome proprio: analizziamolo insieme, cerchiamo di scoprirne l' intima natura. Quale è dunque la natura di questo nome ADAM? Guardiamo che cosa significa: egli per sè non significa che terra , ossia soggetto composto di terra. Questo nome, dice la divina Scrittura, fu imposto da Dio ad Adamo per esprimere con esso che Adamo era stato formato dalla terra. Ma un nome che significa un oggetto composto di terra, per sè considerato, è egli un nome proprio o un nome comune ? Non più che un nome comune, poichè egli non restringe il suo significato a solo il primo uomo, ma significa egualmente qualunque oggetto composto di terra. Tanto è vero che lo stesso nome, che fu preso a dover significare il primo uomo che fu al mondo, si usa anche a significare UOMO in genere, pigliandosi nell' ebraica favella questa voce ADAM tanto come nome proprio di Adamo, quanto come nome comune della specie umana. La natura adunque degli antichissimi nomi propri è tale, che essi siano per sè veramente nomi comuni , ma che vengano appropriati a un individuo sussistente, non per la loro intrinseca natura, ma per qualche mezzo a loro estrinseco. Noi esamineremo fra poco quale possa essere questo mezzo o circostanza estrinseca che riduce un nome comune e lo coarta nella significazione di nome proprio. Intanto tornando alla nostra analisi del nome Adam diciamo, che l' oggetto da lui espresso, un composto di terra, dovendo essere un oggetto percepito dalla mente ed espresso con quel nome in quel modo appunto che la mente il concepisce, egli si compone e risulta, questo oggetto intellettivo, dei tre elementi indicati, cioè 1. dell' essere, 2. della percezione sensibile della terra, la quale si presenta al nostro senso coi suoi caratteri fisici, e 3. della veduta dello spirito, colla quale veduta questo fissa un aggregato di terra (materia) possibile a sussistere. Ma questo aggregato di terra non è indicato ancora come hic et nunc attualmente sussistente, e in tutto determinato e ristretto a una sussistenza individuale e propria. La sussistenza adunque, la quale sola dà al nome il carattere di proprio, non è compresa negli antichissimi nomi proprii, ma questi sono nomi comuni applicati a un essere sussistente e resi così suoi proprii da qualche mezzo o industria estrinseca e straniera ai nomi stessi. Qual è dunque questo mezzo, industria o circostanza, che fa capire un individuo reale e sussistente, al sentirsi pronunciare un nome comune? Questo mezzo non è sempre il medesimo: talora è un' altra voce che viene aggiunta al nome comune e che lo fa proprio attaccandolo a un individuo sussistente: talora è una tacita disposizione dello spirito di coloro che usano di quel nome. A. Dico che una voce talora ferma il nome comune a significare un individuo sussistente. Questa voce è comunemente un pronome: 1. Alcuna volta è il pronome dimostrativo questo ; ma rimanendo un tal pronome separato da esso nome comune cui determina, non ne cangia la natura. Così se io dico: quest' uomo; sebbene una tale locuzione determini il nome comune uomo a significare l' uomo che è presente e forse anco da me indicato coi cenni, o l' uomo nominato più sopra nel discorso, tuttavia il vocabolo uomo resta nome comune che fa, solo per quel caso, l' ufficio che farebbe il proprio; 2. Più spesso fan proprii i nomi comuni nelle lingue antichissime i pronomi personali che si affiggono al nome comune e fanno con esso lui un solo vocabolo. Per non prendere gli esempi se non dalla lingua ebraica, molti sono i nomi a cui è affisso dal loro istitutore il pronome possessivo mio : così Rachele impose a Beniamino, il cui parto difficile la fece morire, il nome di BEN7ON7I, che vuol dire figlio del mio dolore (1). Il nome che aveva Sara prima che Iddio glielo mutasse, era SARA7I, cioè signora mia (2). Il nome ISA7I, vuol dire mio uomo (3). A Dio stesso per dargli un nome proprio e contraddistinguerlo dagli dei degli idolatri, talora da chi lo invocava si aggiungeva il pronome possessivo mio , come in Adona7i Signor mio (1); e in quella appellazione che gli diede Agar, quando ebbe la visione nella solitudine, che li nominò il Dio che vede me (2). Egli è manifesto che per quel primo che impone un tal nome, esso nome ha forza di proprio, perchè determina una relazione unica e stabile dell' oggetto nominato colla persona che il nomina, e però quell' oggetto non può esser più vago nè accomunarsi ad altro, che a quella cosa sussistente che ha la relazione indicata coll' imponitore del nome. Ma per gli altri uomini in che maniera quel nome conserverà la vece e l' ufficio di nome proprio? (3). Non [in] altra certamente che in virtù della memoria che dura dalla prima sua istituzione: sicchè anche un nome così determinato dal pronome possessivo mio , per conservarsi nel suo vigore di nome proprio, ha bisogno che per tale passi a esser ricevuto dal comune degli uomini. 3 Talora il nome comune prende la forza di proprio dall' aggiungervi che vi si fa un nome per proprio antecedentemente ricevuto. Così dicendo il Dio di Abramo, è il nome proprio di Abramo che determina a far l' ufficio di proprio il nome comune di Dio. B. La seconda maniera, onde un nome per sè stesso comune si fa correre per proprio, è una tacita disposizione e operazione dello spirito di chi parla e di chi ascolta (la quale operazione appartiene alla facoltà del verbo) per la quale operazione chi pronunzia od ode quel nome comune subito vi attacca l' oggetto individuale e sussistente. La sussistenza dunque non è espressa, ma viene supplita dallo spirito. Per esempio, tornando a un esempio recato avanti, nella parola Adam non è punto nè poco espressa la sussistenza individua del primo uomo che fu; e pure al suono di questo nome tosto si presenta allo spirito non già solo le qualità comuni di ciò che è terra, suo vero significato, non già solo l' uomo in genere, nella quale prima restrizione di significato lo spirito aggiunge qualche cosa da sè; ma sì bene il primo padre di tutta l' umana specie, che è la restrizione somma del senso che può ricevere quel vocabolo, restrizione che da comune il rende al tutto proprio. Questa operazione che fa lo spirito colla quale all' udire un suono intende più di quello che il suono esprime, si opera non per la virtù che quel suono ha come segno, la quale virtù non si potrebbe estendere oltre la cosa significata, ma per una associazione fra la cosa significata da quel suono e la cosa supplita dallo spirito (4). La cosa non è nuova nella lingua. Non si deve credere che la lingua esprima tutto ciò che noi intendiamo per essa: vi ha un' infinità di cose che sono supplite dallo spirito di quelli che parlano e che ascoltano, e che non sono punto segnate coi suoni. Sarebbe lungo l' entrare in questa materia per altro molto importante a essere trattata in una filosofia delle lingue. Noi osserveremo solo che questi sottointendimenti sono specialmente innumerevoli nelle lingue antichissime, e si può in generale stabilire questo principio che i primi uomini esprimevano il menomo possibile di quanto bisognava perchè i loro sensi fossero intesi. Mi rimetto intorno a ciò al trattato delle elissi e delle reticenze che si trova nei grammatici. E dico, ora che cosa è che induce lo spirito nostro a supplire nel nome comune la sussistenza individuale , sicchè noi veggiamo il particolare nel comune? Ciò nasce da molte cagioni: ma la principale è certamente l' uso positivo della lingua da noi appresa fin dall' infanzia, il che è quanto dire la primitiva istituzione del nome passata di padre in figlio, di bocca in bocca fino a noi. Fin qui ancora non apparisce la necessità de' simboli, ma quello che abbiamo detto ci lastrica la via di giungere a conoscere questa necessità. Intanto si può conchiudere da ciò che abbiamo detto che in questa specie di nomi il comune si congiunge e lega col proprio e si fa servire come di segno a dover segnare questo proprio sussistente. Andiamo innanzi. Questa idea comune che risveglia in noi la persuasione della sussistenza di un oggetto, quanto si estende ella? E` una idea specifica o generica? Ella è una idea specifica . Questo ha bisogno di spiegazione. Quando noi percepiamo coi sensi un oggetto sensibile, non percipiamo mica tutta la natura e proprietà di quell' oggetto: no, è vero che noi crediamo di averlo percepito tutto e fedelmente; questo è un errore comune (1). In quella vece noi non abbiamo percepito dell' oggetto se non quel tanto che la capacità del nostro senso fu atta a ricevere, e in un modo al tutto conformato, per non dire sformato, alla qualità del senso medesimo. Di più fra le varie sensazioni che noi riceviamo da un oggetto medesimo all' atto della sua percezione e delle quali l' intero della percezione stessa si compone e risulta, ve ne ha solitamente una che primeggia sull' altre, che più ci colpisce e tira tutta a sè la nostra attenzione: e suol essere quella a cui rivolgiamo il nome che imponiamo all' oggetto. Così a ragione di esempio, nella percezione del sole non sarà la sua grandezza, la sua forma o altra qualità quella che più ci muove, ma l' acutezza della sua luce. Indi denominandolo, il sole non sarà già chiamato cosa rotonda o con altro nome, ma sì bene cosa ossia oggetto luminoso. Nella percezione del firmamento l' uomo non sarà già ferito tanto dal suo colore quanto dalla sua estensione; il firmamento sarà quindi nominato oggetto esteso, o anche semplicemente l' esteso (1). Qui pertanto si vede che il fondamento de' primi nomi proprii doveva essere una qualità sensibile, quella che nei diversi oggetti spiccava fuori dell' altre (2). Ora che idea è quella di una qualità sensibile? ella è una idea specifica accidentale. Ma non come accidente si poteva prendere dall' uomo questa qualità: l' uomo era costretto dall' indole della sua mente di sostantivare la sua percezione: quella qualità dunque veniva sostantivata, presa come una sostanza. Tale concetto appunto è ciò che dà queste denominazioni, il luminoso, l' esteso. Questi nomi che in latino riescono neutri, equivalgono a dire una sostanza luminosa, una sostanza estesa. Tali erano i nomi comuni che in origine servivano per nomi proprii in virtù dell' istituzione e dell' uso. Or si consideri la differenza che passa fra le idee significate da questi vocaboli l' esteso e l' estensione, il luminoso e la luce o luminosità (3). Si vedrà assai agevolmente che l' estensione e la luminosità sono pure astrazioni: all' incontro l' esteso e il luminoso sono astratti sostantivati. Ora questi astratti sostantivati sono il primo passo che fa lo spirito umano onde pervenire alle astrazioni. Sebbene gli astratti sostantivati sieno più complessi e le pure astrazioni più semplici, tuttavia lo spirito umano si forma prima quelli che queste. E la ragione di ciò si è che lo stesso spirito umano è un complesso di facoltà, non una sola facoltà; per ciò i primi passi dello spirito sono complessi, operando più facoltà insieme; e i semplici sono gli ultimi. Ciò che dico non è una pura conghiettura, ma un fatto. Mi appello a coloro che conoscono le lingue antiche nelle quali si vede un' abbondanza straordinaria di astratti sostantivati posti in luogo di astratti puri. A ragion di esempio nella ebrea, in quel luogo del Genesi, in cui la Volgata dice che la terra era inane e vuota (4); altri tradussero che era inanità e nullità (5). Ma l' Ebreo dice all' incontro coll' astratto sostantivato, che era « l' inane e il vuoto« (6). » Isaia dice secondo la Volgata che « il Signor Iddio verrà nella fortezza« (7); » ma l' Ebreo dice all' incontro « veniet in forti «. » Nel salmo CXVIII (137), si dicono retti i giudizii del Signore, ma l' Ebreo lo esprime coll' astratto, che noi tradurremmo « i giudizii del Signore sono rettitudine«: » ma la lettera dell' Ebreo sostantiva l' astratto di rettitudine come il latino direbbe neutralmente rectum , cosa retta. E ad ogni piè sospinto si trovano di tali esempi nelle lingue tutte più vetuste. I due ultimi esempi che ho recati non sono astrazioni specifiche sostantivate, ma sì bene generiche; e li ho addotti perchè si veda che lo spirito umano sostantiva non solo la specie ma anco il genere, quando a questo è pervenuto. Ma questa osservazione sia toccata di passaggio. Ritorniamo al filo del nostro ragionamento. Gli uomini primitivi nominavan dunque gli oggetti sensibili e sussistenti con de' veri nomi comuni, i quali diventavano in tal modo proprii nello spaccio che avevano; sicchè« l' esteso« era il nome proprio del cielo,« il luminoso« era il nome proprio del sole, e così via. Ma lo spirito umano non potea fermarsi in ciò, egli avea bisogno altresì di astrazioni pure, di nomi che fossero puramente comuni e non proprii. Ora che avvenne? quel che dovea avvenire, cioè che essendo avvezzi gli uomini a dare il nome di« esteso« al firmamento, di« luminoso« al sole, non si poteano poi applicar questi nomi comuni ad altri oggetti senza che venisse in mente, a chi li usava, il sole, il firmamento, ecc., il che è quanto dire, stante l' accettazione universale di questi nomi per proprii, che tutte le cose solennemente luminose si chiamavano soli, tutte le cose estese e grandi si chiamavano firmamento, ecc.: o sia, che è il medesimo, che il firmamento divenne« il simbolo« dell' estensione, il sole della luminosità, e così via. In tal modo gli astratti puri che sono idee insensibili furono concepiti nelle menti degli uomini mediante altrettanti loro« simboli« che mirabilmente aiutavano la mente a dar corpo per così dire e sostanza a tali idee. Così l' istituzione de' simboli ebbe origine dalla natura stessa e dalla prima istituzione della lingua primitiva. Ed egli è evidente che se« i simboli« aiutarono in tal modo lo spirito umano alla formazione degli astratti puri, molto più il dovettero aiutare alla formazione delle idee negative di Dio e degli spiriti trascendenti. Concludiamo da tutto questo discorso che la lingua primitiva doveva esser simbolica, e che questi simboli aveano la chiara loro intelligenza dalla notizia tradizionale della loro istituzione, che trapassava di generazione in generazione coll' uso della lingua stessa (1). 7 Finalmente v' ha un' altra via onde il simbolo si rende determinato e chiaro, e questa è il complesso armonico di più simboli insieme presi. Quella ambiguità e incertezza che avrebbe un simbolo solo preso isolatamente viene levata da degli altri simboli che insieme con lui si presentano nel discorso. Conviene però qui osservare che se si tratta di effigiare in questo complesso di simboli un avvenimento futuro, esso può rimanersi nell' oscurità fino a tanto che non riceve luce dall' avvenimento medesimo, e ciò non già perchè egli non valga ad esprimere quell' avvenimento nel modo il più fedele e preciso; ma perchè non può necessariamente che rappresentarlo in alcuni suoi termini ed estremi senza potere metterne sott' occhio il nesso. Il medesimo avviene in quelle profezie nelle quali si predicono gli avvenimenti descrivendoli dalle loro circostanze, le quali insieme prese non possono convenire che a quegli eventi predetti, ma che prima di vederle avverate sembrano fino inconciliabili fra di loro. E chi poteva a ragion d' esempio trovare prima dell' avvenimento il nesso fra quelle due profezie sopra Sedecia (1): delle quali l' una diceva che non avrebbe veduto Babilonia, e l' altra che Nabucodonosor non l' avrebbe ucciso ma l' avrebbe condotto in Babilonia? Il fatto mostrò come tali predizioni si conciliavano quando Sedecia non fu ucciso ma accecato, ed entrò in Babilonia senza vederla. Così parimente come conciliare queste tre predizioni sopra il Messia: l' una diceva che sarebbe stato chiamato Nazareno, l' altra che sarebbe nato in Betlemme, la terza che Iddio l' avrebbe fatto venir dall' Egitto? Il fatto è che nato in Betlemme per puro accidente fu ritenuto esser di Nazaret patria dei suoi abitatori (sic) e dov' egli pure condusse con essi molta parte della sua vita, e che fuggito ancor tenerello in Egitto di là fu chiamato da Dio nella Giudea. Da tutto quello che abbiamo detto si può intendere facilmente che la lingua simbolica istituita a principio non può essere stata al tutto stazionaria; ella dee avere avuto un progresso, dee avere sofferto delle vicissitudini. E` ciò una conseguenza della natura dell' uomo inclinata a trovar nuovi simboli di paro che a trovar nuove idee; come pure a ciò si presta la natura di un simbolo stesso che può passare dal significare uno al significare un altro oggetto, e l' oggetto significato dal simbolo può essere un altro simbolo egli stesso. La storia pertanto de' simboli è un argomento di ricerche erudite immense, e che sola potrebbe deciferare la storia della umanità: ma come ella non può esser a pieno trattata nell' opera presente, così pure ella non può essere proporzionata alle nostre piccole forze, nè manco al picciol tempo che ci rimane da dedicare agli studii. Noi non porremo qui pertanto se non una sola osservazione, che tocca la base che dar si dovrebbe a questa storia de' simboli. Diciamo che la base di una tale storia dovrebbe essere la simbolica primitiva, quella che veramente ebbe in parte una origine divina come abbiamo innanzi dichiarato. Questa pertanto dovrà essere la prima ricerca di chi si accinge ad una tale storia« quale fu la simbolica primitiva?« ricerca nella quale i documenti storici di tutto l' Oriente, l' antichità di tutte le nazioni, e di tutte le lingue raffrontate insieme potranno dare, come io spero, una piena luce. Trovato questo fondamento, e come regola suprema della storia indicata rimarrà a dimandare« quali furono le alterazioni che sofferì la simbolica primitiva?« che cosa fu dimenticato di lei, che cosa aggiunto, che cosa permutato? Nel qual buio reca chiarezza, siccome face luminosa che dee precedere, quella parte della filosofia delle lingue che insegna come di mano in mano l' uomo inventò i nomi e qual parte del linguaggio fu prima e qual dopo. Ne darò qui un solo esempio preso da due sole parole, cielo e terra. Io mi persuado che nella lingua primitiva il cielo e la terra fossero nominati con de' nomi comuni sostantivi, il quale è, come abbiamo veduto, il primo modo, onde gli uomini dovettero denominare le cose (2). Fu dunque il cielo denominato dall' altezza sua, la terra dalla sua bassezza in rispetto al cielo, cioè il nome proprio del cielo si fu l' alto , il nome proprio della terra si fu« il basso « (3). Fin qui de' segni istruttivi dati da Dio all' uomo dopo il peccato perchè gli fossero mezzi di perfezione. Ora ci bisogna parlare de' segni effettivi o sia de' Sacramenti; e di questi pure dobbiamo tracciare la storia, e render palese il progresso in che vennero crescendodo nelle varie età, fino a Cristo dal quale ricevettero loro intera perfezione. A tal uopo si dee prima conoscere la differenza che divide i Sacramenti che ebbero gli uomini prima della venuta e passione del Redentore, da quelli che ebbero dopo; e questa è la ricerca a cui noi ora poniam mano. La differenza de' Sacramenti si dee dedurre primieramente dal differente stato soprannaturale degli uomini pe' quali essi sono istituiti: il quale stato viene determinato dalla natura della grazia da cui sono illustrati. Conviene adunque rammentare ciò che noi abbiamo detto circa la differenza della grazia dell' antico Testamento, e quella del nuovo (1), la qual differenza noi l' abbiamo ridotta a questa parola, che l' antica grazia era deiforme , e la nuova triniforme (2). Abbiamo ancora detto che il principio della rivelazione, dietro la quale conseguitava la grazia nell' antico Testamento era il Verbo occulto, nel nuovo il Verbo manifesto (3). Al fine poi di spiegare in che maniera nell' antico Testamento il Verbo potesse essere principio della rivelazione, abbiamo fatto osservare, che ogni rivelazione si attribuisce al Verbo, come dicono i teologi, per appropriazione di parlare; il che non importa già un dire che sola la persona del Verbo operasse nelle antiche rivelazioni, le quali come opere esterne competono alla divina natura, e però a tutte e tre indistintamente le persone; ma quella maniera di parlare non viene a dire altro se non passare una cotale simiglianza o analogia fra le cose rivelate e il Verbo generato dal Padre, quasi con un pronunziare che fa l' intelletto una parola interiore. Nel che vedesi ancora come si dica rimanersi il Verbo occulto in quell' antica rivelazione, poichè ciò che si rivelava non era tanto, che bastasse a dare alle anime una, tuttochè imperfetta, percezione del Verbo. Il Verbo divino adunque era principio dell' antica rivelazione a quel modo che la parola di un precettore è principio della scienza del discepolo; similitudine che non quadra però al tutto; perocchè la parola del maestro umano è materiale e distinta dalle verità spirituali, che vede il discepolo colla sua mente. Si pensi dunque un maestro la cui parola sieno le verità stesse senz' altro segno; sicchè egli abbia virtù di presentarle immediatamente alla mente di quelli che insegna: queste verità si direbbero il principio della scienza del discepolo. Ora ciò non toglie che sotto altro aspetto si possa dire principio della scienza del discepolo anche il maestro stesso che ha virtù di comunicare quelle verità. E però nell' antico Testamento le verità comunicate interiormente allo spirito degli uomini erano il Verbo (per appropriazione); e tuttavia il maestro che comunicava queste verità era il Padre. Perciò l' essere stato nell' antico Testamento principio della rivelazione e della grazia il Verbo, non toglie punto il potersi dire anche il Padre principio di quelle antiche rivelazioni. E consideriamo un po' attentamente come il Padre fosse principio dell' antica rivelazione. Ciò che si voleva con questa era d' infondere nelle menti delle traccie, e quasi un abbozzo del Verbo: il quale abbozzo preparasse la tavola per così dire a riceverne poi a suo tempo la perfetta imagine. Or dunque il termine di questa interna operazione era il Verbo, ma il principio era il Padre. Conciossiacchè essendo il Padre quegli che genera e manda di sè il Verbo, a lui compete altresì il disegnare nelle menti le prime linee per così dire o vestigi del Verbo medesimo. Questo è ciò che viene a dir Cristo dove afferma che il Padre è quegli, che tira gli uomini a lui. « Nessuno può venire a me, se il Padre che mi ha mandato non l' avrà tirato« (1). » Non si contenta di dire semplicemente« il Padre«, ma dice« il Padre che mi ha mandato« cioè che mi ha generato e mandato altresì nelle menti coll' atto stesso che mi ha generato; esprimendo in tali parole acconciamente il modo onde il Padre tira gli uomini al Verbo, che è quello di mandare il Verbo stesso, o le traccie di lui, nelle loro intelligenze. Distinguasi adunque negli uomini due stati, in rispetto alla relazione soprannaturale con Dio; l' uno è di quelli uomini i quali conoscono già il Verbo; l' altro stato di quelli che non lo conoscono ancora, ma a ricever la cognizione e percezione di lui si dispongono. Questa disposizione vien loro a gradi pei quali l' uomo si avvicina sempre più al Verbo, di cui riceve un cotal riflesso di luce che cresce fino a che è degno di denominarsi percezione del Verbo stesso. Or dunque innanzi che questa percezione sia formata, il Verbo come tale propriamente parlando non opera in essi: il qual Verbo in essi opera tosto che in essi è formato (1). Da qual principio viene loro quel lume o più tosto quel barlume che è come l' aurora del sole che gli tien dietro? questo è appunto quel tirare che il Padre fa gli uomini al Verbo. Al Padre si attribuiscono adunque tutte le disposizioni che precedettero o che precedono la venuta del Verbo nell' uomo, e rimote e prossime. Così il Padre fu quello che mandò il Verbo al mondo nella incarnazione, e tutto il disegno di questa grande opera al Padre si attribuisce (2). Venuto poi il Verbo, il Padre cede a lui il lavoro di compir l' opera della salute umana; e questa è quella grande opera di cui sì spesso parla Cristo aver ricevuta dal Padre, [...OMISSIS...] . Dice d' essere stato mandato dal Padre: questo è quello che fece il Padre; e l' esser mandato dal Padre negli uomini è una espressione che equivale a quest' altra« il Padre trae gli uomini a me«. Dice che fu mandato perchè faccia« l' opera sua«, cioè l' opera del Padre, quell' opera che il Padre ha cominciato col mandare il Verbo negli uomini, e che perciò rettamente opera del Padre si dee nominare. Ora quest' opera che il Padre ha imposto al Figliuolo è che egli facesse conoscere agli uomini il Padre suo, perchè il Padre operando non si è reso visibile agli uomini, ai quali non ha comunicato se non le vestigia del Figlio, e il Figlio. Questa opera ricevuta a farsi dal Padre, Cristo l' annunzia in quelle parole [...OMISSIS...] . Perciò il Padre fu come uno che favella senza esser veduto. « Ciascuno che udì dal Padre e imparò, viene a me« (6). » E non dice che udì il Padre, ma che udì dal Padre; perciocchè l' uomo percepì i vestigi del Verbo nel suo spirito, ma senza conoscere il principio che glieli comunicava. Il perchè le profezie dicevano che « nessuno saprebbe onde il Cristo venisse« (1), » e Gesù dopo aver detto che chi udì e imparò dal Padre viene a lui, soggiunge: [...OMISSIS...] . L' opera adunque dell' umana santificazione nascer doveva per la comunicazione del Verbo divino, il quale dovea far conoscere agli uomini il Padre celeste pel suo sermone e pel suo spirito. Or l' uomo essendo un essere fornito di corpo, datogli per istrumento da percepire ed attingere le cognizioni di cui è privo in nascendo; conveniva che il Verbo a rendersi palese all' uomo s' incarnasse e per la via de' sensi comunicasse la sua virtù e sapienza allo spirito umano. Il Verbo incarnato fu Cristo che predicò, operò e patì per compire la grande opera commessagli dal Padre. Così la rivelazione esterna fu compita, a cui rispose il compimento dell' interna, cioè la grazia data sempre in misura di quella (3). Però l' umanità di Cristo fu il mezzo pel quale venne alle anime umane rivelato il Verbo divino, e la pienezza della grazia in lui contenuta. Laonde se l' umanità di Gesù Cristo fosse stata sempre presente agli uomini, non sarebbe bisognato l' istituire de' Sacramenti. La vista di quella santissima umanità, le sue parole, il contatto delle divine carni erano altrettanti mezzi sensibili pe' quali da Cristo poteva passare negli uomini ogni maggiore abbondanza di grazia. Al tatto delle sacratissime mani di Cristo era annessa virtù non solo di sanare tutti i morbi del corpo, ma anco quelli dell' anima, e così di « sanar tutto l' uomo intero« (4) » in corpo e in anima: le parole sue erano « spirito e vita« (5) » e il suo sermone « mondava« » l' uomo da ogni macchia di peccato (6); la vista dell' umanità sacratissima di Cristo aveva efficacia di innalzare l' anima di chi la vedeva alla cognizione e contemplazione del Verbo e per esso del Padre (1). Perciò l' umanità di G. Cristo era quel mezzo sensibile, che agendo sui sensi dell' uomo valeva soprabbondantemente a ristorarlo e santificarlo. Ma questa umanità non dovea restar sempre palese e sensibile fra gli uomini, ma da essi occultarsi; doveva ascendere alla destra del Padre (2). Era dunque necessario di lasciare al mondo qualche altro mezzo o segno sensibile, acciocchè per l' azione di cose sensibili l' uomo racquistasse la salute, e questo mezzo furono i Sacramenti. Egli è a questo che allude Gesù Cristo quando in sul partire dal mondo diceva quelle parole: « Padre Santo - fino a tanto che io era con essi, io li conservava nel nome tuo (3), » e ancora «« conservali tu nel nome tuo - santificali nella verità« (4), » attribuendo al Padre la virtù santificatrice de' Sacramenti, come fontale origine dello Spirito Santo, il quale però procedendo per via del Figlio dice che « li santifichi nella verità, » che viene a dire nel Figlio che disse «« io sono la verità« (5). » Il più augusto di questi Sacramenti è quello della Eucaristia. Per esso Gesù trovò il modo di far rimanere sopra la terra in occulto la sua sacratissima umanità nello stesso tempo che è palese in cielo in istato glorioso: e questa umanità, mediante un tal Sacramento, si trova contemporaneamente in qualsivoglia luogo del mondo e vicina a tutti gli uomini. Mentre fu visibile in terra comunicò della propria autorità e virtù a' suoi Apostoli, acciocchè potessero consecrare ed amministrare gli altri Sacramenti (6). Egli prescrisse loro l' uso di alcune parole, in virtù delle quali in suo nome e come suoi istrumenti amministrassero i Sacramenti. Determinò loro altresì l' uso di alcune materie cioè dell' acqua e dell' olio, di alcuni riti come dell' imposizione delle mani, alle quali cose debitamente adoperate aggiunse la virtù santificatrice uscente dal suo corpo (1). La sua umana presenza consacrò parimente il matrimonio in Sacramento. Perciò egregiamente S. Tommaso scrive che [...OMISSIS...] . Si chiederà, in qual maniera l' umanità di Cristo possa comunicare della virtù alla materia de' Sacramenti? Di quell' acqua o di quell' olio ch' egli toccò nel Giordano o in altra occasione mentre era su questa terra, può in qualche modo concepirsi, ma della materia che si usa nella Chiesa dopo la sua salita al cielo come si può dire altrettanto? Rispondo direttamente alla questione, che in più modi, a noi del tutto incogniti, l' umanità sacratissima di Cristo può comunicare di sua virtù all' acqua del battesimo, e all' olio della Cresima e dell' Estrema unzione; e fra questi modi non è punto assurdo, anzi egli è cosa probabile e pia, il concepire che l' umanità santissima in un modo invisibile ed ineffabile si metta al contatto con quelle materie al pronunciarsi delle parole mistiche da chi amministra il Sacramento. E qual maraviglia di ciò, se nella consecrazione del pane e del vino, avviene invisibilmente non solo il contatto dell' umanità di Cristo con quelle sostanze, ma ben anco quel fatto degno d' ogni stupore che l' umanità dell' Uomo7Dio assuma la sostanza del pane e del vino in sè e la tramuti in sè stesso? Se in questo che è il massimo de' Sacramenti l' umanità di Cristo unisce a sè sì fattamente quel cibo e quella bevanda fino a transustanziarla, quanto più è facile a credersi che l' umanità medesima di Cristo possa venire, in proferendosi delle parole, a un invisibil contatto con quelle altre sostanze, il che sarebbe pur tanto meno di quel che crediamo fermissimamente avvenire nel Sacramento eucaristico! (3). E non viene rinforzata questa opinione dall' insegnarsi comunemente nella cristiana teologia, che la facoltà del benedire e consecrare il pane eucaristico contiene in sè anche quella di amministrare i tre Sacramenti sopra toccati, e in universale la facoltà di benedire tutte le cose? Egli è poi manifesto che ne' Sacramenti dell' ordine, della penitenza e del matrimonio la virtù santificatrice della divina umanità si dee comunicare in altro modo. In questi Sacramenti non è la carne ma l' anima dell' Uomo7Dio che immediatamente opera: conciossiachè si effettuano que' Sacramenti mediante atti di potestà giudiziaria o sacerdotale, o finalmente mediante un atto di amore; e gli atti di potestà e di amore vengono dall' anima a dirittura. Egli è Cristo giudice che opera nel Sacramento della penitenza, Cristo sacerdote in quello dell' ordine, Cristo sposo nel matrimonio. Ma ci tornerà ancora il bisogno di ritoccare quanto qui vogliamo solo avere accennato. Veramente i Sacramenti della nuova legge non sono già puri elementi sensibili e materiali, ma ciò che è sensibile in essi non è che l' esterno e questo esterno in un senso assai vero potrebbesi chiamare tutto insieme la materia del Sacramento (1). Ad esso va congiunto una parte invisibile che è lo Spirito Santo, il quale veramente è la forma di tutto il Sacramento. Queste due parti l' una esterna e l' altra interna son espresse in quelle parole che Cristo disse del Battesimo: « Se alcuno non sarà rinato dall' ACQUA, e dallo SPIRITO SANTO non può entrare nel regno di Dio« (2). » Nè si contentò Cristo d' indicare con tutta distinzione queste due parti, di cui è formato il Sacramento; ma volle anche fare intendere che la parte principale ed attiva, il che è quanto dire la parte formale, in esso è propriamente lo Spirito invisibile, al che fare soggiunge: « ciò che è nato di carne è carne, e ciò che è nato di spirito è spirito« (1). » Non dice più ciò che è nato dall' acqua e dallo spirito; ma a dirittura ciò che è nato di spirito. E` dunque uopo di considerare la parte esterna e la parte interna del Sacramento, il sensibile e lo Spirito Santo, come due cose congiunte insieme in un modo ineffabile e formanti un solo Sacramento, appunto a quel modo, come innanzi dissi, dovea essere allo stato innocente del mondo congiunto Iddio colla natura e come una cosa con questa operare (2). A quella similitudine, per giovarmi di un pensiero di S. Tommaso (3), che nella favella umana opera congiuntamente qualche cosa di materiale, cioè la voce, e qualche cosa di spirituale, cioè un' intelligenza, che dirige e cagiona quella serie di suoni; sicchè la favella è una sola produzione di due cagioni, che opera congiuntamente; così anco il Sacramento risulta e dall' esterna operazione dell' uomo, e da quella interna del Santo Spirito che s' accompagna all' operazione esteriore. E questa non è, secondo la mente dell' Angelico, un solo accompagnamento (4). Ma Iddio con quel congiungersi che fa alla parte sensibile ed esteriore del Sacramento è come l' anima per così dire che avviva e avvalora essa parte materiale del Sacramento. Vero è che nella similitudine della lingua, ciò che fa intendere il significato delle parole non è solamente l' esser esse disposte e regolate dall' intelligenza che le pronunzia, ma bensì l' esser ricevute da una intelligenza che ha in sè stessa il lume della verità e la facoltà di ragionare cioè di applicare quel lume alle sensazioni (5). Sicchè nel mirabil fatto della intelligenza delle lingue, tutto il formale dell' intendere procede dal lume interno di chi intende, e le parole non sono che suoni materiali che diventano segni appunto in virtù di quel lume. Il perchè ritenendoci a questa similitudine di S. Tommaso e volendo usare il parlare teologico, la parte esterna del Sacramento non sarebbe più che una causa istrumentale e fisica, ma di quelle che operano indirettamente alla consecuzione dell' effetto (6). E questo conviene con ciò che abbiamo più sopra esposto circa il modo di operare de' Sacramenti (1). Ma se noi non usiamo la parola Sacramento a solo significare la parte esteriore di lui, ma tutto insieme essa e lo spirito che è come l' anima sua; senza alcuna esitazione noi affermeremo allora, che il Sacramento è non solo causa fisica, ma ben anco causa fisica7diretta (2). E con queste distinzioni crediamo agevole il comporre insieme i diversi pareri de' teologi cattolici, e i vari luoghi delle Scritture e de' Padri che sembrano fra loro contrari e ripugnanti. E tuttavia aggiungerò una parola su quel mirabile modo di agire della materia de' Sacramenti santificata dalla forma. Io non parlo che del pane e del vino consecrato, dell' acqua del battesimo e dell' olio della cresima e della estrema unzione. E di queste corporali sostanze o qualità domando io: in che modo esercitano esse sull' uomo quell' azione, che le rendono, come detto abbiamo, cagioni istrumentali indirette della grazia? (1) operano esse per la via delle sensazioni? Rispondo che non per la sola via delle sensazioni, ma sì bene per un principio anteriore a quello della sensazione, voglio dire pel principio della vita. Noi abbiamo veduto che la vita è qualche cosa che precede il sentire, il quale è una funzione della vita (2): abbiamo veduto ancora come il principio vitale presiede sì fattamente a tutta l' animalità, che qualsivoglia modificazione nasca in esso, l' animalità tutta si risente e modifica secondo certe leggi, il che si appalesa ne' nuovi fenomeni che, secondo certe leggi, compaiono nelle diverse facoltà e funzioni ed atti dell' essere animato. Che se la modificazione che risente il principio vitale è buona, tutto nell' animale si ristora e si rallegra: se per opposto è mala, nascono in lui variatissimi sintomi morbosi. Ora io avviso che la virtù della materia santificata ne' Sacramenti operi ineffabilmente sul principio animale; e per questa via modifichi salutarmente l' animalità, in quelle sue parti più sottili e delicate, che inservono agli istinti migliori; e indi avvenga che l' uomo cominci in questa parte ad essere acconciato e disposto all' ultima e tutta spirituale azione che contemporaneamente e congiuntamente viene operata dalla grazia. Per tal modo è bensì necessario il contatto alla valida collazione de' Sacramenti indicati, ma non è punto uopo che questo contatto generi un' avvertita sensazione. Questa maniera di operare si renderà ancora meno difficile a spiegarsi in qualche modo, quando si pensi che la comunicazione di Dio coll' uomo non avviene già mediante qualche modificazione che sostenga la natura divina, ma sì mediante una modificazione della natura umana. Perocchè Iddio è immutabile; è presente in ogni luogo, in ogni cosa. Acciocchè dunque l' uomo il percepisca, non si richiede se non che l' uomo riceva la facoltà di percepirlo; come a vedersi una luce diffusa ovunque non si addimanda se non una virtù visiva: conciassiochè ai ciechi quella luce splendente in ogni luogo parrebbe che non fosse. Si tratta dunque nella rigenerazione soprannaturale dell' uomo di dare a questo un principio di vita nuova contenente virtù di vedere Iddio presentissimo a tutte cose (1). Ora egli è meno difficile a intendere come all' uomo possa essere aggiunto questo nuovo principio vitale senza alcuna mutazione da parte di Dio, che non sia l' intendere come Dio stesso potesse essere comunicato pel veicolo dei sensi. Questa virtù o vita nuova, onde l' uomo si fa potente di vedere Iddio, verrebbe in tal modo a sussister nell' uomo in una maniera molto analoga a quella onde comincia in esso l' intelligenza. Questa, che è la facoltà di veder l' essere iniziale, viene prodotta nell' uomo all' atto della generazione in quella maniera che abbiamo altrove descritta. Ora a quella foggia che organizzandosi l' animalità dell' uomo mediante la generazione carnale vien dato a questo contemporaneo il lume dell' intelligenza, perchè la carne viva ch' egli riceve è porzione e propaggine della carne del primo uomo, a cui il lume d' intelligenza è stato affisso, così essendo stato affisso all' umanità di Gesù Cristo il lume divino o anzi Dio stesso, non è meraviglia che [a] quel contatto delle carni divine colle carni degli altri uomini questo divino lume pure si comunichi, cioè ricevano gli uomini la virtù soprannaturale di vedere Iddio, quasi, voleva dire, come un corpo riscaldato ne scalda un altro al suo contatto, o quasi come un ferro magnetizzato ne magnetizza un altro che a lui si strofina, o più veramente a quel modo che le particelle inanimate del cibo intromesse per le vie dello stomaco nei meati sottilissimi del corpo umano, ricevono per quella elaborazione e vicinanza di parti vive anch' esse la vita. La ragione poi per la quale questo discorso non si può applicare a' tre Sacramenti della penitenza, dell' ordine e del matrimonio è la seguente: Il fine essenziale al Sacramento della Penitenza è l' assoluzione da' peccati, e il sacerdote amministrandolo fa un atto di giudice. Ora un tal atto non si fa coll' applicare all' uomo alcuna medicina, ma col pronunciare la sentenza: il perchè non è bisogno d' altro in questo Sacramento che delle disposizioni del penitente, e del proferimento dell' assoluzione. Il fine essenziale al Sacramento dell' Ordine è di conferire una potestà sul corpo reale e mistico di Cristo, non di guarire o migliorare direttamente l' uomo che lo riceve. Ora la potestà viene conferita semplicemente dalla volontà di chi la possiede e ne può disporre, e può conferirla in quel modo che a lui ne pare. Ella passa dunque dal Vescovo negli ordinandi come passò da Cristo ne' Vescovi, senza bisogno che venga applicata al corpo umano alcuna sostanza medicinale per così esprimermi, se non come segno stabilito a manifestare la volontà di Cristo; dalla qual sola quella potestà si trasferisce. Finalmente il Sacramento del Matrimonio ha per fine di santificare l' amore che unisce gli uomini, e ciò si ottiene per l' imitazione dell' amore ch' ebbe Cristo verso gli uomini. Ora l' unione dell' uomo e della donna è attissima a rappresentare appunto l' indissolubile unione di Cristo colla sua Chiesa. Ora Cristo comunica appunto dell' amor suo agli sposi battezzati, che osservano nelle loro nozze quanto stabilisce la Chiesa a fine di riconoscerle per Sacramento. Conciossiachè se la Chiesa vede in quelle nozze l' imagine dell' unione sua con Cristo, anche Cristo ivi parimente la ravvisa e se ne piace, e così comunica loro della grazia del suo amore. Riepilogando tutto ciò che abbiamo detto, la perfezione della grazia non si potea comunicare agli uomini che colla comunicazione del Verbo pel quale solo potevano conoscere il Padre, e dal quale ricevere lo Spirito Santo, e quindi edificarsi nelle loro anime la rivelazione e la grazia triniforme. Ma il Verbo si dovea comunicare mediante l' umanità da lui assunta. Questa umanità assunta dal Verbo, cioè l' umanità di Cristo era piena di grazia e aveva potenza di trasfonderla negli altri, non pure perchè inabitata e retta da Dio, ma perchè coi patimenti soddisfaceva alla giustizia e pagava il debito della redenzione, e a Dio rendeva un ossequio infinito, e da lui di poter tutto in vantaggio degli uomini si meritava (1). Era ella adunque strumento acconcissimo a comunicare agli uomini la cognizione del Verbo da cui era informata, e la pienezza della grazia. Ma ciò potea fare non solo immediatamente per sè stessa quella umanità, ma comunicando altresì la stessa virtù ad ogni altra cosa sensibile (2). Ora queste comunicazioni di virtù e di santità che si riversa per così dire e travasa dal Verbo nell' umanità assunta da questa, nelle cose sensibili, materia de' Sacramenti, al proferirsi delle parole, e dalle cose nelle persone che ricevono i Sacramenti, sono altrettante azioni reali che non potevano aver luogo in modo alcuno prima della reale incarnazione di Gesù Cristo. Però degli antichi Sacramenti non si potea dire ciò, che tanto acconciamente si dice de' nuovi, cioè che per essi l' uomo S' INCORPORA a Cristo (1): la qual maniera prende luce di evidentissima verità dalla dottrina da noi esposta sul modo onde l' umanità di Cristo opera ne' Sacramenti. E perciò quelli che si chiamano Sacramenti dell' antico Testamento non potevano in alcun modo avere la virtù di quelli del nuovo, e convenevolmente sono detti da S. Paolo « elementi infermi e poveri« (2). » I Sacramenti di Cristo adunque operano nell' uomo con un' azione reale e necessaria. Conviene rammentarsi de' due principii che abbiamo stabiliti nel sistema della perfezione umana, l' uno il principio della morale naturale, e l' altro il principio della religione soprannaturale (1), quello consiste in un' idea dietro la quale opera la volontà, questo consiste in una percezione che muove istintivamente l' uomo anteriormente ad una deliberazione volontaria. La grazia de' Sacramenti è un principio antecedente alla volontà, opera nella essenza dell' anima prima che nelle potenze (2) ed è perciò che la sua azione è da parte di sè necessaria (3). Egli è per questo che S. Paolo avvisa l' uomo di non gloriarsi del suo operare, perocchè con solo questo egli non ha la salute, ma egli l' ha per l' operazione che fa in lui Cristo; il che è quanto dire che non è il principio morale che lo salva, ma il principio religioso . La potenza e la necessità con cui opera questo principio è tale, che l' atto e l' effetto suo viene paragonato alla creazione, e l' uomo che riceve una tanta azione è una nuova creatura, nel qual senso disse l' Apostolo: « Niente vale la circoncisione nè il prepuzio, ma la nuova creatura« (4), » la qual nuova creatura non si fa per alcuna morale naturale, ma per la mistica e ineffabile operazione de' Sacramenti di Cristo nell' anima di quelli che li ricevono. E nella lettera a' Romani, è l' Apostolo quasi solo inteso a dimostrare pur questo, che la morale dell' uomo è un principio insufficiente alla salute dell' uomo, che la volontà è così debole che è incapace di mantenere la legge; ma che all' uomo fa bisogno l' altro principio religioso, che opera in lui, prevenendo la sua volontà, per la potenza di Cristo, e così il fa rinascere, e l' avvalora a mantener poi anche la legge morale, sicchè tutto ciò che l' uomo può avere di salute in sè il trae dall' abbandonarsi a Cristo, o dalla fede in lui, nella sua potenza e virtù salutifera « per le opere della legge nessuna carne si giustificherà in faccia sua« (5) » perchè tutti hanno peccato e sono impotenti a mantenere la giustizia, avendo l' ingiustizia aderente a sè stessi per natura: [...OMISSIS...] . Che resta dunque a salvamento? Non la umana, ma la giustizia di Dio, cioè quella che infonde Iddio pe' Sacramenti e che ha per base la fede: [...OMISSIS...] . E sono i Sacramenti quelli che infondono la fede, di cui tante cose dice S. Paolo, massime il Battesimo, il quale è ordinato appunto a rigenerar l' uomo colla infusione dell' abito della fede (3). Or dunque, se questo è l' operare de' Sacramenti della nuova legge, se la loro è un' azione reale, se il poter fare quest' azione reale viene loro comunicato dalla reale umanità di Cristo, che restava adunque di virtù a que' riti che si chiamano Sacramenti dell' antica legge, quando Cristo non era ancora realmente venuto al mondo e non aveva patito, e perciò non potea da lui derivarsi una tanta virtù? Nessuna azione reale poteva ad essi derivarsi, come più sopra abbiam detto. Nulla di meno anche allora non mancava il mezzo della salute, ed essi stessi que' riti a ciò non poco giovavano. Se Cristo allora non era nell' ordine delle cose , poteva però essere nell' ordine delle idee ; e come dopo Cristo gli uomini sono salvati dalla sua reale azione, così avanti Cristo erano salvati, se mi è lecito così esprimermi, dalla sua azione ideale . Che cosa è l' idea di una cosa? egli è il principio della cosa (4). Cristo dunque coll' essere nelle menti degli antichi cominciava per essi ad esistere e ad operare. Il principio adunque da cui dedurre la differente virtù degli antichi e de' nuovi Sacramenti è la distinzione fra l' ordine ideale e l' ordine reale (5): gli antichi Sacramenti appartenevano al primo di questi due ordini, e i nuovi appartengono al secondo. Perciò egli basta considerare la natura del primo di questi due ordini e paragonarla colla natura del secondo a dover poter conoscere qual fosse l' indole e la virtù de' Sacramenti antichi messi a paragone de' nuovi. Come l' ordine ideale non è che un primo elemento dell' ordine reale; così gli antichi non potevano essere che primi elementi de' nuovi Sacramenti; ed è perciò che con questo nome di elementi li chiama S. Paolo (1). Per la ragione contraria, come l' ordine reale è il compimento e la perfezione dell' ordine ideale, così i nuovi Sacramenti sono il compimento e la perfezione degli antichi. E però disse S. Paolo che « la legge non avea condotto nulla a perfezione« (2). » L' idea ancora è il tipo esemplare della cosa, e perciò gli antichi Sacramenti stavano a' nuovi come la rappresentazione sta al rappresentato. Ed è questo che S. Paolo dice chiamandoli ombra delle cose future, della qual ombra il corpo è Cristo (3). L' idea non ha alcuna azione reale sull' uomo, e la grazia consiste in una azione reale (4). Gli antichi Sacramenti adunque non potevano contenere la grazia, e però S. Giovanni dice: « la legge è stata data per Mosè, ma la grazia e la verità è stata fatta per Gesù Cristo« (5). » Nelle quali parole è da osservare la proprietà di quello« è stata fatta« e non data, come la legge, indicando così l' energia e l' efficienza della grazia, a differenza della legge che si comunica in parole senza cangiar nulla nell' uomo. L' idee e la cognizione rappresentativa delle cose può aver congiunta la promessa e la predizione di esse, e quest' ufficio prestavano appunto gli antichi Sacramenti. Per ciò distinguendo gli antichi Sacramenti da quelli del nuovo S. Agostino dice: [...OMISSIS...] . A cui consuona quanto il Sommo Pontefice Eugenio IV scriveva agli Armeni: [...OMISSIS...] . Un altro ufficio, ed il più nobile, a cui furono destinati i Sacramenti dell' antica legge era di eccitare la fede nelle promesse del venturo Messia, e la certa speranza del Redentore. Al quale ufficio è acconcissimo l' ordine ideale, che rappresenta la cosa futura all' intelletto, massime s' egli sia aiutato e sorretto da imagini le quali colorano e incarnano, per così dire, le idee traducendo sotto i sensi le cose ideate. E questo appunto facevano i Sacramenti antichi, i quali nel mentre che pubblicavano continuamente le promesse rivelate dal Redentore, le fermavano e le scolpivano nelle menti. Indi nasceva o certo si manteneva, e s' avvigoriva la fede nel Cristo futuro, la brama della sua venuta, e la grande aspettazione di lui; e questo era atto della volontà meritorio; perocchè per questa fede l' uomo si riconosceva misero e bisognoso di chi il giustificasse, e si fidava di Dio e di Cristo, che avrebbe egli operata quella giustificazione, che l' uomo non potea dare a sè stesso. E l' uomo che a Dio così s' abbandonava non poteva non essere da lui sostenuto e soccorso. Ora Cristo in tal modo nelle menti degli antichi esistente in idea operava, la quale operazione è una cotale emissione del suo spirito, di cui dice S. Pietro [...OMISSIS...] . E S. Giovanni osa ancor più, e dice che « l' agnello è stato ucciso fino dall' origine del mondo« (2) » per indicare che è stata rivelata la sua morte, conosciuta, creduta, e così resa operativa a salute degli uomini. S. Paolo poi si stende nella lettera agli Ebrei (3) a lungo a mostrare come tutti gli antichi Padri ebbero ogni loro salute e virtù dalla fede, e dice che di questa fede era « autore« » Gesù, quegli stesso che ne fu anche il « consumatore« (4) »: autore della fede antica, consumatore della nuova: non che Gesù, come figliuolo dell' uomo, esistesse realmente nell' antico tempo, ma egli esistea nelle menti e nella fede, e così operava, e dirigeva le loro operazioni (5). Finalmente i Sacramenti antichi non pure giovavano a mantenere o fomentare la fede di generazione in generazione; ma in quelli che li ricevevano erano« segni protestativi« della fede già ne' loro animi concepita. Perciò dice S. Tommaso che « i Sacramenti della vecchia legge erano certe protestazioni di quella fede, in quanto significavano la passione di Cristo e i suoi effetti« (1). » Tanto più che que' Sacramenti sotto la legge di Mosè vennero da Dio comandati, sicchè inchiudevano ad un tempo un atto di fede e un atto di ubbidienza: con che divenivano condizioni a dover piacere a Dio, al quale non può piacere il disubbidiente. La salute avanti Cristo non veniva che dalla fede in Cristo. Perciò egregiamente dice l' Angelico: [...OMISSIS...] . Or se la fede nell' antico tempo era il principio della giustificazione vedesi come questa giustificazione potea seguire talora senza i Sacramenti, come presso le nazioni, talora co' Sacramenti, come presso gli Ebrei, essendo questi Sacramenti da loro richiesti da Dio per segni della loro fede (3). Di qui si vede ragione perchè in Abramo la giustificazione precedette la circoncisione; fu perchè alla circoncisione precedette la fede. V' ebbe nel santo Patriarca prima la fede, poi la giustificazione, finalmente la circoncisione suggello di quella giustificazione che aveva ottenuta per la fede. Perciò il Genesi attribuisce alla fede la giustificazione di Abramo, dicendo « Abramo credette a Dio, e gli fu riputato a giustizia« (1). » Commentando il qual passo l' Apostolo soggiunge: [...OMISSIS...] . Ma questa fede che giustificava dovea essere effettiva ed operativa; chè non sarebbe stata vera fede alla parola di Dio quella che fosse disubbidiente. Perciò, dopo istituiti i Sacramenti come atti protestativi della fede, si doveano questi praticare per ubbidire a Dio che gli avea comandati e non vi potea essere vero fedele che li trascurasse. I Sacramenti adunque mettevano il suggello alla fede, e la completavano, la rendevano meritoria col renderla ubbidiente e perciò effettiva (3). Indi è che S. Giacopo attribuisce la giustificazione di Abramo alla ubbidienza, cioè alla fede ubbidiente, dicendo: [...OMISSIS...] : le quali parole fanno la dichiarazione di quelle sovra recate di S. Paolo, anzi che loro contraddire. Per tal modo i Sacramenti antichi giustificavano l' uomo non in virtù loro propria, come quelli del nuovo patto, ma della fede di quelli che li ricevevano in quanto erano atti consumativi di questa fede (5). Da tutto ciò che abbiamo detto fin qui si può raccogliere quale è la legge, secondo la quale crescer dovea la perfezione umana soprannaturale, e in che stato si trovava questa perfezione innanzi alla venuta di Cristo, in che dopo questa venuta. Ritorniamo un po' sui nostri passi, giacchè un argomento sì rilevante richiede che sia illuminato con ogni più diligente dichiarazione. Abbiamo già toccato altre volte questo vero, che« la dottrina della perfettibilità umana« come la presentano i filosofi, è in contraddizione alla dottrina cattolica. I filosofi e propriamente parlando i sofisti vogliono che« l' uman genere considerato nelle sole sue forze naturali abbia una tendenza e un movimento reale verso una sempre crescente perfezione«. La dottrina del cristianesimo all' incontro intorno alla perfettibilità della specie umana consiste ne' capi seguenti: 1. L' uomo fu creato da Dio innocente. In questo primitivo stato all' umanità presiedeva la felicissima legge della perfettibilità e l' uomo avea tanto la tendenza quanto il reale movimento incessante verso una maggior perfezione. 2. L' uomo si corruppe mediante la colpa. In questo stato di scadimento l' uomo non perdette una cotale tendenza alla perfezione, poichè questa è a lui naturale, giacchè la sua natura è come un germe destinato a svilupparsi; ma perdette il reale movimento verso la perfezione, perchè a cagione del peccato sono entrate in lui delle altre tendenze verso il male più forti di quelle verso il bene, che però isterilirono e al tutto oppressero la tendenza alla perfezione. Di più. Inserito nell' uomo un germe di corruzione più forte del germe nativo di perfezionamento, quello dovette crescere e vegetare più rigoglioso e soffocar questo, e per ciò nel genere umano corrotto, ove si considera abbandonato alle sue sole forze, secondo lo spirito della cristiana dottrina« vi ha una sterile tendenza al bene e un reale continuo movimento verso il male«, ciò che è quanto dire, che non è la legge di perfettibilità che domini, ma la legge di degradamento . S. Tommaso, questo autorevolissimo compendiatore dell' ecclesiastica tradizione, insegna in più luoghi avervi una degradazione continua dell' umana specie abbandonata a sè stessa, a cui riparare dovette Iddio, venir crescendo successivamente i lumi della sua rivelazione. Ecco uno di questi luoghi assai chiari del santo Dottore: [...OMISSIS...] . 3 L' uomo che aggravato dal peso della propria corruzione precipitava nel male fu soccorso da Dio, colla rivelazione e colla grazia. Questo elemento divino è un nuovo principio, un nuovo germe che pur egli deve svilupparsi e crescere, ed è più vigoroso dello stesso germe del male. Esso per ciò dà origine ad una« nuova legge di perfettibilità« a cui è avventuratamente soggetta non l' umanità abbandonata a sè stessa, ma solo l' umanità aiutata da Dio. Da tali verità S. Paolo deduce per corollario, che la salute e la perfezione umana è superiore alle sole forze naturali dell' uomo. Conciossiachè l' uomo avendo un principio prevalente di degradazione conosce il bene e non ha le forze di seguirlo. Per riferire compendiate le sue parole egli dice che [...OMISSIS...] . Di che avveniva che eran perduti, per giudizio lor proprio, perocchè il conoscere il vero era la condannazione del male che operavano (2). Nè più valse a salute degli uomini la legge mosaica. Poichè anche questa non faceva che dar la notizia delle cose a farsi, non la virtù di farle. Ed ora « non sono giusti appresso Dio gli uditori della legge, ma sono giustificati solo quelli che la eseguiscono« (3). » In quanto alla cognizione della presente legge, dice S. Paolo, « i Gentili avevano il lume naturale, e però erano legge a sè stessi« (4) » e mostravano talora di conoscere il bene anche ponendo alcune opere buone, o disputandone (5). Ma come non valse loro il conoscere il bene, se non a condanna maggiore, così non valse a' Giudei l' aver la legge se non ad aumento di condannazione non praticandola (6). Nè nella natura adunque, nè nella legge esterna, la quale nel suo stato di legge esterna nulla conteneva di soprannaturale, poteva l' uomo trovare virtù e forza che riparasse alla corruzione originale: egli era infermo, egli era impotente sì a seguire la ragione che ad osservare la legge, ed era fatta la sentenza « tutti quelli che senza legge peccarono, senza legge periranno, e tutti quelli che peccarono nella legge, secondo la legge saranno giudicati« (1). » Iddio adunque diceva all' uomo, che « renderà a ciascuno secondo le sue opere« (2). » Ma l' uomo per questa via di giustizia non poteva salvarsi perchè le sue opere non potevano esser buone. Il principio morale (il volontario) era guasto nell' uomo, e quinci non era da sperare salute: tutti secondo un tal principio erano rei: rei li dichiararono le divine Scritture senza eccezione da Giudei a Gentili (3). Ci voleva adunque un altro principio, argomenta S. Paolo, da cui venisse la salute umana. E questo principio qual poteva essere se non era il morale? Risponde l' Apostolo: questo principio è « la virtù di Dio che dà salute ad ognuno che crede; al Giudeo prima ed al Greco« (4). » Non la giustizia può salvar l' uomo, ma la gratuita misericordia di Dio, che salva i suoi stessi nemici. E però dice, che la « giustizia di Dio (cioè la sua santa misericordia) si è manifestata senza la legge - che questa giustizia di Dio (e non dell' uomo) si è manifestata per la fede di Gesù Cristo (la qual sola può salvare) poichè tutti peccarono e però tutti abbisognan della gloria di Dio« » che risplende in una misericordia così preveniente. E conchiude che dunque siamo « giustificati gratis per la grazia di lui per la redenzione che è in Cristo Gesù - che però l' uomo non si può gloriare menomamente« (5). » Egli reca l' esempio di Abramo, la cui giustificazione provenne anch' essa da una gratuita misericordia in conseguenza della sua fede, non per una giustizia dovuta alle sue opere. [...OMISSIS...] . Da questa frase S. Paolo argomenta che per la fede fu giustificato Abramo non perchè ciò meritasse secondo una stretta giustizia, ma per un dono della grazia di Dio. Perchè la Scrittura dice: « gli fu riputato il suo credere a giustizia«. » Quel « gli fu riputato« » viene a dire che non gli era dovuta strettamente da Dio una tale giustificazione: [...OMISSIS...] . E questa è quella beatitudine che Davidde commenda in coloro a cui furono rimesse le colpe (2): erano colpevoli, ma sono tuttavia beati perchè Iddio ha loro perdonato, e gli ha resi salvi senza loro merito di propria virtù. Se la giustificazione di Abramo fosse stata dovuta per giustizia, la Scrittura l' ascriverebbe alle sue buone opere; ma nulla di ciò; l' ascrive tutta alla sua fede, senza le opere. Ella dunque fu e non poteva essere che gratuita (3). Ma per un' altra ragione, secondo l' Apostolo, era necessario il principio extra7morale, oltre per quella della impotenza dell' uomo ad operare il bene. Quando anco le forze morali dell' uomo fossero intere, egli non avrebbe potuto eseguire una perfetta giustizia, che al tutto il salvasse. Rimaneva certo intatto il principio della giustizia; perocchè Iddio è giusto [...OMISSIS...] . Ma che? qual è il codice, secondo il quale si dee giudicare e distinguere quelli che operano il bene? quelli che operano il male? forse la legge naturale? forse la sola legge mosaica? No, dice S. Paolo; ma l' Evangelio: [...OMISSIS...] . Alla somma giustizia e perfezione di Dio partiene di giudicare secondo una legge perfetta; ma la legge naturale non è che incipiente, la legge mosaica non è che legale. La legge perfetta è una legge interiore e soprannaturale a cui non giungono le forze della volontà naturale, se non sorrette dalla grazia. Egli è dunque questo principio extra7volontario in ogni caso necessario alla salute dell' uomo. Forse, dice S. Paolo, che Iddio non renda giustizia ai Gentili se fanno il bene? se mostrano l' opera della legge scritta nei loro cuori? (1). No; ma questo preteso bene che fanno dee subire la prova del giudizio divino, che sarà fatto secondo la legge perfetta. Forse che Iddio non rende giustizia agli Ebrei che operano le loro cerimonie? No; ma la circoncisione anzi giova, purchè « vi sia la condizione aggiunta che osservi la legge« (2). » E che questa legge sia non la lettera, ma veramente « le giustizie della legge« (3)« la consumazione o perfezione della legge« (4),« la legge spirituale«, » che è il carattere della legge evangelica. Perocchè non è vero Giudeo quegli che è tale al di fuori, nè vera circoncisione quella« che è al di fuori nella carne; [...OMISSIS...] . Tutte le opere dell' uomo non arrivano a tanto, se Iddio stesso non solleva l' uomo a quest' ordine di perfezione. Perciò quando anco « Abramo fosse giustificato in virtù delle opere sue, che potrebbe esser ciò? avrebbe gloria, ma non presso Dio« (6). » Avrebbe potuto soddisfare gli uomini, che giudicano con una norma imperfetta, quale è il lume della ragion naturale; ma non avrebbe mai soddisfatto Dio, il qual giudica con una norma perfetta, col lume del suo Verbo, nel Vangelo fatto a noi manifesto. Ogni operazione umana adunque qualunque ella possa essere, rimansi imperfetta, e incapace di giustificare pienamente l' uomo nel divino cospetto; e non havvi altro fonte perciò di salvamento se non l' operazione di Dio stesso; sì fattamente che il solo Dio sia in ultimo glorificato. Ora se questo è l' ordine dell' umano salvamento e perfezionamento; se questo non si può ottenere se non per quella via che umilii l' uomo, e Dio solo esalti; qual sarà quella strada legittima che a tanto lieto fine ci scorga? forse quella de' fatti nostri? non già, ma quella della fede nella sua misericordia: [...OMISSIS...] . A questa dunque dee l' uomo ripararsi come a solo asilo di suo salvamento. Ma forse che facendo dipendere la salute umana da un principio estraneo all' umana volontà (1), si viene con ciò ad escludere l' uso di quella potenza e però l' esercizio delle buone opere? Non già, dice l' Apostolo, perchè il principio extra7morale, che è la virtù di Dio ed aiuta l' uomo credente, opera anzi sulla volontà e la fortifica, la rende capace di adempire la legge, che prima non era. [...OMISSIS...] . Ella è questa efficacia operativa della fede che S. Paolo chiama ora « giustizia della fede (4) » ora «« obbedienza della fede« (5). » Ed egli pare che l' ordine della giustificazione e santificazione dell' uomo secondo S. Paolo fosse il seguente: Cominciò l' uomo negli antichi tempi dopo il peccato a prestare a Dio una fede che almeno in quanto alla sua materia era naturale, cioè aveva per oggetti cose di questo mondo, e non invisibili e soprannaturali. Ora questa fede è al tutto sproporzionata al prezzo della santità giacchè quella è di cosa naturale, questa è soprannaturale. Iddio non di meno concedette all' uomo la giustificazione in vista di quella sua fede; ma non gliela potea concedere per giustizia, sì bene per pura grazia senza verun merito precedente (1). E veramente la fede di Abramo a bel principio fu di cosa naturale, cioè egli credette alla paternità promessagli contro tutte le apparenze umane quando il suo corpo era spento per poco e mezzo morta la vulva di Sara« per estrema vecchiezza«: e tenne tuttavia per fermissimo che quello che Iddio prometteva egli poteva ancora mantenere. Non ebbe adunque per oggetto di sua fede la divina santità, ma la divina potenza: [...OMISSIS...] e questa in cosa della presente vita « quale è un' amplissima discendenza, e perciò, dice l' Apostolo, gli fu riputato a giustizia« (3) » non secondo il debito ma secondo la grazia. Così avvenne la giustificazione gratuita di Abramo e degli antichi Santi. Ma come una grazia ne trae seco un' altra, così dopo avere Iddio giustificato Abramo, strinse con lui un' alleanza, la quale era una ripruova della giustificazione ottenuta da Abramo. Conciossiachè Iddio non fa alleanza se non co' giusti, come dicono le Scritture. Inoltre gli dà la circoncisione per segnacolo non meno di questa alleanza (4), che della giustificazione donatagli (5). Per conseguente di ciò avvenne in quinto luogo che Iddio consegnasse alla famiglia del Patriarca le sue rivelazioni: dicendo S. Paolo [...OMISSIS...] . Ora questi eloquii divini costituivano una materia soprannaturale alla fede, e così questa fede diveniva soprannaturale per cagione della sua stessa materia; ed ella si disviluppava, e rendeva sempre più esplicita, più che veniva crescendo il lume della rivelazione, cioè più che si veniva rivelando e svolgendo la gran tela dell' economia della umana salute e deificazione. Conviene adunque nel progresso della perfezione religiosa dell' uomo distinguere due fedi, l' una che precede la giustificazione, l' altra che la sussegue; l' una che ha per sua materia oggetti di questa vita, l' altra che ha per sua materia« gli eloquii divini « cioè le rivelazioni intorno alla comunicazione spirituale della divinità coll' uomo. Colla giustificazione comincia propriamente la grazia, anzi la giustificazione stessa è la prima grazia abituale e stabile; e questa grazia vien crescendo di mano in mano col crescere delle rivelazioni, e fa crescer la fede alle medesime. Ma giova ancora un po' più addentro ricercare la natura di questa fede, donata agli uomini da Dio medesimo colla sua grazia, e vedere in quale stato ella trovar si dovesse ne' giusti dell' antico Testamento. Già abbiamo distinta la reale comunicazione che fa Iddio di sè stesso all' uomo, dagli effetti o doni ch' egli produce nell' uomo senza tuttavia comunicare sè medesimo (3). E veramente altra cosa è che un agente produca un effetto restando egli stesso nascosto, e altro è che l' agente stesso si mostri operante. Colui che, stando dietro ad una tela o ad un muro, in virtù di certe sue macchinette fa comparire su questa tela o su quella scena qualsivogliano diverse rappresentazioni di figure che variamente si muovono; questi produce e dà vedere al di fuori i suoi effetti, ma sè stesso ancora non appalesa. Vero è che da questi effetti si può conghietturare e in alcun modo conoscere il giocoliere nascosto, il qual pure non si percepisce. Così parimente è a dirsi delle operazioni divine negli animi degli uomini. In alcune di esse Iddio produce mirabili effetti, senza però comunicare realmente e pienamente sè medesimo, in alcune altre dà sè medesimo a percepire. Nelle prime operazioni si può però ascendere coll' argomento della mente ad una causa al tutto divina, apparendo l' effetto così eccellente o difficile a prodursi, che nessuna causa finita il potrebbe. Ora la reale e piena manifestazione e comunicazione che Dio fece di sè agli uomini fu solo nella incarnazione (1). Prima di Cristo adunque vi aveano bensì delle operazioni divine nelle anime degli uomini, degli effetti e doni di Dio, ma Dio stesso non era ancora sostanzialmente e pienamente comunicato all' umanità. Nulla di meno Iddio7incarnato veniva rivelato. E questa ideale comunicazione di Dio era quella, che veniva dalla grazia illustrata e vivificata. Ma questa era una comunicazione tenuissima e al tutto iniziale; senza il lume della grazia poi era impossibile cosa che fosse intesa perocchè Iddio non si può intendere per via di sole idee (2), ma per atto di percezione. Nulla di meno l' ideale concetto unito alla grazia, che è una virtù reale, diede agli uomini una idea7percezione; o sia una tenue iniziale percezione della divinità, sì che non abbiamo dubitato di chiamare anche quella grazia dell' Antico Testamento deiforme . Questa idea7percezione di Dio e di Dio7Uomo era la materia della fede soprannaturale dell' antico Testamento (3). Conviene considerare attentamente la diversa maniera onde Iddio operava nell' uomo in antico, e quella onde Iddio opera dopo la unione ipostatica di Dio coll' umana natura in Cristo. Nell' antico Testamento tutta l' operazione di Dio nell' uomo era mentale , ma nel nuovo non opera per la sola via della mente, ma sì bene anche per la via della natura sensibile, perchè essendosi il Verbo fatto carne, la sua sacratissima umanità è divenuta istrumento atto ad operare anche sulla corporea natura degli uomini e purificar questa e santificarla a quella guisa che abbiamo dichiarato poc' anzi, sottraendola massimamente dalla potestà de' demoni (4). Ora la natura umana è cotalmente ordinata che riceve per gli organi vitali e sensitivi la materia delle cognizioni. Non essendoci adunque prima della venuta di Cristo una operazione per la quale Iddio si facesse sentire all' anima dell' uomo per la via dell' animalità, conveniva che tutta quell' idea di Dio, che formava come abbiam detto la materia della fede nell' antico Testamento, fosse negativa, e che la percezione che vi aggiungeva la grazia, non in altro consistesse se non in una cotale energia divina data a quella idea sebbene di forma puramente negativa. Di che apparisce via meglio come si potesse chiamare deiforme quella percezione; cioè non punto per ciò che rappresentava (essendo al tutto negativa l' idea), ma per la forza o energia da cui era accompagnata, il che spiega medesimamente come ciò che si comunicava nella rappresentazione non tanto dir si potesse Iddio medesimo immediatamente, ma un suo effetto, un suo dono (1). Si distingua adunque nella materia della fede dell' antico Testamento la parte rappresentativa dall' energia annessa. Quella prima parte era veramente nulla, perchè le idee negative non hanno rappresentazione alcuna , e per questo appunto si chiamano negative. Esse però hanno un' indicazione della cosa non rappresentata, la quale indicazione serve a determinare la cosa, unica maniera di conoscerla. Iddio e Iddio7incarnato non era rappresentato propriamente nelle anime degli antichi, ma indicato ; e questa indicazione per la virtù della grazia annessavi bastava però a dominar l' uomo; cioè l' idea negativa del Creatore potea aver tanta forza da prevalere a tutte le altre idee e percezioni (2). All' incontro nel nuovo Testamento Iddio7incarnato si è comunicato realmente e pienamente all' umana natura, e si comunica continuamente; e quindi l' anima dell' uomo ne sente e percepisce la real forma e natura, e quindi ne ha un' interna positiva rappresentazione , o intuizione. Ora il non conoscersi una cosa per sè medesima e l' aversi di lei una semplice indicazione viene a dire che quella cosa la si conosce per mezzo di altre cose da noi percepite le quali significano, simboleggiano o indicano essa cosa per una qualsivoglia relazione a noi cognita che con essa si hanno. Il perchè se di Dio7incarnato nell' antico tempo non s' aveva che quella idea negativa di cui toccammo, egli è manifesto che questa idea non poteva reggere nella mente senza quelle altre cose che fossero appunto gl' indizii di Dio, e però non senza simboli, figure e segni di ogni maniera. All' incontro nel nuovo Testamento si ha una percezione dell' uomo7Dio, e però ella è un' idea che ha corpo, è un' idea positiva; la quale può reggersi da sè, senza bisogno di quegli indizii che facevano uopo nell' antico Testamento. Questi indizii , vestigi umani, o traccie indicative di Dio e delle cose divine non fanno bisogno nel nuovo Testamento, se non per quel tanto della divina notizia, che non s' acquista per grazia ma solo per gloria. Laonde nella condizione della gloria, quando Iddio si vede e contempla al tutto svelatamente, cessa ogni simbolo ed ogni figura. [...OMISSIS...] Tre stati adunque si distinguano relativamente al bisogno de' simboli instruttivi e d' indizii: 1 quello in cui si percepisce interamente la cosa reale, nel quale cessa ogni bisogno di segni, e parlando della divina cognizione è lo stato de' comprensori; 2 quello in cui si percepisce in parte la cosa reale e in parte non si percepisce, e in questo non v' è bisogno di segni per quella parte che si percepisce, ma per l' altra che ci rimane impercetta. Tale è lo stato del' uomo in grazia nel nuovo Testamento indicato da S. Paolo in quelle parole « in parte conosciamo, e in parte profetiamo« (2) » cioè conosciamo come i Profeti dell' antico Testamento per via di figure. E poichè quella parte che noi quaggiù ignoriamo risguarda la vita futura del cielo, perciò i simboli misteriosi non si trovano nel nuovo Testamento se non nel libro dell' Apocalisse, che tratta della intera rivelazione che farà di sè Gesù Cristo, o in quegli altri luoghi nei quali a questa compiuta rivelazione di Dio, e di Cristo glorioso si accenna; 3 finalmente quello in cui la cosa reale punto nè poco si percepisce, nel quale stato i segni o indizii sono indispensabili, e senz' essi non si potrebbe avere pensiero alcuno della cosa. E questo è lo stato degli uomini dell' antico tempo, che S. Pietro chiama « luogo caliginoso« » dove non il sole ma solo splendeva la lucerna de' Profeti (3). L' antico tempo adunque era quello de' simboli o indizii della divinità, il nuovo è tempo misto, parte di percezione e parte d' indizii ; il futuro è tempo solo di percezione . Questa è la ragione per la quale venendo Cristo cadde e fu tolto quell' ammasso di riti, cerimonie e legalità che trovasi nell' antica Chiesa [...OMISSIS...] L' uomo nell' antico Testamento necessariamente dovea dunque essere legato e per così dire oppresso da un gran numero di pratiche e di simboli esterni e materiali, perchè senza di queste non potea sostenersi, e lumeggiarsi nella sua mente il concetto di Dio. Quello era un giogo, come dicono le Scritture stesse, insopportabile (2) e tuttavia necessario. Bastò poi un solo lume accresciuto nella mente dell' uomo, perchè tutto quel fascio di osservanze si rendesse inutile (3), nè più necessaria quella servile condizione; bastò che Iddio si comunicasse realmente agli uomini, il che fece il Verbo incarnandosi: indi la libertà de' cristiani; e perchè il Verbo è la stessa verità sostanziale, perciò egli disse [...OMISSIS...] Ma nel nuovo Testamento i segni prendono un altro ufficio che aver non potevano nell' antico. In questo non facevano che istruire, che sorreggere la mente a Dio; ma nel nuovo Testamento essi diventano i veicoli dell' azione reale, che il Verbo esercita su di noi e colla quale si comunicano; perocchè, come detto è, partecipano dalla reale umanità di Cristo una reale virtù di comunicarci ineffabilmente Dio medesimo. Ora poichè la fede è delle cose che non si veggono, apparisce da ciò che è detto, che il regno della fede era propriamente l' antico Testamento. Questa è la ragione perchè quel personaggio che rappresenta il Padre de' credenti (1) si trovi non nel nuovo, ma nell' antico Testamento, quando la cognizione della persona del Verbo era tutta negativa, e perciò tutta fede. Nel nuovo all' incontro regge la fede bensì, ma mista con una cotal luce « in parte veggiamo, e in parte profetiamo« (2) » come gli antichi. E tuttavia, sebbene la cognizione del Dio incarnato che venne data nell' antico Testamento fosse puramente negativa, ella però aveva un progresso ed uno sviluppamento. Questo progresso consisteva nell' aumento successivo delle indicazioni , colle quali Iddio determinava nella mente degli uomini le verità riguardanti il Dio Redentore. La prima rivelazione fu fatta subito dopo il peccato. Il demonio fu conosciuto come un essere malefico sotto l' indicazione di un serpente; Gesù Cristo sotto l' indicazione del seme della donna . La rivelazione è concepita in queste parole: Iddio dice al serpente: [...OMISSIS...] . Egli è manifesto, che con delle indicazioni al tutto naturali qui si determina degli oggetti soprannaturali. Però una tal maniera di parlare non potea mettere nelle menti degli uomini altro concetto che solo negativo di questi oggetti, quando le menti stesse non fossero interiormente illustrate colla comunicazione reale delle cose divine così indicate; il che fu fatto solo nel nuovo Testamento. Tali indicazioni di Dio Redentore crebbero di mano in mano: in Melchisedecco fu conosciuto come sacerdote, in Mosè come legislatore, in Giosuè come conquistatore, in Davidde come re; ma tutti questi personaggi erano uomini, puri uomini, ed esprimevano delle dignità appartenenti alla società umana; le quali non potevano per ciò realmente far conoscere Cristo, ma solo indicarlo ; con delle attribuzioni non uguali, o simili alle sue, ma in qualche modo analoghe. Così si sviluppava, crescendo le figure, la cognizione di Cristo; ma ella rimanevasi sempre però essenzialmente negativa. Ora in tutta l' antica legge si dee distinguere adunque: 1. le indicazioni e 2. la cosa indicata. Le prime erano materiali, esterne, naturali: ma la seconda cioè la cosa indicata, la quale era il fine di tutta la legge, era cosa spirituale, interiore principalmente, soprannaturale. Indi nasce la distinzione che fa S. Paolo fra la lettera e lo spirito della legge: la lettera conteneva le indicazioni ; ma la cosa indicata dovea cogliersi collo spirito , con un lume interno che la lettera nè conteneva in sè medesima, nè somministrava. La cosa spirituale , oggetto ultimo della legge, non essendo rappresentata ma solamente indicata , rimanevasi nell' ombra e nell' oscurità. Il percepirla era dunque impossibile nell' antico Testamento. Questa è la ragione per la quale gli Ebrei medesimi non intesero la legge nella sua profonda e spirituale verità, ma solo nella sua scorza, e per la quale dicono le Scritture ed i Padri, che l' intelligenza vera delle Scritture non si ebbe se non quando il Verbo prese carne umana [...OMISSIS...] . Cristo mostrò d' esser egli la luce che illuminava le antiche Scritture quando dopo la sua risurrezione « aprì il senso agli Apostoli a poter intendere le Scritture« (2). » S. Pietro non dubita di affermare, che gli antichi Profeti non a sè stessi, ma a' Cristiani porsero le divine rivelazioni, come a quelli che soli potevano a pieno intendere, dopo essere venuto di cielo lo Spirito Santo (3). S. Paolo attribuisce all' ignoranza dello spirito della legge l' aver gli Ebrei rifiutato il Vangelo « i quali, dice, ignorano la giustizia di Dio » (cioè la giustizia spirituale e soprannaturale che si fonda nella fede) «e la lor propria giustizia cercano di stabilire - e però alla giustizia di Dio » (che è tutto spirito) « non sono soggetti. Perocchè il fine della legge è Cristo a giustificazione di ogni credente« (4) » e però ignorando Cristo ignorano il fine e lo spirito della legge « hanno zelo ma non secondo la scienza« (5). » E perchè gli Ebrei del riputarli così ignoranti e non intelligenti della legge non si tenessero per oltraggiati, prova la loro ignoranza collo stesso Mosè. [...OMISSIS...] , cioè anteporrò i Gentili a Israello, a quelli darò più intelligenza che a questo. Ma di ciò è forse in colpa la legge, no, dice l' Apostolo, non dipendette dalla legge la materialità colla quale fu intesa; ella nel suo intimo fondo era spirituale; ma mancava il lume che scorgesse a cogliere quello scopo così alto della legge, perchè l' uomo non era ancora rinato per Cristo e resosi spirituale, ma era rozzo e materiale. [...OMISSIS...] Per questo conchiude che gli Ebrei, « andando dietro ad una legge di giustizia, non entrarono nella legge della giustizia« (3) » cioè nel Vangelo, ma rimasero al di fuori a differenza de' Gentili, i quali « non seguivano la giustizia (della legge), eppure appresero la giustizia (del Vangelo)« (4). » S. Paolo osa ancor più. Non solo la legge antica mancava della luce dello Spirito Santo (della percezione di Dio) e però lasciava l' uomo nella oscurità, non presentandogli che un corpo di precetti nudi di osservanze esterne, e di esterne temporali promesse; ma per questo suo difetto essa si rendeva anche occasione di peccati e di errori. Ella non poteva munire di esterna sanzione i peccati interiori dello spirito, come sono i mali pensieri, che Iddio solo vede e punisce. Ora questo Dio non era percepito vivamente nella sua santità, e come giudice spirituale, ma solo negativamente come un legislatore e re temporale. Sebbene adunque proibisse la legge i mali desiderii, tuttavia non valeva quella legge [a far] conoscere agli uomini la malizia e reità di questi e molto meno a far che li evitassero (5). Tanto la notizia di Dio influisce nella moralità! Gli uomini che non percepiscono vivamente quest' essere in sè stesso come invisibile e santo; non possono in alcun modo intendere a pieno l' iniquità de' peccati che si commettono col solo spirito (1). La legge mosaica adunque era incapace di dare agli uomini una tale nozione, come pure era incapace di somministrar loro nulla di perfetto nella morale; e quando ella precettava o di sfuggire le male intenzioni, o di amare i nemici, od altro tale precetto, che non si regge nell' uomo se non in virtù della percezione di Dio; ella non faceva che mettere un inciampo, una occasione di maggiormente peccare. Questo è quello che vuol dire l' Apostolo quando insegna che « non ha conosciuto il peccato se non per la legge. Perocchè io ignorava la concupiscenza se la legge non mi diceva: non volere malamente desiderare« (2); » la legge mi ha illuminato a conoscere la reità dello spirito, ma non dava forza di evitarla, e però « presane l' occasione, il peccato (cioè il fomite del peccato originale) per cagione del comandamento (che mi ha maliziato) ha operato in me ogni mal desiderio - esso toltane l' occasione dal precetto mi ha sedotto ed ucciso per mezzo della legge« (3). » Questo è il significato nel quale dice l' Apostolo che « la lettera (della legge) uccide, e lo spirito solo vivifica« (4). » In questo senso non dubita l' Apostolo di chiamare l' antica legge « legge di morte« (5) » e di esortare i Cristiani a seguirne il solo spirito colle seguenti parole: [...OMISSIS...] . I Farisei si attenevano alla lettera della legge ed è noto per ciò come da Cristo sono chiamati « ciechi e condottieri di ciechi« (1); » è noto quanti errori avevano in morale (2) e quanto a ragione Cristo ebbe a dire al popolo a cui predicava: [...OMISSIS...] . E per mostrare che quella perfezione di virtù che Cristo predicava era conseguente al lume interiore, col quale potevano conoscere Iddio per la sua grazia, dopo aver Cristo enumerati i precetti più spirituali e più perfetti conchiude richiamandoli all' imitazione appunto di suo Padre « siate voi dunque perfetti, come anche il Padre vostro celeste è perfetto« (4). » Riassumendo, la legge antica, e intendiamo con questo nome il complesso delle antiche rivelazioni, risguardava la dottrina intorno a Dio e la morale. La dottrina intorno a Dio era un complesso d' indicazioni di Dio, e nulla più. Gli uomini non avevano a quel tempo il lume ch' ebbero poscia per Cristo, col quale percepivano Dio7incarnato positivamente. Questo Dio7incarnato, in una tenebra allora, fu rivelato solo nella pienezza de' tempi quando si eseguì veramente l' incarnazione. La dottrina morale rispondeva all' imperfezione in cui era la cognizione di Dio presso gli uomini. Non avendo ricevuto lo spirito di questi la percezione di Dio, esso spirito poco era veggente, dominava il senso esteriore e non poteva l' uomo in alcun modo elevarsi a quella morale che si vede in Dio, come in un esemplare da imitare, appunto perchè questo Dio non si vedeva. Restringevasi pertanto la legge nei confini delle esteriorità, e col gran numero di queste occupava gli uomini, a intendimento d' una parte di riscuotere degli ossequii morali almeno nelle cose più gravi e più sensibili, e d' altra di tenere ben segnato nello spirito il fine occulto, e a questo diretto lo spirito, come verso un essere nascosto dietro una parete. Non mancava insieme la legge di accennare anche le cose spirituali, ma queste non avevano efficacia, come le prime, sugli uomini così rozzi come erano quelli della natura. Queste perciò restavano inadempite; e le leggi materiali erano anch' esse tante, che non giungeva mai l' uomo a pienamente osservarle. Imperfetto adunque nell' osservanza delle materialità della legge; molto più imperfetto era lo stato dell' umanità nel mantenere lo spirito di essa legge appunto proposta oscuramente e ravvolta in enimmi; ma nel nuovo è data la stessa verità: però convenne che si aggiungessero le parole che chiarissero ogni oscuro; e che da esse venisse la forza della santificazione, per significare che ogni santità nel nuovo patto procede dalla rivelazione e fede nel Verbo manifesto. E se ancora si tiene in una colle parole l' enimma del rito, egli è perchè, come dice l' Angelico seguendo le vestigia dei Padri, [...OMISSIS...] . Mediante queste considerazioni s' intendono quelle parole di Cristo, il quale dice generalmente di tutti gli antichi maestri: « Tutti, quanti vennero, sono ladri e assassini, e le pecore non li hanno uditi« (1). » Perocchè essi non davano lo spirito, e per ciò non davano la facoltà di udirli; « l' udito è per la parola di Cristo« » come dice l' Apostolo (2). All' incontro Cristo aprì gli orecchi e gli occhi spirituali degli uomini, del qual fatto erano simboli i miracoli pe' quali risanava i sordi ed i ciechi. Egli mostrò Dio in sè stesso e così dice che egli solo è la porta che conduce a Dio. [...OMISSIS...] A questa dottrina risponde quella che S. Paolo espone nella lettera a' Romani. Egli attribuisce al Battesimo e alla grazia di Cristo la reale giustificazione, e prima di questo dichiara tanto i Gentili come gli Ebrei colpevoli. [...OMISSIS...] L' Apostolo dice che gli Ebrei prima di convertirsi al Vangelo erano non solo « infermi ma empi« (1), » che Cristo è morto per essi « mentre erano ancora peccatori« (2) » e quindi non giustificati nella legge; che « essendo inimici sono stati riconciliati con Dio per la morte del suo figliuolo« (3) » e che per questa morte Cristo riparò anche a quelle colpe, a cui la legge avea data occasione (4), che solo dopo la morte reale di Cristo in una parola furono tratti di sotto la schiavitù del peccato (5) e fu compita in noi « la giustificazione della legge« (6). » Ma se nell' antico Testamento, secondo queste dottrine e sotto la legge e fuori della legge tutti gli uomini erano peccatori, i quali furono riconciliati con Dio solo allora che Cristo realmente morì, come poi in altri luoghi delle divine Scritture si afferma di Abramo e di altri personaggi che possedettero la giustificazione? In primo luogo rispondo, che nelle divine Scritture si parla di due maniere di giustificazione, l' una propria dell' antico Testamento, e l' altra propria del nuovo, e che questa del nuovo è tanto eccellente e perfetta che quando quella dell' antico Testamento si mette a petto di questa, quella perde quasi il nome di giustificazione. Quando S. Giacopo dice « Abramo nostro padre non fu egli giustificato mercè le opere?« (7), » egli parla della giustificazione dell' antico Testamento. Quando all' incontro S. Paolo, ebreo e osservatore della legge, dice di sè e de' suoi correligionari che « Cristo risorse per la loro giustificazione (.) » e che per Cristo furono «« giustificati« (9), » allora parla della giustificazione del nuovo Testamento, parla come se non fossero stati prima giustificati; per ciò come se l' antica giustificazione verso la nuova fosse nulla (1). E la ragione di questa nullità della giustificazione antica quando si mette a paragone della novella si mostrerà evidente dalle verità già per noi esposte. Gli uomini tutti erano peccatori per natura; e non potevano essere giustificati se non a patto che Iddio si riconciliasse e si unisse realmente con essi. Ora qual mezzo vi potea essere di ciò prima di Cristo? La legge mosaica non era in sè stessa che un ammasso di precetti che avevano per oggetto cose esterne, materiali, o finalmente nulla più che naturali. Questo ammasso però di cose naturali aveva un fine soprannaturale, a cui cercava di rivolgere la mente e lo spirito degli uomini, ma non mostrandolo visibile nella propria sussistenza, ma indicandolo futuro , e promettendo solo che si sarebbe conosciuto a suo tempo questo fine sublime. Questo fine adunque nella sua essenza divina rimaneva del tutto nascosto agli antichi, e pure egli solo era la loro giustificazione (2). Considerata adunque quella legge in sè stessa, nulla aveva che potesse rendere l' uomo veramente giusto; e per la sua difficoltà ad eseguirla il rendeva anzi più peccatore. Questa è la giustizia che nasce dalla legge, della quale S. Paolo mette fuor di speranza gli Ebrei, sì perchè non la poteano mai conseguire, incapaci com' erano di osservar la legge; sì perchè, anche conseguita, essa non valeva veramente a giustificarli agli occhi di Dio; ma solo tutto al più a quelli degli uomini (3). Che restava dunque ad essi? ove porre la loro speranza? essi doveano volger gli occhi al fine della legge (che era Cristo), e da questo aspettare la giustificazione e la salute. Questa è quella giustificazione che S. Paolo dice nascere non dalle opere della legge, ma dalla fede (4). Or qual sentimento involgeva la fede in Cristo degli antichi Padri? Il sentimento di credersi e di confessarsi peccatori, senza potere colle proprie forze conseguire mai la giustificazione; e tuttavia nutrire in sè la certa fiducia di venir salvati, non per proprio merito, ma gratuitamente da Gesù Cristo venturo. Dovevano adunque, dice S. Paolo, credere in Cristo come in quello che giustifica il peccatore (5). Or questo atto profondo di umiltà, questo abbandono a Dio, questa fiducia nella bontà e potenza di Cristo, era tal cosa agli occhi di Dio, che non gli permetteva di abbandonare uomini, peccatori sì ma che a lui ricorrevano, in lui pienamente si confidavano. E questo non abbandonarli di Dio era la giustificazione degli antichi (1). Ora poi, giacchè una tale giustificazione è piuttosto un' aspettazione ferma di quel Cristo che giustifica comunicando sè stesso agli uomini; egli è manifesto che ella era piuttosto una giustificazione promessa e sperata che una giustificazione attuale e presente; e quindi che ove si paragona alla giustificazione de' Cristiani , i quali hanno aderente a sè « la vita « cioè Cristo, chiamato vita nelle Scritture (2), ella non è giustificazione come la cosa promessa, non è ancora essa medesima cosa; e però rettamente le divine Scritture dicono che Cristo colla sua morte salvò e giustificò realmente anche tutti gli antichi Patriarchi (3). Conosciuta la natura della giustificazione propria dell' antico Testamento, non riesce più difficile intendere la ragione degli effetti, che alla medesima attribuisce la divina Scrittura. Parte di questi effetti risguardavano la vita presente, parte la futura. I tre principali sono poi i seguenti: Il primo si era che a que' giusti aderiva ancora lo spirito di timore e di servitù; mentre a' giusti del nuovo Testamento aderisce lo spirito di figliuolanza e di amore. Sicchè l' Apostolo a' convertiti al Vangelo dicea: [...OMISSIS...] . E la ragione di ciò si è perchè Cristo (principalmente dopo essere asceso al cielo) mandò il suo Spirito e congiunse per esso realmente gli uomini a Dio, dicendo l' Apostolo che « figliuoli di Dio sono tutti quelli che sono mossi dallo spirito di Dio« (2). » Tutto ciò s' intenderà facilmente, ove si tenga ben presente il gran principio da cui muovono tutte le nostre parole. Nell' antico Testamento Dio non era realmente comunicato agli uomini, non era percepito; ma solo indicato con delle indicazioni e segni naturali. Queste indicazioni non il luminavano l' uomo, non lo afforzavano, nol rendevano partecipe della natura divina, e però nol facevano figliuolo di Dio, nel senso del nuovo Testamento . Egli adunque non poteva essere incoraggiato dentro e rinforzato; ma veggendosi peccatore nelle tenebre, escluso dal sancta sanctorum , non potea che temere, e questo era il sentimento che dovea dominare negli antichi santi. Nel nuovo Testamento surse il sole della giustizia, illuminò, incoraggiò le menti: l' uomo si sentì pieno di Dio, e partecipe della divinità allettò in sè un amore e una confidenza di figliuolo. E` Gesù Cristo stesso che distingue la condizione servile degli Ebrei, e la condizione di amici in che erano i discepoli suoi, appunto dalla percezione data a questi di Dio ed a quelli non data. [...OMISSIS...] Ecco la condizione de' servi caratterizzata dall' ignoranza e dalle tenebre in cui i servi sono lasciati dal padrone, come avveniva appunto nell' antico Testamento. E dicendo che « il servo non sa quello che faccia il suo padrone« » accenna una cognizione dell' operare del padrone, che trasportata a Dio viene a significare la sua santità, giacchè lo spirito di Cristo fa conoscere Dio appunto come Santo, che è il suo nome solenne. Prosiegue: « voi poi ho chiamati amici; perocchè tutte quelle cose che ho udite dal Padre mio le feci note a voi« (4). » Si sa che l' udire che fa Cristo dal Padre è il proceder suo dal Padre. Il dire adunque di aver comunicato loro quanto udì dal Padre è un dire che comunicò loro la propria processione dal Padre; e questa non può venire comunicata se non per la percezione interiore. Altramente, sarebbe egli possibile che Cristo avesse comunicate a' suoi Apostoli le cose tutte per singolo udite dal Padre? e chi non sa che queste sono infinite? Ma come il Padre gliele comunicò tutte senza successione, con quell' atto solo col quale lo generò; così Cristo le comunicò pure a' suoi discepoli con quell' atto appunto col quale li generò col suo spirito; perchè nella percezione, che diede loro di sè, tutte le cose veramente si comprendono, giacchè nel Verbo divino sono le cose tutte. Il secondo effetto, o carattere dell' antica giustificazione, si fu che il regno del peccato non era però ancora interamente distrutto, e i giusti stessi soggiacevano ad una cotal servitù di esso peccato. Perciò S. Paolo agli Ebrei convertiti dice: « Il peccato non vi dominerà, perocchè non siete sotto la legge ma sotto la grazia« (1) » facendo intendere così che sotto la legge dominava il peccato. E ancora facendo il paragone dell' antico Testamento e del nuovo, ed attribuendo all' antico la legge, e al nuovo la grazia, dice: [...OMISSIS...] E tosto dopo toglie a mostrare che l' uomo del peccato visse fino alla morte di Cristo, che da Cristo fu crocifisso sulla croce, e viene crocifisso in noi nel Battesimo che ci applica il merito della passione di Cristo: [...OMISSIS...] Questa dominazione poi del peccato non importa mica che quei santi personaggi non fossero veramenti giustificati nel modo detto più sopra, cioè che non avessero una dirittura di volontà e di fede: ma importa ben altro. Quegli antichi nel loro spirito non avevano ancora la percezione di Dio, non avevano la Divinità in se stessi; questa Divinità era l' oggetto della loro fede, come cosa che doveva comunicarsi loro in futuro. Ora dalla percezione della Divinità scaturisce la nuova vita, l' uomo nuovo: da quella percezione esce la grazia onnipotente contro tutti gli assalti dell' inimico. Tutta la grazia degli antichi si riduceva ad una fermezza di volontà contro il peccato, in virtù di quella fede che non dava loro la vita ma la prometteva: questo bastava per non cadere più giù, ma non per ascendere fino a Dio; come quegli che rovinato nel profondo di una valle ombrosa e fermato sulla pendice non ha forza da ritornare alla cima del colle ove vede il sole; ma pur solo di abbrancarsi a' cespugli tenendosi sospeso fin tanto che gli viene recato conforto e tirato da quel profondo. Non essendo adunque nell' uomo Iddio dominatore colla sua propria ed essenzial luce, il peccato si poteva dire ancora regnante; perocchè non era scacciato dall' uomo realmente, ma solo in isperanza. Che poi sia il solo Verbo quegli che libera l' uomo dal dominio del peccato col comunicarsi internamente, si ha espresso in quelle parole: « Se voi vi terrete nel mio discorso, sarete miei discepoli. E conoscerete la verità (cioè il Verbo), e la verità vi libererà« (1) » dal peccato, come spiega tosto appresso (2). Laonde la giustificazione dell' antico tempo non liberava interamente dal peccato, ma avea bisogno di essere completata e perfezionata colla reale incarnazione e morte di Cristo (3). Per ciò l' Apostolo afferma che « la giustificazione della legge si completava in noi , i quali non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo spirito« (4) » per Gesù Cristo; di che fare la legge era incapace (5); sicchè quella antica era una giustificazione quasi direbbesi in potenza ed in germe, la quale dalla reale venuta di Cristo doveva essere attuata e addotta a perfezione. E questo ci prepara la strada a dichiarare il terzo carattere ed effetto di quell' antica giustificazione. Ella nasceva tutta dalla fede. Si formava con questo sentimento che l' uomo formava dentro di sè: [...OMISSIS...] . Iddio non poteva abbandonare un tal uomo, il quale prometteva di « soddisfare non da sè, ma mediante il Redentore promesso«. » Che dunque faceva Iddio? quello che fa un creditore, a cui venga dimandato dilazione al pagamento dal suo debitore. Iddio diceva: [...OMISSIS...] . Non poteva essere più equa e benigna la sentenza: perciò gli antichi giusti non erano condannati, morendo, alla dannazione; ma sospesi nel limbo, fino a tanto che venisse colui che pagasse per essi, e comunicasse loro quel lume, quella vista di sè, che li congiungeva realmente con Dio, e gli ammetteva ad un tempo stesso alla grazia del Redentore e alla gloria. Tale era l' effetto dell' antica giustizia nascente dalla fede in Cristo venturo. Perciò S. Paolo dopo aver mostrato che la giustificazione non viene dalla legge ma dalla fede, dice che « la legge è stata posta per trasgredirla fino a tanto che venisse quel SEME a cui era stato promesso« (6). » Questa fede poi che pienamente giustifica è la fede cristiana secondo S. Paolo [...OMISSIS...] - E la Scrittura ci mostra esser serrate tutte le cose sotto « il peccato, acciocchè ciò che fu promesso si desse a quelli che credono in virtù della fede di Gesù Cristo« (1). » E ancora più manifestamente apparisce, come l' Apostolo per quella fede che salva intende quella in Cristo venuto, non essendo l' antica fede che una fiducia nella fede che doveva venire e salvare, dalle parole che sieguono: [...OMISSIS...] . La fede che dovea rivelarsi era quella di Gesù Cristo venuto. [...OMISSIS...] Perciò acconciamente dice S. Paolo, che quelle parole scritte di Abramo « che la sua fede gli fu riputata a giustizia« » non sono solamente scritte per lui, ma per noi altresì, come in quei suoi figliuoli ne' quali s' è pienamente avverata quella parola (4). Laonde come ne' Sacramenti della nuova legge (cose, azioni, parole) si possono chiamare la parte materiale del Sacramento, e l' invisibile grazia si può chiamare la parte formale (5); così nell' antica legge v' avevano pure queste due parti: ma in luogo della grazia costituiva la forma di que' Sacramenti la fede di quelli che li ricevevano e li amministravano. Dalla fede poi annessa al Sacramento nasceva la giustificazione, la quale era proporzionata alla natura di quella fede, che abbiamo descritta (6). Si può dunque dire che nel popolo peculiare sceltosi da Dio, la fede avea bisogno de' Sacramenti perchè da Dio positivamente voluti (7), e che i Sacramenti avvivati dalla fede erano concausa della giustificazione. Questa giustificazione poi abbracciava due elementi, cioè la sospensione del pagamento del debito del peccato, e l' addirizzamento della volontà. Il Sacramento avvivato dalla fede otteneva innanzi a Dio la sospensione del pagamento; ma la fede era quella che dirizzava la volontà, spingendo questa al di là di tutte le cose naturali, fino all' esser divino, sebbene in un modo implicito, sicchè era sola la punta dell' anima che a Dio volgevasi per quella fede (1). Duplice era dunque la causa operante, duplice l' effetto. La causa operante era la fede col Sacramento; l' effetto era l' addirizzamento della volontà colla sospensione dell' esigenza del debito (2). Ma poichè questo dirizzamento di volontà non avea un oggetto esplicito e positivo, ma era come l' occhio guardante bensì in dirittura del segno, ma non veggente chiaramente ancora il segno, troppo lontano, per ciò dovea la volontà umana acquistare più alti gradi di perfezione, innanzi di poter passare alla visione beatifica; e i fedeli che allora morivano non vedevano per ciò immediatamente Iddio. E questo dà ragione perchè l' effetto de' Sacramenti dell' antica legge non si possa chiamare un cotal cominciamento della futura gloria, come S. Tommaso co' Padri chiama la legge nuova (3): conciossiachè quell' effetto degli antichi Sacramenti non congiunge l' uomo immediatamente con Dio, ma lo dispone all' immediata e positiva congiunzione. Perchè Eucherio di Leone dica che i Sacramenti della nuova legge dànno la vita , che sta nella percezione di Dio, e gli antichi mostravano solo la vita (4); perchè Innocenzo III scriva la circoncisione non dare l' ingresso al regno di Dio (5); verissimo detto ove pel regno di Dio s' intenda il regno de' Santi che già percepiscono Dio; e Giovanni lo Scoto riprovi l' espressione, che la circoncisione aprisse la porta del cielo (6). L' uomo è creatura di Dio: dunque è fatto all' onore di Dio (1). Iddio è creatore dell' uomo, e non poteva avere altro fine che sè stesso nella creazione: « tutte cose, dice la Scrittura, il Signore le ha operate per sè« (2). » L' uomo dunque è ordinato al divino servizio. La legge evangelica, che è la morale nella sua più alta perfezione, riduce tutti i doveri alla carità di Dio, nel qual nome di carità ella comprende ogni servigio e ogni amore. E lo stesso amore del prossimo il fa venire come un ramo dal pedale del divino amore: imponendo all' uomo che di tutte sue potenze ami il Signore, ella non lascia in libertà dell' uomo cosa alcuna dell' uomo, ma ogni suo elemento, per così dire, il consacra al divino culto. Di più, il divino culto nella perfezione della morale evangelica va preferito alla stessa vita; e quando la distruzione di questa possa accrescere a Dio onore e culto, anch' essa dee essere sacrificata. Indi l' origine de' sacrificii: indi il sacrificio accettevole, onde Cristo immolò sè stesso all' eterno Padre. Ogni cristiano è chiamato dietro a Cristo: e però ogni cristiano, colla disposizione almeno di sua volontà, dee aver sacrificato sè stesso: [...OMISSIS...] . Ora se chi sacrifica è sacerdote; la perfezione della morale evangelica importa che ogni cristiano sia sacerdote come fu Cristo, e tal sacerdote che abbia la vittima in sè medesimo (5). Nello stato d' innocenza l' uomo aveva questo spirito sacerdotale. La chiarezza di sua ragione gli mostrava che tutto doveva a Dio, e che in servire e glorificare il suo Creatore si conteneva tutta la sua morale perfezione. La rettitudine di sua volontà, la grazia che la confortava aggiungendole forze divine, avrebbe disposto l' uomo a sacrificare effettivamente sè stesso per la causa dell' onore e del culto di Dio, ove ne fosse stato bisogno. E sebbene questo bisogno non si sarebbe forse avverato, tuttavia non sarebbe mancato quella perfetta disposizione di animo per la quale il santo uomo ama più Dio di sè stesso. In tale stato non era uopo che fra Dio e l' uomo seguisse un cotal contratto positivo ed esterno, pel quale questi promettesse a Dio di servirlo fedele, e Dio gli promettesse proteggerlo. La cosa andava da sè: i rapporti della creatura e del Creatore eran chiari, manifestissimi: nè poteva dar materia ad alcuna convenzione, conciossiachè questa è inutile, ove la natura delle cose parla chiaro e di forza. Ma la mente oscurata dell' uomo peccatore, e il cuore corrotto non sapea legger più distintamente il dettato della ragione, nè udire quanto la natura e la grazia favellavano: disconobbe l' uomo il suo dovere, smarrì di vista il bene morale, cercando sua perfezione e sua grandezza nel fisico e nell' intellettuale; allora ignorò quanto doveva a Dio: e per riannodare la sua corrispondenza col Creatore, fu bisogno che intervenisse un contratto positivo mediante il quale gli si ricordasse ciò che avea tanto obbrobriosamente dimenticato, cioè che egli esisteva pel culto e per l' onore di Dio. In tal modo venìa riseminata nell' uomo la morale e la stessa perfezione della morale, che nasce da Dio comunicante coll' uomo. Per un' altra ragione poi rendevasi necessario un contratto positivo fra Dio e l' uomo dopo il peccato. La coscienza dell' uomo mostravagli dover essere Iddio irato a lui peccatore, e Dio stesso gliel fece conoscere da principio con positive rivelazioni. L' adito adunque a Dio per l' uomo era chiuso. Come poteva questi riavvicinarsi al Creatore, se Dio stesso non gli faceva conoscere di voler deporre lo sdegno, entrando così in qualche trattativa coll' uomo? E rinnovandosi l' alleanza fra il Creatore irato e la creatura colpevole, questa non potea essere che positiva, dipendendo da un atto non necessario ma gratuito della divina Misericorda di tornar l' uomo nel divino favore. Però la prima alleanza espressa che nelle divine Scritture si rammenta è quella fatta in occasione del diluvio colla quale Iddio, vendicatosi dell' umanità pervertita, rassicura la famiglia di Noè e con essa stringe alleanza: [...OMISSIS...] . Ecco il patto positivo di Dio coll' uomo, occasionato dall' infrazione del patto naturale. Ora un contratto positivo in cui entri l' uomo, conviene che abbia delle forme esterne che lo manifestino. Vi dee essere altresì un segno durevole di questo patto, acciocchè gli uomini se ne possano ricordare col venir loro, o tener sott' occhio, quel segno. E però del patto che Iddio strinse con Noè, pose Iddio questo segno: [...OMISSIS...] . Cotal segno dovea ricordare continuamente all' uomo i suoi doveri verso Dio e la stretta alleanza. E perchè efficacemente parlasse e giovasse al disegno della Provvidenza di venir crescendo fra gli uomini la apprensione della verità e la perfezione morale, dovea quel segno essere acconcio allo stato intellettuale dell' uman genere, e però col variare di questo stato doveva variare altresì quel segno e le forme onde il patto fra Dio e l' uomo si rivestiva. Diamo un cenno dello sviluppamento della umanità, al quale Iddio temperava quella sua amorevole provvidenza, onde conduceva l' uomo alla santità. Lo sviluppamento dell' uomo può considerarsi secondo le mutazioni che subiscono le facoltà dell' uomo in ciascun individuo, e secondo i rapporti sociali. Lo stato di ciascun individuo si sviluppa di mano in mano in tutte le parti seguenti: 1. Le facoltà dell' uomo a principio operano tutte simultaneamente, purchè abbiano materia ed oggetto in cui occuparsi, e ciò per istinto. L' uomo acquista più tardi, e un po' alla volta il potere sulle proprie facoltà, pel quale comanda ad alcune di operare, e ad altre di tenersi quiete, e giunge a metterne in movimento una sola alla volta. Fino a tanto che non acquista questa libera direzione delle sue facoltà, l' operare dell' uomo è complessivo, è tutto l' uomo intero che agisce; e questo carattere si ravvisa nelle opere de' primi uomini. Tale osservazione spiega come gli antichi Patriarchi nominati nella Scrittura, mescolavano colle idee religiose quelle della terra. Se le loro facoltà intellettuali avessero potuto operar sole, essi si avrebbero formato delle idee pure della divinità, cioè scevre dagl' integumenti per così dire de' sensi. 2. La materia o gli oggetti sensibili delle facoltà umane vanno sempre crescendo, il che dee variare necessariamente lo stato intellettivo dell' uomo. Convien riflettere che la materia, ossia gli oggetti sensibili, si presenta da prima complessivamente, di poi partitamente, con infinite variazioni. Il presentarsi gli oggetti sensibili partitamente fa sì che operino nell' uomo le parziali facoltà, standosi quiete le altre; e questo è il primo aiuto che presta la natura all' uomo, a poter acquistar egli il dominio sulle sue facoltà, accennato al numero primo. Perocchè egli s' accorge con tale sperienza involontaria di poter operare in due modi, cioè complessivamente con tutte le facoltà, o partitamente con poche alla volta, o con una sola: e accorto di questo, egli studia poi il modo di poter muoverle ad arbitrio o tutte, o parte, o l' una alla volta. Fra gli oggetti sensibili che si presentano alle facoltà dell' individuo, entrano altresì i suoi simili co' quali egli conversa, e onde gli nascono i rapporti sociali. 3. Si aumentano, variano, si spezzano, si adunano anche gli oggetti puramente intellettivi. Indi nasce il progresso delle varie riflessioni, le quali dividono la scienza umana in altrettanti ordini secondochè le riflessioni sono più o meno elevate (1). In ciascun ordine poi la riflessione è più o meno generale, ond' ha le tre seguenti funzioni: 1. mera contemplazione, 2. analisi, 3. sintesi. 4. Finalmente ad ogni stato intellettivo risponde uno stato dell' animo, divenendo ogni oggetto dell' intelletto segno alle affezioni del cuore. 5. Come poi l' uomo acquistò il libero dominio delle sue potenze, l' arbitrio suo è un principio novello che influisce nell' umano sviluppamento, e che se non ne muta le leggi certo ne accresce o diminuisce la celerità. Rispetto poi ai rapporti sociali questi sono successivamente causa ed effetto dello sviluppo individuale, e lo sviluppo che ne nasce dell' umanità procede in quest' ordine: che vi sia 1. la società domestica, 2. la relazione de' servi e de' padroni, 3. la società civile, 4. [la] società fra più nazioni che finisce nella società universale. La divina Provvidenza che ha per termine fisso il condur l' uomo alla perfezione morale, diresse nella sua sapienza le operazioni di lei a seconda degli sviluppamenti naturali dell' umanità; i quali però venivano influiti e aiutati da quelle stesse divine operazioni. Di che è ragione questa, che l' ordine soprannaturale s' innesta su quello della natura, di cui è compimento. E poichè l' ordine della natura era guasto, però insieme colle facoltà umane doveva svilupparsi altresì il seme di peccato giacente nella natura, e coll' aumentare le operazioni umane crescere altresì l' umana perversità. Due adunque sono gli sviluppi simultanei dell' uman genere: 1. quello delle facoltà naturali, e 2. quello del germe vizioso che nell' uomo caduto si chiude. E secondo questi due sviluppamenti la misericordia di Dio ordinava altresì lo sviluppo dell' ordine soprannaturale, acciocchè le facoltà sviluppate potessero di mano in mano tendere a Dio, e crescesse altresì la virtù del rimedio contro il peccato. Per ciò di pari passo con ambo gl' indicati sviluppamenti delle facoltà naturali e della perversione dell' umanità procede: 1. L' incremento della rivelazione, 2. La fede de' Santi si rende sempre più esplicita, 3. Ad una fede più esplicita corrisponde nuova specie di grazia, 4. La rettitudine della volontà corrispondente alla grazia, viene negli uomini Santi sempre più dimostrandosi mediante una intenzione più pura e spoglia di vedute terrene. Or la rivelazione facevasi in parte mediante i segni istruttivi, e però abbiam veduto di questi un continuo progresso, e particolarmente abbiam distinto i segni familiari dai segni istruttivi nazionali. Ora in aiuto della volontà umana e in eccitamento dell' attenzione che dovea p“r l' uomo a' suoi doveri verso Dio, furono altresì stabiliti i segni durevoli che ricordassero i patti positivi fra Dio e lui intervenuti. E però anche questi segni variarono appunto a tenore dello stato dell' umanità (6), del grado di suo sviluppo (7) e del bisogno che avea l' uomo di rimedii contro l' inondazione della crescente corruttela (.). Alcuni di questi segni durevoli volti a rammemorare il patto positivo strettosi fra Dio e l' uomo, furono delle cerimonie religiose. Tali sono i Sacramenti. Per ciò S. Tommaso togliendo a classificare tutte quelle cose che si riferiscono al culto di Dio le divide in quattro parti, mettendo in primo luogo i sacrificii ne' quali il culto di Dio consiste; in secondo luogo gli strumenti del culto o cose sacre ( sacra ), siccom' era il tabernacolo, i vasi e gli altri utensili che si adoperavano nel tempio; in terzo luogo la dedicazione delle persone al culto divino, e qui mette i Sacramenti; e in quarto luogo le osservanze che regolano la conversazione di quelli che sono al culto di Dio dedicati distinguendoli da quei che non sono (1). Nel qual luogo e in altri l' angelico Dottore fa consistere la nozione de' Sacramenti in atto che dedicano la persona al culto di Dio (2): il che è quanto dire, in altrettanti segni esteriori, pe' quali consta del patto onde l' uomo a Dio si consacra, e Dio promette all' uomo protezione. E poichè le ragioni di un patto positivo fra Dio e l' uomo sono due, l' ignoranza dell' uomo, per la quale non conosce che languidamente la sua relazione col Creatore, e lo stato di peccato pel quale ha bisogno che Iddio positivamente gli si avvicini (3); però S. Tommaso dà due fini ai Sacramenti, l' uno di perfezionar l' uomo in quelle cose che riguardano il culto divino, l' altro di rimediare al peccato (4). Adunque perchè l' uomo fosse aiutato contro il peccato crescente, e sempre più a Dio si consacrasse, i Sacramenti avanti Cristo ebbero un progresso. Conciossiachè da principio l' uomo peccatore faceva de' sacrifizii al Signore, e il Signore in varie maniere gli mostrava il suo gradimento. Questi sacrifizii però non erano Sacramenti, perchè non segnavano alcun patto fra Dio e l' uomo; ma erano solamente un atto religioso dell' uomo, col quale cercava di ottenere il divino favore, nè disponevano l' uomo al culto, ma erano atti di culto. Non pare improbabile tuttavia, che fino ab antico quelli che facevano sacrifizii, o quelli per cui si facevano, partecipassero delle cose offerte al Signore; rito che significa assai bene l' unione dell' uomo con Dio, mostrando di aver quegli una mensa ed un cibo comune con questo. E però tal rito poteva essere un Sacramento del tempo così detto della legge di natura (1). Così parimente egli è verosimile che assai per tempo s' introducesse qualche rito onde si consecrassero i sacerdoti, i quali erano in primo luogo i padri di famiglia, fino a tanto che non v' ebbero se non società familiari divise l' una dall' altra; ma quando più famiglie si unirono in un corpo e cominciò la tribù e la nazione, allora fra i padri di famiglia si designarono alcuni de' più cospicui i quali offerissero de' pubblici sacrifizii: nello stato monarchico è poi certo che i re congiungevano questa dignità: tale era Melchisedecco re e sacerdote di Salem (2). Anche questo rito della consacrazione sacerdotale può forse annoverarsi fra i Sacramenti della legge di natura. Finalmente antichissime sono le esterne purificazioni ed espiazioni, le quali potrebbero anch' esse essere appartenenti a quegli antichi Sacramenti (3). Ma non si trova nella sacra Scrittura l' instituzione positiva divina di queste sacre cerimonie, la quale è necessaria a costituire propriamente de' Sacramenti (4). Nè basterebbe per potersi chiamar Sacramenti che fossero stati istituiti dall' uomo mosso da quel sentimento religioso che è proprio della natura umana (1): bensì la loro origine divina si riputerebbe a ragione ove l' istinto dello Spirito Santo gli avesse agli antichi santi suggeriti. E questo tiene essere avvenuto l' Angelico Dottore: [...OMISSIS...] . Nella quale sentenza, che questi antichi riti fosser venuti da Dio, mi conferma il vedere come Dio stesso riconosce i sacerdoti precedenti all' instituzione del sacerdozio levitico (3), e le purificazioni precedenti a quelle per Mosè instituite (4). Ma si sviluppa ognor più il germe del peccato disseminato nell' umanità; e crescendo l' intelligenza ne' figliuoli di Noè, l' affetto alle cose terrene, e i vincoli che li stringeva fra loro e con esse, Iddio nella sua provvidenza separò Abramo dal rimanente del mondo, e in lui cominciò un nuovo contratto; una peculiare educazione dispose dare a quella famiglia, e alla nazione in che si sarebbe sviluppata, acciocchè abbandonati gli uomini a sè e non soccorsi di special provvidenza non ispegnessero il regno di Dio sopra la terra. Allora col nuovo patto cominciarono de' nuovi Sacramenti che fossero segni di lui; e il primo di questi segni, co' quali attestavano gli uomini di essere dedicati al divino culto fu la circoncisione (1). La Scrittura ci rappresenta espressamente la circoncisione come segno del patto strettosi fra Dio ed Abramo. Ecco come narra la sua istituzione: [...OMISSIS...] . Questo Sacramento appartiene nella sua origine alla società familiare; e la parte circoncisa contrassegnava l' unità della stirpe eletta da tutte le altre. Tuttavia egli era destinato a diventare un Sacramento nazionale, e tale divenne quando gli Ebrei uscirono d' Egitto o certo quando entrarono al possesso della terra promessa, tempo in cui si costituirono in nazione (1): di che all' entrare in quella terra la circoncisione, intralasciata durante il viaggio del deserto, fu ripresa (2). Il tempo che passarono nell' Egitto fu per gli Ebrei stato di tribù, che è lo stato di mezzo fra il familiare e il nazionale. Che poi la circoncisione fosse destinata a dover essere Sacramento nazionale, vedesi dalle parole del contratto seguito fra Dio ed Abramo, nelle quali il patto è fermato non solo con quel Patriarca, ma ben anco col suo seme dopo di lui nelle generazioni future in sempiterna alleanza (3); e si vuole che tutti i bambini maschi sieno circoncisi da una generazione all' altra, e anco il servo o nato in casa, o comperato (4). Questo sapersi che la circoncisione è Sacramento famigliare e nazionale, e non puramente individuale, vale a farci conoscere perchè la circoncisione non si desse alle femmine. Bastava che l' avessero gli uomini, perchè questi erano sufficienti a rappresentare la famiglia e la nazione; e le femmine partecipavano dell' alleanza perchè parti di quel corpo o di quella società che insolidariamente era legata con Dio, e perchè si consideravano formanti una sola cosa coll' uomo, per cagione dell' unione maritale, nodo della società domestica, dove la donna e l' uomo sono una carne (5). Per la stessa ragione il bambino che moriva prima dell' ottavo giorno, in cui solo era prescritto la circoncisione non è a riputarsi diviso dal popolo santo, ma sì partecipante dell' alleanza stretta da Dio col corpo di sua nazione. E però dal Sacramento de' Padri riceveva anch' egli la sospensione del pagamento che a' Padri suoi era concessa (6). Ora vediamo le condizioni di questa alleanza. In primo luogo ella fu promessa ad Abramo, e promessa gli fu, perchè uomo fedele e perfetto. [...OMISSIS...] Precedette dunque al patto, ed alla circoncisione che n' è il segno, la fede e la giustizia di Abramo. Abramo assentì a voler esser perfetto: « si gettò Abramo boccone per terra« (1): » così diede il suo assenso. Allora fu conchiuso il patto con queste condizioni: che Iddio fosse onorato e riconosciuto per Dio da Abramo e da tutta la sua discendenza (2). E Iddio all' incontro prometteva ad Abramo, per dargli prova di suo potere e di sua bontà e così dar nuova materia a sua fede, 1 di farlo padre di molte genti e di far da lui uscire dei re; 2 di dare in possesso ai suoi discendenti tutta la terra di Canaan nella quale allora peregrinava (3). Dove si osservi come ciò che promette Dio ad Abramo sieno cose temporali, esigendo però da Abramo un culto veramente spirituale; il che era un proporzionare l' educazione religiosa allo stato dell' umanità: conciossiachè era ben facile conoscere come fosse giusto il dar culto a Dio; e questo il conobbero gli uomini fino da principio; ma il riconoscere nello stesso culto ed onore di Dio la propria felicità, questo era difficilissimo, e non pervennero gli uomini a intenderlo innanzi a Cristo (4). Si esigeva uno stato intellettuale molto elevato a poter fare astrazione da tutte le cose terrene e fissare la mente nella sola giustizia come nel solo vero bene. Tanto non potea l' uomo per natura: bisognava la grazia del Redentore, come appar chiaro da quanto abbiamo detto della natura di questa grazia. Perocchè questa sola grazia dà una percezione viva delle cose spirituali e divine per l' infusione dello Spirito Santo; e in questa viva percezione di Dio, verità e giustizia sussistente, l' uomo si sazia e vede il suo vero ed unico bene. Alla quale altezza di lume non potevano arrivare quegli antichi Patriarchi: e Iddio, parlando ad essi in modo proporzionato allo stato di loro intendimento non pervenuto a riflessione d' alto grado e allo stato di loro grazia corrispondente, provò ad essi i suoi attributi di potenza, di giustizia e di bontà col proteggerli possentemente e regalarli abbondantemente di cose temporali. Frammezzo però a queste cose temporali proporzionate all' intelligenza degli uomini, Iddio prometteva qualche cosa di più: un non so che di misterioso e di recondito: dal seme di Abramo non dovevano uscire solamente dei re terreni, ma un re al tutto singolare e di una grandezza degna di Dio, per ciò spirituale e divina. E attentamente sguardando all' istituzione della circoncisione, apparisce come un doppio patto o una doppia promessa fatta da Dio ad Abramo: la prima generale e risguardante tutti i discendenti di quel Patriarca: per ciò Iddio comandò che fosse circonciso Ismaele, e senza eccezione alcuna tutti i bambini maschi di otto giorni (1). [...OMISSIS...] E Isacco non era ancor nato. Or il patto era generale, e riguardava tutti i discendenti di Abramo. Ma una condizione di questo patto generale era questa che Iddio avrebbe poi fatto un patto speciale con Isacco che dovea nascere: [...OMISSIS...] . Questo è un patto futuro e sempiterno che promette Iddio di far poi col figliuolo nascituro Isacco (5). Non solo adunque Isacco non era circonciso, ma nè pur nato quando il patto spirituale ed eterno fu promesso, e però non in virtù della circoncisione, ma della predestinazione di Dio fu scelto; e quella scelta si dovette alla fede di Abramo, che occasionò il primo patto. Conciossiachè veggendo Iddio Abramo esser fedele, propose a lui di stringere un patto, col quale Abramo e i suoi discendenti promettevano la continuazione di quella piena fede che aveva quel patto occasionato. E in segno di questa fede stabile e continua si commisero alla circoncisione, che però è chiamata da S. Paolo « segnacolo di quella giustizia che viene dalla fede« (1). » E col rito del circoncidersi, tutti gli Ebrei protestavano di volere aver quella fede stessa del loro padre Abramo (2). Or in tal modo l' atto della fede era reso facile a tutti egualmente anche a quelli che non potevano sollevarsi a intendere le cose più alte e spirituali del Redentore. Ad Abramo era stata data luce di percepirla: in quel recondito patto che Iddio avea promesso di stringere con Isacco, il santo Patriarca per lume soprannaturale avea veduto la promessa del Cristo futuro: ciò si ha espressamente nel Vangelo: « Abramo vostro padre vide il mio giorno (cioè vide me nella gloria); lo vide e ne giubilò« (3). » Ma non tutti gli Ebrei potevano avere una grazia sì straordinaria: tutti però potevano avere una fede implicita nel Redentore in quanto che essi si riferivano e protestavano di credere a tutto ciò che aveva creduto il loro padre Abramo. Egli è per questo che fu chiamato Abramo il padre dei credenti. E S. Paolo spiega in un modo sublime e spirituale la promessa fatta da Dio ad Abramo di esser padre di molte genti, intendendo per queste genti non pure quelle che sono nate da lui secondo la carne, ma quelle che partecipano della sua fede, credendo in ciò che ha creduto Abramo, e a tutte queste dice che si riferisce la promessa fatta da Dio (4). Per la medesima ragione il luogo dove andavano le anime degli Ebrei che santamente morivano prima di Cristo si chiamava il seno di Abramo (5). Era la fede di Abramo, a cui si riferivano, che le salvava. Secondo la maniera di dire scritturale il figlio esce dal seno del padre: tornar nel seno del padre significava adunque ricongiungersi al padre, e vivere della sua vita. Le anime de' giusti adunque nell' altra vita vivevano della fede di Abramo, ed è credibile che loro fosse nel limbo esplicitamente rivelato ciò che Abramo credette, e che esse nella vita presente non intesero e non credettero se non implicitamente, cioè nella fede di Abramo (1). La fede adunque significata dalla circoncisione era la fede in Cristo, e l' esser fatta in quella parte del corpo significava il dovere Cristo discender da Abramo per generazione. E Cristo veniva a redimere il mondo e p“r rimedio al peccato originale. Or questo peccato corruppe principalmente il fonte della vita. Il che significava la circoncisione pel doloroso taglio in quella parte dell' uomo, e il recidersi di quella pelle era rito idoneo a significare come doveva essere tolta e da noi rigettata la vetustà del peccato e rinunziato alla concupiscenza. Significava adunque la circoncisione una purificazione dell' uomo: l' uomo vecchio mortificato (2). E perchè l' uomo vecchio fu mortificato nella passione di Cristo, perciò quelle gocciole di sangue che in tal rito si spargevano, ottimamente segnavano la morte di Cristo, e il darsi nell' ottavo giorno al bambino accennava alla risurrezione dell' uomo nuovo in Cristo che avvenne l' ottavo giorno (3). Tanta materia di fede contenevasi nel rito della circoncisione simile nel significato al Battesimo nel quale pure la morte dell' uomo vecchio e la resurrezione del nuovo si rappresenta (1). E questa fede promettevano a Dio e protestavano gli Ebrei con tal rito, non tutti sapendo queste cose, ma riferendo la loro fede ai lumi ricevuti dal loro santo padre Abramo. Nè in questa fede finiva il culto che a Dio promettevano col circoncidersi. Essi protestavano al Signore che riguardandolo per loro padre e re si sarebbero sommessi a tutte le leggi anche politiche e cerimoniali che avesse lor promulgato, e a tutti i suoi voleri. Perciò S. Paolo dice « Io dichiaro ad ogni uomo che si circoncide che con tal rito egli si obbliga ad osservare la legge« (2) » e quindi dissuade i primi fedeli dal circoncidersi, mostrando loro che vanno con ciò a sottomettersi a un peso servile, importevole e inutile dopo Cristo (3). E in corrispondenza di una tal fede e promessa degli Ebrei, Iddio prometteva da parte sua che ad essi soli avrebbe consegnate le sue divine rivelazioni, e fu così che quel popolo il depositario de' sacri libri (4). Tali erano le condizioni spirituali del patto; di cui le condizioni temporali non erano che figure e sostegni dati alla limitazione umana (5). Or le promesse divine contenute in quel patto doveano esser condotte a compimento col succeder de' tempi. L' ultimo scopo di queste promesse era il recar l' uomo alla morale perfezione, la quale dovea effettuarsi di mano in mano per una serie di avvenimenti. L' uomo era peccatore per natura; laonde la prima cosa che convenia farsi a dargli perfezione morale era il redimerlo dal peccato e dalla pena di morte che di conseguente meritava. Ma perchè l' uomo traesse profitto dalla redenzione dovea credere nel Redentore, umiliando sè stesso incapace di venire a salute e sperando la salute sua da colui che l' avrebbe redento. Il primo patto era adunque generale e Iddio prometteva con esso di prender l' uomo in protezione, l' uomo di dar culto a Dio. Questo patto generale ne conteneva un altro particolare riguardante il mezzo di eseguire quel primo, col quale Iddio prometteva all' uomo il Redentore necessario a salvarlo, e l' uomo a Dio di credere fiduciosamente in questo Redentore, e sperar da lui solo la sua salute. Acciocchè all' uomo ancora poco sviluppato nelle sue facoltà intellettive, si scolpisse in mente la necessità che egli aveva di esser liberato dal peccato mediante un Redentore, Iddio figurò innanzi agli occhi degli Ebrei questa grande verità con un avvenimento solenne e nazionale, cioè colla schiavitù di Egitto e colla liberazione da questa schiavitù che rappresentava quella spirituale del peccato; e acciocchè apparisse la necessità del Redentore perchè fossero salvi nell' anima e nel corpo, ordinò in quell' occasione la cerimonia dell' agnello pasquale, secondo Sacramento dell' Ebraico popolo (1). Conviene osservare, come passando l' Angiolo del Signore a dar morte a' primogeniti Egiziani, salvò dalla strage le case degli Ebrei tinte col sangue dell' agnello. Quel sangue era sommamente acconcio a rappresentare quello di Cristo, che venendo immolato placava Iddio nell' ora della sua giustizia, che è l' ora del passaggio dell' Angelo. Ora in quel passaggio l' Angelo del Signore non recava agli Ebrei alcun bene, ma solo li esentava dalla morte; il che acconciamente dimostrava qual fosse l' effetto della fede nella morte futura e non ancora seguita di Cristo, cioè di apportare a' fedeli la sospensione del pagamento o castigo, non però ancora il bene positivo della gloria eterna data dagli uomini solo in virtù del prezzo già sborsato del sangue di Cristo. Ma perciocchè Cristo sacrificato sulla croce dovea esser dato anche in cibo a' suoi discepoli, per ciò l' agnello svenato dagli Ebrei dovette esser da lor mangiato, e ciò in fretta per sommo desiderio di uscir dall' Egitto e fuggire la celeste vendetta di Dio (1), cotto nel fuoco della carità col pane azimo della pura conversazione, e coll' amaro delle lattughe agresti simbolo di penitenza, cinte le reni di castità, ed i piedi calzati di opere buone (2). E per indicare l' unione de' fedeli partenenti ad una sola famiglia della quale il Padre è Dio, dovea mangiarsi in ogni casa, e niuna parte della vittima poteasi portare al di fuori (3). Ora questo secondo Sacramento consacrava di nuovo il popolo Ebreo al culto di Dio più esplicitamente e specificamente: prometteva questo popolo di credere che da Dio dovea venire la sua salute mediante il Redentore e la passione di questo, in virtù della quale liberati dalla morte del peccato dovevano pervenire al cielo significato dalla terra promessa verso cui uscendo dall' Egitto si rivolgevano. Or questo Sacramento dell' agnello pasquale è detto SEGNO nella Scrittura: [...OMISSIS...] . Ecco la promessa e il patto di Dio, ed ecco il segno del patto. [...OMISSIS...] Ecco il culto che da parte loro doveano prestare gli Ebrei. Or il segno di questo patto era una cerimonia permanente: [...OMISSIS...] . E acciocchè più vivamente si scolpisse negli Ebrei l' obbligo di questo culto che doveano dare al Signore, ritenne il Signore in ispecial suo dominio i primogeniti salvati dall' Angelo: [...OMISSIS...] . E questo pure dovea essere in segno perpetuo agli Ebrei: [...OMISSIS...] . Or poscia Iddio continuò a dare effetto al patto da lui stretto con Abramo ed Isacco, del quale l' uscita dall' Egitto era un cominciamento. Come Dio in virtù di quel patto dovea salvare Israello, essergli buon re e scorgerlo alla perfezione morale, però tolse nel deserto a dargli sue leggi. Gli pubblicò da prima la legge morale; poi la legge civile o giudiziale; e finalmente le cerimonie religiose; e in tale occasione volle rinnovato solennemente l' antico patto (4). E disse al popolo d' Israele: [...OMISSIS...] . Or in questa occasione fu istituito un nuovo Sacramento, cioè l' ordinazione de' sacerdoti (6). Come tutto il popolo era stato consacrato al culto divino e n' era segno la circoncisione, così fu peculiarmente stretto da Dio un patto colla famiglia di Aronne, mediante il quale questa famiglia si obbligava di servire in un modo speciale al divino culto, e Dio da parte sua prometteva a questa famiglia una special protezione, e di essere egli stesso la sua porzione e la sua eredità (1). Della quale eredità il mantenimento temporale de' sacerdoti che ricevevano dall' altare, avendo parte delle vittime che si offerivano per lo peccato o per impetrare e render grazia, era niente più che un simbolo. Or la consecrazione era il segno di questo patto peculiare fra Dio e gli Aronnici sacerdoti. Ed è di questo patto colla tribù di Levi che si parla in Malachia, ove Iddio dice a' sacerdoti [...OMISSIS...] . Qui parla del comando che Iddio fece a' sacerdoti di occuparsi nel culto di Dio e nelle sacre funzioni. Nè questo patto risguardava solamente le cerimonie esteriori, ma si riferiva al primo patto generale e morale: doveano i sacerdoti cercare veramente la divina gloria (4), esser santi e ministri di santità (5). E però dice: [...OMISSIS...] . Una delle cerimonie della consecrazione sacerdotale consisteva in vestire il sommo sacerdote di abiti che indicavano le virtù che il dovevano ornare. Quattro vesti vestiva; la prima di bianco lino (7), sopra questa la tunica azzurra, atte a significare la perfezione rispetto a sè, cioè la purità della vita significata nella bianchezza, e la grazia divina significata nel color celeste che sopraggiunta all' anima perfezionava la naturale onestà. Le due altre erano l' Efod, e sopra questo il Razionale atte a significare le virtù rispetto al popolo: simboleggiandosi la carità nell' Efod, e la giustizia che il sacerdote dovea amministrare nel Razionale. Per ciò sì nell' Efod come nel Razionale erano scritti i nomi delle dodici tribù che dovea abbracciare colla carità e con una imparziale giustizia. E le due pietre dell' Efod o sopraumerale chiamansi per questo memoriale de' figliuoli d' Israello; poichè la carità non si scorda degli amati (1); e il Razionale dicesi Razionale del giudizio, perchè rammentava quel ragionevole e giusto giudizio che il Sacerdote come primo giudice dovea pronunciare nelle occorrenze del popolo (2). E il Razionale e l' Efod erano congiunti insieme con uncini e catene d' oro perchè dimostrassero che le due virtù della carità e della giustizia non si dovevano mai dividere (3). Sul Razionale poi del giudicio stavano scritte le due parole Dottrina e Verità, significatrici della cognizione della legge necessaria a ben giudicare e della rettitudine del giudice che applica con verità la legge (4). La lamina d' oro poi pendente dalla mitra sacerdotale con su la scritta:« Santità del Signore« dimostra come tutte le virtù discendono dalla contemplazione continua della divina santità (5). E il cingolo cingeva il sacerdote in emblema di quella discrezione onde le virtù si debbono esercitare (1). I sacerdoti avevano parte delle cose sacrificate al Signore, e vivevan con esse. Questo è considerato da S. Tommaso come un altro Sacramento dell' antica legge (2). Egli era una condizione, come abbiamo veduto ed un segno del patto stretto dal Signore con Levi (3). I Leviti erano mantenuti dal Signore cioè colle offerte a lui fatte; e questi cibi ceduti da Dio a' sacerdoti rappresentavano il cibo spirituale e divino onde Iddio nutrisce quelli che sono peculiarmente dedicati al suo culto: il quale cibo è Dio stesso che però si chiama porzione de' sacerdoti. Come adunque l' agnello pasquale e parte delle vittime pacifiche si mangiavano dal popolo ed erano segno del patto onde questo voleva a Dio essere dedicato ed unito; così i cibi sacerdotali erano parimente segno della consumazione o realizzazione del patto speciale onde i sacerdoti a Dio si univano al culto suo dedicati (4). S. Tommaso annovera fra i Sacramenti dell' antica legge anche le purificazioni ed espiazioni legali. Poichè erano cerimonie, le quali appurando l' uomo, lo disponevano al culto di Dio (5). E come erano due i gradi della consecrazione al culto divino, l' uno comune a tutto il popolo che si otteneva nella circoncisione, l' altro speciale de' sacerdoti che si poneva in atto nella ordinazione sacerdotale; come eran due altresì i cibi sacri l' uno comune a tutto il popolo, l' agnello pasquale, l' altro proprio de' sacerdoti, la parte loro spettante delle vittime immolate e degli altri commestibili offerti al Signore; così parimenti corrispondevano a questi due gradi di sacerdozio (1) due maniere di mondarsi e purificarsi, quanto al popolo cioè le purificazioni propriamente dette da certe impurità esteriori, e le espiazioni da' peccati, e quanto a' sacerdoti e Leviti le lavande delle mani e de' piedi e la rasura di tutti i peli del corpo. Laonde volendo or noi riassumere dando uno sguardo generale su questi antichi Sacramenti diciamo: Che due erano i gradi di sacerdozio o di consecrazione a Dio dell' ebraico popolo: il primo de' quali si faceva per la circoncisione, e con esso il popolo prometteva di osservare tutte le leggi morali, giudiciali e cerimoniali da Dio intimate, dando in tal modo a Dio ossequio e culto; il secondo consisteva nella consecrazione de' sacerdoti, e per esso promettevano che oltre di osservare per sè le leggi avrebbero altresì promosso il divino culto in altrui, adoperandosi a porre in atto le esteriori religiose cerimonie, e aiutando il popolo anche al culto interiore coll' ammaestramento nella legge ed eccitarlo ad osservarla. Che a questi due gradi di sacerdozio rispondevano due cibi consecrati, l' uno pel popolo l' altro pei Leviti; i quali cibi erano come una conseguenza di que' due gradi di sacerdozio, una consumazione di quella prima consecrazione e una caparra che voleva Iddio data a quelli che a lui si dedicavano del mantenimento di sue promesse, e del comunicarsi all' umanità che avrebbe lor fatto. Queste comestioni di cibi sacri non erano dunque nuove consecrazioni propriamente, ma una continuazione delle prime; il perchè queste si replicavano; ma le prime fatte una volta, non più era uopo ripeterle. Che finalmente v' avevano le purificazioni ed espiazioni, colle quali pure il popolo, e i sacerdoti a Dio consecrati confessavano la loro indegnità e come erano male acconci al patto di Dio; come anco a questo patto eran venuti meno coll' infedeltà del peccato. Questi perciò convenivano rinnovarsi ogni qualvolta cadevano in peccato o nella immondezza legale; co' quali riti non forma[va]no già una nuova consecrazione di sè a Dio; ma si rendevano degni della consecrazione di sè al Signore, o dal popolo circonciso o da' sacerdoti consecrati. Abbiamo fin qui veduto come cominciò e progredì il patto positivo dell' uomo con Dio. Cominciò colla famiglia di Adamo peccatore e fu violato dagli uomini. Fu rinnovellato colla famiglia di Noè, e i suoi discendenti il violarono di nuovo. Allora fu scelta la famiglia di Abramo, e per segni di questo patto Abramitico furono stabiliti de' Sacramenti più determinati. Il patto con Abramo racchiudeva da parte di Dio delle promesse temporali e spirituali: queste seconde erano le principali e le prime erano figure delle seconde, atte a far intendere agli uomini il prezzo di esse. Iddio pose mano ad effettuare le sue promesse ed ogni passo che diede in ridurle ad effetto fu a lui occasione di rinnovare il patto antico e di stabilire un nuovo segno di questo patto, già in parte da Dio effettuato, affine di restringere vieppiù e consacrare a sè gli uomini colla memoria di ciò che egli fedele al promesso faceva per loro. Così istituì il Sacramento dell' agnello pasquale quando li liberò dall' Egitto per istabilirli nella Cananea promessa nel patto Abramitico; così indusse la consacrazione de' sacerdoti quando al Sinai organizzò il popolo Ebreo in nazione; diede a lui come re un Codice di leggi, stabilì tribunali, e con esso popolo, qual già vera e perfetta nazione, rinnovò l' alleanza e costituì l' aronnico sacerdozio. Nella quale occasione il Sacramento della consecrazione sacerdotale fu istituito a segno e memoria perenne di quel benefizio di Dio e a stimolo dato al popolo di via più promuovere il culto del suo divino dominatore (1). E tutti questi segni del patto che consecrava l' uomo al culto divino procedevano di pari passo, come abbiamo veduto, collo sviluppamento della divina rivelazione e della fede sempre più esplicita degli uomini. Questa fede però mancava sempre della comunicazione all' anima del Verbo, poichè il Verbo non erasi ancor vestito dell' umanità, che è il mezzo ond' egli si comunica agli altri uomini. Perciò la fede si rendeva sempre più esplicita solamente in quanto alla cognizione di Dio ideale ed in quanto a quelle circostanze dell' Incarnazione che a percepirle si chiede altro più che le facoltà naturali. Per ciò poi chè spetta allo spirituale e soprannaturale della fede, questo non l' avevano gli Ebrei comunemente se non implicito nella fede di Abramo; eccetto quei Santi privilegiati a cui dava Iddio delle particolari illustrazioni, attuali il più, e non mai tali che si potesse dire aver essi veramente e abitualmente il Verbo percepito. La natura per ciò di una tal fede implicita nella sua parte soprannaturale o divina esigeva che il patto con Dio stesso fosse esterno e che vi avessero molti esterni segni che di frequente il richiamassero alla memoria degli uomini. Ma posciachè il Verbo s' incarnò, esso Verbo fu comunicato all' umanità tutta. In questo consisteva la consumazione del patto di Abramo; le promesse spirituali di Dio che conteneva quel patto con ciò erano pienamente adempite: le promesse temporali che servivano di sostegno alle spirituali e di caparra cessavano dall' avere uno scopo, come l' armatura e le centine di una fabbrica quando questa è condotta a fine; e anch' esse s' erano già compite. Or come Iddio ogniqualvolta avea eseguito l' una o l' altra delle sue promesse contenute nel patto Abramitico avea rinnovato il patto medesimo cogli uomini, così fece pure quando vestì il suo Verbo di carne umana, adempiendo così l' ultima sua promessa, la massima delle promesse, quella promessa a cui le altre tutte erano ordinate come mezzi e apparecchiamenti e che sola per ciò formava propriamente la sostanza del patto medesimo. Per ciò dice Isaia del futuro Redentore: [...OMISSIS...] . In questo gran fatto pertanto, in cui Iddio da parte sua liberava la sua fede agli uomini, conveniva che quasi chiamando gli uomini loro dicesse così: [...OMISSIS...] . Questo è il patto nuovo che consuma l' antico, la nuova alleanza, il nuovo Testamento. Or hassi a considerare la natura di questo nuovo patto nel quale sta il compimento delle promesse fatte ad Abramo. Col Redentore donato in esecuzione di quella promessa il debito dell' uman genere venne realmente pagato, non fu già dilazionato il pagamento, il che solo otteneva l' antica fede dei giusti che speravano nel Salvatore. Di più il Verbo stesso comunicavasi allo spirito umano, e non era più sola aspettazione di una futura comunicazione. Per ciò l' uomo non parlava già più a Dio per mezzi naturali ed esterni, ma senza alcuno intermediario l' uomo e Dio si abboccavano insieme, per così dire, nella grazia del Redentore. L' essenza adunque del nuovo patto a differenza dell' Abramitico è tutta interiore, egli non si stringe con apparizioni esteriori ed esteriori dimostrazioni di potenza e maestà come sul Sinai; ma sì bene nel segreto dello spirito fu stretto col reale e personale congiungimento del Verbo e della umana natura da prima, poscia colla comunicazione del Verbo agli altri uomini per grazia (1). Tutto l' esteriore adunque nella nuova alleanza è un effetto ed effusione di questa alleanza già stretta e pienamente verificata, e per ciò è cosa questa posteriore, quando l' antiche esteriorità erano anteriori e conduttive all' alleanza medesima. Quindi consegue, che col nuovo patto l' individuo si ricongiunge veramente a Dio. In tal modo l' uomo è ricondotto allo stato primitivo della perfezione morale, nel quale egli era dedicato al culto divino per sua costituzione e lo conosceva senza bisogno di alcun patto positivo ed esterno (1) che glielo ricordasse; egli era per così dire nel culto stesso costituito, perchè il culto era in lui già in atto, perchè in atto era in lui l' unione sostanziale ed intrinseca con Dio: egli la sentiva questa unione, nella quale egli attingeva la similitudine col Creatore (2). Per la ragione medesima il nuovo patto è universale, perchè è nell' interiore dell' individuo che si consuma. Il patto con Abramo potea essere famigliare e nazionale, perchè era esteriore e positivo: potea cioè stingersi col corpo della famiglia o della nazione rappresentata da alcuni: ma nel nuovo, trattandosi che il commercio di Dio coll' uomo avviene nell' interiore dell' individuo, egli è manifesto che a tal fatto l' individuo non può delegare un altro nè essere in modo alcuno rappresentato; ma è solo al tutto opera personale. Ora quello che è personale è anche universale, perchè a ciò è chiamata ogni persona, e non una singola casa od un singolo popolo. Un' altra conseguenza dello stringersi questo patto con Dio nell' interiore dell' anima di ciascun uomo è questa, che un tal patto non ha quel bisogno di un segno esteriore che aveva l' antico; dico di un segno che fosse come solennità essenziale al contratto; sebbene anche il nuovo patto ha bisogno di quei mezzi esterni che il formano, e che sono i Sacramenti di Cristo. Il perchè ai nuovi Sacramenti è più essenziale l' essere mezzi efficaci produttori del patto che di essere segni di lui come gli antichi, i quali niente nell' anima producevano. E se anche significano i nuovi Sacramenti, ciò fanno per la volontà di Cristo, che li ha istituiti, e che ha giudicato ciò conveniente, non già per una loro intrinseca necessità, cioè perchè il patto sia di tal natura che negli esterni segni si assolva. Tuttavia havvi anche un segno necessario del nuovo patto; ma questo è tutto interiore: e come il patto si opera nell' intimo dell' animo così anche il segno suo necessario s' imprime nell' anima stessa (1) ed è ciò che le divine Scritture chiamano or segno, or sigillo, or signacolo, e che S. Agostino chiamò carattere indelebile, e dopo di lui la Chiesa tutta (2). Questo segno interiore che dovea imprimere nell' anima Cristo era adombrato nell' antico tempo e dai Profeti promesso. [...OMISSIS...] Or venendo a ricercare che sia questo segno che Cristo co' suoi Sacramenti imprime nell' anima è uopo a noi rammemorare ciò che abbiam detto intorno alla grazia del Redentore. Questa grazia l' abbiamo deffinita una comunicazione intellettiva del Verbo siffattamente che il Verbo si rivela all' anima, e questa vista del Verbo che l' anima ne riceve è il lume soprannaturale onde cominciano tutte le soprannaturali operazioni. Or la comunicazione intellettiva del Verbo altra è passeggiera, ed altra è stabile per fissa legge e se si vuol così chiamarla abituale. Di più, volendo noi analizzare questa comunicazione, ella si può considerare rispetto all' impressione che lascia nell' anima la qual viene dal Verbo stabilmente informata; o rispetto alla potenza ch' ella suscita o produce nell' uomo; o finalmente rispetto al perfezionamento della volontà a cui la santità si riferisce. Conciossiachè certa cosa è che il Verbo risplendente nell' anima vi imprime la sua forma o similitudine, e questa è quella luce secondo la quale l' uomo che opera soprannaturalmente si guida. E questa impronta del Verbo può dirsi acconciamente sigillo o segno. Ella però non è ancora santità, poichè all' esser tale conviene che la volontà umana a quella luce ubbidisca, o sia almeno pronta ad ubbidire. Or dunque essendo la grazia quella che produce e forma la santità, alla nozione della grazia non basta ogni impressione del Verbo posta unicamente nella parte intellettiva dell' anima; ma conviene che la volontà non ripugni a quella luminosa impressione. Sicchè quella luce del Verbo impressa nell' anima acquista nome di grazia solamente quando influisce nella volontà, ma non allora che in essa non influisce spingendola o movendola alla carità. Or tuttavia l' impressione del Verbo può rimanersi nell' anima ristretta nella sola parte intellettiva di lei eziandio che la volontà ricalcitri e respinga da sè ogni sua benigna e santa influenza. E questa stabile e ferma impressione del Verbo nella sola parte intellettiva dell' anima, a dispetto della volontà perversa che si rifiuta assecondarla, viene appunto operata ne' tre Sacramenti cristiani del Battesimo, della Confermazione e dell' Ordine, i quali con una tale impressione che si opera da Dio per ferma legge senza rispetto alla cooperazione dell' uomo pongono il divino fondamento dell' universo soprannaturale. Or egli è però ad avvertire che congiungendosi il Verbo in tal modo coll' uomo egli ne prende il possesso come di cosa sua, e che la prava umana volontà non impedisce punto che dall' esser nell' anima la luce e l' impressione del Verbo non iscaturiscano nuovi doveri all' uomo e altresì nuovo potere. Egli a cagione di quella unione col Verbo che lo possiede è consecrato al Verbo stesso: nuovo suo dovere è quello di riconoscere il Verbo siccome degno di ogni culto e di darglielo. Epperò quella impressione che ha in sè del Verbo importa il venir egli per essa ordinato e chiamato al culto soprannaturale di Dio. E perciocchè se non avesse quella luce non conoscerebbe quel suo dovere, nè avrebbe virtù in sè di elevarsi sopra all' ordine soprannaturale; laddove riconoscendo egli il Verbo in sè e amandolo come è degno di buona volontà trae da esso Verbo ogni aiuto e grazia maggiore; però convenientemente si può dire che quella impressione, quel segno, quel carattere indelebile di Cristo sia la potenza di culto soprannaturale che all' uomo viene aggiunta coi toccati Sacramenti. E tutto ciò vogliamo ora provar noi coi documenti che ci somministra l' ecclesiastica tradizione. I. Il carattere viene impresso nell' anima dallo Spirito Santo. S. Paolo parlando del carattere dice: « che in Gesù Cristo dopo aver creduto (1) siete stati segnati nel Santo Spirito di promissione« (2). » E altrove dice parlando di questo segnacolo o carattere: « Non vogliate contristare lo spirito di Dio, nel quale siete stati segnati nel giorno della redenzione« (3) » cioè del vostro Battesimo. E` dunque una operazione dello Spirito Santo, secondo l' Apostolo l' impronta che in noi si fa del carattere indelebile. E all' azione dello Spirito Santo nell' anima l' attribuiscono pure costantemente i Padri della Chiesa. Udiamo S. Cirillo: [...OMISSIS...] . Giovanni Grisostomo parimente dice: [...OMISSIS...] . Ove si vede chiaramente espressa la differenza fra il segno esterno del patto stretto da Dio cogli Ebrei, e il segno interno e spirituale de' cristiani. Perocchè non essendo ancor dato innanzi a Cristo lo Spirito Santo non potevano gli antichi Sacramenti imprimere il carattere indelebile de' nostri. Dal che si conchiude che la grazia e il carattere indelebile sebbene cose distinte, come abbiam detto, tuttavia procedono dallo stesso principio, dallo Spirito Santo (.). II. Il carattere è l' impressione del Verbo fatta nell' anima. Ho già dimostrato che è proprio dello Spirito Santo l' imprimere il Verbo nell' anima, il qual Verbo è sempre il termine dell' operazione del Santo Spirito (9). Perciò dice S. Paolo, parlando del carattere battesimale ricevuto da' primi fedeli, che essi erano stati segnati dallo Spirito Santo nel Verbo della verità (10). Perciò il carattere si chiama dai Padri segnacolo di Cristo (11), e gli si attribuisce come suo effetto speciale il configurarci a Cristo. E poichè Cristo, o sia il Verbo è l' imagine del Padre (12) perciò afferma l' ecclesiastica tradizione che nel carattere indelebile riceviamo noi l' immagine di Dio. [...OMISSIS...] Per la medesima ragione avviene che i Teologi dànno allo stesso carattere il nome di Sacramento, appunto perchè è segno di cosa sacra, come quello che è segno e impressione del Verbo (3). III. Il carattere è luce o splendore. Se il carattere è un' impressione del Verbo, come abbiamo dimostrato, forz' è ch' egli sia luce e splendore, perocchè il Verbo all' anima a cui si comunica non è che luce. E questo dice S. Ambrogio nel passo ultimamente recato. Il medesimo insegna l' antico autore dell' ecclesiastica gerarchia: [...OMISSIS...] . Nè questa luce di cui si parla è altro che intellettiva, la qual dà all' anima conoscimento. Per questa osservazione si spiegano chiaramente que' passi de' Padri ne' quali si dice che col Battesimo viene impresso nell' anima il nome di Dio, volendo dire che viene impresso il carattere (2); conciossiachè come abbiamo altrove osservato, il nome di una cosa equivale, secondo la frase scritturale, alla cognizione di quella. IV. Il carattere è nella sostanza dell' anima. E` proprio del Verbo il congiungersi coll' essenza dell' anima intellettiva. E però se il carattere è una impressione del Verbo, come abbiam provato, egli deve aver sua sede nell' essenza o sostanza dell' anima nostra. Questa sentenza si può conciliare con quella di S. Tommaso che ripone il carattere nella potenza intellettiva dell' anima (3); poichè esso carattere si può risguardare da due lati, cioè in quanto segna , e in quanto opera . In quanto opera egli è potenza (e certo che la luce del Verbo impresso nell' animo, non è inattiva); ma in quanto segna (4), egli non è potenza, ma è impressione, una modificazione dell' anima, la qual riceve un lume nuovo, e in tanto giace nella sua essenza (5). Vero è, che la parola carattere nomina propriamente il segno e non la potenza; come pure egli è vero che antecedentemente alla potenza v' ha l' impressione della luce, fondamento e principio della potenza stessa: e però ragionevolmente, dice il Cardinal Bellarmino, toccando le diverse opinioni de' Teologi intorno alla sede del carattere, queste parole: [...OMISSIS...] . Di qui è, che i Concilii di Firenze e di Trento, parlando del carattere, non dissero già che questo sia in alcuna potenza, ma sì bene puramente e semplicemente nell' anima. V. Il carattere distingue il cristiano dai non cristiani. S. Anselmo dice: [...OMISSIS...] . S. Giovanni Grisostomo osserva come i chiamati alla gloria fino a tanto che erano solamente nella prescienza di Dio non potevano conoscersi e distinguersi se non da Dio: come Iddio volle poi anche contraddistinguerli con un segno che li rendesse manifesti alle creature; e presso gli Ebrei questo segno fu esterno e carnale, la circoncisione, ma presso noi fu posto nell' anima stessa, e suggellatovi dallo Spirito Santo (3). Or essendo questo segno invisibile agli occhi della carne, a' quali non luce se non il segno esterno dell' acqua battesimale, manifesta cosa è che l' anima nostra non è distinta da quelle degli infedeli mediante un tal segno spirituale, se non alla vista di quegli esseri che hanno virtù di percepire le anime, i quali sono, oltre Dio, gli Angeli beati e i demonii. E questo è quello che insegnano i Padri, come si vedrà più sotto, ove saranno addotti i luoghi de' Padri che affermano quel segnacolo indelebile dare alle pure intelligenze notizia di quali anime sieno a Cristo consecrate. L' impressione del Verbo nell' anima intellettiva non può essere mai oziosa, e, come dicono i santi Padri, è anzi attivissima in tutte le potenze dell' uomo. Però l' autore dell' Ecclesiastica Gerarchia , parlando del carattere che imprime il Battesimo dice: [...OMISSIS...] . Ma l' azione che esercita in noi il carattere che riceviamo in alcuni Sacramenti, non ha per oggetto solamente gli abiti animali de' quali parla il citato Padre. Egli ha un' attività e produce degli effetti nella parte più nobile dell' uomo; ed è relativamente a questi effetti che pel carattere si aggiunge all' uomo una nuova potenza soprannaturale. Cerchiamo di chiarire la natura di questi effetti, di questa potenza. Due sono principalmente questi effetti; l' uno è l' attitudine che acquista l' anima e il diritto di ricevere o di amministrare gli altri Sacramenti: l' altro è la potenza di partecipare della grazia di Gesù Cristo. Parliamo del primo di questi due effetti. Col carattere indelebile che imprime il Battesimo, l' anima vien posta in tal condizione, che ricevendo gli altri Sacramenti, ella ne possa ricevere tutti i loro effetti. La Confermazione non fa che avvalorare e confermare, come mostra il suo nome, lo stesso carattere nel Battesimo ricevuto (2). Col carattere del Sacramento dell' Ordine poi l' uomo acquista una nuova potenza per la quale egli consacra l' Eucaristia, rimette i peccati ne' Sacramenti della Penitenza e dell' estrema Unzione, e amministra validamente i Sacramenti altresì della Cresima e dell' Ordine stesso. La potenza per ciò che acquista l' uomo relativamente agli altri Sacramenti è passiva od attiva . Passiva è quella del carattere del Battesimo e della Confermazione; attiva poi quella dell' Ordine, onde può l' uomo dare all' altr' uomo con certi riti il carattere e la grazia, o sia [di] amministrare con validi effetti i Sacramenti. Egli è difficile poi il diffinire se questa potenza spirituale che vien data all' uomo in conseguenza dell' impressione del Verbo nell' anima sua sia un effetto spontaneo e necessario di detta impressione come io credo almeno probabile, ovvero sia egli solamente susseguente, senza nesso di causa e d' effetto fra l' impressione del Verbo o carattere e detta potenza, come crede il Bellarmino, che vede in questo come un vero patto positivo fra l' anima e Dio; e però la chiama potenza morale e non fisica. [...OMISSIS...] Noi non veggiamo perchè il carattere non possa toccare il suo effetto, come dice qui il Bellarmino. Che se il carattere è luce del Verbo, fulgente nell' anima (3), chi può limitare la forza di un tale splendore? A quali effetti non può giungere la virtù del Verbo stesso? Però noi non veggiamo improbabile, a ragion d' esempio, che il carattere del Battesimo per un suo spontaneo e fisico effetto renda l' anima capace di ricevere il carattere della Confermazione. A quel modo appunto come nell' ordine naturale, il lume della ragione che sta nell' anima quando nasciamo, ci fa capaci di ricevere qualsivoglia altra cognizione che ci venga da un maestro insegnata; o a quel modo onde il lume primo della ragione, ci fa capaci di riflettere poi sopra lo stesso lume e per essa riflessione renderlo a noi più luminoso. Così nell' ordine soprannaturale, il carattere battesimale è un primo lume, e il carattere della Confermazione è un altro lume che ci sopraggiunge. Come dunque non intenderebbe un discorso pieno di luminose verità colui che non avesse intelligenza, ma quel discorso sarebbe a lui inutile e nulla significante; così invano si opererebbe il rito della Confermazione in chi non avesse ricevuto il Battesimo, poichè questi non sarebbe capace di percepire quel lume maggiore che nel carattere della Confermazione s' imprime. Ugualmente a niuna verità ripugna il credere che, coll' ordine sacerdotale, l' uomo che già pel Battesimo ha il Verbo in sè stesso acquisti una nuova potenza; cioè che il Verbo già impresso nell' uomo operi di guisa che mediante i riti necessarii usati da quest' uomo s' imprima in altrui il carattere della Confermazione, o si dia la rimession de' peccati, o il pane e il vino si consacri. A quella guisa appunto che chi ha la ragione ha altresì una nuova forza volontaria di operare, e di ammaestrare altri che hanno la ragione; così colui nel quale il Verbo diventa operante per la consecrazione sacerdotale, può trasfondere e comunicare in altrui della propria virtù e della propria luce secondo certe leggi e riti dalla volontà di Cristo costituiti. Or dovremmo parlare come il carattere sia anche la potenza della grazia, cioè in qual modo la grazia conseguiti al carattere per natural conseguenza, ove l' uomo colla volontà sua non vi ponga ostacolo. Ma di questo dobbiamo parlare più sotto distesamente; e qui fermiamoci un poco a trarre qualche conseguenza dal vero esposto, che il carattere sia potenza aggiunta all' anima, la quale per esso diviene atta a ricevere in sè gli effetti de' Sacramenti o a produrre questi effetti in altrui. Come nell' ordine della natura l' intelligenza è data all' uomo pel dono della luce dell' essere, così è data all' uomo una intelligenza soprannaturale pel dono della luce del Verbo che costituisce il carattere sacramentale. Come l' aggiungersi a noi la luce dell' essere è un crearci nell' ordine della natura, così l' aggiungere a noi pe' Sacramenti la luce del Verbo è un crearci nell' ordine della grazia. E come tutto ciò che fa Dio per via di creazione non lo distrugge più mai, poichè è egli solo che lo fa, senza il concorso della creatura, secondo ciò che sta scritto: « Non hai odiato nulla di tutto ciò che tu hai fatto« (1), » così nè l' uomo può più perder giammai l' intelligenza (2); nè può perder più mai il carattere, il quale per questa ragione si chiama indelebile. I Teologi della perpetua durata del carattere adducono appunto questa ragione, che egli è impresso in un soggetto incorruttibile, cioè nell' anima (1), la quale ragione ha tutta sua forza ove si tenga la sentenza nostra che egli giaccia nella stessa sostanza dell' anima, la quale viene modificata o piuttosto accresciuta con esso carattere. Di qui ancora s' intende che la generazione spirituale dell' uomo nuovo si fa pel carattere. Rechiamone alcune prove teologiche. Gesù Cristo diceva a Nicodemo: [...OMISSIS...] . Or qui Cristo al nascimento spirituale dell' uomo non richiede altro se non il Battesimo. Non è dunque la grazia che dà questa prima rigenerazione all' uomo, poichè il Battesimo può stare senza l' effetto della grazia, ma è desso il carattere, perocchè questo è un effetto necessario del Battesimo e ne forma la propria natura (3), conciossiachè quando il rito battesimale non imprimesse il carattere ei non sarebbe più il Battesimo di Cristo, ma un altro. Si noti ancora che il nascere non è mai opera della volontà di chi nasce, ma della natura (4). Ora la grazia non si può dare senza che la volontà ne venga piegata al bene dalla sua presenza, e questo è essenziale alla grazia, sicchè la rigenerazione della grazia non si fa mai se non per qualche cooperazione di volontà. S. Agostino da quelle parole di Gesù Cristo prova assai acconciamente che il Battesimo non si può iterare. Perocchè, dice: [...OMISSIS...] . Or su questa maniera di argomentare, che usa il gran Dottore, così ragioniamo:« Non può ripetersi il Battesimo, secondo S. Agostino, perchè è la nascita spirituale, perchè ripugna al concetto della nascita di una cosa o di una persona che ella si ripeta. Or qual è la vera e intrinseca ragione sola adotta dai Concilii di Firenze e di Trento, per la quale il Battesimo non può ripetersi? Non altra che il carattere indelebile (2). Dunque, conchiudo io, il carattere indelebile è quello che forma la nascita spirituale dell' uomo«. In tal modo (vogliam dirlo con sommo rispetto al gravissimo teologo che egli è) noi ci discostiamo dall' opinione del venerabile Bellarmino, il quale nega che sia al tutto solida e concludente l' argomentazione di S. Agostino da noi recata; la quale all' acutissimo Aquinate par anzi degna di collocarsi in primo luogo fra tutte quelle che provano il Battesimo non potersi ripetere (3). E questo scostarsi alquanto che fa qui l' Eminentissimo Bellarmino da due sì gran lumi procede, pare a noi, manifestamente dal non aver chiaro osservato o tenuto presente, come il nascer dell' uomo [cristiano] non sia altro che ricever il carattere del Verbo, trovando anch' egli solidissima la ragione del non potersi iterare il Battesimo nell' indelebilità del carattere (4). Si consideri che sino a tanto che non viene affetta la volontà il lume del Verbo non può chiamarsi grazia. Ora quando questo lume influisce a santificare la volontà prima di fare quest' atto egli irraggia necessariamente l' intelletto, poichè l' intelletto è anteriore alla volontà e la volontà non si piega se non dietro a ciò che è conosciuto. Dunque il lume del Verbo prima di tutto luce nell' uomo in uno stato nel quale non è ancor grazia e questa viene appresso. Ma la generazione è il primo passo onde comincia una persona. Onde la generazione propriamente parlando non si può attribuire alla grazia che appartiene all' uomo generato, ma sì bene alla primissima impressione del Verbo che si chiama carattere. Nè noi neghiamo per questo che possa dirsi generazione spirituale dell' uomo anche il primo ricevere ch' egli fa della grazia per una cotal similitudine. Perocchè come il figlio somiglia al padre, così l' uomo che ha la grazia somiglia a Iddio, e in questo senso Gesù Cristo diceva che gli Ebrei sono figli del demonio. Altra da questa è la figliuolanza di Dio che nasce dall' impressione del carattere. Chiamasi questa figliuolanza, perchè come mediante la generazione l' uomo comincia ad essere acquistando la sostanza di uomo, e però PUO` fare poscia gli atti da uomo; così colla luce del Verbo l' anima riceve la potenza degli atti soprannaturali, e colla sua sostanza è veramente nell' ordine soprannaturale, cioè congiunta al Verbo che l' ordine soprannaturale constituisce. Si può dire che col carattere sia data all' uomo una nuova natura; non so però se una nuova persona; poichè a questa si esige la volontà. Però parmi che col carattere la persona nuova sia già in potenza; ma che colla grazia si tragga quella potenza all' atto; quasi maritandosi la volontà al carattere : due generanti dell' uomo nuovo. Di questa generazione che si opera pel carattere si oda per tanto S. Giovanni Grisostomo. [...OMISSIS...] Or a conferma del detto recherò un bel passo di Ugone da Prato, nel quale questo scrittore ecclesiastico chiaramente attribuisce al carattere la generazione spirituale che nel Battesimo avviene. Enumerando egli le varie differenze che separano il Battesimo dalla circoncisione, venuto alla quarta differenza dice così: [...OMISSIS...] . Farò anche osservare finalmente, come in molti luoghi del Vangelo si rassomiglia Iddio a un padre, il quale ha de' figliuoli scapestrati e perduti, che egli poi anche ricupera. Or di questi figliuoli disubbidienti e ribelli al padre, non si dice però che cessino con questo da essere figliuoli. Ciò si vede principalmente nella parabola del figliuol prodigo, che propriamente è simbolo del cristiano dissipato e partito dalla casa paterna; il quale però è riconosciuto dal padre per suo, appena che a lui ritorna; perchè ha in sè la fisionomia e i segni a' quali il riconosce per figliuolo sebbene in cenci e coperto di lurida sordidezza, pallido e scarno di fame. Anche il battezzato in egual modo, per iniquo che e' sia al Padre celeste, non perde la figura di figliuolo, datagli nella prima generazione coll' impronta dello spirituale carattere e per suo suddito e figliuolo la Chiesa sempre li riconosce (2). Adunque come la circoncisione distingueva e segnava la famiglia di Abramo, così il carattere contrassegna e distingue la famiglia di Dio. Cristo è solo figliuolo di Dio per natura: i battezzati per questo si chiamano figliuoli di Dio, perchè hanno Cristo seco congiunto, perchè alle loro anime è immobilmente annesso il Verbo che costituisce appunto il« carattere« o segno pel quale Iddio gli riconosce essere della sua famiglia, perchè il Verbo innaturato in essi, per così dire, è suo vero figliuolo. In tal modo il Verbo nelle Scritture si chiama anche« SEGNO«. [...OMISSIS...] Nel capo LXVI d' Isaia Iddio parla manifestamente della generazione spirituale degli uomini, e dice alludendo a' tempi della venuta del Messia: [...OMISSIS...] e dopo vien subito a descrivere le glorie e la felicità della Chiesa, e dopo aver detto che le genti verranno e vedranno la sua gloria soggiunge: [...OMISSIS...] . Or questo segno è quel vessillo nominato tante volte in Isaia, cioè il venturo Messia (3). Cristo adunque è quello che« segna« gli uomini colla impressione di sè in essi e in tal modo dà loro l' adozione di figliuoli. Di qui s' intende chiaro perchè si dica da' Teologi, che Cristo non ha il carattere (4). Gli altri uomini hanno bisogno di essere segnati da lui, ma egli che è quello che segna non è segnato da altri, non può aver bisogno di esser segnato: gli altri uomini ricevendo l' impressione di Cristo partecipano la figliuolanza di Dio, ma Cristo è figliuolo di Dio per natura e non ha bisogno di partecipare della detta figliuolanza (5). Laonde quando Cristo è chiamato nelle Scritture« patto« egli si considera in sè come l' oggetto dell' alleanza di Abramo; quando è chiamato « segno« egli si considera ne' Cristiani ne' quali viene congiunto col Battesimo. La circoncisione all' opposto era bensì« segno« del patto; ma non il« patto stesso« come Cristo si appella (6). E quindi ancora apparisce ragione perchè i Teologi chiamino il carattere una consecrazione dell' anima (7). Consecrare una cosa è destinarla al culto divino, deputarla all' onore di Dio, a lui offerirla, acciocchè egli se ne serva a suo piacimento maggiore. Or io dico di più, che questa sola è vera consacrazione: perocchè interiore. Il Verbo stesso prende il possesso dell' anima, e mette in essa la sua fede, e l' anima così è nelle mani del Verbo consegnata. Or tutti i riti esterni non possono che significare la volontà degli uomini di destinare un oggetto qualunque al culto di Dio; ma non valgono a far sì che Iddio veramente ne prenda uno speciale possesso; o certo que' riti non costituiscono questo possesso stesso. All' incontro l' anima, ricevuto il carattere, è così al Verbo unita, che non può più scongiungersi; e però è veramente e perpetuamente al Verbo e dal Verbo consecrata (1). Anche per tal modo ha dato un verace e reale fondamento alla religione: ella non si assolve più in simboli esterni, ma ha per base una vera consecrazione. Di qui ugualmente si vedrà perchè S. Tommaso, seguito da tutti i Teologi, dica, che « i caratteri Sacramentali sono puramente altrettante partecipazioni del sacerdozio di Cristo, da Cristo medesimo derivate« (2). » Il sacerdozio di Cristo non terminava in offerire solamente degli esterni sacrifizii, senza propria virtù; offeriva un sacrificio interno, infinito, che era il massimo atto di culto e l' esaurimento di ogni morale perfezione. Egli avea una virtù propria, infinita, e il suo effetto non potea mancare; lucrava le anime degli altri uomini e le santificava. Questa virtù, che avea Cristo come sacerdote, di placare Iddio e tirarlo per così dire ad abitare nell' anime a cui si applicava l' effetto di quel sacerdozio, viene partecipata ai cristiani e forma il carattere indelebile. Dice il Bellarmino, come abbiamo anche di sopra notato, che in virtù del carattere viene stretto fra l' uomo e Dio un patto, pel qual patto Iddio si obbliga di concorrere alle azioni sacramentali, cioè a dire a tutti i mistici effetti de' Sacramenti (3). Noi abbiamo osservato, che non è propriamente un patto positivo la ragione per la quale Dio concorre agli effetti de' Sacramenti amministrati e ricevuti da chi ha il carattere; ma che la ragione di ciò è la virtù sacerdotale del Verbo impresso nell' animo (1). Perocchè Cristo fece ritornare, come accennammo, la condizione del primo stato d' innocenza, in cui non erano d' uopo de' patti positivi fra l' uomo e Dio (2). Di che Cristo ridusse al suo vero effetto ciò che al popolo Ebreo non era stato che promesso, ed esteriormente in varii simboli rappresentato: cioè di rendere il popolo « un regale sacerdozio, una gente santa« (3), » che viene a dire consecrata al divino culto. Cristo adunque potea solo essere un sacerdote verace, potente di chiamare Dio dal cielo e farlo amico dell' uomo; e di questa virtù sacerdotale comunicò all' uomo comunicandogli sè stesso. Tale è la natura del carattere. Noi abbiamo considerato in primo luogo il carattere in sè stesso, cioè nella sua qualità di carattere, e come tale l' abbiamo diffinito una unione permanente del Verbo colla essenza dell' anima intellettiva, per la quale l' anima percepisce il Verbo e se ne informa. Di poi l' abbiamo considerato come potenza, perocchè questa forma nuova dell' anima le aggiunge un potere soprannaturale che non avea prima; e questo potere la fa atta a due altissime e al tutto divine operazioni, cioè ad esercitare il culto del sacerdozio di Cristo e a partecipare della grazia (1). Abbiamo parlato della potenza che si riferisce agli atti sacerdotali o sacramentali; ora dobbiamo parlare della potenza che si riferisce alla grazia e alla santificazione dell' uomo. L' ordine in che stanno fra loro questi tre aspetti, in cui il carattere può considerarsi, è appunto questo accennato, che prima sta il carattere come carattere dell' anima, di poi viene il carattere come potenza del sacerdozio, e in terzo luogo il carattere apparisce come potenza della grazia. Rispetto all' ordine in che stanno questo due potenze che procedono dal carattere, l' angelico Dottore dice così: [...OMISSIS...] . Qui S. Tommaso mostra di considerare la disposizione o potenza dell' anima ad eseguire le cose appartenenti al culto come una conseguenza del carattere, e però non come carattere stesso: la nozione dunque di carattere, come carattere, precede a quella di potenza. Prosegue poi: [...OMISSIS...] . E in queste parole l' Angelico conferma ciò che abbiamo di sopra dimostrato, cioè, che il culto cristiano essendo principalmente interiore s' immedesima, rispetto a questa sua principal parte, colla santità. Vedesi ancora nelle stesse parole, come il potere di ricever la grazia venga dopo il potere di esercitare gli atti di culto, come il potere di esercitare gli atti di culto viene dopo il carattere preso nella sua propria nozione. Per questo medesimo la grazia è chiamata dal Maestro delle scuole « l' ultimo effetto del Sacramento« (1) » ed il carattere è detto il «« segno della grazia« (2). » Indi è che tutte le scuole convengono nell' affermare che il carattere precede alla grazia (3). Io dirò di più: il carattere precede alla grazia come la causa all' effetto. Questo essere intrinseco pensiero delle scuole cristiane vedesi da ciò, che il carattere si appella da esse concordemente« Sacramento«, nè così potrebbe appellarsi propriamente, ove segnando la grazia, non valesse altresì di sua natura a produrla, perocchè i Sacramenti della nuova legge hanno questo di proprio, che sono segni al tutto efficaci, ove non sia posto alcun obice volontario a questo loro effetto di santificazione. S. Paolo favellando del carattere dice: « Non vogliate contristare lo Spirito Santo, nel quale siete stati segnati nel giorno della redenzione« (4), » cioè del vostro Battesimo (5). Che vuol dire contristare lo Spirito Santo? Non altro che perdere la grazia colla commissione del peccato. Dunque lo Spirito Santo, nel quale siamo segnati, segnandoci, cioè imprimendoci il carattere, ci avea donata altresì la grazia. Egli è manifesto che S. Paolo in questo passo unisce il carattere e la grazia di una cosa sola, e considera queste due cose come effetti di una sola operazione dello spirito de' quali il principale e fondamentale è il carattere; e non pone che questa differenza fra l' esservi o non esservi la grazia, che nel primo caso lo Spirito Santo che segna l' anima è lieto ed amico, nell' altro caso egli è contristato. Anche in altri luoghi l' Apostolo unisce il carattere e la grazia come venienti dallo stesso fonte dello Spirito Santo, e come effetti di una sola operazione di lui (6). S. Paolo chiama altresì lo Spirito Santo che ci ha segnati, secondo la Volgata, « pegno della celeste eredità , » e secondo la forza della parola greca, « arra della elezione nostra (7): » il che viene a dire parte della gloria futura: giacchè l' arra è parte della cosa promessa che si anticipa in pegno del tutto, e ciò non si può intendere che nella grazia. I Padri della Chiesa tengono la stessa maniera di parlare, S. Ambrogio dice: [...OMISSIS...] . Qui dà il santo Vescovo per ragione dell' esser noi segnati questa, che un tal segno ci fa possenti a mantenere la grazia; il che mostra appunto come il carattere si possa chiamare la potenza della grazia, cioè la potenza di partecipare stabilmente della grazia del Redentore. In altro luogo dice il medesimo Dottore della Chiesa: [...OMISSIS...] . Qui congiunge al segnacolo spirituale i doni dello Spirito Santo, e mostra come dipende dalla buona volontà nostra il mantenerne gli effetti. Non poteva però far dipendere dalla volontà nostra il mantenimento del segnacolo stesso, che questo santo Padre in più luoghi dimostra al tutto indelebile. Questo segnacolo è chiamato« santo« (3) comunemente da' Padri, il che non sarebbe propriamente detto quando non aggiungesse all' anima alcuna santità. Però un celebre scrittore ecclesiastico dice, che il peccato di un battezzato, è simile a quello di un vassallo che falsificasse il sigillo del principe, e che al carattere indelebile dee susseguire la santità (4). Finalmente osservò che il Battesimo opera in virtù della passione di Cristo, e anche per questa cagione prova S. Tommaso che non si può rinnovare (5). Ora la ragione assegnata da' Concilii del non potersi rinnovare il Battesimo è quella dell' impressione del carattere indelebile. Ciò posto odasi il ragionamento di S. Tommaso: [...OMISSIS...] il che viene a dire, che tolto l' obice del peccato colla Penitenza, la virtù del Battesimo che rimane riproduce nell' anima la grazia battesimale. Ora perchè lo stesso ragionamento non si può applicare al Sacramento della Penitenza? Non per altro, dico io, se non perchè il Sacramento della Penitenza oltre la grazia non produce altro effetto, e però chi pecca dopo l' assoluzione sacramentale perde tutto l' effetto del Sacramento. Non così nel Battesimo, perocchè questo lascia il carattere anche dopo perduta la grazia, e questo carattere è radice sempre viva dalla quale, levato il peccato che la impediva, pullula e fiorisce l' ultimo effetto del Sacramento, cioè la grazia battesimale (1). Lo stesso si dica della grazia del Sacramento della Confermazione e dell' Ordine, che perduta col peccato, risuscita di bel nuovo tostochè il peccato sia tolto: perocchè rimane il carattere, il quale è quel fonte descritto da Gesù Cristo, che pullula un' acqua saliente in vita eternale (2). Il naturale effetto adunque del carattere è di santificare gli uomini colla emanazione di sè della grazia, e quando questa emanazione è impedita dalla perversa volontà, riman però viva nel carattere la potenza di riprodurla. Per questa natural congiunzione colla grazia santificante, di cui il carattere è come un fonte, viene altresì che i Padri attribuiscono al carattere l' essere segno di distinzione fra quelli di cui Cristo ha preso il possesso e fatti suoi, e gli altri da Cristo non posseduti; al qual segno gli Angeli li riconoscono e li difendono dalle nemiche insidie, o li separano e mettono, al tempo della messe, alla parte de' salvi. Di ciò credere v' è fondamento nelle Scritture. Perocchè di Cristo propriamente sta scritto, che [...OMISSIS...] . Ora se il carattere è appunto Cristo congiunto immobilmente coll' uomo nella sua parte intellettiva, ne viene che gli Angeli debbano esercitar quell' officio anche verso dell' uomo così segnato, che è come a dire Cristo per partecipazione. Però S. Basilio coerentemente al parlare delle Scritture dice, che Iddio dà le tessere a chi milita sotto di sè, soggiungendo: [...OMISSIS...] . Però io non vedo come alcuni teologi nieghino di conoscere a figura del carattere indelebile il sangue onde furono segnate le soglie delle porte de' figliuoli d' Israello in Egitto, quando passò l' Angelo uccidente i primogeniti; perocchè anzi non veggo cosa più acconcia di quel segno a significare il carattere di Cristo. Questo carattere viene impresso in virtù della passione di Cristo, per la quale operano i Sacramenti cristiani, ed è segno che difende i segnati dalla morte (1). Nè nuoce alla verità della similitudine, che il carattere non difenda i cristiani peccatori dalla dannazione; perocchè questo è accidentale impedimento posto al carattere, che per sè conseguirebbe indubitatamente quel salutevole effetto. Quindi anzichè con tali teologi, io me ne sto co' Padri più antichi della Chiesa a' quali non isfuggì la manifesta similitudine fra il segno del sangue nelle superliminari imposte degli Ebrei, e il carattere di Cristo ucciso, sulla cima dell' anima che è la sua parte intellettiva. E a conferma di ciò basti questo luogo di Gregorio Nazianzeno sopranomato il teologo per l' eccellente esattezza di sua dottrina: [...OMISSIS...] . Per la medesima ragione a me pare dover intendere del carattere quel T onde Ezechiele (3) predisse doversi segnare le fronti di que' che gemono e piangono, e onde nell' Apocalisse si affermano segnati gli eletti (4). Non è già che il Tau non significhi acconciamente la croce di Cristo, come oppongono quelli che negano esser egli figura del carattere. Ma appunto perchè egli è il segno della croce, sembrami acconcissimo a indicare il carattere che viene impresso in virtù della passione di Cristo (1). E si vorrà sostenere che le fronti di tutti gli eletti sieno improntate di una croce materiale? Il rito del segno della croce usato nella Chiesa non lascia nissuna impronta nella fronte corporalmente presa; ed Ezechiele parla di un segno che rimane nella fronte, scrittovi con inchiostro mistico, non dalla persona segnata, ma da un uomo biancovestito, che si descrive dal Profeta (2) e che si chiama espressamente un Angelo nell' Apocalisse « il quale ha il segno del Dio vivo« (3). » La fronte poi è acconcissima a indicare la parte suprema dell' anima in cui viene impresso il carattere. Solamente si può aggiungere, che il segno di cui parla l' Apocalisse, non è il carattere solo, ma unito colla grazia, poichè è quello di cui sono segnati gli eletti. E per la medesima ragione, onde al carattere gli Angeli conoscono quelli cui difendono, i demonii conoscono quelli da cui hanno a temere: [...OMISSIS...] . S' intende anche da ciò che è detto, perchè i Padri della Chiesa veggano nel carattere una caparra della celeste gloria: egli è quella luce del Verbo che rivelatasi interamente forma la celeste gloria. Spiegando quelle parole di S. Paolo « quegli che ci unse e segnò« (1) » Teofilatto dice, che [...OMISSIS...] . Il carattere, come abbiamo detto, è una cotal percezione del Verbo. Il Verbo lucente nell' anima produce varii effetti, che a due classi si riferiscono: la prima al potere del culto divino che nelle azioni sacramentali principalmente consiste; la seconda nel potere di partecipare stabilmente alla grazia del Redentore, ove non sia posto obice alcuno dalla volontà. Il Sacramento della Penitenza e quello dell' estrema Unzione ha per iscopo di levare dall' anima il peccato che è appunto l' obice che impedisce la infusione della grazia dal carattere di natura sua promanante; però questi due Sacramenti non imprimono carattere, ma lo suppongono. Il Matrimonio è un sacramento la cui essenza consiste in un contratto consumato e indissolubile. Lo scopo è di rappresentare l' unione di Cristo colla Chiesa, e però di santificare l' unione maritale a quel modo che è santa l' unione di Cristo. Perciò egli suppone bensì che ne' singoli contraenti sia già impresso il carattere, fonte della santificazione; ma egli nol dà questo carattere, non avendo un tal Sacramento di mira tanto la santificazione dei singoli in generale, quanto la santificazione dell' atto della loro unione particolare. E come l' unione maritale non è che una unione particolare delle persone, perciò essa non può che aggiunger loro un grado di santità speciale e grazia, ove le persone stesse si suppongano esser già nella grazia. Finalmente l' Eucaristia è l' unione di Cristo all' uomo per via della sua umanità in forma di cibo. Sono i corpi che si congiungono, di Cristo e del cristiano. Ora il carattere risiede nella parte intellettiva dell' uomo e non ne' corpi. Perciò l' Eucaristia non imprime il carattere. Ella è l' ultima finale santificazione dell' uomo che abbia il carattere e la grazia; perocchè come il carattere risiede nella parte intellettiva, così l' Eucaristia opera nella parte corporea e da questi due fonti procede la grazia nel cristiano acconciamente disposto. E avviene per la grazia che nella volontà risiede principalmente, che tutto l' uomo sia santificato tanto la parte spirituale che la corporale. Rimangono i tre Sacramenti del Battesimo, della Confermazione e dell' Ordine che imprimono il carattere, come detto abbiamo, imprimendo il Verbo nell' anima coi descritti effetti. [...OMISSIS...] Di ciascuno de' Sacramenti della nuova legge noi vogliamo parlare del modo ond' egli opera, e degli effetti che produce. Cinque sono i modi di operare de' Sacramenti della nuova legge. Perocchè operano o in modo simile a quello onde opera una medicina, o simile a quello onde opera il cibo, ovvero a quella maniera onde si comunica una potestà, o a quella onde si pronunzia dal giudice una sentenza, o finalmente a quella onde si stringe ed effettua un contratto. Per modo di medicina operano i tre Sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell' estrema Unzione, i quali hanno una materia propriamente detta che applicano al corpo umano, come s' applica un rimedio alle corporali infermità, e quella materia è l' acqua del Battesimo e l' olio della Cresima e dell' estrema Unzione: per modo di cibo opera la SS. Eucaristia: per modo di comunicazione che altrui si fa di una potestà opera l' Ordine, nel quale la imposizione delle mani affigura la congiunzione dell' ordinante e dell' ordinato: per modo di giudizio opera il Sacramento della Penitenza assolvendo o ritenendo i peccati: per modo di contratto finalmente opera il Matrimonio che è un sacro contratto fra gli sposi. Poniam dunque mano a trattar brevemente di ciascuno de' sette Sacramenti della nuova legge; e prima del Battesimo, che è principio e porta di tutti gli altri. Non mi sta nell' animo di tenere su questo primo Sacramento del Battesimo lungo ragionamento, perocchè bastano al fine nostro le cose dette qua e là in quest' opera, che raccolte insieme, sufficientemente dichiarano la natura e gli effetti di questo lavacro di rigenerazione. Le raccorremo dunque tutte insieme ordinatamente e brevemente: e con questa recapitolazione ci studieremo di aggiungere qualche nuovo lume alle medesime. Osservammo adunque, che l' umanità di Cristo è il veicolo della santificazione degli altri uomini (1). Però prima che comparisse al mondo questa sacratissima umanità non vi poteva avere compiuta e reale santificazione. « La legge fu data per Mosè, la grazia, la verità fu fatta per Gesù Cristo« » disse Giovanni Battista, il quale confessava di avere ricevuto « dalla pienezza di Cristo« (2). » Il modo onde l' umanità di Cristo comunica la santità all' umanità degli altri uomini, non potea essere che pel contatto delle sue sacratissime carni da cui usciva virtù di sanare non meno il corpo che l' anima (3): purchè in quelli che toccavano il sacratissimo corpo, non vi avesse mala disposizione (4). Il contatto però delle carni sacratissime di Gesù Cristo vivente in questo mondo non potea essere che di pochi; e l' amore di Cristo voleva che la santificazione dovesse potersi comunicare agli uomini di tutti i luoghi, di tutti i tempi. A sì grande uopo egli comunicò la virtù che usciva dalle proprie carni a degli elementi materiali, e così istituì i Sacramenti. E questa comunicazione medesima noi crediamo venir fatta mediante un mistico ed ineffabile contatto del corpo glorioso e invisibile di Gesù Cristo cogli elementi costitutivi delle materie sacramentali. Perocchè la virtù santificatrice uscente dal corpo di Cristo è tale, che non pur santifica l' umanità degli altri uomini immediatamente al contatto con essa, ma dà la virtù santificante anche a quegli elementi inanimati che ella a sè congiunge e tocca, i quali elementi dagli uomini toccati producono in essi santificazione. Come ciò avvenga, non vogliamo noi perscrutare troppo curiosamente; basti il cenno fattone innanzi (1). Osserveremo solo, che la virtù santificatrice uscente dal corpo di Cristo unito al Verbo, era però sempre soggetta e dipendente dalla volontà di Cristo; la quale poteva, secondo ciò che sapienza esigeva, variamente temperarla, raffrenarla, sommetterla a certe leggi e ben parse condizioni (2). Però appena che Cristo fu concepito e che nacque, non tutta si fece manifesta questa stupendissima virtù del suo corpo; parte a dir vero per la disposizione manchevole degli uomini (3), ma parte altresì pel consiglio della sua sapientissima e ordinatissima volontà. Or circa trent' anni si rattenne Cristo all' oscurità della vita privata: poi cominciò il divino suo pubblico ministero. Al cominciamento fu battezzato da Giovanni, e i Padri della Chiesa attribuiscono al contatto delle divine carni la virtù che ricevette l' acqua di mondare le anime degli uomini da' peccati (1). Ma perciocchè solo un po' di quell' acqua ebbe toccato veramente il divino corpo di Gesù Cristo (2); convien dire, che quel primo contatto dell' acqua del Giordano, in cui s' immerse il Redentore, fosse fatto, non tanto a comunicare effettivamente a tutte l' acque che non toccarono in quell' occasione il suo corpo la virtù di mondare i peccati, quanto a dimostrare la grande verità, che dall' umanità sua sacratissima usciva la virtù santificante e comunicavasi alle cose inanimate e materiali; e fosse fatto altresì a determinare il momento, in cui alla volontà sua piaceva di lasciare uscir libera di suo corpo quella virtù, il momento cioè dell' istituzione del Battesimo; e finalmente fosse fatto a indicare e significare il mistico e invisibile contatto reale di suo corpo coll' acque della rigenerazione (3). Nè il Battesimo così istituito traeva meno virtù dal sacrificio della croce, sebbene non ancora consumato. Perocchè un tal sacrificio era già consumato nel cuore di Cristo, i cui patimenti d' infinito valore erano già incominciati. Tuttavia il Battesimo in tal momento istituito dal divino Redentore non produceva ancora tutti quegli effetti, che da lui uscir doveano dopo la venuta dello Spirito Santo. In primo luogo egli non era ancora necessario alla salute, primieramente perchè non era ancora abrogata la legge Mosaica, che rimase estinta solo nella morte di Cristo; poscia perchè non era solennemente promulgata la legge Evangelica, che fu solo il dì della Pentecoste (1). Potrebbesi domandare, se il Battesimo da Cristo istituito, se non alla salute, fosse necessario almeno a riceverne i due essenziali effetti del carattere e della grazia abituale. Rispondo, vivente Cristo, il contatto delle sue sacratissime carni aver potuto a ciò supplire pienamente; quelli però che non erano a Cristo vicini e toccar nol potevano, aver avuto bisogno del Battesimo non alla salute, ma sì al conseguimento in questa vita di quei due mirabili doni. E facendoci più vicini a ricercare la differente virtù del Battesimo di Cristo appena istituito nel Giordano, e amministrato dopo la venuta del Spirito Santo, dico da prima non esser mancato nulla di ciò che appartiene all' essenza del Battesimo di Cristo appena ch' egli fu istituito; perocchè produceva i due effetti del carattere e della grazia. In che il carattere consista, l' abbiamo veduto, e così pure la grazia. E col carattere e colla grazia da lui uscente nasce l' uomo novello, l' uomo soprannaturale (2). Il primo concepimento di quest' uomo si fa mediante il carattere; ma il compimento di questa nascita non si ottiene che per la grazia. Conciossiachè essendo la persona un principio d' azione, e anzi il più sublime principio d' azione che sia nell' umana natura (3), apparisce che in alcun modo può dirsi col carattere nascer l' uomo, ma compiutamente non nascer che colla grazia. Cioè non può negarsi, che tosto che l' uomo riceve il carattere non abbia una nuova potenza in sè medesimo soprannaturale; ma essendo contraria la volontà, non v' ha ancor nell' uomo un principio volitivo soprannaturale, e nel principio volitivo è solo il principio d' azione compito. L' uomo che ha solo il carattere si potrebbe adunque dire aver in sua balìa la potenza di nascere soprannaturalmente, anzichè la nascita stessa (1). Perocchè il principio d' azione soprannaturale dell' uomo non è ancora posto in atto. Solo può essere all' atto ridotto, se la volontà si approfitta della luce del carattere ad operazione soprannaturale (2). Tostochè dunque il Battesimo fu da Cristo instituito, esso fu suo Battesimo, potente a rigenerar l' uomo col carattere e colla grazia. Tuttavia questi due effetti poterono sofferire diverse modificazioni ne' diversi tempi che corsero dal Battesimo di Cristo nel Giordano fino alla venuta dello Spirito Santo nel dì della Pentecoste: ed ecco in che modo. Il carattere è Cristo unito coll' anima, come abbiamo veduto. E Cristo non poteva unirsi coll' anima se non a quel modo in cui veramente si trovava essere. Dunque Cristo ancora vivente doveva unirsi coll' anima vivo; Cristo morto doveva unirsi coll' anima morto; Cristo glorioso doveva unirsi coll' anima glorioso. Nella gloria poi Cristo ebbe due stati, conversante in terra co' discepoli dopo la Resurrezione, e salito al cielo alla destra del Padre invisibile a' viatori e mandante di là lo Spirito Santo. In questi diversi periodi di tempo il Battesimo congiungeva all' anima del battezzato Cristo, in quello stato in cui si ritrovava. Or abbiamo detto, che dalla volontà di Cristo dipendevano gli effetti della virtù ineffabile della sua divina umanità; e che egli moderava e temperava questi effetti ordinatissimamente secondo che esigeva la infinita sua sapienza. E questa sapienza richiese, che a' diversi stati della sua umanità egli riserbasse certi effetti; e però che certi determinati doni e grazie provenissero dalla sua umanità ancora vivente in questo mondo, certi altri scaturissero dalla sua morte; certi dal suo corpo risorto, e finalmente certi dall' umanità sua già posta nell' altissimo trono de' cieli alla destra del Padre. Laonde il Battesimo acquistò virtù successivamente dall' umanità di Cristo a produrre tutti que' diversi effetti. S. Paolo parlando del Battesimo, amministrato a' fedeli dopo che gli Apostoli ebbero ricevuto lo Spirito Santo, attribuisce gli effetti di questo Sacramento appunto ai varii misterii o stati di Cristo. [...OMISSIS...] Qui l' effetto della giustificazione viene attribuito alla giustizia di Cristo senza farsi ancor menzione di sua morte. Prosegue l' Apostolo: « Ignorate forse, che tutti voi quanti siete battezzati in Cristo Gesù siete stati battezzati nella morte di lui?« (2). » Di che trae questa conseguenza. « Noi che siamo morti al peccato in che maniera vivremo ancora in esso?« (3); » attribuendo così alla morte di Cristo l' effetto della perseveranza nella grazia di lui e l' esser morti interamente al peccato. Però il Battesimo dopo la morte di Cristo dovea una virtù maggiore manifestare aggiungendo all' uomo forza di vincere la concupiscenza, che S. Paolo dice crocifissa in Cristo, e tal forza, per la quale l' uomo, che ad essa debitamente risponda, può vivere come morto al peccato, vivendo di una vita al tutto spirituale, secondo ciò che dice l' Apostolo: « Voi poi non siete più nella carne, ma nello spirito« (4). » Come poi dalla vita di Cristo veniva la giustificazione, e dalla morte il fermo proposito di non più peccare; così dalla Risurrezione l' Apostolo stesso deduce l' effetto di una luce maggiore data all' anima, la quale intende e comincia a partecipare le gioie della vita gloriosa. Il qual effetto non potea produrre il Battesimo, se non dopo la resurrezione: [...OMISSIS...] . E dice alla similitudine della sua morte e della sua risurrezione. Perocchè tutto l' operare di Cristo tende mai sempre a render simili i suoi redenti a sè stesso causa esemplare; e però non è credibile cosa che partecipasse ad essi quanto in sè non era proprio pienamente compito. E si osservi come la causa esemplare non è altro che una rappresentazione o effettuazione di ciò a cui altri si dee conformare; è una norma, un' immagine e quasi una pittura originale onde debbono ritrarre le copie. Ciò dunque che Cristo esprime in sè stesso quale esemplare, è ciò che produce volontariamente ne' suoi santi tali cose: nello stato suo viene significato ed espresso quello stato che dee esser prodotto e che produce in questi. Di qui la ragione perchè anche i Sacramenti sieno segni ed espressioni di ciò che producono. Ma ciò che esprimono e significano, non è condotto ad effettuazione se non dal corpo di Cristo, come istrumento della divinità; e però si richiede che lo stato di questo corpo sia acconcio a tali effetti: e questa è la perpetua dottrina di S. Paolo. [...OMISSIS...] Parole che assai acconciamente esprimono come dalla morte di Cristo scaturisca qual proprio effetto la piena vittoria dell' uomo sulla sua concupiscenza: per la qual vittoria l' uomo non pregia più il corpo presente e i desiderii di lui, ma il tiene per morto e alla morte volentieri l' abbandona: il che è quanto dire, proprio effetto della morte di Cristo è il distacco da tutte le cose umane. Della risurrezione all' incontro proprio effetto è l' unione e la percezione sensibile delle cose divine: « Se poi siamo morti in Cristo, crediamo che vivremo anche insieme con Cristo« (3). » Dalla costanza poi della vita nuova di Cristo viene la costanza della percezione delle cose divine. [...OMISSIS...] Alla Ascensione poi di Cristo appartiene lo Spirito Santo che dalla destra del Padre Cristo mandò sulla terra: « Dio è che giustifica, chi è che condanna? Cristo Gesù che è morto, anzi che è risorto, che sta alla destra di Dio, che anche interpella per noi« (1): » cioè che prega e ottiene dal Padre lo Spirito Santo e i doni per gli uomini. E dopo la venuta dello Spirito Santo sopra gli Apostoli questo stesso s' infonde nel santo Battesimo. Già abbiamo veduto che cosa voglia dire propriamente l' espressione biblica del « ricevere lo Spirito Santo« (2). » Or a me pare, che con questa dottrina si possa conciliare colla sentenza degli altri Padri quel celebre passo di S. Leone, nel quale questo Sommo Pontefice e accuratissimo Dottore sembra di volere insegnare, che il Battesimo di Gesù Cristo sia stato istituito solamente dopo la sua risurrezione. Secondo noi il sommo uomo volgeva allora nell' animo quell' effetto particolare, che cominciò al Battesimo solo dopo la risurrezione di Cristo, come pure l' istituzione espressa della forma da usarsi nel Battesimo; non precisamente la prima istituzione di questo Sacramento. Si ascolti come parla il santo Dottore e veggasi come le sue parole possano ricevere il significato che noi loro attribuiamo. Egli scrive a' Vescovi di Sicilia, che il dì di Pasqua è il più conveniente ad amministrarsi il Battesimo, e il prova con queste parole: [...OMISSIS...] . Ora perchè mai questa virtù del Battesimo, di cui parla S. Leone, non si può intendere di quella, che anche noi diciamo essersi aggiunta a questo Sacramento colla divina Risurrezione? La specie poi dell' azione nacque al Battesimo dall' aver in quel dì fatta Cristo espressa menzione della forma onde egli voleva che indi in poi il Battesimo suo fosse amministrato, cioè coll' espressa menzione della santissima Trinità. Ma non potea per innanzi amministrarsi ugualmente il Battesimo colla nuncupazione del solo Cristo? il tener ciò non è punto sentenza dalla Chiesa riprovata (4). D' altra parte, egli pare più conveniente, che così passar dovesse la cosa; perocchè il Verbo erasi bensì comunicato agli uomini ma non ancora lo Spirito Santo, come espressamente dice S. Giovanni: « Lo spirito non era ancor dato, perocchè Cristo non era ancora glorificato« (1). » Or non essendo dato ancora lo Spirito Santo, nè per conseguente quella che noi abbiamo chiamata grazia triniforme , pare assai probabile secondo noi, che la Trinità non potesse essere nominata e invocata pel conferimento del Battesimo, ma solo il Verbo; ricevendosi con tale Sacramento allora solo la grazia chiamata da noi verbiforme . Si dirà che lo Spirito Santo non era ancor dato subito dopo la Risurrezione, essendo venuto sugli Apostoli il dì di Pentecoste. Rispondo, che, in questo dì venne [lo Spirito Santo] sugli Apostoli con ogni pienezza, secondo le parole degli Atti apostolici « furono tutti ripieni di Spirito Santo (2) » e ancora «« riempì tutta la casa dove stavano a sedere« (3); » ma che però erasi cominciato dare agli Apostoli subito dopo la Risurrezione, come quando soffiò Cristo verso gli Apostoli, e disse: « Ricevete lo Spirito Santo« (4), » e come allora che disse in presente « ed io mando il promesso del Padre mio in voi« (5), » volendo significare che già glorioso com' era poteva da sè mandarlo, se non che attendeva di salire al Padre, per mandarlo di là pienamente. Ed è degno di osservarsi altresì, che sebbene agli Apostoli fosse, solo dopo la Risurrezione, ordinato di battezzare tutti gli uomini, e da quell' ora ne avessero ogni potestà, fatti veri e ordinarii ministri di questo Sacramento (6); tuttavia era loro ordinato di aspettare la venuta piena e solenne del Santo Spirito prima che ponessero mano a esercitare un tanto ufficio di battezzare il mondo tutto. Il perchè dopo accordatagli una tale facoltà, Cristo soggiunse però ancora: « Voi poi sedete nella città fino a tanto che siate rivestiti dall' alto di fortezza« (7) » venendo così loro a dire: sostenete però a esercitare questo vostro grande ministero fino a che riceviate lo Spirito Santo, e possiate allora comunicare la pienezza degli effetti del Battesimo. Al quale sentimento pare anco alludere il Redentore, quando chiamò la venuta dello Spirito Santo Battesimo , Battesimo suo proprio, e tutt' altro da quel di Giovanni. [...OMISSIS...] E allora battezzati voi pienamente col Battesimo mio, il potrete conferire anco agli altri uomini; essendo già il cielo apertosi e disceso sul mondo il mio Spirito, onde viene al Battesimo dell' acqua ogni sua forza. Sì, dopo la Risurrezione gli Apostoli ricevettero, come dice S. Leone, la forma del Battesimo che poi si usò nella Chiesa; e la potestà di esercitarlo, essendo da quell' ora costituiti ministri ordinarii di questo Sacramento; ma la ricevettero questa potestà e quest' ordine di battezzare il mondo, perchè ne facessero uso solo dopo il dì della Pentecoste (1). Nè questo toglie punto che il Battesimo di Cristo forse instituito già prima, atto a produrre tutti i suoi essenziali effetti; sebbene poscia vi si aggiungessero degli effetti maggiori e nuovi secondo i misteri diversi che si succedevano e adempivano nel Salvatore. Nè in tal caso era bisogno che il battezzato avanti la morte di Cristo, si ribattezzasse dopo di questa, perocchè egli aveva il germe di tutti gli effetti futuri, i quali venivano in lui sviluppandosi più tardi all' occasione che Cristo mutava di stato e rendeva più efficace il carattere e la grazia già ricevuta (2). Or proseguiamo. Fin qui abbiamo parlato dei diversi effetti del Battesimo corrispondenti agli stati diversi del corpo di Cristo quanto all' ordine della grazia nella vita presente: ora tocchiamo la diversità degli effetti del Battesimo quanto alla futura. Il battezzato che fosse morto prima di Cristo, sebbene non potea essere ammesso alla gloria, perchè Cristo era ancora sofferente in terra; tuttavia dovea a differenza de' giusti morti senza Battesimo ritenere l' impressione del carattere e della grazia di Cristo come nobilissima e gloriosa insegna e certa caparra di futura gloria, e per tal marchio dovea avere una mistica comunicazione con Cristo ancora vivente e di essa non poco godere. Dopo la morte di Cristo poi l' anima battezzata e senza peccato era ammessa alla visione di Dio per la visione del Verbo e dell' anima di Cristo già gloriosa. Imperciocchè Cristo avea finito di patire e meritato tutto: sicchè l' anima di Cristo, scevra oggimai di ogni molestia, abbandonavasi volontariamente nelle delizie della unione ipostatica senz' altro affanno, benchè il corpo non fosse ancora surto alla gloria. L' anima del battezzato però sebbene già beata non dimoravasi per questo in cielo, ma là dove era Cristo, a cui stavasi unita; l' essere in cielo è aggiunta di maggior gloria e felicitazione. Nella parola però detta da Cristo al ladrone: « Oggi tu sarai meco in Paradiso« (1), » questa voce di Paradiso pigliasi per la stessa visione beatifica, venendo a significare che Paradiso è ogni luogo per l' anima che vede Dio (2). Dice però meco facendo conoscere che la beata visione quel ladro acquistavala per la unione con Cristo. Dal corpo poi risuscitato del Redentore il Battesimo acquistava virtù di ravvicinare e risuscitare il corpo degli altri uomini; venendo dato all' anima, con esso il Battesimo, quello spirito potente che ha virtù di aggiungere vita alla materia inanimata, e di cui parla S. Paolo, ove dice: [...OMISSIS...] il quale spirito secondo l' Apostolo rivela, cioè mostra con esteriori segni di gloria quali siano i figliuoli di Dio (4). E qui non sarà utile aggiungere parola del Battesimo considerato come segno. Definizione di S. Agostino è questa: « Sacramento è segno di cosa sacra« (5). » Ma che è poi questa cosa sacra significata ne' Sacramenti? Il Catechismo del Concilio di Trento risponde: [...OMISSIS...] . Si potrebbe anco aggiungere che per la cosa sacra significata ne' Sacramenti si comprende non meno la grazia che il carattere, potendosi anche questo contenere sotto il significato generale di grazia, essendo anche il carattere una grazia o dono gratuito di Dio, e il fonte, come detto è, dell' acqua viva della grazia. Or a significare la grazia non era altra via che rappresentare la causa prossima della grazia e i suoi effetti ; perocchè essa grazia propriamente non può essere effigiata, come quella che niente ha che fare colle sensibili cose. Però l' Eucarestia, a ragion d' esempio, significa ad un tempo il corpo ed il sangue di Cristo commestibile, che è la causa prossima e il fonte di quella grazia che nell' augustissimo de' Sacramenti si contiene, e per esso corpo, sotto la specie di pane e di vino, la grazia nel suo effetto della nutrizione e incorporazione spirituale (2). Applicando la stessa dottrina al Battesimo apparrà chiaramente, perchè egli significhi ad un tempo la morte , la sepoltura e la risurrezione di Cristo; essendo Cristo morto, seppellito e risorto la cagione prossima de' diversi gradi di grazia, che nel Battesimo vengono conferiti: e nello stesso tempo rappresentano la grazia medesima per mezzo degli effetti che in noi produce, configurandoci al nostro esemplare Gesù Cristo. Così appariscono connessi insieme e ridotti ad unità tutti i diversi significati da' Padri e Scrittori ecclesiastici al Battesimo attribuiti (3). Diciamo grazia sacramentale a quella che è proprio e peculiare effetto di un Sacramento. Non è più difficile definire qual sia la grazia sacramentale del Battesimo, dopo tutto ciò che abbiamo ragionato intorno a questo Sacramento. La grazia sacramentale del Battesimo consiste nella comunicazione della vita soprannaturale di Gesù Cristo. Gesù Cristo possiede la pienezza della vita soprannaturale in proprio e per primordiale costituzione a cagione dell' unione ipostatica in lui avverata fra la natura umana e divina. Perocchè la vita soprannaturale consiste nell' unione reale fra l' uomo e Dio (1). Cristo ottenne dal Padre di comunicare della propria vita agli altri col merito della sua passione: l' ottenne per giustizia, e non per grazia. In conseguenza di che nacque ciò che disse S. Giovanni: [...OMISSIS...] . La comunicazione della vita di Cristo agli altri uomini si fa in un modo simile a quello della comunicazione della vita naturale alle particelle inanimate del cibo. Queste particelle non hanno la vita prima d' essere accostate strettamente alle parti vive del corpo, come accade nella nutrizione: accostate nel modo debito alle parti vive, ricevono la vita divenendo carne e sangue vivo. Così abbiamo detto che il corpo di Cristo comunica la vita spirituale a questi uomini che unisce a sè, e la comunica non solo per l' immediato contatto, ma ben anco con dei mezzi, il primo dei quali è l' acqua. Convien riflettere a quello che fu già detto altrove, cioè che quando l' uomo acquista la vita soprannaturale, o visione incipiente di Dio, non nasce già alcuna mutazione in Se stesso, che è immutabile, onnipresente e conoscibile per sè stesso; ma nasce solo una mutazione nell' uomo che acquista la virtù visiva a quel modo come se si desse vita ed occhi ad una pianta in sul pieno meriggio; la qual pianta comincerebbe pur allora a vedere il sole senza che fosse nata alcuna mutazione nel sole. E volendo parlare ancora più accuratamente, dovrebbesi dire, che l' uomo rigenerato soprannaturalmente, riceve non tanto la virtù visiva quanto la stessa visione. L' uomo dunque pel Battesimo s' incorpora a Cristo, secondo la frase consacrata dalla Chiesa, e così partecipa , in Cristo, della visione di Dio che ha Cristo. Che questa incorporazione poi dell' uomo colla umanità sacratissima di Cristo, la quale si opera ineffabilmente nel Battesimo, sia un' unione sostanziale comunicante la stessa vita, e non una unione puramente accidentale, apparisce da quelle diverse similitudini usate da Cristo a significare l' unione di sè coi discepoli suoi. Perocchè ora rappresenta sè come una vite, e i discepoli come tralci che escono dalla vite, onde ricevono la nutrizione e tutta la vegetazione (1); talora egli è il capo di un corpo del quale i discepoli suoi formano le membra (2); altra volta egli è il seme marcito sotterra dalla sostanza del quale sbuccia l' albero rappresentante la Chiesa (3): e non di rado Egli è il cibo che si converte nelle carni e nel Sangue dei suoi diletti; tutte similitudini tolte da unioni sostanziali che avvengono nella natura. Dice ancora Cristo di sè stesso, che egli è la vita (4): di che apparisce, che gli uomini non possono avere la vita se non hanno Cristo, cioè se a lui non sono congiunti in una cosa sola, sicchè una stessa vita sia quella che a tutti si comunica, come una sola vita è quella di un solo corpo, una sola vita è quella che ricevono le particelle del cibo cangiato in carne e in sangue in un uomo vivo. Questa sostanziale e vitale unione adunque degli altri uomini con Cristo si opera nel Battesimo; e innanzi al Battesimo, la vita non è immanente nell' uomo. Abbiamo distinto l' effetto della santificazione dell' uomo, dall' unione sostanziale con Cristo, e abbiamo detto che in questa unione consiste il carattere. Acciocchè questa unione produca la vita compiuta dell' uomo è necessario che influisca a bene sulla volontà dell' uomo, inclinandola e convertendola a Dio. Questo avviene ove la volontà stessa non resista e ponga ostacolo col vigore suo proprio che si chiama libertà. In questo caso, nel quale la volontà ricalcitra (ciò che non può avvenire che nell' adulto) havvi nell' uomo la potenza, il principio, il germe della vita (l' unione sostanziale): ma non la vita nel compiuto suo atto, che solo nella volontà del bene si spiega. Dato adunque il carattere o unione con Cristo, primo effetto del Battesimo, potendo questo produr fuori le sue conseguenze, avviene: 1. La remissione del debito dell' uomo con Dio, quello del peccato originale, e quello del peccato attuale commesso avanti il Battesimo. Questo è ciò che si chiama nelle Scritture la morte dell' uomo vecchio (1). 2. La inclinazione buona della volontà proveniente da una luce nell' intelletto, nel che consiste propriamente la grazia positiva santificante. Questo è ciò che nelle Scritture suol dirsi la risurrezione dell' uomo nuovo (2), e che da' Padri è attribuita allo Spirito Santo. Questa prima grazia santificante, abituale, immanente nell' uomo è adunque la grazia sacramentale del Battesimo. Questa grazia del Battesimo differisce dalle grazie attuali e transeunti principalmente per la sua immanenza nell' uomo; perocchè essendo stabilmente dato all' uomo il fonte della grazia (il carattere), anche la grazia che da quello rigurgita è continua, ove ostacoli non vi si frappongano. Questa grazia battesimale è triniforme per le ragioni dette: i vestigi della Trinità che mette nell' anima sono: 1. un sentimento di Dio in Cristo (forza infinita), 2. una luce intellettiva, e 3. un amore al bene: tre elementi contemporanei dello stato di santità in cui l' uomo viene costituito. E qui ci sia permesso aggiungere a conclusione di quanto esponemmo sul Battesimo la dichiarazione di quel celebre passo di S. Giovanni: [...OMISSIS...] . Quanto ne pare a me, questo passo risguarda il Battesimo. S. Giovanni parla di quelli che sono nati da Dio, e dice: « Tutto ciò che è nato da Dio, vince il mondo« (3). » Ora secondo la dottrina cattolica, l' uomo nasce da Dio pel Battesimo. Il nascimento dell' uomo pel Battesimo poi si fa mediante la fede che viene infusa nel Battesimo (4); cioè mediante quel lume datoci nel Battesimo, per lo quale noi cominciamo a percepire Iddio, e veggiamo che è degno di fede, e a lui crediamo e aderiamo colla nostra volontà. Quindi soggiunge S. Giovanni: « E questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede« (1). » Ma qual è l' oggetto immediato della nostra fede? Abbiamo veduto che nel Battesimo l' uomo viene congiunto immediatamente a Cristo, e per Cristo a Dio. Per ciò S. Giovanni proseguendo a dichiarare la nostra fede che vince il mondo ne fissa l' oggetto appunto in Cristo, dicendo immediatamente: [...OMISSIS...] . Ma resta a cercare: come è poi che Cristo si congiunge con noi, si fa sentire a noi, e così diviene l' oggetto immediato della nostra fede? Egli è qui che S. Giovanni tocca i mezzi adoperati da Cristo per congiungersi a noi, e dice che furono tre; cioè: 1. il suo sangue, pel quale si acquistò dall' eterno Padre il diritto e la piena libertà di poter comunicare agli uomini la percezione di Dio che era in lui piena e compita; 2. l' acqua che egli scelse perchè fosse il veicolo onde passasse negli uomini la vita soprannaturale; e finalmente 3 lo Spirito Santo che al tempo stesso che l' acqua monda il corpo viene infuso nell' anima di chi è battezzato. Descrive adunque S. Giovanni il modo onde Cristo produsse negli uomini la fede in lui: [...OMISSIS...] . Queste ultime parole spiegano la connessione del discorso di S. Giovanni. Lo Spirito testifica che Cristo è verità: è quanto dire, che Cristo è degno a cui si creda. Perocchè se noi veggiamo la verità, noi non possiamo a meno di crederle; sicchè per infondersi in noi la fede verso Cristo Gesù, basta che infonda in noi quel lume pel quale veniamo a conoscere che egli è la verità. Dice poi: Non nell' acqua sola; perocchè l' acqua sola non basta a salvarci; ma dovea ricevere la sua virtù dal sangue di Cristo, altrimenti sarebbe stata come l' acqua di S. Giovanni Battista o de' Battesimi dell' antica legge: conciossiachè Cristo solo coll' aver patito e sparso il suo sangue, come detto è, si acquistò dal Padre la signoria del genere umano. Ma il Battesimo non c' infonde solamente la grazia verbi7forme, cioè quella che ci fa conoscer Cristo; ma sì bene la grazia triniforme, come abbiamo veduto; conciossiachè in Cristo conosciamo il Padre che è principio di lui, e da Cristo riceviamo lo Spirito Santo, che procede dal Padre pel Figlio. Così la nostra mente è irraggiata da un trino raggio, il quale vieppiù ci attacca a Cristo, dal quale a noi venne. S. Giovanni adunque distingue quelli che non sono ancora rigenerati da quelli che già hanno avuto la soprannaturale generazione. Quelli che già sono generati e nati di Dio, avendo in sè la grazia triniforme, sono confermati da essa nella loro fede e unione con Cristo; ma quelli che non sono ancora rigenerati col Battesimo non possono esser condotti alla fede e all' unione di Cristo se non dall' acqua del Battesimo, che per la virtù del sangue del Redentore comunica loro lo Spirito. Per indicare i primi, usa S. Giovanni, secondo lo stile delle Scritture, la parola cielo , e per indicare i secondi usa S. Giovanni la parola terra e dice così: « Poichè tre sono quelli che danno testimonio (a Cristo) in cielo » (cioè nelle anime rigenerate dal Battesimo), «il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo, e questi tre sono una cosa. E tre sono quelli che dànno testimonio (a Cristo) in terra » (cioè agli uomini non ancora rigenerati dal Battesimo), «lo spirito e l' acqua e il sangue, e questi tre sono una cosa«, » o come dice il greco, sono volti a un solo fine (1). E chi ha meditato sulla lingua enigmatica delle Scritture, non troverà difficoltà alcuna sull' interpretazione de' vocaboli cielo e terra , il primo de' quali è spiegato da Cristo, come abbiamo detto altrove, quando disse che è il trono di Dio, e nissun trono ha Dio migliore delle anime sante; e così pure la voce terra , quando disse che è lo sgabello de' suoi piedi, similitudine tolta da' re d' Oriente, che facevano servire di loro sgabello il dorso de' principi captivati in battaglia e fatti schiavi, a cui ben si assomigliano gli uomini non rigenerati che servono colla loro soggezione alla maestà di Dio. Si consideri che sarebbe assurdo, se non erro, interpretare la parola cielo per lo stato de' beati, quasichè nella vita presente la Santissima Trinità non desse nessuna testimonianza a Cristo, quando anzi Cristo stesso adduce, parlando agli Ebrei, la testimonianza che gli rende il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo (1), e adduce contro essi il testo della legge, che « nella bocca di due o tre testimonii sta ogni parola« (2). » Conchiude poi S. Giovanni, che « chi crede nel Figliuolo di Dio » (cioè che è unito a lui nel Battesimo) «ha il testimonio di Dio in sè« » (cioè ha il testimonio in sè della Santissima Trinità) (3). E spiegando vieppiù la natura di questa testimonianza interiore, dice che per tale testimonianza si sente che Iddio ci ha dato la vita eterna (la quale comincia nel Battesimo), e che questa vita è nel suo Figliuolo, il quale disse di esser la vita; sicchè la vita nostra soprannaturale non è che una partecipazione della vita divina di Cristo. [...OMISSIS...] Quanto poi a' Battesimi di sangue e di desiderio essi non sono Sacramenti. E sebbene convengano col Sacramento del Battesimo nell' effetto che apportano all' uomo di salvarlo, tuttavia essi differiscono principalmente nel modo onde lo salvano. Conciossiachè il martirio e il voto del Battesimo non hanno loro effetto fino a tanto che l' uomo vive; giacchè fino che vive egli non è ancora martire, nè ancora è impossibile ch' egli venga battezzato. Perciò questi due mezzi di salute non possono imprimere nella vita presente il carattere indelebile che imprime il Battesimo, e non incorporano l' uomo ancor vivente abitualmente e stabilmente con Cristo; sebbene quest' uomo possa ricevere da Dio delle grazie attuali anche prima d' avere consumato il martirio, o comechessia prima di essere passato all' altra vita. Tutto ciò che abbiamo detto dimostra, il Battesimo produrre due effetti nell' uomo, l' uno negativo, cioè la remissione del debito del peccato, e l' altro positivo, cioè l' incorporazione con Cristo, e la partecipazione della sua grazia. E sebbene questo secondo sia il proprio ed immediato effetto del Battesimo, e sia il primo una conseguenza di questo che incontanente avviene; tuttavia niente ci proibisce di considerare l' effetto negativo e poscia il positivo, giacchè relativamente all' uomo che viene perfezionato e all' ordine di idee, prima viene il toglimento del peccato, e poscia il dono della grazia. Così anche l' Apostolo prima pone per effetto del Battesimo la morte dell' uomo vecchio, e appresso la risurrezione del nuovo. Or però l' efficacia del Sacramento del Battesimo ha quel limite che gli ha voluto p“r Cristo nella sua instituzione: limite che è determinato dallo stesso suo fine. Il fine di lui è l' incorporazione dell' uomo con Cristo, come detto è. Or convien distinguere l' incorporazione, o l' unione dell' uomo con Cristo, e le conseguenze che procedono a bene dell' uomo da tale unione; come si dee distinguere il seme dalla pianta che esce da quello, e la generazione del corpicciuolo d' un bambino, dall' incremento che succede dopo la generazione. V' ha adunque un effetto essenziale nel Battesimo, e v' hanno molti effetti che procedono da quel primo. A spiegar meglio la cosa conviene considerare la costituzione dell' uomo. Questo è un essere semplice, ma delle molte sue parti che formano la sua natura, una sola è quella che costituisce la base della sua personalità (1). L' effetto essenziale del Battesimo risguarda la personalità dell' uomo, come abbiam detto, cioè unisce la parte più nobile dell' uomo con Dio, e crea in tal modo un uomo nuovo: gli altri effetti che sortono da questo primo, sono quelli che santificano le altri parti dell' uomo stesso costituenti la sua natura. Mediante questi effetti successivi, che escono tutti come da loro radice dall' effetto primo ed essenziale del Battesimo, la formazione di questo si completa nell' uomo, e l' uomo acquista diverse virtù ed attitudini. Or in che maniera ciò accade? In due maniere, cioè o per operazione dell' uomo o per operazione di Dio. E veramente quando Iddio è unito coll' uomo mediante il Battesimo, l' uomo possiede in sè stesso un tesoro di cui può più o meno usare e cavar profitto secondo il libero arbitrio che possiede. Imperocchè l' unione stessa con Dio lo fa atto agli atti soprannaturali e a meritar soprannaturalmente. E prima ancora di ricevere il Battesimo, l' uomo può avere la volontà più o meno disposta a cavarne profitto, o sia che s' intenda di grazia attuale che talora Iddio concede straordinariamente anche ai non Battezzati, o sia che s' intenda d' una disposizione negativa, cioè alienazione dal peccato. Però i Teologi insegnano, che i Sacramenti conferiscono ex opere operato una grazia ineguale a quelli che sono inegualmente disposti: della qual tesi Onorato Tournely dà questa ragione: [...OMISSIS...] . Si accresce dunque la santificazione che all' uomo nasce dal Battesimo per la cooperazione dell' uomo stesso. Ma dicemmo ch' ella s' accresce ancora per l' opera di Dio, mediante la quale Iddio s' unisce all' uomo e agisce in lui più intensamente, avvolgendo in tale operazione e avvalorando le altre potenze dell' uomo. E questo avviene negli altri Sacramenti, i quali lavorano sul fondamento postosi nel Battesimo, e compiscono l' edifizio spirituale: di che s' intende, perchè si dica che il Battesimo è la porta degli altri Sacramenti, e perchè gli altri Sacramenti non producono verun effetto in chi non è battezzato: conciossiachè il lor fine è solo di perfezionare ciò che il Battesimo comincia, e di dedurre in più copia acque salutari di grazia da quella prima sorgente che secondo le profezie doveva innondare e mondare tutta la terra (2). Or come due dicemmo essere gli effetti del Battesimo, negativo l' uno, cioè la remissione del debito, e positivo l' altro, cioè la percezione di Dio; così da prima veggiamo essere istituiti due Sacramenti volti a condurre a perfezione questi due effetti. Questi due Sacramenti sono l' estrema Unzione, che rimuove dall' uomo le reliquie de' peccati, e la Confermazione che aumenta la grazia ricevuta nel Battesimo, e rende per così dire adulto l' uomo nuovo uscito bambino dal battesimale lavacro. Tutti e due questi Sacramenti si effettuano con una unzione, quasi medicina all' umana infermità. Tutti e due ne' loro effetti influiscono anche sul corpo, o certo sulle potenze inferiori della natura umana; il primo alleggerisce fin anco il fisico morbo che aggrava l' infermo: il secondo infonde all' uomo coraggio, il quale dipende in gran parte dalla fisica disposizione, conciossiachè il timore è anche passione animale. E veramente il Battesimo non è istituito, come fu per noi detto, se non a fine di santificare la punta dell' anima, la facoltà suprema, producendo nell' uomo una nuova personalità: egli però non rigenera il corpo, nè le potenze inferiori. Queste dunque aveano bisogno di essere confortate e munite colla grazia di altri Sacramenti: e assai acconciamente questi doveano poter conferirsi in forma medicinale, quasi per sanare una infermità. E l' olio era idoneo a rappresentare una medicina. Or parleremo a suo luogo dell' estrema unzione, cominciando qui a dir qualche cosa della Cresima. Della quale dimostreremo in primo luogo com' ella renda adulto l' uomo uscito bambino dal Battesimo, che cosa sia quell' infanzia spirituale, che cosa questa età perfetta; al che tosto poniam mano. Abbiamo mostrato, che in due modi si comunica la grazia del Redentore: l' uno per l' immediata comunicazione del Verbo: l' altra per l' immediata comunicazione dello Spirito Santo. Il Verbo si percepisce quando esso si comunica con un' azione diretta all' anima. Lo Spirito Santo è quello che muove la riflessione ed opera mediante operazione riflessa dell' anima medesima. Questo noi l' abbiamo osservato là dove dichiarammo quelle parole di Cristo: [...OMISSIS...] . Parlò dunque primo il Verbo; lo Spirito Santo suggerì di nuovo le cose dette dal Verbo; e suggerendo le cose che altri ebbe già udite, questo non è che un muovere vivacemente la riflessione sopra le cose udite. Lo Spirito Santo adunque a cui Cristo attribuisce di suggerire le cose da lui insegnate, opera mediante la riflessione dell' anima, dando però a questa riflessione una vista soprannaturale. Ora il Verbo aveva impresso sè stesso nell' anime de' suoi discepoli col suo aspetto sensibile, che avea virtù, come dicemmo, d' illuminar soprannaturalmente l' anima, e colle sue parole, e così avea dato a' suoi quella grazia che chiamasi Verbiforme, colla quale l' anima percepisce immediatamente il Verbo. Tutti due questi mezzi dell' aspetto di Cristo e delle sue parole sono indicati da Cristo stesso nel colloquio ch' egli tenne con Filippo. Alla chiara intelligenza del qual colloquio non è bisogno che d' una sola avvertenza, e tutto si rende chiaro; e questa è che la persona del Verbo non si conosce se non conoscasi la relazione di generato e di generante che ha col Padre: perocchè questa relazione è quella che costituisce la distinzione di una persona dall' altra. Or si odano le parole di Cristo. Dimandato da Filippo che gli volesse mostrare il Padre, risponde: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre« (2). » Nelle quali parole tocca il primo mezzo, cioè il suo aspetto visibile che avea virtù di far conoscere il Verbo, e però il Padre, giacchè l' una persona senza l' altra non si conosce. Tocca poi il secondo mezzo, che era la virtù delle sue parole, dicendo: « Non credete che io sia nel Padre, e il Padre in me?« » che viene a dire: Non conoscete il Verbo e conseguentemente il Padre? [...OMISSIS...] E alle parole aggiunge un terzo mezzo, che erano le sue opere, dicendo: « Se non altro credete per le stesse opere« (4); » una delle quali opere erano i Sacramenti. In questi modi adunque il Verbo imprime sè stesso nell' anime, dando loro a vedere la propria luce divina rifulgente nel suo aspetto, nelle sue parole e nelle sue opere. Ma tutto ciò ancora prima che lo Spirito Santo fosse dato personalmente. Che cosa rimaneva dunque a fare allo Spirito Santo? La luce del Verbo era la luce prima che riceveva l' anima. Su questa luce doveva riflettersi, e con un occhio al tutto spirituale vagheggiandola, innamorarsene, e sempre più penetrarne l' intima forza e bellezza, e in tal modo ridurla all' uso pratico. Ella è questa l' opera dello Spirito Santo nell' anime (1), di cui parla sì lungamente Gesù Cristo nei capitoli XIV e XV di S. Giovanni. Dopo aver parlato Cristo della cognizione di sè e del Padre egli aggiunge, che questa dee essere operativa, che dee consistere nell' amore e nell' osservanza de' suoi precetti: [...OMISSIS...] . Ma in qual modo chi crede in Cristo potrà far le opere fatte da lui? « Perchè, dice, io vado al Padre«, » a mandar lo Spirito Santo: « E io pregherò il Padre, e darà a voi un altro consolatore che rimanga con voi in eterno« ». Questo consolatore 1 farà conoscere il Verbo più vivamente; 2 renderà operativa questa cognizione. « In quel giorno (nel quale riceverete lo Spirito Santo) voi conoscerete che io sono nel Padre«: » ecco la cognizione del Verbo per l' impressione fattale dallo Spirito Santo: « e voi in me, ed io in voi«: » ecco la riflessione che lo Spirito Santo ci fa fare sopra noi stessi, e ci fa intendere come noi siamo nel Verbo, e il Verbo in noi: « Chi ha i miei comandamenti e gli osserva, quegli è che mi ama«: » ecco la pratica osservanza de' comandamenti procedente dallo Spirito Santo. « E chi mi ama, è amato dal Padre mio, e io lo amerò e manifesterò a lui me stesso«. » Dice manifesterò a lui me stesso, perocchè è egli che manda lo Spirito Santo che lo manifesta, lo manda in maggiore copia quanto è più l' amore. E dice che sarà amato dal Padre suo, perocchè anche il Padre suo manda lo Spirito Santo colla medesima spirazione, sicchè dice anche di poi, che « lo Spirito della verità, che dal Padre procede, darà testimonianza di lui« (2). » Sicchè lo Spirito Santo rende luminosa, esplicita, possente e operativa nell' uomo la vista del Verbo, appunto a quel modo come nell' ordine della natura la meditazione e la riflessione aggiunge luce, distinzione, consapevolezza maggiore, e potenza di muover l' uomo ad operare il pensiero spontaneo e diretto. Di tutte queste cose abbiamo già altrove più a lungo ragionato. Or venendo al proposito nostro sarà facile diffinire in che consista propriamente quell' infanzia spirituale che viene attribuita all' uomo appena uscito dall' acque del Battesimo, e per la quale il progresso della vita spirituale ne' Sacramenti viene paragonato al progresso della vita naturale (3). L' uomo è nell' infanzia spirituale, quando sebbene abbia ricevuto il Verbo nella parte suprema dell' anima; tuttavia gli manca ancora lo Spirito Santo, che quella luce del Verbo maggiormente discopra ed imprima nell' anima stessa, e la faccia operare in tutte l' altre potenze, rendendo l' uomo per essa robusto e valoroso a poter anche resistere agli assalti degl' inimici. Or il Battesimo ha di proprio, come abbiam detto, di congiungere l' uomo a Cristo invisibilmente, e di fargli percepire il Verbo; all' incontro è proprio ed essenziale effetto della Confermazione il dare lo Spirito Santo. Perciò egli è proprio del Battesimo far nascere l' uomo spiritualmente, ma egli è ancora nell' infanzia; è proprio della Confermazione il renderlo adulto « alla misura dell' età della pienezza di Cristo« (1). » E che cosa è la pienezza di Cristo se non la pienezza dello Spirito Santo? Il principio adunque dell' operazione battesimale è Cristo o il Verbo; il principio all' incontro dell' operazione del Sacramento della Cresima è lo Spirito Santo: il termine sì dell' una che nell' altra operazione è sempre il Verbo. Confrontiamo con questa dottrina i passi delle Scritture e della tradizione, e troveremo quanto sieno coerenti tra di sè e consentanei alla medesima. Primieramente la teologia cattolica insegna che nel Battesimo l' uomo spirituale nasce, ma è ancora bambino (2), il quale, cresce e si fa adulto nella Confermazione (3). Spiegando poi la natura di quest' ultimo Sacramento essa dice che è quello che conferisce all' uomo lo Spirito Santo. Si deve dunque conchiudere che il ricevimento dello Spirito Santo, che s' ha mediante il Sacramento della Cresima, è ciò per cui l' uomo spirituale diviene da pargoletto grande e perfetto. Proviamo prima che alla Confermazione si attribuisce l' incremento dell' uomo spirituale. Al che in vece di molti testimonii ci valga colui che si può chiamare il Teologo per eccellenza, e l' abbreviatore della cristiana tradizione. Egli attribuisce l' incremento dell' uomo spirituale alla Confermazione, come il nascimento al Battesimo in questo modo: [...OMISSIS...] . Proviamo di poi che alla Confermazione si attribuisce il conferimento dello Spirito Santo ad esclusione del Battesimo; il che dimostra che nel Battesimo propriamente vengono conferiti de' doni del Santo Spirito, anzichè il Santo Spirito medesimo. S. Paolo chiama i confirmati « quelli che hanno gustato il dono celeste, e che sono stati fatti partecipi dello Spirito Santo« » a differenza de' battezzati che li chiama solo « illuminati« (2). » Negli Atti degli Apostoli si distingue fra l' essere battezzati, e l' aver ricevuto lo Spirito Santo, anzi si dice espressamente, che ne' battezzati lo Spirito non era ancor venuto, e che fu mestieri confermarli acciocchè venisse in essi (3). Quando adunque si parla dello Spirito Santo in questo modo, per esclusione del modo onde viene col Battesimo, convien dire che nella Cresima sola lo Spirito Santo venga personalmente , mentre nel Battesimo viene con alcuni doni ed effetti e non colla persona (1). Altramente non reggerebbe la proposizione che « ne' battezzati lo Spirito Santo non era venuto«. » Ben è vero però, come fu detto, che se lo Spirito Santo vien dato nella Confermazione, ciò nasce in conseguenza del Battesimo, che ha resa questa venuta possibile, e ne ha messo il principio. S. Cornelio parimente (2) in una lettera a Fabio Antiocheno, parlando di Novato che in una infermità avuta avea ricevuto il Battesimo ma non la Confermazione, dice: « In che maniera potè ricevere lo Spirito Santo, se non ebbe questo signacolo (3) della Confermazione?« » colle quali parole viene a negare che lo Spirito Santo (cioè la persona) nel Battesimo si conferisca. Finalmente questo è parlare di tutta la tradizione, che amministrare il Sacramento della Cresima venga detto un darsi lo Spirito Santo (4). Se adunque d' una parte il Sacramento della Confermazione è quello che conferisce lo Spirito Santo ad esclusione del Battesimo, cioè in un modo pieno e personale, e se d' altro lato questo Sacramento è quello che rende adulto l' uomo spirituale, convien dire per giusta illazione, che l' età adulta, nel linguaggio cristiano, significa la partecipazione del Santo Spirito, e l' infanzia significa quello stato dell' uomo in cui è ben nato per l' unione del Verbo, ma non ha ricevuto ancora la grazia spiriti7forme. Ma a provar maggiormente la verità di questa dottrina, rechiamo in terzo luogo quei passi de' venerabili scrittori antichi, ne' quali non si dice già solo l' una di queste due cose staccata dall' altra, cioè o che la Confermazione renda l' uomo adulto e perfetto, o che la conferisca il Santo Spirito; ma ambedue si affermano nel tempo stesso, attribuendosi appunto allo Spirito Santo il perfezionamento dell' uomo rigenerato. Ho già detto che il Santo Spirito da' Padri greci massimamente si chiama « virtù o forza perfezionatrice« (1), » appunto perchè a lui appartiene di perfezionar l' uomo spiritualmente. S. Clemente Papa I dice, che niuno può essere « perfetto cristiano« » se oltre il Battesimo non abbia ricevuto nella Confermazione la settiforme grazia dello Spirito (2), attribuendosi così al ricevimento del Santo Spirito la perfezione del cristiano. S. Cirillo di Gerusalemme deduce dal Crisma il nome del cristiano, e dice, che non si può in certo modo nè pur dire che alcuno sia cristiano se non ha ricevuto lo Spirito Santo coll' unzione della Cresima (3). S. Urbano nella sua lettera decretale dice espressamente, che ciò che ci rende pieni cristiani è lo Spirito Santo che noi riceviamo dopo il Battesimo per l' impostazione delle mani dei Vescovi (4). Nell' antichissimo Concilio Eliberitano dicesi, che è necessaria al battezzato l' imposizione della mano del Vescovo, acciocchè egli si possa perfezionare (5). [...OMISSIS...] Egli è poi questa dottrina medesima, che allo Spirito Santo attribuisce la perfezione dell' uomo cristiano, con istile sublime esposta in più luoghi del celebre e antico libro dell' Ecclesiastica Gerarchia. Vi si legge, a ragion d' esempio, chiamata « perfezionatrice« » quella unzione che si usa nel Sacramento della Cresima (2), la si dice quella che congiunge al divino Spirito le cose che debbono esser perfette (3), e così « compisce la divina rigenerazione (4). » Vi si legge pure che «« il segnacolo di quell' unguento fa partecipe della comunione sacratissima« (5), » la qual comunione sacratissima è quella del Santo Spirito. [...OMISSIS...] ; le quali ultime parole si osservi che non sarebbero state necessarie ove non si parlasse della comunicazione della persona stessa del Santo Spirito; ma trattandosi della comunicazione dello Spirito, era convenevol cosa notarsi, come fa questo acuto scrittore, che lo Spirito Santo comunicandosi a noi, non sofferiva però alcuna mutazione nella sua divina natura. Finalmente addurrò ancora S. Cipriano, il quale alla Cresima ad un tempo attribuisce e il conferimento dello Spirito Santo, e l' essere il cristiano consumato e perfezionato col signacolo del Signore (.). Da tutti i quali luoghi apparisce, come la perfezione, e però l' età adulta, del cristiano consiste nel ricevimento del Santo Spirito, e che il Sacramento della Cresima fa crescer l' uomo spirituale all' età adulta che infonde lo Spirito Santo. E perchè è cosa molto notevole a ben intendere le Scritture e le Tradizioni quella distinzione fra il ricevere lo Spirito Santo in qualche suo dono particolare, ciò che avviene nel Battesimo, e il riceverlo nella stessa persona, io mostrerò ancora con qualche passo degli ecclesiastici scrittori che nella Confermazione si riceve personalmente, e non solo ne' doni suoi. E da prima ho già osservato, che provano questa dottrina tutti que' luoghi de' Padri ne' quali si dice che lo Spirito Santo si riceve nella Cresima ad esclusione del Battesimo. Il dirsi semplicemente di alcuna persona che viene o va in un luogo, non può intendersi che vi va co' suoi doni, ma sì che vi va ella stessa, altrimenti non sarebbe esatta e chiara quella maniera di dire. Tanto più che essendo certo, che nel Battesimo lo Spirito Santo viene co' suoi doni, l' affermar poi ch' egli nel Battesimo non ci viene non può avere altro significato che quello di voler dire che non ci viene colla persona. E pel contrario affermando che viene nella Cresima, pure in quella che si esclude dal Battesimo, si dee intendere che nella Cresima viene appunto in quel modo nel quale dal Battesimo si esclude, cioè personalmente. Di poi non possono indicare se non una unione della persona coll' anima quelle maniere che usa l' autore del libro dell' Ecclesiastica Gerarchia, quando dice del Sacramento della Confermazione che ci fa partecipi della sacratissima comunione, la quale è quella dello Spirito Santo, che ci congiunge al divino Spirito, che ci fa percepire nell' anima la santa e deifica società del medesimo Spirito divino e che consuma in noi la venuta del Santo Spirito. Come può esser consumata e perfezionata la venuta del Santo Spirito meglio che comunicandosi egli a noi personalmente? La comunicazione personale ha in sè stessa necessariamente i doni tutti del Santo Spirito implicitamente cioè in causa, perchè ha l' autore stesso dei doni; nè si può dare la pienezza dei doni se non colla persona, perchè questi separatamente presi sono infiniti. Però quando i Padri vogliono significare il conferimento personale dello Spirito all' anima, il chiamano la pienezza dello Spirito, e descrivono i sette doni come rappresentanti di questa pienezza che chiamano anche grazia settiforme (2). S. Ambrogio non si contenta di attribuire al Sacramento della Confermazione i sette doni, ma dice che questi non sono che i principali. [...OMISSIS...] Ma io non ho sott' occhio nissun passo di antichi scrittori i quali parlando del Sacramento della Confermazione, parlino più esplicitamente della comunicazione personale dello Spirito Santo, e la distinguano più chiaramente dalla comunicazione de' suoi doni, di quello che faccia in un luogo il celebre Rabano Mauro nell' opera dell' istituzione del clero. Egli distingue due unzioni che si fanno col santo Crisma, l' una dal sacerdote subito dopo il Battesimo, e l' altra dal Vescovo nella Confermazione; colla prima, dice, non si fa che preparare e consecrare la casa, ma nella seconda si riceve lo stesso ospite divino: il che è quanto dire che nella prima non si ricevono che alcuni doni del Santo Spirito; ma nella seconda lo stesso Spirito Santo colla pienezza de' suoi doni. Gioverà che qui io rechi le proprie parole di questo scrittore: [...OMISSIS...] . Qui chiaramente è distinta la preparazione dell' uomo a ricever lo Spirito, dalla discesa dello Spirito stesso; la venuta parziale dalla venuta intera di esso Spirito; nè può darsi intiera comunicazione senza comunicazion personale, o comunicazion personale senza ch' ella sia intera e piena, di maniera che può stabilirsi questo canone nell' interpretazione delle Scritture e de' Padri, che ogni qual volta si parla di venuta totale o pienezza dello Spirito Santo, il discorso si volge intorno alla venuta personale, e dove non è espressa la pienezza o la totalità del Santo Spirito o de' suoi doni, non si parla della venuta personale. Il perchè solo nella Confermazione si completa la grazia triniforme del cristiano; e però possiamo conchiudere colle parole di uno scrittore ecclesiastico del secolo X: [...OMISSIS...] . E quanto abbiamo detto dà chiarezza a molti altri insegnamenti de' Padri, i quali insegnamenti formano alla lor volta una riprova di quanto fu detto. A ragion d' esempio S. Giovanni Grisostomo in una delle sue omelie viene cercando in che consista l' infanzia spirituale, e in che la perfezione; e conchiude che l' infanzia consiste nella fede, e la perfezione nelle opere della vita santa (2). Ora la fede appartiene all' intelletto, e al cuore la carità. La fede viene a noi impressa colla luce del Verbo, e la carità viene in noi diffusa dallo Spirito Santo. Ancora, viene attribuito al Battesimo il darci la luce e la fede, ed alla Confermazione il diffondere in noi la carità. Per conseguente egli è questo un dire, che il Battesimo ci genera infatti e la Cresima ci fa adulti e perfetti. Quindi è che« illuminazione« (1) si chiamò il Battesimo fino dai tempi apostolici, e« illuminati« nel linguaggio di S. Paolo equivale a battezzati (2). All' incontro della Confermazione l' Apostolo dice: [...OMISSIS...] . Consuona all' Apostolo S. Agostino che attribuisce propriamente la carità alla Confermazione con queste parole: [...OMISSIS...] . Egli è parimente un detto comune de' Padri quello che attribuisce al Battesimo la purgazione de' peccati, che è il primo grado della vita spirituale, e alla Confermazione all' incontro la grazia, la pienezza dei doni lo Spirito Santo (5) che ne è il compimento. Nè tutto ciò detrae punto al Battesimo, la grazia del quale è piena anch' essa. Ma si dee spiegare in che modo dicasi pienezza di grazia quella del Battesimo, e in che modo dicasi pienezza di grazia quella della Confermazione: come l' infanzia spirituale possa stare con quella prima pienezza e non punto colla seconda. L' ufficio dello Spirito Santo nelle anime nostre di sopra da noi dichiarato, dà piena luce a questa materia. Tale ufficio noi vedemmo significato da Cristo in quelle parole: « Egli insegnerà tutte le cose, e vi suggerirà tutte le cose che io avrò dette a voi« (1). » Nelle quali parole appar chiaro, che tanto il Verbo come lo Spirito insegnano tutte le cose, ma lo Spirito Santo ha ufficio di suggerire all' animo le cose già insegnate dal Verbo e di ricalcarle nella mente e renderle operative: primo dunque è il Verbo a operare, secondo viene lo Spirito Santo: il Verbo dà la cognizione diretta delle cose divine, ma lo Spirito Santo muove ed accende la riflessione. Però s' intende come l' uno e l' altro operi in noi con pienezza, giacchè l' uno e l' altro ci comunica tutte le cose. Il Verbo dice: « Io vi ho fatto note tutte le cose che ho udite dal Padre mio (2). » Dello Spirito pure è detto: «« quando verrà quello Spirito di verità insegnerà a voi ogni verità« (3). » E la ragione di ciò si è « perocchè non parlerà da sè stesso, ma parlerà tutte quelle cose che udirà« (4) » cioè che udirà dal Verbo. Quindi s' intende come la grazia del Battesimo sia piena, e sia piena pure quella della Confermazione (5). Nel Battesimo si riceve il Verbo, e in lui la notizia di tutte cose divine: nella Confermazione si riceve lo Spirito Santo, e in esso la viva riflessione delle cose medesime. Quindi è che S. Giovanni attribuisce all' unzione, cioè alla Cresima, quello che Cristo attribuisce allo Spirito Santo, cioè di far conoscere tutte le cose: « Ma voi, dice, avete l' unzione dal Santo » (cioè dal Verbo pel quale è la spirazione dello Spirito Santo) «e conoscete tutte le cose« (6). » [...OMISSIS...] Quindi acconciamente Clemente Alessandrino, riferendo l' istoria di un giovane affidato da S. Giovanni alla cura di un Vescovo novello, parla de' due Sacramenti del Battesimo e della Confermazione in questo modo: [...OMISSIS...] . Or il sigillo che si mette sopra un tesoro vale a custodire tutto il tesoro intiero; e così la grazia della Confermazione è piena, perchè custodisce tutto ciò che si ha ricevuto nel Battesimo. Simile a questa idea è quella di alcuni Padri che rassomigliano lo Spirito che ricevesi nella Confermazione a un tutore e difensore della grazia battesimale. Tra i luoghi che potremmo addurre preferiremo uno del celebre Abate Ruperto, sebben non sia de' più antichi (2), il quale dice così: [...OMISSIS...] : similitudine acconcissima; perchè il tutore assai acconciamente rappresenta l' occhio della riflessione, che vigila e contempla la grazia prima ricevuta, e sente il pregio di essa, e così s' infiamma a difenderla. Dal medesimo principio, che lo Spirito Santo ricalca nell' anima la notizia del Verbo, ravviva la fede, vi deduce la carità che fassi operativa, scendono quai naturali conseguenze gli effetti speciali che si sogliono attribuisce alla Confermazione, cioè la fortezza dell' animo cristiano, il coraggio di confessar Cristo e di combatter qual valoroso milite per la fede da lui ricevuta. Dalle quali cose apparisce, che la Confermazione non dà già all' uomo qualche cosa del tutto nuova, ma, come dice il Catechismo Romano, conferma ciò che il Battesimo ha cominciato ad operare (1). Ora il Battesimo dà la grazia ed imprime il carattere; e queste due cose perfeziona la Confermazione. Di che si vede che il carattere della Confermazione essenzialmente considerato, non è che un aumento del carattere del Battesimo; ed è da questo principio che S. Tommaso toglie a provare come il carattere della Confermazione presuppone quello del Battesimo. [...OMISSIS...] E veramente, noi abbiamo veduto il carattere consistere in una impressione stabile del Verbo nella parte intellettiva dell' anima; questa è la definizione generica del carattere, nella quale uopo è che convengano i tre caratteri del Battesimo, della Cresima e dell' Ordine, i quali sono radicalmente uno; perocchè sono sempre una comunicazione del Verbo all' intelletto. Ma da questa comunicazione nascono all' uomo diverse potenze ; cioè nel Battesimo la potenza passiva di ricevere gli altri Sacramenti, come pure la grazia prima o potenza di operare soprannaturalmente; nella Confermazione la potenza attiva di resistere alle tentazioni nell' operare il bene, confessando Cristo assai coraggiosamente; e nell' Ordine la potenza di esercitare pienamente il sacerdozio di Cristo. Per questo si è, che i Padri dicono costantemente, tanto parlando del Battesimo, quanto parlando della Confermazione, che il carattere è il segno di Cristo, e che l' ufficio dello Spirito Santo è quello di imprimere nelle anime il Verbo. Così S. Ambrogio parlando di chi fu confermato, dice: [...OMISSIS...] . Per questo l' unguento si chiama Crisma di Cristo (1). E S. Cirillo d' Alessandria dice: [...OMISSIS...] . Lo stesso apparisce da un' altra maniera di parlare de' Padri specialmente de' più antichi, i quali ragionando ad un tempo del Battesimo e della Confermazione come di due Sacramenti che si amministravano nel tempo stesso l' un dopo l' altro, non distinguono però due caratteri, ma sempre favellano di un carattere o di un segnacolo solo; e par che l' attribuiscano più alla Confermazione come quella che il compisce ed integra. A ragione d' esempio Teodoreto dice così: [...OMISSIS...] . Al qual passo risponde a capello ciò che dice un greco scrittore del secolo XVI, che può servire di commentario e schiarimento a quel di Teodoreto; perocchè in questo greco scrittore non riman punto dubbio che si parli della Confermazione, come potrebbe nascere in quello del Vescovo Cirense. [...OMISSIS...] Qui parlasi chiaramente del carattere, che ci segna col segno del Cristo e ci mette nel dominio di Cristo. Più ancora si rende manifesto che si parla del carattere, e di quello della Confermazione, da ciò che segue: « Il sacerdote che unge il battezzato dice: Segnacolo del dono dello Spirito Santo, Amen«. » (Questa è la forma della Confermazione presso i Greci). [...OMISSIS...] L' unione stessa usata antichissimamente, e tuttavia presso i Greci, del Battesimo e della Confermazione, mostra l' unità del carattere che imprime: e l' attribuirsi il carattere al secondo Sacramento, anzi chè al primo, che fanno i Padri antichi, non toglie già la verità cattolica che anche nel Battesimo il carattere s' imprima, ma mostra bensì, che solo colla Cresima venìa consumato e non eran due ma uno. Quindi il sangue dell' agnello, di cui tinsero gli Ebrei le imposte delle loro case, serve ai Padri di figura tanto del carattere del Battesimo come di quello della Confermazione, che considerano come uno, a quel modo che è una la figura. [...OMISSIS...] : parole che il Santo dice in una sua orazione sul Battesimo, dal quale trapassa a parlare della Confermazione come a lui congiunta, e del carattere che questa imprime senza menzionare il carattere del Battesimo, perchè già in quello contenuto. Il Sacramento della Confermazione negli antichi scrittori ecclesiastici viene denominato solitamente in quattro maniere, o egli si chiama orazione, invocazione, o imposizione delle mani, o segnacolo, o unzione. Queste quattro denominazioni nascono dalle quattro parti di cui il Sacramento della Confermazione si compone; e si spiegano l' una coll' altra. Per esempio S. Agostino dice: « Che cosa è l' imposizione delle mani se non l' orazione che si fa sull' uomo?« (2). » Quasi voglia dire l' imposizione delle mani è quel Sacramento che si chiama anche orazione che si fa sull' uomo. Sebbene adunque nella denominazione di « imposizione delle mani« non si contenga espressa alcuna invocazione od orazione, tuttavia con tal denominazione s' intende espressa e significata anche l' orazione che si fa contemporaneamente all' imporsi delle mani, e che è un' altra parte dell' amministrazione del Sacramento. Talora poi le due parti indicate sono espresse distintamente nel parlare de' Padri e non l' una nell' altra sottintesa. Così dice S. Cipriano: [...OMISSIS...] . Medesimamente Innocenzo III spiega la parola« unzione o crismazione« con quell' altra di« imposizione delle mani« scrivendo, che « per la crismazione della fronte vien significata l' imposizione della mano degli Apostoli« (2). » Questo è quanto dire che le due appellazioni di« crismazione o unzione« e di« imposizione delle mani« si usurpano ad indicare lo stesso Sacramento, che si denomina ugualmente dall' una o dall' altra di quelle due parti principali. Talora però negli scrittori ecclesiastici si esprimono tutte e due queste parti. Così Amalario scrive: [...OMISSIS...] . Non di rado anco tacendosi l' unzione si esprimono l' imposizione delle mani e l' orazione, ciò che si fa negli stessi Atti degli Apostoli, dove si legge [...OMISSIS...] . E come l' esprimersi una sola cosa non esclude l' altra, ma è una maniera che si usa per brevità; così non è a credersi che esprimendosi« l' unzione e la imposizione delle mani« s' intendano escluse le parole che accompagnano queste azioni, e che« orazione o invocazione« furon dette. Chè anzi talora tutte e tre queste parti vennero dagli scrittori ecclesiastici espresse, come si esprimono a ragione d' esempio da Aimone ove dice: [...OMISSIS...] . Clemente Alessandrino chiama finalmente la Confermazione « il beato segnacolo (3) » o anco «« il sigillo del Signore« (4), » perchè lo Spirito Santo imprime Cristo nell' anima, come abbiamo veduto. Ciò si rappresenta anche col segno esteriore, giacchè si unge la fronte del fedele che si conferma col segno della croce. Di che Dionigio Areopagita, o chicchessia l' autore del libro dell' Ecclesiastica Gerarchia, porge quest' altra buona ragione, che dandosi lo Spirito Santo nel Sacramento della Confermazione, e questo procedendo dal Verbo, e venendoci dato dal Verbo pel merito della sua passione, assai ben convenìa che nell' atto che si riceveva questo Spirito venisse segnata in sulla nostra fronte la croce (5). Ma se il Sacramento di cui parliamo è bene spesso chiamato « il segnacolo« o« il sigillo di Cristo« non dee intendersi questa appellazione così strettamente che si vogliano escludere da essa le altre tre cose, che formano il tutto di questo Sacramento. Ciò si rende manifesto osservando che talora l' espressione di segnacolo si congiunge con alcuna delle altre tre. Con quella di unzione o di crisma è congiunta per sè, conciossiachè il segno di croce non in altro modo s' intende descritto in fronte se non ungendo in qualche modo la fronte stessa (6): di che parmi potersi trarre nuovo argomento da credere che gli Apostoli usavano del sacro crisma, appunto perciò che si parla come di cosa apostolica segnare in fronte i fedeli per esprimere la Confermazione (1). S. Clemente papa discepolo di S. Pietro dice, che [...OMISSIS...] . Nel libro delle Costituzioni apostoliche non si fa menzione solamente del segno, ma anco dell' unguento col quale si fa il segno. « Prima, vi si dice, ungerai coll' olio santo » (questa è l' unzione preparatoria al Battesimo) «poscia battezzerai coll' acqua, finalmente SEGNERAI coll' UNGUENTO del crisma » (questo è il Sacramento della Confermazione)« (1). S. Ambrogio unisce insieme le due parti dell' invocazione del Santo Spirito e del segnacolo in queste parole: [...OMISSIS...] . San Leone in quella vece fa espressa menzione del segnare e dell' imporre le mani, come in quel luogo ove dice: [...OMISSIS...] . Vedesi adunque, che se talora chiamasi la Confermazione semplicemente « segnacolo« ciò non si fa per escludere l' altre parti di cui questo Sacramento si compone, ma per la comodità di avere alle mani una breve e semplice appellazione di questo Sacramento. Conciossiachè in altri luoghi de' Padri si esprimono anche l' altre parti sott' intese, e indifferentemente si congiunge la cerimonia del« segnare« la fronte con quella dell' ungere, o con quella dell' invocare lo Spirito Santo, o con quella dell' imporre le mani. Che se si vorrà più diligentemente cercare le maniere ecclesiastiche di favellare, sarà facile altresì rinvenire de' testi autorevoli, ne' quali il segnare sia espresso non pure con una sola delle altre parti, ma con due qualsivogliano di esse. E veramente si brama un luogo in cui si faccia menzione ad un tempo del segno, dell' unzione, e dell' imposizione delle mani? Odasi Tertulliano: [...OMISSIS...] . Ecco espresse tre parti della Confermazione. Bramasi invece un luogo nel quale oltre il segnacolo sieno esplicitamente accennate le due parti dell' imposizione delle mani e dell' orazione o invocazione del Santo Spirito? Aprasi S. Cipriano, e si legga: [...OMISSIS...] . Vuolsi ancora un altro luogo dove al signacolo siano in quella vece congiunte le due parti dell' unzione e dell' invocazione? Considerisi l' invocazione od orazione che sta nell' Ordine Romano, dove si veggono espresse le tre parti di cui parliamo. Ella è la seguente: [...OMISSIS...] . Ecco l' orazione, l' unzione ed il segnacolo. Che se finalmente si vogliano ancora vedere espresse tutte e quattro le parti da noi toccate potremo trovarle nell' Ordine Romano ora citato o nel sacramentario di Gregorio il grande, o nel rituale che tuttavia è in uso presso di noi. Solo dopo avere io scritto questo articolo mi accorsi essermi sfuggito nel Bellarmino quel lungo tratto, nel quale il venerabile uomo dice altrettanto e più di quanto io dissi. Tuttavia non volli cancellare l' articolo, ma sì bene colla somma autorità del Bellarmino, che qui in nota riferisco, confermarlo. Egli risponde all' eretico Kemnizio, che per escludere l' unzione del crisma reca i luoghi degli Atti degli Apostoli (VIII, 17; XIX, 6), dove è fatta bensì menzione dell' imposizione delle mani ma non del crisma, e dice così: [...OMISSIS...] . Poscia il Bellarmino si propone l' obbiezione delle parole d' Innocenzo III, e di Eugenio IV nel Concilio di Firenze, le quali sembran dire, che il crisma ora tenga il luogo dell' imposizione delle mani usata dagli Apostoli e risponde: [...OMISSIS...] . Fissata così la maniera di parlare della tradizione, cadono tutte le obbiezioni contro il Sacramento della Confermazione, e apparisce assai chiaro che questo rito si compone di quattro parti, 1. le parole, 2. l' imposizione della mano, 3. l' unzione, 4. il segno di croce. Fermata questa verità è sciolta da sè la questione: « Qual sia l' imposizione della mano necessaria in questo Sacramento«; » ella è quella che si fa nell' atto stesso dell' unzione e indivisibilmente da quest' atto: perocchè i Greci non ne hanno altra; e tuttavia la Chiesa riconosce per valido il loro rito della Confermazione. Dunque o la Chiesa erra, o l' imposizione delle mani non è necessaria. Ma l' una e l' altra cosa è falsa. Dunque è il contrario, cioè che l' imposizione delle mani necessaria alla Confermazione è quella che fa il Vescovo elevando la mano sulla fronte per ungerla e non altra. Può riuscire di conferma a ciò l' osservarsi, che questa cerimonia si chiama spessissimo dagli scrittori antichi imposizione della mano e non delle mani, e che si dice farsi a' singoli e non a tutti ( « quod nunc in confirmandis neophytis, manus impositio tribuit singulis », dice la celebre Omilia in die Pentec. attribuita da alcuni ad Eucherio di Lione): come pure l' obbiezione che fa Benedetto XIV (2), contro la prima imposizione delle mani: [...OMISSIS...] . Se dunque il P. Iacopo Sirmondo trova degna di riso una tal dottrina, egli è da attribuirsi un tal riso all' intemperanza della critica, che rende presontuosi ben sovente i dotti, e che insegna loro a sorridere delle opinioni più rispettabili. Io mi accosto poi al P. Merlin (1) in quanto le sue osservazioni provano che l' imposizione delle mani è indivisa dall' unzione del crisma; non convengo però nella sua opinione che gli Apostoli conferissero il Sacramento colla sola imposizione delle mani senza Crisma. Tale mi sembra l' intimo e vero sentimento di tutta la cristiana antichità. Può essere ancora che qualche autore greco, sentendo tanto nominata nella Scrittura l' imposizione delle mani e non osservando che nel segnare la fronte la mano necessariamente s' impone, si persuadesse che il crisma sia stato sostituito all' imposizione delle mani apostoliche, ma ciò dee attribuirsi a mancanza di riflessione di uno o d' altro autore; fra questi parmi di poter citare Simone di Tessalonica, che nel secolo XII scrive: [...OMISSIS...] . Quanto poi all' opinione di coloro che sostengono negli antichi tempi l' imposizion delle mani essere stata distinta dall' unzione, ma poscia forse nel secolo VII essersi unita e fatta una cosa con essa, parmi almeno frivola e inetta. Perocchè se riconoscono che alla validità del Sacramento nei secoli posteriori al VII, e massime presso i Greci, non si richiedesse imposizion delle mani distinta dalla stessa unzione, perchè mai ne' primi secoli sarà stata essenziale al Sacramento un' altra imposizione distinta da quella che il Vescovo fa necessariamente ungendo la fronte? Non è piuttosto assai naturale il dire, che se oltre l' unzione della fronte si faceva allora una distinta imposizione delle mani, questa non era cerimonia essenziale, come non è essenziale quella distinta imposizion delle mani, che si usa ancora nella Chiesa latina e che la greca ommette senza rendere perciò invalido il Sacramento? La parte indicata anticamente colla denominazione di« orazione« o« d' invocazione« è la forma del Sacramento; il Crisma è la materia remota, l' imposizione delle mani e il segno di croce determina il modo onde la materia rimota viene applicata e si fa materia prossima. Delle quali affermazioni potrebbe incontrare qualche difficoltà la prima, che la parte del Sacramento indicato colla parola« invocazione«, od« orazione«, significasse la forma, come quella che dee essere fatta di parole consecratorie e non impetratorie. Ma sebbene ciò sia vero, niente vieta che unitamente alle parole consecratorie si proferissero delle invocazioni e delle orazioni, dalle quali si denominasse il Sacramento più tosto che dalle stesse parole consecratorie, tenute sempre nascoste gelosamente dall' antica disciplina della Chiesa (1). In fatti così fu: avanti e dopo la unzione s' invocava lo Spirito Santo, e nell' antichissimo Ordine Romano la stessa forma della Confermazione comincia con una particella impetratoria la quale è questa: « Signa eos, Domine, signo crucis « » seguitando però in stile consecratorio nell' atto dell' ugnere: « Ego te confirmo in nomine Patris, etc.« » La parola« invocazione« può essere oltracciò dichiarata con altri passi analoghi. In ragione d' esempio il passo di S. Clemente Papa o sia delle Costituzioni Apostoliche da noi citato di sopra « l' invocazione è la VIRTU` (2) dell' imposizione della mano « (3) » viene chiarito quando si riscontra a quest' altro, che si trova in un Commentario degli Atti Apostolici attribuito a S. Ambrogio « la imposizione della mano sono le parole mistiche« (4), » le quali parole mistiche voglion significare indubitatamente quelle della forma. Il P. Merlin nel suo trattato sulle forme de' Sacramenti non dubita punto di ciò che S. Clemente chiama« invocazione« non sieno che « le parole della forma« (5). Finalmente molti Teologi e di gran vaglia sostengono, che la forma adeguata e totale del Sacramento della Confermazione è ad un tempo l' orazione e le parole che seguono a quella, e il provano con assai validi documenti; de' quali Teologi nominerò due, cioè Onorato Tournely, e Natale Alessandro, a' quali valentuomini rimetto il lettore (1). Quanto poi alle altre tre parti del Sacramento della Confermazione, cioè l' unzione, il segno della croce e l' imposizione delle mani, esse simboleggiano, secondo la Scrittura e i Padri, i tre effetti di questo Sacramento. S. Paolo nel primo capitolo della seconda lettera a' Corinti parla manifestamente, a mio avviso, del Sacramento della Confermazione, ed accenna queste tre parti di lui. Egli dice a que' di Corinto, che veniva ad essi affinchè avessero« la seconda grazia« la quale vien data dal Sacramento della Confermazione, essendo il Battesimo quello che conferisce la prima (2). Dice che Dio era quegli che li confermava in Cristo (3). E poi soggiunge che Dio pure li ungeva e li segnava e dava lor il pegno dello Spirito ne' cuori (4). Ecco l' unzione, il segnacolo, e il pegno dello Spirito, che s' attribuisce da' Padri all' imposizione delle mani. Tertulliano commenta questo passo di S. Paolo accennando i tre effetti del Sacramento della Confermazione con queste parole: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole è manifesto, che questo Padre del secondo secolo della Chiesa non intese mica quell' unzione che nomina S. Paolo, di un' unzione metaforica e puramente spirituale, ma l' intese dell' unzione esterna della carne; e lo stesso dicasi del segno di croce, che nomina l' Apostolo; il che dee aver gran forza contro quelli che abbandonano il senso letterale di questo e d' altri passi simili, e che non li vogliono intesi se non in un senso spirituale. E alla stessa guisa di Tertulliano spiega il passo dell' Apostolo S. Ambrogio, il quale attribuisce l' effetto dell' unzione al Padre, l' effetto del segno di croce al Figliuolo, e l' effetto dell' imposizione delle mani allo Spirito Santo; di maniera che, secondo questo santo Padre, i tre elementi costituenti la materia del Sacramento della Confermazione si riferiscono alle tre persone della Santissima Trinità che operano in questo Sacramento, il quale conferisce, come abbiamo detto, all' anima la grazia triniforme. [...OMISSIS...] Anche in alcuni luoghi delle Scritture l' unzione è attribuita al Padre. Negli Atti degli Apostoli si legge che Cristo fu unto dal Padre (2), e S. Paolo spiega di Cristo il Salmo che dice: « perciò te unse Iddio, il Dio tuo coll' olio dell' esultanza« (3). » Il segno poi è stato attribuito a Cristo avendo forma di croce, ed essendo effetto suo la fortezza, appartiene a Cristo altresì, perchè la croce è l' arma che vince il diavolo, e perchè Cristo è la virtù e la forza e il braccio del Padre. Però la parola confermare viene propriamente da questo effetto dell' armare e fortificare colla croce di Cristo: sicchè S. Ambrogio in altro luogo invece di dire ti segnò Cristo, dice: « Cristo ti confirmò« (4). » Il pegno poi dello Spirito è la carità e il gaudio spirituale, caparra dell' eterna eredità attribuita allo Spirito Santo, che per ciò si chiama Spirito di promissione, e l' effetto suo« pegno dell' eredità nostra« (5). Questi tre effetti poi sono la santità, la fortezza e il gaudio. Il secondo vien dal primo, e l' ultimo dai due precedenti, sebbene la fortezza per quanto dipende dall' uso delle potenze diverse dalla volontà non sia necessariamente connessa colla santità di sua natura; come pure il gaudio per quanto egli scaturisce dalle potenze minori non va di sua natura congiunto a que' due primi effetti; e però giustamente questi tre effetti si distinguono, giacchè la nozione dell' uno non è quella dell' altro e la lor natura permetterebbe che stessero fra di sè separati. Ma tutti uniti dànno perfezione all' uomo, e di perfezionar l' uomo è appunto ciò che intende il Sacramento della Confermazione. L' angelico Dottore cercando in che maniera sia stato istituito il Sacramento della Confermazione, dice che [...OMISSIS...] ; e rende ragione del non essersi potuto conferire questo Sacramento prima della Risurrezione di Cristo, soggiungendo così: [...OMISSIS...] . Cercando poi lo stesso santo Dottore, se gli Apostoli abbiano ricevuto questo Sacramento risponde di no, e ne dà la ragione seguente: [...OMISSIS...] . La soluzione di questa questione, seguìta da tutto il meglio de' Teologi, trae qui a pensare all' altra del Battesimo degli Apostoli. Comunemente or si tiene da' Teologi, che sieno stati battezzati da Cristo, ma ella è però cosa incerta e controversa (4), e non ispregevoli mi sembrano quelle ragioni, che si possono addurre per l' opinione contraria. Perocchè se poteron essi ricevere lo Spirito Santo senza Sacramento mandandol loro Cristo dal cielo, come non poterono ricevere la grazia del Verbo, che si dà nel Battesimo conversando essi col Verbo in terra? In tal modo ne verrebbe meglio chiarito il passo di S. Paolo, che « ricevettero le primizie dello Spirito«, » e gli Apostoli, immediati discepoli di Cristo e riceventi dalla sua bocca le parole della vita, avrebbero ricevuto immediatamente nell' anima loro il Verbo e lo Spirito; e gli altri fedeli avrebbero ricevute queste grazie mediante i Sacramenti conferiti dagli Apostoli e lor successori. Ho già dimostrato, che Cristo non avea bisogno d' alcun mezzo per comunicare le sue grazie, e che se Cristo fosse potuto essere al contatto di tutti gli uomini non ci avea bisogno alcuno di Sacramenti; i quali sono istituiti come anelli, o canali intermedi fra Cristo e quegli uomini, che non possono con lui immediatamente conversare (1). Egli è vero, che Cristo dice positivamente: « non può entrare nel regno di Dio niuno, che non sia rinato di acqua e di Spirito Santo« (2), » ma certa cosa è, che questa sentenza ammette una ragionevole interpretazione in quanto all' acqua materiale, il bisogno della quale non è assoluto per tutti gli uomini. Tanto è vero che ne sono eccettuati per comune consenso tutti quelli che morirono prima del dì della Pentecoste; e da quel dì tutti quelli che si salvarono col Battesimo di penitenza o di sangue. Or Cristo dava immediatamente quell' acqua viva di cui egli parla alla Samaritana « saliente in vita eterna« (3), » la quale non era già un' acqua materiale, sebbene l' acqua materiale sia stata istituita a simbolo dell' acqua spirituale. S. Giovanni Battista fu ripieno di Spirito Santo col solo avvicinarsegli Gesù nell' utero di Maria; non ebbe questi il Battesimo prima di nascere? Gesù diceva a Filippo: « Io sono tanto tempo con voi e non mi conoscete? Filippo chi vede me, vede me e il Padre mio« (4), » indicando con ciò, che la sola vista di Cristo dava la grazia e la percezione di Dio. La Scrittura dice che l' uomo vive di ogni parola, che esce dalla bocca di Dio (5); e le parole di Cristo avranno forse avuto minor efficacia del Battesimo quando anche al Battesimo non proviene la forza sua se non dalla parola del Verbo? (6) non sono chiamate parole di vita quelle di Cristo? (7) non ha detto Cristo agli Apostoli, ch' erano mondi per cagione del sermone che avevano udito da lui? (1) E al presentarsi che facevano a Cristo gl' infermi non diceva loro tostochè vedeva in essi la fede e la contrizione: « i tuoi peccati ti sono rimessi«, » senza far loro parola di Battesimo? (2) e se i peccati loro eran rimessi avevano già ottenuto l' effetto del Battesimo senza più. Non disse a Zaccheo che « la salute di quella casa era in quel giorno avvenuta« (3) » appunto perchè l' avea santificato coll' aspetto suo e colla sua visita? E se appresso tutti i Teologi si conviene, che la necessità del Battesimo non cominciò se non dopo la Pentecoste, questa necessità non ci fu mai per gli Apostoli, perocchè dopo aver ricevuto lo Spirito Santo non poteano aver bisogno del Battesimo, e prima necessità non ce ne aveva per alcuno. Ora noi dobbiam favellare del più compiuto e del più ineffabile de' Sacramenti, voglio dire dell' Eucaristia. Il verremo prima considerando in sè stesso, trattando della confezione del corpo e del sangue di Cristo; poscia rispetto ai battezzati di cui egli è soprasostanziale nutrimento; e finalmente rispetto all' ordine stesso della santificazione umana. Il divino Autore di tanto mistero illustri a noi la mente e ci conduca la penna, acciocchè collo scrivere nostro fedele possiamo conseguire quello che solo è bene, desiderando noi di non mescolare in queste pagine nulla di nostro a quanto da lui medesimo e dalla sua chiesa noi abbiamo imparato. E prima mi si conceda di sporre il modo del trasmutamento del pane e del vino nel corpo e nel sangue di nostro Signor Gesù Cristo, a quel modo che io il concepisco contenersi nel deposito delle verità della fede, nelle Scritture e nella Tradizione. Dico in prima, che questa trasmutazione si fa in un modo assai somigliante (1) a quello onde in noi si converte il cibo, mediante la nutrizione, nel corpo nostro e nel nostro sangue. Conviene attentamente osservare ciò che avviene nel fenomeno della nutrizione. Delle particelle inanimate vengono ricevute nel nostro stomaco, e indi distribuite pe' meati del corpo e ravvicinate sì fattamente, assimilate, inserite, contemperate, fuse nella nostra carne viva e nel nostro sangue vivo, che anch' esse in un modo ammirando ricevon la vita e si fanno animate, sensitive; in una parola diventano vera nostra carne e vero nostro sangue. Ora in un modo somigliante, come dicevo, io intendo che Gesù Cristo comunichi la vita propria alle particelle del pane e del vino, e in tal guisa le renda suo vero corpo e suo vero sangue. E ove in tal modo si concepisca la transustanziazione del pane e del vino si rendono assai chiare alcune parole di Cristo che altramente possono parere oscure ed inesplicabili. Così leggiamo in S. Luca, che dopo aver detto il divino Redentore giacente co' suoi discepoli nel cenacolo: [...OMISSIS...] . Dove quella maniera« dico io a voi« dico enim vobis , annunzia che egli vuole comunicar loro qualche gran cosa. Il regno di Dio poi consiste propriamente nella glorificazione di Cristo; perocchè Cristo glorioso a pieno regna « m' è stata data ogni potestà in cielo ed in terra«, » e Dio regna in Cristo. Volea dunque dire, che non mangerà più la pasqua prima della sua Risurrezione, nella quale Risurrezione la pasqua sarà pienamente adempita: perocchè l' agnello pasquale rappresentava il vero agnello ucciso, e fatto salute e cibo vitale de' veri israeliti, cioè Cristo ucciso e fatto glorioso, potente perciò a comunicare vita e pienezza di vita, a cui se ne ciba vivendo. E nello stesso significato soggiunse del calice del suo sangue: « prendete e dividete fra voi: imperocchè vi dico, che non berrò della generazione della vite, fino che non venga il regno di Dio« (3), » cioè la mia Risurrezione. Nè si può muover dubbio per cagione della particella« fino che« donec , la quale nella maniera d' usarla che fa la Scrittura indica sovente ciò che non fu fatto fino a quel momento, non ciò che far si deva in appresso. Benchè ciò sia vero, e valga per intendere altri luoghi delle Scritture; pure qui il testo di S. Matteo e di S. Marco non ci permettono tale interpretazione, leggendosi espressamente, che Cristo non solo non berrà più vino fino alla Risurrezione, ma che « berrà un vino nuovo nel suo regno«, «cioè fatto glorioso. [...OMISSIS...] Le quali parole sono chiarissime, nè ammettono una facile interpretazione altrimenti che coll' intenderle dell' Eucarestia che dovevano i suoi Apostoli celebrare, lui già risorto. Perocchè dicendo Cristo « di questo figliuolo della vite« » esclude ogni spiegazione spirituale, che dar si volesse a quelle parole; giacchè quel vino a cui alludeva era cosa reale e non puramente allegorico e figurato, e dove s' intendesse che un vino figurato sarà quello che berrà dopo la sua Resurrezione dovrebbe necessariamente intendersi che un vino figurato beveva allora, il che sarebbe contrario alla fede; perocchè l' identità di natura fra il vino che allora beveva e quello che dice di dover bere nuovo dopo la Risurrezione è chiaramente espressa in quelle parole: « io non berrò più di questo figliuolo della vite«. » Dice adunque, che nel regno del Padre suo, cioè dopo risorto, berrà del vino, ma non d' ogni vino, ma di quello appunto che tenea allora in mano, ed era il vino consacrato; e di più dice, che lo berrà con essi « lo berrò nuovo con esso voi«. » Aggiunge poi che sarà « un vino nuovo« » per indicare che il vino consecrato dopo la Risurrezione non era più un sangue passibile e che si potesse veramente spargere; ma un sangue impassibile, e immortale, e meglio che un vino nuovo, di recente e inestinguibile vita potente. Tutte queste circostanze mirabilmente si avverano nell' Eucarestia, se a quel modo si spieghi che abbiam toccato. Conciossiachè in tal caso veramente avverrebbe, che Cristo glorioso, banchettasse continuamente, per così dire, avvivando della sua vita divina il pane ed il vino, e convertendolo tutto nelle divine carni e nel divino suo sangue. Che se attentamente si considerano le parole di Cristo non si troveranno capaci di alcun' altra interpretazione. Perocchè Cristo stesso lo espone dell' Eucaristia. « Di gran desiderio ho desiderato, dice, di mangiare con voi questa pasqua innanzi che io patisca«. » Che vuol dire questo « innanzi che io patisca?« » non sembrano parole superflue? non bastava dire:« di gran desiderio ho desiderato di mangiare questa pasqua?« no, perocchè Cristo poteva mangiare quella pasqua avanti patire e dopo aver patito, cioè già risorto. Però egli mostra l' immenso desiderio che avea di mangiare quella pasqua, prima che patisse, quella pasqua nella quale sarebbe morto. Or se quelle parole « innanzi che io patisca«, » alludono assai convenientemente ad una pasqua ch' egli mangiar poteva dopo aver patito, non è egli assai chiaro, che quel pane e quel vino, che dice poi che avrebbe mangiato nuovo nel suo regno, è appunto questa pasqua, di cui così favella fino a principio del suo discorso? e che però per quel pane e per quel vino nuovo non può intendersi convenientemente se non l' Eucarestia che sarebbe stata rinnovata, lui già risorto? Or in tal modo intese seguire la transustanziazione del pane e del vino S. Gregorio Vescovo di Nissa, uno de' Padri del secolo d' oro della Chiesa, e de' più acuti e di tanta fede e venerazione, che in sua vecchiezza chiamavasi il Padre de' Padri (1). Questi nella sua celebre Catechesi si fa a cercare diligentemente, come il corpo di Cristo nella Santissima Eucarestia possa alimentare tanti fedeli, rimanendosi egli intero e in sè perfetto (2). [...OMISSIS...] Così questo grand' uomo trovava opportuno di chiamare la ragione in ossequio e in servigio della fede, non dissociando quello che Iddio ha congiunto. Viene adunque a stabilire 1 che il corpo nostro nello stato presente si mantiene coll' alimento a lui adattato (1), 2 che questo alimento precisamente è il pane ed il vino che si convertono nel corpo (2), 3 che però chi vede del pane e del vino il corpo umano in potenza, cioè tali cose che sono atte a farsi corpo (3). Premessi questi principii egli viene applicandoli all' Eucarestia (4). Ed osserva 1 che il Verbo divino prese un vero corpo umano (5), 2 che anche questo corpo umano preso dal Verbo non si sottrasse mentre era in terra alla legge degli altri corpi, di nutrirsi cioè di pane e di vino (6), 3 che il pane e il vino di cui Cristo si nutriva diventava una cosa stessa col corpo di Cristo, perocchè trapassava alla natura del corpo sebben corpo divino (7), 4 [...OMISSIS...] . Si fa poi l' obbiezione tratta dalla maraviglia che v' ha in una trasmutazione sì maravigliosa per la quale un pezzo di pane ed un calice di vino si trasmuta in un essere divino; e risponde, che se ciò avveniva indubitatamente quando Cristo vivea, niuna maraviglia che avvenga anco di presente; perocchè l' onnipotenza del Verbo, che faceva quella trasmutazione vivendo in terra è la medesima anche ora. [...OMISSIS...] Le quali parole del Nisseno non si possono già considerare, come contenenti una cotal vaga similitudine fra la nutrizione e la consecrazione; ma bensì come una spiegazione ch' egli manifestamente prende a dare di questa mediante di quella. Il secondo testimonio che noi addurremo sarà S. Cirillo Alessandrino, il quale senza nominare la parola nutrizione, dice però il medesimo affermando, che Iddio converte il pane nel proprio corpo, comunicandogli la virtù vitale del proprio corpo; che è appunto quel modo in che noi crediamo avvenire la transustanziazione. Le parole del gran Vescovo sono le seguenti: [...OMISSIS...] . Può dirsi più propriamente e più espressamente quello che noi diciamo, cioè che la consecrazione consiste in una diffusione e comunicazione della vita divina del corpo di Cristo? E un testimonio maggiore ancora a prova della proposta sentenza possiam forse cavare dal libro dell' Ecclesiastica Gerarchia. Quando anco l' autore di quest' opera si dovesse collocare nel secolo V, fra il Concilio Efesino e il Calcedonese, come vogliono taluni, e però fosse posteriore a Gregorio e a Cirillo, tuttavia l' autorità di quel libro parmi vincer non poco quella de' due grandi Vescovi allegati, non foss' altro perchè vi si descrive la liturgia della Chiesa, che venìa dagli Apostoli. Ora i fedeli che comunicano sono appellati in questo libro« connutrizi « di Cristo: appellazione, come a me sembra, tenerissima ed efficacissima, la qual suppone che nella stessa Eucarestia trovar debbasi un cibo in pari tempo per Cristo e per noi. E veramente se il pane e il vino si converte nelle carni e nel sangue di Cristo per una operazione simigliante, sebben più sublime, di ciò che avviene nella ordinaria nutrizione; veramente i fedeli cibano quel cibo che ha cibato prima Cristo, e sono veri suoi connutrizii. Ella s' avvera in questo caso alla lettera la similitudine usata dagli scrittori ecclesiastici, i quali raffigurano Cristo nell' Eucarestia in una madre che nutrisce i suoi bambolini, del proprio suo cibo convertito in suo latte, convertito in propria sostanza. Dice adunque l' autore dell' Ecclesiastica Gerarchia che « la divinissima partecipazione comune e pacifica di un medesimo pane e di un medesimo calice prescrive a' partecipanti, siccome A CONNUTRIZII (1) una divina conformità di costumi - e che lo stesso autore de' simboli, a meritissimo diritto esclude (dal banchetto) colui che SECO avea frequentata la sacra cena, nè santamente, nè con animo concorde« (2), » cioè Giuda tipo di quelli che indegnamente comunicano. E se l' interpretazione di questo luogo può esser dubbiosa ad alcuni, niuno dubiterà però che con noi non la senta Giovanni di Damasco. Nel IV libro della fede ortodossa (3) egli scrive così: [...OMISSIS...] . Il qual passo è certamente chiarissimo: e conviene osservare, come il Damasceno riconosca come il cibo convertito naturalmente in carne ed in sangue vivo non formi già un corpo diverso, ma l' identico corpo che v' aveva prima: e come la similitudine che usa la crede atta appunto a dimostrare l' unicità e l' identità del corpo di Cristo, sebbene Cristo assuma e transustanzii nelle sue carni e nel suo sangue la sostanza del pane e del vino. Non può adunque dirsi che la similitudine usata dal Damasceno sia in questa parte deficiente: egli almeno la tien per attissima al suo intendimento. Nel secolo seguente Teofilatto, commentando il capo VI di S. Giovanni, così scriveva: [...OMISSIS...] . Le quali parole dice Teofilatto a intendimento di rendere più credibile sì grande mistero a quelli che s' atterivano pensando, che annunziasse cosa impossibile. Ora le sue parole niente varrebbero a tale intendimento quando non v' avesse una vera similitudine fra la nutrizione naturale e la consecrazione, che si può dire una cotale soprannaturale ineffabile e divina nutrizione di Cristo glorioso. E questa conversione in tal modo concepita viene espressa appunto allo stesso modo, ma senza l' uso di alcuna similitudine, da Elia Arcivescovo di Creta scrittore dell' ottavo secolo, a quel modo stesso come vedemmo espressa da Cirillo Alessandrino, dicendo egli, che « Iddio abbassandosi all' infermità nostra immette nelle cose proposte (in su l' altare) una virtù vivificatrice e le trasferisce all' operazione della sua carne« (2) » cioè dà loro l' atto o la natura della propria carne: il che è appunto quello che avviene nelle particelle del cibo, le quali avvolte quasi direi nel vortice della vita vengono anch' esse avvivate e acquistan natura ed atto di verissima carne. Al quale greco scrittore s' accorda un altro che fiorì nello stesso secolo nella Chiesa latina, voglio dire Alcuino, il quale così scrive dell' Eucaristia: [...OMISSIS...] . Dove si vede manifesto come questo scrittore intendeva che il pane passasse nel corpo di Cristo, e così con lui si mescolasse e immedesimasse. Or sebbene, come dirò appresso, il Durando abusasse del concetto della nutrizione male intendendolo; tuttavia egli si scontra anche ne' teologi cattolici che scrissero dopo di lui, come in Simonate di Gaza, in Giovanni Bromiardo, nel Gersone, nel Sabundio. De' quali non sarà inutile l' addurre i luoghi. Scriveva adunque Simonate Gazeo nel XIII secolo: [...OMISSIS...] , il qual passo veramente non si può storcere a indicare altro che quello che noi vogliamo. Scrive pure il Bromiardo: [...OMISSIS...] : argomentazione che non istringerebbe, quando non si trattasse nella consecrazione di una trasformazione somigliante a quella che avviene veramente nella natural nutrizione. Giovanni Gersone simigliantemente: [...OMISSIS...] . Finalmente udiamo Raimondo Sabundio: [...OMISSIS...] . Il perchè l' errore di Durando non consiste nell' avere paragonato la consecrazione alla nutrizione; ma nell' aver detto che il pane non si converte già tutto nel corpo di Cristo, ma la materia del pane rimanere partendosene la forma sostanziale (3). Sembra che Durando sia caduto in tale errore per non essersi formato un' idea giusta della nutrizione; ed egli pare che credesse rimanere la materia del pane informata dall' anima di Cristo, il che sarebbe una vera impanazione (1). I teologi stessi, e fra questi un sommo, il Bellarmino, se non erro, hanno confuse insieme queste due cose. E veramente basta attentamente considerare con quali decisioni della Chiesa il Bellarmino combatta il Durando, per accorgersi, che l' errore che vien combattuto, non istà propriamente nel considerare la consecrazione come una cotal nutrizione di Cristo glorioso (detratto tutto ciò che nel concetto di nutrizione si trovi d' imperfetto e di difettoso); ma bensì nel supporre che la materia del pane rimanga immutata. Due sono i solenni decreti della Chiesa che il Bellarmino contrappone al Durando: 1. Il capitolo IV e il canone II della Sessione XIII del Concilio di Trento, dove si dichiara mutarsi « tutta la sostanza del pane nel corpo, e tutta la sostanza del vino nella sostanza del sangue«. » Or a questo canone si oppone certamente la dottrina che insegna rimanere la materia del pane, ma non quella che dice tutta la materia del pane si trasmuta nelle carni del Signore; e questo avviene appunto supponendo avvenire nella consecrazione una conversione simile (sebben più sublime) a quella della nutrizione. Imperocchè supponendo la nutrizione perfetta avverrà, che nel pane Eucaristico non vi sia nè pure una particella, nè pure un elemento il più tenue che non sia vera carne di Cristo; nè del vino rimanga un atomo che non sia verissimo sangue; ciò che risponde a capello alla fede cattolica (2). 2. La Sessione VIII del Concilio di Costanza, nella quale si condanna l' errore di Vicleffo, il quale era che « gli accidenti non rimangono senza soggetto«. » Ora se la materia del pane rimane, certo che questa materia è il soggetto proprio degli accidenti, e però gli accidenti non sarebbero senza il loro soggetto, contro a quello che definì il Concilio di Costanza. Ma all' opposto se si afferma, che la materia del pane, soggetto degli accidenti, mediante la soprannaturale nutrizione di cui parliamo siasi cangiata nella vera e viva carne di Cristo, egli è cosa manifesta, che il soggetto degli accidenti non rimane più; e che non restano se non gli accidenti del pane e del vino, senza il pane ed il vino, senza la sostanza loro. Conciossiachè il corpo di Cristo ha ben degli altri accidenti, ma che tiene a noi occulti nell' Eucaristia, celandosi quasi direbbesi sotto gli accidenti altrui, che a noi appariscono. La dottrina nostra adunque è sommamente consentanea alle decisioni del Concilio di Trento e di quello di Basilea. Non v' ha dunque alcuna decisione della Chiesa, che c' impedisca la nostra sentenza, la quale anzi è mirabilmente consentanea ai Concilii di Costanza e di Trento. Non è però, ch' ella non trovi alcune difficoltà non leggiere nell' apparenza, ma che non mi sembrano tali nella sostanza. Oltre di che a portare un retto giudizio conviene raffrontare le difficoltà che porge la sentenza nostra, con quelle che trae seco la sua contraria, le quali a me sembrano oltremodo più gravi. Il perchè io verrò sponendo e ponendo a fronte le une colle altre, e così potrà ciascuno savio con piena cognizione di causa scegliere l' opinione che gli parrà meno involta di nodi e più consentanea alla rivelazione ed alla tradizione. La prima difficoltà dunque, che ci si affaccia, si è quella di non saper comporre la nutrizione collo stato di Cristo glorioso. E certamente, che se noi parlassimo di quella stessa maniera di nutrizione che in noi succede, ella non si potrebbe in modo alcuno avvenire in un corpo glorioso. Ma egli è necessario osservare, che tutto ciò che è conforme alla natura di un uomo (1) può trovare un modo di essere anche nello stato di un uomo comprensore, sebbene noi non sappiamo in qual modo ciò avvenga, perchè non abbiamo esperienza dello stato de' corpi gloriosi, salvo ciò che ce ne dà la rivelazione. E veramente la natura umana col farsi gloriosa non muta l' esser suo, ma ella si nobilita e acquista delle nuove qualità. Il perchè non è da credere, che rimanendo il corpo nostro formato come è al presente e delle stesse membra composto, egli non debba avere altresì un uso delle sue membra, sebbene quest' uso soverchi di presente il nostro pensiero. Quello solo che mi sembra di poter dire si è, che la maniera di nutrizione che può cadere ne' corpi gloriosi deve esser scevra da tutte le imperfezioni che involge la nutrizione nostra. Per esempio, la nutrizione in noi supplisce alle particelle che continuamente si separano dal corpo nostro, e col riparare a queste perdite e co' movimenti annessi all' opera della nutrizione mantiene l' attività, il calore, la vita. Tutto questo appartiene all' imperfezione nostra; la nutrizione considerata come producente tali effetti, necessari al mantenimento del nostro vivere, non può cadere in modo veruno in corpi impassibili immortali. Ma tutto ciò non forma ancora l' essenza della nutrizione, al modo come noi intendiamo questa parola. L' essenza della nutrizione noi la facciamo consistere unicamente, 1. nell' assimilare al corpo vivo della materia non viva, 2. e nel comunicare la vita a questa materia nell' atto stesso che si assimila e inorganizza nel corpo, sicchè con esso diviene un solo e identico corpo. Ora a me sembra, che niente ripugni che questo concetto della nutrizione si applichi anche ad un corpo immortale; io non veggo cosa che a ciò si opponga nella parola di Dio o scritta o tramandata; molte all' incontro che me lo persuadono. E veramente, se il corpo nostro imperfetto com' è ha pur tanto di vita in sè stesso da poterla comunicare a delle particelle di materia inanimata; e come di una tale virtù sarà privo un corpo perfettissimo, che di vita è pienissimo a segno, che non può morire? Convien considerare, che il comunicare la propria vita a materia straniera è cosa che appartiene all' eccellenza di una natura e non a un difetto; che è opera potente, nobilissima. Si richiede solamente svestire quest' alta funzione da quegli accessori, co' quali noi la veggiamo continuamente accompagnata, ma che non le sono necessarii, e che accidentalmente le avvengono per l' imperfezione nostra, cioè per l' imperfezione del soggetto, in ch' ella si forma. Di che avviene, che mutato il soggetto e reso questo al tutto perfetto, anche l' operazione di cui parliamo non delle sue imperfezioni parteciperebbe, ma più tosto de' suoi pregi e delle sue eccelse prerogative. Acciocchè dunque un corpo comunichi ad un altro corpo della propria vita non è necessario 1. ch' egli perda qualche parte della sostanza di cui si compone, come avviene ora in noi, 2. nè che egli abbia bisogno della vita distesa e accomunata ad altri corpi per viver egli, come pure avviene nel corpo mortale, 3. nè ch' egli sofferisca tutte quelle permutazioni successive, colle quali si forma in noi la nutrizione. Tutto questo viene escluso dal corpo glorioso (1). Ma egli rimane però dopo di tutto ciò qualche cosa che al corpo glorioso non ripugna; e questa si è, ch' egli comunichi ad altri corpi la propria vita istantaneamente, e a sè li assuma ed immedesimi; non sè abbassando, ma quelli a sè elevando ed incorporando (2). Ora questo è quello, che anche crediamo avvenire ineffabilmente e soprannaturalmente nella Eucaristia. S. Luca ci descrive Cristo che dopo la Risurrezione mangia co' suoi discepoli, in prova ch' egli non è puro spirito ma anche vero corpo. Egli avea loro mostrate le cicatrici delle sue piaghe, e fattele loro toccare, ma essi tuttavia non credevano: a convincerli ch' egli era anche risorto vero uomo, vuol mangiare con essi. [...OMISSIS...] Ora io so bene, che cosa dicano i Teologi: essi vanno imaginando che quel cibo, che prese Cristo, non siasi convertito nelle sue carni, ma risoluto in aria, come dice il Bellarmino (4). Ma questo non è che una pura imaginazione non fondata punto nelle Scritture, imaginazione proveniente da non sapere come accordare insieme una vera nutrizione collo stato di un corpo glorioso. Per questo lo stesso Aquinate conghiettura, che il cibo preso da Cristo siasi risoluto nella « pregiacente materia«; » ma dice che tuttavia quel prendimento di cibo era una vera comestione « perocchè Cristo aveva un corpo di tal natura, che in esso corpo si poteva il cibo convertire« (1). » Ma questa è puramente teologia non fondata nè nella Scrittura nè nella Tradizione, e proveniente, come diceva, dal non saper essi formarsi della nutrizione un concetto elevato e puro da tutte quelle imperfezioni, ch' ella ha come avviene in noi. Per altro tanto è lontano, che le Scritture ci faccian credere che nella comestione di Cristo risorto il cibo non si convertisse nelle sue carni, che anzi fanno travedere il contrario. Primieramente si descrive quella comestione come ogn' altra. Poi Cristo voleva dar prova a' suoi discepoli che egli aveva un corpo della stessa natura del loro. La visibilità e la solidità di questo corpo l' aveva già loro provata facendosi vedere e toccare. Se il cibo da lui preso non avesse fatto che passare in lui, la prova non era tampoco maggiore del mostramento fatto loro delle cicatrici, e del toccamento di quelle ch' essi avean fatto. Ma volea loro mostrare, che il suo corpo era atto anche alle funzioni della vita, fra le quali è quella di nutrirsi, o sia di comunicare alla materia della propria vita. Per questo fine egli volle mangiare in loro presenza. Se il cibo non si fosse cangiato nelle carni di Cristo, perchè mostrar di mangiare? A che cosa è ordinato il mangiamento del cibo se non alla nutrizione? Conveniva egli che il Redentore facesse una tale azione del prender cibo in bocca, masticarlo, mandarlo nello stomaco, senza ottenere il fine pel quale sono state fatte tutte queste operazioni? tutte queste operazioni sono inutili e vane, quando il cibo non dee cangiarsi in carne e sangue, non dee nutrire; egli veramente non è più cibo. In tal caso in vece di far passare il cibo per la bocca e pe' visceri, bastava che Cristo lo prendesse in mano: perocchè il toccarlo colla mano o con altra parte di corpo è il medesimo quando il cibo non dee trasmutarsi. Oltrecchè non ingeriva egli nelle menti degli Apostoli una cotale erronea opinione, se avesse mangiato senza nutrirsi di ciò che mangiava? perocchè essi, non ricevendo da lui spiegazioni di quell' atto, non doveano pensare se non che il mangiar di Cristo era simile al loro; il che se avvolgeva una gran meraviglia, non rimaneva però men credibile: quando di fatti portentosi e per poco incredibili erano circondati. Certo S. Pietro rimase altamente preso da questo fatto di aver Cristo mangiato dopo la Risurrezione, e nel discorso che fece in occasione del Battesimo di Cornelio lo rammenta dicendo: [...OMISSIS...] . Egli fa notare che Cristo dopo che risorse da morte mangiò e bevette (1), ed essi con lui; nè aggiunge già che questo mangiare e questo bere non era che un trapassare del cibo e della bevanda pel corpo di Cristo; ma non crede che noccia alle doti gloriose di Cristo risorto il lasciar credere che il cibo si tramutasse in Cristo come in noi si trasmuta: anzi questo veramente avvicina maggiormente Cristo a noi, e lo stato glorioso de' nostri corpi al presente, e ci mette in più stretta e famigliare conversazione colle cose eterne. Ma il mangiare di Cristo dopo risorto cogli Apostoli, il mangiare il pane ed il vino Eucaristici, che non dee certo esser mancato in sì sublimi conviti, non solo provava l' umanità di Cristo d' ugual natura alla nostra; ma ben anco la sua divinità per l' avveramento della sua profezia. In vero egli pare che in tali agapi, che Cristo risorto fece co' suoi discepoli, si avverasse quanto disse nell' ultima cena, che non avrebbe mangiato e bevuto con essi se non dopo venuto il regno di Dio, cioè dopo la sua Risurrezione, ma che allora [avrebbe] banchettato in nuova maniera al tutto maravigliosa con essi, e avrebbe con essi bevuto un vino nuovo. E questo vino nuovo, di cui s' era inebriato, rammentava Pietro dicendo, che « aveano mangiato e bevuto con Cristo dopo che era risorto da morte«. » Ed egli era quanto un dire che aveva ricevuto dentro di sè Cristo glorioso, a loro principio e fonte di ogni potestà e d' ogni bene; perocchè Cristo risorto è oltre ogni pensiero vivifico e onnipotente. Sicchè con quelle parole Pietro mostrava qual Cristo erasi loro comunicato, qual potere era il suo, qual dignità, qual tesoro di vita. Può recare qualche maraviglia il riflettere, che se Gesù Cristo glorioso incorpora a sè e comunica la vita sua alla sostanza del pane e del vino; dovrebbe la mole del suo corpo or crescere ed ora scemare. Ma nè pur questo può veramente nuocere all' opinione proposta, ove pure dirittamente s' intenda. E` certo che Gesù Cristo nella Risurrezione ha un corpo, che non perde più alcuna menoma particella, e sarebbe grandissimo errore dire il contrario; così pure certo è che quel corpo non ha bisogno di cosa alcuna. Ma tutto questo fermato, niente poi ripugna che quel corpo possa or ricevere qualche accessione, or deporre l' accessione ricevuta; purchè questo accesso e recesso di materia straniera si faccia senza ch' egli punto nè patisca o soffra, nè per cagione di suo bisogno; anzi forse per suo infinito diletto. Pur troppo egli avviene, che noi ci formiamo de' corpi gloriosi un concetto arbitrario e che gli attribuiamo non quello solo che nelle Scritture e nella tradizione troviamo, ma quello ancora che noi crediamo gli debba convenire per cagione di dignità e di perfezione; quando egli è veramente troppo alta cosa il conoscer dove questa dignità e perfezione consista, e quali cose a lei si convengano, quali sconvengano. Di che accade che il corpo de' comprensori si concepisca per poco senza moto e senza azione. All' opposto io credo, come ho poco sopra toccato, che anzi il corpo glorioso abbia un movimento ed un' azione infinitamente maggiore che non il corruttibile mortale; e che tutte le sue membra giovino a qualche uso, nè sieno inutili: sebben l' uso loro sia d' un modo, di cui non possiam avere esperienza, e scevro da ogni presente difetto. Egli appartiene dunque, a mio parere, alla eccellenza e sublime perfezione del corpo di Gesù Cristo risorto, ch' egli possa assimilare a sè tutto ciò ch' egli vuole, possa a tutto ciò ch' egli vuole accomunar la sua vita (1), e or ricevere crescimento, or il crescimento ricevuto lasciarlo a tutto suo piacimento; senza che menomamente egli con queste azioni e mutazioni o sofferisca, o perda di sua vita, di sua dignità, di sua beatitudine. Credo di più che come tutte le sue azioni, così questa massimamente di cui parliamo conferisca alla pienezza del gaudio che il rende beato. La seconda fra le apparenti difficoltà contro l' esposta dottrina viene cavata da quelle parole di Gesù Cristo: « il pane che io darò è la carne mia per la vita del mondo (2), » e da quell' altre: «« Questo è il mio corpo che per voi sarà dato« (1): » secondo le quali parole il pane Eucaristico è quel corpo di Cristo che ha patito sulla croce. Ora quella carne di Cristo nella quale si converte il pane, posta la precedente teoria, non parrebbe esser quella stessa che sulla croce ha patito. Dunque una tale teoria non si regge in piedi. Ma chi un po' considera anche questa è una difficoltà apparente e non più. Io bramo, che ben si considerino in primo luogo le parole di Cristo: « il pane che io darò è la carne mia che io DARO` per la vita del mondo«:« questo è il mio corpo, che per voi SARA` DATO«. » Queste parole sono del futuro. O si considerano adunque nella bocca di Cristo che aveva ancora da patire, e in tal caso si riferiscono al sacrificio cruento che egli far dovea del suo corpo; e non presentano alcuna difficoltà, perocchè Gesù Cristo nell' ultima cena andò a morire dopo aver celebrato ed essersi nutrito della santissima Eucaristia che distribuì a' suoi discepoli; sicchè potea ben dire, anche in un senso materialmente vero, che il pane Eucaristico che loro dava era quel suo corpo che avrebbe patito. O pure si considerano ripetute dal sacerdote sull' altare, e in tal caso quel tempo futuro SARA` DATO non può riferirsi che al sacrificio incruento; e anche ciò posto, quelle parole si verificano alla lettera e materialmente; imperocchè al sacrificio incruento appartengono appunto quelle particelle, se così mi si lascia dire, del corpo di Cristo, e quelle stille di sangue, in cui si convertì il pane ed il vino. Le parole adunque, che si allegano, un po' considerate, non fanno la minima opposizione a quanto fu proposto. Ma senza di ciò egli è certo che il corpo e il sangue Eucaristico è identico col corpo e col sangue di Gesù Cristo che patì in croce (2). Di più, egli è di fede che il corpo di Cristo che nacque di Maria Vergine, quello col quale Cristo fece tutte le azioni della sua vita privata, quello che fu battezzato da Giovanni, quello che digiunò, predicò, patì, risorse da morte, ascese al cielo e sussiste nell' Eucaristia, è uno stesso e identico corpo, e non più corpi: il dire il contrario sarebbe eresia (1). Per ciò come dicono i Padri, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è il medesimo corpo che ha patito sulla croce, così dicono parimente ch' egli è il medesimo corpo, che è nato da Maria Vergine (2); e le liturgie fanno insieme coll' Eucaristia commemorazione di tutti i misteri (3). Ora in che consiste questa IDENTITA` del corpo di Cristo che il rende quello medesimo nella stalla di Betlemme, sulla croce, nel celeste regno? Può ella forse ritrovarsi in una identità materiale, sicchè nè più nè meno quelle particelle che componevano il corpo di Cristo bambino fossero identiche a quelle che componevano il corpo di Cristo adulto, il corpo di Cristo spirato sulla croce o riposto nel sepolcro, e il corpo di Cristo glorioso? No certamente. E chi non sa, che il corpicciuolo di Cristo appena nato era composto di assai meno materia, che non sia il corpo di Cristo già fatto adulto, il qual pesava forse un sei o un dieci volte di più di quello? chi non sa che il corpo umano durante la vita presente separa continuamente da sè una moltitudine di particelle, che lascian d' essere vive, uscendo in sudore, e in altre naturali secrezioni; e che in compenso di quelle riceve e unisce a sè moltissime altre piccole parti inanimate colla respirazione e colla nutrizione ed altre funzioni vitali, le quali rese vive diventano vere carni? e che però ad ogni certo periodo di anni il corpo nostro o del tutto o certo nella massima sua parte si rifà e si rinnovella? e tuttavia è sempre il medesimo e identico corpo nostro? Però le particelle che componevano il corpo di Cristo nato e morto e risorto non erano tutte identiche; e pure il corpo era identico: l' IDENTITA` adunque di un corpo umano non consiste nell' identità delle particelle che lo compongono (1). Ove adunque consiste l' identità di un corpo umano vivente? Se non consiste nell' aver egli sempre quelle identiche particelle materialmente prese, se il mutare delle particelle onde si compone un corpo non cangia la sua identità e la sua numerica unità; convien dire che il fondamento dell' identità si debba riporre non in altro, ma nella vita, nel sentimento fondamentale (2). Un sentimento identico rimane sempre, il quale si esprime colla particella IO. L' IO è sempre quel medesimo: IO so di essere stato bambino, d' esser cresciuto e d' essere pervenuto, trapassando molte permutazioni, allo stato presente, sono sempre quel medesimo IO. E` celebre il verso che dice: « Tempora mutantur, et nos mutantur in illis » ma tuttavia questo NOS mantiene una identità assoluta, per mezzo a tutte le permutazioni; la quale è tanta, quanta l' incomunicabilità della persona. La persona è incomunicabile per la sua diffinizione (1): ella allo stesso modo è immutabile almeno nella sua radice. E qui si attenda bene, che quando noi facciamo derivare l' identità del corpo dall' identità della vita e del sentimento fondamentale, non parliamo solo del sentimento intellettivo, ma del sentimento animale che informa la materia. Questo sentimento e la vita da cui proviene rimangono sempre gli stessi, cioè egli è sempre uno stesso principio vitale quello che inanima il corpo; ora egli è cosa certa che un principio vitale che inanima alcune particelle di materia organizzate è al tutto indifferente a inanimar più tosto esse che altre particelle materialmente diverse, ma della stessa natura e forma, e componenti in tutto lo stesso organismo: anzi quel principio vitale non potrebbe in alcun modo distinguere la differenza di queste particelle che inanima, quando rispetto a lui sono al tutto uguali sia nella specie, sia nella forma, sia nella posizione, sia nella organizzazione, e non differiscono che nella numerica identità. Questo merita di essere attentamente considerato: l' identità materiale delle particelle inanimate dall' anima nostra è al tutto indipendente e cosa diversissima dall' identità del corpo vivo. Noi abbiamo osservato un fatto che può illustrare questo vero. Il moto nostro assoluto è per noi al tutto impercettibile, cioè il NOI non sofferisce alcuna alterazione dal moto relativo (2). Di qui apparisce manifestamente che l' identità del luogo , e l' identità del corpo vivo sono due identità al tutto indipendenti l' una dall' altra. Or come adunque io sono quell' IO identico tanto in un luogo come in un altro, nè sofferisco col mutar luogo (per moto assoluto) nè pure la più piccola e al tutto accidentale alterazione, così parimente egli è al tutto indifferente all' identità del mio corpo vivente che il mio principio vitale avvivi queste o quelle particelle, bensì differenti quanto all' individualità loro, ma quanto alla specie e nell' altre condizioni perfettamente uguali. Io credo di poter recare a questo proposito le parole di Gesù Cristo il quale disse « lo spirito è quello che vivifica: la carne nulla giova« (3): » quasi volesse dire che lo spirito vivificando la carne è quello che le dà unità, l' essere di uomo; quando senza lo spirito la carne non appartiene più, materialmente presa, all' umana natura, che nello spirito principalmente risiede. Se poi il principio animale è unificato col principio intellettivo e personale in tal caso l' identità del principio intellettivo diviene anch' esso fondamento dell' identità del corpo, di maniera che l' identità della persona costituisce l' identità del corpo da quella persona informato. Or poi in Gesù Cristo conviene ancora più su sollevarsi. Il principio intellettivo umano non costituisce persona in esso, ed è subordinato al Verbo persona divina che tutto il resto governa di ciò che sta nell' uomo7Dio; sicchè finalmente l' ultimo principio dell' identità del corpo di Gesù Cristo conviene cercarla non altrove che nella sua divinità (1) sempre identica, a cui esso corpo appartiene (2). Le particelle adunque che compongono il corpo non sono il corpo; la loro identità non è l' identità del corpo. Ma quando delle particelle sono rapite dallo spirito, per così dire appropriate a sè, accese di vita, incorporate in un corpo vivo, o in somma informate dall' identico spirito; esse non hanno un' esistenza a parte da lui: formano un' unità con quello spirito e con tutto il corpo vivente: non sono due corpi ma un solo: ed è l' identico corpo che esisteva e viveva prima di ricevere in sè quelle nuove molecole. Le quali dottrine ben poste, dico che il corpo di Gesù Cristo nella Santissima Eucaristia è veramente identico con quello spirato sulla croce; perocchè quell' accessione ch' egli riceve coll' Eucaristico ineffabile alimento con esso si perde, confonde, immedesima, diventa una cosa sola fusa con esso; un' anima stessa l' avviva, una medesima vita partecipa, gode d' un medesimo unico impartibile vital sentimento, non venendo nè l' organismo del corpo nè alcun membro rinnovato o mutato. E qui a chiarimento e conferma maggiore delle cose dette osserviamo un' altra espressione che usano i Padri a determinare l' identità del corpo di Cristo nell' Eucaristia. Essi dicono che questo corpo che sta nell' Eucaristia è il corpo proprio del Verbo. [...OMISSIS...] S. Isidoro Pelusiota lo chiama pure corpo « PROPRIO del Verbo incarnato« (3). » Nell' antichissimo rito di amministrare la Santissima Eucaristia riferito da Tertulliano e da altri, diceva il sacro ministro « ricevi il corpo di Cristo » ovvero «« è il VERO E PROPRIO corpo di Cristo« (4). » Ora questa maniera di dire è tale, che per essa si pone nella persona del Verbo il fondamento dell' identità del corpo. Se dunque il Verbo, mediante una soprannaturale operazione, rapisce a sè e s' appropria la sostanza del pane, questa sostanza col corpo permanente di Cristo divien pure corpo vero e proprio del Verbo, non altrimenti che il corpo permanente di lui, perocchè è dallo stesso Verbo assunta, informata e d' una sola vita accesa e una cosa fatta con esso corpo che prima della consecrazione il Verbo si aveva. Questa difficoltà si mostra essere solo apparente e non solida da quello che fu detto di sopra. Le particelle del pane e del vino convertite nelle carni e nel sangue di Cristo non si distinguono già dal rimanente del corpo; ma formano una cosa sola e impartibile col corpo ove s' inseriscono. Nè Cristo già disse:« queste sono quelle particelle di mio corpo che ebbi in nascendo dalla Vergine; ma disse «« questo è il mio corpo« » volendo significare l' identità del corpo, non l' identità delle particelle componenti il corpo. Così non disse già queste sone le particelle che« componevano il mio sangue quando io nacqui«; ma disse bensì « questo è il mio sangue«, » volendo significare l' identità del suo sangue; il quale fu sempre identico anco emettendo o ritenendo quelle particelle divise, perchè fu continuamente informato da una stessa vita o certo da una stessa divina persona (1). Nè si può dire che non si trovi tutto il corpo di Cristo nel Sacramento Eucaristico in virtù delle parole consecratorie, ma per sola concomitanza. Imperciocchè come poteva il corpo di Cristo alimentarsi per così dire delle particelle del pane e del vino se ivi tutto non fosse presente, e non assumesse in sè quelle particelle? Si trova dunque presente nell' Eucaristico pane tutto il corpo di Cristo ex vi Sacramenti, e non per sola concomitanza; perchè non potrebbe succedere l' ineffabile e divina nutrizione, che segue in virtù delle parole, e che le parole, per così dire, comandano, se non fosse ivi tutto il corpo di Cristo, e in sè non assumesse e transustanziasse il pane ed il vino. Laonde acciocchè si avveri, che in virtù e in forza delle parole sacramentali tutto il corpo di Cristo stia nell' Eucaristia, non è mica necessario che il pane ed il vino si cangi in tutto il corpo e il sangue di Cristo, ma solo nel corpo e nel sangue di Cristo, incorporandosi e unificandosi con esso il corpo e con esso il sangue di Cristo; e ciò mediante quella operazione ineffabile, che è fatta da tutto il corpo glorioso del divino trionfatore. Il che conviene a capello colle parole del sacrosanto Concilio di Trento. Perocchè esso assistito dallo Spirito Santo definì bensì che « sotto entrambe le specie e sotto ogni parte di ciascuna specie si contiene tutto ed intero Cristo« (1); » ma parlando della transustanziazione non definì mica che il pane ed il vino, ed ogni particella del pane e del vino si convertisse in TUTTO il corpo e il sangue di Cristo, ma solo che « per la consecrazione del pane e del vino avviene la conversione di TUTTA la sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo Signor nostro, e di TUTTA la sostanza del vino nella sostanza del sangue di lui« (2): » di maniera che è bensì di fede, che tutta la sostanza del pane e del vino si converta; ma non è già di fede che si converta in tutto il corpo e in tutto il sangue di Cristo; sebbene a tutto il corpo e a tutto il sangue di Cristo si contemperi e s' immedesimi. Il perchè secondo la fede cristiana cattolica è certo: 1. Che tutto il corpo e tutto il sangue di Cristo si trova nella Santissima Eucaristia. 2. Che egli vi si trova in virtù delle sacramentali parole. 3. Che tutta la sostanza del pane e del vino si converte. 4. Ma non che si converte in tutte le parti del corpo e del sangue di Cristo; sebbene si fonda e si unifichi con tutto il corpo e con tutto il sangue. Le quali quattro cose s' accordano a pienissimo colla sentenza da noi dichiarata. La qual sentenza riceve maggior lume e fermezza da quella dottrina teologica la quale insegna che« sotto le specie eucaristiche sta bensì in forza delle parole tutto Cristo quanto alla sostanza, ma non quanto alla dimensione«. Udiamo come una sì fatta dottrina sia spiegata da S. Tommaso: [...OMISSIS...] . E s' attenda bene alla similitudine che adopera il santo Dottore a render chiaro questo concetto: [...OMISSIS...] . Or dunque secondo il santo Dottore, come sotto ogni parte dell' aria non istà tutta la quantità dell' aria, ma quella parte che ci sta è però aria, n' ha la natura e niente manca a questa natura, e però è tutta la natura; e come sotto ogni parte di pane, non istà mica tutto il pane quant' egli ce n' ha al mondo, ma bensì quello che ci sta ha la natura di pane e tutta la natura di pane; così medesimamente sotto la specie del pane e del vino, cioè sotto quella piccola dimensione che da esse specie viene determinata nello spazio, non istà mica tutta la grandezza del corpo di Cristo; ma quello che ci sta è vero corpo di Cristo, e vi ha tutta la natura, ed è congiunto col rimanente del corpo; il quale vi sta per concomitanza, cioè perchè è dalle sue parti inseparabile. Indi è che S. Tommaso spiega come tutto il corpo di Cristo vi abbia intero tanto in tutta l' ostia, come nelle sue parti, sieno queste unite o divise mediante lo spezzamento dell' ostia. Perocchè in ciascuna parte vi è egualmente la natura del corpo di Cristo, non però la stessa quantità di esso corpo; nè tuttavia ci manca cosa alcuna; perocchè quella quantità la quale non ci sarebbe in virtù del Sacramento, non manca mai in virtù della concomitanza. E qui sottilmente osserva il grand' uomo errar quelli i quali dicono esser Cristo tutto in ciascuna parte dell' ostia, quand' è divisa, e non quand' è unita; usando la similitudine dello specchio, che fatto in pezzi, rende ogni pezzo il volto intero dell' uomo che lo riguarda. [...OMISSIS...] : ma qui non è che una consecrazione sola, per la « quale avviene il corpo di Cristo in questo Sacramento« (1). » Non è dunque che ogni particella contenga il corpo di Cristo quanto è lungo e largo; ma contiene la sostanza del corpo di Cristo, le dimensioni del quale, sebbene per sè eccedenti lo spazietto segnato da quelle particelle, vengono ad esserci insensibilmente per una reale concomitanza (2). Quindi è che tanto nelle liturgie, quanto ne' Padri, si paragona la transustanziazione del pane e del vino, alla trasmutazione dell' acqua in vino operata da Cristo nelle nozze di Cana (1). Or quell' acqua fu bensì della natura del vino, ma non fu mutata in un vino determinato e preesistente, e molto meno in tutto il vino che al mondo vi avesse. Come adunque la natura dell' acqua cessò e sopravvenne quella del vino, ma non tutto il vino quanto era quello ch' era nel mondo, ma un vino nuovo che non ci era; così il pane ed il vino si convertì nella sostanza del corpo di Cristo, senza che ci sia bisogno dire, che si convertisse nelle particelle preesistenti che componevano il corpo di Cristo; giacchè si parla di corpo identico e non di particelle identiche nelle parole della consecrazione « questo è il mio corpo«. » Or tali dottrine se non confermano, certo aiutano mirabilmente ad intendere, e rendere assai probabile, almeno, la sentenza nostra, che la transustanziazione avvenga per una cotal nutrizione ineffabile e soprannaturale. Questa difficoltà ci pare aver noi già dissipato quando notammo l' errore di Durando (2). Questo errore consiste nell' aver voluto che nella consecrazione rimanesse il soggetto, sicchè vi avesse un soggetto nella santissima Eucaristia che fosse pane e vino. Questo errore è lontanissimo del nostro sistema, e dal concetto di una vera soprannaturale nutrizione. E veramente nella nutrizione tutta la sostanza del pane e del vino cessa interamente dall' esser sostanza del pane e del vino e diventa sostanza della carne e del sangue di Cristo: il soggetto stesso adunque si cangia e si trasmuta. La qual dottrina riceve maggior evidenza da una dottrina de' moderni fisiologi, i quali mantengono la vita sia una qualità inerente all' intima materia; sicchè la materia stessa elementare ricevendo la vita si cangia e diventa quello che non era prima, essendo divenuto il soggetto stesso in una materia viva diverso da quello di una materia inanimata. Ma nè pur tanto richiede, come noi richiediamo, acciocchè si possa dire il soggetto mutato, il venerabile Bellarmino; imperciocchè egli scrive: [...OMISSIS...] . Dicevamo che nella conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo vivo o certo informato dalla divinità, noi veggiamo un cangiamento totale del soggetto, maggiore che nella trasmutazione del legno nel fuoco e dell' acqua nell' aere: perocchè in queste permutazioni ciò che s' è cangiato è propriamente la forma sostanziale, quando l' elementare materia rimase la stessa; e tuttavia pare, che il Bellarmino s' accontenti della distruzione del soggetto in quel senso che in tali mutazioni naturali si avvera. Egli pare a noi, che assai più perfetta sia la conversione del soggetto che accade nella consecrazione, intesa a quel modo come noi facevamo. Imperocchè al modo nostro le stesse particelle elementari della materia hanno subito cangiamento, la stessa essenza loro è trasmutata, essendosi resa viva: il quale elevamento all' essere vitale è forse il massimo e il più intimo cangiamento possibile, e tale a cui solo pienissimamente conviene il vocabolo consecrato dall' uso della Chiesa di« transustanziazione«. E così si avvera quello che dice S. Tommaso, cioè che sebbene si cangi la forma e la materia, tuttavia [...OMISSIS...] Ma contro l' esposta dottrina sta una sentenza la quale non si contenta, che nell' Eucaristia vi abbia l' identità del corpo e del sangue di Cristo, ma vuole di più che vi sia l' identità delle particelle materialmente prese che compongono il corpo di Cristo; la quale identità è cosa diversa da quella prima, come vedemmo. Questa sentenza volendosi rendere con chiarezza consta di due proposizioni. 1. Il pane e il vino si converte in quelle particelle del corpo e del sangue di Cristo, che prima della consecrazione stanno nel corpo glorioso di Cristo. 2. Queste particelle sono identiche a quelle, che ebbe il corpo di Cristo in nascendo, in tutti i momenti della sua vita, nella morte, nel sepolcro. Si noti qui che io non attribuisco ora una tale sentenza a nessun teologo particolare; perocchè ne' teologi non viene espressa colle parole colle quali io la riferisco; e perciò mi basta di confutarla come una sentenza diversa dalla mia, senza imputarla a nessuno. Dico però che questa sentenza non si trova ne' Padri antichi; ma che ella comincia a comparire, per quanto a me sembra, negli scolastici; e vien riprodotta ne' libri de' moderni. Se non erro però, ella nasce dal non avere abbastanza distinto l' identità delle particelle componenti il corpo: il che mi si mostra dal vedere come essi insistono sulla identità del corpo, e non nominano le particelle di cui questo è composto, se non in ordine alla identità di lui; di che avviene che non mi assicuro nè manco d' imputar loro risolutamente l' accennata sentenza. La quale, avendo noi ridotte a due proposizioni, sì rispetto all' una come all' altra discuteremo; e prima mostreremo della seconda, che non si può mantenere: poi esporremo le gravi e secondo noi insolubili difficoltà, che stanno contro alla prima. Questo risulta manifesto da ciò che è detto. E` cosa certa che il corpo umano nella vita presente perde continuamente delle particelle di cui è composto, le quali separandosi da lui perdon la vita, di cui a lui unite erano informate; come pure è certo ch' egli riceve continuamente delle altre particelle che prima di unirsi con lui erano morte, e cui la vita sua egli comunica. Or questa è legge della natura umana nella vita presente, è conseguenza delle funzioni animali nel presente stato di cose; nè la natura umana in Gesù Cristo si sottrasse a tali leggi, conseguenza delle quali fu pure l' esser nato Cristo bambino, e poi cresciuto fino a perfetta misura. Dunque anche in Cristo vivente quaggiù ebbe luogo la stessa continua permutazione delle particelle di suo corpo: e però le particelle che componevano il suo corpo divino nella presente vita non erano identiche in tutti i momenti del viver suo. Or come questa emanazione di particelle dal corpo di Cristo dovette continuarsi in lui fino all' ultimo sospiro, massime che nella passione oltre il sangue dovette effondere molto sudore e succedere in lui altre tenui separazioni; così il corpo morto di Cristo non dovette constare di tutte quelle identiche particelle di cui constava il corpo vivo. Ma nel corpo morto di Cristo mancava il sangue, mancava il sudore sparso e l' altre materie da lui separatisi prima di morire o morendo; le piaghe erano aperte. A tutto ciò fu riparato nella Risurrezione: perocchè il corpo risorto non potea mancare del sangue conveniente e di tutti gli altri fluidi che ad un corpo perfetto si convengono: le stesse piaghe furono cicatrizzate, il che si suol fare con quel rimettimento di carne col quale si rammargina la ferita e si copre d' una carne e pelle nuova ivi quasi direi rifiorita. Or tutto questo non è verisimile nè concepibile che si facesse senza aggiungere niuna nuova particella al corpo morto di Cristo. Dunque il corpo di Cristo risorto dovea avere più particelle che non il divino cadavere; come questo dovea averne meno, che il corpo vivo e nutrito nell' Eucaristica cena. Egli è adunque assurdo il credere che le particelle che componevano il corpo di Cristo nato, vivuto, morto, risorto fossero tutte identicamente le stesse. E tuttavia è certa l' identità del corpo di Cristo nel presepio, sulla croce, alla destra del Padre; come è certa l' identità del mio corpo in fasce, col presente e con quello che avrò nel sepolcro. Tutto ciò è consentaneo ai principi della naturale filosofia; ed è anco un articolo di fede che Cristo abbia avuto, ed abbia un solo ed identico corpo. Questo consegue da' precedenti. Se le particelle componenti il corpo di Cristo si mutarono, Se il corpo non si mutò mai dalla sua identità, Dunque l' identità di questo non è legata all' identità delle molecole o particelle che lo compongono. Questa proposizione ha dimostrazione fermissima nelle parole di Cristo, che come ho toccato di sopra, dicono: « questo è il mio corpo« » e non disse:« queste sono le particelle identiche di cui il mio corpo è composto«. Ed ella è consentanea altresì alle precedenti proposizioni. Perocchè, se si vuole, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia sia composto delle identiche particelle onde constava il corpo di Cristo; conviene assegnare un momento più tosto che un altro della vita di Cristo, in cui si consideri il suo corpo; perocchè da un momento all' altro le particelle si trovan mutate: e l' assegnamento di questo istante non potrebbe essere che arbitrario. Si dirà, il corpo di Cristo nell' Eucaristia consta di quelle identiche particelle (materialmente prese) di cui consta ora il corpo suo glorioso in cielo nè più nè meno: e se si fosse fatta la consecrazione in altro tempo (come quella dell' ultima cena) consterebbe di quelle particelle, che aveva allora il corpo di Cristo. Rispondo: che il corpo di Cristo che è presente nell' Eucaristia sia in istato glorioso, come quello che è in cielo, questo è fuori d' ogni dubbio: ma che le particelle che compongono il corpo di Cristo nell' Eucaristia sieno nè più nè meno quelle che ebbe nell' atto della sua Risurrezione, questo abbisogna di prova; e come voi mi provate ciò? Nessun' altra prova dar mi potete, se non che l' Eucaristia dee essere l' identico corpo di Cristo; e che voi vedete in questo solo modo verificarsi la perfetta identità. Perocchè il dogma sta tutto nell' identità di questo corpo, espressa in quelle parole: « questo è il mio corpo«. » Ottimamente, ma avvertite, ch' egli è di fede ugualmente, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è identico col corpo di Cristo in cielo, e che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è identico col corpo di Cristo bambino, col corpo di Cristo adulto, e massimamente col corpo di Cristo paziente in croce, col corpo di Cristo riposto nel sepolcro. Fermiamoci a considerare l' identità necessaria, che dee avere il corpo e il sangue di Cristo nell' Eucaristia col corpo di Cristo morto, col sangue di Cristo sparso per noi. Questa identità è principalmente notata in quelle parole: [...OMISSIS...] . E veramente il sacrificio Eucaristico è l' identico sacrificio della croce che incessantemente si rinnovella; e però il corpo, che si sacrifica, il sangue che misticamente si spande dee essere identico al corpo crocefisso, al sangue effuso nel sacrificio cruento. Per questo i Padri (1) e le liturgie (2) così di frequente parlando dell' Eucaristia toccano questo punto dell' identità del corpo di Cristo sotto le specie del pane e del vino, e del corpo di Cristo in croce. Ora certa cosa è che le particelle che compongono il corpo di Cristo glorioso non sono le identiche numericamente prese con quelle onde si componeva il corpo di Cristo o bambino, o adulto, o vivo ancora sulla croce; perocchè quel corpo divino e perdette e ricevette nuove particelle. Se adunque questa sottrazione e questa addizione di particelle materiali non pregiudica punto, che non vi abbia una verissima identità fra il corpo di Cristo nell' Eucarestia e il corpo di Cristo in fasce, in croce, nel sepolcro; egli è manifesto che l' accessione di alcune particelle al corpo glorioso non toglie punto nè poco la sua identità; nè impedisce che il corpo di Cristo nell' Eucarestia sia identico al corpo di Cristo risorto e sedente alla destra del Padre; perocchè queste particelle, come si diceva, niente mutano di essenziale in esso corpo del Redentore. Il che tanto più facilmente si dee concedere, quanto che si ritiene per fermissimo, che il corpo di Cristo glorioso non perde cosa alcuna di ciò che ha per sè; anzi noi riputeremmo empietà l' affermare, che perdesse qualche cosa di quello che ricevette in risorgendo, eccetto ciò che nell' Eucarestia gli viene aggiunto, il che egli anco depone senza alcuna sua pena o lesione, o diminuzione di sua integrità perfettissima. Egli è dunque certo e dimostrato che non si può sostenere la seconda delle due proposizioni, nella quale facemmo consistere quell' opinione contraria alla nostra che noi combattiamo: [...OMISSIS...] . Ora confesso che questa sentenza conta per sè delle autorità ragguardevolissime, le quali molto mi atterrirono e stolsero sul principio dal sostenere la contraria. Considerando però più maturamente mi rassicurai sulle seguenti tre ragioni: 1. Nessuna autorità io potei rinvenire chiaramente favorevole ad una tale sentenza anteriore agli scolastici. 2. Molte autorità contrarie ad essa a me pare di avere riscontrate ne' Padri più antichi e nella stessa Sacra Scrittura. 3. Quella sentenza involge delle difficoltà insuperabili ad ogni ragione teologica, sempre per quanto a me ne parve. Or avendo io già indicati i luoghi della Scrittura e de' Padri che stanno per la sentenza da me abbracciata (1) torrò qui a metter fuori le gravissime difficoltà, che a me si presentano come invincibili; e mi fanno abbandonare quella sentenza, per seguitar l' altra che ho esposta. E la prima difficoltà mi nasce da questo, che nel sistema degli avversarii il pane ed il vino rimarrebbero annichilati, cosa contro la dottrina comune e contro quella ammessa dagli avversarii medesimi. Or a veder ciò conviene rimuovere ogni vana sottigliezza e definire le parole secondo il senso comune degli uomini. Cominciamo adunque dal porre una vera e semplice definizione dell' annichilamento. Definizione del concetto di annichilamento . - « La cessazione intera dell' essere reale di una cosa si chiama annichilamento«. Osservazioni sull' indicata definizione. - Il nulla è opposto all' essere: la cessazione dell' essere è il nulla. Nelle cose si distingue l' essere e il modo dell' essere. La cessazion di un modo di essere non è ancora annichilamento: deve cessare l' essere stesso, e per conseguente tutti i suoi modi, tutta la possibilità de' suoi modi, perchè una cosa sussistente dicasi annichilita. Per ciò quando si dice che viene annichilito un modo di essere, un accidente, per esempio una forma o un colore, non si parla con tutta proprietà, ma si attribuisce al modo di essere una parola che di natura sua va applicata all' essere stesso. In secondo luogo la parola annichilamento esprime l' effetto di un agente senza relazione alla volontà o al modo di operare dell' agente. Poniamo che Iddio volesse annichilare un essere da lui creato; Iddio solo ha veramente questo potere di annichilare, come egli solo ha quel di creare, sebbene egli usi di questo secondo, e non mai di quel primo. In questa supposizione, l' azione di Dio non sarebbe già limitata a quel solo fatto dell' annichilamento; perocchè in Dio non può cadere che un atto solo e purissimo. Con quello stesso atto adunque egli creerebbe il mondo, collo stesso identico atto lo conserverebbe e governerebbe, e coll' atto pure identicamente il medesimo annichilerebbe quell' ente, che vorrebbe annichilare. Ora sebbene Iddio nell' operare abbia un fine solo e semplicissimo e con una sola azione operi ciò che fa; tuttavia l' effetto che questa azione ottiene in quell' ente che verrebbe annichilato, si chiamerebbe in senso vero e proprio annichilamento; perocchè questa parola, come dicevo, non involge alcuna relazione col modo dell' azione dell' agente, ma si restringe a dimostrare l' effetto quale si ottiene nell' ente che cessa di essere. Che se fosse altramente non potrebbe mai essere possibile l' annichilamento; perocchè è certo, 1. che niuno può annichilare le cose eccetto Dio, 2. è ugualmente certo che se Iddio annichilasse un ente la sua azione non si limiterebbe nè finirebbe in questo solo effetto, poichè l' opera di Dio è semplice, e con un atto solo e purissimo fa tutte le cose. Dunque perchè si trovi il concetto dell' annichilamento non è necessario imaginare un' azione limitata, la quale termini e si restringa nel suo operare in quel solo effetto della distruzione dell' essere, e non proceda punto più innanzi. Indi non posso io a meno di dipartirmi dal sentimento del gran Bellarmino circa il concetto dell' annichilamento. Pretende questo grand' uomo che l' annichilamento esiga che l' azione che fa cessare l' essere di una cosa debba cessare in questo effetto; e che se l' azione stessa, dopo avere annichilato un ente, ne crea un altro, non si abbia più il concetto dell' annichilazione. Ma parlando sempre col più profondo rispetto d' un uomo santo e sapiente io non posso vedere in ciò che una pura sottigliezza d' ingegno, a cui ricorse il Bellarmino nella persuasione che di lei avesse bisogno la sentenza cattolica intorno all' Eucarestia. Ma questa non ha alcun bisogno di ciò; ed anzi ella riceverebbe pregiudizio non leggero dall' ammettere, che il « cessamento dell' essere di una cosa non sia annichilamento per questo solo che l' azione che fa cessare l' essere non termini in questa cessazione, ma produca qualche altro effetto«. » Ogni qualvolta adunque cessa l' essere reale di una cosa interamente ella è annichilata, senza bisogno poi di cercare il modo onde fu annichilata, e se avvenne con un' azione terminante in tale distruzione o procedente a qualche altro effetto. Or di qui viene la conseguenza evidente che non può stare la sentenza de' nostri avversarii. Perocchè dicendo essi che il pane ed il vino si cangiano in quelle identiche particelle, che ha il corpo di Cristo prima della consecrazione; ne seguita ineluttabilmente che il pane ed il vino rimarrebbero annichilati . Ma questo pugna al tutto coi principii della teologia cristiana. Perocchè secondo questi principii è ammesso per certo da tutti e da' nostri avversarii stessi: 1. Che Iddio non distrugge alcuna cosa di tutto ciò che ha creato secondo quelle parole della Scrittura: [...OMISSIS...] . 2. Di che parimente si tiene per certissimo non essere annichilato nè pure il pane ed il vino mediante la consecrazione, ma trasmutato nel corpo e nel sangue di Cristo. Conviene adunque muovere il ragionamento intorno all' Eucarestia da questo principio teologico fuori di controversia:« che il pane ed il vino nella consecrazione non viene annichilato«. Ammesso questo principio, si consideri se v' ha una via da sostenere che il pane ed il vino si converta nelle identiche particelle che compongono il corpo di Cristo innanzi la consecrazione, senza che quel pane e quel vino rimanga per questo annichilato. Il Bellarmino vide che queste due cose non si potevano conciliare insieme. Egli dunque si appose a mutare il concetto dell' annichilazione. [...OMISSIS...] Chi non sente avervi qui una sottigliezza, e nulla più? Sia pure che l' azione non termini al niente; ma il pane ed il vino non rimane ugualmente annichilato, sebbene dopo la loro annichilazione continui l' agente nell' operare? che fa mai al pane e al vino quell' azione che continua, dopo che essi non sono più? L' effetto che avviene nel pane e nel vino è il medesimo o sia che l' azione continui, o che ivi termini: questo effetto è la cessazione intera dell' essere del pane e del vino. Dunque è una vera annichilazione nella opinione difesa dal Bellarmino (2). Questi illustra con un esempio naturale il suo concetto dell' annichilazione dicendo: [...OMISSIS...] . Ma qui sono a farsi più osservazioni; eccone alcune: 1. Le parole« annichilazione, annichilare« ecc., non possono aver luogo con piena proprietà parlandosi di una distruzione di forma, perocchè esse valgono, come abbiam detto, a significare la cessazione dell' essere, anzichè del modo dell' essere. 2. Quando si voglia applicare la parola annichilare ad esprimere la distruzione della forma, vorrei io ben sapere perchè non si potrà dire, che la forma dell' acqua, essendosi ella cangiata in vapore, non sia veramente annichilata? che cosa esprime questa parola, secondo la stessa etimologia, se non ridotta al niente? Se dunque la forma dell' acqua è ridotta al niente, non esiste più del tutto: onde mai non si potrà dire ch' ella siasi annichilata? non è ella una vera sottigliezza scolastica il dire, che sebbene quella forma sia ridotta al niente, tuttavia non è annichilata, perchè l' azione che la ridusse al niente continua, terminando in un' altra forma? che distinzione arbitraria e sottile non è questa, colla quale si vorrebbe stabilire che altro è ridursi al niente una cosa, altro è annichilarsi? 3. Non si dà e non si può dare mai il caso, che venga distrutta la forma di una materia, senza che questa materia non prenda un' altra forma, appunto perchè la materia senza forma non istà; e qui si suppone, che la materia non sia ridotta al niente. Il nostro rispettabile autore introdusse dunque un esempio nel quale, secondo le sue dottrine, l' annichilamento quanto alla forma è impossibile; perocchè è impossibile che si annichili ogni forma, rimanendo la materia. L' esempio adunque non era idoneo a far conoscere la distinzione fra l' annichilare e il ridurre al niente; perocchè non può il Bellarmino indicare quando sia una forma annichilata, non cadendo in esse (secondo lui) l' annichilamento. 4. Nell' esempio recato non sarebbe vero che il cangiamento dell' acqua in aria si farebbe per una azione sola, da un solo agente e rimanendo le stesse disposizioni; anzi è da dire che la trasformazione dell' acqua in aere è una serie di azioni che le une alle altre si succedono, sono più gli agenti, più i modi loro di operare e le disposizioni nelle quali operano. Non può adunque convenire l' esempio addotto ad aggiungere o chiarezza o forza all' opinione che confutiamo. 5. Finalmente, nell' esempio indicato la distruzione di una forma, è il medesimo che la formazione di un' altra forma; conciossiachè senza forma non può stare la materia. Allo stesso modo adunque che si dice l' una distruggersi, l' altra può dirsi prodursi nell' esser suo. All' incontro nell' Eucarestia non potrebbe dirsi nella sentenza degli avversarii, che il corpo di Cristo vien prodotto nello stesso modo e nello stesso senso in cui si dice che il pane ed il vino viene distrutto. L' esempio adunque non va di pari. Ma cerchiamo di mostrare ancora l' inutilità della distinzione, che si vorrebbe introdurre fra l' annichilare e il ridurre al niente . A qual fine si pone una tal distinzione? Per potere evitare lo scoglio, che il pane ed il vino nella consecrazione si annichilino. Ma coll' evitare questa parola si evita però l' inconveniente che con quella parola si esprime? No, perocchè quell' inconveniente sta anche senza quella parola, e con altre parole può essere significato. E veramente i Teologi a provare che niente viene annichilato di tutto ciò che Iddio una volta ha cavato dal nulla usano degli argomenti or cavati dall' autorità della Scrittura, ora dalla ragione teologica; e gli uni e gli altri mostrano qual sia l' inconveniente che si vuol evitare, collo stabilire la durazione sempiterna delle cose create, senza alcun bisogno di adoperare questa parola di annichilazione. A ragion d' esempio, una delle testimonianze scritturali, che provano la durazione degli esseri è questo luogo dell' Ecclesiaste « ho imparato che tutte le opere che ha fatto Iddio perseverano in perpetuo« (1). » Qui non si usa la parola annichilamento; ma il concetto è tuttavia chiarissimo. Sia adunque, se così si vuole, che l' essere del pane e del vino non si annichili, ma si confessa però che dopo la consecrazione quell' essere è ridotto al niente: dunque quest' opera di Dio non persevera in eterno, contro ciò che pone quel luogo chiarissimo delle Scritture. Nel nostro sistema all' incontro sebbene la sostanza sia trasmutata e non sia più sostanza di pane e di vino ma sostanza del corpo di Cristo; tuttavia niun essere creato è perito, ma solo immensamente nobilitato. Ci si dica di grazia, supponiamo si facesse l' inventario di tutti gli esseri da Dio creati. Or nel sistema degli avversarii nostri dopo la consecrazione converrebbe scancellare dal novero di detti esseri il pane ed il vino; perocchè non basta dire che il corpo di Cristo è in una maniera nuova: egli non avrebbe ricevuto alcuna accessione, sarebbe adunque mancante nel novero delle cose un essere sostanziale, e non si sarebbe aggiunto tutto al più che un cotal modo di essere, se pur questo stesso modo nuovo di essere si potesse (in detto sistema) sostenere. Veniamo alla ragion teologica. Ecco come S. Tommaso prova, che Dio non riduce al niente cosa alcuna delle già formate. [...OMISSIS...] Ora il pane ed il vino sarebbero esseri creati, che cesserebbero affatto, come detto è, nella consecrazione; e però non sarebbe in essa dimostramento dell' infinita bontà di Dio. All' opposto quanto la bontà non si dimostra nel sistema nostro, nel quale queste creature divine, voglio dire il pane ed il vino, vengono sublimati sino a mescersi e transustanziarsi veramente nelle carni e nel sangue glorioso di Gesù Cristo? Una seconda difficoltà per me nasce gravissima dal concetto di TRANSUSTANZIAZIONE. Conviene aver presente esser cosa pienamente decisa dal sacro santo Concilio di Trento, che la parola transustanziazione conviene all' Eucarestia in un senso proprio, conveniente, attissimo a significare « la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo « (2). » Or dunque non è lecito d' interpretare questa parola di transustanziazione in un senso lato e non proprio; ma si dee intendere per essa rigorosamente una conversione della sostanza del pane e del vino, nella sostanza del corpo e del sangue. Ora nella nostra sentenza il concetto di transustanziazione si ritrova avverato a rigore. Ma questo concetto io nol ritrovo nella sentenza degli avversari. E veramente essi fanno consistere la transustanziazione in un' operazione, in virtù della quale vien ridotta al niente la sostanza del pane e del vino, e sotto le specie del pane e del vino stesso si colloca il corpo di Cristo. Ma in tutto questo io non veggo che due operazioni successive, cioè 1. l' annichilazione del pane e del vino, del quale non rimangono che gli accidenti, 2. l' adducimento del corpo e del sangue di Cristo nel posto della sostanza del pane e del vino annichilato. Ora gli avversari sostengono all' opposto: 1. Che questa non è che una sola operazione, la qual termina coll' adducimento del corpo e del sangue di Cristo sotto le specie del pane e del vino. 2. Che quest' unica operazione si chiama propriamente e idoneamente transustanziazione (3). Ma io non posso accordare loro, come dicevo, nè l' una nè l' altra di queste due proposizioni, parendomi, che le operazioni o per dir meglio gli effetti sieno due e distintissimi, e che ad essi manchi il vero concetto, che noi dobbiamo gelosamente conservare di TRANSUSTANZIAZIONE, nel quale solo sta la cattolica verità. Vediamo adunque prima se nel sistema degli avversari nella consecrazione interverrebbe una azione sola o due: il Bellarmino ne sente tutta la difficoltà, ed ecco come a sè la propone, e come le risponde: [...OMISSIS...] . Questa obbiezione è fortissima; perocchè avea concesso il Bellarmino stesso che « la conversione in quanto distrugge il pane non è tanto un' azione quanto negazione di azione. Perocchè Dio distrugge il pane cessando dal conservarlo« (2). » Ora negazione di azione ed azione sono opposti come il sì e il no: come due contrarii si potranno [chiamare] una sola e semplice azione? Non trova altro rifugio il Bellarmino, che quello di ricorrere alla unità della volontà divina. [...OMISSIS...] Ciascun uomo spassionato e imparziale giudichi se questa risposta possa soddisfare. Non è egli evidente, che se si vuol ricorrere all' unità della volizione divina non si troverebbe giammai moltiplicità di azioni, perocchè in Dio tutte le azioni ch' egli fa è un' azione sola, ed ha un solo semplicissimo fine di suo operare? ma basterà questo a provare che la transustanziazione sia un' azione sola? Supponiamo che il pane sostenesse mille trasmutazioni diverse, per un miracolo della divina onnipotenza, non sarebbero sempre in Dio operate con una sola azione? Il Bellarmino qui prova troppo; perchè il suo argomento non solo proverebbe, che si dà un' azione sola nella consecrazione, ma in tutto l' universo, e che non si può dare di più che un' azione sola. Non è adunque dal fine di Dio, e dal modo dell' operar suo, che noi dobbiamo rilevare se l' azione sia una o più. Dobbiamo considerarla in sè stessa quest' azione, dobbiamo considerarla in ciò che produce; e se l' effetto è un solo diremo una l' azione, ma diremo che molte azioni si ravvisano in molti effetti distinti interamente fra loro, e l' un de' quali non è causa efficiente dell' altro. Conciossiachè, quando si parla dell' unità di azione che si trova nella transustanziazione non si fa questo discorso per sapere come l' azione avvenga in Dio, ma come si faccia nel soggetto stesso in cui viene l' azione. Il Bellarmino costituisce veramente due soggetti nella transustanziazione interamente diversi anco nell' essere; perocchè dice: « il soggetto nel quale si riceve l' azione divina di questa conversione parte è il pane, parte il corpo di Cristo« (1). » Ora qui si dice« il soggetto« e non dice« i soggetti« per far credere che non vi abbia che un soggetto solo; e l' impegno di far credere ciò mostra che il Bellarmino sentiva la necessità che un solo fosse radicalmente il soggetto della conversione almeno quanto all' essere comune, come sentiva la necessità che una sola azione v' intervenisse. Mi dica ciascuno con semplice e retta mente, se nel pane e nel corpo di Cristo nel sistema del Bellarmino possa notarsi un solo soggetto nè pure in quanto all' essere, e non anzi sieno due distintissimi e incommunicabili; giacchè uno di essi, cioè il pane si annichila, e l' altro, cioè il corpo di Cristo, viene addotto nel luogo del pane annichilato, solamente il pane non è più. Ora se due sono i soggetti assolutamente distinti, e interamente distinti anche quanto all' essere che ricevono, due effetti interamente diversi e successivi, cioè uno negativo la distruzione, l' altro positivo cioè l' adducimento; dica ciascuno se l' azione in quanto si fa e si compie ne' soggetti può essere una sola e non anzi due, e separatissime. All' opposto ammettendo con S. Tommaso che vi abbia di comune nel pane e nel corpo di Cristo l' essere (2), sebbene si cangi il soggetto pane, e diventi soggetto la carne di Cristo; tuttavia la identità della radice di questi due soggetti cangiati, cioè l' essere, fa sì che l' azione possa essere unica e semplicissima. Ma udiamo come il Bellarmino rende ragione del suo soggetto. [...OMISSIS...] Ora che forza hanno queste parole « quell' azione come conversione si riceve nel pane?« » Io non trovo in esse un significato. Intendo bensì che quell' azione come annichilamento si riceva nel pane, ma non come conversione. E veramente il pane si annichila, come mostrammo nel sistema de' nostri avversari; e se non vogliamo che pronunci questa dura parola« si annichila«, dirò quella che usano essi stessi « si distrugge, si riduce al niente, perisce« (2). Or bene quando il pane non c' è più, ha finito di convertirsi; esso cessa di essere, e dopo ciò egli non riceve nè fa altra azione; egli dunque non riceve la conversione, ma solo, come dicevamo, l' annichilazione. E` vero che nella mente di Dio si suppone che stia il fine di annichilar quel pane per condurvi in suo luogo il corpo di Cristo: la intenzione non basta, il dirò ancora, a costituire una azione che sia ricevuta nel pane. Da tutte le cose dette è facile di provare la seconda delle nostre tesi, che nel sistema degli avversari manca il vero e proprio concetto di transustanziazione , a cui voglion supplire interpretando questa parola con vana sottigliezza in un significato diverso da quel che suona. E veramente il Bellarmino pone a prima condizione della conversione d' una cosa in altra, che « qualche cosa cessi di essere, cioè quella cosa che si converte« (3). » Or nel suo sistema si converte l' essere stesso che è nel pane, e però cessa interamente l' essere stesso, il che abbiam detto chiamarsi annichilazione. Or dopo che il pane ha cessato d' essere, allora viene addotto nel luogo del pane il corpo di Cristo. Ma questa seconda operazione non risguarda più il pane (se non fosse nell' intenzione dell' operante) perocchè il pane non esiste più ne può più essere convertito in cosa alcuna. Dunque il pane si annichila bensì, ma non veramente si converte, non diventa egli vero corpo di Cristo, non si transustanzia, ma solo a lui succede il corpo di Cristo quando egli già non è più. E qui appunto il Bellarmino crede che al concetto di una vera conversione e transustanziazione basti che « una cosa succeda nel luogo dell' altra distrutta » purchè però ci sia «« una certa connessione fra il cessare di una e il succedere dell' altra, di maniera che l' una cosa finisca acciocchè l' altra succeda e la successione avvenga per quella forza onde la cosa è cessata« (1). » Ma io domando qual connessione vi può essere fra una cosa quand' è annichilata, ed una che viene in suo luogo? niuna connessione reale vi ha più, e se ci avesse una connessione prima di essere annichilata, nel punto in cui ella s' annichila, s' annichila con lei ogni connessione. Dunque questa connessione sarà nella unità della forza, giacchè una forza stessa che annichila è quella che fa succedere la cosa nel luogo della annichilata. Questo pure è assurdo, perocchè la forza che annichila non sarà mai quella che produce: ci vogliono a queste due azioni forze diverse, o più tosto, come osserva lo stesso Bellarmino, una cessazione dell' azione di Dio che conserva il pane per annichilarlo, e un' opera positiva per addurvi il corpo di Cristo. Dunque l' una cosa non vien fatta per l' identica forza onde vien fatta l' altra, non fit successio vi desitionis : tanto più che quella vis desitionis è una improprietà di parlare, quando non è una forza quella che fa cessare, ma un sottraimento di forza. Non ci può dunque essere connessione alcuna fra l' annichilamento e l' adduzione o produzione, se non l' unità d' intenzione e di fine nell' operante; ma questa connessione si termina tutta nella mente e nell' animo dell' operante, e non passa come abbiam veduto nell' esterno dell' azione, nè può costituire la sua unicità o moltiplicità. Per queste ragioni S. Tommaso riconosce, che ponendo che il pane si riduca veramente al niente, il concetto della transustanziazione non può più rimanere. [...OMISSIS...] Nè può già intendersi, che S. Tommaso insista sulla parola annichilazione presa nel senso del Bellarmino, perocchè il suo argomento vale ogni qual volta il pane avesse interamente cessato in tutto l' essere, e non solo nell' esser di pane (1): conciossiachè quando il pane fosse una volta cessato interamente, anche quanto all' essere, non si potrebbe più convertire, eziandio che nella mente di Dio stesse il pensiero di averlo fatto cessare per sostituire in luogo di lui il corpo di Cristo; nè conversione ci potrebbe essere, ma solo successione, sostituizione o altro simile. Il perchè S. Tommaso s' attiene come a fermissimo punto e articolo di fede a questo, che il pane si debba « propriamente e veramente convertire nel corpo di Cristo« » e non solamente dar luogo a questo col cessare di essere interamente: e mantiene questo dogma sì fermo, che nol rimuove da ciò qualsivoglia difficoltà a spiegarlo; perocchè non è necessario spiegarlo, ma crederlo e conservarlo. Or non si dee interpretare la mente di S. Tommaso con troppa sicurezza, la qual più si dee guardare bensì dov' ella è costretta di più manifestarsi, cioè nell' angustia delle obbiezioni. Il grand' uomo a ragione d' esempio sente assai chiaro, che se dopo la consecrazione la materia che prima era pane non si trovasse in luogo alcuno, non potrebbe fuggirsi dal concederla annichilata e però si fa questa obbiezione: [...OMISSIS...] . Or si oda qual sia la via, che unica trova S. Tommaso per la quale farsi contro a questa obbiezione. Risponde egli: [...OMISSIS...] . E odasi l' esempio onde spiega una tale risposta al sistema nostro acconcissima: [...OMISSIS...] . Il santo Dottore riconosce adunque, che la sostanza del pane non si annichila, perchè si cangia in quella del corpo di Cristo; come non s' annichila l' aere, che nutre il fuoco. Ora l' aere nella conversione non si converte già in particelle di materia, che preesistevano, il che sarebbe impossibile a concepire senza che egli si annichilasse, ma le particelle sue prendono un' altra natura, diventano veramente fuoco e cessano dall' esser aere. Così avviene nel sistema nostro, nel qual solo si salva, pare a noi, una vera TRANSUSTANZIAZIONE del pane e del vino. E però non è una vana sottigliezza quella del Cardinale Gaetano, il quale commentando S. Tommaso (2) concede che dopo la consecrazione non rimanga nessuna parte del pane, e tuttavia insegna rimaner ciò, che fu pane, di guisa che dir si possa veramente: ciò che fu pane, ora è corpo di Cristo (3). Ma anzi egli è tanto necessario potersi dir questo, che se dir non si potesse, in nessuna maniera sarebbe seguìta vera e propria transustanziazione. Però io non posso nè pur qui sentirla col Bellarmino il quale non trova necessario, che rimanga ciò che fu pane, e a provarlo reca delle similitudini naturali dicendo: [...OMISSIS...] . Qui evidentemente prende sbaglio l' uomo grande; perocchè in tali naturali trasformazioni, la materia non perisce, e però può dirsi che rimanga tutto ciò che fu legno ed acqua: e che la materia che rimane sia stata veramente ed acqua e legno. Non conviene adunque far violenza al significato delle parole per sostenere una opinione particolare, tanto più che qui si tratta di cosa che può toccare la fede stessa. Perocchè avendo definito la Chiesa come articolo di fede, che nella consecrazione segue una vera transustanziazione ; non si dee mica credere che la definizione della Chiesa riguardi semplicemente l' autenticazione dell' uso della parola; ma più tosto hassi a dire che la medesima Chiesa ebbe in animo di fissare per dogma ciò che la parola significa e ciò che significa in senso proprio e vero, come apparisce dal Concilio di Trento (1). Il perchè non credo io che si possa alterare il vero e proprio significato della parola transustanziazione , senza che rimanga tocca con ciò qualche cosa che appartiene alla fede. Or il significato delle parole convien desumersi dall' uso. Però chi mai non fa differenza tra il succedere una cosa nel posto di un' altra che perisce, e il transustanziarsi l' una nell' altra? non sono questi due concetti al tutto distinti? e se sono per sè distinti, basterà l' intenzione che ha chi distrugge una cosa di sostituirgliene un' altra per poter dire che la prima cosa fu nell' altra convertita e transmutata? Niuno mai dirà ciò. Nè pure basta a far ciò la distinzione, che fa il Bellarmino fra la conversione che chiama adduttiva , e quella che chiama conservativa . Il termine, così spiega la cosa il Bellarmino, il termine in cui la cosa si trasmuta esiste tanto nella conversione adduttiva , che nella conservativa : e nell' una e nell' altra cessa di essere ciò che si trasmuta; ma nella conservativa la cosa che si trasmuta cangia di luogo, nell' adduttiva non cangia. A cagion d' esempio: [...OMISSIS...] . Ora più cose sono qui da osservarsi. 1. Non si vede perchè la prima specie di conversione si chiami conservativa più tosto che annichilativa ; giacchè non avviene altro di nuovo che l' annichilazione di uno de' due corpi: questo è l' unico fatto nuovo che veramente è intervenuto. 2. Nè la conversione adduttiva nè la conservativa , come le descrive il Bellarmino, sono vere e proprie conversioni, ma solo sono conversioni apparenti, e però tali a cui il nome di conversione non appartiene in proprio, ma solo in senso accomodatizio. E di vero in quelle due pretese conversioni non è avvenuto se non 1. l' annichilazione vera e reale di uno de' due oggetti; 2. la sostituzione dell' altro nel luogo del primo, o sia che si sostituisca facendogli mutare il luogo, o conservando anche il proprio luogo. Ora niente di ciò forma una vera conversione; altrimenti sarebbe conversione e transustanziazione anche quella del giocoliere, il quale sostituisce con un solo tratto di mano, e per così dire con una sola azione, una palla ad un' altra, un soggetto ad un altro (1); egli è una bella e buona sostituzione: nè essa muta punto la sua natura, o che l' oggetto che si sottrae s' annichili, o pure che si conservi; perocchè il conservarsi o l' annichilirsi dell' oggetto in cui luogo si mette un altro è straniero alla natura dell' atto di sostituzione. Da quello che è detto nasce un' altra difficoltà nel sistema degli avversari. E` cosa certa presso i cattolici, ed ammesso dallo stesso Bellarmino, che la transustanziazione non avviene già successivamente, ma in un solo istante (2). Ora nel sistema del Bellarmino questo non può aver luogo. E veramente se si trattasse di una successione di accidenti, si potrebbe in qualche modo intendere che nell' istante medesimo che cessa un accidente, ne venga un altro sostituito: perchè il cessare e il prodursi l' accidente nuovo è il medesimo atto considerato da noi con due relazioni. Così se in un corpo di molle creta io pongo un dito, l' incavo ch' io ci fo è ad un tempo distruzione della precedente figura, e sostituzione della nuova (1): ma questo nasce perchè le figure nel caso nostro non sono che modi di essere, e non esseri: l' essere stesso, il corpo, non si è trasformato, egli ha mutato il suo modo, e questo s' intende farsi in uno istante. Non così quando dovesse cessare non il modo dell' essere, ma l' essere stesso: perocchè la cessazione di un altro essere non è mica cosa identica colla sostituzione di un altro essere, che è indipendente al tutto per sua natura dal primo: quando all' opposto la cessazione di un modo e la sostituzione dell' altro è una ed identica cosa, come si diceva. Però dovendo nel sistema de' nostri avversari prima cessare interamente l' essere, e poi ivi addursi un essere nuovo, è impossibile il non trovarsi per lo meno tre istanti assai distinti fra loro, cioè: 1. quello in cui cessa l' essere; 2. quello in cui è cessato interamente il pane e non ancora addotto il corpo di Cristo; 3. e finalmente quello in cui il corpo di Cristo viene addotto. E veramente il corpo di Cristo non viene addotto se non quando il pane interamente è già cessato; altramente vi sarebbe un istante in cui si troverebbero insieme il pane ed il corpo di Cristo: ciò che saprebbe di eresia. Tutto al più si potrebbero forse questi istanti ridurre a due, cioè all' atto onde il pane viene distrutto e all' altro onde il corpo di Cristo viene addotto, senza notare l' istante di mezzo; ma ad uno istante solo non si può ridurre giammai una tale conversione, che risulta da due operazioni essenzialmente successive. All' incontro nel sistema nostro la transustanziazione s' intende avvenire in un minimo istante; perocchè si tratta di una vera conversione e transustanziazione, di un vero ed unico atto. Secondo noi perisce bensì tutto l' essere del pane, cessa interamente il soggetto pane; ma non per questo cessa ogni essere, non per questo cessa ciò che S. Tommaso chiama l' essere comune (che però solo non mai sussiste), e però nell' atto medesimo che il pane cessa, è già il corpo di Cristo. Questa istantaneità assoluta è, secondo noi, un carattere essenziale e proprio della transustanziazione. Abbiamo provato che nel sistema degli avversarii interviene l' annichilazione (1). Ma quando anco si volesse evitare questa parola, rimarrebbe il senso della medesima gravitante sopra il loro sistema. Il Bellarmino afferma che il pane perisce intieramente, e che perisce perchè Iddio cessa di conservarlo: [...OMISSIS...] . Ora, io osservo, che nel presente fatto Iddio cesserebbe interamente, secondo lo stesso Bellarmino, dal conservare una sua creatura, e cessando dal conservarla la distruggerebbe in tutto l' esser suo. Intralasciando ciò che abbiam notato di sopra della ripugnanza e sconvenienza intrinseca che in ciò si trova, così pure ragiono. Nessun altro caso si può accennare in cui Iddio distrugga una sua creatura cessando dal conservarne l' essere; egli di cui è scritto: [...OMISSIS...] . Ora ciò di cui non v' ha che un caso solo ed unico, è alquanto ripugnante dall' operare divino, che suol esercitare la sua possenza secondo certe stabili leggi, anche allorquando l' adopera in un ordine superiore alla natura. Ma oltrecciò, dove cadrebbe egli questo caso unico, questo fenomeno così isolato, in cui si vedrebbe Iddio divenuto quasi crudele e inimico alle sue creature? giacchè egli sottrarebbe ad esse l' intimo loro essere, che è quanto dire tutto ciò che sono? Nel Sacramento dell' amore, nel Sacramento nel quale ha voluto sfoggiare i portenti della sua liberalità, l' infinita prodigalità, per così dire, de' suoi tesori; nel Sacramento, dove veramente ha preteso di sfoggiare fino all' eccesso l' onnipotenza della sua virtù creatrice. E tutto ciò senza niun bisogno del mondo. Perocchè quando avesse voluto darci sè stesso in cibo, che uopo ci poteva egli avere di distruggere un essere da lui creato, per cavargli gli accidenti quasi fossero una sua camicia, e vestirsene egli? non potea senza più, darsi a noi in cibo sotto forma di pane creando intorno a sè degli accidenti, più tosto che distruggendo una sostanza perchè a suo uso rimanessergli gli accidenti di quella? io per me credo, che quando non avesse Cristo voluto convertire veramente in sè il pane, ma egli fosse piaciuto di darsi a noi in cibo senza questa conversione, era assai più conveniente a' suoi attributi l' essere in tale atto creatore degli accidenti, che non sia distruttore e propriamente vero annichilatore di sostanze. Ma mi si risponde: [...OMISSIS...] . Appunto gli umani ragionamenti debbon cessare rincontro alla parola di Dio: per questo è che dico io, che dovete cessare voi dall' introdurre una cotale annichilazione di un essere nel fatto della consecrazione; perocchè voi ce l' avete introdotta per un ragionamento umano, che non si trova nella parola del Signore. Questo è quello che osserva egregiamente il Dottore angelico, il quale appunto dice: [...OMISSIS...] . Conviene appunto attenersi a queste parole: « Questo è il mio corpo«: » elle esprimono una sola azione positiva di Dio, e non mai nessuna azione negativa, nessuna cessazione di azione: l' uomo adunque non la v' introduca. Questa proposizione viene a dire, che il pane viene assunto dal corpo di Cristo, non viceversa il corpo di Cristo dal pane. Ma nel sistema degli avversari il pane non può venire assunto perchè egli viene interamente distrutto, non solo come pane, ma ben anco come un essere. Però il Bellarmino è costretto di dare una interpretazione alquanto curiosa a quel detto de' Padri dicendo, che egli accorda che nasca la mutazione nel pane, ma una mutazione« deperditiva«: così egli la chiama. Non è però un parlar chiaro cotesto: nessuna propria mutazione nè conversione può nascer nel pane, secondo il sistema del N. A., ma solo la distruzione o annichilazione del pane. Ecco le parole del Bellarmino: [...OMISSIS...] . Ora dall' istante che per mutazione deperditiva s' intende la totale distruzione del pane quanto allo stesso esser comune, questa mutazione non è più tale, che in essa si comprenda il cominciar Cristo ad esser nel Sacramento; però questo nuovo esser di Cristo non s' acchiude nella mutazione del pane intesa, come fa il Bellarmino, ma a quella [che] sussegue senza un vincolo di naturale e necessaria dipendenza. Non è dunque più vero che Cristo vien ad essere nel Sacramento per la mutazione del pane; questa mutazione deperditiva del pane non dà che il luogo dove deve Cristo collocarsi; ma colà vi si colloca Cristo da Dio con un altro atto, non con quello della mutazione del pane. S' oda se nelle parole stesse del Bellarmino tutto ciò non si trova. A quelle che ho ultimamente recate seguono queste altre: [...OMISSIS...] . Ora in questo sistema: 1. Si tiene il giusto e antico linguaggio dicendo sempre che ogni cosa si fa per conversione del pane, « per conversionem panis idem corpus in sacra hostia ponitur », ma questa conversione del pane si spiega per una mutazione deperditiva, « intelligi debet de mutatione deperditiva », che non è altro che la intera cessazione dell' essere del pane stesso. 2. Si pongono due mutazioni separate una nel pane, la distruzione e annichilazione, e l' altra nel corpo di Cristo, l' adduzione; le quali senza un nesso loro intrinseco e fisico non si congiungono se non per una relazione esteriore che sta nella mente di Dio, il qual prima annienta il pane e poi adduce il corpo di Cristo. 3. Finalmente nè nella mutazione del pane nè in quella del corpo di Cristo si trova il concetto della transustanziazione. - Non si trova nella mutazione che avviene nel pane, come di sopra dicemmo, perocchè egli si distrugge, e distrutto interamente che egli sia non può convertirsi in altro: non succede nella mutazione del corpo di Cristo, perocchè il Bellarmino stesso confessa, che una mutazione sì fatta vien ricevuta nel corpo del Signore « non quidem ut conversio sed ut adductio est »: ella è una adduzione, ma non una conversione. Nè in tutte e due queste mutazioni insieme prese si trova; perocchè nel loro esser fisico sono al tutto separate, come dicevamo, e non possono formare una cosa sola, come sola è l' operazione che indica la parola conversione o transustanziazione. Dalle quali cose tutte apparisce, che il Bellarmino ammette questi due dogmi: 1. che tutta la sostanza del pane e del vino cessi interamente nell' Eucarestia; 2. che v' abbia la presenza vera, reale e sostanziale del corpo di Cristo. Quanto poi al terzo, che cessi il pane e si adduca sotto agli accidenti di lui il corpo di Cristo in virtù della conversione o della transustanziazione, questo è un terzo dogma che riconosce a chiare parole il venerabile autore (1), il che basta per collocare la sua fede fuori d' ogni controversia. Ma quando si tratta poi di spiegare in che modo nasce questa transustanziazione in virtù della quale debbono avvenire que' due fatti contemporanei e unificati della cessazione di tutta la sostanza del pane, e della presenza del corpo di Cristo; allora pare a noi, che l' uom grande entri in un sistema che non può stare col principio che egli stesso accorda e fermamente crede, cioè « l' avvenire di que' fatti per l' efficacia della transustanziazione« (1). » E qui voglio avvertire, che a parer mio questo della« transustanziazione« è anzi il dogma cardinale del mistero Eucaristico: di maniera che gli altri due sopra toccati dogmi s' attengono a questo, sono conseguenze necessarie di questo terzo della transustanziazione: perocchè la transustanziazione contiene in sè e la cessazione della sostanza del pane, e il ponimento della carne di Cristo. Per tutte le quali cose sapientissimamente la Bolla Auctorem Fidei condannò nel Sinodo di Pistoia quella proposizione, colla quale voleva restringere le istruzioni popolari de' Parroci sul Sacramento dell' Eucarestia a que' due primi dogmi della presenza reale e della cessazione del pane, ommettendo il terzo principale di tutti, cioè quello della transustanziazione (2). Riassumendo adunque il sistema degli avversarii essi sostengono: 1. Che Iddio fa cessare interamente non solo il pane come sostanza, il che diciamo anche noi, ma ancora come essere , ristando dal conservarne al tutto l' entità. 2. Che distrutto così il pane e conservati solo gli accidenti, Iddio adduca sotto gli accidenti il corpo di Cristo che è in cielo, senza mutar di luogo. 3. Che la distruzione del pane sia fatta da Dio coll' intenzione e col fine di addurre in suo luogo il corpo di Cristo. 4. Che mediante questa intenzione e fine unico che ha Dio, possa convenire alla distruzione del pane, e alla successione del corpo di Cristo il nome di conversione o transustanziazione del pane nel corpo di Cristo. Noi abbiam negato che a tai successioni di cose convenga veramente o propriamente un tal nome, e abbiam detto per ciò che in tal sistema non si può dire che« il pane si converta e si transustanzii« ma solo che cessi per dar luogo al corpo di Cristo. Abbiam detto altresì che non si può dire che sia nel pane più tosto che in Cristo che avvenga la mutazione, o che il pane si converta in meglio, maniere usate da' più autorevoli scrittori della Chiesa. Ora aggiungiamo che nel sistema degli avversarii non [si] saprebbe spiegare come potessero avere la loro chiara verità tante altre maniere di dire consecrate dalla più antica e più costante tradizione: e perchè più tosto non si trovino adoperate tante altre (1). Rechiamo l' esempio di alcune. 1. S. Gaudenzio di Brescia dice del pane Eucaristico: [...OMISSIS...] . Or come si dice qui che il pane è fatto celeste, se egli non fosse veramente cangiato in meglio, ma al tutto annichilato? non può esser fatto celeste quel pane che dopo distrutto non è più atto a diventare cosa alcuna, ma bensì quello che essendo diventato carne di Cristo fu distrutto in questo, e per questo, che fu cangiato in meglio? E si noti il modo onde S. Gaudenzio dice il pane fu trasmutato: « Cristo passò in lui«. » Che vuol dir ciò? non certo che si trasmuta in esso, ma bene lo rivestì colla sua divina vita ed onnipotente, che lo rapì a sè appropriandolsi e veramente cangiandol tutto in carne e sangue suo. Il luogo adunque di S. Gaudenzio mirabilmente esprime il nostro sistema. 2. S. Ambrogio dice « ove s' appone la consecrazione del pane si fa il corpo di Cristo« (2). De pane FIT corpus Christi : » maniera usata pure dal medesimo S. Gaudenzio « De pane EFFICIT proprium corpus « (3). » Con questa frase non volevano già esprimere gli antichi Padri, che il corpo di Cristo si componesse di pane, assurda cosa; ma bensì il pane si convertisse veramente nel corpo di Cristo, cessando così interamente di esser pane. Se ciò non fosse avrebbero essi parlato in modo così equivoco da dire costantemente che « del pane si fa il corpo di Cristo« » per voler dire che il corpo di Cristo succede al pane il quale cessa del tutto di essere? e che costava loro ad adoperare queste ultime parole almeno qualche volta, che non avrebbero dato cagion di errare, se tale fosse stato il loro avviso? 3. Simiglianti alle indicate sono le maniere di dire seguenti: « il pane ed il vino DIVENTA corpo e sangue di Cristo« (1)« mutare o trasmutare le nature« (2); » le quali non potrebbero mai convenire a nature che cessassero dall' essere conservate, come è nel sistema de' nostri avversarii. 4. S. Cipriano per descrivere la transustanziazione dice, che « la divina essenza S' INFONDE ineffabilmente nel visibile Sacramento« (3). » Or niente è in questa maniera di parlare che possa indicare annichilazione, ma bensì un' operazione colla quale Cristo colla sua divinità tocca e si unisce ed infonde nella sostanza del pane penetrandola di guisa da tramutarla in sè medesimo. 5. S. Ireneo pure usa di questa frase, che « il calice misto e il pane spezzato PERCEPISCE LA PAROLA di Dio« (4), » e così si consacra: la quale maniera di dire ha una mirabile verità nel nostro sistema. Ma fermiamoci specialmente a que' passi de' Padri ne' quali descrivono l' operazione che fa il Verbo di Dio transustanziando il pane ed il vino. Noi non troveremo mai in essi, che descrivano una tale operazione come inchiudente una cessazione di conservazione, un atto di distruzione: ma troviamo che lo descrivono sempre come un atto eminentemente positivo, senza nessun elemento negativo in esso racchiuso. Abbiamo già veduto che: 1. S. Cirillo Alessandrino, ed Elia Arcivescovo di Creta, ed altri descrivono l' operazione della transustanziazione come una comunicazione della propria vita che fa Cristo al pane ed al vino (1). 2. Che S. Gaudenzio esprime la stessa cosa dicendo che Cristo passa in tali materie, volendo dire che ad esse comunica l' esser suo (2). 3. Che S. Gregorio Nisseno, S. Giovanni Damasceno, Teofilatto ed altri dicono ancora più espressamente, che quell' operazione è una cotal nutrizione soprannaturale (3). E a questo medesimo si riferisce quel luogo di Teofilatto, di cui hanno abusato gli eretici, dove dice, che « il pane si muta nella virtù del corpo di Cristo« (4); » luogo che altro non tende a significare se non appunto l' investirsi del pane e del vino in un modo ineffabile dalla virtù del corpo di Cristo che in sè li trasforma. 4. Odone Vescovo di Cambray dice che il pane ed il vino sono investiti da una forza spirituale, che li tramuta (5). 5. Aggiungerò questa espressione di S. Giovanni Grisostomo: « Quegli che SANTIFICA e trasmuta questi doni è egli stesso il Cristo« (6). » Ora io intendo sì bene come questi doni del pane e del vino siano sublimemente santificati quando si pone che vengano investiti della virtù e della vita stessa di Cristo; ma non posso all' opposto formarmi alcuna idea di una loro santificazione quando essi sono distrutti, e sono distrutti prima che sia addotto Cristo in loro luogo, di maniera che essi non toccano Cristo, nè sono toccati, nè hanno comunicazione in nessun modo con Cristo, fonte della santificazione, il quale non sopravviene nel sistema degli avversarii, se non quando essi al tutto più non sono. Ma questa maniera che il pane« si santifica« non è solo pronunciata accidentalmente una o l' altra volta da S. Giovanni Crisostomo; ma ella è universale, ella è una di quelle formole solenni, che si trovano in tutte le liturgie, in tutti i Padri e che per conseguente contengono il deposito delle più sacrosante verità come in vasi d' oro incorruttibili. Quindi si chiama costantemente il corpo di Cristo pane santificato, e si prega perchè il pane posto sull' altare si santifichi : il che non potrebbe, come dicevo, ricevere un senso vero e proprio se Cristo nè pur toccasse il pane, ma solo venisse nel luogo del pane dopo che questo ha cessato di essere. Lo stesso dimostrano certi nomi dati dal pane Eucaristico tolti dalla natura dell' operazione, che sopra di lui si esercita, come quello di «eulogia» in latino benedictio veniente da benedire , perchè il consacrare è riputato un benedire (1), secondo un modo di parlare che risale agli Apostoli (2). Or benedire equivale (fatto da Dio) a moltiplicare, ingrandire, migliorare, perfezionare (3), sublimare, e perciò è un sinonimo di santificare nel caso nostro (4). Or il solo venir Cristo nel luogo del pane rimosso, in nessuna maniera potrebbe dirsi che fosse un moltiplicare, ingrandire, perfezionare, sublimare il pane; come se il servitore cede il posto che tiene al suo principe in nessun modo si può dire che per ciò il servitore sia moltiplicato, ingrandito, e molto meno convertito nel principe (5). Or questo miglioramento, santificamento e innalzamento del pane all' esser carne di Cristo è espresso da' Padri in modi diversi, ma che mantengono sempre il concetto stesso. Udiamo come lo esprima S. Fulberto Vescovo di Chartres in una lettera che scrive ad Adeodato: [...OMISSIS...] . Questo convertire nella dignità d' una più eccelsa natura, questo trasfondere nella sostanza del nostro corpo sono frasi assai calzanti, e che mostrano ciò che dicevamo la consecrazione del pane essere risguardata nella cattolica Tradizione come una cotale operazione, non volta a levar via l' essere del pane per collocarvi in suo luogo il corpo di Cristo, ma anzi a innalzare e sublimare quest' essere fino a rifonderlo e immedesimarlo nelle carni divine di Gesù Cristo (2). Gregorio M. pure dice che Cristo fa la conversione del pane e del vino « mediante la santificazione« (3); » S. Giovanni Damasceno pure « per la invocazione e la venuta dello Spirito Santo« (4); » Teofilatto « per la benedizione e l' accessione dello Spirito Santo« (5); » e sarei infinito se raccoglier volessi tutti i passi de' Padri in cui si descrive in questo modo la consecrazione del pane e del vino, come una spirituale benedizione, una santificazione, una virtù che riceve esso pane ed esso vino, virtù sì grande che ha valore di elevarlo ad esser carne di Cristo, non a diminuirgli un solo grado di essere, ma solo ad innalzare infinitamente e ingrandire l' entità da lui posseduta, ingrandirla tanto che il fa uscire di sua natura e non esser più quel ch' era prima (6): questa è transustanziazione. Nella generazione e nella nutrizione lo spirito è quello che interviene ed opera ad informare di vita la materia: nella prima v' ha una materia, che prima dell' atto della generazione appartiene ai generanti; ma staccata da essi forma il nuovo animale, e ciò che il forma è lo spirito proprio di questo che lo avviva. Nella nutrizione parimente è il nostro spirito quello che involge le particelle del cibo, comunicando loro sè stesso e rendendole suo proprio corpo. Ora essendo Cristo persona divina conveniva che tanto l' incarnazione come la consecrazione del pane e del vino venisse attribuita allo spirito di Dio, come la generazione e la nutrizione naturale si fa per lo spirito dell' uomo. Però la consecrazione è molto spesso concepita e descritta da' Padri come la incarnazione e a questa paragonata. S. Giustino dice: [...OMISSIS...] . S. Ambrogio pure: [...OMISSIS...] . Eucherio di Lione: [...OMISSIS...] . Il venerabile Beda: [...OMISSIS...] . Eutimio più tardi (sec. XI) ripeteva lo stesso concetto: [...OMISSIS...] . E qui voglio fare una osservazione volta a dileguare maggiormente il timore di quelli a cui paresse che nel nostro sistema rimanesse qualche cosa della sostanza del pane non mutata nel corpo di Cristo, ai quali dirò così: Il Concilio di Trento definì che tutta la sostanza del pane e del vino si cangia nel corpo e nel sangue di Cristo, e questo a condannazione di quell' errore, che voleva trovarsi nelle sacra ostia oltre il corpo di Cristo qualche altra materia non immutata. Ora non v' ha sistema più lontano da quest' errore del nostro. E a rendere chiaro il concetto appunto ci può valere l' esempio dell' incarnazione del Verbo nel seno di Maria Vergine. Quando l' immacolata Vergine somministrò il suo sangue purissimo a comporre un corpo al Verbo divino; questo sangue che prima era della Vergine non divenne tutto sangue e corpo di Cristo? v' ebbe forse la minima stilla, gocciola o atomo di materia che rimanesse ancora dopo l' incarnazione cosa della Vergine, e non fu più tosto tutto e solo cosa di Cristo, cioè suo proprio corpo? e adorando questo corpo divino s' adorava forse qualche cosa che non fosse divina, o che fosse rimasta semplicemente umana, com' era prima dell' incarnazione quando al corpo della Vergine apparteneva? e pure in quell' operazione nessun essere, nessuna particella di essere cessò, Iddio non si rimase dal conservare ciò che v' avea prima, ma il cangiò solo in cosa infinitamente migliore, il che si può dire bensì un cotal perire della natura (3), ma non un perire inteso a quel modo che l' intendono i nostri avversarii pel quale l' essere si riduce a niente. Simigliantemente adunque nel sistema nostro tutta la sostanza e la stessa materia del pane diventa vero e adorabil corpo di Cristo, nè alcuna particella rimane indietro che non si cangi, sebbene nessuna particella di essere perisca (4). Ma tornando a noi, volevamo provare che l' immutazione che nasce del pane e del vino fu solita la Chiesa di risguardarla come una ineffabile operazione dello Spirito Santo, a quel modo onde si suol dire che Maria concepì per opera dello Spirito Santo. Rechiamo a maggior confermazione ancora alcune venerabili autorità, dove direttamente si esprima che la transustanziazione si fa per opera del Santo Spirito. S. Agostino dice espressamente che la consecrazione è un' opera dello Spirito Santo: [...OMISSIS...] . S. Cirillo Gerosolimitano: [...OMISSIS...] . Nella liturgia di S. Giovanni Grisostomo, alludendo alla conversione del calice, il diacono dice: « Benedici, o Signore«. » Il sacerdote benedicendo con ambo le mani: « IMMUTANDO collo Spirito Santo tuo: IMMUTANS SPIRITU SANCTO TUO« (3). » Nella liturgia allemanica (4) la messa della Domenica V dopo l' Epifania ha un' orazione dove si prega di poter [...OMISSIS...] . Ma udiamo più ampiamente, ma sempre nello stesso concetto, descrivere il gran mistero della consecrazione del pane e del vino S. Giovanni di Damasco. Egli nel quarto de' suoi libri della fede ortodossa (6) dice così: [...OMISSIS...] . Or dopo aver così comparata la consecrazione all' incarnazione viene a spiegare maggiormente quella grand' opera con un' altra similitudine: [...OMISSIS...] . Qui assai chiaro si rilevano due cose che il santo alla virtù dello Spirito Santo attribuisce il cangiamento del pane e del vino, come alla virtù santificatrice, e che questa virtù non distrugge già il pane, ma fa nascere in lui alcuna cosa di somigliante a quello che fa la pioggia che cade sui seminati, la quale bagna e muove i semi onde esce il grano, e così distrugge il seme conducendolo a perfetto stato di maturo sviluppo, ed alla natural sua fruttificazione. Continua ancora a parlare di quest' opera dello Spirito Santo dicendo: [...OMISSIS...] . Niente di più chiaro di questo passo, niente che meglio faccia conoscere come questo grande spositore e difensore della fede ortodossa, concepiva avvenire il mutamento del pane nel corpo del Signore: non intendeva egli che entrasse nel pane una forza distruttrice, ma sì la virtù dello spirito di Cristo, che inviluppandolo e penetrandolo, il convertirà in verissimo corpo di Cristo medesimo; e questo è il modo comune, onde i Padri concepiscono la transustanziazione; di guisa che San Fulberto giunge a dire che lo Spirito Santo in quel pane « compone, ossia compagina il corpo di Cristo« (4). » Sebbene però venga attribuito allo Spirito Santo, cioè allo spirito di Cristo, l' opera della transustanziazione, tuttavia non appartiene meno al Padre, del quale ha detto Cristo: « il Padre mio dà a voi il pane vero dal cielo (5); » od al Figliuolo, che dice: «« Io sono il pane vivo che discesi dal cielo« (1). » Perocchè al Padre appartiene di dare il suo Figliuolo sotto ogni forma, perocchè egli lo genera e il dà generandolo. Al Figliuolo appartiene di dare sè stesso, perocchè nessuno altro che l' amor suo il potrebbe forzare a darcisi in cibo. Finalmente lo Spirito Santo cel dà, perchè esso è l' amabilità del Figliuolo, e ciò che noi partecipiamo e comunichiamo nel Santissimo Sacramento è appunto il Figliuolo nella sua amabilità (2), sicchè esso si chiama il Sacramento dell' amore, e Cristo sotto l' eucaristiche specie, carità incorruttibile (3). Cristo dunque s' asconde sotto il velo delle mistiche specie per un atto d' amore, ed è questo che volle dire l' amoroso Evangelista, quando accingendosi a narrare il pegno dell' infinito affetto che lasciava a' suoi discepoli nell' istituzione della Santissima Eucaristia si fa dicendo che « avendo Cristo amato i suoi ch' eran nel mondo li amò pure sulla fine« (4). » Egli faceva veramente siccome una madre, la qual mangiando delicatamente vuol empire le proprie mammelle di latte per ispremerlo poscia in bocca de' suoi cari bamboli, de' frutti delle sue viscere. E di qui nasce che nell' invocazione dello Spirito Santo, che si rinviene in tutte le sacre liturgie si prega sempre due cose, e che il divino spirito trasmuti il pane ed il vino e che lo trasmuti a noi (5) cioè a nostro profitto; conciossiacchè Cristo viene e sta nell' Eucaristia nell' atto della diffusione e delle unioni amorose, come più largamente diremo appresso. Nè solo l' opera ammiranda della transustanziazione del pane e del vino si fa colla concorrenza di tutta l' augustissima Trinità; ma ben anco colla cooperazione della umanità sacratissima di Cristo. Il perchè fu detto: [...OMISSIS...] . Dunque non pur Cristo come Dio ma come Figliuol dell' uomo altresì dà sè stesso in cibo, e all' uomo sommamente conviene e la preghiera e il rendimento di grazie che il divin Redentore premise all' Eucaristica consecrazione. Il che dà nuovo rincalzo all' opinione nostra; perocchè se non si trattasse che di solo far cessare l' essere del pane, ed ivi render presente Cristo, non si vedrebbe in tutto ciò se non un' opera divina, in cui l' umanità non sarebbe che passiva, e però non sarebbe veramente l' uomo che avrebbe parte attiva nella transustanziazione; ma se si pone che questa grande conversione avvenga per una ineffabile assunzione e incorporazione della sostanza del pane e del vino nel corpo di Cristo, in tal caso anche questo corpo glorioso dee averne parte attiva, e così l' anima, ora che a questo corpo è congiunta, e la divinità medesimamente, che è una natura identica col Padre e collo Spirito Santo: sicchè a pienissimo s' avvera, che quel pane è dato al mondo dal Figliuolo dell' uomo . Da tutte le quali cose apparisce, che se il Padre concorse alla produzione della santissima Eucaristia, generando il Verbo e mandandolo al mondo, se il Verbo vi concorse rendendosi in cibo, e il Padre e il Verbo mandando lo Spirito Santo; il Verbo incarnato però, che mediante l' opera del suo Spirito avea presa carne umana, perchè il prender carne era un rivelarsi amabile agli uomini, ugualmente si rese da sè cibo per l' opera del suo spirito giacchè in questo cibo si compiva la rivelazione dell' amabilità sua massima nell' ordine della fede. Questa amabilità poi del Verbo incarnato adoperava come istrumento la stessa umanità, acciocchè mediante una operazione ineffabile di questa, sempre indivisa dalla divinità, si apparecchiasse e quasi concorresse agli uomini il divino cibo di essa umanità, sicchè Cristo dir potesse « la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda« (2). » Nè l' essere la transustanziazione nel modo descritto opera dell' umanità investita dallo Spirito Santo (3), e congiunta ipostaticamente col Verbo, e mossa dal Verbo con quella onnipotenza che è comune col Padre da cui procede, toglie punto nè poco, che anco negli effetti della divina Eucaristia lo spirito di Gesù Cristo si manifesti e comunichi per varii gradi, e solo dopo salito Cristo al cielo e disceso lo Spirito solennemente sugli Apostoli comunichi sè medesimo nella sua forma massima, e come l' abbiam già detto, personale (1). Intanto l' invocazione dello Spirito Santo in tutte le liturgie massime orientali era così comune e talmente ordinata a impetrare la trasmutazione del pane e del vino (2) che diede origine ad un errore, cioè a credere che la transustanziazione non nascesse in virtù delle parole di Cristo, ma in virtù dell' invocazione dello Spirito Santo: il qual errore i Greci abiurarono l' anno 1493 nel Concilio di Firenze: trovandosi presente il sommo Pontefice Eugenio IV (3). Ma egli è ben facile di conciliare la virtù delle parole consecratorie coll' opera intiera dello Spirito Santo. Queste due cose sono affatto distinte. Perocchè nelle sole parole consecratorie sta il decreto onnipotente, che ordina l' opera: lo Spirito Santo poi entra a dare esecuzione, in certa maniera a tanto decreto: quello Spirito dico che è spirato dal Verbo, e che unge l' umanità di Cristo (4), della quale poi si serve come di strumento e di termine della ineffabile sua operazione. Come adunque Cristo ipostaticamente unito coll' umanità empie questa umanità del suo spirito e così a sè l' adatta e l' appropria (5), in egual modo egli comunica del suo spirito abitante nella sua umanità alla sostanza del pane, e l' assimila al suo corpo, e diventa essa pure corpo, e corpo suo, cioè ipostaticamente unito alla divina sostanza. Che se le mistiche parole non l' avesse Cristo proferite, o non le ripetesse il sacerdote, non si compirebbe una tant' opera che è un cotale estremo d' infinito perfezionamento dell' essere del pane e del vino e che però con somma convenevolezza s' appropria allo Spirito chiamato dagli antichi Padri « forza o virtù perfezionatrice« (1). » Non è dunque necessaria l' invocazione dello Spirito Santo perchè avvenga la consecrazione del pane e del vino: perocchè questa nasce solo in virtù delle parole consecratorie, le quali hanno forza di far venire lo spirito di Cristo che produce il portento. Tuttavia si usò d' invocarlo il divino Spirito in tutte le liturgie; cosa convenientissima, e acconcissima altresì a spiegare il modo, onde invisibilmente si opera la grande e misteriosa opera della transustanziazione. [...OMISSIS...] Che se questa preghiera allo Spirito Santo si fa dopo che già furono proferite le parole della consecrazione, egli è perchè non si potea fare nell' atto stesso; ma debbonsi considerare come formanti una cosa sola, un atto solo coll' atto consecratorio, di cui sono una cotale appendice, non però mai necessaria (1). E a conferma di tutto ciò osserviamo le similitudini e tante e così diverse, che usano i Padri a dichiarare il modo onde avviene la transustanziazione. Non se ne troverà pur una sola la quale s' accomodi col sistema de' nostri avversari; e la quale faccia credere che l' essere della cosa che si converte intieramente si distrugga. Nè vale il dire, che le similitudini recate in questo appunto sono imperfette; perocchè il dir questo è gratuito, e contrario alla mente de' Padri i quali su di ciò tengono il più alto silenzio. E` egli credibile che usando similitudini di tante maniere, niuna n' abbiano arrecato di quelle in cui apparisse un totale annientamento dell' essere della cosa che si converte? è possibile che mancandone nella natura non l' avessero almeno imaginata? o se non ciò, è possibile che non avessero notato, che le similitudini che usavano erano deficienti in un punto sì principale, quando omettendo di notarlo, quelle similitudini dovevano indurre necessariamente ne' fedeli un errore, un falso concetto? Oltre a che se quelle similitudini in questo punto mancavano, a che servivano esse? perfettamente a nulla: perocchè esse non si adoperavano se non per indicare come avveniva o poteva avvenire la transustanziazione; e quando avessero avuto quel difetto non potevano in modo alcuno far concepire o render più facile a concepire questa transustanziazione, di cui non avrebbero più dato alcuno esempio. Sia pur dunque che non v' abbia esempio di una conversione sì mirabile, portentosa, ineffabile come quella del pane e del vino che si consacra; ma altro è che questa sia unica e inconcepibile per le sue circostanze uniche e inconcepibili nelle quali avviene; altro è che la conversione stessa come conversione o transustanziazione debba al tutto essere un fatto solitario, di cui in tutto l' operare divino non apparisca niente di simile. Questo si torrebbe dal solito modo dell' operare divino: Iddio in tutte l' opere sue mantiene certe leggi uguali, immutabili; sebbene i casi nè quali vengono quelle leggi applicate sieno talora novissimi, e tali in cui si perde l' umano intendimento. Certo negli antichi Padri non appare vestigio alcuno, ch' essi riputassero così unico il fatto della transustanziazione, quanto alla sua natura di transustanziazione, che esempio o similitudine alcuna non potesse rinvenirsi nelle altre opere dell' onnipotente: anzi con tutta buona fede ed a fidanza il vengono variamente spiegando, e trovandolo in assai avvenimenti e naturali e soprannaturali ripetuto. Rechiamo alcuna delle similitudini che a tal uopo usavano. 1. Ho già notato, che i Padri rassomigliano la consecrazione del pane e del vino all' incarnazione di Cristo fatta nel seno della Vergine (1). Ora in questa similitudine niente si distrugge, ma solo quella sostanza del corpo della Vergine che era predestinata a dover essere carne di Cristo, si tramuta veramente nel corpo di Cristo: e non ne rimane più minuzzolo che sia della Vergine e non vera carne del Salvatore. E come ciò? per opera dello Spirito Santo, per la quale dicono i Padri avviene pur la consecrazione. Lo Spirito Santo che è spirito del Verbo reca seco il Verbo, col quale ha la natura indivisa, e il Verbo informa l' anima e il corpo nello stesso punto della verginal concezione. Qual similitudine più acconcia ad un tempo al sistema nostro, e ripugnante a quello de' nostri avversari? 2. S. Remigio Antisioderense non pure rassomiglia la consecrazione del pane e del vino a quell' unirsi che fece alla carne umana il Verbo nell' incarnazione, ma ben anco alla trasformazione de' nostri corpi da mortali in immortali dicendo: [...OMISSIS...] . Or chi non vede in questo luogo che le similitudini introdotte non presentano alcuna distruzione, ma solo un perfezionamento, un elevamento delle nature a stato di natura migliore? chi non sente con quanta proprietà sia indicata la consecrazione con dire che la materia del pane e del vino si trasporta nella natura del corpo e del sangue di Cristo? 3. Altri alla similitudine dell' incarnazione aggiungono quella della formazione del primo uomo. Recherò un testimonio non tanto antico, ma nulladimeno opportuno, primieramente perchè non fa egli che ripetere ciò che ha detto l' antichità: in secondo luogo perchè appartenendo alla chiesa orientale dimostra la consentaneità di questa nella maniera di concepire la consecrazione colla latina. E` questo un Vescovo di Amida del secolo XII chiamato Dionigio Bar7salibi perchè figlio di Saliba di rito Jacobita, il quale scrisse un commentario sulla liturgia di S. Giacopo, nel quale dice appunto così del Sacramento eucaristico: [...OMISSIS...] . Or considerando la similitudine tratta dalla terra di cui Iddio compose il corpo di Adamo, non v' ha qui una materia che si trasforma bensì, ma non che si distrugge? e tuttavia non fu ella al soffio divino convertita tutta quella materia nelle carni e nell' ossa di Adamo? forse che rimase qualche cosa non tramutato? rimase qualche cosa terra? non si cangiò anzi il soggetto medesimo? conciossiachè la carne viva di un uomo è certamente un soggetto diverso dalla polvere sciolta ed inanimata. A simigliante maniera perciò intendevano gli antichi avvenire la transustanziazione del pane e del vino. 4. S. Giovanni Grisostomo, volendo dare in qualche modo meglio ad intendere come Gesù Cristo nell' Eucaristia si propaghi per così dire e si moltiplichi in ogni luogo della terra, usa appunto la comparazione della moltiplicazione del genere umano: [...OMISSIS...] . La qual similitudine è acconcissima, e tutta per noi. Conciossiachè la propagazione dell' uman genere avviene per una cotale comunicazione della vita, e non per alcuna vera distruzione o cessazione di alcun essere. 5. S. Gaudenzio introduce la similitudine della produzione del frumento dalla terra: [...OMISSIS...] . Or chi non vede che quegli elementi della terra o più tosto dell' acqua e dell' aria che si cangiano nel frumento, non s' annientano già; ma solamente cessano di essere quello che erano, per divenire frumento? S. Gaudenzio adunque non pensava a quello strano sistema della cessazione di un essere, che fu introdotto solo da' moderni; per non sapere essi trovar altra via da spiegare il grande fatto della transustanziazione. 6. S. Ireneo molto prima (sec. II) usava di somiglianti similitudini del legno che fruttifica, delle fonti che scaturiscono, del frumento che matura: [...OMISSIS...] . Ora l' albero che frutta e la terra che manda l' erba, la quale spiga e poi grana, non dànno esempio d' altre trasformazioni che solo di quelle dove l' un essere non già si distrugge ma nell' altro si tramuta. 7. Un' altra similitudine usata dagli antichi scrittori a spiegazione dell' opera della conversione del pane e del vino si è quella della legna, che s' infiamma e diventa acceso carbone. Così dice Ildegarde che scriveva nel secolo XII: [...OMISSIS...] . Questo scrittore adunque concepiva la transustanziazione come noi, i quali diciamo, che il Verbo e l' anima e il corpo di Cristo mediante lo Spirito Santo, fuoco divino, avviluppano per così dire le minime particelle del pane, come la fiamma fa d' un fusto di legno, e l' avvilupparle è un appropriarsele, un congiungersele incorporandolesi e facendole divenire parte indivisibile dell' unico corpo di Cristo, cessando quelle interamente per cotale ineffabile operazione da esser sostanza di pane e di vino. .. E` frequente l' incontrare ne' Padri il confronto fra la conversione del pane e del vino, e le altre conversioni, che si narrano avvenute prodigiosamente nelle Divine Scritture; come son quelle del nuovo Testamento, dell' acqua conversa in vino alle nozze di Cana (2), e nell' antico della verga di Mosè cangiata in serpente ed altre tali (3). Or che giammai notassero i Padri una assoluta ed essenzial differenza fra il modo del cangiamento del pane e del vino, ed il modo onde avvenuti sono quegli altri cangiamenti? Ciò che dimostra, ch' egli non concepivano quello come assolutamente e intrinsecamente diverso da questi: perocchè se l' avessero così concepito nè ci aveva ragione di somigliar quello a questi; e tacerne la dissomiglianza non si potea senza indurre i fedeli in error gravissimo toccante cose di fede. S' egli dunque è da credere, che non riputassero la conversione del pane e del vino intrinsecamente e specificamente diversa da quelle altre conversioni avvenute prodigiosamente dell' acqua in vino, della verga in serpente; così si può giustamente ragionare, e ho già di questo ragionamento fatto un cenno di sopra: L' acqua non fu già mutata in un vino particolare preesistente, nè la verga fu mutata in un serpente preesistente: ma solo quella prese natura di vino, questa di serpente: non però l' essere elementare fu essenzialmente annichilato nè dell' acqua nè della verga. Però quando quell' acqua fu convertita in vino, e quella verga in serpente, si trovò al mondo del vino più di prima, e un serpente che prima non era. Qui non ci ha nulla di assurdo e d' inconcepibile. Or è bensì vero che il corpo di Cristo e il sangue preesiste alla consecrazione; e che il pane ed il vino si dee convertire nell' identico sangue. Ma altre sono come abbiam distinto le particelle componenti un corpo ed un sangue; altro sono il corpo ed il sangue. Il pane ed il vino certo è convertirsi nell' identico corpo e nell' identico sangue di Cristo; questo è di fede: ma questo pienissimamente avviene anche ponendo che le particelle sieno diverse; cioè che s' aggiungano al corpo ed al sangue di Cristo delle particelle nuove, le quali non mutano, ma anzi esse pure partecipano l' identità del corpo e del sangue a cui individuamente si congiungono. Per sì fatto modo rimangono chiarissimi, e privi d' ogni oscurità i passi de' Padri, e convenientissime si ritrovano le comparazioni, a cui essi sono ricorsi, per dare in qualche modo convenevole dichiarazione del modo onde avviene il gran fatto della mistica consecrazione. Or a tante autorità dobbiamo continuarci con degli argomenti somministrati dalla ragione teologica. Già abbiamo veduto che gli avversari concedono che nella transustanziazione cessa interamente Iddio dal conservare un essere distruggendo interamente il pane ed il vino. Noi abbiamo detto che il pane ed il vino è quello che si dee trasmutare, e che però, se Iddio lo distrugge non si può trasmutare (1). Ma or non ci basta nè della confessione degli avversari, i quali sostengono che il pane ed il vino quanto all' essere stesso si distrugga, negando però a questa distruzione con una vana sottigliezza il nome di annichilazione; nè ci sta di aver provato, che il concetto di vera transustanziazione non si può avverare tosto che si pone che, in qualsivoglia modo, l' essere che si dee trasmutare cessa interamente diventando nulla. Vogliamo oltreciò considerare la cosa dalla parte del corpo di Cristo, in cui il pane si dee convertire; e provare che anco da questa parte la transustanziazione è impossibile nel sistema degli avversarii. Poniamo adunque innanzi all' animo nostro questi tre punti che sono contenuti nel sistema de' nostri avversari. 1. Il corpo di Cristo, in cui il pane si dee convertire preesiste; 2. Questo corpo di Cristo non può ricevere l' aumento di niuna particella che gli s' aggiunga; 3. Questo corpo di Cristo colla consecrazione si pone nel luogo della sostanza del pane che viene ridotta a nulla. Premessi questi punti de' quali il primo è fuori di controversia così ragiono: Poniamo che un essere qualsivoglia si trasmuti. Qui non consideriamo la forza che lo trasmuta; ma la stessa trasmutazione. Quest' essere dee successivamente passare a tutti quegli stati ne' quali dee trasmutarsi. Ma potrà egli mai entrare nella natura di un altro essere già sussistente? Un individuo sussistente racchiude già nel suo concetto di essere così separato dagli altri individui, di non potersi giammai mescolare, confondere, immedesimare con essi. Nè pure adunque una potenza infinita potrebbe fare che un individuo sussistente ne diventasse un altro pure sussistente: perocchè ciò è ripugnante al concetto d' individuo sussistente, che consiste nella incomunicabilità di suo essere. Se dunque questa parola« individuo sussistente« esprime il medesimo che essere incomunicabile ed essenzialmente uno, ne dee avvenire: 1. Che un individuo sussistente non può divenire un altro individuo sussistente, perocchè per diventare un altro individuo dovrebbe deporre la propria individualità, e questa non può deporla per via di trasmutazione, ma solo per via di annichilazione; 2. Che l' altro individuo pure sussistente, in cui si vuole che il primo si cangi, non può ricevere in sè altra sussistenza che la sua; però non può sofferire nessun cangiamento risguardante il suo essere individuale, se non si voglia che il suo essere individuale e sussistente si annichili egli pure: giacchè l' individuale sussistenza è cosa unica e semplice; chè fra l' essere e il non essere suo niente si trova di mezzo; 3. Che ove vogliamo pure fantasticamente imaginare una conversione di un individuo sussistente in un altro pure sussistente, questo non sarebbe un vero concetto di conversione, ma solo un concetto composto ( a ) di cessazione del primo individuo ( b ) della conservazione del secondo, senza che questo secondo abbia ricevuto niente dal primo. Non potea fuggire tutto ciò alla gran mente del Bellarmino; e però chi lo legge attentamente trova che ei confessa in sostanza tutto ciò che noi abbiam detto, dove viene a parlare della conversione ch' egli chiama conservativa . Perocchè egli descrive la conversione conservativa in questo modo: [...OMISSIS...] . Or noi diciamo che questo fatto sembrerebbe bensì una conversione, ma niuna vera conversione in ciò interverrebbe. Sarebbe un inganno che prenderebbero gli occhi nostri, o la nostra imagine, credendo non che l' un de' due corpi si convertisse nell' altro perchè li vedremmo forse avvicinarsi e l' uno cessare di mano in mano che mostrasse d' immergersi nell' altro, non però si convertirebbe, non però il primo avrebbe subìto altra mutazione che quella dell' annichilamento, e il secondo non avrebbe subito cangiamento di sorte alcuna. Ogni uomo di buon senso, non preoccupato l' animo da una sentenza già imbevuta, può esser giudice in questa parte. Ora fra la conversione meramente conservativa e l' adduttiva (che così chiama il Bellarmino quella che interviene nella consecrazione) non passa alcuna diversità circa la distruzione dell' essere che si converte: non passa sempre diversità quanto al non prodursi nell' una e nell' altra niente di nuovo. V' ha solo diversità in questo che quel corpo in cui l' altro si converte, oltre conservarsi nel suo luogo, vien posto anco in altro luogo. [...OMISSIS...] La conversione adduttiva adunque non differisce dalla conservativa se non in questo, che l' oggetto che si conserva in entrambi, senza che nulla nasca di nuovo, in quella, oltre conservarsi nel suo luogo, viene addotto o condotto, o posto anche in altri luoghi; sicchè ha contemporamente la stessa ed identica esistenza in più luoghi. Ora posto che nulla s' aggiunge alla sostanza di questo corpo, l' essere addotto in più luoghi senza abbandonare il proprio luogo non è ancora ricevere in sè un altro corpo che in lui si converta: però se la conversione conservativa non è conversione: nè pure l' adduttiva può essere conversione: conciossiachè questa aggiunge solo una circostanza, nella quale non si avvera il concetto di conversione alcuna. Il perchè egli sarebbe impossibile nel sistema del Bellarmino evitare quella difficoltà gravissima che si fa egli medesimo, che la conversione terminerebbe in un accidente, anzichè in una sostanza (1). E veramente il corpo di Cristo non avrebbe sofferito nessun cangiamento sostanziale, ma solo accidentale; egli oltre essere in cielo avrebbe un sito di più in cui si troverebbe, cioè sotto le specie del pane e del vino (2): or questo non sarebbe sicuramente nulla di più di un cangiamento accidentale. Nè vale rispondere, come fa il Bellarmino, che [...OMISSIS...] . Nessun uomo di buon senso accorderà questa conclusione. Di poi, si fa che il corpo di Cristo succeda al pane; questo è vero, ma non è mica questo un farsi il corpo di Cristo (4), ma è solamente che al corpo di Cristo succeda la relazione della presenza. Dunque la mutazione che nasce è meramente accidentale e non è vero che nasca un trasmutamento di sostanza in sostanza. Io non veggo in qual maniera possano gli avversarii di buona fede evitare questa gravissima difficoltà. Nè si badi al vocabolo di accidente , che io adopero per indicare la mutazione che avviene nel corpo di Cristo per la consecrazione, perocchè io intendo per accidenti anche le relazioni che acquista un essere; e in una parola tutto ciò che« non tocca, non muta la sostanza dell' essere«. Ora che la mutazione che nasce rispetto al corpo di Cristo, secondo il Bellarmino stesso, sia l' acquisto di una nuova relazione l' abbiamo espressamente da lui confessato. Conciossiachè ricercando egli che mutazione nasca nel corpo di Cristo, risponde: [...OMISSIS...] . Or si congiunga questo luogo con un altro precedente dove nega che il corpo di Cristo che è in cielo muti o la sostanza, o gli accidenti, o il luogo (2). Se dunque non nasce mutazione nè quanto alla sostanza nè quanto agli accidenti, tutta la mutazione si dee ridurre alla relazione nuova che acquista; la quale crediam di poter riporre fra le mutazioni accidentali, appunto perchè non risguardano la sostanza. Laonde dall' avere il Bellarmino avuto ricorso alla sua conversione adduttiva per ispiegare la transustanziazione, due cose si raccolgono: 1. Ch' egli stesso conobbe che l' individualità d' una cosa non può passare nell' individualità di un' altra cosa, il che implica contraddizione, e però ricorse a quella conversione impropria ch' egli denomina adduttiva . 2. Ch' egli non dà una vera spiegazione della transustanziazione, ma più tosto dà il nome di transustanziazione alla successione d' una cosa all' altra che s' annienta; senza però che si converta veramente o si transustanzii. E qui si conviene fare un' osservazione che mette in maggior lume di evidenza l' impossibilità della transustanziazione nel sistema degli avversari; ed è questa: Il Bellarmino descrivendo quella ch' egli chiama conversione conservativa recò in mezzo l' esempio di due corpi che facesser vista di penetrarsi (il che veramente non sarebbe che un distruggersi dell' uno per opera divina, conservandosi l' altro). Ora il venerabile uomo usa di queste parole: [...OMISSIS...] . Quella parola naturalmente vien qui introdotta, perchè il Bellarmino opina non essere cosa ripugnante, e però possibile a Dio la penetrazione de' corpi. Ma ciò ora noi non vogliamo discutere. Ciò che noi vogliamo osservare si è, che supposto che la penetrabilità non implichi contraddizione, quand' anco l' uno de' due corpi non fosse distrutto da Dio, come pone il Bellarmino, ma compenetrato nell' altro; ancora non sarebbe punto seguita la conversione dell' uno nell' altro fin a tanto che i corpi sussistessero nello stesso luogo: ma perchè veramente si potesse dire essere avvenuta la conversione o transustanziazione converrebbe, che l' individualità dell' uno fosse passata nell' individualità dell' altro; cioè che l' uno individuo fosse diventato l' altro individuo. Or questo è manifestamente assurdo; giacchè la propria sussistenza individuale è al tutto incomunicabile, non solo rispetto ai corpi, ma ben anco rispetto a due individui quali si vogliano, anco spirituali: perocchè nel concetto dell' individuo si contiene quello di cosa incomunicabile, però inconvertibile. Non si dee adunque fermarsi solo a considerare le difficoltà che trae seco la penetrazione de' corpi; ma si dee prima sollevarsi alla difficoltà più generale che nasce dall'« incomunicabilità dell' individuo« sussistente: la quale, a mio parere, non può essere dagli avversari nostri in modo alcuno superata. Ma da ciò si deve scendere a considerare altresì se posti i tre principii degli avversari una vera transustanziazione sia consentita dalla natura della sostanza corporea. E qui si dee partire da questo principio che una vera conversione d' una cosa in un' altra non si dà, se non a condizione che la cosa che si converte S' IDENTIFICHI colla cosa in cui si converte (1). Ora questa identificazione non può seguire se non a condizione: 1. Che la cosa che si converte perda la propria identità, quindi cessi di essere quello che era prima, e altresì cessi di essere al tutto, intendendo l' espressione in questo senso, che non può dirsi più dopo la conversione« ella è«: conciossiachè quell' ella esprime la cosa di prima che non è più. 2. Che la cosa in cui si converte non perda la sua identità ma rimanga perfettamente quella di prima. 3. Perciò che le due cose, dopo la conversione dell' una nell' altra, già non siano più due, ma una sola; e non già una mista di tutte e due; ma la sola seconda identica a sè stessa innanzi la conversione; nella quale ha perduto il proprio essere la prima in essa convertitasi. Dopo di ciò dee ancora osservarsi, che acciocchè una cosa entri nella natura dell' altra, fino a lasciare la propria natura e prendere la natura di quella in cui entra, conviene che tutte e due le cose, la trasmutantesi , e la trasmutataria (mi si conceda questa voce) sostengano mutazione: perocchè la prima dee sofferire quell' alterazione che le faccia assumere l' altrui natura, l' altrui essere, lasciando il proprio: e la trasmutataria dee pure sostener mutazione in ricevere l' essere altrui nella propria natura, e nel proprio essere. Or nulla di meno si richiede perchè accada un tale trasmutamento, il quale in senso vero e proprio si possa denominare conversione, transustanziazione, transelementazione ; nomi sacri, e propriissimi nell' uso della Chiesa, che li applica al Sacramento Eucaristico. La conversione adunque vera e propria non è quella che il Bellarmino chiama conservativa , nè quella che chiama adduttiva , e nè pure quella che si chiama produttiva . Perocchè nè conserva semplicemente, nè semplicemente adduce una cosa in altro luogo, come lo spirito che inanima nuova materia, il quale perciò non si trasmuta, nè produce un essere nuovo; perocchè il trasmutatario rimane l' essere identico che era prima che avvenisse la conversione. Nelle tre conversioni adunque distinte dal Bellarmino non si dànno i caratteri proprii della conversione vera, che sono pur quelli che noi abbiamo recati. Ora tutte queste cose ben ritenute, egli è evidente, che un essere ricevendo in sè l' entità di un altro essere che in lui si converte, non mantiene l' identità sua, se non si suppone che tanto prima di divenir trasmutatario, come dopo essere divenuto tale, rimanga uno e semplice come prima. E veramente se coll' accogliere l' entità dell' altro essere egli diventasse due esseri mediante tale aggiunta, già non sarebbe vero che il nuovo essere si fosse in lui convertito, ma solo a lui apposto, avvicinato, appiccicato e nulla più. Or non sarebbe possibile che un essere trasmutatario rimanesse uno e identico, tanto più dopo aver ricevuto in sè l' altro essere, se non supponendo che l' unità sua sia un' unità complessa, cioè risultante di più parti, le quali sono unificate da un principio unico. In tal caso seguitando questo identico principio ad unificare le parti e a costituire la loro unità base dell' identità del loro complesso; egli è evidente che le parti possono crescere e diminuire; senza che nè l' unità, nè l' identità del tutto punto perisca o sofferi alterazione alcuna. All' opposto dove non si trattasse di una unità complessa; dove l' unità non provenisse da principio unificante più parti, le quali vengono da lui compaginate in un tutto unico e semplice; dove non si trattasse dell' identità di questo tutto: sarebbe impossibile concepire una vera e propria conversione. L' impossibilità di questo è manifesta; perocchè ne avremmo questa formola 1 .più . 1 .uguale . 1 E veramente si tratterebbe di rifondere l' entità di un individuo in un altro individuo, che è quanto aggiungere unità ad unità; e di averne per risultato non due individui, nè un individuo maggiore di prima, ma quell' individuo stesso nello stato di prima; cosa assurda come è assurdo che due e due facciano uno. All' opposto se l' individuo in cui l' altro si converte è complesso, egli è facile a sciogliere il nodo. Perocchè sebbene sembra, che venga a dirsi ugualmente che uno ed uno facciano uno; tuttavia è da sapersi che queste unità non sono uguali nei loro elementi ma solo nel loro risultato; sicchè l' unità che ne risulta è uguale nella sostanza, non nella grandezza, sicchè la formula si ridurrebbe a quest' altra 1 .più . 1 .uguale .1 la quale non ha contraddizione alcuna: se non che è da osservare, che questa formola, che varrebbe per la quantità, non varrebbe punto ad esprimere l' identità della sostanza o sia l' unità totale. Or questo è appunto ciò che avviene continuamente in noi. Noi bambini e noi uomini adulti siamo identici; perchè è identico il principio unificante, il principio nostro formale; pure ci sono state aggiunte delle parti, che non avevamo; il nostro corpo è cresciuto. Questo crescimento nelle parti non è crescimento nel tutto unico e identico; questo crescimento nella quantità, non è crescimento nella sostanza o nella individualità. Mediante la nutrizione adunque nasce una vera conversione e transustanziazione del cibo nel corpo nostro vivente. E simile a questa, noi sosteniamo dover essere quella che avviene mediante la consecrazione del pane e del vino. Non hanno alcun modo all' opposto [gli avversari] di mostrare nella conversione da loro descritta i caratteri sopraccennati di una conversione vera. Perocchè posto per principio che al corpo di Cristo non si può aggiungere niuna particella; viene per conseguente che non si consideri l' identità del tutto, ma l' identità delle particelle che compongono il tutto; non il tutto come uno, ma come una collezione di determinate particelle. Quindi se si volesse supporre una vera conversione non si potrebbe in alcun modo evitare quell' assurdo che esprimemmo nella formola, 1 .più . 1 .uguale . 1: il che non può fare nè pure l' onnipotenza divina: perocchè è ripugnante intrinsecamente che uno ed uno faccia uno; come che un' entità fusa nell' altra non accresca o di numero o di grandezza l' altra entità. Ricorreremo per esser brevi a ciò che fu stabilito intorno alla natura del corpo nel Nuovo Saggio sull' origine delle idee , alla qual opera rimettiamo il lettore che brami più estese prove di ciò che qui affermiamo. Noi abbiam detto che le nostre cognizioni intorno al corpo ci vengono per due modi: 1 pel sentimento fondamentale spontaneo e sue modificazioni, e questo modo l' abbiam chiamato soggettivo ; 2 pel sentimento di resistenza al sentimento fondamentale, e questo l' abbiamo chiamato oggettivo [estrasoggettivo] (1). Or di questi due modi (sebbene ciascun porga un testimonio verace alla intelligenza) quello però che è principale, e fondamentale è il soggettivo; e su questo si fonda l' oggettivo [estrasoggettivo] : però la verità di questo dalla verità di quello interamente dipende (1). Or dunque, o noi non conosciamo cosa alcuna di vero intorno alla sostanza corporea, o pure dobbiamo a quel primo modo far fede. Ciò ha massimamente luogo trattandosi del corpo proprio, che noi percepiamo per un sentimento spontaneo fondamentale. L' unica maniera di conoscere che abbiamo un corpo si è questo sentimento appunto: e questa maniera è infallibile: perocchè l' essenza del corpo sta in questo sentimento, o certo da questo sentimento ci è immediatamente fatta percepire, consistendo questa essenza 1 in un agente; 2 che produce in noi quel sentimento diffuso nella estensione. Or venendo ad applicare questi principii al mistero Eucaristico; io domando se Gesù Cristo sente il proprio corpo nella dimensione di spazio circoscritta dalla specie del pane e del vino. Non si può rispondere, che o sì, o no. Ora se si risponde, che Gesù Cristo in quella dimensione di spazio che dalle specie Eucaristiche è circoscritta non ha il sentimento fondamentale del proprio corpo, in tal caso non si verifica che esista nello spazio disegnato dalle specie consecrate il corpo di Cristo: perchè l' essenza del corpo proprio di ciascuno sta nell' essere materia e confine al sentimento fondamentale. Se poi si risponde di sì; in tal caso convien dire che il sentimento fondamentale di Cristo oltre estendersi a quel luogo, che occupa in cielo, si stenda anche a quegli spazii che vengono dai confini del pane e del vino consecrati determinati. E in tal caso il corpo di Cristo non sarebbe restato quel di prima; ma si sarebbe veramente ingrandito, estendendosi agli spazii che dalle specie sono coperti. Perocchè io ho dimostrato che la vera grandezza del corpo è quella che viene determinata dal sentimento fondamentale, nè può essere altramente (2). Ora nel sistema degli avversarii si pone che il corpo di Cristo colla transustanziazione non acquisti aumento di sorta. Dunque racchiude l' assurdo, perchè d' una parte lo distende il sentimento fondamentale, il che equivale a ingrandire il corpo di Cristo: dall' altra [si] esclude qualunque ingrandimento; il che è contraddizione in terminis . Che se alcuno volesse dire, che v' ha l' estensione del sentimento fondamentale e però l' ingrandimento del corpo; ma che questo ingrandimento non nasce per aggiunta di particelle corporee avvicinate: costui cadrebbe in gravi errori. Perocchè: 1. E` assurdo che v' abbia il sentimento fondamentale corporeo là dove non v' ha materia corporea, che ne è il termine. 2. Questa materia non potrebbe essere creata, perchè non si vuole che niuna materia s' aggiunga al corpo di Cristo. Però si porrebbe la materia col porre il sentimento, ed insieme la si escluderebbe; il che è pure contraddizione. Si negherà forse che l' essenza del corpo di un uomo consista nel sentimento fondamentale del medesimo, o certo che da lui sia determinata? Dove adunque si vuol collocarla? Forse nella potenza non di agire sullo spirito (producendovi il sentimento fondamentale) ma in quella di agire sugli altri corpi esteriori? Io ho dimostrato che ciò implica assurdo, perocchè verrebbe fuori le definizione circolare: il corpo essere una potenza di agire sul corpo « idem per idem «. Ma tralasciando la dimostrazione diretta dalla falsità della dottrina che vorrebbe porre l' essenza del corpo in una potenza di agire sugli altri corpi o di produrre il moto, ecc.; io con argomenti egualmente efficaci, sebbene indiretti, verrò a convincere gli avversarii di rinunziare al loro tentativo. E a far ciò mi basterà osservare. 1. Che il corpo di Cristo nell' Eucarestia non mostra al di fuori nè la propria grandezza o forma, nè i proprii accidenti. 2. Che però l' operar suo è tutto secreto, non operando sul corpo nostro fisicamente colle forze proprie di lui, ma colle forze fisiche del pane e del vino; sebben questi cessino interamente. 3. Che quindi se l' operare all' esterno costituisce l' essenza del corpo; sotto le specie sacramentali non ci sarebbe più il vero e real corpo di Cristo mancandone l' essenza. 4. Chi poi dicesse bastare che abbia la virtù di operare esternamente, sebbene non operi; osserverei che questa virtù di operare non producendo nessun effetto fisico suo proprio non sarebbe però il corpo di Cristo, quando Cristo non n' avesse il sentimento e la consapevolezza; e se questo l' avesse, avrebbe colla consecrazione acquistato ciò che non gli si vuol dare, il sentimento fondamentale: e torneremmo ad osservar quelle cose, che abbiam toccate nell' articolo precedente. Insomma avverrebbe che fosse un corpo che nè avrebbe congiunzione sentita e proprio collo spirito di Cristo, nè con noi, in quanto sta ne' luoghi dalle specie circoscritto: il che distrugge l' idea del corpo. All' incontro bene stabilito il principio che« l' essenza del corpo umano« non consista nella sua azione al di fuori, ma nella sua congiunzione individua collo spirito da cui è informato, e con cui produce insieme il sentimento fondamentale, rimane chiarissima la verità e realtà del corpo di Cristo nella santissima Eucarestia, eziandio che egli non ferisca i nostri sensi, e non sia a noi oggettivamente [estrasoggettivamente] percettibile. Rimane la percezione soggettiva che di lui fa Cristo, e questo è il fondamento della sua verità e realità. Laonde que' filosofi che definirono il corpo un complesso di sensazioni esterne e oggettive, come Berkeley e Condillac, resero impossibile il dogma dell' Eucarestia, dove si crede la verità e realtà del corpo di Cristo, benchè manchino tutte le sensazioni esterne e oggettive [estrasoggettive] sopra di noi. Nè meglio può convenire al dogma Eucaristico il riporre nell' estensione attuale l' essenza de' corpi, come facevano i Cartesiani. Perocchè l' estensione circoscritta dalle specie dell' ostia consacrata, avendo un' altra figura e un' altra grandezza dal corpo umano, non potrebbe esser mai nè contenere il corpo di Cristo (1). Leibnizio vide l' errore di Cartesio, e s' accostò molto al vero ponendo la natura del corpo non già nell' estensione, ma nella « materia e forma sostanziale, cioè nel principio di passione e di azione« (2). » Or il collocare la natura del corpo solo in un principio di passione o di azione è troppo poco; perchè è troppo generale, conciossiachè questo descriverebbe più tosto l' essenza della sostanza in genere, anzichè quella della sostanza corporea. Convien dunque nel descrivere l' essenza del corpo, oltre porre il principio passivo ed attivo comune a tutte le sostanze, determinare altresì che cosa sia ciò che un tal principio sostanziale faccia appartenere più al corpo che ad altro essere, ciò che Leibnizio chiaramente non dice. Prosegue Leibnizio, dopo aver detto che l' essenza del corpo consiste in un principio di azione e di passione, in una facoltà attuale o entelechia primitiva, a dire, che questo sostanzial principo in cui consiste l' identità del corpo esige certe potenze ed atti secondi che sono realmente distinti dall' essenza, e che però dall' onnipotenza di Dio si possono separare interamente dall' essenza senza che questa perisca (1). Queste potenze seconde sono veri accidenti reali, non conseguenti di necessità dall' essenza del corpo, ma più veramente sopraggiunti ad esso, e per sè essenti. Due di queste qualità assolute o accidenti reali egli nota nel corpo, i quali sono la mole o potenza di resistere «pyknotes,» ovvero anche «antitypeia») e il conato o potenza di agire, ed essi son quelli che costituiscono veramente l' estensione de' corpi: il perchè l' estensione, e di conseguenza le dimensioni, e il luogo non sono cose a' corpi essenziali (2). Posta questa distinzione reale fra la sostanza del corpo e l' estensione, egli è manifesto che non solo può cessare l' estensione senza che cessi la sostanza, ma può l' estensione variare, non variando la sostanza: quindi lo stesso corpo può avere contemporaneamente più dimensioni, ovvero la stessa dimensione, lo stesso accidente reale può appartenere a diverse sostanze corporee: finalmente può rimanere la dimensione e la qualità, tolta la sostanza (3). Applicando questa dottrina intorno alla natura del corpo al mistero Eucaristico, ella suppone: 1. Che nel corpo di Cristo non sia avvenuta una mutazione di essenza, ma bensì una mutazione ne' suoi accidenti reali, quali sono la mole, il conato, l' estensione (1). 2. Che nel pane viceversa sia avvenuta una mutazione di essenza o sostanza, essendo questa cessata, rimanendo intatti i suoi accidenti reali, la mole, il conato, l' estensione. 3. Che la mutazione avvenuta nel corpo di Cristo consista in esistere oltre che nell' estensione propria, anche nell' estensione descritta dalle specie del pane: di guisa che l' identica essenza del corpo sia stata fornita di più estensioni. 4. Che la mutazione avvenuta nel pane consista nell' aver perduta la sostanza propria (se pure non si vuol dire che questa sia uscita di luogo, resasi spirituale, ciò che nel sistema Leibniziano potrebbe dirsi) e ricevuta nel luogo stesso della sostanza propria l' estensione del corpo di Cristo. Ora questo sistema difficilmente potrà soddisfare pienamente ed approvarsi da' teologi cattolici. Imperciocchè: 1. Nel mistero Eucaristico si trova sotto le specie del pane consecrato il corpo, l' anima e la divinità di Cristo. Hassi dunque a spiegare non solo come sotto le specie del pane si trovi l' identico corpo di Cristo, ma anche come si trovi lo spirito tutto intero di Gesù Cristo. Ora quel sistema non si occupa che di spiegare la presenza in più luoghi del corpo, e nulla più. 2. Si spiega egli la esistenza del medesimo corpo sotto diverse specie nel Leibniziano sistema? Forte ne dubito. Perocchè avendo distinto l' estensione del corpo dalla essenza del corpo, rimane a dimandare: ciò che voi collocate sotto le specie del pane è la sola estensione, o è anche la sostanza corporea? Se è la sola estensione: dunque sotto le specie del pane non esiste il corpo di Cristo, ma solo un suo accidente reale, che estensione si appella; il che sarebbe contro il dogma. Se poi sotto le specie del pane voi ponete la sola sostanza del corpo di Cristo senza l' estensione, vi rimarrà a spiegare come questa sostanza posta in tanti luoghi diversi non si moltiplichi (1). Di più rimarrà a dimandare, come la stessa identica sostanza di Cristo possa nello stesso tempo essere coll' estensione, e senza l' estensione. Nè vale già il dire, che si pone in due luoghi diversi in cielo, e sotto le specie del pane; perchè si parla della stessa identica sostanza metafisicamente considerata, cioè fuori di ogni luogo; la qual perciò come tale, non può dirsi essere in cielo od in terra; perocchè questo sarebbe già un dire avere determinazione di luogo, il che è contrario al concetto che si vuol formarsi della sostanza. Riman dunque a spiegare che una stessa identica sostanza per sè fuori di luogo debba esser collocata in due luoghi diversi nell' uno de' quali sia estesa, e nell' altro no, senza che perda la sua identità. Che se poi si pone sotto le specie del pane e la sostanza e l' estensione, in tal caso resta di nuovo a spiegarsi: 1. come la sostanza posta in più luoghi non si moltiplichi; 2. come l' estensione, che ha il corpo di Cristo sotto le specie dell' ostia, aggiunta all' estensione che ha il corpo di Cristo in cielo, non produca una sommaria estensione maggiore della prima; nel qual caso il corpo di Cristo si sarebbe ingrandito e disteso; 3 supponendo che sotto le specie sacramentali sussista il corpo di Cristo colla sostanza e colla estensione, che è l' unico sistema che possa convenire alla fede cattolica; rimane nel sistema Leibniziano a dimandare, la sostanza che sta sotto la specie colle sue dimensioni, è ella qualche cosa che fosse aggiunta al corpo di Cristo in cielo, o è nulla? Il Bellarmino dice che il corpo di Cristo in cielo acquistò l' essere sacramentale, il che suppone qualche mutazione essere avvenuta in lui [...OMISSIS...] . Or dunque, se il corpo di Cristo in cielo acquistò qualche cosa, se sotto le specie egli esiste colla sostanza e coll' estensione, se cosa certa è, che queste estensioni sono diverse, e che la somma di estensioni diverse forma un' estensione maggiore di prima, se in tutte queste estensioni opera la forza o sostanza corporea, che ha virtù di effondersi ed operare nell' estensione, altramente non sarebbe; rimangono dunque queste due difficoltà gravissime a superare: 1. Come il corpo di Cristo siasi ampliato. 2. E come siasi ampliato, senza aggiunta di nuova materia, la quantità della quale viene necessariamente determinata dalla estensione. Quest' aggiunta fu creata da Dio? perocchè se non fu prodotta dall' aggiunta di una materia nuova preesistente, nè da materia da Dio creata, ella non fu fatta in modo alcuno: e però cadremmo in contraddizione ponendo una giunta al corpo di Cristo, e negando nello stesso tempo la giunta stessa che noi poniamo. Conviene tutte queste difficoltà, che assai facilmente si superano nel nostro sistema, freddamente considerare e ponderare. Ma passiamo alle particolari difficoltà, che si rinvengono nel sistema del venerando Bellarmino. La sentenza di Leibnizio muove, come vedemmo, dall' aver distinta la sostanza (materia e forma sostanziale) del corpo, dall' estensione di lui prodotta dalla mole o forza di resistere e di impellere. Il Bellarmino all' incontro vide quanto forte cosa era a dire, che il corpo possa starsi privo di ogni estensione; e però immaginò di distinguere due estensioni, l' una essenziale al corpo, della quale egli non può essere spogliato senza che sia distrutto, l' altra a lui non essenziale, della quale può essere spogliato senza che perisca; l' una interna al corpo stesso, e l' altra locale o sia commensurativa al luogo che occupa (1). Ora, sebbene che il Bellarmino arrechi una ragione non solida a provare, che un corpo può trovarsi coll' estensione interna , e tuttavia senza l' estensione esterna che lo adegua al luogo (1); tuttavia la distinzione del Bellarmino trova fermo sostegno nelle dottrine intorno al corpo ed allo spazio, che io ho espresso nel Nuovo Saggio sull' origine delle idee . E veramente io ho dimostrato avervi due modi di percepire l' estensione, l' uno soggettivo , l' altro oggettivo [estrasoggettivo]; di che si può acconciamente distinguere un' estensione soggettiva da una estensione oggettiva [estrasoggettiva] : e questa appunto mi pare che possa corrispondere alla distinzione recata in mezzo dal Bellarmino, la quale, senza intenderla in questo modo, non so qual potrebbe avere significato. E veramente mi dà motivo d' interpretare in sì fatta maniera la distinzione del Bellarmino fra l' estensione interna e l' estensione esterna , un luogo del Bellarmino stesso, dove rispondendo ad una obbiezione chiarisce maggiormente il suo pensiero dicendo: [...OMISSIS...] . Or da queste parole pare potersi conchiudere, che l' estensione che attribuisce al corpo di Cristo nella Eucarestia è quella che noi chiamiamo estensione soggettiva , cioè relativa al soggetto. E certo se così dee intendersi quella che il Bellarmino attribuirebbe al corpo di Cristo nell' Eucarestia sarebbe un' estensione verissima e non già apparente: quando anzi noi abbiamo dimostrato che l' essenza propriamente dell' estensione noi la percipiamo soggettivamente, mediante il sentimento fondamentale e sue modificazioni; di maniera che la sensazione soggettiva è la misura e il fermo criterio de' giudizi che noi facciamo sull' estensione esterna ed estrasoggettiva (1). Nè s' incontra contraddizione alcuna che v' abbia l' estensione soggettiva, senza che v' abbia la oggettiva [estrasoggettiva] corrispondente. Perocchè è manifestamente un atto diverso quello che fa la sostanza corporea ponendo la estensione soggettiva , da quello che fa ponente la estensione oggettiva [estrasoggettiva] . Conciossiachè la estensione soggettiva l' abbiamo noi definita« un modo del nostro sentimento fondamentale« in quanto questo è un sentimento animale. Or questo sentimento è l' effetto di una forma che agisce nel nostro spirito e col nostro spirito; e che ivi lo produce, e lo produce col suo modo dell' estensione soggettiva; di maniera che questa estensione noi la percipiamo immediatamente col sentimento fondamentale; e la forza che la produce, considerata come cosa congiunta col suo effetto esteso, è il corpo nostro proprio. All' incontro l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] è quella che percipiamo quando un corpo esteriore modifica il corpo nostro, e sentiamo non un sentimento spontaneo (come è il sentimento fondamentale), ma un sentimento violento, come è quello che proviamo nell' atto che un oggetto esterno agisce su di noi modificando il sentimento nostro fondamentale, col produrre qualche moto nella sua materia. Or qui è evidente la distinzione essenziale fra l' atto che produce l' estensione soggettiva, e l' atto che produce a noi l' estensione oggettiva [estrasoggettiva]. L' atto che produce l' estensione soggettiva opera immediatamente sul nostro spirito. L' atto che produce a noi l' estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] non opera sul nostro spirito (almeno immediatamente), ma opera sulla materia del nostro sentimento fondamentale; e se noi troviamo l' identità delle due estensioni non è per altro se non perchè l' estensione esterna viene da noi commensurata e immedesimata coll' estensione interna, nel modo che ho spiegato nel Nuovo Saggio , e non per altro. Or l' azione sopra uno spirito e l' azione sopra un corpo sono azioni essenzialmente diverse, e però si possono concepire divise. Di più queste due azioni si ravvisano ne' corpi sì come sono nello stato loro naturale; ma l' azione però del corpo sopra il nostro spirito è anteriore all' azione de' corpi esterni sopra il corpo nostro; e quella basta a farci concepire un corpo esteso. Dunque alla vera essenza del corpo esteso non appartiene che la estensione soggettiva, e non involge punto di contraddizione, che rimanga privo dell' estensione oggettiva [estrasoggettiva] a quella posteriore, e da quella essenzialmente distinta. E in vero se il corpo nostro continuasse ad essere da noi sentito col sentimento fondamentale, ma egli cessasse di agire interamente su corpi esterni di guisa che non cadesse più sotto il senso degli altri uomini: questo corpo avrebbe tutta la sua estensione soggettiva, e tuttavia avrebbe perduta la estensione oggettiva [estrasoggettiva]; egli continuerebbe ad agire sull' anima nostra, e avrebbe cessato di agire sul corpo degli altri uomini, azioni e facoltà assai disparate. E questo parmi che molto probabilmente possa essere lo stato del corpo glorioso in quei momenti, ne' quali cessava dal rendersi sensibile esternamente; ne' quai momenti, sebbene non feriva i sensi organici degli Apostoli e de' discepoli, non continuava meno per questo ad essere congiunto coll' anima di Cristo, nè meno continuava ad essere in quest' anima il sentimento del corpo al quale era unito (1). Or sebbene un corpo perda la sua estensione oggettiva [estrasoggettiva] cioè rattenga l' atto di quella forza che il fa operare sugli altri corpi; non perde per questo, come osserva ottimamente il Bellarmino, la stessa facoltà di operare all' esterno (2): di che viene che questa facoltà, nel caso de' corpi gloriosi, possa or porre l' atto suo, or raffrenarlo, e così or apparire visibile, or invisibile, ora tangibile ed ora intangibile. Ma or applichiamo questa dottrina intorno all' estensione al modo onde il corpo di nostro Signore si trova nell' Eucaristia. Primieramente un corpo umano, il quale conservasse l' estensione soggettiva, sarebbe in uno stato il quale sebbene relativamente al soggetto senziente esisterebbe come prima, avrebbe le stesse dimensioni e ogni parte fuori dell' altra; tuttavia relativamente a' corpi esterni sarebbe intieramente come se non fosse, non avrebbe ad essi alcuna abitudine nè di luogo, nè di azione, cioè di quell' azione che costituisce l' estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] od esterna . Ora questo farebbe intendere quello che dice S. Tommaso, che il corpo di Cristo si trova nell' Eucaristia illocalmente , cioè non come una quantità dimensiva; ma come una sostanza (1). Perocchè la sostanza del corpo si mantiene, quand' anco ella non si commisuri a un luogo cioè al suo spazio esterno, la qual commensurazione di S. Tommaso viene a corrispondere a quella che noi chiamiamo estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] (2). Sebbene però S. Tommaso insegni che il corpo di Cristo non è in questo Sacramento sì come in luogo, quando anzi non vi potrebbe stare in tal forma, conciossiachè il luogo che presta questo Sacramento al corpo di Cristo è molto più ristretto della dimensione propria di esso corpo di Cristo; sebbene insegni pure, che il corpo di Cristo non sia in questo Sacramento per modo di quantità dimensiva, nè circoscrittivamente; tuttavia il santo Dottore aggiunge, che, se non in forza del Sacramento, tuttavia per ragione della reale concomitanza si trova altresì nell' Eucaristia tutta la quantità dimensiva del corpo di Cristo. Ora egli sembrano queste cose apparentemente contradditorie; giacchè se si adduce per ragione del non essere il corpo di Cristo nel Sacramento come in luogo, quell' essere il luogo del Sacramento assai minore del corpo stesso di Cristo (3), una tal ragione vale per escludere la quantità dimensiva assolutamente, o per virtù del Sacramento, o concomitante. Ma l' angelico Dottore agevolmente si concilierebbe seco medesimo, ammettendo la distinzione suggerita dal Bellarmino, e intendendo che il corpo di Cristo è privo nel Sacramento della quantità dimensiva esterna , ma non della quantità dimensiva interna e a lui essenziale . Or questa, essendo essenziale al corpo, dee esserci in virtù del Sacramento; quella non abbisogna che vi sia se non virtualmente , e però in conseguenza della naturale concomitanza dovrebbe esservi, ma per un modo portentoso soprannaturale vien ritenuta indietro, rimanendo la potenza e non l' atto. O pure può distinguersi nella quantità dimensiva interna, la determinata misura di questa, e intendere che per concomitanza è questa determinata misura che si trova nel Sacramento, non una quantità dimensiva interna qualunque, che pur vi dee essere, come elemento della corporea sostanza. Ma qui comincia tosto a manifestarsi una difficoltà. Se il corpo di Cristo è al tutto privo della estensione oggettiva [ estrasoggettiva ], egli non ha più alcuna relazione cogli altri corpi, o co' luoghi che occupano; come dunque si dirà che il corpo di Cristo sia sotto le specie del pane e del vino? come si dirà ch' egli, se non è circoscritto dalla propria estensione oggettiva [estrasoggettiva] sia però circoscritto dalla estensione esterna e oggettiva [estrasoggettiva] del pane e del vino stesso? (1) non però che quella estensione sia un suo accidente, ma sì il limite del luogo entro il quale egli si trova. Insomma come manca l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] del corpo di Cristo, così rimane l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] del pane colla quale il corpo di Cristo ha quelle relazioni che aveva il pane prima della transustanziazione, fuor solo che il pane era il soggetto di quella estensione sensibile, quando tale non è il corpo di Cristo. Come dunque si spiega questa relazione, quando la quantità che conserva il corpo di Cristo è al tutto priva di relazione a corpo estraneo o a luogo alcuno? (2). .......... La base del Cristianesimo è il dogma del peccato d' origine. A redimere l' umana famiglia dalla perdizione, in cui l' ebbe rovesciata la disubbidienza del padre suo, disubbidienza da S. Agostino detta « ineffabiliter grande peccatum (1), » il Figliuolo di Dio si fece carne e fu crocifisso. Egli illuminando gli uomini ciechi a conoscere Iddio, e donando loro i mezzi co' quali sollevarsi all' eternal beatitudine, fondò il Cristianesimo. Laonde fu sempre riconosciuto, che l' attentato di distruggere il dogma del peccato originale mira a distruggere tutta intera la cristiana religione; la cui causa, come disse divinamente S. Agostino, si racchiude in due uomini, Adamo e GESU` Cristo. A malgrado tuttavia dell' importanza di questo dogma dell' originale peccato, furon sempre, non solo tra gli infedeli, ma tra i cristiani altresì, alcuni che l' attaccarono, e mossero ogni pietra, ogni ingegno adoprarono affin di distruggerlo. Se cercasi la cagion di una guerra così incessante contro tal verità, la cui tradizione conservossi da tutti i popoli, conviene rinvenirla nella stessa importanza principalissima di quel dogma; contro al quale il demonio fa gli sforzi maggiori; perchè bene intende che smossone il fondamento, l' edifizio, per magnifico e solido ch' egli sia, precipita da sè stesso; onde così lusingasi di crollare agevolmente tutta intera la cristiana religione solo che gli riesca di levarle di sotto il primo fondamento, sul quale ella si erige, quello dell' originale infezione. Tale è l' intendimento costante dell' inimico dell' uman genere, e di tutti i suoi figliuoli. Al quale empio divisamento del primo autore del male apparecchia poi il camino l' umano desiderio di conoscere, e la limitazione ed infermità della mente e la manchevolezza dell' umana virtù; onde l' uomo si appiglia più presto al partito di affermare il falso, che di confessare la propria ignoranza, e piuttosto di dire a sè stesso di non vedere, imagina de' vani fantasmi e dice di vedere. Laonde essendo il peccato di origine uno de' veri i più misteriosi, a tal che ebbe a scrivere S. Agostino: [...OMISSIS...] ; niuna maraviglia è, che gli uomini ripugnino ad aderirvi; come ripugnano sempre a credere quello che non intendono, e che per tante vie eglino tentassero di spacciarsene col proprio ragionare, quanti erano i nodi che vi rinvenivano al loro debol pensiero insolubili. L' uomo in una parola ristretto alle forze della sua mente e dalla grazia non sollevato più su, è agevolmente razionalista; agevolmente ei si persuade di dover ritrovare nella forma della propria ragione ogni scibile. Quest' è il fonte da parte della natura umana degli sforzi fattisi in tutti i tempi affin di distruggere il dogma del peccato originale. Non tutti però quelli, che all' annullamento di questo primo dogma della Religione diedero opera, ebbero egualmente coscienza di tentare con ciò un' impresa criminosa. V' ebbero in prima di quelli, che dichiarandosi di professare il Cristianesimo e d' ammettere tutte le verità rivelate, negarono in pari tempo colle parole e co' concetti loro il peccato d' origine. Furono condannati dalla Chiesa; e dall' istante che la Chiesa definì esplicitamente il vero, e dannò quella loro dottrina, la coscienza del delitto che comettevano, rimanendo pertinaci in tale errore, non potea più loro mancare. Ma il dogma del peccato d' origine non ebbe solo a nemici quegli eretici manifesti. L' astuzia del diavolo primo autor suo, e il razionalismo a cui l' uomo spesso, come dicevamo, si lascia guidare, non cessò mai di dare in lui de' secreti morsi. Ed ecco in che modo si venne a questo dogma pregiudicando, fino a distruggerlo interamente co' concetti, nel tempo stesso che lo si confessava colle parole . Le varie difficoltà, che alla ragione dei singoli uomini presenta il peccato d' origine si vollero ad ogni costo superare. E certamente sarebbesi prestato un servizio grandissimo alla stessa religione coll' appianare quelle apparenti difficoltà. Laonde molti vi lavorarono intorno a buon fine, e con animo reverente e sommesso al sentir della Chiesa; di che nacquero le diverse scuole teologiche, che convenendo tutte in quello che trovavano dalla Chiesa chiaramente ed espressamente definito, e sempre pronte a condannare quel che fosse per condannare la Chiesa, e a difendere quello che la Chiesa fosse per definire; giustamente si meritarono egual protezione dalla Santa Sede, che non di rado con divina sapienza e moderazione difese la libertà di ciascuna, a niuna d' esse permettendo di condannare le altre con quell' autorità che sol si compete al supremo apostolico Magistero. All' opposto ingiustamente gli empi e i profani straziarono le cristiane Scuole, traendone cagione dalle differenti opinioni in cui si dividono. Conciossiacchè la divisione nelle mere opinioni non toglie l' unità concordissima della fede, nè pregiudica necessariamente all' intima carità, la quale semplifica i cuori coll' identità di ciò che cercano tutti, benchè per vie diverse, la verità; e di ciò che tutti amano e per cui tutti egualmente i veri teologi di qualsivoglia Scuola lavorano, Iddio. All' incontro quello sforzo di arrivare allo stesso fine per varie strade, giova non poco alla scienza; che di varie considerazioni, quasi di raggi da diverse parti riffettenti e convergenti, s' illustra. Che se si volessero le ragioni indagare del diverso opinar delle Scuole, forse questa si troverebbe esser una: l' essersi una Scuola allarmata maggiormente di uno degli estremi errori, e un' altra l' essersi maggiormente allarmata d' un altro; onde ciascuna, volendosi provvedere e cautelare principalmente in contro a quell' errore che più prese a temere e a combattere, s' appigliò a quelle sentenze e a quelle espressioni, che dall' odiato errore più le paresser lontane. Di che ben può dirsi, che l' emulazione che mostraron fra loro queste Scuole fosse una cotal gara a chi meglio evitasse gli scogli degli errori e la purezza della dottrina intemerata conservasse. Le quali cose affermando, io non ignoro però, nè dissimulo a quali sconvenevoli modi, a quali imputazioni calunniose si lasciassero talor andare i disputatori, con tanto dolor de' fedeli, e troppo n' ho provato io stesso l' aculeo; ma dico essere questi peccati degli uomini e non delle Scuole, i quali furono già da me nei due libri precedenti sufficientemente ripresi e lagrimati. E però in quest' ultimo reputo tali increscevoli difetti umani lasciar da parte; e della sola dottrina storicamente venir ragionando, senza badare se con modi o decenti o sozzi dagli scienziati ella si maneggiasse. Laonde senza dubitazione ripeto, essere le Scuole tutte della Chiesa cattolica in sè stesse commendabilissime, benchè sieno in opinare diverse; conciossiacchè tutte fanno finalmente una guerra incessante agli errori; benchè non tutte guerreggino gli errori stessi egualmente, ma l' una più questo, e l' altra più il suo opposto. Così, per tornare a noi, nel definire in che consista l' essenza del peccato originale, una Scuola si pose maggiormente in guardia contro all' errore di annientare questo peccato, per non rendersi in quanto a' concetti simile alla setta eretica de' Pelagiani, poco giovando di confessarne nudamente l' esistenza, a chi ne annulli l' essenza; un' altra per lo contrario vegliò contro l' errore opposto, che è quello di collocare il peccato colpevole e demeritorio in qualche cosa indipendente dalla libera volontà, per non accompagnarsi alle sette eretiche de' Calviniani, de' Bajanisti e de' Giansenisti. E chi non dovrà lodare questo studio di evitare e di combattere gli errori opposti dalla Chiesa proscritti? Or non si dee egli dire giustamente, che lo spirito di queste Scuole benchè varie, è finalmente uno solo e il medesimo, se tutte contendono a questo solo, di mantenere intatta la purità della fede? Dividansi adunque, come dicevo, dalla tendenza inerente alle varie Scuole cristiane, la quale è lodevole, i difetti de' singoli uomini, che di esse Scuole si dichiararon campioni; e non s' incarichino le Scuole stesse di questi umani difetti; perocchè non sono essi essenziali alle Scuole, anzi dallo spirito di esse naturalmente son condannati. Colla quale distinzione rimangono le Scuole cattoliche a pieno giustificate; nè ciò, in cui peccarono gli scrittori, benchè non possa a meno di registrarsi nell' istoria delle teologiche discussioni, dee recar ombra alcuna alla gloria delle Scuole medesime, ma solo dar materia di compatimento in verso gli erranti, e servir d' esempio funesto da doversi diligentemente evitare. Che anzi se cotesti difetti trapassano certo segno, quelli che se ne rendon colpevoli, già per ciò solo non appartengono più a campioni delle Scuole cristiane; rifiutandosi queste di riconoscere per loro seguaci coloro che eccedono di sì grave foggia. Perocchè distinguansi tre maniere di peccati, in cui avviene che incappano i difensori dell' una o dell' altra sentenza. La prima sono le maniere ingiuriose che usano contro quelli che opinano da lor diverso; e di questo ho già sopra toccato. La seconda sono le calunnie che gli opinanti reciprocamente s' appongono. Della quale sconcezza, ecco la cagion principale. - Una Scuola, dicemmo, si mette principalmente in sospetto d' uno degli errori estremi proscritti dalla Chiesa: un' altra si mette in sospetto principalmente dell' errore opposto. Indi sorge agevolmente in fra le Scuole una cotale diffidenza; perocchè l' una Scuola non vede che l' altra si allontani tanto da confini dell' errore da essa più aborrito, quant' ella studia di tenersene lontana. Indi una cotal vigilanza de' campioni d' una Scuola, in su' campioni dell' altra tutt' intenti ad osservarsi scambievolmente, se forse chi diversamente opina porga il piede un cenno più là della linea del giusto confine, vicino al quale egli cammina, per sorprenderlo in fallo, ed avvisare il pubblico dello sdrucciolo, se così incontra, sicchè non ne soffra danno la fede. Ma talora l' accusatore, non ne sa abbastanza, od ha l' occhio traballante per umane passioni; ed allora gli avviene, che invece d' accusare, calunnia il suo confratello, che gli pare trascorso, quando pure di quà dal limite ancor si tiene. Onde nel secolo scorso principalmente, non pochi Molinisti furono ingiuriosamente denunziati per Pelagiani ; ed a non pochi Agostiniani o Domenicani s' appose in quella voce, ingiuriosamente del pari, la taccia di Bajanisti e di Giansenisti , con gravissimo scandalo e rumore de' fedeli. Ma la sapienza e giustizia dell' Apostolica Sede venne in soccorso degli ingiustamente vituperati e difese la giusta libertà di opinare, finchè i teologi si contenessero entro la sfera delle scolastiche opinioni, fuor d' essa non punto disorbitando. E questa è la terza maniera appunto di peccati, a cui posson trascorrere; il disorbitar voglio dir da' limiti delle Scuole, talmente impaurendosi d' un errore, di quell' errore che la Scuola maggiormente e più direttamente impugna, da non guardarsi poi abbastanza dall' errore opposto, e inavvedutamente cadervi. Ora io dicevo, che se un campione dell' una o dell' altra delle Scuole, ammesse nella Chiesa cattolica, traboccasse così fattamente nell' errore, questi oggimai cesserebbe dall' esser campione della sua Scuola; perocchè ognuna delle Scuole cattoliche egualmente proscrive gli errori tutti dalla Chiesa proscritti, nè niuna d' esse riconoscerebbe per suo l' errante, quando d' errore, contro una chiara definizione della Chiesa, fosse convinto. Laonde nella mia Risposta ad Eusebio, io dissi, che invano egli sarebbesi lusingato, che una delle Scuole cattoliche gli venisse in aiuto: conciossiachè s' ella è Scuola cattolica non può in alcun modo dar braccio all' errante (1). E però in quello che fin qui io scrissi intorno al peccato d' origine, non ho inteso punto di condannare alcuna opinione tollerata e nelle Scuole difesa; ma solo un' opinione così fattamente esagerata e sformata, che, quanto a me sembra, ella già non può più appartener ad una Scuola cattolica di vero nome, ma solo al novero degli errori. Tale io considerai la sentenza, che« l' essenza del peccato d' origine consiste unicamente nella privazione, in cui nasce l' uomo, della grazia santificante, e che l' uomo ora delle naturali sue forze e facoltà sia provveduto tanto perfettamente quanto sarebbe, se fosse stato creato in questo stato di pura natura, che la Chiesa ha dichiarato, contro Bajo, possibile«. Agli occhi miei questa sentenza contiene il concetto stesso dell' eresia pelagiana; salvochè i difensori moderni di essa si dichiarano sottomessi alla Chiesa; dichiarazione che dovendovi supporre sincera, dimostra che essi la credono dall' eresia pelagiana diversa, il che può escusare davanti a Dio le loro persone, non può migliorare la condizione della loro sentenza. Nel che si osservi, che le menti degli uomini per la naturale loro limitazione ed infermità, mantengono anco nelle cose teologiche quella legge medesima che costantemente si manifesta nella storia dell' altre discipline, massime poi di quelle, in cui le passioni e l' animo umano prende gran parte; legge per la quale l' opinione s' incammina verso uno degli estremi, ma giuntavi nel movimneto suo progressivo e trapassatolo, ritorna indietro, ed all' estremo opposto s' incammina, che pure incautamente trapassa; per oscillar poi di bel nuovo fra i due errori contrarii, rimanendo sul territorio della verità quel tempo che abbisogna a percorrere il cammino intermedio, sia in una, sia nell' altra direzione; ma rompendo interamente e manifestamente all' errore nel fornire del viaggio, quando ella è già tanto andata da trovarsi nell' assurdo così addentro da non poterne più disconvenire e da vergognarsene ella medesima. La qual legge presiede sì fattamente all' incessante moto della mente umana, che nulla vi si sottrae fuor che la divina fede; la quale è immobile come la verità, nè tale ella sarebbe, se fosse sol' opera dell' uomo e non dono di Dio. Laonde havvi questa differenza fra quelli che nella fede teologica dimoran costanti, e quelli che ne van privi o che l' abbandonano; che le menti di quest' ultimi oscillano perpetuamente da uno all' altro estremo errore in ogni cosa; là dove le menti di que' primi si stanno ferme nel vero definito per cosa di fede, e solo oscillano in quelle cose circa le quali l' opinare è permesso. Ma poichè come si dànno de' veri credenti, così si dànno altresì di quelli che cedono alla naturale pendenza dell' inferma e breve loro ragione, anche quando questa li preme e sollecita a distaccarsi dalla fede; così parlandosi dell' università degli uomini, noi possiamo agevolmente additare quella legge come seguita nelle materie sia sol filosofiche, sia anco teologiche. La qual legge è il filo conduttore nel labirinto de' pensamenti umani, troppo necessario a conoscersi da coloro che tolgono a narrare le vicende delle scienze e delle dominanti opinioni; nè tuttavia guari ancor conosciuto da tali istorici. Che se noi ci restringiamo a considerare quai pensieri fece sollevare nelle menti lo spettacolo dell' umana perversità, ci sarà facile rinvenire i due estremi, tra di cui quelli andarono vibrandosi, i quali sono stati, volendo noi designarli con due vocaboli, il fatalismo ed il razionalismo . Definiremo in questo senso il fatalismo quel sistema che toglie a spiegare il male morale ricorrendo a una causa qualsiasi in esclusione della libertà umana: gli uomini fino che trovansi sotto il dominio di questa opinione fanno uno scarso uso del proprio ragionamento; e piuttosto aspettano e vogliono ricevere ogni lume direttamente dalle nature invisibili e superiori, quasi da maestri d' infallibile autorità, e da signori d' insuperabile potenza. L' intelligenza in tale stato è contemplante, la volontà non delibera: segue impetuosamente la propensione. Definiremo all' incontro il razionalismo per quel sistema che a spiegare il bene ed il male morale non ricorre che alla sola ragione e alla libertà. L' uomo cade in tale opinione, quando prima sente con vivezza il proprio sviluppo: lo sorprendono i passi che fa la propria ragione, e lo svolgimento impensato della sua attività è tale che lo inebbria di sè stesso: allora crede d' esser capace di tutto, di poter saper tutto, e di rendersi da sè stesso indipendente da chichessia, o perverso o virtuoso. Il mondo orientale presenta massimamente il dominio del primo sistema; ma la Grecia, la ragione greca, l' attività greca fa comparire in iscena il secondo. Nè questa doppia tendenza dell' umana mente potea distruggersi col sopravvenire del Cristianesimo, perocchè l' uomo non si distrugge; e quella doppia tendenza è una legge costitutiva della umanità. Nella Chiesa adunque videsi lo stesso alterno movimento delle menti: una tendenza al fatalismo (nel senso detto) fino a precipitarvisi; ed una tendenza al razionalismo , fino parimenti a rimanere dal suo vortice assorbiti. Ma di presente, si dimanderà, a quale stadio sono pervenute le menti? verso quale de' due errori camminano? e però qual de' due è oggidì più pericoloso alla fede? Non è difficile il rispondere a queste domande: perchè la cosa è patente; non havvi uomo di buon senso al mondo, che non vegga il male del secol nostro essere il razionalismo , come ho già altrove detto. Ma giova, che noi veggiamo per quali vie poi siamo venuti a questo nostro periodo di tempo; e perciò che tocchiamo della storia degli accennati due errori, a quel modo e in quelle forme, delle quali vestiti essi sursero nel seno stesso della Cattolica Chiesa. All' epoca in cui nacque il Cristianesimo, il fatto umanitario, che riscosse l' attenzione più profonda, fu quello della corruzione dell' uomo. Tutti i secoli e tutte le nazioni concordemente attestavano, che l' uomo soggiace al male non meno morale, che fisico, dal dì che nasce. Questo fatto, da nessuno chiamato in dubbio, volevasi pure spiegare. Il Cristianesimo si presentava appunto al mondo promettendo di sciorre l' enimma. Quelli che si dipartirono dalla spiegazione cristiana produssero le prime eresie (1). I primi di costoro furono de' filosofi Samaritani, Dotiseo, Simone, Menandro; e il fecero in modo che detrassero alla libertà umana: era il sistema orientale del fatalismo. Così il mago Simone non solo considerava l' uomo come soggetto alla tirannide degli Angeli, ma era altresì cotanto alieno dall' imputare la virtù e il vizio all' umana libertà, che egli attribuiva all' opera degli angeli malvagi la persuasione messasi fra gli uomini, che v' abbiano delle buone e delle cattive azioni, degne le prime di ricompensa, le seconde di castigo. Insegnava che niuna azione è buona o rea di sua natura, e che si salvavano gli uomini solamente per la grazia che usciva da lui, non pe' meriti loro (2). L' opinione che attribuiva la creazione del mondo, ed il male a cui l' uomo soggiace, agli angeli, uscita da Samaria, fu propagata nella Siria dall' antiocheno Saturnino, e nell' Egitto da Basilide, entrambi discepoli del Samaritano Menandro. Saturnino aggiunse, creato il mondo da sette angeli, un de' quali essere il Dio degli Ebrei. Basilide e il suo contemporaneo Carpocrate erano d' Alessandria, cioè di quella città dove s' erano unite insieme le tradizioni orientali, le dottrine ebraiche, specialmente mediante la versione in greco de' libri sacri, e le dottrine di Platone; da' quali tre elementi risultava la Scuola di Alessandria. Quindi la dottrina intorno agli angeli come creatori del mondo e autori di tutto il male, vestì in mano di questi due eresiarchi delle forme più filosofiche, e propriamente platoniche : gli angeli ebbero delle genealogie: il mondo fu creato dagli angeli inferiori, il capo de' quali era il Dio degli Ebrei (1). Convien però osservare che in Platone s' eran riunite le due filosofie di Pitagora e di Talete, la tradizionale e la razionale, l' orientale e la greca (2); e che la scuola alessandrina, essenzialmente orientale, avea dal filosofo greco ritolto, per così dire, quello che egli stesso avea tolto all' oriente, assai più che quello ch' egli avea posto di greco e di razionale ne' libri suoi. Laonde la filosofia alessandrina7greca in alcune forme ed espressioni è veramente orientale nel fondo e nella sostanza (1). Cerdone fece fare un passo innanzi all' erronea dottrina de' nominati eretici. [...OMISSIS...] Questi eretici attribuirono agli angeli la creazione del mondo e l' origine del male. Con Cerdone già appariscono i due principii supremi, l' uno del bene e l' altro del male, chiaramente espressi: il principio del male è lo stesso angelo creatore de' precedenti eresiarchi, da lui convertito in un Dio. Il Massuet, dopo avere accennate le dottrine di Cerdone, dice: [...OMISSIS...] . Marcione che gli fu discepolo insegnò la stessa dottrina de' due principii, e via più sviluppolla, via più depravandola. Perocchè se Cerdone avea detto che quel Dio a cui era dovuta l' origine della legge e de' profeti non era buono, confessava però che era giusto; ma Marcione, dice S. Ireneo: [...OMISSIS...] . Tertulliano di Marcione scrive così: [...OMISSIS...] , donde vedesi, come appoggiava all' autorità delle Scritture inspirate l' empietà dei due principii. E poichè il disordine della carnale concupiscenza è quel sintomo patentissimo dell' umana corrotta natura, che più colpì le menti de' popoli e de' pensatori; perciò quindi appunto venivano a detrarre gli eresiarchi che nominammo, alla bontà del Creatore, perchè il supponevano autore della concupiscenza, la reità della quale rifondevano nella pravità della materia, di cui il corpo umano componesi, e questa concupiscenza disordinata, in cui sentivano il male insito alla natura, traevali ad odiare le nozze, e a molte altre strane e nefande empietà (4). Taziano (5), Bardesane filosofo cristiano d' Edessa (6), Apelle (7), Zarane (.), ed altri abbracciarono gli stessi errori già grandemente diffusi nel secondo secolo della Chiesa. Nello stesso secolo Sciziano (1), il suo discepolo Terebinto (2), divennero i maestri del persiano Manete, la cui nascita sembra doversi collocare nel secolo terzo non molto inoltrato (3). Con Manete la mente umana giunse a toccare quest' ultimo estremo errore che toglie a spiegare il fatto dell' esistenza del mal morale mediante una necessità di natura: il sistema del necessitismo fu compiuto, ebbe forme sistematiche e certe: non gli mancò che di propagarsi e radicarsi: perocchè ogni sistema suol sempre avere due periodi oltre a quelli del decadimento; nel primo de' quali vien formandosi sì quanto al concetto e sì quanto alle forme determinate e alle espressioni tecniche; nel secondo poi vien diffondendosi e stabilendosi nelle menti. Ora il sistema che del male formava una propria natura e sostanza compì, come dicevo, il suo primo periodo in Manete, che perciò appunto divenne il più celebre degli eretici che avevano insegnato un tale errore, e quello che gli lasciò definitivamente il suo nome. Laonde S. Cirillo Gerosolimitano dice acconciamente: [...OMISSIS...] . L' errore di Manete è manifestamente distruttivo della libertà; conciossiacchè per ispiegare l' esistenza del mal morale si dimentica al tutto di questa causa, e ricorre ad un principio eterno che è quell' immaginata sostanza del male, onde riman sottomesso, come osserva S. Agostino, Iddio stesso alla necessità del peccato: [...OMISSIS...] . Dalla qual maniera di fatalismo invano cerca il Beausobre (1) di purgare cotesti eretici; perocchè quantunque accordassero la libertà all' uomo nella stato d' innocenza, tuttavia lo stesso peccato originale, e per esso la perdita della libertà, viene da essi al malo principio e non alla libertà umana come a causa riferito: [...OMISSIS...] . Onde non considerano la concupiscenza come il segno della viziata natura e come un accidente di questa, ma come una cotale sostanza intrinseca rea. [...OMISSIS...] Di che avviene, che la concupiscenza, secondo questi eretici, non è un vizio che si sani, come diciam noi cattolici, ma è una sostanza sola che si separa, e sanno ancora, quegli acuti ingegni, ch' ella prenderà poi alla fine una forma rotonda come in igneo globo racchiusa! [...OMISSIS...] Tale è la teoria manichea portata alla sua perfezione. Questa dottrina fu sempre condannata dalla Chiesa come contraria alla rivelazione: fu anche sempre riprovata dalla ragione, alla quale non fu difficile il dimostrarla generatrice di assurdissime conseguenze. Ma per confutarla non ragionando dall' assurdo, ma dall' erroneità intrinseca del principio dal quale moveva, egli era necessario sci“rre la grande questione dell' origine del male, sulla difficoltà della quale insistevano i Manichei (1). Ora il chiaro ed ineluttabile scioglimento d' una questione sì ardua deesi a S. Agostino. Questo Padre dimostrò chiaramente che il male non è alcuna sostanza, ma solo un' accidentale privazione, e che la sua possibilità giace nella limitazione inerente alle creature tutte (2). Con questa filosofica scoperta l' eresia dei Manichei fu atterrata nel suo principio: fu annullata in teoria per sempre. Ma come accade che l' errore abbia i due periodi accennati della formazione e della propagazione ; così parimente la teoria vera, che contrapposta alla teoria erronea per diretto e per intero l' annulla, ha pur essa i medesimi due periodi dell' invenzione o formazione cioè e della propagazione e convalidazione: e il secondo di questi suol riuscir lungo, allorquando trattasi d' una questione difficile, in cui suol esser più facile intendersi la proposta che la soluzione; come avvien pure di quella del male. Perocchè egli è agevol cosa l' accorgersi che la natura del male difficilmente si scuopre; ma si richiede poi sottile ingegno a ben penetrare com' essa sia una privazione, un accidente della natura che riman priva di ciò che alla sua interezza è richiesto. Di che si spiega come il trovato nobilissimo di S. Agostino che dimostrò il male essere cosa negativa, benchè recidesse la radice della manichea pravità e assicurasse per sempre il trionfo del vero; tuttavia non potè trattenere il Manicheismo dal suo corso, sicchè egli non compiesse il suo secondo periodo, quello della propagazione. Al qual corso venne in aiuto l' ignoranza e barbarie de' tempi di mezzo, ne' quali la società degli uomini ebbe abbandonata quasi del tutto la contemplazione de' veri teoretici, per la vita pratica e bellicosa; sicchè troppo dovea esser difficile in quella notte il sollevarsi fino alla specolazione del dottor d' Ippona intorno alla natura ed origine del male. Io trascriverò qui, acciocchè si vegga di che vita tenace fu l' errore dei Manichei, cominciato co' primi eresiarchi che insorgessero a infestare la Chiesa, voglio dire da Dositeo e Simone, anche dopo che fu teoreticamente distrutto da S. Agostino, quanto si legge nel dizionario delle Eresie stampato dal Contin in Venezia (1) intorno al secondo periodo, che è quello della propagazione, come abbiam detto, di questa eresia. [...OMISSIS...] Tale è la storia del necessitismo apparito sotto questa prima forma de' due principii supremi inventati per dar ragione dell' esistenza del male (1). Veggiamo ora come la ragione umana s' avviò per la via contraria, e giunta all' altro estremo ruppe al razionalismo . Come la prima forma completa che prese nella Chiesa il necessitismo fu l' eresia manichea , così la prima forma completa in cui si manifestò il razionalismo fu l' eresia pelagiana . Se si cercano le traccie di questa eresia nelle antiche opinioni, vedesi d' essa, quello che si vide da noi del manicheismo; cioè ch' essa non si formò già d' improvviso nella mente di un solo individuo, ma cominciata a nascere nelle menti umane fino dalla più remota antichità discese da una mente nell' altra tradizionalmente, s' accrebbe, si sviluppò e finalmente prese il nome da quell' individuo che le diede forma ed espressione determinata e la rese celebre per ostinato conflitto. Richiamisi la riduzione ch' io feci di tutta la storia della filosofia a due grandi Scuole secondo i due metodi tradizionale e razionale: delle quali Scuole furono rappresentanti nell' antichità Pitagora e Talete, l' Italia e la Ionia. Ora la Scuola ed il metodo razionale parve sempre tendere ad escludere le cause soprannaturali influenti sulla volontà umana e però ad esagerare le forze del libero arbitrio (2); onde non senza ragione può rinvenirsi il seme del pelagianesimo nell' elemento razionale dell' antica filosofia. Infatti come l' errore del Manicheismo consiste nell' attribuire il bene ed il male ad una causa al tutto diversa dalla volontà umana e però necessitante; così l' errore opposto, del Pelagianismo, ridotto alla sua ultima espressione, consiste nell' attribuire tutto il bene ed il male morale alla libera volontà dell' individuo in cui esso bene ed esso male si trova; e« in non voler riconoscere che un' anima umana possa venir affetta dal male morale senza che non solo la sua volontà, ma la sua libera volontà vi incorra, sicchè dipende interamente dalla libertà umana l' essere immune da qualsivoglia male morale« e però l' esser giusto. Di che deducevano che non si poteva comunicare il peccato per generazione; non entrando nell' uomo il peccato che per la sua libera volontà; e quindi non potea nascer l' uomo infetto dal peccato d' origine; nè vi potea essere tentazion di peccare così forte, che a vincerla fosse impotente la libertà umana tale quale l' uomo l' ha per natura; alla quale libertà umana riducevano però ogni grazia veniente da Dio. Udiamo S. Agostino ad esporre quest' eresia che sopravenne al necessitismo de' Manichei. [...OMISSIS...] Dal qual luogo chiaramente si vede, che la sostanza dell' eresia pelagiana consisteva nel disconoscere quella specie di moralità buona o malvagia che è nell' uomo non per cagione d' una libera volontà (2), ma per l' influenza che ha sull' umana natura un' altra causa, o rea e introducente nell' uomo il peccato, o buona e introducente nell' uomo la giustizia e la santità; benchè la causa rea non sia il principio cattivo de' Manichei, ma sia il guasto della natura umana, effetto della libera volontà del primo uomo quanto all' origine sua, ma quanto alla comunicazione agli individui che si riproducono nell' umana specie, effetto necessario dell' umana generazione. La causa poi che introduce nell' uomo la moralità buona, la giustizia e la santità, e che non è la libera volontà dell' uomo stesso, altro non è che Iddio stesso che comunica la sua grazia anco a quelli che non sono pervenuti ancora al libero uso delle loro potenze e con essa li santifica, come avviene co' Sacramenti amministrati agli infanti. Il principio adunque e tutta la sostanza della pelagiana eresia consiste in questa proposizione:« Ogni moralità buona o rea d' un individuo umano ha per causa la sua libera volontà, fuor della quale non vi ha altra causa che possa produrre nell' uomo il male od il bene morale« (1). Da questo principio discendevano i due errori capitali de' Pelagiani: 1. Dunque non esiste il peccato originale, cioè un mal morale che si contrae per generazione; 2. Dunque non esiste la grazia con cui Iddio ci santifica, o ci aiuta a' singoli atti della perfetta virtù, cioè un bene morale che viene dall' azione che Iddio fa nell' anima nostra senza la nostra libera volontà, o in aiuto di questa. Due altri errori dovevano del pari provenire da un tal principio eretico ed empio: 1. Che essendo la libertà dell' uomo sola causa del bene e del male morale dell' uomo, dunque non si dànno tentazioni nè sigolarmente prese nè complessivamente irresistibili; ma l' uomo colla sua libera volontà può vincerle tutte e conservare la giustizia; 2. Che il pregare Iddio perchè ci aiuti a vincere le tentazioni e a praticare la giustizia sia superfluo ed assurdo; perocchè non essendo che la nostra libera volontà la causa del bene e del male morale; dataci questa, Iddio non può far altro, giacchè egli è causa estranea al libero nostro volere, e però incompetente alla produzione in noi, sia in tutto sia in parte, della moralità. De' quali due errori così parla S. Agostino, scrivendo al Vescovo Ilario (2): [...OMISSIS...] . Ora se col solo libero arbitrio dalla grazia non aiutato dalla grazia non si può essere perfettamente giusto, nè vincere tutte le tentazioni; dunque il solo libero arbitrio non è l' unica causa che produca nell' uomo l' ingiustizia e la giustizia, il peccato e la santità: conciossiachè vi ha una causa che trascina in peccato senza che il libero arbitrio possa difendersene, se dalla grazia di Cristo non è assistito; e questa stessa grazia colla quale l' uomo acquista la forza di vincere i suoi nemici pienamente e costantemente s' ottiene quando la si domanda; nè solo Gesù Cristo c' insegnò a domandar questa grazia, ma anche a temere santamente e prudentemente con questa, pregando ogni giorno che tuttavia allontani da noi le tentazioni di peccare: [...OMISSIS...] . Laonde di nuovo espone così S. Agostino la pelagiana eresia: [...OMISSIS...] . Laonde se la carità, che è la giustizia soprannaturale, viene immessa nelle anime nostre non dalla libertà nostra, ma dallo Spirito Santo; egli è forza adunque dire che l' unica causa della moralità buona nell' uomo non è la libertà dell' uomo; ma lo Spirito Santo stesso è anch' egli causa, e prima, della giustizia perfetta e soprannaturale. Onde S. Agostino continua: [...OMISSIS...] . I quali argomenti che S. Agostino arreca contro a' Pelagiani, deducendoli da' testi più ovvii delle divine Scritture, sono efficacissimi. Perocchè se la moralità buona o rea dell' uomo non avesse altra causa che la sua libertà, non sarebbe mai soggetto alla necessità del male morale; e però sarebbe superfluo ch' egli pregasse Iddio che non l' adducesse in tentazione, anzi non vi sarebbe tentazione; perocchè il concetto di tentazione suppone una causa esterna che induca al male. Ma se il male non si potesse operare se non col libero arbitrio, niente vi potrebb' essere, non dico che necessitasse, ma nè pure che inducesse e sollecitasse al male. Giacchè chi è sollecitato al male da altra causa che dalla sua libertà, dee riconoscere una forza traente al male; e quindi non può più fare l' arbitrio causa unica del male. E qui si consideri come il principio indicato, cioè« il libero arbitrio (o sia la libertà che i teologi chiamavano d' indifferenza, e che io chiamai bilaterale) è la causa unica di ogni moralità« trae dietro a sè la conseguenza che« il libero arbitrio può da sè solo operare tutte le virtù che la ragione dimostra convenire all' uomo«. Vero è che pare a primo aspetto che quest' ultima proposizione non sia contenuta nella prima; ma la cosa non istà così. Perocchè la prima proposizione suppone che non vi sia moralità possibile se non è prodotta dal libero arbitrio. Dunque quando la ragione dimostra all' uomo qualche opera morale o di dovere o di sopraerogazione; ella altro non fa che mostrargli un effetto del libero arbitrio. Il libero arbitrio adunque dee essere la causa pienamente sufficiente a compiere quell' azione (o complesso di azioni). Altrimenti nell' uomo vi avrebbe lotta: la ragione dichiarerebbe cosa moralmente buona quella che non sarebbe tale, perchè non sarebbe effetto del libero arbitrio. L' onnipotenza adunque del libero arbitrio per esercitare la virtù ed evitare il male è conseguenza irrepugnabile del principio che« la causa della virtù e della innocenza« è il solo libero arbitrio dell' uomo. Laonde chi dicesse, che« il libero arbitrio è la causa di ogni moralità buona o cattiva«, ma ch' egli tuttavia non può fare certe cose imposte dalla ragione come moralmente buone, e che allora queste cose cessano dall' esser morali; sarebbe costretto a riporre fra' caratteri delle cose moralmente buone non solo l' ordine della ragione, ma anco le corrispondenti forze della libertà: il che s' opporrebbe d' una parte al dettame della ragione, che dichiara assolutamente quelle cose moralmente buone; dall' altra al senso comune degli uomini. D' altra parte il dire in generale che« se la nostra volontà fosse piegata al male necessariamente, il male a cui fosse indotta non sarebbe più male morale«, indurrebbe sempre la conseguenza che non ci dovesse esser più bisogno assoluto che tutti gli uomini pregassero Iddio di rimettere loro i debiti, o di non abbandonarli alla tentazione, ma liberarli dall' inimico. Sia dunque che si ammetta l' una o l' altra di queste due opinioni, o che il libero arbitrio possa sempre da sè solo vincere le tentazioni del male morale, o che, non potendo, cessi il male dall' esser morale; ne viene egualmente che quelle preghiere non sieno necessarie a tutti affatto gli uomini. Perocchè nella prima opinione non sarebbe assurdo trovarsi un uomo che essendosi conservato da sè giusto e volendo tuttavia conservarsi tale, non avesse bisogno nè di pregare per la remissione de' suoi debiti, nè d' invocare la protezione divina contro le tentazioni. Egualmente nella seconda opinione, in cui tutto ciò che avviene per necessità e non per arbitrio si suppone non esser morale: conciossiachè potrebbe quell' uomo usare delle forze del suo arbitrio, senza darsi cura che queste fossero molte o poche, giacchè tutto ciò a cui tali forze venisser meno non sarebbe mal morale, nè egli obbligato perciò ad evitarlo: nè si vedrebbe ragione perchè il Signore avesse ordinato di pregare e adoperare altri mezzi; i quali posto anco che fossero utili, non riuscirebbero però mai assolutamente necessarii per mantenersi innocenti e viver giusti (1). Del rimanente, l' opinione che la causa del bene e del male morale sia la sola libertà umana è essenzialmente gentilesca: gli stoici specialmente l' ebbero pronunciata con tutta precisione (2): dall' una parte gli uomini senza esperienza della grazia divina colla sola natura difficilmente potevano sollevarsi a concepire la possibilità d' un aiuto soprannaturale: dall' altra parte considerando l' uomo speculativamente, come suol fare il razionalismo, e non vestito co' suoi accidenti di fatto, riesce spontaneo il pensiero, che la volontà possa tutto ciò che la ragione le dimostra doveroso; tanto più che la volontà operando sempre spontaneamente non può concepire come essa non possa volere in altro tempo praticamente quel bene che di presente vuole speculativamente, sembrandole che il volere sia sempre cosa presta e alla mano. Così come il Manicheismo nacque all' aspetto dell' uomo com' è di fatto per natura servo del mal morale, il pelagianismo nacque alla considerazione dell' uomo com' è in idea, ordinato e costituito pel bene morale. Gli autori del primo errore considerando esclusivamente il fatto del male pretesero ragionarvi sopra (1), e invece di ragionare immaginarono un' ipotesi vana a cui dieder cieca credenza; agli autori del secondo errore considerando esclusivamente l' essenza dell' uomo senza l' accidente del male, pretesero pure di ragionarvi sopra e ne cavarono l' onnipotenza dell' umano arbitrio al bene ed al mal morale. In origine furono razionalisti entrambi, perchè entrambi, scossa la fede alla Chiesa, s' abbandonarono alla sola ragione; ma i primi v' aggiunsero l' osservazione storica, le tradizioni e l' imaginazione: i secondi, esclusi questi dati, alla sola speculazione, o piuttosto all' astrazione della natura umana s' attennero; e però furono costantemente razionalisti. Questo doppio metodo si trovò sempre mescolato nell' antica filosofia; e però niuna meraviglia che non solo del manicheismo, ma ben anco del pelagianismo sieno stati ripetuti i semi fin da Pitagora. Infatti a Pitagora ed a Zenone S. Girolamo riporta l' eresia di Pelagio (1); e più tardi l' opera del filosofo pitagorico Sesto contribuì non poco ad inserirla nelle menti (2). Nella Chiesa però il razionalismo e il conseguente pelagianismo non appare coi primi eretici: è un' eresia che venne introdotta più tardi dalla filosofia Alessandrina. In Origene si è formulata, espressamente manifestata; benchè questo dottore gittò i semi, certamente senz' accorgersene io credo, del razionalismo , non meno che del necessitismo ; che sono i due sommi generi a cui si possono ridurre le eresie tutte, coll' abbracciare, senza troppa considerazione, i dommi della filosofia pagana, che come vedemmo racchiudeva in sè i principii di quelli opposti errori. Onde l' Imperator Giustiniano nelle lettere pubblicate contro Origene in virtù della sentenza del Sinodo, lettere che il Diacono Liberato (3) dice essere state sottoscritte dal Papa Vigilio e dagli altri Patriarchi, chiamò Origene maestro de' pagani, de' manichei e degli ariani (4); e Teofilo Alessandrino l' appella l' idra di tutte ugualmente l' eresie (5). Ma S. Girolamo il fa specialmente precursore e principe (6) de' Pelagiani, di cui il nomina anche l' amoroso (7). E veramente in Origene non solo v' è il principio di Pelagio, che « del male e del bene morale d' un individuo non siavi altra causa che il libero arbitrio dello stesso individuo«; » ma se ne traggono altresì le conseguenze con logica insistenza. In primo luogo osservo, che se il male morale dipende dal solo libero arbitrio, dunque l' uomo col suo libero arbitrio può essere immune da ogni peccato. Da questa conseguenza nacque, che l' eresia pelagiana fu chiamata «anamartesias,» cioè dell' impeccabilità (.), o per dir meglio il poter non peccare si avvera egualmente sia che si consideri il libero arbitrio come capace di tutto il bene, sia che lo si consideri come debole e di molte cose incapace. Perocchè nell' uno e nell' altro caso l' uomo si manterrebbe giusto usando di quelle forze che ha del libero arbitrio; nè potrebbe essere strettamente obbligato ad accrescere queste forze; perocchè non si dà vera obbligazione, se non d' evitare il vero peccato, e il non far quello che eccede le forze del libero arbitrio non è vero peccato (1). Non solo dunque il cristiano, ma ancora l' infedele può essere in un tale sistema giusto da sè medesimo. - Tuttavia Origene, d' alta mente e seco stesso coerente, dava all' umana libertà tutte le forze necessarie al compimento d' ogni virtù e perfezione; perocchè egli vedeva bene che la virtù e la perfezione è tale per sè, e tale perchè tale viene indicata dalla ragione, anche prescindendo dalla considerazione del potere che s' abbia accidentalmente l' umana libertà. Onde quanto la ragione dimostra estendersi la virtù, tanto egli fu costretto d' estendere le forze dell' arbitrio, sola causa di quella; perchè quella non sarebbe stata virtù, se non fossero state queste forze [tali] da produrla. Indi l' error suo fu chiamato non solo dell' impeccabilità «(anamatesias)» ma ben anco dell' impassibilità «(apatheias)» perocchè dava all' arbitrio fin la potenza di rendersi l' uomo immune da ogni commozione e senso del male (2). In secondo luogo, o convien dire che i demonii e l' anime dannate all' inferno non sono in istato di peccato, ovvero che sono in tale stato pel proprio libero arbitrio, pel quale ci vogliono stare. Ma se lo stato di peccato di tali demonii ed anime dannate è prodotto dall' attuale loro libero arbitrio; dunque non sono costretti di stare in un tale stato, ma col medesimo loro libero arbitrio possono abbandonare il peccato. Indi l' errore d' Origene che negava l' eternità delle pene dell' inferno. Certo Origene così scrive: [...OMISSIS...] . In terzo luogo dovea discendere, che il concetto della grazia dovea cangiarsi: non potea più essere un aiuto che accrescesse le forze della volontà e della libertà, ed anzi l' elevasse all' ordine soprannaturale, e così concorresse a produrre il merito soprannaturale; ma una conseguenza, una mercede del merito stesso. Indi l' errore che la grazia non si desse da Dio agli angeli ed agli uomini gratuitamente, ma secondo i meriti colle proprie naturali loro forze ottenuti, che è il primo de' tre principali errori notati da S. Agostino ne' Pelagiani là dove dice: [...OMISSIS...] . Ora Origene toglie a provare che la grazia venne da Dio data agli angeli ed agli uomini secondo i lor meriti nella citata opera de' principii (2). In quarto luogo, se dal solo merito, effetto della libertà sua naturale, procede, che Iddio comunichi la sua grazia all' uomo, come accade poi che nella Scrittura si legga, che certi bambini non ancor giunti all' uso della riflessione ed all' esercizio della loro libertà, si leggano da Dio santificati, poniamo, un S. Giovanni Battista? - Questa riflessione condusse Origene a imaginare co' Platonici, che le anime abbiano esistito prima de' corpi, e in quella vita precedente abbiano meritato o demeritato. Onde del Battista scrive così: [...OMISSIS...] . Ecco qua come questo uomo riputasse cosa ingiusta che Iddio donasse la santità, senza che il libero arbitrio se l' avesse prima meritata; come appunto poi dissero i Pelagiani. Di che veniva che la stessa unione ipostatica di Cristo dovea essere il conseguente effetto de' meriti dell' anima di Cristo precedentemente alla sua Incarnazione; errore che la mente d' Origene conseguente a sè medesima non si stette dal derivare (4). I Pelagiani da prima il ricusarono; ma la logica invitta di S. Agostino stringendoli (5), nè trovandone alcuna uscita; in fine anche quell' errore contenuto nel principio da cui partirono e che non volevano abbandonare dovetter ricevere. In quinto luogo, scorgesi che l' eresia pelagiana contiene nel suo seno la Nestoriana; perchè supponendo che la persona umana di Cristo avesse meritato l' unione colla divina, induce la sussistenza di quella, epperò le due persone; cosa dal dottissimo Cardinal Noris già acutamente osservata: [...OMISSIS...] . Da' quali errori e da tant' altri che dal principio pelagiano derivano ineluttabilmente, si fa manifesto, che come fu detto a ragione del manicheismo che conteneva nel suo seno tutti gli errori, così S. Girolamo potè scrivere la stessa cosa dell' eresia a quella contraria, cioè del pelagianismo, dicendo di questa, [...OMISSIS...] . Dopo Origene vennero i suoi discepoli, in fra i quali fu forse il più celebre Didimo d' Alessandria. Questi aveano già diffusi gli errori in Oriente, quando ancora non si conoscevano nell' Occidente. S. Girolamo fa precursore del Pelagianismo Evagrio da Ibora, Gioviniano Rufino (1): Orosio aggiunge a questi nomi un Priscilliano (2). Evagrio avea pubblicato il libro dell' imperturbabilità «(peri apiaethas)» bevendo sempre al fonte d' Origene; il qual libro fu fatto conoscere alla Chiesa occidentale dalla versione latina lavorata da Rufino (3). Teodoro Vescovo di Mopsuesta avea pur egli nell' Oriente seminato errori alla pelagiana eresia partenenti (4). Insegnò l' errore che Adamo sarebbe morto, eziandiochè non avesse peccato. Mario Mercatore pretende che un tale errore di Teodoro passasse in Rufino, e da Rufino il ricevesse il monaco Pelagio, che diede il suo nome all' eresia. Perocchè dopo accennato quest' ultimo error di Teodoro così soggiunge: [...OMISSIS...] . Scrisse altresì Teodoro cinque libri contro i Pelagiani, e li intitolò Contra asserentes peccare homines natura, non voluntate , libri che esistevano al tempo di Fozio; il quale ne riporta alcuni brani (6). Il brano seguente dimostra chiaro la mente pelagiana di questo celebre Vescovo. Ecco le parole di Teodoro: [...OMISSIS...] Nelle quali parole si nega la trasmissione del peccato d' origine, e ciò pel solito principio di naturalismo di non riconoscer peccato in un individuo nel quale non sia libera la volontà. Scorgesi essere sfuggita a questi eretici la distinzione fra la volontà che opera spontaneamente, e la volontà che opera liberamente; sicchè, disconosciuta quella e osservata sol questa, parve loro assurdo che dar si potesse peccato dove non era libertà, appunto perchè altra volontà non conoscevano, che la libera. Il vero è che senza volontà non si dà peccato; ma senza libertà sì; e però che l' uomo può essere peccatore per natura, giacchè l' esser peccatore per natura non esclude la volontà, ma solo la libertà; conciossiachè l' essere peccatore per natura, non altro vuol dire se non« l' avere per natura una volontà peccatrice«, ed indocile, o sia difficilmente arrendevole all' ordine della legge. All' incontro questi eretici opponevano la natura alla volontà; quasichè tutto che è natura non potesse essere volontario, e niun mezzo ci avesse fra la mera natura irrazionale e la volontà. L' errore dunque della loro mente, che li travolse nell' eresia si fu non aver osservato che fra la natura irrazionale e la libertà vi è la natura razionale, avente cioè ragione e volontà: intralasciato nel loro calcolo questo elemento, dovettero rovesciare necessariamente o nell' assurdo di ammettere un peccato dove non v' ha volontà, o nell' eresia di negare che i bambini nascono col peccato: per evitare quel primo precipitarono in questo secondo (1). .......... 1. A maggiore dilucidazione della dottrina svolta in questa Collezione di Opuscoli che per la terza volta esce in luce aumentata, e nelle altre opere dell' Autore, specialmente per ciò che riguarda il peccato originale e l' umana libertà, e ad evitare che niuno nè per ignoranza nè per malizia possa attribuirle un significato diverso dal suo proprio e naturale, che è quello dell' Autore medesimo, ci par utile di premettere un compendio della dottrina medesima sciolta da quelle questioni incidenti che sono inevitabili nelle lunghe trattazioni polemiche. 2. E per seguire qualche ordine nel riepilogo che ci proponiamo di fare, parleremo in primo luogo dell' origine e dell' esistenza del peccato originale propagato ne' posteri, di poi della sua natura, in terzo luogo delle sue conseguenze, e finalmente del suo rimedio, indicando i principali errori contro alla fede cristiana intorno a ciascuno de' quattro punti indicati. 3. Dobbiamo però avvertire che essendo tali quattro punti intimamente tra loro connessi, non se ne può rigorosamente e al tutto separare la trattazione. Gli errori infatti che furono insegnati intorno alla natura del peccato originale de' posteri per lo più furono una conseguenza degli errori professati intorno alla sua origine e propagazione, o anche viceversa; e così del pari gli errori che furono spacciati intorno alle conseguenze di esso peccato procedettero dagli errori intorno all' origine e alla natura del medesimo, e quindi pure provennero gli errori circa la maniera e la possibilità di rimediare al medesimo, come meglio apparirà nella stessa esposizione. 4. La causa del peccato in universale è, e non può esser altro, che la libera volontà della creatura (1): [...OMISSIS...] . Chi vuole impugnare una verità così chiara, viene di necessità a cadere nell' uno o nell' altro de' due opposti assurdi, o di far che lo stesso Creatore Iddio sia la causa del peccato (3), o di ammettere il sistema de' Manichei, che insegnavano essere esistiti ab aeterno due principii indipendenti, l' uno buono e causa del bene, l' altro malo e causa di ogni male. 5. Discendendo al particolare, il peccato, a cui soggiacque la creatura umana, entrò da principio nel mondo per la libera trasgressione che del divino precetto fece il primo uomo da Dio creato, stipite di tutta l' umana schiatta. 6. Le funeste conseguenze di questa prevaricazione caddero non solamente sopra di lui che la commise, ma ancora sui suoi figliuoli, poichè colla sua disubbidienza Adamo perdette la santità e la giustizia ricevuta da Dio non solo a sè stesso, ma ancora a noi tutti, e come egli, nostro progenitore, rimase macchiato e incorse nell' ira e nell' indignazione del suo Fattore e soggiacque alla morte che gli era stata minacciata ed alla schiavitù del demonio, deteriorato tutto tanto per riguardo al corpo quanto per riguardo all' anima; così pure in noi sua propaggine, insieme colle penalità del corpo, trapassò lo stesso peccato, che è morte dell' anima. Laonde questo peccato, uno nella sua origine, trasfuso nei posteri divenne proprio di ciascun umano individuo, e in esso lui inesistente, e non restò più alcun rimedio che potesse guarire l' uomo e rilevarlo da un tanto male, se non il merito del solo Mediatore Signor nostro GESU` Cristo. Tale è la dottrina cattolica intorno all' origine ed alla propagazione del peccato originale definita dogmaticamente nella sessione V del Sacrosanto Concilio di Trento. 7. Le principali eresie che insorsero contro questo dogma, fondamento di tutto il sistema della cristiana religione, furono due, che, denominate dai più celebri e più noti loro autori e fautori, furono dette Pelagianismo, condannato da più Concilii, tra i quali dal Milevitano (anno 416) e dell' Arausicano II (anno 519) che ottenne autorità di Ecumenico, e dai Santi Pontefici Innocenzo e Zosimo; e il Giansenismo condannato pure colla Costituzione In eminenti , 6 marzo 1642, di Urbano VIII, e colla Bolla Apostolica Cum occasione , 31 maggio 1653, di Innocenzo X, e di nuovo con quella Vineam Domini Sabaoth , 16 luglio 1705, di Clemente XI, che rinnova le precedenti, e da altre bolle e decreti comunemente noti; e lo stesso pravo sistema era stato già anche anteriormente riprovato e dannato in Baio e in altri dottori. .. Ora che Adamo avesse trasgredito il divino comandamento, e così col peccato della sua disubbidienza incorso nell' ira di Dio, su di ciò non v' ebbe questione n`' coi Pelagiani, nè coi Giansenisti che ammisero questo vero della fede cattolica. Ma tutta la controversia versò intorno alla propagazione del peccato adamitico ne' posteri, e intorno alle sue tristi conseguenze in questi prodotte. 9. Quelli che professavano l' eresia pelagiana negarono, ora espressamente, ed ora copertamente e subdolamente, la propagazione e però l' esistenza del peccato originale nei posteri. Il sistema giansenistico per lo contrario, spingendosi all' altro eccesso, non si contentò di asserire colla Chiesa cattolica che il peccato originale si propaga ne' posteri, ma pretende che trapassasse in questi di più di quello che è necessario a costituire il peccato, e principalmente che nell' uomo, quale nasce in istato di natura caduta, rimanesse in conseguenza del peccato, estinto ogni libero arbitrio, ovvero ogni possibilità di farne uso, per operare un bene morale qualunque, necessitato dalla dominante cupidigia a far sempre il male, senza un aiuto di grazia. [...OMISSIS...] 10. Tutto il fondamento delle dispute che queste due schiere opposte di eretici agitarono tra loro e coi dottori della Chiesa cattolica, era la diversa maniera di concepire la natura del peccato. I Pelagiani ragionavano in questo modo:« Tale è la natura del peccato, che al tutto ripugna che un vero peccato trapassi da un uomo in un altro per via di generazione, senza alcun libero consenso da parte di chi lo riceve«. Sono parole di Giuliano di Eclana appresso S. Agostino: [...OMISSIS...] . Quindi riguardavano come un assurdo la trasmissione dell' originale peccato ne' bambini, e con mille cavillazioni cercavano di torcere ed eludere i luoghi della sacra Scrittura, ne' quali s' insegna questo dogma. I Giansenisti per l' opposto sostenevano, che la natura del peccato non è tale che esiga essenzialmente l' esercizio del libero arbitrio nella persona che vi soggiace, bastando a costituire il peccato quel libero arbitrio che esisteva nel capo dell' umana stirpe, e fin qui non dissentivano gran fatto da S. Agostino; ma mentre il santo Dottore applicava un tale principio a quel solo peccato che era nel tempo stesso e peccato e pena d' altro peccato liberamente commesso, cioè dell' originale (2), essi lo estendevano a tutti i peccati che l' adulto commettesse nello stato di natura lapsa, e sostenevano che [...OMISSIS...] : che è la terza proposizione condannata siccome eretica in Giansenio; e che quindi tutti gli atti degli infedeli, o di quelli che non sono in grazia, e i movimenti involontarii della concupiscenza, fossero necessariamente liberi e peccati, perchè fatti senza coazione, benchè per necessità, venendo tutti informati dalla libertà con cui fu commesso da Adamo il primo peccato. Che anzi la dottrina di Baio intorno alla definizione del peccato andava anche al di là di questa di Giansenio: poichè egli asseriva, che all' essenza del peccato non apparteneva nè pure il libero arbitrio che era in Adamo, nè alcun rispetto ad un' altra volontà qualunque, onde tra le proposizioni condannate come sue si annoverano queste: [...OMISSIS...] vero è che Baio soggiungeva, che quando poi si tratta della questione della imputazione del peccato, allora conviene ricorrere alla volontà che ne fu causa: [...OMISSIS...] . Ma nel rispondere appunto a questa nuova dimanda stabilisce il cardine di tutto il suo erroneo sistema; perchè invece di ricorrere a una volontà libera, come fu quella di Adamo, ricorre alla volontà del bambino stesso, privo ancora di libertà, e la dichiara subbietto capace di imputazione: e ciò perchè non fa un atto contrario, che non è in suo potere di fare. [...OMISSIS...] Onde fu giustamente condannata anche quest' altra proposizione: [...OMISSIS...] . Giansenio dunque avendo forse presente la condanna da cui era stato colpito Baio, ricorse alla libera volontà di Adamo per ispiegare come possa aver condizione di peccato quel de' bambini, così scrivendo: [...OMISSIS...] dove si vede che Giansenio rifugge a una volontà, e propriamente alla volontà libera di Adamo, per conservare al peccato originale la ragione ossia la natura di peccato , mentre Baio, ricorre alla volontà del bambino per ispiegare l' imputazione e non la ragione di peccato, per la quale egli accumulando errore sopra errore, non esige l' intervento di alcuna volontà nè libera nè necessitata, nè di quella di Adamo, nè di quella del bambino. 11. Questa breve esposizione intanto basta, acciocchè apparisca, come la questione suscitata da' Pelagiani intorno alla propagazione e all' esistenza del peccato originale nei posteri, si ridusse tutta in quella della natura e della definizione del peccato , e dell' applicazione di questa definizione al peccato che, secondo il dogma cattolico, l' uomo eredita per via di naturale generazione dal primo padre che prevaricò colla disubbidienza al divino precetto, e come questo fu il punto fondamentale, sul quale si accese la controversia sia tra i Pelagiani e i Giansenisti, sia tra queste due eresie opposte, e il cattolico insegnamento. Su di che si possono fare le seguenti considerazioni: a ) Che la controversia prese il carattere di questione filosofica: poichè è proprio del filosofo l' investigare le definizioni e la natura delle cose; e conviene infatti ricorrere all' osservazione e al raziocinio filosofico per iscoprire la natura della volontà umana e i suoi diversi modi di operare, la natura dell' obbligazione morale, del peccato, ecc.. Onde Pelagio ricorre sempre per difesa del suo errore alla filosofia di Aristotile (1). b ) Che qui si trova pure la ragione per la quale S. Agostino dica del peccato originale: [...OMISSIS...] . Per colui che crede alla cattolica Chiesa cessano tutte le difficoltà, e non c' è verità che sia più nota, per la predicazione de' sacerdoti, dell' originale peccato. Ma se taluno desidera di avere di questo peccato, oltre le fede, anche l' intelligenza, allora trova che esso è molto secreto e difficile a penetrarsi, perchè conviene di necessità che la mente di un tal uomo entri nelle più difficili e sottili ricerche filosofiche intorno alla natura intima dell' umana libertà e delle sue relazioni col bene e col male morale, da cui solo si ritrae la natura di ciò che è retto ed onesto, e di ciò che è male e peccato. E i Dottori stessi della cristiana fede furono spinti nel campo di tali ricerche dalla necessità di ribattere e di confutare le eresie, che, malamente filosofando sulla natura del peccato originale, o tentarono di distruggerlo e di dichiararlo impossibile come i Pelagiani, o ne esagerarono e sformarono così fattamente la natura, che il peccato originale che ammettevano non era più quello che la Chiesa proponeva a credere ed annunziava ai popoli per la predicazione, il che fecero i Giansenisti. c ) Che questo pure dà ragione del perchè non vi ebbero forse altre sette che fossero tanto sottili e cavillose e così ricche di scaltrezze e di effugii come queste due de' Pelagiani e de' Giansenisti, perchè nelle materie di raziocinio filosofico, massimamente quando si tratta di una materia difficile come questa, e non accomodata alla intelligenza di tutte le menti, i sofismi e gli equivoci, e le distinzioni, non hanno, per così dire, alcun termine. 12. Come dunque la dottrina cattolica tiene il mezzo fra i due opposti errori del Pelagianismo e del Giansenismo, così il teologo che espone e difende questa dottrina non soddisferà al suo uffizio se non presenta un sistema, nel quale non uno solo di quegli errori, ma entrambi sieno evitati ad un tempo. Non dovrà dunque combattere, a ragion d' esempio, il Pelagianismo in tal modo, che lasci poi nella sua dottrina le radici del Giansenismo: e viceversa dovrà ben guardarsi dal pericolo che per uno zelo troppo esclusivo di abbattere il Giansenismo non iscada egli stesso, come troppe volte è avvenuto, fino a favorire il Pelagianismo. A soddisfare adunque a questo primo uffizio del teologo cattolico è rivolta la dottrina contenuta in questi Opuscoli, di cui qui diamo il compendio. 13. Il secondo uffizio del teologo cattolico (ed è anche un secondo carattere, a cui si può riconoscere la verità e la sufficienza del sistema che si oppone ai detti errori) si è, che il sistema che egli propone sia tale che valga a distruggere entrambi quegli errori sotto tutte le forme di cui possano rivestirsi, cioè che li colpisca nella loro essenza, e non solamente in qualche loro espressione verbale, o forma particolare, a cagione specialmente dell' indole loro sottile e sofistica. Al qual fine si avrà presente la sentenza di S. Ilario, che [...OMISSIS...] . Colle quali parole non solo s' insegna di non sottilizzare sulle parole, quando queste nulla contengano di profana novità, ancorchè nove, ma servano a più chiaramente e precisamente fermare la verità cattolica; ma s' insegna ancora a non perdonare all' errore, ancorchè vestito di parole e frasi cattoliche, ma che nel loro contesto non nascondono meno per questo un senso eretico o certo erroneo. 14. E infatti i detti errori si sono talora accompagnati o coperti con tali espressioni, che alla loro onesta apparenza ingannarono i giudici stessi. Di che per dare qualche esempio tolto dall' eresia pelagiana, a tutti è noto come Pelagio ingannò i Vescovi palestini confessando il peccato originale, mediante subdola restrizione, per la quale intendeva che il peccato di Adamo passasse ai posteri per imitazione e non per la naturale generazione : come impose ancora a Papa Zosimo intendendo sotto il nome di grazia la legge e la dottrina, o una grazia data secondo i meriti: come lo stesso Celestio sorprese del pari il Santo Pontefice Zosimo, con modi e forme che potevano avere un senso ortodosso, ma che, rimanendo indeterminate, ammettevano un altro senso eterodosso, che era quel dell' eretico. E per venire a' sistemi più recenti, si dirà forse che sia un confessare a sufficienza il dogma dell' originale peccato nei bambini, quale lo confessa la Chiesa cattolica, il dire, che esso non è peccato simpliciter , ma secundum quid , e quadantenus solamente, come si esprime un recente teologo? E chi non sa, che ciò che simpliciter non è, si può negare con tutta verità senz' altra restrizione o aggiunta di parole? E non è forse questa l' eresia pelagiana? Del pari, il dire, che il peccato originale ne' bambini non tragga seco alcuna dannazione , non è un negare sostanzialmente il detto peccato? (2). Giacchè come ci può essere un vero peccato senza dannazione, sotto un Dio giusto? E non sembrano parole uscite dalla bocca di Pelagio quell' altre d' un teologo, che ci dimanda: [...OMISSIS...] . Poichè anche Pelagio negava il peccato di origine asserendo essere cosa ingiusta che i bambini fossero puniti senza attuale loro demerito. Ma la Chiesa cattolica insegna tutto il contrario, e chi non può intendere, creda. Ora sarà forse interdetto e non anzi lodevole il difendere la purità della fede anche contro queste forme di pelagianismo? Chi riputerà a colpa il farlo? E d' altri simiglianti sistemi che, sotto il pretesto specialmente di inveire contro il Giansenismo, fomentano l' errore contrario, parleremo in appresso. Passiamo ora adunque a parlare della natura del peccato originale de' bambini, in cui sta, come dicevamo, tutto il nodo della questione. 15. Affine di procedere con lucido ordine e presentare colla maggior chiarezza possibile una dottrina così difficile com' è quella della natura del peccato originale ne' bambini, di cui dice S. Agostino: « quo nihil est ad intelligendum secretius, » conviene che premettiamo alcune nozioni generali, di cui dovremo poi fare nell' applicazione un uso frequente. 16. La moralità buona o cattiva consiste nell' abitudine o relazione in cui sta la volontà dell' uomo inverso alla legge o naturale o positiva (2). 17. Come questa abitudine è varia e di specie e di grado, così lo stato morale dell' uomo ammette altrettante varietà di specie e di grado, quante sono le varietà possibili di essa abitudine. 1.. Una varietà importante dello stato morale dell' uomo nasce dalla doppia attività di cui è fornita la sua volontà, secondo la qual doppia attività ella agisce in due maniere ben distinte. Poichè essa si può considerare come una parte essenziale della natura umana, e, come natura, ella è obbligata a certe leggi naturali, dalle quali non si può mai dipartire nel suo operare, senza distruggere sè stessa. Ma queste leggi non determinano in tutto il modo del suo operare, e però ella è ancora una potenza, alla quale, salve le dette leggi, rimane un' attività di operare liberamente . Tanto poi allorchè la volontà umana opera come natura, quanto allorchè ella opera liberamente, il suo modo di operare è sempre spontaneo , e però è sempre libera dalla coazione: ma non si dice che opera liberamente, se non quando il suo operare non solo è spontaneo, ma indipendente da ogni necessità, appunto per non essere determinata antecedentemente a una cosa piuttosto che ad un' altra dalle leggi di sua natura (1). 19. Di qui nascono due diverse abitudini o relazioni della volontà alla legge, le quali dànno origine a due forme di moralità, l' una delle quali riguarda l' abitudine della volontà all' oggetto della legge come natura, la qual volontà si riferisce ad esso oggetto in un modo spontaneo, ma non libero; l' altro riguarda l' abitudine della volontà come potenza libera al medesimo oggetto. E nell' uno e nell' altro modo c' è un bene od un male morale. Così, a modo d' esempio, la volontà dei celesti comprensori portandosi tutta in Dio spontaneamente, benchè senza alcuna libertà antecedente, possiede il sommo e perfetto bene morale; e i dannati avversando spontaneamente, sebbene non più liberamente, Iddio, soggiacciono a un sommo male morale. I viatori all' opposto, quando liberamente eleggono o il bene o il male, vengono pure in possesso del medesimo e le loro azioni hanno una moralità d' altra forma, poichè dell' acquisto di quel bene e di quel male sono essi medesimi i liberi autori, a cui perciò è congiunto il merito o il demerito, come diremo. Di queste due forme di moralità noi abbiamo parlato con tutta chiarezza ed estensione nella Dottrina del peccato originale (2), nel Trattato della Coscienza (3), nell' Antropologia (4), e ne' Principii della Scienza Morale (5). 20. Dobbiamo ora notare un' altra verità dello stato morale dell' uomo, se vogliamo procedere con chiarezza nel presente argomento. La volontà umana si atteggia e si riferisce verso un oggetto non solo ne' due modi che abbiam detto spontaneo semplice e libero ; ma per ciascuno di essi in due altri, cioè o per un movimento finale , o per un movimento d' inclinazione . Ella si porta in un oggetto o per un abito o per un atto con un movimento finale , quando termina e riposa la sua azione nell' oggetto e subordina al detto oggetto tutti gli altri che non sono fini del suo atto, e vuole questi solo per lui, di modo che in essi non ama altro che la qualità che hanno di mezzi al fine. Si porta in un oggetto con un movimento di semplice inclinazione, quando è bensì propensa e attirata verso un oggetto, ma non si acquieta nè finisce in esso la sua azione; non lo prende a suo fine ultimo e assoluto, nè lo ama come mezzo, perchè esso contrasta con quell' oggetto che ella ha per fine. 21. E` ora da osservarsi, che la volontà che riguarda il fine e che vuole anche le altre cose pel fine, di maniera che ciò che vuole anche nelle altre cose non è altro che il fine (1), dicesi volontà superiore e anche volontà personale, secondo la dottrina della persona da noi data nell' Antropologia (2): la volontà poi di semplice inclinazione, che si trova in contrasto col fine voluto e amato, dicesi volontà inferiore, e non è personale ma naturale, come quando l' uomo sente nelle sue potenze un movimento che egli non vuole, e a cui contrasta colla volontà superiore. 22. Finalmente dobbiamo spiegare in terzo luogo quello che dicevamo, che il movimento finale della volontà (cioè di quella volontà che riposa in un oggetto come in suo fine, e che però dicesi superiore e personale) può essere per un atto ovvero per un abito . Ciò che osta apparentemente a questa sentenza si è la definizione della persona, che dichiara questa« un principio attivo« (3), onde sembra che un abito che non nasca da un suo proprio atto non possa chiamarsi propriamente personale, ma solo naturale. Pure considerandosi attentamente la cosa, si rileva che anche l' attività personale può ammettere modificazioni, le quali non sono e non si dicono certo atti personali, ma bensì sono passioni personali (4), e in questo senso personali si dicono. E questo accade perchè nelle stesse passioni può entrare un' attività di chi le subisce, e però come la persona è il principio supremo di ogni attività nella natura umana, ad esso è uopo attribuirsi anche questa specie di attività che si spiega col cedere all' azione, che qualche causa diversa tende a esercitare sopra la persona, che come tale avrebbe virtù di resistere (5). Poichè se non cedesse ad una tale attività (ceda poi per qualunque ragione o per una legge di spontaneità o per una elezione), se non cedesse dico, ma resistesse alla passione che si vuole esercitare sopra di lei, la detta passione non si potrebbe più dire personale, appunto perchè l' attività della persona non rimarrebbe punto modificata da essa, nè alcun abito contrarrebbe: ma essa passione si conterrebbe in sè e finirebbe nella natura, ritenendo la persona tutta intatta la sua purità e attività e indipendenza. Vero è che ogni passione e ogni debito, se non è l' effetto d' un atto della volontà finale e personale, ma venga imposto altronde all' uomo, comincia nella natura, e però dicesi naturale . E se la volontà ripugna ad esso, rimane puramente naturale, come dicevamo, e non diventa personale. Ma se la volontà, in qualunque condizione ella sia, cede e consente in esso come in suo fine (1), allora essendo sempre personale quella volontà umana che nel fine riposa, come consta dalla definizione, con questo cedere e consentire della persona, la passione e l' abito passa dalla natura ad effettuare anche essa persona, e in questo senso dicesi personale. Il qual abito, se è in sè stesso malvagio, macchia di conseguente la persona: ma qualora il cedere e il consentire che essa fa sia puramente spontaneo e non libero, non è tuttavia colpevole nè demeritorio, come diremo in appresso. 23. Di qui si può dedurre per corollario, che cosa si deva intendere quando si dice che« qualche cosa è propria di una persona«. La proprietà in genere esprime un' unione fisica e morale colla persona, per modo che la cosa propria di una persona dee formare qualche cosa di uno con essa (2). Ma restringendosi il nostro discorso alla proprietà di ciò che è morale, vedemmo che la volontà personale può acquistare una condizione morale per due modi, o per abito impostole, quando cedendo spontaneamente e senza precedente elezione s' acquieta e consente nell' oggetto dell' abito come in suo fine; o quando ella si acquieta in esso come in suo fine per un atto di sua libera volontà (N. precedente). Nell' uno e nell' altro caso, cioè sia che questo suo riposarsi si faccia per un atto di cedevolezza e abbandono spontaneo, il che diremo passione personale, sia che si faccia per un atto libero, o azione personale; la passione o l' azione della persona è sempre con esso lei connessa fisicamente. Una qualità o atto morale dunque non può esser proprio di una persona se non costituisce fisicamente qualche cosa dello stesso suo essere. 24. Pure oltre questo carattere generale di ciò che è proprio d' una persona, è a distinguere le due accennate specie di proprietà: poichè altro è esser proprio d' una persona come una sua azione libera, ed altro esser proprio della persona come una sua passione, nella quale la persona non mette del suo se non l' atto spontaneo del cedere e abbandonare la sua attività propria nell' oggetto della passione o dell' abito. Questi due modi ne' quali un' affezione morale qualunque può esser propria di una persona, vanno ben distinti, affine di evitare gli equivoci. Poichè si potrà dire con verità, che una data affezione morale sia propria di una persona, ritenendo che sia propria di lei come passione o abito personale, e nello stesso tempo si potrà dire che ella non sia propria d' una persona intendendo come azione personale . E con questa distinzione si conciliano delle autorità, che sembrerebbero in contraddizione tra loro, come vedremo in appresso. 25. Premesse queste nozioni sulle diverse abitudini che la volontà umana può aver coll' oggetto della legge, onde nascono i diversi stati morali dell' uomo, nozioni che conviene avere di continuo presenti, possiamo ora passare alla definizione del peccato in genere: e quindi a conoscere in ispecie la natura del peccato originale ne' bambini. Che cosa è dunque il peccato? in che giace la sua essenza? « Il peccato » (parliamo sempre nell' ordine delle cose morali) «è una deviazione della volontà personale dalla legge eterna« » la qual definizione si trova esposta largamente nella Dottrina del Peccato originale (1). 26. Se dunque il peccato è una deviazione della volontà personale, consegue, secondo le cose dette di sopra, che ella sia una deviazione della volontà superiore, di quella volontà che ha per oggetto il fine dell' umana vita. Infatti la legge eterna è quella che stabilisce all' uomo (e lo stesso può dirsi delle altre creature intelligenti), il suo fine e al medesimo lo dirige. Se dunque si trattasse d' una inclinazione della volontà inferiore, che non rimove necessariamente l' uomo dal suo fine, questa inclinazione che sarebbe naturale e non personale, quale è il fomite della concupiscenza ne' renati, potrebbe bensì costituire un male, un' imperfezione nell' ordine morale, ma non avrebbe la natura di peccato. E` per questo che S. Tommaso, sapientemente al suo solito, distingue il male, come concetto più generale, dal peccato, concetto meno generale, scrivendo: [...OMISSIS...] . E segue anche in ciò S. Agostino che contro Giuliano (2) che voleva essere un bene la concupiscenza ne' battezzati scrive: [...OMISSIS...] . 27. E in fatti la data definizione generale del peccato va perfettamente d' accordo colla dottrina costante e universale de' maestri in divinità. Per non eccedere i limiti di un compendio noi la confermeremo solo coll' autorità di S. Tommaso medesimo e di S. Agostino. S. Tommaso dice: [...OMISSIS...] . Ma poichè anche la natura e l' arte hanno un loro fine, non solo la volontà, perciò distingue tre generi di peccati: i peccati della natura, dell' arte e della volontà: viene poi a definire i peccati proprii della volontà di cui noi parliamo, in questo modo: [...OMISSIS...] . E poichè è la legge eterna, come dicevamo, quella che propone all' uomo il suo fine, e subordina a questo l' altre cose, perciò dice ancora così: [...OMISSIS...] . 2.. E in questa l' Angelico segue ancora S. Agostino, della cui autorità si prevale citando la definizione che questo Padre dà del peccato (7) a conferma della sua: [...OMISSIS...] . Dichiarando poi S. Agostino che sia la legge eterna, la definisce così: [...OMISSIS...] . Il qual ordine consiste in anteporre le cose che vanno anteposte pel loro pregio o dignità a quelle che vanno posposte, e però a tutte anteporre Iddio, che è un dire che Iddio dee aversi a solo fine ultimo di tutte. [...OMISSIS...] ; e dimostra che la sola Trinità augustissima è ciò di cui si dee fruire come del solo fine, dell' altre cose poi usare (9) come di altrettanti mezzi. 29. Tale è dunque la vera e propria ragione del peccato, la quale, consistendo in una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita, priva l' uomo del suo fine; e però il Sacrosanto Concilio di Trento lo caratterizzò in modo da non poterlo confondere con alcun altro concetto quando disse: « quod mors est animae (1), » poichè l' uomo è morto spiritualmente, quando la sua volontà è così atteggiata che lo priva del suo fine, nel possesso del quale consiste la vita spirituale. Da questa nozione e definizione per tanto del peccato derivano i seguenti corollari: a ) Che ciò che essa contiene è essenziale a costituire il peccato, e ciò che essa non contiene non appartiene all' essenza del peccato. Laonde poichè nella data definizione si contiene bensì una volontà la quale sia il subbietto del peccato, deviando dal suo fine, questa volontà è necessaria a costituire il peccato: ma non contenendosi una volontà che sia ella medesima ad un tempo e subbietto e causa libera del peccato, e bensì sia necessaria una causa libera acciocchè il peccato esista nella sua essenza, già esistendo, non è necessario alla sua essenza, che questa causa libera sia sempre l' identica volontà che n' è il subbietto ; il che negava giustamente S. Agostino ai Pelagiani, che così pretendevano, [...OMISSIS...] . b ) Che contenendosi nella data definizione tutto e solo quello che costituisce l' essenza del peccato, in essa si abbracciano tutte le specie di peccati, e che perciò tutti que' mali morali, ai quali quella definizione conviene, sono semplicemente peccati in senso vero e proprio, e non per un modo traslato o interpretativo, o come sotto un solo rispetto. Perciò quella definizione conviene ugualmente al peccato mortale tanto attuale quanto abituale, poichè se col peccato attuale l' uomo devia dal suo fine, coll' abituale ritiene in sè permanente questa deviazione e perdita del suo fine, in cui consiste la forma del peccato, la morte dell' anima. E così quella definizione è conforme al linguaggio delle divine Scritture, e dell' ecclesiastica tradizione, della quale tradizione vale per ogni altra testimonianza l' autorità del Tridentino, che dà la propria e vera ragione di peccato all' originale ne' bambini, che è puramente abituale, e ne ripone il carattere formale nell' essere« morte dell' anima«, che è quanto dire, deviazione e quindi perdita del fine dell' uomo, in cui sta la sua vita. Per riguardo poi alla maniera di parlare delle Scritture, noi ne abbiamo addotti i testimoni nel Trattato della Coscienza (3), e molti altri se ne potrebbero aggiungere. Così quando GES`u' Cristo parla d' un peccato che rimane [...OMISSIS...] , non può intendere dell' atto della trasgressione che passa, ma di quella detorsione della volontà dal fine che rimane nell' anima. E quando dice: « In peccato vestro moriemini (1) » non vuol dire che morranno nell' atto del peccato, ma nell' abito che resta loro infisso. Laonde vanno sanamente intesi que' luoghi de' Padri, ne' quali sembra che neghino al peccato abituale, o all' originale nei bambini, la ragion propria di peccato, intendendo essi parlare del peccato colpevole e demeritorio, che è quello di cui si suole più di frequente e comunemente tener discorso, il che ad evidenza si vede in questo luogo di S. Agostino: [...OMISSIS...] . Altri luoghi poi, ne' quali i Dottori dicono, che il peccato consiste propriamente nell' atto anzi chè nell' abito, non vanno già intesi per modo che vogliano negare che nel peccato abituale, che rimane dopo l' atto, non si conservi e permanga la forma del peccato che fu messa in essere coll' atto della prevaricazione, ma vogliono dire, che questa forma permanente trasse la sua esistenza dall' atto liberamente peccaminoso, e però a questo conviene la denominazione di peccato per una specie di priorità e all' abituale per una specie di posteriorità, secondo la distinzione che fanno i logici circa la predicazione di un predicato a subbietti diversi (3). c ) Che mediante la definizione data si può discernere il peccato nella sua propria ragione ed essenza dai concetti a lui affini, e dalle diverse denominazioni che gli competono, o gli sono attribuite secondo diversi rispetti ne' quali si considera, alcuni de' quali sempre si trovano al peccato congiunti, altri non sempre. Tali concetti e denominazioni sono a ragion d' esempio quelli di colpa, di demerito, di reato di colpa, di reato di pena, d' iniquità, di macchia, di offesa, di offesa di Dio, di trasgressione, di prevaricazione, disubbidienza, ecc.; che tutti aggiungono qualche concetto di relazione al semplice concetto del peccato. Laonde tutti questi concetti sopravvenienti suppongono prima quello di peccato su cui si fondano. E per modo d' esempio, come dice il Gaetano: [...OMISSIS...] . d ) Che si può del pari colla regola della addotta definizione dimostrare, che il peccato veniale manca della perfetta ragion di peccato, perchè non toglie all' uomo il suo fine, e quindi che come dice S. Tommaso: [...OMISSIS...] . e ) Che finalmente nella stessa definizione si ha una norma sicura per discernere, quando nelle Scritture o nei Dottori si adopera la voce peccato in un senso improprio e traslato. Così il fomite che rimane ne' battezzati si chiama da S. Paolo peccato, perchè viene dal peccato, ed al peccato inclina, ma non ha l' essenza del peccato, perchè non priva l' uomo del suo fine. Lo stesso dicasi dei moti involontarii della concupiscenza, a cui la volontà suprema ripugna. Lo stesso dell' uso della parola peccato che si fa nelle divine Scritture per indicare l' ostia o la vittima espiatrice del peccato, onde S. Paolo (2) dice che Cristo si fece per noi peccato. Onde Giovanni Fischer Vescovo di Rocester che suggellò col suo sangue la cristiana fede, distinguendo questi diversi significati della parola peccato contro Lutero che li confondeva, conchiude dicendo: [...OMISSIS...] , la quale riviene alla definizione da noi posta e a quella del Tridentino « quod mors est animae ». 30. Stabilita dunque la definizione generica del peccato, che ripone la natura di lui« in una deviazione della volontà personale dalla legge eterna«, ossia dal fine dell' umana vita, rimane a farne l' applicazione al peccato originale e vederne la differenza specifica dai peccati attuali, la quale già viene non poco chiarita dalle cose fin qui ragionate. Il peccato originale si può considerare sotto due rispetti, cioè si può ricercare:« che cosa egli sia nel bambino«, e« che cosa egli sia relativamente al primo padre che l' ha commesso, e da cui il bambino per generazione lo ha ricevuto«. Poichè il bambino dee aver ricevuto in sè qualche cosa che abbia ragion di peccato: ma poichè egli n' è divenuto bensì il subbietto, ma non la causa, che sta solo nella libera volontà di Adamo stipite dell' umana schiatta (4), perciò senza riferire il peccato che è nel bambino alla causa, che è in Adamo, non si potrebbe trovare l' imputazione del medesimo, per la quale imputazione il peccato acquista denominazione di colpa . Due sono dunque le cose da spiegarsi, l' una come nel bambino ci sia qualche cosa che abbia ragion di peccato, sebbene questa cosa rea non abbia per causa la libera volontà del bambino stesso, ma di un' altra persona, l' altra come e a chi questo peccato sia imputabile: e ciò per ribattere non meno l' errore pelagiano che l' errore giansenistico. Poichè i Pelagiani, come dicemmo, negavano l' esistenza del peccato nel bambino, perchè non intendevano come potesse darsi in un umano individuo vero peccato senza un atto di sua propria libera volontà; i Giansenisti all' incontro ammettevano non solo il peccato nel bambino, ma anche la imputazione, la colpa, il demerito, riferendo tutte queste cose al bambino stesso, o sostenendo che a essere colpevole e a demeritare bastasse o l' atto libero della volontà di Adamo, come se questa esistesse nel bambino, che è la sentenza di Giansenio (1), o il non farsi dal bambino colla sua volontà alcuna opposizione alla concupiscenza « eo quod non gerit contrarium voluntatis affectum, » quale è la sentenza di Baio, e così venivano a stabilire in generale che l' imputazione, la lode e la colpa, il merito ed il demerito di una persona potesse esistere senza opera della sua libera volontà. 31. Ritenendo dunque noi fermamente colla Chiesa Cattolica, coll' insegnamento della quale s' accorda anche il naturale e filosofico raziocinio, che l' imputazione morale non si può fare se non a chi è causa libera di ciò che le s' imputa, perchè, come abbiamo mostrato nell' Antropologia , la sola causa libera ha natura di vera causa (2), e che però a niuna persona umana si può applicare lode o colpa, merito o demerito di quelle azioni o passioni che non sono da lei liberamente prodotte o acconsentite, il che si oppone all' errore giansenistico, diciamo all' incontro, che senza libera volontà si può dare peccato, cioè si può dare « deviazione della volontà dall' ordine del fine dell' umana vita« nel che, come abbiamo veduto, è riposta la nozione e la definizione del semplice peccato, secondo la dottrina de' Maestri in Divinità: e questo è quello stesso che abbiamo dimostrato più a lungo nell' opuscolo intorno alla distinzione tra le nozioni di peccato e quelle di colpa e altrove; dove tra le altre cose abbiamo notato che Iddio nell' antica legge, per mantenere ben distinte queste due nozioni nelle menti voleva che fossero istituiti due specie di sacrifizii, gli uni per il peccato, gli altri per il delitto (3). Di che cava anche S. Agostino un argomento contro i Pelagiani per dimostrar loro il peccato originale, ove dice: [...OMISSIS...] . Si apre qui dunque il passaggio a rispondere alla prima questione contro i Pelagiani:« Che cosa sia ciò che abbia ragione di peccato ne' bambini?«. Poichè rispondiamo che ciò che ha ragione di peccato ne' bambini è una deviazione della loro volontà dalla legge eterna, ossia dal fine dell' umana vita. E posciachè abbiam detto che questa deviazione può essere o attuale o abituale, ne' bambini, ne' quali non c' è ancora l' atto, altro non è e non può essere che una« declinazione abituale e non attuale«. 32. Ora che la volontà umana possa avere questo mal abito prima di ogni suo atto libero, ciò non involge alcuna ripugnanza, il che solo si può esigere che sia dimostrato. Poichè l' obbiezione che può fare il raziocinio naturale contro le verità della fede è che involgano assurdo, al quale scopo infatti tende il raziocinio che, come vedemmo, fanno i Pelagiani contro il dogma del peccato originale. Contrapposto che abbia dunque l' apologista della fede un altro valido raziocinio che disciolga la apparente contraddizione, rimane intatta la verità da credersi, ancorchè essa continui ad essere o misteriosa, ovvero difficile a intendersi e per molti anche impossibile. Dicevamo dunque che niente ripugna, che la volontà umana si trovi vestita prima d' ogni suo atto accidentale di un mal abito morale, perchè essa volontà indubitatamente prima ancora di emettere alcuno degli atti suoi accidentali e liberi esiste come parte essenziale della natura umana, e l' abito è cosa permanente che dà una certa disposizione alla potenza, non già un atto transeunte; e perchè non ogni abito d' una natura e potenza è necessariamente un effetto lasciato in essa da un atto transuente della medesima, com' anche si vede, volendo prendere un esempio da altre verità cristiane, dagli abiti infusi delle virtù teologiche nel santo battesimo. Sono abiti che si ricevono dalla volontà dell' uomo per generazione anche tutte le buone o cattive disposizioni ereditarie, riconosciute ed ammesse da tutti i filosofi. Che se queste ancorchè sfavorevoli all' acquisto delle virtù non sono peccati, ciò accade perchè non affettano la volontà personale, ma solo la volontà inferiore e naturale; e di ciò si darà ragione tantosto, bastando qui un tale esempio a comprovare questo fatto psicologico, che la volontà è veramente suscettiva di abiti buoni e cattivi, che non sono sempre l' effetto lasciato in essa dalle sue proprie libere operazioni, ma aventi un' altra origine da essa indipendente. 33. Questa dottrina intorno alla natura del peccato, la quale dimostra che tanto i Pelagiani, quanto i Giansenisti erravano ugualmente per non sapere distinguere il peccato dalla colpa, negando i primi il peccato ne' bambini, perchè non sapevano come incolparli di una cosa di cui non era causa il loro libero arbitrio, incolpando gli altri gli stessi bambini perchè non sapevano come potessero senza di ciò confessare in essi il peccato, può dirsi francamente, a nostro avviso, essere sostanzialmente definita dalla stessa Chiesa, o certamente manifesta risultare dalle sue infallibili definizioni. 34. E veramente Alessandro VIII (1) condannò questa proposizione: « Homo debet agere tota vita paenitentiam pro peccato originali », non solo come quella che detrae alla satisfazione di Cristo, e all' efficacia del Sacramento del battesimo, e che contiene l' assurdo, che colui che ha bisogno di essere redento e rinnovato, venendo tolto via da lui il reato del peccato di origine, per poter meritare e soddisfare, possa cooperare co' suoi meriti e colle sue soddisfazioni alla propria redenzione e rinnovazione; ma ancora come quella che suppone che il peccato originale abbia per sua causa la volontà di chi lo riceve, giacchè nessuno si può pentire se non degli atti suoi proprii, di cui egli avesse avuto il libero dominio. In fatti che cosa costituisce la base della penitenza, secondo la stessa etimologia della parola, se non il pentimento di ciò che si è fatto, e che si potea non fare? Laonde nel libro Della vera e della falsa penitenza, che fu attribuito a S. Agostino, si definisce la penitenza così: [...OMISSIS...] . Da questa definizione pertanto della Chiesa noi argomentiamo così:« Il peccato originale esiste: ma egli non ammette penitenza e contrizione, perchè questi affetti non possono cadere se non in colui che fu causa libera del peccato. E appunto perchè il peccato originale è subìto da' posteri senza che la loro libera volontà vi concorra, perciò anche il rimedio al medesimo è dato senza loro libera volontà (3). La Chiesa dunque riconosce colla condanna di quella proposizione bajana e giansenistica che: 1. il peccato originale ha vera ragion di peccato benchè manchi la libera volontà in colui che ne è il subbietto; 2. che esso non è colpa di colui che lo subisce, perchè se fosse sua colpa non potrebbe esser tolto senza che egli se ne contrisca e se ne penta; 3. che esso peccato viene tolto via dalla redenzione e satisfazione di Cristo immediatamente come peccato (tolto il quale non è più la colpa perchè le è tolta ogni sua materia) e non solamente come colpa: cioè esso viene tolto via da noi nella sua ragione di peccato, da Adamo poi, personalmente considerato, venne tolto via immediatamente nella sua ragione di colpa, ossia di peccato colpevole, per la fede in Cristo futuro Redentore. 35. La Chiesa del pari ha definito contro di Bajo e Giansenio, colla condanna di più proposizioni, che non si può dare un peccato imputabile a colpa, e però demeritorio, senza che sia posto dalla libera volontà di quello a cui si imputa, e di novo tra le altre ha condannata questa proposizione: [...OMISSIS...] , che è la prima delle 31 condannate da Alessandro VIII col decreto de' 7 dicembre 1690. Ora se il peccato originale ne' bambini fosse loro colpa, cioè fosse peccato commesso dalla loro libera volontà, le conseguenze di esso (almeno quando avessero potuto e dovuto prevederle) sarebbero pure colpevoli e demeritorie in causa. Dunque l' originale è un vero peccato che sussiste nel bambino, quantunque non entri a costituirlo la volontà libera del bambino. Del pari come puro peccato, senza imputabilità e demerito proprio del bambino, sussiste senza che entri a costituirlo la libertà di Adamo, perchè questa non basta a renderlo libero della libertà del subbietto che lo subisce e non lo commette, onde colla condanna della detta proposizione si dichiara, che non basta a costituire il peccato formale e il demerito nè pure la volontà libera qual' era in Adamo, non essendo essa volontà libera del bambino. 36. Nè faccia difficoltà la parola peccato formale inserita nella proposizione condannata, quasi che il peccato ne' bambini non fosse peccato formale, poichè si usò di dire formale quel peccato che è ad un tempo colpa di chi n' è il subbietto, quando il peccato originale ne' bambini manca rispetto ad essi della forma di colpa, di cui esso è come la materia, ma non manca per questo della forma del peccato , senza la quale non sarebbe vero peccato. Onde il celebre compendio della Teologia che fu attribuito a S. Tommaso e ad altri insigni dottori, dice che il peccato originale: [...OMISSIS...] . 37. Se dunque si considera da una parte che il Sacrosanto Concilio di Trento definì che il peccato originale unicuique inest , differente perciò di numero in ogni uomo, e che l' inesistere non è proprio delle relazioni che non sieno per sè sussistenti, e che esso peccato consiste formalmente nella morte dell' anima , la quale non è una relazione alla causa del detto peccato, ma è una pena che soffre il subbietto di quel peccato che è anche pena, e se si considera dall' altra che è pur definito, per le accennate proposizioni condannate ed altre già conosciute, che il detto peccato morte dell' anima non ha ragione di colpa e di demerito, se non come prodotto dalla libera causa che fu la volontà di Adamo: apparirà chiaro, che si può dire già definita dalla Chiesa, come dicevamo, la dottrina che da una parte riconosce ne' bambini un peccato formale considerato nella sua entità senza uscire dal bambino stesso, e però senza che entri, in questa sua entità che ha nel bambino, alcuna libera volontà, dall' altra parte che un tal peccato, vero peccato, ha bensì ragione di pena, ma non di colpa, la quale sta nella libera causa che l' ha prodotto a principo. 3.. Ora questa dottrina è appunto quella che somministra le armi per combattere i due errori opposti de' Pelagiani e de' Giansenisti; e i principali Dottori della Chiesa la opposero costantemente agli eretici; de' quali Dottori mi restringerò per ragione di brevità a nominare solamente S. Agostino e S. Tommaso. I Pelagiani caduti nell' eresia dall' essersi dati a credere, che il peccato non possa esistere senza un atto di libero arbitrio in colui che ne è il subbietto, abusavano in propria difesa della definizione del peccato che S. Agostino stesso avea dato: « voluntas retinendi vel consequendi quod justitia vetat, et unde liberum est abstinere , » di cui si abusò cotanto anche di poi (1). Che cosa rispose loro Agostino? Che conveniva distinguere due specie di peccato, la prima di quelli che sono peccati e non anche pena di un altro peccato precedente, la seconda specie formata da quel peccato che oltre esser peccato è anche pena di peccato: alla prima sola di queste due specie convenire quella definizione, non alla seconda, a cui appartiene il peccato originale ne' bambini. [...OMISSIS...] . Avendo così dunque il santo Dottore stabilito che il genere del peccato abbia due specie, cioè che ci sono peccati che s' incorrono per una libera trasgressione dei divini precetti, e unde liberum sit abstinere, e che ci sia un' altra specie che si subisce, come pena, per via di generazione senz' atto di libera volontà, non solo abbattea con ciò il pelagianesimo, ma sottraeva anche il peso della sua autorità ai futuri Giansenisti, giacchè mentre egli riconosce nello stato presente dell' uomo, oltre il peccato di origine, anche quello che liberamente e consapevolmente si commette, i Giansenisti che falsamente si dicono suoi discepoli, non riconoscono la specie di peccati che si commettono dalla volontà libera dalla necessità, unde liberum sit abstinere . 39. S. Agostino oltrecciò coll' avere stabilito che il peccato originale ha condizione di pena (il che non gli toglie però la natura di peccato) venne con questo solo a rendere ragione del perchè non possa essere un peccato libero della volontà di chi lo subisce. Poichè la pena è contraria alla libera volontà: [...OMISSIS...] . E come la pena è contraria alla volontà, così è contraria alla colpa. Onde S. Tommaso divide il male nell' ordine delle cose volontarie in queste due specie appunto di: 1 male volontario, cioè liberamente voluto, e questa è la colpa ; 2 male involontario, e questa è la pena (1). Se dunque il peccato originale ne' bambini ha ragione di pena secondo S. Agostino, segue da questo stesso, ch' egli non possa essere per essi il contrario, cioè colpa . Nè vale il dire che talora si vuole anche la pena non come pena, ma come soddisfattoria o come medicinale; perchè il peccato originale non è pena soddisfattoria, ma trae anzi seco, come causa, la necessità di pene soddisfattorie; nè è pena medicinale, che è anzi il morbo che dee essere guarito, ed è ancora più che morbo, perchè è male dell' anima. 40. S. Agostino adunque difende contro i Pelagiani che il peccato originale è vero peccato, benchè sia anche nello stesso tempo pena del peccato precedente commesso da Adamo, distinguendolo così entitativamente da quel di Adamo: [...OMISSIS...] . Con che nello stesso tempo che stabilisce, che la macchia originale ne' bambini è un vero peccato in sè stesso considerato, riconosce però che è l' effetto di una prima causa libera, che fu quella di Adamo, alla quale si riferisce l' imputazione e la colpabilità, rimanendo sempre fermo che l' effetto non sia la causa . Onde non finisce di ripetere, che « origo tamen etiam huius peccati descendit a voluntate peccantis (4), » rimanendo di nuovo distinto l' originale dall' originato. Combatte dunque S. Agostino i Pelagiani da una parte e i Manichei dall' altra coi due aspetti in cui si deve considerare il peccato originale ne' bambini, in sè stesso, nella sua entità propria come puro peccato, cioè come una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita, e relativamente alla volontà libera di Adamo che ne fu causa, da cui viene la nozione di colpa. Pe' quali due aspetti, il peccato originale si chiama peccato comune in quanto è un solo nell' origine di cui tutta la massa è stata corrotta e macchiata, è una sola la colpa; e si chiama anche peccato proprio , come lo dichiara il Tridentino, in quanto partecipato ne' singoli è più di numero, benchè uno di specie, avendo ciascuno la sua propria corruzione e macchia, che è non è quella di un altro. S. Agostino in fatti chiama il peccato originale commune , dove dice: [...OMISSIS...] . Ma il santo Dottore lo riconosce anche come proprio de' singoli dove dice: [...OMISSIS...] . 41. Sulle traccie di S. Agostino, e con un linguaggio in alcune cose più scientifico e da scola cammina S. Tommaso. Poichè anche questo santo Dottore, data la definizione del peccato in tutta la sua generalità, si fa a distinguere le due specie di peccato puro e di peccato imputato al libero suo autore. Nel concetto dunque di peccato (nell' ordine morale) altro non si acchiude, secondo l' Aquinate, se non « una deviazione dall' ordine della ragione relativamente al fine comune della vita umana«, » quando nel concetto di colpa si acchiude di più l' imputazione alla causa libera, e però ivi solo propriamente è la colpa, dove è la libertà. Laonde il peccato può essere in un individuo umano secondo la vera nozione di peccato, e la colpa di questo peccato essere, propriamente parlando, non in un modo traslato, in un altro individuo che liberamente ne sia stato causa ed autore. Tali sono le distinte nozioni che ci dà S. Tommaso in queste parole: [...OMISSIS...] . Sulle quali filosofiche definizioni del santo Dottore ragioniamo così:« Solo allora l' atto s' imputa all' agente e diviene colpa, quando è in potestà del medesimo, di modo che questo abbia il dominio del suo atto, cioè possa farlo e non farlo. Ma il bambino ha bensì il peccato originale, ma non ha il dominio del suo atto, e non può colla libera sua volontà evitarlo. Dunque non gli può essere imputato, e però non è sua colpa, ma solo peccato, secondo l' Angelico. Quindi per trovare un modo nel quale si dica che il peccato originale venga imputato al bambino, conviene ricorrere ad un modo non proprio, ma traslato, come fa lo stesso santo Dottore, dicendo che il peccato originale s' imputa al bambino, come s' imputa l' omicidio alla mano di chi l' ha commesso, dicendo che è colpa della mano. Ma è ben chiaro che l' istrumento non è in senso proprio imputabile e colpevole di ciò che fa di bene e di male colui che usa dell' istrumento, perchè l' istrumento non è un agente che abbia il dominio del proprio atto, e non ha neppure la cognizione di ciò che l' agente gli fa fare, o piuttosto di ciò che egli stesso fa per mezzo suo. E` dunque più chiaro del sole, che secondo l' Angelico nel bambino esiste il solo peccato, separato dalla colpa, quel peccato che S. Agostino dichiarava peccato pena di una colpa antecedente; e che la colpa, in senso vero e proprio di un tal peccato, non esistette che in Adamo, che fu il solo agente che avesse il dominio del proprio atto; e che in senso puramente traslato, s' applica poi la colpa di Adamo a tutti i suoi discendenti che ricevono per la generazione il peccato. 42. Ma quantunque la mente dell' Angelico sia così aperta, tuttavia v' hanno di quelli che non arrivano ad intenderla, e gioverà che ci facciamo ad esaminare le loro obbiezioni. Costoro adunque per riconfondere di novo il peccato colla colpa ci oppongono che S. Tommaso al passo da noi citato soggiunge, che [...OMISSIS...] . Ma questo passo appunto lungi dal favorire gli oppositori, conferma apertamente e ribadisce la distinzione che voglio distruggere. Esaminiamone il senso con diligenza. a ) Ammettendo il santo Dottore che il male possa esistere in ogni cosa creata anche inanimata, perchè non è altro che privatio boni , e così pure che possa esistere il peccato in tutti gli agenti, perchè non è altro nella sua definizione generalissima che un atto che tendendo ad un fine devia dal medesimo, « cum non habet debitum ordinem ad finem illum , » perciò distingue tre ordini in cui possa cadere il peccato preso in questa generalità, cioè l' ordine della natura , l' ordine dell' arte , e l' ordine morale . Ora è chiaro che negli agenti naturali, o negli artistici, non ci può essere colpa, e però il male e il peccato non s' identifica in essi colla colpa; ma negli agenti morali cioè nei loro atti volontarii il male, il peccato e la colpa s' identificano, perchè sono agenti suscettivi di lode o di biasimo quando agiscono liberamente. S. Tommaso adunque non intende qui che paragonare gli atti volontarii cogli atti della natura e dell' arte, e in questi soli dice che s' identificano il male, il peccato e la colpa: non paragona una specie di atti della volontà con altri atti, non paragona gli atti necessarii cogli atti liberi, il che fa in altri luoghi. b ) Che poi l' espressione che usa qui S. Tommaso « in actibus voluntariis , » si deva intendere senza dubbio di atti liberi , non solo apparisce dal contesto, attribuendo loro lode e colpa e avendo poche linee avanti già spiegato in che consiste l' imputazione a lode o a colpa, con queste parole: « Tunc enim actus imputatur agenti, quando est in potestate ipsius, ita quod habeat dominium sui actus , » ma si trova di questa maniera di usare la parola« volontario« una ragione intrinseca anche nella stessa dottrina dell' Aquinate. Poichè avendo distinta la volontà come natura, voluntas ut natura , e la volontà come volontà, voluntas ut voluntas, e a questa appartenendo la libertà, a quella la necessità, egli chiama volontarii gli atti che appartengono a questa seconda, riponendo nel numero di atti naturali quelli che appartengono alla volontà operante come natura, benchè riconosca che anche questi appartengono alla stessa volontà, e in questo senso si possono dire« volontarii«. Applicando la qual teoria di S. Tommaso alla questione, così argomentiamo: S. Tommaso dice, che il male, il peccato e la colpa sono il medesimo nei soli atti volontarii, cioè liberi: ma il peccato originale ne' bambini non è un atto volontario libero: dunque, secondo il santo Dottore, in esso peccato non è il medesimo il peccato e la colpa. Il testo che ci si oppone convalida la distinzione. c ) Di più, S. Tommaso nel detto testo parla di atti , dice che ne' soli atti volontarii male, peccato e colpa diventano la stessa cosa. Ma nei bambini non ci sono atti volontari : il peccato da lor contratto non è un atto della loro volontà, ma è un abito della medesima contratto per via di generazione: dunque, secondo S. Tommaso, ne' bambini non è il medesimo il peccato e la colpa , perchè l' identità di queste due cose, secondo lui, cade solamente negli atti volontari, in solis actibus , e però non cade negli abiti : in questi può accadere l' opposto, può accadere che dove c' è l' abito peccaminoso, ivi non ci sia la colpa corrispondente: ed anzi la maggior parte dei teologi sostiene che cogli abiti non si meriti, perchè essi non sono atti liberi, a cui solo il merito è dovuto. Di nuovo dunque il testo citato per distruggere la detta distinzione la conferma mirabilmente. d ) E tutto questo viene espressamente confermato da San Tommaso, che distingue il peccato originale così: [...OMISSIS...] . 43. Con questi stessi principii 1. che volontario comunemente significa libero presso S. Tommaso, per la ragione detta, 2. che egli parla di atti , e non di abiti: (e così per doppia ragione, rimane tagliato fuori il discorso del peccato originale), si disciolgono le difficoltà contro la distinzione sopra mentovata tra peccato e colpa , che altri passi dell' Angelico potrebbero ingerire nell' animo di chi li considera superficialmente, e che noi abbiamo già dissipate nelle varie nostre opere (2), principalmente nella prima e seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa illustrate . Altri luoghi dell' Angelico con facilità pure si spiegano ponendo attenzione al valore delle parole. Così ciò che dice: « ibi incipit genus moris, ubi primum dominium voluntatis invenitur , » è vero tanto se si intende nello stesso senso, in cui S. Agostino aveva detto: « nisi voluntas mala, non est cujusquam ulla ORIGO peccati , » testo da noi citato di sopra, quanto se s' intende di un dominio della volontà potenziale, sebbene non esercitato per accidentali cagioni; quanto finalmente se per genus moris s' intende la moralità che ognuno si procaccia liberamente coi suoi costumi, colle sue proprie operazioni, che è l' uso più consueto che si fa di questa parola. Ma un argomento ugualmente ineluttabile, che non lascia dubitare della mente di S. Tommaso si è, che l' intendere S. Tommaso contro la proprietà del linguaggio da lui usato e fargli dire, a ragion d' esempio, che« il bambino che riceve il peccato originale per generazione con questo sia anche colpevole, e gli si deva imputare a colpa, come s' imputano le male azioni all' uomo che le fa liberamente«, il dir questo, non solo mette S. Tommaso in contraddizione seco stesso e coi principii più inconcussi della sua dottrina, ma lo fa diventare di più Giansenista, giacchè i Giansenisti sono quelli che vogliono appunto, che il peccato originale sia rispetto al bambino imputabile a colpa e a demerito, o perchè egli lo ricevè senza impugnare colla sua volontà, come disse Baio, o perchè basti a costituire la colpa e il demerito d' un individuo, la volontà libera d' un altro individuo, cioè di Adamo, che è la sentenza propria di Giansenio. Se dunque non si vuole calunniare a questo segno il santo Dottore riman fermissimo, che egli distinse nel peccato dei bambini il peccato dalla colpa, confessando quello inesistere in essi come vero peccato, la colpa poi riferirsi in Adamo che ne fu la libera causa: il che ho comprovato in più opere con tanti e sì luminosi testi del santo Dottore, che non mi saprei spiegare, come ancora possa rimanere su di ciò il minimo dubbio. 44. Con questa distinzione adunque, comune nella sostanza a S. Agostino e a S. Tommaso, rimane da una parte atterrato il sofisma de' Pelagiani, dall' altra quello dei Giansenisti. Poichè ai Pelagiani è dimostrata per essi la possibilità, che in un individuo esista realmente un vero peccato che egli non ha commesso con alcun atto di sua libera volontà, il che non si potrebbe loro dimostrare se si trattasse di una colpa: ai Giansenisti del pari è dimostrato, che niun peccato può essere imputato a colpa propria in chi non fu libero a riceverlo o a commetterlo, e che può stare il dogma del peccato originale senza l' imputazione a chi lo subisce, bastando che essa si possa fare alla causa libera che lo commise e commettendolo lo pose in essere, onde risplende manifesta la ragione della condanna che fece Innocenzo X della terza proposizione di Giansenio, e quella d' altre simili proposizioni dalla Santa Sede anatematizzate. Ripeterò qui dunque le parole colle quali ho conchiuso la seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa . « Trattasi di due concetti che sono, quasi voleva dire, i poli su cui si gira l' intiero Cristianesimo: tolta la colpa con Giansenio e Calvino, l' obbligazione, il merito, la pena, il premio è perito: tolto peccato necessario con Pelagio - non è più quello che le Scritture chiamano peccatum mundi : la redenzione, la grazia medicinale, l' efficacia de' Sacramenti ex opere operato , Cristo, le sue promesse, la Chiesa da lui fondata, non hanno più una ragione«. Ammessi quei due concetti e ben distinti, tutto è restituito, le contrarie eresie cadono sotto entrambi, alla luce della dottrina della Chiesa. 45. Ma è necessario, che dimostriamo più specificatamente la necessità di distinguere le due nozioni per poter rispondere con efficacia ai Pelagiani non meno che ai Giansenisti. E alle obbiezioni dei Pelagiani risponderemo in quest' articolo: l' errore de' Giansenisti intorno alla natura del peccato originale, essendo intimamente connesso con altri errori intorno alle conseguenze del peccato stesso, sarà confutato nel paragrafo che segue. Tutti gli argomenti dei Pelagiani a favore della loro eresia come a capo e principio si riducono al seguente:« Il peccato (e così dicasi di tutto ciò che riguarda l' ordine morale) è l' opera della volontà umana propria di ciascun umano individuo, e non l' opera della natura: [...OMISSIS...] . Essendo la volontà di un individuo propria di lui, essa stessa non può passare in un altro individuo, e perciò non può neppure passare in un altro il suo proprio atto buono o reo: quindi il peccato di un individuo non può trasmettersi in un altro. Ma la volontà del bambino non produce con alcun suo atto il peccato originale che dicesi essere in lui: dunque non può darsi esso peccato originale nel bambino. Nè vale il dire, che lo riceve per via di generazione, perchè questa appartiene alla natura e non alla volontà , a cui solo spetta il peccato«. Tanto risulta dai luoghi di S. Agostino, in cui reca la dottrina di Pelagio, e dai propri testi dell' opere di Giuliano Vescovo di Eclana, come si può vedere, oltre ai luoghi citati (2). 46. Ora per rispondere direttamente a quest' argomento è necessario dimostrare che la natura razionale, la natura umana, può soggiacere al peccato senza che concorra nessun atto della libera volontà di quella persona che subisce il peccato medesimo, e poichè questo non si potrebbe mai dimostrare della colpa e del merito , che, come mostrano la ragione e le definizioni della Chiesa, non possono stare in un individuo senza che la sua libera volontà ne sia la causa (e dire il contrario sarebbe l' eresia gianseniana), perciò è necessario separare il peccato dalla colpa e dimostrare che quello, e non però questa, ci può essere in una persona, senz' opera di sua libera volontà, ma per naturale generazione, e che così avviene rispetto al peccato d' origine. 47. Ora alcuni teologi moderni che d' altra parte hanno valorosamente combattuto contro l' eresia gianseniana, avendo abbandonata questa via, non sono sempre stati così cauti da non esporre un fianco indifeso all' eresia pelagiana, di cui credevano non esserci forse gran fatto a temere. Pochi esempi che ne darò, de' molti che me ne somministrerebbe la storia della Teologia, basteranno a dimostrare, per la ragione de' contrari, la solidità del metodo che noi proponemmo, sulla traccia dei più antichi e sicuri maestri, per abbattere non una sola, ma entrambe le eresie opposte ad un tempo. Il dotto e per altro accurato teologo Domenico Viva (e lo stesso professano altri teologi) scrive così dei dannati: [...OMISSIS...] . Ora il Pelagiano non mancherebbe di approfittarsi di questo principio, argomentando in questo modo:« Voi mi accordate che il peccato fisicamente necessario non è peccato formale, ma solo materiale. Ma il peccato, che si dice originale ne' bambini è per essi fisicamente necessario: dunque è per essi puramente un peccato materiale, e non un peccato formale. Ora il peccato materiale non è peccato, mancandogli la forma, che è quella che dà la specie e il nome alle cose. Dunque non esiste alcun peccato originale nei bambini«. La maniera adunque di favellare che usano tali teologi non sembra abbastanza cauta contro la eresia pelagiana. Il dire che il peccato necessario è piuttosto pena che peccato non è conforme alla dottrina di S. Agostino, che trova che i due concetti di pena e di peccato possono stare insieme come accade nell' originale. Che l' odio poi in Dio, in qualunque modo esista in un' anima, sia formalissimo peccato consegue dalla definizione da noi data del peccato sulle vestigia di S. Tommaso e di S. Agostino essere cioè« il peccato una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita«. E qual deviazione maggiore dal fine dell' umana vita dell' odio di Dio? Questo è ciò che vi ha di sommo, di perfettissimo nel suo genere, e male a proposito lo stesso Viva (2) paragona a quest' odio gli atti necessari della concupiscenza, dicendo che il Tridentino nega che sieno peccati, ma sì venienti dal peccato e inclinanti al peccato; poichè tali atti, non voluti dall' uomo rinato, non sono una « deviazione della volontà dal fine«, al quale anzi la volontà del giusto intimamente unita e via più si stringe, lottando contro di essi, e così dando prova di amare Iddio suo fine. Nè pure dunque al peccato originale, sebbene fisicamente necessario per riguardo al bambino, può negarsi la forma di peccato; e il farlo contraddirebbe alle parole del Sacrosanto Concilio di Trento, che dicendo: [...OMISSIS...] , riconosce nell' originale « la vera e propria ragion di peccato« » che equivale a dire la forma vera e propria di peccato. Conviene dunque togliere l' equivoco delle parole, e invece di negare che ci possa essere un peccato formale , necessario, è da negarsi che ci possa essere una colpa formale rispetto alla persona che soggiace alla necessità: con che si chiude la bocca ad un tempo ai Pelagiani e a' Giansenisti. 4.. Nè del pari si cautela abbastanza la dottrina cattolica contro l' eresia pelagiana dicendo col Lugo (2), che il peccato originale ne' bambini è solo « peccatum interpretative proprium ob inclusionem voluntatis propriae in voluntate Adae, tamquam tutoris humani generis ». L' istitutore di un tutore appartiene alla legge positiva civile, e non si può trasportare all' ordine naturale, se non come una vana metafora. Di poi, il tutore non si dà dalla legge civile a quelli che non sono ancora concepiti, e però non esistendo, non hanno diritti da tutelare. In terzo luogo il tutore può bensì rappresentare il pupillo riguardo a' suoi interessi temporali ed esterni, e può produrre degli effetti legali che modificano la condizione del pupillo nel foro esterno, ma non può assorbire in sè la personalità del pupillo, e tutto ciò che appartiene all' interiore moralità del pupillo stesso di maniera che il pupillo sia reo o sia buono in sè stesso solo perchè il suo tutore è reo o è buono: cosa assurda. La personalità d' ogni uomo è incomunicabile, non può essere contenuta in nessun' altra personalità: riguardo alla dignità personale e morale non solo il pupillo è indipendente dal tutore, ma anche il figliuolo dal padre e il servo dal padrone, ed era un enorme abuso di autorità, proprio solo del paganesimo, quello di considerare il figlio o il servo come una cosa , di cui la volontà del padre e del padrone potesse disporre anche per riguardo alla dignità morale, come abbiamo già dimostrato nella Filosofia del Diritto , e specialmente dove abbiam parlato de' diritti connaturali dell' uomo (1). In quarto luogo finalmente nè pure le leggi civili accordano al tutore il potere di abusare della sua autorità a danno del pupillo: e però l' autorità tutoria che si vuole attribuire metaforicamente ad Adamo non si potrebbe mai estendere a rendere tutti i nascituri da lui rei del proprio peccato, nè pure se Adamo avesse voluto, sia per l' intrinseco assurdo che c' è in un tale concetto, sia perchè neppur la legge positiva accorda o può accordare una tale autorità al tutore, sia perchè tutela non ci può essere finochè i pupilli stessi non esistono. In che senso dunque si può mai chiamare un peccato proprio solo interpretativamente quello in cui nascono i bambini? Quale interpretazione arbitraria e crudele volete voi fare a danno dei poveri bambini? Volete voi interpretare che se le volontà di tutti i bambini nascituri da Adamo fossero state presenti quando Adamo trasgredì il divino precetto, avrebbero anch' esse dato il loro consenso? Infatti i teologi chiamano intenzione interpretativa « cum quis nullam habet nec habuit intentionem actualem sed ita est dispositus, ut si adverteret, haberet . » Voi adunque giudicate che tutti i bambini nascituri, prima di essere infetti del peccato originale, sarebbero stati così disposti da consentire nel peccato adamitico. Ora non è questo un giudizio temerario? Che un uomo esista, e che, esistendo, abbia disposizione a consentire in un peccato avendone l' occasione, si potrà forse congetturare da certi segni, che dimostrano quella sua mala disposizione , e quindi si potrà in qualche modo, dire che interpretativamente e per via di mera congettura, è già in peccato. Ma di uomini, che non esistono ancora, e che non hanno nessuna precedente mala disposizione, perchè si suppone che non sieno ancora in peccato (trattandosi di spiegare come vengano a soggiacere al peccato), di uomini dalla libera volontà de' quali in istato ancor buono e perfetto dipende la scelta, si potrà egli dire che siano disposti a consentire nel male stesso, nel quale consentì il loro padre prima di generarli? Delle cose contingenti e molto meno della scelta che farà una volontà perfettamente libera non c' è ancora alcuna determinata certezza (se non davanti agli occhi di Dio che vede anche la scelta, perchè è presente ad ogni tempo): onde è impossibile interpretare , che tutti i milioni di nascituri, non già saranno disposti a scegliere il male (come vuole l' intenzione interpretativa), ma senza essere disposti precedentemente, nè inclinati a scegliere il male, lo sceglieranno liberamente. Attribuire adunque a tutti i bambini non ancora esistenti un peccato interpretativo è un collocare l' interpretazione dove non può esistere, è formare un giudizio temerario e calunnioso, ed è sostituire in fine vane parole al dogma della Chiesa cattolica. Per il che dobbiamo conchiudere, che nè pure in questo sistema la verità del peccato originale rimane sufficientemente difesa contro il Pelagiano che risponderebbe:« Voi difensore del dogma del peccato originale non credete poterlo difendere se non dicendo che è un peccato proprio del bambino solo interpretativamente. Questo ben mostra la debolezza del vostro assunto, perchè un peccato interpretativo, come il fate voi, non è peccato. Convenite adunque con noi che il peccato originale ne' bambini non esiste veramente, e non può esistere«. 49. Agli stessi inconvenienti soggiace il sistema di Vasquez (1) e d' altri teologi che deviarono dalla tradizione scolastica d' accordo con quella de' Padri, affine di rendere più facile l' intelligenza della trasfusione del peccato. Immaginarono essi un patto tra Dio e l' umana natura sussistente in Adamo, in virtù del quale Iddio ripose le volontà de' singoli nascituri in quella di Adamo, di maniera che se Adamo conservasse la giustizia si riputasse che le volontà di tutti l' avessero voluta conservare, se per opposto egli eleggesse l' ingiustizia, anche le volontà di tutti i suoi figliuoli non ancora esistenti si considerassero rei di non averla conservata. E` difficile l' assegnare una differenza veramente sostanziale tra tale pensiero e quello di Giansenio, che diceva bastare la volontà libera di Adamo, acciocchè fossero imputati a' suoi figliuoli i loro atti non liberi: o piuttosto quel patto, se si potesse ammettere, sarebbe un modo di coonestare e giustificare la sentenza gianseniana. Ma in nessuna maniera si può ammettere. Primieramente, perchè la dignità personale, a cui spetta la moralità, non può essere materia di un contratto o di un patto, sia che questo patto lo faccia la stessa persona della cui dignità e moralità si tratta, sia molto meno che lo facciano de' terzi. In secondo luogo, perchè in Adamo c' era bensì la natura umana, ma non la persona de' suoi discendenti, della cui sorte si tratta, giacchè in quella natura non sussisteva che la sola persona di Adamo, e non quella di coloro che non esistevano ancora. In terzo luogo sarebbe un patto inonesto tanto da parte di Dio, quando da parte di Adamo, quanto da parte de' suoi discendenti, il cui consenso si presume. Da parte di Dio, il quale dispone delle sue creature cum magna reverentia , quando con quel patto disporrebbe della giustizia e ingiustizia dei posteri di Adamo, senza loro intervento e senza che nè pure esistessero: e ne disporrebbe preconoscendo con certezza che il patto andrebbe a finire male, cioè che la conseguenza del patto sarebbe stata quella di rendere rei di morte eterna tutti i discendenti del primo padre in virtù di un solo atto di questo, senza alcuna loro partecipazione: quando, se Iddio potesse fare un contratto simile, per la sua infinita bontà, non potrebbe farlo che a loro favore e vantaggio. E dato, per supposizione impossibile, che a Dio fosse stato ignoto l' abuso che Adamo avrebbe fatto della sua libertà; ancora rimarrebbe che lo stato di giustizia o d' ingiustizia de' posteri di Adamo, e quindi la loro eterna sorte, sarebbe stata esposta ad una specie di giuoco di sorte, poichè l' elezione libera di Adamo poteva esser fatta egualmente in senso bono e in senso non bono . Sarebbe stato inonesto dalla parte di Adamo, che non poteva nè avere alcuna autorità di patteggiare della moralità de' suoi futuri discendenti, nè poteva senza presunzione o temerità farla dipendere da un atto suo proprio, sapendo di essere fallibile, sebbene costituito in grazia. Sarebbe stato inonesto dalla parte degli stessi discendenti, volendo attribuir loro non esistenti ancora un assenso interpretativo, giacchè nessun uomo può lecitamente fare che l' esser egli giusto od ingiusto, innocente o peccatore, dipenda da un atto di un altro uomo: non potendo rinunziare alla propria responsabilità in cosa di tanto momento. Al che si aggiunge l' assurdo che si contiene nel pensiero, che la giustizia e l' ingiustizia di una persona umana possa mettersi in essere, non da una loro propria azione o passione, ma dall' azione di un' altra persona; come chi patteggiasse che se un' altro mangierà un cibo avvelenato, sarò avvelenato io che non ne ho mangiato; e chi mangierà un cibo salubre, ne starà bene il mio stomaco al pari del suo. Un sistema pieno di tante difficoltà e assurdi non poteva venire in mente, se non perchè dimenticandosi il concetto di peccato che è quello di disordine inerente alla persona, altro non si cercò di spiegare se non il concetto di colpa senza il substratum del peccato, che è la materia imputabile a colpa, onde si pensò come si potesse applicare la colpa a chi non aveva peccato. Egli è chiaro che anche con questo sistema hanno buon gioco i Pelagiani, i quali possono dire a un teologo che così ragiona:« Voi fate dipendere il peccato originale de' bambini da un patto che altri hanno fatto senza di essi: con questo venite a confessare che essi in sè stessi non hanno peccato alcuno, ma che loro viene imputato l' altrui peccato, pel buon volere di altri, a cui è piaciuto di fare un patto pel quale si obbligarono, in caso che Adamo avesse peccato, di imputar loro questo peccato!«. 50. E non meglio, per quanto io vedo, provvede all' illustrazione e alla difesa del dogma cattolico del peccato originale ne' bambini contro quelli che lo impugnano, il sistema di que' teologi, che fanno consistere questo peccato nella sola privazione dell' ordine soprannaturale, a cui il primo uomo era stato elevato per mezzo della grazia santificante. Essi si persuadono d' essersi con questa invenzione fabbricato un istrumento, dirò così, a due manichi, prendendolo dall' un de' quali possano dimostrare ai Cattolici la loro perfetta ortodossia nell' ammettere il peccato originale, prendendolo dall' altro possano dimostrare agli increduli che spacciano questo dogma contrario alla ragione, che esso non involge nè pur l' ombra o l' apparenza di difficoltà, e che quindi essendo facilissimo a spiegarsi e a dimostrarsi conforme alla ragione, si possa risparmiar loro quello che S. Agostino diceva a Giuliano: « Si potes, intellige; si non potes, crede (1), » e si possano considerare come esagerate quelle altre parole del santo Dottore, che però esprimono il sentimento di tutta la tradizione, prima de' nuovi teologi di cui parliamo: [...OMISSIS...] . 51. Coi Cattolici questi teologi dimostrano il peccato originale così: « La vita dell' anima è la grazia santificante: la privazione di questa grazia è dunque la morte dell' anima, e però in questa consiste il peccato originale ne' bambini. Avvertite però che c' è differenza tra la mancanza ossia carentia della grazia, e la privazione . Il peccato originale consiste nella privazione della grazia e non nella semplice carenzia. La differenza è questa: Iddio poteva crear l' uomo senza la grazia santificante e di conseguenza senza l' ordine soprannaturale: in tal caso gli sarebbe mancata la grazia soprannaturale, ma non sarebbe stato per questo peccatore, nè morto dell' anima, perchè Iddio avrebbe decretato fino a principio di non dargli una cosa che non gli era dovuta. Ma Iddio costituì Adamo nella grazia santificante, e fece a principio il decreto che sarebbe passata a' suoi discendenti s' egli non avesse peccato, benchè ben sapeva che avrebbe peccato. Avendo dunque Adamo perduta colla sua disubbidienza la grazia, i suoi discendenti, benchè non abbiano disubbidito, sono restati privi della grazia, che posto il decreto di Dio era loro dovuta: e però questa mancanza di grazia in essi non è semplice mancanza in essi, ma privazione , e così, atteso quel divino decreto, sono peccatori, morti nell' anima, schiavi del demonio, ecc.«. Così provano l' esistenza del peccato originale ne' bambini. Rivolgendosi poi agli increduli, che dicono essere contrario alla ragione che un bambino che ancora non ha posto alcun atto di sua libera volontà, deva avere in sè un vero peccato che lo renda oggetto dell' ira e dell' indignazione di Dio, parlano loro in questo modo:« Non c' è la menoma repugnanza colla ragione: e voi non siete bene informati che cosa si intenda pel peccato de' bambini. Per questo peccato altro non s' intende se non che viene loro tolto quello che non è per sè stesso dovuto alla loro natura: la natura l' hanno tutta senza lesione o ferita di sorte: ma i doni soprannaturali che non appartengono alla natura, Iddio se li ritiene senza concederli loro: ecco che cosa è il peccato originale. Vedete dunque che non solo qui non c' è assurdo, ma nè pure c' è la minima difficoltà: e il modo della sua propagazione è tanto piano che non può nè manco essere oggetto di una questione, perchè non si vede alcun motivo di dimandare « quomodo propagetur quod non est , » come dice un chiaro teologo« (1). 52. Non so a dir vero che cosa l' incredulo, udendo che il peccato originale non è finalmente altro che questo, non è nulla che pregiudichi veramente all' umana natura che solo rimane per esso spoglia di quello che per sè non le appartiene, sarà per dir poi di tanti lamenti e vituperi, di cui è piena la dottrina e la tradizione cattolica intorno all' originale peccato come a somma calamità e sciagura caduta addosso al genere umano, da volerci la morte di un Uomo7Dio per ripararla: e se egli non riputerà forse di essere ingannato o da nuovi teologi, o dagli antichi, con danno ed onta della cattolica fede. Ma lasciando lo scandalo che possano prendere gli eretici confrontando la nuova espressione del dogma coll' antica e perpetua, noi restringiamoci a confutare il sistema proposto in sè stesso. 53. L' uomo, si dice, poteva essere creato da Dio come nasce al presente non adorno della grazia santificante. L' uomo che fosse stato così creato, e l' uomo qual nasce al presente sono nè più nè meno, per riguardo ad essi, nella stessa condizione della natura umana. Ma in quello la privazione della grazia non sarebbe peccato, e però con quello Iddio non sarebbe irato nè indegnato, in questo la stessa privazione della grazia è peccato e però Iddio con questo è irato e indegnato. Da che nasce questa differenza, per la quale la stessa identica condizione naturale nell' un caso non è peccato, nell' altro è peccato? Rispondono:« Nasce da un decreto di Dio: nel primo caso Iddio non avrebbe fatto il decreto che gli uomini che nascessero da un padre costituito nella grazia santificante, ereditassero anch' essi la grazia: e avrebbe anzi decretato che tanto il padre, quanto i figli rimanessero nello stato naturale. Nell' altro caso Iddio ha decretato che il padre fosse costituito in grazia, e che se la perdesse, la perdesse per tutti i suoi discendenti: perciò questi nascendo senza la grazia hanno il peccato; laddove i primi nascendo senza la grazia non avrebbero il peccato«. In questo sistema dunque il peccato originale de' bambini dipende da un decreto di Dio: secondo che a Dio piacque di fare piuttosto uno che un altro decreto, essi senz' altro, o sarebbero peccatori o nol sarebbero: benchè in quanto ad essi niente è mutato, nell' un caso non hanno in sè nè più nè meno dell' altro: non c' è in essi altro difetto inerente che abbia per sè ragion di peccato: ma quello che non ha per sè ragion di peccato, cioè la mancanza della grazia, diviene tale per un decreto positivo di Dio, che Iddio poteva non fare. Di qui sembrano venirne più assurdi e difficoltà: a ) Che Iddio col suo decreto è il vero autore del peccato ne' bambini, cangiando col detto decreto in peccato ciò che senza il detto decreto non sarebbe peccato. b ) Cresce questo assurdo, quando si consideri che quel decreto di Dio, pel quali stabilì che la giustizia o il peccato del padre Adamo debba passare ai posteri, e così sia loro dovuta l' una o l' altro, non è un decreto condizionato, se non al nostro modo di concepire, nè è un decreto che stabilisca una vera alternativa da parte di Dio: perchè Iddio ben sapeva che Adamo non avrebbe già conservata la giustizia ma avrebbe peccato, e questo stesso peccato era contenuto nel decreto totale di Dio, perchè Iddio non fa già molti decreti, ma con un solo decreto stabilì tutta l' economia del governo dell' umanità e della sua salute. Iddio adunque sapea di certo che Adamo avrebbe peccato, e se egli decretò che il peccato di lui passasse ai posteri, egli non fece un tal decreto sopra una ipotesi, o sopra una vera alternativa come accade degli uomini, ma egli avrebbe con ciò costituiti col suo decreto positivo tutti i discendenti peccatori, privandoli della sua grazia, e attribuendo a questa privazione, secondo tal sistema, ragione di peccato. c ) Un tale sistema contiene ancora questo assurdo, che un decreto positivo cangerebbe la natura delle cose, non dico già un decreto efficace che influisce e cangia colla sua operazione le cose, ma un decreto che lascia la cosa qual' è. Ella non può cangiare certamente di natura solo pel buon volere di chi decreta che sia un' altra, quando la sua natura non diviene un' altra. Così nell' uomo creato nell' ordine naturale, e nel figliuolo generato da Adamo, la mancanza di grazia è e rimane in sè la stessa, ma questa identica senza subire alcuna modificazione, solo perchè nell' un caso Iddio decretò di non voler dare la grazia, non ha natura di peccato, nell' altro caso solo perchè decretò bensì di non volerla dare a' discendenti di Adamo, ma che l' avrebbe loro data se Adamo non avesse peccato, sapendo già egli che avrebbe peccato, questa privazione acquistò la natura di vero peccato, che non aveva prima. d ) In un tale sistema inventato per ovviare le difficoltà nascenti dall' essere il bambino reo di peccato senza aver preso alcuna parte al peccato di Adamo, ritornano in campo, anche con maggior apparenza, rimanendo sempre a spiegare come Iddio potesse, salvi i suoi divini attributi di bontà e di giustizia, rendere il non dare la grazia al bambino (il che dipende unicamente da lui cioè da un suo libero decreto) un peccato del bambino, tale da fare che il bambino per sè innocente diventi un oggetto della sua ira e della sua indegnazione, degno di eterna condanna, morto dell' anima, schiavo del demonio, ecc., cose tutte che sarebbero concertate nel consiglio di Dio, senza intervento alcuno del bambino stesso, della cui sorte nelle mani di Dio si sarebbe così infelicemente disposto. 54. Ma per vedere più chiaramente quanto manchi a un tale sistema a poter vantarsi di rappresentare fedelmente il dogma cattolico e a difenderlo contro l' eresia, gioverà intendere ed esaminare le ragioni de' suoi fautori, o, per meglio dire, quelle vane frasi di parole e distinzioni di cui lo vestono, perchè ora vi dicono che il bambino è peccatore perchè non semplicemente nudo, ma spogliato della grazia santificante; ora che questa mancanza è peccato perchè non è sola mancanza ma privazione; ora perchè la detta grazia non è per lui cosa estranea alla sua natura, ma dovutagli; ora perchè costituisce un' avversione a Dio, ma non positiva, ma solamente negativa ; ora finalmente credono di trovare il saldo fondamento di un tale loro sistema nelle proposizioni condannate in Baio e in Giansenio. E` dunque a esaminare la solidità di queste molteplici e diverse maniere di cui si riconosce aver bisogno il sistema di cui parliamo, affinchè possa essere insinuato nell' altrui persuasione. a ) Se un uomo, dicono, venisse creato da Dio nudo della grazia santificante, questa nudità non costituirebbe per lui alcun peccato: ma se un uomo viene spogliato della grazia e per questo rimane nudo di essa, questa condizione di spogliato lo costituisce in istato di vero peccato, e però il bambino nasce in peccato. Qualunque sia la verità di questa asserzione, essa potrà convenire ad Adamo che fu veramente vestito e poi spogliato della grazia santificante (non però per sempre): ma il bambino che nasce da Adamo non fu mai vestito, e però non fu mai spogliato da Dio. Rispetto poi ad Adamo egli fu spogliato della grazia santificante a cagione del suo peccato. L' aver dunque Iddio tolto ad Adamo la grazia non poteva essere il peccato di Adamo che ne fu la giusta causa, ma solo la pena e la conseguenza del peccato. Che se in Adamo questo spogliamento non costituì il peccato, molto meno può costituirlo ne' bambini, il peccato de' quali è uno solo nella sua origine con quel di Adamo, e della stessa specie del peccato abituale di lui, benchè numericamente diverso. Altramente sarebbe passato ne' posteri solo quello che in Adamo non era peccato, contro il dogma, che, come dice S. Tommaso, « solum primum peccatum primi parentis in posteros traducitur (1), » e non sarebbe più uno di specie. [...OMISSIS...] Ma rispondono, se il bambino non fu spogliato di fatto, fu spogliato di diritto, perchè aveva diritto alla grazia. Ma perchè aveva diritto? pel decreto fatto prima da Dio: senza questo decreto che Iddio, secondo gli avversarii, potea non fare, il bambino non aveva alcun diritto. Il peccato dunque del bambino ha per vera causa quel decreto di Dio: e così tornano in campo le difficoltà precedenti. Che se si dice che il bambino avea diritto non per decreto di Dio, ma per qualche altra ragione, convien dare quest' altra ragione, e torneremo nel ginepraio delle difficoltà. Ma suppongasi che il bambino sia stato spogliato della grazia. L' esser spogliato da altri è egli un peccato? S' intende che lo spogliatore possa essere peccatore se spoglia altrui della veste ingiustamente: ma che colui che viene spogliato, e che non può impedire al più forte di spogliarlo, per questo sia costituito peccatore, chi lo può intendere? O dunque Iddio spogliò il bambino della grazia ingiustamente, e allora il peccato ricade in Dio, o giustamente, e allora bisogna dire qual ragione di giustizia ci aveva di spogliare il bambino innocente di quella veste, e torneranno tutte le difficoltà che si volevano evitare, converrà di nuovo spiegare il detto di S. Paolo in quo omnes peccaverunt , e dopo di ciò ne verrà che il bambino rimarrà spogliato della grazia pel suo proprio peccato, e però lo spogliamento seguirà come pena al peccato, e non sarà il peccato stesso, il quale conterrebbe solo la ragione per cui quello spogliamento sia giusto. b ) Gli argomenti a favore di questo sistema reincidono sempre nel medesimo: i suoi fautori non moltiplicano che le parole e le sottili e puramente logiche distinzioni per darvi credito. Così vi dicono: noi distinguiamo la carenza della grazia santificante dalla privazione della medesima. Se Iddio avesse voluto creare l' uomo nell' ordine della natura, la mancanza della grazia santificante nè sarebbe peccato, nè sarebbe morte dell' anima, benchè prima dicano in universale che la detta grazia sia la vita, e che la mancanza della vita sia la morte dell' anima. Ora non più: non ogni mancanza della grazia è morte dell' anima, ma solo quello che è privazione. Poichè avendo Iddio decretato di dare la grazia a Adamo e a' suoi posteri, non dandogliela, tale mancanza è privazione , e così vogliono che sia morte dell' anima e peccato. Or che Adamo si sia demeritata la grazia, questo è chiaro per la sua prevaricazione, e però che Iddio l' abbia punito col privarlo della sua grazia, questa è necessità e patente giustizia. Ma questa privazione della grazia in Adamo è pena conseguente al suo peccato, e non è il peccato stesso commesso da Adamo. Ma riguardo ai bambini, che non hanno peccato, ci dicano come sia giusto il privarneli. Negano che abbiano in sè alcun peccato? perchè dunque privarli della grazia, perchè pretendere di più che questa stessa privazione sia per essi peccato? Che se dicono avere ereditato il peccato; in tal caso certo è giusto che sieno privati della grazia. Ma allora altro è il peccato da essi ereditato, altro la pena della privazione della grazia. questa pena è giusta perchè dovuta al peccato che è in essi. Rimane dunque sempre a spiegare come in essi sia il peccato; cioè rimane quella difficoltà che si vuole evitare, cangiando quello che è pena del peccato in peccato: e così distruggendo il peccato stesso ne' bambini, ai quali si lascia solo la pena, senza che ne apparisca la giustizia. Di poi la parola privazione in un tale discorso, si prende in un senso largo ed improprio. Poichè privazione in senso proprio è solamente quando manca ad un subbietto ciò che dovrebbe avere per sua propria natura. « Carentia formae in subiecto apto nato . » Ora i nostri teologi sostengono che al bambino che nasce, per sua natura, niente manca, perchè gode della natura umana senza ferita o lesione alcuna. La natura umana adunque in tale stato non ha veramente alcuna privazione , nulla al bambino manca di quello che è nato atto ad avere, poichè esser« nato ad avere«, vuol dire che è atto per sua natura ad avere. Ma i nostri teologi dicono:« Questo è vero se si riguarda la natura umana, ma se si riguarda il disegno che aveva Iddio su di essa, di rivestirla cioè di grazia santificante, questa grazia, in virtù di tal decreto, è divenuta una cosa appartenente alla natura stessa dell' uomo«. Loro si può facilmente rispondere, che Iddio con un suo decreto non può fare che quello che non appartiene a una natura, le appartenga, perchè sarebbe una contraddizione. Rimane dunque, che la natura umana nel bambino abbia tutto quello che essa esige come tale, e più che non abbia alcuna privazione in sè stessa. Replicheranno, che pure il non avere quel più che potrebbe avere, e che avrebbe avuto, se Adamo non avesse peccato, è una specie di privazione, sebbene questo più non sia dimandato dalla natura stessa. Si ricorre dunque al vocabolo di privazione , dando a questa parola un' estensione maggiore di quella che le è propria, per accomodarla al sistema. Ma non si accomoda tuttavia. Poichè questa pretesa privazione consisterebbe in una relazione tra il disegno di Dio e la natura umana oggetto di questo disegno. In tal caso una tal sorta di privazione non sarebbe inerente a ciascun bambino, perchè un estremo della relazione, cioè il decreto di Dio, non è qualche cosa che inesista nel bambino (che anche l' ignora), ma è cosa che esiste solo nella mente e nella volontà di Dio. Mancando dunque nel bambino un estremo della relazione, e le relazioni avendo bisogno per esistere de' due estremi, apparisce che la relazione di cui si tratta, può esistere bensì in una mente che col pensiero abbraccia nello stesso tempo e il bambino, che ha la natura umana senza difetto nè privazione alcuna, e Iddio, che ha in sè concepito il decreto di esaltare questa natura e che mette questi due estremi a confronto; ma non esiste perciò nel bambino stesso, che è un estremo e un estremo che non costituisce neppure nè il fondamento nè il principio della relazione, ma solo il termine. Non è dunque una relazione inesistente nel bambino; e però non si può dire nè pure privazione , poichè i filosofi insegnano, che la privazione deve inesister sempre in un subbietto vero e reale (1). Che se in questa relazione si pone il peccato d' origine, convien dire che questo peccato non esista nel bambino, contro quanto decise il Concilio di Trento, ma che un tal peccato altro non sia che una relazione esterna al bambino medesimo e un ente di ragione. In terzo luogo, dato anche si possa chiamare privazione, in vece di semplice carenzia, la mancanza della grazia santificante nel bambino, è provato con questo che egli sia in peccato? Non ogni privazione è peccato: la pena, a ragion d' esempio, è anch' essa una privazione e non però un peccato. E se volete sostenere che la privazione della grazia nel bambino costituisca il suo peccato, non ricadete con ciò in quelle difficoltà stesse che col vostro sistema credete evitare? Poichè il bambino nulla ha contribuito a una tale privazione che gli si fa subire. Si è forse egli meritata con un atto di suo libero arbitrio questa privazione? Come è egli dunque peccatore, se pur voi intendete ch' egli abbia in sè un vero peccato, come l' intende la Chiesa Cattolica? 55. Di poi S. Tommaso, che questi teologi citano, e a dir vero con poca sincerità, come favorevole alla loro opinione, insegna e dimostra apertamente, che il peccato originale non può consistere in una pura privazione, ma che egli è un abito corrotto: [...OMISSIS...] . E qui si osservi come S. Tommaso distingua nel peccato attuale « ipsam substantiam actus, et rationem culpae (2) » e nel peccato originale in luogo della sostanza dell' atto distingue la sostanza dell' abito della natura, che chiama « quaedam inordinata dispositio ipsius naturae (3), » il che torna alla distinzione tra il peccato entitativamente considerato che è la sostanza dell' abito, e la colpa che è l' imputazione del medesimo « in quantum derivatur ex primo parente . » Ottimamente dunque distingue tra la materia dell' imputabilità, e l' imputabilità stessa. Ma i nostri teologi stabiliscono una imputabilità senza materia, perchè non ammettono nella natura del bambino nessun disordine che si possa imputare, e la privazione della grazia, che è la pena conseguente all' imputabilità stessa, vogliono che sia il peccato ad un tempo imputabile e imputato, il che è antilogico ed assurdo. Laonde se S. Agostino rimprovera giustamente a' Pelagiani di fare ingiusto Iddio perchè puniva i bambini senza che in essi ci avesse alcuna materia d' imputazione: [...OMISSIS...] , che cosa avrebbe poi detto il santo Dottore di un sistema che pretende, che la stessa privazione della grazia con cui sono puniti i bambini, dalla qual privazione provengono tutti gli altri loro mali, costituisca la stessa materia dell' imputazione, lo stesso peccato imputabile? Non vince questo nuovo sistema, almeno in assurdità, lo stesso pelagianismo? Non così certamente S. Tommaso, il quale riconosce che, non volendo fare ingiuria all' infinita bontà e giustizia di Dio, conveniva che la ragione per la quale negava loro la grazia santificante conferita alla natura umana in Adamo, si trovasse ne' bambini stessi, cioè fosse appunto il peccato da essi ricevuto per via di generazione, il quale mettesse ostacolo alla grazia: onde il peccato nel bambino lo chiama contrarium prohibens, dicendo: [...OMISSIS...] . E però dice appresso, che la mancanza della divina visione è pena e del peccato originale che è nei bambini, e dell' attuale di Adamo (2). E però, coerentemente a questa dottrina dice ancora, che la remissione del peccato importa due cose 1. la restituzione della grazia, e 2. la remozione dell' impedimento che impediva la grazia di essere ricevuta nel peccatore: [...OMISSIS...] , laddove i nuovi teologi che fanno consistere il peccato nella sola privazione della grazia, devono ridurre la remissione della colpa alla sola restituzione della grazia, e non all' impedimento che poneva il peccato alla medesima; il che è un nuovo e manifesto errore. 56. c ) L' uomo dunque che fosse creato colla sola natura, e il bambino che ora nasce da Adamo, secondo questo sistema, trovansi nella stessa interezza di natura. Ma nel primo l' assenza della grazia dicesi mancanza o carenza, nel secondo dicesi privazione, perchè al secondo la grazia era dovuta e non al primo. La qual distinzione, quand' anche fosse solida non porterebbe ancora per conseguenza, come vedemmo, che nel secondo ci fosse un peccato, perchè a costituire un peccato non basta una semplice privazione. Ma questo concetto di grazia dovuta merita che non resti nè pur esso un concetto confuso, ma dev' essere chiarito, acciocchè s' intenda bene che cosa vi si contenga. In generale e assolutamente parlando, che la grazia sia dovuta all' uomo non si può dire, « alioquin gratia jam non est gratia (4). » L' averla una volta data al primo uomo, questo solo non costituisce nell' uomo un diritto d' averla anche in appresso: poichè essendo la grazia cosa di Dio, egli può darla e riprendersela senza fare ingiuria a nessuno. Nè pure il proposito che fece Iddio di dare la sua grazia al genere umano, costituisce in questo un diritto di averla, poichè Iddio salva quelli che sono predestinati alla salute « secundum propositum gratiae Dei (1). » E pure questo proposito e disegno misericordioso di Dio, non cangia natura alla sua grazia, rimanendo grazia, e non debito, nè mercede. Ciò dunque che può costituire un titolo di diritto non è che una formale promessa da Dio fatta liberamente all' uomo, come sono le promesse di Cristo ai credenti. Ma ai bambini che nascono non fu fatta alcuna promessa: essi non conoscono quando nascono, che loro sia fatta promessa acuna, nè sono in caso di accettare la promessa che non conoscono, e pure la promessa dee essere in qualche modo accettata acciocchè costituisca un diritto. Per questo anche l' antico Testamento o patto stretto da Dio col suo popolo si fece con solennità tra le due parti contraenti (2); e il nuovo Testamento o patto si fa coi credenti, i quali colla loro fede accettano le promesse di Cristo, e lo stesso conferimento del battesimo, secondo l' ecclesiastica tradizione, prende forma di un patto bilaterale. Se dunque i bambini che nascono non hanno alcuna cognizione del proposito fatto a principio da Dio di conferir loro la grazia, quando il loro stipite avesse conservata la giustizia, qual è il titolo al diritto che si suppone in essi, pel quale la grazia sarebbe stata loro dovuta? Converrà dunque ricorrere a un patto fatto da Dio con Adamo anche in nome loro. Ma primieramente la Scrittura non fa di questo patto espressa menzione, onde rimane un' ipotesi congetturale, su cui non si possono stabilire i dogmi inconcussi della fede cattolica, specialmente a fronte degli eretici: di poi abbiamo già veduto quali e quante difficoltà involga un patto di questa sorte. E` bensì vero, dunque, che i bambini, se Adamo non avesse peccato, sarebbero nati in grazia, per l' eterna e misericordiosa economia del Creatore, ma che la grazia sarebbe loro stata dovuta in modo che essi ne avessero avuto un vero diritto, questo è quello che non si prova, e solo viene asserito da tali teologi, che obbligati in fine a supporre un patto con Adamo, invece di rendere più facile l' intelligenza del peccato di origine de' bambini, ricadono nelle difficoltà che promettevano facilmente evitare e in altre maggiori. 57. d ) A un' altra distinzione futile di parole i fautori di un tale sistema ricorrono, affinchè non offenda troppo le pie orecchie. Tra la conversione e l' avversione c' è l' indifferenza . Riguardo a una persona che io non conosco, non posso essere nè avverso nè converso coll' animo mio, ma solo indifferente. Ora risulterebbe dal detto sistema che il bambino non fosse avverso a Dio, nè converso al bene commutabile; ma il dir questo s' opporrebbe a tutta la tradizione cattolica. I nostri teologi adunque introducono una distinzione dicendo che c' è un' avversione positiva e un' avversione negativa, e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione. Così mutando il nome a quello stato negativo d' indifferenza, e chiamandolo avversione [ negativa ], e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione, coprono il difetto del sistema, introducendo nella sacra Teologia di quelle distinzioni futili e verbali, che tanto la discreditano presso gli eretici. L' avversione indica sempre qualche cosa di positivo, come pure la conversione , avvertendo anzi S. Tommaso che l' avversione e la conversione sono il medesimo, colla sola differenza di termini verso i quali si riguardano (1). Dal che non ne vengono menomamente le conseguenze gianseniane che se ne vogliono derivare, come diremo in appresso. Laonde S. Agostino riunisce l' avversione e la conversione nella stessa definizione del peccato dove dice, che [...OMISSIS...] . 5.. e ) Finalmente i fautori di questo sistema abusano delle proposizioni condannate in Baio, citandole senza darsi cura di osservare in qual senso furono a ragione condannate. Ne darò due soli esempi. La propos. 47 dice: [...OMISSIS...] . Di qui essi deducono francamente, che il nome di peccato applicato a quel de' bambini deesi intendere di un peccato che sia tale non in sè, « sed quia rationem habet ad peccatum Adami (2). » Ma il dire che il peccato in cui nascono i bambini, e che inest unicuique proprium secondo il Concilio di Trento, non è peccato in sè stesso, è egli conforme al dogma cattolico? Non è lo stesso che negare il peccato originale, riducendolo a una sola relazione esterna tra una cosa che non è peccato ed una cosa che è peccato, cioè al peccato personale di Adamo? Non sarebbe stato contento Pelagio, se gli si avesse conceduto dai campioni della fede che lo combatterono, che ne' bambini che nascono nulla si rinviene che sia peccato in sè, ma che quello che non è in sè peccato si chiama o si considera come peccato (così diceva appunto uno degli autori a cui noi rispondiamo) (3), unicamente perchè fu un effetto della libera trasgressione di Adamo? E` dunque a considerarsi che quella proposizione fu condannata in Baio, perchè questo Dottore parlava dell' imputazione e del merito del peccato de' bambini, e voleva che fosse imputabile e demeritorio, senza riferirla alla libera volontà di Adamo, il che è quanto dire avesse ragione di colpa perchè il bambino non fa un atto contrario, cioè un atto che non può fare; onde ammetteva la colpa e il demerito senza la libertà. S' aggiunga, che se quella proposizione condannata in Baio non s' intenda con discernimento teologico si urta nello scoglio del giansenismo per troppa voglia di evitare il baianismo. Poichè come nel sistema di Baio basta al peccato originale la volontà non libera del bambino, così nel sistema di Giansenio basta la volontà di Adamo, che nel bambino non solo non è libera, ma nè pure esiste. E questo si può vedere nell' Augustinus (1) dove al capo 4 si sostiene appunto che [...OMISSIS...] . I fautori poi del sistema che esaminiamo, citano tanto più a sproposito quella proposizione condannata in Baio, che la vera causa, per la quale la privazione della grazia ne' bambini essi vogliono che sia peccato, non è già propriamente l' atto della libera prevaricazione di Adamo, la quale è soltanto una condizione: ma sì bene il decreto di Dio di dare a tutto il genere umano la grazia, se Adamo fosse stato fedele, e di toglierla se fosse stato infedele, il qual decreto Iddio poteva fare e non fare. In virtù di questo decreto dunque, dicono, che la grazia era dovuta alla natura umana, e che medesimamente in virtù di esso gli fu tolta, ed essendogli tolto ciò che gli era dovuto, questo fece sì che tal privazione si dovesse chiamare peccato . Di che viene indeclinabilmente, come abbiam già osservato, che quella disposizione divina sia ciò che dà forma o piuttosto il nome di privazione e di peccato a tale mancanza di grazia, e non la volontà di Adamo: il che è un collocare in Dio stesso, cioè nel suo decreto, la causa del peccato ne' bambini, e non nella libera disubbidienza del primo padre. Con minore efficacia ancora abusano della proposizione 55: « Deus non potuisset ab initio talem creare hominem, qualis nunc nascitur, » deducendone che dunque al presente l' uomo nasce senza alcuna ferita nella sua natura, e talora dando la taccia di eretici a quelli che professano il contrario. Ma basta conoscere i primi elementi della teologia cattolica per non ignorare che questa è una di quelle proposizioni di cui S. Pio V nella sua Bolla dice, che « aliquo pacto sustineri possunt, » benchè in altro senso da quello di Baio, su di che rimettiamo il lettore a quanto ne scrisse il P. Filippo da Carboneano, uno dei tre teologi che Benedetto XIV solea consultare, nel suo solido trattatello De propositionibus ab ecclesia damnatis (2). Quivi riprende, tra gli altri teologi lo Sporer e Felice Potestà per le spiegazioni date alle dette proposizioni Baiane, [...OMISSIS...] . E dimostra come queste ed altre proposizioni sono sostenute in un senso ben differente da quello di Baio dalle più celebri scuole cattoliche in Roma, sotto gli stessi occhi del Papa, e quanto replicatamente i Sommi Pontefici abbiano vietato, sotto precetto di ubbidienza, d' accusar d' eresia i loro sostenitori. Tali proposizioni baiane dunque nulla provano, se chi le adduce non ne spiega prima il senso nel quale furono dannate e non dimostra che l' autore che accusano le prende in quel senso. Concludiamo adunque da tutto ciò che neppure questo sistema, che ricade in quelli che abbiamo esaminati precedentemente, ha in sè alcun valore per abbattere l' eresia di Pelagio, il quale può dire a tali teologi: « Voi mi concedete che il peccato originale, che i cattolici attribuiscono al bambino, non è peccato in sè stesso, ma che solo così si chiama relativamente a un decreto di Dio che aveva stabilito che così si considerasse qualora Adamo suo padre avesse trasgredito il divino precetto: voi dunque convenite meco nel fondo, dissentite solo nelle parole per salvare le apparenze«. 59. Servano adunque questi esempi di un saggio di que' sistemi inventati modernamente intorno alla dottrina del peccato originale, i quali non hanno virtù d' abbattere ad un tempo le due opposte eresie del pelagianismo e del giansenismo: e di attenersi agli insegnamenti più solidi degli antichi. E per rispetto al pelagianismo (giacchè del giansenismo ci riservammo di parlare all' articolo seguente) dicemmo che tutta la forza dell' obbiezione pelagiana si riduce a sostenere che« l' ordine morale, a cui appartiene il peccato è opera così esclusivamente propria della volontà umana, che non può essere un fatto della natura« come sarebbe il peccato dei bambini, se fosse vero che l' ereditassero insieme colla natura per generazione, e che per confutare direttamente una tale obbiezione conviene dimostrare il contrario, esservi cioè una moralità ed un peccato distinto dalla colpa, che non alla sua volontà, ma alla stessa natura può, senza alcun assurdo, appartenere. 60. E veramente i Pelagiani caddero nell' eresia, perchè vollero filosofare invece di credere, non avendo tanto di filosofia che bastasse a sostenerli dall' errore. Essi posero sempre in opposizione la natura e la volontà , senz' avvedersi che tra queste due cose non passa quella separazione che s' immaginavano (1). Infatti la volontà è una natura anch' essa, e come dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] . Laonde si distinguono due movimenti o modi di operare, della volontà, l' uno che ubbidisce necessariamente alla natura, e s' attribuisce alla volontà come natura, voluntas ut natura, l' altro che è libero, e si attribuisce alla volontà come volontà, voluntas ut voluntas, i quali due modi dagli scolastici, seguendo S. Giovanni Damasceno si chiamarono il primo «thelesis» e il secondo «bulesis» (3), denominazioni atte a segnare la volizione diretta, o intenzione, e il consiglio . Secondo questa distinzione di atti, o, se più piace, di funzioni della volontà, procede S. Tommaso, distinguendo la volontà semplice dal libero arbitrio, osservando che quella corrisponde all' intelletto, e questo alla ragione: [...OMISSIS...] . 61. Questa distinzione fu sconosciuta o trascurata non meno dai Pelagiani che dai Giansenisti, ed è quella, come abbiamo accennato, che tronca con un solo colpo la radice de' due opposti errori. Ma vediamone a bell' agio le conseguenze: a ) Primieramente da essa nasce la distinzione del peccato semplice che ha nozione di peccato astraendo dalla libera volontà, dalla colpa che esige il libero arbitrio: quando i Giansenisti disconobbero la natura di questa seconda, confondendola col primo; i Pelagiani, non tenendo conto che di questa seconda, negarono il primo. b ) Con altre parole, essendo la moralità, secondo la definizione che ne abbiam data,« l' abitudine che ha la volontà cogli oggetti della legge eterna« ne viene, che come è doppio il modo di operare e di essere abitualmente della volontà, l' uno naturale, l' altro elettivo, due devono essere le specie di moralità ben distinte che si manifestano in essa, l' una dipendente dalla natura degli oggetti che essa apprende e a cui aderisce come a fine, e questa specie di moralità non dipende attualmente e necessariamente dall' atto del libero arbitrio, in maniera che quell' atto elettivo entri a costituire la sostanza di quella moralità; l' altra dipendente dalla sua propria libera elezione, per la quale essa stessa tra i diversi oggetti che le sono offerti sceglie l' oggetto buono e ordinato a cui aderire, e rigetta l' oggetto non buono e disordinato: e queste due specie di moralità sono riconosciute, come abbiamo dimostrato nella Dottrina del peccato originale (1), nella cattolica dottrina, e su di esse si fondano diversi dogmi della nostra santa fede. c ) L' oggetto voluto che sia dalla volontà, in qualunque maniera lo voglia, costituisce la forma di questa potenza, e in quanto è buono o cattivo, ordinato o disordinato, dà la specie e la condizione morale al suo atto ed al suo stato, e però se l' oggetto è intrinsecamente cattivo, come abbiamo detto dell' odio di Dio, e lo stesso si può dire dell' odio del prossimo e d' un essere intelligente qualunque, la volontà che ha quest' odio, non può mai essere buona, ancorchè non sia più libera di fare il contrario, perchè dal disordine intrinseco dell' oggetto essa riceve il disordine in sè, come ogni ente che riceva una forma corrotta, anch' egli si corrompe (2). Onde giustamente S. Tommaso dice che « bonitas voluntatis proprie ex objecto dependet (3). » E qui si può riferire un luogo difficile di S. Agostino, in cui dice che si può peccare non solo voluntate peccati, ma anche voluntate facti (4), il che si deve intendere del caso, quando il fatto sia un intrinseco male, e però in sè stesso un peccato. - Poichè chi vuole ciò che è un male intrinseco ed essenziale, con ciò vuole il peccato che è indivisibile dall' essenza di quel fatto, ancorchè chi vuole quel fatto non sappia fare l' astrazione per la quale distingua la ragione del peccato dalla ragione del fatto. Onde viene la regola morale, che niuno può esporsi a far cosa che sia intrinsecamente mala, solo che ne dubiti (5), perchè s' espone con ciò al pericolo di dare a sè stesso di fatto la forma dell' immoralità. d ) Infatti l' oggetto voluto dalla volontà e la volontà che vi aderisce formano qualche cosa di uno, sebbene quest' uno consti di due elementi divisibili colla mente, perchè l' oggetto ha natura di termine e la volontà di principio, ed il principio ed il termine formano una sola entità. Laonde se il termine non è, rispetto al principio, cosa accidentale, ma così essenziale che lo costituisca quello che è, il termine stesso è un elemento che costituisce il principio nel suo essere di ente. Questo avviene primieramente e perfettissimamente in Dio, dove l' oggetto della sua volontà non solo gli è essenziale e uguale e immutabile in modo che non ammette accidenti di sorta, ma di più esso è la stessa essenza divina, come anche la volontà è l' identica essenza. Laonde in Dio la volontà è sempre necessariamente nel suo pieno atto, ed ha sempre lo stesso oggetto, e quest' oggetto è l' identica essenza che è la volontà: onde principio e termine non si possono mai dividere, ma sempre uniti costituiscono una sola semplicissima natura. E questa natura è appunto la moralità e la santità sussistente: dove si vede, che la moralità nella sua prima sede, e nel suo primo fonte, e nella sua perfezione essenziale , è una natura sussistente (la quale considerata come nozione personale è la proprietà del Santo Spirito) e non l' effetto di un atto di volontà libera di eleggere tra il bene e il male. e ) Ed essendo l' uomo creato ad imagine di Dio, niuna maraviglia che si trovi anche nell' uomo qualche vestigio di questa morale natura sussistente. Infatti anteriormente all' elezione libera trovasi nell' uomo quell' atto che i filosofi e teologi morali chiamano intenzione , il quale dà all' uomo un certo essere o natura morale, in cui si radica la stessa potenza della volontà, di maniera che non si potrebbe concepire l' esistenza di questa potenza senza presupporre nell' essenza umana quella morale natura, onde il Gaetano, dichiarando S. Tommaso, dice: [...OMISSIS...] . Ma grandemente differisce la natura morale in Dio, dove è natura completa, dalla natura morale dell' uomo, dov' è solamente iniziale, che ha bisogno poi di ultimarsi con altri atti, e massimamente con quelli della libera elezione. Poichè in Dio l' oggetto naturale così dello intelletto come della volontà è la stessa essenza divina attualissima; laddove l' uomo non ha per oggetto naturale la propria essenza, ma un' altra essenza, laonde da questa è dipendente, carattere comune a tutte le intelligenze create e finite. Di poi il suo oggetto naturale non contiene tutti gli enti attualmente, ma solo virtualmente, onde non è che un lume che gli fa conoscere la moltiplicità degli oggetti, che in appresso gli sono aggiunti in modo accidentale, e il quanto della loro entità e bontà, onde può eleggere fra essi. L' oggetto all' incontro in Dio essendo Dio, tutto attualmente contiene, e non bisogna d' altra aggiunta qualunque: ma la volontà stessa distingue e crea i finiti, e dà loro l' entità reale e ciò che hanno di bene: onde il bene degli enti finiti è posteriore all' atto della volontà divina come l' effetto alla causa, e non preesistono in modo che le possano esser dati sussistenti tra cui eleggere. 62. Dimostrato adunque che ci sono nell' uomo due specie di moralità, l' una dipendente dall' atto del suo libero arbitrio, l' altra anteriore a questa e principio di questa, giacente nella sua natura morale, l' obbiezione de' Pelagiani contro il peccato originale rimane del tutto annichilita, come quella che si fondava sul falso supposto, che tutto l' ordine morale si assolvesse negli atti del libero arbitrio. E veramente se ci può essere una moralità inerente e appartenente alla natura, e se la natura viene trasmessa per via di generazione, dunque è tolto ogni assurdo che ci sia qualche cosa di morale che si possa trasmettere insieme colla natura per la naturale generazione. E questo è quello che insegna la Chiesa Cattolica col dogma del peccato originale, il quale si chiama costantemente e peccatum naturale, e languor naturae . E perciò anche i bambini, come dichiara il Sacrosanto Concilio di Trento, [...OMISSIS...] . 63. Gli eretici e gli increduli accampano due specie di argomenti contro alla cattolica verità, cogli uni pretendono di trovare qualche dogma da essa insegnato in contraddizione con qualche principio indubitato di ragione, cogli altri non pretendono tanto, ma sono obbiezioni tratte dalla difficoltà di spiegare gli stessi dogmi, e da certe verisimiglianze che deducono da tali verità. Ai primi argomenti è necessario che il teologo risponda direttamente sciogliendo l' apparente assurdo, perchè niuno è obbligato a credere a ciò che si oppone ai primi principii della ragione: ai secondi, basta che esponga e provi i motivi di credibilità, poichè dimostrato, che la cosa è rivelata da Dio, può dire con tutta ragione agli avversarii:« se non potete intendere, credete« (2). L' argomento dei Pelagiani contro la moralità indeliberata della natura era della prima specie, e abbiamo veduto come cada disciolto, quando si approfonda il concetto di moralità e di peccato: gli altri appartengono alla seconda specie, e basta che si combattano coll' autorità della rivelazione e colle definizioni della Chiesa. Tuttavia toccheremo e ragionando abbatteremo anche alcuni di quelli, la cui confutazione giova a far via meglio conoscere la condizione del peccato d' origine, di cui ci siamo proposti trattare in questo paragrafo. 64. a ) Se alla natura si attribuisce l' immoralità si rovescierebbe nel manicheismo, ammettendo una natura malvagia. - Si risponde con S. Agostino e gli altri maestri, che la natura umana è stata creata da Dio da ogni lato buona, ma che l' uomo col suo libero arbitrio l' ha guastata, e l' ha guastata solo ne' suoi accidenti, e non in ciò che costituisce la sua essenza. Ora tal è la limitazione di ogni natura creata (non della sola natura umana, o della sola natura morale), che ella sia corruttibile nella sua parte accidentale: i Manichei all' incontro pretendevano, che ci fosse una natura che non fosse già corruttibile nella sua parte accidentale, ma fosse mala per sè nella sua stessa essenza: [...OMISSIS...] . 65. b ) Essendo la natura umana opera di Dio e non dell' uomo, s' ella potesse essere malvagia, verrebbe a rifondersi in Dio, come in causa, il peccato della medesima. - Si risponde allo stesso modo, che Iddio fu l' autore della natura umana, buona e perfetta, e arricchita di più di doni soprannaturali; ma che l' uomo col suo libero arbitrio, peccando, la guastò nella sua parte accidentale e mutabile; che Iddio fu l' autore della natura umana in Adamo innocente; che uscì dalle sue mani colla creazione; ma che Iddio non è la prossima causa della natura umana ne' discendenti di Adamo: perchè la causa prossima della natura umana in essi esistente è il padre che per via di generazione comunica loro la natura umana, e la comunica quale la ha in sè stesso, cioè disordinata dal peccato commesso da lui col suo libero arbitrio. E qui conviene rimuovere l' equivoco che nasce pe' varii significati che s' attribuiscono alla parola natura, che male a proposito in quest' argomento si prende per l' essenza o ideale o realizzata, laddove deve prendersi per la natura tutt' intera, cioè co' suoi accidenti, generabile, che è il primo significato che Aristotele attribuisce a questa parola natura a nascendo [...OMISSIS...] (2). Dato dunque che la natura umana sia corruttibile ne' suoi accidenti, parte de' quali appartiene all' ordine morale, e che in quest' ordine possa scompaginarla e guastarla il libero arbitrio dell' uomo stesso; e posto che l' autore prossimo di questa natura, in quanto è moltiplicabile, non sia Iddio creatore, ma l' uomo stesso che ha per legge naturale di generare il simile a sè: niente più ripugna, che lo stesso guasto e disordine che l' uomo ha prodotto nella propria natura, lo comunichi insieme colla natura a quegli individui, che egli per opera della generazione fa sussistere, mentre prima non sussistevano. 66. c ) Dato anche che la natura umana possa essere disordinata per effetto dell' atto libero di Adamo, questo non può essere un disordine morale, e molto meno un peccato mortale abituale, che è un disordine personale. - Rispondesi colla dottrina di S. Tommaso, che è quella della tradizione, la qual dottrina nel citato Compendio della Teologia così viene espressa: [...OMISSIS...] . E per intendere come ciò sia, non conviene separare la persona dalla natura, quasi che siano due separati sussistenti, ma considerare, che la persona non è altro che un modo d' esistere della natura, quando questa sia intelligente, è quel modo che ne costituisce l' ultima e più elevata sua attualità, che unifica e contiene sotto di sè tutto il resto che nella natura si trova, come abbiamo dichiarato nella Antropologia, onde gli scolastici solevano anche definire la persona: una sussistenza o ipostasi « distincta proprietate ad dignitatem pertinente . » Se dunque la persona non è che il modo nel quale sussiste a pieno determinata e semplificata la natura tosto che questa sia intelligente, qual meraviglia, che il guasto morale della natura s' estenda al suo modo proprio di sussistere? Vero è, che, come abbiamo detto, la persona non può essere mai del tutto passiva, essendo essa un principio attivo (2); ma da questo non procede altro, se non che la persona non ammette coazione, senza però escludere (parlandosi di persone limitate e create) la spontanea consensione alla piega che le dà la natura, di cui è, come dicevamo, il modo di sussistere. Di che consegue pure, che se il guasto rimanesse nella sola natura, e non ascendesse a pervertire il suo principio supremo, ossia il suo modo di esistere intellettuale e morale, esso non potrebbe ricevere il concetto di peccato mortale. Ma tosto che attrae a sè e seduce il suo principio personale, tosto riceve un tale concetto, come insegnarono, seguendo l' ecclesiastica tradizione, gli scolastici: [...OMISSIS...] . Di che ancora si può inferire che nè le nozze, nè la generazione sono peccato, non producendo immediatamente il peccato, perchè la generazione comunica solo la natura guasta, venendo poi la persona a ricevere da essa l' infezione che si fa morale, perchè si fa personale; la persona viene altronde come diremo. A quel modo dunque che non sono peccati morali i difetti che un pittore o uno scultore lascia nelle opere sue per imperizia dell' arte, o per imperfezione di stromenti, così la generazione lascia un difetto nella carne, che in sè solo non è peccato morale, ma è poi causa del peccato alla persona. 67. d ) Voi dite che la persona viene altronde e non immediatamente dalla generazione, e con questo volete dire certamente che essa viene da Dio che crea e infonde l' anima intellettiva. Ora con questo le difficoltà si aumentano. Se aveste sostenuto che l' anima intellettiva, subbietto, come voi dite, del peccato d' origine, venisse ex traduce, s' intenderebbe in qualche modo che il peccato passasse per generazione, ma venendo creata e infusa da Dio, si fa Iddio autore del peccato. - In nessuna maniera noi ammettiamo che l' anima intellettiva si comunichi ex traduce , il che involgerebbe diversi assurdi, e tra gli altri quello che la persona sia moltiplicabile e comunicabile, quando è essenziale alla persona l' essere incomunicabile, appunto perchè è una natura perfettamente determinata e quindi tutta finita in sè stessa. Ma tuttavia in nessun modo procede che Iddio sia l' autore del peccato. Così sebbene Iddio intervenga e concorra come prima causa nella produzione di tutti gli eventi mondiali, non ne viene che egli concorra come causa a' mali che in essi permette, intervenendo egli solamente come causa e fonte del bene, e il male provenendo dalle cause seconde e deficienti, come abbiamo dichiarato nella Teodicea .

Aristotele esposto ed esaminato vol. I

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Questo lavoro (1) intorno alla filosofia d' Aristotele nacque tra le mani dell' Autore senza un disegno premeditato, e quasi contro la sua intenzione. Dettando il secondo libro degli « Ontologici », che ha per titolo « Le forme dell' essere », gli fu necessario esporre in qual maniera concepisse e divisasse le « Categorie », Aristotele. Non pensava che di dare un sunto del libro celeberrimo di questo filosofo su tale argomento. Ma postosi all' opera, la sua attenzione fu trattenuta dall' intimo nesso che congiunge le dieci categorie con tutta intera la dottrina dello Stagirita, e s' avvide che, per intendere a pieno il concetto che presiedette alla mente del filosofo nel compartimento dell' ente in sommi generi, si rende necessario addentrarsi nelle altre parti del sistema, ed esaminarne diligentemente le relazioni che le legano tra loro: così una questione conduceva ad un' altra, e un problema ad un altro. Troncare a mezzo queste ricerche gli spiaceva, e lo spronavano a proseguirle la curiosità non meno che la speranza di pervenire finalmente al fondo del pensiero aristotelico che si congiungeva con molti fili alle filosofie precedenti, e d' accertarsi se in questo fondo si trovava davvero un solo sistema, come fu supposto fin qui, ovvero s' avesse in fine soltanto un accozzamento d' opinioni, o anche di contraddizioni, del che gli dava gran sospetto la discordia degli interpreti, e i faticosi lavori dei conciliatori (2). Le stesse difficoltà che gli accadeva d' incontrare sulla via, nell' intelligenza dei luoghi difficili, anzichè stancarlo, acuivano in lui il desiderio e l' impegno di vincerle con confronto dei luoghi paralleli, colle determinazioni dei varii significati delle parole e delle frasi tecniche, coll' aiuto degli scoliasti antichi e dei lavori critici, sebbene ancor molto imperfetti, che alcuni dotti della Germania recentemente tentarono, all' emendazione e alla rettificazione del testo (1). Così perduto di vista il primo proposito, quel che dovea essere un brano, e anche breve, del trattato « Le forme dell' essere », crebbe in una lunga dissertazione, che ormai non poteva più appartenere al detto libro, e per la sproporzione della mole, e perchè il discorso usciva dai limiti dell' argomento prefisso al medesimo, spaziando per tutta intera la dottrina del maggior discepolo di Platone. Fu dunque separata dal rimanente questa parte, sopraccresciuta quasi a modo di gemma sulla prima pianticella; ed è quella che prese forma dall' opera presente, che intitolammo: « Aristotele esposto ed esaminato ». Colla qual narrazione dell' origine di questo scritto, intendo invocare l' indulgenza dei miei lettori sui difetti del lavoro; e nello stesso tempo giustificare in qualche modo l' ordine seguito in esso, e i limiti ad esso prefissi. Se fin da principio io avessi concepito il proposito di presentare all' Italia il sistema aristotelico accompagnato dall' esame razionale del medesimo, avrei distribuite le diverse parti in altro modo, avrei potuto più facilmente far apparire agli occhi dei lettori la conveniente simmetria di tutto il disegno. E in questa esposizione avrebbero trovato luogo quelle parti della dottrina aristotelica, che non appartengono strettamente alla filosofia, ma alla fisica, alla politica, alle arti del bello, come posto hanno trovato, per esempio, nella « Filosofia d' Aristotele » di Francesco Biese (2). Io restrinsi dunque il mio lavoro nei confini delle dottrine filosofiche, come quelle che sono intimamente connesse colla questione delle categorie, la quale diede l' occasione dello scrivere. Inoltre, se, nel primo accingermi a quella più ristretta esposizione e discussione delle dottrine prettamente filosofiche, avessi potuto prevedere dove m' avrebbe condotto l' annodata serie del discorso, avrei forse fatte andare innanzi alcune nozioni a quello che dovea seguire, le quali avrebbero sparso qualche luce su tutto il cammino. A ragion d' esempio, avrei probabilmente incominciato coll' esporre la serie delle aporie o dubitazioni, colle quali Aristotele spesso delinea l' ambito delle sue ricerche metafisiche (1): e di poi avrei esposto il libro aristotelico della significazione delle parole (2), che sebbene non sia ricco abbastanza per dichiarare tutto il vocabolario e il frasario aristotelico, pure presta un grandissimo aiuto in tale bisogna. E veramente questi due sono la chiave degli altri libri che si hanno sotto il nome di « Metafisici » e di tutte, si può dire, le opere aristoteliche. Poichè, conosciute chiaramente quali e in che modo fossero concepite le questioni che quel filosofo si proponeva, e che erano indubbiamente quelle che s' agitavano nelle altre tre scuole platoniche del suo tempo, e conosciuto il valore, sempre molteplice, dei vocaboli scolastici e di molte maniere di dire da lui usate in proprio, si può con più fiducia accingersi, quasi bene armati, all' interpretazione, e quasi vorrei dire all' espugnazione d' una filosofia, così chiusa e irta di difficoltà. Chi v' impediva, mi si dirà, di rifondere l' opera vostra, e di dare alla materia una migliore disposizione? O non era meglio sopprimerla del tutto, piuttosto che presentare al pubblico una cosa assai più imperfetta di quella che potevate fare con nuovo e maggiore studio? Se debbo addurre una scusa per meritarmi in qualche modo l' indulgenza che invoco, dirò che mi mancava del tutto il tempo necessario a rifonder quest' opera di lunga lena, ed estranea a quel disegno della filosofia che sto colorendo; che d' altra parte non ho creduto doverla del tutto sopprimere, considerando la scarsezza che di tali lavori ha finora l' Italia, e confidando, che quantunque l' abbozzo della dottrina aristotelica, che oso presentarle, sia molto imperfetto, potrà forse giovare quasi d' eccitamento e di stimolo per altri a far troppo meglio. Le imperfezioni stesse dell' opera contribuiranno per avventura a questo; perchè se l' opera fosse perfetta, chiuderebbe, quasi direi, la bocca a tutti; al contrario trovandosi da dirci sopra e da censurare, si moverà una discussione più facilmente; e la speranza che rimane agli ingegni nobilissimi della patria nostra di ritrattare l' argomento con migliore riuscita, e il diletto d' emendare falli e difetti d' un primo tentativo, li condurrà più facilmente in quella via di solidi studi, a cui abbiamo sempre desiderato di provocarli. Chè anzi a chi considera la storia dell' aristotelismo, non sarà difficile fare seco medesimo questa osservazione: « Se i libri pervenuti a noi del greco filosofo non ritenessero o dall' origine o dalle ingiurie de' tempi molti difetti, si sarebbero forse così profondamente studiati, siccome furono in tanti secoli? Se non fossero o non paressero così scomposti, e il ragionare in essi così discontinuo, il linguaggio così breve, oscuro e quasi ritenente un non so che degli antichi enigmi, avrebbe forse lo Stagirita avuti tanti commentatori? Si sarebbe accumulata tanta ostinazione negli animi e nelle menti di penetrarlo, d' intenderlo? ». In conseguenza, stavo quasi per dire che questa nostra esposizione d' Aristotele, se mostra in sè qualche difetto d' ordine, per questo avrà in certo modo diritto di partecipare a quell' impegno, che si pose per tanti secoli nello studio del « maestro di color che sanno ». S' aggiunga che, se il rifondere da capo questo lavoro potrebbe arrecare il vantaggio di una distribuzione di parti più netta e cospicua tutt' intera sin dal principio, non sarebbe tuttavia senza qualche suo scapito. Poichè il nuovo ordine caccerebbe quello che, sebbene meno appariscente, pure vi può scorgere anche nel presente dettato chi pone mente alla successione del discorso. Poichè si vedrà che noi procurammo tener dietro passo passo all' ordine d' Aristotele stesso; non all' ordine materiale de' libri, e nè pure al metodo che il filosofo tiene nell' esporre le singole dottrine, ma alla connessione intima di queste dottrine e delle sentenze che le contengono. In realtà la dichiarazione d' un luogo del nostro autore ci conduceva da se stessa a un altro chiamato in aiuto per illustrare il primo, e questo a un altro, e così via quasi per una catena continua; per la quale strada se ne va naturalmente e facilmente il pensiero; e benchè da principio non si affacci allo sguardo tutto il quadro intero delle dottrine, pure niuna sentenza è sconnessa e spezzata dalla susseguente; il qual notabile vantaggio sarebbe perduto, qualunque altro ordine si prendesse, e qualunque altra distribuzione si prestabilisse al lavoro. Vero è che quel tessuto di passi raffrontati, acciocchè reciprocamente s' illustrino, riconduce più volte il discorso ai medesimi argomenti. Ma oltre che questi sono rappresentati sotto nuovi aspetti e sotto nuova luce, difficilmente si potrebbe ritrarre al vivo Aristotele, e far conoscere la sua maniera di filosofare, senza questo, che è proprio di lui, non esser stanco mai di far ritorno sugli stessi principŒ, e ripetere gli stessi argomenti, e colle stesse parole altresì e colle stesse forme immutabili, come le forme delle statue degli Dei. E basta per convincersene dare uno sguardo al punto principale di tutta la polemica aristotelica, che è quel delle idee , su cui in luoghi diversi e tante volte ricade il suo ragionare (1). Sulle quali considerazioni e non su queste sole, presi in animo a fare di pubblica ragione lo scritto presente, qualunque sia, con tutte le sue imperfezioni. Se non m' inganno, il pensiero aristotelico nella sua totalità vi si riconoscerà ritratto fedelmente e illustrato con quel lume che presta la coerenza e il contesto di vari luoghi del filosofo. Dico nella sua totalità ; non pretendo io aver colto il vero nell' interpretazione d' ogni singolo testo, talora d' incerta lettura, e di locuzione oscura; abbandono agli eruditi queste minute, e ad un tempo importanti ricerche, e dichiaro subito che soprattutto mi sarebbe gradito vedermi emendato dai lavori di valenti filologi italiani. Non ci dimentichiamo che anche la filologia greca nacque presso di noi: e che il testo greco d' Aristotele comparve la prima volta in pubblico a Venezia per le erudite cure di Aldo Manuzio (2), e che a Giovambattista Bagolini e a Marco Oddi non costò leggeri studi critici e brevi fatiche (è cosa doverosa per noi il non dimenticarlo) la prima edizione latina dell' arabo commentatore, uscita del pari in Venezia (3). Sarebbe dunque ormai tempo che gli Italiani, che si lasciarono vincere negli studi dell' erudizione e della filosofia dai Tedeschi, dagli Inglesi e dai Francesi, si ricordassero finalmente dei loro padri, e la nostra ingegnosa gioventù, scosso il torpore e cessato l' importuno cicalio, riprendesse in mano l' opera gloriosa e tradizionale de' solidi studi filologici e filosofici, quasi del tutto lasciati. E già ce ne dà buon preludio un giovane ingegno, che sta per ora sul pubblicare colle stampe una traduzione italiana della « Metafisica », cioè dell' opera più importante d' Aristotele: arduo lavoro, a cui fin qui niuno italiano, ch' io sappia, aveva posto mano, e forse prima d' ora non si poteva. Ma ritornando a quello ch' io voleva dire, mi parve che in questo tempo, nel quale fu richiamato a nova vita lo studio di Aristotele, in Germania principalmente per le cure del Brandis e d' un gran numero d' eruditi che a lui seguirono, in Francia per quelle del Cousin e dei valenti giovani usciti dalla sua scuola, non dovesse riuscire inopportuno che si pubblicasse questo scritto in Italia, sia ch' esso adempia il tema e l' intento che gli è prefisso (di che altri giudicherà), sia che lo si consideri come un semplice tentativo di adempirlo. Poichè l' intento è certamente questo: ritrarre con fedeltà la filosofia d' Aristotele, definire come e fin dove le parti di essa siano tra loro coerenti ed atte a formare un solo tutto: se ce ne siano alcune che rimangano sospese e isolate, o ripugnanti all' intero sistema e quali siano: quali pure per la loro indeterminazione non si possano ridurre a concetti precisi: finalmente qual sia il valore scientifico di tutto il sistema e delle sue parti . Non vuol dunque esser considerata questa nostra, come un' opera di filologia e di pura storia, ma come filosofia, in una parola come un esame critico dell' aristotelismo, il quale serva a compiere in qualche modo quello che noi abbiamo fatto, troppo leggermente per verità, sopra alcune speciali sentenze del medesimo filosofo nei diversi scritti, dove la materia ce ne dava occasione (1). A portare un equo giudizio del sistema aristotelico, sono al presente rimosse quelle difficoltà che s' incontravano per addietro: prima della sua caduta, la venerazione superstiziosa che si faceva dei suoi detti, a cui era temerità il contraddire; dopo la sua caduta, l' orgoglioso e insolente disprezzo di quelli che insultavano al vinto. Ai giorni nostri è cessata l' una e l' altra passione: si sa ora quanto fosse grande l' ignoranza nel culto superstizioso reso ad Aristotele dal medio evo, e quanta più ce n' era nelle contumelie, di cui lo coprirono i sofisti del secolo XVIII: si sa come la dottrina aristotelica non fu appieno conosciuta dai moderni sensisti per un soverchio d' avversione pregiudicata e pel vezzo divenuto universale di non cercare più la scienza in uno studio serio e laborioso, ma solamente nel ridicolo. I primi erano rimasti abbagliati dalla troppo viva luce e repentina che mandava tra le tenebre il filosofo più consummato della Grecia, e il nobile entusiasmo, che la bellezza di quella luce suscitava nei loro animi, faceva tacere ogni critica. Appena si scorsero le prime macchie nel filosofo, e dopo molti contrasti appena si certificarono errori non pochi nelle cose fisiche, quell' ammirazione piena ed assoluta fu scossa, e i suoi credenti rimasero da prima come pusilli scandalizzati. Accusavano, quasi direi, di temerità la verità stessa che veniva a contraddire al filosofo per eccellenza. Ma quando una venerazione che s' è posata nell' animo umano assoluta e illimitata, rimane in qualche punto, anche minimo, offesa; prima resiste tutta intera, e poi cade tutta intera: l' uomo, che si riconosce ingannato, prova un sentimento tanto grave di sorpresa e di dispetto che lo sconcerta e lo confonde: ed è appunto allora che egli trascorre nella sua passione a bestemmiare quello che prima adorava, quasi per rifarsi, con soverchia disistima e licenza, del soverchio cieco ossequio con cui da prima aveva scemato e legato a se stesso il libero esercizio del proprio pensiero. E siccome i primi a dubitare dell' infallibilità d' un filosofo universalmente seguìto, com' era Aristotele, debbono lottare coi meno perspicaci e coi più cocciuti, quindi un grand' inasprimento di animi, che alla fine produce nei vincitori una specie di furore simile a quello che si manifesta nei soldati al prendere d' assalto una piazza forte che da lungo tempo ha resistito e non s' è voluta rendere a buoni patti. I sofisti dell' Enciclopedia, sopravvenuti dopo la presa di questa piazza, serenarono sulle sue rovine, dandosi allo stravizio, accendendovi fuochi e danzandovi intorno ubriachi. Queste superstizioni, questi disinganni, queste ire, queste licenze barbariche sono passate: ed è per più ragioni desiderabile che oggi si riprenda con calma lo studio e l' esame critico d' una dottrina, che ha occupati e affaticati e divisi per tanti secoli, non solo gli ingegni, ma gli affetti stessi e le passioni degli uomini; il dominio della quale, e il successivo ludibrio, ha immensamente influito sul mondo: e ancora ne rimangono gli effetti profondi nello stato dell' umana società. Sarebbe degno d' una mente perspicace vederli, e veduti raccoglierli in un libro, che riuscirebbe un anello non dispregevole nella grande storia dell' umanità. Ma uno spassionato esame critico dell' aristotelismo non è solo desiderabile che oggidì si faccia per una semplice curiosità scientifica, o per dare con esso ragione di tante discrepanze e scissure, che nelle opinioni degli uomini ci furono sempre intorno alle vere dottrine dello Stagirita, e al valore di esse, o prese tutt' insieme come un sistema, o considerate per parti: ma molto più pare a noi esser desiderabile, per toglier via, s' egli è possibile, e del tutto annientare l' occasione di altre scissure non meno gravi e di altri errori che quelle stesse dottrine potrebbero ingenerare in futuro, se non venissero una volta definite e giudicate in una maniera certa, chiara ed irrecusabile. Poichè le questioni che giacciono nella filosofia aristotelica sono vitali per lo uman genere, e la grandezza e l' importanza di queste, non meno che la loro difficoltà, restituirà sempre ad Aristotele un gran peso d' autorità ogni qualvolta il mondo scientifico volgerà gli occhi a quelle questioni inseparabili dal nome d' un autore che le ha trattate con tanta acutezza e con tal nerbo di pensiero e d' espressioni. Poichè le espressioni aristoteliche ancora al dì d' oggi suonano su tutti i labbri, anche di quelli che ne ignorano l' origine, e sono confitte, per così dire, in tutte le scienze, principiando dalle fisiche sino alla teologia (1), quasi sopravviventi d' una vita tenacissima al sistema a cui appartengono. Pare accertato dalle accurate ricerche de' moderni eruditi, che, eccetto l' « Organo », o alcune parti di esso, le altre opere d' Aristotele, perdute nell' occidente, vi rimasero affatto incognite sino al principio del secolo XIII, quando vi furono d' improvviso riportate da due parti contemporaneamente, cioè da Costantinopoli presa dai crociati, e dalla Spagna dominata dagli arabi. Allora furono lette con avidità, latinizzate, sia dall' arabico e dall' ebreo, sia dagli stessi testi greci (2). Tuttavia non convien credere, che le questioni principali della « Metafisica » d' Aristotele fossero del tutto sconosciute prima del secolo XIII; chè anzi se ne trovano qua e là nelle scritture di quei tempi vestigi così profondi, che sarebbe difficile spiegarne l' origine, senza ricorrere a un' antica tradizione, o a qualche estratto, tuttavia rimasto, dei libri metafisici e d' altre opere dello Stagirita (3). Ma l' epoca, nella quale lo studio d' Aristotele crebbe d' importanza e cominciò ad attrarre l' attenzione di tutti quelli che s' applicavano alle scienze, e della Chiesa stessa, risale a più d' un secolo prima che s' avessero i manoscritti arabi o greci, e quelli fossero fatti latini, quando il celebre canonico di Compiègne (circa 10.9 d. C.), Giovanni Roscellino mise in campo il nominalismo (4): dal qual tempo alcuni incominciano la storia della Scolastica, chè infatti con questa disputa tutte le menti s' accendono di nuovo ardore per le discussioni, e la Scuola acquista un carattere e una forma determinata, che più o meno si conserva fino al suo decadimento. L' universale non esiste nelle cose reali come universale, era stato detto da Boezio (n. 4.0, m. 526), che credeva di ripetere con ciò quanto aveva detto Aristotele (1). Come dunque quello, che è singolare nei reali, è poi universale nella mente? Lo stesso Boezio con molta giustezza osservava che il genere [...OMISSIS...] . Ora se l' universale è tutto in un singolare, non resta più nulla di lui da darsi ad un altro singolare. Oltre a ciò lo stesso Boezio spinge rigorosamente avanti la difficoltà. Dimostra infatti che il genere non può esser uno , perchè, essendo comune, si trova tutto in molti singolari diversi, nè può esser molteplice , poichè se fosse molteplice ci sarebbe un altro genere superiore, e così all' infinito. Come liberarsi da questa alternativa? La prima cosa che ricorre alla mente è quella di negare l' esistenza del genere e d' ogni altro universale, e così sbrigarsi di cotesto essere incomodo. [...OMISSIS...] Ora abolito l' universale, quegli universali che pur entrano nei nostri ragionamenti che cosa saranno? Non possono più esser altro che semplici vocaboli, meri nomi : ed eccoci nel nominalismo di Roscellino. Vero è che Boezio stesso si fa a risolvere poi quella difficoltà, già da lui proposta con tanta forza, per fare intendere quant' ardua fosse la questione accennata da Porfirio nella sua Introduzione , e lasciata da parte come troppo alta e bisognevole di lunga disputa. Ma la soluzione di Boezio non agguaglia certo la forza della difficoltà. E per accorgersene, basta che noi poniamo mente all' incostanza del suo ragionare. Egli ci cangia improvvisamente l' universale in una similitudine dei singolari, senza punto dirvi il perchè d' un tale cangiamento, senza giustificare questa repentina trasformazione. Ma che cos' è la similitudine ? Quest' è quello che ci si doveva dire, e quest' è quello che ci tace. E pure nell' arcana natura della similitudine giace tutta la questione, e tutta la difficoltà , che noi abbiamo dimostrato altrove (2). Di poi, si può egli dire che la similitudine d' una cosa sia la cosa, o sia nella cosa? Non è dunque vero, che gli universali sieno nei singolari, ma conviene che sieno fuori di questi, se non sono che una similitudine di questi (3). Finalmente se gli universali non fossero una similitudine , non potremmo conoscere con essi i singolari, perchè la similitudine è un astratto che nasce dal confronto di due cose simili. Ma il confronto di due cose simili non si può fare senza l' uso d' un universale precedente nella mente, che fa il confronto, al quale universale si riportino (1); e quand' ancora far si potesse, altro non s' avrebbe per risultato che una relazione di similitudine tra più cose singolari: ora una relazione tra più cose singolari è unica e singolare anch' essa, e perciò non può essere un universale. Dato dunque l' universale, si ha la relazione di similitudine e non viceversa. Che se in quella vece si volesse dire che il singolare somiglia all' universale, in tal caso converrebbe provare questa somiglianza, il che non si può se non si suppone prima, come dati avanti, l' universale e il singolare, e converrebbe provare l' esattezza di questa somiglianza, al che di nuovo si dovrebbero confrontare i singolari cogli universali, e si supporrebbero cogniti i singolari prima di ricorrere agli universali come a loro similitudini (1) per renderli noti. Era dunque naturale che tostochè si svegliasse qualche ingegno acuto e pensasse da sè, mal contento della soluzione data da Boezio, egli rimanesse in quella vece preso nella rete dell' argomentazione stessa, colla quale Boezio intendeva dimostrare la perplessità e l' arduità della questione toccata da Porfirio. Poichè quell' argomentazione conchiudeva che il genere , ossia l' universale , non esiste, e non può esistere (2): il che posto, non rimangono dei così detti universali altro che i nomi che è appunto l' induzione di Roscellino. Ma questo memorabile ingegno non aveva certo preveduto le terribili conseguenze che derivavano dall' annullamento degli universali, e quindi delle idee . Insieme con queste è tolto via dal mondo tutto ciò che c' è di divino, è sottratto il naturale veicolo, pel quale la mente umana si solleva a Dio . Il vizio del sistema cominciò ad apparire, come sempre accade, in una conseguenza particolare: non potendo Roscellino concepire che ci fosse qualche cosa di comune , era condotto necessariamente a parlare indebitamente della divina Trinità, dove l' essenza è comune alle tre persone. Per salvare dunque la Trinità delle persone, egli cadde necessariamente in una specie di triteismo, errore che fu condannato e da lui ritrattato nel concilio di Soissons del 1092 (3). Il suo discepolo Abelardo sostituì al nominalismo , il concettualismo (4), nel qual sistema gli universali non sono più puri nomi , quasi stimoli fisici che eccitino a pensare ai singolari, ma nomi, ai quali s' aggiungono gli attuali concetti della mente. Non bastava però questo a restituire agli universali una vera esistenza, perchè una cosa di cui si cangia la natura, non è più quella. Nel sistema d' Abelardo si disconosceva al tutto la natura obiettiva degli universali, e si rendevano puri pensieri subiettivi: erano nè più nè meno la « cogitatio collecta ex individuorum similitudine » di Boezio: non i veri universali. Se Roscellino, invece di salvare la Trinità delle persone in Dio, si fosse applicato a salvarne l' unità della natura, sarebbe ugualmente caduto nell' unitarismo. Poichè non potendo essere nel suo sistema comune la natura , rimaneva obbligato a scegliere tra questi due errori opposti o che le persone avessero tre nature numericamente distinte, o che, essendoci una sola natura singolare, le persone non fossero altro che attributi, qualità, rispetti della medesima. Abelardo, che disconoscendo la natura dell' universale, veniva in sostanza ad annullarlo altrettanto quanto Roscellino, per evitare l' errore condannato nel suo maestro, cadde nell' errore opposto, cioè nel sabellianismo (1) e fu condannato anch' egli dal concilio di Soissons nel 1121, e in quello di Sens nel 1140, come pure da Innocenzo II, ritrattandosi egli nell' una e nell' altra occasione, e abbruciando di propria mano la sua « Teologia cristiana » (2). Queste condanne abbatterono nella pubblica opinione il nominalismo di Roscellino, non meno che il concettualismo d' Abelardo, non solo per l' autorità da cui procedevano, ma perchè richiamavano l' attenzione alle conseguenze di tali sistemi. Il realismo puro non era men fecondo d' equivoci e di conseguenze erronee ed assurde, e Gilberto della Porretta fu condannato dal concilio di Reims del 114. per aver dedotta dal suo realismo l' erronea dottrina, che [...OMISSIS...] . Questa era conseguenza d' un sistema di realismo, che dell' essenza generica faceva una cosa reale distinta dall' individuo , e real causa del medesimo come appunto Aristotele fa della forma una causa reale della materia (2); nè questo solo però sarebbe bastato a poter dedurre quella conseguenza, se di più non fosse intervenuto nella mente di Gilberto un altro principio erroneo, quello che ci possa essere in Dio vera composizione, come accadrebbe se Dio fosse Dio per la sua forma, e non dipendesse dall' imperfezione del nostro concepire e del nostro favellare, il coniare dei vocaboli astratti: « divinità, deità », che rappresentano non Dio, ma la sua supposta forma universale (3). Ma sebbene il realismo puro sembri nel primo aspetto l' estremo opposto del nominalismo , tuttavia riesce in ultimo al medesimo: poichè l' uno e l' altro sistema annulla in sostanza l' ordine ideale (4): i nominalisti più schiettamente, dichiarando che le idee universali sono puri nomi; i concettualisti un po' meno, dichiarandole atti subiettivi del pensiero; i realisti puri finalmente coll' aria di difensori delle medesime idee, dicendo che sono reali; di che consegue, che anche per costoro rimangono in fatto i soli reali, le idee non più. Onde non senza acutezza e verità Abelardo nel concilio di Sens, dove fu condannato, rivolse, se è vero quel che narrano, a Gilberto Porretano, che l' impugnava, questo verso oraziano: [...OMISSIS...] . Tutte queste dottrine diverse erano sempre anche per innanzi venute in sul labbro dei maestri e sulla penna degli scrittori. Abbiamo veduto che il nominalismo stesso si trova nel germe in Boezio (1), e se ne trovano altre tracce nei dottori precedenti a Roscellino (2). Ma erano dottrine passeggere su cui non si fermava l' attenzione, di cui non si osservavano troppo le differenze, non si prevedevano le conseguenze, e si pronunciavano di corsa e involte in quell' indeterminato e in quel confuso, che ritiene le dottrine piuttosto in istato di feto, che di parto. Anzi anche quando i sistemi pel movimento dato al pensiero da Roscellino si separarono, essi non erano certo subito disegnati a precisione di contorni, ma tracciati alla grossa: e lo stesso realismo si divise in più scuole, nessuna delle quali andava priva delle sue nubi ed incertezze (3). Che anzi quando il realismo di Guglielmo de Champeaux, incalzato dalla inesorabile dialettica d' Abelardo, giunse fino agl' individui reali per la prima volta, allora nè pure s' accorse d' essere uscito dalla sfera delle idee, nella quale era racchiusa la questione, e confessando che gl' individui reali differivano d' essenza , non seppe distinguere tra l' essenza e la realizzazione dell' essenza , e però fu sospinto alla mostruosa sentenza, che l' essenza nella sua realizzazione , cioè l' individuo reale , fosse egli stesso, sotto un certo punto di vista, l' universale. Tutto questo per non essersi giammai distinto chiaramente e costantemente nè da Aristotele, nè da Boezio, nè dagli studiosi di tali autori fino al secolo XIII, le due forme primitive dell' essere , l' IDEALE e il REALE. Il realismo dunque prima dell' età di Roscellino esisteva solo e pacificamente, non come un sistema filosofico contrapposto al nominalismo , ma come un' opinione vagante, di cui non s' era trovata la formula. Tuttavia il realismo si conteneva nella sfera delle idee ; poichè non era venuto ancora a nessuno in mente lo strano pensiero che gli universali fossero le stesse realità individue . Ma l' equivoco, che giacea nella parola reale , lo conteneva in seme. La parola res non si prendeva come opposta a idea , ma come opposta a voce e a qualunque altra negazione d' esistenza. Quindi non c' era assurdo a dire che « gli universali fossero reali », intendendosi con ciò che non erano non esistenze, non erano nulla, non erano voci senza significato. Si dava dunque tanto agli enti sensibili e materiali, quanto alle idee, la realità , senza accorgersi che questa parola applicata ai primi e alle seconde mutava di significato: prendendosi, quando s' applicava alle idee, come un opposto di nulla , e quando s' applicava ai sensibili come un opposto d' idealità : la parola reale dunque, data egualmente ai sensibili e alle idee, impedì alla riflessione d' occuparsi seriamente nel rilevare la natura diversa ed opposta di quelli e di queste: gli uni e gli altri raccogliendosi in confuso sotto la denominazione comune di reali . In questa disposizione delle menti, trattandosi nelle scuole degli universali , si rimaneva bensì nella sfera delle idee , ma si poteva anche uscirne e trascorrere in quella delle sussistenze , senza pure avvedersene, senza avvedersi dello sdrucciolo che dava il pensiero. Il nominalismo ebbe appunto di qui l' origine. Videro alcuni ingegni dei più acuti che già incominciavano a pensare da sè, che l' universale era l' opposto dell' individuo singolare : essi non trovarono che ci potesse essere di reale altro che questo: conchiusero dunque che l' universale non esistesse, fosse un puro nome. Questa maniera di pensare e di parlare restringeva il significato della parola reale e in pari tempo lo determinava a un significato solo; il che fu un indubitabile vantaggio recato alla filosofia. Il realismo non si trovava preparato a questa battaglia, chè egli non conosceva la natura delle idee meglio che la conoscessero i nominali. Questi domandavano: « In che riponete voi la natura comune se non c' è nulla fuori degli individui? ». I realisti che si sollevavano ad una specie di platonismo, come Bernardo di Chartres, erano pochi, o piuttosto non ce n' era una scuola. Gli altri tutti, studiosi dell' aristotelismo, quali il poteano conoscere, accordavano che fuori dell' individuo non c' era nulla. Che rimanea dunque allora a rispondere? Non trovarono altro se non dire che « le essenze degli individui erano comuni, ma questi poi si dividevano per mezzo degli accidenti ». Venuti qui, non era più difficile a un dialettico potente come Abelardo cacciarli alle più stravaganti conseguenze che da quel principio veramente si derivavano. Dovettero dunque retrocedere, e confessarono che gli individui si distinguevano per le loro essenze. Ma così furono presi nell' equivoco della parola essenza ; poichè questa potea significare tanto l' essenza ideale , quanto l' essenza realizzata , equivoco che c' è in Aristotele di frequente. Confessando che gli individui si distinguevano per l' essenza , essi, con questo stesso prendevano la parola essenza in significato di essenza realizzata , e già con ciò si trovavano spinti, senz' accorgersi, fuori del territorio dell' idea . entro la quale si conteneva la questione. Dovettero allora giocare di sottigliezze per dimostrare che l' individuo reale era egli stesso universale , sia per la moltitudine , sia per la similitudine . Il realismo dunque delle idee, di cui si disputava, si cangiò in un realismo di sussistenze : appunto per l' equivoco della parola; e così si può dire che i realisti rimanessero a pieno sconfitti nel campo del ragionamento. Ma quella confusione che noi accennammo dei due significati del vocabolo reale , aveva cagionato pessime conseguenze, molto tempo prima che apparisse al mondo il nominalismo . Ella era nata, come abbiamo accennato, dalla mancanza d' una distinzione filosofica tra il sussistente , e l' ideale : ed ella stessa impediva col suo senso equivoco questa distinzione. Il realismo esisteva dunque prima di Roscellino e dominava pacificamente nei pensieri degli uomini dotti senza nome di sistema. Ma l' ammettersi che i generi e le specie sono dei reali , senza determinar di quale realità si parlasse, era al sommo pericoloso: non s' aveva altro esempio di realità che attirasse l' attenzione fuor di quella dei sussistenti e particolarmente dei corpi: anche ai generi ed alle specie davasi dunque con somma facilità questa realità che è in fatti il senso a cui fu poi ristretta questa parola. In una tale condizione delle menti era inevitabile che ogni qualvolta un pensiero potente s' occupasse della questione: dove dunque sono e che fanno nel mondo questi generi reali ? rovinasse in un baratro d' errori: vi era precipitato Aristotele ammettendo le specie eternamente congiunte colla materia. Aristotele di più diceva che niente esiste separato se non il singolare: l' universale dunque non poteva essere un reale , nel senso d' esistente, se non fosse nei singolari. Secondo questo concetto, il vocabolo reale aveva solo il significato di sussistente, poichè non c' era altra esistenza che quella dei sussistenti, che per vero sono i singolari. C' erano dunque tre sole vie per mantenere agli universali una realità di questa sorte, o che sussistessero in Dio, o che sussistessero da sè come altrettanti Dei, o che sussistessero negli individui creati. La sentenza di mezzo era un politeismo che non poteva essere facilmente abbracciato in secoli di fede cristiana. Rimanevano le altre due. Chi avesse collocati in Dio gli universali sarebbe venuto al platonismo: chi li avesse riposti negli individui creati avrebbe seguìto Aristotele. I realisti del secolo XII s' attennero a questo secondo partito, e ho accennato in una nota com' essi poi si divisero. Ma essi non ponevano mente che se questo poteva sembrar coerente in un sistema come quello d' Aristotele che ammetteva il mondo eterno, era inammissibile in un sistema, come il cristiano, che riconosce l' origine del mondo dalla creazione: poichè gli universali mostrano d' avere in se stessi una natura eterna. Questo ben videro i realisti anteriori di maggior polso, onde riposero gli universali in Dio ed anco nelle cose create. Evitando essi uno scoglio ruppero inavvedutamente in un altro, quello del panteismo . Poichè se gli universali sono in Dio come reali e sussistenti, non si possono più ricacciare l' uno dentro l' altro, (non essendo la realità suscettiva di questo involgimento), e così unificarli, nella quale unificazione solo si possono pensare esistenti in altro modo da quello in cui noi li pensiamo. Di poi , se questi reali e sussistenti sono quegli universali di cui partecipano le cose create, dunque anche queste sono composte della sostanza di Dio. Se avessero conosciuto che le idee hanno un altro modo di essere, opposto alla realtà dei sussistenti, avrebbero altresì conosciuto che il mondo è di un' altra natura diversa da quella delle idee ; perchè composto di sussistenti che sono realizzazioni delle idee , non idee. E in questo sistema soltanto è possibile una vera creazione che trae dal nulla il mondo reale. Ma se le idee s' unificano in Dio, e di esse in quanto sono reali partecipa il mondo, non ci può esser più che una cotal specie d' emanazione della divina sostanza. Io credo, coi più recenti critici (1), che Giovanni Scoto, il più grande pensatore del suo secolo, si possa benissimo purgare dalla taccia di panteismo; anzi le dichiarazioni ch' egli fa nella sua mirabile opera ch' è a noi pervenuta, sono una continua protesta contro il panteismo. E nondimeno un' opinione antica l' addita come il gran panteista del medio evo, precursore d' Amaury di Chartres e di David di Dinant, e quest' opinione è fondata in proposizioni che suonano un aperto panteismo, come queste: [...OMISSIS...] ; e somiglianti. Ora tali proposizioni conseguono necessariamente dal realismo delle idee. Se le idee, la specie e il genere sono realità, come si dicono reali le cose sussistenti, e, per esempio, le sensibili, in tal caso la realità del genere e della specie deve essere la stessa realità delle cose; perchè la realità non ha alcun altro mezzo di comunicarsi se non mettendo se stessa nelle cose: diventa così la materia di cui constano le cose. Ma tutte le idee si riducono all' essere che si chiama spesso anche da Aristotele il genere generalissimo: l' essere ancora secondo Aristotele è tutte le categorie e le categorie abbracciano tutte le specie e non hanno altra esistenza che negli individui: la loro esistenza dunque è la realità di questi. Dove si vede il realismo in Aristotele. Ma quando s' aggiunsero dottrine più elevate che non avesse Aristotele intorno a Dio, le idee reali ridotte all' essere reale erano con questa riduzione Dio stesso: perchè l' essere reale è certamente Dio. Se dunque le idee reali si riducono da una parte in Dio che è l' essere reale , e dall' altra sono nelle cose colla loro realità (non potendo esserci altramente, essendo reali), e però sono la materia delle cose (4): segue che Iddio sia la materia stessa di tutte le cose, che appunto è la proposizione di David di Dinant, chiamata insania da San Tommaso (1), e in fondo non punto lontana dalla proposizione dell' Eriugena che [...OMISSIS...] . Le idee reali dunque, l' universalissima massimamente, in cui tutte rientrano, l' essere reale essendo Dio (se rimane in questo sistema creazione , come pur vogliono i suoi fautori) (2), debbono esser creatrici del mondo . Ma poichè queste stesse idee sono nelle cose colla loro realità, di maniera che sono il fondo e la materia delle cose, quindi debbono essere anche create. Questo insegnava appunto il maestro di David di Dinant, Amaury di Chartres, cioè che [...OMISSIS...] . E questo richiama manifestamente la divisione della natura fatta più secoli prima dall' Eriugena per quattro differenze in quattro specie, la seconda delle quali specie di cose [...OMISSIS...] . Infatti, convien dire che le stesse ragioni delle cose che sono in Dio, siano create nelle cose, se (non distinguendosi il reale e subiettivo dall' ideale e obiettivo) si prendono le idee per cose reali , a quel modo che tali si dicono le cose sussistenti (5), onde ripete l' Eriugena assai di frequente: [...OMISSIS...] : il che potrebbe ricevere un senso immune da errore, qualora ciò che è nel Verbo s' intendesse d' un modo d' essere obiettivo , e ciò che è fuori di lui nel tempo s' intendesse d' un modo d' essere subiettivo , o estrasubiettivo ; e così non s' attribuisse alla natura stessa del Verbo la subiettività o l' estrasubiettività che costituisce la natura creata. Ma fatte le idee e le ragioni eterne reali, non si considerano veramente più come esemplare , da cui è totalmente distinta la copia: onde questa si confonde con quello; e non c' è più verso di distinguere quant' è mestieri la creatura dal Creatore, cioè di distinguerla per modo che la natura di questo rimanga di tutta sè ( ex toto ) diversa, e infinitamente separata dalla natura di quella. L' esperienza tuttavia e la storia della filosofia dimostrano, che c' è una somma difficoltà a distinguere e mantenere costantemente distinta nella mente la forma ideale ed obiettiva dell' essere, dalla forma reale , e ne somministrò recentemente prova quel facondo e immaginoso scrittore che diede a me biasimo e mala voce d' aver proposta e stabilita una tale distinzione, dettando tre volumi col titolo dei miei errori. Laonde con tutto lo zelo e la fidanza egli si pose di contro a me, quasi abbarrandomi il passo, e si dichiarò perfetto realista : incolpando gli stessi scolastici realisti, di non essere stati tali abbastanza, eccetto alcuni pochi (1). Ma pace a quell' anima ardente: e torniamo alla storia. Il realismo, quale si stava nelle menti ancora indeterminato e senz' abito sistematico, aveva prodotto quelle sentenze panteistiche, che s' incontrano nell' Eriugena, a malgrado del suo indubitato proposito di non uscire dalle dottrine della fede, e che non ci sono sole, ma mescolate con altre del tutto opposte al panteismo stesso. Tali sentenze non di meno non si potevano abolire fino a che non si fosse abbattuto il principio da cui derivavano; onde a quando a quando ricompariscono nelle scuole, come si vide più espressamente in Amaury, e in David, e in altri suoi discepoli. Che anzi, prima assai dell' Eriugena, ed oso dire sempre, risonò il panteismo in bocca di quelli che meno il volevano, inevitabile conseguenza del realismo puro, cioè del concepirsi le idee siccome cose reali . Onde all' Eriugena parve d' assicurarsi sull' ortodossia della dottrina, appoggiandosi a quelle espressioni che ricorrono negli stessi Padri più rispettabili della Chiesa, come in un S. Basilio, che scrive: [...OMISSIS...] , nelle opere attribuite a S. Dionigi Areopagita e dall' Eriugena per la prima volta latinizzate, in cui si legge: [...OMISSIS...] ; in S. Massimo monaco, che non dubita pronunciare: [...OMISSIS...] , ed altre consimili. Ma qui è d' uopo distinguere un doppio ciclo dell' umana intelligenza, cioè quello del lume naturale , e quello del lume soprannaturale . I filosofi razionalisti non possono riconoscerne la differenza: ai loro occhi il lume soprannaturale è un lume falso, altro non è che l' effetto d' una esaltazione naturale dell' immaginazione. Nella dottrina all' incontro del cristianesimo quei due lumi e quei due cicli d' intelligenza sono profondamente distinti, e in pari tempo armonicamente uniti, e questa distinzione medesima ha per suo fondamento quella delle due forme, l' ideale e la reale , dell' essere. Il solo cristianesimo scoprì e produsse questo quasi doppio orbe scientifico, se pure scientifico si può chiamare il soprannaturale. Ma si dà almeno una scienza di lui. Mediante questa rivelazione, noi possiamo definire qual sia la cognizione naturale di Dio, e quale la cognizione soprannaturale; la prima « è quella cognizione di Dio che l' uomo ha mediante le idee », la seconda « è quella cognizione di Dio che l' uomo ha per una percezione intellettiva di Dio stesso »: in questa s' apprende la realità divina, non già colla immaginazione ma colla pura ed essenziale intelligenza. Questo l' uomo non può fare da sè: conviene al tutto che Iddio comunichi se stesso: e lo fece prima e ineffabilmente in Cristo, Verbo di Dio incarnato, poi, e certo in un altro modo, in molti altri uomini per Cristo ed in Cristo. Nondimeno l' uomo, impotente a percepire da se stesso la realità di Dio, capace soltanto di conoscerlo idealmente e negativamente , può sentire il vuoto e la negazione intrinseca di questa sua cognizione naturale, e può anche cadere nell' inganno, dandosi a credere di poter coi suoi propri sforzi giungere a riempire quest' ammanco della sua cognizione, raggiungendo Dio stesso nella sua reale sostanza. E a tal fine, non soccorrendolo l' intendimento naturale, che non eccede la sfera delle idee, egli mette in movimento la sua immaginazione e il suo sentimento: e così pel vano sforzo, nasce l' agitazione e l' esaltazione contro natura e compariscono i falsi mistici, gli Yoga e i Buddha, i filosofi teurgici; Maometto, i sufi, Gazali e i suoi seguaci, e via via fino a Giacomo B”hme, che tanto prolificò in Germania, terreno troppo adatto a tali stravaganze e ben preparatovi dal protestantesimo. Qui il falso misticismo s' infiltrò più che altrove nella filosofia, e non poco contribuì alla produzione degli ultimi sistemi di quella per altro dottissima nazione (1). A tutti costoro mancando la materia intorno a cui pretendono lavorare col loro pensiero, cioè la realità di Dio , devono necessariamente tessere con fili immaginari, e quindi cadere nei più strani errori: talora sono obbligati di conchiudere che Iddio è il nulla, e ciò quando s' avvedono di nulla stringere per quanto si sforzino; talora poi compongono Iddio di tutti gli enti naturali, o fattili rientrare in una oscura potenzialità, alla grossa sincretizzati. Per tutti costoro il panteismo non suol essere tanto la causa, quanto l' effetto del loro misticismo. Ad ogni modo anche questi sono sempre perfetti realisti , nel senso che conferiscono alle idee una realità di sussistenza . Non si trovano certamente costoro nell' ordine soprannaturale , ma vogliono prendere il soprannaturale d' assalto colle forze del pensiero naturale, il che è impresa non solo temeraria, ma assurda. Ma se ci trasportiamo veramente in quell' ordine divino e soprannaturale che ci ha rivelato e apportato il cristianesimo, nel quale troviamo i veri mistici, in tal caso, ci si fanno incontro di quegli uomini che ci parlano della realità di Dio, per averne un' interiore esperienza. Il loro linguaggio tuttavia non si può intendere nè si può interpretare se non da altri che abbiano fatto in sè l' esperienza medesima. Onde questa è scienza chiusa e segreta. Conviene che noi lo diciamo, sebbene ci sia noto che una simile sentenza turbi non leggermente i savi del mondo. Volevo dunque osservare che molte di quelle espressioni che in bocca dei filosofi naturali suonano panteismo, nel ciclo della dottrina soprannaturale, che riguarda la realità di Dio e l' unione intima di questa colla realità umana, ricevono un significato vero e non punto panteistico, perchè si riferiscono a un oggetto diverso da quello a cui le riferisce, e a cui solo può riferirle, il filosofo naturale. Laonde tali sentenze s' incontrano nei sacri libri, e nei Padri, e in ogni pio scrittore, e soprattutto nei più celebri mistici della scuola cristiana cattolica tedesca del secolo XIV, voglio dire d' Enrico Susone, di Giovanni Taulero, di Giovanni Ruysbrock (1), i quali assai volte imitano i concetti e le espressioni stesse dell' Eriugena. Non intendo certamente dire, che tutte le espressioni di cotesti scrittori siano rigorosamente teologiche: soltanto voglio osservare, ch' essi non parlano di pure idee , ma di sentimenti reali che nelle anime intellettive si eccitano da una causa soprannaturale, che è Dio stesso, essere realissimo, che immediatamente e graziosamente presenta se stesso alla sua creatura senza confondersi con essa. Laonde quand' anco costoro diano una certa realità alle idee, non si può inferire da questo, che professino il realismo filosofico, ma il realismo mistico e soprannaturale, che è tutt' altro (2). E che sia tutt' altro si vede ancora da questo, che la realità mistica non si predica delle cose create, se non, quasi per una comunicazione d' idiomi, dell' anima umana in istato soprannaturale, come quando si dice che i giusti sono luce, aggiungendosi: « nel Signore », laddove il realismo filosofico si predica, da quelli che lo professano, di tutti gli enti finiti. Il falso misticismo si trasforma facilmente in un realismo filosofico: il realismo filosofico degenera in un falso misticismo. La differenza sta nella forma, affettando il misticismo sconnessione e disordine di esposizione; la filosofia all' incontro vestendo le stesse immaginazioni d' una scrupolosa regolarità e d' una deduzione metodica. Giacomo B”hme e Giorgio Hegel (3) presentano queste due forme; come presso gli Arabi le presentarono Gazali (Algazel) (n. 105., m. 1111) e Ibn7Roschd (Averroè) (n. 1126, m. 119.): tutti realisti nel significato di cui parliamo. Ma per vedere come il realismo arabico s' infiltrasse nelle scuole cristiane e vi si rendesse fonte di gravissimi errori, conviene che risaliamo più alto. Teniamo distinto il realismo impropriamente detto, dal realismo di cui parliamo. Il primo sta nella sentenza di quelli, che quando dicono: « le idee sono reali », altro non intendono se non che le idee « non sono un nulla ». A questo modo siamo realisti anche noi, con Alberto Magno, con S. Tommaso e coi migliori dottori che mai fossero, e che il Gioberti chiama semirealisti . Noi crediamo che tanto la denominazione di realisti , quanto quella di semirealisti , applicata al sistema di questi valentuomini, sia impropria ed equivoca. Il secondo è il sistema di quelli che dicendo reali le idee, intendono d' una realità attiva , come quella delle cose sussistenti nell' universo: questo è quel realismo, dal quale trassero origine errori innumerevoli e mostruosissimi. La parola realità non definita, non distinta coll' opposizione dell' idealità fa sì che l' umana mente sdruccioli da quella in questa, quasi per un suo proprio peso, confondendo due entità infinitamente distinte. E nel vero, ciò a cui dapprima si volge naturalmente l' attenzione umana, sono gl' individui reali e sensibili componenti il mondo. Quando la mente s' innalza a Dio, spintavi o dal magistero tradizionale, o da una sua propria argomentazione o contemplazione, trova ancora un ente reale, il cui termine esterno è il mondo. Fin qui tutto è realità nel pensiero: non già ch' esso non abbia o non faccia uso d' idee: ne ha per certo, e ne usa: ma elle sono in esso come un mezzo di pensare, non ancora come oggetto dell' attenzione e della riflessione, perciò inosservate: ci sono come non ci fossero pel ragionamento riflesso: le idee in questo stato non entrano nel calcolo, non fanno parte della scienza (1). Viene più tardi il tempo in cui la riflessione speculativa s' affissa sulle stesse idee: e in questo momento nasce la filosofia: mille problemi si presentano allo spirito: la loro diversa soluzione fa comparire una molteplicità di sistemi. Ma quello a cui lo spirito umano può difficilmente e dopo più lungo tempo pervenire, si è a risolversi che le idee abbiano una maniera di essere tutta loro propria, interamente diversa da quella delle cose reali. Non arrivandosi a questo colla mente che già specula e non sa contenersi, o si negano a dirittura le idee, e nasce il sensismo , il nominalismo , lo scetticismo ; o si cade in quel realismo , di cui noi stiamo dimostrando le assurde conseguenze. Il qual realismo nelle menti acute vacilla incoerente con se medesimo: nelle meno perspicaci procede più franco e quasi sicuro di se stesso. La sapienza orientale, che ricevette la prima una forma filosofica, non potè mai uscire da un realismo di questa natura e giungere alle idee pure , che appartengono certamente agl' ingegni italici e greci. Perciò l' oriente apparve sempre la terra nativa del panteismo; e di qui l' ebbero i greci per mezzo degli orfici e d' altri poeti mitici prima del nascimento della filosofia; c' era Iddio in tutta quanta la natura, anima e vita di questa. Dalla vita della natura Anassagora separò la parte intellettiva e pronunciò quella memoranda sentenza, che « la mente non poteva avere mistura di sorta alcuna »ma con questo non si separava ancora l' oggettivo , che per l' uomo sono le idee, dal soggettivo , che è la potenza e l' atto d' intendere. Platone fu il primo, per quanto pare, che, avuto l' indirizzo da Socrate, pose nella serena quiete della sua mente, ferma attenzione all' oggetto per sè, cioè al mondo ideale: e senz' uscirne, dall' idea, mirò e vide in essa i caratteri divini dell' eternità, della necessità ed altri tali. Ma seppe Platone evitare totalmente il realismo? Il realismo, dico, nel senso che noi riproviamo, nel senso di quel sistema che attribuisce alle idee un' esistenza subiettiva ed attiva , come quella delle cose mondiali? Circa la quale questione, per quanto pare a noi, si suol prendere errore anche dai più dotti commentatori ed espositori. Il Tennemann sostiene che le idee di Platone sono pure nozioni della mente, fuori della quale non esistano (1). Questo ancora non basta ad assicurarci che Platone non dia alle idee una propria realità , non potendosi decidere una tale questione, senza sapere in che modo esse siano nella mente. Può intendersi che ci siano come atti della mente, e in tal caso non esistono più le idee che di nome, poichè gli atti della mente, la cui esistenza nemmeno il nominalismo ha mai negata, sono tutto altro che le idee; pure sono reali. Può intendersi che esistano nella mente come oggetti in opposizione al principio d' intendere subiettivo: e qui solo trova luogo la questione: « se questi oggetti siano reali o ideali ». Se si risponde che sono reali , è ancora a domandarsi di qual mente si parli, della divina o dell' umana. Poichè se si parla della divina, l' oggetto del suo conoscere non può essere che realissimo, altro esso non essendo che la stessa divina essenza, o ciò che nella divina essenza Iddio liberamente distingue senza porre in essa alcuna distinzione: e questo realismo è verissimo, ma non è punto quello della questione agitata tra i nominali e i realisti : perchè questa controversia riguardò le specie e i generi, ossia le idee che sono oggetti della mente umana secondo il modo proprio della sua intuizione, e non secondo quel modo tutto diverso con cui conosce Iddio. Rimane certamente qualche oscurità nella dottrina di Platone, quale risulta dalle opere che di lui ci rimangono e dalle indicazioni che ce ne dà Aristotele; ma pare tuttavia indubitato che le idee proprie dell' uomo per Platone siano produzioni di Dio e non qualche cosa d' essenziale a Dio stesso (2): siano cioè la prima produzione, il disegno, l' esemplare del mondo, come la mente nostra lo può concepire. Ora la natura d' esemplare , «paradeigma» (1), che Aristotele schernisce come una vana metafora poetica (2) è pure la parola solenne che esclude il realismo , perchè per essa s' intendono chiaramente contrapposte le cose reali alle idee , onde queste, secondo la teoria dell' esemplare, sono categoricamente diverse e anteriori logicamente alla realità di quelle. Goffredo Stallbaum si oppone al Tennemann, scrivendo: [...OMISSIS...] ; e dà alle idee di Platone una forza produttrice. Questa maniera di concepire le idee di Platone viene ad attribuire a questo filosofo due sistemi di realismo ad un tempo: 1 quello che cangia le idee in principŒ subiettivi ed attivi ; 2 quello che colloca le idee nelle cose reali come loro forme o atti. E questo secondo sistema è in parte quello d' Aristotele, come vedremo. Qualora dunque collo Stallbaum si dovesse assegnare alle idee , quali sono vedute dall' uomo, quest' attività di produzione, e non la semplice natura di luce, d' intelligibile, d' esemplare, converrebbe certo classificare Platone tra i realisti : ma questo ripugna, come osservavamo, al concetto di paradigma costantemente da Platone mantenuto nelle sue idee. E` sempre Iddio, il «demiurgos», che opera in Platone: le idee sono la sua produzione, e riguardando in queste, come in esemplare, Egli crea la realità del mondo . Questa maniera di concepire, indubitatamente platonica, è aliena affatto dal realismo , le idee non vi compariscono che come norme del divino operare, oggetti conoscibili e possibili, non reali. Gli altri luoghi, dove sembra che Platone dia alle idee una loro propria attività, si devono intendere con cautela e conciliare colla sua dottrina fondamentale e indubitata: le idee operano solo in quanto Iddio opera per esse: l' attività si rifonde tutta in Dio. Ma se le idee si considerano in Dio, non quali sono nell' uomo e all' uomo appariscono, ma quali sono veramente in Dio, certo che hanno l' attività di causa, perchè si riducono necessariamente nel Verbo divino, e con questo riducimento cessano d' essere pure idee. A tal concetto pare che in alcuni luoghi s' elevi Platone, o almeno così fu inteso dai platonici nei tempi cristiani e da alcuni padri della chiesa. Del pari non crediamo potersi attribuire a Platone il secondo sistema di realismo , quello che fa esistere le idee nelle cose reali: le idee esistono fuori del tempo, molte delle cose reali soggiacciono al tempo. Tant' è lungi che secondo Platone le cose reali abbiano le idee in sè, ch' esse non ne sono altro se non imitazioni, e però servono alle menti di segni delle idee, perchè ne sono il realizzamento. Quanto poi alla partecipazione che le cose hanno delle idee, questa ha luogo solo nella mente umana , a cui è data la contemplazione delle idee stesse: e nella nostra mente le realità sensibili certo si copulano a quelle essenze eterne che le rendono conoscibili. Onde crediamo che Platone il primo e il solo abbia scosso dalla filosofia il pernicioso realismo dei suoi predecessori ed abbia conosciuta la singolar natura delle idee (1). Era impossibile che Aristotele, avendo udito per vent' anni Platone, non ne ritraesse nulla della nuova e sublime dottrina delle idee. Ritenne le idee immateriali, ma in molte maniere le realizzò, abbandonandone la parola, e sostituendo quelle di forma e di specie . Le realizzò primieramente confondendo l' oggetto , che solo appartiene alle idee, col subietto intelligente , ponendo che tutto quello che fosse senza materia dovesse essere ad un tempo e intelligibile e intelligente. Tale è il Dio d' Aristotele, tale anche la mente umana. L' oggetto non è per lui qualche cosa che involga un' assoluta esistenza contrapposta al subietto umano. Ora l' intelligente appartiene all' esistenza subiettiva e reale: quest' è dunque un sistema di realismo. Tuttavia egli descrive Iddio come una pura causa finale non attiva, ma solo intelligibile ed appetibile: il che dimostra che il concetto dell' intelligibile platonico aveva lasciato una profonda impressione nell' animo suo. A questo primo sistema di realismo in Aristotele se ne congiunge un altro. Poichè le specie mondiali sussistono ab aeterno reali negli enti reali del mondo, possono essere separate dalla materia soltanto per opera del pensiero; ma anche nel pensiero umano sono attive, come sono attive nella natura. In realtà nella natura costituiscono insieme colla materia quella causa efficiente che Aristotele chiama appunto natura , e nel pensiero costituiscono quella causa efficiente che Aristotele chiama arte . Le idee dunque per Aristotele sono principŒ attivi e non già puri oggetti intelligibili; perciò veramente reali. Che anzi egli fa della sua forma un sinonimo di atto . Tali sono le viste diverse e i principŒ (dai quali svolgendosi, o separati o confusi insieme, come per lo più è avvenuto, uscirono le diverse dottrine che apparvero intorno alle idee e dominarono nelle scuole da Aristotele fino a noi) quali ora riassumeremo ed enumereremo così: 1 il realismo orientale e orfico , che non distingue, dal mondo ideale, Iddio, ma fa la divina mente vita dell' universo; 2 l' esemplarismo di Platone, che evita ad un tempo il realismo, il nominalismo e il concettualismo; 3 il realismo aristotelico , che si parte in due proposizioni, ciascuna delle quali, prese a parte, costituisce da sè un sistema di vero realismo, e sono: a ) l' intelligibile in atto è identico all' intelligente, qualunque sia, in atto, e però l' intelligibile è un reale ; b ) le forme o specie esistono nella natura come atti nella materia , e nella mente umana come atti puri da materia , ma, nell' una e nell' altra esistenza, sono principŒ e cause attive (natura ed arte), e perciò reali. Il nominalismo e il concettualismo delle scuole ebbero il loro germe nello stesso realismo aristotelico . La prima proposizione del realismo aristotelico contiene il germe del nominalismo : la seconda quello del concettualismo , che è anch' egli una specie di nominalismo. Coloro che posero mente alla proposizione che « i generi e le specie non esistono che nella natura, cioè negli individui reali », conchiusero a ragione che dunque gli universali non esistono: sono puri nomi. Coloro la cui attenzione fu più colpita dalla prima proposizione che « le specie sono nelle menti come puri atti », conchiusero a ragione che gli universali non esistono in sè: sono puri concetti subiettivi e individuali anch' essi. Era sommamente difficile ad intendersi e a mantenersi in tutta la sua purità il sistema di Platone dell' esemplarismo : Aristotele stesso, io credo, non l' aveva bene inteso: dopo di lui, nel decadimento della filosofia, molto meno un così sottile concetto potè cogliersi dalle menti. I neoplatonici e gli alessandrini (1) bevevano grosso: tutta la fatica ch' aveva durata Platone per separare i prodotti dell' immaginazione dagli oggetti della pura intelligenza, e per distinguere ciò che andava confuso nelle dottrine filosofiche precedenti, si perdette per essi interamente: essi con pieno sincretismo rimpastarono in uno il panteismo ed il misticismo orientale e orfico, e il pitagoreismo, e il platonismo: tornò dunque a galla il realismo puro, confuso, cieco, senza contrasto, senza che nè pure si movesse nelle menti il sospetto che l' esemplarismo , di cui si riteneva il linguaggio, fosse qualche cosa di contraddittorio appunto a quel realismo che si professava. E veramente, sconosciuta la forza e il valore di questo concetto dell' esemplarità , che contiene anche quello dell' intelligibilità delle idee, il carattere che distingue la filosofia platonica da ogni altra non si vede più, e però non rimane più difficoltà a confonderlo da una parte colle contemplazioni orientali, dall' altra colle speculazioni aristoteliche. Di qui ancora venne quella sentenza così frequente in Cicerone, che gli antichi accademici e gli antichi peripatetici, d' accordo nelle cose, differissero solo nelle parole (3). Il vero carattere dunque, che rende unica da tutte le altre la filosofia di Platone, non fu ereditato dai suoi successori, e ben presto non si seppe più vedere. Il realismo dunque, distinto nei vari modi di concepirlo, ebbe libero il campo: esso regnava ugualmente nel preteso platonismo di Filone, che fu uno dei primi tra gli alessandrini, nella Cabala di Akibha e di Simeone Ben7Jochai, nei nuovi pitagorici, negli gnostici: tutti più o meno entusiasti o panteisti. Nessun filosofo di queste scuole si dava cura di rendere a se stesso o agli altri un conto accurato delle proprie idee: anzi nell' oscurità misteriosa delle loro locuzioni si piacevano d' involgere una pretesa sapienza indefinibile (4). Quelli dunque, che rifuggivano dalle cognizioni confuse e bramavano di pervenire a cognizioni chiare e distinte, inclinavano a buttarsi nello scetticismo: e questo nella bocca d' Enesidemo e di Sesto aveva un gran vantaggio dialettico a fronte di tali avversari. Onde non è maraviglia se gli scettici di questi tempi sembrano più acuti dei loro avversari, più dialettici, e abbiano conseguito una momentanea prevalenza. Ammonio Sacca, da cui prese la scuola profana d' Alessandria un nuovo vigore dopo la fine del secondo secolo, pretendeva di fondere Platone ed Aristotele insieme, come i suoi predecessori: la serie dei filosofi che ne uscì, specialmente Porfirio, Jamblico, Proclo, non dubitarono più che i due maggiori filosofi professassero una stessa filosofia: il solo Plotino si può considerare come un ingegno a parte, che pur sentì l' influenza del secolo, come vedesi dall' imperfezione del suo stile. Veramente questo era un darla vinta ad Aristotele, poichè quello che si sacrificava, senz' accorgersi, alla pretesa conciliazione dei due filosofi, era tutto ciò che Platone aveva di proprio e di eccellente, cioè la dottrina non più intesa delle idee, delle idee dico, quali si presentano alla mente nostra come eterne conoscibilità delle cose : e con ragione fu osservato che questa prevalenza d' Aristotele spiega l' origine della dottrina, tutta aristotelica, degli Arabi. [...OMISSIS...] Perdutasi quindi interamente la chiave dell' esemplarismo di Platone, il solo realismo era restato padrone del campo: e se si nominavano a quando a quando le idee, era un nome vano; chè non se ne intendeva punto la natura. Il realismo poi, lo vedemmo, ora cercava la sua base nella divinità, realità prima emanatrice di tutte le altre di cui si compone il mondo, e se n' aveva il panteismo , il misticismo , il quietismo , il teurgismo ; ora la cercava e credeva di trovarla nelle realità sensibili dello stesso universo, e se n' aveva il naturalismo , il razionalismo , il sensismo , il soggettivismo , il materialismo , e quando più tardi si osservò che di tutte queste realità niuna poteva essere universale , si trasse la naturale conseguenza della negazione degli universali, sentenza che prese le due forme e i due nomi di nominalismo e di concettualismo . Schernitore acuto di tante aberrazioni e di tante stravaganze era nato da sè, e s' era messo di contro a tutti, lo scetticismo . Una filosofia maestra di tanti errori non poteva condurre avanti il suo corso senza che venisse ad urtare, e in fine a rompersi, da una parte contro il cristianesimo, dall' altra contro l' islamismo che riteneva una parte di verità dal primo ond' era uscito. Giustiniano dunque nel 529 fece chiudere le scuole pagane di Atene; nè valse che i filosofi, dopo quattr' anni, dalla Persia dove s' erano rifugiati, potessero ritornare; chè nella luce già diffusa del cristianesimo non poteva più essere ben accolto un magistero così imperfetto: la filosofia pagana dunque, confusa da se stessa, ammutì. Pure al mondo cristiano la pagana filosofia lasciava una eredità, ma sporca. A nettarla dai pesi degli errori, ponevano già da molto tempo ogni lor cura gli scrittori ecclesiastici. Ma questo gran lavoro fu storpiato dalla violenza dei barbari, che coll' impero romano sconvolsero dai fondamenti la società e vi distrussero la civiltà, senza nondimeno poterne sterpare le radici custodite dal cristianesimo, vincitore e maestro paziente dei barbari stessi. Il lavoro cristiano dunque nei primi tempi si limitò, quasi direi, a combattere le erronee conseguenze, che propagginavano dalle antiche filosofie e dalla loro degenerazione: ma non ci fu campo, nè tranquillità sufficiente a richiamare in esame i primi principŒ e a ricostruire dal suolo una filosofia degna del Vangelo. Quindi l' esemplarità delle idee si tenne, quanto bastava a spiegare la divina sapienza e la creazione senza renderla fondamento d' un sistema filosofico (1). Il realismo dunque, che formava il vizio radicale delle ultime scuole filosofiche, rimase fitto e appiattato nel comune insegnamento, senza però che osasse metter fuori le unghie: nè ci fu alcuno degli ultimi filosofi cattolici, nè Boezio, nè Cassiodoro, nè Beda che lo scoprisse e che gettasse pure un sospetto sopra le sue conseguenze. Di che non deve cagionar maraviglia se in progresso di tempo e a quando a quando, uscissero da quel realismo medesimo che s' ammetteva a fidanza, illazioni inaspettate ed eterodosse. Queste certamente si guerreggiavano tosto dal sentimento cattolico, e si recidevano dall' autorità, come accadde a quelle che ne dedusse nel IX secolo l' Eriugena (1), ma più ancora i pretesi suoi discepoli del secolo XII e XIII Amaury e David. L' islamismo non trovava in sè quella forza logica e morale che ha il cristianesimo, e però non poteva difendersi con egual polso contro le conseguenze del realismo aristotelico . Anzi non poteva difendersi punto con armi dialettiche dalla corruzione e dal veleno di quel realismo. Non gli restava altro scampo che di combatterlo con la forza bruta, di cui trovavasi ben armato. Non ragionò dunque, ma distrusse a ferro e a fuoco la stessa filosofia; e Averroé che tirò dal realismo d' Aristotele le ultime conseguenze di razionalismo e di naturalismo puro, fu, si può dire, anche l' ultimo filosofo presso gli arabi (2). Il cristianesimo non ha paura di sorta della filosofia: egli dunque non la distrugge, e anzi ne promove e ne incoraggia lo studio; ma in pari tempo con una continua vigilanza combatte acremente e legittimamente gli errori, e li corregge, giovando con questo incredibilmente alla filosofia stessa. Tuttavia gli errori sono tenaci: lo spirito d' empietà, immortale quanto il genere umano sopra la terra, se ne impossessa e vive di essi, difendendoli a morte come la sua propria vita. Poichè la prima, la perpetua e più profonda divisione del genere umano sulla terra, è indubbiamente quella delle due società, di cui fa menzione il « Genesi » (3); e ogni qualvolta comparisce nel mondo una filosofia imperfetta, o avente qualche indeterminazione o qualche incoerenza, o, quello che è sempre inevitabile, circondata, agli occhi di molti, d' oscurità e di difficoltà, tosto ella si biparte in due, e si differenzia per la contraria interpretazione e per la piega diversa che le danno quelle due società che a gara se ne vogliono impadronire. Il che è quanto dire, che l' abuso si mette sempre al fianco dell' uso. La scissura del genere umano s' imprime dunque e si riflette nelle filosofie, e principalmente in quella che in un dato tempo è più autorevole e più acclamata, la quale così si fa segno di speciale discordia e oggetto e materia della lotta più di tutte ostinata. Il che viene confermato dalla storia del platonismo non meno che da quella dell' aristotelismo. Nelle considerazioni storiche fatte da noi fin qui, vediamo l' aristotelismo abbracciato e tirato a sè dalle due parti. Di qua la dottrina d' Aristotele insegnata e proclamata altamente come un aiuto naturale e un sostegno del cristianesimo: di costà essa medesima pure divenuta un' arma possente nelle mani dell' empietà, con cui questa tenta niente meno che l' intera distruzione del cristianesimo e d' ogni altra religione, e lo stabilimento del materialismo e dell' ateismo più consummato. Appresso gli arabi erano ricomparse le due fasi opposte del realismo che non mancano mai nella storia della filosofia: voglio dire il realismo panteista e mistico (1); e il realismo naturalista . Quando la filosofia araba comparve nella cristianità, l' uno e l' altro errore vi fu combattuto, e se rimase tuttavia il realismo delle idee, sotto questa parola equivoca s' intese dai più sani che le idee erano qualche cosa, non puri nomi. In questa lotta, il primo errore cioè il mistico e panteistico, fu del tutto vinto e dovette nascondersi per fare soltanto delle uscite momentanee: poichè, appena si affermava, veniva compresso. Quando l' errore si presenta sotto forma di religione, il cattolicismo colla stessa coscienza di sè lo ripudia. Nel cattolicismo cammina la ragione a lato della fede; due lumi che non vi possono essere nè confusi, nè disgiunti. Il razionalismo e il naturalismo all' incontro , non presentandosi con la forma d' una religione, e però non domandando, per esistere, d' occupare il luogo del cristianesimo, potevano mantenere per qualche tempo una propria esistenza, dissimulando la propria opposizione alla dottrina cristiana. Questa la ragione, per cui l' averroismo infiltrato nelle scuole lungamente vi si mantenne (1), talora coperto, talora pigliando sicurità e denudandosi; quando sterile tronco, e quando col seguito delle sue ultime conseguenze, ora senza schermi ed ora schermendosi con ridicole ed insolenti distinzioni, qual fu quella celeberrima della doppia verità, la filosofia e la teologia. L' aristotelismo fu dunque condannato da prima nel 1209, poi nel 1215 e 1231; vi fu condannato, come l' avevano esposto gli arabi, insieme col panteismo di David e d' altri nominati nella sentenza del concilio di Parigi pubblicata dal Marlene (2). Il realismo aristotelico consisteva nell' aver dato alle specie ed ai generi, cioè alle idee delle cose mondiali, una esistenza nelle stesse cose reali . Essendo le idee cosa divina e ponendosi esse come forme reali delle cose, si faceva manifestamente Iddio forma reale degli enti mondiali. Ora gli enti tutt' intieri si riducono alla forma, perchè la forma, causa della materia, è quella che li fa essere, e dalla forma si denominano. Se questo sistema, riguardato da una delle sue facce, è una specie di panteismo, riguardato dall' altra, è naturalismo e ateismo. Quanto tenacemente si abbarbichi negli animi e nelle menti cotesto realismo che, portando il suo frutto, si converte in un sistema d' empietà bifronte, lo dimostra, oltre le ripetute condanne frequenti, la dura lotta che gli scrittori più eminenti, cominciando da Guglielmo d' Auvergne e discendendo fino a quelli del secolo XVI, sostennero per abbatterlo; e le rovine che tuttavia egli andò menando, combattuto, non mai pienamente estinto. Che più? Se noi stessi, nel tempo nostro, altro non facciamo che combattere lo stesso nemico sullo stesso campo? L' averroismo , figliuolo, per generazione logica, dell' aristotelismo, diede al mondo la formula della più mostruosa empietà: ognuno intende che alludiamo alla bestemmia dei tre impostori . L' empietà sbocciata da questo fonte aristotelico ed arabico comparisce sotto forme volgari e religiose nel gioachinismo, nell' evangelio eterno, nei catari, beguardi, lollardi, bizzocchi, fraticelli, poveri di Lione, ecc., che cotanto commossero la società nel secolo XIII; e si dovettero frenare e comprimere colla forza scientifica specialmente nell' università di Parigi; e si dovette con autorevoli decisioni ecclesiastiche degli anni 1240, 1269, 1277 condannare, quand' esso si proponeva nelle tesi le più strane e le più empie, e che pure si riprodussero per molto tempo ancora (1). Sventuratamente la casa degli Hohenstaufen divenne il centro di tutta questa empietà e dell' immoralità che ne era e ne doveva essere causa ed effetto (2); la filosofia araba nella sua forma più bassa, materiale e dissoluta, annidatasi in quella corte, e ivi protetta da Federico e da Manfredi, corruppe tutto il secolo XIII, che fu pure maestro all' empietà del XIV, nè la tradizione d' empietà e d' incredulità s' interruppe più mai, e la esplosione terribile ch' ella fece nel secolo XVIII, indica troppo bene lo stesso fuoco vulcanico che coperto in parte da ceneri e da rovine, ci fa ancora sotto le piante traballare ed ardere il suolo (3). L' averroismo purtroppo corruppe specialmente la filosofia in Italia: entrato nell' università di Padova per opera di Pietro d' Abano (n. 1250, m. 1317) e cresciutovi d' autorità per opera di Gaetano Tiene (n. 13.3, m. 1465) vi durò fino al Cremonini (m. 1641), cioè più di trecento anni. E questa non fu la minore delle deplorabili calamità a cui questa nazione soggiacque. Lo stesso studio incessante d' interpretare benignamente Aristotele ed Averroè, e di confutarne gli errori, contribuì non poco a mantenere più a lungo nelle cattedre autori, i cui principŒ erano prolifici delle più perniciose dottrine: si credeva renderli innocui con interpretazioni stiracchiate o false, o con confutazioni che non distruggevano ciò che quegli errori contenevano di seducente. Coloro a cui basti la perspicacia per rannodare le conseguenze più remote ai principŒ e gli effetti alle cause, dopo aver profondamente meditato sulle sciagure italiane, non crederanno esagerazione il conchiudere che l' erronea filosofia introdottavi e pertinacemente mantenutavi, c' entra molto da per tutto. Le sciagure morali, checchè ne dicano i vani e belli spiriti, cagionano tutte le altre. E tutte le altre dell' ordine morale furono indubbiamente scosse e guaste dal realismo aristotelico e averroistico, che trovò tant' altre cause a lui affini con cui associarsi. Queste parti integranti dell' ordine e dello stato morale della società sono: 1 la religione ; e l' averroismo introdusse in varie parti d' Italia una scientifica incredulità, incominciando da quei medici atei che tentarono d' attirare al loro materialismo il Petrarca (1), e più sù ancora (2) e più giù fino al Vanini (3); 2 il costume ; e l' averroismo ci dà gli epicurei di Firenze del secolo XIV coi loro successori (1); 3 la politica ; e dalla stessa filosofia aristotelica, sorse il macchiavellismo (2), che fa perdere affatto agl' Italiani la traccia della vera politica; 4 il diritto politico ecclesiastico ; e sotto il regno dello stesso sistema filosofico, esso degenera in una guerra appassionata che si fa alla Chiesa da Arnaldo da Brescia (m. 1155) fino a Fra Paolo (m. 1623), tanta parte del decadimento di Venezia, cioè dello stato meglio ordinato che avesse l' Italia; 5 la letteratura ; e si rimane sudicia e snervata dalla scostumatezza nei suoi stessi esordi, come specchio che doveva essere della società italica e fiorentina del secolo XIV, cioè d' una società travagliata dalle quattro piaghe indicate. Tale è l' eredità ricca di guai che l' Italia raccolse dal realismo aristotelico e arabico, tenuto da essa, per sua sciagura, più tenacemente di tutte le altre nazioni (3). Certo nelle bocche del Cesalpini (m. 1603) e del Cremonini (m. 1641), che vanno contati tra gli ultimi rappresentanti dell' aristotelismo in Italia, il principio del realismo aristotelico suona così fresco e così spiccato come se fosse un trovato pur d' allora: le forme delle cose si riducono in Dio che n' è principio, causa formale egli stesso del mondo (4). Le conseguenze si possono negare, dissimulare, impugnare, ma brulicheranno tuttavia nelle menti che avranno ricevuto in sè quel principio fecondissimo. E un sistema di questa natura si continuava a insegnare, perchè non ce n' era allora un altro. Pure tostochè gli occhi cominciarono a levarsi dai libri e a riguardar la natura, esso perì, ucciso, da quegli stessi germi di corruzione che portava in se stesso (1): si tentò dunque per un poco di far senza della filosofia, ristorandosi di questo mancamento colle fisiche scoperte (2). E per vero l' avverroismo doveva necessariamente rendere la filosofia trista, barbara, pedantesca, sofistica, difetti tutti, che cresciuti col tempo, venivano infine a renderla insopportabile agli ingegni che secretamente da essi stessi progredendo si andavano svezzando (3). In questo modo invecchiò e si corruppe la filosofia scolastica; e dall' ali del nuovo genio che invase l' Europa ne furono spazzate le rovine. L' ultimo sforzo fatto da essa per prolungare la vita, se fosse stato possibile, ebbe ancora il doppio carattere di razionalismo e di misticismo. Spossata e discreditata la forma realistica , Ockam, l' idolo degli ecclettici francesi (questi terribili riabilitatori delle riputazioni perdute ) ripropose nel secolo XIV la forma nominalista , già abbattuta al suo nascere due secoli prima. Molti buoni ingegni, spauriti dalle conseguenze del realismo, sperarono di trovare nel nuovo nominalismo qualche asilo sicuro alla sbattuta filosofia. Dopo un lungo tafferuglio col vecchio realismo, il nuovo nominalismo pareva rimasto padrone del campo, e già Ockam riceveva il titolo di Dottore invincibile. Del rimanente, al vedere che la scuola nominalista può vantare delle glorie postume, dal secolo XVI e XVII fino a noi, ben apparisce che la filosofia aristotelica non sapeva più dove posare il capo, e invano le si voleva acconciar sotto un nuovo origliere. E veramente in Italia Mario Nisolio combattè due secoli dopo Ockam pel nominalismo contro il realismo (1). E in Germania l' opera del grammatico modenese ebbe l' onore di essere ristampata e commentata dal Leibnizio nel 1670; e nella dissertazione, di cui il maggior filosofo arricchì quell' edizione, non dubitò di scrivere: [...OMISSIS...] ! In Francia Giovanni Salabert pubblicò nel 1651 la sua Philosophia nominalium vindicata . L' Inghilterra finalmente, la patria di Ockam, non mancò mai di quei dottori che insegnassero il nominalismo. Nel secolo XVII Melchiorre Goldast ed Edoardo Brown fecero l' apologia di Ockam, e nello stesso secolo il nominalismo fu rivestito a nuova foggia dall' Hobbes, e si rimase poi nella scuola scozzese (3). Tutti questi tentativi, fatti in sul cadere della scolastica e continuati con perseveranza anche dopo la sua caduta, per ristabilire il nominalismo, dimostrano la ripugnanza e quasi direi l' orrore che aveva lasciato in tutti gli animi il realismo aristotelico. Ma si tentava l' impossibile: ed era un' illusione il credere di riparare così ai danni della filosofia. Il realismo e il nominalismo sono i due fianchi dell' ammalato [...OMISSIS...] E veramente, l' abbiamo già detto innanzi, il realismo e il nominalismo nascono dallo stesso errore aristotelico, cioè che « l' universale sia nelle cose reali e non altrove ». Se è nelle cose reali, dunque l' universale è reale; ecco il realismo nel senso proprio. Se è nelle cose reali, dunque l' universale fuori di queste è un nulla, un puro nome: ecco il nominalismo . Sono dunque due formole della stessa dottrina e non due sistemi, sono due conseguenze dello stesso principio. Questa dunque del nominalismo fu la faccia razionalistica che mostrò l' aristotelismo nel suo spegnersi: in Germania scoperse di nuovo, nello stesso periodo, anche l' altra cioè la mistica . E questo accadde perchè, in sullo scorcio della sua vita, s' abbattè nella riforma protestante. Il protestantesimo, scossa l' autorità, non si potè mai adagiare e rimanersi tranquillo nel raziocinio, così mal sicuro nei suoi passi quand' è solo, impotente del tutto, se trovasi sfinito in un puro nominalismo. Niuna maraviglia che l' uomo, ridotto a questo solo, provi una incredibile inclinazione a buttarsi in un falso misticismo. Il quale è come il bigottismo dei dissoluti di professione. Ma il seguace della religione cattolica con assai più confidenza s' affida alla ragione, come il fanciullo muove più ardito le gambe quando sa d' aver vicina la madre. Da questo provenne dunque che in Germania l' aristotelismo cadente s' avviluppò di nuovo nel falso misticismo, e di nuovo in progresso, rivolgendosi, mostrò ancora l' altra sua gota razionalistica, che ricomparve a pieno discoperta nel Kant e nel Fichte, per riapparire mistica e panteistica nello Schelling e nello Hegel, ove questa filosofia sembra aver determinato il suo corso fatale divorando se medesima. Quegli storici della filosofia che raccolgono le opinioni, che di secolo in secolo corrono intorno a un dato sistema e a un dato filosofo, e le trovano discrepanti, e oltracciò vedono succedere alle lodi i biasimi, o ai biasimi leggeri altri biasimi più gravi (com' è avvenuto dell' averroismo già convinto d' errore nel secolo XIII, ma nel XIV detestato come padre d' empietà e d' immoralità), si persuadono facilmente che in tali giudizi non ci sia altro che talune contraddizioni casuali, la causa delle quali si debba cercare o in un andazzo del tempo o in accidenti stranieri alla scienza; e s' incaricano sul serio di rettificare e di ammoderare, colle loro discrete sentenze, quelle esorbitanze, quelle esagerazioni o contraddizioni. Ma questo tono di superiorità giudiziale, così comune nei nostri tempi, non ha sovente altro fondamento che o una scarsa perspicacia, o la mancanza d' uno studio profondo sulla natura intima delle filosofie che hanno esercitata una lunga dominazione nel mondo. Poichè niuno può essere storico della filosofia se prima non è filosofo egli medesimo . Tale vicenda ci porge, come dicevamo, la filosofia d' Aristotele, ora esposta dai commentatori greci, ora dagli arabi, ora spiegata dagli orientali, ora dagli occidentali. Onde dunque tante diverse interpretazioni spesso contrarie? Se ne dovrà dare tutta la colpa agli interpreti? Onde tante lodi a lato di tanti biasimi? E onde il biasimo e, direi quasi, la detestazione, cresciuta in fine a segno da considerarsi l' aristotelismo come sorgente inesausta d' errori, come germe d' irreligione, come ostacolo al progresso della civiltà, come soffocatore del gusto e non più oggimai tollerabile sulle cattedre? Fu tutto questo l' effetto d' un semplice riscaldo di testa, d' un eccesso appassionato e nient' altro? Così per vero considerano la cosa alcuni storici ed eruditi, che hanno per massima di dire sempre un po' di bene di tutto ciò di cui fu detto male, e un po' di male di tutto ciò di cui fu detto bene. Quanto a noi, siamo d' avviso che tutte le principali maniere d' intendere Aristotele, sebbene diverse ed anche contrarie, trovano qualche fondamento di solidità nella stessa lettera del testo aristotelico. Mi condusse a questa conclusione l' esame del fatto; e di questo fatto si trovano le ragioni: 1 nel disordine con cui furono affastellati gli scritti d' Aristotele: nella perdita di molti di essi, e nel guasto che debbono aver subìto gli altri a noi pervenuti; 2 nella maniera colla quale Aristotele stesso scrisse quasi a brandelli molte sue cose, senza forma sistematica; 3 finalmente nell' imperfezione d' esposizione e di linguaggio. I guasti che debbono aver riportati i libri dello Stagirita nella grotta ove furono nascosti dagli eredi di Neleo, e ci rimasero sì a lungo per sottrarli ai re di Pergamo, che mandavano a caccia di libri per le loro biblioteche; il disordine nel quale probabilmente furono estratti di là; gli errori e i nuovi guasti introdotti nelle copie che ne fece trarre Apellicone, supplendone le lacune con mano imperita, più filòbiblo che filosofo, come lo chiama Strabone (1); la classificazione e la disposizione arbitraria, e i nuovi restauri fattivi da Tirannione e da Andronìco Rodio peripatetico (2); tutte queste sventure debbono aver assai male conciati gli scritti del nostro filosofo, di maniera che or ci è impossibile trovare quanto quelli che abbiamo, s' allontanino da quelli veramente usciti dalla sua mano (3). Ma più ancora di cotesti guasti, doveva influire a rendere incerta e molteplice l' interpretazione della dottrina d' Aristotele, il non averla egli stesso voluta esprimere chiaramente, ancor che non si voglia credere genuina la nota lettera ad Alessandro. Anzi sebbene la tela della dottrina aristotelica sia forse la più ampia che mai alcun filosofo anteriore ardisse d' intelaiare, tuttavia si potrebbe dubitare, senza temerità, s' egli stesso si sia costruito in mente un sistema filosofico unico, netto e coordinato in tutte le parti. Certo (anche senza contare che alcuni dei libri che ci rimangono col nome d' Aristotele non sono autentici, altri non autentici in tutte le loro parti), basta por mente alla maniera e al fine diverso in cui e per cui egli compose quei diversi scritti, per avvedersi tosto quanto debba esser difficile il raccogliere qua e colà i brani sparsi in essi, e intenderli, e accozzarli in unica dottrina, quand' anco nessuno ne mancasse all' interezza del sistema. Si sogliono dividere le opere del filosofo in tre classi, intitolandosi le une «hypomnematika» o memoriali, le altre «exoterika», o cose popolari, e le altre ancora «akroamatika» o cose scolastiche, o se piace meglio, scientifiche (1). Ora i memoriali , scritti per uso proprio, altro non sono che annotazioni, tratti, pensieri, consegnati occasionalmente alla carta, senza alcun metodo scientifico, sol quanto bastasse allo scrittore per ricordarsene. Egli è manifesto che in questo genere di scritture non si deve cercare un sistema compiuto, nè pretendere che sia chiaro a noi quello che l' autore notò perchè fosse chiaro a sè medesimo. Nè manco si può aspettare di conoscere la sua vera mente dai libri popolari , poichè gli antichi filosofi non solo credevano di dover nascondere al popolo una parte, e la più preziosa parte della verità, ma anco si facevano lecito di allettarne e molcerne gli orecchi con insegnamenti, di cui pur conoscevano tutta la falsità. Finalmente i libri acroamatici , riservati ai soli uditori della scuola, e certi anche tenuti via più occulti «en aporretois» si solevano scrivere a bello studio in un modo astruso e misterioso. Laonde nè pure in questi il sistema (quando anco ci si contenesse) potrebbe apparire in piena luce. Al che s' aggiunga, essere tutti questi libri venuti alla posterità così uniti e sparpagliati come dicevamo, anche per la venalità dei librai, che non avrebbero trovato a smerciare facilmente l' intero corpo voluminoso e costoso di tali scritti, e però li spacciavano divisi e con tanta e tale sconnessione, che difficilmente si potè e si può riconoscere a quale delle due indicate classi ciascuno dei libri si debba riferire, e forse uno stesso libro ora è composto di brandelli d' altri da distribuirsi per tutte e tre. Si crede tuttavia che Aristotele abbia lasciato a Teofrasto i suoi libri ordinati e distinti in «pragmateiais», o trattazioni, dette da Cicerone disciplinae partes (1). Ma a queste non pare che possano appartenere gli ipomnematici , troppo imperfetti e d' uso privato, e forse nè pure gli exoterici o popolari , siccome alieni dal sincero pensiero dell' autore, ma puramente gli acroamatici o scientifici, come quelli che soli possono ricevere, e di ricevere son degni, una divisione scientifica (2). E tra i molti libri che si sono perduti d' Aristotele, non possiamo sapere quanti ce n' erano d' acroamatici, anelli forse necessari al sistema. Ognuno intende che, con tutte queste difficoltà gravissime, è vano lo sperare di pervenire a conoscere con sicurezza l' intero sistema filosofico che fu nella mente del nostro pensatore, se pure ce ne fu veramente uno intero. Ma soprattutto a chi attentamente considera la lingua, lo stile, la maniera di scrivere adoperata da Aristotele, non solo in diversi libri, ma anche nello stesso, diversa, cessa la maraviglia del vedere che in diversi tempi e da diversi ingegni il suo pensiero sia stato inteso e spiegato in modi diversi e contrari, e che pure non sarebbe facile convincere una sola delle tante teorie, di non aver a base qualche passo delle opere dello Stagirita strettamente interpretato. Primieramente non c' è un solo vocabolo filosofico che non riceva nei suoi scritti diverse e molte significazioni, e quando l' usa è ben rado ch' egli ci avvisi in quali di esse lo prende. Mancando questo avvertimento, poco giova ch' egli in V dei « Metafisici » abbia raccolto trenta vocaboli o locuzioni tra le più frequenti, e a ciascuna abbia assegnato un certo numero di significati, senza contare che quelle trenta voci sono assai lungi dall' esaurire il suo dizionario filosofico, e che i significati posti a ciascuna non sono ancora tutti quelli ch' egli stesso attribuisce nell' uso che ne fa. Finalmente talora adopera i vocaboli nel significato attribuito dai filosofi anteriori e contrario a quello che assegna egli stesso. S' aggiunga la maniera sospensiva e dubitosa con cui esprime le sue proprie opinioni, sulle quali sembra spesso vacillante. Pone il maggiore sforzo nel suo dire e spende la maggior copia delle parole in ottenere che il lettore senta la difficoltà della questione, men sollecito poi di darne una retta soluzione (1): al qual fine fa largo uso di ragioni pro e contra, e non si sa sempre discernere se parli in persona degli avversari, o in sua propria: e fa uso frequentissimo della particella «pos», che lascia in una cotale incertezza i contorni della dottrina. Come Aristotele insegna che la virtù consiste nel mezzo, così pare che egli si compiaccia di fare altresì delle opinioni (2): cerca di collocarsi tra i due estremi contendenti: distribuisce un po' di ragione e un po' di torto a tutti i filosofi che l' hanno preceduto. E se facesse sempre il taglio netto tra quello che approva e quello che disapprova, s' avrebbe chiaro il suo pensiero: ma non lo fa per tutto, e dice l' una cosa e l' altra, rimettendo troppe volte al lettore l' interpretazione sotto quale aspetto la dica e sotto quale la contraddica. Non solo poi nei libri ipomnematici , ma anche nei sintagmatici (3) egli ragiona di questioni vive al suo tempo, e agitate nelle scuole che Speusippo e Senocrate guidarono dopo la morte di Platone: e suppone che il suo lettore conosca come si conducevano quelle dispute, e quali argomenti s' usavano in quelle pugne, e di quali formule si vestivano, come invero tutto ciò dovevano conoscere i suoi contemporanei. Ma non è questa per noi una delle più piccole cagioni dell' oscurità d' alcuni luoghi dello Stagirita: chè siamo venuti troppo tardi, e di quei filosofi, condiscepoli ed emuli d' Aristotele, non ci rimangono gli scritti, ma frammenti scarsissimi: la solenne voce poi dei maestri, e il frastuono clamoroso dei discepoli svanì ben presto in un assoluto silenzio (4). Che se al presente gli eruditi si affaticano di raccogliere qualche parola o qualche detto, e accozzarlo, e congetturare su qualche punto la maniera speciale di concepire e di favellare in quelle scuole usata: il lavoro è appena incominciato, e la sterilità del terreno non promette abbondevole raccolta. Ma si può spiegare come i discepoli d' un filosofo, suddividendosi tra loro, attribuiscano poi al medesimo sistemi diversi e contrari, e ciascuno accampi a suo favore ragioni non dispregevoli, anche astrazion fatta dalle circostanze indicate, che tutte s' uniscono a contribuirvi nel caso d' Aristotele. Poichè un sistema sta per intero nei principŒ , e le conseguenze sono già tutte in essi. Ma la deduzione di queste può esser fatta bene e male, e da filosofi diversi. Ora, allo storico della filosofia appartiene certamente l' indicare chi abbia posti i principŒ, e chi dedottene le conseguenze: ma questa è la storia dei filosofi e dei loro speciali lavori e non ancora la storia dei sistemi. Il sistema non perde la sua identità, o ch' esso si presenti concentrato nei soli principŒ, o che l' esposizione ne svolga le conseguenze, siano poche o molte, e anche tutte. Colui che ha formulati i principŒ è il solo autore del sistema. Se le conseguenze non sono state da lui dedotte e nè anco prevedute, a lui non appartiene l' imputabilità morale di esse; ma glien' appartiene tuttavia, per dir così, l' imputabilità filosofica, poichè chi ha posto i principŒ ha già posto le conseguenze. Il che vale pel caso in cui i principŒ siano pienamente definiti e determinati. Ma accade troppo spesso, che i principŒ stessi insegnati da un filosofo vengano da lui posti in un modo indeterminato e imperfetto, o che la loro indeterminazione sia intrinseca agli stessi concetti della mente, o dipenda dalle formule verbali, delle quali quei principŒ si vestono. Nell' uno e nell' altro caso il pensiero dei discepoli, che pur accettando senza controversia i principŒ del maestro, non può formarsi, ma tende continuamente a renderli feraci di conseguenze, è naturalmente portato ad aggiungere da sè a quei principŒ che il maestro lasciò nell' indeterminazione, le determinazioni che mancano. Ora, i principŒ stessi determinati diversamente si moltiplicano: determinati a un modo riescono diversi ed anche contrari da quei principŒ medesimi determinati a un altro modo; chè l' indeterminato contiene il diverso ed anche il contrario. Non è dunque fuori di ragione il riferire ad un medesimo filosofo diversi e contrari sistemi sotto quest' aspetto: e possono esser vane in tal caso le contese dei discepoli per vincere chi abbia bene interpretato il maestro e ne abbia colto il sistema: poichè tutti, in un senso, possono veramente avere il sistema del maestro, e in un altro senso non averlo nessuno: l' hanno cioè tutti, se si considera che i loro sistemi, benchè diversi e contrari, giacciono virtualmente nel sistema più indeterminato del comune maestro: non l' ha nessuno, se per sistema del maestro si intenda la sua dottrina materialmente presa con tutta quella indeterminazione nella quale egli la lasciò. Poichè i discepoli, per lo spontaneo progresso del pensiero, togliendovi d' attorno l' indeterminazione che gli dà il carattere, non si mettono nè pure in sospetto d' alterarlo con ciò, e tutti potrebbero intendersi e aver ragione qualora s' avvedessero e convenissero che una delle determinazioni non esclude l' altra, onde il principio indeterminato sta lì per tutti, e questo solo ritengono dal comune maestro. E non fu questa certamente la meno efficace delle ragioni per le quali i seguaci di Platone e quelli d' Aristotele si dividessero in tante sette, e così disparate, senza però trovar mai la via della concordia. Da questo stesso provennero poi altre conseguenze. I principŒ di Aristotele, variamente determinati dai suoi seguaci ed interpreti, racchiudevano altrettanti complessi diversi d' illazioni. Perciò non fa maraviglia che essi, da una parte si traessero al servizio del cristianesimo, dall' altra divenissero sementi dell' empietà. Nei commentari di Averroè prendono questa rea natura. Che i maestri cattolici del secolo XIV come Alberto Magno e san Tommaso, abbiano confutati gli errori dell' arabo commentatore senza veemenza, e che nel secolo susseguente il Petrarca e i dottori domenicani con alto e nobile sdegno combattessero l' araba dottrina, imputandole l' immoralità, la eresia, l' incredulità che vedeano propagata per tutto e annidata nella corte degli Hohenstaufen e penetrata in tutta la parte ghibellina, non può far meraviglia, se non agli storici dell' eclettismo francese. E` assai naturale che i principŒ, fino a tanto che stanno da sè soli, si combattano col freddo raziocinio: armi uguali s' appongano ad armi uguali. E` naturale e giusto del pari, che la corruzione che s' ingenera in appresso quando se ne inducano le conseguenze e se ne fanno le applicazioni alla vita e il contagio ampiamente n' è propagato, venga assalita e investita dall' eloquenza di uomini che ardono d' uno zelo santo e provano nel cuore un crudel dolore che ne li fa lamentare. Ci si dirà forse che le varie difficoltà fin qui indicate tolgono quasi la speranza di pervenire a conoscere con chiarezza tutto l' intero della dottrina aristotelica. E se la cosa è così, come voi ci annunciate un' opera che la espone? o che cosa dunque vi proponete in questo vostro libro che intitolate: « « Aristotele esposto ed esaminato » »? Domanda ragionevolissima a cui brevemente dobbiamo rispondere. Dicevamo che in Aristotele si trova un sistema, ma indeterminato e incerto in molte sue parti, e che a una tale indeterminazione e incertezza si deve reputare principalmente il vario modo d' intenderlo dei suoi interpreti. Ora, questo appunto noi intendiamo far risultare dallo scritto presente nel quale affrontiamo i diversi luoghi nelle opere dello Stagirita sopra le questioni capitali, e facciamo ogni prova di conciliarli insieme. Apparirà che una perfetta conciliazione è almeno a noi spesse volte impossibile, e che talora si presentano principŒ che sembrano piuttosto diversi che contrari; ma esaminato poi il loro valore nelle conseguenze che portano in seno, si scoprono appartenere essi a dottrine contraddittorie e inconciliabili. Abbiamo posta ogni diligenza per iscoprire nei singoli luoghi del nostro autore quale dei molti significati che attribuisce ad ogni vocabolo filosofico sia appunto quello di cui in essi fa uso. Con questa cura si conciliano, a dir vero, in parte i luoghi diversi che si riferiscono a uno stesso punto di dottrina, ma non interamente però. Ora, questa incoerenza dipende, a parer nostro, dall' indeterminazione della dottrina medesima. E il fare che spicchi agli occhi del lettore questo vero, è la prima parte della critica che noi intraprendiamo di fare alla filosofia d' Aristotele. Poichè noi abbiamo già avvertito che il carattere di quest' opera non è già d' essere filologica ; ma d' esser critica , e d' una critica che riguarda la stessa dottrina. In una parola, noi scriviamo come filosofi , scriviamo un giudizio sopra un' antica filosofia: vi ci accingiamo spassionati, senza lasciarci prevenire da alcuna autorità. Questo giudizio nostro (qualunque valore possa avere in se stesso) accusa la dottrina che giace sparsa nelle opere che si attribuiscono ad Aristotele di tre peccati: il primo d' esser formulata in un modo indeterminato e di prestarsi per conseguenza a interpretazioni diverse e contrarie; il secondo d' essere incoerente, anche prescindendo dalle contraddizioni puramente verbali che sono la conseguenza dei diversi significati pei vocaboli, considerata solo la dottrina in se stessa; il terzo d' essere erronea non già in tutte le sue singole parti, ma in ciò che costituisce il fondo e l' unità del sistema. In certe parti farà certamente bella mostra di sè la perspicacia ammirabile e la sottigliezza d' Aristotele, e niun' altra qualità sembra così propria a tanto ingegno quanto questa della sottigliezza . Non ebbe tutta l' antichità, io credo, un' altra mente che fosse più analitica e più dialettica di questa d' Aristotele, e sol essa poteva lasciare ai posteri quel gran monumento aere perennius della sillogistica . E fu questa parte dialettica appunto che innamorò di sè, a buona ragione, tutto il medio evo, nè potrà mai essere, per iscoperte nuove e nuovi progressi, obliata e dismessa: quest' è ancora la parte, per la quale l' aristotelismo recò grandissimo vantaggio alla cristiana teologia che ne serbò sempre riconoscenza. Ho indicato brevemente l' intento dell' opera presente: più ancora che di conoscere storicamente quali fossero le dottrine professate da Aristotele, noi siamo solleciti della verità : il nostro intendimento, lo diremo ancora, non è storico, nè eclettico, ma strettamente filosofico e razionale . L' ultimo risultato, a cui tendono di loro natura le diverse ricerche ed osservazioni che andremo esponendo, si è di vagliare il vero dal falso che ci possa essere in tutto quell' ammasso di opinioni che si presentò fin qui con pretesa d' appartenere agli insegnamenti ed alla dottrina d' Aristotele. Sceverandone il falso e quasi affiggendovi segni, ai quali possa esser da tutti conosciuto, speriamo che si debba scemar il pericolo d' incorrervi nuovamente: porgendo netto il vero, se ci riesce, e procurando di fare che ciascuno veda l' evidenza della sua luce, speriamo che più facilmente se ne conserverà il possesso tra gli uomini, e l' oro che troviamo nella miniera del peripatetismo, separato dalla scoria, potrà essere accresciuto dai moderni con nuovo metallo di buona lega. S' abbrevierebbe di molto il lavoro che il mondo presente aspetta dagli scienziati, che cioè gli restituiscano o ricostituiscano una sana e sufficiente filosofia, qualora non s' avesse più a disputare sul buono e sul reo degli antichi sistemi e specialmente di quello che trionfò di tutti gli altri, l' aristotelismo; ma ne fosse riconosciuta per sempre la separazione. Allora nessuno più abuserebbe d' una incerta autorità nei trattati filosofici a complicare e avviluppar le questioni, e nessuno oserebbe di riprodurre le antiche maniere di dire senza averle prima giustificate e sanate da ogni equivocazione. L' autorità infatti deve essere sbandita dall' interiore della filosofia essenzialmente razionale. L' ufficio dell' autorità è quello di precedere alla mente razionatrice come consigliera e amica, e di susseguire ad essa dando conferma ai raziocinii e aiuto alla persuasione che va troppo lenta e debole dietro all' astratto ragionamento. L' autorità divina oltracciò presta all' umanità un beneficio assai maggiore; supplisce alla ragione quando questa si ferma venuta ai suoi ultimi confini; e la rimette in sulla via se erra nelle cose di suprema importanza, quali sono quelle che riguardano gli eterni destini dell' uomo. Ma tutto questo è sempre guadagno estraneo alla filosofia che si tesse puramente a filo di raziocinio. Se il nostro lavoro contribuirà a rendere più netto e men intralciato il pensiero e il discorso dei filosofi, spacciandolo da un gran numero di concetti e di vocaboli equivoci che sopravvissero in tutta la loro ambiguità alla caduta dell' aristotelismo, esso avrà ottenuto l' uno dei due scopi che gli furono proposti. In tal caso apparecchierà altresì la via (e questo è l' altro scopo) alla seconda scienza metafisica che abbiam promesso di comunicare al pubblico, cioè alla « Teosofia », l' ultima, e per vero la più elevata parte dell' edifizio filosofico, quella in fine che più di tutte le altre esige proprietà nelle voci, distinzione nei concetti, rigore nei raziocini. Propagata l' umana stirpe, e divisa successivamente in nazioni, ella smarrì un po' alla volta, e confuse la memoria della propria origine e della prima sua istituzione. Se si eccettui l' ebraica stirpe, nella quale l' antica tradizione fu conservata per speciale provvidenza, noi vediamo i più dotti del popolo più ingegnoso del mondo, il Greco, ignorare che l' umanità avesse avuto un padre ed una madre comuni (1). Tra queste genti spoglie della storia umanitaria e della primitiva sapienza, e quindi abbandonate a se stesse, nacque la filosofia, e questa toccò tra i gentili il suo apice per opera di Platone. Aristotele fu il più celebre dei suoi discepoli, ingegno di gran lunga meno elevato, ma acre, sottile, laborioso. Se si dovesse prestar fede all' autore d' una sua vita, sia questi Ammonio o Filopono, Aristotele, colla sua scuola, non intendeva punto di combattere il maestro, ma « « quelli che meno rettamente interpretavano le sue sentenze »(2) », il che è quanto dire i suoi condiscepoli Senocrate, Speusippo, Amicla ed altri. Ma molti luoghi delle sue opere e il fondo stesso della sua dottrina ci persuade del contrario. Sappiamo che Platone stesso si lamentava di lui dicendo: « « Aristotele ricalcitrò contro di noi, come i poledri generati, contro la madre »(3) », ed Eliano e Diogene ci narrano l' arroganza del discepolo, che obbligava il vecchio maestro a rimuoverlo dal suo consorzio (4). Oltre di che l' ambizione [...OMISSIS...] , rimproveratagli da Senocrate, era in costui sì grande, che non solo voleva primeggiare nelle filosofiche discipline, ma punto dalla gloria oratoria d' Isocrate, anche alla scuola di questo contrappose una sua scuola d' eloquenza (1). Ma lasciando da parte la storia dei dissapori privati (chè quel solo che a noi importa è la dottrina), reputiamo non potere noi in altro modo condurre questa nostra esposizione e critica della dottrina Aristotelica, che raffrontandola di continuo a quella veramente originale del suo maestro, dalla quale la derivò nella sua miglior parte, e dimostrando in quali sentenze e come dalla medesima s' allontani. Volendo noi dunque esporre ed esaminare a questo modo la dottrina propria d' Aristotele, quale risulta dagli scritti di lui, che a noi pervennero, conviene che incominciamo col determinare quel punto di dottrina, che cagionò la separazione del gran discepolo dalla scuola di Platone. Il qual punto è chiaramente indicato nel libro M (XIII) dei metafisici con queste parole: [...OMISSIS...] . E lasciando per ora i numeri, quelli che pongono le idee, « a un tempo fanno le idee (2) come essenze universali, e di nuovo come separate, e come predicate dei singolari. Ora noi abbiamo già prima dubitato che la cosa vada così. A coloro che dicono le idee universali, il non dar essi le stesse essenze ai sensibili fu cagione che unissero in un medesimo queste contraddittorie attribuzioni. Poichè credevano che i singolari, che sono nei sensibili, fluissero: e niuno di essi permanesse: l' universale poi fuori di questi non solo essere, ma essere un altro che. Questo pensiero fu mosso da Socrate per le definizioni, come abbiamo detto avanti, ma non le separò dai singolari. E vide bene, non separandole. E` manifesto dall' opere. Poichè senza gli universali non si può ricevere scienza. Ma il separare è la causa delle difficoltà, che occorrono intorno alle idee:. [...OMISSIS...] Il punto dunque, che cagionò lo scisma aristotelico fu la separazione delle idee. Egli riconosceva: 1 che senza le idee universali non ci può essere scienza [...OMISSIS...] , ammetteva dunque idee universali; 2 riconosceva altresì in queste qualche cosa di stabile e di eterno, onde viene la necessità della scienza, e lodava Socrate per aver eretta la morale su definizioni delle essenze incorruttibili delle cose; 3 ma diceva, dopo di ciò, che Socrate non aveva mai pensato a dividere le essenze delle cose sensibili da queste, e che aveva ben veduto non separandole. Biasimava perciò coloro che delle idee fecero altrettante sostanze sussistenti da se medesime diverse dalle sostanze sensibili, e trovava una contraddizione nella dottrina di questi filosofi, che ad un tempo stesso facevano le idee: 1 essenze universali; 2 essenze separate dei singolari; 3 essenze dei singolari; [...OMISSIS...] quasi facessero le idee ad un tempo stesso universali e singolari, e affermassero e negassero, che fossero le essenze dei singolari. Egli dunque disse che le specie si separano bensì colla mente, ma sono realmente negli individui reali sussistenti. Essendo nella mente separate dalla materia, danno luogo alla scienza; essendo negli individui reali, sono le vere forme sostanziali ed individue di questi. Alla difficoltà poi, che le cose sensibili siano di continuo fluenti, e non possano per conseguenza avere nulla di stabile, come pur sono le essenze, rispose col fare la materia eterna e immutabile, e ridurre le specie ad un' ultima eterna sostanza, scevra d' ogni materia, mente divina; a cui le cose tutte tendendo incessantemente, come al bene, acquistassero la specie di cui sono capaci. Così credette d' aver trovato due punti fissi e quasi due poli: la materia prima e l' ultima divina forma . Ma questo era un ricadere in sostanza nel sistema del suo maestro circa le idee: perchè concedeva la necessità, che esistesse una prima e suprema forma separata e per sè essente. Nè voleva certamente di più Platone, che, quantunque riconoscesse nelle idee la necessità eterna di essere, le riduceva nondimeno anch' egli in una mente prima, e le dichiarava esistenti in virtù degli atti di questa mente. Perciò non fa maraviglia, che molti in tutti i tempi credessero possibile di conciliare la dottrina aristotelica colla platonica, dichiarandola piuttosto diversa nelle parole che nella sentenza (1). E benchè noi crediamo questa conciliazione impossibile, tuttavia egli pare che Aristotele affetti talora di mostrarsi discorde da Platone anche quando non è; e che in quei luoghi, nei quali s' attiene alla dottrina del maestro, benchè con altre espressioni, proceda con lucidezza, in quelli nei quali se n' allontana veramente, si perda spesso in sottigliezze, equivoci e difficoltà inestricabili. Uno di questi luoghi è appunto quello in cui pretende che le specie stesse, che nella mente sono universali, inesistano come particolari negli individui reali, cadendo così nella stessa contraddizione che imputa ai suoi avversari [...OMISSIS...] e che non si può imputare certamente a Platone, il quale non pone le idee stesse nei singolari sensibili, ma solo in questi riconosce delle copie «ektypa», di quegli esemplari. Il concedere, come Aristotele fa costantemente, che « « senza gli universali non ci può essere scienza » », giacchè la necessità stessa della scienza nasce dall' universalità (1), e nello stesso tempo affermare, che gli universali sono nei singolari, è appunto, come dicevamo, e come meglio vedremo in appresso, dichiarare le essenze singolari ad un tempo e universali. Sembra che Aristotele cerchi di nascondere questa contraddizione sua propria, che indebitamente riscontra nella scuola di Platone, non solo ai suoi lettori, ma a sè medesimo, colla varietà e quasi direi sinuosità del linguaggio e della maniera di concepire. Ora, essendo in Aristotele la maniera di concepire universalissima e del tutto formale (2), avviene ch' egli riponga sotto uno stesso vocabolo, e tratti ad un tempo cose le più disparate, riunendole sotto le medesime vedute logiche. Possono infatti vestire una stessa forma logica entità reali, ideali, dialettiche etc. (3). Ma questa maniera di ragionare rompe tutte le classificazioni naturali degli enti; e da una parte si possono far comparire, come aventi una stessa natura, cose di natura diversissime: dall' altra si moltiplicano gli enti senza necessità, chè una stessa entità diventa molte davanti al pensiero, rivestita di varie relazioni logiche e di vocaboli ad esse corrispondenti. Nel passo citato in principio del nostro discorso si nominano idee, essenze, universali. Ma tutte queste parole, e quant' altre si riferiscono alla stessa questione, cangiano di significato ad ogni piè sospinto nel dettato aristotelico: per raggiungerlo conviene che teniamo dietro ai suoi andirivieni. Cominciamo dall' essenza, o se vogliam mantenere la parola greca, dall' «usia». . [...OMISSIS...] Ma ciascuno di questi quattro modi si moltiplica. Poichè del subietto dice continuando che in un modo questo si dice materia «he hyle», in un altro forma, «he morphe», in un terzo il composto della materia e della forma, «to ek tuton». Chiama poi la forma « « lo schema dell' idea, » [...OMISSIS...] . Sono tre dunque i significati della parola subietto , e questo è uno dei quattro significati della parola «usia». Un altro di questi quattro significati è la quiddità , ma questa si divide anch' essa per lo meno in tre significati. Poichè dice in un altro luogo che le cause come quiddità, [...OMISSIS...] , sono: il tutto, «to holon», la composizione, «he synthesis», e la specie «to eidos» (3). Che cosa dunque è la quiddità, il «to ti en einat»? Secondo il primo e proprio significato « « non c' è quiddità in altri se non nelle specie del genere »(4) »: poichè questa è l' oggetto della definizione. Per questo la quiddità è una specie, «to eidos», ma non tutte le specie sono « specie del genere ». Infatti la parola specie s' applica da Aristotele al genere stesso e a tutte le idee. Quando dunque Aristotele dice, che la quiddità è la specie, deve intendersi unicamente della specie sostanziale, che è la sostanza categorica, che si predica degl' individui, e non deve intendersi degl' individui stessi. Ora se la quiddità è la specie, o come anche dice, è la specie del genere, dunque è un universale: tant' è vero che ammette definizioni, e che i singolari non l' ammettono. Ma quando dice, che anche il tutto, «to holon», e la composizione «he synthesis», è quiddità, allora si può intendere tanto la quiddità degli individui reali, quanto quella degli individui ideali: poichè il tutto e la composizione possono esser pensati come possibili, ovvero anche come sussistenti. C' è dunque sempre la dimenticanza (pur comune ai filosofi) di tener separato l' ordine ideale dall' ordine reale (1). Ora il tutto ideale, e la composizione ideale è la stessa specie sostanziale , quando però il tutto abbia unità, senza di che non potrebbe avere definizione (2), e per composizione s' intenda quella che mette l' ente in atto. Un altro dei quattro significati dell' essenza è il genere . Ora qui siamo in un universale ancora più esteso che non è la specie: ma la stessa parola genere riceve molti significati (3). Come dunque, non contento di queste definizioni, aggiunge che l' «usia» è anche l' universale? Non l' aveva già affermato dicendo che significa la specie e che significa il genere? Per Aristotele non c' è universale che non sia genere o specie. Ma convien dire che introduca qui l' universale come nuova parola, che dice lo stesso con una relazione logica diversa. Pure quando prende l' «usia» prima e singolare, allora s' affatica a dimostrarvi ch' ella non può essere un universale (4). Come dunque crede d' evitare la contraddizione? Da una parte l' «usia» in senso primo e proprio non è e non può essere l' universale; dall' altra l' «usia» è la quiddità, l' universale, il genere, parole tutte che indicano universalità. Risponderemo forse col distinguere la prima e la seconda «usia» (5), e diremo che la prima sola non è universale, e che quando insegna che l' «usia» si dice in quattro modi (poichè « sembra essere «usia» a ciascun ente la quiddità, l' universale, il genere, il subietto di queste cose ») parla solo dell' «usia» seconda ? La risposta non appagherebbe, poichè per lo meno il subietto deve appartenere alla «usia» prima , come quello che non si dice d' altra cosa, ma di lui le altre cose si dicono. Osserveremo ancora che in quel luogo parla dell' «usia» senza fare alcuna distinzione tra la prima e la seconda. Vero è che il subietto stesso può essere ideale o reale (le due modalità perpetuamente confuse), e che il subietto ideale è un universale anch' egli (1); onde questo secondo apparterrebbe alla sostanza seconda, che si può predicare della prima (2). La parola «usia» dunque sarebbe usata equivocamente, quando dicesi «usia» seconda : il che involge di necessità tutti i ragionamenti in equivoci inestricabili, se non s' emenda il linguaggio. Ma noi crediamo che la maniera, con cui Aristotele tenta di conciliarsi con se stesso, non si limiti ai due significati della parola. Acconsente egli che un vocabolo abbia diversi significati, purchè si riferiscano tutti ad un primo e proprio, e gli altri nascano dalle relazioni delle cose nominate colla prima nominata in senso proprio (3). La seconda «usia» dunque ripeterà il suo nome di «usia» dalla prima. Ma come è possibile questo, se la prima è singolare e non si predica d' altra cosa (4), e la seconda è universale e si predica? Come l' universale riceverà il nome dal singolare? E` sempre la stessa questione, che ritorna, delle due attribuzioni contrarie: all' «usia» si dà l' essere singolare ( «usia» prima ), all' «usia» si dà l' essere universale ( «usia» seconda ). Il dire che questa venga dalla prima è un tentativo di conciliazione: è la soluzione della questione aristotelica, che rimarrà ad esaminarsi, ma questa soluzione ad ogni modo suppone le due attribuzioni di universale e di singolare date alla cosa stessa, all' «usia»: contraddizione, di che a torto si accagionava Platone. Esaminiamo dunque brevemente questa soluzione di più in appresso. Nel libro E (VI) dei metafisici, nel quale Aristotele dà i vari significati delle parole filosofiche, in vano si cercherebbe quello di cui abbisogniamo, dell' universale : convien dunque che noi lo raccogliamo dai vari luoghi, nei quali Aristotele ne fa uso, e dall' intrinseca natura del medesimo. Tra i vari sensi che riceve la parola universale , noi dobbiamo fissare quei due che divennero il fondamento delle due filosofie di Platone e d' Aristotele; e che nascono da due maniere diverse di concepire, vere in se stesse entrambe. Per legare a nomi questi due universali chiameremo l' uno idea , l' altro individuo vago . Il primo nome di idea è usato da Platone, ed evitato, quanto mai può, da Aristotele che le sostituisce i vocaboli di specie e di genere . Il secondo nome di individuo vago non si trova nè in Platone nè in Aristotele ed appartiene agli scolastici, ma è opportunissimo a indicare quell' universale, in cui massimamente concentrò la sua attenzione Aristotele, e con cui volle discacciare di luogo l' idea platonica. Che queste due maniere d' universali cadano nella mente umana apparirà chiaro a chi avrà ben intesa la distinzione delle due fondamentali facoltà, da noi distinte nella medesima, dell' intuizione e dell' affermazione (1). L' intuizione ha per oggetto un' essenza intelligibile , che, a quel modo che si rappresenta all' uomo, dicesi idea . In questo pensiero non cade alcun individuo reale, anzi nessuna realità. La riflessione poi trova la possibilità che quell' essenza intelligibile venga realizzata; trova ancora che ordinariamente può essere realizzata in molti individui; e conchiude che l' idea è universale: quest' è il primo universale , che diremo platonico. La seconda facoltà, cioè l' affermazione , comincia a produrre i suoi atti nelle percezioni dei reali sensibili : giacchè queste percezioni inchiudono sempre almeno una implicita affermazione (2). L' oggetto della percezione è un reale, che in essa s' afferma. Il reale compiuto, su cui non è stata ancora esercitata astrazione di sorta, è un individuo , un individuo , dico, reale e però un singolare. Ora diamo un uomo, che abbia conosciuto in tal modo un dato individuo reale . Costui può dire indubbiamente a se stesso: Quest' individuo reale, ch' io conosco, è possibile, poichè ciò che esiste è possibile. Dopo aver detto ciò, può dire ancora, facendo uso della sua immaginazione: Ecco che io immagino un altro individuo reale uguale a questo, e del pari un altro, e un altro, all' infinito. Finalmente egli domanda a se stesso: Che cosa ho io pensato fin qui? forse delle astrazioni? e risponde: No certo, ho pensato un numero determinato d' individui reali e non più: ciascuno di questi individui esiste esclusivamente in se stesso, e niuna sua particella, per menoma che sia, è comune a ciascun altro. Io non ho fatto altro, che affermare coll' immaginazione un individuo dopo l' altro, che vedere la possibilità d' individui reali: tutto ciò che è in ciascun individuo pensato rimane sussistente in lui, e fuori di lui non sussiste. Questo è l' individuo vago . Ora, è egli un universale? Se è un universale, è una maniera d' universale ben diversa dalla prima. Poichè, se si vuole descrivere questo concetto, si avrà che con esso si universalizza l' esclusione dell' universale. E in vero, quando si dice individuo reale, si dice: non universale. Onde col dirsi: è possibile questo non universale, altro non si dice se non: E` possibile questo non universale (1). L' universalità qui giace nella possibilità della non universalità. In questa maniera Aristotele si persuase d' aver escluso l' universale nel senso platonico sostituendo l' individuo vago , cioè il pensiero d' individui reali: si persuase d' avere lasciato l' universale come fondamento della scienza e del raziocinio nella possibilità che si replichi il pensiero dell' individuo reale. Senza bisogno d' ammettere alcun universale esistente nella natura delle cose, si persuase finalmente d' aver conciliata in tal modo l' universalità e la singolarità delle essenze. Laonde definendo l' «usia» non solo dice che è la materia, l' ultimo subietto, che non si predica d' altro (2), ma è anche la forma e la specie. Or come ciò? Si badi; la forma e la specie non prese in se stesse, ma inesistenti nelle cose reali o singolari, [...OMISSIS...] , però quella forma e specie che sia un che determinato realmente, [...OMISSIS...] . E ciò, perchè c' è sempre nella parola essenza i due significati d' ideale e di realizzata, e Aristotele si attiene a questo secondo, di maniera che parla di quell' essenza che si contiene nel concetto di individuo vago , che è quello della stessa realizzazione. I questo modo la causa formale essendo realizzata, non si predica del subietto, perchè il reale non si può predicare del reale (1): e così presa anche l' «usia» seconda è in sè reale e singolare, e conviene in questo colla prima. Appartiene dunque all' individuo vago: questo spiega perchè Aristotele desse il nome d' «usia» non solo alla prima (l' individuo) ma anche alla seconda (il genere e la specie): anche questa in quanto inesiste, è singolare e reale. Di qui si scorge ragione del perchè Aristotele non parli mai in un modo diretto e assoluto dell' essere , come d' una cosa unica e da sè; ma in quella vece vi dirà come l' essere si predica o per accidente, o per sè (2); e quando parla dell' essere che si predica per sè, vi dirà che l' essere sono le dieci categorie, di maniera che l' essere come essere non ha unità, è nulla, è solo una maniera di concepire le diverse categorie; come pure ciascuna di queste non ha neppur essa unità e, non essendo una, è nulla (poichè ogni cosa che esiste, esiste come uno), onde di nuovo non è anch' essa altro che una maniera di concepire gli individui reali , i quali solo esistono da sè, «choristos» (3). L' oggetto dunque del pensare è il singolare , l' individuo reale . L' universale poi rimane del modo con cui si pensa l' individuo reale, perchè si può pensar questo individuo reale, e poi si può pensar quello, e poi un altro, e così via: e c' è sempre la possibilità di replicar l' atto ( individuo vago ). Quindi le categorie stesse, se si considerano come realizzate in individui, sono singolari e reali. Ma c' è differenza tuttavia tra la prima categoria, cioè l' essenza sostanziale e l' altre. Poichè la prima dà il nome e la natura all' individuo: così quest' uomo riceve il nome e la natura dall' essenza umana e non dalla qualità del color bianco o da altra categoria (1): onde la prima, realizzata che sia, è lo stesso individuo reale, non così l' altre, che si predicano della prima, e si possono predicare e negare molte volte dello stesso individuo, come se un uomo cangiasse più volte di colore. Di che queste conservano un' altra specie di universalità predicabile, oltre quella propria dell' essenza sostanziale. Quindi la sola sostanza si divise in prima e seconda: intendendo per prima l' individuo reale (2), e per seconda l' essenza sostanziale realizzata nell' individuo, per esempio l' umanità realizzata in Socrate, di cui l' altre categorie o essenze accidentali si predicavano. Crede dunque Aristotele di conciliare l' universalità e la singolarità dell' essenza sostanziale a questo modo: « « l' essenza sostanziale è universale, perchè la mente può pensarla in quanti individui reali ella vuole, ed è singolare, perchè ella non esiste che in ciascuno di questi individui » », è la causa formale della loro esistenza, è ciascuno di essi. Quindi domanda: « « l' essenza sostanziale è universale? è, cioè, di quelle cose che si predicano universalmente? » ». E risponde di no e di sì. [...OMISSIS...] . Con queste ragioni dimostra, che l' essenza sostanziale non può essere un universale; ma egli volge il discorso e risponde anche di sì, cioè che può essere sotto un altro rispetto. [...OMISSIS...] . Vien dunque a dire, che quello stesso universale, se trattasi di quiddità o d' essenza sostanziale, inesiste realmente nell' individuo reale e così è singolare e proprio. L' uomo (l' essenza umana), a ragion d' esempio, è universale in se stesso considerato, ma in quell' uomo reale nel quale inesiste è singolare: l' animale (l' essenza animale) è pure universale considerato da sè; ma inesiste come proprio e singolare nella specie e non esiste da sè, separato. Vero è, che tutto ciò, che si contiene nell' essenza sostanziale d' un individuo reale, non ha una ragione o una definizione: come se prendiamo la ragione d' animale, o d' uomo, questa ragione non abbraccia tutto ciò, che costituisce l' essenza sostanziale e la quiddità d' un uomo singolare e reale; ma non è meno vero, che l' animale, o l' uomo inesiste, come essenza sostanziale, in un modo proprio, nell' individuo reale: e costituisce la causa formale di lui (3). In fatti, continua a dire, poniamo, che l' ousia prima sia un prodotto, come vogliono i platonici che sia la partecipazione dell' essenza. Ne verrà, che l' essenza ( ousia seconda ) sia quella che inesistendo in un individuo reale lo costituisce ciò che è, cioè un' ousia prima . Or se quella non fosse sostanza (essenza sostanziale), sarebbe una qualità o tal altra cosa accidentale; e come allora potrebbe essere costituita una sostanza da ciò che non è sostanza, ma cosa di posteriore alla sostanza? (1) Se poi l' essenza seconda (universale) fosse un' essenza diversa dall' essenza prima e singolare, e quella costituisse questa, ci sarebbe una dualità di sostanze nello stesso individuo, per esempio, in Socrate; [...OMISSIS...] . Convien dunque dire che l' essenza costituente, e l' essenza costituita sia la medesima. Convien dunque conchiudere, che quella stessa essenza sostanziale, che in quanto si predica di molti è universale, cioè l' ousia seconda , sia quella stessa essenza sostanziale che costituisce l' individuo reale, ousia prima , ed esistendo in questo, è singolare, e questa essenza singolare sia perciò lo stesso termine della predicazione; affermandosi col predicare questa essenza reale nell' individuo. Poichè non c' è un' essenza sostanziale, che non sia di nessuno individuo, ma ogni essenza sostanziale è di qualche individuo, [...OMISSIS...] . Fuori dunque degli individui reali, ossia delle prime essenze sostanziali, altra essenza sostanziale non esiste, che sarebbe superflua a costituire gl' individui reali, e un impaccio. L' essenza sostanziale dunque presa da sè e non riferita ad individui non è punto: [...OMISSIS...] . In questa maniera Aristotele credeva di uscire da quell' ambiguità, da quella specie d' antinomia, in cui la questione degli universali involgeva la mente. Poichè 1 da una parte gli universali sono necessari a costituire la scienza, nulla sapendo l' uomo senz' essi; 2 dall' altra gli universali, come universali, non possono esistere, poichè tutto ciò che esiste è l' individuo singolare, e quest' è ancora l' oggetto vero del conoscere. Ai platonici, che ammettevano le essenze universali separate, le idee, e i singolari esistere per la partecipazione di quelle, faceva questo argomento: [...OMISSIS...] . Credette dunque di comporre quest' alternativa, che secondo lui resisteva al sistema platonico, dicendo: 1 che c' era qualche cosa di singolare negli enti, che non ammetteva alcuna ragione universale , e quest' era « il subietto ultimo »la prima materia: 2 che c' era negli stessi enti qualche altra cosa (l' essenza seconda, cioè la specie e il genere, e l' altre categorie), che si predicavano universalmente e in comune: questo predicarsi universalmente non voler dir altro, se non che lo spirito umano può attribuire a diversi individui la stessa qualità. Ma questa qualità predicata può essere essenziale, ed è quella che si dice « sostanza seconda », e significa un quale circa la sostanza prima, [...OMISSIS...] . Quest' è quella qualità sostanziale, quell' universale (la specie e il genere), che illustra, fa conoscere la sostanza prima, e però si chiama sostanza seconda (4). Ecco dunque che cosa sono gli universali d' Aristotele; non sono, nel senso proprio e vero, sostanze, ousie , come li vuole la scuola platonica: quindi sono posteriori alle sostanze (per le quali sempre s' intende la realità), qualità di esse, qualità o essenziali o accidentali. Ma così è forse sciolta la questione? Non ancora; perchè rimane a domandare tuttavia « come questi universali esistano nei singolari ». Da prima risponde, come vedemmo, che ciò, che si afferma colla predicazione, si afferma esistente nell' individuo singolare e reale, come una qualità di questo; perciò la cosa affermata è anch' essa inesistente come singolare e reale. Ma perchè dunque si dice universale? Perchè lo spirito può replicare lo stesso atto di predicazione rispetto ad altri individui. Questa risposta, di cui si fecero forti i nominali, non può soddisfare, se non a chi non l' analizza. E veramente, sia pure che lo spirito predicando affermi d' un individuo una qualità reale, e d' altri ancora la stessa qualità in ciascun d' essi reale, ma rimane a spiegare come questa qualità sia la stessa . Come più qualità reali, ciascuna delle quali inesiste come propria in diversi individui, possono essere una stessa qualità? Nè varrebbe il dire, che non sono le stesse, ma simili : poichè più cose non sono simili, se non hanno almeno qualche elemento uguale . Ritorna dunque la questione: « come più elementi reali possano essere un elemento uguale ». Aristotele crede di sfuggire alla difficoltà con una parola nova che introduce: dice dunque, che è uguale la loro ragione , «logos», distinguendo la realità dalla ragione della medesima, come vedemmo ne' passi citati. Ma una parola nova non iscioglie la questione. Che cosa è la ragione della realità? Ecco quello che Aristotele non dice, e dove rimane sana e salva, sebbene appiattata, l' idea che si vuole escludere. Questa ragione dunque sarà la conoscibilità delle cose, l' universale fuori delle cose. Si dirà che ella è un atto della mente? Sia pure. Ma che un atto della mente sia un quale della mente, s' intende: ma non s' intende come un atto della mente sia un quale delle cose, se pure le cose, per esempio le pietre e gli alberi, sono sostanze diverse dalla mente, e non la medesima sostanza prima, «usia protos». Il problema dunque della cognizione umana, come pure quello de' generi e delle specie delle cose, rimane insoluto, nelle mani del discepolo dissidente di Platone. Abbiamo veduto, che la parola subietto, secondo Aristotele, si prende in tre significati, come materia, come forma, e come l' ente reale composto di materia e di forma. La materia è il subietto ultimo di cui tutto si predica, anche l' essenza sostanziale, o sostanza seconda. Il composto di materia e di forma è un subietto, di cui propriamente non si predica l' essenza sostanziale seconda, che è uno de' componenti (la forma), ma gli accidenti. Del subietto come forma, cioè dell' essenza sostanziale o sostanza seconda, si predicano del pari gli accidenti (1): onde questi sono predicati di predicati, e però vengono ad avere una doppia universalità. Ma restringendo il nostro parlare alla forma, cioè all' essenza sostanziale o sostanza seconda, questa è quella, come vedemmo, che fa conoscere l' essenza prima, ne dichiara la natura, ne è, si può dire, la sua intelligibilità, in quant' è universale, ossia concepita come comune o predicabile di molti individui. Ma qui appunto s' affaccia ad Aristotele una nuova difficoltà: se cioè la forma reale e la specie siano cose perfettamente identiche. Il sistema aristotelico esige strettamente questa identità, perocchè in un tale sistema non esistono specie fuori degl' individui reali; e però spesse volte Aristotele usa promiscuamente dell' una e dell' altra parola. Ma non può reggere a lungo in questa confusione di cose così disparate, l' una essendo una realità, l' altra una idealità. Che cosa fa egli adunque? Ricorre all' espediente di dare due significati diversi alla stessa parola specie , o alla stessa parola forma . Chi non sente qui l' imbarazzo e la contraddizione? La specie è diversa di materia in Callia e in Socrate, ma è la medesima di specie . Conviene dire che la specie riceva in queste parole due significati, cioè sia adoperata specie per forma reale , la quale è molteplice e può considerarsi come subietto [...OMISSIS...] , e sia pure adoperata per specie o idea universale, qual è nella mente, che certamente è una e indivisibile (1). Ora, come poi quella forma reale , che dice in un modo essere subietto, sarà schema dell' idea, [...OMISSIS...] , come altra volta l' ha chiamata? (2). Che differenza c' è dunque tra lo schema dell' idea , e l' idea ? Questo rimane oscuro in Aristotele, non potendosi nel suo sistema interpretare questo schema, come si potrebbe in quello di Platone per una cotale copia dell' idea esemplare, nel qual modo cessano le difficoltà. Un altro impaccio. - Aristotele dice, che [...OMISSIS...] . Come poi, essendo uno e semplice, possa inesistere in molti, questo non lo dice, non soddisfacendo la spiegazione, che abbiamo esposta nei capitoli precedenti. Quando poi dice, come testè vedemmo, che è diverso nei molti per la materia, ed è il medesimo per la specie, [...OMISSIS...] , allora non s' accorge, che questa specie appunto, e non altro, è l' universale; onde il dire, che l' universale è il medesimo per la specie, è lo stesso che dire, che « « l' universale è il medesimo per l' universale » », cioè per se stesso, e se è il medesimo per sè, come dunque sarà diverso per la materia restando universale? O come sarà identico al singolare quello, che è universale per sè? L' attribuirgli un nome novo, quello di ragione, «logos», questo, come vedemmo, lascia la questione intera, come prima. Laonde, spinto dall' evidenza del vero, talora gli viene detto il contrario (senza avvedersi della contraddizione), come là dove, dopo aver parlato delle prime sostanze, cioè delle sostanze singolari che chiama « primi degli enti », dice che nelle sostanze seconde, che sono una classe d' universali, inesistono le prime, come nelle loro specie, [...OMISSIS...] . Questa maniera, che si adatta ottimamente al sistema platonico, è al tutto discrepante dall' aristotelico. Del rimanente l' una e l' altra delle due opposte espressioni, prescindendo dai sistemi, ha la sua verità. Poichè dovendosi distinguere in tutti i percepiti e i concetti la comprensione e l' estensione , sotto l' aspetto della comprensione gli universali sono nei singolari, e sotto l' aspetto della estensione i singolari sono negli universali. Ma convien riflettere, che quando noi diciamo, che gli universali sono ne' singolari, intendiamo (e non si può intendere altramente), in quanto sono percepiti o concepiti nella mente, perchè solo nella mente si può congiungere l' unico universale ai molti singolari. E tuttavia non v' ha dubbio, esser vera, assolutamente parlando, ed essere importante e luminosa questa sentenza di Aristotele: « « tolte via le sostanze singolari, non ci sarebbe più nulla »(2) ». La qual sentenza non gli può essere certamente contesa da Platone, che ogni cosa deriva da Dio, alla cui natura compete al sommo l' unità e la semplicità. Ma il guaio sta nell' applicare questo stesso principio alle cose finite e mondiali, alle quali pure l' estende Aristotele. Se questo filosofo avesse posta la necessità d' una sostanza singolare precedente a tutto, mente infinita, dove fosse l' universale eterno, e quindi la fonte delle idee, sarebbe andato d' accordo con Platone. Ma parlando delle specie in relazione agli enti reali della natura, pretese, che anche in quest' ordine le sostanze singolari precedessero agli universali. Egli non potè certamente mantenere un linguaggio coerente a un tale assunto. E veramente, se le sostanze prime e singolari sussistono nelle specie come potranno essere i primi degli enti? Il contenuto potrebbe essere prima del contenente? Aristotele medesimo dice di no; insegna anzi, che i contenenti si dicono anteriori ai singolari; [...OMISSIS...] . Di più egli riconosce senza esitazione, che la sostanza singolare riceve il suo nome e la sua definizione, e quindi la sua quiddità (2) dalla specie che di essa si predica, e che perciò è universale. [...OMISSIS...] La quiddità dunque viene alla sostanza singolare dalla specie universale, che le s' attribuisce, e quella si conosce dalla mente con questa. Come dunque quella sarà prima, se riceve la sua quiddità, l' esser quello che è, da questa? Come sarà prima ciò che si conosce, di ciò, con cui si conosce? Come si avrà il fine prima d' avere il mezzo necessario ad ottenerlo? Si può stringerlo ancor più cogli stessi suoi ragionamenti. Poichè egli pone, che gli accidenti sieno nelle sostanze, come in loro subietto. Dall' essere essi nelle sostanze, argomenta che non sono dunque i primi, e che senza le sostanze non ci sarebbero le altre cose degli enti (4). Ottimamente; ma quest' argomento trae la sua forza dal principio accennato, che « il contenente è anteriore al contenuto ». Ora egli colloca le sostanze singolari nelle specie, che danno loro la quiddità. Come dunque non deduce, secondo lo stesso principio, che le specie abbiano un' anteriorità a quelle singolari sostanze, e in quella vece pretende che sa il contrario? In un altro luogo, volendo provare, che non ci sono elementi comuni alla sostanza e all' altre categorie, dice che, se ci fossero, sarebbero anteriori alle categorie, perchè l' elemento è anteriore a ciò, che consta d' elementi. Ma anteriormente alle sostanze non c' è nulla. Riconosce dunque che il più comune, ossia il più universale ha un' anteriorità al singolare (1). In un altro luogo però dice, che la materia e la ragione «logos» cioè la specie, in quelle cose che si fanno per natura, sono ad un tempo (2). Se sono dunque ad un tempo la materia e le specie componenti la sostanza reale, come questa può esser prima, e non tutt' al più coeva a quelle? Pur egli va avanti e trae da quelle premesse questa conseguenza: [...OMISSIS...] . Ma qui c' è un salto nel ragionamento, perchè da premesse, che riguardano cose naturali e reali, si passa ad una conclusione che riguarda l' ordine delle cose ideali . C' è anche una petizione di principio, perchè sarebbe vero, che, essendo nelle cose reali la forma e la materia ad un tempo, non fossero necessarie le idee, quando non ci fosse da spiegar altro che le cose reali; ma se oltre queste ci sono le specie, se ci sono le cose possibili , che non essendo reali pur sono qualche cosa, in tal caso, ci sono anche queste da spiegare, e così le idee ridivengono necessarie. Quella conclusione dunque vale a condizione, che sia vero il principio, che colla conclusione stessa si vuole stabilire: pecca dunque di circolo. E questa conclusione era probabilmente venuta, o certo più facilmente ammessa, per una falsa maniera di parlare già introdotta nelle scuole, e da Platone stesso, mi pare, usata, od accettata, quella cioè che chiamava la materia il tuttinsieme «to synolon», o tutte cose, «panta», onde la questione [...OMISSIS...] come la propone Aristotele, questione che ha una ripugnanza intrinseca. Aristotele fa dunque gli universali ora posteriori, ora simultanei, ora anteriori ai singolari. Ma vediamo, se facendo uso delle sue sottili distinzioni, possiamo conciliarlo seco medesimo. Circa l' anteriorità nell' ordine della cognizione, che dice essere un' anteriorità assoluta (1), così distingue: [...OMISSIS...] . Ma che secondo il senso sieno anteriori i singolari agli universali, non c' è, a dir vero, bisogno di dirlo: poichè il senso, secondo Aristotele stesso, è dei soli singolari, e non raggiunge punto nè poco gli universali, se non per un certo parlare improprio e traslato. Laonde, quando Aristotele gli attribuisce gli universali per accidente (2), altro non fa che impacciare la nettezza del ragionamento, non potendo significare un tal modo di dire, così caro al nostro filosofo, se non che l' intendimento vede nella sua universalità quello, che nel senso è singolare. Ma il vedere questo non è altro, che il vedere la ragione della cosa sensibile, ossia la specie , la quale non è certamente lo stesso sensibile reale, nè con lui si può confondere, ma è appunto l' universale, e nient' altro che questo, riferito al singolare. Ora, secondo Aristotele, il solo intendimento ha per oggetto l' essere o la ragione della cosa (prendendo Aristotele questi due vocaboli come equivalenti): l' ordine dunque della cognizione, «kata logon», è l' ordine dell' essere e della verità, che nella mente e non nel senso si trova. Di nuovo dunque, nell' ordine dell' essere delle cose, l' universale è anteriore al singolare, parlando sempre delle cose contingenti. Finalmente, secondo lui, sono anteriori le sostanze singolari, perchè, dice, queste sole producono le altre colla generazione, e non producono la specie separata dalla materia, ma tutt' insieme. Quei primi principŒ, che sono in atto, « « non sono universali. Poichè il principio dei singolari è singolare. L' uomo detto dell' uomo è universale, ma non ce n' è alcuno »(1) »; ci sono soltanto degli uomini singolari. Quelli dunque sono i principŒ, e i principŒ sono anteriori. Ottimamente. Ma questo non prova, se non che il singolare generante è anteriore al singolare generato: il che non ha a far nulla colla questione delle specie. Questa comparisce ben tosto appresso, quando convien spiegare come la specie , essendo una e comune a molti, non sia qualche cosa di diverso da ciascuno dei molti, ed anteriore a tutti i singolari, e generanti e generati, potendo ella accomunarsi colla mente anche a qualunque numero di singolari possibili. Qui si sente l' imbarazzo del nostro filosofo, che si involge nell' oscurità. [...OMISSIS...] (2). Dunque s' abusa della parola specie , perchè 1 si dice che la specie mia non è la sua , la specie di ciascuno singolare è diversa (qui si prende evidentemente come forma reale ); 2 e pure si dice, che queste diverse specie non differiscono di specie o di ragione . Sono dunque due le specie, l' una singolare diversa in ciascuno dei singolari, l' altra universale, comune a tutte le specie singolari. Aveva dunque ragione Platone di dire che le cose sensibili non hanno la specie universale , ma solo la imitano, che la forma de' singolari è una certa copia o imagine della specie; e Aristotele non avrebbe fatto altro, che estendere la denominazione di specie a quello che non è veramente specie , fondando il suo nuovo sistema sopra un equivoco di parole. Così dunque Aristotele, parlando delle cose, che si generano, ossia, come dice, dei principŒ dei sensibili (1); ma venendo a quella specie, che è nella mente dell' artefice, confessa apertamente, che la specie è anteriore all' opera. E questo per lui è un nuovo imbarazzo. Vediamo come anche di questo procacci di uscire. Confessa dunque, che nell' opere dell' arte le specie sono anteriori, ma queste, dice, inesistono nell' opifice, e perciò in un reale, perchè « « le cause moventi (come l' opifice) esistono come nate avanti » ». L' arte non è un principio insito in ciò che si fa, com' è la natura, ma in un altro; [...OMISSIS...] . Onde, quando si cercasse la specie dell' opifice stesso, allora si troverebbe coesistente alla sua materia, e non anteriore. Ma di quante difficoltà rimane involta questa risposta? La prima è quella di sapere, se la specie , che è nell' artefice, sia specie dell' artefice stesso. A ragion d' esempio: la specie della casa, che è nella mente dell' artefice, è la specie dell' artefice, o dell' opera futura dell' artefice? Aristotele qui si trova in un impiccio tanto maggiore, quant' è maggiore l' acutezza della sua mente: ei si dibatte seco stesso tra le contraddizioni. Comincia dal dirvi, che [...OMISSIS...] ; e così mentre si parlava prima dell' artefice, ora si parla dell' arte, quasichè l' arte e l' artefice sia la medesima cosa. Ricomparisce dunque, sebbene con altra forma, la stessa questione: « se l' arte sia la specie dell' artefice, che opera secondo l' arte, o della sua opera futura ». Quand' anco dunque la specie , secondo cui opera l' artefice, si chiamasse arte , non sarebbe con questo sciolta la questione: « se la specie della casa nella mente dell' artista sia la specie dell' artista, o qualche cosa di diverso da esso, sostanza operante, che la possiede, qualche cosa fornita di caratteri e di natura propria », poichè la sostituzione d' un nome non scioglie la questione. Oltracciò il confondere la specie coll' arte va in opposizione cogli stessi principŒ d' Aristotele, il quale insegna che la natura , e l' arte sono due principŒ motori, l' uno interno e l' altro esterno, e insegna pure che la specie all' incontro è ciò, in cui tende il moto, [...OMISSIS...] , e che « « nè move, nè si move » » [...OMISSIS...] , poichè le forme o specie sono immobili [...OMISSIS...] . Dunque le specie non sono l' arte , come l' arte non è l' artista, sostanza reale e prima per Aristotele. Di più, se la specie, per confessione d' Aristotele « « è ciò in cui tende il moto com' a suo fine » », questo, che si dice anche « « primo nella mente dell' artista, e ultimo nell' operazione »(4) », conviene pure che sia qualche cosa, prima che l' opera abbia raggiunto e sia realizzato, poichè, se ci tende, non l' ha raggiunto ancora. Nè si dirà, che il moto tenda nel nulla, perchè anzi ciò, in cui tende, è dichiarato più nobile di quelle cose, che sono al fine (5). La specie dunque è qualche cosa d' anteriore alla sua realizzazione, secondo i principŒ riconosciuti da Aristotele medesimo: ma quest' elemento anteriore al reale finito sfuggì alla mente del filosofo. Quando poi ei non era preoccupato da questa terribile questione delle idee, confessava ingenuamente, che la specie, per esempio: la sanità (nella mente del medico) non è operativa, e però non è l' Arte, se non per la metafora; [...OMISSIS...] . Perchè dunque, quando nella questione delle idee si trova stretto, dice, che la sanità stessa è l' arte, cioè una causa operativa, senza avvertire il lettore della metafora? La ragione è chiara; se ne l' avesse avvertito, svaniva l' argomento. Ed è da notarsi, che come, per via di metafora, confonde l' Arte colla specie, così confonde pure colla specie, per un' altra metafora, la Natura, che è l' altro motore, cioè il motore interno; onde ne dà una doppia definizione, ossia la fa risultare da un doppio elemento, chiamandola ad un tempo un certo chè e un cert' abito a cui , [...OMISSIS...] . Il certo chè è la specie, l' abito poi a cui , è la tendenza alla specie, che ancora manca nella materia. Per natura dunque intende la specie, ma con aggiungervi un principio abituale attivo: dove osserviamo, che se la specie ha bisogno di quest' aggiunta, dunque essa da sè non è attiva. [...OMISSIS...] (1). Allo stesso modo dunque, che altrove fa risultare l' individuo dalla materia e dalla specie , qui il fa risultare dalla materia e dalla natura , sostituendo alla specie la natura, e per poter far ciò v' inserisce un abito attivo, e tuttavia non crede di moltiplicar con questo i suoi principŒ che sono costantemente tre: la materia, la specie, e la privazione. Ma in fatto non bastandogli la specie a spiegare la produzione delle cose, ci aggiunge un abito attivo che è veramente un quarto principio, che egli dissimula, e chiama così la specie , resa da lui attiva, col nome di natura . Tornando dunque a ciò, che dicevamo in principio, il luogo citato parso oscurissimo agli interpreti, che si dividono in varie sentenze, secondo noi contiene uno sforzo, che fa Aristotele, per conciliare il suo sistema « delle specie non altrove esistenti che nelle sostanze reali » col fatto delle operazioni e produzioni dell' uomo, che si fanno dietro le specie che sono nella mente dell' uomo stesso, e non nelle cose. Analizziamo senz' altro il nostro contesto. Ivi si propone di mostrare che « « nè la materia, nè le specie si fanno » ». E, tra gli argomenti, che adduce, il principale è questo, che ciò, che si fa, esige un principio, dal quale si faccia ( «u») e quest' è la materia , e un altro, in cui termini l' operazione ( «eis ho») e quest' è la specie . La materia dunque e la specie sono condizioni di ogni trasmutazione: dunque nè l' una nè l' altra si genera ( «u ginetai»), chè altramente s' andrebbe all' infinito, convenendo, che, se la materia o la specie fosse l' effetto della trasmutazione, ci fosse un' altra materia, e un' altra specie anteriore, e così senza fine. Ma la specie , che è nella mente dell' artefice, è ella forse il principio «eis ho», ossia «eis ti» ( « in quod, in aliquid »)? - Qui comparisce la difficoltà, perchè la specie reale, in cui termina la trasmutazione, non è nella mente, ma nella cosa prodotta dalla trasmutazione. Introduce dunque un terzo principio, che è il principio movente [...OMISSIS...] , e dice che appartiene a questo principio movente l' Arte, e che l' Arte è lo stesso che la specie, secondo cui opera l' artefice: quasi dica, che i principŒ moventi, essendo nati prima, [...OMISSIS...] , si dee cercare, come sia nata l' arte in un altro discorso. Ma con questa risposta riserva la questione e non la scioglie. Traduciamo ora le parole del testo come noi crediamo che vadano intese: [...OMISSIS...] . Pare che gli rincresca d' introdurre quest' arte, perchè lo fa dubitativamente, benchè tosto appresso, rinfrancato, ne parli in modo assoluto: quella specie dunque, che è l' arte , è fuori della casa reale, che è la sostanza composta di materia e di forma. [...OMISSIS...] ; in un altro per verità da quello delle cose naturali. - Qui confessa, che l' arte, la specie nell' artefice, è, ma in un altro modo da quello in cui sono le specie nelle sostanze naturali (e certamente anche nelle sostanze prodotte dall' arte, dove la specie è unita intimamente colla materia e da questa inseparabile). Non dice tuttavia quale sia questo modo, e però riserva di nuovo, e non iscioglie la questione. Dice bensì, che non si generano, nè corrompono: con che confessa di più, che tali specie sono privilegiate sopra quelle che si generano e si corrompono, e però sono in questo agguagliate a quella che prima avea chiamata « « l' ultima ( «ta eschata») » »; cresce con ciò, anzi che diminuirsi, la difficoltà. [...OMISSIS...] Traducendo così questo luogo io m' allontano alquanto dalla comune interpretazione; ma parmi che inteso così riesca più chiaro. Aristotele vuol persuadere, che tutto ciò che c' è, si riduca alle sue sostanze prime , cioè alle sostanze reali composte di materia e della specie che la finisce e determina. Ora questa mi pare, che voglia indicare colle parole «tes malist' usias he teleutaia», e che esse non si devano già riferire alla materia, essendo proprio della specie l' esser fine, e non della materia, che è indeterminata e senza fine per se stessa, e l' ultima materia si direbbe «eschate» ma non «teleutaia» (1). A quell' «he teleutaia» dunque si deve sott' intendere, per quant' io credo, «usia», che è la specie sostanziale, la seconda sostanza [...OMISSIS...] , finale della prima [...OMISSIS...] . Trae vantaggio da una sentenza di Platone, approfittandone a suo modo. Platone avea detto, che le cose reali e sensibili sono l' altro o il diverso delle specie, e le specie l' altro o il diverso delle cose «alla tuton»: di qui vuol conchiudere Aristotele, che le cose e le specie sono relativi indisgiungibili. Avea detto ancora Platone, che le essenze delle cose tutte sono le specie , e poichè nominandosi le cose si nominano le loro essenze, quindi le cose tutte sono specie; [...OMISSIS...] ; il che ammette e riconosce costantemente per vero Aristotele per tutto, ov' insegna, che le seconde sostanze, [...OMISSIS...] , quali per lui sono le specie sostanziali, si predicano delle prime, cioè delle sostanze reali [...OMISSIS...] in modo, che a queste si dà il nome e la definizione di quelle (e la definizione esprime l' essenza): onde se si domanda d' un uomo reale, (prima sostanza) « che cosa è », si risponde giustamente: « è un uomo »(seconda sostanza), il che ritorna alla sentenza platonica «eide estin hoposa physei» (3). Da questo adunque argomenta Aristotele, che le specie non ci possono essere, secondo Platone, che delle sole cose in quanto sono naturali, e non in quanto sono fatte da un artefice intelligente: le specie, dunque, conchiude, devono essere nelle nature reali, coerentemente alla dottrina di Platone, e resterà poi sempre a spiegare, che cosa sia la specie nella mente dell' artefice. Ora questo procura veramente di farlo nel primo dei posteriori, e nel terzo dell' anima; ma come gli riesce? Ci troviamo alcune sentenze generali, ma la questione non si lascia vincere (4). Vediamolo. Aristotele suppone, che l' intendere « sia un patire, simile in qualche modo, a quello del senso »; [...OMISSIS...] . Ora l' intendere è tutt' altro, poichè la sensazione o il fantasma non significano nulla, l' intendimento all' incontro rende lo stesso fantasma significativo degli enti . Come avvien dunque ai fantasmi stessi l' abilità di significare ? Questo è quello, che Aristotele non s' accorge punto di dovere investigare (6). Se avesse frugato qua entro avrebbe probabilmente conosciuta una verità, che gli sarebbe stata luce nova; perchè avrebbe veduto, che segno non si dà, senza che preesista una idea, avente un' esistenza obiettiva (1). L' idea dunque da Aristotele è supposta, non ispiegata, e in vano negata. Se si suppone che dalla passione sofferta dall' azione della sostanza reale resti qualche cosa nell' intelletto, a quel modo che spiega nel primo de' Posteriori, come, dimandiamo di novo, questa cosa, che resta, sarà un segno, come sarà rappresentativa d' una sostanza reale? Il nodo sta qui, e sfugge interamente ad Aristotele. Suppone senza difficoltà, che quello, che resta nell' anima, sia l' intelligibile , «noeton»; ma non si tratta di supporre l' intelligibile, bensì spiegare come una cosa qualunque possa essere intelligibile. Dice che la forma, in quest' azione della sostanza reale sull' intelletto, si separa, e conchiude che « come le cose sono separabili dalla materia, così sono le cose intellettuali » [...OMISSIS...] . Quello che si separa, secondo lo stesso Aristotele, è l' essere della cosa dalla cosa , come l' essere della carne dalla carne [...OMISSIS...] ; la quiddità [...OMISSIS...] ; il comune . Ma se veramente si separa quest' elemento intelligibile, quest' essenza seconda dei reali, e il filosofo non ci tiene anche qui a bada con delle metafore, è da conchiudersi, che le specie non sussistano solo nelle sostanze reali, ma anche separate, e nelle menti, e sieno di due maniere e d' opposta natura. Nel qual caso egli si fa con Platone, e rinnega il proprio sistema. - Vuol egli dire, che queste specie prima si trovano nelle sostanze reali, e posteriormente nell' intelletto, a cui dà la facoltà di prendersi per sè quell' elemento separandolo dalla materia? - Ma d' altra parte la specie comune non può stare in nessuno dei singoli, chè un singolare, come tale, niuna cosa propria comunica all' altro, ma è finito tutto in se stesso. Pure Aristotele, senza vedere, che quest' è impossibile, è obbligato dalla necessità del sistema ad ammettere il comune ne' singolari reali, e lo chiama « l' uno ne' molti »(3). Che se è uno , separato quest' uno da' molti per opera dell' intelletto, s' ha una specie sola partecipata da' molti, che è quello appunto, che attribuisce a Platone, [...OMISSIS...] , ma Platone la faceva anteriore alle cose finite, e da queste partecipata, Aristotele la vuole posteriore, e da queste partecipata all' intelletto umano, per un' operazione di questo, ritornando così indietro dal cammino fatto da Platone, e ravvicinandosi a' Pitagorici (1). Oltrechè poi, essendo manifestamente impossibile, che nei singolari, che come tali hanno una esistenza ciascuno separata, e senza alcuna comunanza, ci sia il comune o l' universale (e se non vi fosse l' intelletto non potrebbe separarlo), Aristotele è obbligato, per sostenere il suo sistema, d' adoperare delle frasi contradditorie. A ragion d' esempio dice che la specie è l' « uno ne' molti »(2), cui l' intelletto poi separa. Ora mentre qui fa, che la specie, cioè la sostanza seconda, inesista ne' molti singolari e reali, che sono le sostanze prime, tutto il contrario dice nel libro delle Categorie, dove, come abbiamo veduto, insegna, che le sostanze prime sono nelle sostanze seconde o specie; [...OMISSIS...] . Ora questo, che le sostanze reali (finite) sieno nelle ideali, non involge punto contraddizione, perchè s' intende, come nell' universale possa dirsi che si contiene il singolare ; ma che nel meno stia il più, nel singolare l' universale, l' idea nella realità, questo manifestamente ripugna, a meno che si consideri il reale, non quale è in sè, ma qual è pensato dall' intendimento; dove il reale è composto di reale e d' idea, e in questo composto l' intendimento può trovarci l' idea, come la parte che sta nel tutto; ma questo modo di concepire l' ideale nel reale pensato, o favorisce Platone, e non Aristotele, o riconduce Aristotele a Platone. Se dunque noi prendiamo da Aristotele quello che ci concede, che « le cose non si potrebbero conoscere per mezzo delle specie qualora queste non fossero nelle cose »verremo contro lui stesso ad argomentar così: « le specie che sono universali non possono esistere ne' singolari reali, ciascuno de' quali ha un' esistenza chiusa nella propria realità: ma quando i reali singoli sono conosciuti da un intendimento, allora c' è ad un tempo presente a questo, sebbene in diverso modo, la realità di ciascuno, che niente ha di comune colla realità degli altri, e la specie universale e comune, che coll' astrazione si può segregare. Dunque questa specie universale, che è l' intelligibilità de' reali, vien posta dall' intendimento, e non è ne' reali quali sono fuori di questo ». Ma pure conviene, che Aristotele ci dica chiaro, se la forma reale , che ha ciascuno degli enti finiti, sia numericamente la medesima colla specie , che è nell' intelletto che li conosce, o se questa sia diversa e forse una similitudine di quella. Non dimandiamo, se si chiamino equivocamente con uno stesso nome, perocchè gli equivoci non sciolgono le questioni, ma se si tratta d' una identica e univoca specie. Se dice, che sono diverse, benchè simili, in tal caso ricade su di lui la censura, ch' egli fa a Platone, di moltiplicare gli enti, e per ispiegare i reali introdurne altrettanti e più d' ideali (1). Nè varrebbe cos' alcuna l' aggiungere, che le specie dell' intelletto sono simili alle specie o forme delle cose reali: poichè lo stesso può dir Platone; e poi, come sa egli che siano simili se non confrontandole? E per confrontare la specie reale e l' ideale, conviene avere presenti all' intelletto sì quella che questa: ma se quella si conosce, questa seconda è inutile «( Ideol. 107, not.) ». Di più, se sono simili hanno una specie comune , e intorno a questa rinascerà la stessa questione, onde s' andrebbe all' infinito colla serie delle specie «( Ideol. 11.0 7 11.9) ». Dirà dunque, come effettivamente risulta dai luoghi allegati, che sono identiche numericamente. Ma questo è impossibile secondo i suoi stessi principŒ: e vediamolo. 1 Aristotele riconosce, che la forma degli enti è singolare; e che la specie dell' intelletto, con cui si conosce, è un universale . Il singolare non può essere identico coll' universale; nè vale il dire che l' intelletto è quello che aggiunge l' universalità, perchè l' universalità non è una cosa accidentale, che si possa aggiungere o levare alla specie, ma la specie è universale essenzialmente, e questa universalità deriva intrinsecamente dalla natura della specie stessa; 2 Aristotele dice, che [...OMISSIS...] ; dunque la specie nell' intelletto si produce all' atto dall' operazione dell' intelletto stesso. Ma la specie, forma dei particolari reali, è già prodotta all' atto in essi prima ancora che sieno conosciuti. Il che tanto più vale per Aristotele, che non riconosce necessario all' esistenza dei sensibili che sieno conosciuti, mettendo in beffa gli esemplari di Platone (2). Non possono dunque esser la stessa cosa la forma de' reali , e la specie dell' intelletto , facendosi quella in atto, quando questa non è in atto, ma ha bisogno, che l' intelletto stesso la renda in atto; 3 Aristotele dice, che la forma, che è l' essere stesso delle cose, è separabile dalla materia per opera dell' intelletto. Nell' intelletto dunque la forma o specie è separata dalla materia, ed è quello ch' egli chiama l' intelligibile ( «to noeton») (3). Ora la stessa numericamente, ed identica specie, non può essere, alla maniera di concepire aristotelica, nello stesso tempo, separata ed unita colla materia: dunque di nuovo la specie , che è nell' intelletto, non può esser quella stessa che è ne' reali (4). A malgrado di tutto ciò Aristotele è obbligato dal suo sistema d' ammettere, che la specie nell' intelletto e ne' reali sia veramente identica, poichè se dicesse questo per metafora, intendendo che sono simili, che forza avrebbe il suo argomento contro Platone d' aver coll' introdurre le idee moltiplicati gli enti inutilmente, rendendo anzi più difficile la spiegazione dell' esistenza delle cose? Ma per sostenere la detta identità, quanti assurdi non deve egli ingoiare? Primieramente è assurda questa proposizione: [...OMISSIS...] . Ora la scienza contemplativa è forse l' intelligente? No certamente; ma l' intelligente ha la scienza. Sia pur dunque, che la scienza si possa dire il complesso delle cose intese, non è per questo che l' anima intelligente sia queste cose. Ignora Aristotele, con tutta l' antichità, la profonda differenza tra l' esistenza subiettiva propria dell' intelligente, e l' esistenza obiettiva propria degl' intesi, che è il filo che riconduce da questo labirinto, o almeno egli confonde spesso in uno queste due cose. Aggiunge Aristotele che [...OMISSIS...] . Che se è ben detto, che l' anima intellettiva sia il luogo delle forme in potenza, consegue che l' anima intellettiva sia distinta dalle forme, come il luogo da ciò che occupa il luogo. E se le forme sono identiche nell' anima e ne' reali, sono nell' anima anche i reali indivisi dalla loro forma, il che nega Aristotele. Sembra piuttosto manifesto, che Aristotele, quando dice separabile per la virtù dell' intelletto la forma dalla materia, non considera le cose in sè, quali sono fuori della mente, ma quali sono nella mente concepite dall' anima. L' una delle due dunque: o le sostanze reali e prime non esistono che nella mente, o se esistono fuori della mente, non ha luogo la separazione: o si ammette che esistano identiche fuori e dentro, e in tal caso la mente non è più il proprio luogo delle forme, perchè queste stanno anche fuori della mente. Ma se le specie esistono nell' anima intellettiva solo in potenza, anche l' anima stessa esisterà solo in potenza, poichè « è il medesimo ciò che intende, e ciò che s' intende », e ciò che intende è l' anima intellettiva, ciò che s' intende sono le specie. Non si ritrae Aristotele da questa conseguenza, anzi chiama l' anima [...OMISSIS...] . C' è dunque nell' uomo, secondo Aristotele, un' anima intelligente possibile, che è lo stesso che le forme possibili. Ora come è tratta poi quest' anima all' atto? Sente egli stesso che non può bastare il definire l' intelligenza un che puramente possibile, un suscettivo delle forme, e però è obbligato d' aggiungere all' anima stessa [...OMISSIS...] . C' è dunque nell' anima una mente che diventa tutte le forme, [...OMISSIS...] ; e un' altra mente che la fa diventar tutte le forme. Ora quella mente che produce le forme non può essere le forme stesse da lei prodotte, perchè produrrebbe in tal caso se stessa: oltredichè le forme sono in potenza, e questa mente che trae le forme in atto, è per essenza in atto, separabile dalla materia, immista e impassiva; [...OMISSIS...] . Non può esser le forme nè pure dopo che le ha prodotte, perchè non le produce in sè stessa, ma nell' altra mente possibile, che è suscettiva delle forme, e che diventa tutte le cose. Tuttavia dice che questa mente producente è più eccellente dell' altra e sola immortale e perpetua. [...OMISSIS...] . Gli Arabi intesero, per questa mente separata, una mente separata dall' uomo, poniamo la mente divina; ma questa interpretazione è chiaramente smentita da Aristotele, che dice tale differenza, di mente in potenza, come materia, e di mente in atto, dover essere nell' anima stessa, [...OMISSIS...] . Se dunque la mente in atto trae la mente in potenza a divenire le specie in atto, e però quella è diversa dalle specie in atto da essa prodotte, e pure, quella sola è immortale e perpetua: convien dire che c' è qualche cosa di più eccellente delle specie stesse in atto, e queste periscono, quella poi sopravvive. Ma in tal caso come fa egli che la mente agente sia la scienza in atto, la quale è appunto il complesso delle specie in atto, come avea detto avanti? e queste stesse specie in atto aveva detto essere quella mente possibile che diventa tutte le specie? Poichè torna a dire, a proposito della mente agente, che « « quella scienza, che è in atto, è il medesimo che la cosa (4) » ». L' apparente contraddizione mi sembra conciliarsi a questo modo. E` da ritenersi che, secondo Aristotele, tutte le sostanze mondiali sono composte di materia e di forma, ma il loro essere sta nella forma (5), la materia poi, benchè non sia la forma, riceve da questa l' essere per sì fatto modo, che senza questa non esiste, e se si considera in separato non rimane più che un concetto astratto di relazione, come insegna espressamente nel secondo de' libri fisici. La forma dunque e la materia sono unite sì strettamente, che costituiscono un solo essere chiamato da Aristotele « « quella che da prima è sostanza » » [...OMISSIS...] . Questa dottrina l' applica egli anche alla natura dell' anima. [...OMISSIS...] . Ora questa materia e questa forma dell' anima sono la mente possibile e la mente agente. Queste due menti non si devono disgiungere, ma unite fanno un solo subietto intelligente, una sola anima intellettiva completa. L' effetto della loro unione, quando la mente possibile abbia ricevuto le disposizioni preambule , sono le specie. Queste adunque sono come il nesso tra la mente possibile e l' agente, e il termine d' entrambi: la mente possibile dunque le riceve per la sua unione e aderenza colla mente agente; ma come le forme sono atto, dipendono e appartengono a quest' ultima: così la materia riceve la forma, ma non è, e non diviene perciò la forma: la mente agente poi avendo la materia (la mente possibile e le condizioni preparatorie su cui operare) emette un atto che non avea prima e sono le specie: queste dunque sono la stessa mente agente in quanto è attiva sulla datale materia cioè sulla mente possibile, condizione della quale attività sono i sensibili (2). E conviene che vediamo appunto come la mente possibile si disponga alle specie, come altresì queste sieno prodotte dalla mente agente. E` da ritenersi in prima che il concetto della materia divisa dalla forma non è che un' astrazione, cioè un relativo (3) per Aristotele, e che ciò che è in potenza non è ancora. Onde la mente in potenza non è ancora mente. L' anima dunque in quant' è mente in potenza, non è ancora anima intellettiva. Che cosa è dunque per Aristotele? Senso. Vediamo come questo senso sia suscettivo delle specie . In fine al secondo libro degli Analitici posteriori, dopo che aveva dimostrato prima, che « « ogni cognizione nova nell' uomo nasce da una cognizione precedente »(4), » e che le conseguenze si cavano da principŒ preconosciuti: viene alla questione dell' origine de' principŒ stessi che non si possono dedurre da principŒ anteriori, senza andare all' infinito. Trova assurdo il dire, che noi li abbiamo per natura, perchè non ne abbiamo coscienza; trova pure impossibile, se non li abbiamo, di generarli in noi, perchè non c' è la cognizione antecedente, da cui generarli. Conchiude adunque che si deve ammettere una speciale facoltà (1), non però più eccellente dei principŒ stessi, che è quanto dire una potenzialità. E così si fa a spiegare questa facoltà inferiore, da cui poi s' hanno i primi principŒ della ragione. Da questo luogo sembra potersi inferire, che Aristotele deduca l' intelligenza dal senso, e che il sensibile corporeo, qual è il fantasma, si converta da sè prima in concetto ( «logos»), poi in memoria ( «mneme»), poi in esperienza ( «empeiria»), poi in principŒ ( «arche») delle arti e delle scienze pure col fermarsi nell' anima. Questi suoi modi, ripetuti da Aristotele altrove, hanno fatto credere ad alcuni, come tra gl' Italiani del cinquecento a Pietro Pomponazio (4), che colla filosofia d' Aristotele (e non si credeva ce n' avesse un' altra migliore), l' anima umana non si potesse dimostrare immortale, perchè i fantasmi sensibili se ne vanno col corpo. Per la stessa ragione Alessandro Afrodisio e Averroè introdussero l' Intelletto passivo , pel quale intendevano la potenza sensibile, atta a fare tutte quelle operazioni, e in questo l' arabo Commentatore poneva la specie , ponendo poi un intelletto agente separato dall' uomo, e unico per tutta la specie umana (1). Ma avendo Aristotele espressamente insegnato la sopravvivenza d' una parte intellettiva dell' anima (2), e altri luoghi delle sue opere esigendo una diversa interpretazione, conviene che ci atteniamo a quella che meglio e più facilmente concilia Aristotele con se stesso. Aristotele adunque dopo il luogo arrecato degli Analitici posteriori soggiunge: [...OMISSIS...] . Acciocchè dunque si possa fare quei passi ch' egli descrisse dalla sensazione al concetto fino a' principŒ scientifici , dice che l' anima dee essere costituita in un dato modo, ma qui non dice quale . Per conoscere adunque la natura di quest' anima, convien ricorrere ai libri dell' Anima e a' Metafisici, dove si vede che la natura d' una tal anima dev' essere intellettiva. Non è dunque il solo senso, che possa fare tutto ciò che in fine agli Analitici posteriori descrive, ma il senso in un' anima intellettiva. La dottrina dunque propria dell' intendimento è supposta, ed è quella che abbiamo prima indicata, e considerando quale sia questa, si può raccogliere, che l' opera del senso non è che una preparazione, o condizione materiale agli atti della intelligenza. Questa è la più conciliante interpretazione che si possa dare ad Aristotele, che certo s' esprime assai oscuramente. E per raccogliere come noi crediamo doversi intendere Aristotele, nel capitolo 4 del terzo libro dell' Anima, egli parla, secondo noi, della mente umana in universale. E poichè talora dà il nome di mente a ciò che non è mente, per traslato, come dice pure per un certo traslato, che il senso giudica (4); perciò qui si dà cura di definire di qual mente parli, e dice di quella « « per la quale l' anima conosce ed è prudente » [...OMISSIS...] ; e poco appresso di nuovo si dà cura, acciocchè non nasca equivoco, di avvertire che parla di quella mente « « colla quale l' anima raziocina e congettura » [...OMISSIS...] . Così distingue questa mente di cui parla e che è sola vera mente, dal senso. E quanto sia distinta da questo, risulta dalle parole che seguono, dove dice che [...OMISSIS...] . Distingue dunque i sensibili, e però i fantasmi, dagl' intelligibili: questi dunque, oggetto della mente, non sono i fantasmi. Ma gl' intelligibili non sono naturalmente in atto, ma in potenza: conchiude dunque, che anche la mente non ha altra natura, che quella di potenza , [...OMISSIS...] . Nel capitolo seguente viene a determinare come sia fatta questa potenza, e qui dice che quantunque sia potenza, ella deve avere una virtù in sè stessa, che (date certe circostanze) la trae all' atto, onde distingue nella stessa ed unica potenza due funzioni, l' una di ricevere, l' altra di fare, che non chiama parti ma differenze ( «diaphoras»). Queste funzioni o differenze appartengono alla stessa parte dell' anima di cui ha detto voler parlare (1). Ma l' averle chiamate, ciascuna, mente ( «nus»), fece sì che si rendesse più difficile l' intenderne la dottrina, considerandole come due menti, o intelletti diversi, il possibile, e l' agente. All' incontro il sistema riesce assai più chiaro, se si considerano come due attitudini, virtù, funzioni, o piuttosto elementi della stessa potenza, nella quale unità compariscono costantemente nel capitolo quarto. E veramente in questo capitolo in primo luogo loda la sentenza di Anassagora, che aveva detto la mente dovere essere immista ( «amige») e però senza alcun miscuglio di cosa corporea [...OMISSIS...] , semplice ( «haplun»), senza passione ( «apathes»), e non avente nulla affatto di comune con alcun' altra cosa [...OMISSIS...] : le quali qualificazioni la distinguono affatto da ogni cosa sensibile , e però la specie della mente, secondo questa dottrina, conviene che sia totalmente diversa e separata non solo dalla forma materiale, ma ancora da ogni sensazione: onde le difficoltà che più sopra abbiamo indicate, e che qui lasciamo da parte. Posta questa spiritualità e purità della mente, Aristotele propone due dubbi: 1 se la mente ha nulla di comune coll' altre cose, e se l' intendere, come fu detto prima, è un certo patire, in che modo la mente intenderà? 2 se l' intendere è patire, come la mente intenderà sè stessa? Come patirà da sè stessa? Acciocchè patisca da sè stessa ella dovrebbe esser duplice, dovrebbe agire e patire ad un tempo, e l' agire e il patire suppone un chè di comune [...OMISSIS...] . Se essa è intelligibile come l' altre cose, sarà mista di materia e di forma e non più semplice, cioè avrà qualche cosa in sè, che, separandosi dal resto, la renda intelligibile [...OMISSIS...] : nè intelligibile in un altro modo può essere, perchè l' intelligibile è unico di specie [...OMISSIS...] . Quant' è chiaro e lungo Aristotele nel proporre le obbiezioni, altrettanto è oscuro e breve nel rispondere alle medesime. Tuttavia non dubito che la risposta ch' egli intende dare sia la seguente. Alla prima difficoltà risponde così. Prima accorda che il patire supponga qualche cosa di comune tra il paziente e l' agente, [...OMISSIS...] . Poi non nega questo comune alla mente, ma esso è appunto comune per questo che [...OMISSIS...] . Ora l' intelligibile è l' agente, come ha detto prima [...OMISSIS...] , e la potenza suscettiva di questi [...OMISSIS...] è il paziente. Onde da prima questa è divisa, [...OMISSIS...] ; perchè non è uscita ancora al suo atto che la finisce. Ella, la mente, patisce quando fa l' atto di conoscere, perchè in virtù di quest' atto quella che prima era potenza, riceve gl' intelligibili; ma questi intelligibili, quando sono in atto, sono lei stessa, perchè essi sono l' estremo suo atto, o termine. Onde, di questa divisione, che da prima si ravvisa nella mente tra il suo essere in potenza e il suo essere in atto, dice che [...OMISSIS...] . Questo è il celebre luogo d' Aristotele, del quale tanto abusarono i sensisti moderni senz' intenderlo. Aristotele paragona la mente, in quant' è potenza, alla tavola rasa, ma questa tavola per Aristotele è una potenza viva, che quando vuole (1) si scrive da sè stessa (2). Ed aveva già prima avvertito, che ci sono due maniere di patire [...OMISSIS...] . Onde non è assurdo, che si attribuisca una tale potenza, che non importa alcuna corruzione nè alterazione, ad un incorporeo. Laonde un recente Scoliaste della psicologia Aristotelica raccoglie che, secondo questo filosofo, [...OMISSIS...] . E la cosa si rende evidente, dove si consideri la differenza che Aristotele pone tra il senso e la mente, dove chiaramente apparisce, che nè la mente viene dal senso, nè i sensibili si trasformano punto in intelligibili. Se dunque gl' intelligibili sono nell' anima, e per un atto di questa si attuano, la specie intellettiva e quella, di cui partecipano le cose reali fuori dell' anima, non sono identiche, ed è una metafora il dirle tali, onde ritornano in campo le difficoltà che Aristotele oppose a Platone, circa l' attitudine delle idee a far conoscer le cose. Come dunque si risponderà alla prima questione? Tutta la risposta si riduce a queste parole, che « quando la mente fa l' atto dell' intendere, allora la stessa mente e la cosa intesa sono il medesimo ». Ma tanto è lungi che Aristotele spieghi come ciò sia o possa essere, che dalla sua stessa dottrina risulta che la cosa intesa si divide in due, materia e forma, e con questa sola s' intende, rimanendo l' altra al senso; ma questa stessa, la forma, è solo equivocamente la medesima nell' intelletto, e fuori dell' intelletto, e per similitudine, come hanno più espressamente detto gli Scoliasti, e i loro successori, gli Scolastici. Ma che per via di similitudine non si possa spiegare la cognizione delle cose esterne, fu da noi dimostrato (10 7 11). Laonde si ricorse dagli espositori d' Aristotele ad un altro ripiego, cioè a dire, che la stessa forma aveva due maniere di essere, l' una nella mente senza materia, l' altra fuori della mente nella materia, e si limitarono ad impugnare la terza maniera di essere, che attribuivano, secondo noi falsamente, a Platone, cioè l' esistenza della essenza in sè fuori d' ogni mente, e fuori delle cose (1). Ora l' essere caduti a questo, era un trovarsi nel vero cacciativi dalla necessità logica, e senza pure accorgersene. Se avessero afferrata l' importanza di questa sentenza che usciva loro di bocca, ed avessero distinto accuratamente l' essere dalla maniera di essere , che nel loro linguaggio si confondono, avessero veduto che l' essere può conservarsi identico sotto più forme, avessero studiata la natura di queste forme e trovato che l' una era subiettiva (alla quale si riduce l' extrasubiettiva), e l' altra obiettiva , sarebbero pervenuti a vincere le immense difficoltà che seco ravvolge il problema della cognizione umana. Ma quanto rimanessero lontani da ciò, l' incertezza, l' improprietà e l' incoerenza, con cui parlano, il manifesta. E riguardo ad Aristotele, s' osservi anche qui, come inframetta di continuo al discorso delle particelle diminutive ed eccezionali, che poi non ispiega più in nessun luogo, e che pur gli valgono di scusa per avere la facoltà di prendere la stessa proposizione quando gli accomoda, o escluderla in caso diverso, appigliandosi alla sua contraria. Così quando dice che la mente « « è in potenza in qualche modo, «pos», le cose intelligibili » », tutto il nodo della questione sta in quella particella «pos», piccolissima di mole a segno che sfugge all' attenzione de' lettori, come un nonnulla, ma che pure è quella cosa che contiene tutto il sistema, se c' è sistema; e se non c' è, che fa credere che ci sia. Ora quella particella è appunto la più trascurata dal nostro filosofo, ne commette al lettore la interpretazione, e supponendola chiara da sè, non ci fa commento. Intanto da quella proposizione limitata e condizionata, perchè non s' avvera che in qualche modo, «pos», ne cava una conseguenza assoluta, che « « la mente può pensare quando le piace agl' intelligibili » », il che suppone che gl' intelligibili non sieno in qualche modo nella mente, ma che semplicemente ci sieno: altramente la conseguenza dovrebbe essere, per non riuscire più larga della premessa, che « « la mente in qualche modo può pensare quando vuole agl' intelligibili » ». Quando poi la proposizione non gli va bene, prende la contraria che, « gl' intelligibili sieno in qualche modo fuori della mente »; ed eccoli nelle cose reali, contro quello che avea prima supposto. La seconda questione, dopo la prima, è assai più facile a risolvere. Poichè se gl' intelligibili si fanno per l' atto stesso dell' intendere, e sono la stessa mente in atto, chiaro è che la mente in atto dee essere intelligibile a sè stessa, essendo l' atto della mente l' intelligibile, onde dice, che è « « anch' essa intelligibile come gl' intelligibili, poichè nelle cose scevre da materia è il medesimo l' intelligente e l' intelligibile »(1) ». E quest' è il passo dove Aristotele consumma la confusione e la identificazione del subietto coll' obietto: poichè la mente in tal modo da subiettiva che era in potenza, in atto è divenuta obiettiva. Continuando dunque ad esporre l' intricato ed oscuro sistema d' Aristotele circa l' intendimento umano, dicevamo, ch' egli nel capo quarto del libro terzo dell' Anima, stabilisce in generale da prima, che la mente umana è un potenziale, «dynaton», e non è altra natura che questa [...OMISSIS...] . Ma qui la parola potenza, o ciò che è potenziale, deve prendersi in altro significato da quello in cui la prende poco appresso, quando dice che [...OMISSIS...] . Poichè se quando gli intelligibili sono in potenza, non ci potesse essere una mente, in tal caso la mente sarebbe solo degli intelligibili in atto, e non ci sarebbe una mente potenziale, «dynaton», che non ha niuno degli intelligibili in atto; e pur questa non solo c' è secondo lui, ma è immista e pura da concrezione corporea, acciocchè vinca e domini, «hina krate», come aveva detto Anassagora, espressione che Aristotele ammette, e spiega così [...OMISSIS...] ; il quale luogo conferma quello che dicevamo avanti, cioè che Aristotele per la Mente possibile di cui parla nel citato capitolo quarto, intende l' unica mente umana, anche quella che opera, conosce, raziocina, congettura, prudenteggia [...OMISSIS...] , essendo prima potenza, ed ella stessa poi atto, entelechia. Il medesimo si prova da questo che nel capitolo quinto dice, che il solo intelletto agente, [...OMISSIS...] , è separabile, e nel capitolo precedente, dove parla del possibile [...OMISSIS...] , dice che è separabile dal corpo (1); il che mostra che si tratta della stessa mente analizzata, e considerata sotto due aspetti diversi. Rimanendo dunque a spiegare come questa potenza intellettiva passi al suo atto, dice che anche quando la mente è divenuta ciascuna forma [...OMISSIS...] , uscendo al suo atto « « è anche allora in certo modo in potenza » [...OMISSIS...] «ma non a quel modo come prima che imparasse o ritrovasse »(2) ». La mente umana dunque si rimane sempre una potenza, ma in altro modo quando non ha ancora appreso nulla, e in un altro quando ha già appreso. Queste due potenzialità della mente erano state dichiarate prima da Aristotele. Poichè aveva distinto l' uomo che non sa ancor nulla, ma che è in potenza ad imparare, ad acquistare l' abito della scienza; e l' uomo che già ne ha l' abito , come chi ha la scienza grammaticale, il quale può ripensare alle cose che sa, quando vuole, e quando non ci pensa è in potenza all' operazione del contemplare. Prima dunque la mente è in potenza all' abito della scienza; poi è in potenza all' operazione del pensiero attuale. Ora l' uomo, che è sciente in potenza al primo modo, lo chiama « « genere e materia dello sciente » » [...OMISSIS...] . Questa mente dunque « materia di tutte le specie », viene ad essere il medesimo della « materia ideale »di Platone, di cui abbiamo parlato, poichè di questa prima materia ideale, secondo Platone, si compongono tutte le idee. Dove si vede manifesto, che come abbiamo già prima osservato, Aristotele confuse l' esistenza puramente obiettiva di questa materia e di tutte le specie, che ne derivano, coll' esistenza subiettiva dell' uomo intelligente, onde la chiamò [...OMISSIS...] , « un che intelligente », e volle, che questo « che intelligente »dovesse essere lo stesso che « un che inteso », partendo dal principio « « che in quelle cose che sono senza materia (corporea) l' intelligente è il medesimo che l' inteso » » [...OMISSIS...] . Principio affatto gratuito, di cui Aristotele non reca in alcun luogo la minima prova, e contrario al testimonio della coscienza, giacchè chi pensa è consapevole di non esser nessuna delle cose pensate, eccetto se pensa se stesso: che se fosse le cose pensate, egli non potrebbe più distinguere quando pensa se stesso, e quando pensa l' altre cose. Che se avesse afferrata questa distinzione tra le due maniere d' esistenza di cui parliamo, e avesse riconosciuto che « la materia ideale, di cui si formano tutte le idee determinate »non ha e non può avere che un' esistenza obbiettiva, egli avrebbe colto nel segno. Poichè chiamandola «dynaton», possibile, l' avrebbe altresì saputa chiamare in un modo oggettivo «to dynaton», il possibile ; e sarebbe pervenuto alla nostra teoria delle idee, che pone nell' anima umana una materia ideale indeterminata, e questa non esser altro che « il possibile, «to dynaton» », ossia come noi lo chiamiamo più espressamente « l' essere possibile », distinto affatto dall' anima che l' intuisce. Le cagioni, che indussero Aristotele a dare alla materia prima dello scibile un' esistenza subiettiva ad un tempo ed obiettiva, confondendo insieme maniere d' essere così distinte, furono varie. - E prima, l' impegno che avea preso di mostrare, che le idee platoniche non potevano giovar nulla alla cognizione delle cose, perchè estranee a queste; onde non gli rimase che la via di unire le specie alle cose, e di fare le specie nelle cose e nella mente identiche, temperando poi un tale assurdo colla particella «pos», e col dire il contrario altrove in altre parole, come quando fa che la mente patisca dal simile, [...OMISSIS...] , cioè dall' intelligibile , [...OMISSIS...] , quando questo non doveva esser pur altro, che l' effetto e l' atto della mente stessa. Un' altra cagione è quella, comune a tutta l' antica filosofia, che vi era assai poco considerata la coscienza , e non si deduceva la dottrina dell' anima dall' anima stessa, ma dall' analogia delle cose esteriori, attribuendosi all' anima quella costituzione, che in queste si ravvisava. Ora in tutte le cose reali e finite non c' è che potenza , atto e limitazione , e la parola forma è tolta dall' intelletto e a loro applicata, ma in esse veramente, in quanto sono fuori della mente, non c' è specie o forma alcuna. Confondendo dunque le cose reali in sè colle cose reali pensate dalla mente, si prese l' atto che hanno i reali, per identico alla forma che non è in esse, ma solo nella mente, ed è dalla mente data ad esse quando si conoscono, essendone la forma o la specie l' essenza intelligibile. Questa confusione d' elementi diversi accadde anche ad Aristotele, nel secondo libro cap. due dell' « Anima », dove la materia è detta potenza , e l' atto è detto specie o forma , [...OMISSIS...] ; quando la specie o forma è diversissima dall' atto, essendo puramente oggetto in cui termina l' atto dell' intelletto. La confusione di questi due concetti, atto e specie od oggetto , si confermò nella mente di Aristotele, o si giustificò a' suoi occhi dall' aver supposto, senza sufficiente esame, che tra il senso e l' intelletto passasse una similitudine maggiore di quella, che veramente ci passa, come risulta da questo luogo: [...OMISSIS...] . Egli vuol dire, che noi diciamo d' intendere colla scienza , e d' intendere coll' anima : [...OMISSIS...] . Dove chiaramente apparisce, che Aristotele prende come equivalenti i vocaboli di forma, di specie, di ragione e di atto [...OMISSIS...] . Pare però rispetto a quest' ultimo, che dubiti egli stesso di ciò che afferma, perchè dopo aver detto francamente che la scienza e la sanità sono forme e specie e ragioni dello sciente e del sano, non osa poi dire, con egual franchezza, che sono loro atto , ma « « come atto, [...OMISSIS...] » ». E crede oltracciò necessario di giustificare quest' ultima appellazione dicendo: [...OMISSIS...] . Avendo dunque osservato, che nel parlar comune si dice, che l' uomo conosce coll ' anima, ed anche che l' uomo conosce colla scienza, attenendosi a questa maniera di parlare strettamente, distinse due principŒ, denominandoli con cui , [...OMISSIS...] , quo appresso gli scolastici, l' uno de' quali l' anima , l' altro la forma ultimata cioè la scienza o la sanità . Ma si considerino attentamente queste parole: « Noi viviamo e sentiamo e raziociniamo coll' anima ». Si distingue dunque il noi dall' anima. Il noi indica certamente il subietto, la persona umana . Ma l' anima non è ella anche persona umana? Se si distinguesse l' anima dalla persona, come gli antichi infatti distinsero «psyche» da «pneuma», si potrebbe dire acconciamente che: « noi viviamo e sentiamo coll' anima », intendendo per anima « la vita animale e sensibile ». E probabilmente fu tratto Aristotele a considerare l' anima come un istrumento con cui noi operiamo, dall' aver fondata la sua psicologia sulla definizione dell' anima generica, e però della più imperfetta. Ma dicendo egli oltracciò che noi coll' anima « raziociniamo », non può più dirsi che noi facciam questo coll' anima sensitiva. Coll' anima intellettiva dunque? Nè pure, perchè quest' anima siamo noi stessi, subietto personale. Come dunque poteva dire Aristotele che noi raziociniamo coll' anima? Aristotele considera l' uomo composto di corpo e d' anima, come di materia e di forma [...OMISSIS...] , e questo composto è quello, a cui attribuisce gli atti che si fanno coll' anima. Ma in vano, perchè negli atti intellettivi, la parola noi che esprime il subietto che si fa, è un sentimento semplicissimo ed incorporeo (1). In secondo luogo Aristotele cade in un manifesto assurdo, poichè ponendo il corpo come materia e potenza, l' anima come forma e come atto, e dicendo che tutti gli atti sussistono nella materia come in loro subietto (giacchè nega che l' anima sia subietto), viene a fare che il noi intelligente sia il corpo e che l' anima sia il suo atto (2). L' anima umana dunque è ella propriamente il subietto che sente coll' istrumento del corpo, e intende coll' idea, e non è quella, con cui si sente e s' intende da un composto. Un' inesattezza così grande di parlare condusse Aristotele ad altre strane confusioni: [...OMISSIS...] : e questo che ha potenza ad essere così è il corpo suscettivo d' essere animato, cioè di ricevere quell' anima che è una ragione e una specie, componendo così l' uomo di corpo, organizzato sì, ma per sè del tutto materiale, e di specie , onde il puro corpo sarebbe il subietto della specie . Vedesi che Aristotele non colse punto nè poco la distinzione tra la forma subiettiva , l' estrasubiettiva e l' obiettiva (2), e però non intese, che la specie o idea è una forma obiettiva, e che ha quindi bisogno d' un subietto vivente e senziente per essere da questo intuìta, e così avuta; il che non può fare alcun organismo materiale, che ha un' esistenza puramente estrasubiettiva, ed è suscettivo soltanto della forma estrasubiettiva. Questa confusione tra la forma subiettiva ed estrasubiettiva, e la forma obiettiva, vedesi dal mettere insieme che egli fa la sanità e la scienza , quando quella è una forma subiettiva , e questa è una forma obiettiva . E come abbiamo già detto prima, alla subiettiva non appartiene nè pure il nome di forma , ma semplicemente quello di atto , e questo non si chiama forma, se non considerato in relazione all' intelligenza che n' ha l' idea, la quale, applicata all' atto conosciuto, dicesi forma. C' è ancora in questa dottrina Aristotelica un altro errore profondo, ed è quello di supporre che la materia costituisca sempre il subietto , anche de' composti. Prendendo la materia al modo Aristotelico come « ciò che è in potenza », convien distinguere tre materie, e relative ad esse tre maniere di forme: la materia e la forma estrasubiettiva, la materia e la forma subiettiva, la materia ideale e obiettiva, che è ella stessa in un altro rispetto, anche forma. Ciascuna di queste materie costituisce benissimo il subietto della forma a sè relativa, ma non di tutto il composto; come nell' uomo, se si prende per materia il corpo e per forma l' anima, quello non è punto il subietto di questa, benchè si possa prendere per subietto delle sue proprie forme corporee. La materia estrasoggettiva dunque è estesa e corporea, ed essa è suscettiva di sole forme (o piuttosto limiti ed atti ) estrasoggettive , come la sfericità, o la cubicità di un corpo: la materia subiettiva è la potenza di sentire o d' intendere, e quest' è l' anima sensitiva in quant' è costituita da un sentimento fondamentale e sostanziale suscettivo di modificazioni o sensazioni, ed è l' anima intellettiva in quant' è costituita da una prima intuizione e conseguente sentimento e potenza di emettere degli speciali atti intellettivi: gli atti poi sensitivi e intellettivi, rispetto all' intendimento che li pensa, si dicono forme subiettive: la materia ideale finalmente è l' essere indeterminato, e in quanto è suscettivo di determinazioni si può chiamar materia delle idee speciali e generiche, ma in quanto egli è essenziale obiettività, si dice forma obiettiva di tutte l' altre idee e di tutte le cose. Ora nelle due prime maniere di materia e di forma, la materia propria di ciascuna, o si prende pel subietto, od anche è tale; il subietto d' una forma estrasoggettiva non può essere altro che dialettico, cioè non propriamente un subietto, ma un estrasubietto che si prende per subietto dalla mente per la necessità del pensare: il subietto poi d' una forma subiettiva è vero subietto, e però non può mai essere un estrasubietto. Quanto poi alla forma ideale ed oggettiva, ella non ha subietto negli enti finiti, ma si prende come subietto dialettico delle sue determinazioni. C' è però un subietto, che non s' appropria già quella forma come un elemento della propria natura, ma un subietto che la intuisce come un diverso da sè, propriamente come oggetto; e quest' è l' intelligenza finita, come è appunto l' anima dell' uomo. Il vero dunque e reale subietto è costituito solo dalla materia subiettiva ed è il principio sensitivo e l' intellettivo: l' estrasoggettivo e l' ideale non sono subietti, se non dialettici. Se dunque si cerca di questo composto che dicesi uomo , qual sia il subietto, è da rispondersi non altro che « il principio sensitivo e intellettivo che è l' anima in quanto è persona », e perciò il subietto non è la materia, ma la forma dell' uomo, cioè l' anima intellettiva, che non è forma del solo corpo, ma di tutto il composto uomo (1). A torto dunque Aristotele considerò il corpo come il subietto dell' umana natura, il subietto di quell' atto , che chiamò anima, poichè scrisse: [...OMISSIS...] . Gli espositori cercano di attenuare il torto d' Aristotele, dicendo che egli parla non del corpo puramente materiale, ma del corpo unito all' anima (3). Ma se l' anima è un atto del corpo, chiaramente apparisce che il corpo è il subietto di quest' atto, e se l' anima è un quid corporis benchè non sia corpo, il corpo rimarrà di novo il principale; e finalmente il dire che « l' anima sussiste nel corpo »è un non intendere la dignità e potenza dell' anima, perchè in questa piuttosto, come dice S. Tommaso, sussiste il corpo vivente, e da essa è contenuto nella sua unità. I quali errori d' Aristotele nacquero in gran parte dall' aver considerata l' anima con principŒ troppo generici ed astratti (4), onde poi non potè conservare la coerenza seco stesso, quando pose che l' intellettiva era un altro genere d' anima , [...OMISSIS...] , e che potea separarsi dal corpo realmente [...OMISSIS...] , e non di mero concetto [...OMISSIS...] . Ma tornando ora noi alla confusione che fa Aristotele tra quello che per sè è atto , e non forma , e quello che è per sè forma: vedesi questo equivoco nelle due forme che reca in esempio, la scienza e la sanità , dicendo, che quella è forma dello sciente , questa del sano . Poichè la sanità non è che un atto dell' animale, e non è forma se non quando quest' atto è pensato dalla mente, perchè allora è oggetto, e non fa sano nessuno; laddove la scienza è per sè forma, non potendo esistere che nella mente come un complesso di oggetti da questa contemplati. Confonde dunque l' atto che si può dire forma subiettiva, colle vere forme obiettive (1). Ed anzi nella scienza stessa due cose si devono distinguere, quelle appunto che Aristotele prende per una sola, cioè l' atto della mente che contempla, e questo non è forma, se non in senso subiettivo e traslato, e le idee contemplate, e queste sono veramente e propriamente le forme. Da questa confusione avviene che Aristotele parli dell' anima intellettiva come fosse ad un tempo un atto subiettivo, e come fosse ella stessa obietto; negando però all' anima in genere l' esser materia e subietto, e accordandolo al corpo vivente (2). La considera in fatti come un atto subiettivo quando ammette che essa sia un che sciente. [...OMISSIS...] . Benchè parli qui d' uno sciente in potenza, tuttavia non si potrebbe chiamare sciente semplicemente [...OMISSIS...] , se non avesse un atto qualsiasi di sapere anteriore alla cognizione ricevuta. E veramente quello che nega Aristotele all' uomo per natura sono, come vedemmo, degli « abiti di sapere determinati (4) », e quando parla del sapere acquisito, sempre adopera tali espressioni, che indicano una scienza determinata, come in questo luogo adduce per esempio la grammatica. Aver dunque l' anima intellettiva ed essere sciente in potenza è il medesimo per Aristotele. Ora l' atto che s' esprime colla parola sciente , è un atto subiettivo, e non una forma obiettiva. Ma altre volte e interpolatamente, come gli accomoda, Aristotele parla dell' anima intellettiva come fosse una forma obiettiva , come abbiamo veduto, e come si può di nuovo rilevare dal seguente luogo (5). [...OMISSIS...] . E poco appresso la dice « « essenza come concetto » » [...OMISSIS...] , e la paragona al concetto della scure, che non è separato dalla scure se non di nome. Così ora la fa atto subiettivo del corpo vivente (1), ora specie ossia forma oggettiva, confondendo l' una cosa coll' altra. Ma quest' atto, questa entelechia del corpo, restringendoci all' anima intellettiva, ha egli stesso tre gradi successivi; il primo fa l' uomo sciente in potenza ed è l' anima intellettiva , il secondo è la scienza appresa come abito , di cui dà in esempio la grammatica, il terzo è l' atto della contemplazione d' una cosa determinata che già si sa per abito (2). Il primo che è l' essenza dell' anima, e che avea detto atto del corpo, diventa ella stessa nel discorso d' Aristotele, rispetto alla seconda e alla terza maniera di atti « genere e potenza »; [...OMISSIS...] ; di che deriva, volendo esser coerenti ai principŒ Aristotelici, che l' anima non solo è atto del corpo, ma anche subietto, perchè materia e potenza d' altri atti, che da lei procedono (4). Di più ella non ha bisogno, per fare alcuni di questi atti, di alcun organo corporale. Costretto di confessar tutto questo, Aristotele si trova impacciato più che mai, nel rispondere alla domanda: se quest' anima possa sussistere separata dal corpo, e dice e ripete, che questo è cosa oscura (1), ma finalmente confessa di sì: « « Niente vieta, che alcune parti dell' anima sieno separabili, perchè non sono atti di nessun corpo » »: a queste parti adunque, o parte, che non è atto del corpo, si deve necessariamente attribuire la condizione di subietto di quegli atti che sono esclusivamente suoi. Ora, se può sussistere, conviene che sia un subietto determinato , perchè l' indeterminato non può avere propria esistenza. Non si può dunque chiamare materia , se non relativamente ad atti accidentali. Ma il subietto degli atti accidentali è la forma, ossia è la sostanza, secondo lo stesso Aristotele, come vedemmo. Non può dunque dirsi materia , se non in un senso relativo e dialettico. E ancora Aristotele descrive l' anima come subietto, ogni qualvolta la descrive come quella che contiene e dà l' unità agli elementi corporei, [...OMISSIS...] (2), poichè il contenente ha ragione di subietto relativamente al contenuto; e molto più quando la considera come cosa superiore e dominante il corpo, il che attribuisce a tutta l' anima, ma soprattutto poi alla mente (3). Ma, di nuovo, come quest' anima, per sè subietto, passa dal primo suo essere di potenza, cioè di sciente in potenza , [...OMISSIS...] , a' suoi atti? Il primo genere di questi (ciascun de' quali può in appresso rimanere nell' anima com' abito determinato, o può divenire oggetto d' attuale contemplazione) è quello che Aristotele chiama mente, «nus», e che gli Scolastici tradussero intelligentia : questa mente ha per suo oggetto i principŒ, [...OMISSIS...] (4) e non è scienza, perchè la scienza è sempre accompagnata col raziocinio, e però non è mai de' principŒ (1), ma è anteriore alla scienza perchè è « « principio della scienza » », [...OMISSIS...] , ed è della scienza più evidente, [...OMISSIS...] . Questa mente dunque è la stessa mente da potenza passata all' atto suo proprio e primo, che è quello d' intuire le specie e gli astratti, che Aristotele unisce sotto gli stessi nomi d' indivisibili , [...OMISSIS...] , impartibili [...OMISSIS...] , universali, [...OMISSIS...] , immediati, [...OMISSIS...] , principŒ, [...OMISSIS...] , o principŒ primi, e immediati, [...OMISSIS...] (2) e la stessa mente che da «dynamei» è divenuta «entelecheia». Ora il maggiore sforzo del filosofo si pone appunto nello spiegare questo passaggio, nello spiegare come la mente si provveda delle specie determinate , che le mancano da principio, onde si paragona a una tavola rasa, la quale è la questione dell' origine delle idee. Poichè spiegate le idee, è facile lo spiegare gli atti che vengono appresso, cioè quello di contemplare attualmente le idee che si hanno, «theoreim», e di conoscere ragionando, «noein, dianoeisthai» (3). Ora Aristotele, per ispiegare questo passaggio concepì una facoltà di sentire in genere, nella quale si radichino tutte le attività dell' anima, d' ogni anima qualunque, e questa anche noi abbiamo ammessa (4). Ma questo sentire si diversifica ne' varŒ animali, e specialmente da tutti gli altri nell' uomo. In questo Aristotele riconosce un senso de' singolari, e una sensione degli universali. [...OMISSIS...] . E` dottrina costante di Aristotele, che il senso esterno è de' singolari, e l' intelletto degli universali (6), ma nell' uomo rimane una sensione dell' universale . Questa suppone una facoltà dell' universale nell' anima, che è l' intelletto, e che si può dire una special maniera di senso, perchè sente immediatamente l' universale. Quest' universale è quello che Aristotele chiama talora essere della cosa, talora essenza, specie, forma., ecc.. Il che si conferma con queste parole: « « Nell' anima ragionativa inesistono i fantasmi come pure i sensibili »(7) », il che si può intendere così, che i sensibili soggiacciono ai pensieri, come loro materia e condizione. In questa maniera si salva dall' assurdo la sentenza che « « la sensione faccia nel modo detto l' universale » » [...OMISSIS...] : distinguendo Aristotele la sensione dall' attuale sentire , che prende la sensione per ciò che rimane nell' anima intellettiva dopo l' atto del sentire; e si può congetturare, che questa maniera di restare, di rimanere nell' anima, sia stata suggerita ad Aristotele dalla stessa lingua greca, di cui la sua filosofia è una continua interpretazione, poichè da «meno», permaneo, constanter maneo , si derivava «menos», che significava « anima mente », da cui il latino mens . Viene dunque a dire Aristotele, che data una sensione esterna, rimane una sensione interna, che non è l' atto del sentire esterno, ma d' un' altra facoltà di sentire troppo diversa, della facoltà di sentire l' universale, che dicesi intelletto , «nus». E però benchè sostenga che l' universale da prima si trovi ne' singolari [...OMISSIS...] , pure è costretto d' ammetterlo anche fuori di essi [...OMISSIS...] , cioè nell' intelletto, dove è solo l' uno e non i molti, come prima abbiamo veduto della specie che dirige l' arte (.0 e segg.). E che la cosa sia così, rilevasi anche da questo che, a spiegare come l' anima abbia l' universale, non si contenta della sensazione esterna, ma c' introduce un' operazione interna, che chiama «epagoge», inductio (2), e chiama gli universali, che per essa si conoscono, «prota», quasi primi conosciuti. Poichè l' induzione aristotelica è cosa totalmente diversa dall' induzione introdotta da' moderni sensisti per ispiegare l' origine delle idee: i moderni introducono il paragone de' singolari, il che suppone questi conosciuti avanti gli universali; Aristotele non fa menzione di paragone alcuno, anzi dice, che i singolari si conoscono dalla mente per mezzo degli universali: è una operazione sola, che fa la mente, colla quale, all' occasione delle sensazioni, conosce ad un tempo gli universali e in questi i singolari, [...OMISSIS...] , riunendo quelle due operazioni, che noi abbiamo chiamate percezione ed universalizzazione . A una tale induzione Aristotele non accorda tuttavia la dimostrazione scientifica dell' essenza e della quiddità della cosa [...OMISSIS...] . Noi diciamo che nella percezione c' è ad un tempo il singolare e l' universale; ma con quest' ordine logico, che è prima la sensazione singolare che non è cognizione, per secondo l' universale, che è la prima cognizione, e per terzo la cognizione del singolare o l' affermazione: e quando questa si abbandona, rimane nella mente l' universale realmente diviso dal singolare. S' ascolti Aristotele: [...OMISSIS...] , come accade se non s' è fatta l' applicazione della cognizione universale al particolare. Ed è per questo che Aristotele rappresenta la mente come un senso, e la chiama sensione (il che impacciò gl' interpreti), e la distingue dalla facoltà di ragionare [...OMISSIS...] per indicare, che opera immediatamente, senza moto di raziocinio come il senso, ond' anche noi abbiamo chiamato « sensione intellettiva » l' intuizione dell' essere; il che Aristotele in quella vece dice della percezione, nella quale l' intendimento apprende con una sola operazione l' universale e in questo il singolare reale. [...OMISSIS...] Tale sensione dunque, che è la mente, non è la sensione esterna, ma l' interna e mentale; è in una parola la percezione intellettiva. Se dunque c' è, oltre il senso corporeo, una facoltà nell' anima umana, che quasi continuandosi al senso, forma gli universali, e che è un cotal senso anch' essa dell' universale, come lo chiama Aristotele [...OMISSIS...] , facoltà che altrove chiama mente, «nus», di novo dimanderemo come Aristotele la concepisca. E vedemmo, che secondo lui prima è potenza, «dynamis», poi atto, «entelecheia». E` la stessa mente che passa dallo stato di potenza a quello di atto. Ma la mente in potenza è come la materia de' suoi atti. Come dunque passa a questi suoi atti? Se fosse materia inerte, ci vorrebbe una causa esterna che la movesse. Questa causa esterna non può essere il sensibile , perchè espressamente dice Aristotele, che il solo senso è mosso dal sensibile, la mente poi dall' intelligibile . Ma se l' intelligibile è opera della mente, come può esser quello che la move a formarlo? Aristotele dunque accorda alla mente ancora in potenza un' attività propria, per la quale all' occasione delle sensazioni, ella si mova a formare, o più veramente a intuire gl' intelligibili e gli universali. - Ma può ella intuire gli universali, senza averne un primo in se stessa? Se si considera che alcune volte Aristotele riduce tutti gli universali alle dieci categorie, e si dimentica degli altri, come dell' ente e dell' uno, che altrove accenna pure come universalissimi: noi diremo, che così prendendo gli universali, egli ha ragione di negarlo, poichè le categorie sono tutte più o meno determinate. Prendendo dunque in questo senso la parola universale, non c' è che dire. Ma se si considera tra gli universali anche l' essere possibile al tutto indeterminato , che rimane dagli universali categorici d' Aristotele e dagli altri, ch' egli a questi subordina, squarciato e limitato, crediamo, che dalla stessa dottrina d' Aristotele consegua, che la mente in potenza di questo filosofo, presa come subietto, sia fornita di un tale universale, il quale le dà quella virtù, che la rende mente attiva, «nus poietikos», ossia atta a formare le categorie, e le altre idee inferiori, alle quali Aristotele riserbò il nome d' universali, e presa come obietto, sia ella stessa questo universale, che perciò diventa tutte le cose, e la rende «nus to panta gignesthai». Le ragioni, che a ciò mi movono sono le seguenti: 1) Aristotele dice, che ci deve essere nell' anima intellettiva, « « una mente tale che faccia tutte le cose » », [...OMISSIS...] , e che questa mente è « « come un cert' abito, quale il lume » », [...OMISSIS...] . Ora il lume è una cosa, che si vede, e non è l' occhio, nè l' atto dell' occhio, ma ciò che veduto, fa veder l' altre cose. Dunque questa virtù naturale della mente umana è un oggetto veduto, col quale si vedono l' altre cose. Onde Aristotele soggiunge: [...OMISSIS...] . Questo è il lume della ragione, che noi abbiamo dimostrato nell' ideologia essere l' essere in universale presente alla mente, senza il quale nulla potrebbe conoscere la mente, e col quale conosce tutto ciò che presenta il senso. Ma quest' essere non è nessun colore, ma indifferente a tutti, e in una simile indifferenza fa consistere Aristotele l' universale (1); esso è puro, immisto, non ha nulla di comune col sensibile ed ha tutte l' altre attribuzioni che gli dà Aristotele, tra l' altre quella di non essere alcuna delle specie, quand' è in potenza, ed esser tutte le specie, quand' è in atto, poichè ogni specie e idea è sempre l' essere variamente determinato, [...OMISSIS...] , onde, conchiude Aristotele, non ha altra natura che quella di possibile ; [...OMISSIS...] . 2) Dice poi che questa mente è « come un abito »: e un abito dice cosa che si ha , e non quello che si è (3). Onde indica una duplicità o differenza, perchè altro è l' avente , altro la cosa avuta . La mente dunque di cui qui parla Aristotele non è il principio subiettivo, che ha, ma un diverso da esso, com' è appunto questo lume diverso dall' occhio. Così l' anima intellettiva ha l' idea, ma non è l' idea. E poichè altrove Aristotele nega, che sieno innati nell' anima « abiti determinati di scienza », [...OMISSIS...] , convien dire, che questa mente, o lume, sia posseduta a foggia d' abito indeterminato, appunto perchè non è alcuna specie determinata. 3) Abbiamo veduto che Aristotele confonde in una l' esistenza subiettiva coll' obiettiva, e alla sua mente dà l' una e l' altra, e le proprietà d' entrambe. Questo gli accade, perchè la mente risulta veramente dall' unione per così dire dell' una e dell' altra esistenza, cioè dell' anima ch' esiste solo subiettivamente, e dell' essere ideale che esiste solo obiettivamente: ma il valore della parola « mente »per noi è subiettivo, indicando « « il principio o la facoltà che ha presente l' oggetto e lo intuisce e per esso conosce l' altre cose » ». Aristotele all' incontro, prendendo la mente ora come subiettiva, ora come l' obietto stesso, è costretto a dare di essa una doppia definizione, e però la dice: 1) abito , che si suol prendere subiettivamente per una facoltà del subietto, perchè chi ha, è il subietto; e la dice anche: 2) lume , che ha valore obiettivo. Non può dunque trovare una definizione unica della mente, che possa esser mantenuta con coerenza in tutti i suoi ragionamenti. Ma quando parla della « mente agente », egli per lo più la prende in senso obiettivo, ed è questo che dimostra, come quell' acutissima sua mente sentiva, senza poterlo nettamente esprimere, essere impossibile concepire l' umano conoscere, senza dare all' anima intellettiva qualche primo e fondamentale oggetto. Tale dunque è per lui la mente attiva, «nus poietikos». Questa dunque l' assomiglia al lume e non all' occhio: e vuole che produca le specie, cioè gl' intelligibili, come il lume produce ne' corpi i varŒ colori. Per questo noi già vedemmo, che la mente è chiamata altrove da lui specie, ragione, forma, tutte parole, che esprimono esistenze obiettive, e non punto subiettive. Che anzi chiama la mente non solo principio della scienza [...OMISSIS...] , ma « «principio del principio », [...OMISSIS...] »(1), e finalmente con tutta chiarezza « «specie delle specie », [...OMISSIS...] »(2). Ora niente più propriamente di questa definizione conviene all' essere indeterminato , come abbiamo osservato altrove, e d' altra parte l' appellazione di specie , e molto meno « di specie delle specie », non può convenire a niuna facoltà subiettiva. 4) In quarto luogo si richiami alla mente la dottrina aristotelica, da noi accennata di sopra, circa la materia. Per Aristotele la materia è un puro relativo, e però non può sussistere sola senza la forma, perchè dice Aristotele, da sè non è un chè determinato (3). Ora la mente umana, prima che acquisti le specie determinate, è detta da Aristotele materia . Ora, se la semplice materia non può sussistere da sè, conviene ch' ella abbia anche una forma. E in fatti la chiama anche forma, dicendola mente agente, «nus poietikos». Ora la forma della mente non è altro che la specie, che la rende qualche cosa di determinato, [...OMISSIS...] (4), e quivi stesso dice, che è una forma come la scienza , [...OMISSIS...] (5), non come l' attuale contemplazione. Ora, queste appunto sono le proprietà dell' essere universale , che sotto aspetti diversi sia materia ideale , come quello che giace per fondo di tutte le specie determinate e subietto, e forma universale , ossia « specie delle specie »come lo chiama appunto Aristotele. Al modo stesso i generi , che sono ciò che c' è in più specie di comune, sono detti da Aristotele materia rispetto alle specie , benchè ne siano allo stesso tempo la forma. Ed è coerente, che Aristotele non solo chiami la mente materia delle specie, ma ben anco genere », poichè ammette nell' uomo per natura un « che sciente, [...OMISSIS...] (6) e tosto appresso dice, che l' uomo è « « un chè sciente come genere e materia » », genere di tutte le specie, materia di tutte le forme di scienti , che prende in appresso col suo sviluppo. Se non s' interpreta dunque a questo modo la mente d' Aristotele, non ci rimarrebbe altro che un viluppo di contraddizioni e di non sensi. Quelli che hanno voluto far comparire Aristotele un puro sensista, come i moderni, e anche un materialista, come il professore dell' università di Padova, Pomponazio co' suoi discepoli, fondavano il loro argomento principalmente sopra una sentenza che ricorre frequente in Aristotele, cioè, che [...OMISSIS...] . Ma essi non posero mente alla forza del verbo «noein», che esprime un movimento cogitativo della mente, e non la stessa mente, «nus», la quale, com' insegna Aristotele, non è movimento (2). Ora che la mente non esca a' suoi atti, o piuttosto l' uomo non esca a' suoi atti intellettivi, se non alla presenza de' fantasmi, questo lo diciamo anche noi: la questione è anteriore a questi atti transeunti della mente, riguardando la natura e la costituzione della stessa mente, domandando cioè, « « se questa, la mente, esiga un oggetto per esistere, se l' uomo abbia per sua propria natura immobilmente presente un oggetto, col quale operi quasi con istrumento » ». Aristotele risponde, a nostro parere, di sì, solamente che chiama questo stesso oggetto o istrumento, la mente, «nus», e l' uomo per lui è il subietto, che opera con essa, e questa mente oggetto, egli la chiama propriissimamente « specie delle specie », e la rassomiglia alla mano (3), che è per l' uomo « l' istrumento degl' istrumenti »(4). E questo stesso, di considerare la mente come un istrumento, di cui si vale l' uomo alle diverse sue operazioni intellettive, dimostra di novo quello che dicevamo, cioè che questa mente non è per Aristotele una facoltà subiettiva d' intendere, ma il mezzo , con cui l' uomo intende. Così appunto chiama Aristotele la mente e anche l' anima intellettiva « principio con cui », principium quo degli Scolastici. Di che apparisce la ragione che avea di negare ogni cognizione innata. Non dava egli questo nome di cognizione, se non a quella, di cui l' uomo ha consapevolezza: perciò, secondo lui, si conosce solo quell' oggetto, di cui si è consapevoli o di cui si può esser consapevoli, quando si vuole [...OMISSIS...] (1): e questo è un principium quod , cioè un principio, in cui si porta l' atto della consapevolezza. Ammise dunque nell' anima qualche cosa COL QUALE ci procacciamo consapevolmente le cognizioni, ma non qualche cosa IL QUALE sia oggetto della nostra consapevolezza. E l' essere ideale, ossia il possibile, «dynaton», è certamente tanto principium quod , termine dell' intellezione, quanto principium quo , mezzo di conoscere l' altre cose. Ma Aristotele l' ammise solo come mezzo , e non lo riconobbe come oggetto , perchè esso rimane da prima occulto all' umana consapevolezza, e non si scopre se non da poi per una riflessione che fa l' uomo sulle proprie operazioni razionali, a far le quali esso s' adopera come mezzo: lo dichiarò come un lume atto a far risaltar dalle cose i varŒ colori, ma non s' accorse poi, che il lume dovea essere prima veduto lui stesso, acciocchè facesse vedere i colori diversi, di cui egli non era che il complesso. Del resto l' aver distinto l' uomo dalla mente , e quello dichiarato il subietto conoscente, questa il mezzo , con cui conosce, conferma ad evidenza, che per mente agente Aristotele non intese il subietto o la facoltà subiettiva che è il subietto stesso considerato in relazione con una classe de' suoi atti, ma intende un obietto , appunto un lume. Allo stesso modo avea detto che l' uomo conosce prima « per l' anima »intendendo « l' anima intellettiva o la mente ». In questa dottrina però non è costante Aristotele, il quale in altri luoghi riconosce che la mente è anche da sè una sostanza, ed ha atti suoi proprŒ senz' uso d' organo corporale, come vedremo. Ma oltre ciò, dagli stessi principŒ del nostro filosofo, si cava che non si può dividere il principio con cui si conosce, da ciò che si conosce, perchè non si può conoscere con ciò che non si conosce. Aristotele stesso l' insegna con queste parole: [...OMISSIS...] . E così seguita a dimostrare che i principŒ si devono sapere e credere più delle conclusioni, altramente essi non ci potrebbero servire di mezzo a conoscere queste. [...OMISSIS...] . Da tutte queste premesse consegue che la mente non è solo, secondo Aristotele, un mezzo di conoscere, ma un oggetto, più evidente, più noto, più creduto di tutte l' altre cose. Ma tornando alla necessità de' fantasmi per conoscere, l' argomento col quale i Sensisti credono d' attirare a sè Aristotele, svanisce loro in mano anche per un altro modo, solo che si consideri ciò che veramente ne dice Aristotele. Esaminiamo con diligenza i luoghi più classici, in cui egli espone la sua mente. Nel terzo della sua Psicologia al capo ., riassume se stesso, e comincia a collocare nella natura dell' anima due elementi, un chè sensibile , [...OMISSIS...] , e un chè scibile [...OMISSIS...] , questo scibile è lo stesso che prima aveva chiamato « un chè sciente, [...OMISSIS...] »e, « materia e genere »degli scienti o aventi la scienza, [...OMISSIS...] (3). Dal che già si vede, quanto Aristotele fosse lontano dal fare dell' anima umana una qualche statua condillacchiana, che anzi in essa poneva, non certo alcuna idea, ma il genere e la materia universale di tutto lo scibile, che è appunto quello, che facciamo noi. Ora dice che « « questo sensibile e questo scibile o sciente dell' anima, sono le stesse cose in potenza, cioè il sensibile dell' anima è il sentito [...OMISSIS...] in potenza » », e lo scibile dell' anima è il saputo [...OMISSIS...] , pure in potenza (4). Non è lo stesso di quello, che noi abbiamo detto in altre parole, esser così fatta la natura dell' anima umana ch' ella possiede un sentimento fondamentale , dove si può dire, che ci sono in potenza le specie sensibili delle cose sentite (5), perchè diviene tutte le sensazioni, non essendo queste che sue modificazioni, e un' idea che è in potenza tutto ciò, che poi sa l' uomo in appresso, luogo delle specie, [...OMISSIS...] (6), anzi specie delle specie [...OMISSIS...] ? (7). Continua Aristotele proponendosi questa questione: [...OMISSIS...] . Ora niuna cosa è separata dalle grandezze sensibili, dice Aristotele, cioè a dire, non c' è la cosa intellettuale puramente, come voleva Platone, senza il sensibile, chè, rimosso questo, non esisterebbe più la cosa (1). [...OMISSIS...] . Primieramente trova assurdo, che le cose stesse sieno nell' anima, essendo composte di materia e di specie. Ora la specie può esser nell' anima. C' è dunque una specie colle cose fuori dell' anima, e una specie nell' anima, che fa sentire e conoscere le cose. Tornano le difficoltà più sopra notate. Poichè quando Aristotele dice « « che la mente è tutte le cose, perchè è le specie stesse, e queste sono le cose » » o conviene intendere tutto ciò metaforicamente, ed allora non ci rimarrebbe alcuna spiegazione del fatto della cognizione umana, ma parole, quasi un mantello da coprire le spalle del filosofo; o conviene ammettere che la stessa entità, rimanendo identica, abbia due modi d' esistere, il subiettivo o estrasubiettivo nelle cose, e l' obiettivo nella mente, il quale appunto perchè obiettivo è specie; al che non pare esser giunto Aristotele. Di poi, qui Aristotele non ha in vista altro, che di spiegare la cognizione che l' uomo s' acquista delle cose corporee, delle grandezze sensibili, e rispetto a queste, certo non si può ammettere cognizione innata. In terzo luogo Aristotele trova la necessità del fantasma per contemplare, «theorein», le dette cose sensibili, e questo « contemplare », com' ha espressamente dichiarato, non riguarda l' abito della cognizione, ammesso anche da Aristotele senza fantasma, ma l' atto della mente, che pensa l' oggetto, o la prima volta, e allora impara o percepisce, o di poi quando pensa alle cose reali e sensibili che già conosce (3). E chi mai potrebbe negare, che a pensare attualmente un sensibile determinato (che altramente non sarebbe sensibile), ci abbisogni il fantasma? Anche questo è fuori di questione. In quarto luogo dice bensì Aristotele che la specie intelligibile è veduta dal contemplante nella specie sensibile , ma con ciò stesso distingue quella da questa. E tant' è vero che la distingue, che dice che quella si contempla « «insieme col fantasma » [...OMISSIS...] »; onde non è il fantasma. E questo vie più chiaramente si spiega nell' opuscolo «peri mnemes», dove è indicato più precisamente l' uso che del fantasma fa l' intendimento, e l' aiuto, che esso presta all' intendere, e quest' aiuto non è ch' egli già sia l' oggetto inteso, ma si riduce a mantener ferma l' attenzione, come chi vuole speculare sulla natura del triangolo, si mette sott' occhio un triangolo reale, benchè lo specolatore non badi punto alla sua grandezza, o a' suoi difetti (1): ma gli giova quel cotal simbolo al pensiero del triangolo ideale ed astratto, che non ha alcun quanto determinato, e non è nè manco sensibile, non essendo sensibili punto nè poco le linee matematiche, che lo costituiscono: pure il triangolo intelligibile è in qualche modo nel sensibile, perchè nel sensibile c' è un atto che corrisponde a una specie che ne rappresenta alla mente la forma possibile: onde l' intendimento vede il reale (fantasma) nel possibile, nell' essenza, di che s' era per un momento accorto Aristotele stesso quando scrisse che «en hois eidesin hai protos usiai legomenai huparchusi» (2), e non viceversa quando scrisse al contrario, che «en tois eidesi tois aisthetois ta noeta esti» (3) dal che s' avrebbe, che « « le sostanze reali sarebbero nelle specie intelligibili, e queste nelle specie sensibili, e le specie sensibili nelle sostanze reali » ». O bisogna dunque convenire che Aristotele fu incoerente, o intendere che la mente vede gl' intelligibili nelle specie sensibili, non perchè quivi essi veramente ci sieno, ma perchè la mente stessa colla sua attività ve li pone, benchè per sè non ci sieno punto. E porre ne li deve indubitatamente, se si considera, che Aristotele stesso insegna che la mente opera senza organo corporale (4), laddove il fantasma non si può avere senza organo corporale. Finalmente quell' Aristotele che avea preteso contro Platone che tutte le specie intelligibili si riferissero alle cose reali, e che perciò non esistessero da sè, ma altro non fossero che la forma o l' atto di queste, si trova necessariamente condotto a distinguere « « i primi intelligibili » » [...OMISSIS...] , cioè gli universalissimi, da tutti gli altri; e di questi già dubita se si pensino co' fantasmi, o senza fantasmi, anzi mostra apertamente di credere che senza, come osserva il Trendelenburg (1); appartengono immediatamente questi intelligibili al lume della mente agente, e noi diremo all' oggetto. E veramente gl' immediati, [...OMISSIS...] , s' intendono immediatamente dall' intendimento (2), ed anzi l' intelligibile si fa col tocco e coll' atto dell' intendere, [...OMISSIS...] (3), onde l' intelligibile non esiste prima di quest' atto nè nel fantasma nè altrove, perchè l' esistere in potenza non è ancora esistere. Questi primi intelligibili sono chiamati da Aristotele principŒ, «archai» o principŒ della dimostrazione, «archai apodeixeos», ed essi sono indimostrabili, appunto perchè veduti immediatamente dall' anima intellettiva. Ma qual è il primo di questi intelligibili, secondo Aristotele? La stessa mente. [...OMISSIS...] . Conviene dunque che la mente sia qualche cosa di oggettivo e di per sè conosciuto, acciocchè sia il primo principio della scienza e della dimostrazione, quello che fa conoscere l' altre cose (5). Pure questa stessa mente acquista d' improvviso nelle mani d' Aristotele un' esistenza subiettiva, da per tutto dove la fa operante. E congiunge egli espressamente questi due modi di esistere da per tutto dove dice che « è il medesimo la mente e l' inteso » [...OMISSIS...] (1). Poichè è l' atto stesso della mente, che fa gl' intelligibili in atto, e questi li ha la mente, onde dice, che la mente « opera avendo » [...OMISSIS...] (2): gl' intelligibili dunque non sono fuori della mente, ma la mente li fa in se stessa, li fa in atto, avendoli in potenza: e quest' intelligibili, quando così sono fatti in atto, sono la mente stessa in atto, appunto perchè sono atti della mente. Quindi la doppia mente che Aristotele pone nell' uomo, in potenza, prima di fare gl' intelligibili, e in atto. Ma quella mente che fa gl' intelligibili, è essa stessa per natura sua in atto, altrimenti ci vorrebbe un' altra causa che la riducesse all' atto, onde di essa dice Aristotele, che « « questa mente è separabile, e immista, e impassiva, ed essente per sua essenza in atto » » (3), ond' anco asserisce, che di essa non si può già dire, che « « ora intenda, ora non intenda » » (4). Se dunque « « l' intelligibile è l' atto della mente » », e c' è nell' uomo una mente, che è atto per sua propria natura, consegue, che questa mente sia un intelligibile ella stessa, e però, che Aristotele ammetta innato nell' uomo un primo intelligibile , che chiama Mente, e questo primo intelligibile sia lume e principio della dimostrazione e della scienza, e non sia scienza, ma anteriore e più vero [...OMISSIS...] della scienza (5), e sia principio de' principŒ, e specie delle specie, e privo d' ogni corpo e d' ogni fantasma. Lo stesso si deduce anche dall' altro principio aristotelico, che « « ciò che è immateriale è per se stesso intelligente ed intelligibile » » (6). Ora la mente agente è tale: dunque ella stessa è il primo degli intelligibili, da cui tutti gli altri. Cercando quale sia il primo degli intelligibili per l' uomo, noi abbiamo trovato che è « l' essere possibile » al quale possiamo con verità applicare quello, che Aristotele dice della sua mente, insegnando che sia separabile solo «tuth' hoper esti» (7) « ciò che è », e quell' altre parole pure dello stesso filosofo: [...OMISSIS...] , perchè quello stesso intelligibile che in sè è in atto, in potenza è tutti gli altri intelligibili, il possibile assoluto indeterminato, l' essere. Risulta la medesima conclusione da un' altra dottrina di Aristotele, secondo la quale trova la mente in atto, ossia il primo intelligibile, tanto necessario per ispiegare la natura delle cose mondiali, da dichiararlo per sè sostanza , [...OMISSIS...] : onde ammette che possa sussistere per sè separato dalle cose corporee. Perciò dice che questa mente sia nell' uomo parte dell' anima, ma separabile, e la dimostra separabile perchè essa non « « è atto d' alcun corpo » » [...OMISSIS...] (2), come sono le altre parti, che colla mente formano nell' uomo un' anima sola: e perchè l' esperienza dimostra che l' anima non invecchia col corpo, benchè possa essere impedita da certi suoi atti per l' infermità del corpo (3). Dice dunque, che la mente è da sè sostanza, [...OMISSIS...] (1). Questa importantissima conclusione procede dal principio costantemente insegnato da Aristotele, cioè che, sebbene in uno, cioè in un qualche individuo della natura, possa precedere la potenza all' atto, come esserci, a ragion d' esempio, il seme prima del frutto, tuttavia non può esser così nella università delle cose, e il seme precedente a quel frutto, che di sè germina, deve essere stato preceduto dall' individuo perfetto che ebbe in sè o produsse il seme; e ciò: 1) perchè la potenza sola non esiste, è un concetto della mente; se esiste, è solo per essere unita a qualche atto; 2) la potenza non opera; che se operasse, sarebbe in atto; e però ha bisogno di qualche agente in atto, che la ecciti e la sviluppi facendola passare all' atto. L' atto dunque deve precedere in ogni ordine di cose, tanto nelle cose fisiche, quanto nelle intellettuali: altrimenti non si potrebbero spiegare gli atti , che sono nell' universo, il quale ridotto a pura potenza sarebbe annullato (2). Anche alla potenza dunque di conoscere dee precedere un atto primo di conoscere, e però ammette anche nell' anima umana una mente in atto e dice: [...OMISSIS...] . Riconosce dunque la necessità di dare all' anima intelligente, acciocchè sia tale, un atto d' intendere anteriore alla potenza di conoscere, un atto che non è nel tempo, che non cessa mai, onde di esso non si può dire che ora intenda e ora non intenda, una scienza in atto, la quale sia il medesimo coll' intelligibile, ossia colla cosa intesa, [...OMISSIS...] (4). Colloca dunque nell' anima un intelligibile indeterminato, e come genere, attualmente e continuamente contemplato, uno e continuo (5), che dice esser lo stesso dell' atto essenziale della mente, col quale questa mente riduce poi in atto tutti gl' intelligibili determinati, onde altrove usa le parole «to noein» e «to theorein», per la stessa mente, «nus» (6). Convien dunque osservare quale sia tutt' intera la dottrina aristotelica. Quest' è fondata sulla distinzione delle tre essenze elementari, materia, specie e composto . La materia è un concetto della mente, non può stare da sè, non è qualche cosa di determinato; [...OMISSIS...] . La specie o forma può stare da sè, perchè è già qualche cosa di determinato, [...OMISSIS...] (1). E similmente il composto di materia e di forma può stare da sè. La specie dunque ha due modi d' esistere, da sè, e unita colla materia. La specie unita colla materia e formante il composto dà alla materia un atto delle operazioni, che non aveva da sè. Ora Aristotele dice che l' anima è specie, e però pone che possa tanto stare da sè, quanto unita alla materia (2), e quando sta da sè, le vengono meno quelle operazioni che a farsi hanno bisogno della materia (3), come d' istrumento, e non solo come d' istrumento ma anche come di potenza e di subietto. Aristotele accorda quest' esistenza dell' anima fuori della materia non solo all' anima intellettiva, ma ben anco all' anima sensitiva, poichè dice che per vecchiezza il principio sensitivo non perisce, ma solo l' istrumento; onde se al vecchio si desse un occhio vigoroso e giovanile, vedrebbe come il giovane (4). Pure più frequentemente insiste sulla separabilità della mente, e pare che ponga questa sola separabile; ma probabilmente intende comprendere in essa il principio sensitivo, considerandolo come un principio o rudimento della facoltà di conoscere; onde per indizio, che gli uomini per natura amino di conoscere, allega l' amore, che hanno, delle sensazioni (5). E poichè l' anima separata non cade sotto la nostra esperienza, si fa a considerarla nel composto, poi passa ad argomentare dalla sua natura ciò che può essere separata. Nel composto considera tutte le operazioni, e dice che l' anima è quella che le contiene tutte ed unifica e però non ha parti (6). Secondo questo principio, l' anima che contiene il corpo e tutte le operazioni del composto dovrebbe essere il subietto ; ma in questo non è coerente, e fa che l' anima tenga qualche cosa del materiale, perchè avendo detto che il corpo è la materia del composto e l' anima la forma, e la materia essendo per lui potenza, e l' anima di conseguenza atto, fece il corpo vivente subietto di quest' atto, chiamandolo sostanza, [...OMISSIS...] (1), onde vuole che « il corpo vivente (il composto, l' uomo considerato dalla parte del corpo), sia quello, che senta la compassione e impari e raziocini [...OMISSIS...] per mezzo dell' anima (2); e pure, come vedemmo, l' intendere [...OMISSIS...] l' attribuisce all' anima sola, senz' uso di corpo, e in mille luoghi parla delle diverse funzioni ed operazioni dell' anima, onde gli è forza di considerare l' anima come subietto paziente ed operante, e non come mezzo delle operazioni. E del pari in tutti quei luoghi dove dice, che il corpo e le sue parti sono istrumenti dell' anima, anche dell' anima sensitiva, riconosce questa per subietto, che adopera quegl' istrumenti, e la considera anche come potenza de' suoi atti (3). Come dunque il corpo per natura vivente sarà il subietto e non l' anima? A questa sentenza fu tratto Aristotele da' suoi principŒ dialettici, come si vede dalla ragione che dà per provare che il corpo vivente è il subietto; [...OMISSIS...] . Avea già detto nelle « Categorie » che gl' individui singolari non si predicano del subietto, ma sono sostanze prime, delle quali si predicano le specie come del loro subietto (5). Avendo dunque detto che l' anima rispetto al corpo è specie , e le specie si predicano del subietto, e non viceversa, fece che il corpo di cui si predica la specie dell' anima sia il subietto di questa, e questa la qualità essenziale e specifica di quello (6). Onde si vede che Aristotele confuse il subietto dialettico col subietto reale . Certo si può prendere il corpo vivente pel subietto dialettico, come quando si dice - e lo dice spesso Aristotele - che l' anima è nel corpo; ma il subietto reale è l' anima, e però si dice (quello che pur dice Aristotele), che il corpo è nell' anima come nel suo contenente ed unificante. Questo subietto dunque reale, l' anima, rimane, anche disciolto il corpo, ed uscita da esso, come s' esprime lo stesso Aristotele (7), ma senza quelle operazioni, che essa fa pel corpo. L' intendere poi [...OMISSIS...] non ha bisogno d' organo corporale, onde dice che la mente pare un altro genere d' anima (1), ed è non lontano dal considerarla un atto del corpo, come si può considerare il pilota un atto della nave. [...OMISSIS...] . Quest' anima dunque, secondo Aristotele, è una sostanza dell' ordine delle specie , che quantunque si può predicare del corpo vivente, come si predicano l' altre specie delle sostanze prime ossia composte (3), tuttavia è determinata, e da se stessa è atto sussistente, e così separata dalla materia è ad un tempo l' intelligente e la cosa intesa, ossia il primo intelligibile, materia e subietto di tutti gli altri intelligibili o specie più o meno determinate che sono suoi atti secondi. A questi atti secondi o specie intelligibili determinate, la mente ossia l' anima intellettiva non esce, se non quando è unita al corpo, perchè tali specie intelligibili le vede nelle specie sensibili, e le specie sensibili non sono divise dalle cose sensibili e reali, cioè dai corpi (4). E questo è il punto di divergenza d' Aristotele da Platone, poichè questi ammetteva tali specie o idee determinate come esistenti da sè fuori de' sensibili e de' reali, e Aristotele lo nega. Ma nello stesso tempo ammette una specie prima pura da ogni materia e da ogni elemento sensibile, che è in potenza tutte quelle specie determinate, e questa è quella che chiama mente, «nus». Stabilito questo, Aristotele ascende a questioni maggiori. Poichè domanda a se stesso, se, essendo la mente cosa che può stare da sè, abbia essa nel suo essere proprio e separato dalla materia, preceduto, almeno nell' ordine logico, la materia stessa e il composto. E quest' appunto sostiene: [...OMISSIS...] (1), dove allude alla dottrina di Anassagora, di cui accenna nel XII dei Metafisici (2). Nel qual libro questa stessa questione è trattata più pienamente. Quivi prende a dimostrare che ci deve essere « «una qualche sostanza eterna ed immobile », [...OMISSIS...] ». Egli muove la sua dimostrazione dalla necessità di spiegare il fatto della generazione e della corruzione delle cose, che suppone sempre stata e quindi sempre stato il moto. Ora dice, che a questo moto continuo conviene assegnare una causa, e questa in atto , poichè in potenza, ancorchè fosse eterna, non produrrebbe il moto continuo (3). Questo motore dunque deve essere un principio, la cui essenza sia atto; [...OMISSIS...] , e, sia uno o più, dee essere scevro da materia [...OMISSIS...] . Ora è qui da risovvenirsi che, secondo Aristotele, ogni sostanza che sia pura da materia, è per sè un intelligibile e un intelligente, ed è pura specie. Ammette dunque Aristotele delle specie eterne, che sono sostanze senza materia, e menti in atto, e sono eterne appunto perchè sono in atto per loro propria essenza, [...OMISSIS...] . Dice in appresso che quest' immobile sostanza è « separata da' sensibili »e che è « priva d' ogni grandezza »senza parti e indivisibile (4). Queste dunque non sono di quelle specie che sono vedute dall' uomo ne' sensibili. Trova dunque necessario di ammettere delle specie, come sostanze eterne, intelligibili, senza materia, separate al tutto dalle cose sensibili, per ispiegare, come per una prima causa, i movimenti mondiali e la generazione e corruzione delle cose. Perchè si concepiscono certe cose mosse e non moventi, altre mosse e moventi, altre finalmente moventi immobili, essenzialmente in atto: e queste sole possono essere prime cause. [...OMISSIS...] . Ora prosegue Aristotele a osservare, che non c' è nulla che possa movere restando egli stesso immoto, se non l' appetibile [...OMISSIS...] e l' intelligibile [...OMISSIS...] . Ora i primi appetibili e i primi intelligibili s' immedesimano (1). In fatti il primo volibile è il vero bello (2), il quale è ad un tempo intelligibile e appetibile. Ma osserva, che è anteriore la ragione d' intelligibile a quella di appetibile, perchè si appetisce una cosa per la ragione che sembra tale, e non sembra tale per la ragione, che la si appetisce: laonde il principio dell' appetizione volitiva è l' intellezione (3). Ma come la mente esce all' atto dell' intellezione? Risponde che è mossa dall' intelligibile ; [...OMISSIS...] . Dal che consegue che l' intelligibile come quello che move la mente, logicamente è anteriore alla mente in potenza, e anteriore altresì all' intellezione, che è la mente condotta al suo atto. Laonde l' intelligibile è anteriore a tutto e forma una serie per sè: tra gl' intelligibili poi la prima è la sostanza che logicamente precede agli accidenti, e tra le sostanze quella, che semplicemente è, cioè quella che è in atto; perchè se fosse in potenza non sarebbe ancora, e non potrebbe dirsi semplicemente che fosse. Il primo dunque tra tutte le cose è « « un intelligibile puro, sostanza in atto » ». Ma tale non potrebbe essere, secondo Aristotele, se non fosse egli stesso, quest' intelligibile, per sè intellezione e così atto o mente intelligente. C' è dunque una mente che è essenzialmente intelligibile e intellezione e intelligente nel tempo stesso, poichè l' intelligibile è per Aristotele l' estremità dell' atto della mente. Riconosce dunque Aristotele la necessità che preceda un intelligibile per sè a tutto, il quale abbia non solo un' esistenza obiettiva, ma anche subiettiva, e sia una mente in atto che si continui quasi numero trino, [...OMISSIS...] (5), nei tre stadŒ di mente, intellezione, intelligibile, [...OMISSIS...] e sia una sola sostanza eterna e divina, onde conchiude, [...OMISSIS...] , « poichè questo è Dio »(1): questo, dico, lo riconosce necessario per ispiegare non meno l' origine della mente umana, che la generazione e il movimento delle cose naturali. Ma come egli applichi quest' intelligibile eterno a spiegare tutto ciò, è difficile a dire, perchè ne tocca con brevità, oscurità e dubbiezza qua e colà ne' varŒ libri che ci rimangono. Cominciamo dalla mente umana. Nel secondo « Della generazione degli Animali » (2) propone la doppia questione se nel seme [...OMISSIS...] , e nel concepito [...OMISSIS...] ci sia l' anima, e onde venga [...OMISSIS...] ; e prima dice che c' è un' anima vegetale [...OMISSIS...] , che poi ne emette una sensitiva [...OMISSIS...] , per la quale il concepito diventa animale (3), finalmente una razionale, per la quale diventa uomo (4). Di queste tre anime ossia gradi di perfezione dell' anima il rudimento è nella vita de' generanti ossia nel loro seme, onde così ne descrive lo sviluppo. [...OMISSIS...] . E qui passa alla seconda questione, se queste tre anime vengano dal di dentro cioè dalla virtù seminale, che è nel corpo, o dal di fuori s' aggiungano al feto. [...OMISSIS...] . Dopo aver detto che le tre anime così sono insite nel corpo seminale e si sviluppano l' una dall' altra, da queste tre anime separa la mente e conchiude così: [...OMISSIS...] . Qui distingue dunque la mente, «nus», dall' anima, dico anche dall' anima intellettiva, «noetikes», in virtù della quale l' animale si fa uomo. Pare dunque evidente che qui Aristotele prenda la mente sotto l' aspetto d' intelligibile , ossia com' oggetto primo dell' anima intellettiva, e in fatti anche le parole che seguono dimostrano la mente distinta dall' anima stessa. [...OMISSIS...] . Dice dunque che la sola mente è divina e viene dal di fuori, cioè da Dio, che è, come vedemmo, l' intelligibile, pura forma, senza nulla di corporeo e di sensibile. Tuttavia il corpo animato avendo in sè il principio dell' anima trina, cioè vegetale, sensitiva, e intellettiva [...OMISSIS...] , alla qual ultima avviene dal di fuori la divina mente, partecipa anch' egli del divino, e però lo chiama « « più divino degli elementi » » [...OMISSIS...] . Ma come la mente s' aggiunge venendo dal di fuori, così anche si separa dal corpo; [...OMISSIS...] , sebbene egli pare che in questo luogo oscuro si separi piuttosto dal corpo crasso un corpo sottile, unita al quale sia la mente partecipata da Dio. Di qui nasce un' altra questione: Che cosa fa dunque questa mente divina al tutto separata dalla materia, ma che avviene all' uomo, cioè all' anima intellettiva, e che pure nell' uomo stesso non fa uso d' alcun organo corporale? Anche su questa questione un gran buio. Pure se attentamente si considerano e si pesano i diversi luoghi paralleli, parmi che ne risultino due cose: 1 Che la mente informa l' anima umana e la rende intellettiva e così capace d' intendere i sensibili e tutto ciò che da questi si trae per astrazione; 2 che essa mente somministra da sè i primi intelligibili, [...OMISSIS...] , in occasione delle sensazioni, i quali primi intelligibili nè sono fantasmi, nè s' intuiscono ne' fantasmi, nè vengono in alcun modo dal senso, ma dalla mente pura. Che questo sia il pensiero d' Aristotele, apparirà chiaro quando si osservi attentamente la differenza ch' egli pone tra la scienza, «episteme», semplicemente, e la mente , «nus», che è la scienza o cognizione de' principŒ «ton archon episteme». La scienza semplicemente detta , secondo Aristotele, si trae dalle sensazioni, non così la scienza de' principŒ ossia la mente , «nus», poichè egli così la chiama, «nus an eie ton archon» (1); questa viene da Dio, ossia dalla mente separata e pura. Per non essersi distinte queste due maniere di cognizioni, fu erroneamente creduto che Aristotele riducesse l' origine d' ogni sapere umano, come a suo principio, alle sole sensazioni. Ma niente di più falso, come già apparisce anche dal detto di sopra. S' esamini attentamente il luogo classico, che è l' ultimo capo de' « Posteriori », dove cerca l' origine dei principŒ. Per venire a questi, prima di tutto descrive la formazione della scienza semplicemente detta . La formazione di questa percorre i seguenti gradi: la sensazione , la memoria , l' esperienza , il principio dell' arte e della scienza , «technes arche kai epistemes», dell' arte se riguarda la generazione o l' operazione, della scienza se l' ente; [...OMISSIS...] . Fin qui ha descritto la formazione della scienza propriamente detta, e di questa conchiude che [...OMISSIS...] . Ma la formazione della scienza suppone avanti di sè un' altra specie di cognizione, che non è scienza, o abito di scienza, ma è ciò da cui viene la stessa scienza, e questa cognizione anteriore sono i supremi principŒ ossia la mente. [...OMISSIS...] . Descrisse dunque prima come successivamente si formi la scienza nell' uomo, ma perciò appunto non descrisse, come si sieno formati i principŒ, poichè questi non appartengono alla scienza. E veramente la scienza che descrisse, è quella che si fa per via di discorso, come egli stesso dichiara, [...OMISSIS...] , e gli abiti determinati, menzionati più sopra, qui li chiama abiti riguardanti la cognizione raziocinativa, [...OMISSIS...] . Il principio dunque della dimostrazione è fuori della dimostrazione come il principio della scienza non può esser la scienza, [...OMISSIS...] . E che la scienza, di cui aveva parlato, fosse raziocinativa e dimostrativa, l' avea mostrato anche dicendo che si conoscevano i primi per analogia, che è una specie di ragionamento come vedemmo; [...OMISSIS...] . Sopra la scienza dunque colloca Aristotele un genere più splendido, e questo è il complesso degli ultimi principŒ, cioè la mente stessa, [...OMISSIS...] . Colloca adunque nell' uomo un abito, non un abito determinato, un abito di scienza, ma un abito anteriore e più vero della scienza, principio della scienza, anzi principio del principio, [...OMISSIS...] . E lo chiama « « principio del principio » » per distinguerlo da quello, che prima avea chiamato «technes arche kai epistemes», con che intendeva l' universale, e da quello che avea chiamato «ta prota», cioè i più estesi universali ossia le categorie (1). Sopra tutti questi sono gli ultimi principŒ della dimostrazione, il principio del principio della scienza, la mente. Questa mente è la mente in atto, che nel terzo dell' anima chiamò abito e lume, [...OMISSIS...] e che disse esser quella, che trae al suo atto la mente potenziale, quella perciò che rende l' anima umana atta a trarre dalle sensazioni nel modo detto la scienza; poichè non ogni anima è atta a ciò, ma quella che è tale, cioè a cui è venuta dal di fuori questa mente divina, [...OMISSIS...] . Ora questi primi principŒ proprŒ della Mente, Aristotele li chiama immediati [...OMISSIS...] , e l' uomo non può saper nulla per via di dimostrazione, a cui appartiene la scienza, se non conosce prima que' principŒ (2), onde li chiama più noti della scienza, [...OMISSIS...] ; questi dunque precedono nella mente umana la scienza. Ma Aristotele qui si trova in una somma perplessità. Da una parte egli riconosce che niuna scienza ci può essere, se l' uomo non conosce avanti que' principŒ; onde dice: [...OMISSIS...] . Dall' altra, trova pure assurdo, che ci sieno in noi gli abiti della scienza, senza che noi n' avessimo coscienza [...OMISSIS...] . La risposta a queste difficoltà consiste nella distinzione tra due generi di cognizioni, la cognizione dimostrativa, e la cognizione de' principŒ, il qual ultimo genere avviene, che talora sia nell' uomo, e l' uomo nol sappia (1), e da esso si fa il secondo, cioè quello della scienza. Laonde la scienza suppone la cognizione de' principŒ, ma una cognizione latente fino che non c' è l' oggetto d' applicarla. Sia a ragion d' esempio quest' oggetto il triangolo. Il concetto generale di triangolo si forma per l' induzione aristotelica che abbiamo descritta. Conosciuto il triangolo si rileva che i suoi tre angoli sono uguali a due retti, mediante un sillogismo che parte dal principio di contraddizione . Questo principio, [...OMISSIS...] , dice Aristotele, deve assumersi come noto. Dee ancora preconoscersi il triangolo prima di venire alla dimostrazione; e se s' impara dal maestro, sapersi che questo appunto indica la parola « triangolo ». Due cose si devono dunque preconoscere prima di dedurre che gli angoli del triangolo sono uguali a due retti, [...OMISSIS...] . Preconosciute queste due cose, si conosce anche la conseguenza che se ne trae. Domanda dunque Aristotele: [...OMISSIS...] . E così scioglie il dubbio, che Platone proponeva nel dialogo intitolato il Menone «( Ideol. 222 segg.) ». Distingue dunque Aristotele l' universale individuo dai primi principŒ del ragionamento, e vuole che quello si formi per via d' induzione dal senso, questi vengano immediatamente dalla mente di sua essenza in atto, e, da latenti forse che stanno nell' anima, si manifestino in occasione di sillogizzare mediante l' universale conosciuto per la detta induzione. L' universale individuo [...OMISSIS...] è di quelli che si dicono senza congiunzione, [...OMISSIS...] , i principŒ sono di quelli che si dicono con congiunzione, [...OMISSIS...] , cioè s' esprimono in un giudizio o proposizione; tale è il principio di contraddizione: « che d' ogni cosa è vera l' affermazione o la negazione ». I primi non hanno nè vero nè falso in se stessi, perchè nulla affermano o negano: ai secondi appartiene la verità e la falsità. Ora la verità appunto delle proposizioni è ciò che Aristotele riconosce superiore alla sensazione e immune affatto da queste, e rimette totalmente alla mente in atto. [...OMISSIS...] . Dal che deduce che se il vero e il falso è la congiunzione degl' intelligibili ossia de' concetti, dunque non sono i singoli concetti, e però molto meno i fantasmi. [...OMISSIS...] . Ora l' aver posto Aristotele che l' oggetto della Mente in atto sia la verità , non discorda nè pure in questo da noi, che abbiamo detto il primo oggetto della mente essere appunto la verità «( Ideol. ) ». Ma resta a vedere più accuratamente che cosa sia questa verità che non viene da' sensi, ma è dalla mente immediatamente conosciuta. Cercando dunque Aristotele qual sia il fondamento della verità de' giudizi e delle proposizioni, trova che tutte dipendono in ultimo da due principŒ o prime proposizioni per sè evidenti ed indimostrabili: 1 il principio di contraddizione ; 2 e un principio che egli non denomina nè chiama principio, ma che noi per maggior chiarezza, parendoci che così si determini meglio il suo pensiero, chiameremo principio d' affermazione assoluta . A questi principŒ Aristotele suppone questo fondamento: [...OMISSIS...] , perchè niente è o si fa con incertezza o a caso, ma tutto l' essere è determinato (4). Ora consideriamo a parte i due principŒ. Il principio di contraddizione è questo: « D' ogni cosa è necessario che sia vera o l' affermazione o la negazione ». Su questo principio osserva Aristotele, che non è già necessario che sieno veri i due estremi dell' alternativa presi in separato, ma o l' uno o l' altro, e il principio non determina punto quale: [...OMISSIS...] . Laonde non determinando questo principio quale de' due estremi sia vero, ma solo, che l' uno o l' altro è vero; non basta per conoscere la verità, ma dee esser soccorso da qualche altro, che togliendo l' alternativa, mostri quale sia de' due il vero: dal che poi s' inferisce l' altro, falso. Questo secondo principio è quello, che noi abbiamo chiamato di affermazione assoluta e che da Aristotele viene solamente indicato. Poichè dice che l' alternativa che si ha nel principio di contraddizione, c' è solo ne' contingenti cioè in quelle entità che non sono sempre in atto, [...OMISSIS...] . C' è dunque un altro principio per le cose necessarie, che dice: [...OMISSIS...] . E come il principio di contraddizione ha per fondamento la natura dell' entità in astratto, senza che si consideri ancora se l' entità sia contingente o necessaria: così il secondo principio nasce quando s' è conosciuto che ci hanno degli enti contingenti e degli enti necessari, pei primi de' quali rimane valevole lo stesso principio di contraddizione che pone l' alternativa, per gli altri poi è già tolta l' alternativa, e al principio di contraddizione sostituita l' affermazione assoluta (4). Da questo si vede, che, secondo Aristotele, il vero è nei giudizŒ ed è lo stesso ente affermato (1) detto da lui, « « ente nel senso più eccellente e proprio », [...OMISSIS...] ». Poichè ciò, che non è affermato, cioè gli enti che si dicono senza composizione, come sono le specie, che si riducono alle categorie - si concepiscano queste in atto o in potenza - non sono da Aristotele considerati come enti completi, chè, concepiti in tal modo, e non affermati, non è ancor detto che sieno o non sieno, e restano solo possibili, per la mente, ma l' ente affermato è completo (se l' affermazione è vera) cioè è l' ente che veramente è (2). Distingue dunque le cose che ammettono composizione dalle cose semplici, come sono le specie. Nelle prime dice, che « « l' essere è il comporsi e l' esser uno, il non essere è il non comporsi e l' esser più » » (3). Questo comporsi e non comporsi è tolto dalla forma del giudizio, che è l' unione che fa la mente del predicato col subietto: e vuol dire, che se il predicato nel fatto si compone col subietto, la cosa è così come s' afferma, e questo la chiama essere , [...OMISSIS...] : se poi il predicato, che noi uniamo al subietto, nella cosa non si unisce e compone, essa non è qual s' afferma, e questo lo chiama non essere [...OMISSIS...] . Dunque, se la cosa è come s' afferma, c' è il vero, se non è, non c' è il vero. Il vero dunque è l' essere affermato. Ma dove non c' è composizione di subietto e di predicato come nelle specie?... Domanda dunque in queste cose incomposte « « che cosa sia l' essere e il non essere, e il vero e il falso »; [...OMISSIS...] ». E risponde che « « il vero è il toccare, ed esprimere colla voce », [...OMISSIS...] », cioè il toccarle colla mente, l' intuirle e il significarle colla voce, distinguendo il mandare una voce, dire un vocabolo «fasis», dall' affermare, pronunciare una proposizione, «katafasis». Ora osserva che circa gl' incomposti, «asyntheta», l' intuirli, o come dice, il toccarli colla mente è il vero, ma il contrario di questo vero non è propriamente il falso, ma semplicemente l' ignoranza, chè l' ignorare è non toccare, [...OMISSIS...] . Il che dice in molt' altri luoghi. Ed è molto da considerarsi questa sentenza d' Aristotele. Poichè se le essenze incomposte, le quali sono certamente le specie, che altrove chiama seconde essenze, [...OMISSIS...] , o se non queste sole, anche queste però, non si generano, nè si corrompono, e la mente umana non le produce già, ma le tocca o non le tocca, le intuisce o non le intuisce, e se queste sono sempre e sempre in atto, [...OMISSIS...] , e perciò eterne, e se queste nelle cose corruttibili e sensibili non sono sempre, perchè queste si cangiano e perdono i loro atti, e ne prendono altri, che rispondono ad altre specie: conviene certamente dire che Aristotele ritiene molto di ciò che ebbe appreso alla scuola del suo maestro. E come s' ha da intendere dunque quello che altrove dice che le specie intelligibili s' intuiscono dall' anima nelle specie sensibili? Non può essere in alcun altro modo, se non così; che le specie sensibili sieno l' occasione e quasi il luogo, dove la mente umana vede le specie eterne, sebbene queste sieno immuni da ogni corruttibile e sensibile elemento. Ma Aristotele vede un' altra verità maggiore. Poichè si presentò alla sua mente la questione, « perchè le essenze o specie semplici ed incomposte sieno sempre in atto, e non si generino nè corrompano, ma, o si tocchino dalla mente, o non si tocchino ». E rispondendo a se stesso s' accorge, che questo avviene necessariamente per la natura dell' ente , che è la specie o essenza prima e indeterminatissima, a cui tutte le altre si riducono: onde ne dà appunto questa ragione che [...OMISSIS...] . E in tutto questo troviamo che Aristotele è con noi, o a noi sommamente s' avvicina. Poichè: 1 Riconosce, che la verità è l' essere , o affermato , o toccato, intuito dall' anima intellettiva (2); 2 Che le essenze e specie, essendo incorruttibili ed eterne, sono o toccate o non toccate dalla mente, e però si dà ignoranza, ma non inganno circa di esse; 3 Che queste essenze o specie si riducono all' essere stesso [...OMISSIS...] , dal quale ricevono l' ingenerabilità e l' incorruttibilità e quindi l' altre loro doti. Altrove suddivide il falso delle cose, che ammettono composizione, e dei giudizŒ, in due specie; la prima quando le cose non si compongono, cioè il predicato non si affà al subietto, o anche è impossibile che si compongano, e queste cose, dice, non sono enti, [...OMISSIS...] : la seconda, quando le cose, gli enti, qualunque sieno, [...OMISSIS...] , sono atti per natura ad apparire quali non sono o quelli che non sono, come l' ombre ed i sogni. Queste cose sono un chè, ma non ciò di cui producono la fantasia, [...OMISSIS...] . Quest' acuta sentenza, che ogni ragione è falsa d' altro che non di ciò, di cui è vera, suppone che la ragione resti, e diventi vera o falsa, secondo che l' uomo l' applica all' ente a cui appartiene o a un altro, e in quanto resta ella è vera del secondo genere di verità, cioè degl' incomposti. Questa ragione poi, che è sempre vera in sè, ma di cui l' applicazione può essere falsa o vera, è il principio, come già vedemmo «( Ideol. 10.3 segg.) », che atterra lo scetticismo critico. L' essere dunque, secondo Aristotele stesso, è la verità, e rivestendo la sua dottrina del nostro linguaggio, l' essere presentandocisi in due modi, come reale e come ideale, due sono i generi della verità, il primo de' composti, il secondo de' semplici: al primo corrisponde il giudizio che unisce, e però il vero qui è «to sygkeisthai kai hen einai», al secondo corrisponde l' intuizione, e però qui il vero rispetto alla mente, è «to thigein» (2). Nè fa meraviglia, che si dia da Aristotele la verità egualmente alle cose e alla mente, perchè egli parte dal principio, che la mente dopo che ha intese le cose è divenuta le stesse cose e che [...OMISSIS...] . La mente in atto dunque, venuta dal di fuori all' uomo, somministra i primi principŒ all' atto di giudicare della verità e di raziocinare, che non è altro che un conoscere l' essere nelle cose. Quindi questa mente venuta dal di fuori è quella che rende intellettiva l' anima che la riceve, ossia che dà all' anima « « la mente in potenza » » cioè a dire una facoltà atta a raziocinare, che da Aristotele è anche chiamata « « mente dell' anima », [...OMISSIS...] », ed è definita « « quella con cui l' anima raziocina e percepisce », [...OMISSIS...] » (2). Ora come non si può raziocinare senza che anteriormente l' anima intuisca i principŒ, così questa mente dell' anima o facoltà di ragionare dee essere preceduta nell' uomo da un' altra mente in atto, ch' egli chiama [...OMISSIS...] . Solamente è da notare che Aristotele non intese bastevolmente l' intima connessione ed identificazione tra l' universale ed i principŒ , i quali, come noi abbiamo mostrato, non sono altro che lo stesso universale applicato a giudicare del meno universale «( Ideol. 559 7 566) »: onde ogni universale nella sua applicazione a' giudizŒ, che da lui, come da regola si fanno, è un principio del ragionamento, principio più o meno esteso, a quello stesso modo che è più o meno esteso l' universale. Se questo avesse veduto chiaramente Aristotele, non avrebbe divisa la cognizione dell' universale dalla cognizione de' principŒ: ma si sarebbe accorto che quella e questa dipendono dallo stesso atto d' intuizione dell' essere, benchè quella, posteriore a questa, abbia bisogno a formarsi d' altre facoltà, che chiameremo, complessivamente, facoltà d' applicazione e di deduzione. Non pare dunque, che Aristotele abbia colto la natura comune degli universali, ma solo vide, che gli ultimi e più estesi universali, [...OMISSIS...] , non poteano aver nulla di comune coi fantasmi. E questo lo argomentò dal considerare « i giudizi intorno alle verità delle cose », i quali, mettendo a confronto le specie per giudicarle, non poteano essere le specie stesse, e doveano avere altresì per regola de' principŒ evidenti e precogniti: onde disse, che [...OMISSIS...] . E dimostra ciascuna di queste qualità che devono avere i principŒ della dimostrazione; tra le quali quella di essere più noti e precogniti, [...OMISSIS...] . Dalle quali ultime parole si vede, che conobbe certo Aristotele, che i primi e sommi universali erano il medesimo che i primi e sommi principŒ; ma non molto s' accorse che di qualunque universale, fosse anche il minimo, si può dire il simile, cioè che è atto ad essere usato in giudicare, e in dimostrare, come un principio. La distinzione poi che fa tra le cose anteriori e più note assolutamente e semplicemente, e anteriori e più note relativamente a noi, acciocchè abbia un senso, dee intendersi relativamente alla nostra consapevolezza, poichè, come ha detto altrove, « « avviene, che le notizie più chiare » [...OMISSIS...] «nella stessa dimostrazione stieno celate » » nell' uomo (1), cioè l' uomo le abbia senz' accorgersene. Onde chiama cose anteriori e più note a noi quelle che sono tali in ordine alla riflessione nostra, benchè i sommi universali devano essere anche a noi stessi noti precedentemente, e più noti d' ogni altra cosa, se da essi dobbiamo dedurre la cognizione di tutte l' altre cose, come Aristotele stesso segue a mostrare: poichè dice: [...OMISSIS...] . Insegna dunque chiaramente Aristotele, che a quello stesso uomo [...OMISSIS...] che è atto ad imparare per dimostrazione, devono precedentemente esser noti e più noti i principŒ e l' assurdità di ciò che a questi s' oppone, [...OMISSIS...] perchè così è rimossa da lui la possibilità dell' inganno; e però quando dice, che rispetto a noi è più noto ciò che s' approssima al senso, dee intendersi rispetto al nostro accorgerci, e al nostro sapere riflesso e consapevole. I sommi universali dunque, i primi intelligibili, i principŒ indimostrabili [...OMISSIS...] sono il medesimo per Aristotele, e questi sono noti all' uomo prima d' ogni sapere acquistato per dimostrazione: ora dopo aver dimostrata la necessità che queste notizie nella mente umana precedano, riassumendosi, le chiama tutte insieme « « principio della scienza » »; [...OMISSIS...] . Ora in appresso dice che questo principio della scienza è la mente, [...OMISSIS...] . Per mente dunque intende Aristotele il complesso de' primi intelligibili anteriori alla dimostrazione, indimostrabili, notissimi, tutto ciò in una parola che ci può essere d' anteriore alla dimostrazione, di cognizione evidente, [...OMISSIS...] onde dice, che la mente è dei principŒ, [...OMISSIS...] . Di nuovo dunque raccogliamo che la mente è presa in senso obbiettivo come i primi intelligibili (3). E di questi primi intelligibili, che sono essenze incomposte, dice Aristotele che sempre sono in atto, e non mai in potenza da cui passino all' atto: [...OMISSIS...] . Questi intelligibili sono dunque, secondo Aristotele, sempre in atto, davanti all' anima intellettiva, e costituiscono la mente che viene dal di fuori, il lume della ragione, [...OMISSIS...] . Ma se questa mente è una, come poi essi che la costituiscono, sono molti? Se si considera attentamente i diversi luoghi d' Aristotele, si trova ch' egli stesso riduce la moltiplicità de' principŒ ad un solo, che contiene in sè tutti gli altri. E veramente gli altri non sono che il primo principio, che riceve diverse espressioni secondo il diverso genere d' entità a cui si applica. E questo primo principio per Aristotele è quello di contraddizione. Del quale dice espressamente che per natura sua è « « il principio di tutti gli altri assiomi », [...OMISSIS...] . Se dunque il principio di contraddizione è il principio di tutti gli altri assiomi, questi sono sue conseguenze, e però per lui, come per un primo lume, si conoscono: dice ancora, che [...OMISSIS...] . Sui quali luoghi notevolissimi conviene osservare: 1 Che se il principio di contraddizione è il principio degli assiomi, [...OMISSIS...] , e se la mente pure è il principii de' principŒ, [...OMISSIS...] , consegue, che il principio di contraddizione, che contiene nel suo seno tutti gli altri principŒ, sia lo stesso che la mente obiettiva ed in atto d' Aristotele, [...OMISSIS...] . Il principio di contraddizione è dunque, secondo Aristotele, la luce sempre in atto dell' anima intellettiva: vedremo in appresso a che cosa esso si riduca. 2 Il nostro filosofo insegna pure ne' luoghi citati chiaramente che non si può concepire un ente o una ragione qualunque degli enti senza già avere il principio di contraddizione, [...OMISSIS...] , e che chi si fa a conoscerla, deve venire a impararla, già avendo quel principio, [...OMISSIS...] . E dire esser necessario che si preconosca questo principio per concepire o imparare qualunque ente o ragione, nel linguaggio d' Aristotele risponde alla nostra percezione intellettiva o concezione degli enti: solamente egli nota in tale conoscere anche l' intuizione della necessaria certezza della cosa concepita, onde dice, che non si concepisce come ipotesi, [...OMISSIS...] , e anche noi ce la comprendiamo ma implicita e indistinta dalla percezione e concezione, distinguendosi poi solo in appresso per un atto di riflessione scientifica. 3 E qui si ha la chiara spiegazione di ciò che voleva dire il nostro filosofo in fine al secondo degli Analitici posteriori, dove descrivendo il modo col quale l' anima dalle sensazioni viene formandosi la scienza, dice che [...OMISSIS...] . La condizione dunque che dee avere quest' anima è che abbia precedentemente in sè in atto il principio di contraddizione ossia la mente che le viene dal di fuori: con questa mente ella può conoscere, percepire, ragionare, e però distingue l' anima intellettiva che è in potenza, dalla mente che è in atto, e colla quale l' anima intellettiva intende e ragiona tutto ciò che intende e che ragiona (3). Conviene ora osservare a conferma di tutto ciò, come sia lontanissimo da Aristotele il confondere ciò che dà il senso, con ciò che è l' oggetto dell' intelletto. Poichè quantunque dica che si vedono da noi le specie intelligibili nelle specie sensibili , e quantunque faccia venire la scienza nostra per via d' induzione , [...OMISSIS...] nel modo spiegato, e dica che il senso faccia l' universale, [...OMISSIS...] , tuttavia tiene sempre al tutto distinto il termine sensibile dall' intelligibile. E già vedemmo, che per senso non si dee intendere i sensi particolari ed esterni « ma una potenza interna dell' anima d' apprendere immediatamente »: onde questa potenza è generica e può variare di specie ne' diversi animali, nell' uomo poi questa potenza immediata è anche intellettiva, onde anche noi non ricusiamo di riconoscere nell' intuizione « un senso intellettivo »che tocca , per usare una parola Aristotelica, l' intelligibile. E che per senso Aristotele intenda in genere questa potenza interna dell' anima d' apprendere immediatamente, e non i soli cinque sensorŒ, vedesi anche dall' ammettere egli « « un senso comune » » [...OMISSIS...] (1), che non è niuno de' cinque. Oltre di che il sensibile per Aristotele non è che l' accidente degli enti (2), e anche questo si trova sì fattamente nell' anima, che fuori di questa non esiste più in atto; in potenza poi non è ancora esistere, e quindi al senso egli dà l' apparenza e non la verità, benchè dica, che di queste apparenze sensibili ciascun senso ha la sua e in essa non s' inganna (3). All' intelligenza sola poi riserva l' essere delle cose (4), le essenze , la verità, gli universali. Laonde censurando Democrito dice che [...OMISSIS...] . Dal qual luogo, come da molti altri si trae: 1 Che Aristotele assegna ai sensi l' apparente, [...OMISSIS...] : 2 che assegna alla mente l' essere , [...OMISSIS...] , la verità, [...OMISSIS...] : 3 e che dalla mente, che viene dal di fuori, vuole distinta l' anima, non solo come una parte di questa, qual sarebbe la mente subiettiva, ma come un' altra cosa, qual è la mente obiettiva (6). Ora per anima propriamente distinta dalla mente Aristotele intende « quel principio immateriale, che usa nelle sue operazioni per istrumento il corpo da esso animato ». E tra queste operazioni, [...OMISSIS...] del composto, enumera tra le principali e più evidenti [...OMISSIS...] , alle quali si devono aggiungere quei tre modi d' operare che, come vedemmo altrove, chiama compassionare, imparare, raziocinare, [...OMISSIS...] : poichè ogni discorso dell' anima intellettiva ha bisogno dell' aiuto de' fantasmi. Dice che quelle operazioni, che sono del composto, non sono tutte fatte dal senso, ma « « alcune dal senso, alcune altre col senso » » [...OMISSIS...] (4), onde il raziocinare si fa bensì col senso, ma non dal senso, e così, secondo Aristotele, insieme col senso opera la ragione, che non è il senso, ma che al senso s' unisce, e concorre a produrre un effetto congiunto in uno nell' anima, che per la sua unione è talora da Aristotele chiamato sensazione benchè abbia un elemento razionale ed intelligibile: il che io credo voglia dire in quelle parole che [...OMISSIS...] . Il termine dunque del senso corporeo è interamente diverso per Aristotele dall' oggetto della mente; ma questa ha due atti, il primo, «noein», è l' intuire, che si fa senz' organo corporale, e l' altro è «dianoeisthai», raziocinare, che non si fa dal senso, ma col senso, e che perciò abbisogna d' organo corporale (6). Non essendo dunque il puro sensibile il vero, ma l' apparente, se si confonde il sensibile col vero, si distrugge « « il principio di contraddizione » » e si cade nell' opinione di Protagora, che « « tutte le cose fossero ad un tempo vere e false, perchè or vere, or false appariscono » » (1). Aristotele confuta quest' opinione dimostrando che [...OMISSIS...] . Poichè il subietto del movimento e della mutazione deve essere uno e immoto, altramente, se tutto si movesse, non ci potrebbe essere movimento. E venendo al sensibile dice: [...OMISSIS...] . Il sensibile dunque è un relativo che domanda per condizione qualche altra cosa d' anteriore a sè, del tutto insensibile. Ora quest' altra cosa anteriore al sensibile è l' essere , e come il sensibile è il termine del senso, così l' essere è l' oggetto della mente in senso subiettivo, ed è la stessa mente in senso obiettivo. In quest' essere si trova quella costanza, che non si trova nel senso, onde come quelli che riposero la verità nel senso, la resero mutabile, ossia non verità, così quelli che la riconoscono nell' essere, la scorgono permanente. [...OMISSIS...] . Intende dunque sempre di asserire « « la natura degli enti » » quantunque parlasse dello stesso sensibile, perchè « « asserire qualche cosa del sensibile » » non è sentire, ma un' altra cosa diversa dal sentire, appartenente allo intendimento, che è quello che fa l' atto dell' asserire, e quest' altra cosa asserita è sempre « « la natura dell' essere » ». Ora per la costanza e immutabilità di questa natura procede che « « essere e non essere » » non istieno mai insieme, e però riman fermo il principio di contraddizione, la cui difesa fatta da Aristotele nel IV de' Metafisici obbliga il filosofo a riconoscere che questo principio a cui riduce tutti gli altri, non è infine se non « « la intuizione evidente della natura dell' essere, il quale non può contraddirsi mai, cioè è in un modo immutabile »(1) ». Se dunque, come vedemmo, la mente oggettiva e sempre in atto d' Aristotele sono i primi, ossia i principŒ (2), e questi si riducono tutti al primissimo, che è quello di contraddizione, e questo non è altro che « « la natura invariabile dell' essere » », ne viene che l' essere sia la mente in atto d' Aristotele. Nell' ordine dunque delle cognizioni umane, secondo Aristotele, c' è: 1 l' essere, ossia la mente obiettiva, [...OMISSIS...] : 2 il quale essendo immutabile e costante non può esser nulla di contrario a sè stesso, e questa sua permanenza s' esprime col principio di contraddizione, che dice « « l' essere non può non essere » » secondo la forma intuitiva; e secondo la forma di predicazione « « d' ogni ente è vera o l' affermazione o la negazione » »: 3 da questo vengono gli altri principŒ immediati e indimostrabili, [...OMISSIS...] , cause della conclusione, [...OMISSIS...] : 4 istrutto l' umano intendimento di questi principŒ, di cui a principio non è consapevole, ma che possiede impliciti nell' essere che intuisce per natura, vede nelle sensazioni, cioè nelle specie sensibili , le specie intelligibili immateriali, ed universali, e di universale in universale perviene all' essere stesso che intuiva per natura, e che ora conosce coll' atto consapevole della sua mente: e quindi; 5 la scienza di dimostrazione , che riguarda le conclusioni che si cavano da quei principŒ, ed è scienza mediata e riflessa. Tale risulta l' Ideologia d' Aristotele, se si mettono insieme, colla maggior coerenza possibile, i varŒ luoghi delle sue opere, ne' quali egli la sparpaglia, e la va quasi direi seminando. Tutto il principio di questo sistema è l' essere , la mente oggettiva, sempre in atto, che l' uomo ha, e perciò è detto « abito »parola che indica da se stessa una dualità d' opposizione tra l' avente e l' abito, cioè l' avuto, ed è detto parimente lume. E che questo essere7lume sia « l' essere indeterminato ossia comunissimo », vedesi da ciò che dice Aristotele della « Filosofia prima ». Poichè come anteriormente alla scienza di dimostrazione c' è un altro genere o modo di sapere, [...OMISSIS...] che è quello de' sommi ed immediati principŒ che si hanno dall' uomo per natura e che tutti sono contenuti nella natura dell' essere; così stabilisce Aristotele, che antecedentemente a tutte le scienze ci sia una scienza, che non tratta d' alcun essere particolare, e perciò dell' « essere comunissimo », e questa è quella che chiama Filosofia prima. La prima dunque di tutte le scienze deve considerare l' ente in universale, senza alcuna parziale determinazione, che è l' ente comunissimo. E questo ente, che dice esser lo stesso che l' uno, lo chiama primo, [...OMISSIS...] a cui tutte le notizie intorno all' ente si riducono (4): primo certamente nella mente, benchè, considerato come predicato, esso stesso si diversifichi, e non sia più il medesimo. Dove si parla manifestamente « dell' essere comunissimo »che non esiste tale in separato, ma che pure è davanti all' intelligenza, come « « il primo uno e il primo ente » » cioè quell' idea dell' ente che antecede ogni altra cognizione dell' ente, e alla quale ogni altra cognizione si riferisce, [...OMISSIS...] , poichè se quest' uno in questa universalità e indeterminazione non fosse davanti all' intelligenza, l' altre cose o notizie non si potrebbero a lui riferire, nè predicare egli stesso in un modo molteplice, onde [...OMISSIS...] . Se noi ora rivolgiamo indietro lo sguardo, vediamo qual lungo cammino abbia fatto il pensiero aristotelico e come si sia immensamente allontanato da' suoi primi principŒ. Egli incominciò la sua opposizione alla dottrina di Platone prendendo a provare, che le idee separate dai sensibili reali non esistono, e che esistono solo le specie , e queste sono le forme , e le forme altro non sono che gli atti sostanziali delle stesse cose reali: laonde esistono solo in queste unite colla materia. Ma a questa ardita e complicata proposizione s' affacciò come contraria la necessità degli universali , perchè ci sia la scienza e non restino le cose al buio. Tentò dunque di provare, che per universale altro non si può intendere se non ciò che gli Scolastici poi chiamarono l' individuo vago , il pensiero del quale termina sempre in un singolare reale, ma questo pensiero si può replicare per molti individui reali successivamente: onde il poter sempre pensare e immaginare nuovi individui reali è tutto ciò che si nasconde sotto il nome d' universale, e questa possibilità che un tal pensiero si replichi indefinitamente, è un carattere dello stesso pensiero, e non delle cose reali e singolari. Entrò nondimeno tra' piedi la difficoltà di questi individui reali, oggetto suscettivo di diversi pensieri ed immaginazioni, i quali sono pure tutti uguali o simili tra di loro; altrimenti, non si intenderebbe come si dicessero essere della medesima specie e del medesimo genere: e però rimaneva sempre a spiegare che cosa sia quest' uguale, simile, o comune, che si chiama specie o genere. Occorse a quest' incaglio il filosofo rispondendo, che quest' era la ragione delle cose. Ma si dimenticò d' avvertire che, se questa ragione comune delle cose, era diversa dalle cose, conveniva pur dire che cosa questa ragione fosse. Altrimenti i Platonici avrebbero potuto rispondere, che la ragione introdotta dal nostro filosofo che volea cacciare le idee, era appunto l' idea (mutato solo il nome), la quale non è le cose, essendo queste per loro essenza singolari, e quella per sua essenza universale , e per conseguente comune . D' altro lato veniva a turbare i sonni all' infedele discepolo di Platone un altro fatto della natura non possibile a negarsi o a dissimularsi; e quest' era, che l' uomo, che produceva dei lavori esterni, li lavorava sopra un' idea da lui preconcetta, e però esistente ancora scevra d' ogni materia reale, giacchè la materia reale si foggiava poi dall' artista su quel modello o esemplare. All' evidenza di questo fatto Aristotele dovette convenire che oltre le specie che informano le cose reali e singolari e che sono unite colla materia, ci sono altre specie separate dalla materia, il cui domicilio è la mente. Così cominciò ad ammettere in qualche modo le specie separate , intendendo per separate, prive della materia reale. Ma il valent' uomo corse a riparare la breccia, e cominciò a dire o a fare intendere che le specie nella mente, e le specie nelle cose reali, sieno identiche: onde la sanità nella mente del medico è quella stessa che da lui prodotta esiste nell' uomo sano. E così pure diede all' anima intellettiva la facoltà di separare nelle cose reali la loro specie dalla materia, e così separata in esse contemplarla. Ma il soccorso era debole a segno, ch' egli stesso dovette confessare che l' identità di tali specie non era che una metafora: confessione alquanto umiliante in colui, che aveva cacciato in faccia al maestro questa stessa parola di metafora , a proposito delle sue idee esemplari (1). Infatti è per ogni verso impossibile sostenere, che la specie intellettiva della pietra sia quella stessa specie reale , se così si vuol chiamare, che è l' atto sostanziale e reale della stessa pietra, da questa indivisibile, finchè la pietra dura; indivisibile, dico, egualmente, o si pensi dagli uomini, o non si pensi. Costretto dunque dalla perspicacia stessa della sua mente ad ammettere, che le specie delle cose reali esistono anche separate da queste, cioè nella mente, e così già sciolto quel connubio indissolubile che avea pronunciato a principio, egli fu sbalzato in una regione molto più lontana dalla materia e dai reali sensibili, a cui credea prima d' aver legate, quasi schiave alla catena, le idee o specie, e dovette fare altre ed altre concessioni alla scuola che avea disertato. Infatti egli ben vide, abbondandogli l' acume dell' ingegno, che nell' ordine delle cose intelligibili non c' erano solamente quelle specie, che sono prossime alle cose reali (1), ma c' era una gerarchia di specie, cioè sopra le specie propriamente dette c' erano i generi, e questi si riducevano come a ultime classi, ai generi categorici (2), e sopra questi ancora i generi universalissimi, cioè l' essere e l' uno, due generi, che tornano ad un medesimo. Ora venuto a quest' ultima specie, lontanissima più che mai dai reali e dai sensibili, non solo la riconobbe pura d' ogni materia, ma vide ancora, ch' ella dovea sussistere, e però essere un' essenza sostanziale, anzi una sostanza prima, che chiamò Mente. Questa Mente oggettiva poi nell' uomo la considerò in potenza alle specie inferiori fino alle ultime, cioè alle più prossime ai reali sensibili; in se stessa poi e fuori dell' uomo la dichiarò essere Iddio, Primo Motore di tutte le cose, in cui finisce ogni contemplazione ed ogni appetito. Così trovò una specie, la quale non è più solo separata di ragione, [...OMISSIS...] dai reali sensibili, ma ben anco di attualità e di sostanza, [...OMISSIS...] , dovendosi dopo un gran viaggio vedere ricondotto, quasi direi prigioniero, alla casa del suo maestro. Ma non però gli si arrese del tutto. Riprendendo noi dunque l' esposizione della divergenza della opinione di Aristotele da quella di Platone suo maestro, ripassiamo i novi argomenti che egli adduce contro le idee platoniche, o le nove forme di cui le riveste. Ma facciamolo in modo da restringere il dissidio entro a' suoi più brevi confini, non tenendo conto delle divergenze apparenti, anzi, per tutto dove ne incontriamo sciogliendo l' apparenza della discordia: il che ci obbliga a cercare tutte le vie di conciliare il maestro e il discepolo per tutto colà, dove una conciliazione è possibile. Diciamo dunque che i due principali argomenti accampati da Aristotele contro le idee platoniche sono: 1 Che esse nulla servono a spiegare l' esistenza de' reali sensibili, di cui consta il Mondo, perchè sono da questi intieramente separate, onde con esse altro non si fa che aggiungere sostanze a sostanze, e così accrescere le cose da spiegarsi invece d' assegnarne le cause (1). 2 Che esse nulla servono a spiegare la cognizione umana de' medesimi reali sensibili , per la stessa ragione, che quelle idee, essendo pienamente separate per loro natura, non sono l' essenza di questi, e però, intendendo esse, non s' intendono questi. Da tutto quello che abbiamo detto precedentemente, si può in qualche modo raccogliere, che Aristotele non intendeva propriamente impugnare nè l' esistenza delle idee o specie delle cose, nè l' immutabile ed eterna loro natura, ma unicamente l' essere state separate e dissociate dalle cose reali. Ammette quello che avea trovato Socrate, ma rifiuta quello che vi aggiunse Platone, come si vede da questo luogo: [...OMISSIS...] . Riserva la parola idea alle specie, in quanto s' ammisero separate, e non combatte la stabilità ed eternità loro, che anche egli riconosce necessaria, acciocchè si possa avere scienza, e un fermo ragionamento, ma solo il loro essere separato da' reali. Socrate, dice in un altro luogo, cercò l' universale e la definizione, pel bisogno che avea di dare una base ferma alla morale: Platone, [...OMISSIS...] . Sinonime chiama Aristotele quelle cose che si chiamano collo stesso nome, e la ragione della loro essenza è la stessa, [...OMISSIS...] equivoche ossia omonime quelle che si chiamano solo collo stesso nome, ma hanno un' altra ragione d' essenza, [...OMISSIS...] . Appone dunque a Platone, che le idee e le cose sensibili si chiamassero collo stesso nome, ma avessero un' altra ragione d' essenza, laddove i sensibili fossero tra loro uguali secondo la stessa ragione d' essenza: e questo solo biasimava nel suo maestro. Quello dunque che Aristotele non voleva, era la scissura tra il mondo ideale e il mondo reale, che attribuiva al sistema del suo maestro. [...OMISSIS...] . Voleva tutto connesso; ma è difficile assai ritrarre dalle opere d' Aristotele una chiara teoria di questa connessione di tutte le cose, e che abbia coerenza. Poichè è molteplice da per tutto il significato degli stessi vocaboli da lui usati, e le cose che dice sembrano parimente variare, secondo il bisogno del momento e dell' argomento di cui scrive, onde una grande apparenza almeno di contraddizione. Tuttavia tentiamo il guado. Aristotele divide tutto ciò che può cadere nel pensiero in sostanza e accidenti (1), riducendo alla prima, come vedremo, gli elementi della sostanza, e ai secondi le privazioni (2). Ora divide la sostanza in tre classi: gl' individui reali , la specie e il genere . I caratteri distintivi e definitivi di queste tre classi di sostanze li trae dalla dialettica, secondo il suo solito metodo, cioè dall' analisi del discorso: poichè da questa Aristotele deduce quasi sempre l' Ideologia e l' Ontologia. Assegna dunque per primo carattere della sostanza individuale che [...OMISSIS...] . Questa è una eccellente nota caratteristica, e la parola subietto qui indica il subietto del discorso, e però ha un senso generalissimo, che abbraccia tanto il subietto reale, quanto il dialettico. In fatti un individuo reale di null' altro si può predicare, e nè pure esiste in altro che in se stesso, cioè, per concepirlo non ha punto bisogno di essere concepito in altro, il pensiero di lui sta da sè, è finito in lui «( Ideol. 613 not.) ». Le altre due classi di sostanze, cioè le specie e i generi, hanno per carattere comune che si predicano « delle sostanze della prima classe come di loro subietti », di maniera che si attribuisce alle sostanze della prima classe il loro nome e la loro definizione. Così l' uomo e l' animale che è specie e genere si predica del subietto, cioè di quest' uomo singolare e reale, e si dà a questo tanto il nome di uomo quanto la definizione. Le specie e i generi dunque sono cose che « si dicono del subietto, ma non sono nel subietto », perchè l' uomo non è in un uomo particolare, il che verrebbe a significare una distinzione reale tra l' uomo particolare e la natura umana, ma è egli stesso questa natura umana. Ora, Aristotele dice, che le « sostanze individuali e reali »sono le prime, [...OMISSIS...] , e che si chiamano sostanze propriamente e nel più vero significato, [...OMISSIS...] , e che dopo quelle prime [...OMISSIS...] . E quest' è appunto la dottrina che Aristotele sembra voler contrapporre a quella di Platone. Poichè questi per trovare un punto fermo cercava l' universale, e d' universale in universale volea giungere all' universalissimo. Infatti ne' meno universali riconosceva una deficienza ed una limitazione (3), una moltiplicità, e non una perfetta unità (4): l' individuo reale poi come cosa cieca e indefinita, [...OMISSIS...] , era abbandonato a' sensi ed escluso dalla speculazione della mente. Come dunque Platone cercava nel comunissimo (5) l' unità sostanziale, assoluta, non ipotetica (6); così Aristotele per lo contrario disse, che anzi prima di tutto è la sostanza completa, individuale e reale. Consideriamo le ragioni più immediate che adduce Aristotele a sostegno d' un sistema che sembra a prima giunta direttamente opposto a quello di Platone, ma la cui opposizione s' andrà scemando di mano in mano, che si vedrà svolto, e talora racconciato da Aristotele stesso. La prima ragione è tratta dalla relazione logica tra quelle idee che si dicono generi e specie, e la sostanza individuale e reale. Poichè quelle idee si predicano di questa, e n' esprimono l' essenza, come, dicendosi d' un uomo particolare, che è uomo o che è animale, si dice che la sua essenza o natura è quella d' esser uomo o animale. Se dunque quegli universali, che si dicono specie e generi, involgono nel loro concetto una relazione alle sostanze individuali e reali di cui si predicano, quelli non possono essere prima di queste, onde « « tolte queste, è impossibile », dice Aristotele, «che rimanga nulla di quelli »(1) ». La seconda ragione d' Aristotele è ontologica e la trae da questo, che le idee universali, che si dicono specie e generi, non sono a pieno determinate, e però non hanno l' ultimo atto; ora ciò che è in atto deve, assolutamente parlando, precedere ciò che è in potenza: altrimenti non si potrebbe spiegare come questa si riducesse all' atto. Quest' argomento è svolto in questi termini nei Metafisici, e si conchiude così: [...OMISSIS...] . E perciò anche nell' uomo non si contenta di ammettere innato lo scibile, [...OMISSIS...] , ma un che sciente, [...OMISSIS...] , affinchè ci sia l' atto compiuto, poichè [...OMISSIS...] . Conviene che noi esaminiamo il valore di queste due ragioni, e che determiniamo precisamente ciò che hanno virtù di provare. Se noi prendiamo la prima, dividendola dalla seconda, e cerchiamo a che s' estenda, ci accorgeremo ch' ella è atta solamente a dimostrare, che le sostanze individue precedono logicamente quelle idee universali, che si chiamano generi e specie , e che perciò queste non si potrebbero concepire senza quelle prime, di cui si predicano; ma non prova punto, che avanti questi generi e specie devano esistere sostanze individue attualmente reali . Poichè vi hanno sostanze individue , che non sono reali attualmente, ma unicamente possibili, il che sembra sfuggire frequentissimamente a' filosofi. Conviene dunque riflettere che l' intendimento umano ha due facoltà nel campo dei possibili: 1 La facoltà d' intuire le idee fino alle loro ultime determinazioni, colle quali si ha la specie piena , per esempio, la specie piena di una data sostanza «( Ideol. 5.9 7 594) »; 2 la facoltà di affermare un individuo come possibile, coll' aiuto della immaginazione intellettiva, che in qualche modo lo segna e distingue dalla specie piena, il qual individuo è un reale possibile . Ora essendo la ragione aristotelica di cui parliamo, puramente dialettica, ella non ha virtù d' uscire dal circolo delle idee e dei reali possibili , che non hanno ancora attualità reale (2). Perocchè data un' idea specifica piena di sostanza, io posso dire di questa quello appunto ch' egli dice delle sue sostanze prime, cioè posso dire che d' un' idea piena di sostanza si predicano i generi e le specie «( Ideol. 591) », con che non si dice altro, se non che c' è quest' ordine tra l' idea specifica piena, e i generi e le specie (astratte) che di essa si predicano, e che questi sono posteriori a quella nell' ordine del pensiero totale, e però quella deve preesistere. Si dirà non di meno che un' idea specifica piena di sostanza non ha il carattere che Aristotele assegna alle sue prime sostanze, cioè, che non si possano predicare d' alcun' altra cosa, perchè quell' idea si predica pure degli individui reali. Vero; ma questo non implica ancora, che quest' individui reali sussistano attualmente, bastando che siano affermati ipoteticamente per mezzo dell' immaginazione, come reali possibili. Questa prima ragione dunque d' Aristotele vale bensì a favore delle sostanze individuali, ma non a favore delle sostanze attualmente sussistenti. La seconda ragione ontologica a favore della preesistenza della sostanza singolare e attualmente reale alle universali è di maggior peso. Ma se si considera a che precisamente si riduca la sua efficacia, qui appunto si vedrà, che non oppugna il sistema di Platone, se non in apparenza. Poichè la precedenza dell' atto alla potenza non riguarda punto ogni ente particolare, secondo Aristotele, ma accade che la potenza sia in uno anteriore all' altro, come il seme anteriore all' albero; ma questo non è possibile in tutta la serie, che dee cominciare dall' atto. Onde dice che ogni principio di moto e di quiete dev' essere anteriore [...OMISSIS...] . E` dunque necessario un primo atto, acciocchè sia ridotto in atto quello che è in potenza. Questo principio è evidente, ma questo non prova altro che la necessità d' una prima causa, d' un primo motore. Ora è lontanissimo Platone dal negare la verità di questo principio, e di questa conclusione, che unica procede dal principio, e che non si deve estendere al di là di ciò che dà l' illazione. E` una aperta calunnia l' attribuire a Platone ch' egli si fermi alle idee, ai generi ed alle specie (poichè Aristotele a queste due classi le riduce); egli n' esce senza equivoco. Sebbene riconosca nelle idee l' eterno, e il necessario, come ve lo riconosce pure Aristotele, tuttavia ei riconosce pure la limitazione: [...OMISSIS...] , e applicando questo principio alle specie, dice che [...OMISSIS...] , e vuol dire che in ciascuna specie si può distinguere più cose col pensiero e però c' è delle entità molteplici, ma nello stesso tempo si può negare di ciascuna tutte le altre cose, che non son essa, e perciò è indefinito il numero di quelle entità ch' essa non è punto. Ora Platone estende questa limitazione, o, come egli dice, mescolanza di non7ente, a tutte affatto le specie, anche alla prima, a quella dell' ente, che costituisce il primo de' cinque sommi generi platonici, il che è osservabilissimo. Poichè l' ente puro è lo stesso che l' idea dell' essere , astrazion fatta da ogni altra cosa. Se dunque il sommo genere delle idee secondo Platone è limitato, e limitato più d' ogni altra specie, appunto perchè di lui si negano tutte le altre cose, che non sieno puramente essere; di molto s' ingannano quelli che attribuiscono a Platone il ridurre tutto ai generi più universali, e credono che a questo solo conduca quella disciplina da lui tanto magnificata come la prima di tutte e chiamata Dialettica, quasichè l' unica operazione di questa sia l' ascendere alle ultime astrazioni (3). Che anzi secondo Platone le idee non sono l' una dall' altra divise e indipendenti, ma si copulano tra loro con certe leggi, e il principale ufficio della Dialettica platonica è il determinare [...OMISSIS...] . E per questo fine di dimostrare come si connettano tra loro le idee e vengano formando insieme un certo organismo, deve la Dialettica dividere le cose per generi [...OMISSIS...] , e non confondere una specie coll' altra [...OMISSIS...] . La Dialettica platonica adunque non ha solamente per ufficio di dividere le cose in generi, ma di mostrarne la loro connessione e la loro unità senza pregiudicare alla loro distinzione. E quando Aristotele nelle Categorie distinse le cose, che si dicono del subietto, e non sono in esso, quelle che si dicono del subietto, e ci sono, quelle che non si dicono del subietto, e ci sono, e quelle che nè sono nel subietto, nè si dicono di lui, altro non fece che far uso appunto della Dialettica platonica, che discopre il nesso tra le idee. Riconosciuta dunque da Platone la limitazione di ciascuna idea, presa in separato, egli riconobbe ancora che per varŒ nessi comunicavano e si connettevano tra loro, e connettendosi non a caso, s' organavano e completavano nel tutto ideale, che ne risultava, senza che perciò si confondessero le parti moltiplici contenute nell' unità. Ma è da rimovere oltrecciò il pensiero da un altro comune pregiudizio circa la teoria platonica, credendosi comunemente ch' essa s' esaurisca tutta nelle idee. Anzi sotto la parola «polla», i molti , egli non comprende solo le idee, ma anche le singole cose reali, che, come abbiamo veduto, nel Filebo chiamò «apeira», gl' indeterminati , perchè venuto il pensiero ad essi, non si può più oltre recare l' analisi e distinguerci nuove specie (2). Univa dunque Platone stesso tutte le cose in un grande organismo, nel quale si allogavano, connesse insieme gerarchicamente, ma distinte le idee e i reali, ultimi questi, ma non divisi dal tutto. E` bensì vero che non dava fede ai sensibili, come sensibili, perchè di continuo mutabili, e però inetti ad essere scienza. Ma questo l' accorda anche Aristotele. Se però Platone diceva che i sensibili per se stessi non hanno consistenza e sono apparenze, non negava per questo la realità dell' essere, checchè possa parere considerando alla sfuggita i suoi discorsi intorno alle idee. Chè altro è l' idea come semplice conoscibilità separata dalla cosa, o mezzo di conoscere; altro è l' essenza che nell' idea s' apprende «( Ideol. 646) ». Nell' idea Platone vedeva ciò che esiste per sè, assolutamente. Diceva dunque che acciocchè una cosa qualunque veramente esistesse, dovea partecipare di questa cosa per sè esistente. E non dice Aristotele lo stesso in altre parole? [...OMISSIS...] . Non dice che il nome e la definizione, cioè l' essenza delle specie e dei generi si predicano delle sostanze singolari, esprimendosi così la natura di queste, onde forz' è che questi siano appunto quell' essenza stessa che è nel genere e nella specie, altrimenti sarebbero un bel nulla? (2). Non dice, che così appunto e non altrimenti si conoscono i singolari, cioè riconoscendo in essi quell' essenza appunto che si vede nelle specie e nei generi, dove solo quell' essenza è conoscibile? (3). E non sono queste specie o idee dette da Aristotele ciò che è eterno, [...OMISSIS...] , fondamento d' ogni scienza, e della dimostrazione, che non è di cose caduche, [...OMISSIS...] ? (4). Se dunque, secondo Aristotele, l' essenza che si vede nelle idee è quella stessa de' singolari, in modo che a questi si deve attribuire la definizione di quelle, nè si può altramente conoscerli, non viene egli a confessare con ciò che i singolari partecipano, come diceva Platone, di quell' essenza appunto, che è veduta nelle idee? E dico partecipano , perchè nessuno de' singolari esaurisce in sè l' universale, egualmente partecipato da altri. Rimarrà tuttavia una differenza d' opinione circa la questione dell' origine dell' universale eterno. E Aristotele infatti non perde mai l' occasione di dire che [...OMISSIS...] . Ma tutto questo è vero certamente rispetto al conoscere consapevole dell' uomo, ed è da notare che il nostro filosofo non dice necessaria l' induzione per formare gli universali, quand' anzi egli li dichiara sempre eterni, ma per contemplarli, [...OMISSIS...] , la qual maniera di dire li suppone preesistenti e dimostra che si parla d' una cognizione relativa all' uomo. Il che ancor più si conferma se si considera che Aristotele distingue il contemplare dal conoscere semplicemente, quello significando il pensiero attuale, questo l' abituale, e quello suppone questo (2). Ma lasciando questa questione dell' origine e conchiudendo ciò che stavamo dicendo, Platone non separa punto l' esistenza reale dal discorso delle idee, ma anzi in queste vuole che si veda l' essenza che è per sè ed assolutamente, e vuole che le cose mutabili partecipino di questa per essere e che in queste noi conosciamo quella; e del pari Aristotele riconosce che l' essenza stessa, che è nelle idee, è quella che s' attribuisce veramente e si predica delle cose reali e singolari, e per quella queste si conoscono, perchè quella è la propria natura e causa formale di queste (3). Rimane tuttavia un' altra profonda differenza tra Aristotele e Platone, che abbiamo già toccata e che ci conviene ora meglio sviluppare. L' argomento che fa Aristotele, ridotto ad espressioni più chiare per noi, è il seguente: « Io osservo, viene egli a dire, che le specie e i generi si predicano d' un subietto che è la sostanza individuale, e che gli accidenti (idee degli accidenti) non si predicano, è vero, d' un subietto sostanza individuale, ma sono in un tale subietto ». Dunque questo subietto è necessario che preesista nell' ordine logico alle idee, e che esista realmente insieme con queste, informato da queste, perchè queste essendo relative a lui, non esistono realmente se non come di lui o in lui. Non dico già che sia necessario, che esistano tanti e tanti subietti, ma almeno qualcuno, di cui si dicano le idee specifiche e generiche, e in cui sieno quelle degli accidenti [...OMISSIS...] . E` dunque necessario, che quelle idee che si dicono specie e generi, non sieno propriamente sostanze, ma piuttosto « « qualità circa la sostanza » » [...OMISSIS...] , e si distinguano dagli accidenti, perchè questi sono « « qualità semplicemente » » [...OMISSIS...] (2); non c' è dunque veramente altra sostanza che l' individuale, perchè questo è un subietto che non si predica d' altro subietto, ma è subietto assolutamente. Ciò posto, se si vuole tenerla con quelli che tentano di spiegare l' esistenza delle cose reali per la partecipazione delle idee, converrà dire che la partecipazione di ciascuna d' esse sia in quanto non si dice del subietto, dovendo in tal caso ella stessa, l' idea partecipata, costituire il subietto individuale, che non s' ammette prima, e il quale non si dice d' altro subietto: dunque le idee saranno sostanze individuali. Ma in tal caso le idee saranno sostanze individuali doppie, cioè non partecipate ed eterne, e partecipate. Se questo è così, ci sarà ancora qualche cosa di comune tra le idee eterne e le idee cose, e così s' andrà all' infinito. Che se non c' è nulla di comune, il chiamare collo stesso nome la sostanza idea non partecipata, e la sostanza partecipata non sarà più che un equivoco, come il chiamar uomo, un uomo vero, e una statua di legno. La partecipazione dunque delle idee non può spiegare l' esistenza de' subietti individuali, ma questi rimangono sempre presupposti (1). Alle quali difficoltà un accorto difensore di Platone potrebbe con tutta verità rispondere in questo modo: « Voi tormentate la dottrina di Platone, contraffacendola per confutarla. E` verissimo, che Platone nega ai sensibili, e a tutto ciò che apparisce come in un continuo moto e trascorrimento, una vera esistenza, concedendogli un' esistenza solamente fenomenale, ma Aristotele, dove gli bisogna e dimentica Platone, dice il medesimo (2). Poichè qual vi può essere sentenza più consentanea a quella di Platone quanto il distinguere che fa Aristotele tra la carne , il sensibile, e l' essere della carne , che attribuisce al solo intelletto? (3). Negare dunque al sensibile e al continuo mutabile l' essere per sè, e dire che questo l' ha bensì, ma non è lui, non significa punto, che Platone neghi la realità degli enti o la loro individuale sussistenza, e riduca ogni cosa a generi, cioè a idee. Di poi, Aristotele pretende che l' essenza de' generi e delle specie consista unicamente in questo che sieno atte ad essere predicate d' un subietto; dal che deduce, che dunque avanti ad esse ci dee essere il subietto. Platone nega, che le idee sieno puri predicabili, e però cade l' argomento d' Aristotele. Dice, che se le idee possono esser predicate , è perchè prima sono partecipate ; e veramente non sarebbero predicate con verità, se la natura che si predica non fosse veramente partecipata dal subietto di cui si predica. Esser partecipate vuol dire che il subietto non ha in sè l' idea così totalmente, che questa non possa essere e non sia in altri subietti. Ora accordando Aristotele che tali idee sono universali, egli accorda che ogni individuo singolare non è quell' idea, ma la partecipa, perchè quell' idea è una e la stessa in ciascuno, onde lo stesso Aristotele la chiama «autoekaston» od «auto en ekaston», od «en kata pollon» (1), e con altri simili nomi. Se dunque non si vuol questionare di parole, la partecipazione dell' idea è innegabile e accordata da Aristotele. Se l' esser predicata e partecipata , benchè sia cosa propria dell' idea e conseguente dalla sua stessa essenza, pure non è la sua essenza, l' idea dunque si concepisce ed è anteriormente alla sua partecipazione. Ora ella acquista il titolo d' universale unicamente per la sua partecipabilità a molti individui, il che è ammesso da Aristotele; dunque se l' idea è universale in relazione agli individui a cui può essere partecipata, ella per sè, nella sua essenza anteriore al concetto della sua partecipazione, è ella stessa un singolare, e questo appunto significa la denominazione d' «autoekaston» che gli dà lo stesso Aristotele «( Ideol. 1020 not.) » (2). Con questa sola osservazione cade il secondo argomento d' Aristotele contro le idee platoniche, che abbiam detto ontologico, perchè niente ripugna l' ammettere che le idee sieno essenze singolari, che possono stare senza la partecipazione loro agli individui reali e irrazionali, di cui si compone il mondo materiale e sensibile. Ma di mano in mano che si seguita Platone nella perscrutazione delle idee, la sua dottrina diventa più consistente in ragione che si fa più completa. Platone distingue due cose nelle idee: 1 l' essenza; 2 l' intelligibilità; l' una e l' altra immutabile ed eterna. Tutti gli enti dell' universo, anche i sensibili, benchè in quanto sono sensibili sieno fenomenali, partecipano, concepiti come sensibili dalla mente, l' essenza , che è nelle idee, e così anch' essi acquistano qualche cosa di stabile, di consistente; la loro esistenza reale. Le menti poi godono della intelligibilità intrinseca a tali essenze, e per questa loro intelligibilità le essenze si chiamano propriamente idee , e su questa intelligibilità si fonda la stabilità e certezza e necessità delle definizioni e della scienza dimostrativa, onde la verità ne' ragionamenti della mente e nelle orazioni. Se l' essenza dunque è quella che si partecipa da' sensibili, e questa è veramente, non convien dire, che Platone sia un puro idealista, come hanno detto i moderni, giacchè Aristotele si guardò bene di fargli una tale censura; quando anzi pone sotto l' apparenze sensibili qualche cosa di così permanente come sono le loro essenze, che si intuiscono nelle idee. Confessa Aristotele che Platone non fa delle idee de' meri predicabili, ma dà loro una natura anteriore alla predicazione, e dice che quelli che fanno le idee essenze, di conseguenza le devono porre separate, [...OMISSIS...] : confessa ancora che le pongono ne' molti, per modo che ciascuna, rimanendo una, sia ne' molti, [...OMISSIS...] . Se dunque Aristotele stesso riconosce che Platone non fa delle idee de' meri predicabili, a che vale il suo argomento che le idee non sieno separate, perchè i predicabili suppongono il subietto, di cui si predichino? D' altra parte si contraddice anche in questo, che qui confessa, che le essenze nelle idee e nelle cose sensibili sono le medesime di specie, perchè l' essenza che è nella specie, è quella medesima che è ne' corruttibili; mentre altrove pretende che Platone coll' ammettere le idee raddoppi le sostanze, senza spiegar meglio l' esistenza delle sostanze sensibili. E quando dice che i sensibili tra loro univoci, nel sistema di Platone sono equivoci colle specie (2), abusa manifestamente di sottigliezza; poichè sono equivoci colle specie presi da queste in separato per astrazione in quanto così presi non sono che fenomeni; ma non sono equivoci presi come già partecipanti alla specie, se è vero che alla specie dia Platone la medesima essenza che ai corruttibili, [...OMISSIS...] . Ma ora di questo appunto Aristotele riprende Platone, di far cioè le stesse identiche nature ad un tempo universali e particolari, [...OMISSIS...] . Questo è quello che non intende Aristotele, e in cui sta tutto il nodo della questione. Egli reputa contraddittorio che la stessa essenza sia universale ad un tempo e particolare. Pure la chiave di tutta la filosofia è questa, che « l' essere, l' essenza, abbia due modi, ne' quali rimane identico, sotto l' uno è essere od essenza reale, sotto l' altro è essere od essenza ideale: e che il secondo di questi due modi, cioè il reale, per tutte le cose finite sia contingente e mutabile, e il primo, cioè l' ideale ed universale, sia necessario ed immutabile; per l' infinito poi ed assoluto essere, entrambi quei modi sieno necessarŒ e immutabili ». Ciò che impedisce di vedere, che qui la contraddizione non è che apparente, è prima di tutto lo spazio che coll' immaginazione s' intromette in una cosa semplice e immune affatto di spazio com' è il mondo metafisico. Pare dunque per un gioco d' immaginazione, che se s' ammette « un' essenza ideale »e poi questa stessa essenza ideale s' ammette in certo numero d' individui reali, la si ponga in diversi luoghi e così si moltiplichi. Ma nè ella è in alcun luogo nè si moltiplica veramente, ma sono i sensibili, che, essendo in diversi luoghi, quando sono percepiti dall' anima, la quale è semplice e senza luogo, s' uniscono a quell' unica essenza che è nell' anima cioè presente all' anima, e quivi hanno quell' essere o essenza che l' anima pensa, sempre identica in ciascuno di essi. Nasce qui subito la voglia di domandare: « che cosa dunque sono i sensibili prima di ricevere una tale essenza presente all' anima, nella quale essenza l' anima intellettiva li vede? ». Si risponde che, se si parla d' un' anima intellettiva singolare, essi non sono più a quest' anima, perchè per questa non è ciò che non è intelligibile. Che se si suppone che nessuna intelligenza gl' intenda, essi non sono punto a niuna intelligenza. - Ma il sensibile, non è qualche cosa di diverso dall' intelligibile? e se è qualche cosa di diverso, non rimane anche tolto via l' intelligibile? - Alla prima di queste due questioni si risponde di sì, alla seconda si risponde di no, se per « toglier via l' intelligibile », s' intenda non già astrarre ipoteticamente dall' intelligibile o dall' intelligente; ma toglierne via anche la possibilità, astrarre anche da questa: in tal caso il sensibile rimane privato di ciò che gli è essenziale, cioè di « poter essere intelligibile », e così diviene assurdo, egli è dunque nulla (2). Il sensibile adunque nè esiste solo, nè può esister solo; ma è in una relazione essenziale coll' intelligenza, e non si può pensare se non si suppone ch' egli sia in relazione almeno con una intelligenza possibile, e quindi che abbia il suo essere intelligibile. Considerato il sensibile in questa relazione, egli è diverso dall' intelligibile, ossia dall' essenza, come un termine è diverso dal principio , benchè il termine, quello che è essenzialmente termine, non possa stare senza il suo principio. Per la difficoltà d' intendere questa dottrina, si perpetuano i dissidŒ delle scuole filosofiche e sembrano inconciliabili. Aristotele dice: [...OMISSIS...] . L' argomento non ha forza, se non nell' erronea supposizione che qui fa Aristotele, e che poi, come vedremo, smentisce egli stesso, che le essenze che s' intuiscono nelle idee non abbiano altra natura che quella d' essere precisamente « universali o comuni ». Ma Platone risponde che la qualità d' essere universali e comuni è una relazione che consegue alla natura delle essenze quando queste si considerano come il fondamento de' reali; ma che anteriormente a questa relazione, esse esistono come singolari, anzi ciascuna è perfettamente una e causa d' unità all' altre cose; il che Aristotele stesso confessa senz' accorgersi della contraddizione ogni qualvolta le chiama «autoekaston». Nè ripugna punto che de' molti sensibili reali che a ciascuna corrisponde, ognuno di essi abbia per suo fondamento la stessa essenza e la mente veda il detto sensibile in questa essenza, onde si dica giustamente che essa s' estenda a ciascuno di essi, [...OMISSIS...] ; come nè pure non ripugna che tutt' insieme que' sensibili si vedano nella stessa idea, e per questo ella si chiami comune o universale, [...OMISSIS...] . Poichè essendo la idea semplice e fuori di luogo, la mente, spirituale anch' essa, può considerare in essa quello che è in luogo: e ciò con verità, perchè l' esteso ha un modo d' esistere nell' inesteso «( Antropol. 94 7 97; 12., 129) », ed anzi non può esistere altrove. La qualità dell' estensione in fatti è una relazione al principio senziente, a cui non appartiene, come confessa Aristotele, l' esistenza vera della cosa, ma l' apparente e fenomenale; all' incontro l' essere vero delle cose appartiene alla mente, e l' essere vero è uno essenzialmente e semplice (1). Se dunque, come dice lo stesso Aristotele, la sostanza esiste in se stessa, e in ciò di cui è sostanza, [...OMISSIS...] , niente più domanda Platone, secondo cui l' essenza esiste in se stessa non comunicata a' sensibili, ed esiste in questi di cui è sostanza, ossia essenza. Una obbiezione più speciosa, ma non meno vana, fa Aristotele all' idee di Platone. Egli viene a dire così: [...OMISSIS...] . Ma quello stesso che con queste parole si rimprovera a Platone, è quello stesso che lo giustifica. Poichè qual è il rimprovero? Che Platone faccia due sostanze separate. E se questo fosse, certo che dovrebbe dire, quale sia quest' altra essenza separata diversa da quella de' sensibili. Ma se fa un' essenza sola, e dice che questa è in sè, indipendentemente dai sensibili, se non che ella stessa è anche l' essenza de' sensibili, perchè ha l' attitudine d' essere partecipata, cade la censura, e non c' è più bisogno di dire che cosa sia quest' altra sostanza o essenza diversa da quella de' sensibili, che Aristotele rimprovera di continuo a Platone. Ora che questa duplicità di essenza o sostanza sia un puro equivoco d' Aristotele (proveniente forse dalle scuole platoniche, contro cui sembra combattere), si riconosce dallo stesso discorso d' Aristotele. Poichè non è egli stesso che dice, che fanno identiche e non già diverse le essenze de' corruttibili e de' sensibili? [...OMISSIS...] . E non è egli stesso che riprende Platone, perchè faccia le stesse essenze universali e particolari? [...OMISSIS...] . Ora questo è appunto un confessare essere vero il contrario di ciò che con incoerenza si rimprovera a Platone, cioè ch' egli faccia due serie di essenze, l' una sensibile e l' altra intelligibile. Che se ne fa una sola, non c' è più ragione di apporgli a colpa, ch' egli non sappia dire quali sieno coteste essenze separate da' sensibili (4), perchè non ne ha bisogno, non essendo esse altro che le essenze de' sensibili stessi, e la mente umana da questi ascende a contemplarle. Gli stessi sensibili e corruttibili dunque hanno bisogno secondo Platone d' una loro essenza immutabile, senza la quale non sarebbero, perchè l' essere, per confessione d' Aristotele stesso, non è sensibile ma intelligibile, e non mutabile, ma eterno. Se dunque i sensibili sono, se si predica di essi con verità l' esistenza, se per questo si conoscono, e si conoscono quali sono in verità: è dunque da dire che partecipino dell' essenza , e non senza questa, ma solo con questa e per questa, e in questa siano. Ma posto che sono in questa, niente poi vieta che la mente coll' astrazione ne faccia la separazione e li consideri privi di questa: allora restano non pure incogniti, ma assurdi, perchè privi di stabilità e d' unità, e del tutto annullati perchè privi dell' essere. Quando dunque Platone parla della continua mutabilità de' sensibili e della loro fenomenalità, egli parla de' sensibili così astratti e divisi dall' essenza, parla d' un astratto che non ha alcuna reale esistenza, non parla de' sensibili che sono; poichè i sensibili che sono, sono già uniti e inseparabili dalla loro unica essenza. E questo io credo in parte una delle cause, che condussero Aristotele in errore: vide che i sensibili non possono separarsi dall' essenza senza distruggersi: disse dunque, che queste due cose, il sensibile e l' essenza, erano inseparabili. Ma sono due proposizioni totalmente diverse, che il sensibile non si possa separare dall' essenza, e che l' essenza non si possa separare dal sensibile. Questa può stare da sè, perchè è indipendente da quelli: quelli non possono separarsi da questa, perchè da questa dipendono e hanno l' essere: quest' è necessaria, quelli contingenti. E qui s' osservi, che non può applicarsi, come vorrebbe Aristotele, la distinzione tra ciò che è separabile di concetto, [...OMISSIS...] , e ciò che è separabile di sostanza, [...OMISSIS...] , o come dice altrove, di grandezza, [...OMISSIS...] . Poichè che cosa significa separabile di sostanza, o di grandezza, e separabile di concetto? Non altro che separabile realmente, e separabile idealmente. Questa separazione ideale suppone già le idee, e sono appunto queste di cui si disputa: onde la distinzione applicata al caso nostro ci rimanda alla dottrina delle idee, e non vale a chiarirla. Consideriamo l' esempio con cui Aristotele stesso illustra questa distinzione (1). Un corpo si può dividere in più parti: questa è una separazione reale. In una figura rotonda, si può distinguere la superficie convessa dalla concava (2): questa è una separazione ideale, perchè il convesso non si può dividere realmente dal concavo, non essendo che due relazioni ideali. La separazione reale adunque importa che un reale si divida da un altro reale, la separazione ideale importa che un' idea si separi da un' altra idea: la prima separazione divide i reali, la seconda separazione (che è propriamente una distinzione) separa le idee ossia i concetti: l' una di queste due separazioni passa dunque tra reale e reale, l' altra tra idea e idea, benchè queste si possano riferire ad un reale. All' incontro tutt' altra è la questione delle idee separate di Platone; poichè non si cerca più se un reale è separato da un altro, o un' idea da un' altra idea; ma si cerca se l' idea stessa è separata dal reale. Questa non può essere separazione nè di reale da reale, nè d' idea da idea: ma un terzo modo di separazione, cioè separazione di reale e d' idea. Questo modo dunque di separazione non è tale su cui si possa istituire la questione se egli sia uno de' due primi modi, come pur fa Aristotele: anzi convien dire che questo terzo modo è il fondamento degli altri due. Poichè non si separerebbe e distinguerebbe la separazione reale dalla separazione ideale , se non si supponesse prima che fossero cose separate la realità e l' idea. La separazione dunque dell' idea e della realità è il primo e il massimo di tutti i modi di separazione e di distinzione possibili, e la causa degli altri: non è una separazione nè reale, nè ideale, ma è una separazione precedente, che dee avere un nome suo proprio, e che noi appunto chiamiamo categorica . Aristotele stesso, come ancora vedemmo, è ricacciato dalla necessità e dall' evidenza a questa separazione, che si studia in tanti luoghi di eliminare, e che pure è costretto in tanti altri luoghi di riconoscere. Poichè distingue l' essere della cosa, dalla cosa sensibile (3), e in quello, che attribuisce all' intelletto, ripone il vero (1), in questa, che attribuisce al senso, ripone il fenomenale ; sia pure il vero rispetto a noi mescolato col fenomenale, ma l' uno non è certamente l' altro, ed è separato d' essenza dall' altro, e non di nome o di concetto. In un luogo (perchè crediamo in cosa così contrastata non dover risparmiare le citazioni) stabilisce Aristotele che [...OMISSIS...] che è quanto dire delle prime e più universali idee. Distingue poi le scienze in attive, fattive, e speculative, e le speculative in matematica, fisica, e teologia , e chiama quest' ultima anche filosofia prima (3). Dice che in tutte queste scienze è sempre necessario che si conosca l' essenza della cosa di cui si tratta. [...OMISSIS...] . Ma quest' essenza o si definisce separata dalla materia o unita, e di queste essenze non separate dalla materia trattano la fisica e la matematica; dell' essenza poi separata e universale la teologia . [...OMISSIS...] . E qui dopo aver detto che la fisica tratta di cose che non sono senza materia, [...OMISSIS...] , benchè deva anche la fisica cercare e definire la stessa quiddità, [...OMISSIS...] , ma colla materia; e dopo d' aver detto che la matematica specula d' alcune cose in quanto sono immobili e separabili, [...OMISSIS...] , prosegue venendo alla teologia o filosofia prima e dice così: Da questo luogo si vede chiaramente: 1 Che Aristotele ammette una sostanza separata non per semplice concetto, ma di essere proprio, dalle sostanze fisiche e sensibili: questa sostanza è immateriale, immobile, perpetua, causa del movimento degli astri. Infatti un' una e medesima cosa non può essere col moto e senza moto ad un tempo; questi dunque non sono due concetti che si possano distinguere nella stessa cosa: non può essere soggetta alla mutazione, ossia generabile insieme e perpetua, perchè ciò che si genera e si corrompe principia e finisce, onde non si può distinguere la stessa identica cosa in generabile e non generabile. In una parola ogni distinzione di concetto suppone che i concetti, secondo cui si distingue la cosa, sieno bensì diversi, ma non contradditorŒ tra loro: dove dunque la separazione è di concetti contraddittorŒ, trattasi di separazione di esseri e non di concetti. 2 Ora questa cosa separata dagli enti fisici generabili e corruttibili, de' quali tratta la Fisica, è l' oggetto della Teologia detta anche Prima Filosofia, ed è Dio stesso. Ma che cosa è questo Dio d' Aristotele? Primieramente è la causa immediata de' movimenti e de' fenomeni celesti, perchè i Cieli, secondo Aristotele, sono quelli, come si dirà, che ricevono l' immediato impulso dalla prima causa. Ma questo stesso oggetto poi si dice « «genere onorabilissimo », [...OMISSIS...] », e la scienza che lo riguarda, « «universale, comune a tutti i generi », [...OMISSIS...] », e di nuovo l' oggetto di questa si definisce: « « l' ente come ente, e quegli universali che esistono nell' ente in quanto ente » », [...OMISSIS...] . 3 E qui l' oggetto di questa scienza che ha due nomi, cioè Teologia e Filosofia prima, apparisce pur esso duplice, cioè: 1 l' ente come ente, 2 quegli universali che esistono nell' ente come ente. Se dunque l' ente, come ente, è Dio, secondo il contesto, che cosa poi sono quelle cose che in lui inesistono, [...OMISSIS...] ? Certamente le idee o almeno quei primi, [...OMISSIS...] , che si distinguono da' fantasmi, e non si generano nè corrompono, ma unicamente si conoscono toccandoli immediatamente (2), e che sono il fondamento di tutto l' umano sapere: perocchè si parla di cose prive al tutto di materia, di cose immobili e separate, [...OMISSIS...] . E` dunque obbligato Aristotele stesso ad ammettere le prime nozioni separate, non separate dall' ente per sè, da Dio, ma separate dalle cose reali e finite. Come dunque insegna egli in tanti altri luoghi, contro Platone, che sono inseparabili, e che separate sono posteriori? Il pensiero d' Aristotele parmi che riceva luce, e in qualche modo si concili seco medesimo col confronto d' un altro luogo. « « C' è una scienza, dice, che specula l' ente com' ente e quelle cose che in esso inesistono per sè » ». Ecco di novo i due oggetti della Teologia e della Filosofia prima: ecco le cose che inesistono nell' ente per sè, [...OMISSIS...] . Che cosa sono queste cose che inesistono nell' ente per sè? Certo quelle che nel passo precedentemente citato disse esistere come ente, [...OMISSIS...] : i primi intelligibili. Sembra evidente che da questi Aristotele distingua le specie de' sensibili, perchè queste non appartengono all' ente come puramente ente, ma come ente sensibile. [...OMISSIS...] . Le scienze dunque che trattano di qualche genere esclusivo di ente, si dicono in parte , e specolatrici dell' accidente: la Teologia o Filosofia prima non è di quelle che si dicono in parte, perchè trattano dell' ente nella sua interezza come uno e tutto. Di novo dunque qui si chiarisce, che Aristotele distingue due classi d' intelligibili: 1 quelli che appartengono all' ente come puro ente; 2 quelli che appartengono ai parziali generi dell' ente, che noi chiameremo i primi e i secondi intelligibili . Questi secondi poi li considera come accidentali all' ente, onde dice che le scienze di questi specolano l' accidente circa l' ente, [...OMISSIS...] , laddove la prima tratta delle cose che sono nell' ente per sè, [...OMISSIS...] . Ma i principŒ e le supreme cause appartengono, all' ente per sè, o sono accidentali? [...OMISSIS...] . Ammette dunque una natura per sè, di cui siano i principŒ e le cause supreme, [...OMISSIS...] . Ora questa natura è indubitabilmente di quelle che egli chiama prime sostanze, anzi veramente di tutte la prima, [...OMISSIS...] , perchè l' altre tutte, di cui tratta la Fisica e le scienze inferiori, sono parziali, [...OMISSIS...] , e minori di quella prima natura a cui nulla aggiungono, ma da cui rescindono una parte, [...OMISSIS...] : quella natura dunque è più completa d' ogni altra sostanza. Questa natura o sostanza è per sè ente e non per accidente, e di essa sono i principŒ e le cause supreme, che sono immobili, perpetue, e separabili da ogni materia. Questi sono, come dicevamo, i primi intelligibili, i principŒ della ragione e le prime cause formali. Ora Aristotele è pure costretto di convenire che la scienza che tratta dell' ente in questo modo, e di quelle cose, che in esso inesistono, e che, essendo prive di materia, sono per sè intelligibili (1), è « «comune a tutti i generi e a tutte l' altre », [...OMISSIS...] », poichè tutte le cose che esistono essendo in qualche modo enti, possono essere considerate come enti, cioè come aventi quelle proprietà che sono dell' ente come ente. Quindi egli viene di novo a considerare l' universale in un doppio aspetto: 1 come separato, proprio dell' ente per sè, inesistente in questo, senza materia, [...OMISSIS...] ; e 2 come comune a tutti gli enti anche sensibili e materiali. Dal che ne viene che il comune può esistere, come diceva Platone, per sè indipendentemente dalle sostanze sensibili, non precisamente nella sua condizione di comune , ma in quella d' appartenenza d' un primo ente per sè, cioè di Dio. A questo dunque ricadeva Aristotele stesso argomentando da quel principio ontologico, che abbiamo innanzi accennato, cioè che « ciò che è in atto, dee assolutamente precedere ciò che è in potenza ». Il qual principio per la sua stessa confessione non vale per ciascun ente singolo, rispetto al quale può preesistere la potenza all' atto, ma per l' università delle cose, e però basta a soddisfarvi che ci abbia un atto primo anteriore a tutte le entità potenziali, e questo è Dio. Ora non è fin qui identica la dottrina di Platone? Lasciava forse Platone le idee disunite, vaganti a caso, per così dire, senza una singolare e compiuta sostanza in cui fossero? No, certamente; ma la sede delle sue idee era Dio stesso, al che vedemmo riuscire lo stesso Aristotele. L' argomento dunque d' Aristotele che le idee, essendo universali, sono enti in potenza (2), e che perciò deve esserci quella sostanza singolare che non si predichi d' altro, in cui sieno, non ha forza per due ragioni: l' una , che le idee non sono universali se non in quanto possono esser partecipate, ma in sè stesse sono singolari, che anzi ciascuna rimane una e identica anche partecipata da molti, secondo Platone (1); l' altra , che è soddisfatto al bisogno d' un subietto in cui le idee si trovino, nella dottrina di Platone, che le ammette in Dio. Poichè l' argomento d' Aristotele si deve accomodare così, acciocchè abbia valore: « Le idee non dimostrano che un' esistenza obiettiva. Ma un' esistenza puramente obiettiva, cioè priva della subiettiva, non fa che la cosa sia a se stessa, ma ad un' altra cioè alla mente, di cui è obietto. Dunque le idee non sarebbero a se stesse, se non fossero in un subietto, che desse loro anche l' esistenza subiettiva ». Quest' argomento è come traveduto da Aristotele, ma non espresso. Ora Platone soddisfa a questa condizione dando per subietto delle idee Dio stesso. E questo non è già un fuor d' opera nel sistema di Platone, come è sembrato a qualche scrittore moderno, ma è coerentissimo a tutta la sua filosofia, ed un risultato di quella sua dialettica, con cui egli l' ha lavorata, e che egli chiama perciò appunto la scienza massima (2). Alla dialettica appartiene, secondo Platone, di conciliare i contrarŒ, e per mezzo di questa egli non solo non si ferma ai numeri e alle astrazioni geometriche (3), che riguarda come altrettante supposizioni, ma nè pur si ferma alle idee che, come vedemmo, trova bensì eterne, ma limitata ciascuna, e da sè sola insufficiente ad esistere, onde le vuol tutte connesse ed organate in un gran corpo o mondo intelligibile (1). Che anzi dice chiaramente essersi appigliato allo studio delle ragioni, ossia delle idee, per poter sollevarsi da queste più alto, cioè a Dio, che rassomiglia sempre al sole. [...OMISSIS...] . Fra il contemplare adunque le cose nello stesso ente cioè nel sole, e il considerarle ne' sensibili, ripone il considerarle nelle ragioni o idee, che sono da più che non sieno le immagini sensibili degli enti, ma non sono ancora l' ente assoluto in cui risiede come in prima fonte l' assoluta verità delle cose. Laonde giustamente avverte Goffredo Stallbaum non doversi già credere, che Platone faccia di Dio un' idea, o il complesso delle idee (3); il che ben avvertano quelli, a' quali in Italia piace la maniera di parlare, che l' eloquentissimo Vincenzo Gioberti tentò introdurre nella filosofia. Invano dunque Aristotele oppone a Platone, che le idee non possono stare separate dalle cose, poichè essendo universali sono enti in potenza e l' atto deve precedere, poichè anche Platone fa che preceda l' atto (1), riponendole in Dio, a cui ascende appunto per un simile argomento, ricopiato poi da Aristotele, il quale pure ascende dalle idee ad un primo intelligibile separato al tutto dalla materia sensibile. E` del pari falso, come vedemmo, che le idee di Platone costituiscano delle essenze diverse da quelle de' sensibili, perchè questi senza quelle nè sono nè hanno alcuna essenza, ma l' essenza loro è quella stessa che sta e si conosce nelle idee di cui partecipano. E benchè Aristotele sparli di questa partecipazione che i sensibili fanno delle idee, tuttavia egli stesso attesta, che secondo Platone « « i sensibili sono enti per la partecipazione delle specie, come i Pitagorici dicevano esser enti per la imitazione di esse »(2) »: non ci sono dunque due serie di enti, ma una sola, che ha due modi, in sè, e partecipata, rimanendo identica. Si consideri oltracciò che Aristotele ritiene la denominazione che Platone diede alle idee di cause delle cose (3): onde la prima delle sue quattro cause « « l' essenza e la quiddità separata dalla materia, che definisce anche il primo o prossimo perchè, l' ultima ragione della cosa »(4) ». Questa denominazione di causa data alle essenze ideali, implica la distinzione di queste dalle cose reali, singolari e sensibili. Nello stesso tempo Aristotele insegna, che l' essere sta in queste cause delle cose, per modo che la loro definizione e quiddità si predica delle sostanze reali, singolari e sensibili, sicchè ciò che di queste si conosce non è altro, che quelle essenze appunto che nelle idee s' intuiscono (1): c' è dunque identità secondo Aristotele tra l' essere intuito nelle idee universali, e l' essere conosciuto nelle cose reali sensibili. E questo è quello che fa Platone per confessione dello stesso Aristotele, dicendo che quelli che introdussero le specie, fanno le specie quiddità a ciascuna delle altre cose, e alle specie l' uno (2). Avendo dunque riconosciuto così Aristotele, che le essenze insensibili e immateriali non sono le cose, in quanto sensibili, ma loro cause prossime, non poteva farle derivare da queste, e dirle posteriori a queste, e però quando le dice posteriori, conviene intendere posteriori unicamente rispetto alla mente umana. Ma nello stesso tempo riman fermo il suo principio « che la sostanza reale e singolare, come quella che è perfettamente attuata, dee essere anteriore a quelle che, essendo universali, hanno della potenza ». Quando dunque considera quelle cause o principŒ prossimi e formali delle cose in se stesse, non potendo negare che preesistano, nè potendo ammettere che esistano come primi, per la loro universalità e potenzialità, dice che si devono ridurre in qualche natura diversa affatto dalle sensibili e materiali, [...OMISSIS...] . Come poi Platone connetta i sensibili, a cui appartiene il moto, coll' idee o essenze, che sono immobili, è detto nel Sofista e in altri dialoghi. Poichè avendo ivi distinti cinque sommi generi [...OMISSIS...] , cioè l' ente (4), lo stato , il moto , il medesimo e il diverso , dimostra, che l' ente si copula cogli altri quattro generi, e che se non si copulasse con essi, non sarebbero, nè si potrebbero pensare (5): e tuttavia non si confonde con essi. Gli altri quattro generi dunque, a cui tutti i generi inferiori si riducono, sono per la partecipazione dell' ente, e pure nessuno di essi è l' ente. Platone viene a dire così: noi dobbiamo considerare com' è fatta la natura delle cose, quale noi la conosciamo e la esprimiamo nel ragionamento interno ed esterno, e questo fedele rilievo dell' ordine della natura delle cose, qualunque sia, purchè non involga contraddizione, non ci deve turbare, nè dobbiamo, uscendo di senno per la maraviglia di un risultato che non aspettavamo, impugnarlo, o negarlo, o contraffarlo coll' immaginazione nostra e coll' arbitrio. Ora che cosa ci risulta da questa attenta osservazione delle cose tutte da noi conosciute? Ci risultano queste conclusioni: 1 Che niuna cosa può essere se non ha l' atto dell' essere (1); 2 Che questo atto dell' essere comune a tutte le cose, condizione necessaria acciocchè siano, di maniera che rimarrebbero annullate senz' esso, non è nulla di tutto ciò che costituisce le loro differenze, e pur le fa essere in quel modo che sono, l' una dall' altra distinte, e molte. Le qualità dunque delle cose (chiamando qualità non i soli loro accidenti, ma anche quello che costituisce la loro natura o essenza speciale, che è quello che Aristotele dice «peri usian to poion») (2), queste qualità che noi diremmo « essenze speciali », non sono l' essere, perchè questo è comunissimo ed uno, e quelle sono speciali (specie e generi). 3 L' atto dunque dell' essere che è in ciascuna e in tutte si può acconciamente chiamare l' ente, «to on», e tutto il resto che costituisce le cose «me on», il non ente. 4 Che se le essenze speciali che prese da sè sono il non ente, hanno bisogno per esistere dell' ente: dunque consegue che l' ente si copuli col non ente, cioè con tutte le essenze e nature, che non sono lui. Questa copulazione del non ente coll' ente è quello, che Platone chiama partecipazione, «methexin» (3), la quale è triplice, come è triplice la materia platonica, cioè l' ideale (4), la matematica e la sensibile. Laonde dice, che « « il non ente sembra implicato coll' ente in mirabili modi »(5) ». 5 Ma l' ente stesso, il «to on», ha bisogno d' essere unito col non ente per sussistere, perchè s' egli pure non avesse alcun' altra proprietà, rimarrebbe indeterminato e però assurdo, sarebbe e non sarebbe essere, come dimostra nel Parmenide. 6 Ora l' ente, il «to on», puro, è uno; il non7ente, il «to me on», è molti, perchè abbraccia i quattro generi (1) e tutti gli altri e l' altre cose anche reali, gerarchicamente subordinate: l' uno dunque e i molti sono sempre, nella verità del fatto, copulati insieme, onde la formola «hen kai polla», che è la tessera del sistema platonico, distinto ugualmente da quello di Parmenide, che solo ammetteva il «to hen», e da quello d' Eraclito, e de' fisici che solo ammettevano «ta polla». Qui converrebbe inserire un' altra dottrina di Platone, per la quale questo filosofo dal concetto dell' essere, fornendolo di tutto ciò di cui abbisogna affinchè sussista come essere compiuto, perviene al concetto di Dio, ma di questo in appresso. Continuando dunque nell' esposizione dei cinque supremi generi, egli mostra che nè lo stato, nè il moto, nè il medesimo, nè il diverso non sarebbero se non partecipassero dell' essere , e che perciò sono per la partecipazione di questo: ma che tuttavia non sono questo; copulandosi bensì, ma non confondendosi mai le nature. Di qui vengono le antinomie , e di qui pure si sciolgono, cioè si dimostra che esse non sono punto vere contraddizioni, ma solo apparenti. Poichè accade che una cosa si possa dire in due modi: per sè, e per quello di cui partecipa. Quindi una prima antinomia nasce da questo che si dica la cosa essere la medesima e non essere la medesima. Prendiamo a ragion d' esempio il moto. Si dice tanto che « il moto è », quanto che « il moto non è »: con verità l' un e l' altro. Poichè è vero che il moto è, intendendosi che è per partecipazione dell' essere; ed è vero che il moto non è, intendendosi per sè solo, come moto, astraendo dalla partecipazione dell' essere. Allo stesso modo dicesi che « l' essere si move », e che « l' essere non si move »: vero di nuovo l' un e l' altro, ma sotto un diverso aspetto, perchè l' essere si move per la partecipazione del moto, ma non si move per sè come puro essere. Dunque, dice Platone, non c' è contraddizione a predicare l' ente del non ente, e il non ente dell' ente, come ci rimproverano gli avversari, quasi cadessimo in contraddizione. [...OMISSIS...] . Viene dunque a dire che tutte le nature che veramente esistono, sono mirabilmente organate d' ente, che è il fondo di tutte, col quale tutte si copulano, acciocchè sieno (onde lo chiama il massimo, il principale, il primo) (2), e di non ente, cioè d' altre qualità, che da sè sole prese differiscono dalla natura dell' ente, ma per partecipazione di questa sono. Ed osserva, come dicevamo, che ogni discorso interno ed esterno dell' uomo attesta questo sintesismo della natura. [...OMISSIS...] . Stabilita dunque questa comunione e copulazione delle diverse cose, che unite senza confondersi organano gli enti esistenti, vedesi come Platone ne concepiva la loro costituzione di cose opposte e non punto contradditorie. Ed è da considerare attentamente che quando qui parla di generi e di specie, intende sotto queste parole parlare delle essenze che ne' generi e nelle specie si contemplano dalla mente, cioè di cosa che è anteriore alle forme categoriche. Non parla dunque di esse in quanto sono ideali, o in quanto sono reali, o morali, ma puramente in quanto sono, e perciò in quanto il loro essere è poi suscettivo d' una di quelle tre forme. Onde la teoria universale, che dà qui Platone circa il mutuo abbracciarsi e copularsi delle essenze, vale egualmente sia che si parli d' una copulazione che si consideri nell' ordine ideale o nell' ordine reale, ovvero di una copulazione che si consideri tra l' ordine ideale e il reale. E in quanto a quest' ultima, dove sta il nodo della difficoltà, e a cui si rivolgono le obbiezioni d' Aristotele, è prima di tutto da osservare che Platone non dice mica, che tutto ciò che appartiene all' ordine reale sia apparente, e non ci sia di vero che l' ordine ideale, come falsamente gli viene imputato, a cagione che talora dà alle essenze il nome d' idee, perchè quelle nelle idee solo si vedono e si contemplano dalla mente; ma tra i reali distingue i sensibili e corporei dagl' incorporei e spirituali (dottrina ricopiata poi da Aristotele) (2), e a quelli lascia un essere fenomenale, a questi attribuisce una vera e non fenomenale esistenza. Posto dunque che le nature esistenti sieno così organate di elementi non contraddittorŒ, ma diversi, non c' è alcuna ripugnanza che gli enti stessi fenomenali della natura, cioè i sensibili, sieno copulati nel concetto della nostra mente, secondo il quale parliamo di essi, d' una essenza immobile ed eterna, e d' un elemento scorrevole ed apparente come fenomeno alla nostra facoltà di sentire, giacchè queste due cose, quantunque copulate insieme e così costituenti una natura, non si confondono tra loro, nè l' una non diventa l' altra, ma sintetizzano, avendo il sensibile bisogno dell' insensibile essenza per essere concepito e per essere. Così se si separa il sensibile dalla sua essenza, diviene un incognito e anche un assurdo; se lo si lascia unito, s' intende, ed è come s' intende: per sè solo adunque non ha la essenza, ma partecipata questa, è anch' egli per questa partecipazione: non già che egli sia avanti di questa partecipazione, ma l' esser suo è il parteciparla, [...OMISSIS...] , per usare una frase d' Aristotele. Platone dunque non deduce, e non intende spiegare questa partecipazione, ma v' invita a osservarla coll' attenzione della mente nel fatto della natura delle cose, rispetto alle quali la chiama più spesso comunione , e nel fatto degli oggetti del pensiero, rispetto al quale la chiama presenza (2), parola acconcissima e forse unica, perchè le essenze sono là presenti al pensiero senza punto confondersi con esso e nè pur co' sensibili, benchè con questi abbiano una cotal comunione. Non è dunque vero nè che Platone faccia due ordini di essenze, le eterne e incorruttibili, e le sensibili; nè che egli ammetta gli universali per sè esistenti, l' uno separato dall' altro, e separati tutti da ogni singolare sussistente, che sono le imputazioni che gli fa Aristotele con tant' evidente ingiustizia, che farebbero credere non poter esser d' uomo che ascoltò per vent' anni le lezioni di Platone. Platone ammette un solo ordine d' essenze e queste incorruttibili, le quali sono in due modi, per sè, e partecipate. Ma nè nell' uno nè nell' altro de' due modi esistono o divisi fra loro o divise dalla realità. In quanto sono partecipate sono le stesse che esistono per sè, e i sensibili sono in esse, frase ripetuta da Aristotele e appropriatasi quando disse: [...OMISSIS...] in quanto sono per sè (il che altro non significa se non che per essere non hanno bisogno de' sensibili, e che possono esser concepite separate da questi, come ammette pure Aristotele) esistono congiunte e tutte organate in Dio. Nè vale il dire, che l' uomo se le forma colla percezione de' sensibili, di modo che Aristotele imputa a Platone di formare le sue idee col prendere i sensibili e aggiunger loro il vocabolo «auto» (2), questo non provando menomamente, che le essenze sieno lo stesso che i sensibili, o da questi indivisibili, ma solo che la mente vede questi colle essenze copulati, in modo che ogni sensibile ha per fondamento suo la essenza colla quale è copulato; e il moto stesso, e il sensibile , ha un' essenza immobile ed insensibile per la quale e nella quale è, e si conosce (3). Poichè l' essenza del moto non è mobile, e l' essenza del corruttibile non è corruttibile: e tutte queste essenze sono per l' essenza prima (che si chiama semplicemente essenza), cioè per l' essere, che sotto di sè le contiene, senza confondersi punto con questi suoi termini, come noi li chiamiamo. Le idee in Platone dunque non rimangono divise fra loro e ciascuna come un ente da sè sussistente, senza appoggio d' altra cosa reale, ma, sia in Dio, sia nell' uomo, si trovano in un subietto sostanziale e reale; al quale non appartiene ciò che Platone dice dei sensibili e corruttibili, che sieno in perpetuo moto, senza aver nulla di consistente: quasichè dal negare che fa Platone la stabilità e verità di questi si deva dire, con Aristotele, che Platone in universale parlando ponga prime le idee, e posteriori i reali. Anzi i reali sono in Platone il sostegno delle idee, sono quelli a cui esse appartengono, e ne' quali si copulano e congiungono tra loro e diventano operative e quasi mobili, non perchè esse sieno tali, ma perchè i subietti reali in cui sono operano secondo esse, come secondo altrettante norme e misure e regole e forme. Ma di nuovo, questi reali veramente sussistenti non sono i sensibili, ma gli esseri intelligenti ed incorporei. Laonde quando distingue il genere del moto e dello stato da quello dell' essere, Platone dice, che si fa questa distinzione nell' anima , certamente intellettiva, [...OMISSIS...] e in generale descrive le essenze come quelle che colla sola intelligenza e sapienza si apprendono, [...OMISSIS...] (1), che anzi egli impugna risolutamente i Megarici (poichè pare indubitato, che a quelli alluda nel Sofista), che dividevano le idee dalle cose reali per modo che non ponevano tra le une e le altre una vera comunicazione, e dicevano, che « « la generazione (i sensibili) è partecipe della potenza d' agire e di patire, ma all' essenza non convenisse alcuna potenza di simil fatta » ». Onde l' ospite eleate nel Sofista domanda: « « se concedano che l' anima conosca, e l' essenza sia conosciuta » ». A cui Teeteto: « « L' asseriscono certo » ». Ottenuta questa risposta, dimostra l' ospite, che se conoscere è un agire, come non si può negare, dunque essere conosciuto conviene che sia patire, e però « « che l' essenza in questo modo, conoscendosi, patisca dalla cognizione, e in quanto patisce, anche si mova, il che circa una cosa stabile abbiam detto non potersi fare » » (2). La conseguenza che Platone vuol qui derivare dal conoscersi le essenze, non è certamente del tutto esatta, poichè veramente le essenze nulla patiscono dall' esser conosciute, benchè la mente agisca in conoscerle «( Rinnovam. 497 e segg.) ». Il fatto si è che l' operare dell' anima conoscente non produce altro effetto che nell' anima stessa, la quale si può dire in qualche modo che sia attiva e passiva ad un tempo, nel qual senso si potrebbe distinguere un intendimento attivo ed uno passivo, ma non in questo senso glie li dà Aristotele. Non c' è bisogno di cercare il termine passivo della sua azione fuori dell' anima. Oltre questo agire poi e patire dell' anima, c' è anche, rispetto all' oggetto conoscibile, il predicamento del ricevere «( Logic. 431) » e dopo essersi ricevuto c' è il predicamento dell' avere «( Ivi e segg.) », i quali non importano nessuna passione nell' oggetto. I Megarici dunque esageravano o mal applicavano una verità luminosa, e così cadevano nell' errore, cioè la verità dell' « impassibilità delle essenze ». Platone più forse per dimostrare quanto quella questione fosse implicata, e più per confonderli che per convincerli e dare la vera soluzione delle difficoltà, li tirava ad accordare, che l' essere conosciuto fosse patire, e quindi che patisse l' essenza conosciuta [...OMISSIS...] , e di conseguente che anche si movesse [...OMISSIS...] . Dal che deduceva non essere assurda la comunicazione delle essenze. Ma sebbene quest' ultima, cioè la comunicazione o comunione delle essenze, fosse indubitatamente opinione di Platone, tuttavia credo, che il raziocinio che qui trae dal patire non fosse che un argomento ad hominem , che poteva valere bensì co' Megarici e co' Sofisti, ma che Platone non facesse veramente patire le essenze (1). Poichè egli non insegna mai altrove che le idee o le essenze eterne patiscano o si movano, ma il contrario; e le parole che usa di comunione ( «koinonia»), di presenza ( «parusia»), e simili, non inchiudono propriamente il patire , ma solo il modo reciproco di essere , e in questo senso, secondo noi, cioè come esprimenti in qual modo sieno reciprocamente e co' reali, vanno intese l' altre espressioni, «metalambanein allelon, epikoinonein allelois, metechein», e simili, colle quali significa in più modi lo stesso concetto. La vera discrepanza dunque tra Platone ed Aristotele non consiste in questo che Aristotele faccia anteriori i reali e posteriori le idee, e Platone faccia il contrario; e Aristotele dissimula il vero e va cavillando tanto spesso, quanto spesso di questo calunnia il suo maestro. Se i successori e discepoli di Platone in questo peccassero per non aver abbracciata colla mente la dottrina del maestro in tutta la sua integrità, non mi è ben chiaro, nè forse sarà mai del tutto. Ma è chiarissimo, e la confessione stessa d' Aristotele n' è la riprova, che Platone antepone assolutamente l' atto alla potenza, e i singolari e i reali alle idee che sono il termine della loro intelligenza, ma non punto i reali corporei o i sensibili, che egli fa posteriori. E tuttavia rimane ancora una vera discrepanza tra Aristotele e Platone, e un dissidio profondo. In che dunque questo consiste? - Qui siamo obbligati di uscire, per rinvenirlo, dalla sfera della Ideologia, e questo prenderemo a fare nel libro seguente. Una diversa ideologia conduce di necessità le menti dei filosofi a una diversa Teologia e a una diversa Cosmologia, giacchè non si può speculare sui principŒ di queste ultime scienze se non traendone i primi fili da quella che dà il loro naturale iniziamento a tutte le scienze filosofiche «( Logic. 1 e segg.) ». Il che si avvera ogni qualvolta la mente ne' suoi ragionari va pel cammino naturale, e non s' accinge al filosofare colla mente imbevuta di preconcette e volgari opinioni, e queste false. Quando all' incontro, invece di cominciare dal principio della scienza, che è il lume ideale, sbalzando in mezzo ad essa quasi a caso, e più secondo le secrete propensioni del cuore umano e l' educazione ricevuta, che per via d' un limpido ragionare, l' uomo si è venuto formando cotali anticipate opinioni intorno alla divinità e alla natura del mondo: egli è condotto da questa sua Teologia e Cosmologia precoce a comporsi un' Ideologia in loro servigio. Perocchè ad ogni modo questa e quelle devono consonare e non possono rimanere nella mente umana a lungo discorsi: sia che questa preceda e somministri l' ordito di quelle, sia che precedano queste e a lor servigio co' proprŒ fili ordiscano e tessano quella. E questa diversità di metodo in procedere speculando, parmi aver data origine, chi ben considera, alla differenza delle due grandi filosofie dell' antichità, l' Aristotelica e la Platonica. Perocchè Platone incomincia dalle idee e da queste trae i primi dati ed elementi, su' quali viene argomentando e congetturando con somma sagacità ed elevatezza, quello che si deve reputare vero o verosimile intorno alla prima Causa e all' Universo; laddove Aristotele viene già provveduto d' opinioni intorno alla natura delle cose mondiali, dalle quali ascende al primo Motore; e così, fornito d' una qualunque sia dottrina cosmologica e teologica, chiama le idee a riscontro di queste, e quanto più può s' affatica per ridurle a tale condizione e natura, che a quelle sue opinioni non contraddicano, anzi ad esse umilmente servendo, via più le confermino. Da questo lato dunque considerata la questione, non dubito punto asserire che la ragione del dissidio tra i due filosofi giace nell' opinione diversa intorno l' origine del Mondo, facendolo Platone creato da Dio, e Aristotele volendolo eterno. Esponiamo dunque i due sistemi intorno a questo punto colle loro conseguenze. Platone, come abbiamo detto prima, non pone la materia eterna, ma la fa veniente da Dio, da cui pure fa venire le idee (1). Nel decimo libro della « Politeia » introduce il legnaiuolo che fa letti e mense, e osserva che egli li fa secondo una specie , e che in questa è l' essenza e la natura propria del letto o della mensa che fa, ma non fa la stessa specie e però non fa « il letto »ma « un letto ». Quello che è veramente il letto, cioè l' essenza stessa del letto, chi la fa dunque? E risponde: indubitatamente Dio (2); dimostra anche di più, che il letto che serve d' esemplare al fabbro per farne molti, non può essere che uno, col principio degl' indiscernibili (1), richiamato in vita da Leibnizio. Come poi il legnaiuolo imita e ricopia il letto fatto da Dio (l' essenza del letto), così il pittore imita e ricopia il letto fatto dal legnaiuolo: onde distingue tre letti: quello fatto da Dio, l' idea, quello del legnaiuolo, e quello del pittore (2). Se adunque Platone fa che le idee stesse, in cui ripone la natura delle cose, sieno generate o prodotte da Dio, molto più la materia. Poichè questa senza la forma, e però indefinita, non può sussistere e non è che una pura astrazione della mente (3), cosa ripetuta da Aristotele (4), giacchè, secondo Platone, non può sussistere niente d' indefinito, onde le idee stesse, sebben ciascuna inconfusibile coll' altre, non esistono se non copulate ed organate insieme, il che mostrò a lungo nel Parmenide per riguardo alla idea dell' uno , che svanisce ove si separi da tutte le altre, e di più ivi dimostra che l' uno in quanto è partecipato da ciascuna parte d' un tutto è contenuto dal tutto, ma in quanto è partecipato dal tutto insieme, pure non è solo in sè stesso, ma in altro, [...OMISSIS...] (5). Il che è detto in un modo dialettico e formale, così che si può applicare il principio a più casi. Se dunque si prende per tutto il mondo intero delle idee, certamente allude alla loro contenenza in Dio, come abbiamo detto altrove (1). E veramente nel Timeo egli pone anteriori alla formazione del cielo tre elementi, l' idea, la materia corporea non inerte ma dotata di forze, onde la chiama generazione [...OMISSIS...] , e lo spazio, nell' immensità del quale quella materia da' suoi proprŒ pesi disquilibrata era portata a caso e qua e là sbalzata (1), i quali tre elementi egli fa comparire come contemporanei, e aventi una stessa origine, cioè quella che assegna al più eccellente di questi tre elementi nel X della « Politeia », Iddio. E il dice anche a questo luogo del Timeo indirettamente e con certa riverenza, riguardando come un religioso mistero l' ultima origine delle cose. [...OMISSIS...] . Il che non direbbe se non considerasse Iddio come l' autore del tutto, e accennando all' amico di Dio, pare che alluda alle tradizioni conservate dai sacerdoti, le quali tutto facevano venire da Dio, arcano superiore all' intelligenza, e alla fede comune degli uomini. E qui s' osservi tutto l' andamento del discorso di Platone, che mi pare non bene distinto dai commentatori. Egli prima parla di tre principŒ elementari delle cose: 1 la specie; 2 la materia corporea; 3 il corpo, che è l' unione dei due primi. Questo lo chiama: « « ciò che si genera », [...OMISSIS...] ». La materia corporea: « »ciò in cui si genera » [...OMISSIS...] ». La specie: « « ciò da cui nasce assimilato quello che si genera », [...OMISSIS...] ». E paragona alla madre la materia corporea che riceve; al padre la specie da cui riceve; e alla prole la natura che ne risulta media ossia mediatrice tra esse, [...OMISSIS...] (3). Dice d' assumere questi tre soli principŒ per ora (1), dando così ad intendere che n' aggiungerà loro poscia qualche altro. Dopo aver dunque distinti questi tre principŒ elementari li riassume in due, l' uno immutabile e immobile, che sono le specie, l' altro mutabile e mobile che è la materia corporea e i corpi, che col ricevere successivamente varie forme, il che è generarsi, di essa si vanno formando. Ora l' uno e l' altro di questi due generi elementari, li dice prodotti e generati, cioè tanto le specie quanto la materia corporea, ma prodotti distinti, e in qualche modo separati, perchè dissimili, [...OMISSIS...] . Riassunti così que' tre principŒ elementari in questi due, cioè nella specie , e nella generazione (che comprende la materia e i corpi mutabili), vi aggiunge ora il terzo (che viene ad essere il quarto, se la generazione si sparte in due), cioè lo spazio , onde le entità matematiche che, secondo lui, erano immobili come le specie, ma moltiplici come i corpi (3). Con ragione dunque Goffredo Stallbaum [...OMISSIS...] sostiene, che questa appunto della Creazione fu la sentenza professata da Platone (5). E nel vero se le idee del mondo che pure contengono l' essere delle cose, sono « veri enti », o enti semplicemente (6), pure hanno per autore Iddio, come potrà ammettersi per increata quella natura, che non ha verità in se stessa, ma è mutabile apparenza, e che tende a imitare la specie, sempre da un altro, cioè dalla specie stessa, sorretta e portata, [...OMISSIS...] , e che perciò ha un' esistenza reale di necessità relativa alla specie? (7). Poichè, come dicemmo, Platone parla della materia separata solo per astrazione dalla forma; ma come esistente, egli la fa vestita di qualche forma; però cangiabile, e in questa facoltà di rimutare la forma, pone la natura della materia finita, cioè in quanto giace sotto la forma, onde dice, che « « tutte queste cose (il fuoco, l' aria e gli altri elementi) si danno reciprocamente, come appare, la generazione », «ten genesin», » che il Ficino traduce « vires fomentaque generationis ». Quest' è la materia esistente sotto la forma, ma non divisa della forma. Quando si concepisce poi divisa per astrazione dice, che « « sembra che si veda onniforme », [...OMISSIS...] », perchè non si vede veramente senza forme, essendo impossibile; onde l' immaginazione le aggiunge quasi di furto tutte le forme, di cui l' avea spogliata l' astrazione, e così si concepisce. La materia indefinita non essendo dunque, che solo concepita dalla mente, è ideale, e così può dirsi eterna e immobile, essendo le idee nate dal pensiero divino ab aeterno (1). Ma la materia definita è reale, e come quella si chiama immobile al par delle idee, così questa si move, chiamandola Platone « « simulacro che soggiace a ogni natura, agitata e figurata dalle (specie) ingredienti »(2) ». Avendo dunque Platone concepita la materia corporea indefinita come un' idea o essenza generica, ne parlò come fosse una (benchè virtualmente avesse il numero ne' suoi visceri), il che diede occasione ad Aristotele di redarguirlo. Poichè non ammettendo Aristotele idee separate dalle cose corporee (benchè poi ammettesse egli stesso le prime idee, [...OMISSIS...] , nella mente separate dai corporei e dai fantasmi), considerò la materia come definita, e quindi sostenne che tante erano le materie quanti i corpi, cosa che Platone non gli avrebbe negato; mostrandogli in quella vece che quelle materie, non differendo nè di specie, nè di genere, non potevano avere che natura di parti d' una sola materia specifica. Il nome dunque, che Platone dà a Dio di «phyturgos», piantatore, o autore della natura, ha virtù d' esprimere la creazione, così appunto spiegandolo Platone, come indicante che Iddio « « fa in natura e questo » » (il letto per essenza) « « e tutte l' altre cose » » dove «alla panta» abbraccia tutta la materia informata (1). Laonde prima avea detto chiaramente, che « « dal Bene (cioè da Dio) a quelle cose che si conoscono, non solo avviene il poter essere conosciute, ma di più da quello prendono l' essere e l' essenza, quand' egli non è l' essenza, ma è più su dell' essenza, superando questa in dignità e potenza » » (2). Dove chiaramente è distinta la conoscibilità delle cose, «to gignoskesthai» dall' essere, «to einai», e dall' essenza, «ten usian», delle cose, e tutti e tre questi elementi si dicono provenire da Dio che è il bene stesso, a tutte le cose superiore. Ora da questi tre elementi nulla si può escludere, nè pure certamente la materia, che ad ogni natura soggiace, foggiandosi a modo di simulacro, [...OMISSIS...] . Poichè se ogni natura risulta da que' tre elementi: 1 la conoscibilità; 2 l' essenza; 3 l' essere; e se ad ogni natura soggiace la materia, e la sua propria condizione è questa di soggiacere, per fermo essa da que' tre elementi non si può in alcun modo dividere. Convien dunque dire che, secondo Platone, Iddio creò la materia corporea coll' idea e nell' idea, e che, se ne parlò prima come d' un elemento da sè indefinito, ciò non facesse che per un processo dialettico, pel quale distinguendosi le cose per considerarle meglio nelle loro distinzioni, non si lasciano però divise, ma poi si riuniscono. Ed è da considerare i vestigi che sono nell' animo umano d' una doppia potenza, l' una che si riferisce alle idee, l' altra alla materia; dalla quale doppia potenza, che in noi stessi osserviamo, possiamo salire per analogia a Dio, e vedere come l' atto suo può abbracciare le idee e la corporea materia, e in generale ogni realità. Poichè l' uomo ha: 1 il potere d' intuire le idee, poniamo l' idea della casa, anzi la specie piena (facoltà d' intuire le idee); 2 il potere altresì di porla e affermarla sussistente, mediante una certa virtù imaginativa della mente (facoltà di pensare individui reali possibili; la quale s' inchiude nella facoltà del verbo) «( Ideol. 531 7 554) ». Ora questo secondo potere è il vestigio appunto di quel potere che ha Dio di creare. Poichè come l' uomo imaginando e affermando si pone avanti un simulacro d' individuo reale possibile, così Iddio con un atto analogo lo fa essere (1). Ma come l' uomo non potrebbe pensare un individuo sussistente possibile, se non ne intuisse la specie, così Iddio creando, pone colla materia la specie nella materia che crea, o per meglio dire figura la materia sul tipo della specie e ne fa un simulacro di questa. L' atto dunque col quale Iddio crea la natura sussistente, le cui parti poscia coordina e armonicamente dispone, non è già una semplice intuizione, ma, quasi direi, un atto efficace d' immaginazione ed affermazione divina: non è come nell' uomo l' intuizione delle specie, un ricevere, ma un fare collo stesso esser suo. Ora a quest' altezza non giunge Aristotele. Quantunque egli sia costretto dalla forza del suo ingegno a riconoscere, che l' essere delle cose non è punto sensibile, tuttavia non sa punto slegarsi da' sensi, che sono pania alle sue ali, onde contraddizioni per tutto e, diviso in due, ora sembra innalzarsi alle cose più spirituali e immateriali, ora nella materia ricade. E` sempre il sensibile da cui parte, e la prima ragione su cui fonda il raziocinio è il testimonio de' sensi anche dove questi, secondo la sua stessa dottrina dialettica, non possono avere alcuna autorità. Così a impugnare la Creazione del Mondo ricorrendo al testimonio della vista, induce che il movimento circolare de' cieli sia naturale in essi ed eterno, perchè si vedono mover sempre (2). L' argomento è manifestamente indegno di un tanto filosofo. Con simili ragioni toglie a provare contro Platone (3), che il moto e il tempo non ha mai cominciato (4) e sembra che non sappia concepire nè pure la stessa divinità fuori di luogo (5) e del tutto inestesa, non perchè non s' accorga che la mente non può ammettere estensione di sorta, chè questo bene il vede (1), ma perchè pare che la mente stessa deva risiedere in qualche corpo e non possa pura e sola sussistere. Onde recando i diversi significati della parola «usia» pone per primo che significhi « « i corpi semplici, come la terra, il fuoco, ecc.. »(2) ». Indi molte dottrine rimangono in Aristotele sospese quasi in aria, senza alcuna ragion sufficiente, come ad esempio, quella dell' unità del Mondo argomentata dall' esser egli composto di tutta quanta è la materia (1). Nella dottrina di Platone, ricevendo la materia da Dio l' esistenza, si trova la ragion sufficiente, per la quale sia tanta e non più: chè la volontà del Creatore le assegnò una misura proporzionata a quell' ideale organico del mondo da lui concepito secondo la perfezione che dovea in sè realizzare; ma ad una materia esistente per sè ed eterna chi può assegnare una misura? Onde non rimane più un perchè essa deva essere piuttosto tanta che tanta, o perchè al bisogno di questo mondo non ne sopravanzi una porzione, sia che altri mondi se ne compongano, o sia che disordinata si rimuova in un caos a guisa di materia nebulosa. Ma torniamo a Platone. L' idea suprema pel gran filosofo è « l' idea del bene ». Non si creda che quest' idea sia per Platone interamente diversa da quella dell' ente, che è da lui chiamato « « il massimo e precipuo e primo »(2) ». Ma poichè l' ente si può prendere secondo un concetto indeterminato e formale, secondo il quale tutti gli altri concetti a lui si copulano (3), non essendo egli che l' essere possibile, o potenziale, come Platone stesso lo definisce (4), e si può prendere nel suo atto da ogni parte compiuto, perciò Platone a quest' ultimo riserva il nome di bene (5). Ma il bene stesso, attesa la limitazione della nostra mente e i diversi modi dell' umano pensare, duplica il suo concetto. E però Platone distingue il Bene [...OMISSIS...] dal Figlio del Bene [...OMISSIS...] . Questo Figlio del Bene lo chiama « «similissimo al Bene » [...OMISSIS...] , ed è il lume dell' umana intelligenza, il lume di Dio segnato nell' anima umana, il qual lume perciò Platone lo distingue sapientemente da Dio stesso, e nol confonde punto con lui; come faceva, e in vano l' attribuiva a Platone, un recente scrittore di gran nome in Italia, che a noi s' oppose da principio con grand' impeto per quest' appunto, ma finì poi coll' esserci non concorde, ma benevolo (1). Platone dunque paragona il Bene, cioè Dio, al Sole, il lume della ragione umana al lume appunto del Sole, che s' imprime nell' occhio e si sparge ad un tempo su tutti i corpi, che, riflettendolo (2) all' occhio, si rendono per esso visibili. [...OMISSIS...] Il lume dunque, che viene da Dio al mondo, è ciò che Platone chiama il Figliuolo del Bene, cioè di Dio, e dice, che è generato analogo a Dio stesso [...OMISSIS...] , cioè simile per via di proporzione, e spiega questa proporzione così. Il Bene è in luogo intelligibile [...OMISSIS...] , il Figliuolo del Bene è in luogo visibile [...OMISSIS...] : quello nel luogo intelligibile sta alla mente e alle cose intelligibili [...OMISSIS...] , come questo nel visibile sta al vedere e alle cose visibili [...OMISSIS...] , il che viene a dire, che come dal Bene, cioè da Dio, viene il lume alla mente, e quindi la virtù intellettiva, e vengono le idee che sono le cose intelligibili; così da questo lume ricevuto dalla mente, accompagnato dalle idee, viene al senso (1) e alle cose sensibili l' essere conosciute e conoscibili. Le cose dunque che cadono sotto i sensi corporei ricevono la loro conoscibilità dal lume della ragione e dalle idee, ossia dall' essere indeterminato presente alla mente e avente in sè tutte le altre idee: ma questo lume e queste idee vengono, secondo Platone, da Dio stesso, salvo che egli non conobbe, come sembra, in che modo tutte le idee si riducano a quella prima, che è il lume, e in essa s' acchiudano virtualmente, e da essa escano all' occasione delle sensazioni, e altre operazioni dello spirito «( Ideol. 229, 230) ». Conviene di più che osserviamo come Platone pei sensibili che rimangono illuminati dal Figlio del Bene, cioè dal lume della mente, non intende solamente i corpi, ma tutto ciò che è sensibile, come le azioni, alle quali pure attribuisce la sua essenza e natura immobile, e la partecipazione d' altre essenze, come della giustizia e della bellezza (2). Onde definendo ciò che intende per intelligibile e per visibile così s' esprime: [...OMISSIS...] . Le azioni singole adunque appartengono alle cose visibili; ma l' idea del giusto e del bello alle intelligibili. Ma quest' idee, che costituiscono il Figlio del Bene, sono quelle che rendono intelligibili le singole azioni visibili, e che le fanno conoscere come buone e belle. Quando dunque Platone nomina « « molti belli e molti buoni » » [...OMISSIS...] , devonsi intendere quest' espressioni in senso diviso «( Logic. 373) », cioè per azioni, che poi dalla mente, che aggiunge loro l' idea del buono e del bello, ricevono la denominazione di buone e di belle (4); e quest' è la funzione, che il Figlio del Bene, cioè il lume della mente, esercita rispetto alle cose visibili in un modo proporzionale a quello che il Bene esercita colla mente, alla quale dà il lume e le idee, ossia gl' intelligibili puri. C' è dunque nell' uomo la virtù intellettiva, intendendosi anche questo in senso diviso, cioè come un principio subiettivo capace d' acquistare la detta virtù (1); ci sono le cose reali atte a divenire intelligibili: c' è il Bene, che come Sole manda il suo lume (suo Figliuolo) nelle menti, e con esso gl' intelligibili , cioè le idee pure (come «auto kalon auto agathon» ecc..): questo Figliuolo (lume7idee) produce ad un tempo due effetti: 1 dà al principio subiettivo la virtù e l' atto d' intendere; 2 e dà ai reali la facoltà d' essere intesi, li rende attualmente intelligibili. Con acconcissima similitudine adunque si può paragonare questo lume naturale delle menti ad un giogo che aggioga la mente e le cose reali, cose senza di lui disunite, e aggiogandole le fa essere. Onde Platone usando della similitudine del Sole materiale e delle cose visibili agli occhi, dice appunto: [...OMISSIS...] . E la parola idea che qui ad arte usa Platone, parlando del lume sensibile, si riferisce all' intelligibile, onde, senza dubbio il lume delle menti per Platone è una prima idea, quella che egli chiama massima, e precipua, e prima di tutte, l' idea dell' ente. Ma è necessario che noi vediamo come, secondo la mente di Platone, tutte le cose si derivano dal Bene. Il Bene dunque è l' essere assoluto, la cui più alta denominazione è quella di Bene (3). Questo colla sua propria energia produce in sè le idee del Mondo: in queste idee si contiene l' essere del Mondo. Tra queste idee ci sono quelle dell' anime finite. Il Bene che colla facoltà intuitiva vede l' anima nel suo essere ideale, ad un tempo, colla facoltà che chiameremo, benchè impropriamente, dell' immaginazione e affermazione divina, la realizza, la pone a se stessa, fa che l' essere dell' anima, che è nell' idea, acquisti una relazione a sè stesso, sia a sè stesso (4). Ora l' anima è vita, sentimento. Questo sentimento è suscettivo come di due impronte, l' una è quella del Bene stesso, e quest' impronta del Bene è il lume intellettivo, la cognizione e la verità, che da Platone si dicono non essere il Bene, ma suo Figlio, e boniforme , [...OMISSIS...] (1), ossia una specie impressa del Bene. L' altra impronta è quella del sensibile corporeo; perocchè i corpi sensibili sono, secondo Platone, de' fenomeni, che appariscono al sentimento dell' anima, e che imitano e si conformano alle idee, che trovano nell' anima stessa, onde come l' anima riceve le idee da Dio, e così s' informa ella stessa, così essa dà le idee al proprio sentimento inferiore, quasi in esso improntandole. E come il Bene improntato nell' anima non è il Bene, ma una sua partecipazione e similitudine, così l' impressione delle idee nel sentimento inferiore dell' anima non sono le idee stesse, ma un cotal simulacro delle idee, ed è perciò che i corpi formati dice che sono «homonyma» (2) alle idee, cioè riceventi lo stesso nome, ma differenti di natura, di che Aristotele lo riprende (3), come se con ciò facesse dell' idea e della cosa due sostanze. Così dunque nel sistema di Platone tutto ciò che è nel mondo viene da Dio e tutto è connesso. Che se in descrivendo la produzione delle cose mondiali le divide, e prima descrive la formazione dell' anima, poi quella dei corpi, questo fa per ragione di metodo e per la priorità logica, ovvero di eccellenza, non perchè ammetta veramente una separazione tra i mondiali principŒ. Le quali cose conviene che noi confortiamo di qualche autorità. E prima è necessario dire una parola sulla questione più sopra toccata e tant' agitata tra' più recenti eruditi della Germania « Se il Dio di Platone sia il Bene o l' Idea del Bene ». La quale noi crediamo potersi agevolmente comporre, purchè si chiarisca il senso della idea platonica. Due proprietà ha quest' idea: 1 che è l' essere delle cose; 2 che quest' essere è oggettivo, cioè per sè intelligibile; e talora, usando il vocabolo Idea, Platone abbraccia in esso le due proprietà, talora lo prende a significare una sola di esse, e specialmente la seconda, cioè « l' essere della cosa in quanto è intelligibile ». Ora le cose si distinguono in due classi. Alcune non sono altro che l' essere stesso [...OMISSIS...] ; altre sono un' immagine o simulacro dell' essere [...OMISSIS...] . Queste ultime sono i corpi, e, almeno in parte, tutti i reali finiti. Ora le cose che non sono essere, ma simulacri di essere, non possono stare da sè sole, perchè hanno una esistenza relativa all' essere, ma sono per l' essere, e pure per l' essere, di fronte al quale sempre si pongono, sono conoscibili; onde dall' essere hanno la conoscibilità, [...OMISSIS...] , l' esistenza, [...OMISSIS...] , e l' essenza [...OMISSIS...] . Quindi avviene che le prime cose che sono essere, abbiano una unicità d' esistenza, l' altre che sono simulacri, abbiano una duplicità nella loro esistenza: nelle prime adunque non si può distinguere un' esistenza diversa dall' Idea, perchè l' idea è l' essere, e questo per sè intelligibile; ma nelle seconde altro è l' esistenza, che hanno come idea o essere, altro quella che hanno come simulacri o fenomeni, la quale può anche cessare, ed anzi cessa di continuo ne' sensibili, che mai non sono, sempre si fanno, perchè continuamente fluiscono. Di tutti adunque i noumeni , cioè di tutte le cose che sono essere e per sè intelligibili, il primo e massimo è Dio, ossia il Bene. L' Idea dunque del bene non è nè può essere nel pieno suo significato cosa diversa dal Bene stesso, e però ogni qualvolta si prende da Platone l' Idea in questo senso, distinta dalla specie partecipata , che è diversa dal Bene, ed è la scienza e la verità «agathoeide», egli usa indifferentemente Bene e Idea del Bene, a significare veramente la stessa cosa, cioè il Bene essenziale (1). Onde facilmente quella discrepanza d' opinioni così si compone. Vediamo ora qual sia la dottrina platonica intorno all' Essere assoluto, che egli chiama massima: riconosce in prima che essa eccede l' umana intelligenza, e non vi si accosta che con gran riverenza, toccandola sempre alla sfuggita, e protestando di riconoscerla d' una sublimità inarrivabile. Parla Socrate nel Fedone di quelli che nè investigano quella potenza per la quale l' Universo è così ottimamente disposto, nè reputano aver essa una cotal forza divina, ma si contentano meglio d' immaginare Atlante che porta il mondo, e « « non reputano punto che veramente il Bene e il Decente congiunga e contenga » » tutte le cose (1). [...OMISSIS...] . Non trovando dunque Platone alcun maestro tra gli uomini che gl' insegnasse a conoscere Iddio, ragione del Mondo; e non sapendo in che modo contemplarlo direttamente, perchè chiuso in un abisso di luce, tentò la seconda navigazione, [...OMISSIS...] secondo il greco proverbio. Ed ecco la vera ragione dello aver Platone ridotta la filosofia alla Dialettica (4). Nella quale vide che si potevano stabilire delle ferme basi su cui ragionare, e spiega tosto la via che tiene in tutto il suo filosofare. Suppone a tutti i ragionamenti una ragione che giudica validissima [...OMISSIS...] , e poi quelle cose che ad essa consonano ha per cose vere, quelle che ad essa ripugnano per cose false. Ora qual è questa ragione? Ella è la causa formale e finale, perchè questa seconda viene dalla prima nella filosofia di Platone. Il quale ragiona così: Se si domanda perchè una data cosa abbia una data qualità, per esempio perchè sia bella, si può rispondere in due modi, l' uno semplice ed innegabile, così: « perchè ha la bellezza »; l' altro soggetto a investigazioni difficili e controverse, così: « perchè ha un colore florido, una figura o altra tal cosa ». Ora, dice, benchè la prima risposta paia forse rozza (1), pure mi attengo per intanto a quella. Poichè il resto non oserei affermarlo così subito; ma « « che tutte le cose belle si fanno tali pel bello, il risponder questo e a me stesso e agli altri, mi sembra sicurissimo, e, fermo su di questo fondamento, stimo di non poter mai cadere » ». Non potendosi questo negar da nessuno, perchè evidente, questa è la ragione validissima [...OMISSIS...] su cui, come sopra un fondamento inconcusso, toglie a edificare la sua filosofia. Poichè dimostra, che il bello, pel quale sono belle le cose che così si dicono, non è le cose stesse: oltre le cose dunque, c' è qualche altro elemento, di cui le cose partecipano per esser quello che sono, ed esser così denominate come si denominano, e questo elemento, nell' esempio addotto, è il bello stesso, pel quale le cose si dicono e sono belle. Quest' è quello che Platone chiama l' idea. Non rimane dunque che a considerare la natura delle idee, e vedere ciò che alle idee si confà, o che ad esse ripugna, per trovare ciò che è vero, o non è. Ora lo studio della natura delle idee, causa prossima, per la quale le cose sono quello che sono, conduce a conoscere: 1 che tra le idee non cade e non può cadere alcuna contraddizione; 2 che quindi alcune di esse si collegano ad unità, altre non si possono collegare, quando s' incontrerebbe, collegandole, una contraddizione (2). E questo studio del collegamento e della opposizione delle idee è appunto quello che il filosofo chiama dialettica , a cui di conseguente tutta si richiama la filosofia. Essendo dunque le idee tra loro per natura aggruppate (e la dialettica è quella che cerca di conoscere questi gruppi e li analizza), non è maraviglia, che anche nelle cose sensibili e corporee, che ne sono il simulacro, si vedano aggruppate, e però non si sa intendere, come alla presenza d' una tale dottrina Aristotele potesse credere, che fosse un' obbiezione contro le idee del suo maestro, che « « una cosa stessa partecipasse di più idee, quasi di più esemplari » » (3). Se non che egli abusa della parola esemplare, «paradeigma», giacchè, a propriamente parlare, d' una cosa reale non c' è che un esemplare solo, e questo non è un' idea separata, ma il gruppo di quelle idee che la rappresenta e per il quale s' intende, che noi chiamiamo specie piena, avendo quel gruppo una perfetta unità per l' unico subietto, che è l' idea fondamentale, a cui sono congiunte organicamente le altre. Che anzi, a propriamente parlare, Platone non ammette che un Esemplare unico risultante dal perfetto organismo di tutte le idee, l' Esemplare voglio dire dell' Universo, di cui gli altri sono parti, e non diversi esemplari (1). E non è egli strano al sommo che Aristotele dissimuli tutto questo? Veduta dunque la via per la quale procede Platone, cioè per ragioni ed idee, e tenuto conto della sua dichiarazione, che non intende con ciò di dare la scienza compiuta della prima divina causa, che immediatamente non si percepisce, ma di parlare intorno ad essa secondo buone ragioni, e vere singolarmente prese, ma che conducono a conoscerla piuttosto per analogia , che per la propria essenza: vediamo come si venga componendo per idee e ragioni la dottrina del sommo essere. Primieramente egli pone che l' Essere sia la massima e precipua e prima idea, e che tutti gli altri generi privi di lui non sarebbero: l' essere stesso dunque è per sè essere, perchè questa è la sua essenza, ma l' altre cose hanno l' esistenza da lui (2). Ma egli stesso l' Essere per sè non potrebbe concepirsi se non avesse in sè altro che essere, cioè essere indeterminato, uno puramente senz' alcuna pluralità (3). E` da notarsi che la pluralità di concetti, che Platone vuol distinguere nell' uno esistente nasce dall' indicato metodo di procedere per via di ragioni , le quali danno necessariamente una pluralità, anche dove non ci potrebbe essere, e però una cognizione imperfetta, ma l' unica che possa aver l' uomo, secondo Platone (4). Conviene però osservare, che se l' essere è essere per sè perchè è l' idea, l' essenza dell' essere; anche quelle cose che noi, discorrendo per via di ragioni , come l' unica che ci resti, troviamo necessarie perchè esso sia, sono per la stessa necessità dell' essere, essendo a lui essenziali costitutivi, di che s' induce che sono puro essere esse stesse, e però che non pongono in lui che una pluralità apparente, nascente dal nostro modo di concepire per via di ragioni. Il che non so se espressamente dica in alcun luogo Platone, ma è logicamente coerente al principio. Vediamo dunque che cosa deva avere l' essere per sè, ossia l' idea dell' essere, acciocchè esista, cioè sia veramente essere. Egli è chiaro, che deve avere in sè tutto ciò che è veramente essere, perchè all' essere non può mancare, essendo perfettamente uno e semplice, nessuna porzione dell' essere: dee dunque aver tutte le idee, poichè, come abbiamo veduto, sotto il nome d' idee Platone intende l' essere stesso delle cose, non le loro similitudini, imagini ed ombre. Il che intende quando nel « Fedro » dice, che « « Dio è divino, perchè è colle idee » » (1). Infatti contenendo le idee lo stesso essere obbiettivo, Iddio non sarebbe Dio, se non avesse, in qualche modo, tutte le idee, cioè ogni porzione dell' essere; e dico in qualche modo, perchè niente vieta che egli le abbia non già in un modo confuso e indeterminato, ma indistinte tra loro, onde poi distinguendole all' occasione di creare il mondo, si dicono da lui create, come nel X della « Politeia », benchè io intenda questo delle sole idee del mondo, e non delle prime idee, che non sono tipi del mondo, come verrà forse altrove occasione di dire. Il che stabilito, s' intenderà come Platone ponga come sentenza indubitata e di verità universale, che « « la mente non possa concepirsi esistere senza un' anima » » (2). Il che non intende già affermare delle menti create, ma assolutamente, con questa avvertenza però che l' anima che egli attribuisce alla mente essenziale, cioè a Dio, è l' idea dell' anima, ossia l' essenza, l' essere stesso dell' anima, non una sua partecipazione o similitudine. Onde dice nel « Sofista »: [...OMISSIS...] ; dove è d' avvertire che il moto, secondo l' uso di Platone, si prende per azione in genere, senza che involga di necessità il concetto di passaggio o di successione. Ora qual è questo moto, questa vita, quest' anima, questa prudenza, che si dee manifestamente trovare appo l' Ente completo e assoluto? Certo le idee di tutte queste cose, non già le loro immagini o le loro ombre, ma lo stesso loro essere, lo stesso moto, vita, anima, prudenza essenziale. Onde in appresso dimostra che l' essere dello stato e del moto non è nè stato nè moto, ma cosa ad essi superiore, sotto il quale tuttavia il moto e lo stato si contengono (1). Così Platone ascende a riconoscere colla gran forza del suo ingegno eminentemente speculativo, che tutte le cose hanno un primitivo e originale loro essere, un essere oggettivo eterno, necessario all' essere stesso, senza la qual ricchezza interiore l' essere stesso non potrebbe essere. Questa dottrina è costante in Platone. Nel « Filebo » pronuncia pure la sentenza che « « la sapienza e la mente non sono mai senza l' anima » » (2). E quindi trae che « « nella natura dello stesso Giove alberga un' anima regia ed una regia mente, a cagione della potenza della causa » » che è in lui, parole che sembrano fatte a posta per ribattere l' obbiezione che Aristotele fa a Platone, quando gli rimprovera così spesso che colle sue idee non può spiegare il movimento; quand' anzi Platone appunto per ispiegare come Dio possa essere causa delle cose, [...OMISSIS...] , gli dà un' anima, cioè un sentimento sostanziale, principio d' ogni energia. Nè conviene intendere che quest' anima sia un' anima partecipata, ma lo stesso essere dell' anima, il genere sussistente, non già il genere in sè stesso indeterminato, come quello che noi concepiamo raccogliendolo per astrazione dalle diverse specie di anime, ma per sè determinato intrinsecamente. Laonde io stimo che quest' anima di Dio sia diversa da quella creata e partecipata che Platone dà al mondo. Poichè di questa descrive la generazione nel « Timeo », laddove Iddio è la causa generante, e acciocchè possa esser causa deve avere già l' anima, come leggiamo nel « Filebo ». Si distingue oltre a ciò nel « Timeo » l' esemplare del mondo dal mondo : quello è formato dalle idee che Iddio produsse in se stesso organate a maravigliosa unità come richiedeva la bontà del Creatore. Ora dovendo il mondo essere la copia di quest' ottimo esemplare, conveniva che in questo esemplare ci fosse l' idea non meno dell' anima che del corpo del mondo, e che quindi il mondo fosse costituito d' anima e di corpo perchè nell' esemplare c' era l' una e l' altra idea connessa insieme. L' anima del mondo dunque non è l' anima che c' è nell' esemplare, ma una copia o imitazione di essa: [...OMISSIS...] . L' anima adunque dell' esemplare non è l' anima del mondo, ma quella da cui fu ricopiata. Ma Iddio che fece e l' esemplare e il mondo dovea avere l' anima sua propria, acciocchè potesse esser causa. Nondimeno la difficoltà della materia e l' oscurità o piuttosto la sublimità del linguaggio fece credere il contrario a molti dotti, e ciò perchè fa Iddio presente a tutto il mondo e dappertutto inesistente. Ma ecco come questo si spiega. Stabilito che l' esemplare, essendo quel complesso d' idee, che pensò Iddio per formare il mondo, è in Dio ed appartiene a Dio, benchè da Dio si distingua «kata logus», e distinto così l' esemplare dal mondo ricopiato su di esso; questo esemplare stesso si vede tuttavia nel mondo, poichè la mente dai vestigŒ o similitudini di esso, raccolte pe' sensi, ascende al mondo eterno, come Platone ha spiegato nel « Fedro », attesa la reminiscenza delle cose colà vedute dalle nostre anime (2). Così deve intendersi quello che dice nel « Filebo » che la causa [...OMISSIS...] inesiste in tutte le cose (3) pe' suoi effetti e vestigi, perchè ella presta a noi, e ad alcune altre cose che sono quaggiù in terra presso di noi, l' anima e la via d' esercitare il corpo sano e, infermo, restituirlo alla salute, e in altre cose pone e ristaura altri pregi, dal che acquista il nome d' « « universale e omnimoda sapienza » », [...OMISSIS...] , che è appunto quella che contiene l' Esemplare; di che argomenta che la sapienza della Causa molto più si dee essere avvisata di dare anche alle maggiori parti del mondo, che sono le celesti, e al mondo tutto l' anima, « « la bellissima e venerabilissima delle nature » », [...OMISSIS...] (4). E l' anima si chiama appunto la bellissima e venerabilissima natura, perchè è suscettiva d' avere le idee, e così la sapienza. Ma altro è l' anima, altro la sapienza, e altro le idee; poichè queste ultime non possono essere senza l' anima, cioè senza il principio subiettivo che avendole diventa sapiente. Laonde dice che soprastando la Causa ai due elementi del mondo, l' indefinito e il fine, li congiunge e congiungendoli li adorna e dispone, e per questi effetti si chiama giustamente mente e sapienza, [...OMISSIS...] . Di che deduce che anche Giove come causa suprema, [...OMISSIS...] , dee aver un' anima e una mente regale e che proporzionatamente sia da dirsi lo stesso dell' altre cause che a quella somma s' avvicinano, cioè degli astri (2). Il che, dice, conferma l' antica sentenza (alludendo principalmente ad Anassagora), che a tutto l' universo impera mai sempre la Mente, [...OMISSIS...] . Di che conchiude che « « la mente è prole della Causa di tutte le cose » » (3) e ciò certamente per quella ragione appunto, che è nel X della « Repubblica », che Iddio produce di sè le idee e così la sapienza. Conviene dunque distinguere l' anima e la sapienza dalla causa, e in questa sapienza l' Esemplare dall' effetto che è l' Universo, nel quale ci sono i vestigi dell' esemplare e c' è l' anima somministrata dalla Causa, e però diversa da quella propria della causa. Questa non può esser causa se non ha l' anima in cui sta la forza causale e le idee, cioè l' Esemplare, e la sapienza che da quest' idee risulta all' anima: e questa causa sta sopra all' altre cose, [...OMISSIS...] , e le adorna e dispone, [...OMISSIS...] , e sempre impera al tutto, [...OMISSIS...] ed è quella che presta l' anima alle cose animate di quaggiù [...OMISSIS...] , e ugualmente alle cose che sono in tutto il cielo, [...OMISSIS...] : onde rimane sempre distinta la causa dall' effetto; e se le anime nostre raccolgono i vestigi della sapienza sparsi nel mondo, non è che questi vestigi sieno le stesse idee che stanno nella sapienza e nell' anima della causa, ma è perchè le anime nostre prima di venire nel corpo hanno riguardato nell' Esemplare del Mondo qual è nella prima causa, e ora si ricordano di quello che hanno veduto a cagione delle similitudini di cui è abbellito l' Universo. Anche nel Cratilo Giove è detto « « il principe e il re di tutte le cose »; e « ch' esso sia la causa del vivere a noi e a tutte l' altre cose » » (1). Questa causa è l' Esemplare del Mondo vivente e operante, come avente la sua sede in una regia anima e mente. Ora si dice questo Giove dirsi figliuolo di Saturno per indicare che « « egli è prole d' un qualche gran pensiero » » (2), che è certamente quello con cui il Bene ossia Iddio produsse l' idee del Mondo quando s' accinse a crearlo (3). Attribuisce al padre di Giove « « la purità e la sincera integrità della mente » » (4), perchè nell' Esemplare non ci sono che pure idee scevre da ogni concrezione e realità. Iddio adunque è l' Essere, e questo perfetto, [...OMISSIS...] , e perciò è il Bene. Nelle idee c' è l' essenza, l' essere. Ma si devono distinguere due classi d' idee, appunto perchè l' essere si concepisce in due modi. Si concepisce un essere assoluto e un essere relativo. L' essere assoluto è in sè ultimato e non ne richiama alcun altro: quest' è a ragion d' esempio « l' idea del Bene »e tutte quelle idee che contengono le qualità di Dio, come la sapienza, la giustizia, la potenza, la vita, ecc., queste non possono mai mancare all' Essere, al Bene, a Dio, perchè lo costituiscono (5), e in parte corrispondono ai «ta prota noemata» d' Aristotele (6). Per questo mostra nel « Parmenide », che l' uno puro d' ogni altra cosa non può stare, e nel « Filebo » dice la Mente cognata colla Causa e dello stesso genere (7), e nel « Sofista » che al compiuto ente, [...OMISSIS...] , non può mai mancare l' attività, la vita, l' anima, la sapienza; ma per distinguere queste cose, quali sono nell' Ente assoluto, a diversità del modo in cui sono nel mondo, usa delle parole «alethos kinesin k. t. l.», e appresso dice che sono «os onta» (.). L' atto poi con cui è l' essere, e queste idee a lui essenziali, sembra un atto d' intelligenza, quella «megale dianoia» di cui nel Cratilo dice che Giove sia figlio, «ekgonos» (9). Così Iddio è tutto idea , ma non come prendiamo noi questa parola, cioè come la notizia della cosa separata dalla cosa, ma come avente valore di « essere », e di « essere per sè intelligibile », onde Iddio è puro essere e medesimamente è puro intelligibile e quindi di necessità intelligente, la «nus» stessa d' Aristotele (1); ma essendo Essere perfetto, ossia Bene, e non potendolo noi conoscere immediatamente, nè trovando Platone, come avrebbe desiderato, qualche maestro che avendolo veduto gliel' avesse rivelato, se ne compose il concetto per via di ragioni (2) e così fu obbligato a comporre questo concetto d' un certo numero d' idee organate, a quella prima dell' essere congiunte, benchè Iddio in sè sia semplicissimo e superiore alla verità ed alla cognizione umana ed all' essenza delle cose mondiali (3). Ma oltre queste idee che compongono, secondo le ragioni della mente umana, Dio, ci sono delle altre idee relative alle cose mondiali, che contengono l' essere e l' essenza di queste, non essendo le cose mondiali che un' imitazione dell' essere, una similitudine, un cotal simulacro, e non l' essere stesso. Il proprio essere oggettivo e vero l' hanno in Dio. Tutte queste idee dunque relative al Mondo sono quelle che costituiscono l' Esemplare del mondo, da Dio in se stesso col suo pensiero prodotto, quando volle creare il Mondo, ma non quelle che contengono l' essere stesso di Dio, il quale perciò è chiamato da Platone « « l' ottimo di tutti gli intelligibili che sempre sono » » (4), distinguendo così tra gl' intelligibili quelli che contengono l' essenza divina, da quelli che contengono l' essenza mondiale, ossia l' Esemplare. Nè pure è da credere che questo Esemplare, benchè sempiterno, sia stato prodotto con un atto di pensiero divino diverso da quello con cui creò il Mondo, ma con lo stesso atto fece essere l' uno in sè e creò l' altro fuori di sè, non essendo un tal atto del pensiero divino una semplice intuizione de' possibili, ma ad un tempo un atto di quella immaginazione e affermazione divina con cui Iddio pensando gli esistenti, li pone. Onde Platone descrive Iddio creante, dicendo, che « « facendo egli uso dell' esemplare effettua l' idea e la forza » » cioè ad un tempo fa uscire in opera la forma e la materia o natura reale della cosa, [...OMISSIS...] . La ragione della creazione del mondo è, dice Platone, l' essenziale bontà di Dio. Laonde volle che il mondo fosse, per quanto esser potesse, a sè similissimo. L' Esemplare dunque dovea essere sempiterno e contenere un contemperamento armonico di tutte le nature, dalle più eccellenti alle inferiori. L' ultima possibile delle nature, la materia corporea, non è di natura sua ordinata. Conveniva dunque che ricevesse un ordine. Ma se non ci fosse un' intelligenza che intendesse quest' ordine, era inutile ordinar la materia; un tutto in tal caso, comunque ordinato, non sarebbe stato migliore di un altro tutto. Era dunque necessaria un' intelligenza, e questa non potendo stare da sè, dovea avere un' anima in cui fosse. Il mondo dunque dovea risultare d' intelligenza, d' anima e di sentimento e di corpi ordinati; queste tre cose o piuttosto due (perchè l' anima è quella che ha l' intelligenza) congiunte insieme lo formavano « « un animale intelligente costituito dalla divina provvidenza »(1) ». L' Esemplare dunque è quest' animale nel suo essere oggettivo e sempiterno [...OMISSIS...] , il Mondo in verità, [...OMISSIS...] , l' essere, l' essenza stessa del mondo. Il mondo reale poi è quest' animale stesso nella sua copia od effigie [...OMISSIS...] . Dal che si vede che il mondo reale, anima e corpo, e noi stessi, anima e corpo, siamo, secondo Platone, al tutto distinti dall' eterno divino esemplare, e molto più da Dio stesso che lo vide. Secondo l' ordine logico, l' ordine di eccellenza, e anche, secondo Platone, cronologico, l' Anima del Mondo dovette esser creata prima. Essa è una specie di sostanza, media tra quella che è sempre la medesima e quella che è sempre un' altra , e lega in sè stessa queste due specie. [...OMISSIS...] . Questa descrizione dell' anima risultante da tre elementi ha una singolare analogia con quello che noi, non pensando a Platone, ma riguardando la stessa natura dell' anima, n' abbiamo detto negli « Antropologici » o sussistente avente due termini, semplice l' uno, esteso l' altro, di maniera che abbracciandosi essa quindi a ciò che è eterno, quinci a ciò che è temporaneo, mediatrice degli estremi, congiunge in sè le opposte nature. La sostanza dunque media di Platone, su cui tanto fu disputato, altro non è che il subietto stesso dell' anima, cioè quell' ente principio , chiamato anima, che finisce, col suo atto di essere, ne' due termini che dicevamo. Noi abbiamo osservato che, rimossi affatto i termini, il principio non è più, ed osserva una cosa simile lo Stallbaum, quando scrive che quell' essenza media di Platone, tolte le due nature che in sè medesima unisce, rimane un mero astratto, non è più cosa reale (1). Più difficile è il determinare che cosa intenda Platone per quel componente dell' anima che chiama il diverso «to thateron». Poichè non può con questo significare i corpi, parlando qui della formazione dell' anima anteriore all' esistenza de' corpi e d' ogni corporeo. Che anzi dopo aver descritta la formazione dell' anima del Mondo, venendo ai corpi, dice così: [...OMISSIS...] . Non si può intendere neppur la materia corporea, perchè è assurdo a pensare che l' anima si componga di ciò che è disordinato e qua e là a caso agitato e sbattuto (3), e informe, quando una tale materia informe, secondo Platone stesso, non può sussistere senza le sue forme, ma è un' astrazione della mente. Che anzi dicendo non che Dio facesse nell' anima già compiuta i corpi, ma tutto ciò che fosse corporeo, parlò vigilantemente, escludendo non meno i corpi dalla natura dell' anima che ogni corporea materia. Parmi dunque di non andare lontano dal vero dicendo che la «thateru physis» posta da Platone come uno dei due estremi elementi dell' anima, deva significare lo spazio puro. E benchè prima d' ora non mi fosse mai occorso alla mente una tale interpretazione di questa sentenza di Platone, tuttavia meditando la natura dell' anima umana, già da buon tempo mi ero convinto che lo spazio immensurato dovesse essere uno de' due termini essenziali all' anima, di che ho anche addotte le prove «( Antrop. 165 7 174; Psicol. 554 7 559, 703, 709) ». Ho dimostrato di più, che tale è la natura dell' estensione che ella non si può concepire se non essente in un semplice, e dal semplice, cioè dall' anima, contenuta «( Antrop. 94 7 97) ». Ora posto che lo spazio puro sia uno degli elementi dell' anima, non ha più difficoltà la sentenza di Filolao (1), seguita poi da Platone, che il corpo sia stato da Dio formato nell' anima. Poichè, come dice Platone stesso, lo spazio « « presta la sede a tutto ciò che si genera », [...OMISSIS...] », cioè alla materia corporea che generandosi diventa corpi (2). La materia è la nutrice della generazione, [...OMISSIS...] , laddove lo spazio n' è la sede, [...OMISSIS...] , cose che fa meraviglia essersi confuse in una da tutti forse i commentatori. Ma egli è difficile a dirsi come Platone concepisca questo spazio nell' anima scevra ancora dal corpo, se, come l' abbiamo descritto noi ne' « Psicologici », come una pura estensione immisurata ed immobile, o con aggiunta di qualche altra cosa. E a questa seconda sentenza ci atteniamo: giacchè crediamo difficile a provare che gli antichi avessero il concetto della pura estensione. Abbiamo veduto che Aristotele aggiungeva allo spazio, o piuttosto al luogo (chè egli confonde queste due cose), una forza attraente: e dice esser materia lo spazio preso come intervallo tra le grandezze. E quantunque al puro spazio, come noi lo concepiamo, possa convenire la denominazione di altro (altro cioè dall' idea), tuttavia non gli può convenire quella di diverso , di contrapposto a ciò che è sempre il medesimo , poichè lo spazio puro non mutandosi, non è diverso da sè stesso. Conviene dunque dire che quell' elemento dell' anima, che Platone chiama «thateron», non sia lo spazio puro, ma con qualche aggiunta. Ponendo egli dunque la vita e il principio d' ogni movimento nell' anima, convien dire che insieme collo spazio egli desse all' anima un sentimento soggettivo proprio bensì dell' essenza media, ma stendentesi anch' esso quanto lo spazio. Il che s' intenderà da tutti quelli, che conoscono la distinzione da noi esposta tra la sensazione soggettiva e la percezione intimamente a quella unita «( Ideol. 701 7 707; 722 7 747; .7. 7 900; 9.3 segg.) ». Come dunque noi, parlando del sentimento de' corpi, abbiamo distinto dal sentimento nostro proprio il diverso da noi percepito, e quello unito e conformato a questo per modo che dove c' è il diverso corporeo percepito, ivi sia anche la sensazione: così crediamo che si possa concepire il diverso di Platone; lo spazio percepito come un termine diverso dall' anima, consociato a un sentimento in questa che s' estende a tutto quello, il quale sentimento è vita e forza, proprietà innegabili ad ogni sentimento che ha natura di realità, come tante volte abbiamo detto. Ora a questo sentimento conviene certamente la qualità di diverso , avendo egli la virtù d' essere di continuo modificabile, date le condizioni che sono gli stimoli materiali, e anche in virtù dell' attività intellettiva e volontaria. Trovato questo principio sentimentale ed efficiente nell' anima, ivi ripose Platone un' intima azione vitale o moto continuo, e l' origine del moto all' altre cose (1), onde è a stupire, che Aristotele cercasse la causa del moto nelle idee, e non trovandocela ne biasimasse Platone, quasi a questi fosse impossibile render ragione dei movimenti mondiali. Andava in collera perchè non trovava la causa del moto dove non era, e dove non poteva essere in alcun modo. Trovato questo sentimento soggettivo, finiente nell' immensurato spazio, questo stesso spazio viene in certo modo ad essere tutto animato, e nella mutabilità del sentimento si trovava la natura del diverso , elemento dell' anima mondiale non ancora fornita di corpo. Ora questo sentimento soggettivo di natura sua mutabile, doveva contenere virtualmente tutte le potenze sentimentali dell' anima. Con questo si può facilmente illustrare il magnifico mito del Fedro, nel quale l' anima è assomigliata « « alla natura risultante da una biga subalata e da un auriga » » (2), dove il carro è la sostanza media che lega gli estremi, l' auriga rappresenta il medesimo , e i cavalli simboleggiano il diverso , cioè il sentimento e gli affetti che danno all' anima il movimento. E parimente supponendo che la natura del diverso , che Platone vuole uno degl' ingredienti dell' Anima del Mondo, sia il sentimento soggettivo, che s' estende a tutto lo spazio immensurato, s' intende, come Dio poteva, anche prima di creare il corpo, assegnare delle leggi armoniche a questo sentimento, quasi screziandolo di diversi istinti relativi allo spazio in cui finiva, e con questi disegnare nello spazio stesso de' luoghi diversi, con proporzioni tra loro di numeri e di figure geometriche e di movimenti (1), e come i discepoli di Platone, tanto minori del maestro, potessero poi definire l' anima « « un numero che si move da sè medesimo » » (2), o in altre maniere in cui si vede ritenuta qualche particella della dottrina, non tutta abbracciata la teoria del maestro. L' aver poi assegnato all' anima sola, senza il corpo, tutto ciò che spetta all' armonia e all' ordine di più cose connesse insieme, come il numero, la proporzione e somiglianti, dando al corpo l' esser sensibile, ma l' anima dicendo « « partecipe del raziocinio e dell' armonia degl' intelligibili sempre esistenti » » (3), prova da una parte l' alta mente di Platone che ben vide solo una sostanza semplice e vivente potere contenere in sè il numero e l' ordine, laddove l' esistenza del corpo bruto è solitaria, e di più per la continua divisione irreperibile, dall' altra conferma quanto dicevamo, che lo spazio, materia alle diverse figure geometriche, anch' egli poteva esistere solo nell' anima e da questa esser contenuto, non essendoci parte assegnabile in esso che non sia straniera a tutte le altre, e però incapace d' unire le altre ad unità, senza la quale unità niente esiste, poichè l' ente è per sua essenza uno. La pluralità dunque delle parti assegnabili nello spazio non esiste se non nell' anima, e neppure ciascuna di esse esiste, perchè ogni suo punto essendo fuori d' ogni altro, non può aver cogli altri unità. Ora, prima di proceder oltre vediamo che cosa sia l' altro elemento estremo dell' anima, il medesimo , ossia [...OMISSIS...] . Certamente quest' elemento è la materia ideale, come l' altro vedemmo essere la materia matematica , e medio tra loro sta il sentimento , che all' una e all' altra materia s' estende, di che egli dice esser l' altre con questa commiste [...OMISSIS...] : la materia ideale poi per Platone è indubitatamente l' ente (indeterminato) «to on» (1). Ora come dal sentimento unito collo spazio, Platone deriva la facoltà di sentire i corpi quando si presentano all' anima, così dal sentimento unito all' idea dell' essere cioè a quello, che è sempre identico, deriva la facoltà di conoscere, cioè d' intuire le idee determinate, e di ragionare. Questo ragionamento poi lo distingue in due, secondo l' oggetto intorno al quale si esercita; se si esercita intorno all' idee contenenti l' essere che è sempre il medesimo, e alle ragioni, nasce nell' uomo l' intuizione ( «nus») e la scienza ; se si esercita intorno alle cose mutabili, come i corpi od i sentimenti, e si esercita nel debito modo, nasce l' opinione vera e la fede vera . Dove si vede che Platone qui non parla più del suo mito della reminiscenza , ma, seriamente ragionando, in vece di dare all' anima le idee e notizie preconosciute, di cui all' occasione delle sensazioni non faccia che ricordarsi, le dà una vera potenza di procacciarsi nuove cognizioni e di ragionare. Costituisce poi questa potenza come noi appunto l' abbiamo costituita, ponendo cioè che l' anima per sua natura sia partecipe d' un primo identico , «tautu» (2), cioè di ciò che non è questo o quello tra le cose identiche, ma è l' identico stesso, «tautu genos», senz' altra determinazione, il che è quanto dire l' idea indeterminata (3), e che con questo primo identico ella conosca tutte l' altre cose identiche, cioè l' altre idee; e ponendo altresì che l' anima partecipi d' un primo diverso , cioè d' un sentimento terminante nell' estensione, col quale possa apprendere sensibilmente tutti i diversi, cioè i corpi, e in tal modo attingere la materia di altre cognizioni. E così col simile fa che si conosca e si apprenda il simile, secondo l' antico effato de' Pitagorici (4). Dalle quali parole e da tutta insieme la dottrina del Filosofo, si rileva: 1 Che l' anima conosce sempre per quel suo elemento che Platone chiama il Medesimo, e che vedemmo esser l' idea prima e universalissima. 2 Che nondimeno, se il mezzo del conoscere è un solo, gli oggetti del conoscere sono due, il sensibile, [...OMISSIS...] e il razionale, [...OMISSIS...] e la cognizione di quest' ultimo è intelligenza e scienza , [...OMISSIS...] la cognizione dell' altro è opinioni e persuasioni ferme e vere, [...OMISSIS...] . Laonde l' atto conoscitivo non è mai sensazione, benchè anche la sensazione possa divenire oggetto di cognizione, ma è sempre «logos alethes» e «kata tauton» (1); ma quando oltre essere «ho logos» l' operazione della mente, è anche «to logistikon» il suo oggetto, allora c' è intelligenza e scienza. 3 E` sempre tutta l' anima quella che conosce con un interno movimento, [...OMISSIS...] : onde non separa mai Platone le parti dell' anima, come a torto gli rimprovera Aristotele, e non ne fa più anime. 4 Essendo l' anima composta dell' identico e del diverso , ella di conseguenza ha due operazioni o movimenti che egli chiama cicli o giri, perchè con queste operazioni essa si rivolge intorno a se stessa, [...OMISSIS...] . Distingue dunque nell' anima il ciclo del Medesimo, [...OMISSIS...] , che produce l' intelligenza e la scienza, e lo chiama «eutrochos», e il ciclo del Diverso che vuol che sia retto, [...OMISSIS...] : il primo è il movimento dell' intelligenza, il secondo il movimento del sentimento. E con ragione Platone assomiglia questi movimenti spirituali a circoli; perchè qualunque cosa faccia il sentimento, egli lo fa in se stesso; il movimento parte dal sentimento e finisce nel sentimento; e così pure il ragionamento non esce e non può uscire di sè colla sua azione, ma partendo dall' idea e dalla cognizione ritorna e finisce sempre all' idea e alla cognizione, poichè la prima intuizione nella quale il soggetto parte per così dire da sè e va nell' idea, non è ancora movimento razionale, ma è l' atto costitutivo della razionalità. Questo poi costituito opera, per una certa riflessione, su di ciò che è in sè, cioè o sul sentimento o sulle idee, e come dice Dante « « sè in sè rigira » », soltanto che convien badare che quando si dice: « in sè »si dee intendere su di ciò che ha in se stesso. Veduto che cosa sia la natura del Diverso e la natura del Medesimo, di cui Platone compone l' anima, e come essi rispondano ai due termini dell' anima, cioè lo spazio sentito per natura, e l' idea universalissima; rimane a vedere di quella terza sostanza che li congiunge quasi nel mezzo di essi, [...OMISSIS...] , la quale certamente è il principio di essi due termini. Ma come il principio è indivisibile da' suoi termini, perciò dice Platone, che risulta da entrambi [...OMISSIS...] . Essendo dunque questa media sostanza che termina nelle due estreme e ad esse essenzialmente s' appoggia senziente secondo l' uno e l' altro termine, ossia unendo in sè il sentimento dell' uno e dell' altro termine, non può avere il sentimento dello spazio senza che lo percepisca anche coll' intendimento; onde in questa composizione dell' anima, ancorchè separata dal corpo, Platone pone una percezione intellettiva fondamentale, cioè la percezione intellettiva dello spazio, ad un tempo sentito ed inteso , e questa percezione è quella che dà all' anima, per così dire, una figura circolare, perchè essendo una per l' unità del principio che è la terza sostanza, si fa una anche per la riunione de' termini; giacchè ella col suo atto primo e costitutivo, dopo essersi divisa da una parte estendendo il suo atto all' idea, dall' altra allo spazio, continua il suo moto costitutivo ripiegando questi due in uno, e riunendo lo spazio e l' idea, fa che quello sia abbracciato da questa, il che noi chiamiamo percezione intellettiva fondamentale dell' anima separata. Descritto a questo modo l' interno ordine e costituzione dell' anima, niente vieta di concepire che il sentimento di quest' anima possa essere da certe leggi quasi screziato e variato, dotato di varie forze d' istinti relative a certe parti dello spazio, a certi conati, a certa successione di movimenti. Si consideri ciò che noi abbiamo esposto sulla legge cosmologica dell' armonia «( Psicol. 1537 7 159.) », e sull' altra che le corrisponde nell' anima umana «( Psicol. 1726 7 1779) », le quale due leggi del Mondo e dell' Anima corrispondendosi e sintetizzando, non ne formano, a dir vero, che una sola con due faccie o rispetti. Questa nobilissima verità, che l' anima abbia l' armonia in sè stessa, vide ed espose Platone nel « Timeo ». Solamente che noi considerammo l' anima già dotata di corpo, e in relazione col mondo corporeo; egli trova certe leggi d' armonica costituzione nell' anima prima ancora che questa sia immessa nel corpo. Il che gli è suggerito dall' opinione da lui professata, che l' anima abbia preesistito al corpo: opinione per vero erronea, ma che nel ragionamento di Platone annunzia, aver egli conosciute alcune verità nobilissime e profonde. Poichè da questo siamo assicurati, che egli vide doversi riporre il principio dell' armonia nel semplice, nel sensitivo ed intelligente, e non in qualsivoglia cosa corporea, onde dice dell' anima; [...OMISSIS...] , e dopo aver descritto com' ella armonicamente movendosi intenda i sensibili e gli intelligibili, aggiunge che in essa sola possono accadere tali cose (2). Egli vide ancora come per questa forza di sentimento armonico, di cui l' anima è per sè stessa dotata da Dio, ella era e dovea essere la dominatrice del corpo (1), e così mirabilmente spiega la virtù formatrice propria dell' anima «( Psicol. 17.7 7 1794) ». Certo che le leggi speciali dell' armonia nell' anima racchiuse sono d' una tanta grandezza, moltitudine e profondità che nè Platone le potè raggiungere, nè sono nè saranno esaurite dalle meditazioni di molti filosofi nel corso di molti secoli futuri. Ma una gran cosa è questo solo che da tempo così antico sia stato veduto, che esse si giacciono nell' intima costituzione dell' anima. Il primo pensiero sembra dovuto a Pitagora; il quale però, quando dal generale venne a specificare una tale armonia, si restrinse a considerare quella specie particolarissima di legge armonica che governa i suoni «( Psicol. 1565, 1566) ». Egli prese dunque la legge dell' armonia che si trova in un solo sensorio, cioè in una particolarissima facoltà dell' anima sensitiva e la universalizzò, prendendola per tipo, o tema d' ogni armonia non solo di tutta l' anima umana, ma anche de' corpi celesti e in una parola dell' universo. Questa maniera soverchiamente ristretta di concepire l' armonia che governa il creato, conteneva però come supposizione e base una gran verità, che « « l' anima e l' universo sono coordinati insieme da una mano sapientissima, quasi due corde unissone in due istrumenti » ». Che se questo principio è vero, come è indubitatamente, le principali leggi dell' armonia universale e di quella dell' anima devono essere le stesse. Se non che piuttosto che due armonie identiche, c' è tra l' anima e l' universo sintetizzante un' armonia unica e sola. Essendo dunque pervenuta a Platone per mezzo di Filolao la dottrina pittagorica dell' armonia, il suo pensiero rimase chiuso nelle angustie di questa tradizione (2). Non rimanendogli tempo, nella vastità delle ricerche in cui era occupato, di meditare una teoria più ampia per compiere la lacuna del suo sistema filosofico, accettò, come una vaga ipotesi, quella dottrina dell' armonia sonora , e ornandola di novi concetti e di elegantissimo linguaggio, l' applicò a dichiarare la costituzione dell' anima che dovea dar poi vita ed ordine alla macchina corporea dell' universo (1). Si fa adunque ad esporre gli istinti armonici che Iddio pose nell' anima in questo modo. Dice che dopo aver mescolati insieme i tre principŒ, cioè il Medesimo, il Diverso e l' Essenza, e di questi tre fatta una cosa sola, come spiegammo di sopra, distribuì in questo tutto le membra, dandogli il decoro d' un cotale spirituale organismo, e ciascuna delle dette membra riuscìa così composta di quei tre primi elementi (2). Con questo viene a dire, che la percezione intellettiva abbraccia lo spazio sentito e la sostanza media (3), giacchè solo per questa percezione può avverarsi, che in tutti gli istinti e modi d' operare dell' anima appariscano i tre elementi, da cui essa risulta. Le quali membra spirituali dell' anima vengono distinte secondo i numeri della doppia tetrade pittagorica formata dai sette numeri 1, 2, 3, 4, ., 9, 27 distribuiti nella serie de' pari e nella serie degli impari, avente ciascuna a capo l' unità: 1, 2, 4, . e 1, 3, 9, 27; le quali due tetradi rappresentano il sistema diatonico, composto di quattro ottave, più un intervallo di quinta e un tono intero (4). Per trovare poi le consonanze in queste quattro ottave, Iddio riempì d' altre porzioni della stessa sostanza trina ed una, gli intervalli tra i numeri della prima e della seconda tetrade, con due numeri medii, cioè col medio aritmetico e col medio armonico (5); onde ne risultano due serie di dieci numeri ciascuna, ossia una serie di venti numeri. Finalmente per trovare e distinguere i singoli toni e mezzi toni, da per tutto dove c' era l' intervallo di quarta, lo riempì con divisioni per toni interi, avanzandone il mezzo tono minore, la cui ragione è computata 256 .diviso . 243, e lo stesso, benchè nol dica Platone, convien supporre dell' intervallo di quinta, avanzandone il mezzo tono maggiore, la ragione del quale si computava 273 3 .fratto . . .diviso . 256. Così la sostanza trina ed una dell' anima fu distinta in membra rispondenti alle ragioni, in cui è compartito a consonanze, a toni e mezzi toni il Diagramma; e Platone per dimostrare meglio la grandezza di quest' armonica distribuzione dell' anima mondiale, a cui dovea rispondere il mondo visibile, prese ad esempio un Diagramma di tanta estensione, quale i Greci non usarono giammai nelle loro musiche, come già fu osservato da Adrasto presso Teone Smirneo (1). Così la sostanza una e trina, distribuita in altrettante membra per una serie di numeri rappresentanti ragioni armoniche, fu divisa da Dio tutta per lungo, di che si ebbero due serie, ciascuna dotata delle stesse proporzioni numeriche: delle quali due liste fece una croce decussata, e piegata, ciascuna lista a circolo, se n' ebbero due circoli intersecantisi ne' due punti opposti, i quali circoli rappresentano e rispondono al circolo equinoziale ed al zodiaco. Al primo, esteriore e molto più alto del secondo, attribuì la costanza e l' equabilità e lo fece movere verso la destra, cioè dall' occidente all' oriente, chiamando questo movimento « della natura del Medesimo »; all' altro, interiore e più basso e che fece movere verso sinistra, cioè dall' oriente all' occidente, attribuì la varietà e l' incostanza, chiamando il suo movimento « della natura del Diverso ». Al giro del Medesimo concesse il principato, poichè lo lasciò uno ed indiviso. Ma riguardo al circolo interiore, prima di ripiegare in circolo la lista numerica, ne tagliò via sei pezzi alle giunture de' numeri della doppia tetrade, e n' ebbe sette parti rispondenti ai sette numeri della medesima, ciascuna delle quali movendosi in giro, ne riuscirono le orbite dei sette pianeti, i tre primi e inferiori moventisi con eguale celerità, i quattro ultimi e superiori con celerità disuguali e da quelle de' primi e tra esse, ma pure secondo opportune ragioni. Ora di tutti questi sette orbicolari movimenti risulta quello che si dice il circolo del Diverso. Non è necessario a noi addentrarci in maggiori particolari circa questi armonici compartimenti, non consistendo in questi la parte solida della dottrina: questa sta nel principio generale, che l' anima è la dominatrice del corpo, e quindi che ella stessa lo adatta a sè stessa, l' informa, l' organizza, e il corpo in tutto le ubbidisce, di maniera che ogni movimento di questo all' anima è dovuto (1). Vediamo come ciò avvenga secondo la mente di Platone. Primieramente essendo nella sostanza dell' anima lo spazio immensurato, c' è il luogo dove Iddio poteva collocare il corpo. Di poi essendoci un primo sentimento, che s' estende a tutto lo spazio, c' è per così dire la morsa a cui attaccare il corporeo. Poichè il corporeo non è che il sensibile, e il sensibile non è che uno stimolo applicato con certe leggi fisse al sentimento primo, che eccitandolo lo modifica, così producendo in lui le sensazioni. Ora dato che un primo sentimento, qual è quello dell' anima, 1 soffra una violenza e così senta un altro principio diverso da sè che esercita su di lui la propria potenza; 2 e questa violenza non abbracci tutto lo spazio, ma essendo limitata disegni in esso co' suoi confini una figura; 3 ne nascano di conseguenza modificazioni o sensazioni nello stesso primo sentimento; 4 e tutto questo con quella stabilità di fisse leggi colle quali sogliamo avere le sensazioni esterne: dato questo, egli è evidente, che esistono quelle sostanze sensibili che noi chiamiamo corpi, e che n' è spiegata la creazione. Dice dunque Platone che [...OMISSIS...] . Nel qual luogo s' osservi che: 1 Dice che il corpo fu fatto da Dio tosto dopo ultimata la costituzione dell' anima, «meta tuto», onde qui non lascia che l' anima dell' universo viva gran tempo separata dal corpo, secondo l' ipotesi che altrove introduce delle anime viventi immuni da ogni concrezione materiale. 2 Dando a tutto l' universo corporeo un' anima sola, cade rispetto all' anima mondiale la censura che Aristotele fa ai Pitagorici e a Platone, cioè che questi credesse, ogni anima poter convenire ad ogni corpo. 3 Dicendo che l' anima del mondo si volse in se medesima quand' ebbe il corpo e diede principio alla durata della vita, ben dimostra che tutte le membra e i movimenti prima distinti nell' anima esprimevano non atti, ma potenzialità instintive. 4 Che tosto che l' anima mondiale ebbe il corpo, i suoi due movimenti spirituali cioè quello dell' intelligenza ossia del medesimo , e quello del sentimento ossia del diverso , rapirono colla loro potenza dominante il corpo, e in questo si rappresentarono coi due movimenti opposti del cielo delle stelle fisse che si move equabilmente, prendendo la legge dal moto dell' intelligenza, e del cielo solare7planetario, che si move con variati e molteplici modi, prendendo la legge dal moto del sentimento: onde nel mondo materiale comparve un simulacro sensibile del mondo spirituale e invisibile, un simulacro cioè del ciclo del medesimo e del ciclo del diverso , i due elementi di cui l' anima si compone. 5 Che quindi la causa efficiente e movente del mondo sensibile e fenomenico è il mondo invisibile e spirituale, e quello non è che una cotale copia e imitazione di questo. 6 Che all' anima dell' universo, dopo aver data la vita a tutto il mondo corporeo, compresi gli ultimi cieli, rimane ancora una parte sopramondana, circonfusa al mondo [...OMISSIS...] contenente il mondo (1), quella parte certamente che nel Fedro chiama sopraurania . Così il mondo corporeo non può rappresentare l' anima compiutamente; perchè quantunque ci vengano rappresentati sensibilmente i movimenti dei due elementi dell' anima, il diverso e il medesimo , quello del diverso col volgersi del cielo planetario, e quello del medesimo col volgersi del sommo cielo: tuttavia rimane ancora, al di là di tutto il cielo visibile, uno spazio infinito occupato dall' anima, dove non dice Platone se ci sia moto o quiete, e vuol forse significare ciò che non ha moto nè quiete, cioè l' essere puro, a cui nel Sofista nega ogni quiete ad un tempo ed ogni moto, d' entrambi de' quali generi esso è il contenente; cioè è genere maggiore di essi. E certo che ivi, fuori del mondo corporeo, nulla più v' ha di sensibile, come avea detto avanti (2), laonde a quel luogo si riferisce indubitatamente l' anima, in quant' è partecipe de' puri e primi intelligibili (3). Agli intelligibili appartiene l' esemplare del mondo chiamato da Platone «zoon aidion» (4). L' eternità che a questo solo divino esemplare conviene, non può appartenere all' animale generato, cioè al mondo (1). Ma acciocchè questo imitasse, per quanto era possibile, quell' eterno, fece « « una mobile imagine dell' eternità » »; fece, adornando ad una il cielo, un' eterna imagine « « fluente secondo il numero dell' eterno manente nell' uno »(2) ». L' eterno manente nell' uno è Dio; e della stessa permanenza è dotato anche l' esemplare del mondo in se stesso considerato. Ma poichè questo esemplare era da Dio pensato, affinchè a sua norma si potesse produrre il mondo reale, esso non dovea rappresentare l' eternità di Dio, ma il tempo, per solo il quale può il mondo imitare la divina eternità. Laonde nell' esemplare del mondo Iddio pensò l' imagine a cui doveva crearsi il tempo , e questa imagine che forma parte dell' esemplare dicesi imagine della eternità, [...OMISSIS...] ; cioè dell' uno eternamente immanente che è Dio, e dicesi eterna , appunto perchè appartiene all' esemplare [...OMISSIS...] ma dicesi nello stesso tempo mobile, [...OMISSIS...] , e progrediente secondo il numero, [...OMISSIS...] , perchè rappresenta la mutabilità e quasi scorrevolezza del mondo reale. Dove apparisce in che modo Platone dica ora immobili , ed ora mobili certi intelligibili: sono immobili in se stessi, ma nel loro seno hanno la mobilità esemplare della mobilità reale, copia di quella (3). Distingue dunque Platone anche qui quelle due specie d' intelligibili di cui abbiamo parlato di sopra: 1 il primo intelligibile, che è Dio, e tutto ciò, che in proprio appartiene a Dio; 2 il secondo intelligibile che è l' esemplare del mondo. Il mondo è l' imitazione di questo esemplare, come l' esemplare è l' imitazione o la similitudine di Dio, la più fedele, che fosse possibile, data la condizione che dovesse esser creato. Questa condizione importava che il mondo non potesse esser necessario, nè eterno, nè immutabile, ma volendo tuttavia Iddio renderlo simile per quanto esser potesse alla propria eternità e consistenza, gli diede la durata del tempo. Pose dunque nell' esemplare la contingenza, il numero, la successione, la mutabilità, ma tutte queste cose ve le pose in un modo eterno: di maniera che l' esemplare non fosse il subietto della mutazione, ma il disegno e il decreto di tutto ciò che dovea esser nel mondo, vero subietto di tali vicissitudini. La natura di Dio dunque nulla avendo di tali cose, non potea nè pure prestare di tali cose l' esempio, e però convenne che il pensiero divino imaginasse un esemplare a posta a cui similitudine creare il mondo, che a lui somigliasse, di maniera che non gli somigliava pienamente, ma quant' era possibile che gli somigliasse l' esemplare. L' esemplare dunque sebbene eterno in se stesso, perchè ab aeterno da Dio pensato, riceve dall' atto della divina volontà, che si determina a creare, una condizione che lo limita, e una natura relativa al creabile, oggetto di quell' atto di volontà; di che apparisce che l' esemplare e il mondo, appunto per questa natura relativa, si chiamano e sintesizzano, ma quello è subiettivamente immutabile, avendo solo in se la mutazione obiettiva (e tutto ciò che è obiettivo è immutabile), questo è subiettivamente mutabile, realizzando in sè quella obiettiva mutazione. A Dio dunque, dice Platone, e all' esemplare, come oggetto, non ispetta il fu, o il sarà, ma solamente l' E`. [...OMISSIS...] . Descritta così la formazione dell' anima e del corpo mondiale, narra la formazione delle specie d' animali minori, le quali sono tante quante ne vede Iddio nell' idea d' animale (2), e tutte comprese nell' esemplare del mondo, poichè non sarebbe perfetto se alcuna ne mancasse. E però ci doveva essere anche la generazione degli animali mortali, i quali non potevano essere formati immediatamente da Dio, perocchè in tal caso sarebbero stati immortalati anch' essi (3). Ma di quello tra tutti questi animali, al quale conviene in comune cogli immortali l' appellazione di divino (4), Iddio stesso somministrò il seme ed il cominciamento [...OMISSIS...] formando, delle reliquie di quella stessa sostanza, di cui aveva elaborata l' anima del mondo, un certo numero d' altre anime che distribuì ai grandi e per divina virtù immortali animali, cioè agli astri, un' anima seminale per ciascuno di essi, lasciando a cotesti divini il carico di generare con questo seme di divina provenienza gli animali razionali, formando i loro corpi, e alimentandoli; e quando si consumassero, ricevendo di novo in sè la materia (1). Poichè le anime per una certa necessità, e non per colpe precedenti devono essere copulate ai corpi (2). Non appartiene allo scopo del nostro discorso esporre qui più ampiamente per quali ragioni Platone volle distribuite da Dio le anime seminali ai corpi celesti, l' affinità o convenienza di ciascuna a ciascuno de' detti corpi, nè ci giova entrare a discutere se e come Platone ammettesse i pianeticoli. Allo scopo del nostro discorso basta d' indicare che il nostro filosofo seco stesso faceva ragione, che Iddio, creato il mondo, avesse in esso collocato la virtù generativa; per modo che l' astro avendo una soprabbondanza di vita, cioè non solo la vita mondiale sua propria, ma l' anima seminale che il rende atto alla generazione, nè mancandogli la corporea materia dalla sua anima e mente e virtù generativa dominata, abbia forniti e organizzati di sè gli animali, e tra essi l' uomo ragionevole da Platone chiamato «theosebestaton» (3), il quale poi, come pure gli altri, per una sua propria generazione, atteso il continuo aiuto della natura mondiale, si moltiplica (4). L' anima dunque dell' uomo, formata colla stessa sostanza dell' anima del mondo, e quindi de' tre elementi del medesimo , del diverso e della sostanza media, e ordinata colle stesse proporzioni armoniche (5), ha in sè medesima di continuo il doppio movimento ciclico del medesimo e del diverso che si fa senza strepito e suono, [...OMISSIS...] , ed è l' azione dell' interna sua vita di sentimento e d' intelligenza [...OMISSIS...] . Nè quest' intelligenza è priva di idee, poichè ancor prima che per la virtù organizzatrice degli astri a cui appartengono le anime seminali, queste ricevessero i loro corpi speciali e si moltiplicassero, Iddio mostrò ad esse anime seminali « « la natura dell' universo e le leggi fatali » », [...OMISSIS...] (2), e in queste l' equità con cui furono a principio create tutte allo stesso modo, rimanendo a ciascuna affidata la futura sua sorte, e come di esse si sarebbe formato quell' animale umano di tutti religiosissimo. Ma quando l' astro, poniamo la terra, mette in movimento una moltitudine di particelle di fuoco e d' aria e d' acqua e di terra per provvedere all' anima seminale dei corpi, allora quelle particelle rapite in turbine con movimenti molteplici per apprendersi ed accozzarsi assaliscono in folla ed in tumulto l' anima; di maniera che dalle percosse disordinate di questo fiume d' atomi rimangono in essa impediti e sconcertati nel loro corso i due circuiti del medesimo e del diverso , che costituiscono la sua vita sapiente, ed essa rimane allora del tutto stupida e smemorata, ond' è che l' uomo nasce in apparenza così ignorante. Poichè il circuito della natura del medesimo sopraffatto da un tal fiume entrante ed uscente di continuo dal corpo che si organizza, viene impedito e sospeso, l' altro poi del diverso perde la sua armonia, e quantunque nè l' uno nè l' altro possano esser distrutti perchè posti da Dio, tuttavia contrastati, l' uno s' arresta, l' altro, quello del sentimento, va come senza ragione, [...OMISSIS...] (3), finchè non si rimettano nel pristino stato. Così le cose tutte finite e nella loro materia e nella loro forma si creano; e non solo la forma dà il suo finimento [...OMISSIS...] ai singoli enti, ma dà un altro finimento alle cose tutte insieme, cioè un ordine sapiente, [...OMISSIS...] . Conviene dunque distinguere tre cose, secondo Platone, le idee eternamente da Dio pensate, intelligibili, le anime spirituali ed insensibili composte de' tre elementi, del medesimo , del diverso e della sostanza media, e finalmente i sensibili , i quali nascono quando le anime s' uniscono ai corpi e acquistano i sensorŒ, nascimento che in più luoghi descrive Platone (5). E` dunque singolare a vedere come Aristotele quando si fa a combattere le idee di Platone, non riferisce mai ad esse altro che i sensibili, tacendosi interamente dell' anima nel cui seno sono creati i corpi, onde dalla congiunzione di essa con questi poscia i sensi ed i sensibili fenomeni traggono l' origine. E qui conviene osservare come il diverso , secondo la mente di Platone, sia un genere più esteso di quello de' sensibili, perchè vien posto da Dio nell' anima avanti della produzione di questi. Vi ha dunque nell' anima qualche cosa di mutabile e molteplice che non è il sensibile corporeo; ma la materia appunto del diverso , che è nella natura dell' anima, riceve la sua continua rimutabilità, cioè la rimutabilità della sua forma, che esce dalla materia e vi entra di continuo, come dice Platone in altro luogo. Il che si intenderà facilmente, se si considererà la materia corporea tutta per la sua stessa essenza esser dentro all' anima contenuta (dove Iddio l' ha creata, inseparabile da questa, e però da questa ricevente l' unità, senza la quale dissipandosi s' annullerebbe, cioè diverrebbe un essere assurdo), e altresì dall' anima pienamente dominata. La ragione dunque, per la quale le diverse particelle di materia hanno di necessità un' estensione, si è perchè dall' anima la ricevono; ogni estensione essendo nell' anima, e non potendo esistere, fuori del semplice ed uno, estensione alcuna, di sua natura continua e non moltiplice, chè il continuo e il moltiplice involgono contraddizione. Ora, come la estensione, che è nell' anima, è quella stessa in cui è diffusa la materia e la forza corporea (1) ai cui elementi però è determinata dal Creatore la quantità e la figura: così anche l' anima dominando e movendo questa materia e questa forza corporea secondo i suoi proprŒ istinti, le dà, secondo Platone, quella configurazione che mostra d' avere, sia come corpo dell' animale massimo, che è l' universo, e degli animali maggiori in esso contenuti, che sono gli astri: sia altresì come corpo degli animali minori, e in tutte le generazioni di cose; e produce tutti i grandi e i minimi movimenti, fino a quelli delle coesioni e delle chimiche affinità. Così la materia riceve dall' anima non già propriamente la forma ideale, che non può essere un abito della materia, ma una copia e un' imitazione apparente ai sensi di quella forma ideale. E che le forme e la distribuzione dalla materia corporea e sensibile siano una copia, imitazione e partecipazione dell' idee ad esse relative, vedesi da questo che le forme s' intendono nelle idee, quando sono nel senso ricevute, e nelle idee si vede il loro essere eterno; ma nei corpi, all' incontro, essendo forme periture, non si vedono eterne, e però non sono l' essere immutabile, ma una sensibile espressione e rappresentazione dell' essere immutabile. E poichè quando le sensibili forme son vedute e così intellettivamente apprese nell' idea, nell' anima nostra intellettiva si fa una cotale soprapposizione e immedesimazione della copia sensibile coll' originale intelligibile: perciò anche le forme sensibili si dicono giustamente partecipare le idee nella mente nostra, e nell' atto della nostra percezione intellettiva di esse, e nella memoria, secondo la quale ne' discorsi intorno a tali cose ci esprimiamo. Le forme adunque e la distribuzione delle cose sensibili, essendo determinate dall' anima secondo le ragioni armoniche della sua interna costituzione, e l' anima essendo con una così perfetta sapienza ordinata da Dio secondo l' eterno esemplare, procede che noi dai sensibili andiamo alla cognizione dell' anima, e da questa all' esemplare, e da questo alla mente eterna, e da questa al Bene, cioè a Dio, e che affermiamo « « ch' ei v' abbia molto infinito nell' universo e fine sufficiente; ed una non ispregevole causa, ad essi soprastante, ordinatrice e temperatrice degli anni, delle stagioni e de' mesi, la quale a troppo buon diritto sapienza ed intelletto potrebbesi addimandare (1) » ». Le idee dunque sono partecipate in un modo dall' anima, e in un altro dai corporei sensibili, ed è per questo che da Platone, come dicemmo, sono assomigliate ad un giogo imposto da Dio all' anima ed alle cose, dal quale, insieme connesse, insieme comunicano. Ma all' anima, come a me pare, specialmente si dee riferire la presenza delle idee, «parusia», ai corporei sensibili la comunione , «koinonia» 2). Giacchè i sensibili colle loro forme imitano, come dicevamo, le idee loro corrispondenti, e le loro imagini nell' anima nostra colle idee, quasi direi, combaciandosi, diventano con esse una cosa, rispetto all' atto del nostro vedere, cioè un solo oggetto della nostra percezione (3). L' anima poi, avendole presenti senza che con esse si confonda, le intuisce. Ma poichè di certe idee, come di quelle della bellezza e della giustizia, essa sola partecipa in modo che in sè le realizza, perciò Platone esprime l' unione di tali idee coll' anima non solo col vocabolo di presenza , ma ancora con quello di abito , come nel Sofista, ove dice che l' anima diventa giusta e sapiente per la presenza e per l' abito di tali idee, [...OMISSIS...] (4). Pure la giustizia e la sapienza e simili entità come abito , sono accidentali all' anima, e quindi nasce la questione se la giustizia e la bellezza, come abito dell' anima, siano una similitudine e copia della giustizia e della bellezza, come le forme de' sensibili sono una copia di ciò che è nelle idee. La qual questione non oserei dire che si sia presentata chiaramente ed esplicitamente alla mente di Platone: ma dicendo che sono di quelle cose che possono essere presenti od assenti (1) all' anima, non c' impedisce di credere che la stessa essenza della giustizia possa divenire un abito dell' anima, non potendo la giustizia essere imitata senza che sia distrutta, giacchè l' imitazione della giustizia, se non è giustizia, non può essere che una simulazione di giustizia e però tutt' altro che giustizia. Le idee dunque, secondo Platone, non possono essere ricevute dalle cose inanimate e sensibili, perchè la loro essenza è di essere intelligibili . Non essendo dunque intese, non sono per sè stesse ricevute da' corpi, ma questi partecipano solo di alcune loro similitudini . Similitudini poi si dicono, perchè, ove per mezzo del senso sieno date all' anima, essa vede le immagini sensibili nelle idee corrispondenti; quelle dunque conducono l' anima a queste, e però si dicono similitudini di queste. E così l' anima è descritta da Platone come la mediatrice e il vincolo del mondo sensibile coll' intelligibile, con quello comunicando per mezzo del suo elemento del diverso , e con questo mezzo del suo elemento del medesimo . E quindi nel « Sofista » dice che [...OMISSIS...] (2). Ma secondo Platone questa comunicazione dell' anima intellettiva coll' essenza involge un' azione reciproca, perchè dice che il conoscere , che appartiene all' anima, è agire, e l' essere conosciuto , che appartiene all' essenza, è patire (3). E che conoscere sia agire, non ci può esser dubbio; ma noi neghiamo che all' agire corrisponda sempre il patire (4). Ma il patire che adopera qui Platone deve intendersi piuttosto del copulativo esser avuto (5), perchè sarebbe contrario a tutta la dottrina di Platone che l' essenza sofferisse qualche vera modificazione dall' anima, quand' ella è anzi «aei kata tauta hosautos»; quella che si modifica è l' anima, ricevendo l' atto del conoscere e una luce che diventa anche subiettiva per l' appropriazione naturale dell' intelligibile essenza, luce resa così indivisibile dall' anima stessa. Si consideri che, sotto la parola conoscere Platone comprende non meno il conoscere speculativo che il pratico , onde la virtù stessa è concepita da Platone come una scienza . Quindi il praticare, a ragion d' esempio, la giustizia, non è che un conoscere la giustizia, appropriarsi questa idea , che diviene così abito dell' anima e parte della sua propria natura. Conoscendo dunque l' anima le idee, parte in modo speculativo e parte in modo pratico, s' intende come il medesimo , che abbraccia appunto le idee, sia posto da Platone come elemento mesciuto e rimestato da Dio nella sostanza dell' anima. Onde nel Fedone dice che all' anima appartiene quell' essenza che si denomina « « ciò che è »(1) », il che è quanto dire l' essere che sta nell' idee. E questo è il germe dell' immortalità dell' anima. Laonde nel Fedone il nostro filosofo è tutto intento a dimostrare questo: che le cose sensibili e corporee non hanno alcuna stabilità, alcun vero essere, che il vero essere è sempre il medesimo, ma che col raziocinio all' anima si manifesta qualche cosa di ciò che veramente è, e perciò non può perire. Più dunque le riesce di sottrarsi alle illusioni e distrazioni sensibili, e di raccogliersi in se stessa, lasciato il corpo, più altresì ella comunica coll' ente, e quasi con mano l' apprende [...OMISSIS...] ; onde quando poi ella del tutto priva del peso corporeo sarà con ciò che mai non muore, si troverà continua, ricevendo dalla intima e non più impedita sua unione con quella eterna natura, la perenne immortale e stabile vita. E questo astrarsi dell' anima dal sensibile e vivere d' intelletto, dice Platone, che è uno stare con sè stessa [...OMISSIS...] , un raccogliersi in sè stessa [...OMISSIS...] , appunto perchè egli considera le idee così unite all' anima, che ne informino la natura. Onde distingue il considerare che fa l' anima gli esistenti per mezzo del corpo [...OMISSIS...] , dal considerarli per sè stessa [...OMISSIS...] , recandole il primo modo inscizia, e scienza il secondo. Onde la filosofia insegna all' anima « « di non creder nulla fuorchè a sè medesima, in quant' ella per sè stessa intende ciascuna di quelle cose che sono per se stesse »(1) », il che è quanto dire che le essenze devono essere conosciute immediatamente dall' anima e non per alcuna effigie o copia che gliele presenti. A malgrado di questo, non confonde Platone l' anima intellettiva coll' idee, onde si contenta di dire che ad essa è simile ciò che è divino, immortale, sapiente, cioè l' idee; [...OMISSIS...] ; e che l' anima virtuosa, la quale in questa vita si divide colla contemplazione e coll' amore dell' eterno dal corporeo, e segue la ragione e quel vero e divino, superiore all' opinione che in essa si trova, quando lascia per la morte il corpo, spera di migrare in quello a sè cognato [...OMISSIS...] ; laddove all' opposto quell' anima che parte da questa vita infetta del sudiciume corporeo, ricade in un altro corpo, acciocchè, quasi ivi seminata, rinasca, e rimane priva del consorzio della divina, pura e uniforme essenza: Accenna poi che Iddio pose gli astri, animali divini, col corpo di puro fuoco nella sapienza del potentissimo, cioè del medesimo (5): laddove dice che all' anime seminali « « mostrò la natura dell' universo e insegnò loro le leggi fatali »(6) »; di che si può dedurre, che la scienza innata, da Platone conceduta all' anime umane, sia la cognizione dell' esemplare del mondo o d' alcuna parte di esso. Non diede dunque Iddio, secondo Platone, a queste anime la visione di sè stesso, causa dell' esemplare; ma l' esemplare imitandolo imperfettamente, per questi vestigi sono condotte sempre con un' inclinazione veementissima al Bene stesso, che è appunto la causa delle idee che compongono l' esemplare, e quella che in sè contemplandole, le contiene e le rende vive ed efficaci creatrici del mondo. Così spiega Platone il tendere di tutti gli esseri umani al Bene, come una tendenza a Dio, oscuramente e quasi per enimma conosciuto, e pur incessantemente desiderato. [...OMISSIS...] . Quella insufficienza con cui l' uomo conosce il Bene, quell' augurarsi che sia veramente qualche cosa e pur dubitarne, quel tendere tuttavia in questo oggetto, così oscuramente e incertamente conosciuto, con tutta l' anima, con tutti gli atti della vita [...OMISSIS...] , questo facile ingannarsi del giudicare intorno all' utilità dell' altre cose, benchè più conosciute, a cagione della insufficiente cognizione che s' ha del Bene, essendo la misura e la norma secondo la quale devonsi giudicare, sono tratti sublimi d' una mente straordinaria. E quantunque l' idea del Bene rimanga così all' umana mente involta in una certa misteriosa caligine, pure a preferenza d' ogni altra si dee pregiare e cercare siccome la massima delle discipline [...OMISSIS...] . Niun' altra cognizione giova senz' essa, come niente pur vale il possedere tutte l' altre cose senza il Bene (2). E Platone parla di quel puro e perfetto Bene, che dee essere misura di tutti i beni e le cose, di cui si pervertirebbe il concetto se d' alcuna sua minima parte si diminuisse, poichè « « di niuna cosa può esser misura ciò che è imperfetto »(3) ». Ma per quali vie può dunque l' uomo pervenire a quella, se non compiuta (mentre si trova in questa vita e circondato da questo corpo) almeno sufficiente notizia del Bene a cui aspira? Partendo dai più eccellenti intelligibili dati all' anima umana, dall' idee più eccellenti di cui ella sia stata fatta partecipe. Noi dicemmo che l' oggetto proposto da Dio all' intuizione naturale dell' anima non è, secondo Platone, Dio stesso, ma il divino esemplare del mondo, che alcun' anima intuisce più perfettamente, alcun' altra meno. Da questa intuizione naturale l' anima per mezzo del raziocinio può innalzarsi ad una sufficiente cognizione del Bene, che è la causa del mondo, Iddio, atteso che in quest' esemplare ci sono i vestigi del divino suo autore ed è con esso intimamente connesso come effetto ottimo, per quanto può essere, d' una causa assolutamente ottima. Ma a tanto non perviene se non con vari passi del raziocinio, i quali addimandano quel continuo esercizio di meditazione e continuo sforzo della mente per astrarsi dal corporeo ed ascendere all' invisibile e all' ottimo, a cui Platone riserva il nome di filosofia. Primieramente conviene ben distinguere quattro gradi di cognizione, due appartenenti all' ordine delle cose visibili, e due a quello delle cose invisibili. Perchè le cose visibili si dividono in due classi: 1 le imagini; 2 le cose reali di natura o d' arte (4). Di qui due affezioni dell' animo [...OMISSIS...] , cioè l' affigurazione , «eikasia», che si riferisce all' imagini visibili delle cose, come quelle che si vedono riflettute da uno specchio d' acqua o nell' ombre, e la persuasione , «pistis», che si riferisce ai reali stessi corporei, e dicesi da Platone fede o persuasione, poichè intorno ad essi noi prestiamo fede alle passioni de' nostri sensorŒ e ce ne persuadiamo senz' altra ragione. Le cose invisibili ed incorporee del pari si dividono in due classi: 1 le cose conosciute mediante un raziocinio che parte da altre cose conosciute, come da supposizioni ammesse gratuitamente per vere, senza ascendere colla mente al primo principio ed evidente della cognizione; 2 il principio stesso conosciuto mediante un raziocinio che movendo da supposizioni, non ammette queste per vere, ma da queste ascende a trovare il principio evidente, dal quale poi, discendendo, si conoscono poi indubitatamente per vere le cose dedotte. L' affezione che nell' anima corrisponde al primo di questi due generi è chiamata da Platone cogitazione , «dianoia», quella che corrisponde al secondo è chiamata mente o intelligenza , «noesis» (1). Tutte queste quattro affezioni e funzioni dell' anima suppongono l' intuizione dell' essere. Quando conosciamo la cosa sensibile per mezzo di qualche suo ritratto esterno, come, per servirci dell' esempio che usa Platone stesso nel X della « Politeia », d' una dipintura, allora noi abbiamo prima la percezione sensibile di quella imagine, poi la percezione intellettiva ; da questa, l' idea della dipintura, e da quest' idea passiamo all' idea della cosa reale: tutte queste operazioni e l' affezione dell' animo conseguente sono comprese da Platone sotto la parola «eikasia». Quando conosciamo la cosa sensibile per se stessa, dopo la percezione sensitiva e la percezione intellettiva e l' idea della cosa , noi prestiamo fede alla sua esistenza, e tutte queste operazioni e la fede o persuasione conseguente sono comprese sotto la parola «pistis». Fin qui non c' è ancora il raziocinio, ma solo la percezione intellettiva sia del ritratto sensibile della cosa sensibile, che dicemmo l' affigurazione , sia della cosa stessa, e la conseguente persuasione o fede. Nel primo caso la notizia della cosa è più imperfetta perchè si fonda sulla percezione del ritratto; nel secondo è meno imperfetta, perchè si fonda sulla percezione della cosa: ma l' uno e l' altro fondamento non eccede l' ordine sensibile. Il raziocinio invece di cominciare dalla percezione sensitiva arrivando fino all' affigurazione e alla persuasione , parte dalla idea pura , e qui comincia il raziocinio, e percorre pure due stadii. Poichè primieramente l' idea da cui parte, suol esser cavata dalle percezioni precedenti, e però il primo stadio di questo nuovo lavoro s' incatena co' precedenti e anche fa uso de' sensibili, non come fondamento al raziocinio, ma come fanno i matematici, che in aiuto della mente tengono sott' occhio de' triangoli ed altre guise di figure sensibili, benchè ad esse non dirigano il pensiero, ma al triangolo stesso e all' altre figure ideali, delle quali le sensibili sono imperfetti simulacri. In questo stadio adunque il raziocinio partendo da tali notizie e supponendole vere, ne trae le conseguenze come appunto fa il matematico che suppone il pari e il dispari e le figure e le tre specie d' angoli ed altre cose simili, di cui, supponendo tali cose note a tutti, non domanda altre ragioni, ma da esse discende a cercar altre cose, quelle che vuol rinvenire; e questo è quel primo stadio del raziocinio che Platone chiama «dianoia». Alla formazione di questa specie d' intelligibile [...OMISSIS...] , secondo Platone « « l' anima è costretta a far uso di supposti [...OMISSIS...] non rivolgendosi verso il principio [...OMISSIS...] , perchè non può ascendere più su dei supposti » » e questo si fa nella geometria e nelle altre arti affini [...OMISSIS...] . Ma la Filosofia sta più su e ad essa appartiene l' altra divisione d' intelligibile [...OMISSIS...] . Questa porzione o specie d' intelligibili sono le ragioni ultime, e la ricerca di queste è così descritta da Platone: [...OMISSIS...] . Così distingue Platone la filosofia da tutte le scienze e le arti, avendo queste de' principŒ supposti , la sola filosofia il principio non supposto, evidente per sè, necessario, [...OMISSIS...] . Platone, con tutto il meglio dell' antichità, s' affida sempre al raziocinio, e distribuisce sempre il sapere umano entro l' ordine della riflessione : manca del tutto nell' antichità la teoria dell' intuizione primitiva, non riflessa e inconsapevole. In luogo di questa, di cui pure sentiva il bisogno, Platone introdusse a colmar la lacuna, il tipo ingegnoso della riminiscenza . Questa però non s' operava per via d' un semplice ricordarsi, ma imperfettamente per mezzo della percezione, perfettamente per mezzo del raziocinio riflesso . A questo dunque Platone assegna due gradi: l' uno, quello delle matematiche e dell' altre scienze, che non ascendono al sommo ed evidente principio; l' altro, quello della filosofia che vi ascende. La distinzione di questi due gradi ha per fondamento la distinzione tra due classi d' idee, ossia d' intelligibili, l' una più eccellente dell' altra. La classe inferiore delle idee è di quelle che si riferiscono immediatamente al mondo sensibile , e che l' uomo ha mediante la percezione ( specie piene, specie astratte ). L' acquisto di queste idee non importa ancora il raziocinare, ma l' affigurazione e la persuasione. Da queste idee inferiori prossime ai sensibili, di cui sono l' intelligibilità, move il raziocinio per due vie a diverso intento. Poichè o si parte da esse per arrivare ad altre idee parimenti inferiori, per arrivare alle idee ultime: queste sono le idee superiori . Come le idee inferiori sono quelle che manifestano il mondo sensibile e corporeo, così l' idee superiori sono quelle che manifestano il principio dell' universo, e le cose tutte che ad esso sono inerenti, e che l' anima, per questa via d' alto raziocinio, può arrivare, in qualche modo, a toccare: [...OMISSIS...] . Queste idee o intelligibili superiori sono lontanissimi da ogni sensibile, e la mente va ad esse senza fare alcun uso del sensibile, [...OMISSIS...] , laddove il sensibile avea luogo nell' ordine delle percezioni, ed anche nel primo grado del raziocinio, servendo i sensibili come di simulacri a quelle idee a cui la mente si rivolge, atteso che queste idee ai sensibili appunto si riferiscono, come accade a' matematici. Le idee superiori dunque sono quelle che manifestano nature spirituali e doti e qualità di queste, e che perciò non si riferiscono punto ai corpi. Vediamo quali queste sieno, e come la mente giunga per esse al principio dell' universo, procedendo sempre nei campi del mondo puro, scevra d' ogni concrezione sensibile, d' idea in idea; [...OMISSIS...] . Sono indubitatamente tali idee quelle del giusto , dell' onesto , del sapiente e simiglianti, le quali tutte insieme s' unificano in un modo occulto nell' essenza divina, ossia nel principio del tutto e non possono esser partecipate da alcun corporeo e sensibile, ma solo dall' anima per l' intelligenza. Da queste idee dunque vuole Platone, che il filosofo dialettizzando pervenga a quella qualunque notizia che l' uomo può acquistarsi della divinità. Poichè il lume pel quale l' anima intuisce quelle idee e per esse è scorta alla cognizione di Dio, è ciò appunto che Platone chiama il Figliuolo del Bene, come chiama Iddio il Bene, cosa più augusta di quelle singole idee e del lume stesso che all' uomo le dimostra. Descrive dunque il filosofo come colui che [...OMISSIS...] . Dove Platone distingue il divino , «to theion», da Dio, attribuendo la qualità di divino alle idee veramente essenti, «alethos onta», e massimamente ad alcune più eccellenti ordinate con ordine immutabile, [...OMISSIS...] , le quali sono indubitatamente quelle della giustizia, della virtù, della sapienza e simiglianti, poichè a queste conviene, a preferenza dell' altre, l' essere tutte ornate e secondo ragione, [...OMISSIS...] , essendo il raziocinio [...OMISSIS...] , quello che ritrova il giusto e l' onesto e altre tali idee. In secondo luogo poi attribuisce Platone l' attributo divino a tutti quegli enti che partecipano di tali idee contemplandole ed imitandole, cioè all' anima del mondo, poi agli astri che ne sono avvivati, finalmente al filosofo che mettendo tutta la sua mente e il suo cuore in esse, si rende ad esse simile. Poichè secondo Platone è la contemplazione pratica della giustizia, dell' onestà, della virtù e di somiglianti essenze, la causa per la quale l' uomo si rende giusto, onesto, virtuoso e in ogni maniera ornato: come noi pure abbiamo affermato, che il principio della morale non si può trovare altrove che in un primo atto volontario d' intendimento, pel quale l' uomo aderisce col suo principio, e con tutto se stesso alla verità delle cose, e che abbiamo chiamato ricognizione dell' essere (3). Questa è dunque la maniera nella quale Platone insegna che l' uomo imita tali essenze: la contemplazione di esse incessante, ma affettuosa, pratica, assoluta; [...OMISSIS...] . E perciò appunto che Platone vuole che il fine della filosofia sia pratico ed effettivo, e non di astratta speculazione, dà per ultima e suprema essenza, non questa del nudo essere ma quella del Bene; poichè quella del puro e indeterminato essere non presta che il principio della filosofia, ma l' essenza del Bene ne è lo stesso termine e finimento. Onde s' affatica Platone a rimovere la falsa opinione che la filosofia sia una speculazione sterile, e a dimostrare che il vero filosofo, posto al reggimento della cosa pubblica, è il solo atto, non pure a informare alla virtù sè stesso, ma anche tutto il popolo (1). Dal quale prima rimove gli impedimenti, come il pittore che ripulisce prima la tavola su cui deve dipingere, e poi lo istituisce alle virtù per modo che lo conduce fino a Dio, rendendolo teofilo. [...OMISSIS...] . Così dalla contemplazione e dall' amore di quelle supreme idee del giusto, dell' onesto, del prudente e simili, l' uomo va, secondo Platone, alla cognizione, alla contemplazione, all' amore di Dio stesso. Pure Iddio è tal cosa che sta ancora più su di quelle singole essenze (3). Avendo distinte tre specie d' anima (4), in rapporto a quel che è giusto per natura, quel che è per natura bello e onesto, quel che è per natura saggio e temperato [...OMISSIS...] (5), Platone mostra che l' idea del Bene è superiore a tali eccellentissime essenze. Poichè dice, che « « la giustizia stessa e l' altre cose tutte devono avvalersi dell' idea del Bene, affine di rendersi utili e convenevoli »(6) »: di maniera che l' idea del Bene è la stessa regola suprema e la misura della giustizia e dell' altre essenze tutte, di quella dell' onesto, del temperato, del sapiente, dell' utile; le quali perciò da quella dipendono e ne ricevono la legge e l' ordine, e tutto ciò che hanno di bene. Dimostra lo stesso contro coloro che riponendo il Bene nella sapienza [...OMISSIS...] fanno di quelle due cose una sola. Poichè acutissimamente dice che se costoro s' interrogano di qual sapienza parlino, qual oggetto le assegnino, sono costretti in ultimo di rispondere, che intendono « « della sapienza del Bene » ». In tal modo ricorrono al Bene per determinare quella sapienza nella quale dicevano di riporre il Bene. Suppongono dunque di conoscere il Bene prima della sapienza, e per mezzo di quello definiscono questa, non viceversa (1). Dall' idea dunque del Bene anche la sapienza procede, e egli n' è la ragione, onde senza la cognizione del Bene non giova, o piuttosto non esiste, nè la cognizione della giustizia, nè d' altra cosa, quantunque eccellente ella sia (2). Con un altro carattere nobilissimo distingue Platone il Bene da tutte le altre cose più eccellenti, ed è che il Bene è sempre amato per se stesso, onde non è possibile che nessuno intorno a lui voglia ingannarsi: [...OMISSIS...] . L' essenza del Bene, dunque, è l' altissimo Iddio superiore a tutte le cose più eccellenti e causa di tutte. Ma qual è l' essenza più vicina a lui? Quella che Platone chiama il Figliuolo del Bene che è la luce , per la quale l' umano intendimento conosce tutte queste cose; ed è d' idea in idea diretto ad argomentare qualche cosa al di là di tutte le idee, la prima ed ottima causa, in una parola, il Bene stesso, che perciò non è immediatamente intelligibile, ma dal lume e col lume suo figliuolo s' argomenta: poichè col lume s' ha il vedere, e col vedere si vede il lume e nel lume come nell' effetto si vede la causa, [...OMISSIS...] . Come tra tutti gli organi sensori la vista è quella che è sommamente partecipe del sole e del lume, così tra tutte le facoltà umane quella che riceve più il lume intelligibile è la mente «nus» (4), che intuisce le idee e il loro ordine. Ora che cosa è questo lume delle menti, effetto, ossia prole del Bene, che per mezzo di questo lume, ascendendo dall' effetto alla causa, si conosce? Platone risponde la verità e l' ente , [...OMISSIS...] (1). Il che noi abbiamo ripetuto nell' ideologia. E la verità e l' ente è il medesimo lume, che considerato in relazione alla mente dicesi verità, considerato in relazione all' oggetto stesso, dicesi ente. Il Bene, adunque è al di là del lume della mente umana, essendone la causa. [...OMISSIS...] . Il figliuolo del Buono, adunque, da Platone è chiamato ente, verità, cognizione, scienza , vocaboli che significano sempre il lume e la forma oggettiva della natura umana. Poichè l' ente [...OMISSIS...] o, come altrove lo chiama, l' essenza semplicemente detta, è la prima specie che illumina la mente umana; la verità [...OMISSIS...] è lo stesso ente, in quanto è esemplare delle cose reali e definite e queste lo imitano e così partecipandone diventano vere; la cognizione [...OMISSIS...] è l' effetto che consegue nell' anima che ha presente l' essere o la verità; la scienza [...OMISSIS...] è la cognizione più ferma ridotta alle ragioni ultime (3). Il Bene dunque è il sovraintelligibile per Platone, perchè sta più su dell' ente indeterminato e comune, più su della verità, più su della cognizione e della stessa scienza; pure se ne può avere una cognizione per analogia , perchè queste cose tutte date alla mente umana sono boniformi , ed hanno un' analogia ed un' intima relazione colla sua causa, il Bene essenziale, Iddio; e nell' uomo stesso che le partecipa colla mente e che, conformandosi ad esse con tutto sè, si rende giusto, onesto e temperato, rimane come dipinta e formata una certa imagine di Dio [...OMISSIS...] (1). Questa certa cognizione poi, quantunque analogica, negativa e raziocinativa, del Bene, è tuttavia così preziosa e importante, « « la massima disciplina o istituzione » » che possa avere l' uomo [...OMISSIS...] (2): poichè da questa notizia del Bene, come da regola suprema, si può giudicare del giusto e dell' onesto e d' ogni altra cosa pregevole. Il Bene poi non è solamente causa del suo Figliuolo, la luce delle menti umane, ma, senza cessar d' esser luce inaccessibile in sè stesso, è causa effettrice di tutte le cose, ond' anche per questo Platone lo rassomiglia al sole: [...OMISSIS...] . Dove parla manifestamente dell' essenza delle cose finite, di quelle essenze che tutte unite insieme costituiscono, come vedemmo, l' eterno esemplare del mondo, del quale si dice Iddio più antico (perchè da Dio, sebben ab aeterno , fu formato), e perciò stesso più potente [...OMISSIS...] . All' essenza infatti di Dio, che è quella della bontà, Platone attribuisce nel Timeo la causa della creazione del mondo [...OMISSIS...] . Affine dunque di rendere il mondo similissimo a sè stesso, Iddio creò delle intelligenze, e in servigio e gloria di queste, altre cose sensibili da dominarsi, ordinarsi ed effigiarsi, per quanto esser potesse, alla stessa similitudine. Le intelligenze poi le creò a sua imagine e somiglianza, ponendo davanti ad esse le idee a contemplare. Ora contemplando in queste ed ascendendo la mente dalle une alle altre fino alle somme, fino a quella della stessa virtù, cioè a quello che è « « per sua natura giusto, per sua natura bello, per sua natura sapiente » » e da queste finalmente ascendendo col raziocinio dell' analogia alla cognizione della Causa, ossia del Bene stesso; se con tutti se stessi, con tutte le azioni gli uomini a questo ineriscano, di maniera che riescano i costumi informati dall' amor di Dio, [...OMISSIS...] : in essi finalmente s' impronta e rifulge una cotale specie e squisita dipintura della divinità. Tale è l' ideale dell' uomo appieno educato e istituito alla virtù; ciò che Platone chiama «andreikelon» (1). Nel Filebo dove Platone espone la stessa dottrina, accenna quanto la natura divina sia superiore alle idee che noi contempliamo e che costituiscono la nostra mente e la nostra sapienza. Vede infatti il Figliuolo della Causa suprema in queste, onde dice: [...OMISSIS...] . E poco appresso chiama la mente cognata alla Causa e quasi dello stesso genere: [...OMISSIS...] . Ma quanto la mente e la sapienza umana ossia il complesso delle idee accessibili all' uomo sia inferiore del Bene stesso, causa del tutto, lo dimostra in questo modo. Pone per caratteri del Bene primo che sia perfetto (4), quindi sufficiente a se stesso , [...OMISSIS...] . E questa sua piena perfezione e sufficienza è un carattere così proprio di lui, che per esso si distingue da tutti gli esistenti (5), niun altro di questi potendo essere a sè medesimo sufficiente. Un altro carattere nobilissimo del Bene è ch' egli non può essere da niuno conosciuto senza che ad un tempo sia ed amato e cercato, e così fattamente che niun' altra cosa si ama e si cerca, se non per lui (6). Dopo stabiliti questi distintivi del Bene, mostra che nè il piacere nè la sapienza umana sono in separato sufficienti a sè stessi. Poichè niuno vorrebbe godere tutti i piaceri del mondo senza avere alcuna conoscenza nè memoria de' medesimi, che non sarebbe la vita dell' uomo ma del polmone o spugna marina, o della conchiglia. Niuno del pari s' appagherebbe d' aver sapienza e mente e scienza e memoria di tutte le cose, privo di ogni qualsiasi godimento, benchè anche insensibile alla molestia (7). All' incontro tutti, senz' eccezione alcuna, eleggerebbero ugualmente la vita del piacere [...OMISSIS...] unita e mista colla vita della sapienza [...OMISSIS...] che Platone chiama anche indifferentemente la vita della mente [...OMISSIS...] (1). Così della sapienza e della mente dell' uomo, la quale essendo insufficiente non è lo stesso Bene. [...OMISSIS...] . Distingue dunque la mente divina dalla mente creata , quella perfetta e sufficiente a se stessa, questa imperfetta e insufficiente a rendere beato l' essere finito. Il che ha bisogno di qualche dichiarazione. L' ente creato (secondo Platone, che a servigio del suo pensiero trae i concetti e il linguaggio dei Pitagorici) tutto ciò insomma che è creato, è il composto [...OMISSIS...] di due elementi, l' indefinito [...OMISSIS...] e il fine o finiente [...OMISSIS...] . All' indefinito appartiene la materia corporea, al fine l' anima, e però d' anima e di corpo il mondo si compone (3), animale razionale, che contiene altri animali in se, gli astri e l' uomo. Essendo dunque due gli elementi accoppiati insieme, la felicità dell' essere finito non può consistere nella vita della sola mente che appartiene alla sola anima, ma deve concorrere a render pago un tale essere anche la vita del piacere che appartiene al misto in quanto è fornito di corpo. Ma come il misto risulta da due elementi bensì, ma armonicamente tuttavia uniti e compaginati, così il pieno bene dell' ente creato deve risultare da un' armonica unione e contemperamento delle due vite, cioè della sapienza e del piacere, e di questo contemperamento armonico lungamente e sapientemente ragiona nel « Filebo ». Questo dunque è il solo bene di cui noi uomini e ogni altro ente creato abbiamo esperienza, un bene misto di sapienza e di piacere. Ma sebbene non abbiamo esperienza d' altro bene, non possiamo noi formarci in qualche modo il concetto d' un bene ancor più perfetto? Sì, risponde Platone, ma non per alcuna positiva esperienza; bensì per via delle ragioni , cioè raziocinando da quel bene che sperimentiamo; e così per analogia arriviamo ad una cognizione ideale e negativa dell' essenza stessa del Bene, che è quanto dire di Dio, il Bene stesso, ed ecco come. Poichè l' ente creato è composto d' infinitezza e di fine , ma questi, congiunti armonicamente, e così pure il bene di quest' ente è un accozzamento armonico di sapienza e di piacere , è manifesto che ci deve essere una causa che abbia così opportunamente collegati que' due elementi, e fattane uscire una sola essenza (4). Questa causa è cosa anteriore all' effetto, cioè all' accoppiamento de' due elementi (1) e per natura di entrambi più eccellente. Essendo dunque quella che dà l' essere e l' essenza e il bene a tutte le altre cose, conviene che ella sia il Bene stesso ed assoluto (1). Così dal bene imperfetto e partecipato, che si percepisce nel mondo e più o meno si esperimenta, vuole Platone che la mente ragionando, per una certa scala d' idee, ascenda al Bene stesso impercettibile e al di là di questo universo. Il primo lavoro adunque è quello di formarsi un concetto del Bene, di cui è suscettibile quest' universo, nel modo più perfetto. Questo concetto che risulta dal più perfetto contemperamento della sapienza e del piacere, conduce la mente nostra all' esemplare del mondo in cui, essendo opera perfettissima, è disegnato quel Bene. Onde, dopo aver lungamente mostrato per quali vincoli opportuni il piacere dee collegarsi alla sapienza, acciocchè ne esca la miglior vita, Socrate nel « Filebo » soggiunge: [...OMISSIS...] . Ma dopo di tutto ciò rimane il secondo lavoro della mente raziocinatrice. Poichè rinvenuto « « l' ideale del bene mondiale » », questo, dice Platone, non è che come un atrio della casa del Bene stesso. [...OMISSIS...] . Dal bene creato dunque vuole che s' ascenda alla notizia del bene increato, dall' effetto alla causa che non si può esperimentare quaggiù, ma argomentare, ed ecco per qual via. Primieramente questa causa deve essere una Mente, essendo composto con tant' ordine, convenienza e perfezione il Mondo e commiste in esso con tant' arte le due vite della sapienza e del piacere. Distingue dunque due menti: quella partecipata dall' ente creato e quella che è per sè Mente. Chiama questa « «vera e divina Mente », [...OMISSIS...] (1), Mente regia, [...OMISSIS...] (2), e questa, dice egli, è la Causa certo non ispregevole che adorna e dispone, [...OMISSIS...] . Quest' intelligenza, causa del mondo, non è composta de' due elementi dell' infinitezza e del finiente , essendo essa anzi la Causa e l' accoppiatrice di essi. Non avendo in sè alcuna cosa che sia di natura sua indefinita, per questo stesso è immutabile . Poichè l' indefinito è quello che riceve il più e il meno, [...OMISSIS...] , e però che ha la natura del variabile. La variabilità, ossia l' ammettere più e meno, è il fonte, secondo Platone, delle imperfezioni a cui soggiacciono le nature finite e composte, ed essa stessa è il primo difetto e il genere de' difetti. La Mente causa dunque non ha difetto, e quindi ha le due qualità del Bene, la perfezione e la sufficienza . Il piacere e il dolore della vita animale nasce dall' elemento dell' infinitezza che è massimamente il corporeo, e perciò tali affezioni sconvengono del tutto alla Divinità: non possono dunque entrare nell' essenza del Bene, la quale non è, nè può essere come il Bene del mondo, composta d' indefinito e di definito: il che fa ben intendere che la vita della pura contemplazione sia in sè la divinissima, [...OMISSIS...] . Ma quantunque il Bene perciò stesso sia al tutto semplice, tuttavia noi dovendone raccogliere la cognizione per via di raziocinio induttivo e analogico dal bene partecipato del mondo, che è composto, non possiamo concepirlo mediante una sola idea (5). L' idea stessa dunque del Bene, cioè, ciò che è per sè il Bene quaggiù ci manca. Possiamo in quella vece esprimerlo con una cotal formola razionale composta e quasi organata di più idee: e sono quelle idee eminenti che si vedono nel mondo partecipate, ciascuna delle quali dà una tale essenza che dee essere necessariamente compresa in quella del Bene nè può essere altrove, benchè non sappiamo come si fondano in quell' unica somma ed a noi inescogitabile essenza. Si ferma Platone nel « Filebo » a tre di queste idee che ci servono a conoscere, come possiamo, il Bene stesso. [...OMISSIS...] . Trattasi qui di quella mistione da cui risulta il bene dell' animale intelligente (non essendo altro il creato che questo), il quale è misto di piacere, che si riferisce al corpo animato, e di sapienza, che si riferisce all' anima pura. Ora dice Platone che in questo stesso bene misto si scorge la partecipazione di quelle tre essenze, cioè della verità, della commisurazione e della bellezza; e per sì fatto modo che, tolte via queste, non resta più nello stesso animale, ossia nel creato, nulla che abbia ragione di Bene. La ragione dunque perchè l' ente creato animato è buono, ossia ha il bene, consiste unicamente nella partecipazione di quelle tre essenze. Se noi dunque prendiamo queste tre essenze e separandole colla mente da ogni altro elemento, le consideriamo come fuse in uno, [...OMISSIS...] (e in questa fusione e unificazione com' ella sia, sta il mistero impenetrabile alla mente umana, onde Platone dice l' idea del Bene appena visibile, [...OMISSIS...] ) (1), noi così ci formiamo la cognizione del Bene puro . Dimostra adunque prima che acciocchè il bene del creato sia bene, è necessaria la verità . E quanto al primo elemento di quel bene, cioè alla sapienza, è facile vederlo, non dandosi nè sapienza nè scienza senza la verità, ma questa è necessaria anche ai piaceri che sono il secondo elemento, chè se non sono veri piaceri nè pur sono piaceri. [...OMISSIS...] . E dimostra che ci sono de' piaceri veri e dei falsi: i primi ordinati e moderati che si possono di conseguente comporre e mescere colla sapienza; gli altri disordinati che non potendosi mescere con essa nè sono veri, nè possono convenire in quel misto nel quale sta il bene della creatura. E prende Socrate a interrogare la stessa sapienza e mente, se loro bisognino, per formare il compiuto bene dell' ente creato, oltre i veri piaceri, anche i più veementi e grandissimi; le quali rispondono: [...OMISSIS...] . Dimostra poi, e da questo stesso deduce, che al bene creato è necessaria in secondo luogo la commisurazione o simmetria, senza la quale non può riuscire la concorde e pacifica mistione dei due elementi [...OMISSIS...] . La misura dunque e il commisurato [...OMISSIS...] è la seconda idea che si scorge nel bene finito: il commisurato è lui stesso il bene finito ricevuto che abbia la misura, e la misura , che è quell' idea che noi caviamo per astrazione da questo commisurato, e che si deve attribuire in proprio alla causa, cioè al Bene puro ed essenziale, misura di tutti i beni, e perciò stesso da sè essenzialmente misurato, [...OMISSIS...] chè, come già disse nella « Politeia », [...OMISSIS...] . Quindi la terza idea partecipata dal Bene, quella della bellezza. [...OMISSIS...] . Il bene dunque nell' ente creato si mostra sotto tre aspetti, ora di verità, ora di misura e commisurato, ora di bellezza: e nessuna di queste tre idee può abbandonar l' altra, chè c' è tra esse un naturale sintesismo; nè tuttavia si possono da noi unificare come si converrebbe a comporre l' unica e semplicissima idea del Bene stesso assoluto. A queste tre idee si riducono quelle tre altre di cui fa uso nella « Politeia » di ciò che è giusto, bello, prudente o temperato [...OMISSIS...] , poichè, come apparisce dall' ultimo luogo citato, riduce allo stesso il bello e la virtù [...OMISSIS...] , e perciò la giustizia e l' altre tre virtù cardinali (2); nè si dà il giusto e il prudente o temperato senza verità, misura e bellezza. Il Bene dunque è la verità, la misura e il misurato e il bello. e ciascuna di queste tre essenze è il Bene, che prende diverse forme ed aspetti (3), e nel mondo risplendono. Venendo dunque Platone in sulla fine del « Filebo » a classificare i diversi ordini di bene che sono nel mondo, li distribuisce nella scala seguente. Il primo luogo, dice, dee darsi alla misura [...OMISSIS...] e al misurato e ammodato [...OMISSIS...] e a qualunque altre cose tali, di cui convenga credere aver sortito una sempiterna natura [...OMISSIS...] ; e quest' altre cose sempiterne sono appunto quelle indicate, la verità, la bellezza, la giustizia, la prudenza ed ogni virtù. Tutte queste cose per sè stesse non appartengono al mondo o all' uomo, ma sono di spettanza alla causa, [...OMISSIS...] , e tutte insieme formano l' idea del Bene, [...OMISSIS...] , il quale nel mondo e nell' uomo, siccome in uno specchio, si riflette con diversi raggi in tutte quelle diverse idee supreme, l' una reciprocamente inserta nell' altra, che dicevamo. Tutto questo lume riflesso poi non è lo stesso Bene, ma il figliuolo del Bene, [...OMISSIS...] , nel quale e pel quale noi divinando [...OMISSIS...] acquistiamo una cognizione oscura bensì «( per speculum et in aenigmate ) », ma preziosissima e la più necessaria di tutte, del Bene stesso, colla quale sola misuriamo e giudichiamo tutto ciò che del Bene partecipa, e quelle stesse idee eterne, che al Bene ci conducono, e a questo di nuovo, come ad ultimo principio, riferiamo, e vediamo che senza quest' ultima idea non sarebbero. [...OMISSIS...] . Le quali sublimi parole non pronunzia Platone senza dar segno di quella sua solita riverenza e modestia, con cui parla delle cose divine e che s' addice tanto ad un uomo, specialmente privo della divina rivelazione. [...OMISSIS...] . Nel qual luogo è da notarsi come Platone riconosca chiaramente l' idea del Bene, non solo esser causa delle cose intelligibili, ma anche delle visibili; il che dimostra due cose: 1 che per « idea del Bene »intende l' essenza stessa del Bene, il Bene assoluto, Dio; 2 che nulla ammette fuori di Dio, che non abbia per causa Iddio. Questo dunque ha il primo luogo nell' ordine de' beni: il secondo è occupato dal tutto insieme, perfettamente ordinato, sia nel mondo, sia nell' uomo, cioè in quella perfetta composizione tra la sapienza e il piacere, onde risulta la felicità e la perfezione di tali animali intelligenti: è dunque «to xymmisgomenon». E di questo bene si deve intendere il passo che segue: « « Il secondo (bene) è circa il commisurato, e il bello, e il perfetto, e il sufficiente, e quante v' abbiano cose di questa generazione » » (2). Poichè il mondo e l' uomo a pieno virtuoso ha appunto queste qualità di commisurazione, bellezza, perfezione e sufficienza relativamente alla sua natura; e bene è del pari ogni altra cosa che le abbia in sè. Dipoi vengono i beni elementari, di cui questo bene composto, proprio dell' ente creato, si compone, e anche tra questi Platone cerca qual sia l' ordine di preminenza. Avea già detto che questi elementi buoni sono primieramente due, l' uno appartenente all' ordine intelligibile, e l' altro all' ordine sensibile, e che quello va di lunga mano preferito a questo, stante che abbia una stretta parentela col bene supremo. Ma non contento di ciò, spezza l' intelligibile in due, e all' uno dà le idee più sublimi, come appunto quelle dal cui complesso si arriva all' idea del Bene; e questo pone il primo bene degli elementari e il terzo della serie totale. Dice dunque « « se tu dunque porrai per terzo bene la mente e la sapienza [...OMISSIS...] , non andrai lontano dal vero, come io vaticino » ». Avea detto poco prima della mente che ella « « o è un medesimo colla verità, o certo di tutte le cose è la più simile e la più vera » » (3). Delle quali parole, le prime, cioè che la mente sia il medesimo colla verità, appartengono alla mente divina, alla Causa, al Bene: l' altre, cioè che la mente sia di tutte le cose la più simile alla verità e la più vera, appartengono alla mente creata o partecipata dagli animali divini e dall' animale umano. E questa è quella mente che pone terza nell' ordine de' beni, perchè sola non è sufficiente all' animale, benchè per essa comunichi colle cose divine, perchè egli non è pura mente, ma oltre a ciò ha per sua natura l' elemento dell' indefinito, [...OMISSIS...] , che deve essere dalla mente governato. Appunto per questo, oltre alla prima e più sublime delle facoltà intellettive, cioè alla mente che intuisce le più sublimi idee, s' aggiungono le scienze e le arti; e queste stesse talune sono pure e proprie della sola anima senza mescolanza d' alcun elemento attualmente sensibile, opere della mente e della ragione. A questo secondo genere d' intelligibili dà dunque il secondo luogo tra i beni elementari del creato; e il quarto nella classificazione totale: [...OMISSIS...] . E chiama scienze dell' anima, benchè alle sensazioni congiunte, anche questi piaceri (3): poichè non ammette punto per beni i piaceri sensibili, in quanto sieno scompagnati dalla cognizione e dalla verità, ma dall' essere a queste uniti e loro pedissequi ed inservienti [...OMISSIS...] deriva loro la qualità d' essere bene. Essi, dice, devono esser veri , [...OMISSIS...] . Il piacere dunque animale separato dalla cognizione è escluso da Platone dal novero de' beni, come quello che è indefinito, ma dall' idea, quando ne partecipa, riceve il suo finimento e da un' idea ancor superiore e finalmente dall' ultima che è misura suprema il finimento stesso è misurato (5), poichè le idee inferiori cioè più prossime ai reali sensibili, e il loro ordine dalle superiori e finalmente dall' ultima, che è quella del bene, ricevono la commisurazione. Conchiude dunque colla solita piacevolezza. [...OMISSIS...] . Se noi dunque vogliamo per conclusione e ricapitolazione di questo discorso segnare il principio ed il fine della filosofia platonica, e il corso di quell' arte del raziocinio che Platone chiama dialettica, e che conduce l' umana mente da quel principio passo passo finchè abbia raggiunto quel fine, diremo, con persuasione di non andare errati, che l' idea in universale, e propriamente l' essere ideale, [...OMISSIS...] è il principio, da cui vuole che si muova la filosofica disciplina, e il Bene, [...OMISSIS...] è il termine, a cui deve pervenire. Così descrive il filosofo dal principio e dal termine, quando lo dice « « amatore dell' ente e della verità » », [...OMISSIS...] . Ma torniamo oggimai ad Aristotele. Questo magnifico monumento filosofico non si trova nelle opere d' Aristotele, che mutilo a scarsi frammenti, insufficienti a ricomporlo, e guasti anche questi da un' esposizione infedele, sofisticamente tormentati piuttosto che discussi. Si direbbe, paragonando certi luoghi d' Aristotele, in cui parla delle dottrine di Platone, con altri che ancor si leggono nelle immortali opere di questo, che o gli scritti attribuiti ad Aristotele non fossero del discepolo di Platone, o avessero subite profonde alterazioni . Ad ogni modo ecco in che consistono le cardinali differenze tra i due sistemi, dalle quali dipendono tutte l' altre. 1 Secondo Platone, il mondo, e con esso il moto e il tempo, è cominciato per opera di Dio: secondo Aristotele è eterno, e Dio non fa che imprimergli ab aeterno di continuo il primo movimento; 2 Secondo Platone, il mondo è fatto nel tempo, secondo un eterno esemplare, il quale comprende tutte le idee, che si riferiscono al mondo; esemplare formato dalla mente divina per creare il mondo; secondo Aristotele, il mondo, essendo di sua natura eterno, non ha bisogno d' alcun esemplare, e però non ci sono le idee , che lo compongono, separate e indipendenti dal mondo; 3 Secondo Platone, le idee che si riferiscono al mondo come esemplari, sono intuite dalle menti create, che così ne partecipano; ma gli enti privi d' intelligenza, cioè i sensibili, non partecipano di esse, ma soltanto esprimono le loro similitudini , dalle quali, ricevute dall' uomo col senso, la mente trapassa alle idee , di cui quelle sono similitudini, ossia alle essenze de' medesimi sensibili, e per queste essi si conoscono. Aristotele nega, che gli enti reali e sensibili sieno similitudini, ma dà a loro stessi le specie o forme, che diventano intelligibili, tosto che l' anima che n' abbia il potere, le consideri in separato dalla materia, e così è, che ella conosce gli enti reali. Quindi Aristotele stabilisce, che tutte le cose mondiali sono composte di due elementi: 1 materia, [...OMISSIS...] ; 2 specie, [...OMISSIS...] (a cui si riduce anche il terzo elemento, la privazione ). Ma tutto questo complesso di enti, ciascuno composto di materia e di forma, che dicesi mondo, si muove in molte guise (1). Sebbene dunque nella sua supposizione d' un' eternità del mondo, egli non avesse bisogno di ammettere un ente creatore e ordinatore, tuttavia gli fu necessario di stabilire un principio , ed un fine del movimento del mondo e degli enti in esso contenuti: e quel principio non doveva essere mosso, altramente non sarebbe stato principio; doveva essere un primo motore immobile, [...OMISSIS...] , quel fine non potea essere che il Bene, [...OMISSIS...] , come aveva appreso da Platone. Ora i due elementi, di cui si compongono gli enti, e il principio e il fine del loro movimento, sono chiamati cause da Aristotele, e alla dottrina di queste quattro cause egli riduce tutta la metafisica (3). La prima causa dunque, ossia elemento, è la specie, o forma o essenza, [...OMISSIS...] . La seconda causa o elemento è la materia o il subietto , [...OMISSIS...] . La terza causa è il principio del movimento, [...OMISSIS...] , chiamata ancora causa efficiente, [...OMISSIS...] . La quarta causa è la finale, il fine del movimento, il Bene, [...OMISSIS...] . La materia è la realità in potenza, indeterminata, la forma è la sua determinazione, il suo termine, e però è un che determinato (9). Quantunque non possa esistere il solo indeterminato, tuttavia un ente determinato da una forma è in potenza ad altre forme, e così può passare da una forma all' altra; questo passaggio dallo stato di potenza a quello di atto è il movimento , la formola che esprime tutto ciò che si fa e si patisce nell' Universo. Ora questo passaggio, ossia questo movimento (1) dee avere la sua causa, e questa è il principio del moto ; dee avere anche un termine , e questo è il fine. Queste quattro e, colla privazione, cinque cause, sono considerate da Aristotele come i generi più estesi possibili. Ma ciascuna di queste cause generiche, quando si vuol determinare maggiormente e distribuire in generi minori e in ispecie e in individui, si può considerare sotto due aspetti che danno una diversa base d' eseguire una tale determinazione. Poichè: 1 ciascuna si può considerare nel suo effetto , in quanto può concorrere diversamente a produrlo, spezzandosi così quel genere unico in più classi e individui di cause; 2 e dopo ciò si può prendere ciascuna di queste cause, la più prossima all' effetto prodotto, e ascendendo ad una causa anteriore, e da questa ad un' altra pervenire a trovare la prima, la più remota di tutte l' altre. Si può dunque considerare ciascuno di quei generi di cause relativamente all' ultimo termine della sua azione in basso, e viceversa relativamente al suo primo principio in alto: distribuendosi in una serie dalla prima causa sino all' ultima. Consideriamo ciascuna di queste cinque cause, la materia, la forma, la privazione, la causa motrice e la finale sotto il primo aspetto, in quanto concorre in diverso modo a mettere in essere l' effetto. La materia , secondo Aristotele, non è mai priva della forma (2), ma esiste con questa formando l' ente singolare (3). Ora poichè questi sono diversi (4), perciò, secondo Aristotele, ci devon essere altrettante materie diverse che li moltiplicano. E poichè gli enti reali, oltre dividersi in individui, si classificano secondo le specie e i generi, così anche le materie (5). Le materie della stessa specie producono gli individui (è ciò che gli Scolastici chiamarono principio dell' individuazione), le materie di varia specie o genere appartengono ad individui di varia specie e genere. Così la materia degli astri è specificamente o genericamente diversa, secondo Aristotele, da quella, di cui si compone il mondo sublunare (1). Questa dottrina d' Aristotele intorno alla materia, non regge alla prova; poichè se le materie si distinguono tra di loro, hanno delle differenze, qualunque sieno: se hanno differenze, hanno delle forme, onde non trattasi più d' una materia prima, d' una pura potenza, che come tale, è indifferente a tutto. Se poi le materie si dividono anche specificamente o genericamente, partecipano dunque di forme specifiche e generiche. Aristotele dunque non giunse al concetto d' una prima materia e d' una pura potenza; ma il suo pensiero si fermò ad una materia non del tutto, ma solo in parte informata, e così potè trovare molteplice la materia. Se questa non fosse in parte informata non potrebbe avere il numero, che già è forma. Si fermò ad una potenzialità determinata a una certa classe di forme; ma questa determinazione della potenza è ella stessa una forma (2), quantunque non ultimata. Se la materia, secondo Aristotele, non può esistere nè concepirsi, senza la specie, e si parla di lei per via d' astrazione; della specie non osa dire il medesimo. In fatti riconosce una essenza immobile che appunto per questo dee essere pura specie secondo il suo principio; [...OMISSIS...] . E però anche alla sola specie dà la denominazione di «usia» (3) e di «to ti en einai» (4) come alla sostanza composta, denominazioni che nega interamente alla materia. Ma le forme degli enti singolari e composti non esistono se non in questi (5), e si classificano in dieci supremi generi che sono le categorie. Ci hanno dunque due generi di specie , secondo Aristotele: 1 Quelle che possono sussistere da sè stesse anche senza materia come il motore immobile e la mente; 2 Quelle che non possono sussistere che nella materia, come le specie di tutte le cose sensibili, sieno celesti o sublunari. Esamineremo forse in appresso qual sorta di purità Aristotele accordi al primo genere di queste specie, e se possano anche esse o no mescolarsi colla materia. Le categorie poi sono i generi formali che abbracciano le une e le altre; per esempio: sotto il genere di sostanza si comprendono tutte le sostanze singolari, siano pure forme o composte di materia e di forma. Poichè le categorie hanno per base della classificazione la nostra maniera di concepire per via di predicazione, sono una classificazione di predicati generalissimi; laddove la classificazione delle specie in pure e composte ha per sua base la natura delle forme stesse, è una classificazione di subietti . Venendo alle cause motrici e considerandole rispetto all' effetto che producono, queste si dividono da Aristotele primieramente in due: una causa interna alle cose che chiama natura , e una causa esterna che chiama arte (1). A queste ne aggiunge due altre, il caso e la fortuna , che nascono dalla privazione delle due prime, [...OMISSIS...] , e però presuppongono le due prime (3). Poichè quando la natura fallisce a produrre il suo effetto ordinario, si dice caso ; e quando all' uomo fuori della sua intenzione e aspettazione incontra per accidente qualche cosa, dicesi fortuna (1). Ma queste sono piuttosto cause rispetto al concepire dell' uomo che non conosce tutte le leggi della natura, che non vere cause. Quando poi l' uomo, volendo fare una cosa gliene riesce un' altra, il che dicesi fortuna, è caso anche questo, perchè è la natura che produsse quell' effetto inaspettato in vece dell' arte, onde il caso è un concetto più esteso della fortuna. La natura è dunque considerata da Aristotele come una causa motrice insita nelle sostanze composte di materia e di specie. Dalla materia in tal caso deve venire la forza del movimento, dalla forma la direzione del movimento: onde attribuisce il principio movente che dicesi natura , non meno alla materia ed alla forma che al composto. « « In un modo così si dice natura la prima subietta materia di ciascuna di quelle cose, che hanno in sè il principio del moto e della mutazione: in un altro modo la stessa forma e specie » »: ma questo per astrazione in quanto colla mente si considera la specie come altra cosa separata dalla materia (2). [...OMISSIS...] . Da questo apparisce, che i due principŒ d' ogni mutazione, la natura e l' arte , non sono entità diverse, secondo Aristotele, dai due elementi materia e specie , di cui risulta il mondo, ma sono virtù efficaci inerenti ai medesimi nell' ente composto (natura), e che oltracciò vi sono forme pure di materia, che danno origine all' arte , la quale è una causa fuori del composto (4). Del pari, la causa finale non differisce dalla forma . [...OMISSIS...] . La natura dunque, cioè il principio interno movente d' un ente naturale composto di materia e di forma, si muove verso un' altra forma ; e se niente osta, sempre verso la forma stessa: se non la consegue, dicesi caso . [...OMISSIS...] . Se poi c' è qualche impedimento, allora dicesi avvenire l' effetto per caso o per fortuna. E Aristotele per assegnare un fine agli agenti naturali dice non esser necessario che il movente deliberi, chè anzi l' arte stessa non delibera, operando abitualmente (1): [...OMISSIS...] . E veramente essendo il fine la forma , e questa, secondo Aristotele, essendo la medesima nell' arte e nella natura , nell' arte, cioè nella mente, separata dalla materia, nella natura unita colla materia, ma tuttavia dello stesso genere l' una e l' altra, conviene che tanto la natura quanto l' arte operino ugualmente pel fine. Dove si vede la profonda differenza, che passa da questa dottrina a quella di Platone; poichè questi nella natura sensibile non ammetteva la forma, ma la similitudine della forma riservata alla sola mente. Onde veniva la conseguenza che la natura sensibile non si poteva spiegare senza la mente , che le desse l' ordine e il fine, e a questo la dirigesse. Nel sistema d' Aristotele all' incontro la natura fa da sè, avendo la stessa forma in se stessa. Che la forma nella mente e ne' reali sia presa da Aristotele per la medesima, è chiaro da queste sue parole: [...OMISSIS...] (1). Il qual discorso nulla varrebbe o sarebbe sofistico, se la sanità e la casa senza materia non fossero identiche di numero colla sanità e colla casa reale e materiata. E veramente se fossero numericamente diverse, di maniera che ci fossero due forme, la reale e l' ideale (come in cert' altri luoghi sembra che dica Aristotele), s' incapperebbe nel sofisma del terzo uomo , di cui lo stesso Aristotele accusa ingiustamente Platone (2). Poichè se ci sono due specie della casa, devono aver qualche cosa di comune, e però ce n' abbisogna una terza che rappresenti la similitudine loro: e potendosi su questa fare lo stesso ragionamento che sulle due prime, si va all' infinito, nè si troverebbe mai l' ultima specie. Il che s' evita nel sistema di Platone, in cui la specie è una sola, e ne' sensibili c' è soltanto l' imitazione, la quale nella mente di chi conosce s' aduna insieme colla specie, su cui è stata esemplata. Onde la similitudine, che ha il sensibile colla specie, è la specie stessa imitata: di che anche a noi venne detto, che le idee sono la stessa similitudine (3). S' evita il sofisma del terzo uomo anche facendo, che la stessa numerica specie sia nella mente e nelle cose; ma questo sistema, nel quale ricaddero spesso i filosofi, tra i quali il fondatore della scuola tedesca (1), e appresso di noi il Gioberti conduce ad altri e gravissimi inconvenienti. Aristotele ad ogni modo prese questa via non giungendo a discernere la vera distinzione tra la specie , che solo alla mente appartiene, e il reale, come apparisce dal luogo citato, e come è necessario che sia, se deve mantenersi il suo ragionamento. Perocchè questo tende a dimostrare, che la natura ha in sè una virtù d' operare da sè convenevolmente ed ordinatamente, senza bisogno di ricorrere ad una mente che sia fuori di lei (bastando un primo Motore) per questo appunto che ha in sè la specie , come opera appunto l' arte, perchè ha la specie , sebben quella congiunta colla materia, e questa da ogni materia disgiunta. Alla materia dunque congiunta colla specie nell' ente composto, che è la sostanza perfetta, è inerente un principio di moto che tende a passare o a far passare un altro ente da una forma all' altra; quello che move, è il principio motore (natura), ossia la causa efficiente ; quella a cui arriva, è il fine ossia la causa finale . Aristotele dunque prende a spiegare l' operare della natura così. Alcune cose, dice, sono determinate dalla necessità , e la ragione di questa necessità è la materia (2); altre si fanno per un fine e la ragione dell' operare con un fine utile e buono è la forma o specie. Quando poi la natura pecca o se n' hanno effetti insoliti, questi s' attribuiscono al caso . Poichè l' operare secondo la forma può peccare, cioè non ottenere il fine, secondo Aristotele: e come la forma è nella natura ed è nell' arte , così si danno ugualmente peccati di natura e peccati di arte (3). La natura dunque, benchè legata in parte alla necessità che le impone la materia, ha in sè tutto ciò che le bisogna per operare ad un fine, il che Aristotele crede di dimostrare a questo modo: [...OMISSIS...] . Avendo dunque dato la forma alle cose materiali e sensibili e la medesima anche alla mente, trova Aristotele un problema importante, quello di rendere ragione perchè « « le cose naturali non abbiano intelligenza, e l' abbia l' anima » » (2), e risponde, che nella natura la materia è quella che acceca, per così dire, la forma, e le toglie l' intelligibilità, e di conseguenza al subietto che la possiede, l' intelligenza. Sono da osservare nel passo citato quelle parole: [...OMISSIS...] , poichè in questo sta il nerbo del suo discorso, su cui torna spesso in altri luoghi (3): suppone che le cause remote e prossime nella natura sieno già incatenate da sè, come sarebbero se fossero poste dall' arte . Onde deduce, che non è necessario preporre quest' ultima alla natura (4), e di conseguente non è vero quello che volea Platone, che fossero necessarie le idee, per ispiegare la natura ed il suo operare sapiente, e la sua tendenza a fini migliori. [...OMISSIS...] (1). Ma l' argomento di Aristotele pecca di circolo. Poichè si riduce a questo: « le forze della natura sono connesse e concatenate per modo che conducono un ente da uno stato o da una natura all' altra per una serie di azioni ed effetti di queste, e quindi di gradi determinati. Questa serie rimane la stessa, tanto se la prima forza riceve l' impulso da una mente, che vedendo tutta quella serie di cause e di effetti dà quell' impulso col fine d' ottenere l' ultimo effetto; quanto se quell' impulso è dato dalla natura stessa, dal caso, da una causa cieca insomma, che non delibera e non conosce il fine: questo fine s' ottiene dunque egualmente e nello stesso modo. Non è dunque necessario ricorrere ad una mente e ad un' arte precedente, perchè le forze e l' ordine loro esistono indipendenti dalla mente e dall' arte che si supponga dare ad esse, con un fine preveduto, l' impulso ». Dico che quest' argomento pecca di circolo, perchè considera l' arte o la mente unicamente come causa motrice e suppone che la natura esista da sè, così fatta come noi la vediamo, e che quando produce qualche cosa, non abbia bisogno d' altro che di un primo impulso. Ma è appunto questa la questione platonica: « se la mente eterna ossia il bene sia puramente un principio motore , e non anzi sia causa piena della natura stessa, e vero creatore ». S' egli è dunque vero, come sostiene Platone, che l' universo non esistesse, ma Iddio mosso dalla sola sua bontà l' abbia prodotto, egli accingendosi a quest' opera doveva indubitatamente concepire prima, secondo le regole d' un' assoluta sapienza, l' opera a cui volea por mano, e questo è l' Esemplare eterno composto tutto d' idee, conforme al quale ogni cosa fu fatta e si fa di continuo. In tale supposizione adunque le idee esemplari sono tutt' altro che « vaniloquii e poetiche metafore »: sono anzi sì alte cose a cui il volo d' Aristotele non pervenne. Ma di questo meglio in appresso. Ora veniamo al secondo aspetto in cui dicemmo (1) considerate da Aristotele le sue quattro o sei cause, cioè nel loro ordine, dalla più prossima all' effetto all' ultima più remota, ed è su questo che ci dobbiamo estendere. Tutte queste cause, come vedemmo, si riducono finalmente alle due elementari, materia e specie , perchè la causa motrice è inerente nel composto alla materia e alla specie, e dicesi natura , alla specie separata dalla materia, e dicesi arte . La privazione (2) poi nella natura e nell' arte dicesi caso e fortuna . Essendo dunque tutto per Aristotele materia e forma (subietto e predicato nell' ordine dialettico), quello che si dice dell' ultima materia e dell' ultima specie, vale anche per le ultime delle altre cause. Dice dunque che sussiste in natura il composto di materia e di specie , e che l' ultima materia, come l' ultima forma [...OMISSIS...] non sono prodotte (3). Dagli argomenti che adopera Aristotele a provare questa proposizione si potrà rilevare meglio che cosa intenda per materia ultima ed estrema. Egli argomenta dall' osservazione di ciò che nasce nei cangiamenti naturali: poichè il pensiero del nostro filosofo è così legato alla natura sensibile, che non può concepire un operare diverso da quello che cade sotto la sua esperienza, onde il suo ragionamento ha sempre come supposto il pregiudizio che « le leggi dell' operare naturale siano universali e assolutamente ontologiche ». Osserva dunque, che ogni cangiamento suppone tre cose: 1 il subietto del cangiamento, la materia [...OMISSIS...] ; 2 la causa movente [...OMISSIS...] ; 3 il fine o specie a cui tende il moto [...OMISSIS...] . Da questo deduce che il cangiamento suppone sempre il composto di materia e di forma, e che è sempre il composto quello che si cangia in un altro composto. Poichè se ciò che si cangia o diviene, non fosse il composto, ma ciascuno de' suoi elementi, cioè la materia a parte e la forma a parte, s' andrebbe all' infinito, poichè nella materia, o nella forma si dovrebbero di nuovo trovare quei tre elementi e condizioni necessarie del cangiamento, cioè si dovrebbe di nuovo distinguere in ciascuna di esse: 1 una materia subietto; 2 una forma termine del moto; 3 una causa movente; e in ciascuno di questi ugualmente. Convien dunque fermarsi a quella materia e a quella forma che costituisce da prima il composto, e in quest' unione soltanto rinvenire il cangiamento. Si produce, dunque, per esempio « la sfera di bronzo », ma non si produce a parte il bronzo, la materia, e a parte la sfera, la forma (1). Così avviene in fatti in tutti i cangiamenti e le produzioni della natura; e certo nella natura non si produce mai la forma in separato dalla materia, nè la materia in separato dalla forma: questo lo sapeva anche Platone, nè è prova d' ingegno maggiore averlo osservato. Laonde la conclusione che ne vuole cavare Aristotele contro le idee di Platone, non coglie punto questa sublime dottrina: [...OMISSIS...] . Vuole insomma Aristotele che tanto la causa efficiente , quanto la causa della cognizione delle cose reali sieno nelle stesse cose reali, perchè dice, se ci fossero specie fuori delle cose reali, queste nè potrebbero produrre o informare le cose reali, nè potrebbero farle conoscere (3), perchè sarebbero da esse dissociate, e cosa al tutto diversa da esse. Quindi spiega la produzione collocando un principio produttivo nelle cose reali, che produce non la materia sola, o la forma sola, ma altre cose reali composte di materia e di forma, e lo chiama natura , e spiega la cognizione delle cose collocando del pari in queste un principio conoscibile , cioè la forma, conoscibile cioè tostochè sia ricevuto in un' anima che sia atta a riceverlo scevro dalla materia. Dove osserveremo, di passaggio, aversi qui una nuova prova, che Aristotele ragiona come se la forma , che è nelle cose sensibili, fosse la stessa identica di numero con quella che, ricevuta nella mente, dicesi idea (a differenza di Platone che, ne' sensibili, non riconosce che un' effigie dell' idea) reputando che se fosse diversa e fuori di esse, non potrebbe far conoscere le cose stesse sensibili (4). In questa conclusione dunque e in tutta questa dottrina ontologica giace sempre nel fondo lo stesso vizio di circolo. Si suppone cioè quello che si vuol provare, che il mondo sia eterno, un' eterna successione di generazioni e corruzioni. Questo è quello che si deve provare. In quella vece, Aristotele lo suppone. Supposto questo, è chiaro che la maniera colla quale gli enti reali si cangiano e trasformano è l' unica maniera di produzione che ci sia nell' universalità delle cose. Se questa è l' unica maniera, dunque la forma e la materia stanno sempre unite, e così unite e formanti le sostanze composte, si vanno insieme permutando. Non è dunque più possibile che la forma o la specie abbia preesistito alla materia, e sia concorsa alla produzione del mondo. Non ci sono dunque le idee separate di Platone. Il mondo dunque è eterno e non creato da Dio, come vuole Platone: dunque di separato dalla natura non ci può essere una causa efficiente , ma solo una causa motrice che eternamente il mova. Legato dunque ai sensi e all' esperienza materiale, Aristotele suppose gratuitamente che stesse tutto qui, e che bastasse osservare come son fatti gli enti specialmente sensibili e materiali, per foggiare su di essi e sul loro operare una perfetta ontologia : le leggi dell' ente reale e finito divennero dunque nel pensiero di Aristotele, con un salto immenso, leggi dell' essere in tutta la sua estensione. Ma Platone non gli accorda il supposto, e così il sistema Aristotelico rimane senza alcuna solida base. Prima però di notarne più particolarmente i difetti, conviene che ne ultimiamo l' esposizione, accompagnandolo degli argomenti, dei quali Aristotele lo munisce e fiancheggia. Aristotele osserva, che « « tutto ciò che si produce, si produce di qualche cosa e da qualche cosa, ed è di specie il medesimo » » col producente (1): dal che deduce che il composto di materia e di forma produce altri composti della stessa specie, come l' uomo genera l' uomo. Deduce ancora che quella specie, che non si trova per anco in ciò che è in via di prodursi, deve preesistere nel producente (1). In questa sfera di cose naturali Aristotele non riconosce che una perpetua trasmutazione d' un composto in un altro della stessa specie, senza che mai sia possibile rinvenire l' origine del composto stesso, l' origine dico della materia, o l' origine della forma separata dalla materia. Questa specie è inseparabile dalla materia che informa, ma si separa di ragione, [...OMISSIS...] ; e però esiste nella mente pura da materia. Questo gli fa la via a riconoscere e spiegare un altro genere di produzioni, quelle dell' arte , a cui riduce quelle che vengono da una potenza d' operare e dal pensiero, [...OMISSIS...] . Chiama geniture , [...OMISSIS...] , le produzioni naturali, l' altre fatture, [...OMISSIS...] . Le produzioni dell' arte, dice, sono quelle « « di cui la specie è nell' anima » ». [...OMISSIS...] (5). L' anima che vuol produrre un effetto, per esempio la salute, trascorre col pensiero la serie dei mezzi fino che arriva ad uno, che è in suo potere di produrre, per esempio la frizione per produrre il calore. Allora colla sua potenza d' operare produce questo mezzo, il quale per una serie di effetti produce quello che cercava, la sanità, fine che era presente all' anima sin da principio. Il movimento dunque dell' anima, che dalla prima specie perviene a trovare l' ultima, la specie cioè di quel mezzo che è in suo potere di produrre, dicesi, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] , e risponde a ciò che prima aveva detto [...OMISSIS...] : l' operazione poi che comincia da quest' ultima specie, producendo effettivamente il detto mezzo, dicesi [...OMISSIS...] , e corrisponde a quello che prima aveva detto [...OMISSIS...] (6). Da questo deduce che quantunque la sanità che vuol produrre coll' arte, sia nell' anima, sia cioè la stessa specie finale dell' anima (1), tuttavia essa sola non è la causa efficiente della sanità; produce solo il movimento del pensiero, [...OMISSIS...] , trova la specie ultima a cui si rattacca l' azione, per esempio la frizione; allora eseguendosi questa, comincia la vera produzione della sanità, [...OMISSIS...] . Ora se questa causa, cioè la frizione, fosse posta anche dalla natura o dal caso, s' avrebbe ugualmente la sanità, benchè non ci fosse la specie pura nella mente. Di più, quando trovata dalla mente l' ultima specie, la frizione nell' esempio addotto, questa si produce e con questa la sanità, non si produce la sola specie, ma la specie nella materia, cioè nell' uomo: la specie dunque non si genera sola, ma si genera il composto di specie e di materia. L' arte sola dunque nulla produce, ma abbisogna di materia. Ma basta forse la materia, per modo che a questa sovrapponga la specie, senza che quella non l' abbia in nessun modo? No, perchè se la frizione nel corpo umano produce il calore, e questo la specie della sanità, convien dire che questa specie era già in potenza nella materia, nè la materia era svestita al tutto di specie, ma n' avea una; e quel composto, prodotto il primo moto, la frizione, si trasmutava, per diverse trasformazioni, in modo da acquistar l' ultima, cioè la sanità. Dunque le specie non si producono sole; nè separate dalla materia, quali sono nella mente, sono cause efficienti delle cose di cui il mondo sensibile risulta (2). Stabilisce dunque Aristotele questa dottrina: « ciò che si trasmuta è sempre il composto de' due elementi, la materia e la specie ». Ma il primo movimento di questa trasmutazione può venire da tre principŒ; cioè o dal composto stesso, o dall' uno, o dall' altro de' due suoi elementi. Se il primo movimento viene dal composto, si hanno le produzioni della natura; se viene dall' elemento della specie sola, si hanno le produzioni dell' arte; se viene dall' elemento della materia, si hanno le produzioni del caso (1). [...OMISSIS...] . Tale è il sistema aristotelico. Ma di quante difficoltà non è egli circondato? - Molte n' abbiamo indicate: affrettiamoci ad esporre quelle che ci restano, e a rinforzare di nuovi ragionamenti quelle che sono già state sottoposte alla meditazione del lettore.

Aristotele esposto ed esaminato vol. II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Se questo severo giudizio debba ricadere tutto intiero sopra il precettore del Peripato, o una gran parte ne sia dovuta all' imperfezione de' documenti, da cui noi siamo obbligati d' attingere la sua dottrina, o quella che per sua ci è presentata, questo è impossibile a dirsi, ed inutile alla filosofia. A questa, i cui studŒ ed amori sono tutti collocati nella verità, importa solo, che si separi con diligenza nelle opinioni il vero dal falso, acciocchè l' autorità degli antichi non ci trattenga più indebitamente dal libero uso del pensiero filosofico, e dall' acquisto d' una scienza sempre più purgata e matura. Ricominciamo dunque a cimentare la dottrina del nostro filosofo esposta ne' libri precedenti. Il fondamento d' una teoria ontologica o metafisica, è il principio della ragione sufficiente. Poichè l' esposizione dei fatti della natura, di cui non si può assegnare alcuna ragione, sarà una storia naturale o una fisica, ma in nessun modo una teoria metafisica. Ma Aristotele, sia che disperi di rinvenire questa ragione e quindi con sobrietà e modestia filosofica s' astenga dall' indagarla, sia che non abbia appieno intesa la suprema necessità, che c' è in ontologia di dare o di cercare almeno quella ragione che basti alla spiegazione de' fenomeni mondiali, lascia i più notevoli fatti senza indicare nè cercare il loro perchè. Così qui vi dice, che la materia di cui constano certi enti si move da sè, la materia di cui constano altri non si move da sè, ma deve essere mossa dall' arte. Ma perchè questa differenza tra le materie di cui constano diversi enti della natura? Questo perchè manca affatto nella teoria Aristotelica; e non solo manca come una cosa non ancora trovata, ma come una cosa che non può trovarsi, perchè si suppone che affatto non ci sia. Così al caso , nel più stretto senso, Aristotele, checchè dica, è obbligato a far fare la sua parte negli avvenimenti mondiali. Ma quando si dice in questo senso il caso, si dice una non causa , una non ragione. E che cosa è una non causa, una non ragione, se non una mancanza di filosofia? Rimane infatti necessariamente questa gran lacuna in un sistema, che suppone la materia e il mondo eterno: è lo stesso che ammetterlo senza ragione e senza causa. Perchè la materia è piuttosto tanta che tanta? Perchè veste piuttosto queste che quelle forme? Perchè le veste con quest' ordine di prima e poi? Perchè è distribuita così nello spazio? Perchè ha quelle forze piuttosto che quest' altre? A tutte queste domande Aristotele necessariamente ammutolisce; non gli resta che a dire: « E` così ». Lo dica pure; ma chi l' autorizza poi a dire che fu sempre così? Qui l' abbandona l' esperienza; e senza questa gli rimane l' ipotesi; ma l' ipotesi, con cui egli travalica l' esperienza, è assurda, perchè è la negazione d' ogni ragione. Non s' è dunque sollevato nè ha punto inteso il bisogno di sollevarsi all' altezza della questione posta da Platone: qual è la prima ragione che spieghi l' esistenza e l' ordine dell' universo? Solo rispondendo come fa Platone: una mente eterna, ottima, creatrice, l' enigma del mondo riceve la sua spiegazione: e tutto ciò che è, ed il modo in cui è, e ciò che avviene, ricupera l' ultima sua ragione, da cui dipende, come un frutto da una pianta, la sua possibilità. L' arte, dice Aristotele, non può far nulla senza una materia. - Chi ve l' ha detto? - L' esperienza dell' arte umana . - Ve l' accordiamo intieramente se parlate dell' arte umana. Ma il discorso di Platone non risguardava nè l' operare dell' arte umana, nè quello della natura. Egli saliva più sù e dimostrava che è necessario pervenire ad un Ente assoluto, diverso dal mondo che non ha in se stesso nessuna ragione d' esistere; non condizionato, quest' Ente assoluto alle leggi del mondo, e perciò operante in modo affatto diverso da quello che vediamo farsi dalla natura e dall' arte umana; poichè solo supponendo codesto Ente, si possono spiegare quelle cose che non dipendono da questi agenti finiti, e la stessa esistenza, la stessa costituzione di questi stessi agenti. Platone dunque lascia valere tutti gli agenti d' Aristotele, la natura e l' arte umana: accorda ad Aristotele, che tali sono appunto le leggi e le condizioni di questi agenti quali Aristotele li descrive; ma dopo di ciò domanda, perchè sono tali? E la ragione la trova in Dio; laddove Aristotele a questo ammutolisce. Aristotele, a ragion d' esempio, vi dice: vi è questa materia; la materia non è una se non per analogia, ma le materie sono diverse secondo le specie degli enti; questa materia è suscettiva di tali specie, perchè le ha in potenza nel proprio seno, quest' altra no, ma è in potenza ad altre: questa materia ha un moto suo proprio, e quest' altra non l' ha, ma dee esser mossa dall' arte; questa ha un dato moto, ma non un altro: perciò fa alcune cose a caso, ma non può farne cert' altre, senza che l' arte la mova. Ma perchè tutto ciò? Che necessità? Non potrebbe esser altrimenti? Non potrebbe non esistere affatto questa materia? E che cosa la determina a ricevere queste piuttosto che quest' altre forme, ad aver in sè questa piuttosto che quest' altra virtù? Voi non trovate in essa nessuna ragione di ciò: il pensiero pensa l' una cosa e l' altra senza ripugnanza. Il sistema Aristotelico dunque è in aria, manca di ragion sufficiente, non spiega punto l' esistenza del mondo e le cose che in esso avvengono. Oltre di ciò, Aristotele è ingiusto con Platone quando pretende di confutare la sua sentenza che « le forme sieno le prime cause delle cose », sofisticamente interpretandola. Aristotele si stende a provarvi una cosa che Platone non avrebbe mai contraddetto, cioè che non c' è una generazione delle forme separate dalla materia; ma che il composto tutt' intero, materia e forma, si muta nello stesso tempo. Il dire, che si muta anche la materia , è un errore contraddetto da Aristotele stesso, e quest' errore nasce dalla confusione che fa sempre Aristotele tra la materia prima , che è una pura astrazione e che è svestita d' ogni forma, la quale, ne' corpi, deve esser una; e le materie seconde , a cui Aristotele, come vedemmo, lascia certe forme, dalle quali solo può nascere una varietà di materie, varie specie di materia. Di poi, si cangi pure il composto, ma la questione non istà sul cangiamento, ma sulla prima causa, per la quale un ente, dopo ultimato il cangiamento, è quello che è. Ora Aristotele stesso concede che questa prima causa è la forma: è dunque d' accordo con Platone. Altro è dunque cercare perchè un ente è quello che è: altro è cercare, perchè un ente si cangia e diventa un altro. Platone insiste sul primo perchè, Aristotele sul secondo: le due questioni sono diversissime. Platone credette che al filosofo spettasse: 1 trovare la dottrina della prima causa da cui procede la natura e l' uomo con tutte le sue leggi e forze; 2 trovare la dottrina di tutto ciò che c' è di divino, cioè di partecipato dalla prima causa nella natura e nell' uomo. Quanto poi alla questione del modo d' operare delle cause seconde, l' abbandonò al fisico, e non la reputò argomento proprio del filosofo. Aristotele s' impossessò di quest' ultima questione, e la volle elevare al primo seggio, esagerando l' importanza delle cause seconde, come se non ce ne fossero altre, come se fossero esse stesse le cause prime. Gli s' affacciò soltanto la difficoltà in un modo parziale, quando s' accinse a spiegare il movimento: allora vide che la natura intera non conteneva il principio del moto e ricorse ad un primo motore fuori della natura. Noi esporremo tantosto questa parte, la più elevata di tutte nella dottrina aristotelica. Ma prima vogliamo osservare quanto sia labile la mente umana anche negli ingegni più acuti. Nessun altro filosofo, meglio d' Aristotele, ha forse dimostrato l' assurdità del ricorso delle cause all' infinito, e della necessità d' arrestarsi ad una prima (1): questi vide pure che niun numero può essere infinito se non in potenza. Or bene a malgrado di questi principŒ veduti da Aristotele e dimostrati, che fa egli ponendo il mondo eterno e in continue vicissitudini? Egli stabilisce che le cose mondiali abbiano percorso un numero attualmente infinito di cangiamenti; ed essendo un cangiamento causa dell' altro per la continuità del moto, egli stabilisce col suo sistema, che ci sia stato nel mondo un vero ricorso di cause all' infinito. Inserisce dunque nel suo sistema due sentenze, che secondo gli stessi principŒ elementari ed evidenti da lui stabiliti, sono patentemente assurde. Ma è degno che, di più, s' osservi come lo stesso Aristotele che riconosce assurda una catena di cause infinita, da una parte applichi questo principio con esagerazione, e nello stesso tempo da un' altra lo dimentichi. L' esagerazione è questa. Tutti i quattro generi di cause debbono essere eterni, secondo Aristotele (1); deve, di conseguenza, essere eterna una causa materiale, una formale, una motrice, una finale: poichè, secondo il ragionare di questo filosofo, se d' una materia, a ragion d' esempio, ne venisse un' altra, e di questa un' altra, e così all' infinito, ricadremmo nel detto assurdo: dunque ci deve essere una materia prima eterna: la qual materia prima avrebbe bensì le forme più imperfette, secondo Aristotele, ma non ne sarebbe mai del tutto priva. Anzi ci sarebbero diverse materie prime, secondo lui, aventi ciascuna diverse altre specie in potenza. L' argomento avrebbe forza per verità; ma ad una condizione, a condizione che sia vero ciò che si vuol dimostrare. Pecca dunque di circolo, perchè quell' argomento prova unicamente che la materia è eterna, se non è stata creata, cioè se il suo principio non si debba ripetere da una prima causa immateriale. Non dimostrando Aristotele punto che questo sia impossibile, le trasmutazioni della materia, altro non provano se non che queste trasmutazioni hanno cominciato con una materia, ma non che questa materia con cui hanno cominciato non sia stata creata con un' azione, che è tutt' altro che una trasmutazione, con un' azione la cui natura non ha niente di simile alle azioni della natura, benchè verissima e necessarissima. Ma, come dicevamo, da un' altra parte poi Aristotele, posta l' eternità di quelle cause, dimentica il principio « dell' assurdità che c' è in una serie di cause e d' effetti infinita », quando non vede niente d' impossibile che la serie degli atti operati da quelle cause sia veramente eterna. Le cause in potenza e le specie delle cause non possono essere infinite; gli atti di ciascuna di queste cause non possono essere infiniti. Ma l' assurdità c' è tanto in questa seconda supposizione, quanto nella prima; e però il sistema è incoerente. Abbiamo detto, che Aristotele lascia il mondo e la quantità, la qualità, la disposizione delle cose di cui consta il mondo, senza ragione sufficiente, e però la sua dottrina non è veramente una teoria ontologica o cosmologica. Dobbiamo ora dire come parzialmente e da un solo lato si presenti alla sua mente il bisogno di ricercare una causa sufficiente fuori della natura. Egli s' accorge di questo bisogno dalla considerazione che non tutte le cose, com' egli stima, avvengono per necessità, ma alcune per caso, o, com' anco dice, per accidente. Ecco come definisce quest' accidente fisico, come noi lo chiamiamo (1): [...OMISSIS...] . Ma se è accidentale l' evento, argomenta Aristotele, dunque anche accidentale la causa (1). Ma qual sarà questa causa accidentale? Avea altrove insegnato, che la causa delle cose che avvengono per caso, è la materia che si move talora da se stessa, sottraendosi alla legge della forma. [...OMISSIS...] Ora s' accorge in qualche modo Aristotele, che questo non basta, e che bisogna trovare una ragione , perchè certe volte accada questo alla materia. Continua dunque a proporre la questione che riceve questa forma: [...OMISSIS...] (3). Egli vede che di queste stesse cause accidentali non può esservi una serie infinita. Poichè dice: Si farà questa cosa o no? - Si farà, se si avvererà questa condizione. - Ma questa condizione si avvererà ella? - Si avvererà, se avrà luogo quest' altra condizione. E così converrà fermarsi in un' ultima condizione. [...OMISSIS...] Dopo aver dunque Aristotele confessato, che ci sono eventi accidentali, che questi essendo incerti non possono essere oggetto di nessuna scienza e di nessuna arte (1), che nè manco possono essere spiegati colle leggi della generazione e della corruzione, le quali procedono per necessità e con leggi stabilite e determinate (2); dopo aver detto altresì che la causa di questo operare per accidente deve ridursi ad un principio ultimo, non riducibile più in un altro, chè altramente non sarebbe ultimo: lascia in dubbio, e dice esser cosa da ricercarsi, se questo principio la cui produzione non ha causa, si riduca ad uno dei tre generi di cause, la materiale, la finale, o la motrice; senza tener più conto di ciò che aveva detto prima, la causa dell' accidentale essere nella materia. Sebbene dunque lasci qui il discorso, e sembri che ponga l' ultima, quale causa dell' accidentale, ciò che sarebbe appunto il caso; tuttavia altre confessioni preziose si possono raccogliere intorno a questa prima causa dell' accidentale da questo stesso libro dei « Metafisici ». In realtà Aristotele riconosce una grande analogia o somiglianza tra la prima, causa dell' accidentale, e la mente che compone e divide, producendo così il vero o il falso. Dell' accidente dice, che la causa è indeterminata ; della mente poi dice che « « essendo la composizione e la divisione nella mente, non nelle cose, ciò per fermo che è così, è ente diverso dagli enti propriamente detti. Si tratta appunto o della quiddità, o della qualità, o della quantità o se altro c' è che compone o divide il pensiero »(3) »; onde anche il vero e il falso che definisce « « una passione del pensiero »(4) », è indeterminato e non ristretto a un solo dei generi categorici degli enti. Conchiude dunque che « « amendue » » (l' accidentale e il vero ) « « sono fuori del restante genere dell' ente, e non dimostrano una certa natura di enti fuori esistente »(5) ». Questa è un' osservazione acuta, che avrebbe potuto condurre Aristotele alla scoperta del vero. Poichè riconoscendo egli che il vero ed il falso che risiede nella mente non può allogarsi in alcuna delle categorie, e che la causa dell' accidentale è del pari indeterminata; facilmente avrebbe potuto proporsi questa questione: « non potrebbe forse essere questa causa una mente suprema, libera, e perciò appunto tale che le sue operazioni non sono determinate da alcuna necessità? ». Alla quale questione si trovava prossimo tanto più col pensiero, che sul principio dello stesso libro avea riconosciuto dover esserci una sostanza superiore a quelle che sono costituite da natura, e questa non appartenere a nessun genere degli enti, ma essere universale, e la scienza di questa sostanza esser la prima di tutte le scienze, e universale, e trattar dell' ente come ente, e non come un genere (1), e di più avea parlato dell' eligibile [...OMISSIS...] come principio delle scienze ed arti pratiche: poichè la facoltà d' eleggere è indeterminata, non è causa necessaria, onde si può manifestamente dir causa dell' accidentale . Che più, se egli stesso in alcun luogo esce in questa sentenza: [...OMISSIS...] . Sebbene dunque Aristotele non si sollevasse a ricercare la causa della natura e della generazione, nè dell' esistenza della materia, s' accorse però, che, anche ammessa e la natura e la materia, siccome eterna, rimaneva qualche cosa ancora, che con tutte le cause naturali non si poteva spiegare, e quest' era l' evento accidentale, e per questo filo la sua mente fu obbligata ad uscire dell' ambito della natura, a cui pur era così tenacemente appiccicata. Ma non potè attribuire alla libera volontà di Dio tali eventi accidentali, perchè egli avea chiuso Dio in lui stesso, e privato d' ogni efficienza nella natura, altro non lasciandogli che d' essere l' oggetto del desiderio e della contemplazione. A questo nondimeno si rattaccò nella sua mente la questione del moto. Egli vide che nella natura, oltre la materia , la forma e la privazione , oltre il composto di materia e di forma, oltre la virtù insita in questo composto, la natura , causa della generazione e della corruzione, c' era qualche cos' altro, cioè una causa motrice , che influiva per qualche modo in un ente naturale, benchè esistente fuori di esso; e anzi che più cause motrici potevano concorrere a dare il movimento a una materia che si naturava. Così rispetto all' uomo egli annovera tre cause motrici ed esterne (oltre la suprema), cioè il genitore , il sole e lo zodiaco (1), e queste due ultime non della stessa specie «ute homoeideis:» chè le sole cause puramente motrici possono, secondo lui, non essere unispecie coll' effetto. Ora partendo dalla sua ipotesi (e non è mai altro che una ipotesi, niuna vera dimostrazione arrecandone) che il movimento degli astri sia eterno ed eterne di conseguente le vicende della natura, da quest' ipotesi, ossia da quest' errore trae con molto ingegno una gran verità: la necessità cioè d' un eterno motore: ben accorgendosi che non si può ammettere un movimento , che è un cangiamento continuo, senza una causa. Poichè, quantunque Aristotele si contenti di lasciare senza ragione sufficiente l' esistenza delle cose finite, gli ripugna troppo a lasciare senza causa il moto; e quantunque sembri talora che abbandoni al caso alcuni avvenimenti che si tolgono dal consueto operare della natura, il che non è altro che lasciarli senza causa, tuttavia non sostiene che gli stessi avvenimenti ordinari della natura rimangano senza cagione, come rimarrebbero, qualora non si ricorresse a una prima causa estranaturale del movimento; e gli astri, e tutte le trasmutazioni dell' universo senza quella prima Causa si fermerebbero (2). Spaventato dunque, per così dire, dal pericolo di arrestare il mondo e ogni generazione dal suo corso eternale, si diede alla ricerca della prima cagione del moto. Afferrato questo capo, egli ragiona egregiamente sulla natura di questo principio eterno in questa maniera: Il moto nell' universo ed il tempo è continuo ed eterno (1): dunque è necessario che ci sia un motore continuo ed eterno: perchè l' effetto non può essere maggiore della sua causa. Questo primo motore deve essere una sostanza, chè la sostanza è la prima delle cose, l' altre tutte riferendosi alla sostanza e supponendola prima di sè (2). La qual sostanza deve essere anche continuamente in atto, anzi la sua natura deve essere puro atto: perocchè se potesse essere in potenza cesserebbe, almeno qualche volta, d' agire (3), e se una volta cessasse, come riprenderebbe poi la sua azione? Se ella poi è puro atto, è altresì priva di materia, ed è pura specie , per la definizione stessa della materia e della specie, intendendosi per materia ciò che è in potenza, per forma ciò che è in atto (4). E qui riconosce ancora che, qualunque sia il movimento di cui la materia sia suscettiva, ella non può mai dare da sè a sè stessa questo movimento, ma conviene che lo riceva o dalla specie pura, che è nella mente dell' artefice, o dalla specie che è congiunta alla materia e che vi produce quel principio attivo che si chiama natura (5). Essendoci dunque una prima sostanza immateriale fuori della natura, prima causa motrice, e dovendo essere sempre in atto, conviene che ella mova restando immobile (6). Ma che cosa c' è che rimanendo immobile mova altre cose? Risponde Aristotele, seguendo in questo certamente Platone: [...OMISSIS...] . Ora Aristotele distingue il bello apparente [...OMISSIS...] , ed è ciò che si appetisce col senso [...OMISSIS...] , dal vero bene , ed è ciò che si appetisce e si desidera prima di tutto dalla volontà, il primo voluto [...OMISSIS...] . Ma il primo Motore è assolutamente bello e in esso tende prima di tutto la volontà. Il primo appetibile dunque e il primo intelligibile sono la cosa stessa [...OMISSIS...] , sono l' assoluto bello [...OMISSIS...] . Ora qui Aristotele ottimamente dimostra come questo primo intelligibile formi la mente e questa a lui si leghi e con esso diventi, in un certo modo, una cosa. Ma conviene recare le sue stesse parole. Dopo aver detto dunque che l' intelligibile primo è il primo desiderabile, perchè assolutamente bello, continua così: [...OMISSIS...] . Dice dunque che l' intelligibile fa una serie di cose per sè, e la prima delle cose intelligibili è la sostanza, poichè l' altre cose si rattaccano a questa, e tra le sostanze la prima è di necessità quella che è semplicemente, e tutta in atto, poichè quello che ha una qualche potenza non è ancora semplicemente, ma è sotto un rispetto particolare. Ora l' intelligibile move la mente, e da questa mozione viene l' intellezione. C' è dunque prima di tutto l' intelligibile «noeton» (questo precede tutte l' altre cose ma solo di concetto), di poi la mente, «nus», di poi l' intellezione, «he noesis;» ma questa appunto perciò è l' ultimo atto, e perciò il principio come dice. E se la intellezione è l' atto, perciò è la sostanza prima, cioè il primo intelligibile. L' intellezione per sè dunque è il primo intelligibile per sè, onde la prima ed eterna sostanza « « è intellezione d' un intelligibile che è la stessa intellezione » » [...OMISSIS...] Nella sostanza prima dunque e tutta atto, conviene che queste cose si trovino unite e coesistenti, di modo che sia ad un tempo intelligibile, mente ed intellezione , ossia che la mente e l' intelligibile sia l' intellezione stessa. Questo si fa a spiegare il nostro filosofo considerando la natura della mente in universale colle seguenti parole: [...OMISSIS...] . Il puro atto adunque è riposto da Aristotele nell' intellezione che è ad un tempo e mente in atto ed intelligibile in atto, e queste due cose si distinguono dall' intellezione solo perchè la mente e l' intelligibile può essere in potenza, come è negli enti inferiori, ma l' intellezione e la contemplazione che è atto, non può mai essere potenza, chè sarebbe il contrario della propria natura. Laonde noi che abbiamo della potenza, non sempre contempliamo; ma Iddio, che è puro atto, sempre attualmente intende e contempla e però vive in eterno. [...OMISSIS...] In questa certo nobilissima dottrina è difficile ad intendere come Iddio sia pura intellezione per sè senz' altro. In primo luogo se si dà a quest' intellezione un oggetto diverso dall' intellezione stessa, già non è più intellezione pura. Aristotele, che vede la difficoltà, dice che l' intellezione prima e pura è oggetto di sè stesso, onde la definisce: intellezione d' intellezione, [...OMISSIS...] . E quest' è forse l' ultima parola che potea dire la filosofia, ma insieme quella in cui la filosofia stessa veniva meno. Poichè in quella parola compariscono non una sola intellezione, ma due; 1 l' intellezione come atto; 2 l' intellezione come oggetto: c' è dunque pluralità, e non più unità. Di poi, se l' oggetto è la intellezione stessa, questa intellezione oggetto deve avere tutto ciò che si richiede acciocchè sia intellezione. Ma l' intellezione per essere tale deve pure avere un oggetto. Dunque anche l' intellezione oggetto deve avere un oggetto; e così si va all' infinito. La speculazione filosofica dunque delle genti, all' ultimo, al più sublime e al più necessario suo passo venne meno, cadendo non tanto in un mistero, quanto in una contraddizione. Noi, illuminati da più che umana sapienza, discioglieremo il nodo nella Teologia, mostrando che ciò che cercava l' antica Filosofia senza raggiungerne il concetto era l' ente sussistente infinito per sè inteso (2), cioè il Verbo, dove non cessando ogni mistero, cessa però ogni contraddizione. Di poi, se l' intellezione pura altro non intende che se stessa, ed essa non è che intellezione pura, come conosce Iddio l' altre cose? A questa difficoltà si smarrisce di nuovo e cade Aristotele. Se questo filosofo avesse potuto concepire un Dio creatore, sarebbe altresì giunto a sciogliere la difficoltà che si presentava al suo spirito e che consisteva nella conciliazione di queste due proposizioni egualmente dimostrabili: 1 Iddio intende solo sè stesso; 2 Iddio intende tutte le altre cose. Poichè, solamente ammessa la creazione, si concepisce che le cose finite abbiano un modo d' esistere eminente e obiettivo in Dio, e che Iddio possa conoscerle compiutamente in sè, conoscendo solo sè stesso. Ma avendo dato Aristotele un' esistenza eterna alle cose mondiali indipendente, in quanto all' essere, da Dio, e dipendente solo come da causa finale e bene appetibile, concependo Aristotele Iddio sotto l' unico concetto di primo motore immobile, non c' era più verso di pensare che le cose mondiali fossero comprese in Dio, e da Dio nella loro natura propria conosciute. La conciliazione dunque di quelle due proposizioni nel sistema d' Aristotele diveniva impossibile, e quindi egli fu spinto a rigettarne una: mantenendo la prima sacrificò l' onniscienza divina . Ed ecco come egli ragionò: [...OMISSIS...] (1). Vedendo dunque Aristotele che l' inteso doveva immedesimarsi coll' intelligente e coll' intellezione, e non conoscendo quel modo oggettivo nel quale le cose mondiali esistono in Dio, ma solo l' essere di queste cose subiettivo, pensò, come sembra, che se la sostanza suprema ed ottima conoscesse le cose più vili si immedesimerebbe colle cose più vili, e così non vide altra via se non stabilire che l' oggetto della sostanza ottima debba esser l' ottimo, e null' altro che l' ottimo. Ora tra tutte le cose trovò che la migliore è la mente, ma questa non in potenza, ma tutta e pienamente in atto, perciò purissima intellezione. L' intellezione purissima dunque doveva essere l' oggetto ottimo di sè stessa: e dall' ottima sostanza così formata venne da Aristotele escluso il conoscimento delle cose inferiori, perche, disse, d' alcune cose è indegno pensare; [...OMISSIS...] , e alcune cose è meglio non vedere, che vedere, [...OMISSIS...] (2). Avendo dunque tolto a Dio la cognizione delle cose mondiali, gli tolse del pari la provvidenza di esse: era coerente: se le cose non sono create da Dio, nè pure conosciute; se non conosciute, nè pure governate: la gran differenza dunque tra Aristotele e Platone si riduce a questo, che l' uno concepisce la necessità d' un primo Creatore, e l' altro solo quella d' un primo Motore (3). Come poi a malgrado di questo in altri luoghi descriva Iddio come quello che contiene il mondo, noi dichiareremo altrove: vedremo cioè che questa contenenza è simile a quella, secondo la quale si potrebbe dire che un circolo contenga tutti i poligoni possibili, perchè è più ampio di qualunque poligono, e non perchè contenga i poligoni nella natura propria di ciascuno di essi. E` oltracciò da considerare che Aristotele parla dell' intellezione in sè stessa considerata, come d' unica cosa, come d' una prima sostanza realmente singolare (benchè la stessa prima e singolare sostanza egli senz' accorgersi la faccia poi universale), di cui l' uomo partecipa per brevi istanti, non potendo durare nella contemplazione molto tempo, ma essa, l' intellezione, non perdendo mai la sua natura d' intellezione, rimane eterna, infaticabilmente contemplante sè stessa, che è l' ottima di tutte le cose. Quello dunque che dice dell' intellezione divina, dice d' ogni intellezione come avente la stessa natura o piuttosto essendo la medesima, ma qui congiunta a una natura inferiore di sè, cioè all' anima ed al corpo umano. Ed è in questa maniera di concepire del nostro filosofo che si trova il primo anello col quale congiunge fisicamente Iddio alle cose mondiali. Poichè Iddio è l' intellezione pura di sè stessa, immobile, immutabile: quest' intellezione è il bene, la vita (1). L' uomo è un ente che per brevi istanti partecipa di quest' intellezione, e però di Dio. Quest' intellezione costituisce un medesimo coll' inteso. L' inteso è la forma. Le cose del mondo partecipano della forma e della materia. Ma questa forma non è intellezione se non in potenza, fino che è unita alla materia; l' atto intellettivo è impedito dalla materia. Ma quando queste cose materiali agiscano per via de' sensi nell' anima umana, allora quest' anima con una sua facoltà che è la mente, separa quella forma dalla materia. Allora quella forma nell' anima è una cosa coll' intellezione. Questa dottrina risulta da tutto l' insieme de' diversi luoghi paralleli dell' opere d' Aristotele, di cui molti abbiamo già riferiti. Il seguente ne fa la conferma. Dopo dunque che Aristotele ebbe mostrato necessità, che l' intellezione per sè abbia sè stessa per oggetto, e quindi che l' intellezione e l' inteso sieno una stessa cosa, si fa questa obbiezione: [...OMISSIS...] . A questa obbiezione risponde dubitativamente come suole, ma esprimendo però il suo costante pensiero, [...OMISSIS...] . E questo poi afferma dicendo che la cosa, cioè la forma che è nelle cose, è ella stessa la scienza, come noi abbiamo mostrato anche di sopra, poichè dice: [...OMISSIS...] . Le quali ultime parole (3) vengono a dire che non c' è intellezione separata dall' inteso nè inteso separato dall' intellezione, ma l' intellezione dell' inteso è una sola entità, che si dice semplicemente intellezione . Dice dunque, che nelle scienze fattive la cosa è l' oggetto inteso privo di materia; nelle speculative la cosa è l' intellezione stessa. Ma poichè anche in quelle c' è intellezione, e anche in queste l' inteso, non c' è in verità che un' intellezione, cioè l' intellezione dell' inteso. Propone poi un altro dubbio, [...OMISSIS...] . Vuol dunque dire che la facoltà di giudicare e di raziocinare, cioè di comporre e di dividere, ha una operazione passeggera, e in questo passaggio non istà il perpetuo ben essere, [...OMISSIS...] , perchè il movimento non è atto compiuto; ma si trova quel ben essere, quando giunta alla fine si riposa nella contemplazione dell' ottimo: questo però non è essa stessa, bensì altro, [...OMISSIS...] . Ma l' intellezione per sè, è l' ottimo ella stessa, e però è intellezione di sè stessa, e quindi non composta, non mutabile, e tale che non può cessar mai. Questa dottrina Aristotelica per la quale il primo movente è il Bene, e questo bene non è altro se non l' Eterna intellezione , che ha per unico oggetto inteso sè stessa, molte difficoltà suggerisce al pensiero. Primieramente , quella che abbiamo accennata, che « una pura intellezione di sè stessa »è cosa assurda, e a questa non soccorre, come dicevamo, il pensiero aristotelico. Di poi l' altra pure toccata, di fare che Iddio non conosca le cose mondiali; a cui pure vien meno il sistema. Ve n' ha una terza a cui il sistema in qualche modo risponde, ed è questa: « se l' eterna e suprema intellezione non ha per oggetto che sè stessa, onde vengono le idee determinate, le forme delle cose mondiali che, separate dalla mente, sono intelligibili? O che cosa riceve il mondo da quell' intellezione eterna, se da essa non gli vengono le forme? ». Rispondere a questa domanda è il medesimo che continuare l' esposizione che stiamo facendo del sistema aristotelico, quale risulta dai libri che abbiamo. Aristotele dunque, considerando astrattamente la natura della perfezione e dell' imperfezione, ripose il concetto della perfezione somma nel puro atto , e dell' imperfezione somma nella pura potenza . Provveduto di questi due concetti, egli concepì una gerarchia tra tutti gli enti per modo che il luogo più basso si tenesse dalla mera potenza , che fu detta anche materia prima , e il luogo più di tutti sublime si tenesse dal puro atto , ossia da Dio e tra l' uno e l' altro estremo gli enti medŒ si distribuissero in una scala di maggiore o minor pregio, secondo che avessero più di atto, e meno di potenza, o viceversa. Ora questo puro atto lo trovò nell' intellezione che non avesse per oggetto altro che sè stessa. E in fatto le cose intelligibili hanno più di atto delle sensibili, e nell' ordine delle intelligibili, ciò che vi ha di più attuale è l' intellezione , e tra le intellezioni quella che non ha bisogno d' altro che di sè stessa per esser tale, e però che non dipende da alcuno oggetto, eccetto sè stessa. Questa dunque è di tutte le cose la più nobile, la più perfetta, il bene per essenza, l' ottimo, l' onorevolissimo, il divinissimo. Questo è il concetto aristotelico dell' entità ottima e perfettissima di tutte, che rimane nondimeno priva d' ogni azione propria fuori di sè medesima, nè può conoscere altro, nè operar altro, tutta essendo la sua natura attuata ed esaurita nell' istesso atto dell' intellezione di sè stessa, onde al Dio d' Aristotele vien meno l' onniscienza, l' onnipotenza, e la provvidenza, come abbiam detto. Un tal ente è necessario, secondo Aristotele, che s' ammetta veramente sussistente, secondo il principio che « « le sostanze singolari sono anteriori alle universali e queste non possono stare senza di quelle »(1) ». E qui si osservi, come in fondo questo argomento aristotelico non differisce dall' argomento a priori proposto da S. Anselmo, e dopo di lui da tant' altri, ridotto dal Leibnizio a questa forma: « « Iddio è possibile; dunque sussiste » (2) ». Infatti a che in fin dei conti si riduce il pensiero Aristotelico sciolto dalle pastoie? A questo: « La sostanza possibile (o universale) non può stare senza la sussistente: ma quella c' è, dunque anche questa ». Un secondo argomento poi con cui Aristotele dimostra la sussistenza di Dio, è quello da noi esposto, cioè la necessità d' un Primo Motore. Questo, più veramente, non è un secondo argomento, ma l' applicazione del primo al movimento locale, uno de' quattro movimenti da lui distinti. Ma nella mente d' Aristotele manca, come già abbiamo osservato, la precisa e costante distinzione tra il vero singolare , che è l' ente reale, e l' universale : e l' infimo tra gli universali è preso da lui per singolare. Quindi molte fallacie di ragionamento, e il distruggere poi quello che aveva prima stabilito. Questo gli accade per non aver penetrata abbastanza la natura dell' essere oggettivo, e aver creduto che ogni oggetto dell' intuizione intellettiva dovesse essere necessariamente un predicato . Distinse dunque la sostanza prima dalla sostanza seconda , e volle che la prima non si predicasse d' alcun altro subietto (1), e che la seconda si predicasse della prima. Così pareva, che avesse distinto chiaramente il singolare reale dall' universale, la sostanza reale dalla sostanza ideale che si predica di quella. Ma questa distinzione gli sfugge di mano per non avere afferrata abbastanza la natura del reale , e non aver inteso che questo solo è quello che costituisce il singolare . Eccone la prova. Nel VII de' « Metafisici » dopo aver detto che la sostanza prima è quella che non si predica d' altro, trova insufficiente questa proprietà, e finisce col conchiudere che « « la sostanza si predica della materia, della sostanza poi tutte l' altre cose » », [...OMISSIS...] . Quella sostanza dunque che prima non si predicava di nulla, ora si predica della materia. Chi non vede qui la confusione del reale e dell' ideale? Poichè o parla d' una sostanza reale , e in tal caso non si predica certamente nè della materia, nè di cosa alcuna: ovvero parla d' una sostanza ideale , e questa d' altro non si predica che della sostanza reale . Come dunque si può dire che la sostanza si predichi della materia? Evidentemente questo non ha luogo se non intendendo, per sostanza , talune forme aventi un nome sostanziale, ma che veramente sono accidentali, come se cogli stessi elementi corporei si componessero due corpi di nome diverso, poniamo il vino e l' aceto; in tal caso le forme indicate da questi nomi si potrebbero predicare della materia, dicendo per esempio: « questo è vino », e: « quest' è aceto », cioè « questa materia è vino » « questa materia è aceto ». Ma in tal modo « il predicarsi la sostanza della materia », vale ugualmente nell' ordine reale e nell' ordine ideale: e in quest' ultimo ordine è sparito affatto il singolare; giacchè la materia dell' aceto concepita come possibile, è anch' essa universale, non allo stesso modo della forma, ma come una possibilità indeterminata a questo piuttosto che a quell' altro pezzo di materia. Ripetiamo che questa mancanza d' una ferma distinzione tra la natura del reale , e la natura dell' ideale o dell' oggettivo accadde ad Aristotele, per aver egli considerate le idee e ogni oggetto intellettivo, unicamente come predicati delle cose (1), e considerati i reali unicamente come subietti, a cui s' attribuiscono que' predicati. Egli non s' accorse dunque: 1 che un ideale si poteva predicare tanto d' un reale, quanto d' un ideale: onde il predicato era sempre ideale, ma il subietto poteva essere tanto ideale, quanto reale; 2 che quindi allora, quando si predica qualche forma accidentale o parziale d' un subietto reale, c' è sempre nascosta una doppia predicazione, l' una, in cui tanto il subietto quanto il predicato sono entità mentali o ideali, l' altra in cui il subietto è reale e il predicato ideale. Così in questa proposizione: « questo era vino e divenne aceto », c' è implicita una predicazione tra un subietto mentale (2) e un predicato ideale, poichè il subietto « questo », non è un reale determinato, non è nè aceto nè vino, e però è un ente mentale, a cui si può attribuire poi indifferentemente la qualità di vino e quella di aceto . Aceto e vino sono due universali che s' attribuiscono ad un ente mentale che è la materia significata colla parola « questo ». C' è di più poi l' affermazione che questa materia esiste realmente prima nella forma di vino e ora in quella di aceto: e il predicarsi « l' esistenza in forma di vino e d' aceto »è lo stesso che predicarsi « l' idea della sostanza determinata », del vino e dell' aceto, cioè della sostanza reale. Ogni subietto dunque ed ogni singolare, secondo Aristotele, ha la sua natura dall' universale, onde dice: « « E` manifesto dalle cose dette che è necessario attribuire al subietto » » (alle prime e singolari sostanze), « « il nome e la ragionedi quelle che si dicono del subietto »(3) », che sono le sostanze seconde e universali. Se dunque le sostanze singolari hanno la loro ragione o quiddità, come pure il nome, dalle sostanze universali e ideali: consegue, come abbiamo osservato già prima, che le sostanze singolari non sarebbero senza le universali, che contengono il loro essere: benchè Aristotele dica il contrario, cioè che le universali non sarebbero senza che ci fossero prima le singolari. Fatto sta che Aristotele parla sempre de' singolari, attribuendo loro i predicati universali, e in questi, oggetto dell' intelletto, ripone costantemente l' essere, [...OMISSIS...] , di quelli. Lo stesso adunque egli fa anche della prima e divina sostanza, e con questo ne guasta necessariamente il concetto. Poichè attribuendo a questo suo Dio una natura comune, distrugge con ciò quello stesso Dio, che aveva prima costituito, e rende il sistema razionale ed astratto. Infatti attribuisce al suo primo motore l' essere atto purissimo, e prima intellezione; in modo che tutta la sua eccellenza consiste e deriva nell' avere questa condizione di puro atto e di pura intellezione. Essendo dunque i concetti « di atto e d' intellezione »di natura loro universali e comuni, Aristotele, osservando che tutti gli enti della natura tendono naturalmente ad uscire dalla potenza e a mettersi in atto, dichiarò che in tutti era una continua tendenza verso Dio. In questo modo insegnò (e certo c' è un lato di vero in tale sentenza, ma involge ancora del falso), che la natura divina poteva e doveva essere appetita da tutte le cose dell' universo. Diede dunque il nostro filosofo a tutti gli enti mondiali un intrinseco appetito , tendente al sommo bene, cioè all' ultimo perfetto atto, in cui nulla più resti di potenziale, supponendo che tutti quelli che ci potessero giungere, con questo appunto otterrebbero la divina natura, che in tale purità d' atto consiste. Ma onde avviene, che non tutti gli enti mondiali, nel loro perpetuo conato di giungere al puro atto, non ci pervengono, e alcuni più, alcuni meno vi s' avvicinano? Aristotele risponde, perchè vi hanno diverse materie e potenzialità (1). Se non constasse l' universo che d' una sola materia, tutti gli enti conseguirebbero la stessa forma, e in tal caso non ci sarebbe diversità tra gli enti componenti il mondo. Le materie dunque, ossia le potenzialità, sono diverse, in quanto che nel loro sforzo all' atto, cioè verso il sommo bene, non arrivano che a certi atti ossia forme, a cui sono in potenza e non ad altre. Ciascuna materia dunque non può arrivare nel suo naturale movimento che a certe forme ultime per essa. Ma non vi è sempre arrivata; quindi ciascuna trovasi in una serie di stati successivi, di minore e maggior perfezione, secondo che è più o meno lontana d' aver raggiunta l' ultima sua forma. La materia priva al tutto di forma non è che un' astrazione della mente, ma ciascuna materia può esser fornita di forme meno perfette, come il seme ha una forma meno perfetta della pianta già svolta. Ogni materia dunque, vestita sempre d' una forma qualunque, è dotata, secondo Aristotele, di due caratteri: 1 d' una forza istintiva verso il suo bene, cioè verso la sua maggiore attuazione, che è la causa finale, [...OMISSIS...] ; 2 della privazione , ossia mancanza di quella forma ultima o perfezione a cui tende (1). Tende dunque a cacciare da sè questa privazione, onde nella generazione d' un ente c' è un cangiamento « da ciò che ha la privazione in ciò che non ha la privazione », ma questo cangiamento si fa dalla forza istintiva che è nella materia avente una data forma (2). E così scioglie Aristotele il sofisma di quelli che dicevano niente potersi generare, perchè: « non potea generarsi dall' ente, perchè questo essendo già, non si genera, nè dal non ente, perchè il non ente nulla può fare ». Aristotele risponde che si genera dalla materia la quale in quanto ha la forza istintiva si può dire ente , e in quanto ha la privazione si può dire non ente ; ma la proposizione « si genera dall' ente », come pure la sua contraria « si genera dal non ente », sono vere in quanto s' intenda, che per accidente si genera dall' ente e dal non ente , in quanto con questi nomi si vuol chiamare « « l' istinto generativo che è in parte » » (cioè in potenza) « « l' ente che genera e non è ancor generato, e in parte non è » » (cioè in atto), « « onde tutto ciò che viene generato in parte è già, e in parte non è »(3) ». Sebbene dunque Aristotele chiami Iddio il primo motore di tutte le cose, tuttavia in questo sistema non è già esso quello che mova fisicamente la natura o a questa imprima un impulso meccanico o reale, o che le somministri le forze. Tutte le forze di muoversi sono già insite nella natura; e il Dio d' Aristotele non è che l' ultimo termine di questo movimento, chè da se stessa eseguisce la natura verso di quello che ella appetisce, cioè verso il bene, il bello, l' ultimo qualunque sia, che essa è atta a raggiungere. « « Poichè, dice, essendoci un certo chè divino e buono e appetibile, noi diciamo esserci qualcosa contrario a lui » » (la privazione) « « e qualcosa che in lui tende e lui appetisce, secondo la propria natura »(1) », che è appunto la tendenza insita della materia avente una data forma imperfetta. Tra le quali materie ce n' è una nell' universo che arriva ad attignere la specie altissima e divinissima, come la chiama, cioè la mente, e questa è un certo corpo che ha in potenza la vita, come a suo luogo meglio dichiareremo. Aristotele dunque descrive il divino, il buono, l' appetibile così formalmente e astrattamente, che cessa d' essere una sostanza singolare. Di che è prova manifesta questa, che, come apparisce dal brano ultimamente citato, egli gli dà un contrario; quando assegna per carattere costante delle sostanze singolari, il non avere contrario alcuno (2). Oltre di che egli dice espressamente, ricadendo nelle dottrine di Platone, che è migliore ciò che è nel genere , di ciò che non è nel genere, come la giustizia che è nel genere del bene è migliore dell' uomo giusto che non è nel detto genere (3). E` dunque una natura universale, che può essere conseguita da più individui. E quantunque ciascuno di questi lo faccia di natura semplice e puro atto, non lo fa però unico. E infatti dopo averlo detto semplice, s' affretta a far osservare a suoi lettori, che « « l' esser uno e l' esser semplice non è lo stesso: poichè uno significa misura, semplice poi certa abitudine della stessa cosa »(4) ». Ma vediamo quante difficoltà e contraddizioni involga su di ciò la dottrina aristotelica. Dopo aver detto che tanto l' appetibile [...OMISSIS...] , quanto l' intelligibile [...OMISSIS...] movono senza esser mossi, il nostro filosofo aggiunge che « « il primo appetibile e il primo intelligibile è il medesimo » » [...OMISSIS...] , di maniera che da questo primo, che è quasi la punta dell' angolo, movendo, la serie si divide in due, l' una d' appetibili, l' altra d' intelligibili. Ora il primo appetibile è il volibile, [...OMISSIS...] e questo è il vero bello, [...OMISSIS...] , distinto dal bello apparente, [...OMISSIS...] , che non è volibile, ma concupiscibile [...OMISSIS...] : il volibile, dunque, s' identifica col primo intelligibile. Ma qui prima di tutto la distinzione tra il bello apparente e il bello vero , cioè tra il sensibile o concupiscibile e l' intelligibile o volibile, appartiene al sistema di Platone da cui è tolta, ma in quello d' Aristotele è un fuor d' opera. Poichè la distinzione s' intende quando si pone con Platone, che il vero essere delle cose sensibili giaccia nelle idee, e i sensibili non sieno altro che ritratti di quelle: allora colà è la verità e qua l' apparenza. Ma come può aver diritto Aristotele d' ammettere questa distinzione, se vuole, in que' luoghi dove se la prende con Platone, che il vero essere delle cose non sia già nelle idee, che nega, ma nelle cose stesse sensibili? E` una delle tante sue incoerenze: dopo aver rifiutate le dottrineplatoniche, vi ricorre ogni qualvolta sente di non poter andare avanti senz' esse. Dice dunque che nella serie degli intelligibili la sostanza è la prima, [...OMISSIS...] (1), e che delle sostanze è prima quella che « « è semplicemente e secondo l' atto » », [...OMISSIS...] , e questa è « « l' intellezione stessa » », [...OMISSIS...] . Ora l' intellezione, questa che è prima nelle cose intelligibili, è anche il principio della volizione, perchè si vuole e desidera ciò che s' intende, e non viceversa. Ora ciò che move la volizione, ciò che è per sè volibile, è il vero bello; poichè « il bello e il volibile per sè è nella stessa serie », ma il vero bello è anche ciò che muove l' intellezione: il volibile dunque e l' intelligibile primo e nel suo primo atto s' immedesimano. Mette dunque il bene in ciò che è primo , ma questa qualità di esser primo, è relativa alla serie a cui il primo si riferisce, quindi Aristotele distingue « « l' ottimo che è sempre tale, e l' ottimo che è tale di proporzione » », [...OMISSIS...] . Ora questi due ottimi hanno essi qualche cosa di comune ? Se parla dell' ottimo sotto una concezione comune, Aristotele torna al comune, e così manca di nuovo al suo stesso sistema; chè il comune , egli osserva (1) con molta sagacità, è potenziale, e come tale, cioè come comune, non è l' ultimo atto dell' essere. Questa osservazione importante si renderà più chiara da ciò che diremo. Distingue dunque Aristotele l' intellezione , che non ha per oggetto altro che sè stessa, - e questa, secondo lui, è Dio; - dall' intellezione che ha altri oggetti, cioè degli intelligibili diversi, da sè stessa, come sono tra l' altre le intellezioni umane , le quali, dipendendo da oggetti stranieri a sè, non perdurano nel continuo atto della contemplazione, ma la mente umana per lo più è in istato di potenza, per breve tempo poi dura nell' atto contemplativo. Così il sonno e la veglia della mente si succedono nell' uomo. Ma le intellezioni umane e l' intellezione divina sono ugualmente intellezioni: ancora dunque hanno di comune l' essenza generica d' intellezione. Se poi v' ha un' essenza generica che abbraccia le intellezioni particolari, che cos' è quest' essenza generica ? L' intellezione suprema sarà dunque composta di genere e di differenza? Ma in tal caso ella non è più cosa semplicemente in atto, ha qualche cosa di potenziale, cioè la sua radice generica. Ritorna dunque sempre la stessa difficoltà, e contraddizione. Che dunque Aristotele abbia veduto la necessità d' un primo essere e che questo sia atto purissimo; e l' abbia veduto, forse meglio di tutti i suoi predecessori, certo è gran cosa, e costituisce il suo sommo merito. Ma seppe porre la questione, non risolverla. Come si potea risolverla? In una sola maniera dovuta alla luce del cristianesimo: cioè colla dottrina che fa di Dio un atto puro che non ha nulla affatto di comune coll' altre cose, le quali non sono simili a lui, ma solo analoghe (2). E veramente, se ci fosse un' essenza (non la semplice esistenza) comune a Dio ed alle cose mondiali, quest' essenza sarebbe superiore a Dio ed alle cose mondiali, e da essa dipenderebbe l' uno e le altre; sarebbe una forma dell' intelligenza, colla quale si conoscerebbe Dio e le cose mondiali, cioè si conoscerebbe Dio con un lume che non sarebbe suo proprio, ma comune alle creature: questo lume sarebbe veramente divino: e così un' essenza veramente divina verrebbe in composizione da una parte con Dio, dall' altra colle cose mondiali. E infatti questa conseguenza assurda si manifesta appunto nel sistema aristotelico, il quale non si contenta di dare la divinità al primo motore, ma la sparge altresì a piene mani per tutto l' universo. Il che, se da una parte mostra il vizio fondamentale del sistema, dall' altra mostra la penetrazione dell' ingegno che l' ebbe concepito: essendone prova l' ardire di questa conseguenza. Vede bensì Aristotele, che il primo motore deve essere unico numericamente, appunto perchè non deve avere alcuna materia o potenzialità: « « Tutte quelle cose, dice, che sono molte di numero, hanno materia » », cioè potenzialità « « la prima quiddità non ha materia: poichè è atto che ha in sè il suo compimento (1). Dunque il primo motore immobile è uno di ragione e di numero » » (2). Ma questo non basta a fare che il primo essere non abbia alcuna potenzialità in sè; non basta a fare, che la sua essenza non sia una specie, che non si realizzi se non in lui; conviene di più che nessuna sua parte o qualità sia tale; se la qualità d' intellezione può essere una specie comune, in tal caso, egli ha già in sè un elemento di natura potenziale, e c' è qualche cosa che è potenza (la qualità d' intellezione), qualche cosa che è atto di questa potenza, l' avere quest' intellezione per atto sè stessa. Quindi il politeismo aristotelico. E veramente nel concetto d' un' intellezione , che intende sè stessa, non si trova la ragione per la quale debba essere una di numero. Laonde Aristotele stesso vedesi obbligato di dedurre la prova della unicità del primo motore non dall' intrinseca sua natura, ma da ragioni esterne, com' è quella dell' unicità dell' effetto, cioè dell' unico movimento del primo cielo; [...OMISSIS...] . Per dimostrare dunque l' unicità del primo Motore ricorre alla supposizione che un primo cielo, detto il primo mobile, si mova d' un movimento unico ed uniforme. Ognuno sente come alla dimostrazione manchi il fondamento su cui si vuole edificare. Ma non è questo solo che vogliamo osservare; poichè foss' anco vero che esistesse questo primo mobile celeste, e procedesse bene l' argomento, esso tuttavia non sarebbe cavato dall' intrinseca natura del primo motore, e darebbe luogo alla pluralità d' altri primi motori. E veramente Aristotele stesso non trova assurdo, anzi necessario d' ammettere altri motori eterni, se non primi. E se non primi, non differiscono però dalla natura del primo nè per riguardo all' eternità, poichè sono eterni come lui, nè per la condizione d' essere motori immobili. [...OMISSIS...] Laonde non con alcun argomento a priori inducente necessità, ma argomentando in qualche modo da' fenomeni sensibili degli astri, senza saper liberarsi dalle più antiche superstizioni, Aristotele s' ingegna di comporre filosoficamente un politeismo e si dà il vanto oltracciò di essersi molto elevato sui pregiudizi volgari. [...OMISSIS...] Pareva dunque ad Aristotele d' essersi molto innalzato sui volgari pregiudizŒ coll' aver negata alla divinità la forma d' uomini e di bestie, e attribuita quella di astri! Dall' esserci dunque più movimenti ne' cieli, argomenta Aristotele che ci devono essere più Iddii, o prime sostanze, immobili e motrici, che chiama anche primi enti, e che fa ragione dover essere 55 o 47, altrettante quante le sfere che si credevano percorse dagli otto astri (2). Ora a ciascuno di questi si può applicare l' argomento con cui egli provò che il primo Motore dee essere « « un' intellezione che ha per oggetto sè stessa » » perchè l' intellezione è l' ultimo atto, e se avesse un oggetto intelligibile da sè diverso, dipenderebbe da questo nel suo atto, perchè «nus hypo tu noetu kineitai,» onde avrebbe dell' atto e della potenza e però non potrebbe essere in una eterna e continua attuazione. Se dunque Aristotele ripone la natura del primo Motore in un atto intellettivo che finisce in sè stesso, sempre immanente ed immobile, per la stessa argomentazione gli altri eterni motori hanno col primo la stessa natura, e la loro differenza rimane che sia accidentale, derivata dal diverso e più ristretto moto che producono. Ma che i movimenti sieno grandi o piccoli, che sieno grandi o piccole le sfere, la differenza rimane accidentale. Quindi non si può dire, come pretende Aristotele, che non abbiano la specie o almeno il genere comune: e se comunicano nel genere, già contengono tutti questi motori, anche il primo, un elemento potenziale, convenendo anche Aristotele, che il genere sia potenziale, come pure l' accidente . E perciò nessuno di essi possono essere sostanze prime, od enti primi, quando l' ente primo, come Aristotele stesso, e in questo eccellentemente, insegna, deve essere atto purissimo e per sè tale, senza mescolanza d' altro elemento. Non giunse dunque Aristotele a un sufficiente concetto della Divinità (3). D' altra parte fondare, non dico la prova dell' esistenza, ma la deduzione della natura di Dio, dall' effetto del sensibile movimento è impossibile. Poichè essendo quest' effetto del moto locale parzialissimo e ristretto allo spazio, che è l' infimo degli enti, esso potrà ben dare il filo a dimostrare che una prima causa debba esistere, ma in nessun modo a far conoscere quale e quanto eccellente ella debba essere. E per ciò stesso non si può dedurre l' unicità del Motore immobile, come infatti non potè inferirnela Aristotele. Pare che faticato il suo ingegno nel combattere gli altrui sistemi, almeno com' egli li acconciava, e in questa lotta avendo molte volte riportato il vantaggio (1), pare, dico, gli venissero meno le forze a sostituire agli errori una perfetta dottrina: poichè spesso avviene che l' uomo stanco del combattimento, e gonfiato della vittoria, diventi poi negligente e troppo sicuro di sè stesso nel governare il soggiogato paese. D' altra parte questi motori che sono causa de' diversi movimenti degli astri, essendo immobili come il Primo, non ricevono alcun moto da questo, e però da questo sono necessariamente indipendenti. E non accade così quello stesso ch' egli rimprovera ad alcuni filosofi che lo precedettero, che «epeisodiode ten tu pantos usian poiusin»? Poichè gli astri da loro mossi avranno un appetito tendente ad essi come tanti eligibili, ma queste stesse « sostanze prime »non avendo moto non hanno appetito alcuno con cui tendano verso la suprema tra queste prime sostanze. Egli è vero che Aristotele dà a queste sostanze l' ordine stesso che hanno i movimenti degli astri da esse prodotti. [...OMISSIS...] . Ma oltrechè in tale sistema manca la ragione sufficiente dell' ordine delle stelle medesime, la differenza tra le sostanze prime ed immobili motrici non è che accidentale, e non determina per ciascuna di esse un' altra natura. Sono tutte cause motrici immobili, sono atti puri, intellezioni che hanno per solo oggetto se stesse. L' ordine, dunque, in cui le dispone Aristotele, sembra appiccicato, non procedente dal sistema, ma veniente dal di fuori. Nondimeno udiamo ancora su quest' ordine Aristotele: « « Convien perscrutare anche questo, in che modo la natura dell' universo abbia il Bene e l' ottimo » » [...OMISSIS...] . Dalle quali parole si intende come Aristotele non divida già il Bene e l' ottimo dall' universo, ma voglia che sia dall' universo stesso avuto. [...OMISSIS...] . Ammette dunque che il Bene e l' ottimo sia ad un tempo come il duce nell' università delle cose, distinto da questa, e tuttavia sia ancora nell' ordine che risplende in questa università. Il qual ordine è così descritto dal filosofo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole ben chiaramente si vede come Aristotele da' suoi principŒ non avea potuto cavare se non un concetto meschino e imperfetto dell' unità e dell' armonia dell' universo. Invano cita il verso di Omero che loda il governo d' un solo, e dice che gli enti vogliono un buon governo. Poichè egli poi non trova che le entità dell' universo sieno coordinate se non in qualche modo, [...OMISSIS...] , e acciocchè non si creda ch' egli parli d' una ordinazione veramente perfetta ed universale, soggiunge subito, riferendola alle parti, che non però allo stesso modo sono coordinati i pesci, gli uccelli e le piante [...OMISSIS...] , caduta immensa dall' ordine del tutto all' ordine di queste cose speciali, ben mostrando il suo solito modo di vedere e di speculare per forme individuali, senza sapere conservarsi a considerazioni veramente universali. Tuttavia, sebbene secondo lui le cose sieno indipendenti, quant' è al fine, le une dalle altre, pure dice « « non sono così fra loro, che l' una abbia a che fare coll' altra, ma sono ordinate, ad un certo chè » », [...OMISSIS...] . Ma quest' uno finale a cui sono ordinate le cose è rassomigliato all' ordine e al bene comune di una famiglia; «eis to koinon, eis to holon», onde non c' è più un ente supremo a cui tutto sia ordinato, ma a questo è sostituito nella famiglia qualche cosa di comune , senz' accorgersi che il bene comune è appunto quello che più disdice a' suoi principŒ, che dichiarano (e giustamente) il comune un essere potenziale, e non separabile dai suoi subietti individuali, e però non l' atto finale delle cose; e lo stesso si può dire del concetto dell' ordine che non è certamente una sostanza individua , la quale è per Aristotele la prima di tutte le cose. Di più, riconosce nell' universo i difetti stessi, che cadono nell' umano reggimento della famiglia, e questi descritti da lui, dirò anche, con esagerazione, poichè vuole che una parte de' membri di essa, cioè i figliuoli soli, operino cose ordinate, [...OMISSIS...] , gli altri, cioè gli schiavi e i giumenti, operino per lo più a caso, [...OMISSIS...] , e poco conferiscano al comune, [...OMISSIS...] . E così fa che vadano a caso alcune cose dell' universo (1), onde la disunione e la discordia, [...OMISSIS...] (se bene intendo queste controverse parole), ed altre sole tiene ordinate al tutto. Ed è conseguente, dal momento che la prima Causa non è che semplicemente motrice, come intelligibile ed appetibile, e però essa non ha una vera efficacia e un vero governo dell' universo, che si move secondo le forze sue proprie, eternamente ed indipendentemente esistenti, onde qui stesso dà questa cagione, dell' esserci alcune entità che operano le cose ordinate ed altre le casuali e che tale è la loro natura, principio del loro operare, [...OMISSIS...] . Noi diremo in appresso come il Bene e l' ottimo aristotelico possa essere ad un tempo separato e compreso nell' universo; ma vogliamo osservare il valore di quelle parole: « « E` dunque ente per necessità, e in quanto è necessità, è bene, e così è principio. Da tal principio dunque il cielo e la natura dipende »(1) ». Prendendo queste parole isolatamente, parrebbe che Aristotele parlasse del solo primo motore, e che volesse dire che da esso dipende l' universo. Ma non così. Aristotele parla del motore immoto, e tutto ciò che dice, conviene perfettamente a ciascuno de' motori immoti: onde, come fa spesso, parla d' un individuo specifico o vago, e non d' un vero individuo reale. Dà la teoria del motore, riservandosi nel capitolo seguente a mostrare che non è un solo, ma più. Dipende dunque tutto il resto dalla sostanza pura, ma, come queste sostanze pure sono molte, neppur questo luogo contribuisce a restituire all' universo la perfetta unità e armonia, che in tanti luoghi gli toglie. Veniamo ora ad altre questioni, cagione come le precedenti d' infinite dispute tra i commentatori (2). Se ciascuno dei primi motori move il suo astro, a che il moto del primo cielo mosso dal Motore supremo? - Il primo mobile gira con un moto uniforme, secondo Aristotele, e produce il movimento diurno, che si comunica a tutte le sfere e a tutti gli astri. Ma poichè questi oltracciò hanno i movimenti loro propri, perciò introdusse Aristotele, seguendo in parte più antiche favole, le altre sostanze motrici, indipendenti dalla prima, che non dà che un moto solo. Laonde ognuno degli astri partecipa del movimento del primo cielo, che viene dal supremo Motore, e nello stesso tempo ha i motori suoi propri. Ma lasciando da parte questo meccanismo immaginario de' corpi celesti, veniamo alla parte filosofica. Che cosa ha da fare il movimento locale coll' intellezione pura ? Come l' intellezione pura può essere il Bene, e l' oggetto dell' appetito di tutta la natura? Come appetendo l' intellezione può nascere il moto locale? Il solo proporre queste questioni parmi sufficiente a dimostrare che Aristotele fece una mostruosa mescolanza di due o tre ordini d' idee disparatissime, che si trovarono nella sua mente: da una parte delle speculazioni razionali sui concetti ontologici di sostanza, d' intelligenza, d' idee e simili; dall' altra delle osservazioni de' fenomeni sensibili e naturali; in terzo luogo delle tradizioni favolose e superstiziose annesse ai fenomeni naturali, specialmente celesti. Di tutte queste cose, senza badare troppo sottilmente se si potevano unire e tenere insieme, compose con ammirabile miscuglio il suo sistema. Pure crediamo che si possa spiegarlo investigando le analogie , che servirono al suo pensiero di cemento tra quei tre ordini di pensamenti (1). Il principio della filosofia aristotelica è l' atto : principio solido e luminoso. Aristotele disse, o volle dire: « Avanti a tutte l' altre cose è l' atto : dall' atto tutte dipendono »: per questo rigettò come principio l' idea di Platone, perchè non trovò che l' idea sia puro atto: e questa osservazione sarebbe stato un progresso, se non fosse stata una distruzione di ciò che s' era trovato precedentemente. Ma Aristotele vide dopo di ciò, che in tutti gli enti naturali c' era del potenziale, ma che tutti tendevano, secondo il naturale sviluppo, ad uscire al maggiore loro atto possibile. Disse dunque che l' atto era il bene, e che tutte le cose appetivano il bene. Questo concetto del bene non solo era una entità comune , ma comunissima ed astrattissima. Quando dunque si parla d' un bene, appetito da tutte le cose, che hanno in sè qualche potenza, non si parla d' un ente realmente unico col quale ogni cosa tenda a congiungersi, ma si parla di tanti beni , quanti sono gli atti compiuti a cui possono arrivare le diverse cose, ciascuna secondo la sua propria natura (1). Ora l' atto compiuto di ciascuna cosa fu da Aristotele chiamato specie (2), e la potenzialità della cosa materia . Il filosofo si fece a classificare questi atti o specie. La prima classificazione nasce dalle diverse materie in potenza a diverse forme. Ma tutte queste specie hanno qualche carattere comune , quantunque tra di loro differiscano. Questi caratteri comuni si riducono anch' essi in alcune classi, che servono di fondamento ad altrettanti generi di specie. Le classi di questi caratteri comuni alle specie di tutti gli enti sono le Categorie (3). Se si osserva l' ordine che hanno le categorie tra loro si trova che tale ordine considera: 1 l' ente, e a questa considerazione appartengono le tre prime categorie, la sostanza , il quale e il quanto ; 2 le relazioni di più enti o entità, e a questa considerazione appartiene la quarta categoria che è appunto la relazione , di cui le altre sei, cioè il dove , il quando , il sito , l' avere , l' agire , il patire , sono classi minori: perchè tutte queste sono relazioni . Le tre prime poi si riducono a due, cioè alla sostanza ed all' accidente ; chè il quale e il quanto sono classi minori d' accidenti. Onde tutte le dieci categorie Aristoteliche si riassumono in tre sommi generi, la sostanza , l' accidente e la relazione . Le specie adunque hanno questi tre caratteri comuni, di qualunque ente sieno specie, che esse sono sempre o sostanza, o accidente, o relazione. Ma poichè gli enti differiscono tra loro per la materia diversa, o per una potenzialità ad atti, ossia a specie diverse, perciò la sostanza varia secondo gli enti specificamente diversi, e non è una se non per analogia, e così è da dirsi degli accidenti qualitativi e quantitativi. Ma tra gli atti ossia specie c' è una gradazione, di maniera che un atto è più ultimato e perfetto d' un altro, e quindi suppone nell' ente meno di potenzialità. Quell' atto poi che dipende da un altro per esistere è meno perfetto e ritiene più del potenziale. Paragonati dunque sotto quest' aspetto que' sommi generi analogici di specie, vide che l' accidente dipende dalla sostanza , sicchè quello non si può concepir senza questa, e questa sì senza quello (1). Come dunque l' atto è anteriore alla potenza, così Aristotele stabilì che nell' universo prima delle entità e anteriore di concetto fosse la sostanza . Ma questa sostanza, come dicevamo, non è che una classe analogica, cioè tale che comprende degli enti diversi, solamente tra loro analoghi. Conveniva dunque cercare una classificazione di questi enti, per vedere quale sostanza fosse la prima. Gli enti dunque secondo questo rispetto furono divisi in sensibili e intelligibili . Così le specie o forme si classificarono in tre modi. 1 In un modo analogico , e la base di questa classificazione sono i caratteri comuni alle specie de' diversi enti. Questa classificazione distingue le specie in sostanziali, accidentali di qualità e quantità, e relative . 2 In un modo entico , e la base di questa classificazione è la diversità (specifica e individuale) degli enti, diversità che, secondo Aristotele, nasce dalla natura di ciascun ente risultante dalle forme diverse di cui è suscettivo. Questa classificazione distingue le specie in sensibili e in intelligibili con tutte le suddivisioni degli enti sensibili e intelligibili (2). 3 In un modo ultimativo , secondo che le forme di ciascun ente sieno sostanziali, sieno accidentali, sono prodotte più avanti verso l' ultima loro perfezione. Ma l' ultimazione stessa delle specie, cioè l' ultimo loro atto di perfezione, o è per sè tale, o è per accidente . L' ente che ha la forma ultimata per sè, dicesi da Aristotele entelechia , ed è più eccellente di quello nel quale la forma può essere ultimata o no, e perciò, se è ultimata, è ultimata per accidente. Tra le entelechie poi c' è ancora una gradazione, poichè 1 può essere la forma ultimata solo rispetto alla sostanza qual è l' anima umana, che dicesi entelechia , perchè è per sè atto del corpo, e tuttavia è perfettibile rispetto alle sue specie o forme accidentali; 2 può essere ultimata totalmente, di modo che non ci possa esser nulla di potenziale nè di accidentale, e così sono entelechie le prime sostanze motrici dell' Universo. E` da considerare la singolare contraddizione che si riscontra in Aristotele tra' suoi principŒ ontologici , e il metodo col quale va filosofando. Egli vuole che si parta sempre dalla sostanza individua , e che tutto si riferisca a questa, come quella natura che ha più atto, a cui tutte l' altre devono riferirsi quasi potenze. Pure il metodo lo conduce sempre ad un ragionare generalissimo, per forma che sotto la stessa parola abbraccia le cose più disparate; il che è quanto dire, ragiona per via di concetti al sommo generici ed astratti. Così, compartendo tutte le cose in atto e in potenza (che sono i due elementi che chiama forma e materia), benchè dica egli stesso che i diversi atti e le diverse potenze, sieno così diverse, che non sono une se non per analogia (1): tuttavia, dimentico di ciò, parla degli atti in universale come avessero le stesse proprietà essenziali. Con questa maniera di ragionare egli perviene a conchiudere che l' atto puro , per sè forma, è intellezione, nè riconosce altri atti puri fuori dell' intellezione. E poichè tutte le cose tendono per loro natura all' atto, dunque tutte tendono all' intellezione, benchè tutte non ci arrivino per difetto della loro materia. Stabilisce così un appetito universale verso l' intellezione, nella quale ripone il Bene essenziale. Ora tanto la parola atto quanto la parola intellezione , come abbiamo detto, non indicano che concetti generici e però non rappresentano che il Bene in genere . Nè gli argomenti che adduce Aristotele nel XII de' « Metafisici », c. 7, per provare che ci deve essere un' intellezione pura, hanno alcun valore a provare che quest' intellezione pura sia una di numero, come abbiamo osservato, non vedendosi ragione alcuna intrinseca, per la quale non ci possano esser molte di quelle intellezioni pure: anzi ammettendone molte Aristotele stesso nel c. ., benchè le consideri come inferiori alla prima, anche questo senza addurre una ragione che sorta dalla loro stessa natura. Comechessia, sottomettendo Aristotele i corpi e gli spiriti ad una stessa legge, per quel suo parlare universale e generico, cioè considerandoli come una catena di enti differenti solo secondo la quantità maggiore o minore di potenzialità e di materia e secondo la quantità maggiore o minore di atto o di forma, che sono gli elementi dai quali constano; egli così li classifica, come si può raccogliere da tutto il complesso delle sue dottrine: 1 Forme pure , prive di materia ed ultimate d' ogni parte per sè, sostanze prime, motrici de' cieli e degli astri, entelechie di primo ordine . Bene vero, desiderabile, eleggibile. 2 Forme pure , prive di materia rispetto alla sostanza, ma non rispetto agli accidenti, anime, entelechie di second' ordine . 3 Enti materiati , cioè enti aventi per subietto la materia, cioè una potenzialità: i quali enti si distinguono per le diverse materie , cioè per le diverse potenzialità a forme diverse . Una materia è potenza a certe forme, un' altra a certe altre: questo costituisce la differenza degli enti. Ma anche qui si ha una differenza specifica e non realmente individua, il che non sempre riconosce Aristotele (1). Ma poichè non si dà materia separata da ogni forma, ogni materia ne ha una in atto , e alle altre forme che le convengono è in potenza: o, come dice Aristotele, esistono in essa in potenza. Tutti questi enti, dunque, sono così classificati sopra una stessa base secondo il maggiore o minore grado di atto (2): e tutti hanno una tendenza ad ascendere, cioè a passare da quel grado di potenzialità che hanno ad un' attualità sempre maggiore. Ma perchè alcuni arrivino ad un grado di attualità in questo movimento ascendente, ed altri non vi arrivino, questo è attribuito da Aristotele alle diverse nature della materia ossia della potenzialità: ma la ragione di questa differenza fondamentale tra le materie manca del tutto in Aristotele: perchè suppone, come dicevamo, la materia eterna: così la sua ontologia è in aria, non posa sul fondamento d' una ragione sufficiente. La causa efficiente di questa tendenza e conato continuo degli enti verso l' attuazione, dice Aristotele, è intrinseca a ciascuno, e si chiama natura (1): risulta dalla forma o atto che già hanno nella materia: è potenza e atto insieme congiunti in un ente: l' atto opera nella potenza, operando si perfeziona, la potenza si lascia movere dall' atto che ha in sè, per arrivare ad un atto maggiore (2). La causa finale è dunque l' atto o specie che l' ente vuol conseguire e che ha già in potenza; come l' atto o specie che ha attualmente, è la causa efficiente interna. L' ente dunque che chiameremo materia7forma o potenza7atto è costituito tra due atti, quello che ha, e quello a cui tende; il primo è la causa efficiente , il secondo la causa finale : medio tra l' uno e l' altro ente è il movimento. Descriviamo il movimento, ossia la trasmutazione degli enti di questa terza classe, cioè degli enti materiati , degli enti potenza7atto . La specie a cui tende l' ente che si fa, può appartenere all' uno o all' altro de' quattro generi categorici che abbiamo annoverati, cioè sostanza, quale, quanto e relazione . Se la specie cui tende di conseguire è sostanziale , il movimento dell' ente chiamasi generazione (e il suo contrario corruzione ); se quella specie è qualitativa , il movimento dicesi alterazione ; se è quantitativa , il movimento dicesi aumento ; se quella specie è di relazione e riguarda lo spazio, il movimento dicesi moto locale (3). Il secondo ed il terzo di questi movimenti non migliorano o deteriorano l' ente materiato se non accidentalmente; il quarto non produce che un cangiamento di relazione . Ma il primo movimento, cangiando la forma sostanziale degli enti, li tramuta per intero, o facendogli passare a una classe più nobile di enti, o ad una inferiore. Su questo dunque conviene che ci tratteniamo. Aristotele suppone che ci sia passaggio da una sostanza all' altra. La sua maniera di ragionare degli enti con concetti così universali gli impedì di conoscere la profonda differenza tra i corpi e gli spiriti, tra gli enti che non esistono che come termini d' altri, e quelli che sono principŒ: onde non vide l' impossibilità del passaggio degli uni negli altri. Non concependo egli la scala degli enti formata in altro modo che per via di una graduazione di potenza e di atto , gli parve sempre possibile il passaggio da quella a questo, salvo dove l' esperienza gli mostrava apertamente il contrario; nel qual caso ricorreva alla ragione generale, che « « la natura di quella potenzialità non consentiva quel passaggio »(1) ». Quindi egli vide altresì la possibilità d' un passaggio sostanziale dal corpo all' anima, considerando che quello non differisce da questa se non per una potenzialità maggiore. Le diverse materie, ossia i diversi enti potenziali, sono in potenza a specie diverse. Ora tra questi enti potenziali ce n' anno alcuni, cioè alcuni corpi, che sono in potenza alla specie ossia all' atto della vita. Quando dunque questi corpi in potenza alla vita, e che però appetiscono questa specie sostanziale come loro bene , ricevuto l' impulso necessario, si mettono in movimento e arrivano a quell' atto e a quella specie che hanno già in potenza, allora mettono in essere l' anima ossia la vita. Di conseguente Aristotele definisce la vita l' atto di un tal corpo che ha in potenza la vita: [...OMISSIS...] (2). Così Aristotele definisce l' anima generica, secondo il suo metodo (1), per venire poi alle specie (2). Se poi tutti gli elementi corporei possano naturalmente organizzarsi in modo da avere la vita in potenza, e se questa potenzialità della vita sia un effetto dell' organizzazione, questo non si rileva da Aristotele, e non credo che si sia proposta questa questione (3). Venuto il corpo a questo suo atto che si chiama vita ed anima, rimangono ancora degli atti ulteriori. Poichè l' inferiore e il meno ultimato di questi atti è quello della vita vegetale , e questo basta alla definizione generica dell' anima, onde in una tale definizione Aristotele chiama l' anima in genere entelechia prima , cioè prossima al corpo che la produce e la tiene, come suo subietto, [...OMISSIS...] (4). Quest' anima vegetale si trova separata nelle piante (5). Ma in cert' altri enti l' anima vegetale contiene in potenza la specie della sensitività (6), e quando concorrono le condizioni necessarie a suo tempo il corpo che è passato all' atto dell' anima vegetale, da questa passa all' atto ulteriore che si chiama anima sensitiva . L' anima sensitiva, secondo Aristotele, è sempre contenuta in potenza in un' anima vegetale (7), come quest' anima è contenuta in potenza in un dato corpo naturale organizzato. L' anima vegetale adunque che ha in potenza la sensitività, tende alla specie o anima sensitiva come a suo fine, e a suo bene: chè in grazia del bene opera sempre la natura (.). Ora in un modo somigliante spiega l' origine dell' anima intellettiva . Ella è già in potenza nella sensitiva, come questa nella vegetale, e questa in certi corpi naturali organici. Ma quando viene all' anima intellettiva, distingue da questa, subbiettivamente considerata, la mente , che si cangia col suo ultimo atto in obbiettiva, come abbiamo accennato. Secondo Aristotele, anche il senso conosce (1). Che cosa conosce? Unicamente le specie sensibili . Queste specie o forme sensibili, che nelle cose corporee sono unite indivisibilmente colla materia, nell' anima rimangono senza materia, e però come puro atto (2). Ora avendo stabilito Aristotele che il puro atto è sempre per sè conoscibile (3), anche la sensazione dunque appartiene all' ordine delle cose che sono per sè conoscibili. Ma queste specie sensibili , sebbene prive di materia, sono particolari: e in questo si distingue il senso dall' intendimento, che quello conosce i particolari, questo gli universali (4). Le forme sensibili che sono nei corpi unite colla materia passano all' anima mediante l' atto de' corpi. Ora l' atto de' corpi sensibili e quello della sensitività s' uniscono in un istante e diventano una cosa sola nell' anima che sente (5). Essendo dunque la forma sensibile l' atto del corpo, e questo, pel contatto e per l' azione, facendosi ed esistendo nell' anima stessa, in questa c' è la forma stessa sensibile che prima in potenza era ne' corpi (6). Ma la forma sensibile sebbene sia priva d' un certo genere di materia e rispetto a questa sia puro atto, tuttavia ha in sè ancora della potenza. Infatti giace in essa potenzialmente, secondo Aristotele, la forma intelligibile . E per questo dice che il senso apprende per accidente l' universale in quanto questo è contenuto potenzialmente nel particolare sensibile (7). La facoltà dunque del conoscere, e l' atto conoscitivo non è ancora altro per Aristotele che un' attualità ulteriore del medesimo subietto. Nella natura ci sono degli enti sensitivi, secondo Aristotele, che hanno la virtù in sè di ridurre le sensazioni e imagini avute, ossia le forme sensibili , a quell' atto che hanno in potenza, e che costituisce le forme intelligibili , e per la produzione di questa nuova attualità nasce l' intendimento, e l' anima intellettiva. Queste forme intelligibili non hanno più nulla di sensibile, e sono per sè universali , sono ragioni. Perciò si dice che l' anima intellettiva possiede la ragione, «logon» (1). Senza la forma universale non ci sarebbe il ragionamento, perchè non si dà passaggio dal particolare al particolare, nulla essendovi di mezzo che serva di via, ma l' universale abbracciando molti particolari, fa da veicolo pel quale il pensiero può trascorrere dall' uno all' altro di essi: l' universale dunque è il mezzo del ragionare (2). Tuttavia la parte discorsiva, che ammette errore (3), e che rassomiglia ad un movimento (4), suppone bensì la mente, ma non ne è l' atto suo proprio: quest' atto proprio è l' intuizione dell' universale: la mente in atto, l' intellezione (5). Ma questa mente in atto, secondo Aristotele, è una sostanza da sè, che avviene all' animale, e che non si corrompe, [...OMISSIS...] , onde sopravvive alla morte dell' animale. [...OMISSIS...] E in queste ultime parole si ha la chiave per vincere una difficoltà, che parve fortissima ai commentatori. La esporremo colle parole del Trendelenburg: [...OMISSIS...] . La soluzione di questa difficoltà deve ripetersi, a nostro avviso, dall' avere Aristotele concepita la natura divina, come una natura impersonale, siccome abbiamo già dimostrato. Sfuggì infatti ad Aristotele, come pure a' suoi predecessori, il vero concetto della personalità. Platone è quello che più distintamente la conosce, ma nè pur egli l' afferra direttamente, e non ne dà un' espressa definizione. Quindi altri subietti reali non compaiono in Aristotele se non la materia (2), che confessa pur egli essere un indeterminato, e che di conseguente non può essere che un subietto estrasoggettivo , una classe di subietti dialettici (secondo le distinzioni da noi introdotte): comparisce l' uomo, senza che sia distinto in esso punto nè poco quell' elemento primo, uno, fondamentale che costituisce la persona (3). [...OMISSIS...] (4). Che l' anima non sia un subietto, ma solo una natura impersonale, si può certamente concedere, se per anima s' intende soltanto o la vita, o ciò che prossimamente dà ad un subietto personale la vita. Ma Aristotele, come dicevamo, accorda il nome e la qualità di subietto alla materia, e al composto, che opera col mezzo della specie; lasciando così la specie priva al tutto di personalità. Ora nella specie ripone la divina natura . Ciò posto, non è più assurdo che questa natura divina impersonale ora si trovi da sè, scevra da ogni potenzialità, ora mescolata colla potenza. Onde nel XII, 10 de' « Metafisici », si propone la questione « « come la natura dell' universo » [...OMISSIS...] «abbia il bene e l' ottimo, se come qualche cosa di separato e esso da sè, o come un ordine, o nell' uno o nell' altro modo » ». (La qual domanda già mostra che Aristotele suppone come fuori di questione, che l' universo abbia il bene e l' ottimo; e fa conoscere il valore dell' espressione « «qualche cosa di separato », [...OMISSIS...] », cioè non significarsi per essa che non sia congiunto coll' università delle cose, ma che abbia natura non mista coll' altre cose). E risponde che il bene e l' ottimo è appunto nell' uno e nell' altro modo (1), come un esercito che ha il suo bene nel suo capitano, ed anche nell' ordine delle schiere, benchè questo sia pel capitano, e non viceversa. La natura divina , com' è concepita da Aristotele, è sparsa per tutto e mista colla potenza, ma è anche da sè, immista e pura; e in quest' ultimo stato, le conviene propriamente il nome di Dio. Come poi, essendo in tal modo diffusa la natura divina del bene, ella sia una e singolare e non sia piuttosto una natura comune, questo non dice Aristotele; e non pare che abbia sentita la forza della difficoltà, a cagione che, senz' accorgersi, ed anzi negandolo, egli definì il divino, come abbiamo osservato avanti, unicamente mediante concetti comuni i quali non ammettono un' unità reale , ma solo ideale e d' essenza. Tuttavia su quest' unità torneremo tra poco. Tenedo dunque presente che Aristotele s' era formato un concetto impersonale della divina natura , e che il suo sistema manca della ragione sufficiente , che spieghi perchè l' universo sia così e così, quando al pensiero non ripugna che fosse altramente, si comprende ch' egli ammettesse un' ipotesi fondamentale, che cioè la divina natura mista colla materia e in uno stato potenziale tende continuamente a liberarsi dalla materia e passare all' atto perfettissimo, al quale giunta acquista il nome e la condizione di Dio. Questo è l' appetito universale, e il movimento ascendente verso l' ottimo di tutta intera la natura. Le materie dunque o potenzialità prime che sono le corporee, sono diverse. Ogni materia ha qualche forma in atto, ed altre ne ha in potenza. Ma non ogni materia le ha tutte in potenza, e questa mancanza di forme in potenza è una prima privazione . Le diverse forme in potenza costituiscono le diversità delle materie d' Aristotele. In quanto dunque una data materia ha certe forme in potenza, intanto appetisce l' atto, cioè appetisce che queste forme escano all' atto; in quanto poi ha la privazione di forme, in tanto non l' appetisce e vi mette ostacolo. Di più la materia ha talora una forza irregolare, secondo Aristotele, che non tende alla forma, e con questo cerca spiegare quegli eventi ch' egli crede casuali. In certi corpi dunque naturali e organati c' è in potenza quella forma o specie che dicesi anima nutritiva o vegetale , in altri di più quella che dicesi anima sensitiva , in altri anche quella che dicesi anima intellettiva , che si sviluppa per generazione. Venuta quest' ultima specie all' esistenza, ha in sè ancora della potenza che tende a svolgersi. Di qui due novi principŒ d' operazioni si costituiscono nella natura, cioè l' intendimento speculativo che tende a conoscere, e l' intendimento pratico , onde l' arte che tende a produrre. E che anche in quell' atto o specie naturale che si chiama anima intellettiva, ci sia la materia ossia la potenza, e con essa l' atto, qual principio attivo e causa d' altri atti, rilevasi da queste parole: [...OMISSIS...] . Or come la mente in potenza dell' anima passi ad emettere gli atti speculativi, cioè ad acquistare la scienza, mediante la mente in atto , [...OMISSIS...] , in parte è dichiarato nel « De Anima » (2), come abbiamo veduto. Passata poi, la mente in potenza, all' atto coll' acquisto della scienza, che può essere più o meno copiosa, ancora distingue Aristotele in quest' atto della scienza due gradi d' attuazione, l' uno de' quali simile al sonno in cui la scienza è in noi come abito, e l' altro alla veglia, l' ultimo e più perfetto atto, quello della contemplazione, che chiama costantemente divino, o divinissimo (1). Conviene dunque distinguere, secondo Aristotele, quasi quattro atti, l' uno più perfetto dell' altro, nello stato dell' anima intellettiva, due dirò così innati e due acquisiti. 1 L' atto o specie della mente in potenza , che dicesi atto rispetto all' anima sensitiva che lo emette; 2 L' atto ulteriore, o specie della mente in atto (intuizione primitiva) che ha virtù di fare che la mente in potenza esca al suo atto; 3 L' atto ulteriore o specie della scienza , che è l' atto, a cui è già uscita la mente in potenza, e quest' atto s' unifica colla mente in atto che rimane così accresciuta e rinforzata; poichè in quanto da potenza diviene atto, in tanto cessa d' esser potenza. Come dunque il sensibile in potenza è diverso dal senziente in potenza, ma il sensibile in atto s' unifica col senziente in atto, secondo Aristotele, così la mente in potenza si distingue dalla mente in atto finchè in potenza, ma non più quando cessando d' essere in potenza, diventa in atto. 4 L' atto ulteriore finalmente della contemplazione , con cui attualmente contempla le specie. Per ridurre questa dottrina a maggior chiarezza, conviene rispondere a tre questioni. 1 Che cosa è mente in potenza che diventa tutti gl' intelligibili secondo Aristotele? E` forse il complesso delle potenze anteriori, incominciando dal senso fino all' immaginazione, che somministrano la materia del conoscere, come vuole il dottissimo Trendelenburg? (2); 2 Che cosa è, qual è la sfera del divino, secondo Aristotele? (3); 3 Come il divino è da sè, ed anche sparso nella natura universa, e com' egli è uno, come moltiplice? (4). Veniamo alla prima. Noi non possiamo convenire col nominato erudito nella sentenza che Aristotele dia la denominazione di mente di cui si fa tutto , [...OMISSIS...] , all' imaginazione e a quel gruppo d' altre facoltà sensitive che somministrano effettivamente de' materiali all' intendimento, poichè di nessuna di queste, nè di tutte insieme, si può dire che diventi tutto. Noi reputiamo dunque, che come Aristotele tolse assaissime cose da Platone, ma le vestì a suo modo e le fece passare come sue proprie, così qui abbia ritenuta la materia comune che accordava Platone alle idee (1), ma invece di darla alle idee, ch' egli non voleva ammettere, la diede alla mente. Ora la materia delle idee secondo Platone è l' essere in universale. Ma questo essere stesso si può considerare sotto due aspetti: 1 o come il subietto delle determinazioni, colle quali egli diviene tutte le idee, generi e specie, e così tiene l' ufficio di materia ; 2 o come lume dal quale è illuminato lo spirito per misurare l' entità di tutte le cose, prima di tutto delle sensibili, e di vederne le essenze, che è appunto formare le idee, onde sotto questo aspetto egli tutto fa, egli produce tutte le specie o forme delle cose. Così lo stesso essere in universale da una parte costituisce quella mente (2) che è fatta tutte le cose, cioè tutte le specie, dall' altra costituisce quella mente che le fa tutte. Come questi caratteri non possono convenire alle facoltà sensitive, così anche ripugna che esse si dicano la mente in potenza, giacchè Aristotele chiama abito questa mente, [...OMISSIS...] , espressione, che non troverebbe una spiegazione naturale, se si dovesse applicare alle sensitive potenze. Secondo Aristotele dunque quando un corpo naturale organizzato, mediante il necessario impulso, viene all' atto dell' anima, prima vegetale, poi sensitiva, finalmente intellettiva, allora quest' ultima anima è così fatta che è suscettiva di tutte le specie, [...OMISSIS...] , e le ha in potenza, [...OMISSIS...] (3). Ora questa appunto è la mente in potenza che diventa tutte le forme. E tant' è lungi che questa sia la sensitività o l' imaginazione e l' altre facoltà sensitive, che da queste espressamente la distingue Aristotele là appunto dove paragona questa mente e il suo sviluppo a quello della sensitività (1). Dice di questa mente che « « intendendo tutte le cose, conviene di necessità che non sia mista, come disse Anassagora, poichè tutto ciò che è eterogeneo, quando accostandosi apparisce, impedisce e divide » ». Onde conchiude, « « la natura di lei non è niuna natura speciale , se non questa che è possibilità », [...OMISSIS...] »(2). Ora che è la possibilità, secondo Aristotele, se non materia, [...OMISSIS...] ? (3). Ma c' è una materia intelligibile , come dopo Platone disse Aristotele? (4). E che cos' è questa materia intelligibile se non l' essere in potenza, ossia l' essere possibile? Questo solo d' altra parte è privo di tutte le differenze, e perciò è del tutto immisto e puro; il contrario poi di questo, l' essere in atto, è privo d' ogni materia sensibile e intelligibile. Del solo essere in potenza e ideale, d' altra parte, si può dire quello che dice Aristotele della sua mente in potenza che, « « non è attualmente niuno degli esseri avanti che intenda » », [...OMISSIS...] . Nè farà difficoltà, che Aristotele attribuisca l' intendere a questa mente, che secondo noi è l' essere in potenza, perocchè egli, come già vedemmo, dell' obietto e del subietto pensante fa una cosa, e quando sono uniti attribuisce all' uno di essi ciò che apparterrebbe all' altro. Nè del pari sia d' ostacolo a intendere in questo modo il pensiero d' Aristotele l' osservare ch' egli sembra accordare a questa mente in potenza l' atto dell' intendere, [...OMISSIS...] , perchè ciò che è in potenza e ciò che è in atto è un medesimo ente, e ciò che è in potenza, la materia, per Aristotele è sempre il subietto dell' atto. Quivi stesso però egli adopera una maniera di parlare, che dimostra non essere la sua mente in potenza, quella che propriamente intende, raziocina e giudica, ma l' anima con essa, [...OMISSIS...] . Della qual maniera non c' è nulla di più proprio per esprimere l' essere ideale indeterminato , perocchè con questo appunto, quasi con un mezzo universale, il subietto intelligente fa tutte le sue operazioni. Finalmente al solo essere indeterminato conviene il carattere che dà Aristotele alla sua mente in potenza, d' essere « « le specie in potenza » », [...OMISSIS...] , con che mostra chiaramente di parlare d' una mente obiettiva, quali sono le specie; e d' essere medesimamente « « il luogo delle specie » » [...OMISSIS...] , giacchè le specie determinate altrove non sono che nella specie indeterminatissima, specie delle specie, come la chiama pure Aristotele, cioè nell' essere indeterminato (1). Si aggiunga un' altra considerazione. Che cosa è l' intelligibile, il proprio oggetto del pensiero? Secondo Aristotele è lo stesso essere della cosa, l' essere determinato ch' egli chiama «to ti en einai,» e che dice che è senza materia, indicando con ciò che è l' intelligibile (2). Ora ciò che può diventare un essere determinato, non può essere altro che l' essere indeterminato e potenziale, che acquistando diverse determinazioni diventa tutti gli intelligibili. Se dunque la mente in potenza è quella che diventa tutti gl' intelligibili, e l' intelligibile è l' essere, quella mente non può esser altro che lo stesso essere in potenza. Il che Aristotele sembra dire in espresse parole, là dove dice che la « materia dell' universale »è la scienza in potenza (3). Poichè l' universale in potenza, che cos' è se non quell' universalissimo indeterminato (epiteto che gli dà Aristotele), che col determinarsi diventa tutti gli universali? Passiamo alla seconda questione: qual è la sfera che abbraccia il divino , secondo Aristotele? Indubitatamente nelle forme pure , per questo filosofo, giace la divina natura . E veramente, cercando qual sia « « la sostanza sempiterna e immobile » » e riferendo le altre opinioni, dice che « « alcuni la dividono in due » » (le specie e le entità matematiche) « « alcuni pongono nella stessa natura le specie e le entità matematiche, alcuni le sole entità matematiche »(1) ». Ma Aristotele non ripone le entità matematiche tra le cose divine, che sono argomento della massima scienza. Poichè egli distingue tre scienze così: « « la fisica è circa gl' inseparabili » » (dalla materia) « « e non immobili; delle matematiche alcune sono circa gl' immobili per vero dire, forse tuttavia non separabili, ma come nella materia: la prima filosofia poi è circa i separabili » » (dalla materia) « « e gl' immobili »(2) ». Questi « « separabili e immobili » » sono appunto le forme pure . Continua poi: « « ora tutte le cause è necessario che siano eterne, soprattutto queste » » (le separabili dalla materia ed immobili), « « poichè sono cause a quelle tra le cose divine che appaiono (3). Onde sono tre le filosofie: la matematica, la fisica e la teologica »(4) »; dove manifestamente chiama scienza di Dio o teologia quella che tratta delle pure forme . Ma nasce il dubbio se Aristotele riponga tutte le forme pure ed astratte dalla materia tra le cose divine; e questo parrebbe, poichè egli dice, che ogni cosa della natura appetisce il bene, l' ottimo, il divino, per la specie a cui tende di pervenire (5), che, separata dalla materia, è divina (6). Ma altrove dice, che ci hanno degli oggetti vili del pensiero e degli oggetti nobili, e che l' eccellenza della mente sta in pensar quelli e non questi (7): sebbene il riputare vili alcune specie, direbbe il vecchio Parmenide esser di chi filosofa ancora inesperto, e si lascia intimorire da' pregiudizŒ del volgo (.). E veramente la cognizione e le specie delle cose vili non sono vili; benchè poco di bene saprebbe la mente, se quelle cose solo sapesse, ma se quelle sono ordinate nel tutto del conoscibile, debbono anch' esse esser conosciute da una mente sapientissima. Ma questo luogo in cui suppone Aristotele, che le notizie delle cose vili sieno vili, basta egli, o può valer tanto, quand' anco sia sfuggito veramente alla penna d' Aristotele, ad escludere alcune specie dalla sfera del divino? Quello che si può dire con sicurezza si è che nè i sensibili, nè le cose miste di materia corporea sono da Aristotele collocate nella classe delle entità divine. E nel vero, le essenze non sono date dal senso; Aristotele stesso ne conviene in tutti quei luoghi, dove distingue le cose corporee dal loro essere , e quelle concede al senso, ma riserva l' essere stesso delle cose alla ragione (1). Che cosa dunque ci dà il senso, secondo lo stesso Aristotele? Delle apparenze che sono vere solamente come apparenze, cioè relativamente: il che viene a dire: è vero che così apparisce. In fatti se tutte le cose fossero come appariscono al senso, apparendo esse a vari individui o anche allo stesso individuo in diversi tempi diverse, la stessa cosa sarebbe e non sarebbe, nè varrebbe più il principio di contraddizione (2). Non è dunque nelle sensazioni che si possa trovare la verità , la verità assoluta (3). Convien dunque ricorrere alle specie con cui conosciamo ogni cosa (4) per trovare una notizia vera e permanente; e la scienza non può avere altro genere che gli universali (5), però in questi solo, non nelle particolari e sfuggevoli sensazioni, dimora la verità. Di che conchiude, che, affinchè ci sia la scienza e la verità, è necessario che ci siano degli altri enti oltre i sensibili (6). E in fatti sono due cose ben diverse, che sia vero che a me un ente apparisca così, e che sia vero che un ente sia così. Della prima di queste due specie di verità, dice Aristotele, che il senso del proprio oggetto è sempre verace; non della seconda. Ma, a vero dire, nè pure questo si può accordargli, perchè il dire: « è vero che mi apparisce questo e questo », non è un pronunciato del senso, al quale solo rimane l' apparire, senza formarsi mai la questione, se l' apparenza sia vera o falsa: questa appartiene alla ragione: l' apparenza sensibile dunque non è giudicata dal senso, e rimane apparenza senza alcuna relazione col vero o col falso, che è sempre nella mente e non nel senso, come lo stesso Aristotele insegna (1). Oltracciò il carattere della verità è quello d' esser permanente ed eterna; quello che è vero, è vero sempre: il senso all' incontro e le cose sensibili sono perpetuamente rimutabili, e se non esistessero che queste, concede lo stesso Aristotele, che non ci potrebbe essere nè scienza nè verità, e che avrebbero ragione Democrito e Protagora (2). Ma quello stesso che si muta si può considerare con una specie e con un pensiero che non si muta, e in questo giace la verità di quello (3). Se si considera attentamente questa dottrina della sensazione, si trovano molte cose in essa levate dal sistema platonico, e in questo pienamente coerenti, ma ripugnanti all' aristotelico. Poichè se il sensibile è solo apparente e mutabile di continuo, e quindi non ha la verità in sè stesso, ma solo il pensiero fa intorno ad esso delle proporzioni vere, dicendo a ragione d' esempio « è di continuo mutabile, è apparente, mi appare questo e questo »; e queste proposizioni sono verità nella mente e quivi immutabili e non nei sempre mutabili sensibili: come mai, in tal caso, le specie possono essere ne' sensibili, alcune in atto nella materia, altre in potenza ? Anzi non resta altra conclusione possibile, se non quella che sagacissimamente ne cavò Platone, quando disse che le essenze delle cose sensibili erano nelle idee , e le cose sensibili non erano che certe similitudini e imagini di esse. In fatti, quando la mente distingue da una parte la specie d' un sensibile e dall' altra il sensibile , e vede che quella ha caratteri opposti a questo, essendo quella permanente, immutabile, eterna, questo sfuggevole di continuo, rimutabile e corruttibile: non è certamente più possibile nè di confondere questo con quella, nè di anteporre questo a quella, nè di dire che quella copii questo, perchè come può quello che è eterno, copiare da quello che non dimora mai nella stessa condizione, non è, ma sempre diventa? E` dunque indeclinabile convenire, nel riconoscere conveniente e sagacissima la maniera di esprimersi di Platone, che i molti sensibili imitino e simulino per un istante quella unica specie che mai non passa: ed è manifestamente insostenibile che la specie incorruttibile sia o possa essere, o in atto o in potenza, in ciò che ha natura corruttibile, momentanea ed apparente, cioè relativa ad un altro. Nè suffraga punto ad Aristotele il cercare, ch' egli fa nel sensibile, un punto fermo nella materia quasi in cosa permanente (1); perocchè, accordata anche la sua ipotesi erronea della materia eterna, egli stesso insegna che la materia non è il fondamento della cognizione e che tutto si conosce non per la materia, ma per la specie e per l' atto; e la specie e l' atto sensibile è appunto il fuggitivo e l' apparente. Nè gli val meglio un altro effugio che tenta Aristotele, dicendo che il sensibile ha la sua fermezza nell' anima in cui si attua la forma sensibile (2). Poichè l' anima stessa ha la sua verità nella specie con che è conosciuta, giacchè anche l' anima si conosce come l' altre cose (3); onde, per essere il sensibile nell' anima, non muta natura, è sempre vero solo come apparenza, e vero non perchè egli abbia la verità in sè, ma perchè ha la verità nella mente, che lo giudica tale, nella qual mente, a detta dello stesso Aristotele, sta il vero ed il falso: e che cosa è questo se non quello che avea detto Platone? E quando Platone diceva che le specie o idee non sono le cose, ma contengono l' essenze delle cose, non dice quello che poi ripete Aristotele, cioè che le cose si dividono in due classi, altre sensibili, altre intelligibili? (4) e che quelli che distruggono le cose intelligibili e lasciano solo le sensibili distruggono la scienza, la verità? (5). In che consiste dunque la differenza? Certo in quello che dicevamo: che Platone non riconosce nelle cose sensibili se non un riflesso, un' imagine, una realizzazione delle intelligibili; laddove Aristotele trova esser questo un sequestrare soverchiante le idee dalle cose sensibili, per un abisso che non si può più colmare. Ricorse dunque a dire che le cose intelligibili sono nelle sensibili in potenza: le sensibili poi sono in potenza nella materia corporea. Così credette di aver legata tutta insieme la natura e tolto lo sconcio del lasciarla sconnessa quasi un mucchio di episodŒ. Ma s' intenda bene tutto il pensiero aristotelico, che a dir vero è imaginoso e gigantesco, ma non regge alla prova d' un raziocinio rigoroso; noi l' esporremo colle nostre parole, per dirlo più in breve, ma rendendolo, come crediamo, con fedeltà. E qui si presentano alla mente da sè una folla di questioni; ne indicherò quattro: 1 Le specie che sono innumerevoli si riducono ad unità, o il divino è diviso e molteplice? 2 Le specie non sono universali? e se sono universali non sono esse in potenza, secondo Aristotele? Come dunque saranno il divino che dev' essere puro atto? 3 Le specie e i generi si formano nella mente umana per via d' induzione da' sensibili: ma come si formano se sono eterne e divine? 4 Le specie sono partecipate dalla materia: or come il divino può comporsi colla materia? Della prima questione ci verrà occasione di trattare in appresso. La seconda e la terza hanno una certa affinità tra loro. Poichè l' una e l' altra sembrano nascere dalla maniera dialettica di concepire d' Aristotele, per la quale la stessa idea o specie diventa nelle sue mani più cose, secondo la diversa relazione sotto cui la riguarda. Poichè pare che talora la consideri sotto la relazione d' universale e di comune a più cose, e in tal aspetto essa e i generi superiori si ritraggono dalle cose sensibili per via d' induzione, e non dànno allora una cognizione attuale delle sostanze composte di materia e di specie; talora poi in sè stessa, ed allora come una cosa eterna, o certo riducibile in un' ultima idea eterna, ingenerabile, che non si produce, che solo si vede o non si vede: e che è sostanza singolare ed ultimata. E veramente la ragione, per la quale nega che la specie sia separabile ed essente per sè, non è tratta propriamente dalla natura della specie stessa, ma dalla specie considerata in relazione con un subietto che può averla ed anche esserne privo: onde argomenta che è relativa al subietto, e che però non si può da esso separare: egli trova assurdo che si consideri la cosa in sè, e nello stesso tempo si consideri come inesistente nel subietto; in sè è antecedente al subietto, ma in tal caso non è più considerata come parte del composto. Egli trova un errore de' filosofi che lo precedettero, di fare che i principŒ sieno contrari, come sono le specie in relazione al subietto, perchè lo stesso subietto può avere specie contrarie. [...OMISSIS...] . Distingue dunque il bianco in sè, [...OMISSIS...] , dal bianco come predicabile d' un subietto, [...OMISSIS...] , e condanna que' filosofi che dicono esser principio una specie in quant' è predicabile. Ora, se questa specie, che si vuol principio, fosse a ragion d' esempio il bianco, egli è evidente che sarebbe anteriore il bianco in sè come puramente bianco, dal bianco come predicabile d' un subietto, [...OMISSIS...] , e però il principio sarebbe questo bianco in sè, e non il bianco predicabile. Da questo conchiude che niuna specie in quanto è predicabile , può essere il primo principio, perchè non ci può essere nulla d' anteriore al primo principio; e i predicabili hanno d' anteriore le specie considerate in sè stesse, pure da ogni materia, onde a queste si deve ricorrere per rinvenire il primo principio di tutte le cose. Ora, tutti i predicabili sono contrari, perchè i predicabili sono sempre d' un subietto, e però senza il subietto non può esistere il predicabile; il subietto poi è suscettivo del predicabile e del suo contrario. Hanno dunque torto quelli che fanno i principŒ contrari tanto nelle cose fisiche, quanto circa le essenze immobili (1), poichè i contrari sono predicabili. Distingue dunque Aristotele e qui e altrove (2) la specie come specie pura, e la specie come predicabile d' un subietto. Altra dunque è secondo Aristotele la stessa forma in sè, [...OMISSIS...] , e altra è la forma mista colla materia, [...OMISSIS...] . La prima è la ragione e la quiddità , [...OMISSIS...] , della cosa, per esempio d' un circolo, e in questa ragione non c' entra la materia, l' oro o il bronzo, come non appartenenti all' essenza, [...OMISSIS...] : la prima è detta da Aristotele semplicemente la specie , la seconda la cosa avente la specie (4); la prima è l' essere della cosa , come [...OMISSIS...] , l' altra è l' essere di questa cosa , come [...OMISSIS...] , la prima dicesi semplicemente «to eidos,» l' altra dicesi «to eidos en tehyle.» Or poi solamente questa seconda dicesi «to kath' hekaston» (5), cioè « « specie delle cose singolari » ». Quest' ultima denominazione dimostra chiaramente che ciò che si predica de' singolari non è per Aristotele la specie pura e presa in sè, ma la specie nella materia. Nega bensì Aristotele di molte specie che sieno fuori de' singolari, distinguendole però da' singolari, secondo la ragione [...OMISSIS...] , e ammettendo che la specie e l' essenza è unica in molti singolari (7): ma questo intende della specie nella materia, [...OMISSIS...] . E di questo biasima i Platonici, in quanto vollero che la specie, in quant' è ne' singolari, esistesse da sè stessa come un altro singolare. Della specie poi presa in sè stessa e non come predicabile, [...OMISSIS...] , fa tutt' altro discorso, e, per quel ch' io intendo, la riduce a certe specie ultime o all' ultimissima, l' essere o la mente in senso obbiettivo, di cui riconosce l' eterna sussistenza. La riprensione dunque che fa ai Platonici consiste primieramente in questo: ammettendo che la stessa specie che è in un individuo sostanziale, sia un individuo sostanziale ella stessa, [...OMISSIS...] (1), si avrebbe qui una terza specie comune, che è quello che dicevasi il terzo uomo . Ora, egli dice, non c' è il terzo uomo tra la specie pura e la specie nella materia, [...OMISSIS...] (2). Poichè se ci fosse quella terza specie (3), per la stessa ragione ce ne dovrebbe essere una quarta e così all' infinito, nel che i Platonici convenivano. In queste parole si ammette che esista la specie stessa, «par' hauton», e che esista il singolare composto di materia e di specie, «kath' ekaston,» ma quello che si nega si è solamente che questa seconda specie inesistente nella materia abbia una sussistenza individuale, sia un individuo anch' essa; nel qual caso sarebbe una terza cosa. Aggiunge poi Aristotele un' altra questione: « « se ogni specie considerata in sè, e non come predicabile, esista veramente separata? » ». « « C' è egli o non c' è qualche altra cosa oltre lo stesso tutt' insiemeDico la materia e ciò che è con essa? » » (la specie nella materia). « « Poichè se non c' è, quelle cose che sono nella materia, sono tutte corruttibili (4). Se poi c' è qualche cosa, per certo che sarà la specie e la forma »(5) ». Quest' è questione diversa dall' altra: nell' altra si cercava se oltre questi due, 1 la specie stessa e 2 il singolare composto di materia e di specie, ci fosse una terza cosa che potesse essere principio comune a quelle due, e si rispondeva di no: in questa si cerca se oltre il singolare composto esista la stessa specie in sè come sussistente, e risponde di sì, ma dice: « « essere difficile determinare rispetto a quali cose questa specie ci sia, e rispetto a quali cose non ci sia »(6) ». Toglie dunque a determinare rispetto a quali cose la specie in sè non esista separata e sussistente, e prima di tutto esclude le specie artistiche, poichè riguarda come cosa manifesta che la specie della casa non sussiste in sè, ma solo nella casa (1): dove si vede che per Aristotele altro è esistere la specie in sè scevra da materia, e altro è esistere separata come un ente da sè sussistente: poichè la specie della casa esiste scevra da materia nella mente dell' architetto, ma non come un ente che da sè solo sussiste. Resta il dubbio rispetto alle cose naturali: intorno al qual dubbio dice: [...OMISSIS...] . Non vuole dunque Aristotele che sussistano per sè come enti separati e indipendenti nè le specie artistiche, nè le specie delle cose naturali. Pure le ammette, ma in che modo? Le ammette tanto unite colla materia, quanto separate della materia, ma non come enti sussistenti da sè. In quanto sono nella materia da questa accecate non sono nè attualmente intelligibili, nè intelligenti, ma pur sono intelligibili in potenza. Quando poi si riducono all' atto, per opera della mente in atto, allora sono scevre di materia, ed esistono come pure specie, ma non come enti indipendenti, ma come appartenenze della mente: la mente poi è quella specie che sussiste in sè da ogni altra cosa separata, indipendente e al tutto divina. Trova dunque indegno della divinità l' ammettere specie eterne di cose corruttibili per sè essenti, poichè se così sussistessero, sarebbero altrettante divinità: e ripugna che la divinità sia fatta come gli enti finiti sensibili e corruttibili della natura, colla sola aggiunta, che sieno eterni e incorruttibili. Ma se la mente stessa è una prima specie, e però un primo intelligibile, ammesso da Aristotele, come contenente ora in potenza, ora in atto tutte l' altre specie, tutti gli altri intelligibili: come dice che intelligibile è dunque la mente, e come scevera essa dalla materia e riduce in atto le specie che si riferiscono agli enti materiati? La mente, dice Aristotele, è dei principŒ: ciascun genere è il principio di ciò che è subordinato ad esso (1); ma fuori e al disopra di tutti i generi c' è l' essere e l' uno che non differisce dall' essere se non di concetto (2): questo è principio di tutti i generi e di tutte le cose, e in questo si fonda il principio di contraddizione, primo principio di tutti i principŒ logici. Se dunque la mente è il principio dei principŒ, e l' essere è appunto il principio de' principŒ, consegue che la mente in senso obiettivo e come intelligibile sia l' essere , in senso subiettivo poi sia l' intuizione dell' essere e nell' essere dei principŒ primi del ragionamento. E qui appunto ha luogo il doppio aspetto, sotto cui dicevamo che Aristotele considera l' idea o specie, cioè in sè stessa come sostanza sussistente, e come universale partecipabile. Poichè cercando qual sia l' oggetto della prima filosofia, da una parte dice che è la prima sostanza separabile e per sè sussistente, dall' altra dice che è l' ente universalissimo. Nell' XI dei « Metafisici », dopo aver detto che ogni scienza ha per principio la quiddità (3), e mostrato in che modo questo accada nella fisica e nella matematica, venendo alla prima filosofia dice: [...OMISSIS...] . Riguarda dunque per primo e principale principio, [...OMISSIS...] , l' Ente separato ed immobile, [...OMISSIS...] , e questo vuole che sia l' oggetto della prima filosofia. Ma separato da che? Da tutto quello certamente che non è puramente ente. Questo si vede considerando come Aristotele distingue gli oggetti delle scienze in cui divide la speculativa che sono fisica, matematica e filosofia prima. L' oggetto della fisica è l' essenza delle cose naturali unita colla materia, come il naso simo che ha ad un tempo il concetto di concavo e la materia corporea di cui necessariamente il naso si compone, e però essendoci la materia e la forma, c' è in queste cose il principio del moto (1). L' oggetto della matematica è quell' essenza che si separa bensì coll' astrazione dalla materia, e però è immobile; come il concavo che è il concetto del naso simo dalla materia del naso (2), ma non è da essa separabile in fatto, di modo che sussista da sè sola, e una tale essenza è la quantità (3). Finalmente l' oggetto della prima filosofia è un' essenza non solo separabile per astrazione, ma separabile di fatto e sussistente da sè come una compiuta ed ultimata sostanza, e questa essenza separabile è l' ente come ente; [...OMISSIS...] (4). Da questo passo risulta, che ogni scienza ha per suo oggetto un' essenza, o quiddità [...OMISSIS...] ; ma che Aristotele distingue l' essenza dalla ragione dell' essenza , [...OMISSIS...] e quindi l' essenza è considerata sotto un' altra ragione o aspetto dalle tre accennate diverse scienze. L' essere dunque, secondo Aristotele, è solo quell' essenza che inesiste in tutte le cose (5), e che sussiste anche separata da tutte e per sè, ed è il divino, [...OMISSIS...] . Questa dunque è ad un tempo singolare in quant' è separata e da sè sussiste, e universale e comunissima, in quant' è in tutti gli enti, non come genere (6), nè come privazione , nè tampoco come specie limitata , ma puramente come essere comune a tutti i generi, a tutte le specie, ed anche alle differenze, ma sotto un altro rispetto, di maniera che la ragione, [...OMISSIS...] , sia diversa. Ciò posto, s' intende in qualche modo come la mente sia ad un tempo dell' universalissimo e del singolare, e come ad una stessa scienza, cioè alla filosofia prima, Aristotele attribuisca per oggetto Iddio, e l' essere comunissimo e universalissimo, come fosse un oggetto medesimo, supponendo Aristotele che l' Essere come separato e da sè sussistente sia Dio, e che l' essere stesso sotto un altro concetto logico sia in tutte le cose: e qui di novo c' è la traccia di quel panteismo che giace in fondo al sistema aristotelico. Concede dunque a quelli, che chiama gli elegantissimi, [...OMISSIS...] , cioè ai Platonici, che ci debba essere un' eterna sostanza e separabile, non potendo esserci senz' essa l' ordine nel mondo (1) e che questa sostanza sia l' essere e l' uno, che sono, pare, i principŒ sommamente immobili [...OMISSIS...] , perchè, rimosse anche tutte l' altre cose coll' astrazione, queste rimangono, ma vuole che essi si costruiscano e concepiscano come quiddità determinata e sostanza compiuta [...OMISSIS...] (2). Ma qui si fa egli stesso l' obbiezione: se, dice, supponiamo che l' ente e l' uno sia una quiddità e sostanza determinata (3), in tal caso s' avrebbe l' assurda conseguenza che tutto fosse sostanza, anche gli accidenti, perchè anche di questi si predica l' essere, e di alcuni anche l' uno. Quello dunque che ripugna ad Aristotele non è già che l' essere , a cui si riduce l' uno, sia una sostanza separata ed eterna, ma che tale sia l' essere come predicabile secondo quest' obbiezione, e non trova nè pure assurdo, che tale sia l' essere come predicabile delle sostanze, ma sì che tale sia l' essere come predicabile degli accidenti, poichè in tal caso, essendo l' essere sostanza, gli accidenti si cangerebbero in sostanze. La soluzione di questa difficoltà è oscura in Aristotele: pure ci pare, che egli l' intenda così. Ammette queste due proposizioni: 1 Che la prima filosofia tratti intorno all' Ente separabile, sostanza prima e singolare, Bene, Dio (1); 2 Che ogni scienza ed anco la prima filosofia tratti degli universali, tra' quali l' essere è il massimo e il comunissimo (2). Egli cerca la conciliazione di queste due proposizioni, poichè l' universale è in potenza e però è diverso dall' ente separato, che dev' essere atto purissimo: espone a lungo e replicatamente le difficoltà che involge l' una e l' altra proposizione: finisce coll' ammetterle entrambi; ma brevemente e oscuramente parla quando vuol dissipare quelle due serie di difficoltà e conciliare proposizioni che sembrano contraddittorie. La conciliazione dunque d' Aristotele, se non erro, è questa. L' ente come ente ha un senso primitivo ed assoluto, e preso in questo senso è separabile e sussistente, ed è Dio: ma quest' ente ha poi altri significati che si riducono tutti a quel primo (3). Questi altri significati sono quelli che appartengono alle predicazioni dell' ente. L' ente si può predicare in due modi, per sè e per accidente: l' ente per accidente non può costituire l' oggetto d' alcuna scienza; e nelle predicazioni, in cui l' ente si predica per sè, sia de' generi, sia delle specie, sia delle differenze, esso significa partecipazioni dell' ente. Ma queste predicazioni sono varie; e alcune sono relative ad altre, come l' ente predicato del quanto, del quale e del relativo, si riferiscono all' ente predicato della sostanza, e significano passioni di questa. L' essenza sostanziale invece non si predica che della sostanza singolare. Di più, tra le sostanze stesse che partecipano l' ente, altre lo partecipano potenzialmente, altre attualmente; più attualmente di tutte l' altre lo partecipano le anime intellettive, tra le quali è la Mente; e questa in senso obiettivo è l' ente stesso primitivo e divino. L' ente dunque predicato e partecipato è universale e comunissimo, e però anche la prima filosofia tratta dell' universale (1); ma essa non si ferma a questo, ma riduce questo all' ente separabile, come a sostanza compiuta. Che se il filosofo col suo pensiero si fermasse all' ente come universale e predicabile, non sarebbe ancora giunto all' ultima e più ultimata sostanza e specie, e però non avrebbe la prima scienza (2). Non si può dunque dividere la dottrina dell' essere universalissimo dalla dottrina di Dio, perchè questa risulta da diverse partecipazioni o relazioni con quella. Quello dunque, che Platone disse di tutte le specie o essenze, Aristotele restrinse al solo essere , e non si può a meno di ravvisare in questo un progresso dell' ideologia . Platone vedendo l' immutabile natura delle essenze, disse che dovevano essere eterne sostanze, di cui le sostanze sensibili partecipassero, e così spiegò l' esistenza di queste. Aristotele osservò, con molta sagacità certamente, che gli universali non indicano l' essere delle cose, ma alcune loro qualità comuni (3), perchè in fatti gli universali si predicano di molti individui, di che conchiuse « « che gli universali non potevano esistere da sè come enti compiuti » », ma solo potevano esistere negli enti compiuti, come loro qualità comuni (4). Che se si ponesse che l' universale sia un ente compiuto, in tal caso ne seguirebbero due assurdi: il primo , che tutti gli enti di cui si predica un universale, sarebbero il medesimo ente, l' altro, il secondo , che un ente solo sarebbe composto di molti enti compiuti, come Socrate dell' ente animale, dell' ente uomo, ecc. (5). Ma è facile vedere, che dell' essere non si può dire quello stesso, che degli altri universali, cioè non si può dire che non significhi «tode ti,» ma «toionde,» poichè essere non significa certamente una qualità dell' essere , ma l' essere stesso . L' argomento dunque d' Aristotele contro le idee platoniche qui si frangeva: ed egli stesso dovette convenire, che l' essere si potea porre a parte dal resto, [...OMISSIS...] , come sussistente da sè solo, e si potea di lui dire quello che Platone estendeva a tutte le idee, cioè che sussistessero da sè come essenze eterne, e i sensibili non fossero che una cotale imitazione e partecipazione di esse. Ma se quell' argomento contro la sussistenza degli universali non si poteva applicare all' essere , altri argomenti parevano valere ugualmente anche per l' essere universale . [...OMISSIS...] Quest' ultime parole, a dir vero, escludono l' essere dall' argomento; dico l' essere proprio della cosa, perchè l' essere della cosa è il subietto stesso, di cui si predicano l' altre cose, ed Aristotele dice appunto, che la prima scienza ha per oggetto gli enti come subietti , e non come qualche cos' altro, [...OMISSIS...] (3). Sembra dunque che la scienza prima non tratti dell' essere come predicato, perchè come predicato è universale, e s' incorre nell' obbiezione accennata, [...OMISSIS...] onde la scienza prima non tratterebbe della sostanza, e della prima sostanza, come pur deve (4). Ma per l' opposto Aristotele stesso insegna espressamente che la prima scienza tratta dell' ente comune , dell' ente in quanto ente in universale , e che se l' ente non si considerasse come un solo genere , non potrebbe essere oggetto d' una scienza sola, ma di più (1). E in fatti, poichè la scienza prima tratta di tutti gli enti, in quanto sono enti subietti , [...OMISSIS...] , come potrebb' essere una scie o genere comune? E` dunque indubitato che la prima scienza, secondo Aristotele, tratta dell' ente come puro ente, [...OMISSIS...] , e che questo puro ente in quanto esiste separato da ogni altro ed è compiuto è Dio, ma oltracciò è anche univocamente gli altri enti tutti della natura, benchè mescolati di potenza e di atto, ed essendo tutti questi enti , è comunissimo: dove si vede riaffacciarsi il panteismo aristotelico, che abbiamo già scoperto. E` comunissimo univocamente a tutte le sostanze prime e singolari, ma non alle nove categorie che seguono a quella della sostanza, delle quali l' ente si dice «omonymos,» e così non appartiene più alla scienza prima, se non per una cotale relazione di pensiero, per la quale si considerano que' diversi significati di ente, come passioni o altre attinenze dell' ente come ente (2). Or se l' ente si dice di tutte le sostanze singolari, oltre l' altre sue significazioni equivoche o relative, sarà egli l' ente un predicato , quando Aristotele nega assolutamente, che ciò che è predicato, sia sostanza ed oggetto della prima scienza? Ritorna qui quello che dicevamo a principio, che Aristotele considerando l' ente dialetticamente, ne fa due, cioè stabilisce due ragioni dell' ente, secondo l' una delle quali sussiste da sè separato da ogni passione, e quest' è Dio sostanza suprema e singolare, l' altro poi è la specie comunissima dell' ente. Ora rispetto a tutte l' altre sostanze, non ammette se non due modi, cioè: 1 la sostanza singolare , 2 la specie sostanziale , che non esiste separata da quella, e da sè come sostanza compiuta, ma solo separata di ragione e così esistente nella mente. Ma rispetto alla suprema sostanza, cioè a quella dell' essere, pare che ammetta tre modi: 1 l' essere che esiste separato come sostanza compiuta, e questo è Dio; 2 l' essere comunissimo , che è la specie dell' essere che esiste separata nelle menti prese in senso subiettivo, e che costituisce le stesse menti in senso obiettivo; 3 e l' essere che costituisce tutte le singolari sostanze come subietti delle modificazioni e passioni, e di tutti i predicati. Ora, la scienza è sempre degli universali; laonde delle singolari sostanze finite non si dà scienza, ma si conoscono colle specie loro che sono nella mente e col senso. Ma poichè l' essere come essere è egli stesso ad un tempo e specie universale e singolare sussistente, risulta che si conosca per sè, e però che sia intelligibile anche come singolare, chè quello stesso essere che è sussistente come singolare è anche universale, specie universalissima, specie delle specie. L' essere dunque è per sè conoscibile. E poichè le specie dell' altre cose sono nella mente oggettivamente presa, cioè nell' essere, perciò coll' essere e nell' essere si conoscono l' altre cose. Ma è necessario, che noi vediamo come l' essere possa esser predicato . Poichè se attentamente si considera ben si vedrà, che egli ha una natura interamente diversa da tutti gli altri predicati; e benchè Aristotele non esponga chiaramente questa differenza, egli è mosso a fare un' eccezione all' essere, perchè n' ha il sentimento. E veramente di che mai si può predicare l' essere? Forse del nulla? No certamente. Di qualche materia o potenza, di qualche specie od atto? In tal caso si supporrebbe che prima dell' essere ci fosse qualche cosa, che potesse servire di subietto all' essere predicato. Ma prima dell' essere non c' è nulla, perchè se ci fosse, sarebbe già essere (1): egli dunque è veramente il primo subietto (dialettico) di cui tutto il resto si predica. L' essere dunque non si predica, che dell' essere stesso. Ora, come non manca d' osservare Aristotele, la predicazione si fa nel pensiero (2) e propriamente consiste nell' applicare l' essere intelligibile o ideale al reale sensibile o a un altro intelligibile che è precedentemente nella mente. L' essere intelligibile fa conoscere all' uomo la natura dell' essere, unica e semplice (3): nei sentiti dunque e negli altri intesi si riconosce questa natura dell' essere: è una identificazione dell' essere inteso, e che è in potere della mente, col sentito o coll' inteso precedentemente, ma questa identificazione non si può fare che in quel grado e modo che è determinato dallo stesso sentito ed inteso, il quale fa il personaggio di subietto, benchè non esista se non per una tale identificazione della mente. La spiegazione dunque di questo mistero consiste nella distinzione tra l' essere reale e l' essere ideale o intelligibile, che gli antichi non avevano colta, o certo non aveano mantenuta costantemente. Se dunque si domanda se l' essere predicato d' ogni cosa è universale, si dovrà rispondere di sì avanti la predicazione; ma colla predicazione egli diventa uno con ciò di cui si predica, e perciò l' essere della cosa di cui esso si predica è reale o ideale, sostanza o accidente, assoluto o relativo; perchè l' essere universale che si predica è suscettivo di divenire tutto ciò mediante la predicazione. Quindi se l' essere si predica d' una sostanza reale e compiuta, egli stesso dopo la predicazione è sostanza reale e compiuta. Ma se si predica di cosa accidentale e relativa, egli dopo la predicazione non è un ente compiuto, ma ente in senso equivoco, ente imperfetto, parte di ente e non ente. Acciocchè dunque l' ente, che si predica, dopo la predicazione sia ente compiuto , conviene che sia predicato della sostanza reale ; e tuttavia non è meno vero che avanti la predicazione egli è essere universale e universalmente predicabile, tanto della sostanza, come del quanto, del quale, del relativo. Ma poichè avanti la predicazione è il medesimo essere che dopo la predicazione, come accade che dopo la predicazione diventi così vario e molteplice, e talora non si possa dire più semplicemente ente, come quand' è predicato dell' accidente? La ragione di ciò si è che avanti la predicazione l' essere è in potenza tutto ciò che dopo la predicazione è in atto: ora alcuni dnza sola, quando tutti questi enti non s' adunassero in una sola speciei questi atti, come gli accidentali, non sono atti compiuti dell' essere, ma parte di atti e però smarriscono la denominazione semplice di essere, benchè tali atti parziali si riducano agli atti completi. Ora ciò che è in potenza e ciò che è in atto appartiene allo stesso genere, secondo Aristotele; e però quella scienza prima che tratta dell' essere come essere, tratta anche delle passioni dell' essere come essere. Di più tra gli atti compiuti dell' essere ce n' ha uno ultimatissimo e compiutissimo, anteriore a tutti gli altri, dal quale gli altri dipendono come da loro causa finale, e quest' è Dio; onde la prima scienza dee trattare principalmente di Dio. Così questa scienza ha per oggetto ad un tempo: 1 Dio, essere attualissimo; 2 l' essere in potenza o comunissimo; 3 le partecipazioni di quest' essere, considerate non a parte, ma come passioni dell' essere come essere (1). Che cosa si presenta al pensiero del filosofo? Tutto, tale qual è l' universo. Questo, per ipotesi assunta (chè prove efficaci non se ne danno e le inefficaci trapassiamo per brevità), è sempre stato. Dunque ci si dovea trovare tutto ciò che c' è al presente. Poteva sussistere l' universo solo materia corporea senza alcun' anima vegetativa ? No, risponde, perchè senza questa non c' è l' anima sensitiva. Ma non potrebbe esistere l' universo senza alcun' anima sensitiva ? In tal caso non si potrebbe più concepire esistente cosa alcuna, [...OMISSIS...] (il solo corpo sensibile) [...OMISSIS...] . (2). Poteva esistere l' universo senza l' intelligenza, ossia l' anima intellettiva ? Impossibile del pari, perchè in tal caso non essendoci che i senzienti, e in essi i sensibili, e questi essendo apparenze relative, non esisterebbero che relativi, il che è assurdo (3). Poteva esistere l' anima intellettiva senza gli intelligibili ? Nè pure, perchè la mente non è tratta al suo atto, che da una specie di contatto cogl' intelligibili, [...OMISSIS...] (4). Aristotele dunque trova, che nell' università delle cose, ci sono e ci devono essere sempre state queste cinque cose: 1 materia corporea; 2 esseri vegetativi; 3 esseri sensitivi; 4 esseri intellettivi; 5 intelligibili; e che se un solo di questi anelli mancasse, non potrebbero più esistere gli altri. Questi anelli poi sono collegati così, che il seguente è il precedente in atto, e il precedente è il seguente in potenza. Quindi la materia corporea è in potenza l' anima vegetativa, la qual è l' atto di quella; l' anima vegetativa è l' anima sensitiva in potenza, e questa l' atto di quella; l' anima sensitiva è l' intellettiva in potenza, e questa l' atto della sensitiva; l' anima intellettiva è gli intelligibili in potenza, e questi sono l' atto di quella. Così costituito e organato l' universo, si fa a spiegare la generazione delle cose. Osserva, che certi corpi passando all' atto metton fuori l' anima vegetativa, e questa la sensitiva, e questa passando all' atto l' anima intellettiva, e questa passando all' atto gl' intelligibili. Ma come si fa questo passaggio? Risponde: è sempre una cosa in atto, quella che opera e trae un' altra cosa, che è in potenza, al medesimo atto, la potenza non si move da sè stessa, ma solo asseconda e segue il movente. Se dunque vi sono cose che relativamente sd altre sono in potenza, queste però che sono in potenza, non potrebbero passare al loro atto, se non per la mozione d' altre cose che sono in quel medesimo atto, a cui esse passano. Laonde, se rispetto a quelle cose, che, essendo in potenza, passano all' atto, la potenza precede, l' atto sussegue: questo però, assolutamente parlando, precede sempre la potenza, cioè deve esistere in altre cose. E poichè la potenza e l' atto non sono che un medesimo ente, quindi tutte le cose si continuano, e sono come un ente solo che va passando a diversi stati o gradi d' eccellenza; non mancando mai questi gradi, che traggono e sollevano a sè quella porzione di natura rimasta indietro in uno stadio inferiore (1). Fermandoci qui, dicevamo che questo ingegnoso sistema non regge ad un esame rigoroso. Invano ricorre a questo principio vero e acutissimo, che « « l' atto di chi opera, si fa in quello in cui si opera » » (2). Primieramente la materia corporea, mancando per sè d' unità, non può mai essere un subietto com' egli stesso riconosce (3), appunto perchè non può esser una: quindi vacilla la base di tutto il sistema. Di poi quest' espressione « « ciò che è in potenza » » o è una frase insignificante e che non dice nulla di reale, o significa un germe, un principio, da cui si sviluppi quello che inchiude. In tal caso converrebbe che nella pura materia corporea ci fosse in germe la vita vegetale. Ma se questa ci fosse, non sarebbe più la materia pura ma formata, e non potrebbe poi essere al tutto materia corporea ed estesa, ma già sarebbe un principio inesteso, insito ed operante nella materia; e questo principio solo potrebbe essere il vero subietto dell' anima vegetale, di cui la materia non sarebbe che un puro termine. Che cosa poi dovrebbe essere l' anima sensitiva in potenza? Se l' anima vegetale, come suppone Aristotele, non sente nulla, in che modo ci può essere un germe del sentimento che non sente nulla? Nel germe si acchiude sempre qualche cosa di ciò che si svolge da esso di poi (1). O conviene dunque ammettere nell' anima vegetale qualche cosa di sentito, per minimo che sia, o riconoscere che non c' è in essa punto nè poco l' anima sensitiva in potenza. Il sentimento dove non è, dovrebbe essere creato del tutto, e non sviluppato; esso differisce di specie, ed anzi di genere da tutto ciò che non sente, e lo stesso Aristotele confessa, senz' accorgersi che così atterra sè stesso, che la produzione si fa entro la stessa specie, e dall' univoco (2). Medesimamente, non contenendo il sensibile l' essere delle cose, che è l' oggetto, secondo Aristotele, dell' intelligenza, come l' intelligibile si potrà trovare in potenza nel sensibile? E come potrà ridursi all' atto quello che non c' è? e non dovrà piuttosto crearsi dal nulla? O dunque « trovarsi in potenza »è un suono vano, o se vuol dire trovarsene qualche parte, per quanto involuta, già non è più vero, che il sensibile non sia che fenomenale e puramente relativo, come pur insegna Aristotele. Da tutte parti dunque crolla cotesto sistema, rimanendo però veri certi principŒ e certe parti accidentali. Arrivati noi qui agl' intelligibili d' Aristotele, ci si offre di nuovo la questione che abbiamo trattata precedentemente: se ci sia per Aristotele qualche intelligibile, che sussista da se solo. Su cui ci par necessario d' aggiungere alcune altre considerazioni, essendo questo il nodo più difficile di tutto l' Aristotelismo, e il più controverso. E già abbiam veduto, che Aristotele distingue le specie in quelle che sono in natura, e in quelle che servono all' uomo di norma nell' opere dell' arte. Sulla quale distinzione osserviamo come Aristotele non concepisca la specie unicamente come un' idea, che fa conoscere le cose, ma confondendo la specie7idea colla forma reale delle cose (cioè col loro atto immanente), dà a questa forma reale un' efficienza nella cosa stessa che non può certamente dare alla pura specie ideale , che sta nella mente dell' artista, la quale è bensì efficiente, ma nell' artista, non nella cosa dall' artista prodotta (1). Questa confusione del reale coll' ideale impaccia tutto il sistema aristotelico, e in qualche parte anche quello di Platone, a cui Aristotele riferisce la distinzione tra la specie negli enti naturali, e nei prodotti dell' arte (2). Alla specie artistica dunque nega a dirittura, come vedemmo, l' esisenza da sè; delle specie naturali non parla così reciso. [...OMISSIS...] Osserviam dunque su questo luogo che il negare il titolo d' essenze alle specie artistiche, riservandolo alle sole specie naturali, che costituiscono la natura delle cose e il principio della generazione e della corruzione, è consentaneo al suo sistema, il quale non ammette con Platone che l' universo sia creato da Dio come da un artefice, sull' esemplare delle proprie eterne idee, ma vuole, che tutto sia stato sempre, e questo tutto si rimova eternamente e cangi per que' quattro modi di trasmutazioni che abbiamo indicati, rispondenti alle quattro prime e fondamentali categorie. S' osservi anche quell' espressione, « « che d' alcune specie non può accadere così » », [...OMISSIS...] , per la quale sembra che consideri come accidentale a tali specie il sussistere separate. Con questo egli allude indubitatamente all' anima intellettiva, che considera come specie del corpo corruttibile, negando che preesista al corpo, come pare facesse Platone o alcuno della sua scuola, sebbene conceda che sopravviva al corpo, corrompendosi accidentalmente questo. Escluse dunque le specie artistiche, veniamo alle naturali che oltre esser mezzo del conoscere, quando rimangano nella mente separate dalla materia corporea, sono anche forme degli enti della natura (4). Richiamiamo il gran principio aristotelico, che « « niente di quello che è in potenza è eterno », [...OMISSIS...] (1), «e che se c' è una specie separabile, questa dee essere in atto », [...OMISSIS...] (2). Questo principio ci conduce egli a qualche specie in atto compiuto e separabile? Primieramente non è da discorrere della privazione , che si riduce alla specie , essendo o il mancamento della specie, o la specie opposta (3). Di poi, i generi e tutti gli universali incompiuti, non avendo l' ultimo atto, sono da Aristotele dichiarati materia (4). In terzo luogo, non possono essere separate le specie degli accidenti, perchè questi non hanno l' atto per sè, onde dice: [...OMISSIS...] . Rimosse queste tre classi di specie, che rimane? Rimane da sè la mente, specie ultimata, e separabile non solo di concetto, ma anche realmente, non solo dal corpo (se pure Aristotele rimane a questa altezza), ma anche dal resto dell' anima: e la mente è il complesso degl' intelligibili. Gl' intelligibili dunque, per riassumere, sono specie e generi, e le specie altre sostanziali, altre accidentali: queste ricevono il loro esser da quelle; la specie sostanziale è più atto della specie accidentale. I generi poi sono più potenza delle specie, e ricevono il loro atto in queste (6). Le specie sostanziali ancora si considerano o come termini dell' atto intellettivo e contemplativo, o come atti intellettivi esse stesse per la solita o almen frequente confusione che fa Aristotele tra la specie e l' atto . Secondo la prima considerazione, essendo ancora in potenza, non sussistono da sè, e Aristotele riprende Platone, quasi abbia voluto ammettere le idee come essenze prive dell' atto contemplativo, e però potenziali, quando nulla ci può esser d' eterno, che sia in potenza. La qual censura quanto sia ingiusta, scorgesi anche dal decimo della « Politeia », dove Platone fa, che le idee nascano da atti della divina mente. Che anzi lo stesso Platone non ci sembra andare del tutto immune dalla stessa colpa d' Aristotele, di non avere abbastanza distinto l' atto dalla specie , termine dell' atto (1). Per ovviare dunque l' inconveniente di non ammettere come eterne tali specie che in sè contenessero del potenziale, Aristotele pose questo principio, che « « in quelle cose che sono scevre di materia l' intelligente e l' oggetto inteso sono un medesimo » », [...OMISSIS...] (2). Ma che vuol dire « scevre di materia »? Non altro, nel linguaggio d' Aristotele, se non senza potenza. Quel principio dunque viene a significare: « Nelle cose dove non c' è potenza, ma tutto atto, l' intelligibile deve essere intelligente; chè altramente quello conterrebbe della potenza contro l' ipotesi ». Donde si conferma quanto abbiamo di sopra toccato, che Aristotele non vede atto puro se non nell' ordine intelligibile, e dentro a questo, nell' intellezione , di guisa che « atto puro del tutto ultimato »e « intellezione » è il medesimo, e quello non è già un genere, ma una cosa con questa specie ultimata. E non basta che le specie sieno attuate e divenute intellezioni: le specie che appartengono al genere della sostanza precedono alle altre in dignità per una maggiore attualità: l' altre che appartengono al genere degli accidenti, esistono per le prime. Le sole specie sostanziali dunque, ossia quell' intellezione che ha per oggetto o atto ultimato la quiddità [...OMISSIS...] (3), è la più attuale di tutte. Ma questo non basta ancora per arrivare a quella specie che sussiste da sè, secondo Aristotele, cioè alla mente . Che anzi egli è obbligato di fare, e questo è degno di osservarsi, il cammino contrario. Poichè non qualunque intellezione, che abbia un oggetto speciale o singolare, è mente, ma dee averli tutti in potenza. Conviene qui dunque che Aristotele retroceda alla potenza, non a una potenza corporea, ma pure ad una potenza, ed ecco come egli lo fa. I generi sono materia delle specie, specie in potenza (1). Essendo, specialmente certi generi , quelli « « che Platone avea celebrati, e considerati come idee fondamentali » », si compiace Aristotele di ribassarli sotto le specie. Ma ben presto n' ha bisogno egli stesso e li rialza. Infatti, Aristotele s' accorge che tutta la scienza viene da certi principŒ, e questi hanno per fondamento gli universali, e i principŒ primi hanno per fondamento gli universali della massima estensione. I principŒ primi dunque non vengono dalle specie, anzi da' sommi generi, e da ciò che è più universale ancora de' generi, l' essere. Alla mente d' Aristotele si presentano dunque, come abbiamo veduto, i generi e gli universalissimi da due aspetti, e ne trae due conclusioni opposte. Quando considera i generi qualità comuni delle cose (2), dice contro Platone, che non possono esistere separati dalle sostanze singolari. Da questi universali esclude la sostanza in atto, poichè la sostanza collocata nel primo luogo tra le categorie è la sostanza in potenza, ed è anch' essa una certa qualità, [...OMISSIS...] (3). Altre volte invece considera i generi universalissimi, cioè le nature in questi significate, come intelligibili e anzi primi intelligibili ; e sotto questo novo aspetto, esistono nella mente non come qualità comuni delle menti, ma come atti di ciascuna mente, e questi atti sono primi principŒ . Ma tutti cotesti atti o principŒ si riducono ad uno, cioè a quello di contraddizione, e questo è fondato nell' essere puro indeterminato, universalissimo, che è in potenza tutte le cose. Ora l' intellezione che ha quest' oggetto è appunto la mente . Questa mente è atto perchè è intellezione, ma è ancora potenza perchè ha un oggetto che è in potenza tutte le cose. Così dice che la mente è de' principŒ [...OMISSIS...] (1), e in essa ripone la divina natura. Poichè se il divino esiste, dice, dee certamente riporsi nella natura separata ed immobile (2). La specie sostanziale dunque, presa come forma reale delle cose, è la quiddità (3), la natura delle cose, e il principio di ogni generazione e movimento (4). La generazione poi tende alla specie sostanziale come a suo fine (5). Tutto si move dunque da una specie sostanziale ad un' altra specie sostanziale. Operando così la natura, l' ultima e più eccellente e divina specie che perviene a produrre, secondo Aristotele, si è l' anima, e in questa la mente: tale è il fine dell' operare della natura. Questa gran produzione dell' anima appartiene a quell' efficienza naturale, che Aristotele chiama generazione , e che riguarda la produzione d' una sostanza nova: ella si distingue dalle altre tre maniere di permutazioni naturali, che producono solamente delle specie accidentali, che non riguardano la categoria della sostanza, ma alcuna delle altre nove. Ora Aristotele pone questa differenza tra le produzioni sostanziali , e le produzioni accidentali della natura, che non può esser prodotta una nova sostanza , se non esiste già prima una sostanza della medesima specie in atto; laddove gli accidenti nuovi delle cose possono esser prodotti quantunque precedentemente non esistessero che in potenza, perchè gli accidenti, il quanto e il quale , non si producono mai in separato dalla sostanza, ma insieme con essa (1). Da qui procede che ab aeterno, secondo Aristotele, doveano esistere delle menti: perchè altrimenti non se ne sarebbero mai generate di nuove. Pervenuta dunque la natura, per mezzo della sua più eccellente operazione, cioè della generazione, a produrre questo ultimo suo atto, puro da materia corporea, che dicesi anima e mente , alla natura non resta altro che fare, ma in quest' ultima sua specie, come in termine della sua fatica, riposa. Ma qui appunto è già con ciò posta in essere una nuova causa d' operare, e questa è l' anima stessa intellettuale, dotata di diverse potenze, e che dà luogo a nuova serie di operazioni. A queste e ai loro prodotti dà il nome di effezioni [...OMISSIS...] , per distinguerle dalle generazioni, e le distingue secondo le potenze dell' anima. In qualche luogo ne fa tre classi: quelle che vengono dall' arte, quelle che dalla forza, e quelle che dal pensiero (2). Altrove dice che « « ogni pensiero [...OMISSIS...] o è pratico, o fattivo, o speculativo » » (3). Il pensiero fattivo è quello che produce qualche opera al di fuori come quello dell' architetto che fabbrica la casa, o del poeta che compone un carme. [...OMISSIS...] Or dunque quel pensiero che, movendo altre potenze, produce un' opera esterna, è detto da Aristotele fattivo : quel pensiero poi la cui azione non esce dal subietto pensante o è speculativo se è una pura contemplazione che non esca dalla mente, o è pratico , se c' entra la volontà, come nelle operazioni morali ed eudemonologiche. [...OMISSIS...] Ora, come tutta l' attività della natura è, secondo Aristotele, annessa alla specie come forma reale, così tutta l' attività dell' anima intellettiva, che è l' altra causa da Aristotele spesso compresa sotto la denominazione di arte, è del pari la specie come idea, ossia mezzo del conoscere. [...OMISSIS...] . E reca questo esempio tratto dall' arte medica: [...OMISSIS...] . L' arte ancora osserva la stessa legge ontologica della natura, che « « quello che agisce sia un ente in atto (qual è la specie) che opera su ciò che è ente in potenza traendolo all' atto » (5) ». Dichiara poi come il pensiero produca un effetto esterno come la sanità o l' edificio. Dice che egli trascorre tutta la serie dei mezzi fino che ne trova uno che è in suo potere e che è poi causa naturale degli altri. Così, a ragion d' esempio, il pensiero del medico arriverà alle fregagioni che è in suo potere di fare sul corpo dell' infermo. Conosciuto questo, mette in atto le sue forze fisiche: eseguite le fregagioni, queste da sè promuovono il calore, il calore produce l' equilibrio degli umori e dell' interne forze: e questo la sanità. Conchiude che è impossibile che l' arte faccia nulla, se non preesiste qualche cosa naturalmente (6). In quest' operare poi dell' arte distingue il primo movimento, che viene dal principio e dalla specie e lo chiama intellezione , quello poi che viene dall' ultima intellezione, come nell' esempio addotto le fregagioni, lo chiama effezione (1). La specie dunque tanto nella natura quanto nell' arte è il principio dell' attività e de' movimenti. Ma se tutte le specie nell' anima sono acquisite, come l' anima sarà un principio operante? Aristotele risponde che la stessa anima intellettiva è una specie (2). E dice la mente, come abbiamo più volte detto, « la specie delle specie ». Ma poichè il pensiero speculativo è il principio e il fondamento del pratico e del fattivo, e quindi di tutta l' attività dell' anima intellettiva, gioverà che, richiamando le cose dette, e svolgendole in parte maggiormente, cerchiamo di dare la maggior luce alla teoria aristotelica intorno all' intelligibile ed al divino. Perocchè con questo sviluppo l' anima si provvede di specie determinate, di cui si compongono le arti, e ogni specie è nuovo principio d' azione. Dalle cose vedute fin qui sembra che in Aristotele compariscano su questo argomento due dottrine opposte. Noi possiamo compendiare la prima in questo modo: « i corpi hanno le specie sensibili in potenza ; quando essi affettano un essere vivente, un animale, suscitano nella sensibilità dell' animale le specie sensibili in atto . Queste specie sensibili nell' animale hanno le specie intelligibili in potenza . Quando l' animale di cui si tratta, abbia un' anima intellettiva, le specie intelligibili che sono in potenza nella sua sensibilità, si suscitano in atto nel suo intendimento ». Queste formole hanno un' apparenza di rigore e di chiarezza: ma quando si vogliano spiegare in altre parole, s' oscurano. La espressione in potenza può intendersi in due modi: quindi due dottrine. O le specie sensibili sono in potenza ne' corpi così fattamente, che il senso, che le riceve in atto, non faccia altro che separarle dalla materia: e in tal caso esse sono veramente ne' corpi, unite colla materia. O le specie sensibili non sono punto nè poco ne' corpi, ma coll' azione de' corpi sull' organo sensorio del vivente si suscitano in esso; e in tal caso ne' corpi c' è soltanto una forza bruta ed insensata, che occasiona però le sensazioni nel subietto senziente. Una simile alternativa si faccia rispetto alle specie intelligibili: e si avranno le due dottrine che dicevamo. Ora egli pare che Aristotele or pieghi all' una ed ora all' altra. La prima intanto sembra cozzare con certe verità da Aristotele stesso insegnate. Questo filosofo accorda veramente ai corpi la condizione di sostanza realmente individua (1), ma nello stesso tempo sente la difficoltà d' una tale concessione. - La materia corporea non ha unità. - Lo vede; e risponde che il corpo riceve l' unità dalla specie o forma, con che ammette veramente inesistere ne' corpi bruti talune specie . - Ma che specie sono coteste? Non intelligibili. Forse sensibili? Nè pure essenzialmente, chè un corpo di minima grandezza non è sensibile. Non è dunque inerente all' essenza del corpo l' avere forme sensibili, non essendogli necessario l' avere una certa grandezza. Aristotele ricorre alla sua diletta espressione: « « gli è essenziale averle in potenza, chè il corpo piccolo può farsi grande » ». Vana risposta; il corpo grande, in quanto è grande, non è un corpo, ma un aggregato di corpi de' quali ciascuno non è sensibile. - Di nuovo: un corpo grande, che è uno fenomenalmente, avrà forme sensibili ? Nè pure, almeno fino a che agendo nel subietto senziente non vi produca le sensazioni: le specie sensibili non possono essere che passioni del senziente, come le chiama lo stesso Aristotele (2): le forme sensibili son dunque nel senziente e non nel corpo. Replica che in questo sono in atto, ne' corpi in potenza, perchè l' azione di questi le suscita (3). Sia, ma in tal caso si vuol dire non già che ne' corpi ci sieno specie sensibili , ma soltanto una certa forza e virtù d' eccitarle nel subietto senziente: e a questa virtù si dà la denominazione impropria di specie sensibili in potenza. Parliamo dunque chiaro: ne' corpi non ci sono in nessun modo forme sensibili, nè pure in potenza; queste sono in potenza nello stesso subietto senziente prima che ci sieno eccitate; eccitate poi, sono nel medesimo in atto. Poichè dove le specie sensibili sono in potenza, ivi solo s' intende che possano essere eccitate e attuate. Il che, si noti, procede dai principŒ stessi d' Aristotele, il quale molto acutamente dice: « « La natura si fa nel medesimo, poichè nello stesso genere della potenza » », e poco appresso: « « poichè sempre da ciò che è in potenza, si fa l' ente in atto da un atto esistente (1) » », e un atto dello stesso genere e specie (2). Ora, il corpo materiale non avendo nulla di sensitivo in sè, non può avere un atto nell' ordine sensitivo, non avendo una potenza che sia nella stessa specie, nè nello stesso genere della sensazione. E veramente un corpo esterno operante sui nostri sensori altro non fa che cagionare un certo movimento o spostamento di molecole, e questo movimento locale è in effetto nello stesso genere e specie della potenza che egli ha di moversi localmente: la sensazione all' incontro non è effetto di cotesto corpo esterno, ma del principio sensitivo che in potenza trovasi nello stesso genere e specie dell' atto della sensazione particolare, perchè l' anima sensitiva è ella stessa un sentimento (3). La natura corporea dunque ed inanimata non ha specie sensibili (4): ma queste, se specie si voglion chiamare, appartengono ad un' altra natura, a quella del corpo animato, termine dell' anima sensitiva. Pure il corpo esterno si sente come forza che immuta, relativamente alla disposizione nello spazio, il sentito dotato d' estensione: e questa forza si compone e quasi si veste del sentito, e di queste due cose di diversa natura, se ne fa una nella percezione dello spirito. Indi l' illusione di credere, che le specie sensibili appartengano ai corpi esterni. E poichè la loro forza si cangia, per la diversa collocazione e aggregazione degli elementi, perciò sembra che alcune di queste specie rimangano in potenza, altre poi sorgano all' atto. Ora su queste specie, supposte ne' corpi esterni, sembra che Aristotele fabbrichi una teoria, considerandole come il bene a cui tende la natura inanimata. E come tutto il bene ha ragion di fine , e la causa finale è divina , anche le cose animate tendono al divino col loro appetito. Ma tutta questa dottrina s' appoggia sopra un falso supposto. E Aristotele stesso pare in qualche luogo ammetterla, in altri pari abbandonarla, e applicarsi alla seconda dottrina da noi sopra accennata: anzi noi crediamo che quest' ultima più ragionevole sia veramente quella sola d' Aristotele, benchè le sue maniere ambigue lascino luogo a dubitarne. E` dunque del pari falso, che quelle che Aristotele chiama specie sensibili sieno in potenza intelligibili . Infatti, si può fare un ragionamento del tutto simile al precedente: che nelle specie sensibili non c' è affatto nulla dell' intelligibile; e però questo non ci può essere nè pure in potenza; stante che la potenza e l' atto conviene che siano della stessa specie. Aristotele confessa ad un tempo e che l' intelligibile è l' essere delle cose, e che l' essere delle cose non è punto nè poco offerto allo spirito dalle sensazioni. Veniamo dunque alla seconda dottrina : prendiamo l' espressione « essere in potenza », non come « materia e subietto atto ad uscire all' atto », ma come qualunque causa occasionale. La dottrina indicata si cangerà in quest' altra: [...OMISSIS...] . In questa dottrina i corpi esterni sono cause occasionali delle specie sensibili, e le specie sensibili cause occasionali delle intelligibili. E queste cause occasionali sono di quella classe, che noi chiamiamo materiali o terminative , perchè altro non fanno che mutare la materia, o termine dell' atto, senza avere nessuna azione nè sulla potenza che produce l' atto, nè sull' atto medesimo. Ora che questa dottrina si presentasse alla mente d' Aristotele, parmi si provi dai luoghi seguenti: « « Diciamo l' anima stessa essere in un certo modo tutte le cose che sono » ». - Queste cose, come dice appresso, sono le sensibili e le intelligibili , a' quali due generi riduce tutto: ora, riconoscendo che tanto le cose sensibili quanto le intelligibili sono nell' anima non solo in atto, ma ben anco in potenza: ne riconosce con ciò la distinzione originale, di modo che fin da principio essendo distinte, non possono venire le une dalle altre. Oltre di che, se sono nell' anima in potenza ed in atto, di conseguente non sono ne' corpi bruti. Continua dunque: « « Poichè quelle cose che sono, o sono intelligibili o sono sensibili » ». - Riducendo tutto a questi due generi, dove restano i corpi bruti? Si vedrà. - [...OMISSIS...] Se dunque quello che è in potenza e quello che è in atto deve essere della stessa specie, conviene che ci sia nell' anima un primo sentito che sia in potenza tutti gli altri sentiti, e un primo inteso che sia in potenza tutti gli altri intesi. Ora tale è il sentimento fondamentale , e l' essere ideale , che noi abbiamo posti come costitutivi dell' anima umana. Aristotele dunque qui è nel vero. Continua poi mostrando come rimangano le cose corporee fuori dell' anima così: [...OMISSIS...] . - Sulle quali parole conviene osservare, che la parola « pietra » può significare l' idea della pietra, la pietra ideale, e la pietra reale. Oltre di che la « forma della pietra »ha anch' essa due significati, poichè per forma ora s' intende da Aristotele la stessa cosa ideale composta di materia e di forma, ora la sola forma, che è l' atto sostanziale e immanente della cosa, astrazion fatta dalla sua materia, anche ideale (2). Si può dunque intendere il passo citato in vari modi; e tra gli altri in questi due, che nell' anima sia la sola forma , rimanendo fuori di essa il composto di materia e di forma: o che nell' anima sia la forma , rimanendo esclusa dall' anima la sola materia. In quest' ultimo senso fu inteso da' commentatori. Ma ciò involge l' assurdo, che la stessa identica forma sia separata ed unita alla materia, separata nell' anima, unita al di fuori dell' anima. Ora che la stessa cosa identica, una di numero, sia ad un tempo separata ed unita alla materia, è contradditorio. Convien dunque intendere che altro sia la specie della pietra nella mente, ed altro sia la forma o atto sostanziale della pietra materiale; quella che contiene forma e materia ideale, fa conoscer la pietra reale, e nella pietra anche la sua forma reale. Ma Aristotele stesso sembra che rimanga preso nell' equivoco della parola «eidos», che egli applica ugualmente alla forma reale della materia reale, e alla specie intellettiva. Non distingue mai chiaramente queste due cose totalmente diverse, se non colle espressioni di potenza e di atto , che non possono convenire; poichè la specie intellettiva ha nella mente tanto l' essere suo potenziale, quanto l' attuale, onde non può averlo al di fuori. Che se Aristotele consentisse a riconoscere l' infinita differenza, che passa tra la specie intellettiva della cosa (e in questa specie tra la forma ideale e la materia ideale) e la cosa reale (e in questa tra la materia reale, e la forma reale di cui si compone, la qual forma reale, riguardo alla pietra, altro non è che i suoi confini nell' estensione): con ciò ei darebbe la mano a Platone, che nelle cose corporee non vede se non una similitudine e una cotale imagine dell' idea. Questo è dunque il passo in cui Aristotele cade e contraddice alle verità da lui stesso vedute. « « Laonde l' anima, prosegue, è come la mano: chè la mano è l' istrumento degli strumenti, e l' intelletto la specie delle specie, e il senso medesimamente la specie de' sensibili » » (1). Vedesi che anche qui per Aristotele (nè pur l' anima intellettiva) non è il subietto , ma uno strumento del subietto. Il qual luogo s' illustra con quest' altro: [...OMISSIS...] . Dal qual luogo si raccoglie che l' anima è strumento degli strumenti, come la mano, perchè essa è strumento dell' uomo, ed ella stessa usa come di suo strumento la scienza, che comprende tutti gl' intelligibili. E per la stessa guisa è specie indeterminata delle specie determinate. Anche delle specie sensibili? Così parve agli scoliasti doversi intendere quel luogo, come spiegazione di ciò che dice così di frequente, che « « l' anima senza i fantasmi nulla intende » » (1). Nè noi ripugniamo, osservando solo che se la mente è specie delle specie sensibili, già con questo s' ha, che le specie intelligibili sieno poste dalla mente là, dove sono le specie sensibili o i fantasmi; e in tal caso le specie intelligibili non sono nè pure in potenza ne' fantasmi, se non forse in un modo passivo o ricettivo, ma la mente li ha prima in potenza, e poi li attua all' occasione de' fantasmi. Perchè la mente è data dalla natura, dice Aristotele, ed ella è la specie intelligibile delle specie sensibili. Onde anche dice, che « « l' intellettivo intende le specie ne' fantasmi » » (2). Ora questo «to noetikon» è quel principio stesso nell' anima che chiama anche «to epistemonikon,» quel primo sapere indeterminato che è insito nell' anima e che costituisce la mente. Dice anche più espressamente che i sensibili « « non sono intelligibili, e che la mente non intende gli enti di fuori senza la sensazione, ma insieme con questa » » (3). Onde nè le specie intellettive sono i fantasmi, nè qualche cosa che sia veramente in essi, anzi qualche cosa che la mente vede in essi, cavandolo da sè stessa (4). Sebbene dunque gl' intelligibili non siano nei sensibili (benchè impropriamente lo dica Aristotele) e questi non siano specie, cioè oggetti; tuttavia s' avvera che « « chi nulla sente, nulla può imparare o intendere » » (5), perchè i sensibili sono quelli a cui l' intendimento applica l' essere ideale, e con questo prima li percepisce, e poi dai percepiti intellettivamente astrae gl' intelligibili puri, come abbiamo mostrato nell' « Ideologia ». Nè c' è bisogno per questo, che i sensibili siano vere specie, ma quelli che ricevono nell' anima intellettiva la specie della mente, e così s' intendono; sono dunque, come diceva Platone, non già le specie, ma la realizzazione delle specie; queste sono la loro parte intelligibile, e l' iniziamento del loro essere, essi sono il termine d' un tal essere. O conviene considerarli in questa relazione, o rinunziare a parlare di essi. Nè si sottraggono alla specie per essere trascorrevoli e rimutabili; perchè c' è anche la specie immutabile del mutabile. Concludiamo dunque, che il divino non è sparso nel mondo materiale; e che Aristotele fa uso di vane metafore, quando dice che tutta la natura, tendendo a prendere qualche forma appetisce il divino: il divino non è, e non può essere che nell' ordine dell' intelligenza. Anche secondo Aristotele questa non ci sarebbe, se ci fosse solo il sensibile, essendo ella d' altra natura, e conviene che preceda in atto ogni sensibile, perchè il sensibile è mutabile di continuo e relativo ed essa, eterna ed assoluta; e se essa non s' unisce nell' anima al sensibile come forma, il sensibile non sarebbe mai conosciuto, non essendo conoscibile per sè. Dopo aver detto che non può esserci altro che l' anima, che dia unità agli elementi corporei, e che ciò che contiene [...OMISSIS...] , checchè egli sia, è più eccellente del resto, soggiunge: [...OMISSIS...] , parole su cui insiste lo scoliaste Filipono, come concludenti a provare che, secondo Aristotele, la mente ha un' esistenza separata, e sua propria (2). Suppone altresì Aristotele che esista qualche cosa d' eterno e d' intellettivo con esistenza sua propria, per ispiegare la generazione degli animali. [...OMISSIS...] . Ammette dunque come eterna causa finale della generazione il bello e il divino , che è per sè intelligibile, e prima sostanza. E perchè la generazione è una tendenza a queste cose che sono eterne, non potendo l' animale terrestre essere eterno nell' individuo, s' eterna, come può, nella specie , [...OMISSIS...] . Pone ancora il principio, che sia « « cosa migliore per ciò che è più eccellente il separarsi da ciò che è deteriore » », [...OMISSIS...] , e che perciò quello che è migliore, tende sempre a separarsi realmente e non solamente di concetto da ciò che è inferiore, e a costituirsi da sè così separato; di che deduce, che in tutti gli animali ne' quali è possibile, il principio maschile e motore [...OMISSIS...] tende a costituirsi diviso dal principio femminile. Dal qual principio medesimo si ha la conseguenza, che la mente e Iddio sarebbero in uno stato d' imperfezione se non esistessero da sè, ma avessero bisogno d' inesistere in altro o ad altro congiunti. Ma quello che mi pare decisivo per riconoscere, che Aristotele ammette che la natura della mente è separata non solo di concetto, ma realmente dai corpi e dai sensibili che non sono senza i corpi, si è, che egli insegna, che l' atto della mente non comunica con alcun corpo. [...OMISSIS...] . Dunque nè pur l' anima in quant' è atto del corpo; ed avendo definito l' anima « un atto del corpo »carattere, che essendo generico è comune ad ogni specie di anime, ne viene la conseguenza, che quantunque l' atto della mente non comunichi con alcun corpo, ma da sè solo sostanzialmente sussista, tuttavia quando la mente, essendo data all' anima come uno strumento, viene dall' anima adoperata a percepire ed intendere, essa anima abbia bisogno del corpo. Onde alle citate parole Aristotele si continua così: [...OMISSIS...] . Onde per l' uso che fa l' anima della mente imagina un corpo etereo e divino, che si separa dal rimanente e sta colla mente congiunto. Veramente egli pare che Aristotele non possa concepire la mente senza un qualche corporeo involucro, o non possa almeno mantenersi a lungo costante in questo pensiero; può forse salvarsi da questo totale materialismo, se, come noi dicemmo, s' intenda, che l' anima, che è atto del corpo, n' abbia bisogno per far uso della mente. A questo conducono anche tutti que' luoghi, dove dopo aver insegnato che l' atto è anteriore alla potenza di concetto e di assenza [...OMISSIS...] , dice che « « necessariamente deve presussistere la ragione e la notizia alla notizia » », [...OMISSIS...] (1), e cioè nelle opere della natura deve preesistere la specie e nell' acquisto delle notizie, ce ne deve essere sempre una precedente. Non di meno ove si tratta della generazione di cose composte di materia e di forma, la specie ossia l' atto operante non è separato, onde dice parlando dell' uomo che « « un tale nascimento avviene per la specie , poichè colui che genera è tale » » (2), cioè ha quella specie, è in quell' atto. Ma nell' arte la specie operante è senza materia, e dice che alcune cose si fanno a caso a quel modo che le fa l' arte (3). Comechessia di ciò che opera la natura, pare non potersi dubitare che la mente, ossia l' intellezione sia, secondo Aristotele, una sostanza da sè, senza abbisognare d' altro subietto, e in essa tutti gl' intelligibili. Se dunque negl' intelligibili è contenuta la divina natura, qual unità possono questi ricevere? O sarà diviso il divino, secondo che nelle varie menti sono divisi gl' intelligibili? A questa questione che già prima ci avevamo proposta, ora dobbiamo rispondere. Che Aristotele non desse unità al divino, il brano seguente lo fa sospettare: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo esclude la grandezza, e le parti estese dalla mente: e tuttavia a torto, per quanto a me pare, se n' indusse che Aristotele volesse lasciare la mente sparsa per modo che nulla più fosse se non una successione di staccati pensieri (2). Acciocchè dunque si veda in che modo crediamo noi che Aristotele trovasse l' unità nell' ordine degl' intelligibili, distinguiamo queste tre cose, la mente , l' intellezione , gl' intelligibili , e cerchiamo che cosa egli dica dell' unità della mente, dell' unità dell' intellezione e dell' unità degl' intelligibili. Noi vedremo queste tre unità rientrare in fine in una sola e verace unità. Poichè fino a tanto che Aristotele considera queste tre cose in separato l' una dall' altra, ne parla come fossero tre, ma quando le considera unite, ne fa una sola e medesima sostanza, altro non essendo per lui l' intellezione che la stessa mente in atto, e gli stessi intelligibili in atto. Ma cominciamo da questi ultimi e vediamo se siano al tutto così divisi tra sè, che non abbiano vincolo alcuno. Primieramente Aristotele distingue gl' intellegibili in due classi: 1 gli universali (3), e 2 i primi principŒ. Gli universali, secondo lui, sono intelligibili medii tra' due estremi, cioè tra i singolari e i supremi principŒ . Aristotele in luoghi diversi li considera ora in relazione ai singolari , ora in relazione ai primi principŒ del ragionamento, e così riesce, senz' avvertirlo egli medesimo, a conclusioni diverse. Considerandoli in relazione ai singolari, Aristotele insegna che gli universali sono indeterminati (4), e hanno natura di materia, cioè di potenzialità relativamente alle specie e alle definizioni (5), e non sono l' essere delle cose, ma il loro modo di essere; l' essere stesso della cosa è l' essenza sostanziale di questa (1). Ma Aristotele, benchè voglia con quest' essenza sostanziale designare il singolare, ossia l' individuo reale, non ci arriva, chè la sua mente corre a un universale ch' egli prende per singolare, cioè alla specie: egli si sforza costantemente di dimostrare che « « l' essenze degli enti non istanno ne' generi » », e così crede di combattere Platone. Ma quando viene a indicare in che consista l' ente stesso, ora ve lo descrive come un individuo reale , ora scappandogli questo di mano, vi parla come fosse la specie piena , o l' individuo vago , ora come fosse la specie astratta . Questi tre modi dell' individuo, che è la sostanza prima d' Aristotele «protai usiai» (2) si permutano ne' suoi ragionamenti, il che genera somma oscurità e confusione (3). Spesso dunque sembra non s' accorga che la specie stessa è universale, e la considera piuttosto come un elemento degli enti singolari (1); e quando se n' accorge, pare che si piaccia di chiamarla, in vece che specie, genere ultimo [...OMISSIS...] . I generi poi li considera come universali, e specie in potenza. E appunto perchè i generi, ossia, come egli esclusivamente li chiama, gli universali non sono che entità potenziali, perciò non possono sussistere separati, ma solo insiti nelle specie; laddove le specie , almeno alcune, riconosce dover sussistere separate da ogni materia, e certamente, nel loro atto di menti e d' intellezioni, come diremo. Poichè, oltre gli argomenti che abbiamo più sopra arrecati, in questo appunto egli trova la ragione per la quale alcuni degli enti dell' universo sono corruttibili, altri poi incorruttibili e sempiterni. « « Poichè, dice, se »(i principŒ de' corruttibili e degli incorruttibili) « sono i medesimi, in che modo questi »(enti) « sono incorruttibili, quelli poi corruttibili e per qual cagione? » » (2). E risponde che la ragione della corruzione nasce dall' unione della specie o ragione e della materia: [...OMISSIS...] . E prosegue a dire che per ciò stesso non si dà definizione nè dimostrazione delle singolari sostanze sensibili, perchè hanno materia. Onde « « tutti gl' individui di esse sono corruttibili » », [...OMISSIS...] . Ora egli è indubitato che Aristotele riconosce esistere degli incorruttibili, de' sempiterni e questi immobili, giacchè lo stesso movimento locale, sebbene non importi corruzione, importa trasmutazione e materia «kata topon.» Convien dunque che qualche cosa ci sia di separato dalla materia. [...OMISSIS...] Da per tutto in queste dottrine s' incontrano perplessità e contraddizioni almeno apparenti. Da una parte i generi non sono elementi componenti gli enti, laddove la specie è uno dei due componenti integrali degli enti: di che parrebbe che la specie non potesse esistere separata e i generi sì. Dall' altra gl' intelligibili, che comprendono e i generi e l' ente e l' uno, non esistono separati, ma se non sono elementi, inesistono però inizialmente negli enti già composti de' due loro elementi, la materia e la specie o nelle specie stesse (2). E` dunque da considerarsi, che la questione che si fa: « se possano esistere separate le specie o i generi », riguarda la materia: cioè si domanda con essa « se possono esistere senza materia ». Ora una tale questione non può farsi che delle specie, poichè o queste possono sussistere senza materia, o no. Se non possono sussistere, molto meno i generi che delle specie si predicano, e così sono un loro elemento iniziale. Se sì, la questione è finita, perchè i generi sono già nelle specie. Onde invece di domandare: « se i generi possano esistere senza materia », converrebbe oggimai fare una questione al tutto diversa e domandare « se possano esistere divisi dalle specie »(1). Ammette dunque Aristotele o non ammette qualche natura separata dalla materia? E questa è specie o genere? - Che la ammetta, dopo quello che abbiamo detto, pare dimostrato, e noi non ne dubitiamo. Ma il difficile a determinare si è: che cosa sia questa natura immateriale. Per uscire da questa perplessità conviene rimovere altre ambiguità del linguaggio aristotelico, troppo povero per la potenza analitica d' una tal mente. Prima di tutto dunque si distinguano accuratamente due significati in cui sono presi i vocaboli specie e genere . Talora s' intende sotto il nome specie o genere la natura significata da queste parole: talora poi la proprietà che ha questa natura d' essere partecipata da più singolari, onde si chiama comune, o universale (2). Ora il proprio ed unico significato delle parole specie e genere , secondo l' uso moderno, è quello di significare non la natura semplicemente indicata con esse, ma la natura in quant' è comune o universale. Per esempio il vocabolo uomo significa: 1 la natura umana; 2 la suscettività che ha questa natura di trovarsi realizzata in molti individui. Ora solo in questo secondo significato da' moderni si dice specie . Ma gli antichi lo prendevano ora nel primo, ora nel secondo significato. Così animale significa: 1 o la natura animale; 2 o di più la suscettività che ha questa natura di essere in molte specie , e solo in questo secondo significato è propriamente genere secondo l' uso moderno, che gli antichi ancora non avevano determinato. Quando dunque Aristotele considera l' intelligibile come una natura , senz' altra relazione, allora non trova impossibile che esista da sè (cioè alcuni degl' intelligibili) senza materia; ma quando lo considera come atto ad essere realizzato in molti individui, dal che acquista la propria significazione di specie e di genere, allora lo trova impossibile. Da questi due aspetti diversi sotto cui Aristotele considera la cosa stessa, mi pare che derivi quella duplicità di dottrina, che fu già osservata da molti eruditi moderni in Aristotele. In fatti la difficoltà, principio delle altre, che trova Aristotele ad ammettere le idee di Platone, si riduce a questa: « « Tali idee sono comuni: ma tutto ciò che è comune è indeterminato: ora nulla d' indeterminato può esistere in sè: non possono dunque coteste idee che sono specie o generi e però indeterminati, esistere come enti da sè » » (1). Tentò dunque Aristotele di sostituire alle idee di Platone un' altra maniera d' intelligibili, che potessero sussistere da sè, senza quell' inconveniente. In che guisa? Conveniva trovare degli intelligibili determinati (2). E poichè quello che è indeterminato è la materia, gli parve che non ci fosse a ciò bisogno di materia, anzi, che questa fosse d' impedimento a rendere gl' intelligibili determinati. In fatti, le specie sono quelle che determinano la materia e che la fanno essere « « questo qualche cosa » » «tode ti». Ora fin a tanto che la specie informa la materia, ne risulta un composto determinato a cagione che tale è la limitazione d' ogni materia, che non può ricevere se non una certa maniera di atti, e con questi soli si determina. Ma non così quando la specie stessa si divide dalla materia: quella allora è indeterminata perchè, sufficiente a determinare una data materia, non è determinata ella medesima, sia perchè può esser partecipata da più materie, sia perchè può appartenere a più generi. Come si potrà dunque fare a spingere questa specie separata fino all' ultima sua determinazione? L' indeterminazione è una potenzialità. Converrà dunque spingerla al suo atto ma nell' ordine dell' intelligenza, non dovendosi più unire colla materia. Ora la mente spinge quella natura intellettiva, che è nella specie, a un atto intelligibile ulteriore, quando da molte specie ne cava de' generi, e da questi generi de' principŒ, e da tutti i generi insieme trae quell' intelligibile che è sopra tutti i generi, il quale è l' ente, e da questo poi toglie il principio supremo e universale di tutti i principŒ, che è quello di contraddizione. Ed ecco un principio semplicissimo che non ha più nulla d' indeterminato: ossia un primo intelligibile, l' essere da cui quel principio si prende. L' essere dunque è l' ultimo atto degl' intelligibili, atto puro, e quest' atto intende essenzialmente, secondo il principio che « « ogni intelligibile privo di materia, cioè di potenzialità, è di natura sua intelligente » » (1): e però sussiste ed è la mente prima ed essenziale d' Aristotele. Aristotele si propone dunque per l' esposizione di un tale sistema di seguire questo metodo: 1 di esporre i passi che fa l' intendimento umano per giungere colla riflessione agli ultimi principŒ, e questa è la parte storica del suo lavoro; 2 di dimostrare a quali condizioni, con quali mezzi l' intendimento può fare questo suo viaggio, e questa è la parte teoretica . La parte storica si trova specialmente nell' ultimo capo del libro secondo degli « Analitici posteriori », e n' abbiamo già recati i testi: la parte teoretica si trova principalmente nel terzo libro dell' Anima (capitoli quarto e quinto), di cui pure abbiamo fatta l' analisi. La storia del modo con cui l' anima intellettiva procede fino agli ultimi intelligibili, è questa: l' anima ha un' attività e un movimento intellettuale suo proprio: prima riceve la sensazione: questo è di tutti gli animali. Ma l' anima d' alcuni non va oltre: in altri la cosa sentita rimane [...OMISSIS...] : quest' uno che rimane nell' anima [...OMISSIS...] è una memoria , e dalla memoria di tali cose si fa la ragione di esse [...OMISSIS...] . Dalla memoria ripetuta della stessa cosa si genera l' esperienza , [...OMISSIS...] . Dall' esperienza poi, cioè da tutto ciò che è stato depositato nell' anima e che è l' universale, cioè dall' uno fuori dei molti, che in tutti i precedenti restati nell' anima giace uno e il medesimo, si fa il principio dell' arte e della scienza [...OMISSIS...] (1). Quest' è la storia del movimento del pensiero: veniamo alla teoria. Aristotele distingue primieramente la sensazione dall' ente a cui la sensazione si riferisce: poichè dice: « « si sente il singolare, ma la sensazione è dell' universale » » (2). Se dunque si sente il singolare, il senso non dà l' universale: ma è l' anima quella che in occasione del senso, con un' altra sua facoltà diversa da quella del senso, apprende l' universale, e riferisce la sensazione a un universale, onde in questo senso la sensazione è dell' universale, cioè l' anima intellettiva universalizza il singolare che è il solo dato dal senso. Ma come fa quest' operazione? Che cosa le bisogna per poterla fare? Certamente, risponde Aristotele « « un abito che abbia virtù di far conoscere » » [...OMISSIS...] , che il Bessarione traduce « notificans habitus », ma non abiti determinati, esclusi da lui poco appresso. Quest' abito ingenito, che ha virtù di far conoscere, e ciò che altrove Aristotele chiama lo scientifico dell' anima, [...OMISSIS...] , e che nella « Psicologia » dice « « come un abito a guisa di luce » » [...OMISSIS...] . E` dunque da tener fermo il principio aristotelico, che in ogni ordine di cose l' atto precede sempre alla potenza, e che questa non potrebbe mai uscire al suo atto, se non preesistesse un' altra cosa in atto, che operando in essa l' attuasse. Onde anche nell' ordine delle operazioni intellettive ci deve essere, secondo Aristotele, un atto primo d' intelletto, che tragga in atto ciò che è in potenza ad essere inteso. [...OMISSIS...] . Niuna similitudine più acconcia di questa: la luce è tutt' i colori de' corpi in potenza: ma i corpi sono la causa occasionale per la quale i colori della luce si manifestano in atto: e tuttavia è la luce quella che mette i colori in atto ricevutane l' occasione da' corpi (4). Infatti, Aristotele riconosce che nella stessa mente umana da una parte ci devono essere tutte le cognizioni in potenza, dall' altra ci dee essere un atto, che tragga all' atto quelle cognizioni in potenza all' occasione delle sensazioni. Noi abbiamo già detto e in parte provato, che Aristotele intende, per la mente insita nell' uomo per natura, l' essere in universale . Ma come questo può essere ad un tempo potenza ed atto? Veniamo a dichiararlo. Primieramente non si perda di vista che i concetti di potenza ed atto sono relativi; e che quello che è atto rispetto ad una data cosa in potenza, può esser potenza rispetto ad un atto inferiore. Così ogni intelligibile è atto rispetto al sensibile , secondo la maniera di parlare d' Aristotele, ed è potenza rispetto ad un atto ulteriore che è l' intellezione . Ora la mente innata d' Aristotele è composta d' intellezione e d' intelligibile: poichè queste due cose non ne fanno realmente che una (1) e questa una è la mente: ma tuttavia queste due cose sono realmente indivisibili l' una dall' altra, e secondo il concetto diverse. Perciò distinguendosi nella stessa mente due elementi da cui risulta, si può benissimo senza contraddizione trovare in essa qualche cosa che sia in potenza e qualche cosa che sia in atto. Ora secondo Aristotele l' intelligibile in rispetto all' intellezione è potenza, e questa è atto rispetto a quello. Ed è per questo appunto che, partendo dal principio che « l' atto dee sempre precedere la potenza », negò che le idee platoniche sussistessero per sè stesse, e vi sostituì delle intellezioni, onde dice: [...OMISSIS...] . La scienza dunque, le idee, ossia gl' intelligibili sono potenza relativamente al subietto attualmente intendente, e molto più all' intellezione attuale e presente (3). Essendo dunque composta la mente aristotelica d' intelligibile e d' intellezione, ed essendo quello potenza rispetto a questa, e questa atto rispetto a quello, ne verrà che l' intelligibile dato per natura sia la mente in potenza d' Aristotele, e l' intellezione o l' intendente sia la mente in atto. Poichè veramente Aristotele non fa di queste, due menti , come inesattamente fu detto, ma due differenze nella stessa mente, come espressamente egli dice, [...OMISSIS...] (1). Rimane dunque a vedere, essendoci una mente in atto e però un intelligibile in atto dato all' uomo per natura, col quale egli si forma tutti gli altri intelligibili, che cosa sia quest' intelligibile proprio della mente, e se lo ammettere che sia l' essere in universale concordi con tutte l' altre dottrine d' Aristotele, o colla massima parte di esse. Aristotele dice costantemente che l' oggetto della mente sono i principŒ, [...OMISSIS...] (2). Ora i principŒ sono anteriori ad ogni dimostrazione e ad ogni scienza dimostrativa (3), e si devono preconoscere acciocchè sia possibile il ragionamento. Ma sotto la denominazione di principŒ Aristotele intende due cose: 1 le percezioni de' singolari e idee specifiche che si cavano da quelle; 2 le ultime regole delle scienze e delle arti. Dice dunque che « la mente è degli estremi » [...OMISSIS...] per una parte e per l' altra (cioè tanto nel giudicare che nell' agire). [...OMISSIS...] . Distingue dunque una mente acquisita coll' uso, e una mente innata che è una natura. [...OMISSIS...] . La mente acquisita per natura, cioè per via della mente innata, sono dunque gli intelligibili acquisiti, i percepiti (singolari), le specie, i generi fino gli ultimi e i principŒ dell' arte e della scienza, che tutti si formano per quella induzione che descrive sulla fine degli « Analitici ». Ma qual è quella natura che è causa di tutto ciò? Dev' essere certamente « la mente in atto », perchè se non precede l' atto, secondo Aristotele, nulla si può ridurre dalla potenza all' atto; onde riconosce davanti a tutto « « un principio della scienza con cui si conoscono gli stessi termini primi ed indimostrabili » » (1), e a questo principio dà appunto il nome di mente, [...OMISSIS...] . Dovendo dunque l' intelligibile, che costituisce la mente in atto d' Aristotele, trovarsi nei principŒ , poichè questi sono l' oggetto della mente, e quella si chiama anche da lui come vedemmo « il principio de' principŒ »; è da sapersi che Aristotele, tra l' altre distinzioni che fa de' principŒ, fa pure questa, che li divide in due classi, chiamando quei della prima « «ex on,» ex quibus , » quei della seconda « «peri ho,» circa quod , » che noi potremmo chiamare principŒ formali e principŒ materiati . Ora questi secondi sono proprŒ «hai de peri ho idiai,» di ciascun genere, e perciò sono molti; i primi all' incontro, cioè i formali, sono comuni a tutti i generi «hai ex on koinai» (3). Ora tra tutti i principŒ comuni è dichiarato da Aristotele comunissimo e supremo il principio di contraddizione «to pan phanai, he apophanai» (4). Si confronti dunque che cosa dica Aristotele di questo principio, e che cosa dica della mente, e si vedrà che la mente innata e attuale si riduce all' intuizione di quel principio o de' suoi termini. Infatti Aristotele chiama la mente: « « principio della scienza » », e ancora « « principio de' principŒ » »: e alla stessa maniera chiama il principio di contraddizione. Aristotele pone la mente anteriore ad ogni altra cognizione e necessaria a formarsi quest' ultima; ed egualmente insegna che il principio di contraddizione è anteriore a tutto e che senz' esso non si dà cognizione possibile. [...OMISSIS...] E tosto dice che questo è il principio di contraddizione, che egli esprime con queste formole: [...OMISSIS...] . Di che conchiude, che « « questo è per natura il principio di tutti gli altri assiomi » », [...OMISSIS...] (3). Ora così appunto chiama la mente il principio di tutti i principŒ, [...OMISSIS...] (4). E anche intorno a questa dice egualmente che non è possibile alcun errore, e sempre è vera come la scienza che ne deriva, [...OMISSIS...] (5), il che non direbbe, se colla parola mente intendesse di parlare di una mera facoltà subiettiva, e non d' un oggetto inteso, perocchè a questo solo conviene l' essere vero e falso e all' intellezione che forma con esso una cosa. Siamo dunque arrivati a trovare il primo principio che costituisce la potenza conoscitiva in atto, secondo Aristotele. Ma dobbiamo ancora appurarlo: perocchè il principio di contraddizione, venendo espresso in una proposizione (1), ha qualche cosa di completo e quasi di artefatto e però non può ancora essere ingenito nell' anima in questa forma di proposizione; i termini della proposizione si conoscono come suoi elementi, si devono conoscere anteriormente alla proposizione (2). Ora quella che conosce i termini estremi è la mente, come abbiamo veduto (3). Secondo il nostro filosofo pertanto ogni genere è fondamento di principŒ diversi, e in ogni genere uno solo è il principio supremo (4). Ma sopra tutti i generi è l' essere puro, e questo è fondamento ai principŒ comunissimi e universalissimi, ossia gli assiomi: « « Poichè questi sono in tutti gli essenti, ma non in un singolar genere a parte dagli altri. E tutti ne usano perchè sono dell' ente come ente [...OMISSIS...] e ogni genere è ente » » (5). Ora tra questi principŒ il notissimo e certissimo e quello che deve avere ognuno, acciocchè possa conoscere qualunque cosa, è il principio di contraddizione (6). Questo dunque è un principio dell' ente, non è composto d' altri elementi, non ha altri termini che l' ente , o per dir meglio l' essere . Il che si vede pigliando la sua formola più semplice che è « « essere o non essere » », «einai he me einai» (7). Ora il negativo «me einai» si conosce, secondo Aristotele, pel positivo «einai,» e posteriormente a questo (.). Dunque il solo essere resta il primo e per sè conosciuto dalla mente, più noto e certo di tutte l' altre notizie, intorno al quale non si può commettere errore, e senza il quale non si può conoscere il principio di contraddizione, il quale è necessario che preceda ogni altra cognizione ottenuta per mezzo dell' induzione, e per ciò stesso la cognizione de' generi che Aristotele suol chiamare assolutamente gli universali . Acciocchè dunque ci sia nell' uomo la mente in atto, che tragga in atto gli universali che sono potenzialmente, secondo l' espressione aristotelica, ne' sensibili, è necessario che preceda nell' uomo « l' intellezione dell' essere »comunissimo a tutti i generi. Dal vedere adunque che l' essere non costituisce alcun genere, ma è in tutti, Aristotele si convinse che oltre la natura , divisa in enti particolari che si riducono in generi, doveva esistere qualche altra cosa al di là e superiore alla natura , e riprese quei naturalisti che tutto racchiudevano in questa: [...OMISSIS...] . C' è dunque indubitatamente qualche cosa per Aristotele di separato da ogni materia corporea e di superiore a tutta la natura e questo è l' ente puro, e questo non è l' ente indeterminato, il quale ha bisogno dell' essenza per esistere, ma l' ente che è ad un tempo la propria essenza (2). In un luogo della « Metafisica » reca una norma per rilevare ciò che c' è di separato realmente, e ciò che si separa solo di concetto; poichè dice: [...OMISSIS...] . I concetti non sono ad un tempo, cioè si pensano colla mente separati gli uni dagli altri: questo fa che ci sia distinzione di concetto, ma non è una distinzione reale, perchè l' un concetto viene dall' altro. Arreca in esempio le linee: di linee nulla si compone, non sono specie che informino qualche ente come sarebbe l' anima, nè sono materia come sarebbe il corpo. Sono dunque concetti che vengono da altri concetti, cioè dal concetto del corpo solido, [...OMISSIS...] , e tuttavia si pensano in separato, [...OMISSIS...] , e si pensano come elementi del corpo e però sono precedenti di concetto [...OMISSIS...] . Così l' uomo è bianco per apposizione della bianchezza, nè per questo la bianchezza ha un essere precedente, nè l' uomo ha un essere posteriore, poichè la bianchezza « « non può essere separata, ma è sempre insieme col composto » » (2). Distingue dunque Aristotele manifestamente due specie d' intelligibili , gli uni che si fanno «to logo,» separandoli appunto dalla materia, e questi sono puri concetti, o ragioni, o, come li chiama, « « concetti fattizŒ » », «plasmatias ho logos» (3); altri poi che possono essere separati, come essenze sussistenti e intelligibili per sè. I primi sono relativi ai corpi e ai sensibili e però non possono sussistere fuori di questi altro che come concetti o ragioni della mente (4); gli altri hanno un essere assoluto, e però separati da ogni altra cosa conservano quest' essere, e apparisce anzi più eccellente, onde eccedono e vincono, secondo l' espressione aristotelica difficile da rendersi nella nostra lingua «to einai hyperballei». Questa distinzione degl' intelligibili in due classi è tolta da Platone stesso, come abbiamo veduto. Ma Aristotele quantunque riconosca che quelli della prima classe uniti alla materia non siano punto intelligibili, ma così appartengano al senso, e diventino poi tali per opera dell' intendimento che li separa, e li considera separati, quasi fingendoli tali; tuttavia nega contro Platone, almeno inteso come l' intesero alcuni de' suoi discepoli, che esistano per sè ab aeterno. Ma riguardo ai secondi Aristotele ammette che esistano precedentemente e per sè, non però allo stato di pure idee, ma come intellezioni, ovvero enti intellettivi, e di questi si deve principalmente intendere quello che dice che [...OMISSIS...] . Ma tutti questi si riducono all' essere (riconosciuto da Aristotele pel primo universale) (2) e però dice che « « a quel modo che ciascuna cosa ha dell' essere, in quello stesso ha della verità » » (3). Dall' essere dunque, che è la verità, viene il lume all' intendimento (4), e per mezzo di questo, all' occasione delle sensazioni si vedono gli altri universali. Poichè non avendo l' anima nostra che l' intuizione dell' essere al tutto indeterminato « « la speculazione della verità per noi parte è difficile, parte facile » »: facile coglierne una parte avendone il lume per natura, difficile raggiungerla tutta essendo il lume naturale assai poco. La causa dunque di questa difficoltà, dice, non è nelle cose, ma in noi, [...OMISSIS...] . Quindi dobbiamo cavare le notizie universali coll' induzione, non perchè queste sieno ne' particolari sensibili, ma perchè, essendoci nell' anima l' essere, questi hanno nell' essere la loro ragione , e questa ragione è distinta dai sensibili stessi: così gl' intelligibili dei sensibili si distinguono da essi unicamente per la ragione , non perchè questa ragione costituisca altri sensibili ideali ed eterni, diversi dai sussistenti medesimi (6). Essendo dunque tali universali relativi ai sensibili particolari, benchè questi non li contengano, pure senza questi non si possono avere. [...OMISSIS...] . Dice che gli astratti non sono separati in quanto ciascuno è questo quale, [...OMISSIS...] il che è lo stesso che dire in quanto sono una determinata natura non in quanto sono universali, e la prova si è che niuno può dire in qual genere inesista un astratto, se non si riferisce al senso: per esempio niun può dire in qual genere di cose inesista il colore, se non si riferisce ai colori percepiti col senso [...OMISSIS...] . L' universale dunque come universale non si trae dal senso, e da' sensibili è realmente separato, ma la natura , che nell' universale s' intende, è ne' sensibili, e non da questi separata: distinzione che fecero anche gli scolastici distinguendo l' « intentio universalitatis » e la natura che soggiace a quell' intenzione di universalità (2). Ora onde nasce quest' universalità che non è nelle cose reali e sensibili? Ogni cosa, secondo Aristotele, procede da ciò che è primo nella serie e che ha la natura di cui si tratta più compiutamente, e quest' è causa degli altri, [...OMISSIS...] (3). Come dunque del vero è causa il verissimo [...OMISSIS...] , così dell' universale è causa l' universalissimo. Ora come il verissimo è l' essere, siccome vedemmo, così l' universalissimo è pure l' essere nella sua massima estensione. E` ben da considerarsi che Aristotele pone sempre i sensibili e gl' intelligibili come due nature separate e realmente distinte (4): che gl' intelligibili non si formano propriamente, ma solo si vedono, manifestandosi, [...OMISSIS...] (5) e che la mente non fa gl' intelligibili, ma anzi è mossa al suo atto, cioè all' intellezione, dall' intelligibile, [...OMISSIS...] (6): l' intelligibile dunque che move la mente al suo atto non è l' effetto di questo atto. Ma molti intelligibili si manifestano all' occasione delle sensazioni, benchè essi non sono sentiti. Ora le specie intelligibili de' sensibili non sono realmente separate, ma sono ne' sensibili in potenza. Se dunque quello che move la mente a contemplare gl' intelligibili in atto, non può essere alcun intelligibile in potenza, perchè fino a che è in potenza, non opera e non è ancora, e Aristotele insegna che solo ciò che è in atto trae in atto quello che non è tale: converrà dire che oltre gl' intelligibili in atto nella mente umana, che all' occasione delle sensazioni riduca in atto gl' intelligibili in potenza. E questo appunto risulta dai vari luoghi d' Aristotele che abbiamo allegati, e da quelli che allegheremo. E primieramente si consideri questo: [...OMISSIS...] : di maniera che tra i sensibili e gl' intelligibili non pone che una proporzione, e nulla di comune e di simile. Come dunque il sensibile agirà nella mente? Questa è la difficoltà che si fa lo stesso Aristotele: [...OMISSIS...] . Poichè se essa è intelligibile, patirà forse da se stessa, posto che l' intendere sia patire dall' intelligibile? (2). A queste difficoltà risponde: 1 Che la mente è essa stessa gl' intelligibili in potenza, ed essa è pure quella che li trae in atto, poichè collo stesso atto dell' intendere sono gl' intelligibili posti in atto «hoper symbainei» (l' intendere) «epi tu nu» (1). 2 L' ente in potenza e in atto è l' ente medesimo (2). Ma quando la mente è venuta all' atto dell' intendere, allora gl' intelligibili in atto non sono diversi da lei, ma sono ella stessa in atto, o certo il termine di quest' atto. [...OMISSIS...] . 3 Perciò la mente si divide così che prima che esca all' atto dell' intendere, ella è come una tavoletta in cui non c' è nulla di scritto in atto, ma ella stessa è quella che poi scrive su questa stessa tavoletta, cioè in sè, uscendo al suo atto. [...OMISSIS...] . La mente umana dunque parte è in potenza, parte in atto: in potenza è la tavoletta vuota, in atto è quella che scrive su questa tavoletta. Errarono dunque grandemente tutti quelli che intesero questo luogo d' Aristotele, come se venisse a dire che è il senso quello che scrive nella mente, quando chiaramente dice che è la sola mente quella che operando scrive in sè stessa gl' intelligibili. 4 E così la mente è intelligibile, come gl' intelligibili, [...OMISSIS...] , cioè è intelligibile pel suo atto, poichè l' atto suo è l' intelligibile. 5 Soggiunge Aristotele: [...OMISSIS...] , cioè la causa onde avviene che l' intelligenza non sia in tutte le cose (5). Risponde: [...OMISSIS...] . Ma come inesistono in potenza gl' intelligibili nelle cose materiali? - Si dicono in potenza, non perchè sieno tali nelle cose materiali, ma perchè queste si considerano nella loro relazione colla mente: considerate da questa intieramente divise, gl' intelligibili non sono in esse nè in potenza nè in atto. Ma in relazione colla mente, quegl' intelligibili si dicono essere nelle cose materiali, in potenza, poichè la mente intende quelle cose materiali spoglie della materie (1), e però la mente stessa è la loro potenza: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo si osservi, che viene supposta qui la distinzione delle due materie corporea e ideale. Poichè mentre altrove chiama materia « ciò che è potenza », qui dice la mente « potenza ma senza materia », il che viene a dire: senza materia corporea, ma tuttavia con materia ideale, ossia potenza degl' intelligibili, [...OMISSIS...] . 6 Ma perchè la mente è potenza di quegl' intelligibili che si riferiscono agli enti materiati? Non potrebbe essere potenza loro, se non fosse senza materia, [...OMISSIS...] , e perciò se non avesse qualche atto. Ora dice appunto Aristotele che « « in essa è l' intelligibile » », [...OMISSIS...] . Avendo dunque od essendo l' intelligibile in atto, ella ha la potenza di rendere intelligibili altre cose cioè le materiali, mettendo in atto quegl' intelligibili, che ad esse si riferiscono. Poichè è da considerare attentamente quello che avea detto prima, cioè che « « l' intelligibile è uno solo di specie » » [...OMISSIS...] . Quest' intelligibile uno di specie è quello che inesiste nella mente, e la costituisce in atto, e la rende atta [...OMISSIS...] a ridurre in atto gl' intelligibili relativi ai sensibili. Che cosa viene a dire che « l' intelligibile è uno di specie »? Quando più cose sono uno di specie, allora in ciascuna di esse conviene che ci sia la specie identica. Se dunque gl' intelligibili sono tutti un solo di specie, conviene, che la stessa specie intelligibile sia in ciascuno. C' è dunque un intelligibile che informa tutti gli altri: ora questo non può essere che quello che essendo comune a tutti è il più universale, e questo è indubitatamente « l' idea dell' essere ». Quest' idea dunque è la specie per sè intelligibile, la mente in atto, e quella che è in potenza tutti gli altri intelligibili: perchè la specie presa da sè è in potenza tutti gl' individui ch' ella poi informa. Così egli è ad un tempo atto e potenza; atto però, in quanto c' è l' intellezione che in quest' oggetto finisce; potenza, in quanto come oggetto comune e universale riceve tutte le determinazioni che lo rendono gli altri intelligibili, ond' è, come dice Aristotele, [...OMISSIS...] . Si conferma tutto questo da ciò che dice Aristotele sull' impossibilità, che gli elementi e le cause sieno una serie infinita, ma è uopo arrivare ad una prima materia e ad una prima specie (2) e, in ogni ordine di cose, ad una prima causa. Convien dunque che ci sia una prima specie che produca le altre; e questo è l' intelligibile comunissimo, uno di specie, ossia la Mente. Ma questa prima specie , che non può essere generata, non è come le idee di Platone, puri oggetti (secondo che ad Aristotele piace di rappresentarle), ma è un atto, una prima intellezione che ha per termine l' essere: anzi la mente stessa è chiamata termine da Aristotele, [...OMISSIS...] (1), il che conferma quello che dicevamo, che Aristotele usa mente in un senso oggettivo. Ma consideriamo bene come accada ad Aristotele, che nelle sue mani il primo intelligibile, la prima specie, l' essere, diventi mente in atto rispetto a sè, in potenza rispetto agli altri intelligibili. Per vederlo con chiarezza conviene che andiamo indietro, e che ci richiamiamo il principio della filosofia d' Aristotele in quanto ella si divide, o pretende dividersi da quella di Platone. Aristotele dunque parte da questo principio: « « Le sole sostanze sussistono per sè e separate realmente l' una dall' altra » ». Per conoscere se una cosa sussista in sè con indipendenza da ogni altra, conviene vedere se sia sostanza. Per vedere se sia sostanza conviene conoscere i caratteri proprŒ della sostanza. Questi caratteri sono i seguenti: 1 La sostanza (2) non si predica di alcun subietto, nè inesiste in alcun altro subietto: ma di essa si predicano l' altre cose, o in essa inesistono come in loro subietto (3). Di che segue che la sostanza; 2 E` sempre singolare , indivisibile, una di numero, [...OMISSIS...] . 3 Laonde la sostanza è sempre questo chè determinato [...OMISSIS...] (4). 4 Le sostanze hanno ancora questo carattere di non aver nulla a sè di contrario, [...OMISSIS...] . Ma avverte che questo carattere coll' esser comune alle ousie seconde, cioè ai generi e alle specie (1), è anche in altre cose come nel quanto. 5 Una sostanza non è più o meno sostanza d' un' altra. 6 La sostanza non è capace di più e meno, cioè quello che essa è non si può dire ora essere più, ora meno (2). 7 Il settimo carattere che assegna Aristotele alla sostanza, e che dice ad essa spettare soprammodo, si è ch' essa « « una e la medesima di numero sia suscettiva di ricevere in sè i contrarŒ » », [...OMISSIS...] (3). Ben si vede che Aristotele, coll' assegnare questi caratteri alla sostanza, limitava il suo pensiero a quelle sostanze, che sono in qualche modo mutabili, e suscettive d' accidenti. Ma quando egli ha bisogno di ricorrere alla prima causa motrice, ch' egli riconosce per sostanza prima, allora la rende immutabile, e non punto suscettiva d' accidenti contrarŒ, onde nega a quest' ultima il settimo carattere. Stabiliti dunque questi caratteri costitutivi della sostanza e posto per principio che non può esistere per sè, se non la sostanza (4), egli si fa a combattere le idee di Platone, in quanto essendo generi , e predicabili, e avendo contrarŒ, mancano dei caratteri della sostanza. Ma con questo non nega che esistano degl' intelligibili separati realmente, purchè abbiano le condizioni della sostanza, ed anzi li ammette. Trova impossibile ridurre la specie alla materia , chè materia e specie hanno tra loro non contrarietà ma opposizione come l' atto alla potenza, e però come a lui par necessario ammettere una materia prima ab aeterno (non ammettendo la creazione), così trova ugualmente necessario ammettere una prima specie , un primo intelligibile. Solamente egli riconosce che non può esistere la materia separata da qualunque specie, perchè rimarrebbe mera potenza senz' atto; ma la specie sì, perchè è atto, ed ammette da sè sola i caratteri della sostanza. Riconosce ancora che possono esistere cotesti caratteri della sostanza in una prima causa motrice, e in una prima causa finale (1). Se non che queste tre cause vanno poi a ridursi in una, perchè la prima causa finale dee essere un primo intelligibile, e però specie , e questa un primo appetibile e però fine , e questo, appunto perchè appetibile, movente, e quindi principio del movimento . E in generale stabilisce questo principio, che se « « alcuna delle cause non ha contrario, ella conosce se stessa, ed è in atto e separata » », cioè sostanza prima (2). Di qui dunque procede, che i generi, che si riducono alle dieci categorie, non possano esistere da sè soli separati dalle sostanze di cui si predicano, o che hanno in sè, o in cui sono, e per la stessa ragione assai meno l' uno , e quello che si converte coll' uno , cioè l' ente , perchè l' ente è più universale ancora e più comune de' generi, e si predica di tutto e in molte maniere (3). Ma l' intellezione all' opposto o la mente che ha l' ente per oggetto è singolare, e niente vieta che sia sostanza, come dicemmo. E se questa prima intellezione deve essere in potenza tutti gl' intelligibili e in atto niuno di essi, conviene che abbia unicamente l' essere per oggetto, poichè, secondo la dottrina d' Aristotele, l' essere è o in atto o in potenza. Come atto tutte le cose sono essere (4). Come potenza l' essere è in potenza tutte le cose. Aristotele dice, che gli universali, in quanto sono universali, sono la scienza in potenza, perchè l' atto compiuto della mente apprende l' oggetto determinato (5). Se dunque gli universali, come universali , non danno che una cognizione potenza, ne verrà, che la cognizione totalmente potenza sarà l' universalissimo , cioè l' essere: la potenza è materia, l' essere dunque sarà la materia della cognizione, la materia ideale (1): la potenza della cognizione passando all' atto diventa tutte le cognizioni, l' essere dunque è in potenza tutti gl' intelligibili: ma la mente in potenza d' Aristotele è appunto quella che non è nessuno degl' intelligibili, ma diventa tutti: la mente potenziale dunque d' Aristotele è l' essere ideale indeterminato, come la potenza in atto è l' intuizione continua di quest' essere; la potenza è il subietto, secondo Aristotele, onde il genere è il subietto delle specie, e così l' essere è il subietto di tutti gl' intelligibili, e questo subietto è ancora la mente in potenza; l' essere è il possibile e la mente d' Aristotele non è altro che il possibile [...OMISSIS...] ; la mente non ha passione alcuna, è immista e semplice, e così pure l' essere è una tavola in cui niente è ancora scritto, e così l' essere che non è ancora niente in atto, è il luogo di tutte le forme, e così l' essere è quello in cui sono poi tutti gl' intelligibili in atto, [...OMISSIS...] . [...OMISSIS...] . L' essere dunque in potenza, secondo Aristotele, è tutte le cose in potenza. Acciocchè dunque la mente sia tutte le cose in potenza, conviene che sia l' intuizione dell' essere, l' essere intuìto nella sua potenzialità. Ciò poi che è in potenza, da Aristotele, come vedemmo, è chiamato materia: l' essere dunque in quanto è intelligibile è la materia di tutti gl' intelligibili (3): ma materia degl' intelligibili è anche chiamata la mente [...OMISSIS...] : l' essere intuìto adunque nella sua potenzialità universale è la mente in potenza d' Aristotele e non può essere altro, perchè altro non sono le cose in potenza secondo la dottrina del filosofo di Stagira. Ora perchè l' uno e l' essere sono il medesimo, secondo Aristotele, e si predica l' uno come l' ente di tutte le cose (1): perciò quello che abbiamo detto dell' essere come oggetto essenziale dell' intuizione primitiva, possiamo confermare con altre dottrine aristoteliche intorno all' uno. Aristotele considera l' uno sotto due aspetti, in quant' è nelle cose e in sè stesso (2). Rispetto alle cose, queste o sono uno per accidente, o per sè. Lasciando noi da parte la considerazione delle cose che sono uno per accidente, considerazione puramente dialettica (e Aristotele suol sempre mescolare le considerazioni dialettiche colle ontologiche, onde riesce il suo discorso intricato e come un prunaio); vediamo che cosa dica dell' essere le cose uno per sè. Considera l' unità che viene alle cose dalla loro esistenza individuale, e quella che loro viene dalle specie e da' generi: e questa è quella che importa al nostro discorso, che dagli universali (i generi) dee sollevarsi all' universalissimo, all' essere, ossia all' uno stesso. Dice dunque che si dice qualche cosa essere una, quando « « il subietto sia indifferente di specie »(3) ». La materia, come vedemmo, è il subietto per Aristotele. Ma come egli ammette due materie, cioè la corporea, o più generalmente reale, e l' ideale, così ammette pure due subietti . Ma poichè non sempre distingue chiaramente questi due subietti, indi l' oscurità del parlare. Quando contrappone la materia alla specie , allora si dee intendere necessariamente d' un subietto corporeo o reale. Ma qui « il subietto indifferente di specie »è il reale o l' ideale? Il contesto sembra indicare che sia il reale, in quanto è suscettivo dell' una o dell' altra specie, e però a queste è indifferente. [...OMISSIS...] . Qui chiama apertamente subietto il genere, cioè l' universale, e lo dice materia [...OMISSIS...] . Il subietto dunque qui è la materia ideale, giacchè il genere è appunto per Aristotele la materia delle specie, [...OMISSIS...] (5). Il subietto ideale dunque è tanto più subietto, quant' è più universale, perchè quant' è più universale, è a maggior ragione materia ideale (1). Il subietto reale dunque e il subietto ideale hanno un' opposta natura: poichè quanto più la cosa pensata s' avvicina ad essere singolare , tanto più s' avvicina ad esser materia e subietto reale ; e quanto più si rende universale, tanto più diventa subietto ideale. Così il subietto reale non è propriamente che il singolare individuo; l' ultimo è quello che è massimamente subietto ideale e di conseguente l' universalissimo , cioè l' essere e l' uno (2). Veniamo all' uno in sè, cioè all' essenza dell' uno [...OMISSIS...] . L' uno nel suo essere, secondo Aristotele, è il mezzo del conoscere. Questa sentenza è notabilissima. [...OMISSIS...] . Se dunque c' è un uno, ossia un indivisibile in ciascun genere, che serva di misura per le cose che sono in ciascun genere, e questa prima misura è il principium quo della cognizione delle cose contenute in ciascun genere, non ci sarà un uno superiore che misura e con cui si conoscono i generi stessi? Aristotele lo ammette e lo chiama « « uno d' analogia » ». [...OMISSIS...] . Se dunque c' è un' unità superiore a quella de' generi, questo è un universale più ampio de' generi; ma sopra i generi non c' è di più universale che l' essere e l' uno, che è il medesimo. L' unità analogica dunque d' Aristotele è l' essere che raccoglie in sè i generi, ed è il fondamento delle proporzioni che le cose d' un genere hanno colle cose d' un altro genere: le proporzioni poi nascono da' numeri, de' quali l' uno è il principio [...OMISSIS...] (1). Riconosce dunque Aristotele quell' uno che è nell' universale, e che chiama «tohen kath' holu» (2). Ora tra gli universali universalissimo è l' essere, e l' essere è l' uno stesso; onde quest' è il medesimo che l' uno per essenza, [...OMISSIS...] che è principio del numero come numero [...OMISSIS...] (3); il numero poi è fondamento alla proporzione e analogia, onde il «tohen kata analogian» (4). [...OMISSIS...] Ecco dunque il principio con cui si conosce, l' uno: ma l' uno non differisce dall' ente; l' ente dunque è, secondo Aristotele, il principio con cui si conoscono tutte le cose. E infatti il conoscere, come pure il sentire, è descritto da Aristotele come un misurare. [...OMISSIS...] . Il che mirabilmente conviene all' essere indeterminato il quale sotto un aspetto è misura di tutte le cose, perchè con esso tutte si conoscono; sotto un altro è misurato dalle cose sensibili, perchè queste lo determinano e pongono in lui un quanto di sapere determinato. Onde dice Aristotele che nell' acquisto del sapere, « « ci accade come se un' altra cosa ci misurasse, e così conoscessimo quanto siamo grandi con questo che tante volte ci è stato applicato il cubito » » (7). Nel qual luogo Aristotele confonde il noi coll' essere : poichè dagli oggetti esterni non siamo misurati propriamente noi, ma l' essere che intuiamo: chè noi certo non siamo tanto grandi da poter essere misurati da tutti gli enti che percepiamo, ed avanzarne, ma l' essere universale, sì. Pure anche noi partecipiamo della grandezza della scienza che è in noi, e però in altro senso si può dire che questa ci misuri (1). Ma più esattamente parla Aristotele poco appresso: [...OMISSIS...] . Dice in qualche modo , perchè in un altro modo è il contrario, dovendosi anche qui ricorrere per ispiegare questi due modi, all' estensione e alla comprensione delle idee, al contenente ed al contenuto: il contenuto (gli oggetti reali o le determinazioni) è come una misura che s' applica al contenente, cioè all' essere, e lo misura; il contenente, cioè l' essere, è come una misura che s' applica al contenuto, cioè agli oggetti ed alle determinazioni, e li misura. Colla prima misura si rileva il quanto d' idealità è realizzato; colla seconda misura si rileva il quanto d' idealità non è ancora realizzato, ma rimane quello scibile che non è ancora scienza [...OMISSIS...] se non in potenza. L' essere dunque o l' uno è il principio con cui si conoscono tutte le cose quasi con una misura. E infatti la mente d' Aristotele con cui si conosce, è detta da lui uno e principio; quest' uno è il principio della dimostrazione e della scienza. [...OMISSIS...] . La mente dunque è quell' uno con cui si ha la dimostrazione e la scienza; ma quest' uno, come vedemmo, è il termine del principio di contraddizione, cioè l' essere: col qual essere l' anima afferma questo è, questo non è [...OMISSIS...] (4): l' essere dunque è l' uno nella scienza. E però la mente nel senso oggettivo è pure una: chè, come c' è un solo e indivisibile sensitivo nell' anima con cui ella sente più cose (1), così c' è pure un unico e indivisibile scientifico con cui sa più cose, e questo è l' essere. Poichè Aristotele ragiona sempre dell' intendimento in un modo analogo a quello del senso. Poniamo attenzione a ciò che egli dice circa quel principio col quale si sentono tutti i sensibili, potendo questo non poco giovarci a intendere quel principio col quale s' intendono tutti gli intelligibili. Si fa dunque la domanda Aristotele, se si sentano i diversi sensibili con qualche uno e indivisibile che sia nell' anima, di modo che, a ragion d' esempio, di quella parte dell' anima con cui sente il dolce, e di quella con cui sente il bianco, risulti nell' anima un uno con cui senta l' un e l' altro [...OMISSIS...] . C' è dunque secondo Aristotele un sensitivo nell' anima che è uno ed indivisibile, e questo in atto, «kat' energeian,» col quale si hanno sensazioni di tutti i generi: ma questo rimanendo nella radice uno, emette degli atti ulteriori pei quali si divide in atto e così diventa altro da quel di prima, senza che quell' uno di prima radicale cessi [...OMISSIS...] . Ora a questo modo stesso Aristotele concepisce la mente. Essa è una e indivisibile, e quest' è lo scientifico [...OMISSIS...] ed è indivisibile in atto; ma quando essa diventa tutti gl' intelligibili, allora ella si divide e diventa divisibile in atto. Ora quand' è una e indivisibile in atto, ella è tutti gl' intelligibili in potenza, e tutti gl' intelligibili in potenza non sono che l' intelligibile universalissimo, l' essere, come vedemmo: quando diventa quest' intelligibili ella si divide, conservando l' uno radicale, e diventa altra. Il primo scientifico adunque è in atto, il che equivale a dire, è intuizione in quanto è uno e indivisibile (mente in atto); ma è anche in potenza riguardo agli atti ulteriori, e in potenza di dividersi, diventando le intellezioni de' singoli intelligibili. Il che è più facile ad intendersi della mente che del senso, perchè in quella l' universale si distingue dal singolare, laddove in questo non c' è che il singolare. E perciò Aristotele stesso è obbligato di ricorrere all' universale natura, alla specie, al genere, e in generale alla ragione per ispiegare come un unico sensitivo possa sentire diverse sensazioni e di vario genere. Il che è degno di tutta l' attenzione. Prosegue dunque in questo modo: [...OMISSIS...] . Questa parola ragione , «logos,» ci richiama alla distinzione aristotelica tra le cose « « separate di ragione e le cose separate di sostanza o di grandezza »(2) ». Una cosa separata solamente di ragione , non vuol dire altro se non che la mente la considera divisa dal suo tutto reale. Questa ragione della cosa dunque è veramente separata nella mente, benchè non sia tale nella realità. La ragione dunque è nell' anima (3) ed è altra cosa dalla realità esterna, vi è generata dalla mente in atto, che ha « « i principŒ di tutte le intellezioni »(4) », principŒ che tutti si riducono, come vedemmo, a quello di contraddizione, e la scienza si compone di ragioni (1). Ma si osservi che per Aristotele il dire: « « separata di ragione » », e il dire: « « separata di essere, «to einai» » », è perfettamente sinonimo. Agli esempi recati di sopra si può aggiungere questo: [...OMISSIS...] ; il che è lo stesso di quello che dice in appresso dell' intelligibile e dell' intellezione (3). Vuol dire manifestamente che, nell' atto della sensazione e nell' atto dell' intellezione, il sensibile in quanto sensibile, e l' intelligibile in quanto intelligibile, è essenzialmente necessario al senziente e all' intelligente, sicchè l' atto di sentire mancherebbe d' una parte di sè se gli mancasse il sensibile, e l' atto dell' intendere se gli mancassero gl' intelligibili: sono dunque una cosa il senziente e il sensibile in atto, e l' intelligente e l' intelligibile in atto; ma differiscono di ragione : questa ragione è detta essere da Aristotele; l' essere dunque è universalmente l' oggetto intelligibile primo, costituente la ragione delle cose. Ma uno e il medesimo essere, come insegna lo stesso Aristotele, è potenza ed è atto, e ciò tanto nell' ordine sensibile, quanto nell' ordine intelligibile. L' essere potenza è chiamato materia da Aristotele, il quale però distingue la materia intelligibile dalla materia sensibile (4). Ora la mente, che diventa tutte le cose, è la materia intelligibile, e però è l' essere in potenza, ossia indeterminato [...OMISSIS...] (5). In due maniere dunque gl' intelligibili, secondo Aristotele, acquistano ordine ed unità: in una maniera subiettiva e in una maniera obiettiva. Subiettivamente, pel primo atto, ossia per la prima intellezione, che essendo una riduce molti in atto (all' occasione delle sensazioni), in un modo simile a quello che ha dichiarato parlando del senso. C' è dunque un' intellezione, che è attualmente uno «hen kat' energeian,» e che conservando la sua indivisibilità radicale, si divide poi secondo le ragioni delle cose, e con questi atti ulteriori diventa gl' intelligibili «polla kat' energeian», e ciò perchè la potenza e l' atto sono il medesimo ente (6). Onde quell' atto che è potenza relativamente agl' intelligibili generici e speciali conserva l' unità, mentre questi la dividono, quasi direi come rami d' uno stess' albero, o raggi che emanano da uno stesso punto luminoso. Sono anche uno obiettivamente, perchè l' essere in potenza essendo lo stesso che l' essere in atto, la mente in potenza che è, come dicevamo, l' essere in potenza, è potenzialmente tutti gli oggetti, cioè tutti gl' intelligibili generici e specifici. Che l' essere dunque sia il lume ossia l' obietto essenziale della mente, è manifesto. Il che si conferma ancora, come abbiamo già toccato, da quello che dice Aristotele, ente e non ente significare, nel più proprio modo, il vero ed il falso (1), che secondo questo filosofo altrove non risiede che nella mente (2). Ora gli enti o sono incomposti [...OMISSIS...] o composti [...OMISSIS...] . Rispetto ai primi, cioè a quelli che non si compongono dal nostro intendimento coll' attribuire un predicato ad un subietto « « il vero è il toccare e il dire »(3) ». Suppone che l' anima tocchi immediatamente questi intelligibili incomposti: con questo, che Aristotele dice tocco , e noi chiamiamo intuizione, l' anima non s' inganna mai: « « Poichè, soggiunge, non ha luogo l' ingannarsi circa la quiddità se non per accidente (4) e similmente circa le ousie incomposte » » (le specie e i generi), e ciò perchè tutte queste essenze sono essere , e l' essere nè si fa nè si corrompe: [...OMISSIS...] . Il che spiega S. Tommaso così: [...OMISSIS...] . Onde Aristotele conchiude che il vero relativamente ai semplici intelligibili non è altro che l' intenderli, [...OMISSIS...] : il falso o l' inganno non c' è, ma solo l' ignoranza. Quest' ignoranza tuttavia, avverte Aristotele, non è come la cecità, nella quale manca il sensitivo, perocchè resta sempre l' intellettivo [...OMISSIS...] , che è la potenza d' intendere con un atto primo (mente in potenza ed in atto) (3). L' essere dunque, semplicemente preso (4), non ha origine da cos' alcuna precedente, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] , e questo qualche cosa precedente non esiste fuori dell' essere. L' essere dunque dee esistere, e dee altresì esistere nell' anima, acciocchè questa intenda: l' anima, come neppure nessun' altra cosa, non lo produce, e dee essere in atto: è dunque quello che fa ad un tempo l' attualità della mente, e la sua potenzialità di conoscere i generi dell' essere. Veniamo agli enti composti dalla mente che a un subietto attribuisce un predicato. Dice che alcune cose sono sempre composte ed è impossibile il dividerle: altre sempre divise, ed è impossibile unirle: queste sono le cose necessarie. Altre talora sono unite, talora divise, e sono le contingenti. [...OMISSIS...] . Componendo, la mente fa uno del predicato e del subietto, [...OMISSIS...] (2). Anche le cose che sono in sè divisibili e molteplici, come lo spazio e il tempo, la mente le unifica, e in due modi, obbiettivamente per l' unità della specie colla quale le pensa, e subiettivamente per l' unità di sè stessa. Poichè, dice Aristotele « « non l' indivisibile secondo il quanto ella intende, ma l' indivisibile di specie in un tempo indivisibile e coll' indivisibile dell' anima » (3) ». Sul qual luogo si potrebbe così ragionare: L' anima unisce i più in uno, perchè ella intende l' indivisibile di specie. Ma ella unisce in uno tutte le cose. Convien dunque che intenda anche un indivisibile di specie che comprenda tutte le cose: ora questa specie che tutto rende indivisibile, non può essere altra che quella dell' essere. Dunque la potenza che ha l' anima di unire e dividere, per via di predicazione, nasce dall' intuizione che ha dell' essere. Colloca dunque Aristotele nell' anima qualche cosa di uno , tanto nell' ordine sensuale, quanto nell' ordine intellettuale: quest' uno che è nell' anima può esistere in più modi, e questi modi nell' ordine del senso sono i varŒ sensibili, nell' ordine dell' intendimento sono i varŒ intelligibili; e quest' uno è il mezzo unico con cui si sente, ovvero con cui si conosce, [...OMISSIS...] . Quest' uno poi che è nell' anima e che contiene tutti i sensibili, e così pure quest' altro uno che è nell' anima e che contiene tutti gl' intelligibili, li contiene non in atto, ma in potenza, e questa potenza, riferendola ai diversi intelligibili, come il punto del circolo ai diversi raggi, benchè sia uno di numero, tuttavia è moltiplice di ragione, ossia, come Aristotele s' esprime, d' essere, [...OMISSIS...] . Il centro dunque, ossia l' ultimo termine degl' intelligibili nell' anima, è tutti gl' intelligibili in potenza, ed è uno di numero, perchè in sè è una cosa sola, ed è uno d' analogia [...OMISSIS...] , perchè a lui si riferiscono gli intelligibili diversi (2). Ora l' analogia è fondata, come abbiam più sopra osservato, nel numero in sè considerato, e questo si riduce all' uno, e l' uno s' identifica coll' essere. Si conferma dunque quello che disopra abbiamo osservato, che l' uno per analogia, che non è altro che l' essere, è posto da Aristotele nell' anima come mente, sotto un aspetto in atto, sotto un altro in potenza. Tutti i sensibili dunque sono potenzialmente in un primo sensitivo dell' anima (sentimento fondamentale), tutti gli intelligibili sono in un primo intellettivo dell' anima pure potenzialmente (essere indeterminato). Così ricapitola Aristotele stesso la sua teoria: [...OMISSIS...] . Che cosa dunque è la mente Aristotelica? [...OMISSIS...] gli enti stessi intelligibili. Che cosa è la mente in potenza? gli enti intelligibili in potenza. Questi enti intelligibili in potenza sono uno, costituiscono una perfetta unità, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] . Che cosa sono gli enti in potenza ridotti ad unità? Certo non altro che « l' ente universale in potenza, ossia l' ente indeterminato ». Questo dunque costituisce la mente in potenza d' Aristotele in senso obiettivo (4). Per ciò stesso questa mente è dal nostro filosofo chiamata « « lo scientifico dell' anima » » «to epistemonikon». Anche questa parola ha un senso obiettivo; tant' è vero che essa esprime gli obietti del sapere in potenza, e ridotti ad uno, «to episteton». Ora che è quell' ente saputo che in potenza abbracci tutti gli enti saputi? Non altro certamente che l' essere possibile . Ma se la mente fosse solamente questa, sarebbe mera potenza, e la mera potenza non può sussistere separata, secondo Aristotele. E` dunque necessario, che la mente non sia solamente in potenza; ma dee aver altresì qualche atto. Quest' atto è l' intellezione : così è costituita la mente in senso subiettivo. L' intelligibile dunque e l' intellezione formano la mente aristotelica una di numero, ma composta di due elementi distinti di concetto: l' uno, cioè l' intellezione, la fa esser atto, col quale ella è capace di ridurre in atto tutti gli intelligibili determinati; l' altro la costituisce potenza capace di divenire ella stessa tutti questi intelligibili: poichè lo sciente è in atto, e la scienza relativamente è in potenza (1). Questa mente dunque è quel principio (2), che Aristotele riconosce necessario in ogni serie di cause, anche nelle specie (causa formale): conviene in ogni cosa fermarsi, «anagke stenai» (3): se non c' è un primo, non c' è il resto (4): senza di ciò si distrugge la possibilità dell' intendere (5): pei principŒ si conosce tutto il resto (6): chi sa il più generale, sa in potenza tutto (7). Da tutte queste considerazioni adunque possiamo, come ci sembra, senza temerità conchiudere: 1 Che tutti gli intelligibili hanno la loro unità in un primo intelligibile, che li accoglie tutti in sè, in potenza, e questo primo intelligibile, fondo e materia di tutti gli altri, è l' essere ideale indeterminato ; 2 Che la mente obiettiva è questo stesso essere o intelligibile primo, e però è ella stessa in potenza tutti gl' intelligibili; 3 Che la mente in senso subiettivo è una prima intellezione che ha per oggetto quell' essere ideale indeterminato, ed è la mente in atto, che fa tutti gli altri intelligibili, quando si distinguono nell' essere, quasi su tavola liscia, su cui si scrivono; 4 Che le determinazioni del primo intelligibile, il quale sembra moltiplicarsi secondo le varietà delle determinazioni stesse, vengono dal sentimento; 5 Che c' è nell' uomo il primo sentimento naturale e fondamentale, il quale è uno ed ha tutti i sentimenti speciali in potenza; 6 Che il principio senziente, e l' intelligente, cioè il principio dell' intellezione, s' identificano nell' uomo; 7 Che il primo sentimento dato all' uomo per natura termina nell' estensione, e specialmente, nell' estensione corporea, e che quest' estensione corporea mutando i suoi termini, la figura e il luogo, occasiona le specie sensibili , che sono appunto figure di essi diversamente tracciate nel sentimento primo che le abbraccia tutte come fondo e radice, ossia senso comune . . Che queste specie sensibili diventano altrettante determinazioni dell' essere ideale e indeterminato, e vedute così dal principio intelligente e mente subiettiva, danno luogo ad altrettante specie intelligibili . Tutti gli intelligibili dunque sono contenuti e unificati dal primo, l' essere. La loro moltiplicità poi non viene dall' intelligibile stesso, che è una specie sola; ma dalle relazioni diverse con un elemento straniero, cioè col sentimento. Ora il sentimento stesso è uno; ma si moltiplica anch' esso per un elemento straniero che è la materia corporea diffusa nell' estensione in cui termina: questo è dunque la prima causa della moltiplicità. Tutte le intellezioni del pari sono contenute e unificate dalla prima, cioè da quella che ha per termine il primo intelligibile. Siccome poi, a questo, come ad atto purissimo e perfetto, tende per istinto tutta la natura potenziale, così egli acquista la relazione di Causa finale e di Primo motore. Conchiude dunque, che il Primo motore è unico non solo di specie, ma anche di numero; che dalla sua unicità viene l' esser uno anche all' Universo, [...OMISSIS...] . Finalmente la mente è una tanto in senso obiettivo, perchè in questo senso è ella stessa il primo intelligibile, che contiene tutti gli altri, quanto in senso subiettivo, perchè in questo senso ella è la prima intellezione, e il principio di tutte l' altre. Quest' è dunque l' unità che Aristotele attribuisce al divino. Ma questo non toglie nè la generazione, nè la pluralità delle menti. In quanto alla generazione, la natura, certe nature, certi corpi tendono e pervengono a quel loro ultimo atto, a quell' ultima specie, che si chiama mente. Quest' ultima specie riesce così perfetta, che non ha più bisogno della potenza corporea che l' ha prodotta, ma essa stessa è in sè sostanza singolare, e però opera con qualche sua attività indipendentemente dal corpo, e, questo perendo, continua a sussistere. Ma perchè in un corpo si svolga questo novo atto e specie sostanziale, si esige che già ci sia prima in atto la mente nel genitore del nuovo essere intellettivo. E poichè l' attività della generazione viene dalla specie , convien dire che, secondo i principŒ aristotelici, la mente che esiste nel generatore, sia quella specie, quell' atto sostanziale, che nella generazione operando, susciti nel generato la mente preesistente in potenza ne' semi. Ma come avvenga questo mistero della generazione della mente, in niun luogo Aristotele lo spiega, nè di spiegarlo si propone. Dice bensì, come vedemmo, che sola la mente nella generazione umana viene dal di fuori, e in questa generazione fa intervenire gl' influssi degli astri, secondo le tradizionali camitiche superstizioni. Il quale influsso complica via più la questione, non potendosi determinare precisamente in che esso consista. Lasciando però da parte per un poco gli astri, ecco in che modo non dissonante da' principi aristotelici si potrebbe intendere, che la mente s' aggiungesse dal di fuori. Abbiamo veduto che Aristotele prende la mente in un senso ora subiettivo , ed ora obiettivo . Non fa dunque maraviglia che pronunci due sentenze opposte quando tratta della generazione della mente: poichè da una parte la fa venire mediante la generazione umana: [...OMISSIS...] . Dall' altra poi dice che la mente s' aggiunge dal di fuori. Le quali due sentenze si conciliano per la subordinazione delle cause. In fatti, domandare « se la mente venga all' uomo dal di fuori »è una questione diversa dall' altra « se l' uomo colla generazione la comunichi al corpo, che si genera uomo ». La prima è anteriore e riguarda tutti gli uomini, i generanti ed i generati. E infatti Aristotele stesso distingue queste due questioni, trattando nel primo libro « Della generazione degli animali », come per la congiunzione dei sessi nasca la generazione; nel seguente, poi proponendosi di dimostrare perchè così avvenga, e due sieno i sessi, e quali le cause ulteriori (2), così descrive in breve le ultime cause moventi e finali: [...OMISSIS...] . Spiega dunque Aristotele la generazione come un effetto di quella tendenza al Bene, al maggior bene possibile, che egli, come vedemmo, attribuisce a tutti gli enti della natura, i quali tutti tendono a diventare puro atto, pura intellezione; ma tutti non possono tanto, a cagione della materia o potenzialità diversa, che secondo Aristotele costituisce il subietto e il fondo di tutta la natura, e che è di diversi generi (4), diversità che desume dal grado di atto e di specie, maggiore o minore, a cui ogni materia può pervenire nel suo movimento ascendente. Continua dunque a spiegare gli effetti di questa causa della generazione così: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo, come in tant' altri, si scorge manifestamente che sotto il nome di divino non intende qualche cosa di singolare e di personale, ma ogni bene, relativo a ciascun ente, sia questo anche sensibile e generabile, e proporzionatamente si può dire lo stesso del vegetabile e del minerale. Ma riconosce nulladimeno che l' ultimo grado del bene a cui un ente possa pervenire, è la mente. Quando poi viene a descrivere come ella comparisce in atto nel bambino, sembra che distingua la facoltà soggettiva di conoscere dalla mente. E in generale stabilisce prima che il generante produce un suo simile. [...OMISSIS...] . L' anima intellettiva dunque si svolge dal seme; ma la mente? Questa la distingue, e dice che sola avviene dal di fuori e sola è divina, [...OMISSIS...] (4), dove chiaramente restringe il divino in senso proprio alla mente. Pare dunque che per mente intenda l' oggetto e per l' anima intellettiva il soggetto. [...OMISSIS...] . E qui si vede come riponga l' anima intellettiva tra quei principŒ che hanno bisogno d' organo corporale, consonando a quello che così spesso insegna, che non si può esercitare la facoltà di pensare senza fantasmi: onde par che inclini al sensismo, se non anche al materialismo. [...OMISSIS...] . La mente dunque non è computata da Aristotele tra le potenze soggettive dell' anima; è dunque l' oggetto del conoscere, l' intelligibile primo, l' essere indeterminato, come più sopra abbiamo dichiarato. Ma come avviene all' anima dal di fuori? Certamente come tutte le altre specie avvengono agli enti generabili, cioè mediante quell' appetito universale verso il Bene, quella tendenza d' uscire all' atto, che Aristotele pone in tutti, con questa differenza però, che mentre negli altri casi conseguono una specie, che è inseparabile da essi e così formano un composto indivisibile di materia e di forma; in questo conseguono una specie che mente si dice, che è separabile da essi essendo ente da sè, e anche unita ad essi, rimane immune da materia corporale, non è un elemento proprio e indivisibile di essi, ma un istrumento di cui essi fanno uso. A questo riesce indubitamente la teoria d' Aristotele. Ma perciò appunto, se Aristotele avesse posto ben mente alle conseguenze, si sarebbe accorto che la parola specie ha due significati diversissimi, e che è di tutt' altra natura la specie nel senso d' idea o lume della mente, e la specie nel senso, com' egli suol usarla, di atto sostanziale o di forma reale, benchè nè pure quest' ultima denominazione è propria; e che quindi avea ragione Platone distinguendo le idee, contenenti le essenze delle cose sensibili, dagli atti o forme di queste che non possono considerarsi che come imagini o imitazioni di quelle, e anche questo dietro l' analisi delle percezioni, che noi abbiamo di esse. Laonde quando dice, che « « l' arte è il principio e la specie di ciò che si fa, ma in un altro »(1) », gli rimaneva a cercare come la forma di una cosa reale, che è pure inseparabile dalla cosa reale, potesse essere in un altro e rimanere la medesima. Ma egli ci dice, come vedemmo, che è la stessa di specie e non di numero. Ma « la specie identica di specie »è una logomachia, ed è una contraddizione, poichè la specie identica di specie non è che la specie identica di numero, chè qualunque differenza avessero le specie tra loro costituirebbero un genere e non potrebbero più specie aver di comune la specie. D' altra parte la domanda è questa: « la specie idea, è identica coll' atto reale della cosa »? Il dire che è identica di specie suppone che quest' atto reale sia la stessa specie: suppone dunque quello stesso che si domanda. Quindi le stesse contraddizioni, che abbiamo già indicate nel nostro filosofo, ma confermiamole con un' altra. Prendiamo una specie reale, e questa sia l' anima. Egli vi dice che « « niuna anima può essere in un altro, se non in quello di cui ella è, nè ci può essere niuna parte » » di questo « « se non è partecipe dell' anima, se non equivocamente, come l' occhio d' un corpo morto »(2) ». La forma reale dell' anima non può essere se non in quel corpo che l' ha: ma la forma dell' arte è in un altro. Dunque la forma dell' arte ossia l' idea, e la forma della cosa reale, sono forme o specie dette così equivocamente. Non c' era dunque bisogno di censurare Platone perchè dicesse questo appunto, che l' essenza delle cose sensibili non si dice dell' idea, e anche delle cose reali, se non equivocamente (3), dovendo Aristotele stesso ritornare per un' altra via e senz' accorgersi a questo placito di Platone. Ma torniamo all' unità della mente. Come in ciascun essere, che la possiede, la mente sia una, com' ella sia una subiettivamente riducendosi in un atto d' intellezione, e come sia una anche obiettivamente, riducendosi in un solo primo intelligibile, fu detto di sopra. Ma rimane a domandare se sia una assolutamente, se ella sia un solo individuo reale. E che le menti umane sieno tante, quanti sono gli uomini, non pare a dubitarsi. Ma si può dubitare se quest' ultimo atto a cui tutti gli enti a ciò idonei tendono (che è il divino), sia uno di numero a tutti risplendente; e se si considera, come abbiamo osservato, che sembra al tutto ripugnante che l' ultimo atto di molte nature della stessa specie riesca ad essere identico di numero, parrà impossibile ad ammettersi, che un tale atto si riduca in fine ad essere uno di numero, e si dovrà dirlo uno di specie. Ma se gli atti ultimi (giacchè come atti ce li presenta Aristotele) di molti enti sono tanti di numero quanti gli enti, eppure della stessa specie ; oltre quegli atti distinti c' è dunque una specie comune , e questa una di numero. In tal caso si tornerebbe a distinguere, contro la sentenza d' Aristotele, la specie dall' atto impropriamente detto specie. Ma non potrebbe esserci una specie che, essendo una di numero, e avente una propria sussistenza fosse mente, e senza moltiplicarsi in sè stessa fosse presente in molti individui? Noi dimostreremo a suo luogo che questo non è impossibile; ma niuna traccia di ciò, almeno che sia chiara, in Aristotele. Sembra nondimeno indubitato che secondo Aristotele esista una Mente eterna, sussistente e di numero veramente unica: e si potrebbe dire che è la stessa specie sussistente. Ma come questo derivi dal ragionamento aristotelico è difficile a mostrarsi. Poichè l' argomento della necessità d' un Primo motore, al modo aristotelico, almeno se s' intende superficialmente, sembra condurre a un Primo motore uno di specie e non di numero. E veramente ogni cosa tende al Bene, ma questo Bene è diverso per ogni genere d' enti, e anche per ciascun individuo: trattasi dunque d' un bene indeterminato e moltiplice, anzi al sommo generico. E un bene generico non può sussistere da sè stesso, perchè non è un bene ancora in atto ma in potenza. Egli è vero che, al fine che un uomo sia generato, deve esistere un uomo in atto, perchè l' atto precede sempre la potenza, ma Aristotele ammette un circolo eterno e infinito di generazioni: questa causa dunque che è sempre esistita, secondo lui, basta a spiegare la generazione della mente umana, e non è necessario che il seme appetisca la Mente suprema, essendo sufficiente che appetisca, se così si vuol parlare, una mente uguale di specie a quella del suo generatore che è la sua causa motrice. Ma, come abbiamo detto, Aristotele s' accorge che questo stesso non basta, e riconosce il bisogno che lo stesso generatore e tutta la catena infinita de' generanti e de' generati sia spiegata, assegnandole una causa superiore: poichè la stessa anima umana non è intellettiva se non aspira e tende col suo appetito a una specie più sublime e del tutto incorporea, che dal corpo non può ricevere, e che non può essere nel corpo nè pure in potenza, perchè è propria natura ed essenza di quella non aver nè potere ricevere in sè potenza di sorta alcuna, e d' essere sempre assolutamente immutabile ed eterna. Poichè, come vedemmo, è immutabile principio d' Aristotele, che « ciò che è in potenza non può essere eterno », e che « le cose eterne sono antecedenti alle corruttibili ». Di che consegue, che « nè pure può essere eterno ciò che passa dalla potenza all' atto, chè talora sarebbe in potenza e talora in atto ». Quindi la mente non può essere in potenza nel seme, [...OMISSIS...] . Dunque l' appetito tendente alla specie è nel corpo e in tutti gli enti naturali, ma l' ultimo oggetto a cui tende quest' appetito, e che solo da alcuni enti viene raggiunto, cioè la mente, non è nel corpo, nè in niuno degli oggetti corruttibili nè in atto nè in potenza, ma è del tutto fuori dell' universa natura. Così riconobbe il bisogno d' una suprema Mente sempre in atto, pura d' ogni potenzialità, ultima specie, che alcune nature giungono a toccare e diventano, toccandola, intellettive; eccelso scopo della scienza per sè appetibile (1) e della vita contemplativa, l' ultima e la più nobile vita, l' ultimo e il più nobile atto dell' anima più nobile di tutte, che è l' anima intellettiva, a cui le stesse virtù morali e tutte l' altre cose, come mezzi al fine, sono ordinate (2), e per dir tutto, l' oggetto della beatitudine (3). Ora quest' ultimo oggetto è indubitatamente l' essere, ma l' essere vivente ed assoluto. Ma è difficile dire se, e quanto, il concetto d' Aristotele si avvicini al vero. Dice dunque, che « « le sostanze sono le prime degli enti e che se tutte fossero corruttibili, sarebbero corruttibili tutte le cose »(4) ». Ma questo è impossibile perchè il moto e il tempo furono sempre (5). Ma il moto e il tempo che ne consegue, addimandano un' operante cioè una sostanza in continuo eterno moto. Ma se c' è un eterno moto, dunque anche un eterno Motore, e questo immobile, per non perderci nel ricorso all' infinito (6). Ora non c' è che l' intelligibile che possa movere, restando immobile, poichè l' intelligibile è desiderabile o eligibile (1). Conviene dunque che ci sia una sostanza prima dell' intelligibile, e semplice e in atto immanente (2), e questa è il Bene ultimo e sommo. « « E` dunque, conchiude, di necessità ente: ed esser necessario è esser bene e così è principio »(3) ». Spiega quindi in che senso si prenda qui esser necessario , cioè nel senso, non di poter essere e non essere, ma d' esser assolutamente, semplicemente, [...OMISSIS...] . La Mente suprema dunque, secondo Aristotele, è l' essere necessario, quello che semplicemente è, e, come in appresso lo nomina, quello che massimamente è, [...OMISSIS...] (4). Il primo intelligibile dunque è l' essere necessario, ciò che semplicemente e massimamente è: quest' è intelligente se stesso ed è Dio; e mediante la partecipazione o intuizione d' un tale intelligibile si formano le altre menti, che perciò sono divine. Tutto ciò Aristotele dichiara così: dopo aver detto che dall' essere necessario e intelligibile primo dipende il cielo e la natura, continua così: [...OMISSIS...] . L' ottimo, secondo Aristotele, è l' atto della contemplazione: ora, dice che quest' atto in noi non dura se non piccol tempo, ma nel primo intelligibile sempre e immutabile: lo stesso atto è anche attuale diletto, e anche questo a noi è solo momentaneo. Dal qual luogo pare che una delle due: o l' atto nostro della contemplazione è lo stesso atto divino identico di numero, o è almeno uguale di specie. Ma se uguale di specie, c' è dunque una specie comune anteriore alla mente divina e alla nostra, il che ripugna ad altri principŒ d' Aristotele, come dicemmo. [...OMISSIS...] . Qui si noti come aduni la sensazione, al suo solito, coll' intellezione, quasi un primo ed imperfetto conoscere, o almeno come una prima attualità che conduce ad una maggiore, giacchè considera tutto sotto il concetto generico d' attualità, partendo dal principio « ciò che è maggiormente attuale è più perfetto e dilettevole », considerando l' intellezione dell' ottimo, come l' attualità massima. [...OMISSIS...] . Aveva detto prima, che l' ente necessario, assoluto e massimo è la prima sostanza, e il primo intelligibile: era passato a dire, che il tenore della sua vita è l' attuale eterna contemplazione, puro diletto, la quale non è a noi che per qualche istante. Questa contemplazione è l' intellezione ottima e massima, cioè avente per oggetto l' ottimo, e quello che è in massimo grado. Ora, come dall' intelligibile primo è passato all' intellezione? Questo egli spiega così: « « La mente intende sè stessa coll' assumere l' intelligibile »(2) ». Ma come entra qui la mente, prima non nominata? Egli la definisce così: « « La mente è il subietto suscettivo dell' intelligibile e dell' essenza » » [...OMISSIS...] . Ora questo non può essere, che l' Essere stesso necessario considerato subiettivamente. E in fatto dice, che « « la mente stessa si fa intelligibile col toccare e coll' intendere, di maniera che sia un medesimo la mente e l' intelligibile »(3) ». Dunque l' Essere necessario si può considerare sotto tre aspetti, o come subietto [...OMISSIS...] , e dicesi mente; o come atto, e dicesi intellezione, [...OMISSIS...] ; o come oggetto, e dicesi primo intelligibile o prima essenza, [...OMISSIS...] . Ma è sempre lo stesso Essere, e come mente « «opera avendo », [...OMISSIS...] », cioè non ha bisogno uscire di sè per cercare il suo termine, poichè egli stesso è il termine del suo atto. La quale triplice relazione dell' Essere, non malamente si chiamerebbe la trinità aristotelica . Continua dopo di ciò Aristotele: « « Laonde questo » » cioè quello che opera avendo « « sembra essere più di quello » » più del subietto suscettivo dell' intelligibile « « il che come qualità divina la mente possiede; e la contemplazione è il dilettosissimo e l' ottimo. Se dunque Iddio si trova sempre » » in quest' atto di contemplazione « « come noi qualche volta, è cosa ammiranda, e se più ancora, più ancora ammiranda. Ma così egli si sta. E anche la vita per fermo inesiste, chè l' atto della Mente è pur vita: quegli poi è atto. Atto per sè è la vita ottima ed eterna di lui. Onde diciamo, che Iddio è un vivente, [...OMISSIS...] (4) eterno, ottimo. Laonde e la vita, e il sempre continuo ed eterno in Dio inesiste. Poichè questo stesso è Dio »(5) ». Sono queste le più magnifiche parole, o certo tra le più magnifiche, che siano state pronunciate intorno a Dio da un filosofo gentile. Ma il nesso accennato in esse, tra la Mente divina e l' umana, è un punto oscuro in tanta luce. Talora dice chiaramente che la mente non è cosa umana, e non umano ma divino il diletto della contemplazione. [...OMISSIS...] . Dalle quali parole si raccoglie, che la mente è bensì nell' uomo, però non è l' uomo ma cosa divina. Pure tosto appresso dice che essa anzi è ciascuno di noi, secondo il principio dato altrove, che l' elemento più eccellente e dominante in un composto costituisce la forma e la sostanza del medesimo (2). E questo è forse l' unico, o certo uno de' rarissimi luoghi d' Aristotele, dove il filosofo accenni veramente alla persona umana, benchè gliene mancasse il vocabolo (3). [...OMISSIS...] Coi quali luoghi non si può ancora decidere se, nella sentenza d' Aristotele, la mente sia una per Iddio o per gli Dei e per gli uomini, o siano più menti di numero. Da una parte dice, che è cosa non umana, ma divina; dall' altra, essa costituisce l' uomo stesso, e ciò che d' eccellentissimo e di dominante in lui si trova. Cerchiamo dunque degli altri luoghi del nostro filosofo. [...OMISSIS...] . E si sforza di provare che agli Dei disconviene l' azione, e che non resta loro altro che la contemplazione. [...OMISSIS...] Ognuno sente come il linguaggio d' Aristotele, a questi passi stretti, vacilla e zoppica ora da una parte, ora dall' altra. La mente contemplatrice è di tutti gli Dei; ma, di nuovo, noi dimandiamo, è ella una di numero o di specie? Dipoi rispetto agli uomini, ci dice esser beatissimo quell' atto che è cognatissimo all' atto contemplativo di Dio, [...OMISSIS...] . Se è cognatissimo, sarà uguale di specie, ma diverso di numero. Ma no, perchè « « ogni vita beata è degli Dei » » [...OMISSIS...] . Dunque anche la vita beata che consiste nell' atto contemplativo dell' uomo, sarà degli Dei, identica di numero, ma esistente nell' uomo. Questo s' accorda con ciò che disse prima che una tal vita non è umana, ma divina, a cui sembrava alludere colle parole dette poco innanzi; che la vita della mente è separata dal rimanente, [...OMISSIS...] . Ma sente di non poter sostenere una tal sentenza; che gli rimane dunque? Di rattaccarsi a Platone, di ricorrere per rifugio alle sue espressioni: ed eccovi che v' introduce la partecipazione [...OMISSIS...] (3), questa parola solenne di Platone, che altrove diceva di non intendere (4), e finalmente ricadendo del tutto nella dottrina del suo maestro e usurpandone il linguaggio, vi parla della mente contemplatrice dell' uomo come di un simulacro della divina [...OMISSIS...] (5). Che se l' umana è simulacro , la divina dunque è esemplare : l' esemplare dunque è qualche cosa di più d' una poetica metafora, come lo chiamava altrove in tuon di beffa. Va più avanti, e vi dice degli altri animali che non hanno niuna comunione nel contemplare, [...OMISSIS...] (6). Riconosce dunque una specie comune negli atti contemplativi. Ma la specie comune è anteriore a quelli che ne partecipano, non essendo che un elemento di essi (1): ammette dunque una specie anteriore agli Dei ed agli uomini: quest' è un ammettere più di Platone stesso. Che se prendiamo la cosa dall' altro verso e consideriamo la mente come una sostanza separata e per sè sussistente che, essendo Dio, inesista negli dei e negli uomini, noi diamo di cozzo in un' altra sentenza d' Aristotele, cioè che una sostanza non possa essere composta da più sostanze in atto; sentenza della quale si serve per dimostrare, che le idee di Platone non possono essere sostanze, perchè in tal caso più sostanze in atto entrerebbero a comporre una sostanza sola (2). L' argomento si può rivolgere con più efficacia contro di lui, se pur vuole, che la sostanza divina entri in composizione col corpo e coll' anima dell' uomo, rimanendo sostanza in atto, essendo la vita della mente separata e da sè, come egli dice. Che un' idea , un oggetto, come vuole Platone, possa esser partecipata da più subietti in virtù della mente, questo s' intende. Ma sostituendo Aristotele l' atto contemplativo subiettivo e sostanziale all' idea , non s' intende più, come quest' atto possa essere comunicato a più subietti, senza che o ciascuno d' essi diventi due invece d' uno, o tutti i subietti diventino un subietto solo, ciò che si potrebbe chiamare un panteismo aristotelico (3). Nell' opera morale a Eudemo, che contiene la dottrina d' Aristotele, e in parte è tessuta di brani delle sue opere, s' incontra un luogo, che complica maggiormente la difficoltà, e che noi qui riferiremo, perchè, sia d' Aristotele stesso o d' un suo discepolo, dimostra uno sforzo di riparare a quella lacuna immensa che lascia la dottrina aristotelica. Avendo Aristotele tolto a Dio ogni azione sul mondo e lasciatogli solo l' essere appetibile, molti avvenimenti, come osservammo, rimanevano privi di causa sufficiente: l' appetito universale della natura non basta a spiegarli. Aristotele ricorse dunque al caso e alla fortuna, cioè, come egli stesso confessa, non a cause, ma a privazioni di cause. Nel luogo accennato si osserva appunto che a certi uomini accadono prosperi avvenimenti fuori dell' aspettazione e senz' averci pensato. Di più lo stesso pensare e lo stesso volere dipende come da un primo principio, che non è nè il pensare nè il volere dell' uomo. Poichè chi può aver mosso l' uomo a pensare e a consultare? un pensiero e una deliberazione anteriore? ma e a questa che cosa lo mosse? Conviene dunque dire, per non andare all' infinito, che il primo movimento del pensiero e del consiglio non venga all' uomo dal proprio pensiero o dal proprio consiglio, ma da una causa anteriore, che determina nell' uomo quella serie di pensieri e di consigli, dietro a' quali vennero i prosperi successi (1). Ora qual è dunque questa prima causa? [...OMISSIS...] Le quali parole tentano, come dicevamo, di empire una lacuna del sistema aristotelico, e sono una confessione del suo intrinseco difetto. Poichè in esse si abbandona lo stesso sistema, e si ricorre al divino entusiasmo di Platone come ad un puntello straniero. Infatti: 1 Aristotele aveva dichiarata divinissima la mente, e in questa racchiuso il divino: ma qui si ricorre ad un principio superiore alla stessa mente, [...OMISSIS...] . 2 Avea detto che Iddio non move che come primo intelligibile ed appetibile (2), ma qui move e determina lo stesso pensiero verso l' intelligibile, e però sembra un principio cieco, anteriore all' intelligibile stesso. Tuttavia quando dice che alcuni sono spinti ad operare rettamente «alogoi ontes,» si può intendere non privi dell' intuizione dell' intelligibile, ma privi del raziocinio; benchè la ragione , in altri luoghi d' Aristotele, apparisca come oggetto essenziale dell' intelligenza; ma i varŒ sensi della parola ragione possono forse conciliare l' apparente contraddizione. E se paragona tali uomini mossi dal divino entusiasmo a' ciechi (3), può intendersi della mancanza di consapevolezza, per la quale non si rendono conto della ragione da cui sono mossi. Interpretando dunque a questo modo il brano che esaminiamo, che cosa è il divino che move tutte cose in noi, come Dio nel mondo, [...OMISSIS...] ? E` un principio diverso dalla ragione, [...OMISSIS...] . E` migliore anche della scienza [...OMISSIS...] : vince anche la mente in eccellenza e la volontà, [...OMISSIS...] . E` Dio stesso, [...OMISSIS...] . Convien dunque dire che la mente sia qui presa in senso subiettivo, e che nomini Dio lo stesso oggetto intelligibile. Così si può rendere coerente, in qualche modo, tutto questo luogo coll' altre dottrine aristoteliche. Di che risulta, che Aristotele pone Iddio nell' universo [...OMISSIS...] , e lo pone pure nell' anima intellettiva, come principio primo d' ogni suo movimento, [...OMISSIS...] . E questo conferma quello che abbiamo provato più sopra, essere Aristotele lontanissimo dal sistema di que' superficiali de' nostri tempi, che non ripongono nell' anima intellettiva niun oggetto insito, e da' sensisti, che la cognizione traggon da' sensi. Dal che è tanto lontano Aristotele, che anzi separa la natura del sensibile e quella dell' intelligibile d' uno spazio infinito, onde l' una non può passar mai ad esser l' altra. Poichè ripone la natura del sensibile nella sfera delle cose naturali, quella poi dell' intelligibile nella sfera delle divine ed immutabili. A queste poi assegna il principato, non solo nell' universo ma anche nell' uomo, e il fine stesso dell' uomo e della virtù. E l' uomo più che s' allontana dalle cose sensibili, più ottiene questo suo fine. Ritorna anche qui, quasi involontariamente e per la violenza che gli fa il vero, a Platone. [...OMISSIS...] . Ciò dunque a cui l' anima deve tendere è di sottrarsi alla sensazione, e affissarsi nel più alto oggetto della contemplazione, Iddio. Dalle quali cose tutte si può raccogliere, che circa la natura divina e l' origine della mente umana da questa, Aristotele parla oscuramente, e da sè stesso s' ingombra il cammino nel quale incèspica. Poichè volendo combattere il sistema di Platone, da una parte è costretto ad ammettere il divino ultimato, la specie ultimata, Dio stesso nella natura, il che conduce ad una sorte di panteismo (1); per la composizione poi della specie divina colla materia (2), da un' altra, venuto a certi passi, è ripulso da un tale ardito pensiero, e torna a confessare, che la mente umana e le specie ultimate della natura non sono più, come Platone diceva, che un cotal simulacro di Dio. Finalmente cade talora in un terzo sistema , ed è forse il più frequente, ma di cui non si rende conto, di considerare cioè Iddio come una natura comune e dispersa nella natura, di cui una cosa più o meno partecipi, il che conduce ad una specie comune , che sarebbe necessariamente un' idea di Platone, ma senza trovare più una sostanza o mente reale in cui risieda, perchè specie comune alla prima e all' altre menti e però anteriore a tutte, il che cozza con tutti que' principŒ, coi quali Aristotele prese a combattere le idee platoniche. Ma ciò che non abbandona mai Aristotele in tutti questi diversi sistemi, a cui, secondo il bisogno e di fuga, s' appiglia, sembra questo che in nessuna maniera si può spiegare l' umana intelligenza senza farla derivare da una qualunque comunicazione di Dio stesso (3). Come abbiamo già osservato, fortissimo è il raziocinio d' Aristotele quant' è alla forma, ma la sua dottrina rimane imperfetta quant' è alla materia, avendo egli accettato, senza sufficiente esame, taluni elementi con cui compone il suo sistema da due fonti irrazionali, cioè dal senso e dall' autorità superstiziosa del gentilesimo (1). Mirabile certo fu il lavoro che con materiali così imperfetti seppe comporne, quasi stupendo mosaico, il che soprammodo apparisce a chi considera, come egli dalle superstizioni tradizionali intorno agli astri pervenne a trarre un' ingegnosa dottrina per ispiegare, in qualche maniera, i moti della natura, e le generazioni e concezioni sublunari. Ma indubitatamente s' aiuta in questo lavoro non del tutto filosofico con un parlare traslato. A ragion d' esempio quando prova che il cielo è finito (2) e poi dice, che « « al di fuori del cielo non c' è, nè ci può essere, nè corpo, nè luogo, nè vacuo, nè tempo »(3) »; e che ivi è il luogo dove abita Iddio (4): in niuna maniera si può intendere il significato proprio, perchè se il cielo è finito, convien che al di là rimanga ancora dell' estensione o vacua o piena. Conviene dunque o riconoscere un somigliante discorso come una semplice ripetizione di volgari credenze, e così Aristotele lo presenta quando ce lo dichiara relativo alla fede umana, [...OMISSIS...] (5), o intenderlo in senso traslato, quasi voglia dire che Iddio non occupa spazio, e però è fuori di tutto l' universo materiale ed esteso, e così par che lo prenda lo stesso Aristotele quando ci fa sopra una teoria filosofica; e così lo spiega il suo commentatore Simplicio. Ma se questo Dio è veramente incorporeo, come poi trova necessario che a lui sia congiunto e acconciato un corpo immortale? (6) E se sta sopra il cielo, come costituisce poi le menti degli uomini e la specie pura a cui tende tutta la natura? Questo miscuglio di materialismo e di spiritualismo rimane in Aristotele come rottami di fabbriche diverse di cui si serve per costruire una fabbrica nova, rimane come un sincretismo, monumento della limitazione dei più forti intelletti umani. Considerata la dottrina dalla sola parte spirituale, ci si trova un' ingegnosa unità, ma ben tosto questa s' infrange irruendo in essa la parte materiale. Così gli esseri intellettivi hanno per oggetto loro o specie, in cui contemplano il Bene eterno, Iddio immobile, l' essere per sè; ed operano per questo fine. Laonde in quegli enti che non operassero per un fine, e questo immobile, non ci potrebbe essere la mente (1). Ma la mente è il luogo delle specie pure di materia, e le specie pure di materia sono immobili ed anteriori alle specie unite alla materia: poichè le specie sono la causa formale delle cose, causa incorruttibile ed eterna (2). Ora se tutte le cose dipendono dalle loro cause formali, e queste non ci sarebbero se non ci fossero le menti, consegue che tutte le cose ricevono continuamente l' essere e il vivere loro dalla prima ed eterna divina mente, verso cui tutte aspirano; non a dir vero come da un Dio creatore, ma come da un Dio che somministra a tutto le forme, e però condizione e termine di tutto. Onde dice che « « Iddio sembra essere un certo principio di tutte le cause; e un tale principio o solo l' ha Iddio, o principalmente » (3) ». E dice principalmente, perchè anche la mente nell' uomo è dichiarata da lui « « principio de' principŒ » » e « « luogo di tutte le forme » ». [...OMISSIS...] Infatti, dice, non ci può essere una serie di cause all' infinito, ma in ciascuno de' quattro generi convien fermarsi ad un principio, anche nell' ordine delle specie (5). Laonde se non c' è un primo non c' è niuna causa (1). Tra tutte le cause poi la prima è la finale: onde la nobilissima scienza, a cui l' altre tutte devon servire, è quella del fine e del bene [...OMISSIS...] , poichè tutte le cose sono in grazia di questo, [...OMISSIS...] (2). E` impossibile che ci sia una catena infinita di cause finali; poichè la causa finale è un termine, in grazia di cui sono tutte le altre cose: questo termine non si troverebbe mai, osserva Aristotele, se la serie fosse infinita, e quindi non ci sarebbe il Bene (3): non ci sarebbe la mente, poichè quei che l' hanno, operano per un fine (4), nè ci sarebbe l' intendere, poichè non si può intendere senza fermarsi in uno intelligibile, [...OMISSIS...] (5). Ma del pari non ci potrebbe esser nè pure la generazione, perchè anche la generazione tende ad un fine, ad una specie sostanziale, ed è media tra l' ente e il non ente: convien dunque che ci sia un primo sempiterno e incorruttibile da cui parta e a cui tenda incessantemente (6). Poichè la natura opera come l' arte mediante la specie insita in essa, e ciò che ha questa specie in potenza tende di pervenire all' atto come a suo fine (7). Così Aristotele facendo che anche gli animali e le stesse cose insensibili cerchino un atto finale, e il fine ultimo essendo l' ultima specie, Iddio, da Dio, a cui tendono (.), deriva tutta l' azione, la vita, la forma dalla natura. Ma come si derivi quest' azione non lo dice chiaramente. Al primo cielo, che contiene tutti gli altri, conviene certamente che dia un' anima dotata d' intelligenza e d' appetito (1), che sono le cause del moto locale secondo Aristotele (2). Ma come poi il cielo, contemplando il motore immobile ed appetendolo, si volga in giro, qui sta appunto il salto del sistema aristotelico, il punto dove si discontinua, non potendosi vedere che abbia a fare il moto circolare nello spazio colla contemplazione dell' eterno bello e dell' eterno buono: sono due parti eterogenee che non si continuano, nè accostate si rammarginano. Forse che essendo l' atto della mente eterna un continuo rivolgersi sopra sè stesso, [...OMISSIS...] (3), abbia Aristotele, a imitazione di Platone, voluto significare che l' anima del cielo, risolvendosi in una continua riflessione sopra di sè ad imitazione della prima mente rapisse in circolo il corpo celeste da essa informato, e col moto locale rappresentasse l' interno circolo del pensiero; e per questo pare che attribuisca al cielo il volgersi in giro ragionevolmente, [...OMISSIS...] (4). L' arabo commentatore e il primo suo traduttore Michele Scoto spiegarono il movimento de' cieli non per l' appetito di tutto il corpo celeste a cui nulla, come ad essere divino, potea mancare, ma per l' appetito delle sue parti (5), stranissimo pensiero, esprima o no la mente d' Aristotele. Trovato dunque un movimento perpetuo circolare e uniforme dell' ultimo cielo, Aristotele da questo deriva come da prima causa la conservazione delle cose naturali e l' uniforme esistenza: ma sotto il moto del primo cielo pone poi quelli delle altre sfere e degli astri; moti diversi e non uniformi, e a questi movimenti attribuisce la prima causa della generazione e della corruzione (1). Queste sfere e questi astri si movono come il primo cielo per la contemplazione e l' appetito del proprio Dio, motori immobili, menti eterne, benchè inferiori alla prima, senza potersi dire in che consista questa inferiorità di natura. E da un luogo del secondo libro « Della Generazione e della Corruzione » più chiaramente s' intende in che consista la censura che fa alle idee di Platone. Egli osserva che Platone pone due cause, le forme e i partecipanti , ma queste due sole, dice, non bastano a spiegare la generazione e la corruzione. Poichè se le forme da sè generassero, sarebbero cause necessarie, e perchè dunque non generano sempre, ma or sì ed ora no? (2). Ci vuole dunque per terza la causa del moto, che pretende essere stata omessa da Platone, sebbene a torto, come vedemmo (3). Non nega dunque le specie platoniche, ma le dichiara insufficienti a portare da sè l' effetto, e vuole che s' aggiunga la causa del moto (4). Ma qual è la prima causa del moto secondo Aristotele? L' intelligibile, il desiderabile: una prima specie e ad un tempo intellezione divina, che niente opera per sè; ma che, essendo appetita dal primo cielo, questo di conseguenza si muove in circolo. Nell' origine dunque del primo movimento Aristotele pone l' efficacia di movere in un' idea, e non introduce un terzo principio, ma alla stessa idea o specie prima dà ad un tempo la qualità di specie, di motore e di fine, unificando in essa le tre cause. Dal che non va certo lontano Platone, come vedemmo. Nè Platone certamente nega che il moto una volta generato si comunichi per contatto e per continuazione di parti. Ad ogni modo al pensiero d' Aristotele sembra questo, che le tre cause riunite originariamente in Dio si dividano discendendo alle cose mondiali. Laonde per ispiegare la generazione degli enti sublunari trova necessario non solo un motore immobile, ma anche un motore eternamente mosso, e questo duplice, l' uno di moto uniforme, come quello del primo cielo che conserva l' uniformità della natura, l' altro di moti varŒ come quelli dell' altre sfere e dei varŒ astri. E infatti nell' esempio che adduce per dimostrare che le cause delle cose generabili devono esser tre, queste cause sono già divise, traendo un tale esempio dalla medicina, dove dice che oltre la specie della sanità e oltre il partecipante che tien luogo di materia, c' è il medico che applica la specie al partecipante come causa motrice; e così, aggiunge, dicasi dell' altre cose che operano per una forza, cioè come cause efficienti (1). La quale osservazione niun meno di Platone negherebbe; quando questi fa Iddio non solo motore, ma anche creatore, e al modo appunto d' un sapientissimo artefice (Demiurgo). Del rimanente, questo resta di solido nella dottrina aristotelica circa le cause rimote della generazione: l' aver egli veduto che niente c' è nell' universo corporeo che stia in quiete, come ne' tempi moderni osservò il Leibnizio, ma tutto si move, e che senza questo perpetuo movimento non si potrebbero spiegare i fenomeni della natura. Chè per verità tutto s' adunerebbe in una massa inerte e morta. Nell' uomo, Aristotele attingendo al concetto che se n' erano formato i filosofi che lo precedettero, vide la riproduzione in piccolo dell' universo (2). Anzi sarebbe forse più esatto il dire, che concepirono l' universo sul disegno dell' uomo, anzichè l' uomo su quello dell' universo. Pose dunque anche nell' uomo (ed è evidentemente un' imitazione del « Timeo » di Platone, per quanto Aristotele voglia farci credere il contrario) un Movente immobile, e quest' è la Mente oggettiva; il Motore Mosso, e questo è l' Appetito; e finalmente la parte mossa e non motrice (3). Nell' uomo dunque ci sono tutti i motori, e comparativamente anche negli altri animali; benchè egli esiti nell' attribuir loro la parte divina (1). Infatti se la parte divina non è che la mente obiettiva, i bruti ne sono privi, ma se divina è la specie , tutte le cose ne sono partecipi, sebbene, essendo in esse la specie alla materia congiunta, riman cieca, intelligibile, ma non intelligenza: sistema pieno certamente di difficoltà, che non poteano del tutto sfuggire all' ingegno d' Aristotele, e però il suo frequente esitare, come dicevamo (2). A malgrado di questo il giro de' cieli è necessario, perchè gli animali dipendono dalle cose materiali e corporee, che sfuggono alla sua volontà e al suo appetito. E inoltre è necessario secondo Aristotele per ispiegare le generazioni spontanee e casuali, alle quali dà per cagioni il movimento del tempo , che dai giri celesti proviene, e il calore (3). Dal calore ancora fa dipendere l' assimilamento delle parti componenti il corpo umano, non però la specie , che appartiene al seme (4): e questo calore non è già quello del fuoco, ma è un calor vitale, che si svolge mediante il celere giro de' cieli e degli astri (5), giacchè questi veementissimi movimenti e soffregamenti (6) producendo calore e luce eccitano e danno un interior moto a tutta la natura (7): nè questo calore è guari diverso da quello spirito calido che è mezzano tra l' anima intellettiva ed il corpo e propria sede probabilmente dell' anima sensitiva e dell' appetito (.). Laonde alla posizione degli astri più o meno vicini alla terra nei loro corsi, attribuisce molta influenza sul riuscire o perfetta o imperfetta la generazione umana (9). Se ora raccogliamo tutte le cose esposte sin qui e cerchiamo di riunire i brani del sistema aristotelico sparso nelle diverse sue opere, possiamo conchiudere, che Aristotele non giunse a dare al suo sistema una perfetta unità e a ridurre l' universalità delle cose a un unico principio: ma che egli ammette una dualità primitiva ed eterna. I due principŒ eterni che costituiscono questa dualità sono la materia e la forma ; potenza l' una, l' altra atto. Alla forma si riduce la privazione. Alla potenza del suo ingegno è dovuto, se egli a malgrado de' due principŒ da lui ammessi come primordiali, seppe cansare il manicheismo (1), in cui urtarono alcuni neo7platonici, ingegni tanto inferiori allo Stagirita. Il suo errore si tempera anche con questo, che egli non fa uguali i due principŒ eterni da lui posti, ma riconosce che la materia dipende eternamente dalla forma, onde la materia senza di questa non è qualche cosa, di maniera che la forma è causa della materia, [...OMISSIS...] (2), l' atto è causa della potenza, sicchè infine tutto quello che è, è atto, [...OMISSIS...] (3). Il che è lo stesso che ammettere una specie di creazione eterna e continua. Non attribuendo dunque un essere suo proprio alla materia, rimane che l' ente sia specie o forma , e certamente forma universale. Di che deduce che l' ente, la natura dell' ente è eterna, non può nascere, e non può distruggersi, poichè per nascere o per distruggersi ci sarebbe bisogno di qualche altra causa e questa ancora sarebbe essere [...OMISSIS...] (4). Questa specie dunque, cioè l' essere, è necessaria. Ora da ciò che è necessario dipende tutto ciò che è contingente, onde è chiamato da Aristotele il principio dell' esistere di tutte le cose [...OMISSIS...] (1). Ancora, se l' essere stesso è necessario ed eterno, dunque è atto purissimo, poichè niente di ciò che è materiale e potenziale è eterno, ma corruttibile [...OMISSIS...] . E ciò perchè un subietto in potenza ammette de' contrarŒ cioè è suscettivo d' avere una specie o la sua contraria, d' aver un certo atto e di non averlo: ora ciò che può essere e non essere è corruttibile e non eterno (2). E in vero di contrario semplicemente all' essere non è che il nulla; non c' è dunque qualche cosa che sia contrario all' essere. Se dunque l' essere è necessario ed eterno e atto puro senza potenza, egli non ha bisogno per esistere d' alcuna materia o potenza: è dunque da sè puro e separato. E infatti Aristotele prova la necessità che ci sia un tale principio, di cui l' essenza stessa sia atto, [...OMISSIS...] (3). E atto appunto è l' essenza dell' essere. L' essere dunque, considerato in sè solo, è puro atto. Ma l' essere si mescola anche colla materia. Indi i diversi enti. E poichè si predica l' essere di tutti questi enti, sembra che l' essere sia un predicato universale: ond' anche l' essere e l' uno furono chiamati primi generi [...OMISSIS...] (4), anteriori e più universali delle categorie (5). Ma, considerato l' essere come genere e come universale, nega Aristotele che possa avere un' esistenza separata, chè niun universale, dice, può esistere separatamente (6). Come dunque avea detto prima l' essere non appartenere ai corruttibili, essere puro atto, principio all' essere di tutte le cose? Convien osservare che Aristotele non chiama genere l' ente, se non o come una denominazione che gli avevano data altri filosofi, dimostrando quali inconvenienti nascerebbero dal così chiamarlo, ovvero talora lo chiama forse genere in un senso differentissimo da quello nel quale dice genere le categorie, chè nel senso di queste nega che possa convenire all' essere l' appellazione di genere [...OMISSIS...] (1). La ragione che adduce per negare all' essere il nome di genere è notevolissima. Il genere è essenzialmente limitato e imperfetto, egli non entra nella definizione se non come materia (2), non contiene l' atto specifico se non in potenza, quindi non si può predicare della differenza (3): tutto ciò non è applicabile all' essere ; poi l' essere abbraccia tutto, tanto in potenza quanto in atto; si predica del genere, della specie, della differenza, dell' individuo (4), poichè tutte queste cose sono, l' essere è tutte ad un tempo. Non è dunque l' essere essenzialmente limitato e incompleto come il genere; che anzi la limitazione è per lui accidentale e non sua propria, che quant' è meno limitato, tant' è più veramente essere. Di qui accade che mentre il genere, se gli s' aggiunge qualche cosa d' ulteriore, cessa d' essere genere, l' essere all' incontro non cessa d' esser essere , ma raggiunge più pienamente con ciò la sua stessa essenza. Niuna maraviglia dunque, se la natura dell' essere da una parte si consideri puramente in sè, e in tanto si trovi principio di tutte le cose ed atto per sè essente; e dall' altra si trovi predicato universalissimo de' generi, delle specie e degli individui (secondo una maniera puramente dialettica di predicare), e che in questo secondo modo si neghi potere esistere separato, poichè in questo modo è divenuto essere limitato, quando per sè e come essere è illimitato. Dissi che l' essere si predica in una maniera puramente dialettica, perchè assolutamente non si predica; chè l' essere assolutamente preso come predicato involgerebbe contraddizione. In fatti di che si predicherebbe? Certo di sè stesso, perchè del nulla non si può predicare. Ora insegna Aristotele che la prima essenza (l' essenza singolare) non si predica del subietto nè è nel subietto [...OMISSIS...] (5), il che è quanto dire, che il subietto non si predica del subietto e non è nel subietto. Ma il subietto è doppio, secondo Aristotele, poichè subietto è la materia prima suscettiva d' ogni atto e de' contrarŒ, e quest' è l' essere indeterminato (6), l' essere in potenza, e è subietto anche l' essere determinato ed ultimato e quest' è l' essenza prima. Ora i veri predicabili dell' essenza sono le specie e i generi essenziali, ed indicano una qualità, un modo, una determinazione dell' essenza [...OMISSIS...] (7). La parola essenza dunque ( «usia» da «einai»), dico l' essenza sostanziale, è presa da Aristotele come l' ente, «to on», al modo di Platone, Nel settimo dei « Metafisici » lungamente si trattiene a provare, che l' ousia è la causa dell' essere delle cose, poichè «he usia arche kai aitia tis estin» (1) ed è causa «tu einai». Ma qui l' essere si considera in relazione cogli elementi materiali di cui la cosa si compone: questi elementi, come i materiali della casa, cessano d' aver un' esistenza propria e diventano la casa, a cagione della forma della casa. La forma dunque o essenza della casa è causa per la quale la casa è, sia nell' idea, sia nella realtà: la materia della casa è il subietto indeterminato che non è ancora qualche cosa: vi s' aggiunge un' essenza sostanziale o forma, per esempio quella della casa, o d' un letto, e allora quella è questo qualche cosa speciale. Così l' essenza sostanziale è la causa dell' essere delle cose. Ma trattasi qui sempre di cose finite e materiali. Ora l' essenza stessa si può concepire in due modi, in un modo indeterminato e così è l' essere puro indeterminato il quale non sussiste ancora se non soltanto nella mente (2); o dopo che gli furono attribuite tutte le sue determinazioni (predicabili dell' essere puro), e così è l' essere determinato che può sussistere in sè medesimo. Ma primieramente l' unione della qualità essenziale col subietto è doppia, cioè: 1 è tale in natura; 2 è pronunciata dall' intendimento. Se l' intendimento pronuncia l' unità qual è in natura, c' è il vero nell' intendimento, altramente il falso (3). Ora l' intendimento non può eseguire quest' atto di predicazione, se non avendo precedentemente fatti quest' altri atti: 1 concepito da una parte il subietto , l' essere indeterminato, dall' altra la qualità essenziale che si tratta di attribuirgli; 2 concepito il subietto vestito delle qualità essenziali. Quindi l' atto della predicazione suppone tre idee nella mente: 1 l' idea del subietto, essere in universale; 2 l' idea della qualità essenziale che lo determina; 3 l' idea del subietto determinato. Queste sono tre idee, e non c' entra ancor nulla della realità, che s' aggiunge coll' affermazione o assenso dell' animo (1). L' idea del subietto è l' idea dell' essere indeterminato. L' idea della qualità , divisa ancora dal subietto, è un puro predicabile, e fa ufficio di differenza tra l' essere indeterminato e primo subietto, e l' essere determinato. L' idea del subietto determinato , vestito della qualità essenziale, è l' idea completa , l' essere ideale determinato, dove già il subietto ed il predicato sono idealmente congiunti. Tutto questo è nel mondo ideale. Aristotele non fa espressamente tutte queste distinzioni, e sopra tutto non distingue la predicazione ideale dalla reale e affermativa. Sotto il nome di specie essenziale ( ousia categorica) egli intende talora la qualità dell' essenza , [...OMISSIS...] divisa e astratta dall' essenza; talora poi intende il tutto ideale cioè l' essenza vestita della qualità essenziale. Variando dunque di significato la parola specie (e proporzionatamente si dica il medesimo della parola genere ), si trovano nel nostro filosofo dottrine apparentemente contraddittorie (2). Ma rimane che l' essere (e quando si dice essere si dice atto, chè senza qualche atto non si può intendere l' essere in potenza) sia sempre attribuito da Aristotele alle specie che si riducono in generi, e che fuori di queste non si riconosca alcun essere, di che sembra a prima giunta, che non ammetta l' esistenza dell' essere separato e da sè esistente. Così chiama le categorie « generi dell' ente ». E dice che come dicendo un uomo non s' aggiunge nulla ad uomo , così l' essere non aggiunge nulla alla quiddità, o al quale, o al quanto, e che l' essere uno è il medesimo che l' essere quella cosa che si nomina, senza che col dirla una, le si aggiunga altro (1). L' essere dunque, secondo Aristotele, non aggiunge nulla alle categorie (potenza ed atto) (2) ma che le segue tutte ed è tutt' esse (3); l' essere dunque non è una natura che stia da sè, ma è sparso e diviso tra tutte le nature degli enti e si coagguaglia a tutte. A questa parte, che è chiara in Aristotele, si sono tenuti gli scoliasti e i commentatori. Ma tutto questo vale dell' essere considerato come predicabile. Aristotele lo considera anche come atto in se stesso determinato, ossia come specie. E quantunque dica che il solo composto di materia e di forma è assolutamente separabile «choriston haplos» (1), tuttavia qui parla degli elementi di questo composto, che non sono certamente separabili, cioè la materia, o la forma di questo composto. Pure soggiunge, che riguardo alle essenze, che sono secondo ragione, altre sono separabili, altre non sono (2), e sembra che parli di quella stessa separazione assoluta. D' altra parte dice che tutti gli enti che non hanno materia sono semplicemente enti determinati (3). Se sono dunque enti determinati [...OMISSIS...] , perchè non potranno sussistere? Aristotele insegna che la materia ha bisogno della forma per essere qualche cosa, ma in nessuna maniera insegna che la forma abbia bisogno della materia per essere qualche cosa: solamente osserva che la forma, acciocchè sussista separata, conviene che sia ultimata e non in potenza, come sono i generi e gli universali. Quello dunque che assolutamente nega Aristotele, si è solo che non può sussistere da sè l' ente indeterminato e però non può sussistere l' essere da sè come universale, come genere comune: non c' è, dice, l' uno o l' ente, nel quale siano gli enti determinati come in loro genere, di maniera che l' uno e l' ente come generi sieno le cause alle essenze determinate d' essere uno, o d' esser ente, [...OMISSIS...] . In questo sistema dunque non può sussistere da sè nessun ente, nessuna quiddità, nessuna specie che non sia pienamente determinata; se non è determinata può sussistere soltanto nella mente, separata dalla materia corporea; ma se la specie, l' essere, è pienamente determinata, ancorchè non abbia materia corporea, allora è un singolare e niente vieta che da sè sussista, e così sussiste secondo Aristotele la mente e Dio. [...OMISSIS...] . E che cos' è quest' ascendere di specie in specie fino all' ultima specie, se non andare da una specie a cui resta qualche materia e potenzialità, e non è ultimata, fino a trovare una specie che non abbia materia alcuna e sia puro atto? Poichè dice, che non c' è nulla d' eterno che sia in potenza o che abbia materia [...OMISSIS...] (1). Riconosce dunque che ci debbono essere specie sussistenti da sè ed eterne altrettanto che Platone; soltanto vuole che esse sieno ultimate, cioè venute all' ultimo loro atto, e quest' atto l' hanno quando sieno non solo intelligibili, ma intelligenti; poichè dice, che lo sciente è più in atto della scienza e il mosso del moto (2). Avendo dunque fatto consistere l' ultimazione della specie nell' essere questa non solo intelligibile ma intelligente, trasformandola così in una mente, Aristotele non si curò più di sapere, se l' oggetto di questa mente fosse determinato o indeterminato, e concedette che anche gl' indeterminati come i generi e gli universali fossero in questa mente così subiettivamente determinata, ed anzi fossero tutti questa mente medesima. Anzi domandando a se stesso quali intelligibili convenissero meglio alla mente suprema, trovò che gli universalissimi, cioè l' essere e l' uno , che chiamò «prota te physei» (3) e i principŒ , che sono lo stesso essere ed uno nelle loro applicazioni, ond' anco disse, che la mente era de' principŒ [...OMISSIS...] , e essa stessa principio del principio [...OMISSIS...] (4). Essendo dunque l' intelligibile intelligente, e il primo intelligibile essendo l' essere , questo è in senso obiettivo ad un tempo e subiettivo la mente d' Aristotele. Per la stessa ragione poi per cui Aristotele disse che la prima filosofia trattava dell' ente come ente, e di conseguente della mente e de' primi intelligibili, e de' principŒ di cui la mente è il primo; disse anche che trattava delle cause, poichè nella mente suprema finivano tutte le cause, essendo essa prima causa finale, e quindi prima causa motrice, e di conseguente causa delle specie, e di conseguente ancora causa della materia, la quale non è qualche cosa se non per la specie (5). Ma gioverà indicare altresì da che fosse indotto Aristotele a considerare l' ente puro come l' oggetto degnissimo della prima mente, formante con questa una medesima cosa. Dice dunque che l' ente e l' uno, che non è che un carattere dell' ente, si riputeranno meglio d' ogni altra natura contenere tutti gli enti [...OMISSIS...] , come quelli che sono per natura primi [...OMISSIS...] (1). Questa proprietà, di contenere il tutto, l' attribuisce appunto a Dio, che perciò colloca come in sua sede sopra l' ultimo cielo, rappresentandolo così come contenente (2). Ora l' essere ha appunto questa prerogativa, che in esso tutto si veda contenuto: e però tutte le specie sono in lui, ond' anco la mente è detta da Aristotele « il luogo delle specie ». Ma come l' ente contiene le specie? Aristotele, come abbiamo veduto, dà all' Ente, o mente suprema, la sola cognizione di se stesso, e sembra che gli tolga quella del mondo. Parmi dunque che il nostro filosofo faccia che la mente divina contenga tutte le specie, appunto come l' essere puro (determinato solo a se stesso, e attuato nel principio subiettivo dell' intellezione) contiene le specie di tutte le cose finite, come il circolo contiene tutte le figure poligone che possono essere in esso descritte. Le contiene perchè è maggiore di esse, ed ha in un modo eminente tutto ciò che è in esse; ma non le contiene colle loro determinazioni e co' loro limiti, che le impiccioliscono (3). Onde dunque, secondo Aristotele, l' origine delle specie finite? - Dalla tendenza, crediamo noi, che egli dà alla materia, o anzi alle diverse materie, di che il mondo si compone. Tendendo ciascuna all' atto ed alla propria perfezione (4), esse tendono di continuo ad assomigliarsi all' ultima e perfettissima essenza che ha l' atto completo. Ma non potendo raggiungerla, tutte vi si avvicinano in diversi modi e gradi, secondo il proprio nativo potere, nascente dalla specie che già hanno e che tende a riprodursi con eterno circolo. Rimanendo dunque le nature materiali in questo continuo conato a diversi punti della scala, senza arrivare nessuna di esse al sommo, accade che si vestano di specie varie, che non adeguan la prima, ma tengano tutte qualche cosa di essa. Così le specie limitate, che informano gli enti naturali e corruttibili ed anche gli incorruttibili come gli astri, in moto perpetuo, non nascono di nuovo, ma non fanno che riprodursi, perchè tutte le specie sostanziali sono ab aeterno in natura, non già separate ma unite colla materia (1). Ed ecco il perchè la mente umana non può trovare in se stessa queste specie, ma le abbisogni cavarle per via d' induzione dalla natura. La mente umana è la stessa mente divina (se identica di numero o solo di specie difficilmente si può definire) (2), e però in sè non ha che i primi intelligibili (1). Essendo essa congiunta ad un corpo sensibile, dal sentimento raccoglie le specie e i generi, valendosi di quel lume che la forma, cioè dell' essere, a cui si riducono appunto i due primi intelligibili l' ente e l' uno, e i principŒ in questi stessi contenuti. Si opporrà che in questo sistema l' uomo verrebbe a sapere più di Dio, perchè essendo Dio la mente separata e non avendo questa che i primi intelligibili, l' uomo all' incontro accogliendo anche le specie finite delle cose naturali, conosce queste oltre di quelli. A questa difficoltà, di cui abbiamo già toccato prima leggermente, dobbiamo far qui più compiuta risposta. Osserva Aristotele, che quel divino che è nell' uomo, è cosa più eccellente del composto, che si fa da esso e dall' altre parti inferiori dell' uomo, [...OMISSIS...] , e che di tanto altresì l' atto puro di questo divino, cioè della mente, si vantaggia dall' atto d' ogni altra virtù, [...OMISSIS...] (2). Ora l' uomo essendo composto e dovendo attendere a tant' altre operazioni, è distolto dalla continua contemplazione; all' incontro gli dei, cioè le menti separate, vi permangono sempre e così godono d' una perpetua e continua beatitudine (3). Iddio dunque è mente perfettamente teoretica ossia contemplativa, di cui l' uomo non gode che momentaneamente. Poichè la perfezione è riposta da Aristotele in due cose: 1 che subiettivamente altro non ci sia che atto di contemplazione; e 2 che oggettivamente sia l' ottimo , il quale ottimo è l' essere puro. Le notizie dunque delle cose inferiori non aggiungono, ma col loro miscuglio diminuiscono, secondo Aristotele, l' oggetto ottimo, che ogni cosa in sè contiene in un modo eminente; come le azioni diverse dall' atto contemplativo, se si mescolano a questo, ne deteriorano la natura. Poichè, come queste azioni, non avendo il fine in se stesse, non hanno valore che di mezzi conducenti alla contemplazione, ultimo fine di tutto ciò che esiste (1): così le notizie inferiori, riguardanti le cose limitate, non hanno altro pregio che quello di mezzo ad attuare la mente e far meglio conoscere l' ottimo intelligibile, che è bastante a se stesso, non ammettendo la felicità nulla d' imperfetto [...OMISSIS...] (2). Come dunque il mezzo è superfluo, quando c' è il fine; e le armature della fabbrica sono un ingombro quando la fabbrica è compiuta, e si rimovono; così la natura divina nella sua ultima perfezione, rimane scevra da ogni altra notizia, eccetto quella dell' ottimo, che, come si diceva, è l' essere puro, ossia di se stessa (3). Laonde quella mente che s' è fatta tutte le cose [...OMISSIS...] perisce, cioè periscono tutte le cognizioni tratte dalla natura per induzione (essendo ella stessa tutte queste cose [...OMISSIS...] ) (4) e senza di queste niente più intende [...OMISSIS...] (5), ma rimane la mente pura, eterna contemplatrice di se stessa, cioè dell' essere, principio e fine di tutto (1). Questa mente pura, che si dice una parte dell' anima umana, è di natura separata dal rimanente dell' anima (2), e viene dal di fuori (3); onde non pare che Aristotele conservasse all' anima dopo la morte dell' uomo la sua individualità, rimanendo solo la natura divina in essa inesistente (4). A questa risposta s' aggiunge, che, essendo la mente divina, e l' uomo, in quanto è mente, essendo Dio, come lo chiama Aristotele, questo Dio inesistente nell' uomo, anzi in tutti gli uomini, conosce necessariamente in questa sua forma umana anche tutto ciò che conoscono gli uomini, cioè le forme di tutte le cose, in quanto sono pure essenze, prive di materia, generi e specie. Onde, come Dio puro da ogni veste, non conosce che l' ottimo, ma come Dio nell' uomo conosce le essenze determinate, che sono e non sono (5), e però in qualche modo cessano col cessare del composto, rimanendo sempre in altri composti ed hanno una base eterna nell' essere puro ideale, in cui eminentemente si contengono, e che rimane immutabile oggetto della mente, non avendo l' essere contrarŒ di sorte, che fuori dell' essere non c' è nulla (6). Poichè sebbene Aristotele trovi necessario, che la natura divina esista anche allo stato di purità segregata da ogni materia, senza il qual ultimo atto non potrebbero essere gli altri atti, tuttavia egli fa che anche esista in istato di imperfezione, cioè legata colla materia, ossia colla potenzialità, e tendente di continuo a liberarsene, uscendo al suo atto purissimo: dove non s' intende più certamente che cosa pensar si debba, come osservammo, dell' individualità e della personalità di questa divina natura, salvo che chiaramente ammette una pluralità di dei, benchè altri abbiano tentato di difenderlo da un tale politeismo (1). Ma difficilmente, ammettendosi per legittimo il libro XI de' « Metafisici », si può dire che ivi non faccia che esporre l' altrui opinioni, quando egli pur dimostra la necessità, che ogni astro abbia una mente separata, ossia un Dio immoto intelligibile, appetendo il quale si mova colle sue sfere, nascendo indi la causa della generazione, senza di che questa rimarrebbe inesplicabile, salvo però che tutti cotesti Dei sono inferiori al supremo perchè appetiti da' singoli astri, quando il Dio sommo è l' appetito di tutta l' università delle cose (2). Aristotele dunque non solo vuole, che la natura divina «to agathon kai to ariston» esista nel Motore supremo, che paragona al duce: ma vuole che inesista ancora nell' universo e ne formi l' ordine e la connessione, [...OMISSIS...] , come d' un' armata. In quanto la detta natura è il duce, intanto è qualche cosa di separato e da sè, [...OMISSIS...] . Dice poi, che il ben essere dell' armata è nell' ordine, ma che il duce è più e meglio del suo ordine, [...OMISSIS...] , perchè il duce è il fine (1). Cerchiamo dunque di nuovo qual sia la relazione che pone Aristotele tra l' essere assoluto e separato, e gli altri enti composti di materia e di forma, e com' egli unisca il reale all' ideale; poichè sta qui tutta la spiegazione che dà Aristotele dell' esistenza e della natura del mondo, e della sua dipendenza dall' Essere supremo puro e separato. Stabilisce dunque, che l' essenza sostanziale non c' è se non in quegli enti che ammettono una definizione (2), e sono i composti di materia e di forma, di genere e di differenza, non potendosi definire la sola materia, chè non è un qualche cosa, nè la forma da sè, che è un semplice. Egli dice questo senza distinguere l' ente reale dall' ideale, il che prova che considera come identica e comune la forma ideale e la reale (3), salvo che quest' ultima è unita alla materia, e la prima n' è separata, esistente però nella mente, e non da sè. Dipoi dice, che il domandare: « « perchè questo sia qualche cosa » » [...OMISSIS...] , è sempre un domandare: « « perchè altro inesista in un altro » » [...OMISSIS...] (4). Così espone la ricerca della causa formale, che è la causa dell' essere delle cose, [...OMISSIS...] (5). Secondo lui dunque la materia è qualche cosa, perchè inesiste nella forma. Questa maniera di parlare ritorna spesso in Aristotele e sempre senza distinzione di ciò che è reale o ideale, di maniera che il genere, secondo lui, esiste nella specie, come pure la materia reale inesiste e sussiste nella specie (6). Ora la materia inesistendo nella specie riceve da questa insieme coll' esistenza l' unità , e un' unità essenziale, che determina la cosa ad essere quello che è, di maniera che le pietre e i mattoni, che sono gli elementi della casa, non sono più pietre e mattoni ma sono casa, quando hanno ricevuta questa specie o forma (1). Ma quest' unità e questa quiddità degli enti finiti è forse data loro dall' ultima specie cioè da Dio? Aristotele insegna espressamente di no, ma distinguendo la causa motrice dalla causa formale delle cose finite dice: 1 che ogni ente che vien generato o prodotto è generato o prodotto da un altro che ha già quella specie finita che comunica; 2 ma che l' ente generante o producente è mosso a generare e comunicare la propria forma dal Primo motore o piuttosto dai Primi motori (2). Così agli Dei attribuisce la causa del movimento come fine ultimo, ad assomigliarsi al quale tendono di continuo gli enti finiti, ma a questi stessi già vestiti di forma, ossia di atto, attribuisce la comunicazione della propria forma o specie a quelli che ancora non l' hanno e la possono da essi ricevere. Onde insegna costantemente che tutte le cose sono generate da altre aventi la stessa essenza specifica (3), sia che la cosa tutta intera abbia la stessa essenza, sia che l' identità d' essenza cominci da una parte della stessa (4). E quest' ente sinonimo che, avendo la specie, ne produce un altro colla stessa specie, può essere tanto nella mente, come accade nelle produzioni dell' arti, quanto nella natura, come accade nelle produzioni naturali (1). E qui c' è una prova decisiva di quello che dicevamo, che Aristotele fa la specie nella mente identica di natura alla specie che informa le cose reali, perchè dice le opere dell' arte formate dalla specie nella mente dell' artista allo stesso modo come le opere della natura dalla specie che è nel loro generante. Ed essendo identica questa specie, fa che come da questa nella natura vengono le cose generate, e nella mente le cose prodotte dall' artista, così da questa pure nella mente vengano i ragionamenti (2). Dalla stessa specie vengono queste tre cose; la teoria è comune, la specie la stessa: altrimenti il ragionamento aristotelico sarebbe un gioco di parole. La specie dunque contiene in sè i singoli enti, ed è la ragione del loro essere ossia sussistere e della loro unità (3), di maniera che niun ente della natura può esser generato e prodotto se non preesista la sua materia e la sua forma [...OMISSIS...] (4): gli elementi inesistenti appartengono alla materia, la specie poi non è un elemento, ma un principio, una causa dell' ente (5). Non è dunque il primo motore che dà la forma e l' unità alle singole cose, ma è la specie loro preesistente, [...OMISSIS...] . Come dunque dice che «to agathon kai ariston» oltre avere un' esistenza separata, è ancora la connessione [...OMISSIS...] del mondo? Conviene che il bene e l' ottimo, in quant' è connessione del mondo, sia qualche cosa che leghi e contenga tutte le singole forme, che sono diverse da esso: e a queste condizioni la detta connessione non può esser fatta che dall' essere puro, che non essendo le forme, contiene tuttavia tutte le forme. E infatti come la materia è nella specie (1), così le specie sono contenute nel genere, che costituisce l' unità e identità delle cose che differiscono d' essenza ossia di specie (2); i generi poi sono contenuti nell' essere, che si dice anche, insieme coll' uno, primo genere; poichè ogni differenza tra le cose deve fondarsi in una identità (1), e quest' è l' essere a tutte comune, e che tutte contiene. Se dunque le specie degli enti naturali sono eternamente in questi, e quelli che le hanno in atto perpetuamente colla generazione e produzione le suscitano in altri che non le hanno; e se non sono perciò, nè provengono dal primo Motore che è il Buono e l' Ottimo, il quale solamente cagiona il moto per l' efficienza del naturale appetito; e se tuttavia questo Buono e Ottimo costituisce la connessione di tutti gli enti naturali [...OMISSIS...] distribuiti come un' armata: che altro rimane a dire, se non che questo Buono e Ottimo sia l' essere puro , secondo il quale s' identificano tutte le cose, ed è il principio identico delle loro differenze (2)? In questo senso dunque il Dio d' Aristotele contiene le cose tutte, e però le colloca al di là dell' ultimo cielo, quasi una sostanza che fascia il mondo (3). E certamente niuna figura più adattata d' una sfera a indicare un contenente, che non si mescola punto colle cose contenute, poichè ciò che è nella sfera, non è la sfera, nè prodotto necessariamente dalla sfera, ma è soltanto contenuto in essa, e da essa, per così dire, informato dell' unità. Così dice l' essere «periechein ta onta panta» (4). E per questo appunto Aristotele fa una scienza unica e prima di tutti gli enti, trattando questa di un solo oggetto cioè dell' essere come essere (5), e la dice scienza universale, [...OMISSIS...] (6). E se l' essere produce la connessione dell' universo, sì perchè, in quant' è comune, è tutte le cose, e sì perchè, in quanto sussiste separato e da sè, costituisce l' appetibile a cui tutte le cose tendono: egli è manifesto che questo divino, questo Bene, si considera da Aristotele come scevro da ogni specie finita , e nel primo modo separato di concetto, [...OMISSIS...] , nel secondo separato anche di fatto, [...OMISSIS...] , da ogni materia. Infatti in questo secondo aspetto Aristotele non dà a Dio altro, che il concetto di fine , di estremo, di termine a cui tendono tutte le entità finite più o meno, senza raggiungerlo pienamente giammai (1). Ora il concetto di fine non inchiude la cosa che tende al fine, e questa cosa tendente al fine è la forma nella materia, o sia l' ente composto di materia e di forma. Onde siccome Aristotele dichiarò che Iddio come fine ultimo, a cui ogni natura finita tende, contiene tutto lo spazio che costituisce il Mondo, quasi d' intorno fasciandolo, così pure dichiarò che come fine ultimo contiene tutto il tempo, maggiore del tempo, ossia eterno (2). Poichè il tempo, o piuttosto la vita, tende, da parte sua, a perpetuarsi, e non ama cessare giammai: ma non potendo raggiungere l' eternità la imita come può mediante il continuo circolo delle generazioni (3). E infatti non si potrebbe spiegare l' indefinita lunghezza [...OMISSIS...] se non si suppone sottostare una durata eterna, e il concetto stesso di successione perisce senza quello di durata (4). Per questo dice Aristotele che l' essere e il vivere degli enti naturali pende da tali cose eterne (5). Allo stesso modo quello che può essere e non essere pende da ciò che necessariamente è (6), poichè ogni cosa tendendo a durare e ad accrescersi, aspira a rimovere la possibilità della sua distruzione, benchè mai non ci arrivi. L' essere separato dunque, il Dio d' Aristotele, non ha in sè le specie finite, ripugnanti alla sua perfezione, è del tutto uniforme, puro, semplicissimo; e perciò, il che conferma la nostra interpretazione, non eccita che un solo movimento uniforme e continuo, quello del primo cielo, e anche questo non l' eccita operando, ma l' azione sta tutta nelle nature finite, cioè nell' appetito del cielo supremo. Ma questo movimento (associato però al movimento obliquo e vario degli astri) produce diversi effetti per la diversità degli enti, e dell' appetito vario di questi. Onde nel libro « De Mundo », che espone la dottrina di Aristotele, si dice che da Dio vengono tutte le idee o forme delle cose [...OMISSIS...] in conseguenza del semplice movimento del corpo a lui più vicino, cioè del primo cielo (7). [...OMISSIS...] (1). Egli è dunque manifesto, che il Dio d' Aristotele differisce da quello di Platone in questo, che il platonico ha tutte le idee delle cose, e ha la potenza d' operare fuori di sè, creando ad esse, come ad un esemplare, e disponendo il mondo: laddove l' Aristotelico privo di questa potenza non produce il mondo alla guisa d' un artefice, e le specie stesse delle cose non sono in Dio, ma nè tampoco la causa efficiente o la forza, [...OMISSIS...] (1): quando le specie o forme delle cose mondiali sono e sono sempre state ab eterno nelle cose stesse: e il Dio Aristotelico non è che l' ottimo intelligibile, appetito da tutta la natura, che tende ad avvicinarsi alla sua attualità perfetta, appetito in primo luogo e in un modo immediato dal primo cielo, che rivolgendosi eternamente con un moto circolare ed uniforme impelle i corpi contigui, e di contiguo in contiguo il moto si propaga all' universo, ma ogni cosa lo riceve secondo la propria natura (2). Onde 1 c' è il primo appetibile, o causa finale, Iddio; 2 c' è la natura, materia e forma, sospesa al primo appetibile in virtù del proprio appetito; 3 c' è insita in questa natura, distinta in più enti tutti composti di materia e di forma, la forza [...OMISSIS...] , causa efficiente di tutte le trasmutazioni che è lo stesso appetito, il quale ora è annesso alla forma, come nelle produzioni per via di seme e nelle produzioni artistiche, ora è annesso alla materia come nelle produzioni «ex automatu» (1); 4 c' è il primo eccitamento di questa forza, che è il movimento del cielo supremo, dal quale cominciano tutte le altre quattro maniere di moti e di trasformazioni naturali, eccitamento e impulso che è ricevuto da ciascuno degli enti, secondo l' indole della sua natura e virtù [...OMISSIS...] , e che dà così a ciascuno la sua propria e conveniente facilità di moversi, [...OMISSIS...] . Ora, se il Dio aristotelico non ha in sè le forme finite degli enti naturali, e a queste non le comunica, ma esse già sono ab aeterno negli enti della natura e si trasmutano, ricevuto l' impulso e il moto da' cieli, e se tuttavia il Dio aristotelico è mente, è intelligibile primo, facilmente si raccoglie che cosa sia questo Dio. Poichè Aristotele stesso continuamente insegna che, rimosse le specie, quello che rimane non è altro che l' ente e l' uno che è l' indivisibile carattere dell' ente [...OMISSIS...] (2). E però Aristotele non riprende Platone per aver detto che l' ente e l' uno sia causa delle essenze e dell' essere di tutte le cose, ma per non avere spiegato come questa causazione si facesse, cioè per non aver conosciuto, com' egli crede, che l' ente e l' uno influiva come fine appetito da tutte le cose, in grazia del quale sono e operano (3). La forma dunque, che è il divino e il primo dei tre principŒ aristotelici, è una se si dice in un modo universale e per analogia, ma è moltiplice secondo gli enti diversi. Ora ogni forma è essere, [...OMISSIS...] ma la materia sola non è essere, chè riceve l' essere dalla forma. L' essere adunque è quello che costituisce la connessione, [...OMISSIS...] , dell' universo (4). L' essere è la forma delle forme. Ma l' essere (lo stesso dicasi dell' uno in quanto si converte coll' ente) si può considerare in tre modi: 1 In universale, come primo genere (5), e allora è indeterminato, e non essendo egli stesso finito e ultimato, non ha virtù di esistere separato e da sè, ma solo separato di concetto nella mente, e però non è propriamente essenza: così preso, è anzi la materia universale; 2 Come una natura esistente in tutte le cose singolari, singolare in ciascuna, benchè non sia niuna di esse (1); 3 Finalmente come la prima sostanza, a cui convenga la denominazione di «cinai ti» senza uscire da se stesso, poichè il «ti» che lo determina lo prende in se stesso, cioè è la purissima attualità (2). E veramente per Aristotele ciò a cui conviene, prima che ad ogni altra cosa, la parola di essere e d' ente è l' essenza sostanziale, chiamata da lui «proton on» (3) e per l' essenza sostanziale tutti gli accidenti partecipano dell' essere: essa dunque è propriamente l' essere determinato, com' anco l' uno stesso (4). Se poi si fa che l' essenza sostanziale sia l' atto purissimo, scevro da ogni potenzialità e limitazione, ella è Dio; e in questo senso si può dire che l' essere per Aristotele sia Dio. Posciachè dunque l' essenza o l' essere determinato (5) è ad un tempo e in primo luogo la prima sostanza separata, e così costituisce il punto a cui l' universo è sospeso, ed esso è ancora sparso nell' universo e diviso nelle essenze sostanziali finite, che partecipano della prima, formando nell' uno e nell' altro modo l' unità e la connessione, [...OMISSIS...] , dell' universo: perciò Aristotele ad una scienza sola commise di trattare dell' essere come essere, chiamandola ora teologia, ed ora filosofia prima. Poichè dice: 1 Che la filosofia tratta dell' ente come ente in universale, [...OMISSIS...] , e che l' ente non potrebbe essere oggetto d' una sola scienza, se l' ente si prendesse sotto diversi significati, formante più generi e non secondo qualche cosa di comune [...OMISSIS...] (1). 2 Che negli essenti c' è un principio, [...OMISSIS...] , intorno al quale non si può prendere abbaglio, ed è quello di contraddizione che si riduce all' ente (2). 3 Che ogni scienza ha per oggetto la quiddità , [...OMISSIS...] , e che usa di questo come principio della scienza [...OMISSIS...] (3), di che procede che la scienza dell' ente come ente ha per suo proprio oggetto la quiddità dell' ente. 4 Che le altre scienze trattano della quiddità in un genere parziale di entità (4), e trattano dell' ente unito alla sua materia, come il fisico, o dell' ente astratto da quel genere di materia (5): ma la filosofia tratta della quiddità dell' ente in sè non ristretto ad alcun genere parziale, e dell' ente non astratto, ma separabile realmente, e non di solo concetto, da ogni materia. 5 Quest' ente separato è dunque oggetto della stessa scienza che tratta dell' ente in universale, dell' ente come ente, [...OMISSIS...] . E tuttavia questa scienza che tratta del più onorabile degli enti, cioè di Dio, trattando dell' essere come essere, è universale. [...OMISSIS...] E` dunque manifesto che l' essere come essere ha un' esistenza separata da ogni altra cosa, [...OMISSIS...] e non solo di concetto, come gli oggetti matematici, ma di fatto; questo è Dio: è sostanza singolare, [...OMISSIS...] ; e l' onorabilissimo tra gli enti, [...OMISSIS...] , e però la prima o l' ultima delle scienze si chiama «theologike». Ma l' essere come essere, e però «to theion», inesiste anche in tutti gli enti della natura «en tois usin» come loro essenza e causa formale, o specie; epperò tutte le specie e le categorie, a cui come in classi si riducono, formano un solo genere supremo, e però un oggetto solo d' una sola scienza, [...OMISSIS...] : e questa scienza perciò, trattando di ciò che è universalissimo, è veramente universale, [...OMISSIS...] , perchè non solo tratta dell' essere in sè, ma ancora di ciò che si contiene nell' essere, [...OMISSIS...] (2), cioè di tutto ciò che è. Ma non esisterebbe questa scienza, se le essenze o specie delle cose non si potessero riferire all' essere come essere separato e per sè sussistente, che essendo uno costituisce il fondo di tutte, poichè non potendo le specie degli enti mondiali sussistere separate, rimarrebbero molti divisi in molti generi, e da sè non esisterebbero che gli enti naturali composti di materia e di forma, oggetto della fisica, [...OMISSIS...] . All' incontro esistendo l' ente come ente, come un' altra natura diversa, e questa sostanza separata dagli enti composti di materia e di forma, ci deve essere pure una scienza diversa dalla fisica, e questa deve essere anteriore alla fisica, e anteriormente universale, [...OMISSIS...] . Anteriore e più universale, perchè il principio è la causa di tutti gli enti naturali, chè essendo principio non può esser principio di se stesso ma di questi, [...OMISSIS...] . Poichè dell' essere si predicano due cose l' avere e il sussistere, [...OMISSIS...] : sussiste anche in sè, ma non si direbbe avere sè, ma avere qualche altra cosa, e quest' è la materia. Cercandosi dunque la causa perchè esista la materia, trovasi che questa causa è la specie o essenza specifica (1). Ora di questa essenza specifica, essendo semplice, non si può più cercare la causa allo stesso modo, cioè come si cerca la causa della materia, ma in altro (2). In qual modo? Certamente riferendo le essenze specifiche alla prima essenza, a cui tutta la materia tende per l' innato appetito e ne prende quella parte che può, e questa parte è il suo atto, la sua essenza specifica. Laonde quando si domanda « la causa dell' essere delle cose finite », l' essere qui è preso per sussistere , e il sussistere delle cose è in ciascuna di esse e non separabile. Ora questo sussistere delle cose sta nell' unione della materia colla forma, ma, poichè questa è quella che determina la cosa, è pur questa che la fa sussistere quella che è, e perciò, dice Aristotele, la forma o essenza è la causa dell' essere, cioè del sussistere delle cose (3), ed è principio non elemento di esse (4). Ma se si domanda poi « la causa per la quale la forma si sia unita alla materia », conviene ricorrere, come dicevamo, alla prima forma o essenza, cioè all' essere, come essere e separato, il quale come appetito dalla natura è causa motrice e finale. [...OMISSIS...] Il primo Motore dunque coll' essere appetito trae la materia al suo atto, cioè alla forma; e questa forma è puro essere separata dalla materia, onde dice [...OMISSIS...] (2). E prima avea detto: [...OMISSIS...] , cioè dagli elementi materiali. Poichè gli elementi materiali prima di essere uniti dalla specie o essenza specifica non hanno nome, nè sono qualche cosa [...OMISSIS...] : ma quando sono contenuti dalla specie, quest' uno che ne risulta riceve il nome della specie, per esempio casa , e così la specie casa è divenuta questa casa reale [...OMISSIS...] (5): non è che essa stessa sia stata con ciò generata, ma essa è stata causa per la quale gli elementi materiali divennero un chè determinato ricevente un nome, il nome della stessa specie: ond' essa è divenuta un altro, cioè la casa reale, composta. Laonde tosto appresso Aristotele si fa la questione « se dunque le essenze specifiche de' composti corruttibili preesistevano ad essi separate », e ancora nol decide; ma esclude dall' esistere, così separate e da sè, le specie artistiche, dicendo che fors' anco esse non sono essenze specifiche, nè alcun' altra cosa è essenza specifica, di quelle che non sussistono ne' composti naturali: chè taluno, dice, porrà la solesto si raccoglie come Aristotele faccia derivare le essenze specifiche limitate , cioè le essenze dei corruttibili, dall' Essere attualissimo, Iddio. 1 Esse non esistono che in natura, sono la stessa natura determinata delle cose corruttibili, [...OMISSIS...] , e perciò non esistono nell' Essere attualissimo se non in un modo eminente; 2 La natura è materia e forma, queste due cose costituiscono il medesimo ente, [...OMISSIS...] . 3 Ma la materia non potrebbe avere la forma se non tendesse ad attuarsi, cioè ad acquistare più che può di quell' attualità che nella sua massima e pienissima perfezione è appunto l' essere attualissimo: tende dunque a quest' essere, ma non può raggiungerlo pel difetto della materia: quest' essere dunque come causa dell' appetito di tutte le materie è la causa movente, che fa passare la materia alla forma, [...OMISSIS...] . Il difetto poi, ossia la limitazione de' diversi generi di materia, è la causa per la quale la essenza o forma , a cui ciascuna materia perviene, o sia limitata, più o meno avanzata, più o meno onorabile, e tenga più o meno dell' essere attualissimo senza raggiungerlo mai (1). Non essendovi dunque nell' essere attualissimo materia alcuna, non ci può essere questa causa di limitazione, e però non ci possono essere le forme o essenze specifiche così limitate, quali sono nella natura; ma egli è una sola essenza, l' essenza per sè, illimitata. 4 Essendoci poi stato ab aeterno quest' appetito nella natura, pure ab aeterno furono in essa tutte le forme o essenze delle cose corruttibili. Queste dunque non si generano, ma sono eterne tanto nell' essere attualissimo, prima e perfetta essenza, dove sono indistinte e in modo eminente, quanto negli enti naturali dove sono distinte. Ma gli enti naturali si generano, e quindi le essenze compariscono nei nuovi generati e diventano «tode»; diventano questi enti, che sono qualche cosa e hanno un nome appunto perchè hanno quelle specie. Così dalla tendenza della natura all' essere attualissimo Aristotele deriva ugualmente: 1 Le forme naturali e reali; 2 Le forme artistiche e ideali, delle quali parla in un modo vacillante, prendendole talora per vere specie operanti (1) talora poi negando che sieno essenze specifiche; 3 I principŒ del ragionamento e la serie delle conseguenze (entità ideali) che deriva da essi la mente (operazioni dialettiche) (2); e considerando queste tre maniere di cose sotto lo stesso aspetto, come derivate cioè dall' essere attualissimo mediante l' appetito naturale, egli mescola il discorso dell' una col discorso dell' altra, e cava indifferentemente gli esempŒ della sua teoria ora dall' ordine della generazione naturale, ora da quello delle produzioni artistiche, ora dalle logiche distinzioni ed astrazioni: il che cagiona una gran confusione e difficoltà di seguire il filosofo nostro, almen fino a tanto che non s' è conosciuto il suo principio e la sua maniera dialettica di riporre in una stessa classe le entità più disparate. Negando dunque a Platone che le essenze delle cose corruttibili sieno idee separate da queste, perchè pretende che in tal caso si raddoppierebbero inutilmente le essenze (3), e sostenendo che tali essenze sono soltanto nelle cose unite colla materia, e identiche nella mente separate da questa; egli tiene un medesimo discorso e fa una sola teoria delle essenze specifiche naturali, delle essenze artistiche, delle logiche, delle astratte di ogni maniera: tutte nascendo alla materia naturale, come atti di questa per la tendenza ch' ella ha ed ha sempre avuto di spingersi all' essere attualissimo, fine ultimo d' ogni movimento. Onde in generale l' atto, o specie de' corruttibili, per Aristotele è ciò che si predica d' una materia (1) e il predicato non esiste senza il subietto. Per vedere quante diversità di forme egli distingua ugualmente nell' ordine delle cose reali e delle ideali senza distinzione e tutte sommettendole alla stessa teoria, basta leggere il capitolo secondo nell' ottavo libro dei « Metafisici ». Nel capitolo seguente dice, che talora non si può distinguere se la parola ousia significa il composto di materia e di forma, o la sola forma, il solo atto. E arreca in esempŒ di composti la casa, la linea, l' animale, la sillaba, la soglia della porta; dove tanto la forma quanto la materia sono reali o ideali, o astratti e puramente dialettici, mescolando tutto insieme. La stessa confusione dunque nell' essere attualissimo, il quale ora comparisce come ideale, da cui la mente umana trae i suoi principŒ logici, e mediante questi tutte le sue idee; ora come reale, da cui l' artista ne trae le sue specie, la natura le sue forme. Apparisce però costantemente che le specie sono contenenti, e la materia è contenuta, onde il cercare la causa d' un ente composto di materia e di forma, cioè cercare la causa del suo essere (reale), è lo stesso che cercare ciò in cui è contenuta la sua materia: onde in questa ricerca ciò di cui si cerca la causa deve avere meno estensione di concetto della causa formale che si cerca, per esempio: « « la causa, perchè esiste un uomo, è una data specie d' animale »(2) », cercare perchè un uomo è un uomo, è cercar nulla, non cercandosi con ciò in che l' uomo sia contenuto. Di che viene che l' essere universalissimo (e lo stesso si dica dell' uno) contenga tutte le cose e sia la causa formale di tutte le forme, ma niuna di esse. Laonde dice Aristotele, che l' assegnare l' uno per causa formale dell' essere reale delle cose è vero, ma l' uno comune, non proprio delle singole specie e generi (1). L' essere attualissimo adunque è ideale e reale ad un tempo, di maniera che la cosa e la scienza è in esso il medesimo, entrambi in atto, [...OMISSIS...] (2). E già vedemmo come Aristotele anche nella mente pratica pose il reale che la rende operativa (3). Ma l' essere attualissimo non è mente pratica, ma solo mente teoretica, il che unisce ancor più, anzi identifica il pensato col pensante (4), la cosa coll' idea. Onde quest' è una delle principali censure che Aristotele fa a quelli che posero le idee come essenze eterne, che condussero la loro ricerca piuttosto logicamente che ontologicamente, e quindi si fermarono agli universali (5). L' essere dunque attualissimo, e però separato e da sè, è per Aristotele mente contemplatrice, contemplatrice di sè stessa, e di null' altro, cioè dell' essere, e così presa, e separata da ogni altra cosa, è quello che è: « « separata, dice, è solo ciò che è » » [...OMISSIS...] A quest' essere, puro atto, atto che sta nel puro contemplare l' essere senza differenze, tende incessantemente la natura potenziale, ossia la materia. Questa è atta ad arrivare col suo conato a gradi diversi: il primo è quello delle specie degli enti inanimati ; il secondo è quello delle specie di vegetabili , il cui complesso, e il cui nesso è la vita o anima vegetativa; il terzo è quello delle specie sensibili , il cui complesso e il cui nesso è la vita o anima sensitiva che costituisce l' animale; il quarto grado è quello delle specie intellettive , il cui complesso e il cui nesso è l' anima intellettiva. Ogni ente mondiale è costituito da una sola specie sostanziale che gli dà l' essere (1), e perciò non può esistere separata, determinandosi dalla materia o potenza che col suo appetito verso l' essere prende più o meno dell' atto, e così è piuttosto una specie che un' altra (2), [...OMISSIS...] . Aristotele dunque pone una vera identità tra la specie nella cosa e la specie nella mente, salvochè questa è considerata separatamente dalla materia. Quest' istinto della materia è non di meno cieco, poichè, sebbene tenda, come a suo fine, all' essenza suprema ed assoluta, tuttavia tende ad essa come all' atto , non come all' intelligibile . E però non ci sembra che abbia colto il vero sentimento del nostro filosofo lo Starckio quando suppose che in tutta la natura inesistesse la mente fattrice (4), o piuttosto, come la chiama Aristotele, il pensiero fattore, [...OMISSIS...] (1), e che questa mente sia quella che dà a tutte le cose della natura le loro forme. Che anzi, come abbiamo notato già prima, falsamente lo Starckio suppone che tutte queste forme sieno già precedentemente in Dio, quando è la sola potestà della materia che le determina, raggiungendo più o meno dell' essere. Poichè tutte sono essere [...OMISSIS...] , ma più e meno, secondo che l' atto loro è più avanzato ed ultimato, perchè aver più atto è, per Aristotele, aver più essere. E più atto conseguono dei vegetali gli animali e gl' intellettivi degli animali. Ma convien distinguere diverse maniere di atti. Concepita la materia prima senz' atto (per un' astrazione della mente, non perchè ella sia mai così esistita), essa tende all' atto, al suo più prossimo atto, che per Aristotele, come pure pe' suoi predecessori, è quello degli elementi materiali, per esempio del fuoco: le materie prime sono diverse, e quindi la diversità de' primi elementi. Ora questi sono in potenza alla composizione: componendosi in varie maniere diventano altri enti, che acquistano l' unità da un nuovo atto sostanziale, specie od essenza specifica: e gli elementi hanno ragione di materia. Questo stesso si rinnova co' nuovi enti, che pure, ogni qualvolta si rendono elementi d' altri enti, ricevono il concetto di materia (1), quantunque sieno atto rispetto agli elementi precedenti, o alla materia prima. Ora il movimento di qualunque specie, ma specialmente quello della materia che passa all' acquisto della sua forma, è una prima maniera di atto detto da Aristotele « atto dell' imperfetto » [...OMISSIS...] (2). Quando poi la materia è pervenuta all' acquisto della sua forma sostanziale, cessa il movimento, e questa forma sostanziale non più movimento, ma riposo, è una seconda maniera di atto: atto perfetto «he haplos energeia», ed è chiamato da Aristotele «entelecheia» (3) che vale perfezione (da «enteleches») e si potrebbe tradurre specie finiente o finita , rispondente al «to peras,» e al «to peperasmenon» di Platone e de' Pitagorici. Ma quando l' ente è costituito ed esistente per l' essenza o entelechía che lo fa esistere, ancora egli può uscire ad altri atti, senza perdere la sua costituzione e la sua identità. E questi sono un secondo genere d' atti perfetti, ossia d' atti del perfetto [...OMISSIS...] (4), e anche questi si chiamano «entelecheia» da Aristotele. Aristotele assegna espressamente questi due sensi alla parola entelechía , di maniera che fa maraviglia, come gli eruditi abbiano trovata tanta difficoltà ad assegnare il preciso valore di questa parola, e si sieno divisi in tante diverse opinioni (5). [...OMISSIS...] Di che si vede che Aristotele distingue l' entelechía prima, [...OMISSIS...] dall' entelechía seconda, cioè l' atto primo dell' ente ch' è l' essenza , e l' atto secondo che è la sua operazione. E chiama l' essenza specifica e sostanziale entelechía prima, perchè l' essenza è il fine (2) a cui tende la materia che acquista un' esistenza determinata, diventa un ente. Chiama poi entelechía seconda l' atto secondo o l' operazione dell' ente. Apparisce dunque che la parola entelechía abbraccia ogni atto fuorchè l' atto dell' imperfetto, e però la parola «energeia,» che s' applica a tutti gli atti anche a quello dell' imperfetto, ha un significato più esteso della parola «entelecheia». Nello stesso tempo la parola «energeia» esprimendo puramente l' atto, qualunque sia, senz' altro concetto aggiunto, s' adatta meglio al Primo motore della parola «entelecheia» che ha unito il concetto di quell' essenza che è il fine a cui tende ciò che è in potenza (3), [...OMISSIS...] (4). La natura dunque tende sempre più all' atto, e giunge più avanti, secondo i diversi generi di materia, e così acquista atti diversi, e ciò ab aeterno, perchè tutti gli atti specifici degli enti naturali sono eterni, e gli esistenti ne producono altri ed altri per generazione o per arte. Ma la pura mente non è cosa che si formi passando dalla potenza all' atto, perchè la sua natura è di essere atto puro, e però Aristotele la fa venire all' uomo dal di fuori, benchè non ne spieghi il modo. Poichè sebbene ammetta un Primo motore unico, tuttavia, come vedemmo, lo descrive come atto puro di contemplazione; e questo concetto non esclude l' esistenza di altri atti puri di contemplazione. Secondo che intese questa dottrina d' Aristotele l' arabo commentatore, ci sarebbe una mente sola di numero (1), comune a tutti gli uomini: il che avrebbe un significato, quando s' intendesse della mente in senso oggettivo, ma in senso subiettivo è impossibile. Laonde parmi probabile che Aristotele ammettesse appunto una mente sola di numero in senso obiettivo, e che questa fosse la primissima essenza presente a tutte le intelligenze; ma che ponesse poi molti questi subietti intelligenti, quanti sono gli Dei aristotelici e gli uomini, che ricevono e usano della mente, e che di questi subietti intellettivi si debbano intendere tutti quei luoghi aristotelici, ne' quali non parla della mente come prima ed assoluta essenza, ma come mente subiettiva. E nel vero il nostro filosofo chiama la mente in senso assoluto ed obiettivo essenza eterna ed immobile, e dice che è tale quand' è separata da ogni materia (2). Dice ancora che « « il bene si dice in tanti modi, in quanti l' ente » » e l' ente si dice in tutti i modi categorici, e così il bene. Onde venendo alla prima categoria, quella della sostanza, dice che il bene sostanza « « è la Mente e Dio » », [...OMISSIS...] (3), dove prende la Mente e Dio come sinonimi, indicanti ugualmente il bene sostanza: e, facendo che l' ente e il bene abbiano uguali predicati, è manifesto, che ne fa la cosa medesima, onde il bene è l' ente come appetibile, e questo in quant' è sostanza è Dio, e la Mente. L' essere dunque non già indeterminato, sotto il qual aspetto sarebbe materia (4), ma come sostanza prima è la Mente, o Dio. Questa certamente non ha soltanto un' esistenza obiettiva, ma verso di sè anche subiettiva: altramente non sarebbe «noesis,» e vivente «he gar nu energeia, zoe» (5). Pure verso di noi ella non ha che un' esistenza obiettiva; perchè è causa prima motrice e finale solo come intelligibile e bene desiderato (6), senz' alcuna sua operazione (7). Onde Averroes s' ingannò in questo che non distinse il rispetto obiettivo dal subiettivo della mente aristotelica, quello essendo comune a tutti gli uomini, questo diverso in Dio e diverso in ciascun uomo. E l' obiettività della mente fu anche cagione a Platone delle sue idee, di cui Aristotele ritenne il principio modificandolo. Ma ora dobbiamo vedere come in ciascun uomo nasca la mente subiettiva. Aristotele concepisce lo spirito umano secondo il principio di Platone (1), come un ente che riflette in sè il mondo, che ha però una perfetta correlazione col mondo stesso, cioè coi diversi generi di cose che lo compongono. Ma nell' assegnare questi generi di cose, nè l' uno nè l' altro filosofo si curò di distinguere in tali generi con diligenza quella parte che è produzione dello spirito stesso, a ragion d' esempio, i sensibili come sensibili, da quella che ha un' esistenza propria, indipendente dallo spirito umano. Distinse dunque Aristotele nello spirito umano la virtù sensitiva che risponde al genere de' sensibili, dalla virtù dotata di ragione che risponde al genere degl' intelligibili; che sono i due sommi generi in cui ripartì tutte le cose. Ora in questa virtù dell' anima, di cui è propria la ragione, distinse quella facoltà, che può errare, in due: estimazione ed opinione [...OMISSIS...] (2); e quella facoltà, che non può errare, in cinque: arte, scienza, prudenza, sapienza e mente, [...OMISSIS...] . Ma i quattro primi di questi abiti fanno uso della dimostrazione , e questa suppone avanti di sè de' principŒ : quegli abiti dunque non dànno i principŒ, perchè anzi li suppongono e partono da essi dimostrando: rimane dunque che la mente sia quella sola che contiene i principŒ (3). La mente dunque in senso subiettivo ha per oggetti i principŒ, non in forma di giudizŒ o di proposizioni, ma come vedemmo, nei primi loro termini che non ammettono definizione (1). Ora come dall' uomo si conoscono i principŒ, cioè i primi termini? Risponde: coll' induzione , [...OMISSIS...] . Ma vediamo le sue parole: [...OMISSIS...] . Che cosa dunque fa l' induzione aristotelica, che conduce lo spirito umano ai primi termini che sono l' essere, l' uno, il bene, tutti lo stesso sotto altri aspetti, [...OMISSIS...] ? Essa è una facoltà che ha l' anima umana di raccogliere le specie sparse nella natura (per mezzo de' sensibili, nel modo che abbiamo spiegato), le quali separate da ogni materia anche sensibile sono tutte per sè ente [...OMISSIS...] ; una facoltà di trovare in queste stesse specie ciò che v' è di più universale, i generi fino all' universalissimo, al genere sommo, all' ente: indi il principio della scienza [...OMISSIS...] , il quale è «peri to on» (3) onde conchiude [...OMISSIS...] (4). Se dunque la mente è de' primi , e questi sono conosciuti dall' uomo coll' induzione , è dunque da dire che la mente subiettiva sia nell' uomo non ingenita, ma acquisita, innalzandosi lo spirito umano coll' uso dell' induzione sino alla mente eterna ed obbiettiva? Ed è da intendersi così che la mente vien all' uomo dal di fuori? Di maniera che anche nell' uomo da principio non ci sia inserito dalla natura se non quella «dynamin kritiken» (5), che Aristotele dà a tutti gli animali, sebbene varia ne' diversi animali, e nell' uomo più eccellente che in tutti gli altri? - Confesso che se ne può dubitare ed io stesso sono stato su di ciò lungamente dubbioso; ma mi sono in fine risoluto a credere che Aristotele, non descrivendo nel secondo degli « Analitici posteriori » se non l' origine del principio della scienza, parla quivi della cognizione riflessa dei primi e non nega perciò l' intuizione immediata del primissimo; e di questa mia opinione il lettore ha già udite le ragioni. Piuttosto è da dirsi che Aristotele ammetta due specie d' induzione: l' una è quella che riguarda una collezione d' individui di cui dice «he gar epagoge dia panton» (1) e questa non dà nulla di assolutamente necessario e di universale, poichè è impossibile fare esperimento di tutti gl' individui possibili; l' altra è quella, che apprende l' universale, l' essenza necessaria. In fatti questa coglie «to kat' eidos adiaphoron» (2). Ora come potrebbe l' uomo sapere ciò che sia nelle cose indifferente secondo la specie , se non conoscesse immediatamente la specie? la quale per sè presa, cioè scevra di materia, è assolutamente universale, chiamata dallo stesso Aristotele «proton en te psyche katholu» (3). Oltre di che è costante principio d' Aristotele che l' atto sia anteriore alla potenza (4), onde lo spirito umano non potrebbe passare all' atto della scienza che appartiene all' ordine della riflessione, se non fosse già prima in un atto intellettivo, non avesse in sè attualmente un intelligibile. Poichè è per propria virtù che lo spirito s' innalza alla mente obbiettiva, giacchè l' Eterno motore, che è questa mente, nulla opera, ma solo si lascia vedere. Conviene dunque che ci sia in atto l' energia che lo veda, poichè la potenza non passa mai all' atto da se stessa, e al di fuori non ha stimolo sufficiente, chè le sensazioni sono intelligibili in potenza e non in atto. Onde Aristotele stesso pone questo principio assoluto, che la ragione deve preesistere, [...OMISSIS...] (5). Se non ci fosse dunque nell' uomo per natura una cognizione prima attuale, non potrebbe raccogliere dalle sensazioni le forme delle cose e da queste universalizzando pervenire ai primi, universalissimi. Ma quello che toglie ogni dubbio è l' avere lo stesso Aristotele applicato questo principio ontologico della necessità d' un atto anteriore allo spirito umano, e aver insegnato, che come in tutta la natura conveniva che precedesse l' atto, così del pari non potersi spiegare come lo spirito umano potesse ridurre in atto gl' intelligibili in potenza, cioè le specie sparse nella natura, s' egli stesso non avesse una mente in atto, e poichè la mente è de' primi, non avesse in atto il primo intelligibile (1). E in fatti l' uomo produce a sè l' intelligibile col toccare e coll' intendere, [...OMISSIS...] (2): ora come farà l' atto d' intendere senza alcun intelligibile? Di più, tutti gl' intelligibili sono nel primo, cioè nell' ente: come dunque potrebbe conoscere gl' intelligibili se non conosce l' ente che li contiene? Per questo dice, che il principio deve essere una intellezione [...OMISSIS...] (3). Senza l' intellezione non ci potrebbero essere che intelligibili in potenza. Se dunque non ci fosse nell' uomo un' intellezione in atto, mancherebbe il principio, e l' uomo non potrebbe toccare gl' intelligibili in potenza e così ridurli all' atto. Ma come può esserci la mente in atto? Dice Aristotele, che conviene che l' intelligibile in atto dia movimento alla mente [...OMISSIS...] (4). Niuna delle cose della natura intelligibile in atto: ma le cose naturali, cioè le loro forme, sono rese intelligibili in atto dall' uomo stesso. L' uomo dunque non può essere mosso all' atto primo del suo intendere da queste cose. Da che dunque? Da ciò che è intelligibile in atto, cioè dagli eterni motori: a questi appartengono i primi [...OMISSIS...] . Questi dunque, che si trovano per induzione, non sono dati allo spirito umano dall' induzione che parte da' sensibili, ma immediatamente dall' Essere e Mente assoluta: essi sono i più noti per natura, rispetto poi a noi sono resi più noti dall' induzione (5): sono quelli che, nello stesso tempo, rendono possibile l' induzione stessa. Aristotele inoltre pone nell' uomo la mente come un' essenza eterna separata da tutte l' altre facoltà (6). Ma non si dà un' essenza eterna che non sia in atto: la mente dunque anche nell' uomo deve essere in atto (7), ed è in atto se intende sempre «ta prota». Laonde anche nell' universo, oltre esserci gli atti che vengono dalla potenza, c' è l' atto puro, ed eternamente vi si conserva, e quest' è la mente umana. Questa mente, in quant' è obbiettiva, è il primo intelligibile, Iddio; in quant' è subiettiva, è l' anima umana che tocca quel primo intelligibile di continuo, onde la chiama «synechestate» (1). E però l' uomo, se vive conformato alla mente, dice Aristotele, che è più che uomo; vive d' una vita divina (2). Questa mente che l' uomo ha immediatamente dall' intuizione del Primo motore (3) appartiene a quella che Aristotele chiama mente contemplativa. Ma il pensiero contemplativo d' Aristotele «dianoia theoretike» si estende troppo più, perchè abbraccia ogni atto di contemplazione che abbia per oggetto i puri intelligibili e non solo «ta prota». La mente dunque nell' uomo in senso obiettivo è identica alla Mente suprema; ma n' è diversa in senso subiettivo, in quanto che il subietto è l' atto stesso d' ogni anima intuente la forma dell' Essere. Così si spiega come Aristotele chiami or divina, ora anche Dio la mente nell' uomo, la faccia eterna, e quella che contiene il tempo e tutta la vita temporanea, e la chiami il fine di questa, come pure quella che contiene lo spazio , e come, con una maniera figurata tolta da' Pitagorici, collochi queste menti al di fuori di tutto il mondo cioè dell' ultima sfera, oltre la quale nega che ci sia più nè luogo nè spazio: [...OMISSIS...] . E alludendo a questa voce che viene da «aei» sempre quasi voglia dire sempiternità , prosegue a dire Aristotele: [...OMISSIS...] L' incorporeo dunque, impassibile ed eterno, quello che, come dice in appresso, è tutto, primo, e sommo al sommo (1), e che è il divino [...OMISSIS...] , questo è il fine dell' Universo [...OMISSIS...] , cioè l' ultimo atto a cui tende tutto l' Universo, e questo gode dell' ottima vita [...OMISSIS...] , la quale è la contemplativa, atto purissimo, [...OMISSIS...] (2). Essendo dunque quest' ultimo atto intellettivo, fine dell' universo, la Mente, questa ha un' esistenza fuori dell' universo mobile , ma è legata coll' universo rimanendo immobile, poichè esiste in tutti gl' intelligenti e nell' anime umane. Così, sebbene l' immobile sia congiunto col mobile, e quello che continuamente perisce coll' incorruttibile, tuttavia questo costituisce un genere diverso da quello, e poichè ogni scienza ha per oggetto un genere, l' universo mobile sarà oggetto della fisica , e l' immobile d' una scienza anteriore chiamata prima filosofia , perchè tratta de' primi che tutti si trovano nell' ente come ente. Chiama poi questa divina natura non solo fine del mondo (3) [...OMISSIS...] e primo [...OMISSIS...] (perchè il fine è anteriore di concetto e di essenza alle cose che tendono al fine), e contenente tutto il tempo delle cose periture, [...OMISSIS...] (perchè non si può concepire il tempo che è il numero del movimento, [...OMISSIS...] (4), senza presupporre una durata immobile ed eterna (5), la quale è propria dell' essere come puro essere); ma la dice anche tutto , [...OMISSIS...] , dove si scopre il panteismo aristotelico. E questo la dice non più considerandola come fine universale, ma come fine particolare di ciascun ente, come specie, forma o essenza specifica. Poichè tutte le forme , come vedemmo, sono essere, e però eterne e divine; ma non allo stesso modo dell' essere primo , perchè sono l' essere limitato, onde alcune cose hanno più, altre meno di essere e di vita, e questo tanto di essere e di vita si dice che viene dall' Essere primo prendendosi l' essere in senso assoluto, come essere; giacchè da ciò che è primo ed eccellentissimo in ogni genere Aristotele fa venir quello che è meno eccellente in quel genere, considerando la natura nell' anteriore e nel posteriore come identica. Le forme tutte dunque o specie sono quelle che chiama «analloiota, apathe,» e altrove «hapla, asyntheta, ameres» (1), e che ripone tutte sopra il Cielo, dove i Pitagorici riponeano i numeri, per indicare che sono immuni dallo spazio e dal tempo. Non essendo dunque la materia un chè, se non per la causa formale, e però l' essere delle cose essendo la forma o essenza specifica, e i nomi che si danno alle cose indicando le forme specifiche (2), tutto ciò che è qualche cosa, e di cui si parla, è forma; e però la natura dell' essere è detta «pan». Così la natura divina è tutte le cose dell' universo (3), e non fa maraviglia d' incontrare presso Aristotele una pluralità di Dei, essendovi una pluralità di forme e quindi di enti, benchè l' Ente primo ed assoluto sia uno e tutto, e si possa quindi chiamare l' unitutto. Così parlando delle antiche favole, egli non le riprende per aver posta una moltitudine di Dei, ma solo per aver fatti gli Dei simili agli enti naturali composti di materia e di forma, il che, dice, ripugna alla divinità. [...OMISSIS...] : il che è, secondo lui, quella parte di verità, che ci rimase dalle antiche memorie perite negli sconvolgimenti in cui più volte le arti e la filosofia sono perite e rinate (1). Vedesi chiaramente che il punto oscuro della filosofia Aristotelica è questo appunto, come Iddio, cioè il Dio supremo, abbia una natura identica a quella della mente umana, e di tutte le forme degli enti mondiali; e quindi e le menti , e le forme sieno veramente divine. Questo fu cagione che Aristotele fosse sempre accusato dagli antichi o di politeismo o di contraddizione (2). Aristotele censura appunto Platone di questo, che avendo sostituito la parola partecipazione a quella d' imitazione usata da' Pitagorici, nè questi nè quegli cercarono poi come gli enti s' informassero per via d' imitazione o di partecipazione delle specie (3). E accusa oltracciò Platone di non aver fatto uso se non di due cause, la materiale e la formale, quanto a torto l' abbiamo veduto, e d' aver fatto dipendere dagli elementi delle idee, che sono elementi di tutte le cose, il bene o mal essere di ciascun ente (4), quasi che non avesse fatto venire alle cose tutte ogni bene dal Bene essenziale, in che ripose l' essenza di Dio. Poco appresso poi confessa che posero in qualche modo anche la causa finale delle azioni, delle trasmutazioni e de' movimenti, e restringe la sua censura a dire, che la causa finale da lor posta non era atta a spiegare l' esistenza stessa e la produzione delle cose, ma solo le accidentali loro mutazioni (5). - Come dunque pretende Aristotele d' aver completata questa dottrina della causa finale? - Coll' aver posto l' attività istintiva nella natura, che non ebbe cominciamento, e aver fatto che questa attività, tendendo al fine , cioè all' ultimo e perfetto atto, conseguisse gli atti primi propri di ciascun ente, i quali atti primi egli disse essere le essenze specifiche. Accusa dunque Platone d' aver posta una materia e una forma inattiva, le quali essendo prive d' ogni principio di movimento non possono spiegare come gli enti si formino, e formati si generino (1). E crede che nulla si spiegherebbe se non si collocasse il principio del moto nelle specie stesse (2) e nella materia tendente alla forma. Riconosce nondimeno, oltre questo principio del movimento che è nella natura, la necessità d' un' altra causa, che è la finale, che per sè stessa nulla opera, ma è intesa, e appetita, e questa è in questo modo la causa delle stesse essenze o specie, la prima di tutte le cause, la causa delle cause, distrutta la quale tutto è distrutto, [...OMISSIS...] (3). Ora che cos' è che distrutto che sia, non rimane più nulla del resto? Aristotele dice, che quest' è l' Ente, e l' Uno (4), e lo stesso dicasi del Bene che coll' ente si converte. Qui c' è dunque in altre parole la dottrina di Platone, che faceva l' uno causa delle idee , e le idee cause dei sensibili (5), salvochè Aristotele non vuole che esistano idee de' sensibili separate ed immobili, ma solo in essi come loro forme e così aventi in sè, insieme colla materia, il principio del movimento (onde fa operative le forme anche nella mente dell' artefice per essere coerente a se stesso nel porre le forme attive); e fuori de' sensibili non pone che l' atto puro a cui tende come a fine la materia prima e ab aeterno s' informa (6), e tende la materia informata, quando è mossa da altri enti naturali già informati ossia in atto, a generarsi in altre forme. Quest' atto puro dunque corrisponde all' Uno di Platone, ma egli è motore come desiderato, e non è già l' essere indeterminato, ma l' essere, essenza, determinato, onde lo dice anche « « causa (formale) di se stesso » », [...OMISSIS...] (1). Ma quante difficoltà non involge questa maniera aristotelica di spiegare la partecipazione dell' essere ossia delle forme? - L' abbiamo veduto: replichiamolo, e aggiungiamo ancora altre difficoltà. - Il fine è l' intelligibile e l' appetibile: ma come dare alla materia bruta senza senso e senza intelligenza un appetito verso l' intelligibile e l' appetibile? (2) Non basta il distinguere il bene apparente dal bene vero: perchè anche quel primo deve apparire per essere appetito, e non può apparire a chi non solo è privo dell' intelligenza, ma anche del senso (3). - Di poi come identificare le forme delle cose inanimate o delle sensibili colle idee? Ed è pur necessaria questa identificazione nel sistema aristotelico, nel quale tutte le forme sono eterne e divine, e basta che si dividano, anche questo non si sa come, dalla materia, affinchè sieno per se intelligibili. Su di che già vedemmo che lo stesso Aristotele vacilla, e talora chiama la forma reale « « lo schema dell' idea » » (1), così ponendo tra essa e l' idea una distinzione simile a quella di Platone. - Ancora : come la forma nella mente dell' artefice può operare e non essere un puro esemplare, come vuole Platone? Anche rispetto a questo placito, necessario al suo sistema, affine di rendere le forme operative, vedemmo Aristotele esitante, e talora ritrarne il piede, ora dare alla specie la mente (subiettiva) per spiegarne l' azione, ora aggiungervi la forza, [...OMISSIS...] , ora mettere in dubbio che tali specie sieno veramente essenze. - In quarto luogo , o le specie delle cose naturali sono identiche colla prima e suprema essenza, il Motore immobile, o sono di diversa natura. Se sono identiche, essendo tutte una specie sola senza differenze, perchè si suppone che sieno molte e varie? Se sono diverse, perchè non si assegnano le cause delle loro differenze? E poi, come in tal caso compariscono? come comparisce una nuova natura diversa da quella del Primo motore, che non può dividersi in parti nè versarsi nella natura perchè non ha parti nè attività alcuna? come col solo appetirsi una cosa, s' acquista in parte quella cosa? E` per una virtù imitativa o appetitiva? Questo non si spiega, e in ogni caso, per imitazione (giacchè si ritornerebbe all' imitazione de' Pitagorici) non si prende nulla di reale dalla cosa imitata, ma s' assomiglia a quella, in modo che ciò che ha l' una solo convenga nella specie o nell' idea medesima. La similitudine in fatti è fondata soltanto in un comune concetto ossia in un universale , e non nella trasfusione di qualche parte della natura reale d' una in altra cosa (2). Ma in tal caso eccoci tornati agli universali per ispiegare la partecipazione delle forme , cioè ritornati al sistema di Platone. Di più Aristotele riconosce che molte cose reali diverse di numero sono identiche di specie, e molte specie identiche di genere, e tutt' i generi identici in quanto all' essere. Che cosa moltiplica di numero gli enti della stessa specie? La materia, risponde Aristotele. Ottimamente. Ma la forma che è in ciascuno, cioè la loro specie sostanziale (per fermarci a questa), tostochè è nella mente separata dalla materia, è una sola. Se è una sola, come può conservare la sua identità, moltiplicandosi gli enti reali che ne partecipano, ed essendo in ciascuno di essi? Poichè Aristotele dice: [...OMISSIS...] . Se dunque riconosce che nel concetto sono i medesimi, è dunque distinta la specie nella mente, che è il concetto e che è uno e comune, dalle specie reali che sono più e proprie di ciascun ente. Ci hanno dunque due maniere di specie, e le specie reali o imiteranno o parteciperanno delle specie mentali: siamo dunque ricondotti di novo alle specie platoniche, di cui i sensibili non sono che imagini: e la specie nella mente dell' artefice non sarà operativa, ma direttiva, e all' artefice converrà dare una potenza di imitarla nella sua opera distinta dalla specie, nè si potrà dire, che la specie della sanità nella mente del medico sia la sanità nell' ammalato (2), tanto più che Aristotele stesso è obbligato a confessare che la specie nella mente dell' artefice nulla patisce: che se nulla patisce, dunque nulla opera, perchè chi passa ad operare, patisce. Sia pure che gli universali esistano solo nella mente, il che Platone non contende. Rimane solo a penetrare l' intima unione che ha la mente dotata degli universali colle cose reali, a intendere che queste senza di quella non sono quali a noi appariscono. Se appariscono c' è entrata già la mente: ed essi nella mente nostra si ultimano appunto colla partecipazione che quivi essi fanno degli universali. Il che tanto più sarebbe stato facile ad Aristotele di vedere, in quanto ch' egli ama considerare gli universali come predicabili (e il predicare è un' operazione della mente), e fa che l' essere e sapersi, e il nominarsi delle cose venga dalla predicazione delle specie (3). Ma il nodo più duro a sciogliere nella dottrina d' Aristotele è quello della mente stessa che contiene gli universali. Poichè questa stessa è ella una o più? E se una, è una di specie o anche di numero? E se è una mente sola di specie, ma molte di numero, anche le menti dunque hanno una specie comune , l' idea della mente, che dev' essere anteriore alla mente, perchè distrutta la mente non è distrutta con questo la sua specie e possibilità, ma sì viceversa. Ora, che la mente sia una per Aristotele, pare indubitato; se poi la faccia una di numero o di specie, noi cercheremo in appresso. Agli argomenti che abbiamo addotti per provare che Aristotele ammette una sola natura mentale, aggiungiamo i seguenti: 1 Aristotele dice, che senza ammettere una moltiplicità di materie, non si potrebbe spiegare la moltiplicità degli enti, perchè la mente è una, [...OMISSIS...] : onde se essendo unica la mente ci fosse stata una sola materia senza differenze intrinseche, da queste due cause non s' avrebbe potuto avere, che un ente solo (1). Il quale argomento non avrebbe valore se ci potessero essere più menti o di numero o di specie diverse. In fatti più menti diverse di numero colla stessa materia avrebbero cagionato almeno più individui: più menti diverse di specie anche diverse specie di enti. Attribuisce dunque puramente alla diversità delle materie, e quindi alla diversa forza e natura del loro appetito il giungere a forme diverse . Tutte queste dunque non possono essere che una limitata imitazione della prima ed unica mente, secondo la diversità delle materie aventi varie potenze e capacità di giungere all' atto. 2 Aristotele ammette tre sole sostanze: due sensibili, delle quali l' una, quella de' cieli, incorruttibile, l' altra, la terrestre, corruttibile, la terza è la sostanza immobile: le due prime sono l' oggetto della fisica perchè hanno movimento, l' ultima della filosofia prima, perchè immobile e non avente alcun principio comune colle due prime (2). A quest' ultima appartiene la mente. Non è dunque distinta di natura la mente suprema, e quella dell' altre intelligenze: egualmente si contano come la terza sostanza. Questo ben dimostra per lo meno che Aristotele era lontano dall' intendere quanto la natura divina si dipartisse dalla natura finita della mente umana, colla quale non può nè manco aver nulla di comune nè specie nè genere. Nello stesso tempo apparisce come questa comunità o identità di sostanza, ch' egli dà alla mente divina ed alle umane, riguardi la mente in senso obiettivo. Poichè a quella scienza che tratta della sostanza immobile, cioè della mente, altrove attribuisce per oggetto « l' ente come ente ». La mente dunque è l' ente, cioè l' oggetto primo del conoscere; e si divaria soltanto pe' diversi subietti, a cui è unita, come meglio diremo in appresso. 3 Finaente in atto non può esser che una di numero. Poichè questo è uno de' suoi più costanti principŒ che tutto ciò che è moltiplice di numero ed uno solo di specie ha materia, [...OMISSIS...] , col qual principio vuol anco provare che un solo è il Primo motore e un solo il cielo ch' ei move. Ora la mente in atto è priva al tutto di materia. C' è dunque una sola mente in atto? (1). Dal qual luogo si trae certamente questa conseguenza, che la mente è, e non può esser altro che una specie sussistente avente il finimento di sè in se medesima. Ma come si concilia l' esistenza di questo supremo Motore unico di numero, coi motori inferiori, che sono anch' essi menti pure intelligibili ed appetibili, che eccitano i movimenti diversi alle sfere ed agli astri? Si dovrà probabilmente dire, che sono altrettante specie diverse, ciascuna sussistente ed una di numero. Ma in tal caso non avranno comune il genere? Non si può evitare: ed egli pare che, secondo Aristotele, il convenire solamente nel genere non impedisca che la specie subordinata possa esser una di numero, ultimata e sussistente senza materia: poichè la specie, essendo atto, non ha materia. In questo caso la specie non determina e informa alcun subietto materiale, ma è ella stessa la propria forma ed essenza. Tale credo la sentenza d' Aristotele. Ma con ciò non si sfugge ancora la difficoltà. E nel vero ammesso un genere comune, non sarà questo anteriore alle menti, secondo il principio dello stesso Aristotele che [...OMISSIS...] ? (1). Aristotele dirà forse, se non nell' ipotesi che il comune sia separabile ed abbia un' esistenza da sè, non se esiste soltanto nella mente: e dico forse, perchè in certi luoghi par che ammetta quel principio del comune qualunque sia. In fatti, tutto ciò in cui si può osservare una natura comune e una natura propria, tolta quella, questa non si concepisce più, sia la natura comune separabile o no. Ma si ammetta l' eccezione, s' urta in un altro scoglio. Se più sono le menti, ciascuna è una specie, ed hanno un' idea generica comune, in tal caso dov' è quest' idea? Nelle menti stesse, perchè non esiste separata. Se nelle menti soltanto, dunque quest' idea si moltiplica come le menti, avendo ciascuna la propria. Se ciascuna mente vedesse la stessa idea, quest' idea unica dovrebbe esistere separata dalle menti molteplici, contro il supposto. Se molte idee generiche uguali sono nelle menti, queste stesse idee hanno tra di loro qualche cosa di comune. Se hanno qualche cosa di comune, ritorna lo stesso ragionamento, che ci conduce ad una serie d' idee all' infinito, cioè all' assurdo. Non c' è verso d' uscirne: a meno che non si faccia ritorno al sistema di Platone che fa le idee separate dalle menti umane e create, ma esistenti tutte nella mente del sommo Artefice. Ora Aristotele non ci può ritornare senza rinunzia al proprio sistema, anche per un' altra ragione. Secondo lui, è indegno di Dio, che questi conosca le cose umane: appartiene alla sua perfezione che il suo oggetto sia puramente l' ottimo, cioè se stesso. D' altra parte, non essendo da lui create l' altre cose esistenti, ma a lui coeterne, operanti col proprio impulso, benchè con questo tendenti a lui; egli non potrebbe avere le idee distinte delle cose che sono al tutto così fuori di lui. Vediamo nondimeno dove ci conduca questo strano e insufficiente, ma ingegnoso sistema. C' è una serie d' intelligibili tutti eterni: il primo di questa serie è Dio, gli altri sono sparsi per tutto l' universo e lo compongono. Il primo intelligibile separato e sussistente contiene gli altri non distinti, ma in un modo eminente: è l' essere, e nell' essere si contiene ogni cosa che è. Gli intelligibili che sono nell' universo lo costituiscono, perchè tali intelligibili sono le forme , senza le quali non sarebbe l' universo; chè le forme danno alla materia l' essere qualche cosa, e però sono cause del suo essere (1). Gl' intelligibili uniti alla materia non sono intelligibili per sè. La materia è potenza, l' intelligibile è atto. Ma fino a che la materia è potenza, l' intelligibile non è puro atto, e però non è intelligibile se non potenzialmente. L' atto puro è per sè intelligibile. Come tutti gli enti tendono all' atto, tutti tendono a divenire intelligibili per sè. Vi riescono quelli soli che arrivano col loro movimento ad uscire dalla loro potenzialità, il che è quanto dire riescono a spogliarsi totalmente della materia, e allora sono costituiti in atto puro, separato ed immobile. Quando l' intelligibile è divenuto in questo modo puro atto, allora non è solo intelligibile per sè, ma anche intelligente (2). La ragione poi per la quale non tutti gli enti arrivano a quest' atto puro è perchè la materia ossia la potenzialità prossima è diversa: il liquor seminale è la materia prossima che ha la virtù, ricevendo il movimento de' generanti, di pervenire a quell' atto che costituisce l' anima umana, di cui la parte più elevata è la mente. Ho detto che l' intelligibili sparsi nella natura, quando giungono a liberarsi dalla materia e divenire atto puro, diventano intelligibili in atto e intelligenze. Questa sentenza deve esser ricevuta entro certi confini. Aristotele riduce gl' intelligibili ossia le specie alle dieci categorie. Ma avverte, che la sola specie sostanziale può essere spinta ad un atto che si costituisca da sè, e che meriti il nome di entelechía, ossia specie che ha il proprio finimento in se medesima (3), quando le altre specie non sono che per la sostanza e però hanno un' esistenza accidentale che talora Aristotele paragona al non ente (4). Laonde le sole specie sostanziali sono eterne nella natura, e se una di esse non ci fosse stata ab aeterno, o si potesse distruggere, non potrebbe più essere rinnovata (5). All' incontro le specie accidentali non è necessario che sieno eterne in atto nel mondo, bastando che ci sieno in potenza, per esservi poi attuate dalla specie sostanziale in cui sono. Quindi ancora la specie sostanziale è il massimo intelligibile (6). Quando dunque una specie sostanziale perviene ad un atto puro in cui si libera dalla materia, allora diventa intelligibile e intelligenza, e questo accade nella generazione umana rispetto all' anima che è la specie del corpo, anzi solo rispetto a quella parte dell' anima che è del tutto pura da ogni contagione di materia, e quest' è la mente umana. Per arrivare a quest' atto ella deve spingersi fino all' intuizione dell' essere formato, che è la mente obiettiva. In fatti tutte le cose si conoscono coll' essere e col non essere (1); ma il non essere non è che la remozione dell' essere ed è a quello posteriore tanto in sè, quanto nella nostra cognizione. Ed essendo l' essere e il non essere i due termini del principio di cognizione, perciò nulla possiamo conoscere senza questo principio, da cui il vero ed il falso (2). Di questi primi termini dunque, secondo Aristotele, è la mente. La mente umana dunque è la più eccellente tra le specie sostanziali che quaggiù si trovino, la quale, uscendo dalla potenza all' atto, giunse fino a toccare il primo e supremo intelligibile, l' essere, giacchè la mente conosce toccando, [...OMISSIS...] (3). E però la mente è fine dell' universo, e termine dell' ente che la possiede (4). La mente obiettiva dunque viene all' uomo dal di fuori ed è comune a tutte le menti; la subiettiva poi è nella natura, e si svolge da una specie in potenza che perviene fino all' atto della pura intuizione. Ma questa è una specie sostanziale , in cui le specie accidentali inesistono. Queste non sono necessarie alla sussistenza di quella: ma solamente possono essere in quella. Gl' intelligibili, che la mente umana va acquistando sono appunto queste sue specie accidentali; e come la specie sostanziale ha tutte le accidentali in potenza, così pure la mente umana ha in potenza tutti gl' intelligibili sparsi nella natura, e però convenientemente ella si chiama, «topos eidon», e «eidos eidon» (5). Quindi la mente dà connessione e unità alla natura raccogliendo in sè in potenza e alcune volte in atto tutte le forme dalla natura, ond' è chiamata «aion syneches» e «taxis» (6), pensiero che Aristotele prese da Anassagora (7). Ma pretende Aristotele che Anassagora non conoscesse la mente se non come causa motrice, e d' aver egli perfezionata la teoria coll' averla conosciuta per causa finale, con che solo s' evita che la natura del mondo sia come una serie d' episodi staccati, come la fanno i sistemi precedenti, [...OMISSIS...] (1). Ed ora ci sembra di potere stabilire la principale differenza tra la mente suprema e l' altre menti. La mente in senso obiettivo è a tutte le menti identica e comune. Ma questa mente obiettiva è in se stessa anche subiettiva, di maniera che l' essere inteso, e l' essere intelligente è il medesimo: quest' è la mente suprema che in eterno contempla se stessa. All' incontro rispetto all' altre menti l' obbietto non è il medesimo che il subietto; ma il subietto è posto dalla natura dell' universo che passa dalla potenza a quell' ultimo atto, pel quale contempla la mente obiettiva. Questo mi sembra essere dichiarato da Aristotele stesso nel libro XII, 9 de' « Metafisici ». Lo scopo di questo capo è dimostrare che la dottrina d' Anassagora non è sufficiente, cioè non basta porre la mente, come faceva questo filosofo nella natura, qual causa del mondo e della sua connessione, [...OMISSIS...] , ma che conveniva oltracciò ammetterla separata e indipendente da tutta la natura, come causa finale , a cui tende incessantemente la stessa natura. « « Sembra, dice, che tra gli apparenti ci sia uno divinissimo » » (2): questo divinissimo degli apparenti è la mente d' Anassagora insita nella natura, benchè immista. Mostra dunque che qualunque mente si ponga nella natura, ella sarà imperfetta e insufficiente. Poichè si prenderanno per mente, o sia per divinissimo, le specie di cui ogni ente anche inanimato è fornito? In tal caso questo divinissimo sarà dormiente: non intenderà nulla; e allora come può essere cosa oltremodo eccellente? (3). Si prenderà per divinissimo la mente umana? In tal caso abbiamo una mente che intende, ma il cui oggetto essenziale non è identico con essa. Dunque ella sarà di sua natura in potenza, e passerà all' atto per la virtù del suo oggetto: dipende dunque da questo, e questo è ad essa superiore se le dà l' atto: essa non è ancor dunque l' essenza ottima (1). [...OMISSIS...] . Il che pure è detto contro Anassagora che unendo la mente a tutta la natura, faceva che conoscesse tutte le cose naturali (3) e anche il male. Dalle quali cose conchiude Aristotele che la Mente suprema e perfettissima deve: 1 esser sempre nell' atto della contemplazione; 2 quest' atto deve avere per oggetto l' ottimo; 3 quest' ottimo deve esser ella stessa. [...OMISSIS...] All' incontro la mente umana, che è l' ultimo atto, l' ultima specie sostanziale a cui può giungere la natura: 1 Nascendo per un passaggio di ciò che è in potenza a ciò che è in atto, non è ella stessa il proprio oggetto, l' oggetto [...OMISSIS...] , la mente obiettiva, e però questa le viene dal di fuori, come quella che essendo eternamente scevra di materia, non può venire dalla natura; 2 Quindi la mente subiettiva dell' uomo è unita a un altro più eccellente di sè, [...OMISSIS...] abitualmente, e però si chiama da Aristotele abito, [...OMISSIS...] (5), e quindi ha bisogno d' uscire all' atto della contemplazione, rispetto al quale è in potenza (6); 3 Quindi accade che per poco tempo (1), e con fatica (2) la mente subiettiva dell' uomo si mantenga nell' atto della contemplazione, laddove la mente perfetta contempla se stessa immobile tutta l' eternità, [...OMISSIS...] (3); 4 La mente umana uscita dalla natura come specie sostanziale pervenuta allo stato d' entelechia , non avrà per suo oggetto solamente l' ottimo, ma altre cose ancora che sono le specie della natura, le quali ella acquista coll' induzione, separandole dalla materia, che così diventano sue proprie specie accidentali, ond' ella è detta specie delle specie. E qui ha luogo la distinzione tra la mente fattrice , [...OMISSIS...] , e la mente fattibile , ossia in potenza ad esser fatta, [...OMISSIS...] , di cui parla Aristotele nel III, 5 dell' « Anima », e finalmente la mente passiva, [...OMISSIS...] , che non si deve confondere colle due prime, benchè la brevità, con cui ne parla Aristotele, non nominandola che una sola volta, abbia fatto credere universalmente ai commentatori, che la mente in potenza e la mente passiva sia la medesima. Ma se si distinguono, la dottrina acquista chiarezza. In fatti supponendo che l' anima umana in cui è la mente sia giunta all' intuizione dell' essere (Mente suprema, in senso obbiettivo); 1 Quest' intuizione o vista dell' essere è la mente attiva , perchè vedendo l' essere conviene che per la stessa ragione l' occhio dell' anima veda tutto ciò che le si presenta come essere. La mente subiettiva dunque dell' uomo è attiva alla foggia degli abiti. 2 L' essere stesso intuito, è quello che può essere variamente determinato e circoscritto, e quindi può divenire tutte l' altre specie, e questo è la mente in potenza . 3 Queste due menti esistono nell' uomo tostochè è costituito. Ma quando la mente in potenza, cioè l' essere , viene determinato mediante i sentimenti, e la mente in atto cioè la vista intellettiva e subiettiva dell' anima vede le specie ne' sensibili, allora ella acquista tali nuove specie, e queste costituiscono la mente passiva . Quindi la sola mente passiva perisce, secondo Aristotele, colla morte dell' uomo, e non si conserva la memoria delle specie acquistate, perchè queste si vedono nelle sensazioni e nelle immagini che sono sottratte all' anima insieme all' organo corporale di cui abbisognano (1). All' incontro non perisce nè la mente attiva, nè la mente in potenza, benchè rimangano senz' azione, e ciò perchè sono la stessa mente innata. E veramente, che quando Aristotele nomina come peritura [...OMISSIS...] , intenda le specie acquistate coll' uso dei sensi per induzione, vedesi chiaramente dall' unirla alla memoria , che suppone tali specie già acquistate. All' incontro che la mente tanto fattrice quanto fattibile ossia in potenza, si conservi separata dal corpo, si può provare così. Tutti i commentatori sono d' accordo nell' ammettere immortale la mente fattrice od agente: basta dunque per noi provare che sia immortale anche la mente fattibile, ossia in potenza. Questo poi si prova dalla qualità che attribuisce Aristotele d' impassibile , e però priva di memoria, [...OMISSIS...] , tanto alla mente fattrice, quanto alla mente in potenza. Ora nel III, 4 dell' «Anima » cerca come si produca il conoscere [...OMISSIS...] . Cercare come si produca il conoscere è lo stesso che cercare come si produca la mente passiva . Ma per dichiarare questo, conviene: 1 stabilire qual sia la mente anteriormente al conoscere; 2 qual sia la mente dopo acquistato il conoscere. La mente anteriormente al conoscere non è solamente la mente fattrice che fa il conoscere, ma anche la mente fattibile cioè in potenza a conoscere. Dice dunque che questa mente, che non ha ancora ricevuto le specie « deve essere impassibile, suscettiva delle specie, e che sia queste specie in potenza »(2). Qui parla chiaramente della mente ancora in potenza. E dice che questa è la mente d' Anassagora senza mistura di sorta, [...OMISSIS...] . Onde dice, che la sua natura è puramente il possibile (3), non avendo ancora niuna delle specie naturali in atto, ma solo il possibile, che è quanto dire l' essere possibile , che la rende capace di ricevere tali specie. Questa è quella mente, con cui l' anima pensa e percepisce, [...OMISSIS...] : onde evidentemerice e fattibile , e che è una stessa ed identica mente, anteriore all' acquisto delle specie naturali, che poi formano la mente passiva . Questa mente dunque fattrice e fattibile non si mescola al corpo, e però non ha bisogno del corpo per sussistere, e non è ancora le forme se non in potenza, [...OMISSIS...] , onde la chiama il luogo delle forme (1). E prova che questa mente in potenza è separata di natura dal corpo per la differenza che passa tra essa e il senso, il quale dipendendo dall' organo s' istupidisce se sente qualche cosa di troppo forte, la mente all' opposto s' avvalora col fortemente conoscere (2), perchè è ella stessa l' intelligibile in potenza, e diventa poi l' intelligibile in atto. Si fa ancora la domanda perchè la mente non pensi sempre, e l' attribuisce all' essere le specie unite colla materia, onde il pensiero intermittente, di cui parla Aristotele, è quello che si riferisce alle cose sensibili e materiali. Intorno a queste, dice, non pensa sempre perchè ell' ha bisogno di fare un' operazione per arrivare a pensare queste specie, ha bisogno di separare le specie dalla materia perchè la mente se le approprŒ (3). Ma per ciò che riguarda la mente stessa, ella si intende sempre e tuttavia alla condizione dell' altre cose: poichè tutte le cose s' intendono a condizione che siano senza materia, semplici, immiste. Ora la mente è tale per sè e, appunto perchè tale, rende anche l' altre cose scevre di materia e così intelligibili (4). Dunque ella si conosce sempre, e questa mente conosciuta è la mente in senso obiettivo, il possibile, [...OMISSIS...] . C' è dunque sempre un atto nella mente, ed è con quest' atto primo e sostanziale che fa tutto il resto, [...OMISSIS...] , ed è come abito a guisa del lume, [...OMISSIS...] . Poichè come il lume, essendo in atto, rende colori in atto i colori che sono in potenza (5), così la mente fa delle specie che sono ne' sensibili e nelle cose materiali. La mente in potenza dunque si riferisce a queste specie, ma ella in se stessa è in atto, e però rispetto a sè è mente teoretica o contemplativa, di cui si può dire che l' intelligente e l' inteso sia il medesimo, [...OMISSIS...] . E` dunque la stessa mente quella che è in atto e quella che è in potenza: poichè è in atto rispetto a se stessa ed è in potenza rispetto alle specie che sono unite colla materia negli enti naturali (1). Aristotele si fa delle obbiezioni, che servono non poco a render chiara la sua mente, alle quali dà certe risposte, di cui non fu bene intesa generalmente la forza. Avea detto, che la mente è semplice, impassibile, e non ha nulla di comune coll' altre cose, [...OMISSIS...] , secondo la sentenza d' Anassagora: come dunque ella intende, domanda, se pensare è un certo patire, chè, solamente in quanto c' è qualche cosa di comune in ambedue i termini, l' uno sembra agire e l' altro patire? (2). Oltre ciò, essendo l' intelligibile uno di specie, o che è ella stessa la mente questo intelligibile o che questo intelligibile è diverso da essa e si trova nelle cose naturali. Se è ella stessa l' intelligibile, convien dire, che quando intende l' altre cose, ella stessa sia nell' altre cose, il che è assurdo: se poi l' intelligibile è diverso da lei, in tal caso ella sarà mista e dovrà semplificarsi prima d' essere intelligibile (3). Risponde Aristotele a queste difficoltà, che l' intelligibile è nella mente stessa, [...OMISSIS...] , e che l' intelligibile, essendo al tutto privo di materia, non può rendere mista la mente; che si dice, che la mente intendendo patisce, unicamente perchè l' intelligibile è in essa in potenza, e quando esce all' atto è ella medesima (4). Onde tra ciò che sembra agire, cioè l' intelligibile, e ciò che sembra patire, cioè la mente, non solo c' è qualche cosa di comune, ma c' è identità, che è l' identica mente quella che è in potenza, e quella che poi è in atto. Non patisce dunque dalle cose esterne, ma da se stessa (dalla mente in senso obiettivo), se questo si vuol dir patire: e da questo non procede, che la mente subiettiva sia nelle cose esterne, poichè nelle cose c' è la materia, e però in esse l' intelligibile è solo in potenza. Se quest' intelligibile nelle cose è una specie sostanziale tale, che giunga a spogliarsi della potenza e divenire entelechia, come nella generazione umana, in tal caso egli diventa mente, e questa mente o entelechia è « « la potenza priva di materia di tutte l' altre specie che sono nelle cose » » [...OMISSIS...] (1). Dal qual luogo vedesi la connessione che pone Aristotele tra la mente umana, e le specie che sono negli enti composti di materia e di forma. Una di queste specie sostanziali diventa mente ed ha in potenza tutte le altre. All' occasione delle sensazioni, le altre specie che ha in se stessa in potenza, si attuano, e così s' arrichisce di cognizioni. Le specie dunque nelle cose sono identiche a quelle nella mente (2), e sono contenute nella mente come in una specie maggiore che è in atto, quasi accidenti della medesima, i quali possono essere in potenza e passare all' atto: « « l' intelligibile dunque propriamente è uno di specie » », [...OMISSIS...] , il che è quanto dire, è una specie sola, che abbraccia l' altre come sue attuazioni accidentali, e questo intelligibile unico è la mente, che «to auto esti to noun kai to noumenon». Così è perfettamente congiunta la mente colla natura delle cose mondiali: il che tuttavia non rimove le gravi difficoltà, che abbiamo già indicate. La mente dunque è di natura sua teoretica cioè contemplatrice; questa mente poi quando si considera in relazione all' altre specie che sono miste di materia e di forma, dicesi da una parte fattrice o agente in quanto ha virtù d' attuare in sè le specie naturali scevre di materia, all' occasione delle sensazioni, e dicesi mente in potenza , in quanto ha queste stesse specie in potenza; dicesi poi mente passiva , in quanto ha attuate già in sè queste specie e le conserva in atto, la qual conservazione dicesi memoria: e questa è quella che perisce, rimanendo la mente teoretica, e anche la fattrice e la fattibile, ma senza più operare, mancando le sensazioni, onde dice «kai aneu tutu uden noei». Questa mente passiva poi è atto, quando le cognizioni sono acquistate, ma quest' atto non è continuo, ma abituale, e però ritiene ancora della potenza; può però passare alla contemplazione per un certo tempo e in que' momenti ella stessa è mente contemplativa (3). La prima mente dunque, fondamento dell' altre, è contemplatrice o teoretica. Ma che cosa contempla? Aristotele risponde: il principio, senza il quale non si può conoscere nessun' altra cosa, e questo è l' essere. Questo dunque, e ciò che in lui si trova, «taa prota», è il più noto per natura, ma, dice, non il più noto rispetto a noi; con che non vuol negare, come abbiamo osservato, che si conosca da noi anteriormente a tutte l' altre cose, ma nol conosciamo da prima colla mente passiva e riflessa, e quindi quella cognizione immediata, priva di coscienza, non ci soddisfa, non pare cognizione nostra, e non è cognizione scientifica (1). Questo principio dunque di contemplazione che ha l' anima dell' eterna e prima essenza rispetto alle specie mondiali è l' attività conoscitiva, e così acquista la denominazione di mente fattrice, e poichè queste forme le ha in se stessa virtualmente comprese nel suo oggetto essenziale, acquista pure la denominazione di mente in potenza, o quando le ha già ottenute in atto, acquista finalmente quella di mente passiva o patetica. Tutto il sapere dell' uomo, quello che lo rende atto a far uso delle cose mondiali, ed a riflettere anche sopra se stesso, sta in quest' ultima, e però Aristotele s' applica a dichiarare la formazione della mente passiva, e di questa dice che nella vecchiezza perviene alla sua maturità (2). Osserva dunque che sebbene la mente sia la specie eccellentissima di tutte pervenuta a costituirsi come atto, entelechia, tuttavia ci sono delle altre specie sostanziali nella natura che arrivano ad attuarsi per via di generazione, il cui atto però non essendo ultimo, non hanno la natura di menti. Questi atti costituiscono una certa gerarchia di basso in altro, e i loro principŒ moventi sono quattro, [...OMISSIS...] (3), cioè il vegetativo o nutritivo (4), l' appetitivo (5), il sensitivo, il motivo di luogo. Le quali specie sostanziali sono così connesse tra loro, che sebbene possano attuarsi in diversi enti, tuttavia le susseguenti non possono trovarsi scompagnate dalle precedenti. Nell' uomo poi nel quale c' è la specie ultima cioè la mente, conviene che ci sieno pure quelle quattro specie anteriori e d' inferiore eccellenza, e nascendo la generazione dall' imperfetto al perfetto, dalla potenza all' atto, conviene altresì che ultima sia la mente a comparire in atto, e che questa anche possa sopravvivere alle altre: chè questa è il fine di quelle, e il fine altresì di tutta la natura (1): ma esistendo la mente nell' uomo, questa deve ridurre in se stessa in atto le specie della natura e così rendersi mente patetica. Per questo appunto accade, che tutte quelle quattro specie sostanziali, il vegetale, l' appetitivo, il sensitivo, il motivo di luogo, sieno parti della stessa anima di cui è la mente. La mente essendo nella stessa anima, e in senso subiettivo formando un chè uno col sensitivo, raccoglie da questo gli intelligibili, al sensitivo poi serve e la parte vegetale e l' appetitiva. Come poi la mente raccolga tali intelligibili per induzione, fu da noi veduto. La mente subiettiva dunque nell' uomo, essendo diversa da' suoi proprŒ intelligibili, ha bisogno d' acquistarseli, nel modo detto, laddove la mente suprema, essendo ella stessa come subietto il suo proprio intelligibile, non ha punto bisogno di ciò. E dico i suoi proprŒ intelligibili ; perchè la mente umana, uscita dalla natura, si tiene, fino che l' uomo vive, subiettivamente radicata nella natura per mezzo dell' altre parti dell' anima, e così è naturalmente ordinata a raccogliere tutte le specie naturali, che ha in sè e di cui è essa il contenente, cioè a dire ad attuarle in sè medesima. Iddio all' incontro è pienamente beato di se medesimo, e quest' unico intelligibile continuamente e perfettamente da lui contemplato è tanto eccellente che tutte le specie mondiali lo deteriorerebbero se vi si mescolassero, come mescolandosi l' imperfetto col perfetto questo si deteriora. Ma la mente umana, secondo Aristotele, non attinge il sommo intelligibile, se non con languidissimo sguardo. « « Poichè, dice, come gli occhi della nottola sono al lume del giorno, così la mente dell' anima nostra a quelle cose che per loro natura sono manifestissime fra tutte »(2) », e alla sua vita naturale ha bisogno di conoscere le specie della natura, e per questa via non solo acquistarsi le scienze naturali, ma ben anco rendere a se stessa più note quelle cose, che per natura sono manifestissime, ma a noi visibili appena: « « poichè l' apprendere ha luogo così in tutti, mediante le cose che sono meno note, a quelle che sono più note »(3) », e ciò per difetto del nostro occhio e non per difetto d' evidenza nelle cose (4). Quando poi Aristotele parla della mente data all' anima come strumento col quale possa formarsi la scienza, non può intendere che della mente insita nella costituzione dell' uomo; quando parla della mente pienamente generata soltanto nella vecchiaia, è evidente che egli intende della mente acquisita o patetica (1): onde conviene che quella si distingua da questa: della prima dice che è de' soli principŒ, che riduce egli stesso a un primo intelligibile, della seconda dice che è di tutti gl' intelligibili, [...OMISSIS...] la prima ha per oggetto «ta te physei phanerotata», la seconda «panta noei»: la prima è lo strumento dell' anima [...OMISSIS...] , la seconda è l' effetto prodotto dall' uso d' un tale strumento ed è ella stessa tutte le specie naturali in atto: la prima è la tavoletta su cui si scrive, la seconda è le cose scritte (2): anche la tavoletta è in atto come tavoletta, ma non è ancora le cose scritte, così la mente è la prima e l' ultima (3). Adunque tra il primo stato della mente, priva delle specie mondiali e fornita solo d' un primo atto che contiene in potenza tutti gli altri, e che perciò è «dynamei ta eide,» e l' ultimo stato in cui ha acquistate queste specie in atto, c' è la disciplina [...OMISSIS...] , che è come la generazione nelle cose naturali, media tra una entelechia e l' altra. L' atto poi con cui si fa questa disciplina è il pensiero, [...OMISSIS...] , che è pratico, o fattivo o teoretico (4). Il pensiero pratico è il principio delle azioni umane, e circa lui più abiti si distinguono ne' libri morali (5): al pensiero fattivo appartiene l' arte (6): l' uno e l' altro di questi pensieri non sono delle cose necessarie, ma delle contingenti (7); ma l' arte è sempre del vero, la pratica poi del bene e del male (.). Oltre l' arte, versa intorno al vero la prudenza e la sapienza (9), ma i due abiti che hanno per oggetto il vero necessario sono la scienza e la mente . Questa somministra a quella i principŒ; quella movendo da questi principŒ ragiona, cioè deduce le conseguenze, e dimostra, chè la scienza è una cognizione dimostrata (1), laddove la mente è una cognizione intuitiva de' principŒ. Questi principŒ si raccolgono coll' induzione (2), ma questi non si potrebbero raccogliere se non ci fosse prima il luogo dove raccoglierli [...OMISSIS...] , la tavoletta, [...OMISSIS...] , dove scriverli. Questo luogo è in atto come luogo, e questa tavoletta è in atto come tavoletta, e tale è la mente in atto, che Aristotele dice essere data all' uomo da Dio stesso, come uno strumento con cui procacciarsi coll' induzione e col raziocinio tutte le specie della natura (3). Questa raccolta delle specie naturali fatta dall' anima coll' organo della mente, per via dell' induzione e del raziocinio, dopo aver prodotte le scienze naturali, perviene alla filosofia prima, cioè alla dottrina de' principŒ: ritorna dunque ond' è cominciata, e poichè questi stessi principŒ si chiamano mente da Aristotele, perciò il principio e il fine dell' opera è la mente, ma il principio è la mente insita per natura nell' anima, e il fine è la stessa mente convalidata dal lungo esercizio (4). L' una e l' altra è de' principŒ; ma la prima è intuizione de' principŒ senza riflessione, la seconda de' principŒ conosciuti con riflessione e consapevolezza; la prima ha un solo principio in atto e gli altri in potenza, il più universale di tutti, l' essere; la seconda ha molti principŒ in atto, e non solo i primi, ma per principŒ Aristotele intende anche tutte le essenze specifiche prive di materia, che sono principŒ degli enti naturali composti di materia e di forma (5). Distingue dunque la mente in due, [...OMISSIS...] . Il qual luogo, non dee già intendersi che la mente sia lo stesso senso de' singolari, ma che sia un senso che raccoglie le specie ultime , che noi chiamiamo specie piene, o le specie astratte (non generi ancora) (2). Per riassumere adunque, gl' intelligibili sono sparsi nella natura mondiale, congiunti alla materia, cioè alla potenzialità, che è quanto dire non pervenuti all' ultimo atto, che da intelligibili in potenza li renderebbe intelligenze. Ma cotesti intelligibili sparsi nella natura sono limitati più o meno, e niuno di essi è intelligibile illimitatamente e pienamente. La natura dunque mancherebbe del suo comignolo e la serie degl' intelligibili mancherebbe del suo primo, se non ci fosse uno intelligibile in atto perfetto e illimitato senz' alcuna potenzialità di sorte. Questo intelligibile primo non può a meno d' esistere necessariamente, perchè ciò che è perfetto atto, è, per la stessa definizione, esistente, essendo il medesimo atto ed essere: ed esiste separato e da sè, appunto perchè non dipende da alcuna potenza e materia. Egli non è la natura, per la stessa definizione, essendo « « la natura ciò che ha potenza e movimento » ». Quest' intelligibile puro e perciò pura intelligenza è Dio, e non può avere altra natura ed essenza che quella dell' essere puro , poichè se qualche altra cosa gli s' aggiungesse sarebbe dipendente, e avrebbe potenzialità e materia o limitazione. Fino a che la natura non giunge a toccare questo puro intelligibile, niente in essa e è condizione dell' intelligenza, ossia della mente, d' essere un atto privo al tutto di materia (3), e quest' atto non essendo che Iddio, la natura deve pervenire a toccare Iddio, acciocchè s' approprŒ quell' atto purissimo e attualmente intelligibile , e così anch' essa diventi intelligenza, poichè coll' avere in sè ciò che è attualmente intelligibile non può a meno d' intendere. Essendo quest' intelligibile per sè l' essere , la mente è formata dall' essere. Ora quest' ultimo atto della natura c' è sempre stato (1), e per mezzo della generazione umana si perpetua. Ma l' anima umana non tocca quest' atto che imperfettamente, e non essendo ella stessa quest' intelligibile in atto, da lui dipende come da un principio maggiore, e si distingue colla sua subiettività dal suo obietto essenziale, che le serve di strumento agli altri suoi atti. Così Aristotele dice, che Iddio ci dà la mente (2). Infatti conoscendo l' essere si possono conoscere tutte l' altre cose in esso contenute, ma senza l' essere, niente si può conoscere, perchè tutto è essere. Laonde Aristotele fa dipendere le verità dalla prima, come gli esseri dal primo essere. [...OMISSIS...] E qui già si scorge meglio la conciliazione tra ciò che dice dell' universale e ciò che dice del singolare. Poichè dopo avere esaltato questo sopra di quello e aver detto che in questo solo si deve cercare l' atto compiuto, involgendo quello imperfezione e potenza, sembra che in alcuni luoghi cangi il discorso e magnifichi sopra tutto l' universale. La conciliazione è questa. Iddio primo principio è l' essere sussistente. Questo è subiettivamente singolare. Ma l' uomo lo tocca obiettivamente, come primo ed assoluto intelligibile e questo tocco forma la mente innata: il tocco però è debolissimo e dà una languidissima e abituale notizia dell' essere, non sufficiente all' uomo nella sua vita terrena. L' essere così conosciuto è la mente in senso obiettivo e lo strumento, ovvero organo dato all' uomo con cui conoscere l' altre cose (1). Con questo dunque l' uomo dee acquistarsi la scienza propria di lui, cioè dee raccogliere gl' intelligibili sparsi nella natura (2). I quali intelligibili separati dalla materia (3), sono gli universali; e senza questi non si dà scienza (4). Questi poi sono l' essere delle cose; «to ydati einai» è la pura specie sostanziale dell' acqua, «to megethei einai» è la specie pura della grandezza, e così via (5). Raccogliendo dunque le specie, raccoglie l' essere sparso nella natura. Ma come in molti enti reali inesiste una specie comune, così in molte specie inesiste un genere comune, e in tutti i generi poi trova comune l' essere stesso. L' essere dunque nella natura è comunissimo, se non che è più ristretto nelle specie, più esteso ne' generi, più comprensivo in quelle, meno comprensivo in questi. Ora Platone, come l' intende Aristotele, avea detto che quest' essere comunissimo esiste da sè separato dalla natura, e che gli enti della natura ne partecipano e così sono (6). Aristotele si oppone a questo, e dice che l' essere comunissimo non può esistere separato, e nè pure è un genere (7). Ma cangia piuttosto le parole che la cosa: poichè qual principio sostituisce? L' essere stesso, non più comunissimo, ma singolare e sussistente, al quale aspirando come a fine tutte le diverse materie della natura, giungono a parteciparne limitatamente qual più qual meno. C' è dunque l' Essere primo singolare, ma preso questo per obietto dalla mente umana ed applicato alla natura diventa comunissimo per la ragione che questa mente riporta e identifica con esso lui tutto l' essere limitato che è sparso nella natura, cioè le specie. Queste sono essere come quello, ma si distinguono per la loro limitazione: così suppone che ci sia in fondo a tutto un essere solo immateriale, il quale sia limitato e illimitato ad un tempo, ma in quant' è illimitato sia Dio, in quant' è limitato sia unito colla materia e sia natura (1), allo stesso modo come suppone che la specie nella materia e la specie separata sia una e la stessa, ma in quant' è nella materia non è intelligenza, in quant' è separata è Intelligenza o Mente. Se dunque si considera l' essere come attualissimo in se stesso, egli è singolare, prima causa finale fuori della natura; se si considera come meno attuato, è in tutti gli esseri della natura, e in essi è ancor singolare: ma raccolto l' essere che è ne' molteplici della natura dalla mente, è universale perchè ne' molti inesistente (2). Trovando dunque la mente l' Essere assoluto, questo in quant' è sussistente, è singolare fuori della natura, ma riportato da essa mente e riscontrato alla natura, come misura comune di tutte le cose, è comunissimo . E però l' uomo che trae la scienza dalla natura, nulla può sapere senza l' ente comunissimo, e la prima filosofia che tratta dell' essere come essere, il dee considerare ad un tempo, dice Aristotele, e come singolare e primo, e come comunissimo. Osserva dunque Aristotele che la parola ente ha un primo significato, dal quale tutti gli altri derivano, e al quale tutti si riferiscono, e che perciò la scienza che tratta dell' ente deve riportare tutto ciò che dice a questo primo significato, come a un solo principio (3). L' essere dunque si considera da Aristotele come una sola natura, [...OMISSIS...] . Qual è dunque il primo e proprio significato di ente? Quello di essenza sostanziale , risponde Aristotele, chè tutte l' altre entità espresse nell' altre categorie sono posteriori ad essa (4). Di questa dunque dee propriamente trattare quella scienza che ha per oggetto l' essere come essere, e anche d' ogni altra entità, ma ad essa riferendola (5). Se l' essere dunque in questo senso primo e proprio, cioè l' essenza sostanziale è l' oggetto precipuo della filosofia prima, si prende qui l' essere ancora come un genere , sia come il genere universalissimo, sia come il genere dell' essenza sostanziale (6), d' altra parte la scienza non può far di meno dell' universale, e la filosofia prima ha lo stesso oggetto della dialettica (1). Come dunque sembra negare che l' essere sia universale? (2). Conviene osservare come Aristotele concepisca l' universale; il concetto, che s' è formato dell' universale, è inerente alla espressione greca «kath' holu», che è come dire « ciò che si dice di tutto » onde è preso dalla predicazione e non dall' intuizione . Ora il medesimo essere non si predica di tutte le cose, e però «me tauto epi panton,» perchè l' essere d' una cosa non è il medesimo di quello dell' altra, ma varia secondo la specie. [...OMISSIS...] . Ciò che si predica di tali cose in un modo anteriore e posteriore (4), è il genere: il genere dunque non c' è propriamente fuori delle specie. Or come l' essere si predica in un modo anteriore della sostanza, e in un modo posteriore degli accidenti, non è dunque un genere comune a quella e a questi. Ma non si predicherà dunque in comune di tutte le sostanze, o anche di queste si predicherà in un modo anteriore e posteriore? Secondo Aristotele l' essere si predica in un modo anteriore della essenza attualissima, cioè di Dio, e in un modo posteriore dell' altre essenze naturali composte d' atto e di potenza: e perciò non c' è null' altro fuorchè Dio, e le sostanze naturali: non c' è un universale comune. Ma dopo di ciò torna la perplessità, [...OMISSIS...] . Ma egli stesso s' accorge che questo è un tornare agli universali; laonde soggiunge che: [...OMISSIS...] . Il fondo di questa questione « se i principŒ degli enti siano gli universali o i singolari »nasce da questo. Nelle idee c' è da notarsi l' estensione e la comprensione (2). Se si considerano le idee dalla parte dell' estensione, cioè dalla maggiore universalità, le più universali contengono le meno universali, e però quelle sono principŒ di queste. Se si considerano dalla parte della comprensione, ciò che è più comprensivo contiene quello che è meno comprensivo, e però i più comprensivi ossia meno universali sono i principŒ de' più universali (3). Quali dunque sono i principŒ degli enti, universali o singolari? (4). Tale in sostanza è la difficoltà che Aristotele chiama « « difficilissima di tutte e insieme necessarissima » » [...OMISSIS...] (5): egli la presenta sotto molti aspetti, e la fa comparire come questioni diverse (6); ma in nessun luogo ne dà una chiara e diretta soluzione: convien raccogliere a fatica quella sentenza ch' egli avrà probabilmente insegnata apertamente nella scuola. Noi non dubitiamo, che sia quella che abbiamo già data, e che ripeteremo in altre parole. Ci sono delle cose che si predicano d' altre, e queste devono avere un subietto di cui si predicano, e che egli stesso non si predica. Il subietto e il predicato sono relativi, e l' uno non istà senza l' altro, onde suppongono una composizione di materia, - subietto - e di forma - predicato - (1). Parliamo delle sole forme o essenze sostanziali, alle quali le accidentali si riducono (2). Le forme o essenze sostanziali, oltre essere nella natura, esistono anche separate nella mente. Le forme dunque si possono considerare sotto due rispetti: 1 in se stesse, pure da materia, e sotto questo aspetto ciascuna è perfettamente una ; e 2 o congiunte nella materia, nel quale aspetto una sola forma veste più materie, ed essa è da Aristotele rassomigliata al maschio che feconda più femine (3). Stabilisce dunque Aristotele l' unità dell' essenza sostanziale , giacchè essendo essa puro essere, e l' essere essendo indiviso dall' uno, anch' essa è una, e singolare in se stessa e pienamente determinata (specie piena?) (4). Ed è così che l' uomo intende, perchè c' è l' uno in più enti naturali (5), cioè la specie sostanziale che è una e singolare e che rimane nell' anima fornita di mente, in occasione della sensazione (6). Onde a questa specie attribuisce ad un tempo d' esser uno , e d' esser universale. [...OMISSIS...] Ma s' osservi attentamente, che Aristotele usa, senz' accorgersi, in due significati diversi «to katholu:» poichè talora lo considera manifestamente come un predicato , e allora dice, che non può esistere separatamente, perchè suppone un subietto; talora poi lo considera come quell' essenza sostanziale che, essendo una, è causa a più cose di essere, e di essere uno (1), e a questa concede l' esistere separata (2). In tal caso non è più il predicato d' un altro subietto, ma è l' essere della cosa stessa. Tutte le altre cose accidentali si predicano di questa specie sostanziale, e sotto questo aspetto, ella diventa subietto, ma ella stessa si predica della materia (3), e sotto questo aspetto ella stessa diventa predicato, e predicato universale, perchè si può predicare di più materie, rimanendo ella una ed identica. Ma la materia non esiste se non per lei e però non è un subietto indipendente da lei: ella dunque è antecedente al subietto materia, e in quant' è antecedente non è predicato, perchè il predicato è relativo e contemporaneo ed anzi posteriore al subietto (4). Sotto questi diversi aspetti, ne' quali si può riguardare la specie sostanziale, disputa lungamente e ritorna spesso Aristotele, opponendo ragioni a ragioni, e non venendo mai a una netta e del tutto esplicita conclusione. Del rimanente, la conclusione si è che Aristotele tiene costantemente divise le specie , sparse nella natura, dalla specie massima divisa da essa totalmente: eterne quelle e questa, ma quelle dipendenti da questa, perchè poste in atto dall' appetito insito nella materia o potenza, che costituisce la natura e s' avvicina a quella, ma imperfettamente (1). Essendo le specie che sono sparse nella natura determinate, distinte ab eterno, inconfusibili, esse formano come una serie, e non hanno altra unità se non quella del numero (2). Ora, come ciascun numero ha unità, perchè si concepisce come contenuto nell' uno; così le diverse specie della natura hanno unità, perchè contenute nella specie massima, cioè nell' essere, che è una. Infatti non esisterebbe un numero se non fosse concepito come uno, non fosse informato dall' unità: così le specie non avrebbero nè continuazione nè unità, se tutte non fossero contenute nell' essere. E poichè la mente in senso obiettivo è l' essere, perciò Aristotele or dice della mente suprema che forma la continuità e l' unità delle cose e de' tempi, ora lo stesso dice della mente nell' uomo (3). E quest' è la ragione, per la quale Aristotele ora parla d' un principio solo, e or tosto appresso converte il discorso di singolare in plurale parlando di più principŒ (4). La ragione si è che «he de noesis, ta noemata» l' intellezione, essendo una, è insieme obiettivamente molti intelligibili, come un numero è uno ed è insieme molte unità, [...OMISSIS...] e lo stesso che dell' intellezione, che è l' atto, è a dir della mente che è la potenza, [...OMISSIS...] . Se dunque considera l' essere come contenente, Aristotele parla d' un principio solo, se considera l' essere come contenuto, ne parla come fosse più principŒ. E` ancora l' uno formale de' Pitagorici e di Platone. Ancora i principŒ, dice, sono i medesimi secondo la loro ragione «he to ana logon». Questa ragione comune è la contenente, l' essere in cui tutti si risolvono. Di che procede che dove si trova l' uno, ivi si trovi il primo, e dove il primo ivi anche l' universale. Infatti ne' soli enti della natura non si trova il primo universale, [...OMISSIS...] (5). E veramente essendo gli enti in numero finito, il comune che è in essi, è comune bensì a quel numero di enti esistenti, ma non è universale , estendendosi questa parola a un numero infinito d' individui. Quindi a ragione Aristotele ne cerca il fondamento nell' Essere supremo. [...OMISSIS...] . Fa dipendere dunque l' esistenza dell' universale dall' esistenza del primo ente. Non basta dunque per Aristotele, acciocchè ci sia l' universale, che colla mente s' astraggano le specie dalla natura: questo fa anche il matematico; ma le entità che ne cava non sono separabili e indipendenti dalla materia, e però non danno il vero e puro universale, nè costituir possono una scienza universale (2). La scienza universale dee trattare « « dell' ente come ente, e della quiddità, e degli universali inesistenti nell' ente come ente » », [...OMISSIS...] (3). Secondo Aristotele adunque l' universale si riduce all' essere come essere, e l' essere come essere non esiste separato nella natura, ma esistono delle specie unite alla materia, le quali non sono universali, se non sono contenute nell' essere. Questo deve esister dunque come causa suprema separata dalla natura, e come cosa divina. E qui di novo si alterna in Aristotele il discorso in singolare e il discorso in plurale per la ragione detta. [...OMISSIS...] . Ma tra le cause eterne quella che è separata e di tutte le altre più divina è la finale (5), e la causa finale ultima e separata è il Bene, ossia il Dio supremo. La prima filosofia dunque, che è universale e tratta degli universali altrettanto che la dialettica (6), ma più profondamente, tratta specialmente di Dio e del Bene (7), e perciò si chiama teologia. Per trovare dunque il fondo della dottrina aristotelica, conviene investigare com' egli assegni alla filosofia prima, quale unico oggetto: 1 il trattare del supremo essere, certamente singolare, essendo attualissimo, senz' alcuna potenzialità, e quindi incapace di essere in modi diversi; 2 e il trattare dell' universale . Come Dio e l' universale sono unico oggetto? Ecco quello che Aristotele non dice che oscuramente, e dove sta pure il nodo della dottrina. Quante sono le essenze, dice, tante sono le parti della filosofia (1). L' essenza di cui tratta la filosofia prima, è l' immobile e separata dalla natura. Ma d' altra parte, l' oggetto di questa filosofia è l' essere come essere. Dunque l' essere come essere è quell' essenza immobile e perfetta a cui appartiene il nome di Dio. Ma anche le specie ossia i generi delle cose naturali sono essere, [...OMISSIS...] . La filosofia dunque tratta d' un' essenza che contiene le specie, come il circolo contiene il poligono, e però tratta anche delle specie e de' generi diversi, e de' contrarŒ e delle negazioni, non per parti, come fanno le scienze speciali, ma in quanto sono essere. [...OMISSIS...] La filosofia prima dunque è scienza universale, perchè tratta dell' essere non solo in quanto è essenza sussistente, ma in quanto è universale. Laonde riferendo le opinioni intorno a quella scienza a cui s' appartiene il nome di sapienza, le assegna questi caratteri: 1 che in essa si conoscano in qualche modo tutte le cose; 2 e le più difficili; 3 e le più certe; 4 e che con essa si possa conoscere ed assegnare le cause; 5 e che sia tale che si cerchi per sè stessa, cioè unicamente per saperla, e non per altro. Ora questi cinque caratteri si riscontrano nella scienza che tratta dell' universalissimo che è l' essere come essere. [...OMISSIS...] ; dove esclude manifestamente dalla scienza più sublime il conoscimento degli enti singolari, riponendola nel conoscimento di quell' universale che tutti li contiene. [...OMISSIS...] . E continua a provare che in quegli che sa l' universalissimo o gli universalissimi si riscontrano anche gli altri quattro caratteri del sapiente: [...OMISSIS...] . Si osservi su questo luogo importante, che dalla prima e suprema scienza vengono sempre esclusi i subietti, e certamente vuol dire la materia considerata come subietto degli enti naturali. Per aver questa scienza, non fa bisogno conoscere i singolari enti numericamente distinti in natura, [...OMISSIS...] . I subietti materiali non si conoscono per se stessi, ma quello che li fa conoscere è l' universale oggetto della prima scienza, [...OMISSIS...] . In fatti, esclusa la materia, non ci rimane che la specie pura, che è già un universale, in quanto essendo unica può unirsi a più materie, e così esser causa formale di più enti distinti numericamente. Ma questa scienza suprema non si ferma a questo primo universale, bensì va agli ultimi che sono l' ente e l' uno, ond' ha per oggetto, «ta malista katholu», e questi Aristotele li dice i più rimoti da' sensi, [...OMISSIS...] . Ora questi universalissimi e da' sensi remotissimi, che si riducono all' essere, sono ciò che è massimamente scibile, [...OMISSIS...] . Ora ciò che è massimamente scibile non riceve l' essere scibile da altri, ma è per sè scibile; e in ciascun genere, secondo Aristotele, ciò che è massimo è quello che dà agli altri della propria natura. Così ciò che è massimamente scibile, dà all' altre cose scibili l' essere scibili; ciò che è scibile per sè, dà all' altre cose scibili d' esser scibili per partecipazione. [...OMISSIS...] . L' universalissimo dunque, cioè quello che è massimamente scibile e remotissimo da' sensi, deve esser conosciuto dall' uomo prima, acciocchè questi possa poi raccogliere da' sensi la scienza sua propria per induzione, e quello perciò è la mente in atto, [...OMISSIS...] (1). Di poi l' universalissimo o gli universalissimi che sono ciò che è scibile al sommo grado, è anche quello che contiene « « i primi che cadano nel pensiero e le cause » », [...OMISSIS...] . Certamente conviene anche qui lasciar da parte la causa materiale, perchè non merita nè pure a vero dire la denominazione di causa, avendo ella stessa bisogno d' una causa per esistere, cioè della forma, e non essendo essere, ma solamente una cotal potenza all' essere. Riguardo all' altre tre, se la specie è la causa prima e immediata degli enti naturali (2), l' universalissimo sarà la causa ultima di quest' ordine, la specie di tutte le specie, il che ci ricaccia alla dottrina di Platone, che l' uno sia la forma o causa formale delle specie. Ma in quest' universalissimo la cui scienza è chiamata da Aristotele «theia ton epistemon» e «ton theion», e «theiotate kai timiotate», c' è anche il Bene, la causa finale, e propriamente tra le cause finali l' ultima, [...OMISSIS...] . Ora questa è anche l' ultima causa motrice, [...OMISSIS...] (3), e questa immobile, appunto perchè è l' intelligibile per sè, e appetibile perchè intelligibile, [...OMISSIS...] (4). Ora questa è l' una delle tre essenze sostanziali ammesse da Aristotele, l' essenza sostanziale immobile, [...OMISSIS...] (5). Se dunque tutto ciò è l' universale anzi l' universalissimo; convien dire, che Aristotele prenda indubitatamente in altro senso l' universale, quando dice che « « nessuno degli universali esiste separato dai singolari » » (6), e che gli universali non sono essenze sostanziali, e non indicano essere, ma semplicemente modo di essere (7). Parmi che i luoghi frequenti in cui s' esprime in questo modo, e rifiuta le idee separate di Platone, abbian fatto gabbo ai commentatori, e impedito che s' intendesse pienamente la sentenza aristotelica. E` dunque da osservare attentamente, che Aristotele prende qui l' universale in senso di qualità comune agli enti, e nega che ciò che è comune agli enti possa essere la loro essenza, e nega questo per la stessa ragione, anche de' comunissimi, l' ente e l' uno, [...OMISSIS...] . Non nega dunque che l' essenza, oltre che inesistere nell' ente (composto [...OMISSIS...] ) di cui ella è essenza, esista anche in sè stessa: anzi questa è la costante dottrina ch' egli professa: [...OMISSIS...] . E per essenze incomposte [...OMISSIS...] intende tutte le specie, separate che sieno dalla materia, le quali sono puro ente, ente determinato. Ma quest' esistenza separata che dà all' essenza, questo inesistere in sè stessa, intende che sia soltanto nella mente umana, e che una sola essenza esista al tutto separata e da sè, e questa, come dicevamo, è la stessa mente. Accorda dunque a Platone che la specie esista eternamente in atto, ma solo nell' ente di cui è specie unita colla materia, e nella mente umana come incomposta. Ma gli nega, che questa sia ù una, ed è quella che dà l' unità alla materia; considerata poi nelle cose in ciascuna di esse è unica di nuovo. Ma il pensiero, paragonando queste cose tra loro, trova il comune : quest' è una vista del pensiero, e non è cosa che appartenga nè all' essenza separata, nè all' essenza propria de' singoli enti dov' è unita con materie diverse. Nè si può dire tampoco che la specie separata, e la specie negli enti sia una specie comune (il che condurrebbe all' infinito), perchè la specie separata è anteriore, e la specie negli enti è posteriore, e tra l' anteriore e il posteriore non c' è il comune: questo non essendoci che tra gli uguali. E veramente egli stabilisce, che comune non si può dire, se non ciò che si trova simultaneamente ne' molti (1). Ma l' uno , a ragion d' esempio, si dice bensì dei molti, ma non simultaneamente (2), perchè si concepisce l' essenza dell' uno anteriormente ai molti, e dei molti si predica posteriormente: ora tra ciò che è anteriore e ciò che è posteriore non c' è il comune, secondo Aristotele (3). Conchiude dunque « « esser cosa evidente che niuno degli universali esiste separato fuori de' singolari » » (4), pigliando la parola « universale » per comune . Egli dichiara ancor meglio il suo pensiero con quello che dice immediatamente in appresso: [...OMISSIS...] . Ammette dunque che la specie abbia un' esistenza separata, come un' essenza determinata, ma ciò che trova a riprendere nel sistema platonico si è d' aver fatto che questa essenza, che in quanto è separata è un individuo, ella stessa si trovi in molti, quando solamente si trova in ciascuno. Che cosa dunque sostituisce per ispiegare la partecipazione della specie a molte materie? Sostituisce la priorità e la posteriorità, e abolisce il comune. Dice, che la specie ha un' esistenza anteriore e così è una e individua; ha un' esistenza posteriore e così è ancora una e individua in ciascuna materia che la riceve; che la specie non ha dunque un' esistenza comune , e che questo comune non è che una relazione che aggiunge il pensiero. Vuole dunque, che l' essenza sostanziale rimanga sempre singolare o che si consideri in se stessa (esistente nella mente), o che si consideri negli enti che ella informa: vuole di più che l' uno o l' altro modo di essere appartenga alla stessa singolare essenza (1), e riprende Platone, come se avesse detto, esserci per ogni ente della natura due essenze, l' una separata ed eterna, l' altra sensibile che esiste per partecipazione di quella prima, poichè « « un' essenza non può comporsi di più essenze » » (2). Riconosce non di meno con Platone stesso la necessità, che indipendentemente da ogni materia, e quindi fuori della natura, esistano delle essenze sostanziali. Ma riprende Platone per aver confuse queste essenze separate dalla natura con quelle che sono nella natura, ed eterne colla natura stessa (3). Platone non conobbe, viene a dire, quali sieno le essenze separate al tutto dalla natura, e non potendo dire quali sono, prese gli enti della natura, e aggiungendovi il vocabolo stesso , per esempio dicendo: « « l' uomo stesso, il cavallo stesso » » [...OMISSIS...] , pretese così d' aver trovato l' essenza eterna, separata dalla natura, dell' uomo e del cavallo (4). Aristotele si dà tutta la cura di distinguere interamente le specie che sono nella natura e da questa passano nella mente umana, dalle specie che stanno fuori della stessa natura, intorno alle quali vuole che si faccia un discorso a parte (1). Queste essenze dunque separate dalla natura sono quelle che dice lontanissime da' sensi, per sè stesse i primi e più intelligibili, nelle quali è immedesimata la scienza e la cosa. Esse non vengono in composizione con alcuna cosa della natura, non sono le specie degli enti naturali (2), sono perfettamente singolari, esistono in atto, e non avendo potenza non si possono concepire con modi diversi, non ammettono contrari. In se stesse considerate adunque nega che tali essenze sieno universali . I principŒ supremi del ragionamento appartengono a queste essenze. Tra le quali ce n' è una ultima perfettissima che è il principio immobile del moto, e la causa finale di tutte le cose naturali. Tutte le cose tendendo all' atto tendono all' ultimo atto, che è pure il fine, ottimo e remoto, del loro movimento. Da quest' unità di tendenza nascono le loro qualità comuni ; ma anteriormente a queste c' è la radice materiale delle cose propria di ciascuna, distinta e contrapposta al fine ultimo, e di questa radice materiale non c' è una ragione comune (3). La prima causa dunque non è propriamente l' essere comune ; ma questo deriva dalla prima causa; e in questo senso anche questa causa dicesi universale . Di che la prima filosofia, appunto perchè tratta del primo, dice Aristotele, è anche universale, [...OMISSIS...] . Fa dunque dipendere l' universale dal primo , e dice che questo è l' ente separato ed immobile, [...OMISSIS...] (6). Quest' è semplice, attualissimo, non ammette contrarŒ, perchè non ha potenza di sorte: questo non costituisce propriamente le specie degli enti naturali, ma bensì il loro comune principio, di cui dice: « « C' è negli esistenti un certo principio, circa il quale non si può mentire » » (1). Ma la parola ente , che talora si prende per essenza sostanziale , che sola è davvero ente, secondo Aristotele, si adopera anche come un predicato universale accomunato a tutte le categorie. Quando dunque Aristotele combatte que' filosofi, che usano dell' ente e dell' uno come generi (2), allora egli s' appiglia a questo secondo e più esteso significato, e mostra che l' ente e l' uno non possono esser generi , perchè si predicano delle stesse differenze (3). Dice ancora, che se l' ente e l' uno fossero essenze sostanziali, tutti gli enti sarebbero essenze sostanziali, e non ci sarebbero gli accidentali, raccolti nelle nove categorie susseguenti alla sostanza, laddove «hekaston de to genos on» (4). Ma quando per ente intende la sola essenza sostanziale, allora l' ammette separato, ed anche universale. E della scienza, che tratta di esso, cioè della prima filosofia dice: « « La scienza è da per tutto propriamente del primo , e da cui dipendono l' altre cose, e per cui si dicono » » (5). Poichè dunque la prima scienza è dell' ente come ente, deve trattare del primo ente. Che se questo è la « « sostanza, conviene per certo che il filosofo abbia i principŒ e le cause delle sostanze » » (6). Ora il principio e la causa, secondo Aristotele, deve poter avere un' esistenza separabile (1), e così tra le essenze sostanziali ce ne deve essere una prima che sia al maggior grado essenza sostanziale, alla quale le altre sieno posteriori, come la cosa di cui il principio è principio, al principio, e la scienza di quella deve essere anteriore alla scienza di quest' altre (2). Ma questa prima essenza sostanziale, priva d' ogni materia, è conseguentemente il primo intelligibile. E quantunque ogni specie sia anche numericamente una, tuttavia la sua unità dicesi specifica (3), e quest' unità della specie è l' uno primo causa o principio, pel quale le essenze sono uno, il che è pur la dottrina di Platone (4). La prima essenza sostanziale dunque, una di specie, è anche separabile. [...OMISSIS...] Quello che è puro ente è appunto una causa che ha questi caratteri, perchè egli è anteriore ai contrari, e però non può aver contrari in sè, se è puro ente, non essendovi nulla fuori dell' ente (6). La prima essenza sostanziale dunque, separata e principio e causa di tutte le altre essenze sostanziali, è il puro ente, eterno, incorruttibile. Ma l' ente essendo uno di specie ne viene che egli, oltre esistere numericamente uno e primo e senza contrarŒ in se stesso, possa anche, senza perdere l' unità di specie, esistere nella materia, secondo che questa ha virtù di riceverne: e così accade che sia principio delle essenze sostanziali nella natura, e che si divida in generi (7), benchè egli in sè, puro d' ogni materia, non sia genere. E però la prima scienza, dice, tratta anche de' generi dell' ente, con tutte le sue differenze e contrarietà, che li costituiscono, in quanto tutte queste cose si derivano e si riportano al primo ente (1). E però il filosofo tratta di tutte le cose in relazione all' ente come ente, tratta cioè dell' ente, e di tutte le sue passioni (2). Dopo aver dunque detto che la prima filosofia tratta della prima essenza sostanziale separata e però principio e causa che non ha nè può avere in sè contrarŒ; domanda come questa si può trovare da noi, per qual via si può arrivarci, considerando sì la natura, che la cognizione nostra propria che ci formiamo per via d' induzione. [...OMISSIS...] Dal qual luogo mi sembra poter raccogliere che il progresso della ragione umana, col qual giunge alla prima causa, sia questo, secondo Aristotele: la ragione raccogliendo per induzione il comune perviene al comunissimo : quest' è l' essere svestito delle differenze: da questo salendo ancora, intende la necessità che ci sia l' Essere separato al tutto, prima causa dell' essere nelle cose; e ciò perchè essendo l' essere comune ci vuole un' unica causa che spieghi questa comunanza od universalità: convenendo ricorrere al primo uno, per ispiegare l' uno ne' più. Di qui assegna per oggetto della prima filosofia non solo l' essere separato, ma l' essere comune: [...OMISSIS...] . E dopo aver detto che tutto ciò che si riferisce al genere medicativo o salutare spetta alla medicina, continua dicendo, che in egual modo ciò che si riduce all' ente come ente spetta alla prima filosofia. [...OMISSIS...] La ragione poi, per la quale Aristotele dice, che il pensiero umano concepisce che esista fuori de' singolari un principio unicamente, perchè trova che c' è qualche cosa d' universale che si predica di tutte le cose, si è primieramente quella di Platone, che l' universale non può essere ne' singolari, perchè eccede da ciascuno e da tutti. Di poi perchè nell' universale si rinviene il necessario . [...OMISSIS...] . E ciò perchè l' universale abbraccia in potenza tutti i contrarŒ: onde se una cosa è in qualunque sia modo, deve di necessità essere, acciocchè abbia quel modo (4). [...OMISSIS...] . E così la prima necessità è una causa che rende necessarie l' altre cose che non sono tali per sè. [...OMISSIS...] , Tali sono i primi, [...OMISSIS...] , cioè l' ente e l' uno universalissimi da cui viene la dimostrazione (6). Questi universalissimi dunque non possono essere altramente in più modi o diversamente da quel che sono (7): non hanno dunque in sè stessi potenza alcuna. Quando dunque in altri luoghi dice che l' universale è sempre potenza, l' intende in altro modo e non intende l' universale in sè: nè intende i primi universali: ma intende l' universale delle cose finite : i generi delle cose finite, e non l' ente e l' uno, benchè li chiami primi generi. Ma altrove nega che sieno generi, ed è quando pone la questione diversamente, benchè non si spieghi chiaro: dico quando intende di domandare: « se l' ente e l' uno sieno generi delle essenze naturali ». Alla questione così posta risponde di no: chè non sono divisibili in ispecie: stantechè il genere che si divide in ispecie non si predica delle loro differenze, e l' ente e l' uno si predicano delle differenze: ma si dividono bensì in generi, cioè nelle dieci categorie, o piuttosto l' ente e l' uno esistono ne' vari generi come di conseguenza, [...OMISSIS...] (1). Poichè Aristotele distingue l' essere per sè, e il sussistere dell' essere, e aver l' essere, [...OMISSIS...] , e questo non è senza materia, benchè l' essere per sè sia da ogni materia purissimo (2). Il primo necessario adunque giace nel semplice ed universalissimo: questi sono i primi che tutti si riducono ad un primissimo, l' essere , il quale è il primo tra le cose scibili e verissimo, da cui procede all' altre cose l' essere scibili e l' essere vere; e questo essendo separato da ogni materia è intelligibile e intellezione ad un tempo: atto purissimo, causa finale, verso a cui tutti gli enti mondiali sono portati per un loro proprio impeto, [...OMISSIS...] , in tutt' essi insito per natura (3): questo è l' Essere necessario, il principio da cui pende il cielo e la terra (4), Iddio. Questo è il principio di tutte le cause, [...OMISSIS...] (5), e unisce in sè tutti i caratteri del principio, essendo egli il primo , pel quale o sono, o si generano, o si conoscono le cose (6). In quanto sono, egli è la forma delle forme, perchè Mente, [...OMISSIS...] (1): in quanto si generano, egli è il principio immobile del moto, perchè atto purissimo: in quanto si conoscono, egli è il primo intelligibile, da cui i principŒ del ragionamento, e quindi stesso il principio dell' Arte: dall' essere poi intelligibile procede che sia anche la causa finale, il desiderato dalle intelligenze, l' ottimo, il fine dell' Universo. Dopo di ciò s' intende come, secondo la mente d' Aristotele, convenga rispondere alla difficoltà che egli fa incessantemente intorno al definire il proprio oggetto della prima filosofia. Questa, dice, deve trattare indubitatamente de' principŒ e delle cause. Ma questi principŒ sono essi singolari o universali? [...OMISSIS...] Ci ha dunque da amendue i lati difficoltà: ci ha difficoltà ugualmente a dire che i principŒ sieno singolari, come a dire che sieno universali. Aristotele scioglie questo nodo al modo che vedemmo: riconosce tutto ciò, che è privo di materia, come un' essenza o specie singolare ed una, e, se trattasi della specie prima, come esistente di necessità separata, [...OMISSIS...] , poichè il primo necessario semplicemente è, [...OMISSIS...] (3). Ma questo che in sè stesso è attualissimo e non ha modi nè possibilità di contrari; se si considera rispetto alla natura e nella natura, non è nessuno degli enti naturali, ma è tutti gli enti naturali in potenza. Poichè « « l' universale, dice, è un certo tutto; comprendendo l' universale i molti come parti »(4) »: e quindi la prima filosofia appunto perchè ha per oggetto il primo e il comunissimo, tratta di tutte le cose, [...OMISSIS...] . Il Primo dunque cioè l' essere attualissimo in sè, è anche comunissimo rispetto al mondo, e però è la potenzialità del mondo, che esiste per questo, che gli atti, a cui questa potenzialità trapassa naturalmente, sono variamente limitati e non sciolti al tutto dalla stessa potenzialità, onde le specie mondiali: per il che l' essere intransmutabile (e veramente anche nel mondo l' essere è incorruttibile, e intransmutabile), è detto da Aristotele «pan,» e questo è il divino del mondo, [...OMISSIS...] (1). Ma sebbene l' essere comunissimo sia la causa e il principio formalissimo di tutti gli enti naturali, non è la loro essenza sostanziale, o la loro quiddità, che in tal caso sarebbero tutti un ente solo, perchè l' essere comunissimo è un solo, nè è separabile dagli enti naturali, non potendo esistere separato come comune (2), ma soltanto come singolare. Lo stesso essere dunque, uno di specie (3) perchè specie, è considerato da Aristotele sotto due riguardi o come atto purissimo o come potenza. Come atto purissimo è il primo ente, Dio. Come potenza è l' essere comunissimo, non sostanza, e non separato dalla natura (4). Ora ciò che è in atto e ciò che è in potenza, dice Aristotele, appartiene allo stesso genere. Ogni scienza ha per suo oggetto un genere. La filosofia prima dunque ha per oggetto l' ente come ente, sia questo considerato in atto o in potenza. Tratta dunque di Dio e dell' essere comunissimo: e riducendosi all' essere come essere tutte le cause, c' è una scienza sola di tutte le cause non meno nell' ordine della mente, cioè nell' ordine logico, che nell' ordine fisico cioè nell' ordine della natura (1). Non ho fatto menzione fin qui del frammento che ci rimane della « Metafisica » di Teofrasto, coll' intenzione di darne qui in fine un breve sunto. Per quanto a noi pare, il discepolo non s' è scostato molto dal suo maestro, e ci sembra piuttosto un compendiatore e un interprete d' Aristotele, che un filosofo che abbia voluto stabilire un' altra dottrina. In questo prezioso frammento sono proposte le principali questioni, ed esposte le difficoltà per scioglierle: ma la soluzione di esse o manca, o è indicata appena in poche e non sempre chiare parole: nel che pure non va lontano dalla maniera nella quale sono scritti i « Metafisici » aristotelici. Comincia da quelli che al modo d' Aristotele chiama «ta prota». Dice che, secondo la sentenza d' alcuni, i primi non possono esser raggiunti da' sensi, sono intelligibili, diversi da ciò che è nella natura perchè immobili e immutabili. Laonde la teoria di questi è la più eccellente e maggiore. Ciò posto, espone per ordine le diverse questioni intorno ai primi , alle quali si riduce quella che Aristotele chiama prima filosofia. Ripassiamole brevemente. Comincia da questa questione: « Se gl' intelligibili abbiano un certo consenso e quasi una società colle cose della natura, o no ». Quest' è in fatti la questione di tutte principale e difficile, il poter conoscere ed assegnare il nesso tra il mondo e i primi , tra la natura reale e l' ideale: a questa principalmente si volse la greca filosofia: noi abbiamo veduto quanto Aristotele vi si travagliò. Da diversi luoghi dello Stagirita si raccoglie che tra i migliori filosofi, cioè tra quelli che ammettevano la mente, c' era dissensione circa la soluzione da darsi: due erano le sentenze principali, quella d' Anassagora e quella di Platone: e tra queste prendeva il suo posto Aristotele. Anassagora aveva unita la mente alla natura, Platone separò al tutto dalla natura le idee delle cose naturali, come essenze da sè esistenti. Aristotele concesse a Platone che ci sia una specie separata, la mente; negò che le specie intelligibili delle cose, benchè eterne e semplici, esistessero separate e da sè, ma solo unite perpetuamente colla materia e costituenti la natura. Del pari concesse ad Anassagora che la mente fosse nella natura, perchè c' erano le specie intelligibili, una delle quali si costituiva da sè, e diveniva mente umana; ma negò contro di lui che altra mente non esistesse, e pose la mente divina o più menti divine separate dalla natura e da ogni contagione con essa. Disse poi che il nesso tra questa mente separata e la natura consisteva nell' esser ella sostanza per priorità, e per posteriorità così chiamarsi la mente umana e tutte l' altre essenze sostanziali. Al che sembra conforme la risposta che soggiunge Teofrasto alla proposta questione: [...OMISSIS...] Ammessa dunque l' esistenza eterna de' primi intelligibili e la loro società colla natura, viene la seconda questione: « « Qual sia la natura di questi intelligibili » ». Fa qui menzione di due sentenze, l' una che ammette essere i detti intelligibili nelle sole entità matematiche, che sono punti, linee, figure, ecc.: l' altra essere il numero, che alcuni, dice, fecero « « il primo e al sommo principale » ». E trova l' una e l' altra insostenibile, perchè tali cose non presentano sufficiente cognazione co' sensibili, che valgano a darne spiegazione, non potendo somministrare a' sensibili nè la vita, nè il movimento. Di che conchiude che convien ricorrere « « a un' altra essenza antecedente e più prestante » » lasciando però in dubbio « « s' ella sia una di numero o di specie o di genere » », dove si vede la perpetua esitazione aristotelica, di cui abbiamo fatto menzione. Riconosce però che quella essenza, sebbene esistente in più subietti, deve esistere avanti tutto in un primo . Così pure Aristotele che pone il divino negli enti naturali, e in certe essenze o menti separate, ma primieramente nella Mente suprema principio del moto, principio unico di numero, ma specie egli stesso. Ecco come Teofrasto compendia questa dottrina: [...OMISSIS...] . E venendo a indicare la connessione di questo principio coi sensibili, la trova nell' essere esso causa di moto, ma causa immobile, onde esige un altro, che, desiderando quello, si mova il primo, e questo è il primo motore naturale - il primo Cielo. [...OMISSIS...] Qui propone diverse questioni sul natural desiderio che move da prima i cieli: e dice che il primo movimento è massimamente quello del pensiero, da cui l' appetito: domanda perchè solamente quelli che si movono in giro siano mossi da questo desiderio, e non le cose mobili che occupano la parte media del mondo. Domanda se questo avvenga per impotenza del primo, che non può trapassare, e dice che sarebbe assurdo: e pare lo attribuisca all' esser quel primo incomprensibile alle nature inferiori e non composto, quando queste sono composte; in una parola « « all' impotenza che hanno queste di ricever di più » ». Domanda in appresso se i principŒ sieno informi e indeterminati, ovvero già finiti e aventi la forma, come dice, si insegna nel « Timeo ». E inclinando a questa seconda sentenza soggiunge: « « Poichè l' ordine, e il finimento sono al sommo familiari alle cose eccellentissime » ». Ma oltre le sentenze di quelli che reputano tutti i principŒ essere formali, e di quelli che ammettono solamente principŒ materiali, Teofrasto accenna la terza di quelli che vogliono essercene degli uni e degli altri, e « « in amendue asseriscono consistere la perfezione, facendosi ogni sostanza dai contrari » ». Ma che ci sieno dei principŒ materiali pare non doversi ammettere; poichè se il cielo e l' altre cose sono determinate con ordine, ragione, forme, forze, e circuiti: come non ci sarà nulla di tutto ciò ne' principŒ? Conviene d' altra parte che ci sieno nella natura le specie, acciocchè si possano ridurre le cose naturali alla prima causa, in grazia di cui esse operano. Reca quindi la questione: « Se i principŒ sieno in moto o in quiete »: e mostra che colla quiete può stare un' azione immanente, e questa come cosa più onorabile appartiene a' principŒ, non il movimento che è de' sensibili: dice finalmente riferirsi da taluno il movimento « alla mente e a Dio »come primo motore. Cercando poi come si divida l' ente in materia e forma, dice, che questo accade per la natura dell' ente che è uno in potenza ed in atto, e di qui anche la ragione, perchè l' universo consti di contrari, e gli enti differiscano tra loro. Le differenze si riscontrano nello stesso sapere umano: gli universali, altri sono specie, altri generi. « « Ciò che diciamo propriamente appartenere alla scienza è d' intuire il medesimo ne' molti, o secondo un rispetto universale e comune, o secondo una qualche cosa singolare. - Il fine poi da entrambi questi rispetti. Ci sono anche alcune cose che sono fine degli universali: poichè qui sta la causa » ». E dice che il medesimo è medesimo o di essenza sostanziale, o di numero, o di specie, o di genere, o d' analogia: e questi sono altrettanti modi o generi di sapere, ciascuno de' quali ha qualche cosa di principale e di massimo : e questo c' è ne' primi , negli intelligibili , ne' mobili : da questo principio adunque in ciascun genere si dee discendere colla specolazione alle cose inferiori. Il che ben dimostra come il sistema aristotelico difficilmente possa ridursi all' unità di un solo principio: ond' anche gli scappano molte cose, che prive d' ogni ragione rimangono abbandonate al caso, a cui Teofrasto, fedele al suo maestro, ne lascia una gran parte. Confessa ingenuamente trovare cosa molto difficile il definire, che cosa sia lo stesso sapere: gli universali sembrano non bastare perchè si predicano in molti modi: i sensibili non costituiscono alcun sapere senza gli universali. Come e di quali cose investigare le cause tanto de' sensibili quanto degl' intelligibili, o conduce al dubbio o involge in un discorso assai oscuro. Certo tanto rispetto agli uni quanto rispetto agli altri nella ricerca delle cause non si può andare all' infinito: lo stesso sensibile e lo stesso intelligibile è come un principio: l' uno principio nostro, l' altro principio assolutamente, ovvero questo fine , quello a noi principio . Vuole dunque che per noi sia principio il sensibile, ma quello che è principio assolutamente e che è anche fine sia l' intelligibile. Pare dunque che queste due cose le divida assolutamente tra loro, assegni loro due principŒ irreducibili. Nello stesso tempo però riconosce che non possiamo partire da' sensibili per arrivare ai principŒ assoluti se non per mezzo della causa . Non è dunque da' soli sensi che noi caviamo la cognizione, ma dee precedere la cognizione della causa, e con questa, come mezzo del conoscere, possiamo da' sensibili ascendere ai primi : il che conferma quello che noi abbiamo osservato dell' induzione aristotelica, che suppone, acciocchè possa aver luogo, un intelligibile primo abitualmente esistente nell' anima. E` dunque notabile questo luogo di Teofrasto: [...OMISSIS...] . Ancora due altre sentenze di Aristotele si possono confermare con questo prezioso frammento del suo discepolo: l' una che le forme della natura non si potrebbero spiegare senza supporre l' esistenza di Dio, l' altra che esse vengono da Dio come desiderato, come fine a cui si slancia la natura, il quale slancio è appunto la forma di cui ciascun ente naturale si veste.

Epistolario ascetico Vol.I

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Non parliamo mai agli uomini, se non ciò che noi possiamo provare loro con delle prove manifeste, acciocchè non abbiano ragione di rimproverarci; tanto più che Gesù Cristo ha detto « cavete ab hominibus ». Perdonatemi, mio caro, anzi carissimo amico e fratello, se sono così lungo e così minuto in queste massime. Penso che se mai Iddio ne' suoi arcani impenetrabili avesse destinato, che ciò che noi facciamo portasse qualche consociazione di persone in un corpo per servire a' suoi fini; l' esito di tutto questo corpo dovrà dipendere dalle massime che si stabiliscono a principio. Dunque io giudico di somma importanza l' occuparci seriamente a conoscere e stabilire quelle massime che si debbono abbracciare giusta lo spirito di Dio. E trovo che una di queste massime nel trattare cogli uomini dee essere quella di usare loro un sommo rispetto ed una somma delicatezza, e non solo di trattare con essi colla schiettezza e semplicità evangelica, cioè non solo procedere con veracità in tutte la cose, ma ben ancora non avanzare cosa, senza che la proviamo. Mio caro, andiamo innanzi con purità di spirito e costanza, e riceviamo dalle mani del Signore le umiliazioni senza temerle; perocchè le umiliazioni sono quelle che ci aprono gli occhi dello spirito, eccitano la fede, promuovono la speranza, ed accendono in noi veramente l' amor di Dio, che è la sua grazia che si comunica agli umiliati. Sento che Molinari l' avremo presto Diacono: sia ringraziato il Signore. Qui mi si è presentato qualche soggetto; ma vi dirò tutto in voce. Dobbiamo avere pazienza e vivere in pace, meditando sulle anime nostre. Io voleva partire di qui già è molto. Vedo che fu assolutamente la divina Provvidenza quella che mi trattenne, e mi tratterrà qualche poco di tempo ancora, ma non molto. Sebbene io sia sempre al monte Calvario col mio pensiero e nella cara vostra conversazione, tuttavia di questo indugio ringrazio Iddio, come di tutte le cose. Le vie del Signore sono elevate, ed egli conduce da lontano i suoi disegni. Mio caro, pregate, come fate, per me. Io non celebro il santo Sacrificio che per voi, e per me indegnissimo peccatore, acciò Iddio ci salvi, e ci faccia esecutori fedeli della sua volontà che è la piena nostra santificazione. Le cose che ho qui stampate sono tutte rivolte ad un solo scopo, perchè un solo fine hanno tutti i miei pensieri e desiderii, la salute delle nostre anime. Addio; vivete nella pace del Signore. Egli vi empia di lume: e questo lume, lucerna a' nostri piedi, sia la sua legge. [...OMISSIS...] 1.30 Ciò che mi dite di sperimentare, o mio carissimo, dall' affetto e dall' attaccamento a ciò che avea di visibile la vostra figlia, è un argomento da conoscere sensibilmente qual sia la lusinga di questi nostri sensi che si apprendono istintivamente alle cose terrene senza guida di ragione, e da queste è poi difficile lo staccarli per ragione, la quale pare che non abbia, quasi direi, più diritto d' intervenire a disciogliere que' legami, che non è intervenuta a formare. Ed è per questo che io credo che S. Giovanni dicesse che tutto ciò che è nel mondo è pericoloso; anche perchè il solo uso, la sola consuetudine e famigliarità alle cose sensibili ci produce l' effetto di avvincolarci ad esse, anche senza che noi ce ne accorgiamo e senza che possiamo rimproverare a noi stessi nessuna azione particolare gravemente peccaminosa; e quindi diminuisce la libertà del nostro spirito, e lo spoglia dell' interezza della sua forza, colla quale egli dovrebbe tendere nel solo Dio e a Dio solo congiungersi. Ma tutta la debolezza che noi veniamo sperimentando, tutta quella infermità della carne che proviamo anche quando lo spirito è pronto, qual bello e verissimo argomento di umiltà non ci dev' essere! E quanto non è consolante per noi stessi il compenso della nostra umiliazione, per ottenere la quale Iddio permette la stessa nostra infermità! Poichè quando siamo umiliati, allora abbiamo resa giustizia a Dio e lode alla verità; e questo è lo stato dove la grazia non trova più impedimenti e viene infusa nell' umile a ribocco. Amico carissimo, dandomi voi presa colle vostre riflessioni di dir queste cose, me la date ancora di considerare in me stesso e l' infermità della carne e il debito della umiliazione; che mi aiuterete ad ottenermi altresì da Dio, come caldamente ven prego. Qui mi dà gran conforto il trovare una evidente e copiosa benedizione del Signore: l' affluenza a questa Chiesa è grande; la dottrina cristiana sì per gli adulti che pe' fanciulli è frequentata e sentita con avidità somma e con manifesto profitto; al confessionale non si può supplire; le comunioni sono molte, non solo i giorni festivi, ma anche i giorni feriali. Tutto merito principalmente di D. Giovambattista, il quale lavora tutto il giorno, e nè pure la notte talora ha riposo, come la notte passata che spese ad assistere un moribondo, dopo un giorno in cui non avea trovati che pochi momenti da pranzare e cenare fuori d' ora. La sua robustezza lo assiste, è vero, ma niente varrebbe senza la grazia del Signore, da cui viene la vera fortezza. A Dio. Tanti miei complimenti in casa Patrizi, ed alla vostra Mariannina. Salutate pure D. Luigi, se è costà arrivato. [...OMISSIS...] 1.30 Spero che l' aria di Napoli, i bagni e la distrazione gioveranno a sollevare lo spirito, non solo il corpo della vostra Mariannina, ed il vostro medesimo; giacchè dobbiamo aiutarci anche di questi mezzi esteriori per ottenere quello che la nostra infermità non ci concede di ottenere per puro sforzo di virtù. Conviene però nello stesso tempo suscitare in noi la fede, credendo fermamente che Gesù Cristo è onnipotente, e che dopo poco tempo (giacchè questa vita e il corso di questo mondo è breve) noi riaveremo per virtù della sua onnipotenza quello che abbiamo perduto, o piuttosto quello che si è nascosto ai nostri occhi. Ho perduto anch' io il padre e dei cari amici, ma immagino che stieno facendo un viaggio, dal quale aspetto che ritornino e che io li possa di nuovo riabbracciare. Gran conforto mi dà il pensare che verrà il giorno in cui li possederò vestiti delle stesse carni e delle stesse fattezze che avevano quando mi lasciarono, li vedrò e li toccherò e converserò con loro liberamente fino che a me piace, perchè essi saranno la mia delizia, senza che io li perda più mai. Tutta la rassegnazione adunque nella perdita de' nostri cari, per noi cristiani, se abbiamo fede, non si riduce se non ad un poco di aspettare fin che Dio voglia; ma noi non abbiamo, veramente parlando, perduto nulla, nulla è morto per noi: tutto vive, o al più dorme. Ma conviene, come dico, fare atti di viva fede, credendo che Dio è onnipotente, e che ci può pienamente consolare. [...OMISSIS...] 1.30 Vi ringrazio molto del giudizio vostro che mi comunicate sulle carte consegnatevi che racchiudono la descrizione della progettata istituzione. Voi avrete ben compreso da quelle, come l' effetto che porterebbe una simile istituzione, se a Dio piacesse che avesse luogo, sarebbe quello di mettere in comunicazione tutte le buone persone fra di loro, e, quasi direi, di organizzarle al bene, opponendole all' empietà che si unisce con tanto ardore, tutte in un sol corpo. Sembra che ciò sia reso necessario nei nostri tempi, giacchè anche i buoni debbono avere il loro diritto di difesa. Questo dico è l' effetto che ne verrebbe. Ma in quanto al piantare una istituzione che porterebbe questo effetto, io sono intimamente persuaso che non può essere opera di uomini, ma di Dio solo: e che quindi si dee in questo affare tener lontanissimo lo spirito d' intrapresa: spirito umano, e fallace, col quale certamente nulla mai si farà che sia veramente buono. Per questo tutto il nostro studio consiste nel non mettere ostacoli alla divina Bontà: è un affare negativo: e nel cooperare alle occasioni che la divina Provvidenza ci manda senza punto cercarle da noi stessi; questo avrete veduto che è una delle massime fondamentali esposte nelle carte che avete in mano. Ma si dee riflettere ancora un' altra cosa importante. L' organizzazione dei buoni l' ha piantata già Gesù Cristo nella sua Chiesa: non se ne può dunque creare un' altra: si dee attenersi strettamente all' organizzazione della Chiesa, che consiste nel Papa, Vescovi, Parrochi. Questi sono i centri, i due primi certo d' istituzione di Gesù Cristo, ed il terzo è posto dalla Chiesa, sulle traccie del suo Fondatore. Nulla dunque dee essere staccato da questi centri. Io son d' avviso che siamo venuti in tempi ne' quali nessuna istituzione può più sostenersi se non per la forza di questi centri inconcussi, su cui la Chiesa stessa è fondata. Esaminando voi la carta che avete in mano, vi accorgerete ch' essa non descrive se non un modo, onde si possa un poco alla volta rannodare, stringere, sottomettere tutte le buone istituzioni a quelle potestà costituite da Gesù Cristo, in un modo naturale però; sicchè tutto nella società dei cristiani vada a suo luogo. Considerate come gli ascritti ed i figlioli adottivi sono legati coi superiori della società, i coadiutori esterni secolari e laici sono pure avvincolati agli stessi superiori, i quali col tratto del tempo vanno a cangiarsi in altrettanti pastori della Chiesa, se Iddio a ciò li chiama. Ora egli è evidente che tutte le altre istituzioni, a qualunque buono scopo formate, potrebbero esser parti di questa natura di società, e quindi potrebbero esser tutte incorporate armoniosamente in un corpo, purchè però abbiano per fine la vera gloria di Dio e la carità. Meditando questi principii voi, signora Marchesa, colla vostra penetrazione potrete conoscere assai bene la natura di una società di cui non esiste che il piccolo seme, e potrete conoscere quanto questo seme potrebbe esser fecondo nelle mani di Dio. Vi prego però di non far uso di queste confidenze che con voi faccio, Marchesa, per l' alta stima che m' avete ispirato, se non colla massima circospezione. E` assai facile il non essere intesi, quando si parla di cose che sono ancora puramente possibili. Contentiamoci adunque di stare al fatto: io sono veramente contentissimo di questo mio eremitaggio, e nulla più cerco. Faccia poi il Signore, la cui grazia sola desidero. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.30 La cara vostra del 26 agosto mi ha dato molta afflizione secondo la carne, sentendovi ammalato: ma molta consolazione altresì secondo lo spirito, nel quale finalmente viviamo. Ringrazio di cuore Iddio sentendo che voi dichiarate di riconoscere come teneri segni dell' amore suo gli incomodi che manda al vostro corpo; ed egli è pur così, mio caro; sono pegni di un amor singolare, prezioso, sublime. Sebbene io sia pur troppo insofferente, tuttavia ogni qual volta mi rammento i miei abituali incomodi, li riconosco e li confesso per tali, e so di non poterne abbastanza ringraziare Iddio. Nessun miglior tempo per esercitare la pazienza e l' umiltà che quello, nel quale siamo infermi. Quale aiuto per essere compresi dell' altezza dei giudizi di Dio non è per noi il sentire la dissoluzione del corpo nostro, e quanto essa ci sia sempre imminente! e come possa riuscirci repentina! Cade ogni vana presunzione a questo pensiero, e la menzogna del nostro orgoglio fa luogo alla verità del nostro niente, e qualunque piccola confidenza in noi stessi ci muore in seno, dove sorge un abbandono ed una confidenza tenerissima in Dio solo. Sì, mio caro, così è. Per altro rendo grazie a Dio del sentirvi privo di febbre ora, essendo egli che mortifica e vivifica; e spero che vantaggerete nel corpo ogni dì. Ho gran desiderio poi che mi teniate informato accuratamente del vostro stato, e se non potete voi, pregate di ciò il caro Quin, a cui farete i miei più teneri saluti. La morte della Marchesa Patrizi me l' avea scritta già il Conte Mellerio da Albano. Anche qui c' è la mano di Dio, e noi adoriamola. Spero che de' passi da voi fatti per la partenza non ve ne verrà cosa alcuna di sinistro; perchè non ci poteva esser nulla di dispiacevole, come a me sembra, in una gita autunnale, anche venendo conosciuta: di questa veramente si trattava, come eravamo restati intesi, lasciando alla divina Provvidenza di fare il resto. Oh! quanto è dolce abbandonarsi nelle sue mani, senza curiosità sul futuro! Il vivere coll' incertezza del futuro, e colla quiete perfetta nelle mani di Dio, era il desiderio dei Santi, ed è una disposizione a Dio carissima. Questi sono i vostri sentimenti, come raccolgo dalla cara vostra; e non mi faccio maraviglia se in questa piena ed umile conformità al volere divino, voi troviate, come mi dite, una gran pace e la costanza nei buoni proponimenti. Mi è pure cosa assai dolce il sentire come voi siate nel perfetto equilibrio di volontà anche circa il presbiterato, e disposto a fare solo quello che il vostro confessore e gli altri Superiori vi ordineranno. Quanto dite poi del sentimento d' indegnità che provate nel vestire gli abiti diaconali, è lume di Dio, che vi fa vedere la verità; giacchè la sola corruzione nostra originale, l' ignoranza nostra, la presunzione innata e la concupiscenza ereditata ci mettono tanto in basso, e ci rendono così vili e spregevoli per noi stessi, che non si può esprimere nè concepirlo appieno; ed è la pura misericordia di Dio quella che gratuitamente ci ha infusa la grazia nel Battesimo ed ha vivificato il nostro spirito: sebbene la nostra carne sia ancora morta, e fruttificante sempre morte. Laonde quanto più ci abbassiamo, tanto più ci accostiamo alla verità. Intanto v' abbraccio con tutto il mio cuore nel Signor nostro, ed in Maria nostra tenera madre. Abbracciate pure per me il signor Quin. Abbiate cura della vostra salute, e rendetemene informato diligentemente. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.30 L' afflizione che voi dovete avere per la morte della povera Giovannina Patrizi, e che io divido con voi, mi stringe a scrivervi la presente per condolermi ad un tempo, e sfogarmi con un tanto amico. Non è solo la mancanza della Patrizi che mi accuora, ma il dolore che involontariamente ella produce morendo a' suoi più stretti congiunti, al nostro egregio Mellerio, ed a voi che vedete accresciuto dolore colà appunto, onde vi consigliavate di attignere la consolazione del primo dolore. Il Signore non senza misericordia fa tutto, perchè egli è ottimo; e fosse ancor più duro il caso, noi dobbiamo sempre vivere pronti e disposti di piegar il capo, e dire: sia benedetto il suo nome. Qual sicurtà possiamo mai avere in tutte le cose che ci circondano? Nissuna; e se noi ne poniamo alcuna in esse, operiamo da stolti; perchè non è motivo da dover credere stabile ciò che di sua natura è mutabile e transitorio, e che non dura alcun poco di tempo, che per puro accidente. Se noi giudichiamo così delle cose umane, com' elle meritano, noi ce le vedremo sottrarre anche tutte l' una dopo l' altra, e non ci maraviglieremo, non ci turberemo di soverchio dolore; giacchè vivremo apparecchiati a vederle sparire ogni dì, ringraziando Iddio ogni momento che non ci sono ancora sparite; giacchè è più maraviglia che esse persistano, che non sia ch' esse ci sfuggano, e svaniscano. Ho scritto anche al nostro Mellerio; ed attendo nuove di tutti voi con impazienza. M' imagino già il ristoro che saprete derivar alla tribolazione, in cui vi mette il Signore, dall' orazione fatta al piè della croce, in compagnia della nostra addolorata Madre, che tanto perdea più di noi, e che pure più di noi era nel suo dolore rassegnata e costante. Salutatemi la povera Mariannina con espansione. Spero di vedervi presto, cioè in su la fine di questo mese, se altro indugio non interviene. Abbracciate Mellerio e D. Giovanni. Voi siete tutti meco nelle mie indegne orazioni. Addio. [...OMISSIS...] 1.30 Vi ringrazio di avere consolata la mia carissima signora Madre, nell' averle detto la verità del mio stato e della mia posizione e abitazione. Aggiungete che sono ora in sul ripararmi anche più dal freddo secondo i vostri consigli: faccio chiuder le scale per modo, che andando in refettorio non si debba toccar l' aria del cielo sereno, ed in refettorio stesso colloco una buona stufa che può stare in prova colle tedesche. Insomma si va migliorando, almeno pel corpo; così fosse per l' anima, mio caro, che è poi l' unica cosa importante! Oh qui sta il tutto! La vera sapienza è in quel piccolo e semplice libro che si chiama Vangelo; là c' è tutta: e se non fosse temerità la mia, vorrei pure consigliarvi che di questo librettino voleste leggere non più che pochi versetti al giorno, ma pensando che vengono fuori dalla bocca di Dio, e che si debbono intendere con semplicità, e senza stiracchiature interessate: poco tempo ci vuole, ma in quel poco tempo s' odono le parole della vita. Io per me vi conforto a farlo quanto so e posso, e spero che ci saranno di consolazione al cuore che si riscalda con quelle parole, e si fa in noi ardente mentre si ascoltano. Questo consiglio mi cade dalla penna in contandovi dello star bene del mio corpo, cioè di questo corpo che per quanto stia bene, si va però tuttavia indubitatamente a perire fra poco tempo. Così è, e la verità è una sola, immutabile. Amen , perchè mi è caro che così sia, perchè amo la verità. Addio mio caro: non più, se non che v' abbraccio insieme con don Paolo strettamente. Al signor Arciprete i miei più affettuosi saluti. Continuatemi l' amore, di cui mi fido; voi pure fidatevi, che v' amo. [...OMISSIS...] 1.30 La cara vostra lettera de' 22 ottobre, giuntami alquanto tardi, mi ha consolato per le notizie che racchiude, nelle quali vedo la misericordia di Dio. Ciò che mi ha più di tutto consolato, si è la concordia che regna fra di voi, e la perfetta sommissione di don Giulio e dei giovani che mi accennate, ne' quali ponete molta speranza; giacchè questa perfetta unione e sottomissione al proprio superiore, non riguardando la persona ma ciò che rappresenta, dee esser proprio il gran mezzo d' ottenere la grazia e benedizione di nostro Signore Gesù Cristo, che è piaciuto al Padre per la sua ubbidienza. Anche qui le mie speranze si fondano nel sembrarmi che si vada guadagnando nella virtù dell' ubbidienza; qui, dico, dove la virtù dell' ubbidienza è più meritoria. Ah sì, è più meritoria perchè colui che hanno eletto per Superiore è l' infimo di tutti! l' hanno voluto eleggere a malgrado che egli prima volesse far noto ad uno di loro tutte le iniquità della sua vita, e dando a lui libertà di parlare cogli altri, perchè conoscendolo tanto indegno mutassero pensiero. Si fece anche un digiuno con orazioni per tre giorni pregando Iddio che rischiarasse le menti, ma fu tutt' uno. In fine accettò di esser capo provvisoriamente in fino a tanto che si potrà eleggere un capo stabile secondo le Costituzioni. Io ho vergogna a dirvi chi questi sia; ma la vostra carità sa bene già, con questo solo che ho detto, per chi pregare. Mi consolano pure le notizie che mi date del Collegio e delle opportune persone che avete trovate per attendervi, e spero un grande bene dalle Conferenze spirituali già incamminate. Le « Massime di Perfezione », che avete scelte per materia delle medesime, mi sembra che sieno fondamenti da gittarsi, e stimo che non sieno mai intese abbastanza, mai abbastanza discusse, meditate, sviscerate, ed in tutto osservate. Come vi sarete accorto, esse formano la base di tutte le Costituzioni. Noi abbiamo pure cominciato a farle argomento delle nostre Conferenze secondo un piano regolare. Fin qui per argomento delle Conferenze aveva dato quelle materie che mi sembravano più urgenti pel buon ordine e regolamento della Casa, come sarebbe: 1 dell' importanza che le ore della giornata siano bene distribuite e che sia mantenuto l' orario esattamente; 2 sul silenzio; 3 sull' impiego del tempo; 4 sul portare i difetti l' uno dell' altro; 5 sull' ubbidienza; 6 sull' abituale raccoglimento, ed altri simili oggetti. Ma ora si comincierà a parlare della perfezione, e a far sì che si convertano in succo e sangue le « Massime »: perchè il giorno d' Ognissanti fu considerato come il principio della Prima Prova , che si farà in tutto quello che sarà possibile a tenore di ciò che prescrivono le Costituzioni. Finite poi le « Massime », o si ripeteranno un' altra volta, o si prenderanno per argomento le Regole comuni , di cui vi manderò copia, coll' intenzione di ripetere le Conferenze sulle « Massime » in altro tempo: perchè tali Conferenze sopra oggetti di capitale importanza vanno di quando in quando ripetute. Avete fatto bene, mi sembra, a diminuire le fatiche del confessionale, giacchè troppo vi resta da fare nelle altre occupazioni che non potete al presente abbandonare. Per ciò che dite dello scoraggiamento che sentite nel vostro spirito, io credo che ciò sia voluto da Dio per farvi sperimentare l' umana miseria e farvi conoscere col fatto che avete bisogno di Lui, ch' è il solo fonte della forza, e per farvi incessantemente ricorrere ad un tal fonte e confidare in Lui solo. Se noi sentissimo molto coraggio e molta forza nel nostro spirito, forse ci dimenticheremmo di dimandare a Lui continuamente aiuto e sostegno; ma sentendoci venir meno, siamo ogni momento costretti a gridare: « Domine, salva nos, perimus »: ed al Signore sono accettevoli le grida della nostra umiltà e del sentimento della nostra impotenza. Che se poi ciò nasce dalla poca vivezza della nostra fede, anche allora l' esperienza che proviamo del nostro nulla può avere in compenso il merito di ottenerne maggior dose coll' orazione. In quanto all' altro impedimento che trovate in voi stesso nel peso del vostro corpo che desidera una nutrizione confacente, e cerca un riposo nel suo ben essere; io credo bensì che sia un giusto motivo da conoscere in noi stessi una disarmonia e deformità originaria, e per questo da piangere e da sclamare: « quis me liberabit de corpore mortis huius? » ma credo ancora che sia tale da non dovervene punto nè poco turbare. E a questo proposito mi sembrano buone queste due regole: 1 se siamo obbligati da' nostri doveri ad astinenze ed altre privazioni e mortificazioni corporali, badar bene di non darla vinta all' inclinazione del corpo, ma ad ogni costo far che vinca lo spirito; 2 se poi si tratta di astinenze e mortificazioni libere che imponiamo a noi stessi, allora farne quello che si può con libertà di coscienza, e quando si manca non turbarsene, o discoraggiarsene punto: ma in quella vece fare un atto di sincera umiltà dicendo a noi stessi: « qual maraviglia che non abbiam potuto mortificarci? maraviglia è che non abbiamo fatto di peggio »; e in quest' atto di sincera umiltà riconoscere la nostra estrema debolezza, che pur troppo ci fa venir meno anche nelle più piccole cose. Ciò ci servirà molto per allontanar da noi la tentazione di essere un qualche cosa nella via dello spirito, mentre pur nulla siamo. E questa regola di compensare con un atto di umiltà quell' atto di mortificazione che non siamo stati capaci di fare, mi disse una persona a cui l' ho insegnata, che la trovò efficacissima per acquistare la pace del cuore, giacchè prima di praticar questa regola s' inquietava e disanimava quando mancava a qualche mortificazione prefissasi; ma dopo nel riconoscimento della propria insufficenza si tolse a tranquillare. In quanto poi a quel continuo istinto di aspettare un riposo nel buono stato del nostro corpo, e nel provare il senso troppo vivo della prosperità e buona nutrizione del corpo, io confesso che è pure una gran pena per lo spirito, un gran timore, una gran croce; ed io la provo continuamente. Tuttavia è l' intenzione dello spirito quella che si dee tener desta e diretta continuamente a Dio, e come dicono i Santi Padri, è l' apice della mente. Ecco come dice il Libro dell' Imitazione: [...OMISSIS...] ; e questa è la via della santa libertà di spirito, coll' occhio dell' intenzione mirar in Dio solo, ed ivi finir con tutta la nostra libera volontà, e sopportar nel resto noi stessi e la nostra infermità. Certo non siamo capaci di grandi cose: persuasi di questo ci contenteremo di tutto, e ringrazieremo Iddio di non far peggio: altro non possiamo fare che riconoscer questo ed abbandonarci del resto in Dio. Amiamoci in lui; giacchè la carità è il contrassegno dei discepoli di Gesù Cristo: qui siamo un cuore e un' anima sola. Ci si è aggiunto da pochi giorni un altro compagno, di cui spero bene: fu la Provvidenza sola che ce lo mandò: riceviamo ciò che ci dà, rendendo grazie. Preghiamo unanimemente. Ogni sera nelle orazioni comuni qui preghiamo anche per voi. Abbracciatemi il nostro caro Giulio. Il caro don Giovanni vi fa tanti saluti nel Signore, come anche li fa a Giulio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.30 Voi mi chiamate Padre, e non sono che un figlio discolo: ommettete quella espressione che mi fa tanto arrossire e vergognare di me stesso, e chiamatemi fratello, se così vi piace, che me ne trovo io anche troppo onorato: ma via, per amore poi posso essere e vi sono fratello. Mi ha consolato moltissimo la vostra lettera, come pure ha consolato moltissimo il nostro caro fratello Don Giovanni, primieramente per ciò che dite della vostra persona. Ringrazio il Signore che vi accresca forza e che siate arrivato colla meditazione ai tre quarti d' ora. Questo mezzo della meditazione lo tengo molto importante: noi ne abbiamo un piccolo metodo in iscritto cavato massimamente da S. Ignazio: è buono che imparino tutti un buon metodo, e vorrei che questa fosse una delle prime vostre cure circa i vostri compagni di far sì che imparino bene il modo di meditare. Questo del meditare, quello di esaminare la coscienza e quello di pregare con intelligenza e attenzione, sono i tre principali istrumenti della vita spirituale. Mi ha pure consolato il pensiero che mi manifestate di far dare un piccolo passo innanzi all' unione questo santo giorno di Natale prossimo. - Ho poi qualche osservazione da farvi sul vostro progetto, ed aprirvi quale sarebbe la mia intenzione. Primieramente non vorrei che diceste: « Se il Signore aprirà il cuore del nostro Sovrano », ecc. poichè io stimerei meglio di non pensare a questa cosa: se l' opera è da Dio, avverrà tutto ciò che è necessario, perchè abbia il suo esito: abbandoniamoci più ciecamente alla Provvidenza: io stimo che dobbiamo fare tutto quel bene che possiamo al presente con ogni tranquillità e senza occuparci punto del futuro e dell' incerto: il che è sempre un fonte d' inquietudini, colle quali il nostro inimico vorrebbe sempre tenerci in moto la fantasia, e toglierci la pace del cuore. « Nolite cogitare in crastinum ». Direi dunque che con tutta semplicità faceste ai vostri compagni il discorso da voi ideato, soggiungendo unicamente di tenerci uniti nello spirito tutti e di dimandare maggiori grazie e misericordie, purificando incessantemente le nostre anime fino a quel tempo, se Iddio lo ha stabilito, nel quale si potranno regolare meglio le cose, e con maggiori vincoli anche esterni congiungerci. Intanto le nostre relazioni saranno nell' unità del fine e de' mezzi, nell' uguale abbandono alla Provvidenza, lasciandoci da essa muovere senza punto prevenirla, nella carità scambievole e nella frequente comunicazione epistolare, colla quale ci manifesteremo a vicenda tutto ciò che la misericordia divina dispone circa di noi, sia che siamo in un luogo o nell' altro. Vi dirò poi anche quale intenzione io avrei. Non è già necessario di avere una positiva approvazione dal Governo, come ho rilevato avendo consultato sopra di ció persone bene informate; ma basta che siamo in buona intelligenza col Vescovo, e mi sono state mostrate anche in fatto diverse Congregazioni in Italia esistenti, che non hanno mai dimandata approvazione politica, ma essendo ben vedute dal Vescovo anche il Governo n' è pienamente contento. Questa buona intelligenza poi col Vescovo è necessaria in ogni modo, qualunque cosa si abbia in animo di fare, ed io ho gran fiducia di ottenerla per alcuni buoni indizi che n' ho avuti. D' altro lato è meglio andare adagio, e fare in tal modo un piccolo passo alla volta, senza parlare menomamente di approvazioni formali, e senza presentarsi come veramente una società religiosa; giacchè la vera natura di questa società è quella di essere una società umile e privata, e l' unione consiste puramente nei vincoli spirituali, che riguardano la coscienza, sicchè il Superiore sia veramente un Padre e Direttore spirituale. Anche il carissimo nostro Don Giovanni è dello stesso avviso; e parmi che così ci uniformiamo meglio alla mente del Santo Padre Pio VIII di santa memoria, che m' ha raccomandato tanto di mantenere il proposito di seguire la Provvidenza e non prevenirla, facendo un piccol passo alla volta. Cercate dunque che i vostri compagni si uniscano pure, come avete proposto, in una piccola congregazione coll' intenzione di essere uniti di cuore con noi, e formare, se Dio vuole, una cosa sola, prescrivendo loro intanto di pregare per i loro confratelli che sono qui col corpo, ma insieme con loro collo spirito nel Signore (come noi tutti preghiamo per tutti voi altri anche in comune in ogni sera nelle orazioni domestiche) e di fare con semplicità i loro doveri e le opere buone incominciate, avendo un solo fine dinanzi agli occhi, Iddio in tutto e il nostro Signore Gesù Cristo, a cui solo onore e gloria ne' secoli de' secoli. Amen, amen . La Domenica seconda di Avvento abbiamo avuto la consolazione di ricevere nella nostra Chiesa un' altra abiura di una protestante con qualche solennità e molto concorso di popolo, che ne fu molto edificato. E` la settima abiura che riceviamo per delegazione del Cardinale: ringraziamone Iddio. Anche de' nostri cherici sono contento, e per misericordia divina parmi che ogni dì s' acquisti nelle virtù religiose: io solo me ne resto come uno scoglio resistente al mare delle divine misericordie. Ah per carità pregate per me in particolare! Saluti a Don Giulio in osculo sancto . Tutti qui vi salutano con effusione d' amore santo. Viva il nostro Signore Gesù Cristo e la sua santissima Madre Maria, viva, viva! [...OMISSIS...] 1.31 Mi sta altamente fitto nell' animo, che dove si mettesse fra gli Italiani vera concordia, stima reciproca, interesse de' scambievoli lavori, e di proposito prendessero a trattare le grandi questioni che interessano la Religione e l' umanità collettivamente, e quasi direi nazionalmente, si vedrebbe ben presto sorgere da tali discussioni una dottrina imponente e di una dignità forse nuova, d' un vantaggio all' umanità incalcolabile. Cotale stima ho io delle menti italiane! capaci per mio avviso di tutta la celerità e chiarezza francese, di tutta l' esattezza e solidità inglese, e di tutta la profondità tedesca; ma oltracciò dotate di una nobile pacatezza, tutta loro propria che conservano anche nel maggior fervore, giacchè la stessa fantasia degli Italiani è ordinata e lascia loro tempo di pervenire a tutta quella pienezza e perfezione nella risoluzione delle questioni, dove solo la verità riposa e la questione termina per cominciare la scienza. Non si faccia meraviglia di questa grande stima che ho io degli ingegni e degli animi de' miei connazionali, per non vedere que' frutti che io accenno; perciocchè troppe cause mettono fin' ora impedimento a quella unione che sola ingigantisce gli ingegni individuali, i quali finchè stanno isolati e solitari sono necessariamente fiacchi ed hanno una potenza chiusa e invisibile: « paulum distat inertiae celata virtus ». Ma ove gli animi di bell' ingegno, e sopra tutto di animo gentile e religioso, entrassero in questo pensiero di unirsi amicamente fra loro, cercando insieme quel bene, che pure cercano concordemente, ma separati e senza quasi saperlo; io vedrei in questa tendenza un seme di grandi beni, e un principio della realizzazione di quella speranza che porto nel mio seno, e ivi la alimento siccome la mia stessa vita. E quando considero che la Provvidenza ha collocato in questa nazione il magisterio supremo del Cristianesimo, non posso non credere che ad essa sieno servati i più grandi destini anche per quello che spetta alla diffusione delle umane dottrine; giacchè queste non possono crescere, per mio avviso, con istabilità e perfezione e con vera utilità del genere umano, se non dalla radice divina del Vangelo. Non è già ch' io ammetta miglioramenti successivi nell' essenza del Cristianesimo, come nè pur Ella li ammette: esso è la parola di Dio; ed è immutabile più dei cieli. Ma il Cristianesimo, e più propriamente il Cattolicismo, è per mio avviso idoneo a degli immensi sviluppamenti, che saranno cagione a lui di glorie sempre più belle, inaspettate, portentose. Su questo pensiero mi ha fermato non solo la meditazione più attenta della natura infinitamente feconda della parola evangelica, non solo gli effetti stupendamente benefici ch' ella ha prodotto al mondo in questi diciotto secoli che è annunziata, ma le stesse parole de' Profeti che predicono le sue grandezze ed i suoi trionfi, i quali non sono ancora alla lettera compiti. Questi sviluppamenti del Cattolicismo non consistono in sostanza che in altrettante applicazioni pratiche ai bisogni degli uomini, alle loro varie circostanze, e massime ai loro diversi avvincolamenti nelle varie società che fecero insieme e che faranno: il Cattolicismo porterà il lume da per tutto, da per tutto metterà l' ordine, la pace, l' amore; e tutti i beni che possono venire agli uomini dall' amore della pace. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Le rendo mille grazie della sua gentile lettera, che mi fa certa fede, non essere io punto dimenticato da Lei, anzi, ciò che io punto non merito, molto ben ricordato. Ma La ringrazio poi particolarmente per l' allegrezza che mostra nelle sue lettere e l' interesse che prende per questo piccolo Istituto, che, nato unicamente per opera della divina Provvidenza, viene soavemente da essa stessa consolidato ed ingrandito. Più cose Le avrei da scrivere, in cui questa operazione mirabile della mano di Dio si vede ogni giorno più manifesta; ma mi contento di pregarla a volerne ringraziare di cuore il Signore, come mi scrive che già fa, e a supplicarlo sempre maggiormente che, per sua divina misericordia, non ci lasci mettere piede in fallo, ma ci diriga tutti sicuramente « in viam salutis aeternae ». E` coll' orazione che si può far tutto, coll' orazione sola fatta in modo umile, confidente e perseverante , come dice sant' Alfonso. Felici gli uomini d' orazione! E tale è la professione che assume il sacerdote, il quale « constituitur in iis quae sunt ad Deum, ut offerat dona et sacrificia pro peccatis ». Ecco la professione propria sacerdotale, ecco tutta la vita del sacerdote. Lei beata, perchè, indossando questa sacra divisa, che tanto indegnamente io pure porto, entra in un ufficio così consolante, così sicuro, così nobile e sublime, come è quello di vivere in terra conversanti con Dio, e trattanti con lui delle nostre miserie e di quelle de' nostri fratelli, gli altri uomini! « Nostra autem conversatio in coelis est ». Non v' ha certamente cosa di mezzo; e guai a quel sacerdote che vuol transigere col mondo, coll' amor proprio, e co' capricci irrequieti e indefinibili della propria volontà! « Dominus pars haereditatis meae »: queste grandi parole che Ella pronunzierà solennemente, quando passerà sul suo capo la forbice del Vescovo, e ne taglierà tutte le superfluità, saranno la legge, e la legge accettata, elettasi, di tutta intera la sua vita. Guai a coloro che le pronunziano colle labbra, e col cuore intanto ritengono un' altra eredità! mentiscono « non hominibus, sed Deo ». Guai a tutti quelli altresì che si lasciano scandalizzare dalla mala consuetudine di quei primi, e si trascinano dietro il loro esempio! Grande pericolo, mio caro, è questo dell' esempio, giacchè pur troppo è frequente nel mondo. Ma chi si raccoglie a meditare la verità, chi ha il vantaggio di respirare l' aura pura d' una solitudine sacra a Dio, o chi non fa sua compagnia che pochissimi sacerdoti santi ed esemplari; questi solo potrà difendersi e munirsi contro quella mortifera indifferenza, freddezza e spensieratezza, colla quale si vedono molti ricevere l' imposizione delle mani, e, dopo ricevuta, viversi a loro grand' agio, come se non l' avessero ricevuta, o peggio ancora. Io sono entrato in questo discorso quasi senza avvedermene; ma osservo ch' Ella nella sua lettera ha l' umiltà di dimandarmi un parere su questa cosa e sul suo stato futuro; perciò non me ne pento. E giacchè Ella così vuole, Le aggiungerò liberamente, che, per la più vera amicizia che Le professo, La scongiuro a non fare a Dio il sacrificio di se stesso dimezzato, ma intero intero. E quindi di rimanersi in una perfetta indifferenza circa qualunque ufficio di carità che la divina Provvidenza Le presentasse di fare; perchè questa bella indifferenza, credola io la disposizione migliore per servire Iddio con sicurezza, secondo la sua santa volontà, e per mettersi al sicuro degli artifici della volontà nostra, che cerca sempre tradirci, proponendoci di seguire perpetuamente le nostre inclinazioni per piacere a noi stessi, ed anche i consigli vani del nostro amor proprio, di questo grande imbroglione che tutto il bene guasta e perturba. Oh se i sacerdoti, pensando di non servire a se stessi, ma a Dio solo, e per Dio al bene de' prossimi, fossero indifferenti a tutto il resto, come dovrebbero! comincierebbero allora appunto ad essere veri sacerdoti di Cristo. E queste legioni sacerdotali che vittorie non apporterebbero contro i nemici dell' uman genere! che beneficŒ immortali non farebbero alla umanità! che unione, che forza, che trionfi procaccerebbero alla Chiesa! che meriti, che grandezza di premi celesti a se stesse! Ecco il mio consiglio, carissimo e stimatissimo mio conte Giuliari; ecco tutto in poche ma cordiali parole: Ella non se n' avrà certamente a male, se ho riversato il mio cuore nel suo. Mi saluti tutti i carissimi amici nostri: in particolare Besi suo, e Gentili, a cui dica che aspetto lettera. Tornando dal Tirolo, mi sono trattenuto qualche giorno a Verona col suo Vescovo, e abbiamo parlato di Lei. Ai Gesuiti tante cose. [...OMISSIS...] 1.31 Le notizie che mi date colla vostra lettera, ricevuta oggi, della malattia del carissimo Matteo, potete ben pensare che trafitture sianmi state al cuore, e quanto io senta l' amarezza del caso, sì per l' amore che io porto a lui, sì per la tenera amicizia che vi è fra di noi. Io ho raccomandato tosto a Dio il caro infermo e voi stesso che, a ragione, siete immerso nel dolore, pregando per l' uno e per l' altro tutto quello, che per la vostra salute eterna è più confacevole, e, se ciò fosse, la sanità al primo e la serenità e la calma al secondo. I sentimenti di cui avete riempita la vostra lettera, mi mostrano quel combattimento che fa la nostra natura colla volontà superiore; ma tale però che non vedo restare incerta la battaglia, ma sì trionfare manifestamente la grazia di Dio. Tale è l' abbandono e rassegnazione nell' infinita bontà del nostro Signore, che dirigono e dominano le dolorose vostre espressioni. Ah sì, mio dolcissimo, il Signore vi dà una forte prova, mediante la quale v' acquistate una sublime corona! Diciamo pur adunque, cooperando alla grazia, nel mezzo della maggiore desolazione e strazio del nostro cuore « se mai è possibile, passi da noi il calice »: e soggiungiamo poi fedelmente « ma non si faccia la nostra volontà, ma la tua, o Padre ». Questo nome di Padre, contemplato con una fede viva, sia il balsamo delle nostre piaghe. Abbiamo un Padre amoroso nel nostro Dio! E` egli possibile che non ci ascolti? E` possibile che tutto ciò che ci dà non sia buono? Oh ripugni pure alla nostra inclinazione, ripugni alla natura: non cesserà per questo d' essere bene; sarà una medicina amara, ma salutare e necessaria negli occhi di Dio, alla nostra infermità. Viva fede! e saremo maggiori di noi stessi, checchè disponga il Signore. Mio caro D. Giovanni, tutto è di Dio, tutto sacrifichiamo a lui col cuore. Io spero che il Signore ci salverà il caro Matteo, lo donerà alle orazioni vostre e di tanti vostri buoni amici di costì. Ma, anche salvato, sia però il nostro cuore pronto ad ogni sacrificio: è il momento di mostrare che amiamo Iddio, e che il Paradiso lo contiamo per qualche cosa. Dimani molte persone divote faranno la via Crucis per voi e per Matteo. Noi tutti vi raccomanderemo particolarmente nella Santa Messa come pure tutta la famiglia vostra, che ben m' imagino quanto sarà costernata, particolarmente le figlie e il caro Raffaello. Sono interrotto e non posso scriver più altro. Finisco dunque. Datemi pronto ragguaglio del corso che prende la malattia e delle decisioni de' medici: io spero che il sangue lo salverà. Noi, vi ripeto, pregheremo e faremo pregare; voi mostratevi forte, abbandonatevi in Dio e non temete di nulla: egli vi sosterrà, e la Madonna Santissima. V' abbraccio nel Signore, fonte delle consolazioni. [...OMISSIS...] 1.31 Permettetemi, in primo luogo, per quella carità di Gesù Cristo che ci lega insieme, e che, ho grande fiducia nel Signore, non ci slegherà più mai per tutta l' eternità, che vi avverta che non ho potuto approvare il passo che voi avete fatto col Vescovo, senza darmene avviso. No, mio caro, non ci lasciamo trascinare mai dall' insofferenza d' aspettare, giacchè questo va direttamente contro lo spirito che abbiamo eletto e distruggerebbe fino dalla radice quell' Istituto, che la sola misericordia di Dio e l' opera della sua Provvidenza sembra che voglia produrre. Questa cosa mi sta sul cuore assai, e mi ha grandemente addolorato il passo fatto di proprio moto, che è un operare sempre estremamente pericoloso e contro le regole comuni. Io vi supplico dunque caldissimamente di non volere, di qui in avanti, far niente di simile; ma riposarvi nella divina Provvidenza, avendo gran fiducia in essa, e cercando di eseguire bene tutte le buone opere presenti, senza darvi sollecitudine dell' avvenire, commettendolo a Dio. E se vi viene in animo di fare qualche passo, prima comunicatemelo, perchè possiamo maturarlo bene insieme, per vedere se è veramente secondo lo spirito giusto di prudenza, che è lo spirito di Dio, e che le nostre Costituzioni prescrivono. Conviene bene imprimersi, che una sola cosa è necessaria: « porro unum est necessarium »; e questa è di salvare l' anima nostra e di possedere in noi Dio. Che cerchiamo di più? Se mai vorrà qualche cosa da noi Iddio, non ha egli modo di parlarci, egli che ha fatto a noi la lingua? o gli costa qualche cosa a farci sapere la sua volontà? o forse ci terrà occulto ciò che sarà bene? Ah! no, perchè è ottimo: e noi soli siamo mali. Ma egli è anche sapiente, ed egli solo conosce i tempi ed i momenti, « quae Pater posuit in sua potestate ». Abiti in noi la quiete nelle opere buone che facciamo, senza più; la quiete nel possesso del nostro Dio: la fede viva e la longanimità tanto lodata dalla Scrittura ne' patriarchi: e quel « sustine Dominum », che è così frequente ne' Salmi. Sì, sì, aspettiamo il Signore, egli verrà; non preveniamolo; chè sarebbe presunzione la nostra e imperdonabile stoltezza. Che sappiamo noi? Conosciamo noi ciò che sia bene, e ciò che sia male alla sua Chiesa? No certo: siamo poveri ignoranti. Che possiamo noi? Nulla, giacchè siamo nulla. Che pensieri adunque possiamo avere di fare qualche cosa? Non conviene a noi che di stare bassi e quieti, quieti nel nostro proprio nulla, per non irritare maggiormente il nostro Iddio; cercando anzi di placarlo colle nostre umili preghiere. E` Iddio solo che si può servire anche del nulla, se vuole, per fare qualche cosa, giacchè egli chiama « ea quae non sunt, tamquam ea quae sunt ». Per le viscere di Gesù Cristo vi prego adunque di meditare questa massima che è il fondamento di questa unione, che Iddio solo ha finora cominciata; e di raccomandarla anche agli altri, acciocchè possiamo frenare la fantasia vana che vuole sempre correre al futuro, e seguire in quella vece la maturità del giudizio, col quale solo cammineremo nella luce del Verbo . E` una pena certo raffrenare l' imaginazione che vuole correre nel futuro e nelle cose grandi, che vuol produrre in noi degli interminabili e fallaci desiderŒ. Ma è questo un inimico, a cui dobbiamo fare una implacabile guerra, giacchè, se l' avremo vinto appieno, avremo insieme vinto la superbia, la durezza del nostro cuore, e saremo chiamati « docibiles Dei ». Perciò tutte le Costituzioni nostre, se ben le avete intese, versano sopra di questo primo punto. Al presente adunque pensiamo, e nelle nostre piccole case stiamo contenti. Non pensiamo ad altre fondazioni per la Diocesi ed altrove, fino che la volontà di Dio non si manifesti da se stessa. Per quella di costì, giacchè il passo è fatto, lo considero anch' esso come un mezzo della Provvidenza, la quale si serve anche de' nostri falli a' suoi disegni. Questo è un gran punto sostanziale d' intendere, che, sebbene non si vuol limitarsi a niente, non si vuole però intraprendere niente di spontaneo moto, ma solo secondare, quando il Signore presenta l' opera da eseguire; e intanto viversi contento nel proprio ritiro. Le Costituzioni non sono che regole di prudenza pe' casi possibili: non conviene dunque pensare a tutto quello sviluppo, di cui parlano le costituzioni. Noi non ci dobbiamo pensare; è Iddio quello che, se vorrà, a tempo e luogo lo farà. Dobbiamo pensare a quelle cose ed opere singole che abbiamo alle mani: pensiamo dunque ora a queste due case che sono qui cominciate, e a quella di costì che dee cominciare, colle loro opere caritatevoli annesse: ma nulla di più. Bensì è necessario non lasciarsi limitare, nè mettere impedimenti: questo è un articolo essenziale, di cui mi riservo di parlarvi a voce. Noi non dobbiamo pensare ad approvazione governativa; siamo un corpo di Sacerdoti privati, che opera d' intelligenza co' Vescovi e superiori Ecclesiastici. Tutto ciò che potrebbe limitarci, ripugna alla nostra società: e dove non si può fare che ricevendo limitazioni ivi non è la volontà di Dio che noi facciamo nulla. Non dubitiamo punto: Gesù Cristo non ha limitata la sua Chiesa, ed è una empietà protestantica il dire che la Chiesa sia nello Stato. Stiamo con Gesù Cristo e con la sua Chiesa che si chiama cattolica , e non temiamo punto, nè sottoponiamoci alle arbitrarie limitazioni che si cerca pur troppo dagli uomini di mettere alla Chiesa che è essenzialmente cattolica . Il Vescovo nelle lettere che mi scrive, mi parla in questo senso, dicendomi che non intende limitare le mie mire alla diocesi, ma che è ben contento che il bene si diffonda alla Chiesa universale. Preghiamo tutti con un cuore solo: noi lo facciamo ogni giorno in comune e in privato. Io dico sempre Messa per l' anima mia e per quella di coloro che il Signore sembra associarmi. E` l' orazione che dee tutto maturare; ma l' orazione, intendendo bene, fatta per le anime nostre, non per altri fini: qui c' è tutto. Se attenderemo tutti alle anime nostre, non metteremo ostacoli ai disegni del Signore: non possiamo fare di più, giacchè non siamo buoni a nulla. Il Signore diffonde la sua bontà da per tutto, dove non trova ostacoli; noi non pensiamo dunque, che a rimuovere questi ostacoli e a conservare la pace. Certo, è quella sapienza che descrive S. Giacomo, e che accennate nella vostra cara, quella che ci conviene: « fructus autem iustitiae in pace seminatur ». Ah! sì, ditelo, anche a mio nome, al caro compagno, che raffreni il suo zelo, e che vada adagio adagio, con passi sicuri e sempre con consiglio e secondo l' ubbidienza , in ogni minima cosa. Non siamo solleciti. Abbandoniamo alla Provvidenza l' esito di quello che facciamo, giacchè ella sola può fare tutto, e noi niente. Non operiamo adunque con isforzo e travaglio, quasi che dai nostri sforzi e dai nostri stentati travagli dipendesse l' accrescimento del regno di Dio. E` Iddio solo che converte le anime, che sono tutte in sue mani. Con quanta soavità non operava lo stesso nostro Signor Gesù Cristo! niente di violento o di troppo calcato nelle sue parole. Spargeva il seme e lasciava che da sè mettesse, cioè mediante la sua secreta operazione. Così a tempo e luogo facciamo noi, e abbiamo molta fiducia nella operazione che fa Iddio nelle anime. Questi sono tutti i prinlipii della società nostra, che dee formarsi per se stessa, cioè non per la volontà dell' uomo, ma per quella di Dio che influisce nella natura stessa di tutte le cose, e perciò tocca da una estremità all' altra con forza e soavità: « et disponit omnia fortiter et suaviter ». Per lo stesso principio andiamo pur lenti ad ammettere compagni; siamo contenti di essere quei pochi che siamo, non pensando di più. Se Iddio ce ne manderà, ne riceveremo con allegrezza; ma non preveniamo noi i disegni di Dio, nè pure coi nostri desiderii. Di quelli che presentemente abitano questa casa, non c' è alcuno che non sia stato qui evidentemente mandato dalla Provvidenza. Mi riserbo a voce di contarvi i progressi che la divina Provvidenza fa fare ogni giorno soavemente all' Istituto. Noi siamo sempre contenti: la nostra società in qualunque stato si trovi è sempre compita e perfetta, nè desidera di più; tutti i desiderii devono concentrarsi nell' avanzare giornalmente nella virtù: pochi o molti che siamo, poco importa al nostro fine. Il fine della società è semplice, non è che il fine degli individui che la compongono: questo si può ottenere in ogni stato, in cui ella si trovi; dunque è sempre contenta e perfetta. Mio carissimo, questo è il gran travaglio, a cui si deve pensare sul principio, a formare i membri della società! Non importa quale sia il numero, ma la qualità. Al Noviziato conviene che presentemente diamo tutti i nostri pensieri, per procedere con vera maturità e sicurezza. V' abbraccio tenerissimamente nel Signore, in cui sommamente vi amo con tutti i nostri. [...OMISSIS...] 1.31 Miei Reverendi e carissimi sacerdoti nel Signor nostro Gesù Cristo, a cui solo sia onore e gloria, amen . Per quanto io sia misero e nullo nel regno di Dio, non ho potuto però a meno di giubilare interiormente leggendo la lettera che hanno avuto la bontà di scrivermi, e di ringraziare di cuore il Signore de' buoni sentimenti che loro ispira, sollecitandoli al desiderio della perfezione. Oh questa è una grande grazia che fa il Signore, mettere in cuore a' sacerdoti il conoscimento della infinita dignità sacerdotale, e il bisogno di corrispondere a quella dignità con altrettanta bontà di vita; e, se questo non può essere compiutamente, almeno con altrettanta umiltà! Un indegnissimo adunque qual io mi sono, che non dovrebbe aprir bocca, non può d' altra parte tacere, e gli incoraggia a farsi conto d' una tal grazia, che sarà certamente per loro seme di felicità eterna. Per essere aiutati nel coltivare questo desiderio santissimo, che dovrebbe nascere in tutti i nostri cuori colla sacra Ordinazione, non v' ha mezzo più efficace che l' unione fra sacerdoti e la mutua corrispondenza, tanto frequente ne' primi tempi della Chiesa e tanto stretta, quanto rilassata e rotta di poi per le passioni, e massime per l' egoismo, per l' interesse, per la freddezza, per l' ignoranza, e fin anche per la falsa prudenza di questo secolo, a cui noia infinitamente l' unità della Chiesa, giacchè nell' unità sta la sua forza. Quindi era certamente un pensiero santo e veramente conforme allo spirito della Chiesa, spirito della massima unità, quello del nostro Rev.mo Monsignor Vicario di unirli in una piccola società sotto la protezione dell' Apostolo S. Paolo; e per quanto essi me ne dicono nella loro lettera, e Molinari a voce, non mi sembra improbabile che questo pensiero sia venuto a Monsignor Scavini dal desiderio di fare qualche cosa di simile all' associazione di S. Paolo che c' è in Roma, approvata da' Sommi Pontefici, e che fa un gran bene. Laonde non so qual uomo probo e savio potesse vedere male simili società desiderate dalla Chiesa, promosse ed approvate da' Sommi Pontefici: sicchè è al tutto vero quello che essi scrivono, che è solo il nemico dell' uman genere, il quale si trasforma talora in angelo di luce, quello che odia queste sante congregazioni e muove terra e cielo per distruggerle, se gli riesce; e se non gli riesce, almeno per perseguitarle, inquietarle, e seminarvi mille zizzanie e divisioni. Il che sapendo, è da tenerci forti, e colla dovuta prudenza persistere costantemente nel divisamento e nella tendenza generale di unione e santa amicizia fra noi ecclesiastici. Per ciò io non posso che lodare molto il loro pensiero di essersi stretti fra loro, anche dopo la dissoluzione della Società di S. Paolo. Non so poi come possa essere loro venuto in mente di ricorrere a me, come fanno nella loro lettera; perchè io volessi servire loro di centro e di capo nella loro santa corrispondenza. Iddio sa chi io mi sono; un vero nulla, un peggiore del nulla, perchè il nulla non ha mai offeso il Signore, come l' ho offeso io, un ignorante che ha un po' d' impostura (per servirmi d' una frase di una santa persona mia conoscente), uno che ha un estremo bisogno di essere diretto e guidato a mano invece che di guidare e dirigere. A mal grado di tutto questo, e di quel più che taccio, perchè dalla loro bontà non sarei creduto, mi trovo impegnato nell' ufficio di superiore di questa piccola società del Calvario, nella quale non ci è nessuno a cui io sia degno di allacciare le scarpe. E giacchè tengo che sia Dio quello che mi ha fatto tale, mi confido in lui, che suole spesso servirsi delle cose più spregiate, e tiro innanzi; e veggo anche oggi giorno che Iddio vuole fare egli tutte le cose, essendoci io piuttosto per figura che per altro. Miei cari consacerdoti e fratelli nel Signor nostro Gesù, è mia massima di non « ricusarmi a nulla di tutto ciò che mi offre da fare la Provvidenza per gloria di Dio »: abbandonandomi così nella stessa divina Provvidenza. E fu questo il motivo che, dopo sottoposti i riflessi che credeva a' miei compagni, ho poi ceduto alla loro volontà prendendo la loro direzione e governo spirituale. Che posso dunque dir loro circa la proposta che essi mi fanno? Io non mi ricuserò neppure a loro, se persistono nel loro disegno; essi si dichiarano miei figliuoli in Gesù Cristo, ed io li abbraccierò per tali, se il Signore li conferma in questo volere. Ma, prima di fare ciò, io voglio che esaminiamo meglio la volontà di Dio, che è quella sola che noi desideriamo di fare. A tal fine adunque io li prego caldamente di occupare i tre ultimi giorni di carnevale in particolari orazioni rivolte a questo fine di conoscere in ciò la volontà divina, facendo anche in quei giorni qualche mortificazione di bocca: e il medesimo farò anch' io volentieri con Loewenbruck e con Molinari, che mi aiuteranno a impetrare da Dio il suo lume. Così uniti insieme di spirito, otterremo coll' unanime preghiera di operare giusta il voler divino. Dopo ciò adunque essi mi scriveranno se si sentono nella medesima determinazione e persuasione; e quando ciò fosse, io non mi ricuserò punto di assumere nel Signore la loro direzione, e considererò la loro unione come un' affigliazione alla piccola società del sacro Monte Calvario, che Iddio, come dicea, va benedicendo. In tal modo ci stringeremo tutti alla croce, ed avremo in questa il vero centro d' unione, la nostra àncora, il nostro libro, il nostro vessillo. Oh quanto è luogo proprio de' sacerdoti il Calvario! è qui l' altare, il sacrificio, la vittima, il pontefice. Dove tutto ciò si confermi nei loro cuori dalla voce dello Spirito, io comincierò ben volentieri a comunicare loro quelle regolette, che per ora credo a proposito di osservare, e indispensabili; le quali sul principio saranno ben poche e semplici; ma esigeranno altrettanta più cura ed esattezza nel mantenerle. Ciò che trovo per ora necessarissimo si è, che non comunichino al presente con nessuno dei loro compagni la cosa fin dopo l' orazione e la deliberazione matura; ed allora altresì è necessario che non comunichino la cosa a nessuno, senza prima averlo scritto a me. La sola persona a cui li prego di comunicare tutto è il nostro stesso Monsignor Scavini; giacchè vogliamo pendere intieramente dalla sua volontà: non gli scrivano però, ma aspettino di parlargli in voce, e gli mostrino tanto la lettera che essi hanno scritto a me, quanto questa mia risposta. Non aggiungo altro. Amiamoci nel Signore, a cui solo ogni onore e gloria. Non viviamo che per lui, non respiriamo che per lui: le altre cose non sono degne di un sacerdote nè di un cristiano: lui solo sappiamo, lui solo pensiamo, a lui solo aspiriamo, in lui moriamo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Vi assicuro che mi fu una notizia sopra modo dolorosissima il sentire che l' ubbidienza di D. G. sia molto imperfetta: perchè sperava anzi che si rendesse molto forte ed esemplare in questa virtù. Avrei volontà di scrivergli una lettera; ma prima desidero sentir da voi, se farò bene a farlo. Ditegli intanto da parte mia, che se vuol far la volontà di Dio, faccia l' ubbidienza, altrimenti non gli riuscirà bene nessuna cosa, e il suo merito andrà in fumo. Non è il far molto all' esterno che conta Iddio; ma l' aver un cuor umile, ubbidiente e diritto con Dio: « melior est obedientia quam victimae ». Vorrei che leggesse, che meditasse e che imparasse a memoria la lettera di S. Ignazio sull' ubbidienza; quella lettera dobbiamo imaginare che sia scritta a noi stessi. Se mai la nostra piccola unione potrà fare qualche cosa, sarà coll' ubbidienza. Con questa sola santificheremo noi stessi, che è il grande scopo ed unico della nostra piccola unione, perchè più della nostra santificazione non possiam desiderare. Circa il numero dei soggetti non ci pensate punto: voi altri tre siete abbastanza: il tutto sta a formarsi: non dubitate, Iddio aiuterà e ci condurrà con soavità dovunque vuole: abbandoniamoci solo a lui, e non abbiamo in vista altro fuorchè il piacergli e il riposar tranquilli in lui, contenti sempre dello stato presente senza voler di più, e riguardando sempre lo stato presente come opera finita. Ciò in cui dobbiamo essere incontentabili, e dobbiamo vederci andar ogni giorno avanti, è nell' amar Iddio, e nel camminare nella sua giustizia. Non è dunque nè pure il predicare, nè il fare grandi cose per gli altri ciò che veramente dobbiam amare; ma il purificare noi stessi, e l' osservare ogni dì più fedelmente la parola di Gesù Cristo, che è verità e vita delle anime nostre. Stiamo meditando questa parola ai piedi di Gesù con Maddalena. Se egli vorrà poi farci pur fare qualche cosa, lo farà bene: ma noi non lo desideriamo sollecitamente. Qui preghiamo ogni giorno per voi: fate così anche voi altri, miei dilettissimi nel Signore, per noi tutti. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Mi scusino, se non ho risposto prima d' ora alla loro fervorosa lettera, colla quale si mostrano costanti nel loro primo divisamento, dopo fatta l' orazione, e anche nel pensiero di volere la mia infinita nullità per loro padre spirituale. Le mie occupazioni mi hanno impedito, in questi giorni passati, di potere trattenermi con loro a mio agio, come desiderava di poter fare; quest' oggi spero che mi sarà conceduto. In primo luogo, io non mi rifiuto, nè pure ora, dopo essermi raccomandato al Signore, di assecondare i loro desiderii, che mi paiono santi e rivolti tutti alla gloria di Dio, coll' aiutare la direzione che mi propongono, e considerare le loro persone come una estensione di questa mia piccola carissima famigliuola del Calvario. « Quam bonum et quam incundum habitare fratres in unum! » dico io sempre; e questa unità, per la quale è così dolce trovarsi fratelli, non intendo che sia il luogo corporale, ma Iddio, che è come il nostro luogo spirituale, nel quale è pur dolce trovarsi e abitare insieme. Or io credo di non dover punto differire a comunicar loro qualche cosa di ciò che credo indispensabile per un buon effetto al loro santo desiderio. Vi ha una massima, su cui tutta si regge la piccola società del Calvario, e che n' è la pietra fondamentale; la quale massima fino che si conserverà, non potrà mai essere altro che benedetta la società e quelli che la osserveranno. Questa massima è semplice, umile e comune; ma tuttavia noi non abbiamo altro fondamento che questo, nè altro principio di condotta, di maniera tale che tutti gli altri nostri regolamenti, che sono al presente e che saranno introdotti nel futuro, non hanno altra origine nè capo, se non questa massima, verso alla quale sono ciò che le conseguenze verso il principio, da cui derivano. Or questa massima è la seguente: « di concentrarci in noi stessi seriamente, per fare unicamente conto della salute e perfezione propria », non riguardando tutto ciò che spetta al prossimo, se non come altrettanti mezzi di piacere a Dio, o sia di santificare noi stessi. Questa massima esclude il falso zelo, col quale l' uomo è più inclinato ad essere sollecito della salute del suo prossimo che di se stesso: frutto pur troppo di una secreta presunzione che rifugge dal considerare i propri difetti, e, quasi che le cose, per rispetto a sè, fossero tutte in buon ordine, l' uomo presume di poter essere necessario alla salute del prossimo suo. La quale maniera di operare è anche segno di scarsezza di fede nella bontà e provvidenza di Dio, quasi che Dio non pensasse e provvedesse da padre a tutti gli uomini e alle anime tutte, anche senza bisogno di noi, e senza l' opera nostra. Eh! chi conoscerà Dio e se stesso si riputerà inutile, e starà basso e tutto occupato di se medesimo, piangendo i propri peccati e travagliando giorno e notte a conoscersi, correggersi, ed emendarsi. Questa è la gran fatica che dobbiamo prendere a fare, miei carissimi fratelli, e la faremo di certo, se saremo veramente umili, e conosceremo che non conviene a noi altro stato e posto che quello dispregievole ed abietto di penitenti; nè avverrà mai, se saremo penetrati da queste grandi verità, che noi di proprio moto assumiamo qualche incarico, dignità, od altro, se non forzati dall' ubbidienza, o certo dal timore di non opporci forse alla divina volontà, e così di non contraddire a quel Dio, al cui possesso solo aspiriamo. Consideriamo seriamente, miei carissimi, che, se abbiamo ottenuto l' emendazione e purificazione delle anime nostre e quindi la giustizia in noi e il possesso del nostro Dio, noi abbiamo ottenuto tal cosa, che altro non ci resta più a desiderare; noi abbiamo ottenuto il tutto, siamo pieni, siamo beati. A che dunque altro pensare, se non a ciò che Gesù Cristo ci ha insegnato in quelle parole: « porro unum est necessarium »? Oh qui conviene che semplifichiamo, e sinceriamo la nostra mente e il nostro cuore, poichè qui sta tutta la semplicità della vita cristiana. Pur troppo la nostra mente, vivendo noi in questo secolo, s' empie d' una moltitudine d' idee false, sebbene apparentemente pie; pur troppo il nostro cuore si empie di una moltitudine di falsi ed inutili desiderii, sebbene apparentemente religiosi! No, no, cacciamo dalla nostra mente tutto quell' ingombro, cacciamo dal nostro cuore quelle vane frasche, induciamoci alla semplicità del pensare e del sentire evangelico. Uno sia l' oggetto della nostra mente, come pur quello del nostro cuore: la purità della coscienza, il gusto della parola di Gesù Cristo, il possesso di Dio. Oh quanto allora saremo sgravati ed alleggeriti del fardello molesto, onde ci carica e ci aggrava la secreta nostra presunzione e la scuola sempre gonfia di questo secolo! « Venite ad me omnes », diceva appunto per questo Gesù Cristo. In somma l' unico fine della nostra unione sia la salvezza e la perfezione di noi stessi: questo è l' unico fine della Società del Calvario; e dall' intendere bene questo semplicissimo fine e dal toglierlo a praticare, ne dipenderà tutto l' esito. Ora posto questo grande fondamento, colla semplicità e unicità del quale si caratterizza propriamente e contraddistingue questo Istituto, ecco che cosa io suggerisco loro per ora. Conviene che ciascuno si faccia un librettino col titolo di « Regulae », nel quale scrivano successivamente quelle regolette e que' mezzi che io un poco alla volta verrò loro indicando secondo l' opportunità ed il bisogno. Intanto questa sarebbe la prima: « Finis huius societatis est salus et perfectio propriarum animarum ». Le altre poi che al momento presente loro suggerisco, consistono tutte in alcuni esercizi religiosi, rivolti alla purificazione dell' anima, e che conviene intraprendere con coraggio, e mantenere con fedeltà. Questi sono in primo luogo, una meditazione la mattina (se è possibile questa dee essere fatta senza libro innanzi, preparandone la materia colla lezione, o in altro modo, la sera precedente), la quale converrebbe che durasse un' ora. Questa pratica è fondamentale, ed è quella che col suo peso tiene, per così dire, in equilibrio tutta la persona. In secondo luogo, due brevi esami di coscienza avanti pranzo e la sera. In terzo luogo gioverebbe che almeno una volta la settimana si unissero loro due in una conferenza spirituale sopra argomenti i più atti a compungere il cuore, purificare l' anima, mantenere il raccoglimento e procedere in tutte le cose con sacerdotale gravità e maturità. Questi tre esercizi per ora io credo opportuni per incominciare; e, se li trovano eseguibili, scrivano nel librettino quest' altra regoletta, che sarà la seconda, colla quale vengono prescritti i suddetti esercizi: [...OMISSIS...] . Io spero che prendendo a fare con fervore e soprattutto con fedeltà questi pochi esercizi, se ne troveranno in breve molto contenti e consolati; poichè è nella lunga e seria meditazione che s' impara a conoscere se stessi e Dio, ed a stimare l' unione nostra col sommo bene, nè far più conto alcuno di tutte l' altre cose. Io adunque attendo che mi informino dopo qualche tempo dell' esperienza che avranno fatto di questi esercizi, delle difficoltà e degl' impedimenti che ci troveranno: (e il demonio certo ne metterà in mezzo d' ogni sorte per iscoraggiarli, al suo solito); e finalmente tutto ciò che mi comunicheranno intorno alle loro carissime persone, il riceverò con grande mio piacere. Una cosa, che anche loro molto raccomando, è il leggere più volte e colla massima attenzione, quel libretto che essi conoscono, intitolato « Massime di perfezione »; il quale non può dare fuori il suo gusto, se non venendo molto molto masticato e ruminato. Finalmente siamo strettamente uniti tutti nell' amore di Gesù Cristo! L' amore, che ci avremo scambievolmente, sarà il segnale che saremo i suoi discepoli. Preghiamo senza intermissione; e nell' orazione troviamoci tutti uniti; e, massime all' altare, siamo un cuor solo ed un' anima sola, giacchè all' altare spezziamo un solo pane che ci nutre tutti e ci vivifica d' una stessa vita, e simboleggia la nostra ineffabile unità. Viva dunque Gesù, di cui siamo tralci; viva Maria nostra madre tenerissima e nostra speranza, che è il tralcio maggiore della vite! [...OMISSIS...] 1.31 Vi scrivo poche linee solamente, perchè mi stringe ora il tempo, avendo assunto di fare il quaresimale in questa città, ed alle prediche debbo prepararmi d' un giorno all' altro: pensate voi! Vi ringrazio intanto di tutto quello che avete fatto; i consigli di Monsignor di Cremona li seguiremo fedelmente. Vi torno a raccomandare che con altri punto non parliate, ma se avete qualche cosa da discutere intendetevela con lui solo per l' affare nostro. Mi è anche di somma consolazione il sentire, che vi sia penetrata bene quella nostra massima fondamentale, di non occuparci che dei nostri doveri presenti, troncando tutti i desideri nostri con un sol colpo e lasciando fare a Dio in tutte le cose. Eh se Iddio ci desse la grazia di essere suoi servi fedeli, di mantenere la sua santa parola in noi, non basterebbe? che più potremmo desiderare? così poco conto vogliamo fare della sua grazia? Lungi da noi il zelo disordinato ed inquieto, che viene dal falso spirito, e per la strada della fantasia entra a turbarci l' animo. Teniamo ben fermo, che vogliamo una cosa sola, salvare e perfezionare noi stessi: che quindi la nostra Società sia grande o piccola, è sempre perfetta, perchè può sempre ottenere il suo fine. Circa le conferenze ve le raccomando: e vorrei che si ravvolgessero massimamente sulla vita interiore e religiosa... Vi raccomando di raffrenare Don Giulio dove eccede, perchè è molto importante la prudenza e la semplicità. Calcategli ben in mente che Iddio non ha punto bisogno di noi miserabili per fare il bene, e che se noi saremo veramente umili e ci terremo buoni da nulla, come siamo, ci terremo assai indietro, e non assumeremo mai le cose di nostro moto, ma solo per ubbidienza; e anche allora tremando. Oh è pur fina la nostra presunzione! Ma sia Maria Santissima il nostro modello, e la maestra di quella vita occulta, che era meglio che la conversione del mondo intero. E` Iddio sopra di noi; è egli solo che può qualche cosa. E siamo noi tali che non troviamo da occuparci di noi stessi? non abbiamo più nulla a fare in casa propria? tutto vi è in ordine? [...OMISSIS...] Il libretto delle Massime conviene convertirlo in succo e sangue, non basta averlo letto qualche volta; ed io n' ho veduto degli ottimi effetti, non già alla prima lettura, ma dopo essere molto meditato. Egli serve ancora di testo per le nostre conferenze, e per ciascuna se ne dà una piccola particella, la quale è anche il soggetto della meditazione di quel giorno, nel quale si tiene la conferenza. Non dubitiamo punto; abbandoniamoci interamente nel Signore, mio carissimo. Pregate tutti per noi, noi qui preghiamo tutti per voi. E` nell' orazione che si fanno le cose. Addio. Le poche linee sono divenute molte senza accorgermi. Tenetemi informato di tutto, abbracciatemi i compagni, ed amatemi nel Signore, come io v' amo. Ciò che potreste inculcare a Don Giulio si è che attenda molto alla sua cattedra come all' affare principale. Questa è la volontà di Dio: altre cose può esser dubbio se sieno: attendendo bene allo studio della teologia, farà buon fondamento che gli sarà utile assai: non lasci passare il tempo. [...OMISSIS...] 1.31 Se il signor Prefetto non si unirà con noi non fa niente, mio caro: non siamo punto solleciti; n' avremo abbastanza se potremo migliorare le anime nostre. D' altro lato non vi fidate di nessuno, se non della Provvidenza di Dio. Non si può a principio dire chi entrerà o no. Talora quelli che parevano i meglio disposti, venendosi al punto, « respiciunt retro »; si trova all' incontro della generosità dove meno s' aspettava: « Spiritus ubi vult spirat ». Di noi stessi in somma siamo unicamente solleciti, e di conservare la pace interiore. Stiamo quieti pensando all' edificio interiore; e sia la nostra divisa quella dell' Ecclesiastico: « Humiliare Deo et expecta ». Godo che le Conferenze sieno riprese e che pur vadano bene. Ciò che molto giova si è il non passar leggermente sulle verità sante, che si prendono per soggetto delle medesime; ma calcarle molto molto nella mente, e cercar veramente l' edificazione e la compunzione. Il gran lavoro è la perpetua purificazione di noi stessi, la fame e la sete della giustizia. Null' altro amiamo che la giustizia: ecco il tutto; qui sta la semplicità della nostra vita. Vi prego di fare da parte mia ringraziamenti e complimenti a monsignor Sardagna, che ho veduto già preconizzato dal nostro Sommo Pontefice. Abbracciate teneramente don Giulio, e tutti gli altri a cui posso estendere questa affettuosa confidenza. 1.31 Ella mi fa cuore perchè io ponga mano alle teorie sociali. M' invita ad un arringo pieno di passioni, e dove la verità è come una pecora in mezzo ai lupi. Tuttavia, Le dirò sinceramente e senza affettazione, il mio cuore non sa temere nella causa della Verità, della Religione, dell' Umanità, che è pure una causa medesima; e all' amor dell' unico bene che io m' abbia, è ben poco qualunque sacrifizio; è il tesoro nel campo, pel quale si vende anche tutto il suo. Perciò le passioni ed i pregiudizi degli uomini non mi ritrarranno mai, coll' aiuto di Dio, dalla manifestazione di questi principii, che credo gli unici salutari per la Chiesa (che è la gran Società) e per gli uomini tutti. Meno mi affido delle mie proprie passioni e de' miei proprii pregiudizi. Perocchè finalmente debbo sospirare e dire: se questi sono i pregiudizi comuni, e chi mi scuopre quali siano i miei? Tuttavia l' intima persuasione è sempre rispettabile, e quella che produce nell' uomo la verità è tanto forte, che non l' agguaglia giammai la persuasione dell' errore: e tale è quella persuasione che si è creata in me, dopo lunga e paziente meditazione di quella Teoria filosofica , di cui non ho finora messo in pubblico che la radice. Io desidero che questa radice prenda; se prende, apparirà potente e in un modo inaspettato feconda. Ma perchè prenda ci vogliono delle menti forti, e degli animi nobili e nuovi. Egli è inevitabile uno studio grande e la più quieta meditazione. Questa, a dir vero, nuoce al pronto sviluppo del mio disegno, perchè il carattere del secolo è pur troppo l' impazienza e la fretta. Nulla di meno io non m' arretro, e spero. E` nell' ordine della divina Provvidenza che io pongo molta fiducia ed in que' semi indistruttibili che l' Evangelo ha seminati nell' umanità, e che in ogni secolo appunto mandano de' frutti nuovi d' una radice vecchia, de' fiori d' una bellezza incognita per addietro, e che conviene riconoscere come spuntati dalla parola di Cristo, e con amore cristiano coltivare. Guai, se, perchè il frutto ed il fiore è nuovo, per questo si disconosce figlio dell' antica e onnipotente pianta! Si fa contumelia a quella radice stessa divina; si fa onta a quel tesoro, dal quale il padre di famiglia profert nova et vetera . Ma si può essere tuttavia ingannati nel discernimento di fiore da fiore, e di frutto da frutto: e può cogliersi il frutto della scienza che porta la morte, credendosi di cogliere il frutto della vita! Per evitare un sì deplorabile errore non v' è altra via che l' umiltà e l' orazione, colla quale si consulta il Padre stesso della verità e della vita. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Mi duole di non avere trovato tempo fin ora da rispondere alla loro lettera, che mi è riuscita cara anche più delle altre, perchè piena di quel desiderio di arrivare ad una perfetta emendazione dei propri difetti, che Iddio suol sempre coronare coll' esito più felice. Sì al certo, miei cari fratelli, è impossibile che a lungo andare Iddio non conceda la grazia della emendazione dei nostri tanti difetti, della guarigione delle nostre tante infermità a chi la vuole questa grazia, a chi la domanda, a chi con vera semplicità cerca di conoscere se stesso, cerca di conoscere l' abisso della propria originale corruzione inviscerata pur troppo con noi, a chi la manifesta con candore, con pienezza, con costanza ai padri spirituali, per mezzo dei quali suole Iddio operare comunemente la purificazione delle anime. Siccome adunque i nostri nemici, e le nostre male inclinazioni, la nostra superbia, la nostra pigrizia, la nostra leggerezza non cessano di farci guerra e di tentare la nostra ruina; così anche noi non dobbiamo cessare mai di penetrare sempre più a fondo nella cognizione della nostra malizia e impotenza infinita, di confessarla, di domandarne aiuto, di umiliarci sotto tutte le creature, di rinnovare ogni giorno i nostri proponimenti con viva fede nella divina misericordia, e di acquistarci ciò che ci manca, sodezza, risoluzione, ordine fermo, interiore ed esteriore raccoglimento. Pur troppo il demonio si scatena più fiero allorquando noi facciamo la risoluzione di darci a Dio solo, a Dio interamente: lo dice la Santa Scrittura: [...OMISSIS...] Ma egli è certo ancora che col seguitare a combattere senza ristarcene mai, noi siamo sicuri della vittoria, che Iddio ci ha destinata. [...OMISSIS...] Oh è pur questa sicurezza nella misericordia di Dio di riuscire bene ne' nostri combattimenti colla sofferenza e con la perseveranza un dolce conforto, un incoraggiamento il più efficace! Gli sforzi, le fatiche, le pene nostre non sono mai perdute, nè pure allorquando ci sembra di non potere fare alcun passo innanzi, e di essere freddi e pesanti nella via del Signore, anche allorquando il Signore medesimo sembra sordo alle nostre querele, e pare che ci abbandoni, anche allorquando ci lascia cadere sventuratamente in peccato. Allora è il tempo più che altro mai di vivere di fede, allora è il tempo di ricorrere con più umiltà all' abbandono in Dio, che si compiace tanto dei peccatori che sperano da lui la salute e che contra la sua giustizia nella sua misericordia si rifuggono, cercando in lui protezione contro di lui. Ah sì, « humilia respicit »! e le nostre cadute non sono bene spesso permesse se non per deprimere la nostra superbia; giacchè fino che siamo superbi, egli non può esercitare quella misericordia che pure vuole con noi esercitare. Perciò non umiliandoci noi abbastanza, egli rompe la nostra presunzione stolta coll' abbandonarci a noi stessi, e mostrarci col fatto, che d' altro non siamo capaci se non di male. Copriamoci adunque di vergogna per la nostra tanta presunzione, di cui portiamo la radice nel peccato originale, e che sempre resta in noi; ed ogni cosa facciamo, tanto internamente quanto esternamente, che più ci abbassi e valga a procacciarci un disprezzo infinito di noi stessi. Perciò nel doppio esame di coscienza, che noi facciamo a mezzo giorno e la sera, esaminiamoci particolarmente sulla rettitudine d' intenzione nelle nostre operazioni. Spiamole per vedere se si mescolano nel nostro operare fini di amor proprio e di vanità; se cerchiamo l' approvazione degli uomini, e non ci contentiamo di quella di Dio; se lodiamo direttamente o indirettamente noi stessi nei nostri discorsi, se aspettiamo lode dagli altri. Guerra implacabile a questi vizi! Discendiamo alla pratica, ed ogni volta che ci troviamo colpevoli, consideriamo le cagioni che ci hanno condotti in queste miserie, le occasioni nelle quali siamo caduti, i compagni, la natura della conversazione forse troppo leggera ed oziosa, ecc.. Consideriamo ancora i mezzi necessari per correggerci di un tale difetto, le ammonizioni scambievoli, le aperizioni di coscienza frequenti, le domande a Dio particolari rivolte ad ottenere la grazia della vigilanza e forza nella tentazione, le umiliazioni esterne, le penitenze, i proponimenti ripetuti sovente, le proteste ed assicurazioni a Dio, riconoscendolo come unico nostro bene, unico amore, unica felicità, fuori di cui niente vogliamo, ecc.. Così partiremo dall' esame rinforzati, massimamente se metteremo poi di mezzo la nostra cara Madre Maria Santissima che tutto ci otterrà dal suo divin Figliuolo. Lo stesso facciamo anche nella meditazione, giacchè la guerra contro la superbia deve essere continuata e perpetua. E facendo così, non dubitiamo punto: il Signore ci renderà poverelli di cuore e semplici, scopo dei nostri voti. A questi progressi contribuirà il conservare il maggior possibile raccoglimento esterno, evitando il troppo parlare, il ridere e la disoccupazione, e custodendo in quella vece più che si possa il silenzio, un' amabile serietà, e un continuo lavoro alla presenza di Dio e con aspirazioni. Credo poi necessario prendere un solo libro per la materia della meditazione, il Da Ponte stampato dal Marietti a Torino. La conferenza gioverebbe che fosse stabilita in giorni fissi; facendo tutti e due la stessa meditazione, essa potrebbe servire anche per materia della conferenza, come si fa al Calvario. Mi riserbo ad aggiungere qualche altra regoletta da scrivere in sul libretto in un' altra mia. Intanto qui finisco. Supplico la loro bontà di orazioni per tutti noi: io celebro ogni giorno messa unicamente per me e per gli miei cari compagni. Li ringrazio della nota de' soggetti atti allo scopo. Qualcheduno di essi mi ha già scritto. Faccia il Signore, che pare voglia accrescere la nostra piccola società: egli sia lodato in eterno. Io me ne devo restare qui qualche poco per affari appunto della piccola società del Calvario. Mi possono scrivere qui direttamente dove le lettere mi vengono sicure. Io sono pur sempre al Calvario col cuore e in mezzo di loro. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Aveva già sentore dell' afflizione vostra, pel male ripetutosi ed incalzatosi del buon Matteo, e gran dolore aveva provato del dolor vostro e suo. Ora me lo confermate e con più vivi colori. Io non so se non ripetervi quello che vi sapete, e che è pure un sommo conforto a chi l' intende, che noi non siamo fatti per questo misero luogo, ma per un altro migliore: che poniamo in codesto altro luogo migliore tutti gli affetti nostri, perchè non saremo allora più turbati, nè ingannati nella nostra aspettazione. Ah! solo il cielo è il luogo nostro, il luogo sicuro, ove riporre ogni nostro tesoro: colassù il tesoro nostro non può perdersi nè logorarsi. Ogni cosa cara all' incontro, fin che l' avremo quaggiù in terra, ci sarà sempre cagione di affanno, perchè sempre in cimento di esserci tolta, e in una sicurezza che in ogni modo ci sarà tolta. Viviamo dunque coll' anima nostra nel cielo, in Dio: ecco l' unica via di giungere alla pace ed alla consolazione. Il cielo, il nostro Dio non ci sarà tolto giammai; e con questo solo avremo tutto, in questo troveremo tutto, anche ciò che avremo perduto. Così fece Gesù Cristo, nostro esemplare, così fecero i Santi: e coll' affetto del gaudio tollerarono e sostennero ogni temporale sciagura, e si poterono perfettamente conformare alla volontà del celeste Padre, anzi in essa giubilare. Io non vi dico altro, se non che tutte queste cose che già sapete, e che me pure confortano, riusciranno di tanto maggiore alleviamento al vostro dolore, quanto più, raccomandando voi e i vostri cari alla nostra cara madre Maria Santissima, ella vi otterrà il soccorso al di fuori, ed il conforto al di dentro. Consolatevi ancora nell' amicizia fraterna che dimostra il caro Raffaello, e nella bontà e pietà delle figlie che ben vi compensano con tanta loro virtù e col loro affetto... [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Ciò che mi scrivete della gragnuola mi ha passato il cuore. Non c' è che mirare alla mano in cui sta la verga per consolarci, e son ben certo, e il veggo già dalla vostra lettera, che dalla meditazione della bontà paterna di chi percuote voi sapete derivare consolazione e per voi stesso abbondante e per altrui. Ah mio caro è pure una grande stretta al cuore il vedere una famiglia così prostrata in un istante nelle fortune, e la famiglia propria o quella d' un caro amico! Ma via, anche in tanta desolazione la fede non vede che un decreto di bontà! viviamo dunque di fede; e quel Dio che umilia innalzerà, quel Dio che mortifica vivificherà. Io non mancherò di aggiungere le mie povere orazioni raccomandando voi e l' afflitta vostra famiglia al Signore che dà abbondanza, « et non improperat ». Nell' altra parte della vostra lettera voi dite di sentire degli stimoli di vocazione divina, ma mettete un ostacolo fra gli altri nel vostro stomaco debole, il che m' avete toccato più volte. Vi risponderò ora, che non c' è nessuna regola fra di noi che obblighi ad avere uno stomaco forte, che pur troppo e la fatica e l' età non risparmia nè privilegia la complessione di quelli che sono ascritti in questo piccolo Istituto, ma siamo soggetti alle stesse miserie degli altri; che non avendo l' Istituto per fine essenziale se non la propria santificazione, per sua natura riceve anche i vecchi, anche gli infermi (quando però i superiori per non impedire un maggiore bene non reputassero talora di non riceverli); che non ci sono regole fisse che determinino il cibo e le altre cose occorrenti, se non quella dei primitivi cristiani, che avendo messo tutto in comune, si distribuiva poi come si legge negli atti degli Apostoli « prout unicuique opus erat ». Una cosa vi è da osservarsi, che in quanto ai propri bisogni corporali, come pure nelle altre cose, nessuno è giudice in causa propria, nè pure il superiore, a cui viene assegnato chi pensa per lui; che tutto viene regolato e dispensato dall' ubbidienza; che quindi può avvenire talvolta che alcuno abbia da soffrire, ma chi non ha da soffrire a questo mondo? e questo caso deve ben essere raro in una società, in cui nulla è più raccomandato che la dolcezza verso gli altri (si chiama della carità) e il rigore per sè. Più frequente deve essere quel caso, nel quale uomini ferventi dimenticherebbero sè stessi, se il proprio superiore non provvedesse loro; ed è questa la principale ragione per la quale si attribuisce a tutti chi abbia cura della sua salute, e dei suoi bisogni. Finalmente è indispensabile, che chi si dà a Dio si abbandoni anche a Dio ed alla sua provvidenza, e si prepari un animo contento di ciò che è sufficiente: [...OMISSIS...] . Per altro tutto questo affare versatelo con Dio in una orazione umile e generosa, colla quale non dimandiate che la sua gloria e la vostra salute; ed egli vi esaudirà. Aggiungete in questa orazione anche il miserabilissimo vostro amico. [...OMISSIS...] 1.31 La lettera, che avete avuto la bontà di scrivermi nella festa della nostra Mamma assunta in cielo, mi apportò una grandissima consolazione spirituale, perchè mi ha dato notizie vostre che molto desiderava, nè sperava così presto d' avere, e molto più perchè la trovai piena di quei sentimenti, coi quali vivendo voi, non potrete, per la grazia di Dio, che menare una vita piena della pace del Signore e assicurare la vostra eterna salute. Oh sì che non vi è altro, mio caro signor Phillipps, che ci possa dar vera e soda e inesausta consolazione, se non il vivere distaccati dalle cose terrene, e coll' anima in cielo, aventi sempre la memoria di Dio e del nostro Signor Gesù Cristo, non meno che della sua amatissima Madre, nostra gloria e letizia. Io me ne congratulo con voi, io ne ringrazio il cielo, io vi scongiuro a perseverare su questa via sino alla fine, ed a mettere ad effetto, colla grazia del Signore e colle sue sante ispirazioni, tutti i vostri proponimenti pii e salutari. Vi ringrazio ancora della confidenza che mi usate aprendomi il vostro cuore, il più bel segno di cristiana amicizia che mi poteste dare, e raccontandomi il combattimento che sentite in voi stesso, necessario per vincere la miseria umana, e conseguire quella perfezione a cui vi sentite chiamato. Ah! mio caro sig. Phillipps, è questa pur troppo la condizione della nostra natura, guasta radicalmente: il germe della superbia, innato con noi, è pur troppo il più profondo dei nostri mali, è una fistola che incancrenisce irrimediabilmente, se il miracolo della grazia divina, cooperando gli sforzi della nostra volontà, non la sana in noi. Perciò io vi consiglio e conforto a cercare tutti i mezzi possibili per umiliarvi e acquistare il santo disprezzo di voi stesso, mettendovi l' ultimo fra tutte le creature, e colla carità la più effusa verso tutti gli uomini e massime i più poveri, bassi, abietti ed afflitti, rendendovi servo di tutti per Cristo: in essi onorando Cristo, e imitando Cristo che venne per servire e non per essere servito. Ed a voi è più necessario operare tutto ciò che fate, con questo sentimento, in quanto che, avendovi Iddio posto in alto grado nella società e dato dei beni temporali, più facilmente potete essere offuscato dalle vanità del mondo, e d' altro lato più facilmente servire Dio ne' vostri prossimi con grande merito vostro. Ed è questa umiliazione e carità e dolcezza che renderà efficace poi il vostro zelo per la salute delle anime, se Iddio, come credo, in ciò vi ha eletto, per la sua grande misericordia, suo strumento, e pel bene che ne ridonderà a cotesta vostra patria, tanto degna d' affetto, a cui non posso pensare, senza sentirmi intenerire e piangere il cuore, quando penso che ella era una volta l' Isola de' Santi, e che poi il demonio così la pervertì e travolse miserabilmente; nè avrebbe trovato come fare ciò, se non avesse trovato negli uomini già entrato miseramente l' attacco disordinato ai beni temporali, che è il principio d' ogni sciagura, e agli interessi di questa misera vita, e la superbia. E` dunque una grazia grande quello che Dio vi fa col darvi lume a conoscere la perfezione a cui vi chiama, e voglia di conseguirla: ed è un obbligo questo che dovete adempire. E per venire alla minima nostra società, non so se sappiate che appunto il fondamento di essa è la perfezione dell' anima propria; e che tutto il grande scopo di essa si è di aiutarci insieme a conseguire un tanto fine. Laonde per sua natura ammette in sè tutti quelli che desiderano ardentemente la perfezione; ancorchè la divina Provvidenza li voglia nel secolo, come voi, che sento dalla lettera vostra in trattato di presto sposarvi: nel che vi prego ogni benedizione, acciocchè la compagna che Dio vi destina, sia una cosa con voi nel Signore, e vi sia non solo di aiuto in questa vita, ma d' aiuto anche per l' altra. Dico che nella minima società nostra possono entrare anche persone che sono nel secolo (purchè non pensino co' principii del secolo), quando il vogliano; poichè ai Religiosi propriamente detti sono congiunti e affratellati di quelli che si dicono ascritti e che, vivendo nel secolo, hanno però tutta la congiunzione possibile di carità e partecipazione di opere buone coi nostri, anzi sono propriamente nostri; e unitamente nel loro stato travagliano tutti alle opere della gloria di Dio e della carità dei prossimi, quando e come la divina Provvidenza dimostra di volere. Il che vi dico per vostro lume, e fors' anco per vostra consolazione, muovendovi Iddio a prendere tanta parte alla minima nostra società; della quale pure è questo principio « di fare qualunque cosa che appartenga alla gloria di Dio e alla carità del prossimo, in qualunque paese, purchè sia dimandata, e di contentarsi poi di tutto ». Per il che circa i mezzi di sussistenza in Inghilterra, sa Iddio cosa ci vuole; non vi date punto alcuna pena, perocchè poco veramente ci basta, e se non ci fosse anche nulla affatto, desiderandolo il Vescovo, ci verremo nulla ostante: vivendo con quello che abbiamo del nostro, fino che ce n' è, e poi confidando nella Provvidenza: chè di fame nessuno è mai morto di quelli che travagliano per Iddio, avendo questo Signore de' granai in abbondanza da mantenere gli operai che egli solo chiama e conduce nel campo. Bensì infinitamente vi ringrazio del zelo che avete per una tale opera, che Iddio solo sa quali effetti produrrà per l' onore e gloria sua in Inghilterra, e delle parole che avete già fatte col vostro Prelato, e di quelle che volete fare col piissimo Conte Shrewsbury; nè dubito punto che la fondazione per l' opera vostra non debba avere luogo. Anzi perchè sappiate come stiano le cose fra noi, il caro Gentili è qui meco al Calvario, e ne ho qualche altro, che sto preparando, quando e come al Signore piacerà, per l' Inghilterra; giacchè non c' è, si può dire, cosa che mi stia più a cuore di questa. E voglio unirvi alla presente una lettera dello stesso Gentili, acciocchè sentiate anche i suoi sentimenti, e siate anche con essi maggiormente consolato. Iddio benedice manifestamente le cose nostre. Una nuova fondazione abbiamo ora fatta nella città dell' ultimo sacrosanto Concilio Ecumenico, che fu contro tutte le eresie moderne: e penso che non senza significato ci abbia la divina Provvidenza chiamati in Trento, dove fu il Vescovo che ci volle; e le cose procedono, per la sola grazia di Dio, assai bene. Avrei altre chiamate, ma non voglio troppo allargarmi, procedendo anche in ciò dietro i consigli, che ebbe la degnazione di darmi il nostro Santo Padre Gregorio XVI; al quale sta tanto bene, per la uguaglianza del nome col Magno che convertì l' Inghilterra alla fede, che egli ci mandi costà. In quanto a noi, spero che in men di due anni saremo preparati. Ora è tempo da pregare assai, e da disporci: voi dalla vostra parte, noi dalla nostra. Ma, come dico, soprattutto è da farci orazione molta. Oltre le private, facciamo anche noi nelle nostre case orazioni in comune per voi, mio caro, e per i santi vostri disegni e desiderii sull' Inghilterra, acciocchè Iddio il tutto benedica, secondo il suo divino beneplacito, nel quale riposiamoci pur tranquillamente: e dicendo per i vostri santi desiderii sull' Inghilterra, intendo in primo luogo per la salute di quelle anime che vi sono più care, cioè per la salute del padre vostro e della vostra famiglia. L' inquietudine d' Inghilterra e del mondo è certo a bene ed a trionfo della santa Chiesa; e anch' io, mio caro Phillipps, aspetto delle glorie nuove ed inaudite, che sono per venire alla Chiesa di Gesù Cristo, in adempimento di tutto ciò che profetarono « sancti qui a saeculo sunt », e che non è ancora pienamente compito. Tale e tanta debba essere la gloria di Gesù Cristo ancora in questo mondo, che ogni cogitazione umana e speranza dei buoni trapassi e vinca. Non ho però coraggio di applicare ancora i mille anni dell' Apocalisse, di cui voi mi parlate. Il Signore sa tutte le cose, egli conosce i tempi ed i momenti, « et abscondita », come disse Giobbe, « in lucem produxit ». Noi teniamoci al sodo della sua santa ed adorabile legge: qui abbiamo tutto: massimamente preghiamo. Nel santo sacrifizio che indegnamente celebro ogni mattina voi, mio caro Phillipps, siete ricordato, e il sacrificio stesso nol celebro, se non per questo, insieme cogli altri affari riguardanti la gloria di Dio e della minima società nostra. Di questa vi manderò poi, se mai voi vorreste mostrarla ad alcuno secondo la vostra prudenza, qualche piccola descrizione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Giunto a Trento felicemente, dopo essermi trattenuto in patria qualche giorno, ho subito portati i suoi complimenti a sua Altezza Rev.ma e presentata la lettera che mi ha consegnata...... Ora mi permetta che io scriva quello che non ho potuto dire, per la ristrettezza del tempo che mi sono trattenuto in Verona, nell' ultimo mio passaggio, circa l' obbiezione delle troppe incombenze che si propone di assumere l' Istituto della Carità, come io il concepisco. Dissi già che questa obbiezione riposa sopra un falso supposto; ma non ho potuto rendere ragione di questa mia risposta. Il falso supposto è, che questo Istituto si proponga tutte le opere di carità indistintamente: ciò non è al tutto vero. Egli ha un' opera sola determinata che si propone, e, quanto a sè, non si propone null' altro, e quest' opera si è la santificazione dei membri, dei quali l' Istituto si compone. In questo punto differisce molto dall' Istituto dei Gesuiti, che si propone due scopi principali, la santificazione propria, ed ancora l' altrui. Il fine del nostro Istituto è più semplice, perchè non ha per iscopo principale ed ultimo se non la sola santificazione propria; e quindi egli è un Istituto radicalmente contemplativo, di vita quieta e privata, quale conviene al sacerdote semplice, o al laico che aspira alla perfezione evangelica. E` un errore, pur troppo diffuso a' nostri giorni, il credere che la professione del sacerdote importi di sua natura la cura d' anime, quando anzi è il solo Vescovo che, di sua natura, è Pastore, ed i Sacerdoti non hanno alcuna missione, se non quella di pregare e di sacrificare per sè e per il popolo, quando però il Vescovo non li chiami e non li mandi. Essendo dunque proprio del laico e del sacerdote semplice la vita umile, occulta e ubbidiente, e perciò l' orazione e lo studio; di questo genere di virtù e di vita si fece lo scopo vero d' un Istituto, cioè del nostro, che si compone di persone private, legate insieme per santificarsi mutuamente ne' doveri del proprio stato. Lo scegliere questo, piuttosto che un altro fine, non era nè pure in mio arbitrio, giacchè è il fine, da cui non si può prescindere, essendo stabilito non da me, ma da Dio: e l' aggiungere a questo l' impresa di qualche opera di carità esigerebbe una speciale missione, una speciale manifestazione della divina volontà, una ispirazione straordinaria, cose che sono bensì proprie de' santi, ma non di me miserabilissimo peccatore, e se anche ai peccatori Iddio manda di tali vocazioni straordinarie, a me però non le mandò punto. Egli è bensì vero che a Dio non si può legare le mani, e che anche quei laici e quei sacerdoti che pensano a se stessi, assumendo per divisa quello dell' Apostolo, attende tibi , possono essere da Dio chiamati all' esercizio di qualche opera di carità, e ciò, non solo in modo straordinario, ma anche per le vie ordinarie. Perchè essendo tutti gli uomini, in generale parlando, obbligati all' esercizio della carità del prossimo, e tanto più quelli che si propongono la perfezione, egli è manifesto che, ogniqualvolta il prossimo ci domanda d' aiuto, e noi possiamo aiutarlo, ci incombe l' obbligazione o almeno il consiglio di farlo. In tal modo anche i semplici cristiani sono tirati da una necessità morale ad esercitare delle opere di carità, in certi casi, e molto più i sacerdoti, e quelli che aspirano alla perfezione. Perocchè in questi casi, ricusandosi, non provvederebbero alla propria santificazione come desiderano, ed unicamente desiderano. All' incontro nessuno è obbligato, e, oso anche dire, nessuno è consigliato (senza una particolare vocazione) di andare a cercare le necessità del prossimo, perchè il prossimo, a cui dobbiamo accorrere, non è già rappresentato nel Vangelo in un infermo cercato, ma nel Samaritano trovato sulla strada. E Gesù Cristo stesso menò vita occulta per trent' anni, per darci una lezione contro il falso zelo; ed anche quando uscì nella vita pubblica, si restrinse alle cose della sua missione, e non cercò punto gli infermi per risanarli, ma gli venivano portati, e ci volle molta instanza dalla parte della Cananea per essere esaudita, dicendo egli: « Non sum missus nisi ad oves quae perierunt domus Israel (Mat. XV) ». Quando adunque c' è la petizione e l' istanza del prossimo, anche persone prive di generale missione sono certo obbligate o consigliate a prestarsi, ed in questi casi la volontà di Dio e la missione è quindi manifesta. Ora queste sono le opere di carità che assume di esercitare l' Istituto della Carità, perchè a queste non può ricusarsi, per la natura stessa del suo unico e semplicissimo fine. Ella qui soggiungerà che, appunto per questo che le opere di carità non sono determinate, si viene con ciò stesso ad assumerle tutte. Ma io rifletto che nessuno può mettere legge alla Provvidenza, alla quale sola spetta di determinare le opere di carità che ognuno di noi è chiamato ad esercitare; e che non è in nostro arbitrio di escludere un' opera buona, che in virtù delle circostanze noi siamo obbligati o consigliati di assumere; e che basta assumere queste opere di carità prudentemente . Questa è la condizione di tutti i cristiani e di tutti i Sacerdoti: e chi ci autorizza a restringere la legge di Dio, e limitare il Vangelo? La carità non è di sua natura universale? Posso io arbitrariamente prefiggermi di esercitare la carità solo per metà, in una specie di cose sì, e in un' altra specie no? Se fu la Provvidenza, quella che m' impegnò in qualche opera, certo sono dispensato di occuparmi in altra, dove non giungessero le mie forze; ma farmi da me stesso una legge di non estendermi fuori di certe opere determinate, questo non saprei come farlo, senza restringere la legge evangelica, cioè farmi un Vangelo mio proprio; molto meno saprei imporre una simile restrizione e limitazione ad altri. Ma con ciò si viene a condannare gli altri religiosi Istituti. - No, certamente: Dio me ne guardi; ma si viene bensì a dire che i santi Fondatori de' religiosi Istituti avevano dei lumi grandi soprannaturali, una missione straordinaria: e con questo intendo di fare il più grande elogio de' religiosi Istituti. E non dubito punto che quella santa dama, la Marchesa Canossa, non abbia una ispirazione straordinaria, se fonda i Figli della Carità in quel modo che li ha concepiti; perchè è somma la stima che ho per Lei, e ciò non mi maraviglierebbe punto: massime avendo avuto un simile straordinario impulso per la formazione delle Figlie della Carità , che è manifestamente opera di Dio. Ma la mia miserabilità è infinitamente lontana da queste cose: ed io non posso che trascinarmi per le vie le più ordinarie e comuni; e Dio sa con quanta imperfezione vada anche per queste vie; e se non fosse la bontà de' miei compagni, l' Istituto della Carità non procederebbe così facilmente tanto nella Diocesi di Novara, come in questa, anzi nè pure starebbe in piedi. La condizione dunque nostra, e quella dei laici e dei preti secolari, è la medesima; e la necessità che abbiamo, sì gli uni che gli altri, si è di assumere le opere di carità, offerte dalla divina Provvidenza, prudentemente . Ma nell' osservare questa prudenza, c' è però un vantaggio notabile nell' essere in congregazione sopra il non essere: perchè qui ognuno non giudica in causa propria, ma è diretto dal giudizio del superiore, e non riceve incarichi, se non dopo che il superiore ha giudicato che convenga riceverli per ubbidire a Dio, la cui volontà nelle circostanze esterne si manifesta. Un altro vantaggio notabile dell' essere uniti insieme, si è quello di potersi aiutare scambievolmente e prepararsi meglio a fare con generosità di cuore ciò che a Dio più piace, e non ciò che il proprio capriccio, o almeno l' inclinazione vorrebbe, sotto il pretesto di zelo. Un terzo vantaggio ancora si è quello che, volendolo Iddio, un corpo di persone può esercitare degli uffizi caritatevoli più estesi, che persone singole sparpagliate. E a questo proposito dell' esercitare la carità esternamente, mi ricordo che Ella mi disse, non sapersi persuadere, come si potrà regolare bene un corpo di persone, che vivono anche fuori delle case. Ma conviene considerare che il fondamento della società sono le case, e che quelli che stanno fuori, non sono che un sopra più, degli ausiliari comodi per certe opere, nelle quali, adoperando degli interni, si metterebbe forse a pericolo il loro spirito; sicchè la società potrebbe sussistere anche senza queste braccia esterne, ma l' avere qualche aiuto di più non sarà male. Tanto più che la carità vuole che, se qualche esterno desidera di partecipare de' beni della società, non lo si escluda, e l' escluderlo sarebbe uno di quei principii arbitrarii, ai quali io fo sempre guerra in tutte le cose. Sicchè gli esterni vengono come per una conseguenza dello spirito della società. La prego, Monsignore, di scusarmi se ho scritto così a lungo; e con la consueta venerazione implorando la pastorale sua benedizione, di cuore sincero mi onoro di essere... [...OMISSIS...] 1.31 Con questa mia non posso rispondere a tutti i punti della vostra lettera, come vorrei, per la scarsezza del tempo, e per altre cagioni: ma risponderò poi con comodo a tutto. Portate dunque pazienza per ora e ricevete quello che vi posso dare, che è forse il principale. Ricordatevi che la pazienza e il sapere aspettare è di sommo momento per noi; che io sono nemico della fretta, e che mi è carissima oltre modo, e vorrei da tutti i nostri praticata quella virtù che si chiama della longanimità , tanto nelle divine Scritture lodata. Ecco adunque le poche cose che ho da osservarvi per ora. Mi piace che si diano ai novizi delle meditazioni tutte al loro scopo, e son certo che ci guadagneremo. Quello che vi raccomando in visceribus Christi si è di non ostentare con essi la minima autorità, ma di trattarli con una dolcezza e carità senza fine, sopportando i loro difetti con vera longanimità e pazienza, non volendoli far correre più che non possano le loro forze; ma solamente conducendoli a mano d' un gradino all' altro per la scala delle virtù. Conoscendo noi stessi, avremo infinita benignità ed indulgenza verso gli altri. Qualunque guadagno si faccia, ringraziamone il Signore; perchè anche quello è dono suo, e non viene dall' uomo. Circa i difetti poi conviene bene spesso dissimularli, ove la correzione o la penitenza fosse superiore alle forze morali del novizio; verrà altro tempo più opportuno, ed allora si dee cogliere il destro della correzione. Sopra tutto rare volte avviene che la correzione, fatta sul punto del mancamento, giovi. Il più delle volte conviene lasciare tranquillare l' animo dello sviato, e nel momento di tranquillità e benevolenza, quando anche meno la si aspetta, fargli allora sentire la voce della ragione e della sincerissima carità, e « non dico tibi septies, sed septuagies septies » rimettere i mancamenti. Voi poi non inquietatevi punto, non tenete nè pure memoria, non che ruggine, per i falli dei novizi, acquistate dominio di voi medesimo, e non date segno che vi restiate offeso di niente, nè che riteniate animo menomamente indisposto verso di loro; altramente perdereste la loro confidenza e il loro amore, senza di che nulla vi gioverebbe ogni fatica. Considerate la descrizione che fanno le Costituzioni del maestro dei novizi, e come la prima qualità che si richiede in esso, sia questa: « Hic autem vir sit natura pacificus ». Debbo finire perchè viene gente. Vi abbraccio e benedico tenerissimamente nel Signore. Tenetevi alle istruzioni che ricevete e mantenete una perfetta unione in casa per la via della dolcezza, della carità e della umiltà e sottomissione al vostro superiore di costà, conversando con lui quanto il tempo più permetterà di stare insieme, chè sarà buono assai, che insieme conversiate il più che sia possibile. Addio dunque: aspetto notizie fedeli di tutto, e al tempo debito. [...OMISSIS...] 1.31 Perdonatemi, se vi ho afflitto coll' ultima mia lettera: mi è molto consolante di dovervi domandare perdono dell' afflizione datavi, in gran parte involontariamente. In fatti, se voi leggerete tranquillamente i rimproveri che in quella lettera vi faccio, troverete sempre usati i verbi e le particelle dubitative, temo, dubito, nel caso che siate reo , e simili modi: perciò erano rimproveri condizionati, i quali, mancando la condizione, cessano al tutto, e non dovete punto nè poco applicarveli. D' altro lato, mio caro, non crediate che io abbia fatto nessun giudizio sulla vostra condotta, ma solamente ho temuto ; e le apparenze mi davano da temere. Se dunque credete che io abbia fallato nell' esporvi anche i miei dubbi sulla vostra condotta, non solo io ve ne dimando umilmente perdono, ma anche mi sottometto ben di cuore a riceverne quella penitenza che voi stesso m' imporrete, e a darvi quella soddisfazione che più vi piacerà. Ciò premesso, vi prego di considerare che era ben penosa la mia posizione nel trovarmi da più di quindici giorni privo al tutto di lettere del Calvario, a malgrado che e voi e il Gentili aveste avuto obbligo di scrivermi, secondo l' istruzione datavi, e che io v' avessi scritto due volte in quel mezzo. Riflettete ancora che, se il dover partirvi dal Calvario era urgentissimo , come voi me lo descrivete, a segno che un sol giorno di ritardo poteva portare l' occupazione militare della casa, e quindi se voi dovevate partire senza dimora, potevate però fare che il Gentili mi scrivesse subito lui tutte le circostanze di questo affare, anche nella vostra assenza, senza aspettare di scrivermi voi da Torino, ad affare finito. Voi anche probabilmente voleste darmi la notizia del buon esito dell' affare, senza darmi la trista nuova del pericolo in cui era la casa. Ma io non voglio, mio caro, che con me usiate simiglianti riguardi e simiglianti delicatezze: amo bensì d' essere informato di tutto, passo passo, del bene e del male. Se poi io vi avrei consigliato ad andare a Torino, anche posta tutta l' urgenza che voi indicate, nol so, e quindi non posso approvarne ancora l' andata, perchè ne ignoro ancora i fini particolari. Ma forse anco io avrei preferito di espormi al pericolo dell' occupazione militare della casa, anzichè farmi innanzi fino a Torino e schivare l' occupazione per un privilegio odioso, e che è contrario, in generale parlando, allo spirito del nostro Istituto . Non so se voi sentiate la forza di questo riflesso, e desiderei sommamente che la sentiste. Per altro è necessario che mi diate de' lumi maggiori, e desidero positivamente che mi diciate i motivi che c' erano da temere una subita occupazione militare. Voi poi dite che non ci vedete questo male del sapere e dell' approvare che fa il Re la nostra unione del Calvario. Mio caro, se sia questo bene o male, lo sa solo Iddio. Ben vi dico, che la nostra unione, di sua natura è umile, privata ed occulta , e se cerca approvazione dai principi, senza necessità, essa ha tradito il suo spirito, che è spirito di confidenza nel solo Dio e nella ineffabile sua provvidenza. Sì, mio caro, noi dobbiamo avere anche in questo punto una maniera umile di procedere, cioè lasciar fare a Dio; fuggire il più che possiamo le relazioni coi grandi del secolo, eccetto allora che la necessità, cioè il dovere morale, esige che ci mettiamo con essi a contatto. Se dunque questa approvazione l' avessimo cercata, noi avremmo fatto un passo falso, e saremmo fuori di strada . In questo senso dovete intendere le mie parole. Perocchè, o voi convenite con me nel non cercare nè provocare in nessun modo, nè direttamente nè indirettamente, gli appoggi temporali, e nel volervi appoggiare semplicemente in Dio, col fare i propri doveri; e in tal caso quelle parole non sono dette per voi. Ovvero mantenete l' inclinazione e il pensiero di farvi avanti e tentare d' intromettervi presso i grandi per avere la loro protezione; e, in questo caso poi, potete correggere lo zelo falso, e perfezionarlo col divino aiuto; e non si ha per questo da dubitare della vocazione. Insomma, mio caro, prendete dolcemente, e intendete in sano modo le cose che io v' ho dette. E non mi conoscete ancora? E non sapete ch' io non voglio, se non il bene? Sì, per la divina misericordia, non cerco altro; intendete dunque bene ciò che vi dico: non per il male, ma per il bene; non per affliggervi o per iscoraggiarvi, ma per perfezionarvi sempre più e acciocchè possiate perfezionare anche gli altri, quelli che vi ha commessi il Signore, ed al quale certamente dovete rendere conto. [...OMISSIS...] Qui, per la misericordia di Dio, le cose vanno bene. I compagni mi sembra che crescano in virtù, ed anco in numero, giacchè ho diverse domande. Voglio mandarvi la nota di tutti, acciocchè se ne conoscano i nomi anche dai Confratelli del Sacro Monte. Abbracciatemi caramente il Molinari, e ditegli che gli raccomando di fare bene in tutto, come spero che farà. E qualche volta mi scriva non per complimento, ma per informarmi di sè e dello stato suo, parlandomi con apertura e candore. Amiamoci, mio caro, nel Signore. Abbraccio tutti i nostri; salutatemeli nominatamente . Ho in mente di scrivervi in un' altra lettera le mie ragioni per le quali temo che non sia stato secondo la prudenza l' andare a Torino, anche posta la grande urgenza da voi asserita. Ma prima aspetto la informazione sui motivi che c' erano da temere una così prossima occupazione militare della casa. Addio dunque intanto, preghiamo il Signore incessantemente. [...OMISSIS...] 1.32 Riputando cosa del mio dovere che Vostra Beatitudine sia di quando in quando informata de' progressi che al Signore piace di far fare all' Istituto della Carità , essendo Ella, sempre piena di benignità, che anche prima di sedere sulla cattedra di San Pietro si è degnata favorire il principio di questa umile opera, incoraggiandola e aiutandola con molte grazie, per sì fatta guisa che fin d' allora ho messo in Lei la mia confidenza e La ho considerata come il vero padre della Istituzione: ed essendo anche mio desiderio, a tenore dell' indole propria dell' Istituto, tutto ordinato in servizio della Santa Sede, di non procedere ad alcun passo notabile se non dopo d' avere implorata ed ottenuta l' apostolica benedizione; perciò io mi fo animo di venire ai santissimi piedi notificando a Vostra Beatitudine, che la divina misericordia si è degnata di estendere quest' anno prossimo passato l' Istituto della Carità anche nella diocesi di Trento, dove conta già, sebbene da così poco tempo introdotto, un ragguardevole numero di sacerdoti; e, la Dio mercè, tali che certamente è ancor più dalla loro qualità che dal loro numero che si può conoscere quanto voglia essere liberale l' Altissimo verso questo paese sito nei confini d' Italia. Il perchè, godendo anche tali soggetti della confidenza di questa Altezza Reverendissima, ad invito della quale ho intrapreso la fondazione, avviene che abbiano non poco da occuparsi in cose che riguardano la gloria di Dio e la carità del prossimo. Umilmente adunque prostrato ai piedi di Vostra Beatitudine imploro l' approvazione e la benedizione apostolica sulla nuova fondazione e sui singoli membri che la compongono. Perchè poi è pregevolissimo il tesoro delle sacre indulgenze, e giustamente ne sono avidi i cristiani fedeli, perciò consapevole della carità e liberalità apostolica di Vostra Santità, oso ancora supplicare alla medesima acciocchè volesse degnarsi di conferire qualche sacra indulgenza da lucrarsi da tutti i membri di questo Istituto, pel quale anche la santa memoria di Pio VIII si era degnata di offrirmene ov' io le avessi dimandate, il che ho differito di fare fin adesso anche per aspettare che l' Istituto prendesse qualche consistenza; e nominatamente supplico che tali indulgenze non solo sieno profittevoli a quelli che all' Istituto appartengono col legame de' quattro o de' tre voti, abitino questi ultimi in case raccolti, o fuori nel campo del Signore col titolo di Coadiutori esterni ; ma ben ancora a quel genere di persone che appartiene all' Istituto della Carità col titolo di Figliuoli adottivi , come altresì a quello che vi appartiene col titolo di Ascritti : l' uno e l' altro de' quali generi, sebbene liberi dai voti dell' Istituto, ricevono però dall' Istituto medesimo una particolare direzione o aiuto spirituale, e prestano la loro cooperazione nell' esercizio delle opere della carità; e finalmente anche a quelli che vengono ricevuti come Alunni in prova, acciocchè possano a suo tempo essere incorporati nella Società in quella classe di persone che meglio a ciascuno di loro si conviene. Finalmente riguardo alla mia particolare persona oso anche esporre umilmente alla Santità Vostra, che dopo l' ultimo mio ritorno da Roma, insistendo sull' indirizzo datomi dalla santa memoria di Pio VIII e da Vostra Beatitudine confermatomi, non mi sono tanto occupato nei particolari rami di carità, p. es., predicare e confessare (a meno che qualche caso particolare non mi sembrasse esigerlo, anche per esempio de' miei compagni); quanto nella direzione generale dell' Istituto, e nel ribattere gli errori correnti scrivendo de' libri, ne' quali cerco di non limitarmi alla sola confutazione, ma di estendermi a stabilire la vera dottrina, colla luce della quale le dottrine erronee cadono da sè stesse: uno dei quali libri ho anche pubblicato col titolo « Principii della Scienza morale » ed ho fatto umiliare a Vostra Santità per mano dell' Em. Card. Vicario, dove ho avuto anche per iscopo di distruggere il sistema degli Utilitari , cioè di quelli che vogliono dedurre i doveri morali dall' utilità, sistema che riprodotto in tante forme e introdotto oggidì per tutto sì negli affari pubblici che privati non cessa di produrre un infinito male alla religione non meno che alla società. E medesimamente sarebbe mio disegno di attaccare gli errori dominanti con una serie di scritti, che, se Vostra Santità approverà questa mia occupazione e Dio mi concederà vita e forze, non tarderò di venir successivamente pubblicando. 1.32 Dell' Istituto della Carità credo che voi dobbiate avere una piccola descrizione scritta: se non vi basta, ne aggiungo qui un' altra, breve sì ma che contien tutto. Qui la misericordia divina si degna di benedir molto l' Istituzione. Vi raccomando però di far un uso prudente delle notizie che avete dell' Istituto; cioè a dire non operate per fantasia, nè vi lasciate lusingare da speranze vane. Se vi vedete del solido, cioè se persone pie veramente desiderano l' Istituto, in questo caso confidate loro ciò che credete; altrimenti vi prego di tacerne e non parlarne oziosamente con nessuno. Il mondo è pur troppo sempre nemico di Cristo; onde non conviene inutilmente attizzarlo: « Cavete ab hominibus ». Santifichiamo sodamente noi stessi: ecco l' ogni bene, mio caro. Sono a parte con tutto il cuore delle vostre tribolazioni. [...OMISSIS...] Quest' Istituto è una pia Società composta di Sacerdoti e laici uniti insieme per cooperare alla propria, e, ordinatamente, anche all' altrui santificazione. L' indole propria dell' Istituto è quella di venire in aiuto de' Vescovi principalmente, in tutti i bisogni delle Diocesi e delle parrocchie. Per questo fine l' Istituto non esclude veruna occupazione, incombenza, o ramo pio; ma intraprende tutto ciò che i Vescovi principalmente desiderano o dimandano. S' intende però sempre fin dove arrivano le forze dell' Istituto stesso. L' Istituto quindi ha per fondamento quella massima di San Francesco di Sales « nulla cercare e nulla ricusare »: intesa in questo modo, che i membri di questo Istituto non hanno un particolare oggetto esterno in cui sia loro essenziale l' occuparsi, nè intraprendono cosa alcuna da sè stessi; ma, se vengono cercati o da' Superiori ecclesiastici, o anche da semplici fedeli, si prestano in tutto ciò che loro è possibile; per esempio in missioni, in cura d' anime, in iscuole, in collegi, in assistenza di spedali, di prigioni ecc. ecc. preferendo anche le opere più umili e le men curate dagli altri. Se poi non sono dimandati, essi non escono dalle funzioni della loro propria Chiesa, ma in essa confessano e predicano e mantengono vivo il culto di Dio: e in casa si occupano, oltre che negli esercizŒ pii, negli studŒ adattati alla loro professione. I membri di questa Società hanno de' voti semplici e perpetui, solvibili però a giudizio del Superiore. Alcuni membri poi a scelta del Superiore emettono anche il voto delle missioni del Sommo Pontefice. Ai membri stretti con voto si aggiungono alcuni pii fedeli che vengono aggregati senza voti, per pura divozione e ad intendimento di cooperare alle opere di carità che l' Istituto ha occasione di esercitare. I Superiori dell' Istituto sono: 1 un Superiore Generale, che risiede in quella casa dell' Istituto ch' egli medesimo si sceglie e che presentemente ritrovasi nella casa in Trento; 2 e dei Superiori locali costituiti dal Superiore Generale secondo i bisogni. Quando il Vescovo, il Parroco, o anche de' semplici fedeli bramano qualche servigio od opera di carità, essi si rivolgono ai Superiori dell' Istituto, e questi sono obbligati, avendo i soggetti opportuni per quell' opera, di servire ai medesimi assumendo quegli incarichi senza riflesso a vantaggi temporali od altra considerazione umana. In caso contrario però, cioè non avendo in pronto i soggetti adattati, od essendo questi precedentemente aggravati d' altre opere, hanno il diritto di non accettare l' opera della quale vengono dimandati. [...OMISSIS...] 1.32 Ho tardato alquanto a rispondere alla loro cara lettera per diverse occupazioni sopraggiuntemi. Intanto il caro Loewenbruck avrà recato loro i miei saluti, essendo stato qui a trovarmi; sebbene alla sfuggita. Ora finalmente eccomi a intertenermi almeno un poco co' miei Lissandrini e Teruggi. La relazione che mi danno di sè stessi mi fa fede del loro sincero desiderio di profittare nella virtù ogni giorno, e di pervenire alla perfezione in questa dolce via del servizio del Signore. La perseveranza nei loro tentativi, nei loro sforzi, nella loro rinnovazione dei santi proponimenti, ne' sospiri e ne' gemiti fatti innanzi al trono di Dio crocifisso, sarà indubitatamente coronata. Ah! non trascuriamo nissun mezzo, miei cari, per infrenare la nostra mobilità, e por ferma legge alla nostra naturale leggerezza! Oh quanto saremo consolati se piglieremo la cosa seriamente, se porremo delle leggi a noi stessi da non infrangerle sì agevolmente, legando con esse quasi con una catena di ferro la protervia della nostra carne e l' inconsideratezza del nostro spirito! Ciò che crederei molto contribuire a ciò sarebbe che avendo essi insieme una confidenza veramente fraterna ed intiera in Gesù Cristo, l' uno eleggesse l' altro in suo sopravegliatore, e si obbligassero insieme ad avvertirsi e tenersi fermi nelle regolette stabilite, confessando i proprii falli e pregando d' averne in cambio salutari penitenze. I proponimenti riguardanti la distribuzione delle ore ordinate alla esecuzione delle due regolette ricevute converrebbe fossero fatti insieme con qualche solennità, per esempio in un giorno di ritiro tutto consecrato a penetrarsi dell' importanza di operare virilmente nelle cose dello spirito. E con questi proponimenti converrebbe promettessero l' uno all' altro, non solo ciascuno a sè stesso, il mantenimento di alcune particolari regolette (quali essi stessi crederanno di formarsele e proporsele, secondo le loro circostanze): e nello stesso tempo l' uno assumesse incarico verso l' altro di non perdonare nessun difetto o mancanza contro alle dette regolette. Ma una cosa che crederei ancor più poter giovare all' acquisto di spirito ed al progresso nelle solide virtù sarebbe dare delle scappate, e passare qualche porzione dell' anno al sacro Monte Calvario, ed ivi farvi gli esercizi spirituali; giacchè oltre il sommo vantaggio che deriva all' anima da quel luogo solitario ed idoneo al contemplare, massime pei tanti oggetti intorno che rammentano i misteri della dolorosa passione dell' Uomo7Dio nostro Redentore; oltre la forza delle meditazioni stesse date in quell' ordine concatenato che S. Ignazio ha indicato tanto utile massime alla purificazione dell' anima; oltre tutto ciò ed altri vantaggi, io veggo che ce n' avrebbe in ciò uno singolarissimo, qual è quello di potere intendersi e legarsi meglio alla piccola società del Calvario, e stabilire que' nessi e quelle relazioni, dalle quali, introdotte che fossero fra noi, ne aspetterei una comunicazione non piccola di grazie celesti e un grande aiuto scambievole, sì per migliorare e confortare le anime nostre, come per esercitare, secondo l' ordine della divina Provvidenza, la carità verso il prossimo; questa virtù della carità, che forma il distintivo de' discepoli del Signore, e della quale si pregia di denominarsi il piccolo Istituto che nacque a piè della croce. Ed anzi parmi ormai tempo che alle due regolette che hanno scritto nel loro libriccino se n' aggiunga una terza cioè appunto quella degli Esercizi annuali da farsi al sacro Monte, di che ho fatto anche cenno al nostro amatissimo Mons. Vicario Scavini, e che potrebbe essere espressa così, se a loro pare: 3 « Omnes alieni domui societatis adscripti erunt, et in ea opportuno tempore exercitia spiritualia peragent annis singulis . » Questa terza regoletta l' aggiungano adunque alle due prime del libretto, se loro piace, e la comunichino altresì a Monsignore; e queste tre regolette, ben meditate e scritte nella mente, sieno il fondamento e il principio da cui deducano poi quelle altre regolette più particolari che diceva di sopra da imporre a sè stessi, e rendersi della loro esecuzione l' uno e l' altro scambievolmente responsabili. La misericordia divina benedirà, come spero grandemente, questi piccoli principii. Operiamo solo rettamente e generosamente, e ne' nostri mancamenti una profonda umiltà ci sorregga; non rifiniamo mai di confessare i nostri falli, e di umiliarcene in tutti i modi, e di essere sempre come poverelli che gemono e dimandano limosina. Ah! è un gran titolo a ricever pietà dal nostro buon Padre celeste l' esser poveri, e il dire di cuore: « inclina, Domine, aurem tuam et exaudi me, quoniam inops et pauper sum ego ». Anche per me innalzino la loro voce, il più povero di tutti, ROSMINI p.. [...OMISSIS...] 1.32 Vi ringrazio delle notizie mandatemi da Milano e da Arona. Quanto alle parole del Cardinale, non vi dieno alcuna noia. E` in Dio che noi confidiamo: si farebbe torto a sua divina Maestà diffidando: « brachium Domini non est abbreviatum ». Per altro se le parole degli uomini ci recano qualche perturbazione, entriamo in noi stessi, mio caro, e da un tale effetto riconosciamo che noi mettevamo la nostra fiducia negli uomini. Eh! chi è spoglio di ogni speranza e fiducia dalla parte degli uomini, chi non pensa a protezioni umane, ma vuole solo la protezione di Dio, non si turba punto per qual si voglia parola, che oda dagli uomini. D' altra parte ricorriamo sempre a quel dolcissimo principio, che ogni bene per noi è racchiuso nel fare la volontà di Dio, nel perfezionare e santificare noi stessi: e quanta tranquillità e costanza non acquisteremo! quale santissima indifferenza per tutto ciò che si compiacerà di fare avvenire la Provvidenza benignissima! Ah! faccia il Signore di noi e della società nostra tutto ciò che a lui piace; saremo egualmente contenti. Piace a lui che la nostra società si rimanga umile, oscura, piccolissima? Sia benedetto: agli occhi suoi, ve lo dico sinceramente, riesce più amabile, più ch' ella è piccola, appunto perchè ella ha meglio occasione d' essere anche più umile e non soggetta alle lodi degli uomini, che corrompono il nostro cuore. Piace a Dio che la nostra società sia contrastata, combattuta, perseguitata? Lo sia pure; solo non succeda per nostra viltà, per nostra leggerezza ed imprudenza, per nostra presunzione, in una parola per nostra colpa. Gli piace in quella vece che la nostra piccola unione prenda radice e s' ingrandisca? Sia benedetto egualmente. Questi, o mio caro, sieno i nostri sentimenti: e questi ci renderanno imperturbati, o certo forti contro le tentazioni che ci assalissero. Ricordatevi i proponimenti fatti in Trento, le promesse date, di cui il tremendo giudice certamente vi domanderà conto. D' altra parte l' abbondanza della misericordia divina trabocca sopra di noi in quanto ai favori esterni; vorrei dire altrettanto degli interni, se la mia imperfezione e miseria infinita non facesse continuamente guerra alla increata Bontà. Dite al Gentili che le cose per la missione inglese vanno bene; che tutto saprà a suo tempo; che ora non resta altro che fare orazione molta per quest' affare, e farne fare. Abbraccio teneramente tutti i miei carissimi fratelli. Preghino tutti fervorosamente per la salute delle anime nostre. Oh quanto sono pieno di miseria, mio caro! E pure confido nel Signore che esaudisce la voce dei miseri, questa voce che innalzo pure a lui dall' abisso delle mie malvagità. « De profundis clamavi! » Pregate dunque istantemente e tutti, pregate pel vostro in Cristo A. R.. P. S. . Non è ancora questa partita e ricevo la vostra de' 6 marzo dal Calvario. Due cose mi hanno molto consolato in essa: le buone nuove de' carissimi nostri confratelli, e le speranze che danno le giovani inviate a Portieux. Sia lodato Iddio mille volte. V' ho scritto già che vi do licenza di trattare l' affare delle Figlie della Provvidenza in Isvizzera: ma vi scongiuro di nuovo, prudenza nelle vostre parole e nei vostri fatti: diffidate di uno zelo impetuoso e subitaneo; siate calmo in tutte le vostre parole, e operazioni, e non prendete impegni , ma tenetevi alla larga colle promesse. Iddio farà tutto, se camminerete nella via retta. Altrimenti gran bei principŒ e tristi riuscimenti. Abbraccio tutti di cuore e vi benedico nel Signore. [...OMISSIS...] 1.32 La ringrazio di cuore della sua lettera piena di bontà e di carità. Faccia il Signore che la causa della virtù e della religione proceda innanzi; ed ho in seno una immobile speranza che procederà innanzi anche in mezzo ai rischi ed agli sforzi disperati dell' inimico dell' uman genere, perchè è finalmente la causa di Gesù Cristo, a cui è data ogni podestà in cielo ed in terra. Credo che molto debba aiutare questa causa ne' nostri tempi una sana filosofia, e che quelli che daranno opera a renderla non meno pura che evidente si acquisteranno molto merito per l' eternità, se il faranno sinceramente per amor di Dio. Vorrei vedere i Gesuiti entrati su questa strada: oh quanto n' aspetterei di bene! se non fanno i buoni, e quelli che se l' intendono con Dio, chi farà? Pare a molti un prendere la cosa da lontano a voler per questa via giovare gli uomini, ed amano più i mezzi più vicini e pratici. Ottimi sono questi, ma ciò non fa che non sia maggiore il bisogno di risanare le menti coll' infondere in esse idee giuste. Gli uomini conviene andare a prenderli lontani, perchè sono andati lontani. Non ci sarà nè chi sappia somministrare, nè chi sappia ricevere i mezzi migliori, fino che si seguita a empir le menti di torte idee e che hanno in seno il verme. L' umana debolezza d' altro lato ha bisogno anche degli amminicoli, massime oggidì. La religione, tanto guasta da una mala filosofia, riceverà solo da una filosofia buona quello splendore che penetra ovecchesia, e a cui nulla s' agguaglia: o, per dir meglio, gli uomini si metteranno in posto e in istato da contemplare tanta bellezza. Ah se io potessi trasfondere questo mio sentimento o anzi questo calcolo ne' Gesuiti! dico, questo mio calcolo: perchè non credo di parlare senza avere un po' meditato sui bisogni dell' umanità e sulla malattia da cui è travagliata: non parmi che sia un puro e vano sentimento che a creder così e a sperar tanto mi muova. Ho per certo che se fosse al mondo S. Ignazio m' intenderebbe: ma può dal cielo ottenere tutto il lume necessario a' suoi figliuoli. Ella mi farà sempre una grazia singolare se mi darà sue notizie, e de' suoi studi. Aspetto la preziosa grazia, che mi promette, di tenermi raccomandato nelle sue orazioni a Gesù, ed alla nostra carissima speranza Maria. Io, sebben così povero d' ogni bene, che ho vergogna fino di me medesimo a prometterglielo, pure non mancherò di farlo per lei; nè mi sconfido per questo mai di essere esaudito « quoniam inops et pauper sum ego ». La prego de' miei rispettosi saluti a' RR. PP. Rettore e Ministro, e a quegli altri suoi correligiosi che ho avuto il bene di conoscere quando fui a Novara. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.32 Non tardo un momento a rispondere alla cara vostra. Se ella mi ha afflitto per la compassione di quelli che patiranno dal sopravvenire della malattia che minaccia; di gran lunga più mi ha consolato ed empito di giubilo la manifestazione dell' unanime disposizione de' miei carissimi fratelli del Calvario nell' impiegare le loro forze e nell' esporre le loro vite in servire Gesù Cristo ne' suoi infermi. Oh bella occasione che vi manda l' amore del nostro Gesù! oh corona desiderabile che vi guadagnerete, se moriste in tale ufficio! oh consolanti parole quelle che udirete nel giorno estremo: « infirmus eram, et visitastis me »! Certo non vi può essere via più sicura e preziosa di questa per assicurarvi l' eterna vostra salute. Io, se mi sarà conceduto, verrò sicuramente ad aiutarvi, e dividere con voi, troppo avventurati, i travagli per Cristo. In quanto alla casa di cui sono livellario, io la metto in pienissima disposizione del pubblico per farvi lo Spedale ; e anzi lo scriverò io medesimo al caro Bianchi, nella lettera che qui unisco. Converrà però prendere le cose con fervore insieme e con prudenza, come vuole il nostro Maestro ed esemplare: cioè premunirsi di tutte le cautele tanto pel corpo , che per le anime nostre . Dico anche per le anime ; perchè in questi tempi di pubbliche malattie occorrono dei pericoli anche per l' anima più del solito, per la libertà maggiore del trattare, ed altre cagioni. Perciò in questo punto ci vorrà una somma vigilanza e provvidenza da parte dei Superiori. Voi pensateci; e mandatemi tutti i vostri riflessi, e un piano circa il modo di procedere de' nostri nel caso della malattia, dove tutto sia ben cautelato: ve ne incarico espressamente; questa è cosa vostra personale. Il Vice7superiore me ne farà uno anch' egli; ma non dovete comunicare insieme; ma ciascuno pensare da sè, scrivere e mandare. Io poi vi manderò, se ci sarà bisogno, un Regolamento definitivo per vostra buona regola. Addio, pregate istantemente e abbracciatemi tutti, facendo sapere a tutti la consolazione mia della loro generosa disposizione. Qui siamo tutti dello stesso cuore, e ci siamo offerti al Vescovo, prima d' ora. Anzi questo desiderio che facciate anche voi altri. Fate una bella lettera al Vescovo, offerendovi in essa a qualunque uso e luogo per tutta la Diocesi, in che egli vi vorrà adoperare in aiuto spirituale e corporale de' malati (non però in aiuto corporale di donne, chè questo lo escludo assolutamente), e dite in questa lettera che ciò ognuno fa per ispontaneo suo volere e maturo consiglio, fidando in Dio, ed avendone ricevuto il consenso e la permissione dal vostro Superiore. Poi sottoscrivetevi tutti cominciando dal Vice7superiore, e quindi voi, il Molinari e tutti gli altri, non esclusi i laici; sicchè tutti i nostri sieno anche in ciò un' anima sola ed un solo olocausto; non ne manchi uno solo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.32 Io temo che quelli ai quali Ella ha affidato l' esame delle Costituzioni, non ne abbiano bastevolmente penetrato lo spirito. Essi sembrano essere intimoriti dalle gravi obbligazioni di coscienza che impongono. Ma l' Altezza Vostra non ha che a rileggere il paragrafo 16., che è l' ultimo delle Costituzioni, per accertarsi che non v' è nessuna cosa nelle Costituzioni che obblighi sotto pena di peccato nè pur veniale, eccetto i voti e quelle cose che già sono obbligatorie per altre leggi. Con meno vincoli di coscienza di questi non si può erigere nessuna congregazione religiosa che abbia voti. Può essere che abbia fatto timore quel predicarsi e raccomandarsi da un capo all' altro delle Costituzioni una gran perfezione e una ubbidienza la più perfetta. Ma altro è quello che si propone come meta, altro è l' esigere che questa meta sia conseguita; oltracciò nello stesso tempo che si propone quella meta così alta, si prescrive ai Superiori ogni dolcezza, discrezione, non comandando se non quello che è proporzionato alle forze, in modo tale che ciò che i soggetti fanno, riesca sempre volontario. Questa autorità tutta spirituale e dolcissima de' Superiori, son per dire che sia propria dell' Istituto della Carità, e che l' autorità non sia se non puramente spirituale e persuasiva come quella di un padre spirituale e d' un maestro di spirito. Forse in nessun Istituto religioso l' autorità di comandare è proposta con tanta dolcezza, come nelle Costituzioni dell' Istituto della Carità. La cosa riesce in pratica mirabilissimamente; ed è una vera consolazione a vedere la letizia di tutti i miei compagni, nessuno eccettuato, che benedicono ogni giorno il cielo per la contentezza di cui godono. I Superiori ancora possono sciorre i membri da' voti; ed è loro prescritto di farlo ogni qual volta credessero che questi riuscissero de' vincoli troppo stretti e pericolosi, perchè il fine è la salute delle anime de' membri stessi. Voglia dunque Vostra Altezza assicurarsi intieramente su questo punto; voglia restituirmi il suo pieno compatimento e la prima sua cooperazione ed appoggio, e possa io sperare che Ella me lo presti di tutta sua persuasione. Io credo che l' opera sia adattata ai tempi, e che riuscirebbe sicuramente se Ella il vuole; non dico senza delle difficoltà, perchè di queste pur troppo se n' incontrano in ogni cosa, e dobbiamo anche noi aspettarne, ma dico senza difficoltà insuperabili, ecc.. 1.32 La venerata sua lettera degli . corrente mi ha prodotto incredibile consolazione per il pensiero che Le ha ispirato Maria santissima. Oh il bel pensiero, che fu questo! Lo eseguisca senza perdere tempo, ed Ella corrispondendo a questa inspirazione, s' acquista sicuramente un nuovo titolo alla protezione della Vergine, nostra carissima Madre, da cui dobbiamo aspettare ogni lume e conforto. Sì, la cara e benignissima nostra Madre Maria sarà quella che Le darà ogni consolazione al cuore, e quella tranquillità e pace di animo che è tanto necessaria, e che, sebbene indegnamente, Le prego ogni giorno. Abbandoniamoci alla divina Provvidenza e speriamo nella bontà di Gesù Cristo e nell' intercessione della sua santa Madre. Non siamo troppo solleciti, e non ci chiameremo pentiti di questa nostra confidenza e di questo nostro abbandono. E` vero che siamo tanto miserabili e che abbiamo tanti difetti! E chi non ne ha? Ma la grazia di Gesù Cristo può purificarci in un istante. E qual miglior mezzo di ottenere questa grazia, che è il solo vero bene di cui abbisogniamo, se non quello di fare opere della sua gloria, e farle unicamente per la sua gloria? Lungi da noi ogni altro pensiero: se noi penseremo solo al nostro Padre celeste, dimenticando noi stessi, egli allora penserà a noi; egli è il padrone del tutto, e nelle sue mani pende tutto ciò che abbiamo, e che siamo, i nostri averi, la nostra salute, la nostra vita e la nostra morte; egli mortifica e vivifica. In lui dunque solo confidiamo e pienamente riposiamo. Oh qual quiete dolce e piena di contento non dà il pensare che siamo nelle sue mani! E` impossibile, se abbiamo fede, che vogliamo turbarci: tutto succede secondo i consigli della Provvidenza, anche i nostri stessi falli. Siamo dunque contenti di tutto, e amiamola ogni dì più questa Provvidenza: seguiamola, ed essa ci scorgerà soavemente per la via della nostra eterna salute e della pace, « quae exsuperat omnem sensum ». Io qui sono consolato assai, perchè ho trovato le cose in ottimo stato. Sia lodato Iddio di tutto: egli sa solo tutte le cose. Finisco baciandole umilmente la mano, e implorando la pastorale sua benedizione sopra chi, col più alto rispetto, gratitudine e affezione sincera, si dice, ecc., A. R.. [...OMISSIS...] 1.32 Sieno grazie al nostro buon Dio, che, come sento dall' amico Mellerio, avete cominciato a fare la trottata; egli mi dice che non avete vinta ancora la tosse, che sola vi toglie dal dirvi pienamente rimesso in istato: ma spera ed io pure, che se n' andrà. Intanto questi son tutti sperimenti che ci fa prendere il Signore di noi stessi, acciocchè veggiamo nullità che noi siamo. E che varrebbe saperlo speculativamente, se non avessimo acquistata la scienza sperimentale ? Oh quanto è vana la scienza puramente ideale, se non abbiamo delle verità la prova reale! Quella scienza non penetra fin dentro al cuore, il quale praticamente resta incredulo, perchè è duro e tardo a credere, se non isperimenta. L' essere tentato dai mali, all' incontro, e quasi oppresso, abbassa l' altezza del nostro pensiero, e ci costringe quasi involontariamente a riconoscere ciò che siamo, senz' alcuna illusione. E il senso di tanta nostra miseria vien reso dalla grazia il veicolo che ci conduce alla cognizione di Dio. Poichè non trovando in noi altro che miseria, e non altro in questo mondo che tribolazione, il nostro cuore, che non può starsi senza un bene ed un amore, si rivolge finalmente a Dio, quasi per una felice necessità di cui si serve la grazia, ed in Dio intieramente s' abbandona; ed allora incomincia a riconoscerlo per il solo bene, e ad averlo per il solo suo amore, e sente, oh quanto! la verità di quelle parole di Cristo: « « Venite a me, o voi tutti che affaticate e siete aggravati, ed io vi ristorerò » ». E quanto bene, che prima gli era incognito, non trova allora il nostro cuore in Dio! E con quale affetto allora pronuncia quelle dolci parole: « Deus meus et omnia »! E gli pare d' essere troppo felice per quelle stesse infermità che tanto contrariano la natura, giacchè per mezzo loro, privato della lusinga de' beni naturali, sente che Dio solo basta a tutto e soprabbasta ad ogni suo desiderio. Oh preziosa semplicità dell' amor di Dio! O ricca nudità dell' anima, che, libera dall' ingombro delle dilettazioni terrene, si converte tutta al suo Creatore! Ella ha un tal valore questa conversione dell' anima desolata e nuda dei beni naturali al bene sommo ed essenziale, che Iddio n' ha fatto il fiore della sua provvidenza in sul genere umano, che per essa ci ha lasciato le infermità e la morte, che fa di essa le delizie de' suoi più cari e il lor patrimonio ricchissimo, e che al suo diletto Figliuol solo n' ha dato la pienezza, nelle angoscie inenarrabili della sua vita e della sua morte. Ah! noi pure avventurati, o mio Giulio, se il seguiremo dietro la sua voce: « « Chi vuol venire dopo di me, anneghi se stesso, e tolga la sua croce, e sì mi segua » ». Tale e tanto conforto il Signore ha aggiunto a' nostri mali! Il Signore, che a ciascun che soffre e che ama lui, dice: « Sono io stesso con lui nella tribolazione, e nel trarrò io fuori, e lo glorificherò », patisce egli stesso con noi, e quasi non fosse ciò abbastanza a renderci dolce ogni patire, ci aggiunge ancora che ce ne trarrà fuori, e ci glorificherà. E di che gloria! « Non sono condegne - dice l' Apostolo - le sofferenze di questo tempo verso alla gloria futura che si manifesterà in noi ». Quivi adunque, in questa gloria abitiamo, fin da ora, per la fede: chè la conversazione del cristiano dee pur essere in cielo, secondo l' Apostolo stesso. E se siamo in cielo collo spirito, colla mente e coll' affetto, che sarà per noi mai questo mondo corruttibile, sopra cui ci siamo immensamente innalzati? Allora sentiremo tutta la noia di quello che l' Apostolo chiama peregrinare dal Signore , e ci nascerà in cuore quella parola non intesa, se se non da chi gli è dato da Dio, « cupio dissolvi et esse cum Christo ». E se pur viveremo, ciò non ci sarà tollerabile per altro, se non per fare la volontà di quel Signore appunto a cui notte e giorno dall' esilio sospiriamo. [...OMISSIS...] 1.32 Sperava di potervi abbracciare personalmente nel Signore nei primi giorni del prossimo novembre; ma alcuni affari incamminati che riguardano la gloria di Dio e che esigono la mia presenza, acciocchè siano prontamente ultimati, com' è necessario, non me lo permettono, ma richieggono che mi trattenga ancora qualche poco in questo dolcissimo santuario della passione di Cristo, che fu la culla, come sapete, del minimo Istituto nel quale Dio solamente per sua misericordia ci ha insieme congregati e congiunti. Se non colla corporale presenza adunque, almeno però con questa lettera vengo in mezzo di voi, per effondere a voi tutto il mio cuore, e per dirvi con quanta pena io mi stia da voi diviso di corpo (chè di spirito nol sono mai), sollecito del progresso ne' santi vostri propositi. Non già che l' essere io vicino a voi possa arrecarvi qualche grazia, o che io possa molto colle mie parole aiutarvi e sostenervi nelle tentazioni, e spingervi avanti nella virtù: poichè anzi conosco d' essere inetto a tutto ciò, e di non poter nulla, se non forse nuocervi coll' esempio della mia debolezza e miseria. Ma l' amore tuttavia che vi porto in Gesù, nostro strettissimo vincolo, è quello che mi fa desiderare di avere tutti i miei cari compagni nel santo servizio, se fosse possibile, continuamente sotto gli occhi. Poichè l' amore è impaziente di sapere tanto il bene che il male delle persone amate, nè vuole aspettarne la relazione altrui, ma rilevarlo da se stesso e certificarsene cogli occhi propri: giacchè egli vuol godere del bene loro, e vuole esserne certo, e per essere certo di quanto bene abbiano le persone amate, vuol saperne anch' il male. Oltracciò, conoscendo io la vostra carità e umiltà e la vostra dedicazione al Signore, non mi fa meraviglia che vogliate cavar profitto alle anime vostre da tutto, e anche dalle stesse mie parole, ricevendo in buona parte e in edificazione dell' uomo interiore, quanto io vi fossi per ripetere degl' insegnamenti del Signore, sebbene io sia tanto indegno di proferirli. Ed è appunto per questa santa disposizione, che spero essere negli animi di tutti voi, che io voglio dirvi nella presente (ciò che farei a voce se potessi) quanto credo essere il più necessario e vantaggioso per le vostre anime, acciocchè consumino la santa vocazione, nella quale sono per la singolare benignità e carità di Cristo, e nella quale desidero che restino in eterno. Ognuno di voi pensi seriamente ad essere sincero con Dio, cioè a volere col fatto eseguire quanto propongono le regole della Società, nella quale è entrato; il che importa, che noi entrati in questa Società vogliamo sinceramente e pienamente consecrato a Dio solo tutti noi stessi, e tutte le cose che abbiamo al mondo , non avendo d' ora in avanti altro scopo ed affetto ultimo sopra la terra, se non quello di accrescere la gloria di Gesù Cristo e della sua Chiesa in tutti i modi possibili; pronti a qualunque cosa; e massimamente senza attacchi di carne e di sangue, che sono i più fatali di tutti per chi vuol darsi veramente e pienamente a Dio nella nostra società, la quale dee avere siccome scritte in fronte quelle divine parole di Gesù Cristo: [...OMISSIS...] . Ognuno di voi ami tenerissimamente tutti i suoi compagni nelle viscere di Gesù Cristo, senza eccezione alcuna, e sopporti con piena carità i loro difetti, condonandoli loro per amore di Cristo, soffrendoli anche con gusto per propria mortificazione, non pensandoci, e, se fosse possibile, non osservandoli; all' incontro osservando continuamente i difetti suoi proprii e avendone dispiacere, anche per quello che in conseguenza di essi fa sopportare agli altri suoi compagni di molestie e di pene. Ognuno consideri il bene e l' ordine di tutta la Casa come il bene proprio, e faccia tutto quello che può per ispargere nella famiglia sempre più la dolcezza di una tenera carità e l' unione più stretta de' cuori; ognuno cerchi di unire fratello con fratello, e i fratelli coi padri, cioè co' Superiori; e di rimuovere qualunque anche minima cagione che possa diminuire questa unità d' anima e di cuore che abbiamo in Cristo, a imitazione dei primi fedeli. Tutti quelli che cooperano alla perfetta consensione delle volontà e dei cuori sono in Cristo; ma quelli che non si guardano dall' essere cagione di dissapori e amarezze, e anche solamente di freddezze scambievoli, non operano in Cristo, ma piuttosto si fanno ministri dell' inimico di Cristo, e di tutti noi. Siamo tutti un corpo: ognuno è membro del proprio nostro corpo; dunque ognuno da parte sua studi di fare quello che può per la perfetta concordia e sanità delle membra. Specialmente poi ognuno desideri di vedere i propri compagni andare continuamente avanti nelle solide virtù, e a tal fine aiuti i Superiori informandoli di quanto possono credere che sia utile loro sapere per vantaggio de' singoli. Questa carità santa, e questo impegno che ognuno prenderà per il bene spirituale e l' ordine di tutta la Casa, ci mostrerà veri seguaci del nostro Maestro che ha detto: « Gli uomini conosceranno che voi sarete i miei discepoli, se voi vi amerete l' un l' altro ». Finalmente ciò che in singolar modo vi raccomando, si è di studiare di rendervi perfetti nella ubbidienza . Oh quanto è grande, quanto bella questa virtù! Ognuno cerchi di essere ben disposto verso il Superiore: chi è benignamente inclinato verso di lui riceve con gratitudine tutte le cure che il Superiore impiega per suo bene. Le correzioni, le penitenze, le mortificazioni sono de' grandi benefizi: attacchiamoci di cuore a quei Superiori che ce li danno. In tutte le cose dove non si scorge peccato, la voce del Superiore è la voce di Gesù Cristo, la volontà del Superiore è la volontà di Gesù Cristo: e però quello che ci comanda il Superiore eseguiamolo; quello che desidera il Superiore, desideriamolo; quello che egli vuole, vogliamolo. Così si ama Iddio, così si depone se stesso. Ah! miei cari fratelli, non abbiamo volontà propria: non conosciamo ripugnanze e propensioni, non abbiamo altre ripugnanze, che di quelle cose che ci sono da' Superiori vietate, nè altre propensioni, che di quelle cose che ci sono da' Superiori comandate. Vinciamo noi stessi: dobbiamo essere vittima con Cristo, e ciò che ci immola, come Isacco, dee essere il ferro dell' ubbidienza. Tanto mi preme questa virtù, perchè è il fonte di tutte le altre, massime nella società nostra; e perciò vi prego di legger tutti in comune e di meditare, per convertire in succo e sangue, la bellissima lettera di sant' Ignazio sull' ubbidienza; ella par fatta a posta per noi, per la nostra società. Voi vedrete in essa, come il gran fondamento di questa virtù sia la fede che vede nel Superiore la stessa persona di Gesù Cristo, e non considera punto le qualità umane. Con questo fondamento sarete ubbidienti sempre, ed a tutti i Superiori, qualunque sieno: e se i Superiori fossero per se stessi dispregevoli, voi allora appunto acquistereste un merito più grande, e sareste più sicuri di servire ed ubbidire a sua divina Maestà. Di queste massime desidero vedervi forniti, specialmente ogni qual volta mi accade di dover costituire fra di voi un nuovo Superiore, come ora; e perchè credo che lo siate, perciò spero che ne riceverete l' annunzio non solo con illimitata sommessione, ma ancora con amore e con vera spirituale allegrezza. Perocchè considerando che il nostro carissimo fratello e padre don Rigler, Superiore costì di tutti voi, è oltremodo aggravato dalle sante sue occupazioni che il rubano a voi quasi del continuo, e perciò non potete ricorrere a lui ne' vostri bisogni; ho veduto esser necessario di aggiungere a lui un Assistente che faccia le sue veci, e sia una gran parte almeno di tempo con voi, e possiate con lui conferire e ricevere conforto e direzione ogni volta che vi abbisogna. Al qual fine ho pregato caldamente il Signore che m' illumini, e fatto pregare per trovare quello che meglio convenga, considerate tutte le circostanze; e finalmente mi sono risoluto di dichiarare Assistente del Superiore di Trento il vostro e mio carissimo don Giulio Todeschi, colla fermissima fiducia che come egli vi sarà l' interprete fedele della volontà del Signore, così voi sarete quegli umili e docili soggetti che avidamente riceverete e fortemente eseguirete la medesima divina volontà che egli vi manifesterà. Non è bisogno che vi lodi questo nostro carissimo fratello, perchè voi lo conoscete, e col destinarlo a tale ufficio, mostro abbastanza la stima che ho di lui. Piuttosto vi scongiuro tutti nelle viscere di Gesù Cristo a sopportare i suoi difetti, se ne ha come uomo, giacchè qual uomo mai ne è esente? e a rammentarvi quello che ho detto innanzi, che i difetti del Superiore rendono infinitamente più meritoria e cara a Dio l' ubbidienza de' sudditi. Ma chi di voi sarà un vero ubbidiente e un vero discepolo di Cristo, assai più che i difetti, se ce ne ha, vedrà ed amerà le rare virtù di cui il nuovo vostro Padre va fornito, e con una carità che crescerà ogni giorno, unirà una devota riverenza verso di lui. Ah! vi supplico tutti, quanto so e posso, date nuove prove ogni giorno della vostra sincera umiltà e annegazione, e mostrate che nell' uomo, mediante la fede, mirate continuamente non l' uomo, ma Dio. Non aggiungo di più, e so che neppur di questo era mestieri; ma ho voluto dire tutto ciò, perchè siate sempre aiutati a rammentarvi ed avere vive nella mente quelle grandi verità che già sapete, le quali formano le basi della vita religiosa, e perchè conosciate la mia premura e il mio amore continuo che anche assente ho per voi. Ed abbracciandovi tutti al seno in Gesù Cristo nostro Capo e Maestro, nostra delizia, ogni cosa, mi raccomando alle vostre orazioni, e vi benedico. Il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo abiti nei vostri cuori perpetuamente. Così sia. [...OMISSIS...] 1.32 Le mando qui una carta intitolata « Regolamento dell' Istituto », nella quale c' è tutta la descrizione in breve dell' Istituto della Carità. La prego di farla copiare pulitamente, e di umiliarla, in mio nome, all' Em.mo cardinal Weld, che desidera avere notizia precisa e diretta di questo Istituto. La relazione che l' Istituto ha coi vescovi, di cui l' Em.mo desidera special contezza, la troverà chiaramente esposta al N. 15 del suddetto Regolamento. A mio parere la natura dell' Istituto è tale che non può mai venire in collisione coi vescovi, perchè egli non agisce che dietro le richieste principalmente de' vescovi, ed è soggetto a questi in quanto alle funzioni sacerdotali e alla cura d' anime; restando soggetto a' propri Superiori in quanto al governo interno dell' Istituto medesimo, al mantenimento delle Regole, alla distribuzione de' soggetti, e all' assumere o non assumere, ritenere o dimettere gli uffizi, che egli mai non cerca, ma solo assume dietro le dimande del prossimo. Dimanda ancora S. Em.za, come intendo dalla sua lettera, qual sarebbe il sistema e modo di agire che don Gentili e compagni si propongono di tenere in Inghilterra. Se alla Provvidenza piace che il Gentili si rechi in Inghilterra con de' nostri « egli si propone di tenere un modo di agire tutto uniforme al « Regolamento » annesso, un modo di operare cioè quieto e tranquillo, che da principio si restringerebbe a fare strettamente, nè più nè meno, i doveri propri dei cristiani e de' sacerdoti, e starebbe aspettando gli ordini del vescovo e le dimande del prossimo. A quelli e a queste egli intenderebbe di prestarsi con prontezza e indifferentemente in ogni genere di opere buone, fino che bastassero a lui ed a' compagni suoi le forze ». Questo sarebbe il procedere ch' egli terrebbe, e questo è il modo di procedere nostro: nulla facciamo di proprio moto, se non i doveri strettamente privati; mossi poi da' prelati principalmente, ci prestiamo a quelle prime opere, qualunque sieno, che ci vengono dimandate. Che « se si volesse dare al Gentili co' compagni il peso d' una parrocchia, anche questa l' accetterebbe, e l' amministrerebbe secondo le leggi canoniche ed i voleri del vescovo, senza eccezione o privilegio alcuno; se poi si volesse impiegarlo nella predicazione, egualmente; se nelle scuole, pur sarebbe pronto; se nelle opere di carità, come spedali de' poveri, ed altre simili cose, di gran cuore le accetterebbe. Insomma l' Istituto nostro vuole avere dei sacerdoti che, senza predilezione, non abbiano altro in mira se non di prestarsi con missione , cioè non di proprio moto, e di prestarsi a tutto, giacchè Iddio solo credono di servire egualmente in tutte le cose ». Se mai l' Em.mo Weld desidera sapere qualche altra cosa, ove si degni di farmela conoscere, mi onorerò di comunicare tutti gli schiarimenti desiderabili. Ora veniamo a noi, mio caro Quin. Ha fatto bene a non entrare Ella a parlar della natura della Società, e faccia così anche per l' avvenire, non comunicando a nessuno quello che ha, senza licenza espressa. Desidererei molto di averla con noi qualche tempo in questa sacra solitudine, dove il carissimo Gentili fa progressi grandi nelle virtù. Non dico che desidererei di averla come de' nostri: questa non può esser che l' opera di Dio: io non v' entro, e non desidero se non quello che Dio Le ispira nel cuore; sono però certo che il desiderio della perfezione non viene che da Dio, e perciò, sebbene io non La esorti punto a prendere il nostro Istituto, tuttavia La esorto quanto so e posso a seguire i consigli evangelici, perchè i consigli di Gesù Cristo sono ottimi, senza bisogno d' alcun esame, come insegna san Tommaso; e ogni cristiano per seguirli non ha bisogno di dimandare consiglio di direttori, ma solo di risolversi con generosità a darsi tutto e senza eccezione alcuna al suo Dio. Oh beati quelli che intendono la bellezza de' consigli dati agli uomini dal divino Maestro! Non c' è oro nè gemme che si possano mettere a confronto col prezzo di que' consigli. Perciò li segua animosamente, ma in quell' Istituto al quale la volontà di Dio piegherà il suo cuore. Ad ogni modo caro assai mi sarebbe il vederla, l' abbracciarla, e l' averla meco qualche tempo. La prego di tradurmi in buon inglese il « Regolamento » e di mandarmelo. 1.32 « La buona novella, dopo diciotto secoli, è nuova tuttavia per il mondo che l' ha sentita, senza comprenderla ». Dite bene, mio caro Tommaseo, è nuova per il mondo, « tenebrae eam non comprehenderunt », e sarà sempre; ma non pe' Santi che l' hanno sempre compresa in tutti i secoli. I figli di Dio sono stati sempre e sempre saranno, « et fulgebunt quasi stellae in perpetuas aeternitates ». Non è dato agli uomini di accrescere il numero di questi d' un solo, nè è in potere dell' uomo diminuirlo di un solo. Iddio gli ha contati, e nessuna creatura può alterarne il conto. L' uomo può essere superbo, ma non disperdere la superbia degli altri uomini: Iddio solo dall' alto sperde la superbia di tutti. Tutto ciò che sta nella perfezione dell' ordine morale, Iddio l' ha riserbato a se solo; e, se usa degli istrumenti umani come ministri di quest' ordine, egli li ha scelti « ab eterno. Ego elegi vos »; non fu scelto da loro: « non vos me elegistis »; sicchè l' uomo in quest' ordine soprannaturale di cose è sempre inutile per se stesso: « servi inutiles sumus »; e guai a chi si intrude! « non mittebam prophetas, et ipsi currebant ». Non ha l' uomo altra incombenza, che quella de' propri doveri morali, conformandosi a colui che disse: « « Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore » ». Ma chi segue il Vangelo, nella sua umiltà e mitezza è leale e generoso; non teme di annunziare tutta la verità che è il suo bene, e di confessare Cristo; e non sa fare nè per viltà, nè per ingannevole speranza di produrre un bene che Dio non vuole, alcuna transazione colle massime carnali e collo spirito omicida di questo mondo. Il Vangelo basta a se stesso. Dio è tutto, e il giusto nei beni eterni ha tutto il suo cuore: è da ciò appunto che scorre da se stessa la felicità anche temporale, come un fiume uscente da un mare; non dico ogni felicità che la nostra cupidigia desidera o s' immagina, ma quella felicità temperata che sa Dio più convenire a' suoi disegni di misericordia pei predestinati ai regni immortali. La sventura, la croce sarà sempre un dolce tesoro ai discepoli del Cristo, e non mancherà loro: nel tempo stesso che la loro carità universale è portentosa, non penserà che di alleggerire e sollevare la croce che pesa in sui fratelli. Non ha dunque bisogno la religione di essere giustificata con industrie umane; ma, osservata, si giustifica da se stessa: è il fatto quello che mostrar dee i buoni effetti temporali venienti spontanei dalla osservanza della legge: « Mirabile cosa, diceva pur bene quell' uomo di legge: la Religione cristiana, che non sembra avere altra cura che delle cose del Cielo, è quella che produce anche il bene di questa terra! »Sì, « pietas, ad omnia utilis »: ma pietà, e non cupidigia. Sì, la carità sia lo stimolo; un amore di Dio, un amore degli uomini per Iddio; tutto è possibile alla carità. In tal modo gli interessi umani non sono cercati direttamente; è il solo regno di Dio che hassi direttamente a cercare: « Cercate prima il regno di Dio, - il resto vien da sè, - e tutte queste cose vi saranno aggiunte », perchè sa il Padre celeste che n' avete bisogno. La Chiesa ne' suoi santi mostra una sapienza più alta ancora, una sapienza non intesa dal mondo, anzi chiamata stoltezza: ella fugge i beni materiali, ella vive d' astinenza, di mortificazione, di volontaria povertà, ed ha scritto sul suo petto: « beati pauperes ». A questi è venuto Cristo ad evangelizzare, a questi è venuto a comunicare i suoi tesori Colui che non aveva ove reclinare il capo. Ben è vero che dalla radice della povertà nasce un frutto contrario alla madre: le ricchezze corrono là, dove questa povertà si è mostrata: ecco come s' è arricchita la Chiesa: ecco l' unico mezzo onde la religione del Crocifisso può giungere a signoreggiare gl' interessi materiali. Ma, oh quanto il Consiglio di Dio è alto sopra i consigli degli uomini! Allora appunto che la Chiesa è carica delle spoglie d' Egitto come di altrettanti trofei, allora ch' ella pare divenuta l' arbitra delle sorti umane, allora solo ella è come impotente, ella è il Davidde oppresso sotto l' armatura di Saulle: quello è il tempo del suo decadimento. E l' Eterno che vigila a' suoi destini, dopo averla così umiliata, averle fatto conoscere ch' ella è composta di uomini soggetti alla tentazione, averle mostrato per un' amara esperienza che in lui solo ella è forte e può confidarsi, mosso a pietà di lei, concede alla ferocia del secolo di buttarsi sui beni temporali della Chiesa, e farne bottino; riducendola in tal modo a quella sua originaria semplicità che, amabile sopra ogni bellezza muliebre, trae di nuovo a sè tutto, per tutto nuovamente deporre al cenno non degli uomini, ma dello Sposo, quando le dica; « Sorgi, t' affretta, amica mia, colomba mia, e te ne vieni ». [...OMISSIS...] Le due Case vanno bene per la grazia di Dio: lo scopo loro è tutto morale religioso, non è uno scopo particolare, ma lo scopo comune a tutti gli uomini, il fare i proprii doveri, il mantenere la legge di Dio, e perciò può prender per motto; « in lege Domini voluntas eius »: nulla di più semplice, ed io credo altresì nulla di più dolce. Ciò dunque perchè si distinguono dagli altri cristiani, non è per lo scopo, ma per l' essersi alcuni associati per aiutarsi scambievolmente ad ottenere questo scopo. Nel libretto che ho stampato a Roma col titolo « Massime di perfezione », c' è tutto, eccetto l' ubbidienza, poichè non si parla in quel libro di Società. Addio, pregate per me. [...OMISSIS...] 1.33 L' indifferenza di S. Ignazio non riguarda il fine , ma i mezzi . Possiamo e dobbiamo sospirare incessantemente il fine, e dire col massimo affetto: « adveniat regnum tuum »; ma dobbiamo essere indifferenti su questi o su que' mezzi, pei quali la divina bontà ci voglia condurre al fine. Ciò che è degno di altamente meditarsi si è, che noi non conosciamo nè pure quali sieno i mezzi particolari che ci facciano ottenere il nostro fine. Siamo ignoranti, e perciò conviene rimetterci a chi ci vede, che è Dio, ricevendo tutto dalle mani di Dio con perfetta indifferenza. Tutto sta dunque in trovare i segni del divino volere. Senza questi, so io che lo studio, in ragion d' esempio, sia la strada della mia eterna salute? Quanti vi hanno trovato l' eterna dannazione! So io che la predicazione mi gioverà? Quanti, predicando agli altri si sono resi reprobi! Tutta la vita, la perfezione, la morale cristiana sta nel dare il giusto peso a questa parola Eternità . - Ma ella è futura. - Appunto per questo gli uomini, trattenuti dal glutine della vita presente, non danno la dovuta importanza all' eternità, e giudicano stolti quelli che gliela danno. La vita futura risponde a quella dimanda: da mihi punctum . E` il punto fuori del mondo, sul quale la religione punta la leva e muove il mondo stesso. O conviene rinunziare alla religione, o conviene ammettere che questo è vero. Se poi questo è vero, tutto è indifferente fuori che Dio, fuori che la parola di Dio, i segni della volontà di Dio, i mezzi conosciuti pe' segni della volontà di Dio; insomma Dio solo in tutte le cose: « et exaltabitur Dominus solus ». Un giorno non sarà più virtù amare la vita eterna, perchè sarà presente. Virtù è amarla ora, perchè è lontana. Oh non lascino gli uomini passare inutilmente questo tempo del merito e della virtù! Ecco il mio voto. 1.33 Mio soavissimo amico e fratello in Gesù Cristo nostro bene, Cercate di piantare in tutti un amore sviscerato per la verità e per ogni bene . Dominando in noi un grande e prevalente amore della verità , noi la cercheremo da per tutto, e ci chiameremo sempre felici quando potremo averla acquistata. Se mai noi la troveremo nelle parole di un nostro amico o fratello, ella riuscirà ancor più cara, e gli resteremo obbligati d' averla insegnata. Se dovremo deporre una nostra opinione per la verità, qual cosa più dolce di questo? Subito con un sentimento di bella umiltà diciamo: « io era in errore, ora ho conosciuto il vero: ne sia lode a Dio: lo sapeva già di essere ignorante ». Infatti noi dobbiamo sapere e tenercelo ben certo, che siamo ignorantissimi, anzi l' ignoranza stessa in persona. E l' ignoranza ricuserà d' imparare? oh questo poi no. Per tal fine non fuggiamo la disputa accademica : anzi, io vi do per consiglio di cercarla voi stesso, ma sempre con buon umore, con ilarità, umiltà e carità; oh quanto bel campo non troverete in essa da esercitare tutte queste virtù, da sempre più conoscere voi stesso, e da vincervi salutarmente! Sapete già la bella dottrina dello Scupoli: per andare avanti nella virtù, conviene sfidare a battaglia, cimentare i nostri vizi, fuori che in ciò che è contrario all' onestà. Di questo dunque vi consiglio. Parimenti posso dire dell' amore del bene . Se noi abbiamo un vero e compìto amore pel bene, noi ameremo sicuramente ogni bene dovunque lo troveremo, in ogni persona, in ogni circostanza, sotto qualunque forma. Ah! la nostra bella legge è legge d' amore: l' amore non odia nè invidia chicchessia; egli non vuole in ogni cosa che il bene. Così si forma un' anima dilatata, che corre nella via dei divini comandamenti. Per riuscire ad ottenere questo, spargiamo lagrime dinanzi a Dio giorno e notte; e i nostri sforzi saranno certo coronati. - Ora qui nella Chiesa capitolare si sta facendo il Giubileo: i predicatori sono don Giacomo e don Giovambattista. Don Luigi è impegnato pel prossimo quaresimale. Abbiamo dimande di missioni da tre luoghi. Domenica scorsa abbiamo ricevuta l' abiura di un nuovo calvinista; ed è il ventesimo che abbiamo la consolazione di riunire alla Chiesa cattolica dopo che siamo qui. Sia lodato il Signore. Insomma, affari non ne mancano: « rogate Dominum messis ». Le Figlie della Provvidenza prendono un buon avviamento per la misericordia divina. Da per tutto se ne vorrebbero: fin ora non ne abbiamo conceduto che a Torino; ma presto dovremo darne ad altri luoghi. Preghiamo tutti d' accordo il Signore per tanti bisogni che abbiamo. Se egli non ci assiste, che possiamo noi fare? Vi raccomando l' anima di un mio condiscepolo che amai tanto. [...OMISSIS...] 1.33 Ho ricevuto la lettera vostra e quella del conte Salvadori, colle quali mi parlate del tentativo che si sta facendo di erigere una casa di ricovero pei poveri nella mia patria; e mi chiedete di voler entrar anch' io in parte della spesa necessaria per quest' opera. In quanto a quest' ultimo punto, io non mi ricuso; e scrivo al conte Salvadori di dar per me quella somma maggiore ch' io posso. Dopo di ciò però permettetemi, mio caro D. Paolo, ch' io vi dica candidamente il mio sentimento, come si fa cogli amici, intorno al merito di questo progetto e di questo tentativo. Non voglio già far torto alle intenzioni; e sono persuaso che molti per puro zelo del bene e per un sentimento di vera carità si facciano promotori di quest' opera, e uno di questi siete voi, mio carissimo. Ma in quanto all' opera stessa, in quanto alla massima de' reclusori de' poveri, io ho variato di sentimento. Fu un tempo nel quale io accoglieva con entusiasmo tutti questi progetti e piani di pubblica beneficenza, e debbo forse rimproverarmi di aver guardato qualche volta con un occhio severo e disdegnoso quelle persone che si mostravano fredde a cooperarvi, o di contrario avviso. Ma ogni anno si fa qualche riflessione nuova, si aumentano le osservazioni, e si vanno verificando le cose, come sono in realtà, senza lasciarsi ingannare (o piuttosto disingannandosi) dalle apparenze, dalle promesse, e da quelle speranze senza limite, che una fantasia giornaliera e ancora verginale somministra incessantemente ad un cuore benevolo. Io vi dico la verità, non sono più amante de' reclusori de' poveri dopo averne veduti tanti, e dopo aver letto ciò che uomini savii hanno scritto sopra di essi, e più di tutto dopo aver meditato io stesso sull' intrinseca natura della cosa. Egli è bensì vero che v' ha una infinita differenza da reclusorio a reclusorio, il che nasce dalla diversità de' loro regolamenti e del primo loro impianto: ma appunto l' estrema difficoltà di dare un regolamento sapiente ad un tale istituto è uno degli scogli che s' incontrano, e che gli uomini superficiali non calcolano per nulla. Un altro timore mio si è che questi istituti, i quali, al modo che si concepiscono comunemente oggidì, appartengono ai protestanti, non sieno già effetti di una vera carità cristiana, ma piuttosto del sottile egoismo e della mollezza del secol nostro, il quale contraffà la stessa carità, e veste i vizi da virtù, facendo servire con una perpetua finzione e colla più indegna ipocrisia le cose tutte al proprio interesse. In vero nè Gesù Cristo, nè gli Apostoli ci hanno mai insegnato a non poter sopportare sotto gli occhi nostri i poverelli e ad allontanarne il loro aspetto da noi: Gesù Cristo e gli Apostoli non ci hanno mai insegnato ad essere tanto insofferenti che ci riesca di una noia insopportabile il sentirci a domandare un pezzo di pane, talora più colle lagrime che colle parole. Non è egli una gran durezza di cuore l' esserci cosa insopportabile che il sentimento della nostra compassione sia suscitato dalla vista delle miserie de' nostri simili? E` questo sentimento una cosa sì trista, che si convenga far di tutto perchè egli non sia in noi mai commosso, e da dover inventare un sistema per giungere a far sì che il pubblico non abbia mai bisogno di essere compassionevole? saremo più felici quando la nostra compassione non sarà mai più eccitata? la società si renderà migliore? Voi direte che non si fa per questo il reclusorio de' poveri; ma per impedire la mala vita di molti e l' ozio coperto sotto la professione di povertà. Mio caro D. Paolo, l' uomo nelle sue operazioni ha de' secreti che non vuol rivelare a tutti: il suo cuore talora non si rivela neanche a lui medesimo, se pur l' uomo non faccia una sottile disamina di sè stesso; perciò ben sovente le operazioni umane hanno un pretesto ed un motivo. Il pretesto si dice, ed il motivo si tace. Considerate con profonda attenzione ciò che ho detto e ne sentirete la verità: ma ch' io l' abbia detto nol dite a persona del mondo, perocchè gli uomini non la perdonano mai a chi rivela un loro secreto. [...OMISSIS...] 1.33 Ho letto le vostre lettere, ed ecco quanto il Signore mi suggerisce al cuore di dirvi. State certo che ogniqualvolta, venendoci proibite dai superiori le penitenze, noi sofferiamo una grande alterazione, un turbamento eccessivo, una grave malinconia, egli è segno che vi è dentro di noi un gravissimo difetto; che vi è un attacco pernicioso a quelle mortificazioni e penitenze che noi facevamo, sieno esse poche o molte, ciò non importa. Questa è dottrina sicura, mio caro, confermata da tutti i Santi. Noi dobbiamo fare le mortificazioni e le penitenze in modo da poterle lasciare al menomo cenno del Superiore o del Confessore, senza nessunissima difficoltà, anzi con allegrezza grande di cuore; perchè tutto ciò che vuole l' ubbidienza ci dee rallegrare sempre, qualunque cosa ella voglia, e senza pensare altro. Se l' ubbidienza non ci rallegra, ma ci rattrista, ma ci fa dare indietro, ma ci fa pensare all' una cosa e all' altra, e c' induce a biasimare nel nostro cuore il comando; la cosa è chiara, noi siamo ben lontani dalla perfezione, e colle penitenze che facevamo prima, c' ingannavamo miseramente, credendo d' andare avanti nella strada delle virtù: ma sotto la cenere ed il cilicio abitava pur troppo il serpente. Ringraziate dunque di tutto il vostro cuore la misericordia del Signore, che si è servito della voce del vostro Superiore per trarvi d' inganno e farvi vedere la verità coll' esperienza appunto che avete fatto di voi stesso, alla prova del dover lasciare le penitenze. Orsù rallegratevi dunque, e presentemente occupatevi a vincere in voi questo difetto ed a rendervi perfettamente indifferente a far penitenze ed a tralasciarle, sì che serviate il Signore con gran libertà di cuore, e confidando nella sua bontà e non nelle opere penitenziali per sè stesse. Tutti i pensieri che vi vengono contro questa dottrina, per quanto sembrino pii, non sono che sofismi, che vi fa il finissimo demonio per ingannarvi. Iddio vuole che confidiate in lui solo: e Iddio non vi mancherà se cercherete non le penitenze, ma l' ubbidienza: a quest' ultima troverete annessa un' abbondante grazia. Abbiamo dunque scoperto il nemico, la vittoria vostra sarà certa. Attendo vostre lettere per sentire che vi scuoterete d' attorno le tentazioni; e negando il vostro giudizio, correrete ilaremente per la via giusta che il Signore vi mostra per sua misericordia. Vi abbraccio teneramente. Salutatemi tutti i nostri cari; a molti de' quali debbo e desidero scrivere da molto tempo, massime al caro don Giacomo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.33 Chiamandovi Iddio per la bocca de' vostri Superiori ad assumere (benchè per ora solo in prova) la Scuola elementare de' fanciulli del comune di Calice, voi ricevete con ciò una dolce e grave missione, della quale dovrete render conto ai Superiori vostri, e, ciò che è più, al tribunale del vostro Creatore, onde veracemente vi viene da esercitare tale ministerio di carità. E però l' amore, che vi porto vivissimo nel Signore, mi stringe a dovervi munire, in tale circostanza, della presente breve Istruzione, sulla quale dirigendo la vostra condotta, l' incarico datovi vi diverrà, come io spero, una via diritta pel Cielo. Primieramente vi raccomando di badare, che il nuovo ufficio non diminuisca punto in voi il raccoglimento religioso, l' esattezza nel mantenere le regole e la piena dipendenza e sommissione verso i vostri Superiori; ma che anzi queste virtù in voi s' accrescano, rendendovi per amore di Cristo via più simile a que' fanciulli, che or venite ad avere sempre sott' occhio, e ne' cui teneri cuori dovete coltivare le care virtù proprie dell' infanzia, quali sono la semplicità, la purità, la mansuetudine, la sincerità, la docilità e la dolcezza. Per conoscere quanto dovete amare in Gesù Cristo i fanciulli, che vi vengono consegnati, meditate spesso quanto stanno a cuore al divin Redentore, e quelle sue parole: « lasciate che i pargoletti vengano a me »; come pure quelle altre: « chi avrà scandalezzato uno solo di questi pargoletti, che credono in me, meglio sarebbe stato per lui che, sospesagli al collo una mola da mulino, fosse gittato nel profondo del mare ». Proponetevi di condurre i fanciulli come esseri ragionevoli e cristiani coi due mezzi della ragione e della fede ; chè altro non si dà, che meglio possa nell' uomo, di questi due mezzi. Perciò voi dovete arricchire l' animo de' giovanetti di motivi di operare sempre puri e nobili; giacchè questi soli sono ad un tempo ragionevoli ed evangelici; e le intenzioni torte e ignobili, che inavvedutamente si seminano ne' teneri fanciulli a ritroso della retta natura, recano in essi un guasto segreto e, quasi direi, una etisia morale fino nei primi loro anni infantili, e sono l' origine sconosciuta di quegli aperti vizi, che contaminano l' età matura e straziano la società. Ma sappiate tuttavia, che il giovanetto non viene corretto e abbonito, se non dalla interna operazione di Dio, che l' aiuta a custodire i divini comandamenti, come dice il salmo: « in che corregge il giovanetto la sua strada? nel custodire i tuoi comandamenti »; però dovete con ferventi preghi ottenere che Gesù, solo maestro degli uomini, accompagni e avvalori le vostre sollecitudini, mantenendo e sviluppando in essi la grazia del Battesimo. Per infondere poi ai giovanetti un abito di operare con ragionevolezza e secondo il lume divino, vi conviene quest' abito mostrarlo loro nel vostro proprio contegno. Tutto ciò che voi fate adunque sui loro occhi, e tutto il trattar vostro con essi sia pacato e pieno di lume; e cotesta chiarezza e pacatezza del vostro operare vi renderà più amabile a loro, che non farebbero delle carezze senza ragione. Vi raccomando adunque quella dolcezza non ricercata, che nasce spontanea da un operare nella tranquillità della luce interiore, dove non havvi mai indizio di passione, o d' ira, e che la divina Scrittura mette sempre in compagnia della sapienza, mentre alla stoltezza dà per carattere l' iracondia. « « L' iracondia, leggesi in Giobbe, veramente uccide lo stolto » (c. V) »; e ne' « Proverbi : « la verga della superbia è nella bocca dello stolto »(c. XIV) », e poco appresso si legge anche questa bella sentenza: « « quegli che è paziente governa assai cose colla prudenza; ma quegli che è impaziente fa apparir ben grande la sua stoltezza »(ivi) ». Le quali sentenze, ed altre tali delle Sacre Lettere vi forniscano spesso materia alle vostre meditazioni. Mantenete con religiosa puntualità le ore prescritte alla scuola e tutto ciò che viene ingiunto dai « Regolamenti » intorno alle Scuole elementari e dai « Capitoli » del comune di Calice. Tanto di quelli poi come di questi sarà vostra cura di procacciarvi due copie, e comunicarne una a chi tiene ufficio di Superiore nella Casa del Sacro Monte, che la riporrà negli archivi. Abbiate un vero zelo, acciocchè i giovanetti a voi affidati imparino a francamente leggere, scrivere e conteggiare, e gli altri oggetti, scopo della scuola. E a tal fine voi dovete por l' animo vostro a procacciarvi tutte le cognizioni a ciò opportune, le nozioni di una buona pedagogia, e la maniera pratica più confacevole a dare con perfezione l' istruzione, facendo conto dei libri che vi possono a ciò giovare. Finalmente considerate che voi riuscirete probabilmente, se così ne piace a Sua Divina Maestà, il primo maestro elementare approvato dall' Istituto della Carità; e che vi incombe perciò il dovere di rendervi forma e modello di quelli che Dio volesse mandare di poi. Farete, prima di cominciare il vostro ministero, quindici giorni di spirituali esercizi a fine d' impetrare la grazia che vi abbisogna, e di prepararvi allo stato chericale, a cui sarete ascritto ricevendo la chericale tonsura. E dopo che, assistito dal divino aiuto, avrete dati argomenti della vostra fedeltà e perizia in questo servizio del Signore, cioè come maestro in prova del comune di Calice, sarete al debito tempo, così piacendo al Signore, ordinato altresì Lettore della santa Chiesa, e dichiarato maestro approvato dell' Istituto della Carità. [...OMISSIS...] 1.33 Non avrete preso sicuramente a male il mio tardare a rispondervi, perchè la vostra carità sa bene che desidererei essere sempre pronto a rispondere e conversare co' miei cari compagni; ma che delle varie cagioni ed occupazioni talora me lo impediscono. Ora ritornato da un viaggetto che ho dovuto fare per negozii del nostro Istituto, sono con voi, mio carissimo. Sperava di vedervi ed abbracciarvi tutti quest' autunno; il Signore non volle ancora concedermi una tanta consolazione; spero tuttavia che me la concederà almeno all' aprirsi della nuova stagione. Per quanto allo stato dell' anima vostra che diligentemente mi descrivete, io spero bene, mio caro, nella misericordia di Dio. Io veggo che il Signore permette che l' inimico del bene vi dia una battaglia forte e penosa; ma non vi lasciate far paura, perchè confidando nella croce di Cristo, tutto sarà superato. Quello però che trovo il punto principale al quale dovete rivolgere le vostre armi, si è a conseguire la cara mansuetudine di Gesù Cristo. « « Imparate da me che sono umile e mansueto di cuore » »: oh quanto sono belle queste parole! esse racchiudono il carattere vero di Cristo e del Cristiano! Ritenete, mio caro, questo principio infallibile: ogni iracondia, ogni turbazione irosa, ogni malevolenza, ogni acrimonia viene dal diavolo. Con questo principio alla mano voi potrete subito discernere i diversi spiriti che si manifestano nel vostro interno. E` egli uno spirito di dolcezza, di pace, di cedevolezza, di amore? Dite tosto: questo è spirito di Dio, e io debbo secondarlo. E` all' incontro uno spirito di opposizione, di durezza, di tristezza, di censura, di odio? Dite tosto: questo è spirito del demonio che mi seduce, che mi violenta; io non voglio acconsentirvi, lo sofferirò come una tribolazione, ma io non lo seconderò, non opererò nulla dietro il suo incitamento. Oh voi felice, se diverrete appieno mansueto! e se ucciderete in voi ogni iracondia, anche quella che vi si presenta sotto l' abito di zelo, ma di zelo amaro e non conforme al vostro ufficio! Voi con questo studio della carissima virtù della mansuetudine acquisterete tutte le altre; l' ubbidienza, l' umiltà, la rassegnazione e la pazienza, come pure quella che S. Filippo Neri chiamava la mortificazione razionale , sono comprese nella mansuetudine. Questa vale più di tutte le austerità e penitenze esterne, le quali non valgono nulla, se non sono umiliate e sottomesse all' ubbidienza e alla direzione anche diversa ora d' un superiore, ora d' un altro; secondo che l' uno o l' altro regge la casa. In questa diversità di direzione, mio caro, consiste una bellissima occasione di vera virtù, e una prova a vedere se siamo sì o no veramente mortificati interiormente. Quell' uomo, il quale non sa cangiarsi con tutta facilità e senza nessuna resistenza, a tenore del cangiarsi de' superiori, non è sicuramente mortificato: e tutto ciò che fa, anche di più austero, non prova in lui punto una vera mortificazione, che dee sempre essere radicata nella docilità e pieghevolezza della volontà, e, in una parola, nell' annegazione di se stesso. Osservate, mio caro, che Gesù Cristo, dando il precetto di portare la sua croce, vi premise queste parole: « « Se alcuno vuole venire dietro a me, neghi se stesso » »: e ciò perchè nulla sarebbe il portare la croce, se prima non ci fosse l' annegazione di se stesso. Non ogni croce è la croce di Cristo; la croce di Cristo non è quella che diamo noi a noi stessi; ma quella che ci è data dall' ubbidienza, con negazione della nostra volontà e del nostro intelletto. Le penitenze esterne adunque, che sono come la croce, sono buone, se noi le prendiamo con avere premessa la negazione di noi stessi: altramente il volerle è un inganno dell' inimico. Tenetevi, o mio caro, a questi principii che sono gli infallibili del Signore. Varrà più per voi un solo atto di rinunzia al vostro giudizio e alla vostra volontà, che tutte le austerità che potreste pensare. Rendetevi adunque a queste indifferente, nè vi turbi l' esservi negate, o comandate, o permesse. Tutto sia lo stesso per voi. Nulla desiderate altro che la dolcezza, la pace, la ubbidienza e il negare voi stesso. E` meglio che conserviate nella pace della carità il vostro cuore, di quello che sia che convertiate il mondo. Mirate dunque sempre nell' esemplare nostro amabilissimo Gesù Cristo, e diventate così amabile e tranquillo come lui. [...OMISSIS...] 1.33 «Mio reverendo e caro consacerdote e compagno nel servizio del Signore. » Perdonate se ho tardato a rispondervi, e attribuitelo alle mie occupazioni che mi hanno fatto essere assente, come sono ancora, dalla casa di Trento. Ora sono con voi, la cui lettera mi fu carissima, per le notizie genuine che di voi stesso mi date. La ripugnanza e la noia che voi accusate, è il solito effetto, mio caro, che si manifesta in quelli che si danno alla vita ritirata e religiosa, ed è una delle più forti prove che dà il Signore, una delle più utili occasioni di vincere noi stessi e di acquistare un solido merito. Questa vittoria sulla noia e sul tedio per la ristrettezza della vita e della libertà, non ha niente che ecciti l' amor proprio e non è considerata dagli uomini: tanto più ella è da Dio! Io spero che voi ne riporterete colla vostra costanza, mediante la grazia del nostro Signore, un pieno trionfo; ed allora comincierete a gustare come cosa dolcissima anche ciò che a principio sembra insopportabile. Se voi, ammirando l' umiltà de' vostri compagni che dimandano con tanta frequenza pubblico perdono di alcune loro mancanze, non vi sentite per anco cuore di imitarli, ciò punto non vi turbi, perchè questa specie di ripugnanza la vincerete col tempo. Sopportate solamente voi stesso, e non esigete da voi di più di quello che potete: la grazia e la virtù viene a gradi: a quelli che ancor ci mancano, suppliamo coll' umiltà e col riconoscere candidamente che gli altri sono in quel dato rispetto più umili o più perfetti di noi. Per altro, senza inquietarci, prefiggiamoci di vincere ogni specie di ripugnanza, aspettando intanto il tempo che il Signore ce ne dia le forze, e dimandando queste forze con ferventi desiderii e preghiere. Così soavemente procederemo innanzi, senz' alcun turbamento. Per altro, circa il domandar perdono, egli non è necessario che la materia sia una colpa morale, dovendoci noi umiliare anche per le limitazioni della nostra natura, o per le mancanze della nostra vigilanza: ma è bensì sempre necessario che sia una imperfezione : perchè altrimenti, se non fossimo convinti che ciò di cui formiamo materia di pubblica accusa non fosse nè pure imperfezione alcuna, quell' atto dell' accusarci non sarebbe sincero : e niente si dee fare che non sia candido, sincero e proveniente dall' interna nostra convinzione. [...OMISSIS...] Desidero moltissimo di vedervi e di trattenermi con voi a lungo, mio carissimo; ma pare che il Signore non mi voglia dare questa consolazione per ora: al più lungo però spero d' essere al Calvario in primavera. A quando a quando scrivetemi, e contate d' avere in me un amico. Vorrei che mi traduceste in bella lingua francese il piccolo libretto delle « Massime di perfezione », che vorrei anco pubblicare. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.33 Ricevo in questo momento la vostra dei 21 corrente la quale mi lascia ancora fra la speranza e il timore. Piacesse a Dio che egli vi avesse veramente illuminato a scorgere l' inganno orribile dell' inimico della vostra anima! Non m' inganno, no, a dire che il nesso dell' Istituto della Provvidenza e della Carità è unicamente progettato . Dovete adunque sapere che tutte quelle Costituzioni che furono scritte al Calvario sono tutte meramente progettate ; e non sono mai e poi mai definitivamente stabilite, se prima non sono provate dalla sperienza e quindi confirmate dalla Santa Sede. Tanto è poi vero che quelle regole sono unicamente progettate, che anzi possono essere cangiate da un giorno all' altro, purchè la ragione e l' esperienza il permetta. Oltre di ciò voi confondete più questioni in una, mio caro, perchè altro è dimandar « se il nesso dell' Istituto della Carità con quello della Provvidenza vada bene sì o no »; altro è il dimandare « se posto che il direttore dell' Istituto della Provvidenza sia un membro dell' Istituto della Carità, questi possa operare a proprio arbitrio contro il grado di autorità ricevuta dal superiore dell' Istituto della Carità a cui è soggetto ». La prima questione può essere controversa, ed io non l' ho mai definitivamente decisa. Ma la seconda non è punto controversa; e l' ubbidienza perfetta che esige l' Istituto della Carità, non ammette sicuramente che un soggetto di questo Istituto sia indipendente sotto nessun rispetto e in nessun genere di cose. Ciò sarebbe una mostruosità; si introdurrebbero subito mille scismi, l' Istituto diverrebbe un' idra con cento capi e non potrebbe sussistere. Io non dirò dunque che l' Istituto della Provvidenza debba aver per direttore sempre un membro dell' Istituto della Carità; ma dico bensì che ove l' Istituto della Carità concede che un suo membro però diriga ed anche fondi un Istituto qualunque, questo membro non viene menomamente esonerato dal peso dell' ubbidienza sotto nessun rapporto; e solo opera tutto ciò che fa in virtù d' ubbidienza e d' autorità non propria, ma ricevuta. Tale è il vero concetto della santa ubbidienza in ogni Istituto religioso; e chi si vuol sottrarre a questa sicurissima virtù dell' ubbidienza, si mette a pericolo di perdere la vocazione e la perde sicuramente, è ingannato dal demonio, e l' eterna sua salute è per lo meno incerta assai, perchè ricusa i mezzi sicuri datigli da Dio di salvarsi nella guida de' suoi superiori. Val più ubbidire, mio caro, che convertire il mondo. S. Francesco Saverio era pronto ad abbandonare i milioni d' uomini, che si convertivano alla sua voce, ad un solo cenno del suo superiore! La sua fantasia non lo illuse, nè lo trasse a dire: « Il mio superiore erra, o il mio superiore non sa, non vede il bene, e la maniera di ottenerlo », oppure: « io sono chiamato da Dio ad evangelizzare questi popoli: dunque abbandonerò il mio superiore e la religione per esser più libero e far tanto bene ». Povero lui, se avesse detto così! Con un simile discorso ogni religioso potrebbe sottrarsi all' ubbidienza, col pretesto di maggior libertà a fare il bene, ed uscire dal proprio Istituto. Inganno deplorabile! « Manete », dice S. Paolo, « in vocatione »: e non mutate col pretesto di maggior bene. Io veggo tutte le orribili conseguenze che si trarrebbe dietro la vostra defezione dall' Istituto della Carità per un pretesto simile, delle quali la minima di tutte sarebbe, che il mondo stesso scandalizzato vi abbandonerebbe, e voi vi trovereste alla fine privo di tutti quegli appoggi di cui ora vanamente vi lusingate. Di questo ho moral certezza, e ne ho prove positive e documenti nelle mani; ma questo, come dico, sarebbe ancora il minimo male; il più grande per me sarebbe quello di veder voi tirato in un abisso, e per riparare ad un errore commetterne cento, e dopo aver cominciato colle più belle speranze trovarvi infine colle mani ne' capelli e coll' aver fatti moltissimi mali nel mondo per aver voluto far troppi beni, non secondo Dio , cioè secondo le regole sicure de' santi. Per tutte queste ragioni e per molte altre voi vedete adunque la risposta ch' io son disposto a dare, alla vostra lettera del 21 corrente. Io non posso assolutamente concedervi nè pure ad tempus quella indipendenza che mi dimandate, perchè distruttiva dell' Istituto della Carità, e perchè sarei responsabile di tutti i passi precipitati e falsi che potreste commettere per fantasia riscaldata. Voi poi in fine alla lettera vostra mi fate un' alternativa, o « di ritirarvi dall' Istituto della Carità secondo la vostra lettera del 30 ottobre; o che io assuma i vostri impegni e che disaggravi voi dalla direzione dell' Istituto della Provvidenza, promettendomi che voi starete in quel minimo posto che giudicherò di assegnarvi al Calvario ». Io accetto questa seconda proposta, e vedrò in questa mia accettazione se il vostro parlare sia sincero. Voi nulla sfigurerete nè verso il Governo sardo, dicendo che il vostro superiore ha richiamato a sè il carico della direzione dell' Istituto della Provvidenza, volendo egli impiegar voi in altri affari, e che perciò se l' intendano con me. Dio mi aiuterà, lo spero, nè ricuserò mai di far manco conto del vostro consiglio e dell' opera vostra, che voi mi presterete senza pericolo alcuno dell' anima vostra nè dell' Istituto. E` l' unico partito che mi resta. Lasciarvi uscire dall' Istituto non mi patirebbe mai il cuore, e peccherei sicuramente contro la carità, cooperando all' opera manifestissima del demonio. Aspetto dunque nuova lettera e veramente consolante, nella quale mostriate di aver parlato da uomo sincero, e non facciate alcuna nuova difficoltà a questa vostra promessa, dalla quale tanto dipende sia riguardo all' anima vostra, sia riguardo ai due Istituti. Scrivetemi subito; e dietro alla lettera che mi consoli, mettetevi in viaggio voi stesso per venire a Rovereto, dove vi fermerete in casa mia, ed io ci verrò pure tosto; mi direte tutti i vostri impegni, concerteremo tutti i mezzi di soddisfare pienamente ai medesimi ed accorderemo insieme ogni cosa. Ho confidenza che da quell' epoca che ciò sarà fatto, comincierete ad essere un vero superiore dell' Istituto della Carità, e comincierà una nuova e veramente salutare carriera della vostra vita. Vi abbraccio intanto tenerissimamente, aspettando con impazienza che mi togliate giù questa pietra dal cuore. Addio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.33 Sabbato è giunto qui il caro vice7Superiore, ed io pure mi son qua recato tosto per conferire con lui. [...OMISSIS...] Appena mi vide si mise in ginocchio, e l' ho trovato intieramente rientrato in se stesso. Come vi aveva scritto io sperava che il Signore non avrebbe certamente abbandonato questo suo servo e zelante ministro. Dite dunque il Te Deum e fate fare continua orazione, acciocchè ogni cosa si componga alla gloria di Dio, e con istabilità di successo, come spero nel Signore; avendomi il Signore già anche prima confortato molto con questa tribolazione. Ho ricevuto la vostra dei 30 novembre. Avrei gustato meglio che non vi foste giustificato. Quando Maria SS. vide che S. Giuseppe doveva dubitare della sua fedeltà maritale si tacque, e lasciò a Dio la cura di sgombrare (se egli avesse creduto) ogni dubbio dall' animo del suo sposo. E non dee essere la Madre di Dio il nostro modello? Non l' abbiamo noi scelta perchè sia la causa esemplare della nostra Società? Perchè dunque imitarla sì poco nella rassegnazione, nell' abbandono di noi stessi in Dio? Quando poi volete anche scusarvi (il che non sarebbe secondo la perfezione), da qui in avanti non adoperate più queste espressioni di troppa sicurezza: « debbo disingannarla di un errore in cui so essere stato ecc.. Tanto Ella che Don Giovanni hanno creduto che io, ecc. »; ma dite più tosto: « forse Ella potrebbe aver creduto... Io temo non forse Ella, ecc. »: come vuole la modestia e la riserbatezza, non meno che il rispetto verso i propri Superiori. Aggiungete di più, che in materia di attacchi è sconveniente al tutto purgarsi con quella sicurezza che fate voi; perchè gli attacchi acciecano; ed ognuno dee dubitare di se stesso, e non assicurarsi. Quando anco voi foste purissimo d' ogni attacco, non dovreste mai dirlo, ma lasciare che lo dicano gli altri, e voi mantenervi nella santa umiltà interiore ed esteriore. Nè crediate che il sentire ripugnanza in qualche cosa sia certo segno di non avere attacchi a quella cosa; perocchè qui si tratta principalmente di attacchi spirituali, i quali consistono in una certa estimazione e persuasione di far bene in qualche impresa, con certa durezza di giudizio proprio; e simili attacchi possono stare insieme con repugnanze naturali; anzi queste ripugnanze possono illudere, ed essere appunto la materia della nostra ostinatezza di giudizio e del nostro attacco. Del non avere questi attacchi perciò non si dà altra prova, se non il trovarsi così liberi, che al solo conoscere la volontà del Superiore ed anco il suo desiderio, senza ragionare, senza dubitare, senza replicare, senza indugiare, tosto con grande allegrezza si lasci tutto per conformarsi al desiderio del Superiore. Vi scrivo queste cose, mio carissimo, per la certezza che ho che voi non cercate altro a tutto vostro potere, che di corrispondere alla santa vostra vocazione, rendendovi un vero membro dell' Istituto della Carità, come vien descritto nelle regole. Abbiamo coraggio nel Signore, che è con chi spera in Lui. Egli ci aiuterà indubitatamente. Vorrei fra le altre cose, che in tutti noi s' introducesse un sincerissimo desiderio ed amore della correzione. Oh che bel mezzo è questo per andare innanzi! [...OMISSIS...] Vi compassiono poi di cuore di ciò che mi dite circa le molteplici vostre occupazioni che vi tolgono il tempo di pensare a voi stesso e d' istruirvi. Ma, mio caro, portate ancora voi un po' di pazienza offerendo la vostra croce al Signore. Io penserò intanto qualche via di consolarvi; e alla più lunga spero di farlo quando verrò al Calvario all' aprirsi della stagione. Intanto armatevi di fortezza. Vi raccomando poi di essere dolce e benigno, [...OMISSIS...] Ditemi se vi siete emendato circa il difetto che v' ho notato di essere troppo lungo nelle divozioni.

Epistolario ascetico Vol.II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Ella vede, che solamente in questa dottrina dell' umiltà cristiana e della fede si trova la soluzione alla difficoltà fortissima che Ella propone sulla pratica inarrivabile della perfezione; e che tal soluzione non venne mai prodotta in alcuna filosofia: nuova prova della divinità della cristiana dottrina! Questa dottrina sovrumana non ha timore di dire all' uomo: « Numquid homo, Dei comparatione iustificabitur? Septies cadit iustus - cum omnia haec feceritis, dicite: servi inutiles sumus », perocchè tosto dopo atterratolo, lo solleva e conforta dicendogli ancora: « Voluntas Dei sanctificatio vestra: omnia quaecumque petieritis a Patre (meo) in nomine meo, dabit vobis - confidite: ego vici mundum! » Che ci resta dunque a fare? Metter solo il collo sotto il soave giogo di Cristo, umiliare incessantemente la petulanza cieca della nostra natura sensitiva e l' orgoglio ancor più cieco del nostro ingegno. Come nell' ordine morale giace in noi stessi una infinita imperfezione (astraendo dalla grazia di Cristo); così nell' ordine intellettuale giace in noi stessi un' infinita ignoranza. La pienezza della virtù non è meno ardua, alle sole forze dell' uomo, della pienezza della verità. Onde noi riceveremo la salute malgrado delle nostre imperfezioni, indi riceveremo la vital luce della mente, il lumen vitae delle Scritture, malgrado della nostra ignoranza. Oh questa è luce solare e ardente, quando la luce del secolo non ha che dei raggi biancastri e freddi! Sono certo, mio caro marchese, che appigliandosi Ella alla grazia, Dio La porterà innanzi, il quale ha detto e Le dice: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.37 Coll' occasione che vengono a voi alcuni altri fratelli, bramo scrivervi poche parole, per rammentarvi la vocazione vostra nella santità della carità. Io prego e supplico tutti voi nelle viscere di Gesù Crocifisso, che niuno voglia divergere nè a diritta nè a sinistra, ma che direttamente tenda a quello a che è chiamato, cioè a procacciare a sè medesimo la santità che non consiste in veruna opera d' ingegno, nè in alcuna prodezza o gloria umana, nè buon riuscimento delle imprese esteriori; ma bensì nel praticare quelle virtù che Gesù Cristo, Salvatore e forma delle anime nostre, ha mostrato in sè stesso, massime pendente dalla croce: le quali sono l' umiltà, la povertà, l' abnegazione e l' ubbidienza, la mortificazione e la pazienza, e la carità ardente che tutte le contiene e non si perde in sottigliezze, ma cammina con semplicità e non cerca le cose proprie, ma quelle di Dio e del prossimo. In questo sta tutto l' Istituto della Carità che voi avete abbracciato, e che dovete avere continuamente innanzi agli occhi affine di perseverare in esso fino alla morte, non con sola l' unione dei corpi, ma con quella degli spiriti, affine di non ingannare voi stessi, perdendo di vista l' unica vera idea e forma dell' Istituto, nato al Calvario e uscito dal Crocifisso: in quanto che da lui sono uscite le virtù, in cui l' Istituto mira come in suo fine, e perciò lo costituiscono. Voi, o miei dilettissimi fratelli, avete tanto maggior bisogno di tenere fisso il vostro cuore a questo fine, non facendo conto che della pratica delle virtù evangeliche, come del solo bene (giacchè il resto è vanità), in quanto che il servizio di Dio costà ha congiunte difficoltà non poche, distrazioni e pericoli: i quali tutti però voi superare potrete, cooperando fedelmente alla grazia che Iddio non vi nega, e così essi diverranno altrettanti mezzi del vostro perfezionamento e trofei della vostra gloria futura. E questa cooperazione alla grazia non può consistere in altro, che nello aver presente la vostra vocazione per dirigervi secondo quella, uniformandovi allo spirito e alla lettera delle Regole, che vi sono prescritte, con sommessione perfetta. Ognuno in prima si persuada di non fidarsi troppo del proprio sentimento e giudizio, e piuttosto creda fermamente che fra tutti i pericoli della vita religiosa il più insidioso è quello che consiste nell' uso esclusivo del proprio raziocinio; perocchè l' uomo, essendo un essere ragionevole, inclina a ragionare, senza troppo considerare che i suoi ragionamenti sono brevi, limitati e spesso fallaci, a differenza di quelli di Dio che abbracciano in un modo infallibile le cose tutte, le presenti e le future, che rimangono nascoste agli occhi nostri. Perciò ciascuno nella propria condotta, invece di seguire le regole e i risultamenti del suo proprio ragionare, prenda a sua guida la sola altissima e semplicissima regola della volontà divina, a imitazione di Cristo, il quale, dando ragione del suo operare, non diceva già che operava per questo o quel motivo, ma diceva sempre che operava per fare la volontà del suo Padre Celeste, e acciocchè si adempissero le Scritture che contenevano appunto ciò che il Padre aveva ab aeterno prestabilito. Laonde tutto lo studio nostro, o carissimi, consista in pervenire a conoscere la volontà divina, e non in ragionare e disputare fra noi stessi, se questa o quella sia cosa buona o migliore secondo il proprio vedere limitato ed umano. Siamo solleciti unicamente di cercare quali siano i segni della divina volontà per eseguirla fedelmente e semplicemente, con pace interiore e senza contraddizione del proprio intelletto. E se voi attentamente considererete, scorgerete di leggeri, che i segni della divina volontà sono segnatamente tre, ai quali noi la riconosceremo senza fallo, se di puro cuore la cercheremo. Il primo segno è la legge di Dio , da Gesù Cristo apertaci con pienezza e perfezione; la qual legge è chiamata perciò dai teologi volontà di segno ; e perciò è anche scritto: « Voluntas Dei sanctificatio vestra ». Se dunque la volontà di Dio è la nostra santificazione, noi possiamo essere certissimi di operare conformemente a quest' amabilissima e santissima volontà divina, quando incessantemente lavoriamo a purificarci dalle nostre imperfezioni, e ad acquistare tutte le virtù che formano la santità. E ogniqualvolta una turbazione di animo ci pone in uno stato di perplessità e di dubbiezza, ricordiamoci di preferire fra i due quel partito che in sè stesso è più favorevole alla nostra santità, quello che più contiene di virtù evangeliche, appigliandoci senz' altro dubbio nè esitazione a ciò che meglio esercita la nostra abnegazione, povertà, ubbidienza, carità e disprezzo di noi stessi e delle cose nostre; perocchè facendo così, noi siamo certi di non isbagliare e di operare secondo l' altissima ed eccellentissima regola del divino volere che pur vogliamo seguire, e per questo siamo nell' Istituto. Il secondo segno che ci fa conoscere quest' ottimo e desiderabilissimo volere di Dio, si è l' ubbidienza a' nostri Superiori. A tutti voi io dico questo, e in prima al Padre Rettore e al Padre Ministro che debbono precedere coll' esempio nell' ubbidire semplicemente a' propri Superiori, e di poi lo dico a tutti gli altri fratelli soggetti. Conviene riflettere che questa è la dottrina della Chiesa cattolica, la quale insegna ed ha sempre insegnato che l' ubbidienza perfetta a' propri Superiori è la via più sicura a conoscere il divino volere e a perfezionare e salvare sè stessi. Non insorga adunque la temerità e la baldanza del proprio ragionamento, perchè così facendo non insorgerebbe già contro l' uomo che comanda, ma contro Dio che manifesta il suo volere per mezzo di quell' uomo. Egli è vero, che si può trovare nel comando del Superiore sbaglio o difetto, secondo il corto vedere umano; ma vero sbaglio o difetto non può cadere nel volere di Dio, di cui quel comando è segno indubitabile. Di maniera che è da credersi che eseguendo quel comando, sebbene accompagnato da qualche errore secondo le viste umane, tuttavia non si farà che ottimamente secondo le viste divine, e che Dio vorrà servirsi di quello sbaglio od errore del Superiore ai suoi altissimi e sapientissimi fini, che noi per la nostra cortezza ed ignoranza non arriviamo a conoscere. Non si dà nessuna eccezione a questa regola, fuor solo quando nel comando del Superiore vi avesse peccato. Fuori di questo caso, taccia il nostro intelletto davanti a ciò che viene comandato, non giudichi, non censuri, non calcoli cosa (se non forse per rappresentarla sommessamente al Superiore); ma presti con viva fede e con certezza di ubbidire a Dio, una ubbidienza intera, pronta, semplice ed umile. Quando poi non si può conoscere il voler di Dio nè col primo nè col secondo di questi due segni, perchè non v' è un comando del Superiore che prescriva il da farsi, nè la legge di Dio o l' amore della santità lo determina, allora convien ricorrere alla terza regola, molto necessaria ai Superiori, ed anche ai soggetti, ogni qualvolta i Superiori rimettono al loro giudizio il modo di operare. Questo terzo segno del divino volere si è la voce della divina Providenza , che si fa sentire negli avvenimenti esterni e nel complesso delle loro circostanze. Conviene che questa voce sia da noi raccolta col lume tranquillo della propria ragione, soccorsa dal lume della fede, con una maniera di vedere al tutto logica, senza prevenzioni nè fantasie, o niente che abbia del superstizioso e dell' arbitrario. Fare tutto il bene, che la divina Provvidenza ci presenta nelle occasioni esterne da noi non cercate, farlo senza ingiusta predilezione, ma sempre col debito ordine: ecco ciò che in questo caso vuole Iddio certamente da noi. Iddio è l' essenza del bene; dunque egli vuole da noi tutto il bene possibile, ed è quello che, venendoci presentato a fare dalla sua Provvidenza, non è scelto a nostro, ma a suo arbitrio. Questo terzo segno è subordinato al secondo, come il secondo è subordinato al primo, cioè a dire se la legge di Dio ci obbliga ad una cosa, a quella dobbiamo attenerci; ma se non ci obbliga, dobbiamo attenerci all' ubbidienza. Se poi neppur questa determina il da farsi, allora dobbiamo studiarci di conoscere il voler di Dio per mezzo del lume di ragione e della grazia che il deve accompagnare, il quale per non fallire non deve prevenire, ma seguire la Provvidenza nei fatti esterni. Dal primo poi e dal secondo de' tre segni scaturisce la necessità che voi tutti avete, quando pur vi piaccia di attenervi strettamente alla volontà del vostro Dio, di meditare attentamente e amorosamente le regole dell' Istituto da voi abbracciato, come quelle che contengono in compendio e applicano la legge di grazia portataci da Gesù Cristo, e come quelle, a cui debbono prestare egualmente ubbidienza e i Superiori e i soggetti. Ognuno adunque cerchi di vivere confidato grandemente in Dio, unito strettamente col proprio Superiore, in cui ravvisi come in imagine Dio stesso, uniti ancora tutti fra di voi in congiuntissima carità, la quale non sia turbata mai da cosa alcuna, sopportando i difetti altrui nell' abbondanza dell' amore, onde ciascuno dee avere ricolmo il cuore, avendo gran premura non solo del profitto proprio, ma ben anco di quello di tutti gli altri fratelli che formano con lui una famiglia in Gesù Cristo, edificandoli col suo contegno e cooperando alla loro purificazione e perfezione, secondo lo spirito dell' Istituto e la volontà de' Superiori. E così facendo voi, l' umile vostro fratello che ha tanto di fidanza di scrivervi queste cose con ogni libertà nel Signore, spera di dover partecipare della pienezza de' vostri meriti e delle vostre preghiere che con un cuor puro e retto innalzerete senza posa al trono di Dio, nel quale egli assai vi ama e dal quale vi prega ogni benedizione e aumento di grazia, consolazione e fortezza nelle tribolazioni e corona di gloria immarcescibile. [...OMISSIS...] 1.37 Se nelle confessioni non troviamo materia grave, è misericordia del Signore nostro, e nel dobbiamo ringraziare; peraltro ciò non ci dee distorre dalla confessione, la quale è un atto di profonda umiltà e di compunzione di tutti i nostri peccati in generale, i quali si possono sempre detestare e sottomettere di nuovo alla sacramental confessione; tanto più che possiamo sempre temere per cagion d' essi, sebbene sottomessi già al giudizio del sacerdote, non sapendo con assoluta certezza se le disposizioni nostre erano del tutto quelle che si richieggono ad ottenere da Dio un pieno perdono. D' altro lato la confessione, e sopratutto poi la comunione, aumenta la grazia e le forze spirituali. In quanto ai peccati veniali, conviene che li combattiamo con tutta pace e senza pretensione di riuscirvi in breve tempo. Vi ha un mezzo generale e soavissimo di far ciò, ed è quello di accrescere in noi la carità coll' orazione e con atti frequenti di amor di Dio e del prossimo: in ragione che cresce in noi la carità, vanno cadendo i peccati veniali, quasi senza che ce ne accorgiamo, ed ogni attacco a noi stessi ed alle cose proprie. Questo è un mezzo eccellente specialmente per quelli che fossero inclinati ad assottigliare, ai quali il troppo pesare e scrutare le minime cose può cagionare turbazione e inquietezza. Quanto poi alle opere di sopraerogazione, non conviene mai cangiarsele in doveri; perchè sarebbe un rendersi grave da sè stessi il giogo del Signore. Anche qui conviene procedere per la via di quell' amore che dilata il cuore; ma perchè questo stesso potrebbe affannare l' animo, pensando che è troppo scarso il nostro amore verso il bene infinito che dobbiamo amare, perciò ci è uopo d' altro lato riflettere che questo amore soprannaturale è esso stesso un dono di Dio, dono che egli ci fa in certa misura; e però si contenta che l' amiamo con quella misura colla quale possiamo amarlo, e non pretende di più. Perciò Gesù Cristo, comandandoci l' amor di Dio non ci ordinò di amarlo infinitamente , com' ei si merita; ma ci ordinò di amarlo con tutto il cuore ecc., che è quanto dire con tutta la potenza che abbiamo di amare. Di più non chiede; e però convien fare quel che possiamo, e poi starci contenti riposando in Lui e sperando in Lui; ed egli farà di più in noi. E quanto al precetto dell' amor del prossimo, che ci comanda di amare gli altri come noi stessi, non parla di uguaglianza , ma di somiglianza ; e parla dell' amor volontario e non dell' istintivo; e queste considerazioni debbono quietare, se ci sembra di non amar gli altri quanto noi stessi, bastando che li amiamo come noi stessi. Buona cosa è tuttavia e che fa fare all' anima molti progressi, l' occuparsi in opere di carità e specialmente di carità spirituale, che è la più eccellente, e nel promuovere tutte le opere sante. Quanto a ciò che mi dice circa la differenza di specie fra l' anima di un buono e di un malvagio, non si potrebbe sostenere, perocchè la specie umana è costituita dall' aver per lume l' essere iniziale , e questo l' hanno tutti o lo amino o no. Si potrebbe dire bensì che fra un buono e un malvagio vi ha una differenza maggiore che non sia dalle stelle alla terra e più ancora, voglio dire una diversità maravigliosa, incredibile, che nel Vangelo viene espressa con quel chaos magnum che sta interposto fra Lazzaro ed Epulone. Se si tratta di bontà soprannaturale la distanza è infinita, ed è certo che la grazia opera un cangiamento sostanziale e non puramente accidentale, come insegna San Tommaso. Mi è stata carissima la sua lettera e l' altra che mi ha scritta, e la prego di continuarmi la sua cara benevolenza, e comandi a me come ad uno che la stima e l' ama... [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.3. Sebbene risponda tardi alla vostra lettera, non dovete credere che ella mi sia riuscita meno grata, nè prenderete errore se attribuirete la lunga dilazione in farvi risposta alle troppe mie occupazioni... Quanto a ciò che nella vostra lettera mi dite intorno agli studii, non si richiedono molte parole, giacchè essendo questo tempo del vostro noviziato sacro all' esercizio della virtù e della santità più fervente, il resto non è che accessorio; e dal Padre Maestro saprete quello che vi convenga di fare. Sommamente importante all' incontro mi parrebbe lo scrivervi qualche cosa sul conto del dubbio venutovi in cuore circa l' ubbidienza cieca , se già questo vostro Maestro e amorosissimo superiore non mi avesse fatto intendere, esservisi questo dubbio dileguato dall' anima. Tuttavia un nonnulla voglio dirvi su ciò, mio caro Giacosa, e questo si è in prima che il conoscere intimamente l' eccellenza altissima dell' ubbidienza cieca prestata per amor di Gesù Cristo, ella è cosa al tutto divina , e quelli soli ciò intendono, a cui lo Spirito Santo comunica questa sapienza sopraumana. Laonde vorrei esortarvi a domandare questa soprannaturale illustrazione con intensissime preghiere, annientandovi davanti al trono della Maestà di Dio e chiedendogli con gran fervore di poter intendere le lezioni che ci ha dato Gesù Cristo suo Figlio dalla sanguinosa cattedra della Croce. Ci potrebbe anco condurre all' intelligenza e al possesso di questo tesoro dell' ubbidienza cieca, un amore intensissimo che noi avessimo verso il nostro Signor Gesù Cristo; perocchè questo infiammato amore ci porterebbe indubitatamente ad intendere gli ammirandi suoi esempi e le parole con cui ce l' ha insegnata: parole ed esempi non compresi se non da quelli che l' amano svisceratamente, e che all' opposto sono stati e saranno gentibus stultitia . Un' altra via da poter giungere a capire la preziosità di questa virtù dell' ubbidienza, per la quale l' uomo spirituale è sempre pronto anco a morire, è quella della fede fermissima e viva nel magistero della Santa Chiesa, come quella che è colonna e firmamento di verità, e nell' esempio dei Santi che furono dalla Chiesa canonizzati. Perocchè chi ha questa viva fede, ha lo spirito e le parole di sua madre la Chiesa, e senz' altro ragionare si persuaderà pienissimamente che il cieco ubbidire è un atto di virtù squisitissima e di sommo merito presso Dio. Veramente Chiesa Santa l' ha creduto ed insegnato in tutti i secoli ed in tutti i luoghi; ed ha coronati gli eroi di questa virtù. E parimenti quegli che crede che i Santi sieno i veri sapienti, non dubiterà che ciò che hanno fatto tutti essi, nessuno eccettuato, cioè l' ubbidire ciecamente, non sia ragionevole, e giusto, e santissimo; e se insorgeranno a costui dubbii nella mente, chiamerà sè stesso scioccherello e pazzo, e si atterrà immobilmente al lume de' Santi, i quali, atteso lo Spirito Santo che avevano in sè, intesero assai bene la forza di quelle parole dette da Cristo, « qui vos audit, me audit ». Le quali parole del divin Maestro sono per vero un inconcusso fondamento all' ubbidienza cieca, imperciocchè esse furono dette per gli Apostoli alla Chiesa, e la Chiesa parla ed opera pe' suoi ministri, e massime per li superiori delle sante Religioni e Congregazioni. Sicchè vi è tanta ragione di ubbidire ciecamente ai Superiori, quanto ragion vi è di credere ciecamente a Cristo. E come credendo ciecamente a Cristo, si rinunzia bensì a tutte le altre ragioni, ma per attaccarsi ad una ragione altissima, ed unica vera ragione; così ubbidendo ciecamente ai superiori, si rinunzia bensì, in un senso, alla propria ragione individuale e a tutti i suoi speciali ragionamenti, ma nello stesso tempo, in un altro senso, si ubbidisce alla stessa propria ragione; perocchè è la propria ragione di chi ubbidisce, illuminata dalla grazia di Dio, che persuade al vero ubbidiente essere cosa convenientissima che egli ubbidisca, senza cercare altre ragioni che la bellezza stessa dell' ubbidienza. Qui poi osservate, mio caro, l' errore che commettete, dicendo nella vostra lettera che due soli sono quelli che ci possono comandare, la ragione nostra ed il superiore esterno. Voi lasciate fuori il principale, che è Dio che parla per mezzo del superiore e vale molto più della nostra ragione individuale, la quale è soggetta ad ingannarsi, ed anzi inganna sempre ed indubitatamente ogni qualvolta non vuole ubbidire ciecamente alla volontà divina, che Dio manifesta per la bocca del suo ministro e del suo rappresentante sopra la terra che è il superiore religioso. Dico che s' inganna sempre la ragione nostra individuale , quando ci persuade di non ubbidire. Imperocchè quando è, di grazia, che noi veramente c' inganniamo? Quando invece di cercare ciò che è meglio pel nostro fine, cioè a dire per l' acquisto della virtù, della perfezione, dell' umiltà, dell' annegazione, della mortificazione, della penitenza, della imitazione in una parola di Gesù Cristo Crocifisso, noi ci fermiamo a delle considerazioni umane e di altro ordine interamente diverso da quello delle virtù evangeliche. A ragion d' esempio, quando quel celebre solitario, insigne maestro di perfezione, comandava al suo discepolo, che ogni giorno portasse certa quantità d' acqua per inaffiare una pianta disseccata da molto tempo, se quel discepolo avesse disubbidito col pretesto di seguire la propria ragione, egli si sarebbe ingannato e avrebbe operato al tutto contro ragione. Perocchè era bensì vero che l' inaffiare quella pianta, come gli veniva comandato, era inutile e irragionevole, quando si consideri solo il fine di farla rinverdire, ma se all' incontro si considera quell' altro fine molto più sublime, che consiste nell' atto di virtù, di umiltà, di annegazione, di mortificazione, e in una parola d' ubbidienza (perocchè tutte quelle cose sono contenute nella sola ubbidienza); allora si vede manifestissimamente che l' ubbidire a quell' irragionevole comando era cosa ragionevolissima, sapientissima, e santissima. E tanto è grato a Dio questo cieco ubbidire, che si degnò, non di rado, di manifestare la sua approvazione coi miracoli; come accadde nel fatto che vi accenno; perocchè quella pianta disseccata, narrano le storie, che a quell' atto di ubbidienza rinverdì e rifiorì. Ed ora chi non vede, che in ogni atto di ubbidienza, fatto per amor di Dio, al proprio superiore, vi è sempre rinchiuso l' abbassamento di se stesso, l' annegazione, l' umiltà, e l' amor di Dio, e che queste virtù vi sono tanto più belle e grandi, quanto la cosa comandata è più ripugnante e contraria al nostro senso proprio ed al nostro proprio giudizio? E se Gesù Cristo ci ha insegnato che la perfezione nostra sta in quell' annientamento che l' uomo fa di se stesso per amor suo, ed a sua imitazione, chi non vede che vi è sempre una ragione di ubbidire a qualsivoglia comando, e che questa ragione è l' ultima di tutte le ragioni a cui tutte le altre debbono cedere? Perocchè la ragione del rendere noi stessi perfetti, annientandoci per amor di Cristo, è tanto grande che non ve ne può essere un' altra più grande: è il sole della ragione che ecclissa tutte le stelle. Deh! qual ragione di operare vi può essere più grande di quella di ottenere il fine, per cui siamo creati, e di ottenerlo nel più perfetto modo insegnatoci da Cristo? L' ubbidienza che si dice cieca è dunque un' ubbidienza illuminatissima , e con essa si rinuncia a tutte le ragioni frivole e vane per solo attenersi all' unica ragione vera, solidissima e beatissima. Ma tutto questo discorso da chi può venire inteso, se non dall' amatore di Gesù Cristo? Da chi può essere gustato, se non dal semplice ed umile di cuore? A chi risplende tal lume se non al poverello di spirito e al fanciulletto che ha lo sguardo schietto e sincero? [...OMISSIS...] Conviene adunque, mio caro, acciocchè capisca in noi la cognizione di questi tesori della sapienza e della scienza di Dio, che prostrati bocconi per terra innanzi al trono della Maestà, domandiamo, come dicevo, al Padre che ci tragga a Cristo Signor nostro; perocchè indubitatamente è vero quanto pronunciò l' oracolo dell' infallibile verità: « Nemo potest ad me venire, nisi Pater traxerit eum ». Che se il Padre, udendo quel prego che gli innalzeremo dal profondo del cuore in nome del suo diletto Unigenito, ci aprirà gli occhi dell' anima e ci farà cadere le cateratte che le nostre passioni su vi coagularono; allora non solo vedremo l' intrinseco prezzo inapprezzabile dell' evangelica virtù della ubbidienza cieca, ma vedremo di più che, povero il nostro naviglio, se avesse per proprio conduttore noi stessi e la nostra propria ragione e volontà! Vedremo andarsene esso a caso qua e colà trabalzato da flutti in mare immenso, tempestoso e tenebroso, senza discernere mai a che direzione sia volta la miseranda nostra navigazione. Vedremo il lume della ragione nostra, rimastosi solo, non valerci più ad altro che a farci conoscere la condizione disperata in cui siamo gittati. Vedremo che la sola stella che ci possa scorgere a certo segno, non è la povera e inutile nostra ragione umana, ma la sola luminosissima, benignissima, e sicurissima volontà di Dio; e che il nocchiero che possa guidarci dietro a quest' astro di presagio lietissimo, è quel superiore appunto datoci dalla Provvidenza e dalla misericordia di Dio nella religione qualunque ei sia; perocchè qualunque ei sia (purchè non ci comandi il peccato), egli è sempre l' inviato da Dio, è sempre l' interprete dei divini disegni e il ministro delle divine misericordie. Vedremo tutto questo rispetto a noi; ma vedremo molto più se ci viene dato il lume dell' umile sapienza di Cristo, rispetto al bene che potrebbe per noi farsi ai prossimi nostri ed alla santa Chiesa. Perocchè Dio Padre di tutti gli uomini è quegli che pensa a tutti, e Gesù Cristo, Capo della Chiesa ricomperatasi a prezzo di sangue, è quegli che pensa alla sua Chiesa. E Iddio padre e Gesù Cristo suo figlio non elegge alle opere della sua gloria in beneficio del mondo e della sua Chiesa, se non di quelli che, conformati a Cristo, crocifiggono se medesimi, e muoiono a se stessi nella virtù della santa ubbidienza, annegazione, umiltà e amore della croce. Nè altri, ma anzi il solo seguace della santa ubbidienza evangelica è colui che veramente si offerisce a Cristo ed al Padre, e che il Padre e Cristo, secondo il loro beneplacito, elevano, come dicevo, a loro ministro e l' adoperano a tutte quelle cose grandi a cui l' hanno ab eterno predestinato. Stringiamoci adunque all' ubbidienza dei superiori, rinunciando una volta per sempre a noi medesimi, e otteniamoci una grazia sì squisita coll' assiduità di un' umile e non mai interrotta orazione. Questo, o mio caro, io mi aspetto da voi e da tutti cotesti nostri Novizi carissimi; aspetto che tutti usciate infiammati d' amore divino, e atti ad appiccarne l' incendio ai quattro angoli della terra; aspetto che usciate pieni della umile sapienza di Gesù Cristo, che è stoltezza ai vani ragionari del mondo, ubbidienti, docili, mansueti, illuminati, morti alla terra, vivi a Dio, gloriosi di non sapere altro se non Gesù Cristo, e questo crocifisso, da cui vi prego salute e benedizione ne' secoli. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.3. Le dovea pervenire questa mia lettera sul cadere di agosto secondo il promesso, se alcuni accidenti, fra gli altri quelli del corpo sempre malazzato di chi la scrive, non lo avessero trattenuto finora. Essa è incaricata di farle di nuovo molti ringraziamenti del prezioso dono della magnifica « Introduzione » della sua « Storia Universale », letta da me e trovata quale mi aspettavo, e più ancora che io non mi sapessi aspettare ampia e ricca di cose, specchio di una gran mente e di un animo buono e gentile come dee esser quello dello storico. Questa lettura mi ha captivato alla dolce fatica di dover leggere tutta altresì la storia che segue, cosa che ripugnerebbe a queste mie presenti strettezze di tempo e di forze che mi divietano la lezione di tante altre opere egregie e mi prescrivono severamente di non isvolgere altri libri se non i soli necessariissimi alla giornata; pure egli mi è forza ubbidire alla prepotenza che mi usò la sua « Introduzione ». Ma pazienza se questa fosse la sola conseguenza dell' essermi io arreso al suo cortese invito! Ella non vuole da me udire prette lodi, ma mi dimanda un parere, delle osservazioni: come di quelle mi sarebbe facile il mandargliene molte e sincere, così mi pare oltremodo difficile il mandarle di queste, che siano ragionevoli e discrete ed utili; nè sarebbero tali se non fossero anche nuove. E come Le dirò io cosa che non Le sia forse stata detta da altri, se non anco prima pensata e discussa da Lei stessa? Che le cose belle e grandi non mancano di censori numerosissimi, nè saprei dire se la sua stessa grand' opera sia stata più onorata dal pubblico colle lodi o colle censure. Tuttavia forse dirò cosa non detta da altri se parlerò della religione, che come la più importante di tutte, così è quella di cui men parlano i letterati. Tutta da capo a fondo è religiosa la sua « Introduzione », e per entro ad essa lo scrittore non si vergogna mai di far pubblica e dignitosa professione di cristiano. Tanto più posso parlarle liberamente con sicurezza, che il mio parlare non Le torni molesto anzi gradito, paresse quanto si voglia di soverchio sottile e scrupoloso. Ciò dunque che mi cadde in animo di dirle si è, che talora le espressioni e le maniere, che vengono qua e colà usate nell' « Introduzione » parlando del cristianesimo, mi parvero risentirsi e quasi avvicinarsi a quelle che si trovano in molti scrittori moderni, massimamente francesi, i quali parlano umanamente della cristiana religione e, per così dire, la rifanno a lor modo: sogliono evitare tutto il soprannaturale, almen tacendolo, se non negandolo: niente di miracoli, niente di misteri, niente della grazia divina, che è propriamente la vita della fede nostra; confondono la vera rigenerazione dell' uomo, che viene operata da Cristo in un attimo nel battesimo, con ciò che essi chiamano impropriamente rigenerazione , intendendo con questa parola il successivo incivilimento nazionale o sociale che si opera col decorso de' secoli. Le darò un solo esempio di ciò che intendeva. Alla faccia 2. dell' « Introduzione » si dice molto nobilmente: « il cristianesimo elevò la storia e la rese universale, dacchè proclamando l' unità di Dio proclamò quella del genere umano, e insegnandoci ad invocare il Padre nostro , ci fè riconoscere tutti per fratelli ». Niente di più vero nella sostanza: tuttavia osserverei, che il cristianesimo non operò tanta maraviglia col proclamare solamente l' unità di Dio. Questa unità era stata proclamata anche in principio del mondo, e non valse a sostenerlo dalla corruzione: la stessa tradizione antichissima della unità di Dio si conservò fino presso gli Otaiti, adoratori del grande Spirito, e non impedì quelle popolazioni di scadere a stato selvaggio: questa unità fu proclamata dai più insigni savi delle Indie, di Grecia e di Roma: Maometto la proclamò, e quasi direbbesi, più di Cristo, giacchè negò la Trinità delle Persone; e questo dogma della unità tanto proclamato non elevò la storia, non fece nulla di quello che fece il cristianesimo. Il dogma proprio e fecondo della Religione del Salvatore del mondo si è quello della Trinità, e il conseguente della Incarnazione. Pure il proclamare questi dogmi sarebbe stato un profferire delle vane o pazze voci, se la onnipotenza della grazia non avesse acceso il lume della fede nelle anime de' battezzati: ecco lo stromento segreto, che mancò a Maometto, a Confucio, a Platone, a quanti vissero savi in sulla terra dichiarati da Cristo latrones ; ma che non mancò al Verbo incarnato. Questi solo ebbe virtù di mettere in sulle labbra degli uomini il Padre nostro , parola che non poteasi pronunziare senza la dottrina della Trinità, perocchè quella parola tutto racchiude in sè questo mistero, non potendo Dio ricevere nome di Padre se non ha un Dio per figlio. - Siccome in questi ed in altri simili luoghi la grazia avrebbe espressa tutta la verità del pensiero dello scrittore, così dove si legge che « « i poveri, deboli, mal conosciuti, calunniati, coll' autorità, l' istruzione, le ceremonie, l' esempio propagarono il regno di Dio »(facc. 46) » si sente che manca il mezzo principale onde il cristianesimo si propagò, cioè quello de' miracoli ; giacchè, come osservò S. Agostino, se questi fossero mancati, un miracolo massimo sarebbe stata questa sì rapida diffusione della cristiana verità. Mio carissimo signor Cesare, io credo ora di averle dato prova della stima che fo di Lei e dell' affetto sincerissimo che Le porto comunicandole queste poche osservazioni sul suo egregio lavoro. Ella ne faccia quel conto che il suo senno Le suggerirà. Io son certo che le cose da me dette non tolgono all' opera sua l' esser un gran monumento dell' italiana letteratura, ed oso anche dire fin qui l' unico nel suo genere. Ella mi conservi la sua preziosa amicizia, e mi saluti il veneratissimo nostro don Alessandro. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.39 Il mio sentimento è che facciate i voti, essendo io appieno convinto, che, facendoli, voi farete cosa grata a Dio. Con questa persuasione intima ho messo il vostro nome nel decreto che mando al vostro Superiore, il caro D. Luigi, e al quale viene stabilito quali siano quelli, che costì faranno i voti. La sottigliezza del vostro ingegno e sopratutto la vostra fantasia, ecco i vostri principali nemici, che voi stesso conoscete. Cercate di vincerli coll' orazione e con atti generosi di volontà ripetuti molte volte. Gli atti generosi della volontà e le proteste fatte a Dio di frequente e i gemiti cavati dal profondo del cuore hanno grande virtù di ottenerci la grazia e la fortezza di cui abbisogniamo continuamente in questa nostra peregrinazione. Non riprendo che si ragioni ; ma io dico che vi sono delle ragioni primarie e di assoluta verità, e delle ragioni secondarie , e che hanno una verità relativa solamente e parziale. Ora noi dobbiamo dirigerci in tutte le nostre opinioni ed azioni con quelle ragioni primarie che sono poche, semplici, sublimi, universali, madri di costanza e di pace; e non colle ragioni secondarie che appartengono ad una sfera di cose più bassa ed angusta, e non sogliono essere concludenti per la pratica, nè mai si esauriscono, perchè ripullulano infinite, e però mettono l' animo in una perpetua inquietudine e turbazione. Questa non è solamente dottrina logica, è dottrina sacra: Gesù Cristo ha insegnato a' suoi discepoli a far conto solamente delle ragioni grandi o primarie, di cui parlo: elle sono quelle che formano la semplicità, la costanza e la magnanimità della vita dei Santi. Ecco alcuna di queste ragioni che hanno potenza col loro peso di annientare innumerabili ragioni secondarie, minute e querule. Vi ha una Provvidenza amorosissima che tutto regola e dispone: dunque io debbo essere contento di tutto ciò che non dipende da me: debbo tenere per certo, che anche ciò che mi sembra storto è l' istromento migliore per la massima mia santificazione e beatitudine se io me ne approfitto. Essendo Iddio infinitamente buono, debbo confidare e buttarmi in Lui, anche quando io sono cattivo, debole, infermo: debbo sforzarmi, come posso (ma senza ansietà e turbazione), a vincere me stesso e far le cose perfette; e mi riesca o no di farlo debbo considerare che gli stessi miei sforzi, gli stessi miei desiderii sono un dono suo e un pegno che Egli mi vuol soccorrere: i desiderii santi costantemente ripetuti in un cuore non possono andare a male, e perciò nella Scrittura si esprime un uomo santo col dire semplicemente Vir desideriorum . Debbo sommessamente seguire l' autorità della Chiesa, de' Sommi Pontefici, e oltracciò il senso e, per così dire, l' istinto de' Santi. Il senso de' Santi e l' autorità della Chiesa mi dicono che l' ubbidienza ai superiori religiosi è una via sicura di salute e di perfezione. Io mi accorgo, che Iddio mi fa sentire profondamente al cuore questa verità. Che importa dunque che i miei Superiori fallino? Io sono sicuro. D' altra parte se fallano i miei Superiori, come uomini che sono, non falla Iddio che permette il loro fallo, e son certo che lo permette pel mio massimo bene. I Superiori non sono che istromenti nelle mani di Dio: quel comando dunque, che è sbagliato se lo considero con una ragione secondaria e di bassa sfera, non è dunque sbagliato se lo considero con una ragione primaria e sublime: la ragione primaria mette la tranquillità nel mio cuore; m' infonde l' affetto e il compatimento verso i miei Superiori; mi rende dolcissimo e sommamente meritorio l' ubbidire in questi casi appunto, nei quali le ragioni secondarie mi offuscano la mente, mi turbano ed amareggiano il cuore, mi rendono disamorevole verso i miei Superiori, ritroso ad ubbidire, vacillante nella stessa vocazione. Periscano adunque queste ragioni secondarie, si scaccino, come le nubi dinanzi al sole, si faccia sereno il cielo dell' animo nostro. Non conviene ragionare con esse, ma colla forza onnipotente delle ragioni primarie soffocarle appena nate, annientarle, prima che nascano, senza misericordia. Debbo fare grande stima di tutti i miei prossimi e specialmente de' miei confratelli e de' miei Superiori; debbo presumere e interpretar bene ogni cosa, facendo che tutto il mio ingegno sia a piena disposizione della mia carità. Per l' opposto debbo diffidare infinitamente di me stesso, di tutti i miei giudizii, e pospormi a tutti in ordine alla virtù. Se io fo un atto generoso e santo, sono certo che non me ne pentirò mai: sono certo, che gli effetti di quest' atto saranno buoni per me: e se io mi butto in Dio (per quanto miseramente posso) son certo, che Egli non mi lascerà cadere in terra, ma mi raccoglierà nel suo seno. Queste ed altrettali ragioni primarie e sublimi, e che formano la base del nostro Istituto, danno gran pace al cuore e fanno andare innanzi i deboli e gl' infermi e i peccatori. Io sono persuaso che nel fondo del vostro cuore prevalgono queste ragioni primarie; ma mi sembra che, sebben vittoriose, non abbiano ancora distrutte ed annientate le ragioni secondarie, e che vi sia una grande attività nel vostro ingegno e nella vostra immaginazione tendente a fabbricare incessantemente di queste ragioni di bassa sfera, le quali sono veramente inesauribili e rendono l' uomo loquace, involgendolo in disputazioni che non han fine alcuno, e molto meno danno edificazione. Io vi esorto a distruggerle al tutto, facendo che le ragioni primarie e divine sieno le dominatrici pacifiche e sole dell' animo vostro. In questo senso vi esorto a far guerra alla vostra propria ragione, sottomettendovi ciecamente all' autorità ed ubbidienza, fermo in quella parola della Scrittura: « Vir obediens loquetur victorias ». Così si debbono intendere i Santi e i maestri di spirito, quando ci esortano a rinunziare alla nostra ragione e giudizio proprio: sublime ed altissimo documento, sicuro fonte di santità! Qual cosa più bella che il navigare con sicurezza di giungere al porto, sebben s' ignori la strada che dovrem percorrere ed i cimenti che incontreremo per essa? O bella e santa Fede! a te, quantunque abbi le bende agli occhi, io mi attengo con tutto il cuore. [...OMISSIS...] In quanto al modo, col quale fu governato l' Istituto fin qui, credetemi, carissimo mio fratello, che ignorando voi le più minute circostanze, non potete portarne un giudizio sicuro. Io ho riandato molte volte ciò che si è fatto e credo che nel complesso si sia fatta la volontà di Dio: si sia fatto tutto quello che si è potuto e saputo, e che il resto l' abbia fatto mirabilmente Iddio. Quanto alle mortificazioni, voglio rettificare un vostro concetto. Voi dite che quando una cosa è stabilita come appartenente alla vita comune, non si può a meno di conformarsi alla generalità de' fratelli per non dare scandalo. Se si tratta semplicemente di mortificazioni, io non sono del vostro avviso. L' Istituto pregia sopratutto l' umiltà; e se un nostro compagno che non può fare la mortificazione, riceve quella specie di umiliazione, che gliene viene, da Dio e nel suo interno ne cava profitto, umiliandosi e riconoscendosi debole; egli pratica con ciò una virtù molto propria dell' Istituto. Ma gli altri ne prenderanno scandalo? Questo è quello che non deve essere: io bramo, e spero che si otterrà col tempo, che tutti i membri dell' Istituto aborriscano i giudizi sui propri fratelli e sappiano stimarli altamente ed amarli anche se non fanno le mortificazioni comuni, pensando che nelle anime loro possono trovarsi infiniti tesori di grazie anco senza di ciò, e attribuendo il non fare la mortificazione a cause oneste ed anco sante. Il pensare il contrario e il perdere la stima dei fratelli per così piccole cose, è una vera ignoranza: io voglio che tutti i nostri fratelli sieno in ciò istruiti bene, e bene avvezzi a conservare una gran carità in cuore. Stimo e bramo più questa disposizione della stessa uniformità della vita comune: sebbene anche questa uniformità la desideri, per quanto ella è possibile. Desidero tuttavia nel medesimo tempo, che tutti facciano grande stima della penitenza e antepongano all' altre quella della comunità; perchè questo è lo spirito della Chiesa, e di Gesù Cristo, e de' Santi suoi, e il voto dell' Istituto nostro. Quanto ad opinioni, l' Istituto dà piena libertà a' suoi membri, secondo quella regola bellissima di sant' Agostino, « in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus charitas ». Circa all' opinioni politiche, io son certo che voi vi atterrete alle dottrine espresse dal Sommo Pontefice nelle Encicliche pubblicate a condanna delle opinioni dell' abate De La Mennais. Forse voi avrete anco letta la lettera, che io ho diretta a questo sacerdote e che fu tradotta anche in francese. L' attenersi alle dottrine dell' Enciclica è cosa necessaria, « in necessariis unitas ». Del resto voi siete libero: ed ho piacere che mi diciate non professar voi alcuna opinione, perchè la materia essendo difficilissima e delicatissima, sarebbe un esporsi a grave pericolo il prendere un' opinione, senza averne studiata la questione complicatissima, da tutti i lati. Bramerei, che leggeste la mia opera intitolata « La Società ed il suo fine », dove ho cercato di render chiare alcune idee importanti, che hanno uno stretto rapporto con quella questione. Ma questa lettera è già lunga, e il tempo assolutamente mi manca di dir di più. Credo d' aver sostanzialmente toccate le cose principali da voi scritte. Coraggio adunque, libertà di coscienza, risoluzione generosa, irrevocabile. Iddio vi venga incontro e vi abbracci. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 La lettera vostra del 3 mi ha cagionato una dolorosa sorpresa. Voi vi mostrate vacillante sul punto di abitare in Italia. Ma il disegnare da se stessi il luogo in cui si deve abitare, non è ella cosa direttamente contraria al voto dell' ubbidienza religiosa, e specialmente al voto proprio dell' Istituto nostro, che esige l' indifferenza ad ogni luogo , come espressamente dichiarano le regole? Avete ben letto il « Memoriale della prima prova », e tutte l' altre regole nostre, che espressamente dichiarano tali cose? Avvertite che il sacrificio, che noi dobbiamo fare al Signore e che gli abbiamo fatto co' sacri voti, dee essere simile a quello di Gesù Cristo in sulla croce, nostro maestro ed esemplare. Ha forse detto Gesù Cristo al suo celeste Padre: io non voglio stare nella Giudea, perchè provo delle tristezze, o perchè mi espongo al pericolo della morte? Per lo contrario « obedivit usque ad mortem ». E notate che i Ss. Padri, tra i quali S. Basilio e S. Tommaso, dichiarano che l' ubbidienza religiosa obbliga sino alla stessa morte. E non vale mica il dire, io non intendevo di prendermi queste obbligazioni quando feci il voto; perocchè, questa sarebbe una maniera assai facile di sottrarsi da un' obbligazione così sacra; massime dopo essere precedute tutte le istruzioni sulle regole nostre, che dichiarano la forza de' voti. Ah non vogliate, mio caro, essere così illiberale col Signore, e far dei passi che al punto della morte vi potrebbero levare la tranquillità della coscienza! Egli è vero che potrete forse trovare dei consiglieri ed anco de' teologi che favoriscono le vostre imperfezioni e passioni; ma poco giovano certi consigli, fondati sopra sottigliezze, dinanzi al tribunale di Dio. Permettetemi che vi parli con libertà. Voi non sarete mai quieto fino a tanto che il sacrificio che fate di voi stesso a Dio non sia intero e perfetto ; e non sarà mai intero e perfetto se non la rompete generosamente con tutti gli attacchi a voi stesso e alle cose di questo mondo, e non vi stringete a Dio solo. « Deus meus et omnia », dee essere la vostra divisa, e la divisa di tutti noi. Quando voi vi mettete nelle mani di Dio (e nelle sue mani vi siete messo coi sacri voti e colla professione del nostro Istituto), allora dovete stare costante e quieto in quelle mani, vivo e morto . Iddio non abbandona certamente chi si fida intieramente a lui, e da lui riceve per mezzo de' propri Superiori il bene ed il male. Questo abbandono nella divina Provvidenza è essenziale al nostro Istituto, e non si dà vero sacrificio, non si dà vera imitazione di Gesù Cristo, senza di questo. Chi ragiona diversamente, ragiona umanamente, e però s' inganna. Se Iddio vedrà che al maggior bene, non del vostro corpo, ma dell' anima vostra, giovi che meniate una vita mista, egli farà nascere tali circostanze, che condurrete una vita mista. Se Iddio vedrà il contrario, egli permetterà il contrario; permetterà che siate anco attaccato da' nervi, perchè finalmente « virtus in infirmitate perficitur »; e voi, se rimarrete costante nella vostra vocazione e nelle prove che vi darà il Signore (le quali non sono mai superiori alle forze, purchè si preghi), diverrete giusto e caro agli occhi di Dio, giacchè « vir obediens narrabit victorias ». La necessità dunque della vita mista il Signore la vede, e se ella è reale per l' anima, e non per il corpo, vi provvede sicuramente a favore di un servo che gli è fedele; ma non di un servo che gli è infedele. Avvi anche pericolo che in queste cose giochi in gran parte la fantasia, la quale spesso c' inganna, e a cui convien resistere valorosamente, opponendole lo scudo della fede. Ma la fantasia non opererebbe, se in noi non ci fosse l' attacco a noi stessi, ai paesi da cui noi proveniamo, ai conoscenti, al proprio benessere, e alle sostanze temporali. Rompiamo dunque con forza tutti questi attacchi, e la fantasia cesserà di operare. Potremo allora cantare: « Laqueus contritus est et nos liberati sumus ». Il demonio c' inganna coll' attrattiva di una vita apostolica; ma la vita apostolica può ella essere priva delle più solide virtù? Si dà egli vita apostolica senza ubbidienza e senza povertà? Gli apostoli erano mandati : ma come può esercitare l' apostolato un religioso che non riceve la missione de' suoi Superiori, e che dice: io voglio fare l' apostolo per impedire l' attacco de' miei nervi? come può esercitare l' apostolato chi non vuole lasciare le sue reti e la sua barca? S. Paolo tremava, non forse predicando agli altri si facesse reprobo egli stesso; il che dimostra che le fatiche apostoliche non si debbono assumere nè per inclinazione, nè per gusto o consolazioni che vi si trovino; ma perchè Iddio vuole, perchè Iddio manda. Se dunque i vostri Superiori vi mandano, fate bene ad ascoltarli, e ad andare, perchè « qui vos audit, me audit »: ma se volete andare da voi stesso, o cercate che altri vi mandino, dovrete renderne conto a Dio, e il giudizio che vi si farà dei falli che voi commetterete nell' apostolato sarà inesorabile: « ego non mittebam eos, et ipsi currebant ». Ah! temiamo pure nell' accingerci alla grand' opera di ammaestrare gli altri, come temeva e tremava s. Agostino e tutti i Santi; e desideriamo piuttosto di prepararci all' apostolato, che non sia di esercitare l' apostolato stesso; desideriamo piuttosto di convertire noi stessi, e così di prepararci a convertire gli altri, quando e come il Signore lo vorrà. Se avremo vinto noi stessi, debellate le tentazioni, sacrificati i nostri gusti, resi noi stessi perfetti nell' ubbidienza e nell' annegazione; allora saremo divenuti istrumenti idonei nelle mani di Dio, e potremo sperare che egli forse si serva di noi a fare qualche bene. Ma fino che siamo così imperfetti, pieni di volontà propria, di giudizi proprii, così mal mortificati, abbiamo troppa ragione di temere di noi stessi. Quegli solo sarà un vero apostolo, che a imitazione di Gesù Cristo sa aspettare la missione celeste per 30 anni nell' oscurità della vita occulta. Ecco la virtù che non falla, perchè non lusinga l' amor proprio: la virtù che noi sacerdoti dell' Istituto della Carità ci siamo proposto di esercitare. Coraggio adunque, mio caro fratello nel Signore! Vada tutto, vada la vita, vada la roba, vadano i gusti e tutti i nostri giudizi particolari; ma non vada la virtù vera, evangelica e veramente apostolica che forma l' essenza della nostra professione. Abbandoniamo ogni altro nostro pensiero e desiderio fuor di quello di divenire veri membri dell' Istituto della Carità . Quest' unico pensiero vi occupi più che non ha fatto per lo passato. Il membro dell' Istituto della Carità è contento in ogni luogo, in ogni grado, in ogni ufficio, perchè cerca Iddio solo. Egli si stacca da tutto. La nostra povertà deve essere piena, assoluta, simile a quella di Gesù Cristo sulla croce. Io non potrei mai permettere che nessuno dei nostri compagni amministrasse i suoi beni proprii, o che menomamente ne disponesse o che impedisse all' Istituto il disporne, giacchè peccherei io stesso mortalmente contro il voto e farei peccare i miei compagni condiscendendo alla loro imperfezione. E perciò vi prego e vi scongiuro, mio carissimo fratello in Cristo; e non bastando ciò, vi comando altresì in virtù di santa ubbidienza (notate bene) di consegnare fedelmente tutto ciò che avete in beni mobili e stabili a questo mondo nelle mani del vostro Superiore, in maniera che non vi resti più nè bene alcuno, nè disposizione, nè amministrazione di sorta alcuna; acciocchè siate sciolto intieramente da tali imbarazzi, e possiate servire il Signore in una vera e intera povertà, e si compia in voi la volontà divina. Spogliato interamente dei beni temporali, la virtù della grazia di Dio si aumenterà in voi; e così reso più forte, e da Dio illustrata la mente, non finirete di benedire il suo Nome per la grazia grande che vi ha fatto. Intanto vi raccomanderò indegnamente al Signore, e spero che nella prossima vostra lettera mi restituerete quella consolazione che mi ha fatto perdere la precedente, per la giusta sollecitudine che ho dell' anima vostra. Addio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Non dubito che la bontà e misericordia del Signor nostro non voglia da voi una sempre maggior perfezione. Quel tenerissimo nostro amico e Sposo picchia incessantemente alla porta del nostro cuore; vi entra se noi gli apriamo, e vi entra per renderlo più bello e per fugarne tutte le tenebre. Oh! ma quanta è mai la nostra miseria! Impastati di fango vilissimo, e peggio ancora, di vilissima carne, non siamo buoni da altro che da oppilare gli spiragli della luce celeste, che da turare gli occhi dell' anima nostra, fatti pure per ricevere quella luce e vivificarsene, e ostruire gli orecchi acciocchè non sentano le divine parole! Quand' io considero da una parte l' insistenza di Dio per fare del bene a me, sua povera creatura, e dall' altra non dico la mancanza della corrispondenza da parte mia, ma gli ostacoli ch' io oppongo al mio infinito benefattore e la guerra che gli faccio, inorridisco; e se egli stesso non mi aiutasse ancora, chi mi terrebbe dal non avvilirmi e disperarmi? Coll' esperienza mia propria adunque misuro benissimo e comprendo come simiglianti sentimenti ed anche agitazioni e desolazioni possano entrare nell' anime altrui, possano entrare anco nella vostra. Ma che perciò? non ci sarà per noi, mio carissimo, anche una larga vena di consolazione? Ah sì, ed infinita! Io la trovo sempre in quelle parole: « Surgam et ibo ad patrem meum ». Oh dolce nome di Padre! Quanti mercenari « in domo patris mei abundant panibus; ego autem hic fame pereo! » Alla nostra casa adunque, alla casa del nostro Padre! e vi troveremo ogni cosa che ci bisogna: gli amplessi paterni ci aspettano. E` vero che se noi dovessimo sperare in noi stessi, la sarebbe finita; ma noi possiamo contare talmente sulla tenerezza del nostro Padre Iddio, che da lui stesso possiamo aspettare fin anco che ci muti il cuore, fin anco che produca egli in noi la corrispondenza nostra alla grazia sua, fin anco che ci comunichi egli stesso il coraggio e la fortezza che ci manca per fare quelle risoluzioni generose e grandi di cui abbisogniamo. Non n' abbiamo noi il desiderio? E bene, questo desiderio benchè sterile è la caparra che ci dà Iddio di voler fare con noi de' prodigi di misericordia; perocchè lo stesso desiderio del bene è suo dono. Dietro a questo desiderio mandiamo a Dio delle voci, delle suppliche, de' gemiti almeno; se non possiamo pregar molto, preghiamo poco, ma con frequenza ed ardore; preghiamo che ci accresca il dono di pregare: egli ci esaudirà, e dietro la preghiera verranno a noi tutte l' altre grazie che ci bisognano, e più ancora. Non meritando che di essere mercenari nella casa paterna, ci troveremo senza saper come ridivenuti figliuoli, e della bella stola vestiti e dell' anello prezioso fregiati. Oh insomma non può nulla mancare a chi desidera, a chi spera, a chi fa quello che può, ed aspetta dal suo ottimo Creatore e Padre quello che non può! Coraggio adunque, fiducia illimitata, tranquillità nello stesso dolore, nella stessa umiliazione! Mio caro, quanto bramerei di potervi recare qualche sollievo nella vostra afflizione, se io sapessi il modo! Chi sa, che forse non vi gioverebbe l' assentarvi per qualche tempo da Roma, e dalle vostre ordinarie occupazioni! Nel caso che ciò trovaste potervi giovare, venite da me, staremo insieme: o se le mie occupazioni non mi lasceranno molto tempo libero, voi avrete la compagnia di alcuno de' miei compagni. Il riposo, la novità della vita e degli oggetti che vi circonderebbero, potrebbero ristorarvi. Non vi prometto però delizie, ma povera vita. Se non poteste fare il viaggio per la spesa, ciò non vi trattenga; pagherò io per voi. In somma disponete di me, come si fa de' veri amici. Farò pregare, pregherò; voi pure pregate. Il nostro caro Signore e la dolce nostra Madre, stiamone certi, ci esaudiranno: ci faranno suoi , che è quello solo che noi vogliamo: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Ho aggradito la vostra lettera colla quale mi date notizia di voi stessa. Il consiglio principale che vi do si è, che vi mettiate sempre avanti gli occhi la vita di Gesù Cristo vostro sposo per imitarla, e i suoi celesti insegnamenti; fra gli altri quei due tanto da lui raccomandati dell' abbandono di sè nella Provvidenza , e della carità del prossimo . Egli ha detto che gli uomini conosceranno quali sieno i suoi discepoli, dalla carità che eserciteranno fra di loro. Questa è la vera perfezione, la più alta perfezione religiosa che si possa concepire: e questa è quella a cui siete chiamata nell' Istituto della Provvidenza. Badate di acquistare idee diritte, e di non credere che la perfezione religiosa consista nella clausura, in certa regolarità di preghiere, e in cose somiglianti. No, mia figlia, non consiste in queste cose la vera perfezione, sebbene tali cose possono esser buone ed aiutare a conseguire la perfezione, se Iddio ce le concede. Eleggete dunque per vostro maestro nella via della perfezione il solo Gesù Cristo: vedete che egli nè i suoi apostoli, esempi della più alta perfezione, non vissero chiusi e addetti a certo fisso regolamento; ma andarono dovunque li chiamava la Provvidenza divina e la carità del prossimo . Iddio vi aiuterà da per tutto dove andrete per amor suo, e per far bene alle anime da lui redente. Ciò che ora dovete fare si è d' impegnarvi grandemente a divenir perfetta nello stato in cui vi trovate e in cui certamente vi ha posta il Signore, cacciando ogni altro pensiero, che non farebbe che nuocere al vostro profitto, e innamorandovi del vostro Istituto, tutto sacrificato alla Provvidenza ed alla carità. Le tentazioni vi saranno, e verranno anche più forti; ma non temete. Iddio sarà con voi, se da parte vostra non vi lasciate distrarre con pensieri alieni, coi quali il demonio suole disturbare le anime coll' apparenza del meglio. Fate per me una santa comunione, e ogni qualvolta abbiate bisogno di consiglio, scrivetemi pure liberamente. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Niente ritrovo in quanto Ella mi espone che mi faccia menomamente dubitare che l' ecclesiastico, che dirige l' anima sua, non sia degno della piena sua confidenza; e però sono intimamente persuaso che la più compita ubbidienza al medesimo sia la strada più sicura per Lei di piacere a Dio, come desidera, e di far progresso nelle virtù. La voce del suo Direttore deve essere per Lei la voce di Dio stesso, e perciò se il Direttore Le concede licenza di accostarsi all' altare per ricevere la SS. Comunione tre o più volte la settimana, e in quei giorni ch' Ella desidera, questo è anco il voler di Dio; ed Ella non ha da far altro che di riempirsi di riconoscenza verso la bontà del suo Creatore, che con tanta generosità d' amore la chiama a sè mediante la voce del suo ministro e La ammette al suo divino banchetto; non ha da far altro che di confondersi nel suo niente, nella sua indegnità, accostandosi in pari tempo alla sacra mensa confidente, lieta, umile, magnificando il Signore coi sensi di Maria Santissima, perchè egli si degnò di riguardare alla bassezza della sua serva. Non si tratta qui della questione se siamo degni o no di un tal favore; trattasi di sapere se Iddio ce lo vuol fare o no un favore sì segnalato, sebbene noi siamo e ce ne riconosciamo pienamente fuor di questione indegnissimi; trattasi di sapere se noi ci possiamo credere di quegli avventurati zoppi e storpi e guerci dell' Evangelio, che pur furono, nonchè invitati, quasi cacciati dentro a forza nella sala delle nozze di quel gran signore. E come possiamo noi saperlo? Ce lo fa sapere la voce di Dio che noi udiamo dalla bocca del suo Ministro che ha cura dell' anima nostra: entriamo dunque con fiducia e col cuore esultante, perchè il Signore che abbiamo offeso si degna di sopraffarci in tal modo e vincerci in bontà: pensiamo che egli è infinito, e non ce ne faremo più meraviglia. Ma io sono stata una gran peccatrice, Ella mi dice, e dov' è la penitenza? Il desiderio di soddisfare alla divina giustizia colle opere penitenziali è cosa giusta e santa, e certo un tal desiderio non si dee reprimere quando Iddio lo fa nascere nell' anima nostra: tuttavia questo desiderio, come tutti gli altri buoni desiderii, dee sottomettersi alla più grande delle virtù, all' ubbidienza, e da questa esser interamente diretto. Se il suo Direttore non crede di permetterle alcune mortificazioni e penitenze esteriori, ch' Ella stimerebbe troppo giuste e desidererebbe grandemente di fare; Ella riconosca anche in ciò l' amabile volontà di Dio, riconosca che Iddio stesso La dispensa per ora da tali penitenze, che si contenta del suo desiderio, e sopra tutto poi della ubbidienza ch' Ella esercita, non facendole. Egli è tanto grande il merito che ha presso Dio l' ubbidienza, che nella Scrittura stessa vien detto che questa piace più a lui delle vittime. Nell' ubbidienza adunque stanno per Lei racchiuse le penitenze, di cui si sente verso Dio debitrice. Ella le fa tutte ubbidendo. Ma questa stessa dichiarazione, che Le fa Dio, dee di nuovo confonderla ed umiliarla, essendo un nuovo tratto della benignità di Dio verso di Lei, non dee diminuir punto nel suo cuore il sentimento di tutto ciò che deve a Dio in conseguenza delle sue colpe; dee considerarsi come doppiamente debitrice e per le soddisfazioni delle quali Iddio La dispensa, e per la grazia della quale Iddio La ricolma. L' essere dispensata in tal modo da certe penitenze dee oltracciò impegnarla ad accendersi di maggior tenerezza verso il nostro Signor Gesù Cristo, riflettendo ch' Egli La dispensa così dal patire per aver patito Egli a sua vece; giacchè se Gesù Cristo non avesse sborsato per noi peccatori il prezzo del suo sangue, noi non potevamo essere dispensati dal dovuto pagamento. Ecco la ragione per la quale il suo Direttore, qual organo di Dio stesso, Le può impedire alcune penitenze senza scapito della soddisfazione dovuta: la penitenza fatta da Cristo per noi n' è la gran ragione: sopra questa ci possiamo riposare. Come Ella vede, io parlo di alcune penitenze, delle arbitrarie ch' Ella stessa s' imporrebbe: non resterà perciò priva di penitenze e ben meritorie. Molte ne farà ricevendo con gran pace e contento tutte quelle che impone Iddio alle anime mediante i varii accidenti della vita, praticando quelle che riguardano la mortificazione interiore, quelle che s' incontrano nello studio stesso di piacere a Dio solo, nella meditazione delle cose eterne, nell' orazione, nel combattimento contro tutti i propri nemici spirituali non meno piccoli che grandi. Ella dice che non fa profitto nella emendazione de' suoi difetti: questa è una nuova penitenza, il sopportare se stessa. Ne vuole ancora di più? Eccogliene. Faccia per quanto può una vita di carità; faccia il maggior bene ch' Ella possa a' suoi prossimi, e quando non può farlo coll' opera, lo faccia loro col desiderio, colla compassione, coll' intercessione verso gli uomini, colla preghiera verso Dio. Oh quanto bene c' è da fare a questo mondo, mia pregiatissima signora, purchè si voglia! E non dubito ch' Ella lo faccia, che lo farà; e la carità sua riuscirà tanto più graziosa agli occhi di Dio, quanto più Ella procurerà di dirigerla non solo al ben dei corpi, ma ciò che più monta, alla salute eterna dell' anime de' suoi prossimi. Serva Ella dunque il Signore, che la favorì e La favorisce, con ampiezza di cuore senz' angustie, nè timori: dei difetti nè rimarranno, ma non se ne sgomenti: questi li permette il Signore per tenerci umili: approfittiamocene per questo appunto, staccandoci sempre più da noi stessi e dal mondo. Io sono stato più lungo in questa mia di quello che avrei voluto: se troppo, me ne scusi. Ma sopra tutto preghi il Signore anch' Ella (come io farò pure indegnamente per Lei) per i molti miei bisogni d' ogni specie. Mi son servito, com' Ella vede, della licenza ch' Ella mi diede di risponderle nella lingua italiana, e ne ho certo una buonissima ragione, il non saperne altra: il che però non vuol dire che io sappia questa in cui scrivo. [...OMISSIS...] 1.41 La sua cara lettera è un pegno di vera cristiana amicizia: uno di quei pegni che non si dimenticano più. Io ne La ringrazio con tutto il cuore. L' opuscolo di cui Ella mi parla, come messo in giro anche costì, ma da Lei non veduto, neppur io potei averlo ancor nelle mani. Ne seppi l' esistenza solo pochi giorni fa: una persona lo portò all' Em.mo Card. Tadini Arcivescovo di Genova, il quale lo mostrò ad un mio amico. Questi n' andò in traccia per Genova a fine di rinvenirlo: tutti i librai lo conoscevano, tutti ne parlavano, niuno seppe dirgli dove fosse, d' onde lo si potesse avere. Ho ragione di credere che una copia ne sia stata recata altresì all' Arciv. di Torino, e ad altri Prelati e Magistrati. Tosto che mi verrà fatto di procacciarmelo potrò dirle qualche cosa del contenuto. Le posso però parlare fin d' ora del più importante. Il più importante è la mia fede, che, come sento si attacca. Io non pretendo già di essere infallibile; ma guai se la fede cristiana dovesse riposare sull' infallibilità dell' uomo! essa riposa tutta sull' autorità di Dio rivelante, il quale ci fa conoscere la verità col mezzo della S. Chiesa. Su quest' autorità la mia fede, come quella di ogni altro semplice fedele, è basata: ella è dunque indipendente tutta dal ragionamento, ed io non ho mai fatto dei miei ragionamenti (Dio me ne guardi!) il sostegno e l' appoggio della mia credenza, gli ho considerati sempre come cosa affatto da questa diversa. Quindi, come ho sempre tenuto per falso quel ragionamento che fosse anco menomamente opposto all' autorità della Chiesa; così, qualora mi fosse avvenuto di fare un ragionamento, che senz' accorgermene riuscisse opposto a quanto avesse deciso quest' infallibile autorità, ciò proverebbe bensì in me dell' ignoranza e della fallacità di giudizio, ma non per questo la mia fede ne soffrirebbe. Ora io non sono già nato per esser dotto o per acquistarmene la gloria presso gli uomini, nè mai a questa fama ho rivolte le povere mie fatiche; ma sono nato bensì per esser credente e fatto degno delle promesse di Cristo, qual figliuolo devoto della sua Chiesa. Da questo Ella conoscerà, che io non posso valutar molto quella qualsiasi riputazione di letterato che Ella mi dice avermi per l' addietro acquistata, e che l' esser io convinto d' ignoranza, non è quel che mi pesa. Il mio tesoro è la santa fede, e qui è anco il mio cuore. Laonde se avvenisse, poniamo il caso, che la S. Sede Apostolica mia maestra, e maestra di tutto il mondo, trovasse di che riprendere nelle cose mie, non sarebbemi certo difficile il fare qualsivoglia pubblica dichiarazione, che rendesse la mia intemerata credenza più luminosa; giacchè tutto ciò che io avessi detto contro questa credenza, l' avrei detto certamente contro il mio proprio sentimento, e ritrattandomi non farei che esprimere quel pensiero immutabile, che m' ebbi sempre permanente nel cuore, e solo correggerne l' espressione esterna, che mancherebbe a rendere con esattezza quell' intimo pensiero, voglio dire, la mia piena fede. Che anzi Le dirò di più; a chi mi ebbe mostrato qualche mio sbaglio io professai sempre gratitudine, come voleva il dovere, nè alcuna difficoltà sentii mai a correggerlo per amore di quella verità che sola voglio ed amo in tutte le cose mie; e se questo feci e fo nelle cose più indifferenti, come nol farei io in un punto sì capitale come è quello della mia religione, dove, oltre l' offendere la verità e nuocere all' anima mia, mi esporrei al pericolo di rendermi maestro di errore al mio prossimo? Che cosa ho io voluto mai altro nei poveri miei scritti, che giovare alle anime? Ed ora le pervertirò io stesso? e ad occhi aperti? Iddio nol permetterà mai; io n' ho tutta e in lui solo la fiducia, in lui che m' infuse la fede bambino, e mi diede una illimitata devozione alle decisioni della S. Sede Apostolica, in lui che spande nel mio cuore la gioia quando posso fare un atto di fede, e che mi farebbe desiderar quasi d' esser caduto in un involontario errore, purchè senz' altrui danno, per potergliene rendere una confessione più alta e solenne. - Ma questo involontario errore ci sarà egli dunque nelle vostre opere? Ella mi domanda. Le risponderò con S. Paolo: « nihil mihi conscius sum, sed non in hoc iustificatus sum ». Mi parla nella sua lettera di errori di Baio, di Quesnello, di Giansenio, di Calvino, di Lutero: il solo sentir questi nomi, mette, a dir vero, raccapriccio. Le detestabili dottrine di questi eresiarchi, eretici, o fautori d' eresia sono state condannate giustissimamente dalla Chiesa: io le ho sempre condannate e detestate insieme con essa; e com' è egli dunque possibile che io segua costoro? e voglia esser anch' io un tralcio reciso dalla vite, buono da gittarsi solo sul fuoco? Dio mio! l' udir questo è certo una grande umiliazione. Le Bolle de' Sommi Pontefici che condannarono il giansenismo in tutte le sue diverse gradazioni, sono certamente sotto i miei occhi; e pure io non veggo che un solo dei sentimenti espressi nelle mie opere, e nominatamente nel « Trattato della Coscienza », che come credo, si prende specialmente di mira, s' approssimi ai sentimenti condannati di que' novatori. Che anzi più volte, io citai le proposizioni condannate in essi, a fin di mostrare qual sia la strada perversa in cui quelli eransi incamminati, e qual sia per ciò la contraria che noi dobbiamo percorrere; più volte mi son dichiarato in modo da non lasciare intorno a ciò il minimo dubbio. Che dunque si pretende con tali accuse? qual progetto si cova nascosto? vuol Ella che Le dica in fine di più ancora? vuol Ella che le apra tutta l' intima mia persuasione? vuol che Le faccia conoscere quanto la mente mia chiaramente prevede dover avvenir da quest' aggressione alle spalle, che or mi si fa? M' ascolti benignamente, e non attribuisca a presunzione alcuna quanto la chiara consapevolezza e il testimonio interiore dell' animo mio depone in me stesso, ed a Lei ingenuamente confido. L' autore dell' opuscolo, che secretamente si sparge, sarà stato mosso da buon zelo per la purità della fede; egli è probabile assai, che siasi grandemente riscaldata la testa, e che mal pratico delle dottrine filosofiche e dello stile rigoroso, che io stimai bene d' adoperare nel « Trattato della Coscienza » come nelle altre mie opere per ridurre le questioni complicate ai loro semplici principŒ, abbia preso, come si suol dire, delle cantonate. Egli è facile, appigliandosi a qualche frase staccata, a qualche periodo mal inteso, farne uscire un senso a rovescio; come è facile comporre un centone di passi che dicano tutt' insieme precisamente l' opposto di ciò che volle dire l' autore; ed ognuno sa che collo stile stesso e colle frasi del Vangelo si può benissimo scriver la vita di Cagliostro. Ma che perciò? Certo che dee nascere necessariamente da una tal frode qualche sussurro per ogni canto, massime che vi sono anche assai di quelli a cui buccinano da sè gli orecchi. Questo dee portare di conseguente una costernazione nei buoni, un gaudio nei tristi, un cotal sospetto nella moltitudine che non può giudicare del merito dei partiti ardenti, uno scatenarsi delle passioni; ciò appunto che voleva « inimicus homo, qui superseminavit zizaniam ». Io ne addoloro pel ben comune: per veder quelli che doveano esser meco uniti, così dividersi. Ma in fine, non vive egli Iddio? non regna egli Cristo? non vede egli i cuori? non conosce egli i suoi servi? non dispone egli forse tutto per la sua gloria e pel bene della sua Chiesa? che c' è a temere? gli darò io cagione di dirmi: « modicae fidei, quare dubitasti? » No certo, colla sua grazia. E in terra non ha egli il suo Vicario? il Papa non è egli ispirato e condotto dallo Spirito Santo? i giudizi della S. Sede hanno forse niente di comune coi giudizi precipitosi e riscaldati di alcuni uomini forse zelanti, ma non sempre secundum scientiam? Ecco dunque ciò che avverrà. La S. Sede tutto esaminerà colla sua solita posatezza, imparzialità, prudenza e sapienza divina: ella andrà al fondo della cosa, e giudicherà con piena cognizion di causa. Il suo giudizio è stato sempre la mia regola, sarà tale ancora. Io amerò egualmente una regola sì cara, sì dolce, sì certa, sì sicura qualunque ella sia, qualunque cosa Ella prescriva. Ma che cosa in fine prescriverà? Eccole la persuasione mia fermissima. Non solo giudicherà pure e sane le mie dottrine, e il suo autorevole giudizio le renderà più utili ai miei prossimi pei quali io le scrissi, credendo di scrivere quello che il lume del Signore mi suggeriva; ma di più la S. Sede riconoscerà in esse degli argomenti validissimi, coi quali sterpare fino le radici degli errori di Giansenio, Baio, Quesnello ed altri sopra nominati, e in questa vista veramente furono da me scritte. Ma Ella ritenga sempre, che questa mia persuasione dettatami dalla coscienza insieme e dalla cognizione non leggera delle materie nei miei scritti trattate, non ha ancora da far niente colla mia fede: la quale è semplice e in altro non fondasi affatto che in Dio e nella santa sua Chiesa. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Mi consola assai il sentire che Ella è risoluta di amare a qualunque sia prezzo la verità e di non tradirla giammai. Io sono persuaso che questa sia la più bella disposizione che Ella possa avere per ottenere da Dio i lumi e la fortezza di cui Ella abbisogna nelle circostanze in cui Ella si trova, e che nella sua lettera mi descrive. Non è certamente bisogno, che io osservi che i doveri nostri verso la verità sono molti, giacchè noi dobbiamo non solo amarne quella bellezza che dimostra al nostro intelletto ( « agnoscere veritatem »), ma ben anco realizzarne colla condotta nostra quella bontà che propone alla nostra volontà ( « facere veritatem »). Questo secondo dovere è più difficile assai del primo, ed è quello ad eseguire il quale specialmente noi abbiamo bisogno del divino aiuto, e, per averlo, di domandarlo incessantemente. [...OMISSIS...] come dice S. Giacomo. Perciò io credo che Ella si troverà ben contenta se in tutti i suoi viaggi, tenendo presente Iddio, lo invocherà senza posa, praticando i doveri imposti dalla santa Chiesa Cattolica, e facendo uso, con viva fede e nihil haesitans , de' Sacramenti della medesima. Le sarà altresì di grandissimo aiuto e difesa contro ai pericoli l' abituarsi a non pregiare le cose e le cognizioni stesse, se non in ordine alla verità ed alla giustizia, e perciò a Dio ed alla santa Chiesa Cattolica, a cui ha la grazia di appartenere. Con questa retta intenzione viaggiando, Ella non si contenterà meramente di acquistare cognizioni, ma di mano in mano rifletterà all' uso che potrà fare delle cognizioni che Le verranno acquistate, e stimerà più quelle che più Le possono servire un giorno a far valere la causa della religione, della giustizia e dell' umanità. Questo stesso riflesso gioverà assai a farle considerare come mere vanità molte cose di questo mondo, intorno alle quali gli uomini impazziscono; e La difenderà da molti pregiudizi ed opinioni false, di cui sogliono essere imbevute le società particolari, e i particolari. [...OMISSIS...] 1.41 La vostra cara lettera di ier l' altro mi è un nuovo caro pegno di quella vera cristiana amicizia che mi professate. Vi assicuro per altro, che nella « Risposta al finto Eusebio Cristiano » ho temperate secondo il vostro consiglio alcune espressioni che riescivano un po' pungenti; sebbene sento ora che vi sembra ancor troppo acerba. E tale sarebbe anche agli occhi miei, se io avessi così scritto, perchè il mio avversario fu il primo ad offendermi e ferirmi nella parte più delicata, qual' è l' integrità della fede , come vi credete che io abbia fatto. Ma io protesto che questa è per me una ragione che non val nulla; giacchè, per grazia di Dio, non mi curo nulla delle ingiurie personali, nè me ne sono mai curato. Laonde se non avessi temute le conseguenze funeste per le opere della gloria di Dio e per la dottrina vera del nostro Signore, state pur certo che non avrei risposto nè pure una parola ad Eusebio. No, ve lo ripeto, per ispirito di vendetta, grazie a Dio, non iscrivo, nè ho mai scritto. Perchè scrivo io dunque? Scrivo pel bene pubblico; e dal momento che io stimo che questo sia il mio dovere, reputo di scrivere in quel modo, nel quale si possa ottenere più facilmente, più speditamente e pienamente questo bene che ho in vista. Per ottenere questo bene non si deve mentire, che Iddio me ne guardi! ma della verità si deve dire quella parte che sembra necessaria ad ottenerlo in maggior abbondanza. Talora questa verità è una pillola amara, ma anco i rimedi che danno i medici sono amari; e se v' ha un modo di fare del bene al mio avversario, io credo che sia questo da me adoperato, e di cui nostro Signore e tutti i Santi ci hanno dato l' esempio. Fino che considererete la causa, di cui si tratta, come mia personale, mi condannerete, può essere, come mancante di mansuetudine; ma quando considererete la causa come di Dio, allora vedrete che talora è mansuetudine e vera carità anche il parlar forte, e che il nostro divino Maestro non era meno mansueto nè men umile allorquando diceva volpe ad Erode, o ipocrita e cieco al fariseo, di quel che sia quando pregava pei suoi crocifissori. Il bene che si deve avere per fine è sempre un solo, e questo è la carità anche verso gli avversari, anche verso i nemici; ma i mezzi di esercitare la carità sono molti, talora vi ha anche quello di dire cieco al cieco, e di dir volpe a chi è volpe; come è pur troppo il caso mio, per quanto mi pare. Io non ho avuto in vista altro che di scuotere gli avversari, perchè intendano che sono deliberato di resistere fortemente, e di discoprire tutte le loro trame che vanno ancor tessendo continuamente contro l' Istituto, e che io debbo dalle loro tenebre tirare in manifesta luce. Credo che io sono nelle presenti circostanze obbligato a fare fronte, anche pel loro stesso bene. So che non farò nulla, e che le persecuzioni subdole e artificiose non cesseranno: ma si persuaderanno almeno che troveranno ostacolo a farle riuscire. Siamo d' accordo in dover fare tutto ciò che è più conforme allo spirito del divin nostro Maestro: e chi può dubitarne? Tutto il resto è inganno e pazzia. Ma io non ho inteso di dipartirmene, e vorrei morire più tosto che farlo scientemente. Continuate a pregare il Signore, perchè m' illumini se sono in errore, e non permetta giammai che altro spirito mi diriga fuor che il suo, che solo desidero ed amo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Ier sera prima di notte siamo giunti felicemente in questo seminario, dove questi ottimi sacerdoti ci accolsero colla loro solita cordialità. Non è però solo il darvi notizia del nostro viaggio lo scopo di questa mia, ma ancora il fare qualche risposta alla carissima vostra del 1 corrente: giacchè non ve n' ho potuto parlare nel mio passaggio da Milano con quella comodità che sarebbe stata necessaria, e se nulla affatto vi replicassi, sembrerebbe che io non avessi aggradita l' amorevole vostra ammonizione, o non ne facessi quel conto, che pure ne fo. Vi parlerò dunque con tutta candidezza, come sono solito e come voi volete certamente che io faccia. E in primo luogo vi dirò, che il sentimento vostro esposto con tanta sicurezza, m' incute timore, e comincio a dubitare non forse io abbia ecceduto nell' uso di espressioni biasimanti ed umilianti col mio avversario; spero che il vostro avviso mi sarà utile per l' avvenire, se non mi può più essere utile nella causa presente. Sia pur dunque vero, che io abbia errato, e voi condannatemi pure; ch' è io non intendo difendermi, sapendo troppo bene di essere capace di qualsiasi male, se Iddio non mi sostiene. Ma io crederei di ostentare una falsa umiltà e di mancare alla veracità e insieme all' amicizia, se ingenuamente non aggiungessi, che le ragioni, che voi adducete nella cara vostra, non sono punto solide, come vi sembra; e ne converrete anche voi, se vi farete sopra le seguenti riflessioni. Voi dite che non potete concepire come le ingiurie scagliate contro il prossimo possano servire di gloria a Dio; e dite certamente benissimo. Nè pur io posso concepire una tal cosa; perchè le ingiurie sono peccati, e i peccati si oppongono direttamente alla gloria di Dio. Ma le parole biasimanti e umilianti, sono esse sempre ingiurie? No certamente. Ingiuria vuol dire ingiustizia, e perciò le parole e gli appellativi di biasimo non sono ingiurie, se esprimono il vero; non è ingiuria, per esempio, il dire ladro al ladro , e perciò Gesù Cristo non ha detto un' ingiuria, quando ha chiamati ladri i venditori nel tempio. Voi dite poscia, che il nostro divin Maestro poteva usare degli epiteti umilianti come ne usò, perchè era Dio, a cui solo conviene il mihi vindictam , e nol possiamo mai noi, perchè siamo uomini che non veggiamo l' interno dei cuori. Ma se attentamente considererete la cosa, vi accorgerete che non si può dire che nostro Signore nella sua prima venuta abbia mai operato per vendetta , la quale fu intieramente da lui riserbata per la seconda sua venuta. Egli ha adoperato sempre per carità e per dare a noi esempio di essa, e non ha mai offesa la mansuetudine, nè pure quando disse stolti, tardi di cuore, ciechi, ladri, volpe , e a tutta la generazione degli ebrei nequam , e a Pietro satanasso , e tali altri epiteti: i quali tutti sono stati detti senza ingiuria alcuna, senza vendetta, e senza abbandonare la sua divina mansuetudine, e per insegnarci che talora conviene essere acerbi nelle parole e duri per carità ; il che ha luogo quando si crede che questo sia il mezzo di essere utili al prossimo, pel quale si parla. Ma per esercitare questo atto di carità, bisogna certamente essere spogli di passione umana e d' illusione; perocchè le parole forti, biasimanti ed umilianti stanno benissimo colla carità e colla mansuetudine: ma non così la passione umana e l' illusione che questa produce. Voi poi recate l' esempio di san Paolo che maladetto benediceva. E qual dubbio che questo sia dovere dell' uomo di Dio e del discepolo del Signore? Ma non si può egli benedire chi maledice, e nello stesso tempo parlargli forte e con epiteti umilianti? La civiltà non istà nella materialità esterna delle parole, ma nello spirito con cui sono proferite. Sono certo che voi ben vi ricorderete che san Paolo ebbe più volte l' occasione d' imitare Gesù Cristo anche nel dire parole acerbe contro i suoi avversari, o, per dir meglio, contro gli avversari della gloria di Dio. Al mago Elima sapete che disse niente meno che, « o plene omni dolo et omni fallacia »; e non contento di questo lo chiamò figliuolo del diavolo (imitato poi da san Policarpo, che incontrando a Roma un eresiarca, lo onorò col titolo di « primogenitum diaboli »; e non contento ancora vi aggiunse « inimice omnis iustitiae »). Nè si può dire che san Paolo era peccabile, e che avrà peccato, perchè sarebbe un manifesto giudizio temerario, e smentito da Dio stesso, che confirmò la condotta di san Paolo in tale occasione con un miracolo «(Act. XIII). » Considerate ancor l' altro fatto di san Paolo narrato al cap. XXIII degli « Atti ». Avendo san Paolo detto ingenuamente d' essere proceduto con buona coscienza , Anania, giudicandolo temerariamente, gli fece dare uno schiaffo. Allora san Paolo non dubitò di chiamarlo muraglia imbiancata ; nè con questo si può dire, che si sia vendicato, o che abbia offesa la mansuetudine o peccato contro la carità; ma più tosto imitato il Signore in un atto di zelo e in dire una verità acerba, credendola opportuna all' effetto del bene. Egli è poi vero che sono più i tratti di dolcezza usati dai Santi, che di durezza; ma ciò non vuol dire altro se non che le occasioni in cui giova usare questi secondi sono più scarse, che le occasioni in cui giovi usare quei primi. E certo in tutte le cause personali che riguardano noi o le cose nostre, dee aver luogo la mansuetudine e la dolcezza; ma nella causa della giustizia, della virtù, della verità cattolica e del bene del prossimo, qualche volta può aver luogo la durezza; la quale non è una vera durezza, perchè non viene da un cuor duro, ma anzi da un cuor tenero e mansueto, checchè del resto ne giudichino gli uomini. I tratti adunque di apparente durezza che si scontrano nelle parole e negli scritti dei Santi, cominciando da san Giovambattista che chiamava gli Ebrei razza di vipere , non si possono così facilmente imputare all' essere stati essi peccabili; ma dobbiamo piuttosto attribuirli al loro zelo, e all' adempimento di quel precetto dello Spirito Santo: « responde stulto iuxta stultitiam suam, ne sibi sapiens videatur »; il qual precetto dee potersi qualche volta mettere in pratica, se pur noi non vogliamo dire, che lo Spirito Santo abbia parlato inutilmente. Tuttavia queste cose non mi giustificano, se ho ecceduto nel mio scritto; ed io vi ripeto che non voglio scusarmene; e che, se non provano le vostre ragioni, prova però a me moltissimo il sentimento, che in voi ha prodotto la lettura del mio opuscolo; sebbene potrebbe essere che questo sentimento nascesse in voi dal non conoscere a pieno lo stato delle cose e delle circostanze, e la natura del male, a cui si deve opporsi. Ad ogni modo, nel dubbio in cui mi avete messo, io approfitterò del vostro avviso in altre occasioni; e voi vogliatemi compatire, acciocchè giunga a quello che solo desidero, a conoscere senza inganno alcuno il nostro Signore e ad imitarlo con sincerità e pienezza. Pregate anche, acciocchè Iddio benedica questi santi esercizi. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Statevi certo che io non ho rancore con nessuno, ma che credo fermamente che la Verità e la Religione nostra santissima sono una cosa sola; e che le frodi e gli artifizi, se si svelano, non è che un bene che si fa alla Religione. Il nostro Dio è Dio di verità, e il Maestro nostro è la verità in persona. Ma pur troppo al mondo si ama poco la verità, e perciò poco si ama Iddio; e si crede in quella vece di onorarlo, formando dei partiti, e mettendo le apparenze nel luogo della sostanza! No, no; se noi amiamo Dio, amiamolo semplicemente e senza umani partiti: il credere che questi sono utili alla Religione, è un deplorabile inganno che ha fatto molto male alla santa Chiesa. Io credo, che voi converrete meco; perchè son certo che siete di quegli adoratori che adorano Iddio in ispirito e verità. Abbracciovi nella vivissima speranza che riceverete nel loro vero senso anche queste mie schiette parole, e non vorrete interpretarle male. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Voi avete fatto un ragionamento assai storto, quando avete argomentato che il vice7rettore, che presentemente è superiore di cotesta casa, non avesse facoltà di mutare gli ordini del rettore assente. Tenendo egli il luogo di superiore nella casa, egli può cangiare a quel modo che Iddio gli ispira essere migliore; come un superiore può sempre cangiare i proprii ordini, tostochè lo crede necessario. E qualora anco fosse vero (il che non è) che il vice7rettore non potesse cangiare gli ordinamenti del rettore assente, sapevate voi forse se il cangiamento non fosse stato accordato prima col rettore stesso o con un superiore maggiore? E poi tocca forse al suddito di fare il processo a suoi proprii Superiori? Dov' è qui, mio caro Arnoldo, la vera ubbidienza, quell' altissima virtù che contiene la vera soprannaturale sapienza? Avreste forse fatto un somigliante temerario ragionamento, se il nuovo ordine dato dal nuovo superiore vi fosse andato pienamente a genio? Esaminatevi bene: e badate attentamente, se la mancanza di quell' aurea indifferenza e di quell' annegazione che debbono professare i discepoli di GESU` sia stata forse la cagione che vi ha inalberata la mente fino a giudicare della condotta di quello che dovete considerare come vostro giudice e come indicatore dolcissimo della volontà divina. Lo stesso vi debbo dire su tutto ciò che mi venite esponendo nella lettera vostra del risentimento che avete sofferto per non essere stato ascoltato, come voi volevate, e interrotto da cotesto vostro superiore. Non sapete voi adunque ancora, mio caro Arnoldo, a quale altezza di perfezione siate stato chiamato da Dio? Non sapete ancora quale sia la scuola del nostro Signor GESUÙ Cristo, in cui vi trovate? E non intendete voi il senso profondo di quelle parole, « qui vult venire post me, abneget semetipsum »? Ah! pregate, pregate il buon GESU` che vi dia l' interno conoscimento della sua profondissima dottrina, tutta d' annegazione, di umiltà e di preziosissimi patimenti: perocchè questa dottrina non la potrete certo intendere se leggeste migliaia di volumi, non apprendendosi essa che a' piedi del Crocifisso. Quello che mi fece meraviglia, leggendo le espressioni vivaci e i ragionamenti assai umani della vostra lettera, si è che non abbiate conosciuto ancora, che i Superiori sono obbligati di esercitare i soggetti nell' umiltà, nella mortificazione, nella pazienza e nell' annegazione di ogni proprio volere; e non siate giunto a capire qual tesoro infinito di vera sapienza si contenga in queste divine virtù. Qual dubbio, che se lo capiste, ne sareste innamorato, le cerchereste giorno e notte, accogliereste lietissimo le occasioni d' esercitarle, e lungi dal risentirvi, se un superiore carico d' affari non può udirvi così pacatamente come vorreste, anzi gli sareste gratissimo, lo ringraziereste, lo preghereste di non volervi risparmiare l' amor proprio, ma anzi in ogni modo di abbassarvi, e in esso mortificarvi! Oh felici contraddizioni e mortificazioni per un' anima che ama GESU` Cristo e sospira di rendersi a lui simile il più che mai possa! Oh felice voi, mio Arnoldo, se otterrete dal Signore la grazia di tali lumi! Credete voi, che un servo di Dio, un religioso a lui consacrato, il quale non sia capace di ricevere con pace e con allegrezza nè pure di essere interrotto nel suo parlare dal proprio superiore o di non essere ascoltato, potrà mai rendersi degno ministro delle opere divine? Che farete, se or siete tanto delicato, quando si trattasse di esporvi a tutti i sacrifici e gl' insulti presso le nazioni infedeli, se ci foste mandato ad annunziarvi il Vangelo? E forse che sognate di poter resistere ai gravi combattimenti lontani, quando non siete capace di tollerare una parola, un tratto ruvido al presente, e nè pure dai vostri stessi Superiori? Oh qual enorme presunzione, qual deplorabile cecità sarebbe questa! Per carità di voi stesso, riconoscete da questa infausta esperienza, come pur troppo dentro di voi stia ancor molto da riformare, stia ancor molto da deporre dell' uomo vecchio. Umiltà, umiltà: ecco la sapienza veramente sublime! abbassamento di sè: stima e rispetto a tutti: ubbidienza pronta, allegra, indifferente, universale: ecco lo studio principale che io aspetto da voi: ecco la vera scienza dell' Istituto a cui Iddio si è degnato di chiamarvi, Istituto che professa di non saper altro se non JESUM CHRISTUM , et HUNC CRUCIFIXUM . State certo che io non avrò altra allegrezza da voi che questa di vedervi simile a Cristo: ubbidiente « usque ad mortem, mortem autem crucis »: non esaminatore de' comandi de' Superiori, ma fedele esecutore, pronto ed allegro. Ad arrivare a questo, veggo io bene che vi bisogna altresì di mettere lo studio in secondo luogo nell' ordine de' vostri affetti: nel primo luogo dee stare quella virtù che abbraccia tutte le altre, e perciò tutto il bene morale, la perfetta e mortificata ubbidienza: questa dee avere il primo seggio nel vostro cuore, e dovete riputare di aver fatto un gran guadagno quando per essa avrete dovuto lasciar lo studio e ogni altra cosa. Ricordatevi del gran detto dell' illuminatissimo S. Francesco d' Assisi: « Tantum scimus, quantum operamur ». Non vi do penitenza, perchè le vostre lettere mi fanno temere che non siate compunto del fallo. [...OMISSIS...] 1.42 Sì, mio caro in Cristo figlio, accogliete il lume della grazia, il quale non parla al cuore dell' uomo che dell' inenarrabile bene che egli è l' umiliarsi incessantemente: nè l' umiliazione è vera se non si trasfonde nel fatto. In quale fatto? Nel fatto sublime della CIECA UBBIDIENZA. Questo non opera dentro di noi che la sola parola di vita di Cristo. Beati quelli a cui la parola: « qui vult venire post me, abneget semetipsum » ha penetrato le ossa e le midolla! Ecco quali ossa esulteranno: « exultabunt ossa humiliata . Io veggo dalla cara vostra, che mi ha rallegrato, come il Signore sta ad ostium et pulsat »: spero che gli abbiate aperto, che gli aprirete sempre. State certo, che se cercate la verità e la giustizia, come grandemente confido, voi troverete l' una e l' altra nell' umiliazione del vostro cuore; perocchè abitano qui, ed altrove non vi ha di esse che il simulacro. Nè solo per amore della verità e della giustizia usate di lasciar da parte i ragionamenti interni favorevoli alle inclinazioni naturali e opposti all' ubbidienza; ma di più all' ubbidienza di Dio e all' amore della penitenza e della mortificazione sacrificate tutte le ragioni e i diritti che vi paresse d' avere secondo natura, per purissimo amor di Dio e ardore di rassomigliare al vostro dolce Maestro e Salvatore. Gustai molto il sentire che mi promettete indifferenza a tutto, anco a non istudiare, se Iddio pe' Superiori così dispone di voi. La rettitudine e la perfezione vuole assolutamente che siate disposto a fare a Dio anche questo sacrificio. E tutto farete per la grazia che vi darà valore. Ma vi arricorda di rivolgere sempre le vostre orazioni a dimandare la giustizia e la grazia di vincere interamente voi stesso. Or poichè vi credo ben disposto, darovvi anco la penitenza da voi desiderata; e sarà che leggiate e meditiate altamente le prime quattro regole del capitolo X delle Comuni , che procuriate di gustarne la bellezza, di scrivervele nel cuore, di domandare a GESU` Cristo che egli stesso ve le scolpisca. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Sento con mio sommo dispiacere che in cotesta Casa non ci sia quella perfettissima unione, che è il segnale dei veri discepoli di Gesù Cristo, e perciò dei veri membri dell' Istituto, che non si propone che il discepolato del Signor nostro. Nella vostra lettera vi accusate è vero di molti difetti in generale, e in ispecie interni , ma non ispecificate nessuno di questi; anzi mi assicurate di amare i vostri fratelli e di esser sollecito della loro e della vostra perfezione. Ma nello stesso tempo mi dite che A. vi fugge da un mese e mezzo, e dite che « se vi dicono i vostri difetti, è allorquando hanno qualche cosa contro di voi, e non altramente », mostrando così di giudicare delle loro intenzioni, quando l' umiltà è il precetto di nostro Signor Gesù Cristo, che dice: « nolite iudicare ». Ah, mio caro, pur troppo è da temere che nel vostro cuore non sia ancora entrata nè l' umiltà, nè l' annegazione, nè la carità del nostro Signor Gesù Cristo! Altro è credere di amare i propri fratelli, altro è amarli veramente. Chi non sa umiliarsi ed annegare sè stesso, non sa amare come vuole Gesù Cristo. Può ben avere un' amicizia, come detta il mondo; ma non avrà mai la carità di Gesù. La prima è capricciosa ed instabile; ma questa seconda è immutabile e sempre uguale, perchè fondata in Cristo che non si muta. « La carità »dice san Paolo « è paziente, benigna, non ha gare e non pensa il male, « omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet » ». Ma voi invece di sofferire e sostenere ogni cosa, vi risentite, vi mostrate offeso; e Dio non voglia che abbiate voi stesso forse dato, se non in tutto, almeno in parte cagione al dissapore nato tra fratelli, che debbono essere in Cristo una cosa sola; perchè, come vi ripeto, nella vostra lettera vi accusate in generale de' difetti, ma nulla dite della causa di un tanto male. Ah! temo pur troppo che non abbiate inteso la gran parola, che è il fondamento dell' Istituto, che « non v' ha altro bene che la giustizia e la perfezione, e che quest' unico bene, questo tesoro si ottiene coll' abbassare, annegare e crocifiggere incessantemente sè stessi. [...OMISSIS...] . Il mio dubbio nasce da questo: se aveste ben inteso una dottrina così profonda e contraria all' inclinazione della natura, insegnata al mondo dal solo Verbo Incarnato nostro unico Maestro di verità, qual mai dubbio che vi mostrereste tutto sollecito di abbassare e impiccolire voi stesso, di darvi sinceramente il torto in ogni cosa, di cercare ne' vostri falli l' origine di tutti i mali, e di pregare e gemere e sospirare a' piedi del crocifisso Gesù, perchè egli vinca in voi e squagli ogni durezza di amor proprio, di superbia, di orgoglio, di confidenza ed opinione di voi stesso: egli che, come dice la Scrittura, fa squagliare col suo fuoco celeste le montagne stesse? qual dubbio che sareste insaziabile di umiliazioni, e fin anco d' obbrobrii, e che vi mettereste in ogni cosa, coi fatti, dico, e non colle parole, l' ultimo de' vostri compagni, considerandovi come il rifiuto e la peste della Casa? [...OMISSIS...] Ecco adunque il rimedio, mio caro: umiliarsi, ma interamente e non per metà, ma con tutta l' anima, e non con uno sterile sentimento e con più sterili parole; e perchè questa piena umiliazione dell' uomo non è che l' opera della divina grazia e misericordia che illumina e vivifica, pregare e pregare incessantemente, e con atti i più grandi di umiltà. Non occupare mai il pensiero de' difetti o torti che gli altri possano avere in verso di noi; ma occuparci unicamente delle nostre colpe, iniquità, ingiustizie, nequizie, impertinenze, sciocchezze, ignoranze, balordaggini, presunzioni, temerità, debolezze e miserie senza limite e misura; e non esser mai contenti di temere e tremare per noi stessi, di compungerci, e di sospettare dei nostri stessi sentimenti, dei nostri pensieri, delle nostre parole ed azioni, anche quando ci sembra che nulla di male sia in esse: tenendo per fermo che noi siamo stolidi e ciechi e che non possiamo mai esser sicuri di nulla, e che Iddio solo è il nostro giudice, che col suo sguardo acutissimo vede tutto, e se il nostro cuore è retto o non è retto, vede le magagne, e Dio non voglia, anche le cancrene più nascoste e più puzzolenti. Mio caro, che dunque sia finito fra voi e per sempre ogni segno di dissidio da parte vostra . Se gli altri non fanno il loro dovere, non vi affannate: affannatevi solo grandemente se non lo fate voi: di questo piangete pure e pregate, e Iddio vi ascolterà. Prefiggetevi che la vostra conversazione sia uguale con tutti , come vuole la carità e le regole nostre, senza affezioni: che il vostro tratto sia amabile, grave, senz' affettazione e sempre uguale. Se gli altri non corrispondono, dissimulate e non pretendete corrispondenza; piuttosto prendete occasione di umiliarvi in voi stesso, come di una giustizia che vi si usa. Non pretendete che i compagni vi correggano, perchè questo è contrario alle Regole (Reg. Com. 24); quantunque se lo fanno, dobbiate essere loro grato; ma vi stia ben a cuore che i compagni comunichino i vostri difetti al Superiore (Reg. Com. 22); e quando di questo vi sentirete allegrezza e verso di loro gratitudine, allora sarà segno che cominciate ad amare la virtù sinceramente . L' anima vostra dee essere aperta a' Superiori, pel canale de' quali Iddio comunica le sue grazie, e la sua volontà; e beati quelli che conoscono il prezzo infinito di quelle due parole lasciateci da Gesù: « qui vos audit, me audit »! Quanto poi alla grazia che mi domandate di essere dispensato dall' ufficio di Prefetto io ne scriverò a cotesto vostro Superiore. Gesù Cristo vi faccia sentire la verità delle cose che vi scrivo, e vi muova il cuore a praticarle, e allora solo condurrete a felice termine la santa vostra vocazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Mi ha grandemente consolato il sentire che siete risoluto di proporvi, colla grazia divina, un' ubbidienza perfetta, cioè a dire un' ubbidienza che inchiuda l' intero sacrificio di sè fino alla morte. Oh qual compendio di tutte le virtù non è questa obbedienza, qual via di renderci simili a Cristo, « qui factus est obediens usque ad mortem, mortem autem crucis », a una morte cioè obbrobriosa, come dovuta ad uno scellerato! Ma ho poi trovato anche nella cara vostra delle cose, che sono ben lontane dalla vera sapienza spirituale. Sul detto comune « niuno è buon giudice in causa propria », voi distinguete: chi giudica sè stesso per passione, non è buon giudice; ma giudicando senza passione, ciascuno è ottimo giudice di sè stesso. Questa distinzione pecca di circolo: perchè si dice che niuno è buon giudice in causa propria? Appunto perchè niuno può essere ben sicuro di giudicare senza passione, appunto perchè la passione si nasconde agli occhi di quello che più la ha, appunto perchè Iddio nega i lumi a quelli che vogliono giudicare di sè stessi contro il giudizio dei savi e de' Superiori, punendo così la loro presunzione. Ah mio caro! I Santi diffidavano sempre di sè stessi, e volevano sempre esser diretti dall' altrui autorità e dall' altrui giudizio; e statevi pur certo che l' occuparsi a giudicare ed a giustificare sè stesso è cosa che impedisce il profitto nella vita spirituale, toglie la pace, distrugge l' umiltà vera dell' anima e vi semina la superbia, diminuisce la stima e la carità verso gli altri, e rende impossibile quella cieca obbedienza che è un tesoro inapprezzabile, e che voi stesso desiderate tanto di conseguire. Oh bella diffidenza di sè stesso! questa dee essere tanto grande quanto la confidenza in Dio, cioè infinita: questa non inganna: questa non è la scienza dell' albero vietato, ma è il frutto dell' albero della vita. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Nel tempo stesso che ho inteso con vero piacere che Ella sia pienamente contenta della cura, a cui sottomise costì la figlia maggiore, mi recò gran pena il sentire dal venerato suo foglio, che Ella stessa soffre per la malattia manifestatalesi. Io la farò raccomandare al Signore da delle anime buone, come Ella desidera, ed io stesso indegnamente presenterò le mie povere preghiere al trono dell' Altissimo, acciocchè egli benedica la cura, Le dia fortezza e consolazione in sopportarla, e faccia il tutto ridondare in aumento di meriti per l' anima sua, acciocchè diventi più pura e più bella, con questa occasione di patire, agli occhi di Dio. Infatti quantunque l' umanità se ne risenta, tuttavia lo spirito ammaestrato dagli insegnamenti e dagli esempi di N. S. GESU` Cristo, e sopratutto illuminato dalla sua grazia, sa ben conoscere che nel patimento delle malattie si nasconde una preziosissima occasione di meritare e di renderci simili al Signor nostro, praticando le virtù soprannaturali da lui praticate; e le riceve quindi come grazie speciali e segni dell' amore che Dio ci porta, poichè, come dice la Sacra Scrittura: « Iddio castiga quelli che ama ». Questi so e vedo dalla sua lettera che sono i sentimenti da cui Ella è penetrata, e però non dee sgomentarsi, se sente la ripugnanza che la natura nostra ha al patire, come quella che sarebbe fatta da Dio per godere, non essendo lo stato di patimento che una irregolarità prodotta dal peccato. Basta che nel fondo dell' animo nostro portiamo la rassegnazione e l' uniformità al volere divino, e stimiamo le cose col lume verace della fede; il qual lume ci mostra, che là appunto sta nascosto il maggior bene, dove la carne nostra peccatrice esperimenta il maggior male; e ci fa rallegrare e gioire immensamente di quello, di cui piange la carne e mena alti lamenti. Basta adunque che rivolgiamo i nostri sforzi, non già ad estinguere in noi il rincrescimento naturale dei mali, ma a far sì che unitamente con esso vi sia in noi una gioia soprannaturale, superiore e vincitrice di quello. Perciò io non ho punto dubitato a dirle in sul principio di questa mia, che sento un sincero dolore della sua infermità, perchè questo dolore secondo la natura non è male, ed esige solo di esser sottomesso a quella più alta considerazione dello spirito, che fermamente crede all' amorosissima bontà di Dio, e la ravvisa questa bontà nello stesso dolore e nella stessa tribolazione temporale, che da essa ci viene. Onde posso anche aggiungere con uguale sincerità, che, unitamente al rincrescimento del suo male, lodo il Signore che l' ha permesso per tutto quel gran bene, che egli ha destinato di cavarne. Imperocchè qual dubbio, che l' effetto di questo suo male sarà una maggior purificazione dell' anima sua e un maggior distacco dalle cose di questa terra, un' unione maggiore con Dio e ardente desiderio delle cose del Cielo, un disinganno e accrescimento di luce spirituale, un fervore nuovo e brama vivissima di spendere il tempo che le rimane di vita nelle opere della gloria del Signore, in lodarlo, e amarlo, e servirlo nei suoi prossimi? Ella offerirà quello che dovrà soffrire in isconto dei suoi debiti, e questa oblazione volontaria sarà ricevuta con gradimento: Ella avrà dei momenti in cui sentirà profondamente il proprio nulla, e farà di quegli atti di umiltà che sono la maggior giustizia che la creatura possa rendere al Creatore: Ella nelle sue angustie sentirà intimamente il bisogno di Dio, e gli dirigerà quelle preghiere, che non sanno fare se non le anime strette da ogni parte dalla tribolazione, e che giungono al cuore dell' Eterno; Ella insomma avrà occasione di far mille atti d' amor divino, che son quelli che migliorano le anime ed assicuran loro l' eterna salvezza. Tutti questi beni, che mi rappresento come il fine che ebbe il Padre celeste nel sottometterla a questa prova, sono argomenti di santa speranza e letizia; ed io fin d' ora la divido con Lei. Del resto affine di poter esercitare questi atti più perfettamente, e con maggior facilità ottenere che lo spirito pronto prevalga sopra la carne inferma, la consiglio ad aver presente ora più che mai il ricordo di GESU` Cristo: « Non vogliate pensare al giorno di domani ». Procurar di allontanare il pensiero dell' avvenire ed i timori che l' accompagnano, è già questo un grand' atto di virtù e di abbandono nelle mani amorevoli del Signor nostro: è ciò che forma il camminare semplice davanti al Signore tanto lodato nelle divine Scritture. E perchè dipingerci innanzi alla mente quello che non sappiamo e che Iddio ha voluto celarci? e perchè accrescerci il male che abbiamo coll' immaginazione di mali temuti che non sono, e che forse non saranno giammai? Non è egli meglio lasciare la cura di noi intieramente a Dio, senza volerne saper cosa alcuna, e viverci tranquilli di giorno in giorno, e di ora in ora, persuasissimi che l' amor suo verso di noi vince l' amore di ogni madre più tenera? Questa tranquillità non c' impedisce d' altronde di rivolgerci a lui incessantemente colla più filial confidenza, dicendogli non solo i nostri bisogni, ma ancora i bisogni creati dalle nostre debolezze e dalle nostre ignoranze. Poichè egli non se ne adonta; ma ascolta anche questi e ci compassiona nella sua immensa tenerezza; e o ci fortifica, o a quei bisogni stessi immaginari maternamente sovviene. Nè pure c' inquieti la vista dei propri difetti. GESU` Cristo è morto per noi; ci ha conservata fin qui la vita, perchè abbiamo tempo di lavarci nel suo sangue: la penitenza nostra non importa che sia lunga, ma che sia cordiale: la migliore poi di tutte le penitenze è la pazienza nelle croci che egli ci manda, adattandole amorosamente alle nostre spalle, ed aiutandoci a portarle. Dunque larghezza di cuore, mia veneratissima signora contessa, e dolore sì dei peccati, ma dolor confidente, dolore che si perda e trasmuti in amore: i timori per altro, che talora inevitabilmente si suscitano nell' imaginazione, nè sono peccati, nè distruggono la rassegnazione: talora non sono che nuove pene da sopportarsi come tutte le altre con ispirituale pazienza. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 La partenza vostra da Stresa ha lasciato, quasi direi, un vuoto nell' anima mia. L' uomo s' abitua alle cose dolci, ed io m' ero così abituato alla cara e pia vostra conversazione, benchè sì brevemente da me goduta, che ne ho sentito, ve n' assicuro, la mancanza. La consensione pienissima nei religiosi sentimenti è pur cosa soave e confortante, massime dopo che il Signore ha detto: [...OMISSIS...] . Io non cesso d' innalzare al nostro Padre quella stessa preghiera che gl' innalzate voi: « da quod iubes, et iube quod vis ». Oh volontà dolcissima del Signor nostro, nel cui solo compimento sta tutta la nostra beatitudine! Ella poi è tanto alta, di una sapienza e d' una bontà sì sproporzionata al vedere ed al sentir nostro, che non la possiamo nè raggiungere per acume d' intelletto, nè adempire per forza di volontà; sicchè non ci resta che di pregare colla faccia in terra che ella si manifesti a noi colla sua luce, e ci avvivi colla sua vita, e si compia in noi da sè medesima colla sua efficacia in noi trasfusa. Per questo dobbiamo essere in verità fanciulletti, come ci ha insegnato il Maestro nostro, e così entrare nel regno dei cieli, che è il regno degli umili che non hanno volontà propria, ma la cui volontà è quella di Dio. In questa nostra nullità possiamo bene sperare contra speranza; giacchè la grandezza di Dio si manifesta e spiega in quelli che sono nulla; e la volontà sua si rivela e compie in quelli che hanno perduta la volontà propria, perchè non saprebbero più cosa volere, se non lo stesso voler di Dio. Io certo quando mi sento più infermo nel corpo e nell' anima, allora Iddio mi dona maggior fiducia, veggendo io che egli ha qui un' occasione maggiore dove spiegare la magnificenza della sua carità. E parmi che allora appunto quando siamo e ci sentiamo più infermi, dobbiamo dimandar cose più grandi ancora, giacchè è infinito il Signore a cui le dimandiamo, e le nostre miserie non gli possono metter limite, ma anzi dilatano i limiti della sua gloria. Teniamoci adunque pur certi, mio caro signore, che seguitando noi a dire quel FIAT, FIAT VOLUNTAS TUA, col desiderio che egli disponga di noi senza limiti , e facendo che sulla bilancia della nostra stima non pesino che i motivi della maggior perfezione morale nostra propria (il solo bene assoluto per noi), avverrà che la volontà divina sarà fatta in noi in un modo ancor più grande di quello che noi possiamo concepire, o che osiamo espressamente sperare. La santità, il desiderio della santità , tutto verrà dietro a questo: i disegni di Dio si compiranno: la legge di Dio ha una virtù nascosa: nella sua massima semplicità è infinitamente feconda: la Provvidenza è tutta rivolta in servigio di quelli, che nella legge di Dio volunt nimis , e in essa (non nei proprii disegni) ripongono tutta la loro speranza. La Chiesa non ha da sperar altro che dalla santità , a cui serve tutto. La parte dell' uomo consiste nello studio di emendare sè stesso e di ottenere la giustizia e la santità: Iddio dopo di ciò fa il resto, elegge quelli che egli si degna d' impiegare a vantaggio della sua Chiesa, li manda, li dirige, li assiste. Beati allora cotesti che non vanno da sè stessi, ma sono mandati! Sta dunque il tutto nel fare la dovuta stima della propria perfezione, e quivi trovare ogni fiducia. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 La dolorosa nuova della perdita che abbiam fatto della sì buona, sì amabile, sì edificante contessa d' Auzer mi riuscì tanto più amara, quanto più improvvisa. Avevo bensì udito dal M. Gustavo, quando passò rapidamente di qui, che le era tornata la febbre, ma s' attribuiva a cagione affatto accidentale, e venivo già rassicurato che stava meglio. Ma il Signore aveva disposto altramente. Egli è buono anche quando ci castiga. Per altro parmi veramente di poter dire, che il padrone è venuto nel suo giardino e n' ha colto la frutta che n' ebbe trovata matura: egli ne volea imbandire la celeste sua mensa. Vero è che per noi che l' abbiamo conosciuta e l' abbiam trattata, e specialmente per le sue indivise sorelle, per tutti i suoi congiunti, a cui s' era resa tanto amabile, e da cui era tanto amata, egli è pur questo un acerbo distacco! Mia venerata signora, mi creda che nol capisco solo, ma l' esperimento nel fondo dell' anima. Nel tempo che io mi sono trattenuto in Torino, e fui gentilmente alloggiato in casa Cavour, io m' ebbi tante prove della bontà e purità di quell' anima, ne ricevetti tanto buono esempio, e mi trovai sì fattamente legato di stima ad essa per quella sua religiosa cordialità, per quel suo candore, per quell' avidità insaziabile di sentir parlare delle cose di Dio, per la rettitudine delle sue intenzioni, e in somma per la solida sua virtù; che l' annunzio che ella mi dà del gran passo che ha fatto la buona dama in lasciandoci quaggiù per sempre, mi trapassa il cuore, e mi fa troppo partecipare all' angoscia di lei, ed a quella della duchessa di Tonner e di tutta cotesta famiglia, di cui ella era divenuta per affetto sì cara parte. Se non che dando poi luogo alla riflessione, io ben mi accorgo che quegli stessi aurei pregi della defunta che ce la fanno tanto rincrescere e piangere, debbono esserci in pari tempo un gran lenimento al dolore e un' ampia fonte di spirituale consolazione. A quanti superstiti a cui muoiono i parenti, anche dopo esser giunti al colmo delle umane prosperità, manca poi questa solida ragione di conforto, senza la quale è ben piccola ogni altra! Ecco donde io credo che potremo, mia cara signora, attingere quella consolazione vera che Ella mi domanda nella sua lettera. Quanti motivi non abbiamo, per grazia di Dio, di credere che la sua amata sorella or si trovi in uno stato migliore di prima! Noi non la troviamo ora più in quella sua stanza, in quel suo letticciuolo, accanto al quale passavamo delle ore gradevoli: ma invece abbiamo motivo di contemplarla in Cielo. Sì, quella virtuosa ha già superato il gran passo, ha già compita questa faticosa navigazione piena di pericoli e ancor di naufragi, è pervenuta alla sponda, è entrata in porto. Ella ha portata seco la vera fede, di cui le aveva Iddio fatto dono conducendola alla Chiesa cattolica, caparra della sua predestinazione; ha portato seco una vita immacolata, è stata oltracciò lungamente provata e appurata nel crogiuolo delle tribolazioni. Quando l' oro è reso tutto puro e mondo dal fuoco, allora l' artefice lo riversa nello stampo e fonde una statua preziosa, ornamento al gabinetto del re. Così noi abbiamo troppo a sperare, che il Re celeste abbia già formato della nostra cara Contessa un bell' ornamento del suo Paradiso. Non lasciamoci ingannare dalla carne: il punto della morte è penoso, è vero; ma finalmente non è che un punto, e questo punto per la defunta è passato. Hanno pur troppo ragion di temere per dopo la morte coloro, che durante la vita non hanno amato il loro Creatore. Ma quelli che lo amarono, le anime buone e rette, come la nostra Contessa, quelle che visser di fede e di viva speranza nella divina misericordia, ah! per queste fortunate che è mai la morte? Un istante di merito, un sospiro prezioso; dopo il quale ogni patire è cessato per sempre, la salvezza è assicurata, il gaudio eterno incomincia, un gaudio perfetto, di cui non possiamo formarci un' idea adeguata, ma di cui però sappiamo che l' unire insieme colla nostra imaginazione tutti i piaceri e le soddisfazioni della vita presente, tutti gli onori e le grandezze, tutti i tesori, ogni cosa insomma desiderabile, non è ancora che formarcene in mente un' idea imperfettissima; vincendo la realtà di quello stato di gaudio quanti desiderii e quante brame sappia accendere in sè l' uman cuore. Allorquando adunque l' umanità nostra si sente oppressa nel suo dolore, concediamole pure il suo sfogo, mia veneratissima signora Marchesa; ma poscia ritiriamoci dentro noi stessi, e nell' anime nostre, dov' è stata infusa la fede col santo Battesimo, troveremo insieme con questo lume divino un grande sollievo, un immenso conforto. Oh come le cose cangian di aspetto al lume della fede! oh come questo lume di soprannatural verità tramuta i mali più intollerabili alla natura, in argomenti d' indicibil letizia! E nel vero, facciamo un po' tacere in noi questa cieca nostra natura, per contemplare in quella vece silenziosi al lume di santa fede, quale di presente dobbiamo noi sperare che sia la persona amata che piangiamo perduta. La vedremo noi forse pentita e dolente di aver abbandonata la terra? Anzi ella se ne chiama felicissima, benedice quel prezioso momento, nel quale lasciò questa valle di lacrime e ruppe quei ceppi della carne che le impedivano di goder pienamente il suo Dio, e nel quale uscì per sempre da ogni battaglia di spirito e da ogni sofferenza di corpo: ella ora guarda in giù ed ha compassione di noi, che ci vede ancor nell' esilio, e sorride alla nostra semplicità scorgendo che, compassionando lei felice, spargiamo lagrime amare e meniamo lamenti di tanto suo bene. Non rifiuta ella l' amor nostro, ma vorrebbe comunicarci un po' del suo; vorrebbe comunicarci di quel lume intellettivo, col quale ella apprezza tanto meglio di noi il vero valor delle cose: vorrebbe che noi potessimo uscir colla mente e col cuore dai limiti di questo mondo sensibile, e che sull' ali dello spirito salissimo sino a lei, infino alla sua gloria, infino al suo trionfo, e che colassù, invece di gemere oppressi dal dolore, godessimo insieme con lei del suo gaudio, del suo regno che è quello di Dio medesimo. Ecco quanto brama ora da noi la nostra buona dama, innalzata al grado di regina, e di regina celeste; perocchè tal grado sortono tutti in Paradiso gli eletti. Riprendiamo adunque salutarmente, mia venerata Marchesa, la nostra umana sensitività, dicendo a noi stessi: come sarebbe assai strano che una sorella piangesse l' altra sorella perchè la vede trascelta alle nozze di un re, così egli è assai più strano che noi piangiamo sull' avventurata sorte di un' anima che abbiamo ragione di credere eletta sposa di sua Divina Maestà. Egli è vero, che ci si farà innanzi eziandio il pensiero che, non ammettendosi nella reggia del Cielo niente che porti il minimo segno di terra, che serbi la minima macchia od adombramento, ed essendo pur tanto grande la umana infermità e fragilità, possiam dubitare che anco all' anime che ci paiono le più monde, uscite di questa vita rimanga tuttavia qualche imperfezioncella a rimondare nel purgatorio. La grande stima che noi portiamo ai cari defunti non ci renda adunque meno solleciti a suffragarne le anime con sagrifizi e preghiere, e da parte mia ho celebrato a tal fine questa mattina per la cara estinta, e le feci fare altri suffragi. Ma da una parte questi stessi suffragi che rilevano l' efficacia loro dal sangue di Cristo, il cui merito è infinito, debbono esserci nuovo motivo di consolazione, pensando che il buon Dio ci ha voluto dare anche questo soccorso, prova della tenerezza che egli ha per le sue inferme creature; dall' altra possiam riflettere che le anime sante del Purgatorio, benchè patiscano, patiscono però sì volentieri, che elle non vorrebbero mai accettare il partito di ritornare su questa terra, e sono veramente felici in isperanza, onorate dagli angeli perchè sante, piene di dignità perchè spose di Dio: la gloriosa loro destinazione è assicurata per sempre, non si tratta che d' un po' di ritardo posto al sospirato momento, in cui venga lo Sposo divino, e tutte belle e lucenti le introduca nel suo talamo, a' suoi amplessi. Entriamo adunque nei sentimenti di quella che noi amiamo e che a torto piangiamo; e ci si cangierà la scena; ci cadranno piuttosto lagrime di dolce letizia per la sua felicità che di dolore per la nostra solitudine. Sarà questa una prova che le daremo di vero amore, cioè d' un amore spirituale e sublime, e troppo a lei più caro di quello della natura; chè ella non desidera oggimai da noi, se non il nostro vero bene, e si rallegra solo in veggendoci fare atti di virtù, di rassegnazione, di fortezza, di uniformità perfetta al divino volere, di rendimento di grazie a Dio che in ogni cosa è buono egualmente, e che tutto dispone collo stesso amore infinito per noi. Che se noi oltracciò piglieremo questo avvenimento, sì grave al cuore di carne, come un' occasione dataci dal Signor nostro ed un avviso acciocchè ci disinganniamo vie più delle cose terrene, e ci innamoriamo delle celesti, ed a queste ci prepariamo; oh quanto renderemo contenta quella che ci ha preceduti nel gran viaggio! Ella altro non vuole da noi, altro non aspetta, altro non ci domanda: ed altro non domanda altresì per noi al celeste suo Sposo. Che se noi dopo di ciò, dopo tutti questi riflessi, sentiamo tuttavia quaggiù un vuoto difficile da riempirsi; se di quando in quando quasi senza accorgerci, cerchiamo col cuore e cogli occhi il noto volto, le care parole, la dolce consuetudine di Colei che ci fu tolta; se all' improvviso ella ci si affaccia alla mente come per dirci che non c' è più, che non la rivedremo mai più in questa vita; e se questo pensiero che ci restituisce di nuovo in vita Colei che è morta, per rapircerla subitamente, questa imaginazione che ci mette lì come ancora esistente e parlante quella con cui eravamo soliti di passare tante ore, per dissiparci un momento dopo crudelmente la cara illusione, se tutto questo ci stringe il cuore e ci manda agli occhi delle lagrime involontarie; e che per ciò? Non inquietiamoci punto; chè non sarà per questo meno perfetta la nostra rassegnazione, men piena la nostra conformità al divino volere. Fino che viviamo in terra, noi siamo pur troppo due esseri in uno: e questi due esseri, la carne e lo spirito, combattono insieme: ma la battaglia adduce la vittoria, e la vittoria reca alla corona. E` l' orazione, mia signora Marchesa, che ci conduce alla vittoria dello spirito; come è il tempo che medica le ferite profonde, di cui si risente la carne. Godo che il mio buon abate Molinari sia stato in Torino in questa occasione ed abbia potuto colle sue parole contribuire a consolare tante persone afflitte: egli ha un cuore dolcissimo ed è pieno di quella carità, che val meglio di ogni balsamo in tali occasioni. M' imagino anche il dolore del mio carissimo marchese Gustavo, rientrando massimamente in famiglia. Sono stato sfortunato quest' anno per non averlo potuto aver meco a Stresa qualche giorno, come avrei desiderato e m' avea fatto sperare. Ora dovendo io partire in sui primi di settembre per Bergamo, dove debbo dettare gli spirituali Esercizi a quel Clero; nè posso recarmi a Torino, nè posso sperare di rivederlo a Stresa quest' autunno; ben prevedendo che in ottobre egli farà la sua solita campagna. La prego, mia venerata signora Marchesa, di presentare i miei ossequi al signor Marchese, alla signora Marchesa madre, alla signora Duchessa ed ai suoi figliuoli; e di partecipar loro ad un tempo i sentimenti dell' umana mia condoglianza per la perdita fatta, e più ancora quelli della spirituale consolazione, co' quali ho procurato di attemperare, scrivendole la presente, il mio ad un tempo ed il suo dolore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Ho ricevuto le vostre due lettere da Lione e da Londra, e ho ringraziato di cuore il Signore, e l' Angelo suo, che v' abbia sì felicemente condotto. Rispondo alla prima intorno a ciò che dite sulla facilità di ricevere all' Istituto. Vi posso assicurare che il desiderio di accrescere il numero dei nostri non mi muove a ricevere alcuno. Sono contentissimo del piccol numero che ci manda il Signore: vedo anche in questo la sua sapienza e bontà; l' adoro e ne giubilo. Vi spiegherò dunque le massime che io tengo in ciò, e che sono conformi a quelle delle nostre « Costituzioni ». Io distinguo fra il ricevere in Casa e il mandare avanti nei successivi gradi dell' Istituto quelli che abbiamo ricevuti. Quanto al ricevere semplicemente, ricevo tutti quelli che domandano e che mi lasciano qualche speranza di riuscimento. Questa speranza me la danno tutti quelli che nella prima prova dichiarano e promettono di intendere e praticare le cose contenute nelle « Massime » e nel « Memoriale della prima prova », senza ch' io abbia una ragione positiva da dover giudicare assai probabilmente il contrario. Le ragioni che mi muovono ad essere così facile nella prima ammissione sono le seguenti: 1 Temo assai di giudicare temerariamente de' miei fratelli, onde inclino sempre a presumere bene di essi, e, piuttosto di fare il contrario, mi espongo volontieri ad essere ingannato, a sostenere delle spese, a patire degli incomodi. Non mi sono mai pentito di aver operato così: questa condotta mi reca una gran pace e consolazione interiore: e il Signore non ha mai permesso che gl' inganni che mi sono stati fatti, avessero ree conseguenze. 2 Parmi questa una maniera di imitare la bontà di N. S. Gesù Cristo, il quale dice: « et venientem ad me non eiiciam foras »: parole che ci mettono davanti a questo proposito le Costituzioni, e che citano pure allo stesso proposito le più celebri regole de' santi Fondatori. E` vero, che molti vengono a noi coi piedi e non col cuore; ma non posso io giudicare che facciano così, fino che non ho delle prove positive. D' altra parte, io considero la venuta a noi d' un fedele di Cristo sotto due aspetti: come mandato acciocchè forse egli diventi un membro dell' Istituto, e come mandato acciocchè l' Istituto eserciti verso di lui la carità. Essendo tale lo spirito dell' Istituto ch' egli vuol accettare, purchè possa, tutte affatto le occasioni che gli presenta la Provvidenza d' esercitare la carità; anche questa, dico io, n' è una; accettiamo dunque questo fedele di Cristo, ed usiamogli intorno tutta la carità possibile del corpo e dell' anima. Il N. S. Gesù Cristo vedrà di buon occhio che noi facciamo così con colui; e l' Istituto non ne avrà da questo scapito, ma vantaggio di buone opere. Il fratello che venne a noi sentirà intanto la parola di Dio; e quand' anco egli non riesca nostro membro, egli porterà via quel seme che forse frutterà un giorno nel suo cuore. 3 Quanto l' Istituto è alieno dal cercar cosa alcuna di proprio moto, altrettanto egli si propone di esser attento e premuroso di non trascurar niente di quel bene che gli offre la divina bontà, andando incontro premurosamente alla Provvidenza divina, non risparmiandosi in nulla per secondarla. Or se io rimando un aspirante senza esser certo che gli manchi la vocazione, non m' espongo io a rifiutare forse un dono che mi voleva fare la divina bontà? Uno dei segni della Provvidenza è la domanda del prossimo. Dunque, se un mio fratello in Cristo mi domanda, e non ho ragioni positive in contrario, io debbo accoglierlo non solo, ma affaticarmi con pazienza e carità intorno a lui, e durar tanto in questa fatica fino che mi sono persuaso che egli non può riuscire membro dell' Istituto: allora solo io sono giustificato davanti a Dio, se lo licenzio; ed anzi debbo tosto licenziarlo. Ma se l' Istituto non fa tutto quello che può da parte sua con pazienza longanime per formare quell' aspirante, istruendolo, educandolo, provandolo, non deve sempre temere di essersi da sè stesso privato di un membro che Iddio gli volea forse dare, ma gliel volea dare a condizione che sel guadagnasse col merito delle fatiche, coll' orazione per lui fatta al trono della sua Maestà? Perocchè, stiamone certi, Iddio vuole, non che aspettiamo da lui le cose belle e fatte per intero, ma che ce le procacciamo coi nostri sudori, che egli è pronto a benedire, se li spandiamo con viva fiducia in lui solo. Niente, niente trascuriamo mai per indolenza da parte nostra: « particula boni doni non te praetereat », dice la sacra Scrittura. Queste massime vorrei io seguite con semplicità da ogni Superiore dell' Istituto che ha facoltà di accettare gli aspiranti: queste sono le massime delle Costituzioni. Resta a farne l' applicazione; e questa riesce diversa nelle circostanze diverse, restando le massime sempre le stesse. A ragione d' esempio egli è certo che un Superiore può avere maggior lume di Dio da conoscere prontamente chi è chiamato e chi non è; e in tal caso, avendo maggior lume, potrà anche non accettare o licenziare più prontamente gli aspiranti che giudica inetti. Ma i Superiori debbono diffidare in questo di sè stessi, non dando luogo a giudizi suggeriti dalla fantasia, che è la madre dei giudizi temerari; ed è più sicuro il procedere per via di ragioni intellettive e positive, ricorrendo anche al giudizio dei consultori, ai quali, appunto perchè ne sento il bisogno, io sempre, quando posso, ricorro. Un' altra varietà cade nell' applicazione delle dette massime, a cagione delle circostanze esterne. Se queste fanno sì che il ricevere gli aspiranti di riuscita dubbiosa sia di troppo gran peso e danno all' Istituto, come sarebbe in Inghilterra, dove mancano i mezzi di esercitare verso essi la carità temporale e spirituale, si deve certamente restringersi a ricevere i migliori e di vocazione più chiara. Aggiungasi ancora un' altra osservazione, che m' era scappata, su quello che voi dite intorno all' ingegno ed altre doti di cui bramereste forniti i nostri. Il vero scopo dell' Istituto, che non si deve mai perdere di vista, si è la santità. Tutto il resto dobbiamo riputarlo niente affatto; e dobbiamo avere speciale tenerezza per i nostri fratelli poveri, difettosi secondo la carne, e anche idioti. Vi assicuro che a me è tanto caro il più semplice e plebeo dei nostri fratelli, purchè sia buono e santo, quanto il più dotto, di nobil lignaggio ed avente splendide doti in faccia al mondo; ed anzi più quel primo, se ha più virtù, standomi in mente l' amore che portava Gesù Cristo ai poveri ed agli spregiati. Penso dunque che dobbiamo ricevere tutti gli uomini di buona volontà nell' Istituto. E` vero che quanto più i nostri compagni hanno ingegno ed altre doti anche esterne possono fare più del bene al prossimo, se sono buoni, e possano fare andar più avanti l' Istituto. Ma io mi contento che si faccia al prossimo tutto quel bene che si può, e che l' Istituto vada avanti come può. Accogliamo tutti i mezzi, tutte le doti, tutti i talenti che ci dà Iddio; non ne vogliamo di più, ma nello stesso tempo non ne rifiutiamo nessuno; e dopo raccolti questi talenti colla maggior cura perchè niuno ce ne cada di mano, traffichiamoli tutti colla maggior industria e fedeltà possibile. Tutti i talenti vengono buoni all' Istituto, anche i più piccoli e di minor conto, perchè l' Istituto non ricusa nessun' opera di carità. Chi non è buono da fare il predicatore, sarà buono da far l' infermiere; e chi non avrà destrezza di trattare un negozio o dottrina da comporre un libro, verrà utilissimo come maestro di scuola, foss' anco per insegnare l' abbiccì. Vengo ora al secondo punto, cioè alle massime che soglio tenere, quando si tratta di promuovere gli aspiranti a de' gradi ulteriori. Quanto mi sembra di dover facilitare in ricevere gli aspiranti, altrettanto stimo bene di essere rigoroso nel promoverli ai successivi gradi. Come non ricuso nessuno senza avere delle ragioni positive per rifiutarlo, così stimo essere assolutamente necessario di aver delle ragioni e prove positive che l' alunno abbia le qualità richieste al grado, prima di promuoverlo ad esso. Se l' alunno dà delle prove positive di non essere chiamato, non indugio un solo istante a licenziarlo, tosto che abbia potuto su quelle prove formare un giudizio prudente: se non mi dà prove positive nè per l' una parte nè per l' altra, porto pazienza, procurando che gli sia usata ogni carità d' istruzioni, d' eccitamenti, fino che possa aversi un ragionevole scioglimento della cosa. Abbiamo avuto persone in Casa per lungo tempo senza che neppure siano state ammesse al Noviziato. La trafila per cui devono passare i nostri è lunghissima, come sapete, vi ha tempo di conoscerli, e possono essere sempre licenziati. Così operando, parmi che non debbano seguire quelli sconci che voi temete; e quantunque s' abbiano degli incomodi e dei piccoli danni da questo procedere, conviene riflettere, che il volere evitare tutti gl' incomodi e i danni non è un buon principio, secondo la perfezione e semplicità evangelica; ma è un principio che ha dell' umano. Siamo pazienti e longanimi, e il nostro Signore ci proteggerà. Col dirvi questo, non intendo scusare tutto ciò che è stato fatto; ma unicamente esporvi le massime che generalmente parlando ho seguìto, e che potrò seguire più pienamente in progresso. Nei cominciamenti di un Istituto vi sono molte difficoltà che non si preveggono. Raccomandiamo adunque al Signore Iddio l' Istituto, e poi andiamo avanti semplicemente e con coraggio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Sentendo i vostri sentimenti, quali me li esprimete nella lettera vostra, e la fiducia che Iddio v' ispira al cuore di dovervi consecrare tutta a lui solo in servigio de' prossimi, io non dubito punto che siate chiamata, come dite, all' Istituto della Provvidenza. Queste Suore fanno appunto quello che vi proponete far voi, una rinunzia totale al mondo e ad ogni sua lusinga, un sacrifizio totale di se stesse, per servire Gesù Cristo, sposo delle anime loro, ne' prossimi, attendendo specialmente all' eterna salute di questi. Un' umiltà profonda, un' annegazione continua, una perfetta ubbidienza, una carità ardente, uno studio d' imitare in tutte le cose il divino loro Maestro: ecco a che si riducono le loro regole. Nessun' opera di carità è aliena dal loro Istituto: quella poi a cui attendono con più cura presentemente, si è l' educazione delle fanciulle povere e ricche, per le città e per le ville, dove la divina Provvidenza le vuole. Esse si compiacciono del titolo di povere serve delle serve dei poveri . Professano la povertà per imitare anche in questo Gesù Cristo, fanno i tre voti, da prima ogni anno (dopo il noviziato) e poscia di tre in tre anni, finalmente anche perpetui, se i Superiori lo permettono. Se questa adunque è la via a cui vi sentite chiamata, fatevi coraggio; chè non manca il Signore di aiutar sempre le anime, che lo scelgono per unico loro bene, signore, maestro, esempio e sposo. A lui alzate le vostre voci, domandategli la grazia di poter consumare il vostro sacrificio a imitazione sua sulla croce santissima della religione, confittavi co' tre chiodi de' sacri voti; e poi lasciate fare a lui: vi esaudirà certamente, vi aprirà la via soavemente, sarete consolata: ma quando? Questo egli solo lo sa: a voi appartiene solo il desiderare, il pregare, il sospirare notte e giorno verso lui con rassegnazione e tranquillità. Egli vi ha dato un buon padre terreno, che può anche farvi da padre spirituale. Qual grazia non è già questa! Aprite tutto il cuore con vostro padre. Appena che gli avrete date prove della vostra solida virtù; appena che si sarà convinto che non è il vostro un fervore passeggiero, ma una vera vocazione divina; son persuaso, che non avrete più bisogno della mia mediazione: egli da se stesso vi condurrà a me, ed io vi riceverò fra le povere serve e felici spose del Signore. Rassegnazione adunque e preparazione al gran passo. Conviene prepararvisi con tutta la maturità, la considerazione, l' orazione, il santo affetto, la pratica d' ogni virtù. Io so che lo farete, e perciò non dubito punto del buon esito: MARIA Santissima, a cui sono tanto devote le Suore della Provvidenza, v' accoglierà nella sua famiglia: la farò pregare anche a questo fine. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Noi dobbiamo guardarci assai di non far torto a quell' infinita bontà e misericordia di Dio, che vince gli ostacoli stessi che noi poniamo coi nostri mancamenti e peccati alle copiose sue grazie; quando noi facciamo due cose, cioè SPERIAMO e PREGHIAMO. Ah dolcissima speranza del mio Signore che niuno confonde! oh preghiera potentissima! Io non vorrei che vi lasciaste dall' inimico rinserrare mai il cuore, quando Iddio anzi vuole che lo dilatiamo, perocchè « viam mandatorum tuorum cucurri cum dilatasti cor meum ». DILATAZIONE adunque di CUORE: ecco ciò che sopra ogni altra cosa vi raccomando. Noi siam cattivi, ma Iddio è INFINITAMENTE buono. Oh quanto poco si pensa a questa parola INFINITAMENTE! Se ci si pensasse, non cadrebbero a terra tutti i nostri timori? non ci terremmo sicuri della vittoria sopra tutti i nostri nemici? non diremmo: « si exurgat adversum me praelium, in hoc ego sperabo »? Non ci lasciamo adunque ingannare dall' inimico che tende talora a spargere la tristezza nei nostri cuori, angustiandoli col pretesto talora di compungerci dei nostri peccati. No, la compunzione nostra sia sempre congiunta ad una INFINITA SPERANZA; perchè questa è ragionevole, e perchè Dio la gusta dalle sue creature. Guai a confidare in noi stessi! ma quanto al nostro Dio non ci stanchiamo di dire: « In te Domine speravi, non confundar in aeternum », e di ringraziarlo: « Quoniam tu Domine singulariter in spe constituisti me ». Chi spera è forte, chi spera può tutto; quest' è àncora immobile, quest' è arma invincibile. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Ella m' onora colle sue domande più ch' io non merito. Non le direi certamente cosa ch' ella non sappia: e tuttavia per ubbidire a quanto m' ingiunge nella cara sua non tralascerò di accennarle, che a mio parere il maggior studio a cui dee applicarsi chi predica a' giovanetti, si è quello di far loro ben intendere la religione, che sol intesa è amabilissima per sè stessa. A tal uopo è più necessario che non si creda, che l' istruttore religioso studi assai prima di tutto per intenderla a fondo egli stesso: il che non è piccol affare trattandosi d' un sistema ampiissimo di dogmi misteriosi e di precetti sublimi. Forse quel volume che io ho stampato col titolo di « Catechetica », le potrà somministrare qualche concetto. Ma dovendo ella, come sento, spiegare il Vangelo, non potrà osservare un ordine di connessione nelle materie. In tal caso ogni ragionamento fa quasi un tutto da sè; e può egli solo esser chiarissimo e semplicissimo. La somma chiarezza e semplicità dello stile fa poi luogo all' affetto; e in niun esemplare si dee più guardare che nello stile del Vangelo. Poche idee alla volta, ma sublimi; pochi sentimenti, ma generosi. Oh quanto bene risponde a questi il cuore del giovanetto! Non ha bisogno che d' intendere la verità per amarla, che di vedere la virtù per eleggerla. Ma di solito la verità si copre di troppe vesti, e volendola troppo spiegare, s' oscura; la virtù poi si falsifica per troppe distinzioni umane, e la s' impiccolisce sperando così di renderla agevole. E pure l' animo innocente anela più tosto d' ergersi a volo, che di serpeggiare per terra. Se nel cuore d' un giovanetto si giunge a inserire un sentimento nobile ed elevato, la riuscita di lui può dirsi assicurata. E` dunque un errore quello di sdolcinare soverchiamente l' austerezza della virtù, e di abbassarne l' altezza: privata della sua eccellenza non più esige un santo entusiasmo; spoglia della sua maestà non riscuote più ammirazione, nè attira a sè l' uomo creato per l' infinito. Io vorrei che si parlasse ai giovanetti sempre in modo come si trattasse di farne degli eroi. Con questo pensiero non ha a far niente lo stile gonfio, ampolloso, concitato: anzi un tale stile produce l' effetto contrario. Il grande e lo squisito dee consistere nelle cose; del resto la dote precipua delle parole e mai studiata abbastanza, nel caso nostro è la chiarezza: chiarezza di elocuzione, chiarezza di pensieri, chiarezza d' ordine. Il conseguimento d' una dote che par sì facile costa sudori, meditazioni, prove e riprove, pertinacia di tentativi: è uopo che s' abbia in testa il tipo della perfezione, e nell' animo la volontà risoluta di conseguirla. Cose scritte per la gioventù ve ne sono tante, e molte di buone; io difficilmente potrei indicargliene di quelle ch' ella non conosca; e conoscerà senza dubbio anche il libricciuolo intitolato « La gioventù dabbene » stampato dal Pogliani in Milano. Vi ha in que' sei discorsetti un cotal principio di ciò che io voglio dire, ma ancor lontano dal perfetto. Del resto, come le dicevo, io non ho a dirle che quelle cose che ella già sa, e che d' altra parte non si possono restringere in breve lettera. Presenti, la prego, i miei cordiali saluti a' Padri Villoresi e Dalla Via, e i miei ossequi al M. R. P. rettore di cotesto collegio; e mi raccomandi al Signore. Godo di sentire, che i due valorosi giovani Dandolo e Gazzola approfittano, e benchè non li conosca, ho già cominciato ad amarli sulle sue parole. [...OMISSIS...]

Gioberti e il panteismo

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Abbiamo distinto l' essere ideale dall' essere reale: questa è una distinzione importante, miei signori, una distinzione fondamentale in Filosofia, feconda di innumerevoli conseguenze: dobbiamo tornarci sopra, e il tempo che ci impiegheremo non riuscirà certamente perduto. Si dà dunque vera distinzione tra l' essere ideale e l' essere reale? La natura dell' uno è veramente distinta dalla natura dell' altro? Questa interrogazione, signori, potrebbe parere ad alcuni superflua. Infatti non vi ha nessun uomo sopra la terra, che non faccia questa distinzione più volte al giorno, e che non sia sì persuaso della sua verità che non rispondesse colle risa a chi mostrasse di negarla, o porla in dubbio. Quando il povero affamato va cercando la limosina, e pensa al pane ch' egli non ha, crederebbe d' essere schernito, e veramente sarebbe da chi gli prendesse a provare sul serio che quel pane ch' egli ha nel pensiero ma non ancor nella sporta, è perfettamente uguale di natura al pane reale che può acquetare i latrati del suo ventricolo. Se l' avaro mercadante potesse persuadersi che quelle ricchezze ch' egli volge in mente e che non ha ancora acquistate, fossero della stessa natura e condizione di quelle che riempieno i magazzeni e gli scrigni di altri che sono già ricchi, ei non si piglierebbe tanti fastidj, non farebbe col suo pensier tanti calcoli, non commetterebbe se stesso ben anche e le cose sue alle procelle del mare; ma tranquillissimo nella sua casa o nel suo casolare, o anche a cielo sereno, si riputerebbe ricchissimo in poco d' ora a sua voglia, ripensando tutti i tesori possibili e facendoli venir tutti ubbidienti innanzi al suo pensiero, come il pazzo d' Orazio. Il dire dunque che ciò che è meramente ideale non differisce da ciò che è reale, è un uscir dal senso comune degli uomini, e meritarsi un posto in qualche conservatorio d' uomini speciali. E che dunque? Sarà questa materia d' una grave lezione di Filosofia? Sì signori, e più che non si crede. Voi già qui mi prevenite col pensiero: voi vi sovvenite degli scherni gettati a piene mani da Vincenzo Gioberti sull' essere ideale del Rosmini, e non si può negare, che il seppe fare con eloquenza, o almeno con facondia. Molti ne rimasero incantati. Se il senso comune, miei signori, distingue accuratamente l' essere ideale dal reale, se non ne dubita punto, se giudicherebbe pazzo colui che dubitar ne volesse, non è così necessariamente de' Filosofi; tra questi soli, tra quelli voglio dire che sembrano quasi fare uno studio di pensare a rovescio di quanto pensa l' intera umanità, potè trovarsi chi negasse la distinzione dell' essere ideale dal reale, e che rendesse una verità pianissima come è questa, difficilissima ed oscurissima sino ad aver bisogno di molte parole e lunghe disputazioni a restituirla in quella luce, in cui si trova nelle menti del volgo. Ma onde mai una cosa sì strana? E` egli possibile che lo studio e la meditazione filosofica oscuri quelle cose che son sì chiare nelle menti di chi non istudia nè medita? Questo è un fatto, signori, ma non crediate che torni a scapito della Filosofia. Poichè s' ella da prima oscura le cose chiare, dissipa in appresso la caligine da lei stessa prodotta, e fa apparire assai più bella e più fulgente la luce. Io credo prezzo dell' opera l' osservare come avvenga che la distinzione dell' essere ideale e del reale si vada da prima oscurando sotto la meditazione filosofica e poi risplendendo d' un lume il doppio più vivo. Sapete voi dunque perchè v' ebbero e v' hanno de' Filosofi, i quali non voglion sapere della distinzione tra l' ideale e il reale? La ragione è questa. L' ideale e il reale appajono chiarissimamente distinti al primo pensiero che ad essi si volga, ma poi quando, meditandovi sopra, si vuole investigare altresì che cosa sia l' ideale, che cosa sia il reale, se ne vuol penetrar la natura e le doti, allora il Filosofo rimane sbalordito della difficoltà. Poichè altro è il sapere che l' ideale e il reale sono distinti, ed altro il penetrarne la natura intima e darne una definizione. Il Filosofo, o per dir meglio, colui che si applica all' investigazione filosofica, s' arena troppo sovente in questa seconda questione, e più si prova a definire il reale e l' ideale, più vi si affonda e vi s' inveschia, quasi come se camminasse su un terreno tutto di pania. Non è bisogno che io vi dica che questo nasce a cagione della limitazione della mente umana: ma è questa limitazione che tutti confessano in generale, che colui che filosofa stenta più che mai a confessare in particolare, a confessarla in se stesso, e a dire ingenuamente quel sapientissimo: « io non lo so ». Che cosa dunque fa egli? A dirvelo in termini proprj, s' irrita; non s' irrita contro se stesso, e non sarebbe nè pur questo cosa ragionevole; ma s' irrita contro la povera distinzione dell' ideale e del reale, che non ha la menoma colpa al mondo della sua confusione. Colui dunque che filosofando è pervenuto a tal termine, ragiona seco medesimo in questo modo: « Io non intendo che cosa sia questo ideale e questo reale , io non me li so definire; dunque collocheremo questa distinzione tra i pregiudizj volgari; la negheremo affatto; e poscia che il reale ci cade almeno sotto i sensi, diremo che tutto è reale , e che tutto ciò che non è reale, è un nulla, e ci daremo così il vanto d' appartenere alla scuola de' perfetti realisti ». Che ne dite, o signori, d' un così fatto ragionamento? Certo egli è spiccio a maraviglia, comodissimo a trarre del labirinto colui che vi si è perduto da se medesimo. Ma se vogliamo parlare sul serio, voi tutti direte meco, io credo, che il nostro Filosofo con questa conclusione che danna a morte spietatamente la distinzione dell' ideale e del reale, ha cessato d' esser Filosofo. Ma non vogliamo per questo cessar noi dal filosofare. Epperò sostituiremo un' altra conclusione, che sia veramente conforme al dettame della Filosofia, vengane che sa venire, dovessimo anche confessare la nostra ignoranza. Noi diremo dunque così: al primo sguardo del pensiero si manifesta evidentissima la distinzione dell' ideale e del reale: questa è ammessa ne' discorsi di tutti gli uomini; e se non l' ammettessero, cesserebbe la loro attività, chè gli uomini non s' affaticherebbero più a procacciarsi quel reale che risponde all' ideale delle loro menti, se questo secondo fosse della stessa natura del primo. Dunque riceveremo questa distinzione prima di tutto come un' innegabile verità. Poi senza alcun timore, volgeremo sopra di essa la nostra meditazione, tentando di conoscere il più addentro che mai per noi si possa la natura del reale e dell' ideale; e dopo aver fatte tutte le prove, qualora ci riuscissero indarno, confesseremo bensì ingenuamente la nostra ignoranza, ma non ne indurremo per questo che la distinzione già stabilita sia divenuta un bel nulla, non dandoci l' ignoranza nostra diritto di negarla, ed essendo principio certissimo di buona logica, che quando è dimostrata di una cosa qualsiasi l' esistenza, non può più recarsi in dubbio pel solo motivo, che ella si abbia una natura assai misteriosa e impenetrabile al veder vostro. Molte sono le cose arcane nella natura, nè per questo il Fisico nega o gli enti o i fenomeni, di cui non può discoprire le ragioni e le leggi. E qui osservate, o signori, che l' escludere la distinzione del reale e dell' ideale per le difficoltà che si trovano nello spiegare questi due modi di essere, non è solo un peccato contro la logica, ma è un peccato altresì, se mi lice così parlare, contro la moralità del Filosofo. In fatti, è dover del Filosofo l' esser coraggioso e costante nelle ricerche, il non darsi per vinto così facilmente; e quando gli pare di non potere andare più avanti da se medesimo, ancor non dee disperare, ma dee dire modestamente: « quello che non s' è trovato, forse si troverà; quel che non riesce a me di scoprire, forse lo discopriranno altri più acuti o più fortunati di me, che verranno dopo di me ». L' avvilirsi è dunque peccato, come vi diceva, contro la moralità filosofica; il dire: « quello che io non ho saputo trovare, neppure dagli altri si troverà »è una superbia ed una ingiuria che si fa a tutto il genere umano. Il dire: « quello che io non intendo non esiste »è un peccato contro la verità, un peccato grande che distrugge tutto il sapere, giacchè tutto il sapere è pieno d' arcani; e distrugge la religione, giacchè la religione è piena anche essa di misteri. Lungi da noi, miei signori, un tal procedere: ed è perciò che noi da una parte ammettendo come certissima verità la distinzione dell' ideale e del reale, perchè attestata da tutto il mondo, ed evidente al primo pensiero; vogliamo dall' altra con tutto il coraggio, che c' infonde l' amore della Filosofia, rimetterci nella difficile investigazione: « che cosa sia il reale, che cosa sia l' ideale: in che l' uno differisca dall' altro » e fare l' estremo di nostra possa per discuoprirlo. Nè perciò teniamo la taccia di temerarj, che il nostro coraggio s' accompagna alla rassegnazione filosofica, per la quale quando anche le nostre ricerche non fossero coronate di felice successo, saremmo contenti di noi medesimi, avendole fatte, nè perciò detrarremo punto nè poco al vero già stabilito, che l' ideale è distintissimo dal reale. Ma abbiamo noi poi almeno qualche speranza del buon successo delle nostre ricerche? Il buon successo di ricerche filosofiche può aver più gradi, miei signori. Guai a quel Filosofo che vuol conoscer tutto: che gli pare di non conoscer niente, se non conosce tutto affatto nell' oggetto di sue ricerche! Questi non sarà mai soddisfatto, colpa la sua presunzione. Voi sapete il detto del Montaigne, che « « l' uomo non conosce tutto di niente » ». Non saremo noi dunque di questi presuntuosi, no; non conosceremo tutto, lo sappiamo innanzi, ma questo non torrà punto che noi non abbiamo fatto guadagno di scienza, se solo arriveremo a conoscer qualche cosa di quel che cerchiamo. E qualche cosa io confido che noi ricaveremo nella ricerca che stiam per fare. Accingiamocene adunque con tutta fiducia. E poscia che lo scandalo di que' Filosofi che negano la nostra distinzione, nasce da quell' ideale che par loro sì tenue, sì esile, sì aereo da scappar loro di mano ogni qual volta vorrebbero prenderlo, palparlo, pesarlo sulla bilancia, noi cominciamo ad osservare, com' egli sia una cosa assai più eccellente, più grande, più consistente, più vera dello stesso essere reale. Ed anche qui prendiamo a nostri maestri non le solitarie opinioni de' Filosofi, ma le persuasioni dell' umanità intera. Venga qua Raffaello, venga Canòva: voi vedete che io non chiamo in mezzo a noi dei Filosofi, ma degli artisti. Interroghiamoli: « come fai tu, o Raffaello, a produrre quei quadri divini; come ti conducesti a darci la Trasfigurazione o lo stupendo quadro dello Spasimo? E tu, o Canòva, come potesti fare stupire tutto il mondo coi tuoi lavori! Dove trovasti tu il monumento di Rezzonico, o quel di Cristina? »I due artisti ci dicono in pieno accordo, che essi dipinsero e scolpirono i loro capilavori impiegandovi la testa e le mani. Notate bene non le mani solo, ma prima la testa. Ma che c' entra qui la testa, trattandosi di cose materiali e reali, come sono tele e colori, marmi e forme? Al sentire questa interrogazione da noi Filosofi, davvero che que' due grandi sorriderebbero; giacchè non a' filosofi solamente, ma al mondo tutto è notissimo, che nè Raffaello potea colorire i suoi quadri se non gli avesse prima contemplati colla mente, nè poteva Canòva senza il concetto ideale dar vita a' suoi marmi immortali. Qual fu dunque l' opera che prestò la mente ai grandi artisti, e quale fu quella che prestò loro la mano? L' opera della mente fu l' ideale concepimento, l' opera della mano fu l' esecuzione materiale e reale di quel concepimento; il primo di necessità tutto loro, il secondo tale che potè essere commesso parte a' loro discepoli, parte a materiali lavoratori. Ecco come questi maravigliosi lavori dell' arti belle, e tutte affatto l' opere artistiche, vengono prodotte dal concorso dell' ideale e del reale , nè l' uno solo di questi due basta a produrle. Spogliamo Raffaello e Canòva delle loro menti, lasciamo pur loro le mani; che faran esse? Nulla affatto di quel bello che tendono ad esprimere i lavori dell' arte. Priviamoli in quella vece delle mani, lasciando loro la sola mente: essi ci diverranno de' meri contemplativi, godranno da se soli la bellezza di quell' ideale a cui ascende il loro genio, ma il mondo non possederà più di loro nè una dipintura nè una statua, se pure non prendano a prestito le mani degli altri uomini. Se dunque a formar gli artisti concorre sì l' ideale che il reale e non basta uno di essi, ma vi vogliono entrambi, forz' è conchiudere che l' ideale e il reale sono due cose distinte. Ma non è questo che cercavamo: poichè questo l' avevamo ammesso. Noi cercavamo quale delle due cose fosse la più eccellente. Vediamo dunque che è più eccellente e più nobile nelle opere di Raffaello e di Canòva, l' ideale o il reale? Onde nasce più l' applauso dato alle loro opere? Dalla materia o dalla forma? Sono i colori che Tiziano, come rispondeva a chi gli domandava dove ne trovasse di così belli, comperava a Rialto, sono i marmi che il Canòva prendeva nelle miniere di Carrara, ovvero è il concetto sublime di cui il colore e il marmo si fa espressione ed indizio? Io credo che non faccia bisogno di grande penetrazione per riconoscere che le opere delle arti non si pregiano che pel bello , e che il bello non giace che nella idea che dalla mente si contempla, e che per questo oggetto interior della mente piace la materia esteriore, come quella che se ne rende veste e segno sensibile, e alla mente altrui lo suggerisce e risveglia. Poichè chi dicesse il contrario, dovrebbe anteporre le mani alla testa; giacchè le sole mani hanno per loro oggetto il reale, come la mente ha per oggetto suo l' ideale. Il reale dunque nelle opere delle arti belle non è che il segno sensibile, il veicolo, il mezzo pel quale lo spirito umano piglia il volo verso le regioni dell' ideale, e giunge a goderne l' eccellenza eterna, che l' inebria talora e il fa entrare in un divino furore, come dicea Platone, e che bello si chiama; onde le bestie, perchè prive della mente, e quindi inette a giungere fino all' idea, non traggon diletto nè dall' opere di Raffaello, nè di Canòva, nè d' altro artista, applaudite come maravigliose da tutto il genere umano. Questo rapporto dunque tra l' ideale e il reale, che nei lavori delle arti belle si congiungono e costituiscono propriamente il bello artistico, è ammesso da tutto il mondo: tutto il mondo ammira la mente sublime de' grandi artisti; e non già le mani, riconoscendo così l' eccellenza infinita dell' ideale sopra il reale: tutto il mondo cerca nelle opere delle arti non la materia, non i materiali colori prismatici, o le loro tinte, non il marmo nella sua lucidezza; ma cerca ciò che queste materie reali esprimono; cerca ciò che ha contemplato l' artista prima ancora di trovare la materia reale, e d' atteggiarla in modo da fare, che mediante la stessa così atteggiata, tutti gli altri uomini vedessero quello stesso che egli vide prima ancora di così atteggiarla. Il che è tanto vero, tanto conseguente alla natura essenziale dell' intelligenza, che ogni qual volta ne incontra di rimirare qualche insigne lavoro d' arte, tosto noi dimandiamo chi ne sia stato l' autore, essendo impossibile concepire che sussista qualche essere reale ben ordinato, senza che quell' ordine che in se dimostra non sia preso per vestigio d' intelligenza e quindi ci richiami a una causa intelligente, il che è quanto dire, a una mente, in che l' idea di lui sia preesistita. Onde quanto è maggiore la perfezione e la bellezza che noi contempliamo in un qualche reale, tosto conchiudiamo dover essere esistito un ideale corrispondente, dal quale sia venuta al reale, come da tipo o causa esemplare, la sua perfezione. E ciò non meno dell' opere della natura che dell' arte: onde il gentil Filosofo fiorentino dalla bellezza della sua donna argomentava all' altezza di quella mente divina in cui se ne doveva contener l' idea prima ancora che Laura nascesse, dicendo elegantemente così: [...OMISSIS...] E voi vedete che quest' è, miei signori, il fondamento, per cui nel creato vede la mente vostra i vestigj della divina intelligenza, e così argomenta all' esistenza del Creatore. E` dal reale che ella va all' ideale; poichè il reale dipende dall' ideale come da causa; e giunta all' ideale conchiude all' esistenza di una mente in cui si trovi. Laonde coloro che vogliono distruggere l' ideale e dichiararlo un nulla, o una mera appartenenza dell' umano soggetto, facendo ogni cosa reale, tolgono via l' argomento ammesso da tutte le genti, pel quale dalla natura reale si conchiude all' esistenza di una prima intelligenza, causa del tutto, cioè di Dio. E qui già noi vediamo, e possiam compiacercene, che le nostre indagini non furono infruttuose, poichè da esse noi possiamo raccorre almeno questi due veri indubitabili; 1 che l' ideale è cosa molto più eccellente del reale; 2 che il reale ha una dipendenza dall' ideale, come da una sua causa, cioè dal suo tipo od esemplare, senza del quale il reale, almeno il reale ordinato, non potrebbe pur concepirsi. Prima di procedere più avanti, gioverà qui sciogliere una obbiezione che sarà nata forse nelle vostre menti. Io diceva che il progresso naturale del pensiero che contempla le opere dell' arte e della natura si è di andare dal reale all' ideale, e dall' ideale alla mente dell' artista, che viene lodata come più sapiente in proporzione che questo ideale ha più o men di bellezza. Di qui taluno dirà, che se questo progresso va a terminare in una mente, nella quale l' ideale si trova, termina conseguentemente in un reale, essendo reale la mente dell' artista, e che perciò non si giunge mai al solo ideale; che dunque non esiste l' ideale senza il reale. Ma chi ha mai detto che esista l' ideale senza il reale? Non confondiamo le proposizioni, non iscambiamole: il senso comune degli uomini ci dice bensì, che l' ideale e il reale sono distinti, che sono due modi diversi, ma non ci dice mica, che possano trovarsi assolutamente separati. Altro è due cose esser diverse, altro è non aver nesso alcuno che le congiunga. La causa e l' effetto sono diversi; ma si può egli dare l' effetto senza la causa, o la causa senza l' effetto? La materia viva qual si trova nell' animale è un' entità diversa dalla vita che la informa, ma si può egli dare la materia viva senza la vita, o la vita animale senza che avvivi alcuna parte di materia? Le cose che si trovano in natura congiunte sono innumerevoli; ma non ne vien mica da questo, che l' una si possa confondere coll' altra, che perdano le loro distinte essenze, e che il nome che dal senso comune viene imposto all' una di esse, si possa applicare all' altra. Voler confondere in una sola due cose per la ragione che l' una non può star senza l' altra non è proceder con buona logica. Noi siamo i primi a dire che l' essere ideale non può stare senza il reale; che l' idea è in un soggetto reale che viene da lei illuminato; noi diciamo anche di più, benchè la cosa non paja colla stessa evidenza, diciamo che nè pure l' essere reale può stare senza l' ideale. Ma crederemmo d' essere assai meschini ragionatori, se da questo volessimo indurre, che dunque l' essere reale è ideale, e così cadessimo nell' idealismo. Infatti se la maniera di ragionare dei nostri avversarj fosse buona, cioè se dall' esser congiunto il reale e l' ideale se ne potesse indurre che dunque ogni cosa è reale, sarebbe buona egualmente per farne risultare l' opposto, cioè per indurne che ogni cosa è ideale. Si conceda dunque che l' ideale sia nel seno del reale; ma se ne mantenga la distinzione, che è quella sola che il senso comune proclama, e che d' altra parte si può dimostrare per infiniti argomenti. Poichè davvero, che ciò che abbiam detto delle arti belle si può estendere egualmente a tutte le arti meccaniche, a tutte affatto le invenzioni umane chè se l' ideale non fosse distinto dal reale, sarebbe impossibile far qualche nuova invenzione. Si sarebbero trovati i battelli o i vagoni a vapore, se non ci fosse stato prima qualche uomo che avesse concepite queste cose idealmente, quando ancora non esistevano in realtà? Confondere dunque l' ideale col reale è toglier via il mezzo con cui si sono fatte, si fanno e si faranno tutte le invenzioni umane. Ma, si replica, l' ideale è però nella mente la quale è reale. Sì certamente; ma non è la mente, come il raggio del sole non è l' occhio. E` vero che l' occhio non vede senza il raggio, che ha bisogno di esso per uscire al suo atto; ma non è mica vero perciò, che l' atto dell' occhio sia la sostanza luminosa: qualora almeno non si volesse tornare a quegli antichi che credevano che noi co' nostri occhi balestrassimo le cose, emettendo i raggi quasi altrettante freccie che le colpissero. Nè ci vuol molto a chi si contenta d' osservare la cosa come è, senz' alcuna perturbazione, a distinguere la mente dall' idea che è nella mente, giacchè la mente è una sola, e le idee sono pure moltissime. E poi prendiamo un' idea: sia l' idea d' un uomo. Che cosa è l' idea d' un uomo? E` un uomo ideale, il tipo d' un uomo, un uomo contemplato nella sua possibilità. Or non ripugna egli a dire, che la mente sia un uomo contemplato nella sua possibilità, sia un uomo possibile? Anzi ella è reale, per consenso dei nostri avversarj, che voglion tutto reale; dunque essa non è l' uomo possibile. Quando l' artista forma nella sua mente un disegno, che poi eseguisce al di fuori colla materia, si dirà egli che abbia eseguito al di fuori la sua mente? La mente dell' artista non si può eseguire al di fuori, è già eseguita, è già sussistente: ma l' idea sì: dunque la mente non è l' idea, e l' idea non è la mente. E chi non sa che l' atto è sempre distinto dall' oggetto e scopo dell' atto? Altro è l' atto con cui io scrivo, e altro è lo scritto che resta in sulla carta; altro è lo sforzo che fa il zappatore, ed altro è il movimento che egli dà alle zolle colla sua zappa, e così dicasi di tutti gli atti. Ma vediamo un po' più addentro la differenza che passa tra la mente e l' idea. Quando l' inventore del battello a vapore l' ebbe composto nella sua mente, non solo potè eseguirlo egli stesso, ma potè darne il disegno ad altri, e farlo eseguire da' lavoratori. Ora potea egli dare ad altri la sua stessa mente che ha inventato il battello, e farla loro eseguire di legno e di ferro? Non c' è qui assurdità e non7senso? Di più, non solo potè fare eseguire un battello a vapore da altri, ma potè farne eseguire quanti meglio gli piacque. E infatti, di battelli a vapore si copersero in breve tempo i mari ed i fiumi: e qual fu la regola, qual fu il tipo su cui si eseguirono tanti battelli? Sempre fu quella prima, quella originale idea del battello a vapore. L' idea dunque d' una cosa ha questa speciale sua qualità di poter essere eseguita replicatamente quanto si voglia. L' idea è unica; ma gli esseri reali che a quella idea corrispondono sono senza numero; perciò quell' idea si chiama universale: ogni idea è universale . Trovate voi questa stessa universalità nell' essere reale? No certamente, non potete; l' esser reale è particolare: ogni battello a vapore reale è in tutto diverso da ogni altro battello a vapore reale: un battello reale sussiste in sè così distinto dall' altro, che nulla affatto all' altro comunica; anzi lo esclude intieramente. Vero è che quando noi abbiamo una volta veduto un battello a vapore reale, ne possiamo fabbricare un altro simile a lui. Ma è forse il primo battello reale che abbiamo riprodotto? Niente affatto; egli non è atto a esser riprodotto, non è atto a moltiplicarsi. Si osservi dunque il processo pel quale noi abbiamo potuto formare un secondo battello a vapore. Egli è evidente, che, vedendo il primo battello a vapore, noi abbiamo potuto dal reale salire al suo ideale; ed essendoci in questo modo formato l' ideale nello spirito nostro, l' abbiamo potuto di nuovo eseguire esternamente e realizzare, per la proprietà che ha l' ideale d' esser causa esemplare d' infiniti individui reali. Se dunque ogni reale è particolare, ogni ideale è universale, egli è chiaro che sono non pur distinti fra loro, ma ben anco forniti di caratteri opposti. Ora si applichi questo stesso discorso alla mente che è un reale. Abbiamo veduto che ella non può riprodursi al di fuori di noi. Infatti, se supponessimo ch' ella si potesse realizzare al di fuori di noi, invece che l' inventore del battello a vapore avesse, mediante la sua idea, popolati i mari e i fiumi di battelli a vapore, egli avrebbe popolati i mari e i fiumi di altrettante menti simili alla sua; ed allora lascio pensare a voi che comodità avremmo avuto di viaggiare, come possiamo fare adesso che l' America si è avvicinata al continente antico da potervici trasferire in pochi dì. Di nuovo dunque, miei signori, egli è impossibile confondere la mente coll' idea, come è impossibile confondere qualsivoglia altro essere reale col suo ideale corrispondente. Noi abbiamo trovato dei nuovi caratteri che distinguono l' uno dall' altro, del tutto e per sempre, e queste distinzioni dobbiamo aggiungerle alle prime; e raccogliendo tutto ciò che abbiam detto, possiamo ricapitolarle così: 1 Il reale non è riproducibile nè realizzabile; l' ideale all' incontro ha per suo carattere la fecondità, la realizzabilità: 2 Ad infiniti esseri reali corrisponde un solo ideale; onde agli enti reali compete la denominazione d' individui reali , all' ente ideale all' incontro spetta la denominazion di specie: 3 Il reale è sempre particolare , l' ideale all' opposto un universale . Voi vedete, miei signori, che coll' idea non si può dunque confondere nè la mente reale in cui ella si trova, nè alcun altro ente reale qualsiasi. Ma troppe altre cose ci restano a dire in conferma di questa verità; molti sono ancora i caratteri diversi ed esclusivi, che noi possiamo osservare nell' essere ideale e nell' essere reale, e che ce ne dimostrano sempre più la distintissima natura. In tanto dall' aver noi osservato che il reale è sempre un particolare, e l' ideale è sempre un universale, possiamo dedurre importantissime conseguenze. Imperocchè se il reale è di necessità particolare, convien dire, ch' egli avrà tutte le condizioni del particolare, e che queste mancheranno all' ideale, ed anzi questo s' avrà le contrarie, perchè egli è universale. Ora le condizioni che rendono un ente particolare variano secondo la natura degli enti stessi, e tutte queste varietà mancan del tutto nell' ideale. Mi spiegherò con un esempio. Io vedo che la natura dei corpi è distintissima da quella degli spiriti; il corpo soggiace alle leggi dello spazio, lo spirito è semplice: ma ad ogni reale risponde un ideale; v' ha l' idea del corpo, v' ha l' idea dello spirito. Ma ditemi di grazia, vi par egli che l' idea del corpo differisca dall' idea dello spirito, come il corpo reale differisce dallo spirito reale? E` forse l' idea del corpo corporea, e quella dello spirito spirituale? No certamente, sono due idee della stessa natura; sono due esseri ideali ugualmente; l' una e l' altra è immune affatto dalla corporeità e dallo spazio. L' estensione dunque e la materialità conviene ottimamente ad alcuni enti reali; ma non conviene mai e poi mai alle idee. Eccoci adunque in mano un nuovo carattere che distingue le idee dagli enti reali, e che consiste nel non potere quelle giammai soggiacere alle leggi dello spazio, del moto e della corporeità, laddove l' ente reale può benissimo soggiacervi, perchè sono altrettante condizioni che lo particolarizzano e lo individualizzano, rendendolo sussistente. Lo stesso spirito, almeno lo spirito contingente e finito, benchè semplice come egli è, viene realizzato a certe condizioni che restano escluse affatto dall' idea. Infatti, se voi mi date uno spirito finito e reale qualsiasi, egli passerà dalla potenza all' atto, egli soggiacerà a diverse modificazioni e passioni, parte a cagione degli stimoli d' altri esseri che operano su di lui, parte in virtù della sua propria spontaneità: insomma anche lo spirito reale è mutabile, condizione che ha comune col corpo reale. Ma vi pare egli, rispondetemi dopo considerata bene la cosa, che si possa dire altrettanto delle idee? A primo aspetto può parere di sì; può parere che la nostra mente vada modificando le proprie idee, e trasformandole in altre, e così si suol dire. Ma esaminando accuratamente questa locuzione, è forse esatta? Noi troveremo che no. Quando ci pare di modificare un' idea e di trasformarla in un' altra, altro non fa la mente che trasportare la sua attenzione da un' idea ad un' altra, ma a condizione di tornare se vuole e quando vuole ancora sulla prima. Così, a ragion d' esempio, quando io penso ad un bracco o ad un segugio idealmente considerato, e poi vo cangiando l' idea del bracco o del segugio nell' idea d' un cane mastino, che ho fatto io, a propriamente parlare? Niente altro se non trasportare la mia attenzione da una specie di cane all' altra. Ho forse distrutto per questo l' idea del bracco, o l' idea del segugio? No certamente; elle restano quelle che erano prima nè più nè meno; a quella stessa maniera come quando io entrando in una vasta galleria, dopo aver veduto un quadro, passo a contemplarne un altro, e ne percorro tutta la serie. Ora egli è certo che venuto alla fine di essa, e fermatomi sull' ultimo quadro, benchè io non pensi più ai quadri precedenti, ma a questo ultimo solo, tuttavia non si dirà mai che io ho trasformati i quadri l' uno nell' altro, i quali restano tali quali erano prima appesi alle pareti ciascuno a suo luogo; onde se a me garba, posso tornare da capo a rivederli, o tutti o quelli che più mi piacquero. Così appunto è delle idee: la mente può contemplare queste e quelle, passare da una meno perfetta ad un' altra più perfetta, senza però aver distrutta la prima; tant' è vero che ne posso fare il confronto, e riconoscere che ella è meno perfetta della seconda. Dunque le idee sono immutabili . Ecco un nuovo carattare lucidissimo che le distingue dalle cose reali; l' immutabilità è propria di quelle, e la mutabilità di queste. Ma se le idee sono immutabili , osservate bene qual conseguenza ne viene: eccola: esse dunque sono eterne . E veramente prendete qualsivoglia idea, qualsivoglia ente e contemplatelo nella sua possibilità. Voi vi accorgerete a non dubitare, che questo ente possibile non è soggetto punto nè poco alle leggi del tempo. Infatti, si capisce benissimo, che un uomo particolare e reale che vive al presente, non vivea un secolo fa, e pure un secolo fa egli era possibile; ed era possibile ugualmente tanto avanti un secolo, quanto avanti una ventina o un centinajo di secoli. Dunque il tempo, relativamente all' essere ideale è nulla; esso nol fa invecchiare, nè il ringiovanisce; perchè, qualunque sia il tempo a cui noi ci trasportiamo, vediamo che l' essere ideale si sta lì uguale a se stesso, immutabile ed impassibile. Dunque l' essere ideale è di natura sua eterno , e non può soggiacere alla legge del tempo; che non c' è tempo dove non c' è successione, e non c' è successione dove non c' è mutazione: laddove l' essere reale può soggiacere benissimo alla legge del tempo, alla qual soggiacciono più o meno tutti, per poco, gli esseri reali che compongono l' universo. Finalmente è propria di tutte le idee ugualmente la necessità; poichè che cosa è il necessario? Il necessario logico di cui qui parliamo altro non è che il possibile . Ora il reale contingente può essere e non essere; ciò non involge contraddizione, e appunto per questo dicesi contingente. Ma anche quando egli non sussiste, ancora è possibile. La possibilità dunque del reale è così necessaria, che se tale non fosse, il reale non sarebbe possibile; ma il reale è possibile, come dicevamo, dunque la possibilità è necessaria. Ma il reale possibile non è che l' idea; dunque l' idea è necessaria. Ricapitoliamo, miei signori, e vediamo qual viaggio abbiamo fatto sin qui, qual frutto abbiam cavato dalla nostra investigazione volta a conoscere la diversa natura del reale e dell' ideale. Noi abbiamo prima veduto, che l' ideale non solo è un' entità distinta dal reale, ma che è assai più eccellente di questo; di poi ch' egli tiene natura di causa esemplare o di tipo, laddove il reale ha natura solamente di effetto e di esemplato. Vedemmo di più che l' ideale ha la qualità di essere riproducibile e realizzabile, che manca intieramente al reale; è uno mentre questo è molti: è universale mentre questo è particolare. Vedemmo finalmente, che l' ideale è sempre ed essenzialmente semplice, mentre il reale soggiace talora alle condizioni dello spazio e della materia; che l' ideale è immutabile ed impassibile, mentre il reale spesso soggiace alla mutabilità ed alla passività; che l' ideale è sempre ed essenzialmente eterno, mentre il reale soggiace spesso alla successione del tempo; che l' ideale finalmente è necessario, mentre il reale può esser contingente. Che direm dunque di que' Filosofi, che non sapendo concepir l' ideale, lo negano o lo soggettivizzano dichiarandolo un' opera, o una modificazione dello spirito umano? Non è egli anzi veramente assai più concepibile dello stesso reale? E se dei due si dovesse negare l' uno, non è egli chiaro che sarebbe un peccato filosofico assai minore negare il reale che l' ideale fulgente di tanti pregi? Ha dunque ragione il senso comune che proclama altamente queste due entità, e sì ben le distingue; ha ragione sopra i Filosofi di cui parliamo, perchè l' amor proprio non entra a fargli perdere la ragione e a fargli disconoscere la verità. Noi ci siamo resi assai volentieri a questa ricerca i discepoli del senso comune, procureremo di mantenerci tali nelle susseguenti. Noi abbiamo veduto, o signori, con che trista logica alcuni Filosofi vollero negare l' ideale, perchè non se ne sapevano spiegar la natura, o perchè l' ammetterlo cozzava col loro sistema. Possiamo chiamare questi Filosofi gli eretici della Filosofia, poichè essi si separano dal senso comune come gli eretici dalla Chiesa, e ragionano allo stesso modo. Infatti quando i protestanti si abbattevano in qualche libro delle Scritture ad una autorità manifestamente contraria al loro sistema, invece di abbandonare questo sistema, conchiudevano che il libro è apocrifo. Così Lutèro tolse dal canone delle Scritture la lettera di s. Jacopo, perchè il suo sistema escludeva le buone opere che quell' Apostolo commendava. Allo stesso modo i nostri Filosofi. L' ideale contradice al loro sistema; dunque le idee non esistono, o sono anch' esse realità. Così si spoglia la Filosofia delle verità più evidenti, unicamente perchè queste hanno la colpa di non conciliarsi cogli errori e coi pregiudizj. Noi abbiam detto di volere starci col senso comune, che ci par l' arca di sicurezza, e credemmo che ai nostri Filosofi bastasse opporre quest' autorità del genere umano per tutta confutazione. Assicurata così la verità non ci arretrammo però dall' instituire un' indagine più profonda, dall' affrontare le questioni « che cosa sia l' ideale, che cosa sia il reale »o almeno « quali siano i caratteri dell' uno e dell' altro, in che differiscano, con che rapporto si congiungano »; e nel tempo medesimo che ci proponemmo di condurre la nostra investigazione con quel coraggio che dee essere qualità dei Filosofi, ci facemmo altresì un dovere di escludere da noi quella presunzione che pretende di saper tutto, di trovar tutto, di dar ragione di tutto, disposti ad esser contenti dei soli nostri sforzi per giungere al vero, e molto più di quella porzione di vero che ci frutteranno, se pure a qualche risultamento riuscissero. Nè possiam dire, o signori, d' aver lavorato indarno: se la natura dell' ideale e del reale non ci si svelò intieramente, abbiamo però scoperti e fermati diversi luminosi caratteri che distinguono l' uno dall' altro, e che ci persuasero l' ideale non solo esser distintissimo dal reale; ma cosa più alta, più nobile, più manifesta di questo. Onde noi conchiudemmo, che qualora il Filosofo dovesse negare l' uno de' due, meno assurdo sarebbe negare il reale che l' ideale. Se non che nella conclusione del ragionamento io m' accorgo d' aver parlato inesattamente, e devo or correggere il mio errore. Dicevo che essendo l' ideale tanto maggior cosa del reale, egli è più concepibile di quest' ultimo, giacchè ciò che è più grande è anche più concepibile. Ma no, non è così ch' io dovea dire, miei signori; io doveva dire, che anzi il solo ideale è concepibile, e che il reale non è punto nè poco concepibile per se stesso, e se pur all' ideale non si congiunga. Questo è importante e degno di tutta la nostra meditazione. Considerando bene questa qualità dell' ideale di essere il solo concepibile, il solo intelligibile, se ne scopre la natura, epperciò egli è uopo che noi ce ne occupiamo, con tutta diligenza in questa lezione. Allorquando noi concepiamo un reale, p. e. un corpo o un sentimento, lo produciamo noi forse? Niuno, io credo, dirà che il conoscere sia lo stesso che il produrre, che il creare. Anzi ciascuno che non si tolga dal senso comune dirà che niun ente può essere da noi conosciuto come tale, se non sussiste: la sussistenza del reale precede alla cognizione che noi prendiamo di esso. E` egli possibile, che noi percepiamo ed affermiamo con verità una casa, un monte, un libro, non preesistenti? E quelle case, que' monti, que' libri, i quali ci sono ancora del tutto ignoti, non sussiston forse senza la nostra cognizione di essi? Dunque la sussistenza ossia la realità delle cose che si conoscono è rispetto a noi anteriore e indipendente dalla nostra cognizione. Badate bene, miei signori, che cosa da questo semplice fatto risulta. Risulta evidentemente, che nell' essenza del reale non entra punto nè poco la cognizione; che la cognizione di esso è un' entità da esso distinta. Dunque il reale, secondo la sua propria essenza, esiste senza cognizione, e questa nè lo costituisce nè lo produce, nè lo altera in modo alcuno. Dico che neppur lo altera: perocchè ditemi, o signori, le panche che sono in questa scuola mutano forse natura, o ricevono qualche modificazione quando da noi si conoscono, o non si resterebbero qui le stesse affatto anche quando noi ne ignorassimo l' esistenza? Dunque di nuovo la cognizione è cosa estranea alla natura del reale. Ma se la cognizione è cosa estranea alla natura del reale, dunque che cosa è il reale, qual è il suo carattere? Quello dell' oscurità, cioè d' essere per se stesso incognito. Se esso ha bisogno d' un' entità diversa da lui per essere conosciuto, dunque, separato da questa entità, rimane al tutto inconcepibile: infatti niente si conosce dove non c' è cognizione. Ora osserviamo se dell' idea si possa dire il medesimo. Vi par egli che un' idea abbia bisogno di qualche altra idea per essere concepita? No certamente; poichè un' idea è atta bensì a far conoscere se stessa, ma non mai a far conoscere un' altra idea, che è al tutto da lei diversa, e diversa per usare l' espressione d' Aristotele come un numero è diverso da un altro numero. Prendiamo l' idea del cavallo; or cercatene un' altra, sia pur vicina a questa quanto volete, sia quella dell' asino, sia quella del mulo, sia quella della giraffa: indarno; tutte queste idee non vi faranno mai conoscere l' idea del cavallo se non la conoscete avanti. Dunque ogni idea mostra se stessa senza bisogno d' altro: ella è dunque essenzialmente un lume , ella è essenzialmente concepibile. Mi direte, che anche l' idea, acciocchè si faccia conoscere, ha bisogno d' alcun che diverso da lei, cioè del suo reale corrispondente. Ma questa è un' illusione, miei signori. Primieramente notate bene quello che abbiam già detto, che ogni idea è diversa dall' altra, e che ciascuna è quello che è, immutabilmente uguale a se stessa, senza che possa esser mai modificata. Ora ditemi: quando il Canòva concepì da prima il Teseo, allora n' ebbe l' idea. Esisteva egli per anco il Teseo reale, che poscia il grand' uomo modellò e scolpì? No per certo; dunque quell' idea non ebbe bisogno della sua corrispondente realità per isplendere nella mente al Canòva. Ed osservate, che quand' anco il Canòva fosse stato sturbato dall' opera, e non avesse mai posto mano al colosso del Teseo, quell' idea non avrebbe meno illustrato la mente dell' artista, benchè sola, benchè scompagnata per sempre da quel reale che le rispondeva. Replicherete probabilmente, che il Canòva nondimeno trasse e compose l' idea del Teseo dagli enti reali da lui veduti. Ma fu appunto per prevenire questa obbiezione, che io vi chiamavo a riflettere, che un' idea che differisca anche menomamente da un' altra è già un' idea diversa e non quella. Ora ditemi: il Canòva vide certamente molti corpi umani e statue antiche; ma fra tutti i corpi e le statue vedute vide forse egli mai il suo Teseo? Vide altre forme, altre idee; ma quella del Teseo opera originale di lui, non potè vederla dovecchessia. - Ma egli se la compose mediante le altre idee tratte dai reali da lui percepiti - Sia pure; e poco appresso vedremo se il reale, il mero reale, gli abbia potuto somministrare, non dico l' idea del Teseo, ma un' idea qualsiasi. Ora mi basta per rispondere, che consideriamo attentamente che voglia dire « comporre un' idea coll' accozzare insieme altre idee, o parti d' idee ». Che cosa vuol dire comporre un' idea con altre idee, o parti d' idee? Vuol forse dire creare quell' idea che si compone? No, perchè le parti esistono. Ma io non dimandava questo: dimandava, se il tutto risultante da queste parti, se i nessi con cui queste parti si legano acciocchè divengano un tutto solo, sieno creati dalla mente dell' artista; se la convenienza di questi nessi dipende dal suo volere, se ella è arbitraria. Nel caso che si risponda di sì, egli è facile ravvisar l' assurdo che ne verrebbe: ognuno potrebbe esser grande artista, perchè ognuno ha l' arbitrio, e potrebbe congiungere le parti ovvero le idee elementari che non gli mancano, in qualsivoglia maniera. Infatti non solo il Canòva, ma tutti gli altri uomini possono aver vedute nella natura e ne' musei le stesse cose che vide il Canòva, e averne riportate le stesse idee. Dunque il Canòva non raccozzò le parti ad arbitrio, ma secondo certe leggi di convenienza dalle quali riuscisse la bellezza del tutto. Ma che mai sono queste leggi di convenienza? Di nuovo, sono elle forse create ad arbitrio? Prendiamone una tra tutte, non la principale, ma la prima che ci si offre. Gli artisti dicono essere conveniente a persona di donna l' aver piccole le mani, e che quella piccola mano è sommamente gentile, [...OMISSIS...] come disse l' Ariosto. Che cosa è dunque questa legge, che insegna a modellar bene una mano, tradotta in linguaggio filosofico? Non è altro se non l' idea d' una mano piccola a proporzione del corpo, priva d' inuguaglianze, dove tutte le linee vadano dolcissimamente incurvandosi. Avendo l' artista quest' idea o tipo in mente, egli quando vuol fare la statua sa come regolarsi. Ma come intende egli che la forma di questa mano è più bella di un' altra? Questa convenienza, questa bellezza, domando di nuovo, è ella arbitraria? se non è arbitraria, se non è l' opera della volontà dell' artista, adunque egli non la produce, egli non fa altro che contemplarla. Qual' è dunque la differenza tra lui e gli altri uomini, che non pervengono ad avere nella mente un' idea, un tipo sì bello? Niente altro può essere se non questa, che l' artista osserva i diversi tipi, le diverse idee possibili, più accuratamente e diligentemente degli altri uomini, e paragonandole insieme si ferma alla più bella, e la sceglie come regola del suo lavoro. Questo tipo più bello non esiste nè negli enti reali della natura, nè in quelli dell' arte; ma traendo da tali enti le loro idee niuna delle quali è perfetta, egli si giova di esse quasi di scala per salire alla contemplazione d' un' altra idea migliore, che anch' essa esiste eternamente come esistono tutte le idee; e basta che la mente le rivolga la sua attenzione perchè la vegga. Egli non potrebbe mica distinguere tra le idee rispondenti alle cose reali i pregi loro e i difetti, se non possedesse già prima nella sua mente una regola diversa da tali idee, secondo cui portar di esse giudizio, e scegliere il bello separandol dal brutto: e questa regola più elevata, precedente all' idee dei reali, è anch' essa, come dicevamo, un' idea, un tipo superiore. - Ma in tal caso l' artista non dovrebbe affaticarsi gran fatto a comporre il disegno mentale dell' opera sua, se egli già prima l' avesse nella sua mente e con un solo sguardo il potesse intuire. - Il dir questo è un non aver bene inteso la natura di queste idee superiori di cui si serve l' artista a giudicare della bellezza e deformità delle idee de' reali, e a scegliere ed accozzare le parti belle. Perocchè quelle idee superiori di cui parliamo, che sono altrettante regole che dirigono la mente dell' artista a intuire il disegno ideale dell' opera sua, non sono ancora che idee molto astratte. Così l' idea della mano piccola e senza disuguaglianze è ancora un' idea astratta che per se sola non basta alla mente dell' artista a formare la mano che si propone; ma basta sì a servirle di guida per immaginarla, e con essa convien che concorrano altre idee, altre regole pure astratte; p. es. quelle della proporzione tra la grandezza della mano e la grandezza del corpo, affinchè egli sappia quando la mano si possa dir piccola, quando grande. Ciascuna dunque di queste idee sono tipi astratti, che guidano la mente dell' artista per quella via che le bisogna a giungere finalmente alla contemplazione del disegno compiuto dell' opera sua, che, come dicevo, da niuno de' reali viene somministrato. Dunque la differenza tra la mente dell' artista e quella di un altro uomo non istà in questo, che la prima sia formatrice di belle idee, e la seconda non sia; ma in questo, che la prima è bene esercitata e conosce la via per giungere a contemplare l' idea perfetta, al che non vale la mente del secondo. Poichè niuna idea si può contemplare dalla mente umana, se la mente non giunge a far l' atto necessario dell' intuizione, a trovar quell' unica idea di cui si tratta, tra tutte le idee. E qui di passaggio giova osservare, che la mente che viene ammaestrata ed esercitata a dirigere la sua intuizione più tosto ad un' idea che ad un' altra, non potrebbe ricevere questa guida e questo ammaestramento, se non preesistessero in lei altre idee più generali di quelle che cerca; come egli è mestieri supporre che innanzi a tutte le altre idee men generali preesista quella che è universalissima, colla quale solo può misurare e giudicare le altre; la quale, come noi abbiam già veduto altrove, è quella dell' essere. Ma taluno insisterà tuttavia dicendo, che almeno le idee de' reali si cavano dai reali - No, miei signori, nè pur questo è vero. E come possono dare i reali quello che non hanno? Noi abbiamo veduto, che nell' essenza del reale non si trova punto nè poco la cognizione: se il reale c' è anche quando non si conosce, dunque la cognizione di lui è fuori della sua essenza. Se l' essenza del reale non ha la cognizione, neppure ha l' idea. - Come dunque accade che quando da' reali riceviamo le impressioni sensibili, noi li percepiamo intellettualmente, e solo dopo percepiti, ne abbiamo l' idea? Così l' idea del colore non si ha se non dopo essersi percepito il colore. - Il fatto è verissimo, ma si tratta di spiegarlo. Nella percezione del reale, non è mica il solo reale che opera in noi, operiamo anche noi stessi. Egli è vero che dopo percepito il reale co' sensi, noi ne abbiamo l' idea; ma posciachè in questo fatto gli agenti sono due, il reale e noi stessi, sta a vedere a quale de' due si convenga attribuire la comparsa dell' idea. Ora al reale percepito, no certamente, perchè nemo dat quod non habet: l' attribuiremo dunque a noi stessi? Certo che l' idea della cosa s' acquista mediante un atto proprio nostro, e non un atto del reale esterno; che le idee sono nostre, non sono del reale esterno. Ma questo non ci autorizza ancora a dire che la produciamo noi stessi con un nostro atto: per chiarircene non v' è altra via che osservare attentamente ed esaminare l' atto ond' acquistiamo la nuova idea. E` egli forse un atto di produzione? Non più di quello che sia un atto di produzione quello dell' occhio che vede gli oggetti corporei, anzi assai meno. L' osservazione interna ci dice, che l' idee s' intuiscono bensì, si contemplano, ma non si producono , e che acquistare un' idea non vuol dir altro, se non rivolgere e fissare l' attenzione della mente in essa. Questo risultato dell' osservazione ci è confermato ampiamente dal ragionamento, il quale ci mostra nelle idee tali caratteri, che eccedono ogni finita potenza, e sono quelli che abbiamo trascorsi nella precedente lezione. Se dunque le idee non si producono, nè si posson produrre dalla mente nostra, ma solo si riguardano e si contemplano, qual' è la parte unica che si può attribuire all' oggetto reale nell' acquisto delle nostre idee? Niun' altra se non l' aver egli eccitata e determinata l' attenzione del nostro spirito a intuire e riguardare l' idea che prima non intuivamo nè riguardavamo, e ciò mediante l' immagine che c' imprime nel sentimento. Di niun altro ajuto ha bisogno la mente, se non di un eccitamento e di una determinazione immaginaria a formare quell' atto con cui essa intuisce e riguarda piuttosto un' idea che un' altra. E se la cosa è così, dunque niente ripugna che si concepisca la possibilità d' una altra causa qualunque la quale muova la mente nostra a questo suo atto, senza bisogno del reale corrispondente all' idea; giacchè egli non fa che l' ufficio di stimolo e di guida allo spirito intelligente. E affinchè meglio si veda, come non sia il reale quello, che somministra alla nostra mente l' idea, si consideri dove mai la mente la intuisca. Se l' idea fosse nel reale, o se il reale ne fosse la causa efficiente, noi dovremmo intuirla nel reale, in quel luogo dove è il reale. Ma l' idea s' intuisce forse ne' reali? Prendiamo un corpo, un arancio che pende dalla pianta del giardino. L' idea intuita dalla mente quando quell' arancio cade sotto i miei sensi, pende forse anch' ella dall' albero del mio giardino? In questo caso io non potrei intuirla che andando nel mio giardino, non potrei intuirla se non nell' atto che guardo e tocco l' arancio, e se l' arancio cade dall' albero, cadrebbe con esso in terra anche la mia idea. Ma no; ella non è ristretta a luogo alcuno; tosto che la mia mente acquistò la prima volta l' abilità d' intuirla, la può intuire dovecchesia; l' idea non le manca mai ogni qualvolta le piaccia di darle attenzione: la trova da per tutto, in ogni tempo, anche quando l' arancio è distrutto. Dunque quest' idea non trovasi nel reale, nè dal reale può esser prodotta: ella è in se stessa, e la sensazione non ha fatto altro che render l' uomo atto a contemplarla colla sua mente, eccitandolo, dirigendolo, determinandolo. Ma per ispingere il ragionamento nostro a tutta l' evidenza possibile, supponiamo che il reale avesse virtù di produrre l' idea, e che perciò? La natura dell' idea non si rimarrebbe per questo quella stessa che è, distintissima dalla realtà? Certo che da tale ipotesi si avrebbe la strana conseguenza, che il reale sarebbe essenzialmente conoscibile. Ma la sua conoscibilità, la sua idea, sarebbe forse per questo lo stesso che la sua realità? Non ancora; chè il reale rimarrebbe sempre il conosciuto , ciò che si conosce, l' idea rimarrebbe sempre il mezzo di conoscere , ciò con cui si conosce. Vero è, che queste due cose si troverebbero insieme; ma non si potrebbero confondere, poichè il conosciuto e il mezzo di conoscere presentano alla mente due nozioni distinte, per modo tale che col solo mezzo di conoscere non si potrebbe dire che il reale esistesse, nè col solo reale si potrebbe dire che esistesse il mezzo di conoscere. Sarebbero in un tal caso la realità e l' idealità due attribuzioni che converrebbero ad uno stesso oggetto; non mai un' attribuzione sola; e infatti qualche cosa di simile si avvera in Dio, dottrina il cui sviluppo spetta alla Teologia. Sarebbe ancora l' ideale quello che fa conoscere il reale, sarebbe l' ideale solo il conoscibile e l' intelligibile per se stesso, e il reale avrebbe ancora bisogno di ricever la luce da esso; rimarrebbe ancora, che carattere proprio del reale fosse l' oscurità, e quello proprio dell' ideale l' intelligibilità. Rimarrebbe che la natura dell' ideale sarebbe indipendente dal reale in questo senso, che l' una attualità non sarebbe l' altra, nè l' una si confonderebbe coll' altra; benchè entrambi convenissero in un oggetto medesimo, sarebbero due essenze diverse. Sia pur dunque la sede dell' idea una mente reale, non ne verrà mai che la mente e l' idea sieno una cosa medesima, nè che la mente sia, in quant' è reale, conoscibile per se stessa; ma sempre e poi sempre per l' idea. Infatti, poniamo una mente che avesse le idee di molte cose, ma che pur le mancasse l' idea di se stessa: si conoscerebbe ella questa mente? Non mai. E questo non è un caso ipotetico; è quello che accade nei bambini: questi acquistano assai prima le idee delle cose esteriori che le idee di se stessi, che l' idea della propria mente. Dunque la mente, come essere reale, è anch' essa oscura a se stessa, è inintelligibile, ma poi si conosce mediante la riflessione, perchè si trova nell' idea prima ed universale, nella quale si segna come fa di tutte le altre cose che percepisce; nel che consiste il formarsi l' idea di se stessa. Concludiamo dunque: l' essere ideale è il solo concepibile, il solo intelligibile per se stesso, l' essere reale finito è per se stesso oscuro ed inintelligibile, e viene solamente illuminato dall' idea che ad esso risponde: differenza grande, immensa tra l' ideale e il reale, e che comincia già a rilevarci la natura stessa di questi due modi dell' essere. Infatti la natura dell' essere ideale , chi ben considera, altro non è che la stessa intelligibilità. Non si trova altro in lui. Se vi s' aggiunge qualche altra cosa, è un' aggiunta arbitraria, straniera, eterogenea, che gli toglie la purezza dell' esser suo, mescolandolo e confondendolo con ciò che non è lui. Voi vedete che siamo giunti, o signori, alla scoperta di un vero molto importante; siamo giunti a conoscer la natura dell' essere ideale, onde non ci possiamo pentire della perseveranza nelle nostre indagini. Ma qui dobbiamo stare avvertiti, per non perdere il frutto, che non forse l' immaginazione ci intorbidi il vero che abbiamo scoperto; giacchè noi esseri sensitivi, avvezzi a vestire d' immagini tutti i nostri pensieri, facilissimamente potremmo mescolare qualche immagine all' essere puramente intelligibile, il quale così contraffatto non sarebbe più desso, ci sarebbe già sfuggito di mano. Su questa avvertenza dovremo tornare altra volta; intanto proseguiamo il nostro lavoro. Se noi abbiamo in qualche modo scoperta la natura dell' essere ideale, possiam dire d' aver fatto altrettanto dell' essere reale? Non ancora, di lui non abbiam fin qui trovato che un carattere negativo, la mancanza di luce sua propria e, per così dire, l' opacità. Qui dunque si conviene spingere le ricerche nostre più innanzi: ma poichè tutto ciò che noi possiam conoscere dell' essere reale ci viene mediante l' idea, non ci resta che d' incominciare a vedere come si forma la cognizione di esso nel nostro spirito. Come avvien dunque che noi conosciamo l' essere reale? Egli è chiaro, che non possiamo conoscerlo allo stesso modo come l' essere ideale, appunto perchè questo è intelligibile per sua essenza, e quello all' opposto per il lume di questo. Dunque possiamo già sulle prime cavare a buon conto una utile conseguenza, la quale si è, che la cognizione dell' essere ideale è semplice, quando la cognizione dell' essere reale è necessariamente duplice: la prima non suppone che se stessa, la seconda, cioè la cognizione del reale, suppone la prima, suppone cioè la cognizione dell' idea. Dunque il primo, cioè l' essere ideale, si dee conoscere con un atto solo dello spirito; a conoscere il secondo cioè l' essere reale, ci vorranno necessariamente due atti, l' uno dei quali termini al puro ideale, l' altro pervenga fino al reale. Rimane ad investigare qual sia la natura di questi due atti. Ora quanto all' ideale, egli è chiaro che non si tratta se non d' un semplice sguardo dello spirito, come abbiam detto innanzi, e quest' atto lo chiameremo intuizione . Che cosa è che caratterizza quest' atto? Se ben si considera non è altro, se non che lo spirito vede un oggetto possibile, e in qualche modo lo sente, ma sentendolo non sente punto se stesso; lo sente senza sentire alcun rapporto di lui con se stesso, la qual maniera di sentire dicesi oggettiva , perchè ha un termine al tutto diverso dal sè intuente, e senza che involga alcun rapporto sentito col sè intuente. Nè si dica qui che l' idea intuita dallo spirito produce nello spirito stesso qualche sentimento di sè; poichè sia questo anche vero, resta sempre fermo, che questo sentimento di sè prodotto nello spirito non entra nè punto nè poco a costituire l' oggetto intuito, cioè l' idea di cui questa è appunto la natura, d' escludere, per ripeterlo, il sentimento che può aver di sè l' intuente e ogni rapporto sentito coll' intuente. Ma qual è poi l' altro atto con cui il nostro spirito perviene al reale? Non può esser certamente un atto simile a quello che abbiamo descritto, cioè all' intuizione dell' ideale, poichè se fosse simile, già il reale stesso ci si presenterebbe come l' ente ideale. Se dunque l' intuizione dell' ideale ha per sua propria natura che dall' oggetto intuito s' escluda il sentimento che l' intuente può avere di se medesimo ed ogni rapporto sensibile coll' intuente; al contrario sarà dell' atto con cui lo spirito giunge al reale. Dunque il reale sarà lo stesso sentimento del soggetto che percepisce, le modificazioni di questo sentimento, e tutto ciò che può cadere in questo sentimento. Conviene dunque che noi investighiamo che cosa sia quello che si comprende nella sfera del sentimento; e tutto ciò che si comprende in esso sarà reale. Che cosa si comprende dunque nel nostro proprio sentimento? Se noi consideriamo il sentimento quale l' abbiamo al presente nella nostra condizione di adulti, più cose vi potremo distinguere. Primieramente noi sentiamo in noi un principio unico, o piuttosto questo principio unico è lo stesso noi . Se il noi non fosse sensibile potremmo favellarne? Consideriamo, miei signori, che di ciò che non cade affatto nel nostro sentimento nè nelle nostre idee, è impossibile che noi ci formiamo alcuna cognizione. Questa è una verità d' esperienza, ed è ammessa da tutte le scuole. Ora l' idea, noi già lo vedemmo, non racchiude il sentimento stesso del noi; nè ha alcun rapporto sensibile col noi; e nondimeno noi pensiamo a noi stessi, e di noi stessi parliamo; dunque il noi deve esser sentito, deve esser un sentimento. Ma questo sentimento unico, fondamentale e sostanziale riceve molte modificazioni; queste sono le sensioni e tutti i sentimenti particolari ed acquisiti. Non basta: in noi stessi oltre sentire un' attività, noi sentiamo un' opposizione, una forza che ci modifica, la quale non è noi . Ecco una terza cosa che cade nel sentimento di noi stessi. Noi adunque, modificazioni sensibili di noi, forza estranea che produce queste modificazioni, eccovi tutta la sfera della realità a noi conosciuta. Ma fino a tanto che questa realità si rimane pura realità, puro sentimento, può ella concepirsi? Abbiamo già detto di no; abbiam veduto che l' oscurità è il carattere proprio d' ogni reale. Convien dunque per conoscerlo chiamare in ajuto l' idea. Ma in qual modo l' idea ci presterà questo servigio? Ciò che noi contempliamo nell' idea non è che la pura intelligibilità, come già vedemmo, del reale, non è ancora il reale stesso percepito. D' altra parte questo reale fino che non eccede la sfera del sentimento, è oscuro. In qual maniera adunque congiungendo l' idea che non mostra che il reale possibile, col reale sentito e non ancor concepito, si potrà venire a conoscere quest' ultimo? Convien trovare un nesso che congiunga questi due estremi, convien ricorrere a qualche atto dello spirito, quasi direi, mediatore tra il reale e l' ideale, tra il sentimento e l' idea. E quest' atto è appunto quello che noi cercavamo; è l' atto con cui dopo d' aver noi concepito l' ideale, giungiamo ancora a conoscer il reale. Come adunque quest' atto si fa? A chiarire la natura di quest' atto misterioso, noi dobbiamo prima di tutto porre a confronto l' ideale e il reale, e vedere se sia vero ciò che si suppone, che questi due termini del pensiero sieno del tutto dissimili e divisi tra loro da un abisso, onde non si possa pur concepire la loro congiunzione. Se attentamente noi li raffrontiamo, vedremo che la cosa non istà così come si suppone; anzi li troveremo più affini che a prima giunta non paja, ma in altro modo da quello che si può credere a prima giunta. Infatti noi abbiamo già osservato che ad ogni reale risponde un' idea. Che cosa vuol dir questo? Vuol dire che nell' ideale noi vediamo assai di quelle cose che nel reale possiamo distinguere. Egli è uopo vedere quali e quante sieno queste cose, e se ve n' abbia nel reale qualcuna che nell' ideale non possiamo vedere. Si prenda dunque un oggetto reale qualunque; sia un uomo. Nell' uomo reale io distinguo la testa, le mani e le altre parti del corpo. Ma io posso vedere che tutte queste cose sono anche nell' idea corrispondente: nell' uomo reale io distinguo il colore, le forme, le più piccole particolarità, se si vuole anche il numero de' capelli, la loro lunghezza, il color biondo o bruno o bianco di essi come possibili; il che è quanto dire, posso pensarli nell' idea. Si prenda qualsivoglia altro accidente, si passi all' anima, alle facoltà dell' anima, alle disposizioni speciali, agli atti suoi; e chi m' impedisce di formarmi l' idea di tutte queste cose? di vedere tutte queste cose nella loro idea? Non solo la sostanza dunque dell' uomo io posso contemplar nell' idea che gli risponde, ma ben anco tutti affatto i suoi accidenti; ed io sfido chicchessia a trovarne un solo che non sia idealmente concepibile. Tutto dunque ciò che è nell' uomo reale è anche nell' uomo ideale che vi corrisponde, e per conseguente vien ad esser vero anche il contrario, cioè tutto ciò che si trova nell' uomo ideale, si trova pure nell' uomo reale che vi corrisponde. Ma se la sostanza, le parti integrali, gli accidenti minutissimi di un ente qualsiasi si riscontrano egualmente nell' idea e nella realtà, son dunque tutte queste cose doppie, son elleno ripetute in natura, oppure sono elle identiche nella realtà e nell' idea? Che ci dice intorno a ciò, miei signori, il senso comune? Consultiamo il linguaggio, che è il deposito di sue persuasioni. Allorquando un signore per fabbricare un palazzo chiama l' architetto che ne formi il disegno, questi concepisce il palazzo in idea, e lo può divisare con tutte le possibili particolarità; può dire al padrone: in questo palazzo che a voi piace di edificare saranno queste sale, questi corridoj, queste scale; di questa forma, di questa misura; vi si impiegheranno a questi determinati luoghi questi marmi, questo cemento, questi legnami tagliati e squadrati a questa foggia, questo ferro, e così via enumerando tutte le minime particolarità del futuro palazzo: il palazzo intero con tutte le sue parti, con tutti i suoi minuti accidenti trovasi nella mente dell' architetto che lo disegna o lo esprime in parole. Or bene il palazzo sia fabbricato, sia bello e compito, così appunto come l' architetto lo ha concepito. Come parlava l' architetto al signore prima di metter mano all' opera? Questo e questo sarà il palazzo che voi edificherete. Come parla egli dopo che è edificato? Questo è il palazzo che voi avete edificato. Notate bene: adopera la stessa parola di palazzo tanto prima che fosse edificato e che non era che nell' idea, quanto dopo che è già edificato e che è in realtà, ed afferma che il palazzo edificato è appunto quello ch' egli ha concepito. L' identità del vocabolo usato tanto a significar l' ente nell' idea, quanto a significar l' ente nella realtà, mostra chiaramente che secondo il senso comune si considera identica l' essenza del palazzo che scorgesi nell' idea e l' essenza che si vede cogli occhi nella realtà. Dunque secondo la testimonianza del senso comune è identico l' oggetto della cognizione, sia egli ideale o reale. Ma nella cognizione del reale non vi ha egli qualche cosa di più che nella cognizione dell' ideale? - Sì certamente; altrimenti le due cognizioni non si distinguerebbero. Che cosa è dunque questo elemento che distingue le due cognizioni? E` ella forse la realità, ovvero si trova la realità stessa nell' idee? La risposta a questa questione ha due faccie; poichè si può rispondere tanto di sì quanto di no, sempre con verità, purchè la risposta si spieghi. Si può dire che anche la realità sia nell' idea, in questo senso che io posso pensare una realità possibile: ora se io penso una realità possibile, io vedo la realità nell' idea, conosco nell' idea che cosa sia realità. Ma si può dire medesimamente, che la realità non è nè può essere nell' idea, quando non si parla di realità possibile, che altro non è finalmente che l' idea stessa della realità, ma si parla della realità stessa . Infatti sarebbe una contradizione il dire che la realità stessa fosse nell' idealità; giacchè quando dicesi idealità, dicesi cosa possibile e non sussistente, non reale; onde verrebbesi a dire che in ciò che non è reale vi ha il reale, patente contradizione. Dunque la realità come tale è fuori dell' idea. Ma pure potrebbesi conoscere la realità senza l' idea? Che cosa vuol dire conoscere una cosa? Vuol dire sapere che è, saperne l' essenza. Ora nessuno sa che sia una cosa, se non ne ha l' idea; è nell' idea che si conoscono l' essenze di tutte le cose. Badate un po' come fa il medico quando visita un ammalato: se trova de' sintomi straordinarj e insoliti, egli dice: « io non conosco questa malattia; mi è nuova ». Che cosa vuol dire con ciò? Vuol dire che egli non ne ha ancora l' idea. Eppure trattasi di malattia reale, trattasi di conoscere un reale. All' incontro, se egli ha l' idea di questa malattia, dice tosto: « questo infermo ha il tal male; egli è la tisi, è il mal di pietra, è una cefalitide ». Come dice ciò? Di che mezzo si serve a rilevare la qualità di quel male? Non d' altro che dell' idea di esso che possiede nella sua mente. Dunque il reale si conosce per l' ideale, benchè nell' ideale non si comprenda il reale. Ma come lo si potrà conoscere se non vi si comprende? Come l' ideale mostrerà allo spirito quel reale che non ha in se medesimo? Noi dicevamo già, che anche l' essenza del reale si comprende nell' ideale ed è questa essenza che l' ideale rivela allo spirito. Questo è l' oggetto propriamente conoscibile per se stesso. Ma che differenza vi ha dunque tra il reale di cui si conosce l' essenza nell' idea, e il reale stesso fuori dell' idea? In quanto all' essenza conoscibile non ve n' ha alcuna; poichè essa, come dicevamo, è identica ed una; ma la differenza sta in questo, che il reale nell' idea è il reale in potenza, e il reale fuori dell' idea è il medesimo reale in atto. L' oggetto dunque è il medesimo ma è diverso il modo col quale egli è. Ciò che è in potenza infatti dee essere necessariamente diverso da ciò che è in atto, come dimostra questa stessa locuzione, che è anch' essa una locuzione non meno del senso comune, che di tutte le filosofiche scuole. Poichè quando io dico della stessa cosa: « ella è in potenza, ed ella è in atto »il subjetto del mio discorso non varia, anzi è del tutto il medesimo, io predico dello stesso subjetto ora la potenza ed or l' atto. Se non fosse così, io non potrei mai dire, che una cosa ora è in potenza , ed ora in atto , giacchè l' atto e la potenza sono relativi, e non potrebbero essere relativi se non riferendosi allo stesso subjetto; non si sarebbe potuto giammai distinguere la potenza dall' atto, se non si trattasse del subjetto medesimo in due stati e condizioni diverse. Ora tutto ciò che è in potenza è in atto, e tutto ciò che è in atto è in potenza; e nella potenza vi si comprende lo stesso atto; ma si noti bene lo stesso atto in potenza , l' atto possibile , il che basta affinchè si possa concepire quello che è. L' oggetto adunque della cognizione si conosce tutto nella potenza, se di essa abbiamo cognizione perfetta; e l' essere il medesimo oggetto ridotto all' atto non aggiunge nulla alla sua cognizione. Infatti, se il medico, per tenerci all' esempio addotto, altro non trova nell' infermo che cura, se non que' sintomi ch' egli già pienamente conosce perchè ne ha l' idea, egli non accresce menomamente la scienza medica che già possiede; giacchè il riscontrare realizzati i sintomi conosciuti nulla affatto aggiunge alle sue idee. Presupposte dunque nella mente dell' idee, nelle quali e per le quali lo spirito nostro conosce gli oggetti, il reale che è fuori di esse non aggiunge niente agli oggetti conosciuti dalla mente. Ma pure quando si viene a sapere che uno degli oggetti della mente sussiste realmente, si sa qualche cosa di più, che conoscendolo solo nell' idea. Che cosa è dunque questo più di cui si arricchisce il nostro sapere? Non è un' essenza, poichè l' essenza conoscevasi già nell' idea. Non è un oggetto nuovo, poichè l' oggetto scorgevasi nell' idea. Che cosa è dunque? - E` un' attuazione di quello stesso oggetto che nell' idea s' intuiva; è l' atto di ciò che prima si conosceva appieno in potenza. Ma si noti bene; non è già che si venga a conoscere con ciò l' essenza dell' atto; perchè questa essenza era nota avanti, contenendosi nell' idea. E` dunque quel nuovo atto, che essenzialmente si distingue dalla cognizione, che è fuori di essa e che perciò appunto si chiama reale . - Ma egli non è oggetto della mente, poichè se fosse oggetto già sarebbe contenuto nell' idea, dove l' oggetto è perfetto a tale che nulla vi si può aggiungere. Rimane dunque quest' atto relegato, per così dire, nel sentimento, senza che possa entrare punto nè poco a costituire la parte conoscibile, l' oggetto proprio della cognizione. Ma in tal caso si potrà dire con proprietà ch' ei si conosca? Sì, purchè però ci intendiamo, purchè si spieghi di che cognizione si parli. Egli non può aver natura di oggetto della mente, no, come risulta da quanto abbiam detto; non può dunque essere scopo dell' intuizione . Converrà dunque che la sua cognizione si acquisti per tutt' altro modo; vi dovrà dunque essere un altro atto tutto di diversa natura, pel quale lo spirito umano si persuada di conoscerlo. Ora quest' atto è l' affermazione , questo è un atto certo misterioso ed ha bisogno di schiarimento. Che cosa vuol dire affermare che un dato oggetto della mente sussiste? Vuol forse dire acquistare la notizia di quell' oggetto? No, poichè non si può affermare che un oggetto sussista, se l' oggetto già non si conosce precedentemente, come abbiam veduto che il medico non può affermare che la malattia del suo infermo sia il cholera morbus, se egli non conoscesse al tutto il cholera morbus, e non l' avesse sentito mai nominare. Affermare dunque che un oggetto sussiste, è quanto dire a se medesimo, che quell' oggetto che si conosce pienamente (come qui noi supponiamo), che si sa che potrebbe sussistere, effettivamente ha quest' atto di sussistenza che noi conoscevamo possibile. Ma che è quest' atto di sussistenza? L' abbiamo veduto, che egli si riduce sempre in ultimo ad un sentimento. Ora il sentimento è fuori della cognizione oggettiva, come noi abbiamo osservato; dunque affermare che un oggetto sussista è affermare che v' ha qualche cosa fuori dell' oggetto ideale della mente, qualche cosa che non è l' oggetto ideale della mente, e di cui nell' oggetto si conosce appieno la natura. Ma come posso io sapere, che fuori dell' oggetto ideale vi ha qualche cosa? Certo io nol potrei dire se io fossi un tal ente così affisso all' ideale, che fuori dell' atto dell' intuizione dell' ideale io non fossi nulla, non avessi altra attività. Ora io ho dell' altra attività anche fuori di quell' atto. Se tutte le mie attività si riducessero a contemplar l' ideale, io non esisterei, per così dire, che nell' ideale. Ma io ho indubitatamente qualche cosa che è fuori affatto dell' ideale; anzi io con tutto me stesso sono fuori dell' ideale, perchè io sono un sentimento sostanziale modificabile. Ora se io m' accorgo che sono fuori dell' ideale, e che fuori dell' idea sono le mie modificazioni e tutto ciò che cade nel sentimento; dunque io posso affermare, che fuori dell' ideale c' è qualche cosa. Ma si noti bene; di questo qualche cosa che è fuori dell' ideale, nell' ideale stesso c' è il tipo, che è quanto dire l' essenza visibile e manifestativa: l' atto stesso del mio sentire, che è fuori dell' ideale è manifestato dall' ideale in quanto che l' ideale ne mostra la natura. Se io non avessi l' idea non potrei conoscere certamente il mio sentimento; perchè non me ne sarebbe nota l' essenza, che nell' idea sola si manifesta. Ma posciachè questa essenza mi è data nell' ideale, io posso conoscerla ed affermarla in me stesso. Vero è, che affermarla in me stesso è lo stesso che dire che ella è in modo diverso da quello che è nell' idea; ma questa cognizione stessa mi è data nell' idea, perocchè conoscendo io nell' idea la natura del sentimento, conosco altresì che il sentimento è di tal natura, da poter, anzi da dover esser fuori dell' idea. Che cosa dunque mi fa bisogno, affinchè io possa affermare che io sussisto e che sussistono le cose che operano in me? Nient' altro che l' esperienza, il sentimento medesimo; giacchè conoscendo io nell' idea questo sentimento, ed io stesso esperimentandolo, mi accorgo che quel sentimento, quell' ente che conosco possibile, opera, passa all' atto, il qual atto so che è fuori dell' idea, perchè l' idea stessa lo dice. L' unità dunque e l' identità mia propria, per la quale d' una parte io contemplo la natura del mio sentimento nell' idea, dall' altra provo ed esperimento il sentimento medesimo, fa sì ch' io conosca come quel sentimento che già mi è noto, attualmente sussiste, cioè a dire, lo affermi . Questa maniera di cognizione dunque che acquisto del reale, è necessariamente una cognizione oscura, e quasi direi una negazione di cognizione. Perocchè con essa io vengo a negare implicitamente, che la realità, come tale, entri a formare l' oggetto della mente. Ma questa specie di cognizione, benchè sembri oscura relativamente alla cognizione dell' ideale, è però sufficiente, ed è l' unica che si possa aver del reale. Poichè noi ci chiamiamo paghi del nostro sapere quando conosciamo le cose a quel modo che posson esser conosciute; e il reale, il mero reale, non può esser conosciuto che a questo modo, per via di affermazione; chè anzi gli uomini, e gli stessi filosofi, non osservano questa specie di oscurità relativa che si trova nella maniera onde si conosce il reale; non la osservano dico, perchè di natura sua è sempre congiunta indivisibilmente alla cognizione dell' ideale, e ci vuole gran fatica di mente per estrarnela e separarla. Nè altra cognizione all' uomo abbisogna, o l' uom cerca e desidera, che quella che gli fa vedere il reale nell' ideale, sicchè appartiene solamente alla speculazione filosofica il distinguere in questa cognizione mista, di cui gli uomini continuamente fanno uso, quella parte che riguarda il solo reale preciso da tutto il resto, da quella parte che riguarda il reale nell' ideale. Ma per noi, miei signori, questa speculazione è importante; non è cosa di mero lusso. Le conseguenze che ne derivano sono incalcolabili: per intanto noi raccogliamo dal nostro ragionamento quello che ci eravamo proposto, cioè che il solo essere ideale è concepibile per se stesso, l' essere reale è per se oscuro ed inconcepibile. Ma questo poi viene illuminato da quello, perchè quello contiene l' essenza di questo e quando ne concepiamo l' essenza, allora possiamo affermarlo, allora tosto che il reale cade nel nostro proprio sentimento noi possiam riscontrarlo nella sua essenza, ed intendere che è l' ente stesso di prima che noi idealmente conoscevamo, il quale è passato ad un nuovo suo atto, ad un atto che nella sua stessa essenza si conosce. Poniamo ben l' attenzione all' identità nostra; noi, gli stessi, identici, veniam messi in comunicazione coll' identico essere in un duplice modo, appunto perchè l' essere identico è duplice; l' essere identico è duplice, perchè è manifestativo di sè ed attivo: in quanto è manifestativo intanto dicesi ideale, in quanto è attivo dicesi sensibile e reale: niente c' è nel sensibile e reale che non sia manifestato dal suo corrispondente ideale, che è manifestativo di lui; e quando noi siamo manifestati a noi stessi nell' essere ideale, allora possiamo affermarci, e così conoscere la nostra stessa realità con quella cognizione colla quale solo ella è conoscibile. Qui voi mi direte che io supposi in tutto questo ragionamento che l' uomo quando afferma il reale n' abbia già l' idea determinata e compita; il che non s' avvera nel fatto. Perocchè l' uomo che nasce privo d' idee determinate, non se le forma che coll' età, all' occasione appunto di affermare i reali; ond' egli pare che l' affermazione de' reali preceda le loro idee. Questa osservazione merita di essere esaminata diligentemente, e noi ci proponiamo di farlo nella seguente lezione. Noi abbiamo percorso buon tratto di via, miei signori; abbiamo difesa la distinzione dell' ideale dal reale contro quei che la negano; abbiamo investigati i caratteri dell' uno e dell' altro di questi due modi dell' essere; abbiamo tentato altresì di penetrarne e determinarne la natura, e ci riuscì di conoscere, che la natura dell' ideale consiste nell' intelligibilità , e quella del reale nel sentimento e in tutto ciò che opera in esso e per esso. Dopo aver così separato il reale dall' ideale adoperandovi intorno lungamente l' analisi, siamo tornati alla sintesi; abbiamo meditato come que' due modi si congiungono nell' identità del medesimo essere; il qual diventa unico oggetto dello spirito intelligente. Questo ricongiungimento dei due modi dell' essere si avvera allor quando lo spirito nostro percepisce il reale; giacchè sino a tanto che egli non si applica che all' ideale, ha per termine del suo atto l' essere sotto un solo di que' modi, l' essere nel suo modo ideale. Infatti la percezione del reale ha una sua unità, se ella si considera come procedente dall' unità dello spirito. Considerate ben la cosa, miei signori, com' è identico l' essere che è in due modi, così è identico lo spirito che opera con due potenze. Lo spirito unico si riferisce all' essere unico: la duplice sua potenza si riferisce al duplice modo dell' essere. L' una e l' altra potenza ha una sola radice, l' essenza dello spirito: l' uno e l' altro modo di essere ha pure un solo subietto, l' essenza dell' essere. Niuna maraviglia dunque, se nella percezion del reale, per la quale l' unico essere si comunica all' unico spirito, e si comunica nei suoi due modi alle due potenze dello spirito, si possa scorgere ad un tempo unità e dualità . Quando si percepisce il reale, noi dicevamo, lo si afferma, ma nello stesso tempo che lo si afferma, se ne intuisce l' essenza; giacchè non si potrebbe affermare l' incognito: la percezione dunque ha in sè una dualità, cioè a dire è un' operazione per la quale si partecipa l' essere sotto i due suoi modi, l' ideale e il reale. Ma l' oggetto che si conosce, e l' oggetto che si afferma sussistente, è un unico e medesimo oggetto del pensiero; dunque la percezione è semplice. L' unità dello spirito unisce le due contemporanee operazioni nel solo oggetto, cioè nell' unità dell' ente. Questa è la sintesi tra l' essere ideale e l' essere reale. Ella è possibile, perchè l' idea non essendo soggetta alle leggi dello spazio e del tempo può applicarsi se vogliamo parlar con Dante « - a ogni ubi e a ogni quando . ». Onde l' essenza dell' essere che nell' idea si contempla possiamo vederla là appunto dove è il sentimento, e riconoscer questo come nuovo atto del medesimo essere. Ma dopo di tutto ciò noi ci facemmo un' obbiezione; dicemmo che ciò suppone data innanzi l' idea dell' ente speciale che si percepisce. Ora nel fatto sembra accadere il contrario: prima affermarsi gli enti in occasione delle sensioni; poi dalle affermazioni cavarsi le idee pure. Come affermare prima d' aver l' idee delle cose e di sapere che sia ciò che affermiamo? Questa è la difficoltà che dobbiamo ora affrontare. Già vi ricorda che noi ci movemmo la questione, se le idee si formino dallo spirito nostro: e dall' osservazione accurata dell' atto che fa lo spirito quando si rende partecipe delle idee, conchiudemmo ch' egli non se le forma; che quell' atto ha natura di semplice visione, contemplazione, intuizione, come si vuol meglio denominarlo; e che perciò egli è tale che suppone esistere l' oggetto da intuirsi a quella stessa guisa che l' occhio suppone esistere gli oggetti che non crea; nè certo li potrebbe vedere se essi non fossero. Dunque ciò che volgarmente si dice la formazione delle idee , non può essere altro che un eccitamento ed una direzione data allo spirito, onde questo volgendo lo sguardo là dove conviene che il volga incomincia a vedere quell' idea che pria non vedeva, perchè colà nel modo debito non riguardava, e colà non potea riguardare, perchè questo colà non c' era ancora. Che cos' è questo colà, questo punto dove dovea riguardare? L' immagine. Dunque se gli esseri reali, i sentimenti, sono quelle cagioni onde la mente si muove a riguardare e a vedere l' idee, e il punto in cui lo sguardo si fissa, convien dire, che l' ajuto che prestano i sentimenti allo spirito umano nella formazione delle idee, non consista in altro se non nello stimolarlo e ajutarlo a quella operazione che gli bisogna affinchè possa vederle, non già affinchè le si formi. Ma poichè l' immagine è bensì il punto a cui si volge lo sguardo dell' intendimento, ma non è l' idea che l' intendimento vede con questo sguardo, dove sono dunque queste idee? Stanno esse sempre quasi appese innanzi allo spirito, sicchè eccitato che sia e diretto, le possa trovar collo sguardo interiore e vedere? Pare di no; almeno a prima giunta; poichè, se realmente gli stessero così dinnanzi schierate, gran fatto sarebbe ch' egli non ci potesse dar qualche occhiata, almeno per caso, senza bisogno de' sentimenti e delle immagini, massimamente trattandosi d' uno spirito già reso attivo e curioso indagatore della verità. Eppure un cieco può esser dotto quanto si voglia, poniamo il matematico Saunderson, può desiderare quant' egli voglia, può fare degli sforzi a sua possa; ma l' idea del colore non se la procaccierà, perchè gliene manca il senso. Che è dunque a dirsi? Noi non possiamo rispondere, se non meditiamo più addentro sulla natura delle idee; solo il concepirle meglio ci può dare speranza di sciogliere sì difficile questione. Poi il fatto nol possiamo negare, che quelle idee che rispondono ai reali sensibili, la mente umana non le ha giammai se non a condizione di aver prima sentito questi reali. Che cosa è dunque l' idea corrispondente a un reale sensibile? P. e. l' idea di un albero, di un bruto o di altro corpo qualsiasi? Raccogliamo sul fatto la nostra attenzione. Noi abbiamo veduto che nell' idea d' una cosa reale vi ha tutto ciò che nella cosa, ma in un modo diverso , in un modo ideale, nella sua possibilità. Dunque l' idea dell' albero, del bruto, dell' uomo non è altro che l' albero, il bruto, l' uomo possibile. Poniamo dunque, che un albero, un bruto, un uomo cadesse sotto i nostri sensi; come farà lo spirito ad innalzarsi alle loro idee? Egli è chiaro, che se lo spirito di cui si parla non fosse che meramente sensitivo, finirebbe ogni sua operazione nel senso dell' albero, del bruto, o dell' uomo, nè mai salirebbe fino alle loro idee. Ma dato ch' egli sia intelligente, ei dopo aver sentito l' albero, il bruto, l' uomo, può dire seco stesso: l' albero, il bruto, l' uomo che mi ferisce i sensi esiste; dunque è possibile: se l' albero, il bruto, l' uomo è possibile, dunque si possono avere indefiniti alberi e bruti e uomini. Questo è certo il ragionamento che fa la mente. Ma noi dobbiamo investigare, a quali condizioni possa la mente fare un tale ragionamento. Quando ella dice seco medesima: « quest' albero esiste », che cosa fa? Ella predica l' esistenza di ciò che opera nel suo sentimento e a cui poscia dà il nome di albero. Dunque è mestieri prima di tutto che ella sappia che cosa sia esistenza. Ma che cosa è esistenza? Un' idea, miei signori; sì un' idea, e perciò un universale. Ma come viene egli predicato questo universale di ciò che è particolare, di ciò che cade nel sentimento? Niuna ripugnanza a ciò quando sia ben chiarito che cosa significa un universale. Noi già lo vedemmo; egli significa una entità che può essere predicata di molti, d' innumerevoli particolari. Se può essere predicata di innumerevoli particolari, dunque anche di ciascuno; ed è in questo senso che si può dire che l' idea si particolarizza , che l' idea diventa particolare; diventa particolare perchè si lega ad un particolare, senza mai confondersi con esso. Ma dunque si predica ella un' idea dell' albero da noi sentito? In tal caso dicendo che l' albero esiste, verremmo a dire che egli è un' idea. No, anche qui c' è un errore simile al primo. Non è l' idea che si predica dell' albero, ma l' essenza che si vede nell' idea; si predica la realità , ma quella realità che nell' idea ha il suo tipo, la sua conoscenza, la sua intelligibilità: perocchè certo che non si potrebbe predicare la realità d' una cosa se non si conoscesse, nè si può conoscere la realità se non nell' idea. Ma fino che questa realità sta nell' idea, non si afferma ancora di niuna cosa, epperciò si dice che è meramente possibile. Ma quando lo spirito conoscendo la realità nell' idea vi aggiunge il suo atto dell' affermazione, allora è lo spirito stesso che dichiara, che quell' entità non è più solo possibile, ma sussiste: è questa affermazione che la fa conoscere come sussistente, mentre dapprima lo spirito non la conosceva che come ideale. Ma perchè lo spirito afferma, poniamo, un albero piuttosto che una colonna, una statua o altro ente qualunque? Da che lo spirito è determinato ad una affermazione più che ad un' altra? Dal sentimento, senza dubbio; è il sentimento , a cui egli applica l' idea di esistenza, e pronuncia l' affermazione esiste . Poichè se l' uomo non ricevesse alcun sentimento, egli si rimarrebbe inattivo, il suo spirito non farebbe alcun passo non avendo un termine che lo invitasse e dirigesse. L' affermazione, dico, dell' esistenza prende per subietto il sentimento o ciò che cade nel sentimento. Ora se in quest' atto ciò che viene affermato, è il sentimento nè più nè meno o ciò che è nel sentimento; dunque l' esistenza affermata non è più che l' esistenza del sentimento, non si stende oltre questo; riceve dunque da questo i suoi limiti, la sua determinazione. Ma se l' esistenza che lo spirito afferma del sentimento o di ciò che in lui cade, viene così limitata entro i confini del sentimento medesimo o di ciò che in lui cade, si dovrà egli dire, che quest' esistenza sia limitata anche precedentemente, anche prima che venga applicata dallo spirito al sentimento e che sia affermata di esso? Mai no. E che potrebbe mai limitar l' esistenza? Chi non vede che l' essenza di lei non ha confini, che si stende quanto il possibile, appunto perchè prima dell' affermazione , ella non è che l' essere possibile? Quindi noi possiamo argomentare che cosa l' affermazione presupponga, acciocchè sia possibile, e quindi possiamo conoscere come l' obbiezione che noi facemmo a noi stessi involga qualche cosa di vero, senza però che sia vera ed efficace l' obbiezione. E` vero che per affermare l' esistenza di un reale non c' è bisogno che nella nostra mente preesista l' idea così determinata e limitata come è determinato e limitato il reale: è vero che non ci bisogna l' idea speciale a cui il reale risponde; posciachè la determinazione di questa idea, i suoi confini, il suo modo, è fissato dalla quantità e dal modo del reale medesimo. Ma non è meno vero, che avanti l' affermazione deve esistere nella mente l' idea di esistenza indeterminata, senza modo, senza limite alcuno; perocchè altramente noi non potremmo predicare di lui l' esistenza, non potendosi predicare una cosa ignota di cui non s' abbia l' idea. Ciò posto, vedesi che l' obbiezione che ci facevamo non ha alcuna forza contro i nostri ragionamenti. Poichè questi tendevano a dimostrare, che il solo ideale è concepibile per sè stesso, che solo nell' idea consiste ogni intelligibilità del reale medesimo, il quale rimane oscuro se si separa dall' idea, e se si congiunge viene da essa illuminato; di che conchiudemmo, che noi non potevamo affermare, nè conoscere conseguentemente il reale, se non precedesse nel nostro spirito l' ideale. Solamente, affine di facilitare il discorso e di non involgere due questioni, noi supponevamo data a dirittura l' idea del reale determinata e compiuta. Data questa idea, l' affermazione del reale riusciva facile a intendersi. Dipoi facemmo un passo indietro, ed osservammo che non fa bisogno a dir vero all' affermazione, che in noi preesista l' idea determinata e precisa che al reale corrisponde; ma basta, che preesista l' idea indeterminata ed universalissima d' esistenza, rimanendo così ferma la conclusion nostra, che all' affermazione del reale dee preesistere l' idea nello spirito, e che questa è condizion necessaria all' affermazione, e non viceversa l' affermazione ad essa. Così le nostre ricerche hanno già fatto un passo di più; ci hanno condotti più avanti nella cognizione dell' ente ideale. Poichè da esse noi ora abbiamo questo risultato, che l' ente ideale si dee distinguere in due, cioè che c' è un ente ideale che precede necessariamente l' affermazione, e un ente ideale che s' intuisce in occasione dell' affermazione medesima; il primo è l' idea senza determinazioni, nè limiti, nè modi; il secondo abbraccia le idee limitate e determinate che più forse propriamente si dicono concetti . Ma queste due maniere d' idealità costituiscono propriamente un doppio essere ideale? No, miei signori, noi dobbiamo vederlo, meditandovi sopra attentamente, dobbiamo investigare il rapporto tra l' idea determinata e l' idea indeterminata; chè, senza di ciò, ci rimarrebbe ancora molto di oscuro nella natura dell' essere ideale che investighiamo, potremmo prendere degli equivoci dannosi alle nostre successive investigazioni. Qual' è dunque la differenza fra l' idea determinata dell' ente reale, e l' idea indeterminata? E` ella intrinseca questa differenza in modo che costituisca due idee fondamentalmente diverse, ovvero è accidentale? Ma come potrebbe essere accidentale, quando l' essere ideale è semplicissimo e non ammette accidenti di sorta alcuna? Quando un' idea, come abbiamo detto già, differisce dall' altra specificamente siccome i numeri? Sarà dunque intrinseca? Caderà nell' essenza medesima? Neppur questo è possibile; poichè se così fosse, noi non potremmo affermare l' essere reale se non avendo già nella mente l' idea sua propria determinata; non potremmo affermarlo colla sola idea indeterminata dell' esistenza, come pur noi facciamo, non potendosi predicare di uno stesso reale due essenze diverse. Qual' è dunque la relazione dell' idea determinata all' idea indeterminata? Riprendiamo la definizione che abbiamo data dell' atto dell' affermare. Noi abbiamo detto, che datoci un reale per via di sentimento, noi ci applichiamo l' esistenza quale la conosciamo nell' idea indeterminata, ma che non ve l' applichiamo se non tanto quanto il reale stesso è atto a riceverla; il che viene a dire, predichiamo del reale quella esistenza che egli ha e non più. In questa operazione dunque, sebbene l' esistenza da noi intuita e conosciuta nell' idea sia indeterminata e illimitata, tuttavia non l' applichiamo già al reale in tutta la sua estensione e infinità, non la predichiamo tutta del reale, ma solo quella parte che nel reale medesimo è attuata e sussistente, e così dicemmo che dal reale si limita e si determina. All' incontro quando noi abbiamo già precedentemente nello spirito nostro l' idea determinata che al reale esattamente risponde, e con essa lo affermiamo, allora noi gliela applichiamo tutta, perchè quest' idea determinata è commisurata appunto alla quantità e al modo del reale. Di qui si scorge che tanto se noi nell' affermazione del reale adoperiamo l' idea dell' esistenza indeterminata, quanto se adoperiamo l' idea determinata, predichiamo del reale la stessa quantità di esistenza, gli applichiamo un' idea perfettamente uguale, l' idea che a lui corrisponde. Quindi egli è al tutto indifferente che noi nell' atto dell' affermazione di un reale abbiamo nella mente l' idea determinata, e coll' uso e coll' applicazione di questa lo affermiamo, quanto se abbiamo solo nella mente l' idea indeterminata ed universale, non applicandola noi tutta e restandoci una parte di questa inoperosa e superflua all' operazione che facciamo. Così se noi volessimo comperare una pera che val due soldi, spenderemmo ugualmente se noi traessimo i due soldi da un borsino che altro che i due soldi non contiene, come se traessimo i due soldi da un monte immenso d' oro. Vero è che nel monte d' oro non troviamo i due soldi effettivi, non ne troviamo pure il valore limitato, perchè ci ha troppo più; ma noi possiamo nondimeno pigliarne una particella d' oro piccola quanto basta acciocchè non valga più che due soldi; contenendosi nel valor maggiore il minore. Ora i due soldi del borsino sono l' idea determinata di un reale, e il monte d' oro è l' idea indeterminata e al tutto universale. Laonde se affermare un reale che ci cade nel sentimento non è altro che prendere dall' essenza stessa dell' esistenza da noi intuita quella parte di esistenza che corrisponde al reale, quasi traendo un valor minore da un maggiore, dunque 1) ad affermare i reali non è mestieri che se n' abbiano già prima le idee determinate; 2) non avendole, si formano colla stessa affermazione, togliendo dall' esistenza ideale senza limiti quella porzione limitata che ci bisogna, la quale così diventa idea speciale o concetto; 3) quando questa idea già una volta si è formata, ella si torna ad applicare ai reali che tornano a caderci nel sentimento, senza però che cangi la sua natura, rimanendosi sempre ed ugualmente porzione, se così lice esprimersi, dell' esistenza intuita dalla mente senza modo e confine. Ma qui mi direte: non s' intende come dall' esistenza indeterminata se ne possa dividere, come voi dite, una cotal porzione per applicarla ai reali; giacchè l' idea dell' esistenza indeterminata è cosa al tutto semplicissima e non pare ammettere separazione di sorte. Ottimamente: la difficoltà si presenta alla mente; ma sapete voi perchè, miei signori? Per quella inclinazione che ha il nostro intelletto, e per quella abitudine di applicare al mondo ideale quei principj, quelle leggi che reggono il mondo materiale. Noi non concepiamo la divisione della materia se non mediante la sua composizione e moltiplicità, di modo che qualora prescindiamo dal moltiplice e dal composto non possiamo più concepire divisione alcuna. E certo non vi può essere divisione materiale; perchè la divisione materiale suppone disunione di parti materiali. Ma noi non parlavamo di cosa materiale, epperciò neppure di divisione materiale; parlavamo di divisione mentale, che è tutt' altro; la quale si può fare benissimo anche in ciò che è semplice in sè stesso. Pigliam pure un punto matematico: chi non dirà ch' egli è indivisibile? Certo è indivisibile se si parla di division materiale, perchè non ha parti; eppure la mente può trovarvi moltiplicità; ella può considerarlo a ragion d' esempio, come il centro di una sfera; ed ecco che in esso distingue tanti rapporti quanti sono i punti assegnabili nella sfera medesima. Se si tirano altrettante linee dalla superficie al centro, lo stesso punto è il termine di tutte queste linee, e la mente quando il considera come termine di una linea, nol considera come termine di un' altra linea. Prendiamo ad esempio lo stesso monte d' oro e i due soldi di cui abbiamo fatto menzione. L' oro come vedete è un metallo semplice, e i due soldi sono rame. Sminuzzate l' oro quanto volete, niuna particella dell' oro sarà mai rame, non diverrà mai i due soldi di rame, come potrebbe essere quando l' oro fosse misto di rame e di altra sostanza. Dunque se prendiamo la cosa materialmente, per quanto oro abbiamo, non avremo mai il rame. Ma prendiamola spiritualmente e mentalmente, paragoniamo il valore . Il valore è un essere della mente, non è nè oro nè rame; e perciò dividendo l' oro in minuti pezzetti, noi troviamo il valore di due soldi di rame, non effettivo ma nel suo essere mentale di valore; perchè questo è divisibile anche quando la sostanza materiale è semplice. Ma lasciando anco da parte tutti gli esempj, noi intenderemo la cosa in se stessa considerandola attentamente. Che cosa è l' affermazione di un reale? E` certamente un atto della mente nostra; è la mente nostra, il nostro spirito che accoppia nella sua unità il reale coll' ideale corrispondente. Accoppiare l' ideale corrispondente al reale non è che intuire l' essenza dell' esistenza nel reale. Ora noi abbiamo detto che lo spirito quando intuisce le essenze non le produce. Diciamo ora al contrario, quando non le intuisce non le distrugge: se è vera la prima proposizione, deve essere vera anche questa seconda - . Ma egli può intuirle e non intuirle, e le idee restano le stesse. Se dunque lo spirito limita il suo sguardo che volge al mondo ideale, non ne vien mica che ne distrugga una parte, e nemmeno che ne separi una parte da tutto il resto. Poniamo che rimirando un bel quadro noi restringessimo l' attenzione ad un piede di qualche figura, rimirando attentamente coll' occhio quanto è ben disegnato e condotto: ne verrebbe forse che il nostro occhio separasse il piede da tutto il quadro? Facciamo che si tratti di persona vivente; tosto si vedrà, che per quanto il piede solo si guardi, non si separa dal corpo, poichè altramente impallidirebbe e morrebbe. Ma no, è vivo e continua a partecipare di quella vita che costituisce un' unità semplicissima. Noi consideriamo questa vita nel solo piede, benchè ella sia semplice e come tale operi in tutto il resto del corpo. Tale dunque è la natura degli enti spirituali ed ideali, che quantunque semplicissimi contengono tuttavia innumerevoli cose che si possono dall' attenzione dello spirito mentalmente distinguere e contemplare in separato dal tutto, onde Platone diceva che l' uno è sempre accompagnato da' più, e non può star solo. E chi non sa che in un principio della mente si contengono innumerevoli conseguenze, che possono essere l' una dall' altra dedotte e distinte? Pigliate il principio semplicissimo che « due cose uguali ad una terza sono uguali tra di loro »; e poi date mano ad Euclide ed osservate quante belle verità egli sappia cavar fuori da questo semplicissimo principio. Tutte vi erano contenute; ma non tutte le menti ce le sapevano vedere distintamente; e vi so dire che ce ne sono delle altre, che gli uomini non ci hanno veduto ancora; perocchè la fecondità di un principio di ragione qualsiasi è infinita. Ora mi dite, qual cosa più semplice di un principio? E un principio di ragione non è finalmente altro che un' idea che si applica, come avremo occasione di vedere. Ne' principj dunque sono contenute implicitamente infinite conseguenze prima ancora che altri le derivi da essi esplicitamente. Ma che vuol dir questo implicitamente? Vuol dire che le conseguenze ci sono, ma che la mente ancora non ce le vede; esprime una relazione allo stato più o meno attivo, più o meno eccitato, della mente stessa. Onde quando la mente in occasione di applicare il principio trova la conseguenza, questa si dice essersi resa esplicita . Dunque negli esseri ideali possono vedersi dalla mente moltissime cose e distinguersi moltissime entità ideali, senza che questa moltiplicità tolga punto nè diminuisca la semplicità del primitivo essere ideale in cui si ravvisano. Niuna maraviglia dunque che contemplando il nostro spirito l' essenza dell' essere semplicissimo, egli tuttavia applicandola al reale sensibile la divida per così dire mentalmente e la spezzi, accorgendosi che in ciascun reale non è già realizzata e attuata tutta l' infinita virtù dell' essenza dell' essere, ma che questa essenza è realizzata parzialmente in un certo modo, con certi limiti. Di ciò non ne viene che resti veramente squarciata e divisa quell' essenza medesima. Ciò che resta diviso è l' essere reale finito, poichè questo è moltiplice, cioè sussistono innumerevoli esseri reali tutti finiti; il che è quanto dire che niuno d' essi esaurisce l' essenza dell' essere, ma solo ne attigne in parte. Questo è ciò che riconosce la mente, e riconoscendolo limita, non l' essenza dell' essere, ma l' atto suo proprio, limita quest' atto al reale che vuol giudicare e affermare, commisurandolo all' essenza universale. E qui troviamo aperta la via per conoscere viemmeglio in che consista la determinazione dell' essere universale e la sua limitazione. Infatti da ciò che dicevamo risulta chiaramente, che questa determinazione e limitazione si fa per via di rapporto , rapportandosi cioè dallo spirito il reale sensibile all' essere indeterminato, come un caso particolare di cui si giudica si riporta ad un principio. Se non piace questa maniera quasi che noi potessimo trasportare il sensibile nell' intelligibile, dicasi al contrario, che è più esatto, dicasi che si riporta l' essere universale al sensibile particolare; giacchè se il sensibile particolare è legato al luogo e al tempo per modo da non potersi trasferire altrove, l' essere universale non è legato, nè a modo nè a tempo, epperò si può applicare quando che sia e dove che sia a tutto ciò che ha o non ha tempo e spazio, senza che per questo sia trasportato da luogo a luogo. Ora se tra il reale sensibile e l' essere in universale l' unità dello spirito nostro vi coglie il rapporto, tosto s' intende in che modo dicasi che il reale sensibile limita e determina l' essere universale. Per chiarire ancor più la cosa con una similitudine, immaginiamo un gran triangolo superficiale e poniamo sopra di lui una piccola figura quadrata; combaciandosi queste due figure noi possiamo osservarne il rapporto, e da questo rapporto troviamo, che il piccolo quadrato applicato al gran triangolo determina nel triangolo stesso una piccola figura quadrata. Ora questa determinazione non è che di rapporto, non fa che assegnare nella superficie triangolare i punti che corrispondono alla superficie del piccolo quadrato. Ma che perciò? Viene forse immutato per questo il triangolo? Non si rimane il triangolo di prima? Soffre egli alcuna passione? Non è egli semplice, semplicissimo, giacchè si suppone continuo e meramente superficiale? Sì, rimane semplice e quello di prima, e tuttavia la mente nostra ha disegnato in esso col pensiero un quadratino e se l' ha disegnato mediante il rapporto ch' ella prese a contemplare tra una piccola figura quadrata e lui. La natura di rapporto è estranea alla figura del triangolo, e tuttavia la mente può fare una proposizione e dire: « questo quadratino partecipa della tal porzione del triangolo; e a questo quadratino rispondono i tali e tali punti assegnabili nel triangolo ». E` tutta opera della mente la quale non guasta punto nè il triangolo nè il quadrato, ma lascia l' uno e l' altro quello che è in se stesso. Ora il gran triangolo è l' essere universale intuito senza limitazione dalla mente: quest' essere universale viene nello spirito semplicissimo dell' uomo a sopraporsi, per così dire, al reale sensibile; lo spirito dell' uomo ne osserva il rapporto e nell' essere universale fissa colla sua attenzione que' punti di essere che s' identificano col reale. Ed ecco l' idea speciale bella e trovata - . Ella non differisce dunque nella sua essenza dall' idea dell' essere universale; è quella stessa idea, ma veduta dalla mente con uno sguardo che non l' abbraccia tutta , ma che si contiene e limita a veder quella parte che risponde al reale sensibile; e questa limitazione non è propriamente limitazione dell' essere ideale, ma è limitazione di rapporto e perciò estrinseca, è limitazione che altro non dice, se non che l' idea dell' essere universale a far conoscere l' essere particolare e sensibile non abbisogna di tutta la luce sua proria, ma dirò così di un solo raggio; è limitazione formata dalla mente che limita sè stessa, limita il suo sguardo, perchè con esso vuole ottenere la cognizione di un ente reale particolare e limitato e non più. Quindi distinguasi nelle idee speciali due elementi: 1) l' elemento che fa sì che esse siano idee, e in tanto sono identiche all' idea dell' essere universale; 2) il loro limite o determinazione, e in tanto non sono identiche all' essere universale, perchè ne escludono una parte; ed è questo secondo elemento (che si può dire negativo), che è posto dallo spirito intuente, ed è posto dallo spirito secondo il limite e il modo dell' ente reale e sensibile di cui ha sperienza, ossia dell' immagine. Egli è per questo che si può dire con tutta proprietà, che un' idea sola esista; ma quest' idea sola viene applicata più e più volte dallo spirito, e ad enti diversi, e secondo queste applicazioni diverse sembra che ella si moltiplichi, e acquista diversi nomi, onde volgarmente si crede esservi molte idee, mentre altro non v' ha che molti rapporti, molte limitazioni di rapporto, che è quanto dire relazioni con molti enti limitati. Vi farà forse qualche maraviglia, o signori, che io abbia detto che ogni idea speciale, in quant' è idea , s' identifica coll' idea universale dell' essere: poichè ciò che s' identifica sembra non poter più ammettere distinzione alcuna. Ma questo sarebbe prendere una sola parte della verità che abbiamo esposta, non prenderla tutta intera; chè noi non dicevamo già che l' idea speciale si identifichi sotto tutti i rispetti , ma solo in quanto ella è idea; ed ella non si può dir già idea in quanto ella è limitata, giacchè il limite della cosa non forma la cosa, anzi fa che la cosa ivi finisca di essere. Ora rispetto a queste limitazioni, noi dicevamo che ella non s' identifica punto, anzi si distingue, come il negativo non s' identifica col positivo, di cui è anzi l' opposto. S' identifica dunque in quanto è idea; e questo non ha difficoltà di sorte per chi considera che allo stesso modo le conseguenze si identificano co' principj. Notate bene s' identificano di natura , non di quantità . La virtù del principio resta sempre molto maggiore, e tuttavia si trasfonde in ciascuna conseguenza senza mai esaurirsi: è dunque una identificazione parziale. Avvertite che il nostro discorso versa nella sfera delle idee, e però è acconcissimo l' esempio de' principj e delle conseguenze; piuttosto che un esempio è anzi la cosa stessa detta in altro modo, ma in un modo che dee riescire più chiaro a fare intendere a tutti, che qui trattasi di un fatto innegabile se pure non si vuol negare, che la conseguenza è lo stesso identico principio applicato al caso. Volete rivestito il medesimo vero di sensibile realità? Distinguete nelle cose reali l' essenza loro dalle loro quantità . Due cose, che in quanto alla sostanza sono identiche, differiscono di quantità: così l' acqua di un bicchiero e l' acqua d' un fiume è acqua ugualmente; nell' essenza che costituisce l' acqua non differiscono punto, ma la quantità e la realità loro differiscono. Dicevo che qui abbiamo il vero di sopra enunciato vestito quasi di sensibile realità; perocchè anche in questo esempio l' identità che si scorge tra l' acqua e l' acqua è identità d' idea, è identità di essenza dalla mente intuita, la quale si realizza ugualmente sì nell' acqua del bicchiero e sì nell' acqua del fiume. Riassumiamoci, miei signori; l' affermazione del reale sensibile dimanda dinanzi a sè un ideale; ma questo può essere ugualmente l' idea specifica del reale, o l' idea dell' essere universale. Dimanda un ideale, perchè il solo ideale fa conoscere ciò che si afferma e non si può affermare se non ciò che si conosce. Se avanti l' affermazione esiste nelle menti nostre l' idea speciale, quest' idea dee la sua origine ad un' altra affermazione precedente che applicò altre volte allo stesso essere reale l' idea universalissima, che prima di tutte nella mente risplende. Se l' idea speciale dee la sua origine alla prima affermazione che abbiamo fatto di un dato ente reale, in questo senso ella si può dire prodotta; ma se si considera ciò che ha di positivo l' idea speciale, se si considera ciò ch' ella ha d' identico coll' idea universalissima, ella non si può dire nè prodotta nè formata, ma semplicemente intuita . Ciò che è prodotto in essa dall' atto della mente sono i suoi limiti, il suo modo, la sua determinazione. E tutto ciò conferma vie meglio quello che c' eravam proposto di dimostrare, che il solo essere ideale è intelligibile per se stesso, mentre il reale è intelligibile per la congiunzione coll' ideale. Noi abbiamo dissipate le difficoltà che si opponevano a questa conclusione; l' abbiamo pienamente stabilita; non abbiamo spesa dunque indarno la fatica nelle nostre ricerche. Ma una questione ne trae un' altra. Qui da se stessa ci si presenta la domanda: se coll' affermazione noi ci procacciamo la conoscenza del reale, ond' è poi che anche passata l' affermazione questa conoscenza ci rimane? Se rimane dopo l' affermazione, dunque tale conoscenza non è legata indivisibilmente a quest' atto momentaneo dello spirito. Che cosa è dunque la cognizione del reale che resta in noi dopo l' affermazione? Ecco ciò che formerà l' argomento della seguente lezione. Che cosa è la cognizione del reale, che rimane in noi dopo l' affermazione? Tale fu la questione che noi abbiam proposta in sulla fine della precedente lezione e che abbiam lasciata insoluta. Dobbiamo occuparcene in questa; e per farlo a dovere dobbiamo considerar prima ben a fondo la natura della questione stessa, e misurarne tutta la difficoltà. Avviene spesse volte, miei signori, che si presentino allo spirito nostro questioni filosofiche che sembrano facilissime a risolversi. Ma è da diffidare assai di tale apparente facilità; perchè inganna assai di sovente, inganna anche di quelli che s' applicano agli studj della Filosofia, onde avviene che con tutta prontezza e confidenza rispondendo alla questione, prendono de' gravissimi abbagli. Tali sono per lo più que' filosofi, i quali riscuotono lode di gran chiarezza, e i loro libri hanno una quantità di lettori i quali si persuadono d' imparare assai, perchè apprendono con poca fatica delle pretese soluzioni de' più difficili quesiti, che altro veramente non fanno che coprire ai loro occhi la difficoltà, il vero nodo delle questioni. All' incontro il prudente e savio studioso della Filosofia reputa d' aver fatto un avanzamento grande, quando è pervenuto a ben sentire tutta la difficoltà della questione che si è proposta, e gode di trovarsi oltremodo imbarazzato nel risolverla. Sì, o signori, è meglio assai essere imbarazzato nelle difficoltà, che non vederle, o non sentirne la forza. Noi dunque non ricuseremo d' entrare per dir così nel gineprajo della proposta questione; ed avvertite, che quanto più sapremo imbarazzare noi stessi, tanto più avremo profittato, massime se ci riuscirà poscia di cavarci felicemente dallo stesso imbarazzo. Che cosa è dunque la conoscenza del reale, che rimane in noi dopo l' affermazione? L' affermazione, la prima affermazione d' un reale sembra facile ad intendersi, perchè il reale è presente e ferisce i nostri sensi, e più in generale, cade nel nostro sentimento. Ma quando il reale non ci è più presente, non è più nel nostro sentimento, come ci possiamo noi pensare ancora? Il fatto è certamente innegabile: ritornati dal viaggio che abbiam fatto alla capitale, non possiamo noi pensare ancora alla città visitata e alle cose in essa vedute? Come dunque si spiega questo fatto? Il filosofo superficiale, a dir vero, non se ne affanna molto: è chiaro, vi dice, noi ne conserviamo la memoria, e ci pensiamo mediante questa facoltà del ricordarci. Ottimamente; certo non siam qui noi per negarlo. Questo non è ancora che il fatto stesso, di cui parlavamo: il fatto, dico, che pensiamo al reale già veduto e sentito anche dopo che nol vediam più e nol sentiam più; e che quindi ne abbiamo la facoltà, la quale si chiama, e si può benissimo chiamar memoria . Noi cercavamo la spiegazione di questo fatto; cercavamo come si possa spiegare appunto la memoria de' reali quando essi non ci sono oggimai più presenti - . Il filosofo superficiale ci replica: E che? Non sapete voi, che sebbene il reale non sia più presente ai vostri sensorj, tuttavia la percezione che ne avete avuto, ha lasciato in voi certe reliquie, ve ne sono rimaste le idee? Ora per mezzo di queste reliquie o vestigj, e idee che sono rimaste nella vostra mente, e che rappresentano i reali percepiti, voi potete benissimo pensare e parlare ancor del reale - Ma qui si confondono insieme due cose; si parla d' idee, e di vestigj della percezione. O l' uno o l' altro; o si pensa al reale per le idee che ne sono rimaste, o pei vestigj che ne ha ritenuto il senso o la fantasia, o per gli uni e l' altre. In quanto alle idee, sia pure che ci rimangano; ma le idee, le sole idee, noi l' abbiamo veduto, non bastano a farci pensare al reale; chè il reale nel suo proprio atto è fuori dell' idea, e non si può confondere colla idea; noi ne l' abbiamo già distinto; abbiamo già veduto, che il senso comune lo distingue, e che i filosofi che pretendono che anche ciò che s' intuisce nell' idea sia reale, di maniera che altro non ci abbia che la sola realtà, hanno torto marcio e il senso comune ha ragione. Dunque non bastano certo le idee affinchè noi pensiamo ai reali assenti e lontani dai nostri sensi. Restano i segni, i vestigj che ha lasciato in noi, nel nostro senso, nella nostra immaginazione il reale percepito. Sia dunque che noi ne abbiamo memoria, che li conserviamo in qualche parte dell' anima; sia pure che le immagini del reale percepito restino in noi fedelissime. Basteranno queste sole a farci pensare al reale? I nostri filosofi non ne dubitano: ma in che modo? - E non vedete, essi ci dicono, che le immagini delle cose vedute sono quelle che le rappresentano e le rappresentano fedelmente? Non è egli chiaro che avendo il rappresentante nella mente si può benissimo conoscere il rappresentato? - Confesso che io non vedo tutta questa chiarezza di luce; perocchè io domando alla mia volta: quando io penso e parlo della città di Firenze o di Roma da me veduta, il mio pensiero e il mio discorso ha per suo oggetto i vestigj e le immagini di queste città che sono rimaste nella mia mente, ovvero termina in queste città reali al presente da me distanti quattro o cinquecento miglia? - E che? vorreste voi avere nella vostra testa intiera la città reale di Roma, la città reale di Firenze? Quale assurdo! La vostra testa che non ha che un palmo di diametro, conterrà e palagj e chiese e piazze e monumenti reali quanti ve ne sono nelle due città nominate? - Appunto perchè ciò è un grande assurdo, e perchè nel mio cervello non vi possono essere tutto al più che de' piccolissimi vestigj di queste moli sì grandi, io trovo difficilissimo a spiegare come io possa pensare ad esse e parlare di esse - Ma non è propriamente ad esse che voi pensiate e di cui parliate: l' oggetto immediato del vostro pensiero e del vostro discorso sono le immagini che si conservano nella vostra testa. E che stranezza è mai questa di credere, che ora che non sono a voi nè pur presenti quelle grandi città, pensiate ad esse proprio in se stesse? Voi veramente parlando non pensate e non parlate che delle vostre immagini; ma credete di parlar di esse, perchè queste immagini ve le rappresentano - Rispetto le vostre osservazioni, miei riveriti maestri, ma perdonate se io bramo che mi sciogliate con tutta pazienza le difficoltà che forse pel mio poco sapere mi rinascono continuamente. Prima di tutto è necessario che noi andiamo ben d' accordo sul fatto che si tratta di spiegare. Noi avevamo proposto fin da principio la domanda « come si possano pensare i reali quando essi non cadono più nella nostra percezione ». Voi avevate tolto l' impresa di spiegare questo fatto, ed ora ce lo negate invece di spiegarcelo; poichè ci dite, che non è vero che noi pensiamo o parliamo de' reali, ma che il nostro pensiero ed il nostro discorso non ha per suo oggetto che immagini e rappresentazioni de' reali che sono rimaste nella nostra fantasia - Certo che noi diciamo questo; ma lo diciamo perchè è un assurdo patentissimo dire il contrario; giacchè il reale stesso non avendolo più presente, non potete più vederlo nè sentirlo, e però forza è che conveniate, che altro non vi rimane di lui se non le immagini e i vestigj che vi ha lasciati, e su questi voi pensate e ragionate; ma poichè questi rappresentano il reale voi credete di pensare e ragionare sul reale stesso - Questa mia credenza è dunque un' illusione che m' inganna - Non è un' illusione pel filosofo, che sa ben distinguere le immagini che son rimaste nella mente sua, dal reale che esse rappresentano; ma è un' illusione pel comune degli uomini, i quali confondono il rappresentante col rappresentato, l' immagine della cosa colla cosa: la Filosofia s' innalza sul volgo e si libera da tali illusioni - Veramente mi duole che tutto il mondo s' inganni; ma per me io non saprei separarmi da tutto il mondo per unirmi al vostro sentimento. A me ripugna il dire che tutto il mondo sia in un continuo errore, del quale parteciperebbero senza accorgersi i Filosofi stessi - In che modo? - Badate un poco, quando voi che siete filosofo raccontate che la città di Firenze ha tante miglia di circuito, che ella ha tanti palazzi di pietra, tante Chiese, conta tanta popolazione; se non parlaste che d' immagini, ingannereste la gente; perocchè voi verreste a dire che la città di Firenze è tutta composta d' immagini. Ora vi par egli che le immagini siano pietra, legno, ferro, bronzo, oro, argento di cui pure la città di Firenze si compone? O che parlate dunque narrando le cose vedute della pietra, del ferro, del bronzo, del legno reale, di cui realmente Firenze si compone, o che voi parlate di una vostra fantasmagoria che tutta si contiene nel vostro cervello, e che però non sarà mai la vera Firenze; e se la prenderete per la vera Firenze, e la vorrete far creder tale a quelli con cui parlate, voi avrete prima ingannato voi stesso, e poscia vi affaticherete ad ingannare gli altri - Voi non capite nulla del nostro pensiero; noi diciamo che sono le immagini di Firenze e delle cose vedute in essa l' oggetto della nostra mente; ma diciamo in pari tempo che queste rappresentano Firenze reale, e perciò per mezzo di esse e noi veramente conosciamo e facciamo altrui conoscere veramente le cose reali che abbiamo percepite, quando eravamo in Firenze - Ma ora io non vi domandavo ancora come pensiate al reale; io volevo prima di tutto, che fosse deciso il fatto, se ci pensate o no: dopochè saremo d' accordo sul fatto vedremo se la vostra maniera di spiegarlo per via d' immagine sia sufficiente. Ora voi mi dicevate pur ora che per mezzo delle immagini pensate alla vera Firenze qual' ella è in realtà, non nella mente nostra, ma in Val d' Arno, le 400 o più miglia da qui distante. Qui non c' è una strada di mezzo, o che il vostro pensiero e il vostro discorso si ferma alle sole immagini di Firenze, o che va a terminare alla vera e reale Firenze; scegliete dunque come vi piace - Come capite male le cose! Sicuro, che finalmente io penso e parlo di Firenze reale, ma io ci penso e ne parlo per via d' immagini a quella stessa maniera come quando si vede un bel ritratto e si dice: « è il tale »si parla della persona che il ritratto rappresenta, benchè il ritratto che si ha presente non sia la persona reale - Bene sta: noi siamo dunque d' accordo sul fatto che finalmente il pensiero ed il discorso nostro termina in quella Firenze reale, che noi abbiamo tempo fa percepita - Sì; ma resta sempre vero che per pensare a Firenze io non ho bisogno d' altro che delle immagini che me la rappresentano, e così è spiegato il fatto che voi trovate inesplicabile - Io non dico che sia inesplicabile, ma dico che ci ha delle difficoltà, ed eccovene una. Se per mezzo delle immagini di Firenze voi pensate alla vera Firenze, egli è necessario che si avverino più condizioni: 1) che le immagini di cui fate uso vi rappresentino veramente Firenze, e le cose in essa vedute; 2) che voi sappiate e siate persuaso che quelle immagini rappresentano, e rappresentano fedelmente la Firenze reale - Certamente, e qual difficoltà potete voi trovare in ciò? - Primieramente, affinchè io sappia che una cosa me ne rappresenta un' altra fedelmente, io devo già sapere, che c' è quest' altra cosa rappresentata, e devo confrontare il rappresentante col rappresentato e rilevarne il rapporto di somiglianza. A ragion d' esempio: se noi vedessimo una pittura, o per meglio dire, vedessimo de' colori variamente distribuiti sopra una superficie, e non avessimo mai veduto nè avuto la minima cognizione dell' oggetto che quei colori rappresentano, potremmo noi sapere che quei colori rappresentano qualche cosa? Vedremmo de' colori, egli è vero, cogli occhi nostri; ma non ci potrebbe mai venire in capo, che quei colori siano un' immagine , sieno rappresentanti un oggetto; perocchè di questo oggetto non ne avremmo sentore alcuno. Ma se conoscessimo già l' oggetto, allora paragoneremmo le fattezze dell' oggetto a quei colori; e troveremmo tra le une e gli altri piena somiglianza, ed allora conchiuderemmo che quei colori sono il ritratto o l' immagine di quell' oggetto. Applichiamo dunque lo stesso discorso alle immagini fantastiche. Come possiamo noi sapere che le immagini che sono nella nostra fantasia siano altrettante rappresentazioni , e rappresentino Firenze piuttosto che qualsiasi altro oggetto, e la rappresentino fedelmente? In niun' altra guisa se non supponendo che la Firenze reale, che è il rappresentato, ci sia prima cognito, che quindi noi riscontriamo la somiglianza tra la Firenze reale e l' immagine che è nella mente nostra. Solo così possiamo persuaderci che le dette immagini non sono mere sensioni , ma sono sensioni rappresentative della Firenze reale. Acciocchè dunque le immagini ci possano prestare il servigio di far sì che il nostro spirito pensi in esse alla Firenze reale e di essa favelli, è mestieri che si supponga già conosciuta da noi la Firenze reale, indipendentemente dalle immagini, è mestieri che la Firenze reale si conosca nel momento presente, ed è questa cognizione della Firenze reale che ha virtù di rendere le immagini rappresentative . Onde non sono le immagini quelle che ci fanno pensare alla Firenze reale, ma è il pensiero della Firenze reale, che produce e informa le immagini vive, che ci fa prendere per immagini o rappresentazioni di Firenze quelle che altramente sarebbero mere sensioni interne spoglie al tutto d' ogni virtù rappresentativa. Voi vedete, miei signori, che la difficoltà non è piccola, e che que' filosofi, e son pur molti, che si avvisano di spiegare la cognizione de' reali che rimane in noi dopo la percezione, unicamente per via delle immagini della cosa, rimasta impressa nel nostro cervello, non la spiegano veramente, ma la suppongono come data precedentemente; e davvero che allora la spiegazione non è più difficile, o piuttosto cessa di essere spiegazione; è il sofisma della forma: idem per idem . Come dunque ci trarremo noi dall' imbarazzo? V' ho da dire, o signori, che l' imbarazzo non è ancora compiuto? Abbiate pazienza: noi dobbiamo rendercelo ancor maggiore: noi dobbiamo trasportare la difficoltà delle immagini alla percezione stessa. Facciam conto dunque d' essere in questo istante a Firenze, di vedere cogli occhi nostri le ampie vie e le chiese e i palagi e le gallerie e i musei, e di sperimentare tutto ciò che vi ha di sensibile in quella vaga città coi nostri cinque sensi esteriori. E che perciò? Si pretende forse che tutte le grandi moli di Firenze siano entrate nel nostro cervello colla loro realità? Non siamo noi nello stesso imbroglio quantunque abbiamo i reali presenti? Che altro mai abbiamo noi ricevuto, o riceviamo in noi dalla realità di Firenze, se non sensazioni? Ma le sensazioni nostre non sono per fermo le realità esteriori delle contrade, delle piazze, del fiume e di tutto ciò che colà esiste. Convien dunque ascendere a vedere in che modo noi percepiamo le realità esteriori per mezzo del nostro senso. Veramente non m' è possibile entrare in questa lezione a spiegare come nasca la percezione sensitiva , questa m' è d' uopo supporla o riservarla ad argomento d' un' altra lezione. Ma m' è necessario qui d' accennare, che la realità esterna cade nel nostro sentimento colla sua azione, immutando appunto il nostro abituale sentimento con violenza, cioè con una forza diversa dalla nostra propria; onde l' esser noi consapevoli che non siamo noi stessi quelli che modificano lo stato del nostro sentimento, e tuttavia il sentirlo modificato, ci fa distinguere un diverso da noi, che è appunto la realità esterna. Ma questa modificazione del tenore abituale del nostro sentimento per sè sola presa non contiene la cognizione della realità. Questa cognizione, noi l' abbiamo veduto nelle lezioni precedenti, non incomincia se non a quel momento in cui il nostro spirito intelligente afferma la forza reale che ci modifica. Convien dunque che restringiamo tutta la nostra meditazione a intendere ancor meglio che cosa sia quest' affermazione , e che cosa in noi produca. Noi abbiam detto, che quando affermiamo qualche cosa sensibile, come è appunto la forza che modifica il nostro sentimento, noi predichiamo l' esistenza di questa cosa, e così predichiamo ed affermiamo una cosa conosciuta già nell' idea. S' attenda bene; la realità si conosce prima nell' idea, cioè si conosce la sua essenza, ma non si sa colla sola idea, se questa essenza che si conosce sussista o no. Quando noi la sentiamo, allora è il momento che cessa il nostro dubbio, e mentre prima dicevamo tra noi stessi: può e non può essere, può sussistere e non sussistere (il che è lo stesso che conoscere la possibilità della sussistenza della cosa) ora delle due proposizioni sussiste e non sussiste, affermiamo la prima; il che è quanto dire, che l' affermazione niente altro aggiunge alla nostra cognizione precedente, se non un sì, e un no . Affermare è dire sì; questo monosillabo esprime tutto ciò che facciamo di nuovo nell' affermazione: la cosa che è l' oggetto dell' affermazione s' intuisce e conosce già nell' idea, s' intuisce la possibilità del suo sussistere; non rimane dunque altro, se non che lo spirito sia mosso da un impulso qualsiasi a pronunciare: sì, sussiste; delle due proposizioni possibili è vera l' affermativa e non la negativa. L' affermazione dunque è un assenso dell' animo, è un assenso per cui l' animo pone se stesso in uno stato diverso dal primo; si rende affermante, mentre prima non era. Che cosa è dunque la cognizione del reale? Niente altro, se non un nuovo stato dell' animo nostro, uno stato prodotto da quell' atto suo proprio, che abbiamo espresso col monosillabo: sì . Ora a che si riferisce quest' atto? A quella realità che era prima nell' idea; ma che non ci era affermata, ci era solo possibile. Dove sta dunque la difficoltà? La difficoltà può stare in uno di questi due punti: o nello spiegare come nell' idea stia la realità possibile, o nello spiegare come l' animo dica sì, cioè si persuada che quella realità è . Ma in quanto al primo punto noi abbiamo veduto nelle precedenti lezioni, esser questo un fatto primitivo ed evidente, che nell' idea ci ha tutto ciò che la cosa reale contiene, solamente che l' animo nostro non sa ancora se quella realità sia o non sia, cioè sussista o possa solamente sussistere. Dunque rimane a spiegarsi, onde lo spirito nostro s' induca a giudicare che sussiste. Ma anche questo fu da noi dichiarato, essendo già riconosciuto che la passione che noi soffriamo d' un agente diverso da noi c' induce a questo, e che la semplicità ed unità nostra propria è il luogo, per così dire, dove si raffrontano e s' uniscono l' idea ed il sentimento, onde in questo trova la mente ciò che prima vedeva in quella o esplicitamente o implicitamente. Ed è qui che comincia, miei signori, a risplendere qualche raggio di luce; è qui che s' apre la porta onde uscire dal labirinto, dove ci eravamo volontariamente perduti. Perocchè quelle stesse considerazioni che valgono a farci intendere come accada la percezione dei reali, possono servirci ottimamente, se noi vogliamo esser coerenti con noi medesimi, a farci intendere come la cognizione de' reali possa sussistere in noi, anche cessata la percezione medesima. E veramente l' affermazione de' reali non è già un atto con cui l' anima esca, quasi direbbesi, materialmente da se stessa, come la palla esce dal fucile e va a colpire l' oggetto. Conviene spogliarsi intieramente di queste immagini materiali, è uopo non volere intendere le operazioni dell' anima per alcuna similitudine tratta dalle operazioni de' corpi. L' affermazione è un atto interno dell' anima, col quale ella costituisce se stessa in uno stato di persuasione, che esista quel reale che conosce nell' idea e per l' idea; è in una parola quel sì, che pronuncia al dubbio che si propone se esista o no. Poichè la possibilità del reale presentata dall' idea involge questo dubbio; benchè non vi sia formulato, nè in parole espresso. Che cosa adunque fa la presenza del reale ai nostri sensi? In prima cagiona la percezione sensitiva. E che fa poi la percezion sensitiva? Provoca lo spirito nostro a pronunziare quel sì, col quale egli afferma. Ma quando questo sì fu già pronunciato, non ci ha più bisogno della presenza del reale a provocarlo. Basta che questo sì pronunziato una volta si conservi in noi; basta che si conservi in noi la disposizione che egli vi ha prodotto, la persuasione voglio dire, che esiste il reale, per l' idea conosciuto come possibile. Ora questa persuasione, questo stato dell' animo , di natura sua si conserva come tutte le altre persuasioni, come tutti gli altri stati e abiti dell' animo nostro. La cognizione dunque dell' esistenza del reale, che non è più presente ai nostri sensi, rientra nelle leggi universali, secondo le quali l' anima conserva più o meno i suoi stati. Egli è chiaro, che l' anima stessa essendo durevole, dura in quello stato in cui si mette fino a tanto che qualche nuova cagione, influendo su di lei, non viene a mutarglielo. Perocchè come ci bisogna una causa a produrlo, così ci bisogna una causa a distruggerlo; nulla mai avvenendo di nuovo senza cagione, pel principio di causa. Vero è che la persuasione acquistata dell' esistenza del reale può venire gradatamente svanendo e scancellandosi al tutto, e questo è il caso appunto della dimenticanza, ed avviene per varie cagioni che non è qui il luogo d' annoverare. Vero è ancora, che la persuasione una volta acquistata dell' esistenza d' un reale è inerente all' animo nostro alla foggia degli abiti, che sono quasi nuove potenze che acquista l' anima, mediante i quali ella può ripetere o ripristinare gli atti fatti altra volta. Ma tutto ciò non fa nascere difficoltà alcuna alla nostra conclusione. Solamente rimarrà a trattarsi a tempo opportuno la teoria generale degli abiti, che ora qui dobbiamo supporre. Così rimane presso che sciolta la difficoltà - Ma dunque, voi mi direte, le immagini dei reali veduti non rimangono elleno nel nostro spirito e non suppliscono alle sensioni che avemmo durante la percezione? Non entrano esse per nulla a costituire la cognizione che ci rimane dei reali, dopo rimossi questi dai nostri sensi? - Sì, anche le immagini che rimangono nel nostro spirito entrano in parte a formare la cognizione nostra de' reali assenti. Ma si deve accuratissimamente distinguere quella parte che ha nella detta cognizione il sì da noi pronunciato, che lascia in noi uno stato di persuasione permanente, e quella parte che nella detta cognizione hanno le immagini in noi superstiti. In qual parte dunque la cognizione dei reali che ci rimane dopo la percezione, dipende dalla prima affermazione, e in qual parte dipende ella dalle immagini? Questa è questione importante, e nuova. Attendete. Supponiamo che dopo aver noi percepito un ente reale, e dopo averne ritenuto lungamente le immagini nella fantasia, queste per lunghezza di tempo venissero illanguidendosi, e poco a poco perisser del tutto. Ne viene forse necessariamente da ciò che non ci rimanga più alcuna cognizione del reale percepito? No, questa conseguenza non è necessaria. Potrebbe essere che ci rimanesse la persuasione fermissima d' aver veduto e percepito in un dato tempo, e in un dato luogo una certa cosa di cui non ci rimane più immagine alcuna, e che non sappiamo nè pur nominare; ma sappiamo sol questo, che in quel luogo e in quel tempo abbiamo veduto una cosa, e possiamo andarci ripensando per rammemorare che fosse, senza venirne tuttavia a capo. Dunque la cognizione del reale non è interamente perita; conosciamo ancora d' aver percepito un ente reale, e ne sappiamo assegnare il tempo e il luogo. Può essere ancora, che della cosa allor percepita ci rimanga qualche cognizione puramente intellettuale, ma senza immagine di sorta; a ragion d' esempio possiamo sapere d' aver veduto e parlato con un uomo che si chiama Gio. Stefani senza che ricordiamo menomamente nè la sua fisonomia, nè la sua statura, nè il suo vestito. Qui non solo ci resta la persuasione dell' esistenza d' un ente; ma di più la persuasione dell' esistenza di un uomo, che non possiamo determinare per via d' immagini, ma per semplice idea, o anche pel nome che porta, che è un puro segno arbitrario e non punto rappresentativo. Di più, si possono ricordare i discorsi tenuti con quest' uomo, altre persone che erano presenti a questi discorsi, altre circostanze partenenti al luogo e al tempo, e tuttavia dell' uomo non si può forse raccapezzare immagine alcuna. Tutti questi esempj provano che anche senza le immagini della cosa percepita, io posso conservare la cognizione della sua sussistenza, perchè dura in me l' effetto di quel sì che ho pronunciato quando l' ho percepito, cioè lo stato di persuasione dell' animo mio. Dunque la cognizione dell' ente reale può durare in me senza bisogno delle immagini. Supponiamo il contrario, supponiamo che mi rimanesse nello spirito vivissima l' immagine di qualche uomo, ma che lo stato di persuasione d' averlo veduto cessasse nell' animo mio; supponiamo che io mi dimenticassi intieramente d' aver mai veduto quella fisonomia che pure mi sta presentissima all' anima: ho io in tal caso conservato la cognizione del reale? No certamente; perocchè quell' uomo di cui io immagino la fisonomia, le fattezze, le vestimenta, non so più dire a me stesso, se sussista veramente, oppure se io veda un puro fantasma. Dunque la cognizione del reale non sono le immagini che abbiano virtù di darla; ma ella propriamente consiste nella conservazione di quello stato dell' animo, pel quale l' uomo è persuaso che l' ente sussista, ne abbia io l' immagine o no. Ma qual' è dunque l' ufficio delle immagini? Quello de' sentimenti in generale. Quale è l' ufficio dei sentimenti? Primieramente è quello di eccitare lo spirito mio all' affermazione del reale, e questo accade pure quando l' immagine è così viva che m' inganna, che io la prendo per una sensione esterna, per una percezion sensitiva. Ma se l' immagine produce talor questo effetto in quanto ha qualche cosa di comune colle sensioni esterne, non è però l' effetto suo proprio, quell' effetto a cui è ordinata da natura. Quale è dunque l' uso della immagine proprio e naturale? Si è quello di farmi conoscere come un certo ente reale opera nel mio sentimento; per l' immagine io conservo la memoria dell' attività dell' essere reale, percepito, su di me; io la conservo questa memoria così fresca come se io avessi presente quell' attività e la sentissi operar su me stesso. Ora conoscere l' attività di un ente reale su di me è conoscere in qualche modo la natura di quell' ente, è conoscere quella natura che a me è conoscibile; poichè io non posso conoscere come sia fatto un ente reale sensibile, se non in quanto egli esercita un' azione nel mio sentimento. Questo è tutto ciò che io posso conoscere del reale come reale. Ora questo modo del reale, questa sua attività relativamente al mio sentimento appartiene ella alla cognizione dell' ideale o del reale propriamente? Badate bene: per rispondere conviene isolare quest' attività del reale su di me dalla persuasione della sua sussistenza. E bene, egli è chiaro in tal caso, che ella appartiene alla cognizione ideale; perocchè io posso saper benissimo che un dato ente p. es. un uomo, è atto a produrmi le tali e tali sensioni, è atto a suscitare in me il tale fantasma, ma so io ancora per ciò solo, che l' ente che ha quest' attitudine, sussista? No, non lo so, se prescindo dall' affermazione. Dunque le immagini degli enti che in me rimangono, valgono bensì a perfezionare in me la cognizione della loro natura, che appartiene all' ideale; ma non sono punto quelle che mi fanno conoscere ancora il reale essere sussistente. Ma dunque non influiscono elle niente affatto sulla mia cognizione del reale? Influiscono, ma indirettamente; influiscono in quanto che quando io affermo che sussiste un reale, la mia cognizione riesce più perfetta quanto più conosco nell' idea la natura di questo reale che affermo, e io conosco tanto più questa natura, quanto più conosco gli effetti che egli è atto a produrre nel mio sentimento, e ciò per mezzo dell' immagine che me ne rimane. Quello che dicevamo delle immagini vale universalmente per tutti gli effetti che un reale può produrre nel mio sentimento, foss' egli anche spirituale, e quindi incapace d' immagini; poichè anche un atto spirituale può agire nel mio sentimento, e così è che conosco in gran parte la natura dell' anima pe' fenomeni ch' ella produce nel sentimento corporeo. Or da tutto questo possiamo ritrar, miei signori, una preziosa conseguenza, ed è la classificazione delle nostre cognizioni in negative e in positive . Negative chiamo quelle cognizioni le quali consistono nella persuasione che un ente reale sussista, senza avere esperimentato ancora quale attività caratteristica e propria di lui solo, egli si abbia d' operare nel nostro sentimento, quali effetti egli valga a produrre tali che determinino la sua natura: questa maniera di cognizione riguarda la sussistenza di quell' ente e le sue relazioni con altri enti a noi noti, ma non racchiude il modo della detta sua attività. Sappiamo che è, non sappiamo come è. Positiva chiamo quella cognizione d' un ente, per la quale conosciamo per esperienza la sua attività propria e caratteristica nel sentimento nostro; sappiamo quali mutazioni egli vi può produrre lasciandovi un effetto che non può venir da altri che da lui: di quest' ente sappiamo come è, sia poi che noi sappiamo anche che è, ossia che non lo sappiamo. Ma parrà forse a voi strano, che io riduca la cognizione positiva che aver noi possiamo della natura di un ente, a quella attività che egli può esercitare in quella maniera che dicevo, nel nostro sentimento. - Avete ragione, o signori, e però io mi propongo d' entrare in questo argomento nella prossima lezione. Noi abbiam detto, che tutto ciò che noi conosciamo di positivo nelle cose è quel tanto di loro che cade nel nostro sentimento. A molti tutto ciò sembra poco, sembra loro che noi rendiamo strema e misera la cognizione umana. Ma ad altri forse ne parrà il contrario, e saranno presti a dirci: « come dite voi di conoscere ciò che cade nel sentimento vostro? Che cosa di più oscuro della sensazione? Qual mistero più grande di quello del sentimento? Chi l' ha mai definito? O chi il può definire? Chi può conoscerne le leggi e trovare qualche unico principio, a cui tutte s' annodino? E se non si può trovare un principio a cui ridurre le leggi tutte del sentimento, come possiamo averne piena cognizione, quand' egli ci si presenta come fenomeni distaccati nuotanti nell' infinito mare dell' essere, e che ci scappan di mano quando vogliamo prenderli, come le bolle di sapone? » - Ora perchè, miei signori, tanta divergenza d' opinioni sui limiti del saper umano? Certo che a quelli a cui piacesse giocare d' ingegno anzi che seriamente filosofare, come è pur debito d' ogni amatore del vero, non riuscirebbe guari difficile sciorinare speciose ragioni di eloquenti o piuttosto loquaci periodi vestite, a sostenere l' una e l' altra tesi pro o contra al nostro assunto, dimostrando prima che è un restringere soverchiamente l' umana scienza dandole per limite il sentimento, e poscia dimostrando pure, che questo stesso è un allargarla soverchio. Ma noi non vogliamo nè dobbiamo, o signori, perdere il nostro tempo a sfoggiare ingegno cavilloso e sofistico; ma dee esser nostro ufficio e professione costante cercare modestamente il vero; togliere gli equivoci del favellare, definendo accuratamente il valore delle parole e lo stato delle questioni, e seguire quel metodo rigoroso che tronca l' ali all' immaginazione per tener dietro fedelmente ai passi della natura. Occupiamoci adunque a chiarire la nostra proposizione, a impedire che se ne perverta il senso e se ne muti il valore, trasportando il discorso dalla prima tesi in un' altra; e ciò fatto riuscirà evidente la dottrina che raccogliemmo dalla precedente lezione, cioè l' uomo non conoscere niente di positivo se non quello che cade nel sentimento. Diciamo noi forse con ciò, che l' uomo non conosce altro se non quello che cade nel suo sentimento? No, noi non diciamo questo: s' attenda bene a quella restrizione che poniamo alla proposizione « non conosce altro di positivo ». E` mestieri dunque cercare che cosa voglia dire « il positivo della cognizione ». E la questione non è già di parole. Che se invece del vocabolo positivo, si volesse adoperare qualunque altro vocabolo o frase, noi non faremmo alcun contrasto, purchè si ritenga il concetto che noi vogliamo esprimere. Questo concetto sta in natura, e l' ufficio della filosofia è di vedere come sono le cose nella natura. Concentriamo dunque il discorso. La cosa che noi intendiamo di rilevare è il fatto della cognizione umana: trattasi di distinguere varie specie di questa cognizione, e fissarle mediante un nome: una di queste specie si è quella che noi distinguiamo col nome di cognizione positiva: la questione dunque si riduce a verificare questo fatto: « se tra le specie delle cognizioni umane ci ha quella che noi chiamiamo positiva; e se questa specie si estenda fuori del sentimento ». Cominciamo dall' enumerare le diverse specie di cognizioni. Di noi, è certo che noi abbiamo il sentimento fondamentale di noi stessi e della nostra animalità. Se noi non pensiamo punto a questo sentimento, esso mancando della forma di cognizione non è cognizione: conviene che sia pensato per divenir tale: pensato che sia da noi immediatamente, noi abbiamo quella cognizione del nostro sentimento che si chiama cognizione percettiva . Questa cognizione percettiva ci fa conoscere un ente particolare cioè noi stessi, in quanto siamo esseri intellettivi7senzienti, ossia razionali . Quando pensiamo così noi stessi, l' oggetto del nostro conoscere è un ente del tutto determinato. Noi abbiamo appreso con ciò quanto vi ha di sostanziale e quanto vi ha di accidentale in quest' ente all' atto della percezione, senza però che ancora distinguiamo l' accidente e la sostanza; poichè la percezione apprende l' ente reale qual è tutto intero senza fare in esso distinzione alcuna: le distinzioni sono l' opera della riflessione che viene appresso. Se il nostro sentimento fondamentale si modifica, essendo egli essenzialmente sentimento, sentiamo di consequente queste sue modificazioni. Ma fino che si suppone che noi sentiamo solamente queste modificazioni senza più, non s' è accresciuta la nostra cognizione, chè il sentimento non è cognizione. Acciocchè diventi tale, noi dicevamo, conviene applicarvi il pensiero. Se dunque noi pensiamo le modificazioni del nostro proprio sentimento, abbiamo una nuova cognizione, di natura non diversa dalla precedente: è la percezione stessa del sentimento fondamentale che si è modificata: ma è ancora percezione del soggetto con altri accidenti. Ma bene spesso il sentimento nostro si modifica soffrendo violenza, cioè sperimenta una forza diversa da noi, che s' applica a noi, e che muta la condizione del nostro sentire. Se una forza agisce nel sentimento nostro e lo immuta: dunque, può essere in noi una forza, un' attività diversa da noi; giacchè « ab esse ad posse datur consecutio ». Non conviene immaginar la natura, non conviene qui dire: « non può essere che in un soggetto esista qualche forza diversa da quella del soggetto stesso »non convien dirsi questo per la semplicissima ragione che la cosa è appunto così. Può dunque entrare e per molto o per poco tempo inesistere un principio agente in un altro principio senza che tuttavia s' immedesimi con esso; una sostanza può stare in un' altra sostanza: egli è questo il fatto. Si dà dunque l' azione sostanziale tra le cose; poichè l' agente è sostanza. Se dunque nel nostro sentimento cade una sostanza straniera, il sentimento dee sentirla, sperimentandone l' azione, essendo il sentire l' essenza del sentimento. Così noi percepiamo delle sostanze distinte dal soggetto noi, che perciò chiamiamo estrasoggettive. Ed eccovi qui trovato, miei signori, il celebre ponte di comunicazione tra noi e il mondo esteriore, che si diceva irreperibile, e si osava anche dire impossibile, per quella certa incredulità filosofica, che legata alle cose più comuni, chiude gli occhi alle più evidenti su cui non c' è costume di riflettere. Si dà dunque la percezione del mondo esteriore. Questa noi chiameremo percezione dell' estrasoggettivo . La percezione dell' estrasoggettivo è anch' essa pienamente determinata siccome quella del soggetto. Intuizione dunque dell' essere, percezione del soggettivo e percezione dell' estrasoggettivo sono le tre prime specie di cognizione umana. Il carattere dell' essere intuito è la piena indeterminazione; il carattere dell' essere percepito, sia soggetto o estrasoggetto, è la piena determinazione. A queste sopravviene la riflessione: l' uomo ripiega il suo pensiero tanto su ciò che ha intuito, quanto su ciò che ha percepito, come anche sulle stesse operazioni dell' intuire e del percepire: mediante questo ripiegamento del suo pensiero, egli abbraccia più cose insieme, confronta l' una coll' altra, ne trova le differenze, distingue il proprio dal comune, la sostanza dall' accidente; analizza e sintesizza; applica l' universale al particolare, e così classifica, giudica, vede che cosa manca all' ente percepito, che cosa dee avere per esser perfetto; e in somma produce in mille maniere a se stesso altre cognizioni senza limite, e lo scibile umano non trova più confini. Ma fissiamo bene, o signori, qual sia la materia della riflessione madre di tante notizie. La materia della riflessione sono le cognizioni precedenti, poichè l' uomo non può riflettere se non su ciò che prima conosce. Ora quali sono le cognizioni precedenti alla riflessione, e che diventano sua materia? Saranno forse cognizioni acquistate colla riflessione medesima? In tal caso esse non precederebbero del tutto la riflessione. Convien dunque arrivare a quelle cognizioni prime che non si sono acquistate per riflessione. E queste sono quelle appunto che abbiamo indicate, l' intuizione e la percezione. Badate bene, queste prime specie di cognizioni, queste sole danno in fine la sua materia alla riflessione umana: la riflessione umana non può agire immediatamente che su di esse. Infatti è egli possibile trovare una quarta specie di cognizioni che non venga dalla riflessione, e che non reincida nelle tre annoverate? Io sfido chicchessia a indicarcela. Nissun filosofo l' ha mai indicata, e nessuno la indicherà mai. La riflessione umana dunque ha una materia limitata, fuori della quale non può andare in modo alcuno. Sia pure che la riflessione, colla sua mirabil potenza, cavi infinite cose da quella materia che le è data; sia pure che ella sappia farci sopra infiniti ragionamenti, fabbricandosi sistemi maravigliosi di vario sapere: ma infine la materia prima di lei è sempre quella stessa; si riduce sempre a intuizione dell' essere, a percezione soggettiva, a percezione estrasoggettiva. Per quanto si faccia, questa materia non si può moltiplicare nè estendere. Tali sono i confini prescritti dal Creatore alla umana ragione, « usque huc venies »: niun uomo può valicarli fin che non cessa di esser uomo e non diviene qualche cosa di più. Lo stesso Aristotele, miei signori, che avea data la sua principale attenzione alla cognizione riflessa, siccome quella di cui si fa maggior uso, e su cui cade l' insegnamento dottrinale, ebbe pronunciato; che [...OMISSIS...] cioè « « ogni cognizione viene da una cognizione precedente »(1) », e ritorna più volte su questa sentenza (2). Anche egli dunque riconosce che il dominio della riflessione è limitato ad una cognizione anteriore ad essa, cioè ai dati della esperienza. Se dunque la riflessione non dà a se stessa la materia delle sue cognizioni; s' ella non crea nulla, ma solo deduce; tutto lo scibile che la riflessione feconda e svolge nell' umana mente, deve esistere in germe in quella prima materia che a lei precede e che le viene dalla natura somministrata; la qual materia è intuitiva, come dicevamo e percettiva, l' una senza determinazioni, l' altra appieno determinata: si supponga dunque che alla riflessione non sia dato per materia altro che l' essere indeterminato, oggetto dell' intuizione: qual ente potrebb' ella conoscere? Niuno in particolare. E` dunque necessario, che la riflessione prenda le prime determinazioni degli enti conosciuti per via di percezione. Sia pure che in appresso, dalle prime determinazioni, ella ne deduca altre ed altre; queste dedotte si riducono sempre alle prime, dalle quali partono tutti i suoi ragionamenti. Ora io chiamo appunto cognizione positiva « quella che riguarda le prime determinazioni degli enti ». Non è dunque chiaro, che la cognizione positiva non si può cercare altrove che nelle percezioni? Ma a che mai si riducono le percezioni? Noi l' abbiamo veduto, l' oggetto di esse non è che il nostro sentimento, o ciò che cade nel sentimento. Dunque tutto ciò che noi sappiamo di positivo si riduce finalmente a ciò che si comprende nel nostro medesimo sentimento. La riflessione lo lavora certo a suo modo, gli fa subire varie modificazioni, gli fa prendere forme sì nuove, lo associa sì fattamente e lo mescola coll' essere ideale, che riesce poi difficile a riconoscerlo per quell' umile elemento che ci era stato dato prima nella semplice percezione. Ma il riconoscerlo ancora per quello è l' opera della mente filosofica; alla Filosofia s' appartiene prendere in mano i prodotti più elaborati dalla riflessione e svestendoli successivamente di tutte le forme dalla riflessione ricevute, restituirli alla prima loro nudità, prenderli dove son giunti e far loro fare il camino contrario, rimettendoli al loro luogo nativo, ond' hanno lungamente peregrinato; abolire insomma per virtù d' astrazione, l' una dopo l' altra, tutte le operazioni riflesse e riaverli quali erano nel primo loro stato, nell' originaria loro condizione d' elementi percepiti. La cognizione positiva dunque è quella che si contiene ultimamente nella percezione, e quindi nel sentimento. Ma qui è da por mente. Noi abbiamo detto, che la percezione si fa per mezzo d' una affermazione; giacchè infatti l' affermazione è l' ultimo grado della percezione, il suo compimento. Ma l' affermazione non appartiene alla cognizione oggettiva: non è (noi abbiam veduto anche questo) che uno stato del soggetto relativamente alla cognizione degli enti; è l' atto con cui il soggetto intelligente si rende persuaso della loro realtà; ma quanto alla cognizione delle realità, ella è per l' idea che s' acquista nel modo che abbiamo già dichiarato. Togliamo dunque via dalla percezione l' atto dell' affermare. Ciò che ci rimarrà sarà tutto oggettivo, tutto cognizione, ed ecco la cognizion positiva depurata da ogni altro elemento. Ma ora perchè dunque, miei signori, alcuni di quelli che passano per filosofi non si contentano dell' ampiezza di questa sfera che noi assegnamo alla « cognizione positiva »? L' ho già detto e lo dirò francamente: perchè non intendono che cosa voglia significare « cognizione positiva » perchè non se ne sono formato chiaramente il concetto. Cognizion positiva, secondo l' etimologia, è quanto dire « cognizione di posizione ». Come si dice legge positiva quella che viene posta dal legislatore e non è data dalla natura stessa ragionevole, e però non si può avere a priori; così non senza proprietà, noi diciamo cognizione positiva a quella, che si sopraggiunge alla naturale che è l' intuizione dell' essere. E ciò che veramente si sopraggiunge all' intuizione dell' essere sono i sentimenti che determinano variamente l' essere stesso, e che non sono necessarj, nell' ente finito, perchè lo stesso ente finito non è necessario, ma contingente. Le innumerevoli conseguenze che la riflessione, ripiegandosi sull' essere ideale e sui sentimenti, ne cava sono pur contenute virtualmente ne' due primitivi loro germi: somministrando l' essere ideale alla ragione tutta la cognizione ideale di deduzione e il sentimento somministrandole tutta la cognizione positiva di deduzione: sicchè la cognizione riflessa si può dividere comodamente in tre specie, ideale, positiva e mista , secondo che ella si riduce come al primo suo fonte all' essere intuito, o al sentimento percepito, o all' unione dell' uno e dell' altro. E qui apparisce quale risposta noi facciamo a quelli, a cui sembra, che noi limitiamo la cognizione positiva entro troppo angusti confini. Ma non sono questi i soli nostri avversarj. Ve n' hanno di quelli che ci rimbrottano dell' eccesso contrario: secondo essi il sentimento è un mistero, che ne involge molti altri: non si può dunque dire che sia dall' uomo conosciuto. Che diremo noi a cotestoro? Non altro, miei signori, se non che essi mutano lo stato della questione. Poichè noi non avevamo mica tolto ad investigare in qual grado conosce l' uomo ciò che conosce; ma semplicemente a determinare quali sieno le sue cognizioni. Noi volevamo rilevare un fatto, non penetrare la natura di questo fatto: il fatto che volevamo cogliere e fermare si era, quali sieno le specie delle cognizioni umane. Che queste cognizioni di cui l' uomo viene in possesso con le sue facoltà sieno imperfette, o no; quanta sia la loro imperfezione, qual grado d' oscurità e qual grado di luce in esse si contenga; queste sono questioni affatto diverse, riguardanti l' intiera natura della cognizione umana, e non la semplice esistenza di essa. Or bene, o conviene che si nieghi all' uomo ogni cognizione, o conviene ammettere quelle diverse specie di cognizioni, che noi abbiamo descritte. E che l' uomo ignori molte cose circa la natura del sentimento, niun filosofo sarà lento a negarlo; ma si potrà egli a buon dritto conchiudere, che l' uomo non ha alcuna cognizione affatto del sentimento? Se lo percepisce, se lo afferma, se ne ragiona: dunque, in qualche modo, lo conosce: sia pure che lo conosca poco; ma lo conosce, e questo è il tutto per noi. E anche intorno a questo noi siamo novamente d' accordo col senso comune; il quale come dice del cieco che non conosce i colori, così dice parimenti che chi ha l' uso degli occhi ben li conosce e assai ben crede di sapere che sia bianco, o rosso, o giallo, o un altro colore qualsiasi. Quelli dunque che ci dicono, che noi non conosciamo il sentimento, perchè non possiamo rispondere alle domande che essi ci fanno intorno alla natura del medesimo, non provano con questo che noi nol conosciamo, ma tutt' al più proveranno forse, che noi non ne abbiamo quella cognizione che essi pretendono, non una cognizione qualsiasi. Qual è l' ufficio del linguaggio, miei signori? Certo quello di segnare co' suoni vocali le nostre cognizioni, affine di comunicarle altrui, e anche di fissarle alla nostra propria attenzione. Dunque il linguaggio è il testimonio irrefragabile delle nostre cognizioni, perchè n' è l' espressione. Tutto ciò dunque, a cui noi abbiamo imposto un nome, lo conosciamo in qualche modo, in qualche grado; il che non vuol già dire tuttavia, che in tutti i modi e in tutti i gradi: è questo il modo di conoscere proprio di Dio solo. E sarebbe un darla vinta agli scettici, dire il contrario: sarebbe di più opporsi all' umanità intiera. Non riuscirebbe forse inutile il linguaggio se nulla significasse? A che mai favellare coi nostri simili, se favellando non comunicassimo loro nessuna cognizione? Chi tutto ignora non parla: egli è il caso degli animali senza ragione. Ma quali sono le notizie che noi comunichiamo altrui col linguaggio? Certamente quelle che noi abbiamo. Che cosa dunque significano i vocaboli? Quali cose esprimono? Forse gli enti, in quella parte nella quale restano a noi pienamente incogniti? Sarebbe assurdo il dirlo. Dunque esprimono « gli enti quali da noi si conoscono ». Da questa osservazione possiamo dedurre una nuova maniera di confutare coloro, che estenuano soverchiamente la cognizione umana. V' hanno di quelli, voi lo sapete, che negano all' uomo la cognizione dell' essenze. Intendiamoci: che cosa vuol dire essenza? Troppi prendono questa parola per un sinonimo di sostanza, è un equivoco antico, che la parola greca «usia» significa appunto l' una e l' altra. Conviene finalmente risolversi a separare intieramente e per sempre il significato della parola essenza dal significato della parola sostanza . Consultiamo su di ciò l' uso comune, che è la sola autorità legittima in questa parte. Si dice: l' essenza del colore, sì bene come l' essenza del corpo, l' essenza dell' estensione, del peso, del pensiero, della sensazione, sì bene come l' essenza dell' anima: e pure il colore, l' estensione, il peso, il pensiero, la sensazione, non sono sostanze, ma meri accidenti. Convien dunque ritornare alla distinzione che facevano gli scolastici in essenze sostanziali , e in essenze accidentali . Ogni cosa ha la sua essenza; se consultiamo l' origine della parola essenza viene da essere; e vuol dunque dire l' essere, l' entità della cosa, ciò che fa che la cosa sia quello che è, sia poi la cosa un accidente o una sostanza. Ma oltracciò l' essere della cosa significato dalla parola essenza non può dir altro che l' essere conoscibile, perchè nissun ente in quella parte che è del tutto sconosciuto all' uomo, non è da lui nominato, come dicevamo innanzi, nè pensato, giacchè se fosse pensato, sarebbe da qualche lato almeno conosciuto, l' effetto del pensiero essendo la conoscenza. Ora l' entità conosciuta dov' è che la conosciamo noi, ossia qual è il mezzo che abbiamo di conoscere gli enti? Questo mezzo è l' idea: nell' idea la cosa è conosciuta. Non andremo dunque lungi dal vero, se noi diffiniremo l' essenza in un modo generale dicendola « ciò che s' intuisce nell' idea ». Or bene, non vediamo, signori miei, da questo solo, che è impossibile mettere in dubbio la cognizione dell' essenze? E che se fu messa in dubbio, ciò non prova altro, se non che quelli che ne dubitarono, applicavano alla parola essenza un significato totalmente diverso dal suo proprio? Poichè se si fossero dati prima di tutto la cura di dichiarare a se stessi ben bene il valore della parola essenza , consultandone l' uso comune, avrebbero facilmente veduto, che l' essenza di una cosa non è altro se non « ciò che si pensa nell' idea di una cosa »e che perciò l' essenze sono conosciute per la stessa loro definizione. Invece dunque di dire, che l' essenze non si riconoscono, doveasi anzi dire, che l' uomo oggettivamente non conosce altro che essenze, e che un complesso di mere essenze intuite dallo spirito è tutto ciò che forma lo scibile umano. Nel linguaggio che è il deposito delle cognizioni umane noi troviamo continuamente significate le essenze. Le parole uomo, animale, pianta, pietra, pane ec. che altro significano che l' essenze conosciute di tutte queste cose? Infatti, se quando dico uomo non intendessi nominare l' essenza dell' uomo; o quando dico animale non intendessi dire l' essenza dell' animale, io non direi nulla; poichè tolta via l' essenza dell' uomo non resta più l' uomo, tolta via l' essenza dell' animale non resta più l' animale; dunque non esprimerei più nè l' uno nè l' altro, come nulla vuole e nulla intende esprimere il pappagallo, che proferisce meccanicamente questi due suoni: uomo e animale. E perchè il pappagallo mandando fuori questi due suoni, non vuole nè intende esprimer l' uomo e l' animale? Perchè non può volerlo; e non può volerlo, perchè non conosce l' essenza dell' uomo e dell' animale, e non conoscendola non la può esprimere. Quanti dunque sono i nomi comuni nell' umano linguaggio, altrettante essenze l' uomo con essi significa, e quante ne significa, altrettante egli ne conosce; niuno potendo esprimere ciò che del tutto e in nessun modo conosce. Dunque il negare la cognizione delle essenze è lo stesso che negare il linguaggio, o anzi renderlo impossibile. Sia pur vero dunque, sia pur da noi pienamente conceduto che l' uomo non conosce gli enti perfettamente; che questi racchiudono dei misteri, che intorno ad essi si posson fare molte questioni difficili ed anche insolubili. Ma riman sempre una grande distanza, o signori, tra queste due cose, che un ente si riveli a noi tutto, sicchè niente più racchiuda per noi d' incognito; e che egli non manifesti a noi di se stesso niente affatto; poichè quelli che negano la cognizione dell' essenze, debbono cadere in questo estremo, d' affermare cioè che l' uomo non conosca niente affatto degli enti; chè se egli ne conosce solo un tantino, basta, non gli può mancare qualche idea di essi, e però può intuire qualche loro essenza; essendo questa tutto quel molto o quel poco che si pensa nell' idea dell' ente come abbiam detto. Ma la cognizione delle essenze appartiene ella alla cognizione positiva, o all' ideale, o alla negativa? La risposta è facile dopo le cose dette. L' essenza è ciò che si conosce nell' idea. Ma le idee parte sono positive, e parte negative. Dunque tali sono anche l' essenze. Qualora si tratti d' essenza di cosa da noi sensibilmente percepita, l' essenza è positiva; qualora si tratti di cosa che non cadde nel nostro sentimento, come sarebbe l' angelo, l' essenza conosciuta da noi è negativa. Ma non si fraintenda ciò che diciamo: quando parliamo di essenze negative, non vogliamo mica dire, che l' essenza di qualche ente in se stessa sia negativa: non si parla da noi, se non dell' essenza conosciuta: si vuol dunque dire, che è negativa in tal caso la cognizione nostra. Quali saranno dunque quell' essenze che noi chiamiamo negative? Voi stessi ora me lo sapete dire: tutte quelle, che non somministrano al nostro pensiero niente di ciò che abbiamo sperimentato nel sentimento. Sono dunque negative primieramente le essenze dell' entità prettamente mentali, cioè fabbricate dalla nostra mente, come sarebbe il nulla. Il nulla non è nè può essere un ente reale, poichè anzi è l' esclusione di ogni entità; e tuttavia anche il nulla ha per noi la sua propria essenza. Tant' è vero, che noi distinguiamo il nulla da tutti gli enti, ed i matematici ragionano a lungo del nulla e vi fanno sopra dei calcoli meravigliosi (1). Che cosa è dunque il nulla? E` l' esclusione del qualche cosa: è una relazione dell' ente contingente con se stesso, il quale potendo essere e non essere, quando si concepisce non essente, allora si dice nulla. Se il nulla si diffinisce; dunque ha la sua essenza: se il nulla è il termine di una relazione, e perciò ha certe proprietà; dunque ha la sua essenza: ma non l' ha già fuori della mente, appunto perchè è la negazione di ogni essenza; ma l' ha nella mente che nega l' essenza, e questo negare l' essenza è un atto che si concepisce, di cui ci formiamo un' idea, che esprimiamo in parole: ha dunque un' essenza mentale negativa, esprimendo quel momento dell' animo in cui resta privo dell' ente e s' accorge della sua privazione, e la pronuncia. Tutti gli altri esseri mentali, cioè formati dalla mente, hanno più o meno del negativo: tutti gli astratti hanno parte di negativo, perchè nell' astratto è tolto via o parte o tutto ciò, che ci dà il sentimento. Quegli astratti che sono mere relazioni, presentano idee più negative che non sieno gli astratti che sono generi di sostanza o di qualità o di quantità; e gli astratti che sono generi, presentano più del negativo che gli astratti specie . Diamo un esempio di tutte e tre queste maniere di idee negative. Che cosa penso io nell' idea dell' Autore dell' universo? Nient' altro che la relazione di causa fra un ente che non cade sotto i miei sensi e il mondo. In questo concetto io penso un ente; ma poichè io non l' ho menomamente percepito col sentimento, egli è per me un ente che non so come sia fatto. Or se io non sapessi niente affatto di lui, nol potrei distinguere dagli altri enti, nè determinarlo per conseguente a me stesso in modo veruno; in tal caso non penserei un ente determinato, ma l' essere in genere e indeterminato. Ho dunque bisogno d' una relazione che me lo determini: una relazione, dico, con cosa che mi è conosciuta positivamente. La cosa che così conosco è il mondo, il quale cade nel mio sentimento, e la relazione è quella di causa. Le relazioni dunque con ciò che io conosco positivamente, mi fanno conoscere degli esseri che io non conosco positivamente: ho dunque di essi una cognizione negativa. Le relazioni dunque di esseri che non influiscono nel mio sentimento, colle cose che vi influiscono, sono un fonte d' idee negative. Veniamo ai generi . Se io sapessi, che in un parco di fiere si mostra un animale peregrino; ma ignorassi qual fosse, io avrei di quell' animale una cognizione negativa in gran parte, ma non però in tutto; poichè io saprei almeno che egli è un animale, e l' idea generica dell' animale io l' ho cavata dal mio sentimento, giacchè so che cosa è animale, perchè ho il sentimento di me stesso, e perchè sono caduti sotto i miei sensi altri animali. Nella cognizione generica adunque vi ha del negativo; ma ella non è tutta negativa, perchè ritiene un elemento somministratomi dal sentimento. Le idee generiche dunque sono fonti di cognizione in parte negativa; ma meno però negativa di quell' idee che mi sono somministrate da semplici relazioni. Voi ora intendete, miei signori, che con un somigliante discorso si può dimostrare che l' idee astratte di specie contengono anch' esse del negativo; ma ancor meno dell' idee generiche. Così se io sapessi, trovarsi un uomo in un dato luogo, e nulla di più; io ignorerei a dir vero s' egli è uomo bianco o di colore, e tutte l' altre particolarità; ma pure saprei che quell' essere a cui penso non solo appartiene al genere degli animali, ma altresì alla specie degli animali ragionevoli, e tanto l' animalità quanto la ragione sono due cose che io conosco positivamente pel mio proprio sentimento. Nell' idea astratta di specie giace dunque più di cognizione positiva che non nel genere, e tuttavia ella ritiene ancora non poco di negativo; poichè io non penso con essa molte qualità accidentali dell' ente, che cadono nel sentimento. Quale adunque sarà l' idea interamente positiva? diciamolo di nuovo, quella che si cava immediatamente dalla percezione, universalizzandola, cioè togliendo da essa unicamente la sussistenza, e lasciando l' ente vestito di tutti i suoi accidenti e qualità sensibili. Così se io penso all' immagine d' un fiore, d' un cavallo, d' un uomo, tale appunto quale l' ho veduto altra volta, e lo considero come tipo universale che può essere realizzato in un numero infinito di individui, fiori, cavalli, uomini, perfettamente uguali, allora io penso un ente con un' idea al tutto positiva, che noi per distinguerla da ogni altra denominammo idea piena. Questa è l' idea più comprensiva, che noi possiamo avere della cosa, e tuttavia anche questa maniera di conoscere è limitata; ma questa limitazione nasce dalla limitazione dell' uomo stesso, e non da un qualche modo particolare con cui l' uomo conosce, il quale sia più imperfetto degli altri. Qual' è dunque, miei signori, questa limitazione necessaria della cognizione umana? Questo è quello che ci proponiamo di ricercare nella seguente lezione. Il sentimento e l' idea sono i due elementi delle cognizioni umane. Il sentimento presta alle cognizioni umane tutto ciò ch' elle hanno di positivo; l' idea somministra loro tutto ciò ch' elle hanno d' indeterminato e di negativo. Conviene riconoscere, miei signori, entrambi questi due elementi, e a ciascuno di essi fare la loro giusta parte nello scibile umano. Conviene riconoscerli, dicevo, e a ciascuno di essi non dare nè più nè meno di quello che si abbiano in fatto: ecco ciò che dee fare l' Ideologo; ma lo hanno sempre fatto, miei signori, gl' Ideologi? Noi non vorremmo certo metterli tutti egualmente in un fascio; ma non ci pare poter essere accusati con ragione di temerità, se aprendo i loro libri leggeremo ciò che dentro ci sta scritto. Ebbene, noi troviamo un gran numero d' Ideologi che riconoscono bene o male il sentimento; ma poi vi negano l' idea, ve la negano in fatto, benchè ne ritengano la parola, giacchè con questa parola d' idea non intendono significare che il sentimento. Voi v' accorgete che questi sono i sensisti. Noi troveremo dopo di ciò molti altri Ideologi, i quali riconoscono ed ammetton l' idea; anche questi non è che sbandiscano la parola sentimento, perocchè le parole date loro dal popolo non possono ricusarle e servono appunto a smentire i loro sistemi arbitrarj, accorcianti l' umano sapere: ritengono dunque la parola sentimento, come dicevo; ma poscia ve lo trasportano nell' ordine intellettivo, lo trasmutano in idea: questi sono i veri idealisti. Perchè errano gli uni e gli altri? Perchè limitano arbitrariamente la cognizione umana; perchè usano di una osservazione imperfetta, pongono la loro attenzione esclusivamente ad uno dei due elementi, e non ad entrambi. La perfezione della Filosofia, e in ispecie dell' Ideologia, vuol dunque che si osservi tutto intero il fatto della cognizione, e che si ammetta l' uno e l' altro elemento de' due ond' ella risulta. Ma questa non è che la prima funzione del filosofo: gli resta a compire la seconda, cioè a determinare quanto influisca ciascuno de' due elementi nell' umana cognizione. Noi abbiamo difeso l' uno e l' altro elemento, il positivo e il negativo, il reale e l' ideale; n' abbiamo veduto la connessione, abbiamo confutati quelli che negano all' uomo la cognizione delle essenze: abbiamo in particolare veduto, che la mente concepisce le essenze in un modo positivo quando il sentimento vi depone il suo elemento, e in un modo negativo quando manca l' elemento del sentimento. Abbiamo risposto a quelli che pretendono niente conoscer noi delle cose sentite, perchè veniam meno in rispondere a molte questioni sulla natura di esse: abbiamo sostenuto, che se non conosciamo il sentimento in modo al tutto perfetto, lo conosciamo tuttavia in qualche grado: in qualche grado, dicevo, e perciò accordammo agli avversarj, che le nostre cognizioni positive sono limitate. Conviene dunque ora, che ci spieghiamo maggiormente su questa limitazione della cognizione umana, e sarà ciò che prenderemo a fare in questa lezione. Sì, il sentimento somministra tutto ciò che v' ha di positivo nello scibile umano. Ma nello stesso tempo, e perciò appunto, esso è la causa della limitazione della mente umana. Egli è singolare, miei signori, a vedere come lo scibile che il Creatore largì al genere umano, presenti due aspetti che sembrano contradittorj. Da una parte egli pare infinito: e chi di noi non ha udito le eloquenti amplificazioni della grandezza dello spirito umano, di cui sono pieni i libri dei filosofi e degli oratori? Chi di noi non si è più volte stupito seco medesimo ripensando quante mirabili discipline ed estesissime scienze abbia partorite l' umana mente? Quante nobili invenzioni non ha ella prodotte? Quante arti ed industrie, o inservienti agli agi o alle necessità della vita, non abbiamo noi ricevute in retaggio dai secoli precedenti? E chi può metter un confine all' umano progresso? Chi può essere o sì audace o sì stolto da proibire ai presenti od ai posteri d' aggiungere altre ed altre cognizioni, altre ed altre invenzioni al patrimonio degli avi, o così temerario da predire che a tal tempo, a tal secolo, l' umana mente avrà esaurita la sua prodigiosa fecondità? Chi anzi non dovrà considerare per una assai piccola cosa tutto quello che ha l' uomo imparato fin qui e colle sue speculazioni inventato, a paragone di quello che a sapere e a trovare gli rimane; e di quello che troveranno indubitatamente i nostri posteri, progredienti per la via de' lumi con un corso sempre accelerato, senza confine? Sì, l' umano sapere è inesauribile, e non può trovarsi un termine alla sua attività. Ma, miei signori, rovesciamo la medaglia. Non ci sarà egli ugualmente facile il considerare il sapere dell' uomo sotto l' aspetto opposto? Non potrò interrogarvi di bel nuovo così: chi di voi non ha letto in mille libri, chi non ha udito dalla bocca de' maggiori sapienti deplorare la profonda ignoranza dell' essere umano? Chi tra quanti hanno un poco ripensato seriamente sopra se stessi, non ha dovuto confessare di trovarsi immerso in un mare profondo di tenebre? Qual savio dubitò mai per un solo momento, che la mole delle cose che l' uomo ignora, e che ignorerà mai sempre, non sia infinitamente maggiore delle cose che egli sa, o anche che saprà? In qual pelago d' errori non ha navigato e naufragato sempre, e naviga e naufraga ogni dì lo spirito umano? Come vacilla l' umana mente ne' suoi passi? Quante incertezze e quanti dubbj non la sorprendono anche solo se s' addentra a scrutinare le cose più ovvie e più comuni? Chi ha filosofato, e non è giunto a dubitare qualche volta della propria esistenza o a capire almeno come se ne possa dubitare? Quale spettacolo a vedere, che quando la civiltà ed il sapere delle nazioni è arrivato al suo apice s' invecchia, quasi fosse corruttibile, e viene un' epoca, in cui un gran numero d' uomini, sebben dotati di perspicacissime menti, si perdono nel cimento della ricerca del vero, e avviliti e scorati si gettano nel desolante scetticismo, seppellendo in questo baratro tutta quanta la scienza umana, e sforzandosi di spegnere in sè stessi quel lume della ragione da cui non seppero cavar altro che angosciose esitazioni? E quegli che non si danno già perduti e vinti dalle difficoltà, sentono nondimeno anch' essi il bisogno di compatire e di compiangere l' aberrazione de' precedenti, troppo sperimentando essi stessi quanto è breve e fallace l' umano intelletto, e quanto tutte le cose intorno a cui s' affatica, sieno piene di misteri? E che direm dunque? Forse che è nullo l' umano sapere, e che è un' illusione, un mero inganno? Così è, miei signori; lo scibile umano presenta due faccie, come vi dicevo; da una ci si mostra infinito, dall' altra ci apparisce assai finito. Dove dunque sta il vero? A quale ci atterremo noi di queste due proposizioni: « il sapere dell' uomo è infinito, il sapere dell' uomo è finito »? Ad entrambe, miei signori. Sì, noi non ricusiamo mai di accettare tutto ciò che ci dice il senso comune, e questa volta pare che egli ci dica due proposizioni contradittorie. Ma non manchiamogli di fede, perchè se esamineremo la cosa a fondo troveremo che la contradizione è solo apparente. Noi crediamo, che non possa esser verace e soddisfacente quella Filosofia, che non sa spiegare le contradizioni apparenti del senso comune, che è costretta a ricusarne qualcuna. Noi dunque ammettiamo, che l' umano sapere non abbia confini; ed ammettiamo pure, che l' umano sapere ne abbia di angustissimi. Infatti la contradizione svanisce, se si considera, che è rispetto a due differenti generi di cognizione che sono vere entrambe quelle proposizioni; dico rispetto al genere della cognizione ideale negativa, e rispetto al genere della cognizione positiva. Rammentiamoci quali sono i principj di queste due maniere di cognizioni: l' idea è il principio della cognizione ideale negativa, il sentimento è il principio della cognizione positiva. Or bene, l' idea è infinita, perchè l' essere che nell' idea s' intuisce non ha limite alcuno: il sentimento è finito, perchè il sentimento non è che la nostra propria realità e le sue modificazioni o ciò che si commisura col nostro sentimento; e noi come esseri reali siamo limitati, limitatissimi. V' ha dunque in noi un fonte di cognizione infinita e questa è l' idea, ed un fonte di cognizione finita e questo è il sentimento: idea e sentimento, sono i principj di tutte le cognizioni umane: queste si mescolano in mille maniere e si fecondano ritenendo la natura de' principj da cui derivano: lo scibile umano dunque è un miscuglio d' infinito e di finito, ed egli deve presentare necessariamente le due faccie che dicevamo riconosciute dal senso comune degli uomini. Ed egli è qui, miei signori, che ci tornerà facile a spiegare come v' abbiano dei filosofi i quali sostengano, che noi non conosciamo punto nè poco le essenze delle cose, e v' abbiano degli altri, tra i quali Sigismondo Gerdil, che sostengono il contrario. Osserviamo, miei signori, che la stessa cosa conosciuta da due uomini collo stesso grado di cognizione, produce talora in essi due effetti diversi. L' uno rimarrà pago della sua cognizione, e si crederà d' essere appieno istruito intorno alla natura di quella cosa, l' altro non così e crederà tuttavia d' ignorarla. Domandate ad un uomo del volgo, s' egli conosce che cosa sia una pianta o un animale: egli sorriderà di voi, e non crederà neppure necessario di dirvi, che troppo ben la conosce, perchè non potrà mai credere che voi ne dubitiate. Ma se voi domandate all' incontro la stessa cosa ad un naturalista o ad un filosofo, facil cosa sarà ch' egli vi dica d' ignorarne la natura, e di conoscerne solo alcuni esteriori fatti, o alcune apparenze. E perchè questa differenza di persuasioni? Perchè il primo, cioè l' uomo del volgo, troppo bene intende, che l' idea dell' albero o dell' animale formatasi da lui mediante le percezioni gli danno una cognizione tal della cosa, che basta a poterla distinguere da tutte l' altre, e basta altresì a dirigerlo nel suo operare nè gli fa bisogno di più: qui dunque s' acquieta, non fa ulteriori confronti e ricerche. Ma l' uomo in cui è sviluppata maggiormente la riflessione, dimentica per così dire ciò che sa della pianta e dell' animale; dimentica che l' idea che egli pure se n' è acquistata come il volgare, è cognizione anch' essa, tutto intento a volerne una cognizione maggiore, una cognizione riflessa e scientifica. Ma come è egli possibile in lui questo desiderio? Come può in lui cadere il sospetto, che la cognizione percettiva che n' ha acquistato sia imperfetta e ce ne possa essere una più perfetta? Sapete ond' è ciò? E` da qui, che egli confonde la cognizione acquistatasi dell' albero o dell' animale colla cognizione dell' essere in universale da lui intuito, e poichè questa è cognizione infinita, e quella finita, perciò quella gli sembra nulla, poichè il finito paragonato all' infinito svanisce in nulla. Infatti quando l' investigatore della natura raccoglie più fatti che può intorno alla natura della pianta o dell' animale, e classifica quei fatti, li riduce a classi più generali, lega i fatti variabili ad un fatto stabile e primitivo, considera questo fatto primitivo come ragione e fonte degli altri, e lo prende per carattere fisso della loro sostanza, che cosa fa egli se non ricercare continuamente in qual modo si avverino nella pianta o nell' animale le condizioni dell' essere da lui conosciuto per intuizione; in qual modo si avveri l' ordine dell' essere stesso, giacchè nell' essere intuito lo contempla e quasi lo legge? E il far ciò che cosa è altro, se non un continuo attento confronto tra l' idea positiva datagli dalla percezione e l' essenza dell' essere? Ora, che sia limitata l' umana percezione, che ella non si estenda a comunicare a noi tutta l' entità della cosa, ma solo una entità relativa a noi stessi percipienti, è ben facile a rilevarsi, se si considera quali sono gli strumenti datici dalla natura al percepimento delle cose. Questi, non uscendo mai dall' ordine naturale, sono (almeno i più risaltanti) gli organi corporali; in generale l' istromento della percezione è la nostra propria animalità; ma questo istromento è così imperfetto, o direm meglio, limitato, che non si stende se non alle cose corporee o animali, e queste stesse non ce le comunica già quali sono in se stesse, ma unicamente sotto la relazione di sensilità . E che cosa è ella mai questa relazione di sensilità? Non più, miei signori, che un rapporto di forze; non più che un effetto delle forze corporee sopra di noi; (prescinderò ora dal sentimento sostanziale dell' anima nostra) anzi nè pure è tanto, poichè la sensilità delle cose non è effetto di una causa sola, cioè delle cose; ma ella è effetto di una causa composta di più concause, voglio dire, delle forze delle cose stesse, e delle forze nostre proprie che agiscono simultaneamente. Dunque il sentimento che abbiamo de' corpi non ha nulla in sè di assoluto, ma è tutto a noi relativo. Ebbene, tutt' il contrario dee dirsi dell' intuizione dell' essere. Questa è cognizione assoluta, nulla vi ha in essa di relativo: non concorriamo già noi menomamente a comporre l' essere come concorriamo a comporre il sentimento corporeo, e quindi i corpi in quanto sono sensibili: l' essere è per sua propria essenza così assoluto che non può mai relativizzarsi, nè soggettivarsi senza cessare d' esser lui stesso, senza cessare d' esser l' essere. Quindi noi già lo denominammo, se vi rammentate, o signori, « l' oggetto per essenza ». Or bene che cosa è mai la cognizione relativa se si raffronta alla cognizione assoluta? L' uomo aspira alla cognizione assoluta, poichè la forma del suo intelletto è l' essere assoluto. Egli dunque inclina e tende per sua natura a volere avere delle cose una cognizione assoluta, e si sforza di trovare una cognizione assoluta anche in quella cognizione che è per natura sua relativa. Ma questo è impossibile: può lusingarsi per qualche istante di dovercela rinvenire; ma a lungo andare si stanca co' suoi inutili sforzi e dispera. Or fa meglio ancora, apre gli occhi e conosce che egli vuole l' impossibile. Allora confessa la sua ignoranza, allora arriva fin anco a dire di nulla conoscere, a reputar nulla tuttociò che prima conosceva relativamente, e a negare risolutamente di conoscere le essenze delle cose. Ed ha ragione, se egli intende negare di conoscerle assolutamente; ma ha torto se pretende che il conoscere relativamente non sia conoscere. Infatti il conoscere ancorchè limitato e relativo non può egli servir di norma all' operare dell' uomo? Dunque è conoscere; chè ciò che non si conosce non può servir di norma all' operare. Considerate, miei signori, che la cognizione è data all' uomo dal Creatore per qualche cosa: ella non dee mica essere sterile ed inutile: essa ha per iscopo di guidar l' uomo nelle sue operazioni, acciocchè ed operi rettamente, ed operando rettamente cioè in un modo conforme alla verità ed alla giustizia, acquisti la perfezione morale che è la perfezione propria dell' uomo, a cui tien dietro la felicità. Ebbene, a questo gran fine che è il fine dell' uomo, che è il tutto dell' uomo, dove finiscono tutti gli umani desiderj che non sieno spurj ed ingannevoli, basta una cognizione relativa rispetto all' elemento positivo. Dico rispetto all' elemento positivo e nella vita presente, perchè in quanto all' elemento ideale e al negativo noi l' abbiamo anche in questa vita ed oggettivo ed assoluto, e non può esser altro, perchè è tale per sua essenza. Sebbene dunque questo elemento ideale e oggettivo sia il fondamento e la causa formale anche della cognizione positiva, tuttavia, dicevo, ciò che ci ha di positivo nella cognizione nostra naturale presente è relativo e questo ci basta. E come e perchè, mi domanderete? Perchè anche l' operare è relativo, perchè anche la perfezione che si cerca con esso è relativa, cioè relativa all' uomo; perchè anche la felicità, finalmente, non è nè può essere altro che relativa. Trattasi forse della virtù e della felicità astratta? No davvero; chè la virtù e la felicità astratta non è virtù e felicità di qualcheduno; e qui trattasi della virtù e della felicità di qualcheduno, cioè di quella dell' uomo, che è il soggetto che dee per essa divenire virtuoso e felice. Che cosa vuol dunque dire perfezione relativa? Nient' altro, miei signori, se non perfezione soggettiva, cioè relativa al soggetto: e perciò che vuol dire cognizione relativa? Vuol dire medesimamente cognizione soggettiva, cioè relativa al soggetto uomo. E poichè il soggetto uomo è finalmente un sentimento sostanziale, ella vuol dire « cognizione somministrata dal sentimento ». Tant' è lungi adunque, che la cognizione relativa ossia soggettiva manchi della natura della cognizione, che anzi ella è quella cognizione umana, che deve servire di guida all' umana perfezione. Ma qui si sollevano delle turbe. E come? Ci dicono molte voci: voi sostenete, che ciò che sa l' uomo di positivo è soggettivo? In tal caso la cognizione positiva dell' uomo è tutta falsa: poichè che cosa vuol dire altro cognizione soggettiva , se non cognizione falsa, apparente, fenomenale? No, miei signori, non è così: i nostri oppositori confondono le cose più diverse, perchè mancano d' analisi. La cognizione soggettiva non è cognizione falsa per sè stessa, non è cognizione apparente e nulla più: essa è una cognizione, certo limitata, ma non meno vera per questo. Vogliamo vederlo? Interroghiamo i nostri avversarj in questo modo: la cognizione del soggetto può ella esser altro che cognizione soggettiva? E che cosa vuol dire cognizione soggettiva, se non cognizione delle cose che appartengono al soggetto? O finalmente cognizione di quelle cose nelle quali ha qualche parte il soggetto? Siete voi dunque d' avviso, o sapienti oppositori, che intorno al soggetto e alle cose che gli appartengono, o nelle quali egli ha qualche parte, non si possa aver cognizione vera, perchè non si può averne altra che soggettiva? Se ciò fosse, dovrebbe dirsi che Iddio medesimo non conosce i soggetti, non conosce sè stesso, primo ed assoluto soggetto, ovvero conosce sè stesso e gli altri soggetti con cognizione falsa, che meglio si chiamerebbe una mendace apparenza. Ora essendo questo manifestamente assurdo; dunque si può dare una cognizione che sia nel medesimo tempo e soggettiva e vera. - Ma gli oppositori risponderanno, che anche la cognizione intorno al soggetto e alle cose soggettive, si può oggettivare ed in tal caso rendersi vera. - Ora che è questo, se non appunto ciò che diciamo noi? Solamente che noi diciamo di più che la cognizione soggettiva è già oggettivata per sè stessa, poichè altramente non sarebbe cognizione. Così il soggetto, ed i sentimenti del soggetto, che sono il fondamento della cognizione positiva dell' uomo, tostochè si conoscono sono per ciò stesso oggettivati; poichè se non fossero oggettivati non sarebbero cognizioni. Eppure i sentimenti del soggetto sono tutti relativi al soggetto; e le cose che operano nel sentimento del soggetto, come i corpi che feriscono gli organi sensorj, si conoscono per gli effetti prodotti nello stesso sentimento soggettivo, i quali effetti sono relativi alla natura del sentimento, perchè sono modificazioni dello stesso sentimento; e perchè ogni essere suscettivo di passione, riceve una passione conforme alla propria natura, il che Aristotele espresse con quel detto divenuto celebre presso gli Scolastici, che « quidquid recipitur ad instar recipientis recipitur . » Del soggetto dunque, che non è altro infine che un sentimento sostanziale, e dei sentimenti in lui suscitati, che sono sue modificazioni, come pure degli effetti tutti che producono in lui le cose esterne, pei quali effetti si conoscano, noi possiamo avere una cognizione vera, e pure ella sarà sempre cognizione di cose relative al soggetto, e perciò soggettive, benchè coll' essersi rese cognizioni, coll' esser divenute oggetti conosciuti, si dice giustamente essersi oggettivate. - Dove sta dunque l' equivoco preso dai nostri oppositori? Nell' aver confuso la cognizione in genere delle cose, colla cognizione assoluta. Ciò che è vero si è, che noi delle cose sensibili non abbiamo una cognizione assoluta, e il pretenderlo è lusinga vanissima; nè da ciò, come dicevo, procede che se la cognizione non è assoluta ma relativa al soggetto, per questo essa non sia cognizione, o sia falsa, ma ella è nondimeno vera nel suo genere; e la questione unica che si può fare ragionevolmente non è mica quella di sapere se la cognizione soggettiva, cioè relativa al soggetto, sia in un altro senso oggettiva; poichè se ella è cognizione, non può mancare certamente di quella oggettività che la rende cognizione. A propriamente parlare la frase di « cognizione oggettiva »non racchiude altro che una ripetizione, ed è come se si dicesse cognizione cognizione; essendo chiaro che l' essere oggettiva e l' essere cognizione viene al medesimo. Laonde nel nostro discorso, miei signori, non si possono distinguere due specie di cognizioni, delle quali l' una sia cognizione soggettiva, e l' altra cognizione oggettiva: se questo talora si fa in altre questioni, dove non s' esige tutto il rigore, come si esige nella nostra presente, ella è sempre una divisione inesatta. L' unica distinzione dunque che si può fare si è tra la cognizione soggettiva cioè relativa al soggetto, e la cognizione assoluta . Ripetiamo dunque, che può aversi una cognizione soggettiva, cioè di cose relative al soggetto, verissima, non fallace e ingannevole; ed anzi di più che la cognizione del soggetto e di tutto ciò che a lui si rapporta sarebbe falsa, se non fosse soggettiva; poichè ella ci farebbe conoscere le cose non come sono, ma come non sono. E qui appunto comincia l' errore; qui comincia la falsità, quando l' uomo pretende che la cognizione soggettiva che egli ha delle cose reali, non deva essere soggettiva com' ella è. Con quanta logica, miei signori, nel primo Alcibiade, Platone introduce Socrate a dimostrare, che l' errore non istà nell' ignoranza, ma si riduce sempre a pretendere di sapere ciò che non si sa? Poichè dopo aver Socrate con accortissime interrogazioni condotto Alcibiade a pronunciare delle sentenze erronee intorno alle cose giuste e ingiuste, belle e turpi, utili e dannose, il costringe a confessare ch' egli s' è ingannato per ignoranza, ma tosto il riprende anche di questa confessione così proseguendo: [...OMISSIS...] Gran documento, signori, degno di Platone, degno che tutti i filosofi, tutti gli uomini l' abbiano avanti gli occhi prima di pronunciare checchessia. In tal caso non si sarebbe udita la strana sentenza, e non sarebbe invalsa nelle menti l' opinione, che la natura delle cose sensibili, p. e. dei corpi, si conosca con cognizione assoluta. E di più certi filosofi non sarebbero dati nell' eccesso opposto dello Scetticismo, negando che l' uomo abbia una cognizione qualunque delle essenze delle cose sensibili, tosto che venne loro dimostrato, o da se stessi trovarono, che tutta la cognizione che noi possiamo avere delle cose sensibili, che è quanto dire tutta la cognizione positiva, non è che soggettiva, ossia relativa al soggetto. Se v' ha dunque taluno, che giudichi e pronunci qualche cosa intorno ai sensibili, (sieno questi l' anima, o sieno i corpi) come se egli li conoscesse di cognizione assoluta, questi errerebbe certamente, e perchè errerebbe? Perchè mentre ignora non sa d' ignorare; perchè vuol portare il suo giudizio temerario al di là della sua cognizione. Ma non solo erra chi ignora e pretende di non ignorare, ma erra anche colui che mentre sa, ignora di sapere. Or bene, quegli che dice, che la cognizione soggettiva che abbiamo di noi stessi e de' corpi è nulla, o è cognizione fallace ed apparente, erra appunto in questo secondo modo; erra perchè giudica d' ignorare mentre sa. Come dunque evitare queste due opposte maniere d' errare? Noi l' abbiamo veduto; col non fermarci esclusivamente a considerare una sola maniera di cognizione; coll' abbracciare tutta quanta è la cognizione umana, tanto l' assoluta quanto la relativa, tanto quella che ci fa conoscere l' essere quanto quella che ci fa conoscere il sentimento (giacchè l' essere noi lo conosciamo con cognizione assoluta, benchè incompletamente, dovendosi ancora distinguere l' assoluta cognizione dalla completa); col riconoscere che tanto l' assoluta cognizione quanto la relativa, è fedele e verace fin a tanto che noi stessi non c' introduciamo arbitrariamente l' errore, affermando di conoscere ciò che ignoriamo, o d' ignorare ciò che conosciamo, o di conoscere in diverso modo da quello che conosciamo. E appunto per evitare gli indicati errori opposti tra loro tenemmo il cammino che avete meco percorso nelle nostre ricerche, e qual frutto ne raccoglieremo? Noi abbiamo diligentemente distinte e caratterizzate due nature di cognizioni, la positiva e l' ideale7negativa; e alla prima abbiam trovato doversi dare due qualità 1 d' esser vera, 2 d' esser soggettiva, relativa a noi stessi che siamo il soggetto, per contrapposto dell' assoluta . E che ella sia vera, il provammo perchè ella ci dice le cose tali quali sono; ci presenta cioè le cose soggettive come soggettive, e quando noi le prendiamo per assolute, siamo noi stessi che introduciamo l' errore giudicando male della verace nostra cognizione, e dicendo che ella è quello che non è. Ma finchè la prendiamo per quello che è non si dà errore, ed oltre esser vera quella cognizione nostra, ella ci è anche utile e necessaria, e preziosissimo dono della natura, poichè ella ci è sufficientissima regola ad evitare il male e ad operare il bene; a provvedere alla nostra conservazione, al nostro sviluppo, al nostro perfezionamento, sì fisico che intellettuale e morale, e così a condurci in una parola a conseguire virtù e felicità, che è il fine nostro. Perchè il fine nostro essendo soggettivo, cioè fine di noi soggetti, e le operazioni nostre e i mezzi coi quali ottenere il nostro fine essendo pure tutte cose soggettive, ci ha mestieri di norme soggettive per regolarle e indirizzarle a quello scopo a cui devono tendere. Il che videro gli stessi Scettici dell' antichità, quando riconobbero ed ammisero una certezza pratica ed operativa negando la speculativa. Errarono tuttavia gravissimamente in questo appunto, che non intesero come anche la cognizione e la certezza pratica sia necessariamente speculativa nella sua parte formale ed ideale, e quindi possa ella stessa essere argomento di certa teoria. Ma aggiungiamo ancora un' osservazione e poi concludiamo. La cognizione, dicevamo, è sotto un altro punto di vista sempre oggettiva, perchè ella si fa sempre per un atto dell' intendimento che s' affissa in un oggetto, cioè in un' entità che rimane sempre distinta dall' intellezione medesima; anzi tale che l' intellezione di sua natura la pone come distinta. Ma questo oggetto, noi soggiungemmo, può essere un soggetto o cosa che ad un soggetto si riferisce, ed allora la cognizione dicesi relativa e soggettiva. Quale è dunque la distinzione tra questa cognizione e l' assoluta? Se la cognizione soggettiva è quella, che ha per suo oggetto un soggetto, che cosa avrà per suo oggetto la cognizione assoluta? La risposta quanto è facile dopo quello che abbiam detto, altrettanto è importante, signori, perchè ci scorge a trovare una bellissima verità. Infatti che cosa possiamo noi rispondere a quella domanda, se non che, se la cognizione soggettiva ha per oggetto un soggetto, la cognizione assoluta dovrà avere per oggetto un oggetto? Ma come è questo? Non sembra egli un giuoco di parole? Eppure non è, miei signori; anzi è in questo apparente giuoco di parole che noi dobbiamo affissare bene la nostra attenzione per riuscire ad un nobilissimo ritrovato: perchè quando parliamo d' una cognizione che ha per suo oggetto il soggetto, allora manifestamente intendiamo, che l' oggetto di questa maniera di cognizione non è oggetto per se stesso, poichè egli è anzi soggetto. Dunque se non si dà cognizione senza oggetto, forza è che la mente abbia tale facoltà da cangiare in oggetto suo anche ciò che di sua natura, cioè ristretto a se stesso, è meramente soggetto; il che noi dicemmo oggettivare. Ma, notate, egli è uopo che ella faccia questa operazione senza che il soggetto si rimanga dall' essere soggetto come egli è. E così ella fa appunto; poichè se nol facesse non potrebbe mai conoscere i soggetti come pur li conosce. Che se volessimo anche cercare come i soggetti si possano oggettivare senza che perdano la loro natura di soggetti, noi troveremmo che v' ha un primo oggetto, che è l' ente in universale, il quale abbraccia nel suo seno tutti i soggetti, e che questi si oggettivano appunto quando si vedono in lui. Ma lo svolgere questo concetto ci condurrebbe troppo a lungo, e le cose dette innanzi intorno all' ente in universale pel presente nostro bisogno chiariscono la cosa abbastanza per chi ci medita. Veniamo dunque all' altra maniera di cognizione, cioè alla cognizione assoluta, il cui carattere distintivo è d' avere per oggetto un oggetto. Che cosa viene a dire questa locuzione? Non dice due volte la stessa cosa? Appunto, miei signori. Poichè se l' oggetto della cognizione assoluta è già un oggetto; dunque egli non ha più bisogno di essere oggettivato; dunque è atto ad essere conosciuto per se stesso, senza bisogno di farci sopra alcun' altra operazione intermedia; dunque egli è conoscibile immediatamente per se stesso. Ecco che siamo arrivati a trovare ciò che è conoscibile per se, ciò che è intelligibile per la sua propria essenza; poichè niuna cosa è intelligibile se non è oggetto; quindi ciò che è puro oggetto è l' intelligibile stesso, la luce stessa della mente, o come si suol dire volgarmente il lume della ragione. Il soggetto adunque, e le cose che al soggetto si riferiscono o cadono nel soggetto, non sono conoscibili per sè; esse hanno d' uopo d' essere trasferite coll' atto del pensar nostro in ciò che è oggetto per sè e loro contenente quasi in un immenso specchio, e di essere così rese conoscibili partecipando all' oggettività. E quali sieno le cose soggettive noi l' abbiamo veduto, tutte quelle che cadono nel sentimento o che modificano il sentimento, le cose sensibili in una parola, interne ed esterne; l' anima nostra che è il soggetto stesso, e i sentimenti dell' anima, le sensazioni, le qualità sensibili dei corpi, insomma tutto ciò a cui si stende la percezione, tutto ciò che forma la nostra cognizion positiva, tutta la realità nostra propria e quella qualunque realità che agisce nella realità nostra. Se la cosa è così, che dunque concluderemo? Che la realità a noi conosciuta non è per se stessa oggetto dello spirito, ma ha bisogno d' esser prima oggettivata per esser da noi conosciuta: che dunque dee precedere nel nostro spirito ciò che è oggetto per se stesso, l' ente in universale; che la cognizione della realità è posteriore, è necessariamente acquisita, con quell' atto col quale lo spirito stesso la rende a sè conoscibile. Possiamo ora portare giudizio di quel sistema, che pretende di fare la realità stessa oggetto del primitivo intuito dell' anima. In un tal sistema manca la dottrina dei veri caratteri che distinguono ciò che è soggettivo da ciò che è oggettivo. Noi ne parleremo più a lungo nelle susseguenti lezioni. Noi abbiamo fatto fin qui non piccolo viaggio, o signori: abbiamo difesa la distinzione fra l' ideale e il reale contro coloro che tentano di levarla dalla Filosofia, il che è quanto dire che non arrivano a coglierla colle loro menti; abbiamo dimostrato come quella distinzione sia il principio, secondo il quale si devono classificare le cognizioni umane, e investigare la natura propria di ciascuna classe: quindi vedemmo altresì che da lei solamente si può dedurre la dottrina intorno all' intuito naturale dell' ente ed ai confini dello scibile umano; dottrina necessarissima ad evitare gli errori, che tutti a due forme riduconsi: « l' affermare di sapere quel che s' ignora »e « l' affermare d' ignorare quel che si sa ». Vogliamo ora continuarci a derivare nuovi ed importanti corollarj da quella distinzione preziosa che rivendicammo fra l' ideale ed il reale; i quali ci dimostrano com' ella, maneggiata secondo una buona dialettica, ci diviene in mano un' arma potentissima, con cui combattere gli errori più disparati e più perniciosi. Oserei quasi dirvi, che non c' è errore in metafisica che con quella distinzione non si possa abbattere facilmente. Io vi recherò in esempio quell' erroneo e mostruoso sistema di cui più che mai si parla a' nostri tempi, cioè il Panteismo. E che mai diviene questo sistema cimentato alla nostra distinzione? Vediamolo. Primieramente osservate, che il Panteismo è l' errore di una filosofia sintetica, voglio dire esclusivamente sintetica . Infatti fino a tanto che non si è ancora introdotta l' analisi, niente è più facile che confondere Iddio coll' universo. L' uomo allora apprende e pensa tutte le cose come una sola: ella è proprietà della percezione l' unità dell' oggetto, e le prime percezioni abbracciano, per così dire, tutto l' universo; una simile unità si scorge ancora nelle prime riflessioni. Qual meraviglia dunque che al pensiero dei primi investigatori della natura ogni cosa appaja mescolata col tutto; niente ci abbia al loro vedere di distinto, e la Filosofia così cominci col caos come la creazione? Ciò dee sembrare naturalissimo e necessario, e questo spiega come i sistemi panteistici sieno nati nella più remota antichità, e sieno proprj dell' Oriente, dove l' analisi non fece mai progresso alcuno, nè mai nacque o crebbe a buon punto la dialettica. Spiega ancora come in questa nostra Italia, quando i genj della Magna Grecia cominciarono il ciclo della filosofia occidentale, il primo loro pronunciato fu il panteismo. Ricordatevi, miei signori, di Senofane e di Parmenide, che spinse alla perfezione il sistema dal primo abbozzato dell' « Unità assoluta »e della famosa loro formula «en ta panta» (1). Ma un tale sistema non si tenne in piedi: fu assai breve il trionfo, o, per dir meglio, la tirannia che il sistema dell' unità esercitò sulla pluralità da lei assorbita e distrutta. Tostochè Zenone discepolo a Parmenide ridusse a scienza la dialettica (la maggiore invenzione forse che sia mai stata fatta, e tale che basterebbe sola ad illustrare l' Italia), il panteismo non potè più mantenersi; onde si può dire che quegli che più ingegnosamente il difese, qual fu Zenone, ne preparò altresì l' irreparabil caduta, introducendo nelle menti quest' arte analitica, in faccia alla quale esso non può durare e tenersi, la quale era pure stata trovata in suo servigio. Che dunque diremo, miei signori, osservando così di passaggio quella smania di che si mostra agitato alcuno dei presenti scrittori (il Gioberti) d' innalzare a cielo il metodo sintetico, e di deprimere l' analitico, quasichè la sintesi che non sia preceduta dall' analisi possa essere per avventura altra cosa che quello stato appunto d' ignoranza, di rozzezza, di confusione in cui si trovan le menti negli esordj delle nazioni (2)? Per la ragion de' contrarj dimostriamo tosto quanto l' analisi delle cognizioni umane ci spiani dinnanzi una via regia da condurci a vedere la falsità del panteismo, e tagliarlo dalle radici. E da prima, se il panteismo è quell' errore che confonde tutte le cose con Dio, e Dio con tutte le cose, l' errore della confusione, l' errore eminentemente sintetico, o piuttosto la sintesi di tutti gli errori; già si vede pur considerando questa sola condizione di lui, che qualsivoglia grado d' analisi distrugge il panteismo, poichè qualunque distinzione reale e separazione che noi facciamo nelle cose, il panteismo è tolto via: saremo forse caduti in qualche altro errore, ma nel panteismo non più. Pure non è questa, miei signori, l' applicazione che io vi chiamo a fare della nostra analisi alla confutazione del panteismo; ma ho voluto farvi riflettere in generale, che niun sistema analitico può essere panteistico; e perciò il sistema da noi seguito (quello del Rosmini) che viene riconosciuto per eminentemente analitico dagli stessi avversarj, e per questo gli danno biasimo e mala voce, non può essere che lontanissimo dal panteismo; nè quelli possono accusarlo di questo errore, senza cozzare seco medesimi. Poichè queste due qualità che gli vengono date ad un tempo di essere sommamente analitico, e di essere panteistico (quest' ultima però è accusa datagli dal solo Gioberti) sono, per dirlo di nuovo, contradizione. Veniamo dunque a noi: veniamo agli argomenti che escono dai visceri della nostra filosofia, i quali abbattono il panteismo. Noi abbiamo distinto l' ideale dal reale; abbiamo veduto che l' ideale è il fonte di quel cotale infinito che si scorge nello scibile umano, e il reale è il fonte della limitazione di questo stesso scibile . Di qual reale parliamo noi? Di quello che è l' oggetto della nostra percezione; di quello che costituisce il positivo della nostra cognizione; poichè già dicemmo, che la cognizione, in quant' è negativa, è potenzialmente priva d' ogni confine. Ecco dunque che noi con questa importantissima distinzione del reale e dell' ideale, di ciò che è l' oggetto della nostra intuizione, e di ciò che è l' oggetto della nostra percezione, abbiamo tirato una linea di separazione tra il finito e l' infinito, tra le cose contingenti e le cose eterne. Infatti quali sono i caratteri che noi abbiamo assegnato all' essere in universale , che è il proprio e necessario oggetto dell' intuizione, e che è il medesimo che dire l' essere ideale? Questi caratteri furono i più eminenti, cioè, se vi sovvenite, l' eternità, l' impassibilità, l' immutabilità, la necessità, la semplicità ovvero unità e l' infinità. Quali sono all' incontro i caratteri che noi abbiamo assegnati al reale a noi sensibile e percettibile nell' ordine di natura? I caratteri direttamente opposti a que' primi: e quindi la temporalità, la passibilità, la mutabilità, la contingenza, la pluralità e la limitazione. Ora di due qualità contrarie un subietto solo, una sostanza sola, non può averne che una, pel principio di contradizione, che vieta di affermare due qualità contrarie contemporaneamente e sotto lo stesso aspetto del subietto medesimo. Dunque se l' ideale e il reale da noi percettibile hanno proprietà direttamente tra loro contrarie, esse non possono esser un subietto solo, nè una sola natura, ma devon esser due nature affatto tra loro distinte. Ebbene, con questo già voi vedete, o signori, che il panteismo è impossibile. Intanto il reale a noi percettibile non sarà mai Dio; perchè esso ha i caratteri opposti ai divini. Esso è soggetto al tempo, ma la natura divina non soggiace punto alla legge del tempo. Esso è sottoposto alla passione, cioè un reale agisce sull' altro, un reale riceve l' azione dell' altro, ma niente può agire sopra di Dio, il quale è atto purissimo, come dimostra la Teologia, e però è superiore a tutti gli agenti inferiori, che da lui solo ricevono l' esistenza e l' attualità: l' essere reale da noi percepito è mutabile e modificabile, appunto perchè misto di potenza e di atto; ma questo ripugna all' essere divino che è sempre lo stesso: l' essere reale di cui parliamo, è contingente, cioè egli è tale di cui si può pensare tanto che sia, quanto che non sia; ma se di Dio nel suo intero concetto si potesse pensare che non fosse, già non sarebbe più Dio, e il levarlo via col pensiero, è un rendere impossibile il pensiero medesimo, poichè essendo Iddio la prima causa, tutto si distrugge colla distruzione di esso; perciò anche il pensante e il pensiero. L' essere reale, oggetto della percezion nostra, è moltiplice; i corpi sono fuori l' un dell' altro; le anime sono individue, aventi ciascuna un' esistenza tra loro incomunicabile; ma in Dio, non che darsi pluralità di natura, v' ha semplicità sì perfetta, che l' essenza sua non ammette neppure distinzioni reali di sorta alcuna. E finalmente l' essere reale a noi percettibile è d' ogni parte limitato, onde appunto gli accade di esser moltiplice, mentre Iddio è l' essere infinito da tutti i lati, sicchè nulla si può assegnare che il limiti e circoscriva. La distinzione adunque tra l' essere reale , e come oggetto della nostra esperienza e della nostra percezione, dall' essere ideale , oggetto della primitiva nostra intuizione e lume di nostre menti, il quale si riduce in Dio come una sua appartenenza (1), basta ella sola a distruggere ogni sistema di panteismo. Ma noi non dobbiamo accontentarci, miei signori, di questa confutazione universale, benchè irrepugnabile. E sapete perchè non dobbiamo noi accontentarcene? Perchè l' errore fa bene spesso come il ladro, che scacciato da una porta del palazzo entra di soppiatto da un' altra. Egli è vero che la mente che ha una volta bene afferrato l' assurdità d' un sistema, non dovrebbe più ammetterlo per cosa alcuna; egli è vero questo, ma ad una condizione, sapete quale? A condizione che la mente sia coerente seco stessa; e questa condizione appunto assai spesso non si verifica nella povera mente umana. Vediamo dunque, per quali vie l' errore del panteismo potrebbe mettersi furtivamente in essa, il che è quanto dire vediamo quali e quanti sieno que' ragionamenti che portan seco per logica conseguenza il panteismo. E cominciamo da quelli che muovono da un erroneo concetto dell' essere ideale; sarà questo il primo dei sistemi filosofici panteisti, che noi piglieremo a impugnare. Che cosa è, miei signori, l' essere ideale? Noi abbiamo già veduto che cosa egli è in sè stesso, ma all' uopo nostro dobbiamo darne una definizione che ne esprima l' uso. Diremo dunque che l' essere ideale è il mezzo del conoscere . Questa definizione non si può negare. Infatti l' uomo conosce per mezzo delle idee; senz' idee niente egli conosce. Tuttavia ella è una grande questione quella che si fa sulla natura del mezzo del conoscere. Noi che abbiamo distinto l' essere ideale dall' essere reale, abbiamo altresì sostenuto che il mezzo del conoscere è il puro essere ideale distinto dal reale. Ma questo sembra agli avversarj nostri un solenne sproposito; e vogliono che il mezzo con cui la mente umana conosce non sia solamente ideale, ma sia reale altresì; poichè, a loro avviso, ciò che è meramente ideale è nulla, non potendo essi comprendere niun' altra maniera di essere, distinta dalla realità. Ora vediamo un po' qual sarebbe la conseguenza del sistema che gli avversarj nostri vogliono sostituire a quello dell' essere ideale come mezzo dell' umano conoscere. Prima di tutto se l' essere ideale con cui l' uomo conosce è anche reale, quest' essere indubitatamente è Dio; poichè non solo ha tutti i caratteri divini che abbiamo enumerati della eternità, dell' impassibilità, dell' immutabilità, della necessità, della semplicità e della infinità, ma tutti questi caratteri non si restringono più ad essere mere idee, ma costituiscono oggimai un ente sussistente, il quale di conseguenza non può essere altro che Dio; ed essi, gli avversarj nostri, non rifuggono menomamente da questa evidentissima conseguenza, anzi ci confessano che l' oggetto della intuizione primitiva del nostro intelletto è appunto Iddio; e di ciò menan vanto, e pretendono riscuoter lode di filosofi religiosissimi, non senza morder noi d' empietà come quelli che ci dipartiamo dal celebre principio del greco poeta: « a Iove principium ». Ma non crediamo che questo luogo di Arato sia citato a ragione contro di noi; e di più crediamo che convenga, sopra tutto oggidì, guardarsi non meno per avventura che dall' empietà, da una falsa specie di Religione: perocchè conviene ben poco conoscere lo spirito del secol nostro, per non accorgersi, che non è quello dell' irreligione aperta, ma invece è uno spirito grandemente prolifico di sistemi bugiardamente religiosi ed ipocriti: parlo, signori miei di sistemi, e non di sistematizzanti: ed è per ciò che oso dire, che il sistema che ci si contrapone da Vincenzo Gioberti come religiosissimo, senza voler io punto toccare la religione del suo autore, è più che mai panteistico, benchè questo facondissimo scrittore declami con istraordinario zelo, e diciamolo francamente, con un zelo affettato contro di questo errore. Mettiamo dunque in confronto i due sistemi, e vediamo se l' uno o l' altro di essi sia per avventura affine all' empietà panteistica. Cominciamo dal nostro. Onde prendiamo noi la realtà delle cose? Dal sentimento, dal sentimento che ci costituisce, e poi dall' azione delle cose stesse reali su di noi, la quale da noi si sente, secondo la nostra condizione di esseri senzienti. Notate bene, miei signori, che dai nostri avversarj siamo perciò appunto accagionati di sensismo , poichè essi stimano che sia sensismo il prendere la realità dalle sensazioni, e non cavarla dall' intuito di Dio stesso. Ebbene: donde prendiamo noi la idealità delle cose? Non già dal sentimento; il che per tutti quelli che intendono un poco la natura dei sistemi filosofici, sarebbe veramente sensismo; non già dal sentimento, dicevo, ma dall' idea dell' essere in universale . Ora ditemi un poco: diamo noi forse alle cose reali e sussistenti l' idealità? Facciamo noi che l' idealità sia un elemento intrinseco della realità? Mai no; che anzi tutto il nostro studio consiste in tener separata l' idealità dalla realità della cosa, e noi la teniamo così separata, o se meglio vi piace, distinta, che noi la diciamo anzi incomunicabile. Infatti che cosa è l' idealità? Non altro che la cosa universale, possibile . Che cosa è la realità? Non altro che la cosa sussistente . Ora la cosa possibile non è e non può essere in modo alcuno la cosa sussistente. Ma le cose, in quanto sono cose contingenti e create, son elle possibili o sussistenti? Sussistenti, miei signori; poichè il possibile è eterno, e però increato; nè gli si può dare il titolo di creato, se non per esprimere ch' egli ha cominciato ad esistere in un modo distinto nella mente umana; non che egli abbia cominciato ad esistere nella possibilità universale delle cose (nella mente divina). Che servigio adunque presta a noi l' essere possibile? Non altro che quello di farci conoscere le cose sussistenti; poichè altro è la cognizione delle cose sussistenti, e altro la loro stessa sussistenza; senza l' essere possibile risplendente nelle nostre menti, le cose sussistenti non sarebbero a noi conosciute; ma sarebbero nondimeno sussistenti ed altresì sentite. Un' altra ricerca è poi quella, se possano sussistere senza essere conosciute da mente alcuna. Questa ricerca ontologica non appartiene punto nè poco al ragionamento presente. Ma come l' essere possibile, essendo meramente possibile, ci fa egli conoscere le sussistenze? Noi l' abbiamo veduto, noi l' abbiamo già spiegato precedentemente: non è che egli solo ci faccia conoscere le sussistenze, il che sarebbe assurdo; ma egli ci mette in grado di conoscerle all' occasione dei sentimenti; poichè noi mediante l' essere possibile, vediamo le sussistenze possibili, e vedendo le sussistenze possibili, possiamo anche affermarle allorchè le sentiamo, e tostochè le abbiamo affermate, noi le abbiamo conosciute; poichè questa dell' affermazione interiore è l' unica maniera di conoscere le sussistenze: all' incontro datemi un ente, il quale non potesse intuire le sussistenze come possibili (la possibilità delle sussistenze), in tal caso neppure potrà affermarle, e quindi neppur conoscerle come sussistenti, poichè affermare una sussistenza, non è altro che dire a sè stesso, che ciò che si sente è la realizzazione del possibile che s' intuisce. L' essere ideale dunque è per noi la condizione necessaria dell' affermare le sussistenze; non è egli stesso l' affermazione delle sussistenze, e molto meno le sussistenze medesime. Ora quando si afferma la realizzazione del possibile intuíto, non è mica che si affermi il possibile del reale, ciò che sarebbe un assurdo ed una contradizione, ma si afferma il reale come esemplato relativamente al possibile che è l' esemplare. Dunque nel sistema nostro non si predica del reale finito che cade ne' nostri sensi nessuno dei caratteri divini dell' essere possibile, che rimane sempre dal reale distinto; e quindi il divino e l' umano, il necessario e il contingente, restano immensamente e per sempre divisi, inconfusibilmente distinti. Passiamo ora al sistema de' nostri avversarj, nel qual sistema la realità stessa non si prende dal sentimento, come dicevamo, perchè è data nel primo intuito. Ora secondo essi, l' oggetto dell' intuito primitivo, il mezzo con cui l' uomo conosce tutte le cose reali, è Dio stesso. E bene, esaminiamo un poco come faccia l' uomo a conoscere, qual sia la natura dell' atto con cui l' uomo conosce i reali. Si direbbe egli che l' uomo conosca un dato reale, p. e. una casa, senza saper niente di lei? senza saper che sussiste? certo che no. Niente dunque si sa d' una cosa reale, se ignorasene la sussistenza. L' atto dunque, con cui si conosce una cosa reale, involge, come sua condizione intrinseca, che noi nel nostro interno affermiamo la sussistenza di quella cosa. E appunto qui, dicono i nostri avversarj, che essendo Dio l' Ente per essenza, abbiamo bisogno di Dio per conoscere le cose reali, come l' Ente nel quale sono e onde ricevono continuamente la sussistenza per via di creazione. Ma se la cosa è così, argomentiamo in questo modo: noi conosciamo la sussistenza delle cose reali, coll' affermare che esse sussistono, il che è quanto dire, col predicare di esse la sussistenza. Ma questa sussistenza che noi predichiamo di esse e che noi loro attribuiamo, secondo i nostri avversarj è nel primo intuito, il cui oggetto è Dio stesso; dunque l' essere reale di tutte le cose è Dio; dunque affermando le cose, affermiamo Dio; dunque le cose tutte che conosciamo altro non sono finalmente che Dio; l' oggetto del nostro conoscere è sempre Dio, anche quando conosciamo i corpi e gli enti finiti d' ogni maniera; quindi tutte le scienze non sono che Teologia, e l' enciclopedia delle scienze, come dice appunto Vincenzo Gioberti, altro non è che una Religione. Ora ditemi che ve ne pare? Non altro ve ne può parere, io credo, se non che questa dottrina è panteismo apertissimo e manifestissimo. Permettete, miei signori, che io vi legga qui un luogo di questo caldo avversario del sistema da noi seguito, pronti anche dopo di ciò a discutere quanto egli dice per giustificarsi dall' accusa di panteismo che ben prevede dovergli essere apposta. [...OMISSIS...] Io non so, miei signori, come si possa professare il panteismo più apertamente, e come si possa con sincerità niegare di professarlo. Ma osservate diligentemente tutto ciò che afferma il signor Gioberti in questo periodo e le conseguenze che ne verrebbero, benchè certo dobbiamo ad ogni modo credere, contro la volontà dello scrittore. [...OMISSIS...] A dir vero con queste parole si sublimano molto le umane scienze; giacchè si assicura che il Fisico, il Matematico, il Chimico, l' Anatomico, il Fisiologo, ogni scienziato insomma, sia cristiano, sia gentile, turco o ebreo, il quale investighi qualche parte della natura fisica o spirituale, non è niente affatto inferiore al Teologo e neppure al Mistico più sublime, perchè di tutti i suoi studj egli ha sempre egualmente per termine immediato Iddio stesso, e così deve essere: se Iddio è l' oggetto universale del sapere, necessariamente l' oggetto immediato di ogni scienza, ed ogni cosa di cui tratta una scienza qualsiasi, ha per essere suo Iddio stesso. Le scienze così sono, come dicevo, innalzate oltre misura, e come esse si cangiano tutte insieme in una Religione, così i dotti devono essere i sacerdoti di questa nuova Religione; e non devono essere già chiamati sacerdoti per un modo di favellare traslato, ma nel senso il più proprio della parola, in senso veramente filosofico, giacchè nel senso il più proprio, e, siccome l' ultima espressione del suo sistema, il signor Gioberti ci dice, che « Iddio è l' oggetto universale del sapere , » e che tutte le scienze hanno per « termine immediato Dio stesso », e che sono (il che è conseguente) una religione . Certo la cosa dee essere così, miei signori, poichè se l' essere reale che noi predichiamo di tutte le cose reali è Dio stesso, come si sostiene; essendo Dio l' essere di tutte le cose, non si può dare scienza che non abbia per suo termine immediato Iddio. E notate bene, che non dice già solo termine, ma termine immediato, il che esprime propriamente l' oggetto del conoscere, sicchè quando noi conosciamo un legno, l' oggetto del conoscere è Dio; e quando conosciamo una pietra, un ferro, una serpe, uno scarafaggio, un uomo, il diavolo stesso finalmente (scusate se faccio entrare questo personaggio) l' oggetto del nostro conoscere è sempre Dio; Dio stesso è il termine immediato della nostra conoscenza, nè più nè meno. Che ve ne pare, di nuovo vi domando, signori miei? calunniamo noi forse il signor Gioberti? o piuttosto non sono le sue stesse parole stampate alla pagina VI e VII della citata « Avvertenza », che ci dicono tutto questo, e ce lo dicono come un riassunto del suo sistema, come l' espressione dell' intimo suo pensiero, come la formola più esatta della sapienza, quella famosa formola di cui egli parla con tanta compiacenza, e dall' alto della quale compatisce sì poco la nostra ignoranza? Beate adunque le umane scienze che sono divenute la religione del Dio7Mondo! Beati i dotti, che sono divenuti i veri sacerdoti di questo Dio giobertiano! Beati i gentili Confucio, Zoroastro, Budda, Averroè, Leucippo, Democrito, e quanti empj fur celebrati in mezzo al paganesimo o tra i Musulmani per uomini dotti, investigatori della natura, i quali, eziandiochè professassero l' ateismo, avevano però Dio stesso per termine immediato de' loro studj, quel Dio che è sempre l' oggetto universale del sapere! Beati gli Enciclopedisti e tutti gl' increduli d' ogni nazione, che ne' due secoli passati combatterono il Cristianesimo, e fin l' esistenza di Dio, i quali diventano per la giobertiana dottrina altrettanti pontefici del nuovo culto, della nuova religione, che annunzia e predica questo non so se filosofo, o pur profeta! Ed io ben credo che se potessero rinascere, maravigliati di tanta trasformazione, al vedersi unti sacerdoti e pontefici quelli che finchè vissero, bestemmiarono ogni fede ed ogni culto, si dichiarerebbero troppo riconoscenti al signor Gioberti; nè esiterebbero per avventura un istante ad arruolarsi sotto ad un sì nuovo stendardo, se non che, miei signori, io temerei che questo stendardo che si fa ora sventolare agli occhi dell' Italia, sarebbe forse strappato di mano all' ardito antesignano, che tolse ad inalberarlo: poichè e il Waishaupt e il Saint7Simon, ed altri ancora di cotali gerofanti, rivendicherebbero probabilmente a sè la gloria di averlo innalzato i primi, e dichiarerebbero l' Italiano usurpatore della gloria straniera. Davvero che il Padre Enfantin non serebbe l' ultimo ad assalire il nostro bandierajo, e torgli di mano l' insegna, perchè io suppongo, miei signori, che voi siate già al fatto di tutto ciò che scrissero i San7simoniani per dimostrare che tutte le scienze, le arti, il commercio, l' industria, l' agricoltura non è altro che Religione, l' unica Religione, la sola vera Religione, e che perciò appunto Iddio essendo l' uomo e tutte le cose, non c' è bisogno d' altro culto, di altra sacerdotale gerarchia, che il culto delle scienze e delle arti, i cui sacerdoti sono tutti gli uomini dotti, industriosi, e che sanno godere i beni della vita, beni tutti naturalmente divini; e sacerdotesse sono le donne delle stesse attitudini fornite: di che traevano altresì che la disposizione più eccellente ad un tale loro sacerdozio non era altro che l' avvenenza de' corpi, giacchè dicevano e dicono, che tali sacerdoti e tali sacerdotesse debbono esercitare il nuovo loro culto principalmente colla bellezza. Onde codesti inspirati, che dal Saint7Simon presero il nome, trassero già dalla teoria che il Gioberti ora ripete ristretta ne' suoi principj, e ce la dà come un eccellente sistema di vera filosofia, tutte le conseguenze pratiche che da essa legittimamente derivano, e che egli giustamente ricusa e disdice. Ma noi non siamo qui, miei signori, per trattare quasi innanzi a tribunale il diritto di priorità che possa avere l' abate Gioberti all' invenzione del suo sistema sopra i precedenti; non siamo qui per esaminare a qual titolo egli si vanti d' aver nobilitata la scienza, e fattala divenire una specie di culto nobilissimo verso il suo Autore. Siamo qui solamente per esaminare una verità importante al nostro studio, per riconoscere con mature ed imparziali riflessioni, se si possa confondere l' ente ideale col reale, l' idea con cui l' uomo conosce tutte le cose, colla realità di Dio, senza professare con ciò appunto un sistema di panteismo. Poichè io sono ben certo che voi tutti sarete meco d' accordo in questo, che se rimane provato, che dichiarando esser Iddio stesso il mezzo unico e necessario con cui si possono conoscere tutte le cose reali, è lo stesso che fare Iddio l' essere reale e la sostanza di tutte le cose, se ciò sarà provato una volta, dico, non potrà mai più venire un tempo in cui questa dottrina cessi dall' essere panteistica, poichè ciò che è vero una volta è vero sempre, e però non può riuscire che vana la lusinga del signor Gioberti, il quale spera appunto che verrà un tempo in cui non sarà più panteistico il dire che « Iddio è in tutta la scienza » confessando con ciò che, al presente almeno, la sua è una dottrina riputata panteistica. Ma concedetemi che io vi legga anche questo brano, in cui egli va preconizzando i destini della nuova teoria. [...OMISSIS...] E certo la scienza non può essere religiosa, come egli dice, se non è una religione, quando sia vero che l' oggetto d' ogni scienza e di ogni cognizione è Dio stesso. Ma se per l' opposto, l' oggetto e il termine immediato delle scienze naturali non è Dio stesso, converrà dire il contrario, miei signori; converrà dire che il pretendere che la scienza sia irreligiosa sol perchè non è una religione, è un portare le cose all' eccesso, è un confondere due cose ben diverse, la religione e la scienza, e dichiarando la scienza religione, egli è un sagrificare la religione alla scienza. Giacchè non vi ha più bisogno di un' altra religione in tal caso, qualora gli uomini coltivino la scienza, che è già la religione ella stessa: e perciò il fisico, il botanico, l' astronomo non ha più bisogno d' altro culto, che del culto della natura, delle piante, degli animali e degli astri, perocchè questi sono gli oggetti immediati di tali scienze, o son tutti Dio, perchè l' oggetto e il termine immediato della scienza è Dio. Io non so, miei signori, come si possa professare più apertamente il panteismo; ma poichè il nostro signor Gioberti fa almeno le mostre di voler giostrare contro tutti i panteisti anteriori a lui, e quindi dobbiamo credere lontanissimo dall' animo suo un tale errore; ella è cosa equa e necessaria per illustrare questo argomento e investigarne il fondo, che noi ascoltiamo ed esaminiamo diligentissimamente le sue discolpe, e facciamo ogni nostra possa per liberarlo da tanta vergogna, o almeno da tanto abbaglio, se mai ci riesce possibile; se non che non rimanendoci oggi mai più tempo in questa lezione da svolger le ragioni con cui egli toglie a giustificarsi, ne riserveremo la trattazione alla lezione prossima, contentandoci per questa di solo sfiorare l' ampia materia. E per primo fiore che noi possiamo raccogliere ad introduzione della sottile disamina, piglieremo a nostro pro un avvertimento che ci dà lo stesso Gioberti, ed è [...OMISSIS...] Non applichiamo no, miei signori, il titolo di frasi menzognere alle frasi giobertiane, siccome quello che ha una non so qual relazione ingiuriosa coll' animo; ma non sarà indiscreto nè ingiusto che noi chiamiamo magnifiche le frasi che egli adopera, e sotto una veste magnifica si possono certamente coprire anche cenci o piaghe profonde. Onde non ci vorremo noi lasciare illudere al suono delle parole, ma col pensiero semplice e retto cercare i concetti. L' altra cosa che vi farò osservare prima di chiudere la lezione, si è che due sono le strade più generali per le quali si può rovesciare nel panteismo, delle quali il Gioberti non par che conosca se non una sola. Poichè egli è tuttavia certo che una strada conducente al panteismo, è il partir da Dio, e discendendo alle creature, con queste confonderlo; l' altra si è muover dalle creature, e confonderle col Creatore. La prima è il confondere la natura necessaria ed assoluta colla contingente e limitata, ed è propria di quelli i quali, formandosi un' idea grandissima di Dio, non sanno poscia tener da lui le altre cose distinte, ma le fanno assorbire in lui stesso e così indiarsi; la seconda è propria di coloro che più grossolanamente della grandezza dell' universo stupiti lo vengono deificando. Egli è evidente che entrambi riescono al medesimo risultato, benchè i termini da cui muovono siano diversi; poichè vi ha tanto dalla natura a Dio, quanto vi ha da Dio alla natura, e il dire che Iddio è tutte le cose, riesce al medesimo che a dire che tutte le cose sono Dio. Ora coloro che fanno Dio quell' Essere che si afferma e si predica delle cose reali, e col quale si conoscono, sogliono essere di que' panteisti, che avendo precedentemente un' idea grande di Dio, credono magnificarlo vie più col dichiarare che l' essere suo è quell' essere stesso che l' intendimento conosce in tutte le cose reali, e che perciò il termine immediato della cognizione di ogni cosa è Dio. Ma il Gioberti non vuol punto riconoscere questa seconda via per la quale si viene al panteismo, confondendo la natura necessaria colla contingente; che anzi pretende non avervi che un sistema di panteismo, il quale confonde la realità contingente colla realità necessaria. Egli se ne dichiarò espressamente nell' opera degli « Errori », perchè il professore Tarditi aveva scritto che [...OMISSIS...] Ora il Gioberti gli negò recisamente che il panteismo nascesse dal fare che quell' Ente che è il principio del sapere sia altresì il principio e la base delle realità contingenti, anzi egli scrisse così: [...OMISSIS...] . Ma noi sappiamo assai bene, che la confusione della realtà contingente colla realtà necessaria e assoluta è principio generativo del panteismo; ma sappiamo altresì che è ugualmente principio generativo del panteismo la confusione della idealità necessaria e assoluta colla realità contingente (tanto più nel sistema di Gioberti, che ad imitazione di Hegel, chiama e definisce Iddio l' idea); come pure l' identificazione di quella idealità con tutto ciò che non è la stessa realità necessaria e assoluta, ed è questo che ignora e disconosce il signor Gioberti; e però egli ci dà un giusto sospetto, o per dir meglio, ci spiega per qual via egli pervenne al suo errore, ignorando dove tal via conduce. Poichè escludendo egli uno dei sistemi di panteismo, pretendendo che non ci sia che l' altro dei due grandi sistemi da noi indicati, non riconoscendo che una sola delle due vie che mettono a tale errore, qual meraviglia, miei signori, ch' egli sia, e nieghi ciò nondimeno di essere panteista? Il suo sistema panteistico è appunto quello che egli disconosce, la via per cui egli se ne va a precipitarvi è appunto quella che egli ignora, o dichiara ignorare che meni a tal termine. Ma d' altra parte come può egli ignorar ciò? quali almeno sono le ragioni, alle quali affidato, pretende che non è punto nè poco infetta di panteismo quella dottrina ch' egli professa, e colla quale sostiene a rigor di parola, che il termine immediato di ogni cognizione naturale è Dio, che Dio è l' oggetto universale del sapere? Questo, come vi dicevo, è ciò che nella prossima lezione servirà di tema al nostro ragionamento. Avete veduto, o signori, in qual maniera il signor Gioberti pensi di medicare e rimpastare il sistema rosminiano per allontanarsi più che mai dall' empietà panteistica da lui tanto detestata ed abborrita. Noi per ispiegare la cognizione delle cose reali, e principalmente la percezione intellettiva, ricorrevamo col Rosmini non meno che col senso comune, all' azione che esse esercitano immediatamente sopra di noi producendoci i sentimenti. Ma poichè quest' azione e questi sentimenti non possono esser più che materia di cognizione, cercavamo poi il formale della cognizione in un elemento divino, cioè nell' essere possibile, che è l' intelligibile stesso. Noi abbiamo posta tutta la cura per non confondere l' idea elemento divino con cui si conosce, colla cosa reale che affermando si conosce, la quale, se parlasi di cose create, è contingente: e così ponendo un muro di separazione insuperabile tra la cosa contingente e l' elemento divino con cui ella si conosce, credevamo d' avere estirpato il panteismo fino dalle radici. Ma il signor Gioberti grida all' incontro con altissima voce, che noi siamo appunto per questo panteisti, perchè abbiamo elevato questo gran muro che separa il divino dall' umano, e che egli solo ha trovata la via di annientare quest' errore perniciosissimo coll' atterrare del tutto il muro di divisione da noi eretto. E come procede egli in questo suo trovato? Voi l' avete veduto, col negare fieramente che gli uomini prendano dal sentimento la materia della cognizione dei reali, e coll' affermare che essi prendano tanto la materia, quanto la forma di questa cognizione, tanto l' elemento ideale, quanto l' elemento reale de' contingenti in Dio stesso percepito da noi, com' egli pretende, per un naturale intuito, di maniera che Iddio sia sempre l' oggetto universale del sapere e tutte le scienze abbiano per loro termine immediato Dio stesso, e sieno una religione! Tale è la pretensione del signor Gioberti, ed io credo, come v' ho detto nella precedente lezione, che deva essere tanto difficile ad ogni uomo di buon senso il capire come si possa evitare il panteismo cercando nella natura divina la realità delle cose contingenti, quant' è difficile il capire come si possa accusare di panteismo una filosofia che toglie la realità delle cose contingenti da queste stesse cose, e non ricorre all' elemento divino se non per ispiegare la loro cognizione. Ma poichè il signor Gioberti stesso pur sente d' aver bisogno d' una apologia e d' una difesa contro il sospetto di panteismo; egli si sbraccia a difendersi, ed è questa apologia che noi ci siamo proposti di esaminare nella lezione presente con tutta la possibile equità e discrezione. In primo deve esser cosa bella ed intesa con noi, che il protestare e gridare di non esser panteista, come pure il dare generosamente quest' accusa agli altri, questo solo non iscioglie la questione, perchè in filosofia non vale il cicaleccio, ma la ragione; non vale fare lo spavaldo, ma convien fare il filosofo; onde tutte le declamazioni del signor Gioberti contro gli altri sistemi, e specialmente contro quelli da cui egli ha preso di più, e tutte le magnifiche lodi che dà a sè stesso, non devono, miei signori, entrare in conto: e qui noi dobbiamo, se vogliamo trovare il vero e non bere grosso, cancellarle coll' imaginazione nostra da' suoi volumi senza compassione di renderli, così facendo, piccini piccini, o, per usare una parola sua, assai mingherlini. In secondo luogo egli stesso ci avverte di non lasciarci illudere, come avete udito, « dalle frasi magnifiche e menzognere che talvolta adoperano i panteisti »; il che dee valere anche per lui finattanto che non è purgato intieramente dal sospetto di panteismo ch' egli stesso teme d' incorrere; benchè predica che verrà un tempo in cui non si avrà più per panteistico il dire quel ch' egli dice, cioè che « « Iddio è in tutta la scienza » », frase che contiene il sistema da lui professato e con che egli viene a riconoscere che al presente almeno quella frase nel senso datole è riconosciuta per panteistica. Oltre ciò, dopo aver egli scritto nel 1.40, nell' « Introduzione allo studio della filosofia », che Iddio è « « l' oggetto universale del sapere » », tre anni dopo, cioè nel 1.43, nell' opera « del Buono » confessò che questa frase è equivoca, e che per lo meno uno de' suoi sensi è apertamente panteistico, benchè egli l' abbia pronunciata assolutamente, e senza distinzione, come quella che esprimeva nel modo più proprio tutta la sua dottrina. Udite, o signori, la sua confessione nell' Avvertenza premessa all' opera « del Buono » [...OMISSIS...] . Se dunque questa frase si può prendere anche in senso eterodosso e panteistico, perchè l' ha egli pronunciata assolutamente ed incondizionatamente? perchè ha lasciato che tutto il mondo per ben tre anni la considerasse come l' espressione più fedele del suo sistema? Ma via, posciachè ora egli stima bene di ritrattarsi in parte, cioè di ritrattare l' uno de' due sensi che può avere quella frase, vediamo con quali argomenti dimostri, che nel suo sistema essa debba avere un senso ortodosso. Egli avverte, che i panteisti [...OMISSIS...] . Io non mi fermerò, o signori, ad osservare la poca proprietà filosofica di que' suoi dati scientifici, frase tutta sua; ma piuttosto domanderò se l' oggetto del sapere possa essere la sola forma senza la materia, o la materia senza la forma. P. e. il fisico che parla delle diverse specie di sostanze corporee, prende forse ad oggetto della sua dottrina i corpi spogliati di materia? o volendo esporre la scienza dell' uomo potrà l' antropologista parlare d' un uomo non composto di carne e di ossa? I corpi celesti che sono l' oggetto dell' astronomia si possono concepire privi al tutto d' ogni materia e d' ogni realità? e in generale quando le scienze trattano di esseri reali, e non puramente ideali, si può egli dire che il loro oggetto debba esser privo di materia ossia di realità? Poichè non si parla già qui di materia o di realità individuata, ma della materia de' dati scientifici che è materia e realità comune e specifica. Laonde, se i panteisti sotto il nome d' oggetto del sapere intendano la forma o idea dei dati scientifici, e la loro materia egualmente, niuno potrà accagionarli per questo d' errore, finchè si parla di scienze che hanno esseri determinati per loro oggetto, quando non si voglia dire che l' oggetto di un tal sapere sia costituito dalla sola forma senza più contro a ciò che si propone la scienza. Dove sta adunque l' errore dei panteisti? non già nella definizione dell' oggetto del sapere, che loro attribuisce il signor Gioberti, ma bensì nel pretendere che quest' oggetto sia Dio. Ma questo è appunto quello che pretende Vincenzo Gioberti. Egli l' ha detto, l' ha replicato in termini espressi, ha pronunciato solennemente che Iddio stesso è il termine immediato di tutte le scienze di cui si compone l' Enciclopedia, e che questa è una religione, e che Iddio stesso è l' oggetto universale del sapere, e lo provò di qui che non si deve prendere la materia della cognizione nostra dal sentimento, come fa il Rosmini col senso comune degli uomini e delle scuole, ma si deve trovarla in Dio, che è l' oggetto del nostro intuito; imperocchè che cosa è la materia del sapere, se non la realtà delle cose che si conoscono, o al più la cognizione di questa realtà? Onde se il signor Gioberti non credesse, come egli dice che fanno i panteisti, che per l' oggetto delle scienze fisiche si debba intendere la forma de' dati scientifici e la materia egualmente, invano avrebbe riposto fra i pretesi errori del Rosmini questo, che egli toglie la materia della cognizione da' sensi, e non da Dio oggetto dell' intuito. E voi già vi sovvenite quanto il Gioberti lungamente si sbracci per provare che non è mica vero che la cognizione di un essere reale p. e. d' un corpo sia composta di due elementi assolutamente distinti, l' uno de' quali divino ed ideale, l' altro contingente e reale ricevuto nel nostro sentimento; da due elementi, dico, che un giudicio dell' uomo copula insieme in un' affermazione; egli pretende anzi che questi due elementi l' idea e la realità sentita da noi non abbiano alcuna reale distinzione, e quindi non possano essere termini di alcun giudicio, ma si percepiscano come un concetto semplice, di modo che l' idea e la realità contingente (notate bene contingente) formi un oggetto solo al tutto indivisibile, oggetto del nostro intuito, il quale è la sostanza delle cose, ed è Dio stesso. Risovvenitevi del Capo IV della sua « Introduzione allo studio della Filosofia », dove questo suo concetto è ampiamente sviluppato, e per ajutare la vostra memoria ve ne leggerò qualche passo. Al N. 3 del citato capitolo egli prende a confutare questa proposizione del professor Tarditi: [...OMISSIS...] Ora egli sostiene che qui non vi ha giudizio, ma semplice concetto. Ma udiamo lui stesso. Proposta la questione da che nasca, e in che consista il concetto della concretezza e della individualità delle cose, incomincia a dire [...OMISSIS...] Era facile, voi il vedete, rispondere a questa interrogazione, bastando dire che il concetto del concreto e dell' individuo è generico anch' esso, perchè esprime ogni concreto ed ogni individuo; onde la difficoltà da lui proposta non esiste, ma è da lui sognata. Ma invece di trovare una risposta sì facile, al Gioberti piace rispondere così: [...OMISSIS...] . Io credo che voi altri stupirete a queste parole. Stupirete a sentire che vi fu al mondo un uomo che negò, che l' idea della concretezza sia un' idea, il che è quanto dire che il nero sia il nero, e che il bianco sia il bianco. Io non ho mai saputo, che vi sia stato un tal uomo al mondo, e molto meno un filosofo; ma il signor Gioberti ci fa sapere che questo povero goffo è il Rosmini. Peccato che non abbia indicato dove il Rosmini abbia parlato così! Ma via, non perdiam tempo, posciachè in tutte le opere del Rosmini dal principio alla fine si cercherebbe indarno una cosa simile: egli è uopo conchiudere, o che il signor Gioberti abbia traveduto, ovvero che il suo sistema non possa esser sostenuto, se non avanzando sì gravi errori di fatto. Proseguiamo dunque a sentire il ragionamento, col quale il Gioberti pretende che noi conosciamo la realità delle cose, dico delle cose contingenti, notate, per un immediato intuito di Dio, di maniera che Iddio riesca sempre il termine immediato del nostro sapere. Così egli la discorre. [...OMISSIS...] Voi avete udito! Gli esseri contingenti, la realità individuale si conosce per un intuito speciale e diretto, il quale ci rivela non la sola corteccia, ma la sostanza delle cose. Ora l' oggetto di quest' intuito, come oggetto immediato di ogni sapere, secondo il Gioberti, è Dio; nè può esser altro, perocchè se potesse essere qualche cos' altro, già egli non sarebbe più bisogno di spendere tante parole al Gioberti per ispiegare come si conosca la realità individuale. Che cosa dunque ci rivela l' intuito? nient' altro ci può rivelare se non il suo oggetto. Ma da una parte si dice che questo oggetto è Dio, dall' altra si dice, che quest' oggetto che ci si rivela è « « non solo la corteccia, ma ben anco la sostanza delle cose ». » Or pel principio che due cose eguali a una terza sono uguali tra di loro, ne viene irrepugnabilmente che Iddio è « « non solo la corteccia, ma ben anco la sostanza delle cose ». » Non siamo noi nella sostanza universale dello Spinoza? se non anco più in là, giacchè Iddio, secondo le citate parole del Gioberti, è non solo la sostanza, ma anco la corteccia delle cose? Noi siamo pervenuti a questo risultato per una dimostrazione altrettanto esatta, quanto le dimostrazioni matematiche. Il qual risultato noi l' abbiamo colto in sulla via, perchè ci veniva tra' piedi, senza che fosse propriamente l' intento del nostro ragionamento. Noi volevamo far osservare che il Gioberti pretende che si conosca la realità delle cose contingenti per un intuito semplice e indivisibile, e non per un giudicio risultante da due termini, l' idea (o per dir meglio, l' essenza che si vede nell' idea) e il sentimento reale. Infatti tutto il discorso suo tende a provare la tesi che questi due termini non esistono, ma ne esiste un solo, che è l' ente reale indivisibile affatto in sè stesso, in quant' è oggetto del primo intuito, Iddio: egli sostiene, che l' essere possibile si trova dalla mente colla riflessione dopo il reale che è l' oggetto dell' intuito. [...OMISSIS...] Dal quale passo si vede che il Gioberti nega espressamente che il reale oggetto dell' intuito sia composto, o si possa dividere realmente, e sola la riflessione lo divide astraendo da esso il possibile. Ora il reale che è l' oggetto dell' intuito contiene per conseguente non solo la forma o idea, ma anche la materia del conoscere, sicchè la riflessione che sopravviene non può aggiungervi nulla, ma solo analizzarlo mentalmente, su di che mi riserbo, o signori, a farvi in altro luogo delle speciali osservazioni. Dunque se l' oggetto dell' intuito è indivisibile, e contiene ugualmente la materia e la forma del sapere, come potrà il Gioberti condannare i panteisti per questo che essi « « intendono sotto il nome d' oggetto la forma o idea dei dati scientifici, e la loro materia egualmente » » senza condannare sè stesso? E se sono i panteisti che « « quando dicono che esso Dio è l' oggetto universale del sapere, intendono sotto il nome di oggetto la forma o idea dei dati scientifici e la loro materia egualmente » », non dovrà temere il signor Gioberti di essere annoverato appunto fra essi, posciachè sostiene che la materia e la forma del sapere, la realità e l' idealità, non si congiungono dall' uomo con un giudicio come è uopo che avvenga se sono due cose; ma si comprendono in un concetto solo, e si hanno unite nell' oggetto dell' intuito, che è Dio, oggetto universale del sapere? Di poi osservate ancora incostanza di parlare. Questo autore afferma che, [...OMISSIS...] ; il che è quanto dire che per evitare il panteismo conviene dividere il conoscimento delle cose contingenti in IDEA o forma, e in MATERIA. Ora voi ben sapete che questo è appunto quello che facemmo noi col Rosmini; onde a detta del signor Gioberti, la nostra maniera di filosofare dovrebbe appunto essere la via sicura di evitare il panteismo. Non crediate: il Gioberti vuole tutt' altro: vuole anzi la confusione in uno stesso concetto della materia colla forma del sapere: ed è implacabile contro il Rosmini, perchè divise saviamente que' due elementi. Ma di più, che cosa egli intenda per Idea, l' avete udito poco fa: vi richiamerò le sue parole: [...OMISSIS...] . Nell' idea dunque, secondo il Gioberti, si contiene la REALITA`, anzi ella è la realità stessa; dalla quale colla riflessione si astrae poscia la possibilità. Se dunque l' idea contiene tutto, la realità come anche la possibilità, in che modo poi egli vuole che si distingua l' idea dalla materia del sapere? in che modo dichiara panteismo il non distinguere que' due elementi, ma fare che nell' oggetto del sapere si comprenda tanto l' idea quanto la materia? che cosa è, o può essere la materia del sapere, se non la realità? E se nell' idea vi è già prima di tutto la realità, che cosa può rimanere fuori di lei e che sia atto a costituire una materia del sapere, distinta dall' idea stessa? O si dee dunque distinguere l' idea che contiene la possibilità dell' ente contingente, dalla realità di quest' ente, e allora vi ha distinzione tra la forma e la materia del sapere, ed è evitato il panteismo, il che fa appunto il Rosmini; ovvero si dee dire che l' idea è la realità dell' ente onde poi si astrae la possibilità, ed allora non vi ha distinzione possibile tra la forma e la materia del sapere, e si cade nel panteismo, il che fa il Gioberti. Ma il Gioberti stesso insegna che se non si distingue la materia dalla forma del sapere, e si fa che entrambi sieno oggetto dell' intuito, il panteismo è irreparabile. Dunque il Gioberti stesso si fa la sentenza, e noi siamo costretti a dichiararlo panteista, se vogliamo attenerci alla sua propria confessione. Tornando dunque alla definizione dell' oggetto del sapere, no, l' empietà de' panteisti non istà in pretendere che l' oggetto del sapere umano abbracci la forma e la materia egualmente: qui non vi ha errore di sorta; la forma e la materia del sapere è egualmente necessaria a costituirne l' oggetto, o per dir meglio, certi oggetti, e non si può dividere trattandosi di enti contingenti; imperciocchè, badate bene, miei signori, il Gioberti vi confonde due questioni che sono separatissime: la prima « se l' essere ideale sia Dio o no »: la seconda « se noi conosciamo i reali contingenti coll' idea e col sentimento, ovvero collo stesso Dio7Idea, di modo che quando conosciamo un reale contingente, l' oggetto del nostro conoscere sia Dio stesso ». Ora è questa seconda questione che noi al presente trattiamo, e non la prima, e il Gioberti la risolve affermativamente. Ma posciachè il dire che, quando conosciamo i reali contingenti, allora l' oggetto del nostro conoscere è lo stesso Dio, altro non è che un manifestissimo panteismo; quindi il Gioberti per iscansare in qualche modo tale conseguenza, qui senza paura di contradirsi viene con noi, e ci divide in due parti l' oggetto del conoscere, cioè nella forma o idea e nella materia, e dice che l' errore del panteismo sta nel non fare questa divisione: nè si ricorda più, o mostra almeno di non ricordarsi che prima, nell' « Introduzione allo studio della Filosofia », aveva insegnato, che ogni oggetto del conoscere si riduce all' oggetto dell' intuito, e che l' oggetto dell' intuito è reale, uno e indivisibile, e che il possibile si trova poscia in esso per astrazione. Quindi egli non aveva certamente diritto di scrivere così: [...OMISSIS...] . Perocchè in prima, quando noi conosciamo un corpo, abbiamo per oggetto del nostro conoscere la materia delle forze finite, e se non avessimo questa materia delle forze finite per oggetto del nostro atto conoscitivo, non conosceremmo mai un corpo. In secondo luogo egli dice, che in questa materia delle forze finite riluce l' idea, la quale è Dio stesso: ma in tal caso, quando noi conosciamo un corpo, il nostro conoscere avrebbe due oggetti e non un solo, l' un oggetto sarebbe l' idea che è Dio, che non si può confondere colle forze finite, senza cadere nel panteismo che si vuole evitare, l' altro oggetto sarebbe la materia delle forze finite che costituisce il corpo e che non è Dio. Ed egli sembra che così voglia dire, laddove scrive, che egli move il suo ragionare [...OMISSIS...] ; lasciando da parte la strana improprietà di applicare a Dio la denominazione di concreto, mentre tutta la Teologia insegna che Iddio non è un concreto. Ora se l' atto di conoscere ha un doppio concreto, ognuno che conosce un corpo dovrebbe conoscer due cose, Dio e il corpo, il che si oppone troppo al senso comune per farcelo ingozzare; poichè niuno quando conosce un corpo dice mai di conoscere Dio ed il corpo. Dipoi, se chi conosce un corpo conosce questi due oggetti, certo è che egli non li deve confondere, bensì distinguere tra loro, li deve cioè distinguer tanto quanto sono distinti in sè stessi; e poichè sono distinti immensamente, infinitamente, perciò nel suo supposto chi conosce un corpo dee collo stesso atto conoscere l' infinita differenza che corre tra il corpo che conosce e Iddio che pure conosce. Perocchè sarebbe un assurdo contrario all' esperienza ed al senso comune il dire che ognuno che conosce un corpo, conosce Iddio e il corpo in modo che faccia di questi due oggetti un pasticcio, prendendoli per un solo oggetto. E pure il Gioberti nel luogo citato, in cui prende a separare il suo sistema dal panteismo, parla di un oggetto solo, nel quale distingue la materia dalla forma. Ma o convien dire, che il corpo non sia mai oggetto del conoscimento dell' uomo, ma solo Iddio anche quando l' uomo crede conoscere un corpo, il che è marcio panteismo; o convien dire, che chi conosce un corpo, conosce solamente un corpo e non Dio, conosce la materia delle forze finite sotto una sua propria forma e non più, il che si oppone a quanto insegna il Gioberti; o finalmente convien dire, che conosce bensì Iddio e il corpo, ma di questi due oggetti ne fa un solo oggetto, il che, a detta dello stesso Gioberti, è quello che di nuovo i panteisti fanno, [...OMISSIS...] . Notate, miei signori, che questa nostra argomentazione non ha già bisogno di cercare come si conosca il corpo, limitandosi a cercar solo se il corpo, ossia la materia delle forze finite si conosca sì o no; e se si conosce sola, o con Dio, in modo che Dio sia l' oggetto del conoscere; e conoscendosi insieme con Dio, se si distingua o si confonda con esso Dio. Osservate ancora che il Gioberti dice che l' Idea, cioè Dio, riluce nella materia delle forze finite. Ora come possiamo noi sapere che vi riluca, se non supponendo di conoscer la materia delle forze finite, dove l' Idea, cioè Dio, riluce? Converrebbe dunque supporre che noi vedessimo e conoscessimo Dio vedendo e conoscendo le forze finite dove egli riluce; e in tal caso la materia delle forze finite sarebbe l' oggetto precedente del nostro conoscere e il contenente; e Iddio, ossia l' Idea sarebbe l' oggetto susseguente e il contenuto. La materia dunque delle forze finite si conoscerebbe per sè stessa, e Iddio, ossia l' idea giobertiana, per via della materia! Assurdo che il Gioberti sicuramente rifiuta, benchè implicitamente il pronunci. Ma dopo aver veduto che, secondo la giobertiana dottrina, quando l' uomo conosce un corpo dovrebbe conoscer due oggetti immensamente distinti e inconfondibili tra loro, e quali e quanti assurdi da ciò derivino; vediamo anche il come voglia il Gioberti che si conosca la materia delle forze finite che egli fa sinonimo alla sostanza delle cose create . Udiamolo attentamente. [...OMISSIS...] . Queste ultime parole escludono, miei signori, la volontà di esser panteista: ma la dichiarazione di non esser panteista, (la quale è frequente nel Gioberti, e però noi non attribuiremo mai un tale errore alla sua persona) esclude ella altresì il panteismo che si trova nelle parole precedenti? Certo presso i veri panteisti la dichiarazione di non esser panteista non val nulla, perchè sono di quelle frasi magnifiche e menzognere, che essi talora adoperano, e dalle quali il Gioberti già ci mise in gran guardia. In fatti abbiamo veduto che l' oggetto scientifico, quando si tratta di conoscere oggetti finiti, è composto, secondo lo stesso Gioberti, di materia e di forma; e che la forma è l' idea la quale è Dio stesso. Iddio dunque, secondo quest' autore, viene in composizione colla materia corporea, ed insieme con essa costituisce l' oggetto del sapere; ma s' udì mai che Iddio possa venire in composizione con cos' alcuna, e in composizione sì stretta da formare un solo oggetto scientifico, un composto di materia e di forma, di cui Iddio sia la forma? All' incontro, basta conoscere i primi elementi della Teologia per sapere che Iddio è purissimo e tale che non si può mescolare con cosa alcuna fino a formare con essa un solo oggetto. Nè vale già il dire, qui si tratta d' oggetto scientifico, e non d' oggetto reale, perocchè il Gioberti esclude affatto questa ritirata, sostenendo che l' ordine che hanno le cose nella mente è quello stesso nè più nè meno che esse hanno al di fuori della mente; e al professor Tarditi fa colpa dell' aver distinti col Rosmini questi due ordini, e assegnate le lor proprie leggi a ciascuno. E qui notate, o cari signori, che questo principio che l' ordine delle cose nella mente sia quello stesso dell' ordine delle cose fuori della mente, fu sempre graditissimo ai panteisti tutti, siccome quello che mirabilmente giova al loro sistema. Nè sarà inutile raffrontare a questo proposito la maniera di pensare dello Spinosa con quella di Vincenzo Gioberti, il che farò colle parole di un recente storico della Filosofia che così espone il pensiero dello Spinosa: [...OMISSIS...] Io lascio riflettere a voi stessi sull' eco che di questa dottrina voi trovate nel Gioberti. Il quale anche nel passo ultimamente di lui citato ripete che [...OMISSIS...] ; il che è quanto dire che quando il pensiero pensa la materia creata (notate bene, la materia e non più la forma), pensa Dio stesso. Ed avvertite la ragione che egli dà di questa sentenza, perchè dice, « « la materia creata non si può disgiungere dall' azione creatrice » ». La qual ragione acciocchè sia efficace a provare l' assunto, dee voler dire che la materia creata è così congiunta coll' azione creatrice che forma con essa una cosa sola pensabile; perocchè se non formasse con essa una cosa sola, non potrebbe giammai formare un solo ed unico oggetto del sapere, come vuol provare il nostro filosofo. Che se la materia creata forma una cosa sola coll' azione creatrice, in modo da costituire un solo ed unico oggetto del sapere, forz' è che la materia creata formi una cosa sola con Dio, perocchè l' azione creatrice è Dio stesso, e d' altra parte Dio appunto, a detta del Gioberti, è l' oggetto immediato ed universale del sapere. Se dunque la materia creata e Dio sono una cosa sola, e tale che non si possono pensare divisi come due oggetti (se non solo forse per quell' astrazione che succede al primo intuito, e che, secondo il Gioberti, divide anche l' indivisibile), varrà egli punto a fare, che un tal sistema non sia manifestissimo panteismo, la dichiarazione aggiunta che anche rispetto alla materia creata « « l' oggetto scientifico è Iddio stesso, non come identico alle sue fatture, ma come causa creante e immanente di esse »? » O non converrà piuttosto conciliare questa dichiarazione con quel che precede? Perocchè una tale dichiarazione è infatti conciliabile, miei signori, colla dottrina precedente, avendo ella un senso che può star bene nella bocca di qualunque compiuto panteista ed emanatista. Poichè l' emanatista è già panteista facendo che Iddio e le creature sieno della stessa sostanza, senza che tuttavia egli dica che Iddio sia identico colla sua fattura, che anzi egli distingue benissimo l' emanante dall' emanato. Ma il sistema giobertiano, stando alle sue frasi, è un panteismo ancora più solenne e più compiuto. Perocchè l' emanatista fa, è vero, che la sostanza di Dio sia quella stessa delle sue fatture, ma alla fine, lungi dal fare che Dio emanante e le sue fatture emanate sieno lo stesso oggetto, ne fa due oggetti distinti; quando all' incontro il signor Gioberti dice che questo è impossibile, e che non possono essere che un oggetto solo, benchè poscia la sopravveniente astrazione li distingua. Onde se per l' emanatista, Iddio e le sue fatture non sono identiche, perchè formano due oggetti realmente distinti, benchè d' una stessa sostanza; pel signor Gioberti Iddio e le sue fatture (quantunque formino un solo e medesimo oggetto del pensiero) non sono identici, unicamente perchè l' astrazione poi distinguendoli toglie loro l' identità, e così ci mette una semplice distinzione di ragione. Di che conchiude il Gioberti con quella frase che adopera spesso anche lo Spinosa, cioè che « « Iddio è causa creante e immanente di esse » », perchè forma con esse un oggetto solo, nel quale poi la nostra astrazione distingue causa ed effetto; ma come il signor gioberti concepisca la causalità e la creazione, senza che punto nè poco rechino offesa al suo panteismo, noi lo vedremo meglio fra poco. Facciamo ora un passo indietro e supponiamo che noi non leggessimo nelle opere del signor Gioberti che [...OMISSIS...] . Supponiamo che egli si ristringesse a dire che Iddio è l' oggetto del sapere solamente in quanto alla sola forma. Che ne avremo, o signori? avremo evitato con ciò il panteismo, o supponendo che sì, avremo evitato ogni altro errore, avremo una filosofia veramente sana? Vediamolo. a) Primieramente quand' anco si trattasse d' idee nel senso in cui solitamente le intendono i filosofi, e non nel senso giobertiano, secondo il quale la stessa realità è in esse e propria di esse, ditemi, o signori, parrebbe egli a voi che si potesse riputare una proposizione del tutto ortodossa questa, che « « le idee delle cose finite sieno Dio stesso » »? Io non so, a dir vero, se si possa asserire ch' essa sia stata precisamente condannata dalla Chiesa in Wicleffo (1), ma certo a me sembra manifestamente erronea, giacchè nè in ciascuna nè in tutte insieme tali idee si può trovare quello che è necessario all' essenza divina, nè per fermo si potrà mai dire, che l' intuire tali idee così moltiplici e limitate siccome sono, sia intuire Dio stesso. b) Di poi, quanto non s' accresce l' errore se si considera, che pel Gioberti l' idee sono reali, e non contengono la sola possibilità delle cose, che anzi questa possibilità, secondo lui, è soggettiva, cioè prodotta dalla riflessione ed astrazione dell' uomo, che la distacca dirò così dall' idea nella sua concretezza? Con questo dogma filosofico il panteismo ideologico di Wicleffo diviene di più un panteismo materiale ed assoluto. c) Finalmente e a conferma appunto di questo, si consideri che se fosse altramente, secondo la dottrina del Gioberti, cioè se quando conosciamo un corpo, l' oggetto del nostro conoscere fosse bensì composto di forma e di materia, ma la sola forma fosse Dio; resterebbe a domandarsi, se il detto oggetto del conoscere sia realmente solubile in due oggetti, ovvero rimanga un oggetto solo. Poichè se rimane un oggetto solo, siamo da capo. E questo conferma veramente il Gioberti quando dice che [...OMISSIS...] . Nelle quali parole la forma cioè Dio, si conjuga colla materia, cioè col corpo, e quindi costituisce con esso un solo oggetto; e in questa conjugazione, per cui Iddio diventa un oggetto solo col corpo, sta, dice il Gioberti, « la sintesi maravigliosa dell' intuito umano ». Da cui trae questo conseguente, che [...OMISSIS...] . Notate bene: dall' avere egli ammesso a principio che Iddio è l' oggetto del sapere rispetto alla forma, è venuto poi quasi come per una conseguenza indeclinabile a concedere, che quando conosciamo un corpo materiale, lo stesso Iddio sia l' oggetto scientifico anche rispetto alla materia creata; per la ragione appunto, che questa non si può disgiungere dall' azione creatrice, la quale azione è Dio stesso. E in fatti egli dovea precipitare a questo contradittorio risultato, poichè se Iddio non fosse, secondo lui, l' oggetto del conoscer nostro, anche quando il conoscer nostro ha per oggetto la materia creata, egli non avrebbe impugnato il sistema del Rosmini, che fa venire la cognizione della materia dal sentimento, e non avrebbe detto che l' oggetto dell' intuito dovea essere un reale, acciocchè in lui potessimo trovare e conoscere la realità delle cose contingenti, delle quali si parla; senza di che questa realità non sarebbe stata conoscibile. Conchiudiamo dunque questa lezione. Panteisti son quelli che, « quando dicono che Dio è l' oggetto universale del sapere, intendono sotto il nome d' oggetto la forma o idea dei dati scientifici, e la loro materia egualmente ». Ma Vincenzo Gioberti insegna, che « « non solo rispetto alla forma, ma anche rispetto alla materia l' oggetto scientifico è Iddio stesso » ». La conclusione non è bisogno che la tiriamo noi, miei signori; ma viene da sè. Ripetiamo che non vogliamo attribuire la panteistica empietà all' animo del signor Gioberti, ma noi non sappiamo come purgarne il sistema. Nella precedente lezione noi abbiamo udite le giustificazioni, colle quali il signor Gioberti cerca di purgare il suo sistema dall' empietà panteistica, e, dopo esaminatele il più accuratamente che noi abbiamo saputo e imparzialmente, dovemmo convincerci ch' elle sono insufficienti. Tuttavia non dobbiamo tenercene a pieno contenti, miei signori; dobbiamo continuare nella ricerca, penetrare più addentro, considerare altri brani delle opere d' un autore, che fu letto avidamente in qualche parte di questa nostra penisola. Ciò noi dobbiamo per doppia ragione. La prima, perchè, se mai ci riesce di averne il lietissimo risultato, che il giobertiano sistema vada immune veramente da un tanto errore, noi avremmo non solo provveduto al buon nome del suo autore, ma ben anco al buon nome di tutti coloro che gli furono larghi di prontissimi ed amplissimi encomj. La seconda, che se per opposto noi avessimo il dolore di rinvenire il fatto contrario, in così rincrescevol termine dovrebbe pur confortarci il vantaggio che per avventura potrebbero ritrarre i nostri connazionali dalla nostra discussione. Imperocchè egli è troppo importante, o signori, di ben guardare e premunire questa nostra terra italiana, che per pietà e per buon senso a niuna cede di quante in potenza la vincono, all' invasione che la minaccia dei mostruosi sistemi stranieri, quali sono quelli che straziano sì crudelmente i visceri della Germania, de' quali indubitatamente il Gioberti s' industria di trapiantare almeno le frasi, se non i concetti, nel nostro suolo. Cominciamo adunque subito, se vi piace, a leggere qualche altra pagina del Gioberti, e vedere che cosa vi troviamo a sua discolpa. [...OMISSIS...] . Qui subitamente già troppe cose ci si presentano, troppe cose ci si rivelano. La prima si è, che l' idealità si dichiara separabile nell' ordine delle cose contingenti. Dunque almeno in quest' ordine può essere la idealità senza la realtà, e però non è assurda questa separazione. Si dee dunque conchiudere che almeno in quest' ordine l' ideale, benchè separato dal reale, non è più il nulla, come tante volte ci ripete il Gioberti per provare che ripugni intrinsecamente che l' ideale si separi dal reale. E se questo ideale anche separato dal reale è qualche cosa, dunque non è mica più assurdo, che Iddio nella formazione dell' uomo, gli abbia dato l' intuito dell' essere ideale, e non la percezione dell' essere reale. Non trattasi adunque che della verificazione del fatto, il quale non può argomentarsi a priori, ma accertasi colla osservazione filosofica. Dipoi, egli è assai strano l' immaginare un ordine contingente di cose, in cui l' ideale stia separato dal reale; giacchè in un ordine contingente di cose non si sa come possa avervi l' ideale; poichè in qualunque senso si prenda l' ideale, egli è pur sempre necessario, e non mai contingente. Se si prenda nel senso nostro come distinto da ogni realità, e qual semplice lume comunicato da Dio alle create intelligenze, noi abbiamo veduto che esso gode i caratteri della necessità, dell' eternità ecc.: dunque non appartiene all' ordine contingente, ma all' ordine necessario, a Dio stesso, di cui è un' attinenza. Se si prende nel senso giobertiano, nel qual senso esso è Dio stesso, molto meno può essere contingente, se non fosse nel sistema panteistico, in cui del contingente e del necessario si fa una cosa sola. Il dire dunque che l' ideale nell' ordine contingente di cose è separabile dalla realità, è in ogni modo un manifesto assurdo, sia poi un assurdo panteistico, o d' altro genere. E pure non ci dee fare meraviglia, o signori, se il Gioberti ponga nell' ordine delle cose contingenti qualche specie d' ideale . Poichè dove mai ha egli preso il suo achille contro la nostra dottrina, se non in questo principio appunto che l' idea dell' essere essendo, a detta sua, un' idea astratta, è per conseguenza subiettiva e s' immedesima col subbietto uomo che è pur contingente, di che accusa il Rosmini di psicologismo con tutte le altre brutte taccie, che ne sono la conseguenza? [...OMISSIS...] . Ma forse ad alcuno di voi sovverrà, miei signori, che in altri luoghi il medesimo Gioberti dà del divino anche alle idee astratte siccome sono le idee generiche: sovverrà che nella sua terza lettera al professor Tarditi, dopo aver pronunziato solennemente che [...OMISSIS...] . Onde aperto dichiara che egli ammette bensì un reale dotato di contingenza, ma non un ideale della stessa natura (3). Le quali cose sembrerebbero contradittorie all' aver distinto, come egli fece, l' ideale dal reale nell' ordine contingente, ed all' aver dichiarato che le idee astratte, e nominatamente quella dell' essere in universale, ch' egli fa venire dall' astrazione (al contrario del Rosmini che la mantiene innata alla mente) è un' idea subbiettiva, che s' immedesima coll' uomo soggetto contingente e finito. Ma egli v' ha pure un sistema nel quale tali proposizioni tanto opposte si conciliano ottimamente: dovremo noi, miei signori, credere che un tale sistema sia quello del signor Gioberti per cavarlo di contradizione? Ora qual è mai questo sistema? Il panteismo, o signori; non altro che il panteismo. Poichè solo in questo sistema si può cangiar di linguaggio, e dire, in qualche modo, ora che l' idea sia Dio stesso, ora che la medesima idea sia l' uomo essere contingente e finito; quando il panteista, come sapete, riguarda il contingente ed il necessario come aspetti diversi, sotto cui lo stesso essere si considera; e quello a ragion di esempio che considerato come oggetto dell' intuito chiamasi Dio, quello stesso diviso poi dalla riflessione e dall' astrazione diviene uomo, e chiamasi essere contingente e finito. Ma il Gioberti, che ha tutta la buona volontà di non esser panteista, tenta un' altra via per vedere se gli riesce di conciliarsi seco stesso con più onestà. Egli immagina dunque due enti possibili invece d' un solo, perocchè egli dice: [...OMISSIS...] . Dunque quando l' uomo pensa un ente possibile, per esempio « un cavallo possibile », egli pensa due possibili, due cavalli possibili, immensamente diversi l' uno dall' altro, perocchè l' uno dei due cavalli possibili è Dio stesso, poichè è « « il possibile eterno come pensato da Dio » », è « « l' idea divina numericamente identica » », come dice poco appresso (1); l' altro cavallo possibile è nel soggetto umano, e s' immedesima col soggetto umano, e però è l' uomo o parte dell' uomo, e tuttavia questo possibile subbiettivo, com' anco dice, è « « la pensabilità umana del pensato divino » ». Di che ne viene che l' altro possibile oggettivo debba essere « « la pensabilità divina del pensato divino » ». Non voglio indugiarvi sull' assurdo che di una stessa cosa vi abbia due possibili, distinti quanto è distinto Iddio dall' uomo. Solo voglio farvi avvertire, che queste due pensabilità sono entrambi accessibili all' uomo, secondo il signor Gioberti: onde nell' uomo cade tanto « « la pensabilità divina del pensato divino » », che viene appresa dall' intuito, quanto « « la pensabilità umana del pensato divino » », che è una copia finita di quella, come dice poco appresso, e però non più un' astrazione com' avea detto innanzi. Veramente se l' uomo non è Dio, pare difficile a intendere, come gli possa appartenere « « l' idea divina numericamente identica », « il possibile eterno, come pensato da Dio » », e « « la pensabilità divina del pensato divino » ». Ma se l' uomo è Dio, in tal caso poi è difficile a concepire del pari, come gli possa appartenere « « la pensabilità umana del pensato divino » », e « « una copia finita del cavallo possibile eterno come pensato da Dio » ». Anche di questo intrico ci sembra oltre modo malagevole uscire senza ricorrere ad un sistema, che confonda insieme la natura divina e l' umana. Se il signor Gioberti ci riesce, lui fortunato! Intanto però egli ci protesta che « « il subbiettivo dell' idea non si può separare dall' obbiettivo »(2) »; il che è quanto dire, che l' umano dell' idea, non si può separare dalla medesima idea, la quale avrebbe perciò ad un tempo stesso dell' umano e del divino. Laonde egli sembra che la distinzione che il Gioberti introduce, nel passo più sopra recatovi, fra l' ordine assoluto e l' ordine contingente, nel suo sistema non possa aver luogo; e questo vi si renderà anzi evidente se farete riflessione alla ragione che son per dirvi. Il signor Gioberti insegna, che « « l' idealità non è separabile dalla realità nell' ordine assoluto, oggetto dell' intuito » »; ma dice ancora e lo replica fino alla sazietà, che nell' oggetto dell' intuito vi è tutto lo scibile, tanto quello che riguarda le cose create, e tutto ciò che resta a fare all' uomo non è che l' opera della riflessione che analizza, e lavora ciò che nell' oggetto dell' intuito si contiene, onde anche l' ordine contingente di cose non può essere escluso dall' oggetto dell' intuito giobertiano, perchè la riflessione ve lo trova, ovvero sia lo produce in separandolo. Se dunque si dà distinzione tra l' ordine assoluto e l' ordine contingente, non può mica essere che il primo ordine sia oggetto dell' intuito e non il secondo, come viene a dire nel passo citato; ma convien dire che questa distinzione si trovi già nell' oggetto dell' intuito stesso. Ora se i due ordini, l' assoluto e il contingente, sono separabili e non confusi insieme, essi vengono necessariamente a costituire due oggetti e non un solo; poichè la loro separazione, se la si vuol riconoscere, si dee riconoscerla per una separazione massima, di maniera che sia più separato il contingente dall' assoluto, di quello che un oggetto contingente qualsiasi, p. e. un topo, da un altro oggetto contingente qualsivoglia, p. e. dal sole. Se dunque il topo ed il sole sono due oggetti distinti del conoscere umano, molto più debbon essere due oggetti distinti del conoscere l' ordine contingente di cose e l' ordine assoluto, e quindi il primo non può essere in modo alcuno forma, ed il secondo materia del medesimo oggetto. Ma se l' intuito giobertiano ha due oggetti e non un oggetto solo, e se l' uno non è forma dell' altro, come poi dice il nostro Filosofo, che quando conosciamo un corpo, l' oggetto scientifico è Dio stesso, non solo rispetto alla forma, ma anche rispetto alla materia, quando pure Iddio sarebbe non lo stesso oggetto, ma un oggetto diverso? Di più, se « « l' idealità non è separabile dalla realtà nell' ordine assoluto, oggetto dell' intuito, ma solo nell' ordine contingente » », come si conosce quest' ordine contingente? O si conosce coll' idea, o senza di essa: se coll' idea, in tal caso, posciachè quest' idea per il signor Gioberti è reale ed è Dio stesso, l' ordine contingente non è più diviso dall' ordine assoluto, e supponendolo diviso si suppone ciò che nel suo sistema è contradittorio ed assurdo. Se si conosce senza l' idea, l' ordine contingente è dunque fuori dell' idea, è conoscibile per sè stesso; e quindi non è più vero che tutto si contenga anche il contingente nell' oggetto dell' intuito. Finalmente dicendo che nell' ordine contingente l' idealità è separabile dalla realtà, pare che l' ordine contingente si componga di idealità e di realità. Ma nell' idealità, secondo il signor Gioberti, si contiene già la realità, perocchè altrimenti sarebbe nulla. Dunque l' ordine contingente, secondo lui, si compone d' idealità che è insieme realità, e d' una realità che non è idealità. Dunque si compone di una idealità e di due realità. Ma nell' ordine assoluto non v' ha che una idealità e una realità inseparabili tra loro. Dunque, giusta il ragionare giobertiano, vi ha più nell' ordine contingente che nell' ordine assoluto: perocchè in questo vi è una idealità con una sola realità, e in quello una idealità con due realità, l' una delle quali è separabile! Quali imbarazzi, quali contradizioni non sono queste, miei signori? Ma portiamo pazienza, e riprendiamo le giobertiane parole. [...OMISSIS...] Io non mi fermerò qui, miei signori, ad osservare tutte le cose gratuite e false che suppongono queste parole; giacchè gratuito e falso è che l' intuito umano abbia per oggetto Iddio, il quale in tal caso sarebbe « nobis naturaliter notum », contro la dottrina di s. Tommaso «(S. I, II, 1; e III, IV, 2) »; e di tutti i principali teologi; gratuito e falso è che abbia per oggetto l' atto creativo, che nessun vide, mai quaggiù, appunto perchè « Deum nemo vidit nunquam », come disse san Giovanni «(I, 1.) », non potendosi vedere l' atto creativo senza vedere lo stesso Dio. Non sono questi ed altrettali gli errori che noi abbiamo preso a rifiutare in queste lezioni, miei signori (2); ma dobbiamo solo esaminare se, anche supposto che tutto ciò fosse vero altrettanto quant' egli è falso, una tale dottrina possa conciliarsi coi principj teologici, e specialmente se ella possa andarsene pura dal veleno panteistico. Ora il Gioberti ci accorda espressamente che Iddio non è identico alle sue creature, ma che queste sono effetto, di cui Dio è causa. Per evitare il panteismo questo non basta, miei signori; converrebbe che egli qui ci dicesse di più che la natura di Dio e la natura delle creature sono cose infinitamente distanti l' una dall' altra, che sono dunque due nature realmente diverse: converrebbe che ci dicesse ancora che queste due nature non hanno niente, niente affatto di comune tra loro, dimodochè non possano essere intese con un solo concetto; perocchè tutti i teologi cattolici e fino i Mussulmani insegnano che Iddio non cade nè in alcun genere, nè in alcuna specie. Se dunque Iddio e le creature sono nature così distinte, che non hanno nulla affatto di comune tra esse; egli è manifesto che non si possono intendere e percepire con un solo e medesimo concetto; e non possono formare un oggetto solo dell' intuito. E` dunque necessario per non cadere nel panteismo il supporre che due pensieri, e non un solo pensiero, sia quello che ci fa conoscere cose così al tutto diverse: giacchè due sono indubitatamente gli oggetti che quanto alla natura, non comunicano insieme in cosa alcuna. Laonde, e come mai sfuggirà il panteismo una dottrina, la quale insegna che v' ha un solo intuito nell' uomo, il cui oggetto contiene tutto lo scibile sì del necessario, come degli esseri contingenti, e che la riflessione non fa che trovarlo, e svolgerlo poscia operando su quell' oggetto? come sfuggirà il panteismo un sistema, che sostiene che quando noi conosciamo le creature materiali, p. e. un corpo, allora noi abbiamo per oggetto Dio stesso? e ciò non solo per rispetto alla forma, ma ben anco alla materia? Il Gioberti dice « « perchè Iddio è causa creante e immanente delle cose » »: ma e che per questo? Noi gli rispondiamo, o la causa si identifica coll' effetto, ed allora accordiamo, che percependo l' effetto si percepisce necessariamente la causa, e viceversa; o la causa non s' identifica coll' effetto, come il Gioberti dice espressamente, e come diciam noi, anzi è una natura intieramente diversa da quella dell' effetto e non ha niente di comune con esso, ed in tal caso come può essere che la causa, che nel caso nostro è Dio, formi un oggetto solo del conoscere umano col suo effetto, che sono le creature, e sottostia ad un solo concetto, siccome pure viene a dire il Gioberti, quando pretende che Iddio sia l' oggetto di tutte le nostre cognizioni? non si potrà forse conoscere una natura, che è causa, senza conoscere un' altra natura tutta diversa da lei, che è l' effetto non necessario, ma libero di quella? Ma il nostro autore soggiunge: queste due cose, Iddio e la creatura, sono congiunte mediante l' atto creatore. E che perciò? non restano esse tuttavia così distinte e così separate, che v' ha un infinito di mezzo? non rimangonsi nature così dissimili, che non convengono in cosa alcuna nè speciale, nè generale (1), se non fosse nel nudo concetto dell' esistenza? Ma voi non potete vedere l' atto creatore senza vedere la creatura prodotta. Sebbene l' affermare che l' uomo veda l' atto creatore in questa vita sia piuttosto un sogno o un delirio, che una sentenza filosofica o teologica, tuttavia giacchè abbiamo detto di non volere impugnare per ora questa stranezza, anzi di voler supporla, così rispondiamo a tale istanza: l' atto creatore si distingue egli dall' essenza di Dio? no certamente, ma quell' atto è la stessa essenza divina, perchè Iddio è un atto solo con cui è e con cui opera. Dunque coll' introdurre l' atto creatore non si può spiegare la percezione delle cose create, p. e. dei corpi, meglio che coll' introdurre l' essenza divina. Se questa è un oggetto del conoscere umano diverso al tutto da un corpo che l' uomo percepisce, si ha una natura diversa, una natura e un oggetto che non ha niente di comune col corpo; dunque nè pur nell' atto creatore si possono trovare i corpi stessi reali, e percepirveli . Il Gioberti, egli pure dice in qualche luogo, che le creature sono il termine estrinseco dell' atto creatore, e non il termine intrinseco e consostanziale. Dunque nell' interno dell' atto creatore, cioè in Dio, non vi sono i corpi reali, non v' è il contingente, non v' ha la materia creata, in questo senso che sono appunto quello che sono in quanto da Dio si distinguono. Or come, se la cosa è così, può dire il nostro eloquente scrittore, che quando conosciamo un corpo, Iddio è l' oggetto del nostro conoscimento, e non solo quanto alla forma, ma ben anco quanto alla materia creata? O bisogna abbandonare questo sistema, o non disdire e negare il panteismo, ma anzi ammetterlo: poichè il fare altrimenti è un tagliarsi per mezzo colle proprie mani. Ma pure le cose create sono in Dio, e però in Dio si possono vedere; e le vedono in Dio i celesti comprensori. - Io non so se io debba far parlare il Gioberti con sì poco senno teologico; ma mi permetto di farlo, o signori, a suo vantaggio; cercando cioè di non trapassare niuna delle ragioni apparenti, che potessero scusare i suoi gravissimi errori. E di vero, se così ci replicasse il Gioberti, noi gli diremmo, che consultando i teologi, gli sarà facilissimo impararvi, che le cose create sono bensì in Dio, come nel loro esemplare e nella loro causa, [...OMISSIS...] , per usare l' espressione di s. Tommaso «(S. I, III, VIII) »; ma non sono mica in Dio nè quanto alla loro forma, nè quanto alla loro sostanza materiale, [...OMISSIS...] . Ora di che cosa trattiam noi? forse di avere solamente l' idea del corpo, che è quanto dire di conoscere il corpo nella sua possibilità? Non ci ha dubbio che l' idea di corpo c' è in Dio in qualche modo: in un modo, dico, che resterebbe ancora a spiegare, perchè l' idea de' corpi non è in Dio, come in noi, distinta realmente dalle altre idee, ma compresa in un lume solo; che l' unica cosa che v' ha in Dio di realmente distinto sono le persone, e il porre altra distinzione reale si oppone, come sapete, alla cattolica fede. Onde non essendo l' idea che è in noi di un corpo, quell' idea stessa che è in Dio del corpo, non si può dire senza errore che noi vediamo l' idea in Dio; perocchè quando ciò fosse, vedremmo l' idea del corpo con tutte l' altre idee contenute in una idea sola, o per dir meglio nel Verbo, come le vedono i comprensori celesti, al che ripugna il fatto del nostro modo di conoscere per via d' idee molte e distinte. Ma benchè questo solo argomento, dove fosse svolto secondo i principj della cattolica teologia, basterebbe a rovesciare l' ipotesi giobertiana, ed eziandio la meno ardita di Malebranche; tuttavia, anche accordatogli quello che non è, che vedessimo in Dio l' idea del corpo, niente avrebbe egli ancora guadagnato; chè il nostro discorso non è mica v“lto a spiegare l' idea del corpo, ma è v“lto a spiegare la percezione intellettiva d' un corpo, colla quale noi percepiamo e conosciamo non la possibilità del corpo, ma la sua stessa realità; questo corpo che è qui, ora; la sua materia, la quale in Dio non si trova, che anzi ella ha questo per essenza, d' esser fuori di Dio; nè si potrebbe metterla in Dio senza divinizzarla, e materializzare Iddio, e quindi essere panteista e spinosista. Ancora, trattiamo noi forse di spiegare come conosciamo la causa del corpo, o il corpo in quanto è nella sua causa, cioè in Dio? Neppur questo, poichè, per dirlo di nuovo, trattasi di spiegare unicamente come noi percepiamo la stessa sostanza materiale del corpo, e come noi stessi veniamo in comunicazione con questa sostanza. Ora il corpo, in quanto è sostanza materiale, non si trova in Dio, nè nell' atto creativo che è Dio stesso; ma è tutto fuori di Dio, e fuori dell' atto creativo che il fa esistere. Egli è vero che in Dio vi è la virtù che fa sussistere il corpo, perchè è causa creante ed immanente; ma da ciò non ne viene altra conseguenza se non questa, che qualora fosse vero che noi conoscessimo Dio, sarebbe vero che noi percepiremmo la causa, e conosceremmo l' effetto, cioè il corpo, ma non lo percepiremmo già nell' essere suo proprio materiale, come in fatto lo percepiamo, ed è questo fatto della percezione della corporea e materiale sostanza, per dirlo di nuovo, che noi dobbiamo e vogliamo spiegare in Filosofia. Onde o convien dire che noi non percepiamo la sostanza materiale de' corpi, il che sarebbe un negare il fatto più manifesto, ed il Gioberti stesso nol nega parlando anch' egli di sostanza contingente e di materia; ovvero, volendo sostenere che noi percepiamo il corpo nel suo essere proprio e materiale in Dio, che si suppone oggetto dell' intuito, non vi ha più riparo alcuno alla panteistica assurdità; giacchè è giocoforza che collochiamo in Dio la stessa sostanza e materia corporea; e poichè tutto ciò che è in Dio è Dio; forz' è che concludiamo che Dio è corpo, o che il corpo è Dio; ciò che viene al medesimo. Riassumiamo, o signori, quest' argomento evidentissimo. Noi non possiamo percepire in Dio, o nell' atto creatore, che è pur Dio, ciò che non vi è. Ma il corpo, e niuna delle cose contingenti, in quanto hanno un loro essere proprio reale, contingente e materiale, non sono in Dio. Dunque, quand' anco fosse vero altrettanto quanto è falso, che noi vedessimo Iddio, potremmo conoscere perfettamente, ma non potremmo percepire la materiale sostanza dei corpi, nè alcuna creatura nel suo essere proprio e contingente, se non avessimo il sentimento, e nel sentimento non ne ricevessimo l' azione. Convien dunque confessare, che col ricorrere all' intuito di Dio e dell' atto creatore, non si può spiegar la percezione delle sostanze create, e specialmente delle materiali, e questo è rinunziare al giobertiano sistema; ovvero conviene ammettere tutto quant' è lungo e largo e goffo e grosso il panteismo. A voi, miei signori, la scelta, che non vi è certamente difficile a fare. Ma e i celesti comprensori non percepiscono forse in Dio le cose create? A questa dimanda, che niuno perito nella scienza teologica farebbe mai, rispondo di no: posciachè mi parlate di percepire, e non di conoscere semplicemente. In Dio, nè nel suo atto creatore, che è Dio medesimo, essi non possono percepire ciò che non vi è; e non vi è, come dicemmo, la creatura nell' essere suo proprio formale, sostanziale, materiale. Dunque ivi non possono percepire e non percepiscono punto nè poco le creature. Essi ve le conoscono bensì, ve le conoscono cioè non tutte, ma solo quelle che Iddio vuol loro rivelare; ma non ve le conoscono per via di percezione come le conosciamo noi al presente; benchè è da credersi che neppure ad essi sia tolta la percezione delle creature nel loro essere proprio fuori di Dio; ma questa loro percezione non l' hanno nella visione di Dio, perchè quivi non possono averla, ma per quella comunicazione naturale che ancor conservano colle creature stesse. Essi vedono in Dio le cose contingenti quante Iddio ne vuol loro dimostrare, come nel loro esemplare, cioè nella loro idea, e questa idea fa loro conoscere la possibilità di esse. Ci vedono ancora le cose come nella loro causa creante, e quindi ben intendono che sussistono e come sussistono, e le conoscono meglio che non le conosciamo noi colla percezione; ma in altro modo, perchè non le percepiscono in sè stesse. Nè l' uno nè l' altro di questi due modi di conoscere è percepire le cose; e perciò quello dei celesti comprensori non è il modo del conoscer nostro sperimentale, non è quello che noi trattiamo di spiegare, e per ispiegare il quale noi ricorriamo col Rosmini al sentimento, e all' essere ideale; laddove il Gioberti ricorre all' intuito di Dio e dell' atto creativo. Vero è che noi abbiamo anche un altro modo di conoscere le cose, ed è quello di conoscerle nella loro possibilità. Ma neppur questo modo si può spiegare, come abbiamo accennato, ricorrendo all' intuito di Dio, per l' argomento fatto di sopra, che possiamo riassumere così. In Dio non vi hanno concetti in senso proprio, l' uno realmente distinto dall' altro, ma vi ha un solo ed unico Verbo, che è figura della sostanza; e insieme esemplare delle cose, pel quale tutte le contingenti si creano, e si distinguono e sono da Dio perfettamente conosciute. Ma noi vediamo le cose possibili con altrettanti concetti determinati dalle nostre percezioni, ciascuna delle quali è realmente diversa dall' altra, e non già pronunciandole con un solo e medesimo verbo, come faremmo se le vedessimo nell' unica percezione del Verbo divino. Dunque qualunque via si prenda a spiegare l' origine di questi concetti così distinti, o si ricorra ai sentimenti e alle loro vestigia, come facciamo noi, o si abbracci un altro sistema; non sarà mai vero che i detti concetti sieno un solo pronunciato, come dovrebbe essere se li conoscessimo a quel modo come sono conoscibili in Dio. Dunque noi non vediamo la possibilità delle cose in Dio, e quindi non vediamo Iddio, come pretende il Filosofo nostro. Rimane il terzo modo di cognizione per via di causa. Di questo noi uomini, nel mondo presente, ne siamo privi del tutto: noi non sappiamo come le cose sieno in Dio eminenter: questo lo sanno solo i comprensori celesti. E facilmente si prova in questo modo. Ciò che si conosce per via di causa, o è nella causa o fuori di essa. Se è nella causa, si può percepire insieme nella percezione della causa; altrimenti, non essendo nella causa, si deve argomentare movendo dalla causa, e venendo all' effetto; e questo sarebbe un conoscere le cose indirettamente . Ma le cose create col loro essere sostanziale e materiale, come noi le conosciamo sperimentalmente, non sono in Dio loro causa, ma sono il termine dell' azione di questa causa. Dunque se noi vedessimo Iddio solo, senza avere anche la percezione immediata e diretta di esse, noi non potremmo conoscerle se non per via d' un' argomentazione dalla causa all' effetto, o, per dir meglio, dall' esistenza eminente all' esistenza propria e reale, o per ispeciale interna e positiva rivelazione. Solo se noi vedessimo l' atto di questa causa unitamente al suo termine, conosceremmo certamente questo termine, ma nè pur allora in quel modo sperimentale e diretto, nel quale lo conosciamo adesso. Certo nessuno dirà che noi conosciamo prima l' esistenza eminente delle cose in Dio, e poi l' esistenza loro propria e reale; come pure niuno dirà che noi conosciamo la sussistenza delle creature per via di argomentazione che parte dalla causa e viene all' effetto, e finalmente nessuno di buon senno dirà, io credo, che invece di percepir le cose direttamente e trattandosi de' corpi col senso, conosciamo tali cose col puro intuito dell' intelletto come termini dell' atto creativo, il quale certamente non è sensibile, se non all' intelletto: e il Gioberti stesso, sebbene dica che la conosciamo indirettamente, tuttavia altrove esclude espressissimamente questa via, perocchè egli vuole che il suo intuito sia immediato per forma, che non vi si mescoli alcuna argomentazione, che anzi per lui è l' intuito di un mero concetto . Dunque l' uomo non può conoscere le cose create per via di causa. Ma nulla ostante, si prenda ciò che si vuole, e converrà sempre rinunziare al sistema giobertiano. Se si prende che le cose si conoscano per via di causa, argomentando; si rinunzia al sistema giobertiano, che sostiene, quelle conoscersi per intuito immediato senza sillogismo, e senza giudizio alcuno di mezzo. Se si prende il partito di dire, come dice il Gioberti, che si conoscano nella causa, senza argomentazione nè giudizio, anzi come un semplice concetto che s' intuisce; allora divenendo noi manifesti panteisti, perchè mettiamo l' effetto sostanzialmente e realmente nella divina sua causa, converrà di nuovo rinunziare al giobertianismo, perchè il Gioberti dichiara di non voler essere panteista. Da qualunque via si prenda questo sistema, ne' suoi visceri è dal panteismo corroso a morte; nè le proteste in contrario, o le belle frasi nel possono guarire. Non mi fermo, o signori, a notare cent' altre inesattezze e ripugnanze nei passi citati, come il dire che « « la cosa creata rappresenta imperfettamente l' idea creante » », frase che starebbe bene solo in colui che ammettesse che dalle creature, percepite direttamente, si salisse a conoscere il Creatore, che è il viaggio contrario a quel del Gioberti; o come l' ostinarsi a chiamare Iddio Idea , ed alla frase consacrata e al tutto dogmatica « il Verbo umanato »affettare con profano ardire di sostituire continuamente quella d' « idea umanata »; neologismi temerarj e gravidi di perniciosissime conseguenze, e tant' altre che il tempo mi vieta di riferire. Ma io non posso nulladimeno abbandonare ancora l' argomento troppo fecondo, senza chiamarvi ad altre importanti considerazioni, le quali io mi riserbo ad esporvi in un' altra lezione. Noi raccogliemmo, o signori, nelle lezioni precedenti tutte le giustificazioni, di cui il signor Gioberti riputò bisognevole il suo sistema per nettarlo dalla taccia di panteismo, e non omettemmo industria affine di trovarci dentro qualche valore; ma sgraziatamente ne riuscì il risultamento contrario, poichè le sue scuse e le sue giustificazioni stesse misero in più aperta luce la increscevole verità che quel sistema ch' egli si sforza d' introdurre in Italia, è fiore di panteismo tedesco. E per vero le proposizioni tutte che egli adduce a rimuovere da sè la sentenza che lo condanna, si trovano già ammesse dai panteisti più famosi che lo precedettero. Egli ammette che Iddio sia causa, e si compiace assai di chiamarlo causa immanente del mondo; ma anche molti fra i panteisti ammisero Dio come causa del mondo, e Spinosa in particolare si compiaceva di quella espressione; e pure essi fecero il mondo della stessa sostanza di Dio (1). Egli dichiara che Iddio è l' oggetto del sapere anche quando il sapere ha per oggetto le cose contingenti, poniamo, i corpi: [...OMISSIS...] . Ora sarà ben difficile il trovare dei panteisti, i quali dicano Iddio identico a ciò ch' egli produce colla sua propria sostanza. Egli confessa che Iddio è causa libera; ma chi non sa che questo fu detto anche da' più spacciati panteisti (2)? e che gli stessi teologi più rispettabili dissero che Dio fa liberamente tutto quello che fa, anche le stesse operazioni interiori, come la generazione del Verbo e la processione del Santo Spirito? Perocchè prendono la parola liberamente per indicare un' azione spontanea non legata, non determinata da alcun principio straniero a Dio (3); onde ancora il dire Iddio causa libera senza spiegare di più, non giustifica dal panteismo un autore che in tanti luoghi sembra professarlo col suo sistema, benchè continuamente, e quasi con soverchia solennità, dichiari d' esserne inimicissimo. Ma acciocchè voi abbiate qualche documento storico sotto gli occhi, dove vediate aperto come i panteisti abbiano sempre accozzate insieme, parlando di Dio, le proposizioni più contraddittorie nell' apparenza, alla guisa dell' autore che esaminiamo, permettete ch' io vi accenni il panteismo stoico, e che vi legga un passo dello stoico Seneca, che il professava. Questi, nel libro II, cap. 45, « Delle naturali questioni », così prende a parlare di Dio: [...OMISSIS...] . Voi vedete già in queste parole che Giove, cioè il sommo Dio, qui si riconosce 1 per custode e rettore dell' universo: 2 qual animo e spirito; 3 qual signore e fabbricatore della natura. Dunque Iddio non si fa già identico con ciò che egli produce, regge e governa: lo si fa artefice, e perciò causa del mondo, e lo si fa causa spirituale e intelligente a cui compete lo scegliere, il deliberare, l' esser libero. Con tutto ciò udite in che modo continua lo stoico panteista dopo aver detto che a Giove compete ogni nome: [...OMISSIS...] . Qui già Iddio è convertito nel fato, al quale lo stesso filosofo poco prima aveva attribuito la necessità scrivendo: [...OMISSIS...] . E tuttavia chiama Iddio « causa caussarum », che è veramente un renderlo creatore, come quello che produce non già solo gli atti delle cause seconde, ma le stesse cause seconde. Andiamo avanti: [...OMISSIS...] . Qui non è una necessità cieca, ma una mente guidata dal consiglio e dalla sapienza, ed è ancora distinto dal mondo. Procediamo a quel che viene: [...OMISSIS...] . Eccoci arrivati allo scioglimento: ecco dove finiscono le magnifiche frasi dei panteisti. Sì, Iddio è creatore, libero artefice dell' universo, non identico colle sue fatture, la causa delle cause, il rettore e il signore di tutte le cose; ma insieme egli è anche la necessità di tutte le cose e di tutte le azioni, egli è la natura, egli è l' universo: [...OMISSIS...] . Simili esempj di panteisti i quali uniscono, parlando di Dio, le frasi più vere e le più erronee ad un tempo, sono comuni. Acciò che dunque il signor Gioberti avesse legittimamente purgato il suo sistema dal panteismo, di cui teme egli stesso possa venire accusato, conveniva che oltre quelle magnifiche sue frasi intorno a Dio, non avesse poi aggiunte quell' altre che panteista il potrebbero dimostrare, come, poniamo, quella che « « Iddio è l' oggetto immediato ed universale del sapere, e non solo rispetto alla forma di esso sapere, ma ben anco alla materia » »; e l' altre da noi ripassate nella lezione precedente e moltissime più efficaci ancora che non abbiamo avuto il tempo d' indicare. Or qui, miei signori, ditemi per puro amore del vero, vi par egli che un tale scrittore sia giudice competente, quando, sedendo a scranna, toglie ad imporre accusa e a pronunciar sentenza recisa di panteista a questo e a quel filosofo, che non ebbe mai alcuna simile taccia? O vi credete voi che questo suo zelo possa parere al pubblico del tutto netto e sincero? Il zelo puro e sincero suol avere per sua guida la discrezione e la verità, nè suole eccedere in esagerazioni manifeste. Ora vi par egli che sia savia e discreta quella smania che ha il signor Gioberti di trovare il panteismo per tutto, dicendo che [...OMISSIS...] ? Non si può dunque più errare senza essere panteista? Non ha questo l' aspetto di un zelo eccessivo e del tutto esagerato? Non lascia egli dubitare che, colle migliori intenzioni, il signor Gioberti vada illudendo se stesso? Quando specialmente si considera, che al Panteismo contrappone come unico sistema vero il suo proprio sistema, dandogli l' appellazione di Ontoteismo, che non sembra il miglior vocabolo per designare un sistema affatto immune da ogni parentela con quel brutto errore del panteismo (2)? Perocchè egli pare che la parola Ontoteismo, che viene da Ente e Dio, sarebbe acconciamente adoperata a significare il sistema che fa Dio di ogni ente, ossia che fa ogni ente sia Dio. Onde quella denominazione che cangia il nome e lascia la cosa, potendosi Ontoteismo prendere appunto siccome sinonimo di Panteismo, sembra tanto più inopportuna, che le cose già da noi considerate nelle precedenti lezioni dimostrano pur troppo, che il signor Gioberti rassomiglia in qualche modo a colui che affaticasi a gittar acqua in casa d' altri, dove non è alcun fuoco, mentre arde tutta la propria. Al che dimostrare maggiormente non ci vien meno, o signori, sempre nuova messe ogni qual volta apriamo i suoi libri dovecchessia. Io credo non dovervi rincrescere che noi spendiamo ancora qualche tempo a considerare alcuni brani tra i molti di questo Autore, affine di assicurarci via più che non pronunciamo leggiermente sì grave sentenza sulla natura del suo sistema nel tempo stesso che rispettiamo senza limite le sue intenzioni. Nell' opera degli « Errori » alla terza lettera diretta, come tutte le altre, al prof. Tarditi, fac. .2, egli scrive così: [...OMISSIS...] . Meritano bene la nostra attenzione, o signori, queste parole, poichè, anche prescindendo dalla questione del panteismo, esse ci accordano più cose che prima ci sembrava negare. Esse ci accordano prima di tutto il fatto capitale da cui movono i nostri ragionamenti, cioè che « la mente umana pensa l' ente comunissimo e generalissimo ». Non è dunque assurdo, miei signori, pensare quest' ente, come sembra che voglia fare credere in altri luoghi il signor Gioberti; non è assurdo, e non può essere assurdo, perchè non può essere assurdo un fatto. E veramente altra è la questione dell' origine dell' essere ideale, altra la questione della natura . Altro è il domandare se noi vediamo l' essere ideale per natura, o lo caviamo per astrazione; altro il cercare se, qualunque sia la origine di quel concetto, egli ci stia dinanzi alla mente, e però sia qualche cosa, ovvero sia un mero nulla. Quando il signor Gioberti pretende che non possa essere congenito alla umana natura perchè egli è nulla, e poi ci fa sapere che l' uomo sel forma per astrazione, allora si contraddice; giacchè se è possibile che l' uomo si formi l' essere ideale per astrazione, rimane dunque possibile egualmente che sia a lui congenito, e, se più vi piace di così esprimervi, che Iddio glielo dia già bello ed astratto. Per decidere la questione dell' origine, conviene dunque aver prima ammesso che l' essere di cui si parla non sia nulla; questione che riguarda la sua natura, perchè di ciò che è nulla non si cerca l' origine. Il Gioberti confonde adunque due questioni, pugnando seco medesimo: non vuole riconoscere che l' essere ideale possa essere innato come quello che è nulla (onde accusa di nullismo il Rosmini); e poi riconosce che l' essere ideale si forma per astrazione, ammettendo così che sia qualche cosa. E perchè Iddio non potrebbe infondere ad una mente da lui creata una cognizione generica o speciale senza bisogno d' infondergli insieme quella dei reali e sussistenti individui che ad essa corrispondono? Del pari, anzi a maggior forza, niente dimostra impossibile, che il Creatore conceda all' umana creatura l' intuizione dell' essere universale, il quale si può pensare manifestamente senza bisogno di volgere contemporaneamente il pensiero alle sussistenze reali. Quante volte non si pensa un ente nella sua pura possibilità senza più? Ma quello che maggiormente dovete notare, o signori, si è, che fu già a pieno dimostrato dal Rosmini, che l' essere in universale non si può avere in modo alcuno per via d' astrazione, come vogliono i sensisti, la cui sentenza è ammessa senza esame per assioma indubitato dal Gioberti, perocchè l' astrazione non può cadere che sugli oggetti già percepiti, ed ogni percezione suppone dinanzi a sè la notizia dell' ente in universale; la quale d' altra parte sola ella basta a renderla possibile. In secondo luogo, quell' ente comunissimo ed astratto non è nessun ente particolare, è una mera astrazione pel signor Gioberti; dunque considerato come astratto non ha realità; che è quello appunto che diciam noi, essendo la realtà propria degli enti particolari. Perocchè se il signor Gioberti, dopo aver astratto l' ente comunissimo dall' ente reale, pretendesse di aver formato con questa operazione un altro ente reale, darebbe forse a ridere alla gente, e perciò noi crederemmo di fargli torto, se gli attribuissimo una simile assurdità. Vero è, che egli dice, che « « il possibile è reale come possibile »(1) », frase novissima, udendo la quale sembra, a dir vero, che egli voglia giocar di parole; che egli cioè, dopo aver distinto per via di astrazione il possibile dal reale, voglia poi allo stesso possibile astratto dare la realtà, benchè coll' astrazione gliel' abbia tolta. Il che è come dire: « Vedete il fusto di questa colonna. Astraete da esso la pietra di cui ella è formata: che cosa vi resta? Mi resta l' idea d' un fusto di colonna che contiene tutta la forma, ma che non contiene, non determina alcuna materia di cui sia composta, nè pietra, nè legno, nè metallo, nè altro. Eh! v' ingannate, soggiungesse, la vostra colonna astratta è realmente di pietra ». Si risponderebbe ad un tale dialettico: Voi volete farci travedere: come può essere di pietra quella colonna astratta, dalla quale coll' astrazione abbiam tolta via la pietra? Così appunto il Gioberti: egli ci consente che coll' astrazione si possa levare la realità dell' ente, e con ciò formarci un ente possibile, astratto, comunissimo. Ma dopo tutto ciò, ci soggiunge tuttavia: [...OMISSIS...] . Non è questo un giocar di parole? Non si muta qui il valore della parola realità? E mentre prima si prendeva in senso di ente sussistente in opposizione dell' ente meramente ideale, poscia si prende in senso di entità? Certo che l' astratto, il possibile, l' idea pura ha la sua entità, non è nulla; ma la questione non cade qui; la questione cade a sapere se il possibile, il comune, l' astratto, ha quella entità che hanno gli enti chiamati sussistenti e reali da tutto il mondo. Conviene egli a noi tener dietro a siffatti scambietti di significati dati alle parole, non degni di chi vuol filosofare? No, miei signori, onde lasciamoli pure da parte (1), e concludiamo che il Gioberti ci concede che l' ente comunissimo, ideale e possibile, possa esser diviso dal reale (dal quale per altra parte non si può prendere, perchè non può prendersi alcuna cosa dov' ella non è) senza che questo sia reale, benchè sia verissimo oggetto della mente che lo vede puro e lo contempla, e senza che sia tuttavia il nulla, che non si può vedere nè contemplare, nè dire che sia un elemento comune a tutti gli enti; e posciachè quell' oggetto della mente non è nulla, egli può anche essere ingenito; del che il Rosmini diede molti ed apertissimi argomenti, ai quali avrebbe dovuto certamente rispondere il Gioberti se volea impugnare quel sistema, ma stimò meglio dissimularli trapassandoli in sommo silenzio. Prendiamo dunque a conto queste concessioni che egli ci fa, e che sono pure il tutto nella disputa che egli move contro alla dottrina da noi seguita. Ma egli tuttavia ce ne fa un' altra non meno importante: ci concede ancora che noi diciamo bene quando affermiamo che quest' ente comunissimo non è Dio; poichè, a detta sua, tra l' idea di Dio e l' idea dell' essere comunissimo v' ha quella analogia e somiglianza rimota che corre tra l' infinito e il finito . Ascoltate attentamente, perchè già ci avviciniamo di nuovo alla questione del panteismo, che è il principale argomento, di cui al presente ci dobbiamo occupare. Non è già che con quelle parole il signor Gioberti esprima fedelmente la nostra opinione. Primieramente tra l' idea di Dio e l' idea dell' essere comunissimo non ci può correre quella infinita distanza che pretende il signor Gioberti, perchè finalmente elle sono due idee dello spirito umano. La distanza sta bene tra Dio e l' essere comunissimo, ma non ancora tale quale il Gioberti sembra volerla indicare. Se noi diciamo, che l' ente ideale non è Dio, non diciamo però così assolutamente, com' egli dice, che esso sia finito; anzi diciamo che egli ha un lato infinito ed un lato finito: in quanto è infinito ed universale cioè nella sua parte positiva, egli è un raggio di Dio, un lume del volto divino, come la Scrittura lo chiama, una partecipazione del lume increato, e perciò lo chiamiamo anche noi divino; in quanto poi è finito e limitato, cioè nella sua parte negativa, intanto a lui si appartiene il nome che gli dà s. Tommaso di lume creato . Ma ad ogni modo resta sempre fermo, che il Gioberti ci accorda, che l' ente ideale non è Dio, e questa è quella confessione che noi vogliamo raccogliere dalla sua bocca. Che se noi abbiamo ragionato bene dicendo che quest' ente non è Dio; ond' è poi lo strepito ch' egli mena contro questa nostra sentenza, per la quale vuole che noi urtiamo necessariamente in uno de' due infamissimi scogli del soggettivismo o del panteismo? A vederlo conviene che noi attendiamo al modo onde egli ragiona in quanto al soggettivismo, cioè a quell' errore che il Rosmini denunziò forse il primo al pubblico, e cui egli impose il nome. Egli dice così: [...OMISSIS...] . Così alla facc. .5 della citata lettera. Io non voglio già qui fermarmi, o signori, ad osservare quante cose inesatte o false si contengano in queste parole; non voglio già farvi osservare essere una mera e grossa falsità, l' affermazione sì franca, diciamolo pure, e sì audace al suo solito, che, secondo il Rosmini, « « si distingue l' essere ideale numericamente dall' idea divina » », frase che non adoperò, nè adoprerebbe mai il Rosmini, il quale non parla d' idee divine che riduce tutte al Verbo, ed ancora sostiene che l' essere in universale è essenzialmente uno, e numericamente il medesimo veduto da tutti gli uomini e da Dio stesso, ma da Dio in tutt' altro modo proprio di Dio, senza niente di negativo, perciò senza che in Dio si distingua dal suo stesso Verbo (1), distinguendosi solo rispetto all' uomo a cui è dato in modo sì limitato. Neppure mi fermerò a pregarlo che si compiaccia di darci qualche prova di quell' affermazione egualmente ardita e gratuita, [...OMISSIS...] . Perocchè se per questo soggetto conoscente egli intende l' uomo, ora perchè mai, noi gli domandiamo, dovrà egli immedesimarsi coll' uomo, a cui solo risplende come il lume agli occhi? Forse perchè è nell' uomo come oggetto del suo intuito? Per questo no, poichè, se egli adducesse questa ragione, la ragione stessa varrebbe per l' oggetto reale che egli attribuisce all' intuito, onde si darebbe della zappa in sul piè. Forse perchè, essendo ideale, dee aver per sua sede qualche mente reale? Questo non prova che s' immedesimi coll' uomo. Prova solo quello che dimostra il Rosmini, cioè che l' essere ideale dee risiedere in Dio, e immedesimarsi con Dio; benchè l' uomo non veda il come, perchè col lume naturale non vede Iddio. E questo è anzi l' argomento a priori che il Rosmini addusse dell' esistenza del Supremo Essere (1). Dove io vorrei pure poter dare al signor Gioberti almeno lode di buona fede. Ma quando considero l' abuso che egli ha fatto dell' aver detto il Rosmini che « l' ente ideale non sussiste fuor della mente », colle quali parole il Rosmini intendea d' ogni mente e umana e divina, e il Gioberti se ne prevale per far dire al Rosmini, che l' essere ideale è nulla fuori dell' uomo; mi duole non potergli neppure attribuire quella lode che agli onesti è sì cara. Procede adunque il nostro Filosofo tutto sul gratuito e sul falso. Ma non fermiamoci a ciò: in quella vece così ragioniamo. Il signor Gioberti dice, che « « un tale ideale solo nel soggetto conoscente, s' immedesima sostanzialmente con esso » »; il Rosmini all' incontro dimostra in un lungo dialogo (1) con argomenti evidenti, di cui il Gioberti non fa parola, che, quantunque l' essere ideale sia nel soggetto conoscente nel senso che è da questo soggetto intuíto, tuttavia non si confonde, nè si può giammai confondere con esso lui; che anzi è per la sua stessa essenza inalterabile ed inconfusibile, ed ha natura tanto distinta dal soggetto intuente, quant' è distinto ciò che è necessario da ciò che è contingente, e la natura dell' uno conserva opposizione alla natura dell' altro, come esprime anche l' etimologia della parola soggetto ed oggetto . Dunque il Rosmini a buon conto non cade certamente nel soggettivismo, che gl' imputa l' avversario. Dopo di ciò raccolgo un' altra confessione del signor Gioberti intorno alla maniera con cui egli concepisce « l' essere possibile, ideale, comunissimo »; raccolgo cioè essere la sua sentenza intorno alla natura di quest' essere tutto contraria alla sentenza del Rosmini, il quale sostiene che egli è per essenza oggetto; laddove il Gioberti lo fa soggettivo, e vuole che s' immedesimi col soggetto conoscente. Ritenuta questa confessione del Gioberti intorno alla natura dell' essere ideale, ritenuto che quest' essere astratto, com' egli dice, non è Dio, ma creatura, non conserva rispetto a Dio che « « quella analogia e somiglianza rimota e imperfettissima che corre fra l' infinito e il finito » »; io passo all' accusa di panteismo, ed esamino tosto se questa cade giustamente sul Rosmini, o ricade piuttosto in capo allo stesso Gioberti. In quanto al Rosmini, voi sapete che egli insegna che l' essere ideale è per essenza oggetto, come dicevamo, ed inconfusibile coll' uomo, che è identico, manifesto a tutti gli uomini che vissero ne' varj secoli, e nelle più disparate parti della terra, universale, eterno, immutabile ec., in somma divino da quel lato nel quale egli è infinito. Dunque dicendo il Rosmini che quest' oggetto è nella mente di Dio, ossia è in Dio, egli non confonde già le creature con Dio, e perciò non cade nel panteismo. Dice di poi che quest' essere in Dio non si trova a quel modo come si trova nell' uomo per partecipazione e da qualche parte limitato, ma si trova per essenza e illimitato da tutti i lati, e che è Dio stesso non punto nè poco diviso dalla divina natura. Ma dice di più che non ne viene da questo, che l' uomo veda la natura divina, la coscienza e la ragione dicendoci il contrario; dicendoci cioè che l' uomo vede l' essere in istato puramente ideale, il quale però non è Dio, perchè Iddio non è un' idea, ma è vera sussistenza, viva, intelligente ed intelligibile per se stessa. Laonde la limitazione colla quale è dato all' uomo l' intuito dell' essere, è tale e tanta che per essa gli si nasconde la divina sussistenza e sostanza, in modo che l' essere che rimane visibile non contiene più ciò che col nome sostantivo di Dio viene espresso. E tuttavia, aggiunge il Rosmini, che l' essere ideale qual è veduto dall' uomo suppone un primo reale, cioè una mente sussistente in cui egli si trovi come in proprio luogo, e così per via di raziocinio e non intuitivamente, dall' essere ideale argomenta all' esistenza di Dio, con argomentazione a priori efficacissima. All' incontro il Gioberti vuole che l' essere ideale sia del tutto finito, soggettivo, anzi che si immedesimi col soggetto uomo. Ora indovinate mo' dopo tutto questo, dove, secondo lui, un tal ente si trova? Quest' ente appunto si trova, secondo il Gioberti, in Dio medesimo: Iddio è l' oggetto dell' intuito giobertiano, e l' uomo coll' astrazione vi trova dentro l' ente finito, l' ente che s' immedesima coll' uomo stesso. Or questo che cosa è mai, miei signori? E` panteismo o no? Leggete che cosa egli scrive alla faccia 67 della citata lettera III. [...OMISSIS...] . Questi riverberi e queste postille delle cose impresse in nitido vetro, non farebber pensare, per osservarlo di passaggio, che le cose mandino il loro lume in Dio come nello specchio? sicchè le cose sieno il lume, e Iddio il vetro che lo riceve? Ma lasciando tali improprietà, avete udito che Iddio contiene l' idea dell' essere possibile, che, secondo il Gioberti, è l' ente finito, identico coll' uomo. Si fa dunque dell' ente finito e dell' infinito, dell' uomo e di Dio una cosa sola. Ascoltate di più come egli aveva già prima scritto nella « Introduzione, L. I, c. IV, facc. 35 »: [...OMISSIS...] . Quale eloquenza, miei signori! Egli è impossibile raffrenarne la foga coll' opporgli forse che tali cose non sono state mai dette nè da filosofi, nè da teologi cattolici. E che varrebbe infatti l' opporgli che tutti quanti i più solenni teologi della Chiesa cattolica, incominciando da s. Tommaso (e più su si potrebbe andare), dichiararono e dimostrarono fin qui, che in Dio non vi è nè generale nè particolare (1), se questo fiume d' eloquenza sdegna ed abbatte tutte le teologiche sponde? Lasciando adunque questi accessorj, cerchiamo d' intendere bene la sua mente nel principale. Ed i passi citati sono chiari. Egli dice, che l' Ente reale, cioè Iddio, è la sintesi di queste proprietà, cioè del concreto e dell' astratto, dell' individuale e del generale (già v' accorgete dell' affinità di questo parlare col sistema dell' identità assoluta dello Schelling): dice che Iddio sotto un aspetto è l' astratto, sotto un altro il concreto, sotto un aspetto è il generale, sotto l' altro è il particolare; dice bensì che tutto ciò è in modo diverso dalle creature; ma soggiunge che la concretezza e l' individualità sono il reale senza l' ente, da cui nascono le idee riflesse. E per istare nel discorso che abbiamo cominciato, egli colloca l' ente astratto e possibile, dove si rinviene poi per via d' analisi, in Dio, anzi egli dice che Dio stesso è l' ente astratto, è il possibile considerato sotto un rispetto, dice che l' ente assoluto contiene in sè l' idea del possibile. Ma avvertite, che egli stesso altresì è quegli che dice parimente, che l' ente astratto e possibile non è Dio, non è che un' analogia e somiglianza con Dio rimota ed imperfettissima, come quella che corre tra il finito e l' infinito, e che quell' ente astratto s' immedesima coll' uomo. Dunque la conclusione parmi assai chiara; il finito, il soggettivo, il soggetto stesso umano col quale s' immedesima l' essere astratto è in Dio ed è Dio; perocchè tutto ciò che è in Dio è Dio, e la sola analisi dello spirito è la virtù creatrice che cava il finito dall' infinito, e le esistenze, cioè le creature dal creatore. E qual panteismo v' ebbe mai al mondo che non sia rifuso in questo sistema? Dunque al Gioberti si deve applicare, secondo la giusta logica, quell' argomento che egli fa sì male a proposito contro il Rosmini e contro il Tarditi, il quale è questo: [...OMISSIS...] . A questo ragionamento non si può rispondere. E di vero, risponderà forse, che quando egli disse che l' essere possibile ed astratto è finito, intendeva solo nel caso che non si ponesse in Dio, ma che esistesse solo nell' uomo, come falsamente attribuisce a noi di tenere? Non può dir questo, mentre anzi espressamente dichiara in contrario; dichiara che è proprio finito quell' essere che si vede in Dio, e che perciò è Dio: ripetiamo le sue parole: [...OMISSIS...] . Dice adunque che è finito quell' ente possibile appunto, che si vede in Dio, ed anzi che si crede tale perchè tale si vede in Dio. Or posciachè tutto ciò che è in Dio è Dio, dunque anche il finito, ciò che, secondo il Gioberti, è soggettivo, e che si immedesima con noi è Dio; il che se non è panteismo, per dirlo ancora, che cosa sarà, miei signori? S' accalappia dunque il nostro Filosofo ne' suoi stessi ragionamenti, e precipita nella fossa altrui preparata; il che suole esser sempre la giusta sorte riserbata all' errore. Ma v' ha ancora un barlume di speranza, miei signori, di poter salvare in qualche modo il sistema dell' ab. Gioberti dalla taccia gravissima che egli incorrerebbe, secondo i fatti ragionamenti; e questo si è che egli professa apertamente, ed estolle a cielo il dogma della creazione, anzi lo pone a segno caratteristico da cui distingue i filosofi puri di panteismo da quelli che ne vanno infetti. E veramente in ciò siamo d' accordo con lui, purchè s' intenda come l' intendono i cattolici e non come l' intendeva lo Spinosa o l' Hegel: questo dogma può essere una tessera acconcissima a ciò, perchè in qual maniera sarà panteista colui che professa, come professiamo noi tutti cattolici, miei signori, che l' università delle cose contingenti è cavata dal nulla? Perciò se gli fosse piaciuto di esser coerente a questo criterio che stabilisce per iscoprire dove giacciasi il panteismo, avrebbe dovuto incominciare dimostrando che tutti quei filosofi che egli accusa di tanto errore, negano la creazione, e che egli solo l' ammette. Ma questo è quello appunto ch' egli si dimenticava di fare. Ma or lasciando stare le accuse che egli appone altrui, non avrà almeno il signor Gioberti, magnificando il dogma della creazione, ed anzi cangiandolo in assioma filosofico (il che è andare certamente al di là dello stesso dogma), purgato interamente e pienamente il suo sistema da così brutta colpa? Questo è quello che noi ci proponiamo d' investigare, miei signori, in altra lezione. Sì, miei signori, se Vincenzo Gioberti ammette puramente e semplicemente il dogma della creazione, quale è insegnato dalla fede cristiana, egli non è panteista. A malgrado di tutto ciò che abbiamo veduto di lui, noi siamo presti ad assolverlo da un tanto errore: noi diremo o che non l' abbiamo inteso, ovvero che egli non è troppo felice nello spiegare i suoi concetti, o finalmente che egli si contraddice inavvedutamente. Ma avvertite: noi pretendiamo per rimandarlo giustificato, ch' egli veramente ammetta questo dogma cristiano della creazione, e che non ci illuda con pompose parole; che lo ammetta nella sua filosofia, non nella sua credenza, sulla quale noi non moviamo alcun dubbio, nè importerebbe alla scienza. Quest' avvertenza ce la insinua egli stesso, poichè egli stesso ci ammonisce [...OMISSIS...] . E veramente se gli stoici chiamavano Iddio caussa caussarum, che è quanto farlo in un certo senso, creatore, non erano perciò meno panteisti; se lo Spinosa chiama Iddio CAUSA IMMANENTE di tutte cose, che è la frase di cui tanto si compiace il Gioberti, non era questo immune da panteismo. Convien dunque, che il Gioberti, se vuole andar netto da sì brutta macchia (parliamo sempre del sistema, non dell' uomo,) ammetta la creazione nel vero senso, nel senso cattolico, come l' ammettiamo noi. E` questa la ricerca che ci rimane a fare: a noi riman di vedere qual sia il concetto che il signor Gioberti ci dà della creazione, come ce la spieghi; giacchè egli dichiarando propriamente di vederla nell' intuito primitivo, può essere in caso di spiegarcela assai meglio d' ogni altro che non crede di vederla. Cominciamo dunque a dar mano a questa nuova ed importante ricerca. E prima osserviamo come lo stesso signor Gioberti confessi di non avere altro rifugio che il salvi dal panteismo, se non questo dogma della creazione; e confessi che tutto il resto del suo sistema sarebbe manifestamente panteistico, se non sopraggiungesse opportunamente questo dogma a sanarlo. Nella lettera XI di quelle che dirige al professor Tarditi, ci narra la storia dei suoi pensieri, parlando di se stesso in terza persona così: [...OMISSIS...] . Dal qual passo raccogliamo più cose importanti. E la più importante si è, che costruire la scienza prima coll' ente possibile del Rosmini non è già cadere nel panteismo, come in tanti altri luoghi va declamando il signor Gioberti (che che ne sia dello scetticismo che non appartiene al nostro discorso); e che all' incontro costruire l' edificio della scienza prima colla semplice nozione dell' ente reale, è appunto un cadere nel panteismo; questa confessione rileva assai, miei signori, perchè è ciò appunto che avea scritto il prof. Tarditi, dicendo che [...OMISSIS...] . Ora voi vi risovverrete pur anco, o signori, che il Gioberti, stretto allora dal bisogno di difendersi, negò francamente, che il Tarditi cogliesse nel vero [...OMISSIS...] . Ma ora all' opposto concede al prof. Tarditi senza contrasto, che costruire la scienza coll' ente reale è cadere nel panteismo, il che gli avea prima negato: noi teniamolo a conto. Di poi avete udito che egli parla di molti autori ortodossi ed eterodossi, che pongono a prima base dell' umano sapere l' ente reale , e che il loro sistema riesce al panteismo. Quali sono, secondo il Gioberti, cotesti scrittori ortodossi? Certo, sant' Agostino, s. Bonaventura, Malebranche ed altri tali. Vedete, che interpretati al modo che fa il Gioberti, tutti cotesti autori riescono macchiati di panteismo, perchè a spiegare la cognizione delle cose esistenti non sono ricorsi all' intuito della creazione. Or questo non par probabile di uomini sì illuminati, al men rispetto ai due primi. Laonde noi ci atterremo, miei signori, all' interpretazione che dà il Rosmini di sant' Agostino e di s. Bonaventura, la quale nello stesso tempo che li concilia con s. Tommaso, li salva ancora da ogni taccia di panteismo; e d' altra parte l' interpretazione del Rosmini non è tratta già dall' una o l' altra frase sfuggevole, ma dallo spirito e dal fondo di tutte le loro opere. Ma che diremo poi della pretensione, che mette fuori il signor Gioberti ad ogni piè sospinto, di avere tali autori dalla sua, se tali autori appunto, a detta di lui, sono panteisti? Convien dunque dire, stando alle confessioni dello stesso signor Gioberti, ch' egli si vanti di seguire dei panteisti; o se rinunzia a coprire il suo sistema con sì rispettabili autorità, egli si rimane del tutto solitario ed isolato nel mondo della Filosofia. Ma entriamo direttamente nel nostro argomento. E cominciamo dall' osservare che pel signor Gioberti il dogma della creazione non è solamente un articolo di fede, o un teorema filosofico, ma di più è anche un assioma . E quale assioma! Il primo di tutti gli assiomi, sul quale si fonda lo stesso principio di contraddizione, e da cui procede la forza d' ogni dimostrazione (1). Ora un assioma è una verità necessaria, e il primo di tutti gli assiomi è il più necessario di tutti, da cui deriva la necessità agli altri. Se dunque il principio di contraddizione è necessario, se è necessaria la forza con cui conchiude il sillogismo, ancor più necessario o almeno ancor prima dee esser necessario il principio o l' assioma di creazione. Abbiamo dunque una creazione necessaria, una creazione così necessaria come sono i primi principj della ragione, e d' una necessità anteriore; ma non è questa, o signori, come ben sapete la creazione cattolica, la quale non ha una necessità intrinseca e razionale, come quella che dipende dal libero ed ottimo volere di Dio. Di poi che cosa sono le esistenze o sieno le creature pel signor Gioberti? Non altro che qualche cosa che si separa da Dio per mezzo della riflessione. Vediamolo. L' oggetto dell' intuito umano è l' Ente. L' Ente è Dio. In quest' oggetto l' uomo trova ogni cosa, il contingente e il necessario, la creatura e il Creatore, perocchè l' ente è ogni cosa. Noi abbiamo veduto che tale è la dottrina del Gioberti. Richiamiamo le sue parole: [...OMISSIS...] . L' Ente, cioè Iddio oggetto dell' intuito, possiede dunque tutto ciò che vi ha di positivo nell' astratto, nel concreto, nel generale e nel particolare, nell' individuale e nell' universale. Le creature possiedono le stesse cose, ma in altro modo, perchè il positivo è mescolato in esse col negativo, il quale non è in Dio. Alle esistenze reali, che sono le creature, appartengono, come dice poco appresso, la concretezza e l' individualità , che per altro in un modo diverso, cioè senza l' elemento negativo, si trovano in Dio. Quindi egli soggiunge che « « la concretezza e l' individualità sono il reale senza l' ente »(2) », cioè il reale diviso, separato da Dio, ammettendo che per via di riflessione e di astrazione si possa separare il reale da Dio, e così fare che esistano. Come poi si può separare da Dio il reale, così viceversa si può colle operazioni riflesse della mente separare da Dio l' astrattezza e la generalità, e così fare che esistano nello spirito umano le idee, onde dice: « « L' astrattezza e la generalità sono l' ente senza il reale » », cioè l' ente dal quale è stato separato per via d' analisi il reale. E che cosa allora ne è rimasto dell' Ente, cioè di Dio, su cui si esercitarono tali operazioni? Egli è rimasto l' ente possibile, perchè l' ente senza il reale è ente possibile, e però all' ente possibile, che altre volte ha detto essere il nulla, altre volte ha detto immedesimarsi col soggetto umano, qui dà il titolo di Ente, che è la parola solenne che egli serba a significare Iddio, e altrove dice più espressamente che è Dio. Pone dunque due separazioni che si fanno nell' Ente, cioè in Dio, mediante la riflessione: colla prima si trova la concretezza e la realtà, coll' altra si trova l' astrattezza e la generalità: [...OMISSIS...] . Fermiamoci dunque qui, e vediamo come il nostro Filosofo faccia nascere le cose create, perocchè questo ci fa conoscere qual sia il concetto che egli si è formato della creazione. Onde adunque, nascono secondo Gioberti, le cose create? Dalla concretezza e dalla generalità. E dove sono la concretezza e la generalità? Sono in Dio, il quale è [...OMISSIS...] . Ma il concreto, il particolare, l' individuale appartengono all' esistenze reali (così chiama le creature) per altro in modo diverso da quello in cui appartengono a Dio, perchè in Dio quelle nozioni sono unite coll' astratto, col generale, coll' universale; ed acciocchè nascano le creature si devono separare. Le creature dunque sono nozioni o idee che sono in Dio, ma che si devono separare dalle sue correlative, acciocchè sieno creature. Così nascono le creature. Ma se dopo separate queste, si tornano a unire colle loro nozioni corrispondenti, che sono l' astrattezza, la generalità, l' universalità, in tal caso si ricompone l' Ente, cioè Dio. L' analisi adunque e la sintesi sono quelle che fanno uscire le creature da Dio, e che le fanno poscia rientrare in Dio. Infatti egli soggiunge: [...OMISSIS...] . Tale è il concetto della creazione giobertiana. E questo concetto non ispiega solamente la creazione del mondo, cioè dell' esistenze reali, ma ben anco l' origine delle idee, come vedemmo. Perocchè a quel modo che, analizzando l' Ente, si può separare il concreto e l' individuale dall' astratto e dall' universale, e così averne belle e create le esistenze reali, simigliantemente si può separare l' astratto e l' universale dal concreto e dall' individuale, e così averne le idee riflesse, giacchè, come dice, [...OMISSIS...] . Ora ditemi, miei signori, che vi par egli di questa maniera di far nascere le esistenze reali mediante l' analisi che lo spirito fa dell' Ente, cioè di Dio, coll' uso della riflessione? Vi par egli che questo sia un ammettere il dogma della creazione? Non è molto singolare la spiegazione di questo dogma? Voi sapete che il dogma della creazione suppone un atto di Dio, e qui noi lo troviamo ridotto ad essere un' analisi che fa lo spirito dell' uomo! come viceversa troviamo che l' Ente reale, cioè Iddio, è finalmente una sintesi dello spirito stesso! Vero è che il sig. Gioberti dice, che [...OMISSIS...] . E che diremo, dunque, signori miei? Diremo forse che la creazione sia un lavoro filosofico che fa Iddio e che l' uomo ripete, e così la ragione dell' uomo sia veramente la ragione di Dio? Diremo che la creazione non sia altro che « « una rivelazione di cose » » come espressamente la chiama il nostro Filosofo (2)? E` forse questo il dogma cattolico della creazione? Dal catechismo noi abbiamo apparato che la creazione si definisce convenientemente « una produzione dal nulla ». Non crediate. Il signor Gioberti vi dichiara espressamente che questa non è che una « « metafora volgare » » (3), benchè confessi che essa è « « la produzione assoluta, che dà principio alla sostanza, non meno che alle forme potenziali ed attuali delle cose prodotte » »; ma è da vedere in che modo egli intenda avvenire questo dar principio . Noi abbiamo veduto che nel sistema che esaminiamo il Creatore è lo spirito che analizza l' oggetto dell' intuito, il quale oggetto è Dio, e vi cava il concreto ed il particolare che sono le esistenze reali, le creature: niente dunque produce dal nulla, perchè trova in Dio tutto: la concretezza stessa e l' individualità, dalle quali nascono le cose create, come pure l' astrattezza e la generalità, dalle quali nascono le idee riflesse; perocchè « « l' ente è astratto e concreto, generale e particolare, individuale e universale in un tempo » » le creature dunque sono diverse da Dio, come le proprietà divise per analisi sono diverse dalle proprietà unite per sintesi: non v' ha qui niente di nuovo se non che è nuovo il modo col quale la riflessione umana considera lo stesso oggetto dell' intuito. A questo appartiene la sintesi primitiva che ha per oggetto Iddio, a quella appartiene l' analisi che ha per oggetto le creature, cioè certe proprietà dell' Ente divise dalle altre. Perciò egli ci dice che « « l' atto creativo immanente non è cosa sostanziale, ma modale »(1) » benchè, secondo la Teologia cristiana, la creazione in Dio è la stessa divina sostanza, e neppure nella creatura ella è cosa modale; anzi è il ricevimento del suo essere sostanziale. Ma se la creazione si fa coll' analisi e colla sintesi giobertiana, niente vieta che ella sia non più che cosa modale; conciossiachè il separare il concreto e il particolare dall' astratto e dal generale certo non importa che una mera modalità. Ma è egli forse questo quel concetto di creazione che può purgare un filosofo dalla taccia di panteismo? O piuttosto non vediamo noi che un panteista dee per necessità e coerenza col suo sistema innalzare alle stelle la bellezza e la fecondità del dogma di creazione spiegata in tal modo? E il vantare con tanta affettazione un tal dogma come cosa propria di tal filosofia, e quasi non più comune al mondo cristiano, non somiglia egli al costume di que' panteisti che cercano d' illudere il pubblico con frasi magnifiche e mensognere? Vero è che in un altro luogo dice, che « « l' esistente è sostanzialmente distinto dall' ente »(2) »: questa frase ci fa concepire un raggio di speranza, che il Gioberti riconosca che le creature e Dio non sono una sola sostanza, ma due sostanze veramente distinte; pure perchè mai esprimere un vero tanto importante così brevemente? Sarebbe ella non più che una frase magnifica? Vediamo tutto il contesto: [...OMISSIS...] . Ora se le creature insiedono in Dio, come possono essere una sostanza da lui diversa? Perocchè qui non si tratta dell' insidenza loro come in esemplare ed in causa, ma si tratta d' un' insidenza dell' essere reale e sostanziale delle creature. Certo che in Dio non vi hanno due sostanze, ma una sola. Tutto quello che è in Dio è Dio. Dire che il concreto e il particolare, da cui prima avea detto che nascono le creature, quando tali proprietà si dividono coll' analisi, esistono in Dio in un altro modo, non basta; perchè la differenza non può essere di modo, ma di sostanza, per evitare il panteismo. Ma udiamo come egli continua: [...OMISSIS...] . Che vi pare di questo linguaggio? Egli è certamente coerente a quello che avea detto prima, che togliendo in Dio coll' analisi l' astrattezza e la generalità, nascono le idee, e togliendo in lui la concretezza e la individualità nascono le creature. Ma la sostanza è ella unica, o sono più sostanze? Questo è quello che noi dobbiamo sapere. Ora noi abbiamo da una parte un sistema intero da cui risulta che la sostanza è unica; ed abbiamo dall' altra una frase sfuggevole, isolata e contradittoria che « « l' esistenza si distingue sostanzialmente dall' ente » ». Questa frase potrà esprimere la credenza dell' uomo; ma noi esaminiamo il sistema del Filosofo. D' altra parte, la frase è conciliabile col sistema, giacchè se le creature sono il concreto e il particolare che la riflessione ritrova in Dio oggetto dell' intuito, certo che esse si distinguono da Dio sostanzialmente, perchè le creature in tal supposto, lasciano a Dio tutta la sostanza e esse non sono che sue proprietà. Infatti il Gioberti dà il nome di proprietà al concreto ed all' astratto, all' individuale e al generale che ripone in Dio, là dove dice: [...OMISSIS...] . Ma consideriamo un altro luogo dello stesso Autore, acciocchè, quanto si rende più chiaro il suo pensiero, altrettanto s' allontani il pericolo che le sue frasi ci illudano. L' oggetto dell' intuito giobertiano è l' ente, cioè Dio; all' incontro l' ente possibile che s' immedesima col nostro spirito, come vedemmo, è oggetto della riflessione. Ora fra l' uno e l' altro « « v' ha quella analogia e somiglianza rimota e imperfettissima, che corre tra l' infinito e il finito, fra l' ente e l' esistente » »: sono parole del Gioberti. Questa immensa differenza nasce unicamente dalla diversa maniera colla quale lo spirito nostro vede lo stesso oggetto. Se dunque l' oggetto è lo stesso, benchè le potenze sieno diverse; se lo stesso oggetto rispetto ad una potenza è Dio, rispetto all' altra potenza è l' esistente, cioè la creatura; non avremo noi che Iddio e la creatura sono l' essere stesso, la stessa sostanza? Ora udite le parole di Vincenzo Gioberti: [...OMISSIS...] . Considerato bene tutto questo passo, molte cose, son certo, suggerirà al vostro spirito, miei signori, la penetrazione di cui siete dotati, delle quali alcune saranno forse le seguenti: 1 Il Gioberti dice che l' idea diretta e la riflessa hanno NELLA SOSTANZA un oggetto medesimo: la sostanza dunque è unica. 2 Che quest' oggetto sostanzialmente il medesimo, quest' unica sostanza, rispetto all' intuito è l' Ente, cioè Iddio; rispetto alla riflessione è l' ente finito, l' ente astratto e possibile, quale è nel nostro spirito, e s' immedesima col nostro spirito stesso; onde accagiona il Rosmini di soggettivismo, perchè da esso deduce le idee; benchè non sia vero che ne deduca le idee, ma solo la forma delle idee. Tiratene la conclusione: non solo voi, miei eruditi signori, ma ognuno che abbia fior di logica, sa tirarla. La conclusione indeclinabile, inescusabile, manifesta ed evidente si è, che dunque Iddio, e l' ente astratto, finito, soggettivo, che s' immedesima collo spirito umano, sono nella SOSTANZA il medesimo oggetto, e differiscono nel modo; perchè è la sola riflessione e astrazione dello spirito che li divide; questa è quella che fa uscir fuori le esistenze dall' Ente: ecco per dirlo di nuovo, a che si riduce la CREAZIONE GIOBERTIANA! Onde altrove egli esprime la creazione con questa frase, « « la trasformazione psicologica del reale (cioè di Dio) nel possibile » » (che secondo lui è una creatura) (2). Miei signori, non è ella forse una dolorosa, ma patente verità oggimai il dire, che questo sistema è quello nè più nè meno de' più arditi panteisti? Dopo di ciò non fa meraviglia, che il Gioberti, miei signori, sembri contradirsi, come abbiam veduto che soglion pur fare tutti i panteisti, e di più non è meraviglia, che esca in declamazioni contro i panteisti che lo precedettero (anzi ella è cosa naturale), secondo i quali [...OMISSIS...] . Ma dopo avere dato tali e somiglianti sgarrate, quasi scudo messo avanti a protezione di sua dottrina, egli ritorna a sè medesimo, e vi dice netto, che, come [...OMISSIS...] . Vi dice ancora, siccome udiste, che [...OMISSIS...] . Nel qual luogo l' Ente, cioè Iddio, è divenuto quell' idea che dà luogo alla psicologia, quell' idea che spiegò già il Gioberti nel luogo sopracitato, dove disse, che è un' idea che s' immedesima collo spirito umano, onde anzi dà nome ed accusa di soggettivisti e psicologisti a quanti muovono da quest' idea separandola dalla sussistenza. Perocchè non è già l' Ente come sussistente che dà luogo alla psicologia, ma l' Ente come intelligibile, che è quanto dire come quello onde fu astratta la sussistenza, il quale, secondo lui, s' immedesima col soggetto, coll' uomo. Ancora, dopo averci detto, che la sola dovizia reale delle scienze è quella che consiste nel concreto, egli ci soggiunge che il concreto della Filosofia [...OMISSIS...] . Il che vi prego di raffrontare con ciò che avea scritto nell' « Introduzione », «L. I, p. I, f. 23 ». [...OMISSIS...] , ed è perciò ch' egli vuole che nell' oggetto del suo intuito vi sia anche il sensibile, il che è perfettamente conseguente a tutto il resto, perchè anche la materia sensibile è una esistenza. Ma posciachè voi avete udito pure testè di che il Gioberti accusa i panteisti, cioè di volere che Iddio sia, a rigor di termini, non già il centro universale, ma lo stesso circolo; giova che noi vediamo d' intendere a fondo quale sia la distinzione che il Gioberti pone fra il centro universale che è Dio, e il circolo che sono le cose create. Parlando dunque egli dell' idea e del reale, li considera meramente come due rispetti, sotto cui si riguarda la cosa stessa, la stessa sostanza; protestando di dividerli appunto come si divide coll' astrazione il centro d' un circolo dalla sua periferia. Ora udite, che divisione sia questa, e se basti a dividere le creature dal Creatore in modo da non cadere nel panteismo. [...OMISSIS...] . Se dunque i panteisti errano col dire che Iddio è tutto il cerchio, mentre non ne è che il centro universale; voi avete inteso, miei signori, rimedio che apporta a tant' errore il nostro Gioberti. Egli ci fa osservare che il centro non istà senza il circolo, nè il circolo senza il centro, che il circolo ha due rispetti, l' uno de' quali è il centro, e l' altro è la periferia, i quali non si possono dividere nè realmente, nè scientificamente; ma solo astrattamente, cioè con quell' astrazione che distingue mentalmente le cose più indivisibili. Ora se Iddio è il centro, secondo il Gioberti, e se secondo i panteisti, Iddio è tutto il circolo, che avremo a dire se non: poveri panteisti, che non hanno saputo dividere Iddio coll' astrazione dal resto delle cose, benchè sia indivisibile, come il centro è indivisibile dalla periferia! Povera gente, a cui non è riuscito di trovare quest' accorta distinzione suggerita da Vincenzo Gioberti, per la quale si fa vista di distinguere Iddio da tutto il resto; ma s' aggiunge la dichiarazione, che ella non è già una distinzione nè reale nè scientifica; ma una distinzione di mera astrazione, la quale fa considerare l' Ente sotto due rispetti diversi, l' uno dei quali è Dio, Idea, e l' altro è la realità in tutta l' estensione del termine tanto necessaria, quanto contingente! Ed ancora, dopo avere insegnato una dottrina così ardita, sembra nondimeno ch' egli intenda di prepararsi aperta una ritirata al suo bisogno, gittando in un altro luogo male a proposito quelle parole che vi ho già recitate altrove, colle quali egli fa vista di rifiutare il panteismo, come se il giudicio del pubblico potesse sorprendersi e ingannarsi con qualche frase. [...OMISSIS...] ; sul qual passo alle osservazioni per noi fatte nella lezione precedente dobbiamo aggiungerne un' altra, miei signori, importante, mostrando forza che egli ha di assolvere dalla colpa di panteismo il giobertiano sistema. Secondo queste parole dunque, l' ordine assoluto è l' oggetto dell' intuito; e in quest' oggetto l' idealità è inseparabile dalla realità; questa è quella sintesi la quale precedentemente ha detto, se vi ricorda, che è Dio, perocchè Iddio pel signor Gioberti è una sintesi, quella sintesi che si trova nell' intuito dell' uomo. Or che cosa contrappone il Gioberti all' ordine assoluto oggetto dell' intuito? Egli contrappone l' ordine contingente di cose, il quale è l' effetto libero del primo. Dunque l' ordine contingente, l' ordine delle cose create ch' egli chiama effetto libero, quest' ordine non è l' oggetto dell' intuito. Ma d' altra parte ella è pur dottrina fermissima del signor Gioberti, che ogni conoscimento umano sostanzialmente è compreso nell' oggetto dell' intuito, e che fuor dell' ordine dell' intuito non v' ha altro ordine di sapere, se non quello della riflessione e dell' astrazione, o, come la chiama altrove, della sintesi raziocinativa e dell' analisi. Dunque alla sintesi raziocinativa ed all' analisi appartiene l' ordine contingente delle cose, le quali cose, per dirlo di nuovo, sono create in virtù delle operazioni della mente umana, che è appunto il sistema de' panteisti della Germania. Per fermo chi mai di voi non conosce il sistema dell' Hegel; che riduce appunto tutte le cose all' idea, e colle trasformazioni di essa fatte dal pensiero toglie a spiegare egualmente Iddio e il mondo, il necessario ed il contingente, l' essere e il pensiero stesso? Il qual sistema, lungi d' esser nuovo, è quello appunto de' primi panteisti italiani, gli Eleatici, pe' quali era un medesimo il pensare e l' essere, [...OMISSIS...] . Udiamo su di ciò nuovamente spiegarsi lo stesso Gioberti: [...OMISSIS...] . Dalle quali parole, unendole alle precedenti, noi possiamo trarre questo dialogo. - Che differenza vi ha, signor Gioberti, tra la cognizione che è oggetto dell' intuito, e la cognizione che è oggetto della riflessione? G. La cognizione che è oggetto dell' intuito, e quella che è oggetto della riflessione, è sostanzialmente la medesima, e non differisce che nella forma . - Se l' oggetto dell' intuito e quello della riflessione è nella sostanza il medesimo, come poi dite che differisce nella forma? in che consiste questa differenza? G. La differenza di forma che passa tra la cognizione oggetto dell' intuito, e la cognizione oggetto della riflessione, consiste in due cose, la prima che la cognizione oggetto dell' intuito è istantanea, e la cognizione oggetto della riflessione è successiva; la seconda che nell' intuito lo spirito vede l' oggetto quale è in sè, e la riflessione gli dà una forma soggettiva, lo scompone e ricompone . - Ma non avete anche detto che all' intuito appartiene l' ordine assoluto nel quale l' idealità è inseparabile dalla realtà? G. Sì, l' ho detto. - Non avete anche detto che il contrapposto dell' ordine assoluto è l' ordine di cose contingenti? G. L' ho detto. - E che l' ordine delle cose contingenti è l' effetto libero dell' ordine assoluto, oggetto dell' intuito? G. L' ho detto parimente, e ne ho soggiunta la ragione, perchè [...OMISSIS...] . - Voi dunque per Ente intendete l' ordine assoluto? G. Appunto. - E per esistenze, ossia cose contingenti, intendete quelle cose che la riflessione, la sintesi raziocinativa e l' analisi trovano nell' ordine assoluto, che è il vostro Ente, veduto proprio in sè, quando queste facoltà dividono l' una cosa dall' altra, per esempio l' idealità dalla realità, e le dividono con successione di tempo, onde quest' ordine in fatto diviene in tal modo un ordine soggetto al tempo, alla moltiplicità ed alla contingenza? G. Appunto. - Egli diviene altresì ordine soggettivo, perchè in tal modo l' ordine assoluto acquista una forma soggettiva? G. Così nè più nè meno. - L' ordine adunque delle cose contingenti è formato dalla riflessione, che scompone e ricompone l' ordine assoluto, ossia l' Ente oggetto dell' intuito. G. Ottimamente. - Ora veramente capisco chiaro che cosa sia quello che voi chiamate principio di creazione, pel quale l' ordine delle cose contingenti, è un effetto libero dell' ordine assoluto che è l' oggetto dell' intuito. L' ordine delle cose contingenti dove si dà separazione dell' ideale dal reale non differisce sostanzialmente dall' ordine assoluto, ossia dall' Ente, da Dio, oggetto dell' intuito, ma differisce solamente nella forma, e per questo la creazione è cosa modale, come dite, [...OMISSIS...] . G. Dite di più: l' ordine contingente che abbraccia le creature non differisce dall' ordine assoluto, cioè da Dio, nella sostanza; ma differisce nella forma, perchè in quell' ordine delle cose contingenti vi è lo stesso che nel primo, oggetto dell' intuito, lo stesso che in Dio, ma con questo divario che l' oggetto dell' intuito, cioè Dio, acquista una forma soggettiva . Questa forma soggettiva che si dà all' oggetto dell' intuito, cioè a Dio, mediante il raziocinio, la sintesi raziocinativa e l' analisi, è appunto la creazione, perchè venendo posto l' oggetto dell' intuito sotto questa forma, ciò che era assoluto divenne relativo, ciò che era necessario divenne contingente, ciò che era oggettivo si cangiò in soggettivo, ciò che era Dio si cangiò in creatura. - Mirabile spiegazione che voi date, mio caro Gioberti, del mistero della creazione; si vede proprio che n' avete l' intuito immediato! La cosa infatti non mi pare che possa essere più chiara, o signori: l' ordine delle cose contingenti non differisce, secondo il nostro Filosofo, di sostanza dall' ordine assoluto, ossia dall' Ente, che è il Dio del Gioberti. La sostanza dunque di Dio e delle creature è la medesima; la diversità sta unicamente nella forma; il cangiamento di forma a cui l' Ente, cioè Iddio oggetto dell' intuito soggiace, è la creazione. Questo cangiamento è un effetto libero dell' Ente, ma questo effetto libero è poi l' opera della sintesi raziocinativa, e dell' analisi dell' uomo; perchè è questa che dà all' oggetto dell' intuito una forma soggettiva, scomponendolo, maneggiandolo giusta le proprie leggi, senza però alterarne la sostanza, benchè tuttavia sia da aggiungersi, che [...OMISSIS...] . Voi giudicate dunque, o signori; voi paragonate questo sistema a quello dell' unica sostanza di Spinosa, e ditemi che ci trovate di diverso, se non forse una nuova fraseologia, una maggior confusione d' idee, maggiori contraddizioni, ed una declamazione continua che tutti gli altri sistemi, eccetto questo suo, sono panteisti, la qual declamazione (d' altra parte non degna d' un filosofo) voi ben vedrete se appartener possa a quelle frasi magnifiche e menzognere di cui i panteisti appunto, massime del nostro tempo, fanno uso, come c' insegna lo stesso Gioberti. Alle quali frasi magnifiche si potrà dunque senza scrupolo riferire anche quella, dove il signor Gioberti dice, che Iddio non comprende in sè la « « realità contingente »(1) ». E certo la realità contingente non può essere in Dio dall' istante ch' ella è il concreto separato per via d' analisi da Dio; onde ciò che è separato non può essere unito. Ma questa separazione però operata dallo spirito che riflette e che costituisce il principio di creazione, non è più che modale; perchè la riflessione e l' intuito hanno nella sostanza il medesimo oggetto . E la ragione che di ciò dà il Gioberti, come vedemmo, si è perchè il discorso che fa la mente quando dall' Ente possibile passa all' Ente reale [...OMISSIS...] . Nell' oggetto dell' intuito vi è dunque ogni realità che altronde non potrebbe aversi, il qual discorso, s' egli ha alcuna forza, vale anche per la realità contingente nella sostanza, non però quanto al modo della contingenza, che nasce quando si separa colla riflessione. Che anzi non si potrebbero distinguere i corpi reali dai fantasmi e dai sogni, se non vedessimo quelli nell' oggetto stesso dell' intuito (1), secondo il Gioberti; e però conviene che la stessa realità de' corpi si vegga almeno confusamente nell' oggetto intuíto. [...OMISSIS...] . Allo stesso genere di frasi non si può a meno di ascrivere quell' altra che [...OMISSIS...] . Perocchè questa analogia e somiglianza imperfettissima diviene bentosto nel linguaggio del Gioberti una vera similitudine mediante « « la sintesi dell' atto creativo » », perocchè l' atto creativo è una sintesi, come voi già sapete, [...OMISSIS...] , benchè la Teologia cattolica insegni che fra Iddio e le creature non possa passare alcuna vera similitudine, nè avervi alcun genere comune. Questa sua similitudine è fondata, secondo il Gioberti, nell' Ente possibile, che egli afferma comune a Dio ed alle creature. Eppure il Rosmini avea dimostrato, che non si può applicare propriamente la possibilità a Dio, ma solo l' idealità, e ciò per conoscere che egli esiste, non mai per conoscerlo simile alle creature. Dice adunque il nostro filosofo, che l' Ente possibile conviene a Dio ed alle creature: è una impressione e una modificazione del soggetto conoscente fatta nell' uomo dall' oggetto conosciuto (1), quasichè una modificazione del soggetto umano possa essere comune a Dio ed alle creature. Ma se l' Ente possibile è una impressione ed una modificazione del soggetto umano; se è una modificazione ed un' impronta lasciata dall' oggetto dell' intuito, e se l' oggetto dell' intuito è veramente duplice, cioè Iddio e le creature, come talora dice il Gioberti, conseguirebbe, secondo la buona logica, che le impressioni e modificazioni fossero due, e tanto distinte fra loro e disparate, quanto sono distinti gli oggetti che fanno l' impronta. Non ve lo pensate: anzi il Gioberti vuol che sia un' impressione ed una modificazione sola, il che corrisponde alla sua dottrina sull' unicità dell' oggetto del sapere, di che abbiamo parlato nelle precedenti lezioni, e ciò attesa la sintesi dell' atto creativo che risponde nello stesso tempo all' uno ed all' altro oggetto. Poichè [...OMISSIS...] . Ma non crediate, miei signori, che questo Ente possibile che è una modificazione dello spirito umano, comune a Dio ed alle creature, non sia nello stesso tempo l' idea posseduta da Dio stesso. Questa impressione unica che l' Ente e l' esistente, Iddio e le creature lasciano nello spirito umano, attesa la sintesi dell' atto creativo, e che è fedel ritratto dell' unicità sostanziale del suggello, questa impressione e modificazione del soggetto umano che è l' Ente possibile comune a Dio ed alle creature, questa modificazione che rende simili fra di loro Iddio e le cose create, è nello stesso tempo [...OMISSIS...] . Voi vedete dunque, miei signori, che l' idea possibile è una modificazione dello spirito umano; e che nello stesso tempo è l' idea divina, che è quanto dire Dio stesso (2). [...OMISSIS...] . Certo in qual modo la stessa idea possa essere ad un tempo subbiettiva, cioè modificazione dello spirito umano, e obbiettiva, cioè idea di Dio, non si può facilmente intendere se non in un sistema di assoluto panteismo. Così fuori di questo sistema è impossibile intendere come un' idea possa mai essere una modificazione dello spirito umano, un' impronta, una impressione, metafora de' materialisti e soggettivisti; che d' altra parte non danno nessuna chiara notizia di ciò che costituisca un' idea. Dove mi piace, o signori, farvi osservare quanto agevolmente il Gioberti cangia stile e linguaggio, senza alcun sospetto, dove stima bisognarli per la sua causa. Perocchè avendo sempre nel corso de' suoi volumi accagionato il Rosmini di soggettivismo, qui tutto improviso lo accusa d' essere soverchiamente oggettivista, scrivendo che [...OMISSIS...] . Ma qual' è la ragione perchè il Rosmini dice obbiettivo, e insieme nega che sia subbiettivo l' Ente ideale? Voi lo sapete, o signori: è perchè immedesimare l' obbiettivo col subbiettivo da una parte va contro al senso comune ed alla ragione; dalla altra parte è un professare il più compiuto panteismo. Senza cadere nel panteismo, certo non si può dichiarare che l' idea, che è cosa divina, sia modificazione o impressione dello spirito umano, come non si può insegnare che Iddio e le creature lascino una sola e medesima impronta nel soggetto pensante come fossero un solo suggello, e che quest' impronta sia l' Ente possibile comune a Dio ed alle creature, dichiarando nello stesso tempo che questa comunità, questa similitudine di Dio e delle creature, si ravvisa « « nell' idea eterna dell' Ente »(2) ». Che se si ravvisa nell' idea eterna dell' Ente, che bisogno di ricorrere all' impronta che rimane nel soggetto uomo? E poi, se questa idea eterna dell' Ente, cioè di Dio, è « « l' archetipo eterno, senza il quale la creazione sarebbe impossibile » », converrà dire che vi abbia un archetipo comune a Dio e alle creature. Ora quando si udì mai che Iddio abbia un suo archetipo su cui possa esser creato? E se non ha l' archetipo, come l' archetipo potrà mai essere l' idea dell' Ente possibile, comune a Dio e alle creature? Lasciamo pure la sua gran parte alla confusione delle idee che cozzano nell' ardente immaginazione del nostro oratore; ma finalmente non rimarrà sempre il panteismo manifesto in fondo a tutto questo sistema, se così un cotale straparlare può chiamarsi? In altro luogo il signor Gioberti scrive che [...OMISSIS...] , cioè da Dio. Il possibile dunque che è da una parte subbiettivo, cioè una modificazione dell' uomo, dall' altra parte è inseparabile da Dio dove si contiene, e perciò è Dio. Ma da questo così aperto panteismo sembrerebbe discordare quella frase che « « la realtà finita si contiene idealmente nell' infinita » »; perocchè certo il dire che la realtà finita si contiene soltanto idealmente nell' infinita, è benissimo detto, miei signori, è frase immune al tutto da panteismo. Ma noi dobbiamo pur sempre domandare, prima di raccoglierne cosa alcuna, se quella frase sia veritiera, o per avventura ci mentisca come tutte le altre. Per venirne a capo, noi dobbiamo richiedere che cosa intenda il nostro Filosofo per idealmente, che cosa per idea, da cui viene la voce idealmente . Ora tutto il suo sistema para a questo d' identificare l' idea colla realtà; e contro a que' filosofi che vogliono accuratamente distinguere tali cose, egli adopera, se non l' armi della Filosofia, certo quelle della Rettorica, per le quali innalzò tanto grido fra' suoi amici. Il signor Gioberti insegna che tutte le cose sono idee (1); che lo spirito nostro afferra non solo l' Ente (Iddio), ma anche l' esistente (le creature contingenti) « « nella loro concretezza, non già applicando loro l' idea astratta dell' ente » (2) », di maniera che anche la concretezza delle cose contingenti è intelligibile allo spirito senza alcun mediatore (3), e crede che questo sia anche il pensar comune degli uomini, la quale credenza, o signori miei, vi parrà forse un po' strana, come pare a me; perocchè scrive francamente che [...OMISSIS...] . Se dunque le cose s' immedesimano colle idee e le idee colle cose, se ogni cosa è un' idea e ogni idea una cosa, che significherà in questo sistema la frase che la realtà finita si contiene « idealmente nell' infinita »? Qual sarà il valore da attribuirsi, o signori, a quella parola idealmente? La differenza che si pone tra l' idea e la cosa, ci sarà pure tra il valore delle parole idealmente e realmente . Ma quella differenza è nulla, perchè l' idea e la cosa si identificano: dunque la parola idealmente dee avere un valore nel sistema del nostro Autore identico alla parola realmente (1). Non lasciamoci dunque ingannare nè pure da questa frase e dichiariamola senza scrupolo menzognera come tutte le altre, perocchè quando il nostro Autore dice che « « la realtà finita si contiene idealmente nell' infinita » », dice ad un tempo che si contiene realmente, non differendo l' ordine dell' idee da quello delle cose. Ma il dir questo è panteismo svelato, e perciò gli giova coprirlo pudicamente agli occhi de' semplici suoi lettori col velo di una frase così bugiarda. La messe è tanto ricca, o signori, che io vi tratterrei di soverchio, se ne volessi fare l' intera raccolta. Io m' ero proposto di esaminare in questa lezione che cosa intende il nostro Filosofo sotto la parola di creazione, a cui egli ricorre, come ad unico scudo, onde salvare il suo sistema dalla brutta taccia che tanto teme: m' ero proposto di esaminare s' egli, come filosofo, ammetta veramente la creazione, quale l' ammettiamo noi colla Chiesa cattolica, ovvero se adoperi anche questa bella parola insidiosamente per ammansare i timori che i buoni potessero concepire de' suoi filosofici ardiri; e quanto abbiamo detto finqui mostra assai manifesto, che la sua creazione non è per avventura la creazione della cristiana Teologia, ma una creazione al tutto panteistica. Ma ciò che ho detto è pur poco verso a quello che a dire mi rimarrebbe, onde a mio malgrado devo rimettere oggimai molte cose, e per avventura le più importanti, ad un' altra lezione. Mi contenterò dunque in questa di aggiungere ancora poche osservazioni, e poi finirò per non abusare della vostra indulgenza. Noi abbiamo veduto che l' ordine delle cose è identico a quello delle idee, e che ogni cosa è un' idea, e che la prima idea, chiamata dal sig. Gioberti il primo psicologico, è il principal concetto di quelli che entrano a formare il primo ontologico, mentre gli altri non sono che logicamente derivati . E bene, questo ci appiana la strada ad intendere come il nostro Autore attribuisca la creazione all' idea . E posciachè l' idea è quella che giudica, ragiona e in una parola dialettizza, non è maraviglia se quella che crea sia la sintesi, onde parla così spesso della sintesi creatrice (1). Ma in che maniera credete voi che l' Idea operi la creazione? Egli vi dice schiettamente che [...OMISSIS...] . Voi sapete, l' intelligibilità propria di Dio è Dio stesso, come insegna il signor Gioberti, e questa intelligibilità che trapassa è dichiarata da lui numericamente identica in Dio e nelle creature. Dunque, secondo la sua dottrina, Iddio coll' azione creatrice trapassa nelle cose create, ed è per questo che egli insegnava prima che l' oggetto universale ed immediato del sapere in tutte le scienze è Dio stesso, come abbiamo veduto nelle precedenti lezioni. La qual maniera di spiegare la creazione è a dir vero a lui comodissima. L' intelligibilità di Dio trapassa nelle creature, perciò anche queste divengono intelligibili, perchè esse hanno in sè l' intelligibilità stessa di Dio in esse trapassata. Ma perocchè l' ordine degli intelligibili è identico perfettamente all' ordine della realtà, conviene che trapassando l' intelligibilità di Dio nelle creature vi trapassi anche l' essere reale, e così acquistino in virtù della stessa operazione « « l' essere, l' intelligenza e la vita »(1) ». Le creature adunque che sono ad un tempo cose ed idee, acquistano ad un tempo e collo stesso atto creativo l' esser cose e l' essere idee, trapassando in esse Iddio che è cosa ad un tempo ed idea. Egli è piacevole, a dir vero, miei signori, l' udire il Gioberti menare gran vanto di aver trovato un sistema così felice per evitare intieramente il panteismo. In un luogo delle sue opere, mettendosi uno scanno più su di Platone, egli viene narrando, come questo filosofo, benchè nè pure egli netto al tutto di panteismo, non sia pervenuto a tanta altezza. Sofferite che vi rechi ancora le sue parole. Dopo aver professato di seguire il filosofo ateniese, così segue: [...OMISSIS...] . Se dunque l' intelligibile ossia l' idea divina trapassa nelle cose create, dee trapassare pure in esse la realtà divina; e così vengono create: il qual placito è chiamato dal signor Gioberti l' assioma di creazione. Di che egli condanna [...OMISSIS...] . Mediante questa dottrina dell' atto creativo che il Gioberti ripone nel trapassamento dell' idea e della realtà divina nelle cose create, con che le cose sono create e diventano contingenti, reali ad un tempo ed intelligibili nella loro concretezza, o anche intelligenti; intenderete a meraviglia, miei cari signori, molti luoghi dell' opere del nostro Filosofo, che altramente riuscirebbero oscuri e sembrerebbero dissonanti dal panteismo. Intenderete cioè a meraviglia: I Perchè il Gioberti consideri l' idea di creazione [...OMISSIS...] , soggiungendo che [...OMISSIS...] . II Perchè affermi che [...OMISSIS...] , negando che sia mediatore ossia mezzo di conoscere l' essere ideale, come vuole il Rosmini (3), e tuttavia sostiene che la realtà non si può conoscere che nella sua ragione necessaria, la quale è Dio. Ora se questa ragione necessaria che ci fa conoscere la realtà finita e contingente fosse cosa diversa da quella realtà, ella sarebbe mezzo di conoscere, mediatore; ma poichè quella ragione necessaria, che è l' idea divina e Dio stesso è passata nelle cose create coll' atto creativo, e passando in esse le ha create e costituite nella loro concretezza; perciò ella non è diversa dalle cose create che si devono conoscere, e non è quindi mezzo di conoscerle, nè mediatrice tra esse e lo spirito, ma è proprio l' oggetto del conoscere, e così le cose create si conoscono nella loro stessa concretezza, senza bisogno d' altro, perchè nella loro concretezza sta l' intelligibile divino. III S' intende ancora perchè il signor Gioberti distingua il reale finito dal possibile, e distingua in ogni cosa due possibili, l' uno umano e l' altro divino; ma queste distinzioni che gli giovano non poco a mantellare il panteismo, egli dichiara che non sono che distinzioni di semplici rispetti e di puri aspetti, sotto cui si considera sempre la stessa cosa. [...OMISSIS...] . IV L' atto creativo consistendo nel trapassare che fa l' idea divina e con essa la realtà nella cosa creata, s' intende in che senso egli dice che l' Idea divina (e reale) informi la mente umana, e si vanti di spiegare egli pel primo la virtù informatrice dell' Idea ripetendola dalla sua VIRTU` CAUSATRICE, la qual virtù causatrice è quella appunto che dà l' essere materiale e sostanziale alle cose. Di vero egli continuamente dichiara che [...OMISSIS...] . I teologi cattolici insegnano che Iddio non può venire in composizione colle cose create, e però non può essere la loro forma sostanziale. Ma il signor Gioberti non si contenta già di fare che Iddio venga in composizione colle sue creature, dichiarandolo forma delle medesime; ma di più egli passa colla sua propria concretezza a costituirle, e così le crea; perocchè è coll' atto creatore che Iddio come idea informa le cose, e Iddio come cosa (giacchè cosa e idea s' identificano) le crea trapassando in esse il divino intelligibile, che è Dio stesso. V S' intende ancora in che modo il signor Gioberti non si contenti di chiamare Iddio causa prima e le creature cause seconde, il che è benissimo detto e consentaneo al comune sentire, giacchè la causa prima non ha bisogno per essere tale d' immedesimarsi colla causa seconda: ma lo chiami ancora sostanza prima, chiamando le creature sostanze seconde, con che spera egli di ottener due vantaggi, cioè di sbattere da sè la taccia di panteista colla frase magnifica di sostanze seconde riserbata alle create esistenze, e d' intromettere nello stesso tempo il panteismo a man salva nelle menti de' suoi lettori. E veramente egli descrive l' attinenza delle sostanze seconde alla sostanza prima, come si descriverebbe appunto l' attinenza degli accidenti alla sostanza che li regge e sostiene. Così Iddio diviene sostanza delle sostanze, e queste acquistano natura di accidenti di Dio medesimo; il quale oltre comporsi con esse come la forma colla materia, trapassa in esse sostanzialmente e così le crea. Ascoltiamo com' egli si esprime: egli dice in un luogo che il Sole spirituale, cioè Dio, [...OMISSIS...] . Iddio dunque informa l' anima umana sostanzialmente, la informa come prima sostanza, la sostiene, che è la frase che s' applica alle sostanze reggenti e sostenenti gli accidenti. Altrove, parlando dell' intuito umano, s' esprime così: [...OMISSIS...] . Laonde il Gioberti non trova modo più acconcio a descrivere la virtù creatrice, che quel di dire che « « il contingente RAMPOLLA dal necessario » », come appunto il rampollo esce dall' albero, trapassando in esso i succhi dell' albero; e quello che « fa rompollare il contingente dal necessario » è un' idea, cioè com' egli dice, l' idea di creazione (3). VI Finalmente vi si renderà or chiaro perchè voi vi scontrate negli scritti del nostro Filosofo in tante identificazioni. Identico è per lui l' ordine delle cose e l' ordine delle idee, come vedemmo, identico l' ideale ed il reale, identico nella sostanza è ciò che dà l' intuito e ciò che dà la riflessione, identica è la necessità metafisica (1); in somma tutto si riduce a identità, da poichè la creazione si fa col movimento e trapassamento dell' idea di Dio e Dio stesso nella creatura (rimanendo quell' idea e sostanza divina numericamente la stessa), di quel Dio che come sostanza informa, sostiene e regge le cose create, a quel modo che queste sostengono gli accidenti, e più ancora perchè elle propriamente non gli informano. Ma io voglio chiamarvi a considerare più attentamente un' altra identificazione. Voi sapete che il sig. Gioberti dà all' uomo l' intuito di Dio. Ma l' intuito, quest' operazione dell' anima umana, a chi appartiene, all' anima umana o a Dio? Il signor Gioberti vi dice conseguentemente alla sua teoria dell' atto creativo, pel quale l' intelligibile divino trapassa nelle cose create e così le crea; vi dice che appartiene non meno all' uomo che a Dio. [...OMISSIS...] , onde l' intuito dell' uomo è anche medesimamente per un altro rispetto intuito di Dio. E dà di ciò questa ragione, che [...OMISSIS...] . E certo, che vi abbia una connessione intima fra la creatura e il Creatore, niuno il vorrà negare; ma trattasi di sapere se questa sintesi faccia sì che il Creatore e la creatura diventino un solo oggetto, come il signor Gioberti sostiene; o se ella consista nel trapassare che fa l' Intelligibile, cioè il Creatore, nella creatura, come il sig. Gioberti la spiega nel luogo che abbiamo citato (benchè altrove si contradica negandolo); o finalmente se l' atto creativo è così inseparabile dall' atto conoscitivo, che quello sia un elemento essenziale di questo, a talchè il proprio concetto di questo racchiuda come una sua parte l' atto creativo, ciò che pure sostiene il nostro Filosofo. Egli dice in fatti, che [...OMISSIS...] ; il che è coerente con ciò che disse che ogni cosa è un' idea, sistema che si direbbe del panteismo ideale, ma pel sig. Gioberti è medesimamente panteismo reale, poichè per lui ogni idea è una cosa, e viceversa. Or posciachè le cose create sono intelligibili, secondo lui, nella loro propria concretezza, senza bisogno di un altro lume mediatore, perciò l' intelligibilità delle cose s' immedesima colla concretezza delle cose, ed è cosa identica l' esser le cose intelligibili e l' essere concrete. Ma posciachè l' intelligibilità delle cose non differisce numericamente dall' intelligibilità divina, giusta la sua dottrina; dunque l' intelligibilità divina s' immedesima colla concretezza delle cose finite; e il renderle intelligibili s' immedesima colla loro produzione. Di più, l' intelligibilità divina, secondo il signor Gioberti, è lo stesso che la mente divina, onde dice che [...OMISSIS...] . Non è dunque meraviglia se l' atto dell' intuito umano sia pel sig. Gioberti un intuito appartenente alla causa ed alla sostanza prima, cioè alla mente divina, e quest' intuito divino ed umano sia l' atto creatore, cioè l' atto che rende intelligibili le cose, e così le crea. E se il renderle intelligibili ed il crearle suona il medesimo, dunque tutto l' essere delle cose create consiste nella loro intelligibilità, ed elle sono idee (ciò che è lo stesso pel signor Gioberti che dire cose reali); e però sono intelligibili nella loro concretezza, perchè la loro concretezza ed esistenza è appunto la loro intelligibilità: [...OMISSIS...] (quasi che, miei signori, per dirlo di passaggio, applicando l' idea astratta alle cose, quest' idea non cessasse per ciò appunto di essere astratta). Se dunque la concretezza delle cose è la loro esistenza, e quest' esistenza s' identifica colla loro intelligibilità, onde coll' illustrarle sono create, e la loro intelligibilità è numericamente identica con quella di Dio, e con Dio stesso, voi vedete bene qual conseguenza indeclinabile ne proceda, e se per evitare la taccia di panteista basti che l' Autore dichiari sulla sua parola di non essere, e qua e colà sparga a piene mani frasi magnifiche contradicenti al panteistico errore (1). Laonde il signor Gioberti scrive ancora che [...OMISSIS...] . Dove il discendere che fa lo spirito umano da Dio a sè come creatura si dichiara un atto che s' immedesima coll' ascendere che fa lo spirito come pensiero a Dio, mediante l' azione creatrice. Il pensiero dunque dell' uomo che ascende a Dio, s' immedesima col discendere che fa la creatura da Dio, mediante l' atto creativo, e queste operazioni sono simultanee ed immanenti com' è l' atto creativo! Ancora un' ultima osservazione, o signori, e poi finisco, che è ben tempo. Il signor Gioberti ci fa sapere che non v' ha un solo panteista che non si contradica, e che a lato del panteismo non insegni cose contrarie a tale sistema, infiorando ogni cosa di frasi magnifiche e menzognere, perocchè il panteista pudico ha vergogna di mostrar nuda la propria fronte. Ora se il contradirsi è costante carattere de' panteisti, dichiaro non mancare nè pure questo carattere al nostro Filosofo. Noi l' abbiamo veduto, ma suggelliamo la serie delle contradizioni accennate, con un gruppetto di esse alquanto piacevole. I Il signor Gioberti insegna che ogni cosa è un' idea, e che l' idea crea le cose, che l' intelligibile divino passando nelle cose create dà loro esistenza, che crea i sensibili illustrandoli, e crea pure la mente (2). Or ogni cosa è un' idea ed ogni idea è una cosa: creandosi le cose di necessità si creano anche le idee. Ma no che in un altro momento lo stesso signor Gioberti scrive all' opposto: [...OMISSIS...] . II A malgrado però che « « la menoma idea obbiettivamente sia Dio, pel signor Gioberti, e non possa esser creata » », giusta un' altra dichiarazione non meno espressa dello stesso Filosofo, vi ha un gran numero d' idee, ossia d' intelligibili essenzialmente distinti, il che recherebbe direttamente la conseguenza platonica, che vi abbia un gran numero d' Iddii essenzialmente distinti, i quali Iddii potrebbero esser creati dall' Ente, che sarebbe il supremo Iddio. Ciò risulta assai chiaro, se si raffronta col brano ultimamente citato quello ove dice: [...OMISSIS...] . Or se gl' intelligibili assoluti sono le idee obbiettivamente considerate, ciascuna delle quali, benchè essenzialmente distinte, è Dio; gli intelligibili relativi sembra che siano le stesse idee considerate subbiettivamente, le quali lo spirito umano si forma colla sua riflessione, e tuttavia, secondo il Gioberti, l' Ente egualmente le crea e sono essenzialmente distinte (1). Del resto voi non ignorate che noi col Rosmini siamo assai lungi dal dire che « « l' idea dell' essere sia la sola cosa conosciuta dall' uomo » », quando anzi insegniamo che per mezzo di questa idea conosciamo tutte le altre cose, e particolarmente le realità finite. Ma poichè non è la difesa nostra che noi cerchiamo di fare in queste lezioni, ma sì la difesa della verità filosofica e cristiana che esclude e riprova il panteismo, noi qui lasciamo ben volentieri l' argomento, pregandovi di continuarmi la studiosa vostra attenzione per un' altra lezione ancora, la quale conchiuderà la discussione intrapresa sul sistema di panteismo proposto all' Italia da Vincenzo Gioberti: forse acciocchè questa nostra nazione nel genere del panteismo s' abbia il primato. Ripetiamo, o signori, quello che abbiamo detto al cominciamento della precedente lezione, che se Vincenzo Gioberti ammette puramente e semplicemente la creazione, noi lo rimandiamo assai volentieri libero da ogni sospetto di panteismo. Ma dobbiamo però rammentargli quanto egli disse a Vittorio Cousin: « « Non si tratta delle parole, ma dei concetti »(1) ». Perocchè il signor Cousin si difendeva appunto dalla taccia di panteismo, dichiarando d' ammetter la creazione, e nulladimeno il Gioberti non gli fece buona la scusa, anzi il volle convinto di quell' errore, di cui certo una parola non basta a purgarsi. Ora noi abbiamo veduto che maniera di creazione sia per avventura la giobertiana; creazione che non è creazione, anzi è velo trasparente assai e squarciato, con cui egli spera di togliere agli occhi altrui la schifezza del suo panteismo. Ma che direste, signori miei, se io vi dimostrassi che dopo avere egli sbandito nel fatto il concetto di creazione, e tenutane co' denti la parola, questa stessa arma imponente della parola ce la cede assai facilmente? Udite tutto il ragionamento e poi giudicate. Egli dice prima che ogni cosa è un' idea (2). Dice dipoi che ogni menoma idea obbiettivamente è Dio (3). Già voi sentite la conseguenza manifesta che discende da queste due premesse, cioè che ogni cosa obbiettivamente è Dio. Ora, secondo il signor Gioberti, gli altri sistemi fuori di questo suo nel quale ogni cosa è necessariamente Dio, sono tutti fracido panteismo. Andiamo avanti. Se ogni cosa è un' idea, non si posson creare le cose senza creare le idee. E in fatto il signor Gioberti, quantunque sostenga che ogni menoma idea obbiettivamente sia Dio, tuttavia dice ancora che le idee sono essenzialmente diverse l' una dall' altra, e che si creano (4). Ma in altri luoghi, rinsavito alquanto, nega che si creino, e prende calore contro il Tarditi, attribuendo a questo professore, benchè falsamente, l' aver detto che le idee si creino, e che l' idee dell' uomo sieno numericamente distinte da quelle di Dio; perchè dice il Gioberti: [...OMISSIS...] . Se dunque Iddio non può creare la menoma idea, dunque egli non può creare nè tampoco la menoma cosa: ed ecco esclusa la creazione, ecco caduta di mano al nostro Filosofo anche questa parola, quest' arma impotente colla quale credea difendersi dalla vergogna del panteismo. La logica dee avere il suo luogo, miei signori, e la logica è inesorabile, non ha compassione delle parole, quando queste la vogliono impaniare e impastojare. Ma come dunque (si opporrà) il signor Gioberti, che da una parte dice che ogni cosa è un' idea, e che le idee non si posson creare (onde la creazione rimane abolita); come lo stesso signor Gioberti ha poi continuamente in bocca la parola creazione, e non contento che ella sia un dogma, e d' altra parte confessando che non si può dimostrare per via di raziocinio (3), ci assicura sulla sua parola d' onore ch' egli la vede proprio immediatamente e direttamente coll' acuto sguardo del suo spirito contemplante, e la dichiara altamente non già un teorema, ma un assioma filosofico? Signori, e non sapete voi che i panteisti son filosofi, che stimano di aver la facoltà di far travedere come indubitatamente hanno quella di travedere? Non sapete quante scappatoje si tengano sempre aperte? Eccovene qua una nel caso nostro. Distinguete il concetto volgare della creazione dal concetto filosofico; e tutto sarà aggiustato. Il Gioberti la nega solo nel concetto volgare, che la definisce colla Chiesa cattolica, una produzione dal nulla; ma la ammette poi nel concetto filosofico. E qual è questo concetto filosofico? Voi l' avete udito. [...OMISSIS...] . In tal modo esse pure diventano intelligibili, idee, e lo spirito umano le afferra nella loro concretezza, senza bisogno di alcun mezzo di conoscere, di alcun' altra idea che faccia l' ufficio di mediatore tra le cose create e lo spirito, perchè sono esse stesse idee. Così c' insegna il Gioberti. In un luogo il nostro Filosofo, dopo aver detto che [...OMISSIS...] , segue a parlare della luce intellettuale così: [...OMISSIS...] . Conchiudete: la luce stessa intellettuale sussiste adunque identica in Dio e nelle creature, le quali si creano col venire illustrate da questa luce divina, come disse altrove, e così la loro concretezza non ha bisogno d' altro che di se stessa per esser conosciuta. L' idea dunque è quella che crea, ella è altresì quella che intuisce, che giudica (1), che astrae (2), che ragiona (3); ma è altresì quella che è creata; onde la creazione di una cosa, per esempio d' un arbore, è chiamata dal nostro Autore [...OMISSIS...] . Ma questa attuazione estrinseca dell' idea dell' arbore, che è la sussistenza e concretezza dell' arbore, è della stessa sorte e natura dell' idea? Certamente, secondo il Gioberti, perocchè egli argomenta così: [...OMISSIS...] . Acciocchè dunque l' idea, che è la potenza, attuandosi diventi cosa, che è la sua attuazione ed effettuazione, conviene che l' idea e la cosa sieno della stessa sorte, perocchè quella altramente non potrebbe dare la realtà a questa se non fosse reale; il qual argomento non può valere se non trattasi di una realtà della stessa natura e sostanza; benchè soggiunga che [...OMISSIS...] . Onde la cosa contingente essendo « il possibile attuato », consegue che egli sia più del possibile, cioè che sia il possibile dotato di necessità assoluta, più il suo atto contingente; ond' è che il contingente è intelligibile nella sua concretezza senza bisogno d' altra idea o mezzo di conoscere. Ogni cosa dunque è l' idea, più l' atto contingente dell' idea, e l' idea essendo la sostanza stessa di Dio, quindi ogni cosa è la sostanza di Dio, più l' atto contingente di questa sostanza: così Iddio è la sostanza prima, e il suo atto contingente sono le sostanze seconde sostenute da quella, come l' atto è sostenuto dalla potenza che lo produce (2). La stessa conclusione si raccoglie, miei signori, dalla definizione che il nostro Filosofo ci dà poco appresso del possibile, definendolo: [...OMISSIS...] . Ora che cosa è il reale increato o creante? Egli è certamente Iddio. Ma che cosa è il reale creabile? Il creabile non è ancora il creato: il creabile sono le idee. Ma la menoma idea obbiettivamente è Dio stesso, insegna il Gioberti. Dunque il creabile è Dio stesso; e il possibile non è altro che una relazione che ha Dio verso sè stesso, quasichè in Dio vi avessero altre relazioni che quelle delle persone. L' idea dunque è quella che crea ed è ad un tempo quella che è creata; dove per creata il signor Gioberti intende, come abbiamo veduto, attuata, effettuata . Tale è il concetto della creazione del nostro Filosofo. Da tutti i lati spiccia la stessa conseguenza, lo stesso puro e putido panteismo; sicchè si può dire a ragione che il signor Gioberti sia fra i panteisti uno de' più coerenti. Pigliamo pure la cosa ancora da un altro verso. E` principio del signor Gioberti che nulla vi abbia nell' oggetto della riflessione che non sia prima nell' intuito, e che quella non faccia che ripetere ciò che vi ha in questo. [...OMISSIS...] (1). Vediamo dunque di nuovo che cosa si contenga nell' oggetto dell' intuito. Il signor Gioberti ci insegna che l' uomo nello stato di intuito [...OMISSIS...] . L' intuito dunque non ha che un oggetto ideale. Ora ogni ideale, anzi ogni menoma idea oggettivamente, com' è data nell' intuito, è Dio stesso. Ma nello stesso tempo egli ci dice, che l' oggetto dell' intuito è quello che egli chiama anche la formola ideale, e che [...OMISSIS...] . Ma come da questo Dio, che è tre realità, giusta la formola, come da questa trinità giobertiana escono poi le creature? Voi avete udito la descrizione dell' atto creativo: egli è quello [...OMISSIS...] . Perciocchè infatti il collegarsi d' un ente con un altro è una mera modalità. Onde, spiegando che cosa intenda per sostanza seconda, egli l' aveva definita [...OMISSIS...] . Con che nulla si crea veramente, poichè la stessa sostanza che esisteva prima in un modo, comincia ad esistere in un altro. Ma riteniamo, miei signori, che l' oggetto dell' intuito, benchè contenga anche le esistenze, cioè le creature, egli è sempre ideale, e però è sempre Iddio, pel signor Gioberti, pel quale ogni ideale è Dio. Onde le esistenze, cioè le cose create, essendo Dio, sono intelligibili per sè stesse, nella loro concretezza, senza bisogno di alcuna idea che loro serva di mediatore, poichè sono anch' esse idee, e però Iddii; e l' uomo conosce le cose immediatamente in virtù dell' intelligibilità assoluta (3), che è Dio oggetto unico dello scibile. Ma come poi, essendo Dio le cose create, noi le separiamo da Dio? Non già per mezzo dell' intuito, il cui oggetto è ideale, ma per mezzo della riflessione, la quale così diventa creatrice, come già abbiamo veduto. Ma avvertite che l' intuito e la riflessione convengono insieme « « NELLA SOSTANZA del loro oggetto » », giusta la dottrina del nostro Filosofo (4). Onde, le creature sono apprese come contingenti dalla riflessione, ma nell' intuito sono idee, e perciò hanno la divina natura, e nella sostanza s' identificano perfettamente. La loro intelligibilità tuttavia, ossia la loro idealità (1), rimane la stessa anche nella riflessione, e però rimane divina, anzi Dio stesso; e mediante questa intelligibilità sono create, cioè sono sostanze, perchè è l' idea quella che le crea. Tuttavia il signor Gioberti di buon animo nega la medesimezza del reale e dell' ideale contingenti, spiegando però la parola contingenti così, [...OMISSIS...] , la qual derivazione si fa per via di riflessione, come vedemmo. Tuttavia la riflessione [...OMISSIS...] . Sebbene adunque nell' oggetto dell' intuito giobertiano si comprenda ogni cosa in quanto alla sostanza, e tutto in esso sia ideale, cioè tutto in esso sia Dio; tuttavia nell' intuito l' uomo non trova sè stesso, [...OMISSIS...] . E pure, ciò che si contiene nell' oggetto dell' intuito e nell' oggetto della riflessione non differisce nella sostanza, ma solo nel modo. Se dunque il soggetto uomo è una sostanza seconda che non si trova che nell' oggetto della riflessione, e se l' oggetto della riflessione non differisce di sostanza dall' oggetto ideale dell' intuito, che è la sostanza prima; convien dire che le sostanze seconde non differiscono dalla prima di sostanza, ma solo di modo . Tali sono le sostanze seconde del signor Gioberti. Si può dunque conchiudere, che il vocabolo di sostanze seconde non sia un velo abbastanza denso per coprire la vergogna del panteismo, e che val tanto questo vocabolo di sostanze seconde, quanto vale la dichiarazione che [...OMISSIS...] ; mentre avea pur detto che l' intuito e la riflessione convengono [...OMISSIS...] . Volgiamoci ancora d' altra parte: vediamo se il signor Gioberti spieghi in qualche altra maniera il suo principio di creazione, che più s' avvicini al cattolico insegnamento. Eccovi qua un luogo, signori miei, molto atto a farci conoscere la sua mente. Egli riduce la creazione ad una individuazione delle idee. Iddio è l' idea, anzi ogni menoma idea è Dio: questo Dio7Idea è il generale; questo generale s' individua, ed ecco venute fuori tutte le creature. [...OMISSIS...] . E certo, miei signori, gli scolastici più illustri e di sana dottrina, fra i quali s. Tommaso, dicevano che Iddio nella creazione non individualizza già una cosa che prima era generale, e molto meno individualizza se stesso; ma dicevano che egli cava dal nulla la cosa stessa, la materia o sostanza e la forma, come insegna la Chiesa cristiana cattolica. Ma non tutti gli scolastici s' attennero a questa maestra di verità: anche fra essi v' ebbero dei panteisti, e questi panteisti insegnarono intorno alla creazione quello appunto che adesso ci ripete come una novità, come un sistema da lui trovato, Vincenzo Gioberti. Scoto Erigene, il più celebre tra i panteisti del medio evo, ammetteva le idee creanti come udimmo fare il Gioberti, ed insieme create, perchè il Gioberti insegna, che [...OMISSIS...] . Ma Guglielmo di Champeaux ebbe di più insegnato che gli universali, cioè le idee, s' individuano nei particolari, e così vengon questi creati; e poichè in ogni particolare v' ha lo stesso universale individuato, perciò gl' individui identici nell' essenza non differiscono che per la varietà degli accidenti e delle forme passeggiere. Non vedete voi qui aperto quel fonte a cui il signor Gioberti sembra aver attinto il suo sistema della creazione? e che, se voi volete, dopo averlo attinto, l' ebbe anco perfezionato, press' a poco come Amanzi di Chartes e Davide di Dinant perfezionarono il sistema di Guglielmo, riducendolo in un più espresso panteismo? Perocchè il Gioberti, facendo che l' intelligibile, cioè Iddio, che chiama anche il generale, crei le cose illustrandole, e le illustri passando in esse, nella loro propria concretezza che diventa così intelligibile per sè stessa, sicchè lo spirito l' afferra senza bisogno del mezzo d' alcun' altra idea, riuscì a quella solenne sua conclusione, che Iddio è l' universale ed immediato oggetto pel sapere umano. Laonde quando il Gioberti vi dice, o signori, che lo speculare degli scolastici non potè sciogliere per intero il gran problema della creazione, egli dee intendere degli scolastici sani e cattolici, come un san Tommaso ed altri tali, perocchè d' altra parte voi avrete osservato quante volte nelle sue opere egli riprenda e condanni i semi7realisti, e con qual compiacenza egli si dichiari per uno schietto realista . Or bene a chi non è noto che REALISTI appunto si chiamavano i discepoli di Guglielmo di Champeaux, di questo famoso dottore, il quale dichiarava la creazione essere un' individuazione degli universali, come fa il Gioberti? Ma torniamo un poco ad ascoltare il Gioberti stesso. [...OMISSIS...] . Questa è la definizione che il Gioberti dà del generale in sè stesso, e nella sua radice; la quale giunta « nella sua radice »parrebbe, a dir vero, superflua, dopo aver detto che il generale è tale in sè stesso; poichè, se il generale è l' Ente necessario, l' Ente necessario non ha radice, nè io so che i filosofi od i teologi abbiano mai fin qui parlato della radice dell' Ente necessario, che è Dio. Andiamo dunque avanti. [...OMISSIS...] Se non fosse, miei signori, per non interrompere troppo il corso delle idee, vorrei pur trattenermi un poco anche su questo punto determinato, in cui l' individuale contingente concentra la sua realità; ma continuiamo: [...OMISSIS...] . Così il signor Gioberti si esprime. Riassumiamo adunque. Che cosa è creare? Creare è individualizzare l' idea generale. Che sono le creature? Le creature, ossia le esistenze contingenti, non sono che l' idea generale (l' Ente necessario, Iddio), che passa a stato d' individuo. Vi farete ora maraviglia, miei signori, che le cose contingenti sieno pel Gioberti l' idea, quando Iddio stesso, secondo lui, è l' idea? Ma qual differenza passa dunque fra Dio e le creature? Grande certamente e sostanziale; perchè Iddio, secondo il Gioberti, è l' idea generale nella sua generalità, mentre le creature sono l' idea generale nella sua individuazione; onde l' idea generale si chiama sostanza prima, e l' idea generale nella sua individuazione si chiama sostanze seconde. La creazione è il passaggio che fa Iddio dallo stato d' idea generale allo stato d' individuo, dallo stato di Ente allo stato di esistenza, e questo passaggio è l' atto creativo. Voi vedete di nuovo qui che Iddio oggetto dell' intuito, e le creature oggetto della sintesi raziocinativa e dell' analisi, non differiscono nella sostanza, ma differiscono nella forma (il signor Gioberti nondimeno trova assai utile di chiamare Iddio sostanza prima e le creature sostanze seconde): Iddio è l' oggetto generale, che mediante l' individuazione, cioè l' atto creativo, passa a stato di soggetto, ossia di creatura. Laonde coerentemente dice il Gioberti: [...OMISSIS...] . Per quanto sia strano il dire che la radice divina si veda effettuata nelle creature, pure non è men vero che così la pensi il signor Vincenzo Gioberti, perchè egli stesso ce ne assicura. Con queste spiegazioni che egli medesimo ci somministra de' suoi pensieri, e della maniera con cui toglie a distruggere il panteismo, noi intendiamo, o signori, più altre cose, che senza ciò ne riuscirebbero per avventura troppo difficili a concepire. Intendiamo primieramente l' impegno ch' egli ha preso di combattere la distinzione dell' ideale dal reale, e di pretendere che l' ideale sia qualche cosa di sussistente, e com' egli dice nel modo il più strano, di concreto . Senza di ciò, egli non avrebbe potuto nè convertire Iddio in un' idea, nè convertire quest' idea nelle creature coll' individuamento, che è il suo atto creativo . Egli dunque accorda, che l' idea generale appartenga alla mente, e il particolare al senso; ma solamente nell' ordine della riflessione, che è l' ordine delle cose contingenti: in quest' ordine il generale è già individuato, reso soggettivo, immedesimato col soggetto, meramente ideale, cioè diviso dal reale e dal sensibile. Ma questa è tutta opera della riflessione dell' uomo che viene dopo l' intuito, il quale vede tutte queste cose insieme: e questa congerie, questa sintesi, come la chiama il Gioberti, è l' ordine assoluto, cioè Dio stesso. [...OMISSIS...] (voi ben sapete che noi non reputiamo la mente dell' uomo sorgente del generale, come egli ci imputa colla sua solita infedeltà; diciamo anzi che la mente non crea, ma riceve il lume universale col quale ella poi forma, limitandolo, gli universali minori, ciò i generi e le specie), [...OMISSIS...] . Voi vedete qui la solita metafora della radice obbiettiva sì della generalità , come dell' idee riflesse e del concreto dei sensibili . Non viene egli la voglia di rivolgere al signor Gioberti quella interrogazione, che assai male a proposito egli fa a' suoi avversarj, [...OMISSIS...] , le quali sappiamo aver le loro radici, perchè sono piante? In secondo luogo è pure notabile che il Gioberti riconosca una radice unica, obbiettiva, esterna, indipendente della cognizione, tanto della generalità delle idee riflesse, quanto del concreto de' sensibili, cose, a dir vero, molto disparate. In terzo luogo rimane a vedere, se questa radice della generalità dell' idee riflesse e del concreto dei sensibili, sia sostanzialmente la stessa cosa con questa generalità e con questo concreto, oppure sia cosa separata da essi, e di diversa sostanza; poichè questa ricerca è quella che può decidere la questione (quantunque sembri decisa soprabbondantemente da quanto è detto), se il sistema che esaminiamo sia panteistico o no. Giacchè essendo in fine quest' unica radice della generalità delle idee riflesse e del concetto dei sensibili, per Vincenzo Gioberti, Iddio stesso; la questione del panteismo è sempre quella di sapere se la sostanza di Dio e quella delle creature è una e la stessa, o diversa e infinitamente diversa. Se la radice del Gioberti è di sostanza diversa affatto dalla sostanza delle due piante che si fanno nascer da essa (la generalità delle idee riflesse e il concreto dei sensibili), in tal caso le metafore che egli adopera non saranno più che frasi poco esatte; ma se la sostanza della radice di quelle piante è identica, il panteismo sarà aperto ed indubitabile. Ora, onde mai il Gioberti fa uscire le due piante della generalità delle idee riflesse, e del concreto dei sensibili? Le fa uscire dalla riflessione dell' uomo preceduta però e creata dalla riflessione dell' idea, cioè del Dio7Idea. Ma questa operazione della ragione umana, che è anche insieme la ragione divina, che cosa fa? Scompone e compone l' oggetto precedente, soggettivizza quello che era oggettivo, produce, come abbiamo veduto, l' ordine contingente colla scomposizione dell' ordine assoluto oggetto dell' intuito. L' oggetto dell' intuito è dunque la radice della generalità delle idee riflesse e del concreto dei sensibili, che sono come l' albero diviso in due tronchi, e quell' oggetto è l' oggetto stesso della riflessione nella sostanza, non differendo che nella forma. Ecco come ripete questa sua teoria: [...OMISSIS...] . Quindi conchiude che il generale, in quanto è veduto nell' intuito, è l' essere necessario, cioè Dio stesso, e il concreto sensibile è il contingente, cioè Iddio stesso che concentra la sua realtà in un punto individuandosi. [...OMISSIS...] . Uditene la conseguenza che spiega ancor più le premesse. [...OMISSIS...] . La conseguenza è coerente alle premesse. Poichè, s' egli è vero che l' individuale contingente, o, come anche dice, il concreto de' sensibili altro non sia che l' idea generale individualizzata, egli è certo che per averne la cognizione, conviene aver l' intuito di quest' idea generale, che è l' essere necessario e infinito, cioè Dio, e della sua individualizzazione, che è l' atto creativo, il qual atto creativo che concentra l' esistenza in un punto determinato, è l' opera della riflessione che così reca all' esistenza il concreto dei sensibili. Egli è dunque del tutto logico il dire che per conoscer l' albero conviene conoscer la radice nel sistema del signor Gioberti, perchè in tal sistema non solo la radice è della stessa sostanza dell' albero, ma anzi ella si trasfonde nell' albero stesso, essa è il soggetto sostanziale di cui l' albero è l' atto accidentale retto e sostenuto; laddove se la radice fosse di sostanza totalmente diversa, non vi sarebbe bisogno alcuno di percepire la radice per percepire i rami della pianta, perchè una sostanza è ciò appunto che si concepisce dalla mente senza ricorrere ad altra sostanza, quando l' accidente è ciò che non si può concepire solo senza la sostanza. Quindi la ragione è palese del perchè egli cotanto ci replichi, che le cose contingenti non si posson percepire che nell' atto creativo: essendo quelle una trasformazione di Dio medesimo, conviene vedere e Dio e la sua trasformazione per averne la percezione. Ora io credo che a ciascuno sia facile il decidere sulla ricerca che continuamente facciamo, se il sistema del nostro Filosofo ontologista sia netto e puro di panteismo, com' ei sostiene. Ritenuto il filo del qual discorso, non fa maraviglia l' udire che, come le cose individue sono l' idea, ossia Dio trasformato, così l' idea, cioè Iddio, anch' egli alla sua volta sia le cose trasformate in senso contrario, cioè trasformate nella composizione o sintesi; non fa meraviglia che l' idea, cioè Iddio, sia un' attuazione dell' individuo, piuttosto che l' individuo sia una cotale attuazione dell' idea. E questo è pur quello che insegna ancora espressamente il Gioberti. [...OMISSIS...] . Ritenete, o signori, che individuare è creare, e che individuo è sinonimo di creato, e che l' idea, ossia il generale che s' individua è l' essere necessario e infinito. Che cosa è dunque il creato? L' attuazione di Dio. E che cosa è Dio? E`, ed assai meglio, l' attuazione del creato; [...OMISSIS...] . Come dunque intuire le esistenze create, senza intuire Iddio di cui sono l' attuazione? (perocchè Iddio in questa dottrina non è solo atto, ma egli ha anco attuazione). E come intuire Iddio senza intuire le esistenze che sono il creato, di cui Iddio stesso è assai meglio l' attuazione? « Quindi (soggiunge di nuovo quello che sapevamo, perchè ce l' aveva detto tante volte), [...OMISSIS...] , ossia nella loro radice obbiettiva. Udite ora come il nostro Filosofo applichi la sua teoria della creazione a spiegare il valore della proposizione: « Questo corpo è ». Colui che la volesse interpetrare alla semplice, secondo il senso comune ed i filosofi passati, altro non vedrebbe in quella proposizione che l' affermazione di un corpo. Non lo crediate: il Gioberti è troppo coerente a se stesso; egli vi vede l' insidenza del corpo nell' Ente, cioè in Dio, di cui il corpo è un' attuazione, o assai meglio Iddio è un' attuazione del corpo, e però ci vede anco l' affermazione di Dio stesso. Udite: [...OMISSIS...] . In che dunque consiste, secondo Vincenzo Gioberti, l' esistenza, colla qual parola a lui piace d' esprimere la cosa creata o contingente? Consiste nella [...OMISSIS...] . Il corpo materiale adunque nella sua concretezza insiede in Dio, e partecipa a Dio, ed è questa l' esistenza del corpo. Ora poichè non vi è nulla che insieda in Dio, e che a Dio partecipi, se non Iddio, forz' è dire che anche la materia sia Dio. Ma notate tuttavia, che il corpo è l' idea generale (il Dio di Gioberti) individualizzata, e non l' idea generale nella sua generalità: non è l' idea generale oggetto dell' intuito, ma è l' idea generale divenuta oggetto della riflessione, che l' analizza col raziocinio; ond' è necessario che la voce è nella proposizione « questo corpo è », indichi il suo riferirsi alla realtà necessaria, poichè questo riferirsi della realtà contingente alla realtà necessaria, è l' esister di questa. E in che consiste questo riferirsi? Nell' emergere, dice il Gioberti, dalla sua causa per mezzo dell' individuarsi che fa questa causa, cioè Dio, l' individuarsi del quale è l' atto creativo. Lo stesso egli ci ripete in altro luogo: udite attentamente: [...OMISSIS...] . L' esistenza dunque, sotto il qual nome il Gioberti intende costantemente la creatura, è una partecipazione finita di Dio! Se l' esistenza, per esempio, un corpo reale e individuale è Iddio partecipato in un modo finito, il corpo stesso nella sua realità e individualità ha la natura di Dio, benchè in un modo finito. E non è questo il più materiale panteismo? (2). Ora imparate, o signori (perdonatemi se così parlo), imparate a conoscer l' ignoranza profonda in cui fin qui foste stati immersi, e con voi insieme tutti gli uomini. Non credete voi, che dicendo « è questo corpo »(e ben vedete che dicendo questo non si esprime il corpo in genere, ma in individuo, nella sua concretezza e materialità), non credete, che dicendo « è questo corpo », si affermi una sostanza morta? Certamente. Ma siete ingannati: il corpo che s' afferma esistere è ben tutt' altro. Il Gioberti v' assicura, e con tutta coerenza, che dicendo « questo corpo è », il verbo è « esprime una forza viva », perchè ci mostra [...OMISSIS...] . Di più, fin qui voi eravate in un goffo errore credendo che la creazione fosse una cotal produzione dal nulla: il signor Gioberti, il filosofo della creazione, venne a insegnarvi che questa non consiste già nel prodursi il contingente dal nulla, ma [...OMISSIS...] . Quanto erano ignoranti prima di questo lume tutti i sani filosofi ed i teologi cattolici! Essi credevano tutt' alla buona, che i corpi si conoscessero come cose fatte nel tempo, e invece a rigor di termini si conoscono dall' uomo, non come fatte nel tempo, ma nell' immanenza dell' Eterno . E questo noi lo sappiamo non per divina rivelazione, non per via di raziocinio, ma di semplice intuito, che ha per oggetto l' ordine assoluto: ce ne assicura il signor Gioberti, e guai a domandargliene la menoma ragione, chè il suo intuito è immediato, e non ammette ragione alcuna. In appresso succede la riflessione che analizza quest' oggetto, il quale appare nell' immanenza dell' eterno, ed allora nasce la continuità temporanea, allora il contingente è già emerso dal necessario. Il panteismo dunque è nell' intuito, ma sopravviene la riflessione soggettiva che disfà il panteismo coll' analisi raziocinativa. Ecco l' errore dei panteisti antichi: essi avevano bonariamente insegnato il panteismo col raziocinio, ma il Gioberti li confuta, trasportandolo nell' intuito; perchè ragione prima del raziocinio che nulla crea, dee esser l' intuito che tutto contiene: e questo è l' ordine del vero assoluto, mentre quello della riflessione è un ordine soggettivo. Combatte dunque il panteismo, dimostrando che non ebbe fin qui solide basi, ed egli intende così di sopporgliele; lo combatte col sostituire un panteismo assoluto ed intuitivo ad un panteismo troppo meschino, perchè relativo e raziocinativo; un panteismo più perfetto a quei sistemi che fin qui furon proposti, e che a lui non sembrano perfetti e compiuti. Concludiamo: per distinguere il signor Gioberti da tutti gli altri panteisti, non ci resta che denominarlo il panteista intuitivo. Dovrei copiarvi le opere intere del sig. Gioberti, se volessi arrecarvi tutti i passi, coi quali egli colorisce ed incarna in tutte le guise questo suo filosofico disegno: egli parla, nella stessa pagina che vi citavo testè, del flusso delle creature che si contempla congiuntamente alla immanenza dell' atto creativo, e conchiude: [...OMISSIS...] , confondendo così insieme l' ordine naturale col soprannaturale, come appunto confuse le creature col Creatore. Ma egli è pur tempo che noi poniam modo a questa lunga discussione, in cui abbiamo spese diverse lezioni. L' attenzione che voi mi avete costantemente prestata riesce a me di caro conforto, o signori, a dover credere, che voi avete giudicato importante l' argomento, e che noi non abbiamo perduto il nostro tempo invano. Avrei desiderato che Vincenzo Gioberti fosse stato anch' egli qui ad ascoltarmi: amatore del vero, come dobbiam riputarlo, forse avrebbe modificato le sue sentenze. Se egli avesse voluto difenderle, lo avrei ammonito di mantenere in facendolo la stessa legge ch' egli ricorda sì sovente ai suoi avversarj, di non arrecare per avventura altri suoi detti contradittorj ai primi, ma di sciogliere direttamente le obbiezioni che presentano quei molti che noi abbiamo disaminati. E gli avrei aggiunto, che noi trattiamo del suo intero sistema, e della coerenza intrinseca del medesimo, non di alcuna frase appiccicata e dissonante. Quello dee dimostrare immune da panteismo, non questa, perocchè di quello si tratta. Del resto confidiamo nel retto senso de' nostri connazionali. Invano si vuol presentare a questa nostra religiosissima e svegliata nazione un panteismo deforme, mascherato, siccome nuovo e sano e profondo sistema filosofico: la chiara mente degli Italiani non s' appaga d' ambiguità di favellare, di vanissime ed insolenti dicerie, di stirate cavillazioni; sono sei anni che scrisse Vincenzo Gioberti, e non un solo Italiano, a noi noto, ha per ancora preso a professare il suo panteismo: l' Italia dunque, o signori, diciamolo pure, lo conosce e lo rigetta. Ho letto con mio molto piacere la « « Teorica del Sovrannaturale » » del sig. ab. Vincenzo Gioberti, da Lei favoritami. Prima non la conoscevo che per qualche brano mandatomi dagli amici. Di vero, l' argomento del libro è acconcissimo ai tempi nostri e necessario, perocchè il maggior bisogno che ha oggidì il mondo, e il maggior suo desiderio si è quello di essere accertato che vi ha qualche cosa di soprannaturale, e di poter dire in qualche modo a se stesso che cosa il soprannaturale si sia. Nulladimeno non parmi vero, nè detto con proprietà, ciò che l' autore afferma alla faccia 52 del suo libro, cioè che « « in tutta la Storia della Filosofia - non si è mai atteso a ricercare se in effetto la mente umana comprenda qualche elemento inintelligibile » ». Manca, se io non erro, la proprietà dell' espressione in queste parole; perocchè egli pare una contradizione il pretendere che la mente umana comprenda quello che è inintelligibile; tanto più se si consideri, che la parola comprendere significa, secondo la nota definizione che ne dà s. Tommaso, perfettamente conoscere; di guisa che quella proposizione suonerebbe così: « Non si è atteso a ricercare se la mente umana perfettamente conosca qualche elemento che non è intelligibile »! Voleva egli alludere certamente in quelle parole alla potenza che lo spirito umano possiede, d' accorgersi ch' egli non conosce tutto, e che vi hanno delle cose ch' egli neppure può conoscere nella presente sua condizione, o certo ch' egli non può comprendere, benchè non di meno sappia determinarle e segnarle con certe loro relazioni ad altre cose a lui note, e sappia ancora assicurarsi di loro reale esistenza e di loro necessità. Ma spiegato il suo detto a questo modo, cessando di essere assurdo, incomincia a non esser vero. Imperocchè egli è indubitato, che fu sempre mai conosciuta questa potenza del soprannaturale (chiamiamola pur così), la quale porta l' uomo a persuadersi dell' esistenza di una qualche cosa che sta via oltre a' confini della natura contingente e limitata; ed io, quando mi occorse parlarne, le assegnai il proprio e specifico nome d' integrazione . Tutti i teologi scolastici oltracciò, cominciando dall' antico autore de' libri de' « Nomi Divini e della Celeste Gerarchía », parlarono della maniera negativa, colla quale la mente umana da se stessa si leva a conoscere Iddio. Potrei salire più là, e trasportarmi fino ad un tempo anteriore a quello della filosofia italo7greca, dimostrando co' libri da non molto tempo scoperti degli Indiani, e coll' altre memorie antichissime dell' orientale sapienza, che la facoltà del soprannaturale e dell' incomprensibile fu sempre conosciuta e positivamente annunziata dai savj; come pure che da essa sola ebbero origine le infinite superstizioni di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Che se il signor Gioberti avesse avuto sott' occhio la « Tavola delle potenze dell' anima umana »da me pubblicata in Rovereto, vi avrebbe trovato quella potenza del soprannaturale, distinta nelle sue varie diramazioni. Quantunque poi il suo libro dimostri ch' egli conosce assai bene le teologiche discipline (conoscenza che suol mancare in quasi tutte le moderne scritture, eziandio che trattino di Filosofia o di Religione, come egli stesso giustamente osserva), tuttavia non trovo da lui dichiarata la doppia maniera nella quale lo spirito umano si solleva a ciò che è soprannaturale e divino, distinzione alla lucidezza dell' argomento necessarissima. Perocchè ella è cosa grandemente diversa, che l' uomo s' accorga dover esistere alcun che al di là di tutte quante le cose da lui conosciute, al di là di tutti i confini del contingente; in una parola, dover esistere al di là del relativo, l' assoluto; ovvero che l' uomo possa oltracciò percepire realmente questa assoluta sostanza. A fare la prima di queste due operazioni, a conoscere l' esistenza dell' ente assoluto, ed alcune necessarie analogie fra esso e l' ente relativo, bastano le naturali umane facoltà. Onde può dirsi, che v' abbia una facoltà naturale delle cose soprannaturali. Ma all' incontro a fare la seconda di quelle operazioni, cioè a percepire realmente quello che è soprannaturale, niuna facoltà naturale qualsivoglia è sufficiente; chè ella sarebbe contradizione apertissima il dire che la natura percepisca quello che è al di là della natura. Ella ben intende che cosa a me suoni la parola percepire . Allora solo, secondo la maniera di parlare da me stabilita, una cosa viene da noi percepita, quando noi ne sentiamo in noi stessi l' azione sua propria, cioè un' azione tale che non può venirci altronde, e però atta a caratterizzare e distinguere nell' intendimento nostro quella cosa fuori d' ogni altra. Richiedesi adunque che venga dato all' uomo un principio di conoscimento soprannaturale, acciocchè egli possa percepire il soprannaturale; o, come dicono ottimamente i teologi, si richiede l' infusione del lume di grazia o di gloria. Sarebbe dunque cosa assurdissima il collocare nella natura umana una potenza del soprannaturale presa in questo secondo senso; e si può solamente attribuirle una cotal radice di detta potenza, che è piuttosto una potenza della potenza, cioè a dire ella è la potenza di ricevere in sè la potenza di percepire Iddio, cui Dio stesso, comunicandosi all' anima, crea in essa. Di qui Ella vedrà manifesta ragione per la quale nella citata Tavola delle umane potenze, io abbia collocata l' integrazione (facoltà della Teologia naturale), come anche la fede (facoltà delle idee negative) che le si associa, fra le potenze naturali; e perchè all' opposto abbia fatto una lunga enumerazione di potenze soprannaturali, quando volli indicare quelle facoltà o virtù infuse, colle quali si percepiscono realmente le cose divine, e si pensa e si vuole e si opera in conseguenza di quelle deiformi percezioni. Nell' incertezza se Ella abbia sott' occhio la Tavola di cui le parlo, gliene unisco qui un esemplare. Col volgere poi uno sguardo alla Tavola medesima, Ella potrà vedere altresì, che la facoltà del soprannaturale, quale viene descritta dall' ingegnoso signor teologo Gioberti, dà luogo ad un' altra osservazione importante assai per le conseguenze che si trae dietro. Della facoltà del soprannaturale egli fa una potenza isolata e tutta da sè, contrapponendola a quella della ragione e a quella del sentimento . Ora il concepire a questo modo la facoltà delle cose soprannaturali, dà, egli è vero, ai ragionamenti che n' espongono la teorica, un' aria di non so qual misterio e profondità, gradita al lettore; ma a fondo considerato, quel modo di concepire la detta facoltà non trovasi conforme al vero, nè scevro d' intima contradizione. E di vero, come è egli mai possibile concepire una facoltà senza ch' essa produca all' uomo qualche specie di sentimento? Non si possono dunque dare facoltà nell' uomo, le quali sieno al tutto straniere al sentimento; poichè l' uomo stesso, come io ho dimostrato nell' « Antropologia », è un sentimento. Come, di nuovo si possono dare tali notizie o percezioni, delle quali noi siamo ben certi, quando elle sieno poi prive al tutto dell' autorità della ragione, ed escluse dall' intendimento? Non si possono dunque dare oggetti nè naturali nè soprannaturali, de' quali noi siamo ben certi, se questi si pongano fuori del dominio dell' intelligenza. Convien dire adunque o che la facoltà del soprannaturale sia cieca, e in tal caso di nissun pregio, nè diversa dal fanatismo e dalla superstizione; ovvero ch' ella abbia pure in sè del lume di ragione, nè sia tutta sola, e genericamente distinta tanto dal sentimento quanto dall' intelligenza. Cotal facoltà non può dunque non essere finalmente che una specie di sentimento ed una specie d' intelligenza; e questo è quanto apparisce chiaramente da tutto ciò che io n' ho scritto in più luoghi, e ch' Ella potrà veder di nuovo nella « Tavola delle potenze »dove, senza accennar nulla che si riversi al di fuori dell' ordine de' sentimenti e dell' intelligenza, appariscono le potenze soprannaturali innestate sopra le naturali, e si dimostrano come una sublimazione del sentimento e della intelligenza, a cui azioni ed oggetti divini si comunicano; un perfezionamento insomma e completamento della natura, secondo la dottrina de' teologi cattolici, i quali costantemente insegnano l' elemento soprannaturale essere perfettivo del naturale. Le quali cose mi prendo fidanza di esporre alla Signoria Vostra, per ubbidire al gentile invito che Ella me ne fa nella pregiata sua lettera. E le aggiungerò, quanto a ciò che Ella mi dice, accordarsi meco il sig. Gioberti in più cose, che si scorge veramente da diversi tratti dell' opera sua, ch' egli vide il « N. Saggio ». E l' aver dato in parte al medesimo favorevol suffragio, certo egli è per me un fatto assai onorevole, pregiando io l' altezza dell' ingegno e anco la bontà dell' animo che dimostra nell' autor suo la « Teorica del soprannaturale ». Ma non mi posso tenere dal dire a Lei nello stesso tempo in tutta confidenza, che parmi di ravvisare anco nell' egregio sig. Gioberti quello che pur mi tocca continuamente vedere in tant' altri valent' uomini, che scrissero pro e contro la mia filosofia, cioè che troppo presto si credono d' aver colto il mio pensiero e tutta abbracciata la dottrina da me proposta alla loro meditazione. Forse che la facilità apparente di questa filosofia gl' inganna, onde non si danno il tempo di andar più addentro della corteccia. Certo, non basta l' appigliarsi ad alcune sentenze, nè basta l' aver inteso alcuni brani del sistema: è necessario por mente al tutto, e por mente a ciascuna parte, giungere al fondo delle questioni principali; ed in questo fondo non veggo esser discesi ancora gran fatto molti, e pure molti (io vorrei dir tutti) giungere vi potrebbero, se non si avvisassero d' esservi giunti (1). E qui, a ragione d' esempio, io mi persuado che il teologo torinese non avrebbe posto così in generale nell' essenza l' elemento incomprensibile delle cose, se egli avesse posto attenzione a quanto io dissi in più luoghi circa l' essenza, la sostanza, la sussistenza, la materia, ecc.; nè avrebbe disconosciute quelle dottrine ontologiche che nel mio sistema vanno intimamente collegate all' Ideologia, e che finora veramente furon da me piuttosto qua e là toccate, che trattate alla distesa, non avendo io pubblicato per anco nè l' Ontologia, nè le scienze che l' accompagnano, le quali sono la Dinamiologia, l' Agatologia e la Cosmologia . E qui basti dell' argomento principale del libro, che pur merita di essere ben accolto da noi, siccome ricchezza accresciuta all' italiana filosofia. Solo aggiungerò, prima di chiudere la presente, essemi dispiaciuto non poco l' aver trovate, in leggendo l' opera del sig. Gioberti, qua e colà accennate certe dottrine politiche, le quali non mi sembrano nè vere nè utili al genere umano. Tale si è quella, peraltro speciosissima, che sembra attribuire il diritto di governare ai migliori «(facc. 225, 226, 450) »; principio impossibile a ridursi in pratica, e ingiustissimo oltre a quanto si può credere; il quale divelle fino dalle radici ogni diritto non pur di dominio, ma ben anco di proprietà . Sono certissimo che l' egregio Gioberti non ne vuole le conseguenze, direttamente contrarie a quella rettitudine di mente e di animo, e a quell' amore del bene che il suo libro costantemente manifesta; e però, propriamente parlando egli disdice quel suo principio tutte le volte che toglie (e il fa con ingegno ed eloquenza) a difendere la verità, la giustizia e la religione. In un' opera di recente da me pubblicata, e probabilmente a Lei nota, io dimostrai darsi veramente un diritto di dominio ed un obbligo di sudditanza. Quando adunque questo diritto di dominio sia verificato nella realtà del fatto, egli è uopo rispettarlo, allo stesso modo come è uopo rispettare l' altrui campo, l' altrui casa, la veste, il pane altrui, eziandiochè questi beni siano in mano delle persone peggiori che ci vivono. Sappiam tutti che bella cosa sarebbe, o parer potrebbe, se le proprietà fossero de' soli buoni, i quali non ne userebber che bene; ma per quantunque sia, o paja bellissima questa cosa, ne vien egli di conseguenza che si possano spossessare i malvagi de' loro averi, per trasferir questi nelle mani de' migliori? E pure così si ragiona, o anzi si sragiona dai pretesi riformatori delle politiche società, i quali vorrebbero surrogare, com' essi dicono, la capacità elettiva al diritto ereditario. L' utilità pubblica, ecco il fonte ond' essi tutti i diritti pretendono derivare; ma s' ingannano oltre misura. Anteriore alla pubblica utilità (nome vago e capzioso), e ancor più di essa utilità veneranda, si è l' onestà e la giustizia, il rispetto cioè dei diritti di tutti: e finalmente la stessa utilità pubblica è andata in fumo, allorquando si comincia in suo nome a rapire l' altrui, e a permutare o le proprietà o i dominj. I quali concetti falsi e dannosi tanto più rincrescono a rinvenirsi nella « Teorica del soprannaturale », quanto che l' ingegno, la dottrina, la nobiltà dell' animo e il carattere sacerdotale del suo autore ci danno ampio diritto di pretendere da lui, ch' egli sappia diligentemente discernere l' apparenza del bene dal bene stesso, e cautelarsi contro a' lusinghevoli sofismi della giornata, i quali invescano assai facilmente coloro, che avendo il cuore inclinato all' affetto degli uomini, non hanno pari a quell' affetto la vigilanza della mente e l' ardore della sovrumana verità. [...OMISSIS...] L' amore della verità ci induce a rispondere col presente articolo alle difficultà mosse dal sig. abate Gioberti alla filosofia rosminiana. Ne compendiamo le principali in pochi sillogismi, e soggiungiamo ad esse le soluzioni. Il Rosmini dice, che l' Essere ideale, qual risplende per natura nella mente umana, è un' appartenenza di Dio - Ma ogni appartenenza di Dio, è Dio - Dunque l' essere ideale è Dio. Distinguo la minore - Ogni appartenenza di Dio, è Dio, se la si considera in Dio, e non la si precide da tutto il resto che forma la Divinità, concedo; se la si precide dal resto che forma la Divinità, nego: ed allora le si dà il titolo di appartenenza di Dio, per indicare appunto che unita al resto che forma la Divinità è Dio, ma non così precisa dal resto. Iddio non si può dividere, perchè è un Ente semplicissimo - Ma la recata distinzione divide Iddio - Dunque una tale distinzione fa quello che non si può, è falsa. Distinguo la maggiore, ed anco la minore. Distinguo la maggiore - Iddio non si può dividere realmente , concedo; mentalmente, nego. Infatti colla mente umana si dividono i suoi attributi, la sapienza, la giustizia, la potenza ec.. E così si divide l' idea dell' essere (che gli scolastici chiamano l' essere comunissimo ) da Dio sussistente. Di più distinguo la maggiore ancora così - Se da Dio si divide qualche suo attributo, o qualche cosa che la mente umana concepisca in lui, per modo che si pretenda, che quella cosa così divisa e precisa sia ancora Dio; la divisione non si può fare. Ma se si dice, che quella cosa così precisa non è Dio, ma un essere mentale ed universale, che si chiama un' appartenenza di Dio, per indicare il fonte onde procede; questa divisione si può fare. Distinguo poi la minore così - La recata distinzione divide Dio mentalmente, e in modo che a ciò, che si precide da Dio, non si applica più la denominazione di Dio, il che si può fare senza inconveniente, concedo; la recata distinzione divide Iddio realmente, ovvero mentalmente, ma in modo da applicare la denominazione di Dio a ciò che si considera come preciso da Dio, il che non si può fare, nego. Ogni cosa o è Dio, o una creatura - Ma l' Ente ideale non è una creatura, perchè gli si danno gli attributi dell' eternità, immutabilità ec.. - Dunque l' Ente ideale è Dio. Distinguo la maggiore e la minore. Distinguo la maggiore così - Ogni cosa che realmente sussiste è o Dio, o una creatura, lo concedo, (benchè s. Tommaso osservi che le forme e gli accidenti sono piuttosto concreati che creati, dicendosi le sole sostanze propriamente create [...OMISSIS...] «S. I XLV, IV »); ogni cosa ideale lo nego: perchè le relazioni p. e. tra Dio e la creatura, hanno un termine increato che è Dio, e un termine creato che è la creatura, onde non possono dirsi propriamente create, ma piuttosto conseguenti alla creazione. E così l' idea, ossia l' essere ideale, che è il mezzo del conoscere, è un' entità precisa mentalmente da Dio, e quindi la mente lo considera sotto due relazioni, o in quanto ritiene dell' essere divino da cui fu preciso, e intanto non è creatura, ma ritiene delle qualificazioni divine, benchè niuna qualificazione, come nè pure niun attributo preciso da Dio si possa dire Dio, perchè gli manca ciò che è a Dio essenziale, cioè l' essere completo e d' ogni parte infinito: o in quanto è preciso, e intanto si può chiamare creatura a quel modo che una tal denominazione conviene a tutto ciò che ebbe principio o per la creazione, o in conseguenza della creazione; come s. Tommaso chiama la verità, che risplende nell' intelletto umano, creata «(S. I/XVI, VII) ». Distinguo la minore così - L' Ente ideale non è una creatura in quanto ritiene dell' essere divino da cui fu preciso, lo concedo: benchè non gli possa perciò competere la denominazione di Dio, perchè da Dio niente si può dividere colla mente che si rimanga Dio, giacchè se si potesse far ciò, si porrebbe la divisione in Dio stesso. L' Ente ideale è creatura in quanto è preciso da Dio nel modo detto, lo concedo pure, perchè ciò non significa altro se non che la precisione ha avuto principio, quando ha avuto principio l' uomo. Ciò che non è reale è nulla - Ma l' essere ideale non è reale - Dunque l' essere ideale è nulla. Nego la maggiore, perchè ognun sa che l' idea del pane non è il pane reale, e che tuttavia quella idea non è nulla; e così si dica d' ogni altra cosa. Che se sotto la denominazione di reale si vuole intendere ogni entità, anche l' ideale; in tal caso il vocabolo reale non è più adoperato in opposizione all' ideale, come si adopera nella proposizione, e però si cambia il valore alla parola. Poichè quando si contrappone il reale all' ideale, allora, come indica la proposizione stessa, si contrappongono due concetti l' uno all' altro, e però il reale opposto all' ideale non può essere l' ideale, e la cosa opposta all' idea non può essere l' idea, perchè altrimenti i concetti si confonderebbero. Rimarrà dunque che l' idea presa in opposizione alla cosa non è la cosa, e che l' ideale preso in opposizione al reale non è il reale. Il determinare poi che cosa sia l' ideale è appunto quello che si cerca di fare coll' Ideologia, e quando anche non si riuscisse a farlo, rimarrebbe egualmente vero che l' idea del pane non è la cosa pane, cioè il pane reale che si mangia, e che nutre, giacchè l' idea non si mangia nè nutre. Se gli elementi, di cui si fa risultare la cognizione del reale, non hanno in sè la detta cognizione della cosa reale, non la possono dare, perchè nemo dat quod non habet - Ma il Rosmini fa risultare la cognizione della cosa reale dall' idea dell' essere, e dal sentimento, che non contengono questa cognizione, perchè il sentimento è cieco, e non racchiude cognizione alcuna, e l' idea non racchiude la cognizione del reale, ma solo del possibile - Dunque egli non ispiega bene la cognizione del reale. Nego la maggiore e la minore. Nego la maggiore, perchè talora due elementi coll' unirsi insieme producono un terzo effetto, che non è nè nell' uno, nè nell' altro di essi elementi; il che si avvera continuamente anche nelle cose fisiche; p. e. l' azoto e l' ossigeno producono l' aria atmosferica, che non si trova nè nell' uno, nè nell' altro di essi. Nego la minore, perchè egli è falso che il Rosmini faccia nascere la cognizione del reale dai due soli elementi dell' essere ideale, e del sentimento; ma vi aggiunge anzi un terzo elemento che è l' atto dello spirito semplicissimo, che intuendo da una parte l' ideale, e dall' altra percependo il reale, s' accorge che nell' ideale è il tipo dell' attività reale percepita nel sentimento, e lo afferma a sè stesso, e così produce a sè la cognizione del reale mediante questo giudizio primitivo. Infatti la cognizione del reale consiste nella unione di que' due elementi operata dallo spirito, e dallo spirito semplice e identico. E però, sebbene ciascuno di essi non dia la cognizione del reale, tuttavia uniti la danno, appunto perchè la cognizione del reale non è altro che l' atto dello spirito che li congiunge, e congiungendoli ne afferma il rapporto. Il ragionamento è impossibile, se nel primo intuito l' uomo non vede in confuso tutto ciò che poscia colla riflessione distingue - Ma il Rosmini pretende che il reale non si percepisca dall' uomo nel primo intuito del suo spirito - Dunque è impossibile che l' uomo giunga mai a conoscere il reale. Distinguo la maggiore - Il ragionamento è impossibile, se nel primo intuito l' uomo non vede in confuso tutto ciò che poscia colla riflessione distingue, concedo se si tratta di cognizione formale, cioè di un ragionamento che non esce dall' ordine delle idee, ed è perciò che nell' essere ideale, oggetto del primo intuito, vi hanno indistinti tutti i principj del ragionare, perchè i principj appartengono tutti all' ordine delle idee; nego se si tratta di cognizione materiata, perchè la materia della cognizione viene somministrata dal sentimento. D' altra parte sarebbe contro il buon senso il sostenere che nelle idee ci fosse la realtà della cosa, per es. che nell' idea dell' albero ci fosse l' albero stesso reale; giacchè in tal caso un' idea sarebbe un albero, o un albero sarebbe un' idea, il che è assurdo.

Il razionalismo

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Chi adunque sostiene, che la natura umana nello stato in che al presente si trova, non ha vizio in sè stessa nè morale nè fisico, ma solo è priva della grazia santificante; non pure s' oppone all' ecclesiastica tradizione, ma alla filosofia e al senso comune del genere umano. Altri argomenti dimostrano il disordine contro natura che è nella volontà dell' uomo che nasce, pertinacemente negato da' moderni razionalisti. Crediamo tanto più necessario comprimere coll' abbondanza degli argomenti la loro baldanza, ch' ella è tanta, che giungono ad attribuire il loro coperto Pelagianismo a tutti i cattolici (1), ad asserirlo ammesso universalmente (2) a dichiararlo dottrina di fede (3). E cominciamo dal paragonare insieme i tre errori de' giansenisti , de' razionalisti biblici della Germania, e dei teologi nostri razionalisti pratici . Benchè l' error de' primi sia opposto a quello degli altri due; tuttavia non sarà difficile scorgere, che tutti e tre, questi errori, hanno una base, un principio comune. Avviene quasi sempre, che si rinvenga un elemento comune ne' contrari errori, come già osservammo. Il principio, o la base comune consiste nel venire a riporre il peccato originale in una LIMITAZIONE della natura umana; anzichè in ciò che è guasto e disordine. Tutti e tre gli accennati erronei sistemi si fondano sopra questo primo sbaglio (1); ma spiegano poi diversamente il modo, onde attribuiscano l' appellazione di peccato alla mera limitazione della natura. Esponiamo la diversità di questa spiegazione. I giansenisti sulle tracce di Bajo dicono che la natura umana lasciata sola, senza la grazia soprannaturale, è imperfetta e monca, formando così della grazia un costitutivo all' interezza e sanità dell' umana natura (2). Questa natura così scema d' una sua parte, si dee chiamar viziata e peccatrice, perchè non si solleva colla volontà a Dio soprannaturalmente conosciuto (al che le mancano le forze), e in questa non elevazione ch' essi dichiarano volontaria, fanno consistere l' original peccato (3). I biblici razionalisti della Germania pure accordano a' giansenisti che il peccato originale consista nella limitazione della natura; ma spiegano la cosa più filosoficamente. Questa limitazione non è già peccato, come vogliono i giansenisti, perchè l' uomo in essa costituito non si leva a Dio colla sua volontà impotente; ma perchè è lontano dalla sua ultima possibile perfezione alla quale non si solleva che a gradi. Onde secondo il signor Baur il peccato è simultaneo colla natura dell' uomo, come è simultanea con quella natura la limitazione (1). Imperocchè l' uomo, in quanto è creato da Dio, [...OMISSIS...] . I nostri teologi moderni (stando alla sostanza delle loro dottrine, benchè colle parole si dichiaravano nemici di tutte l' eresie) sono obbligati a parlare in questo modo, quando vogliano esser sinceri: Avete ragione, o giansenisti e razionalisti biblici, nel cercare nella LIMITAZIONE dell' umana natura il peccato originale: anche noi facciamo lo stesso; ma spieghiamo la cosa in modo diverso dal vostro. Noi diciamo che la natura umana presentemente ha tutto il suo senza difetto alcuno; ed aggiungiamo, che ha il peccato, unicamente perchè le manca l' ordine soprannaturale, che ella dovrebbe avere; quindi definiamo il reato di cui è presentemente l' uomo aggravato [...OMISSIS...] . Anche noi dunque diciamo co' razionalisti biblici che l' uomo non ha alcun difetto, ma aggiungiamo che gli manca la grazia, e in questo sta il peccato. Diciamo anche co' giansenisti, che questa grazia è dovuta all' uomo perchè la natura umana non sarebbe intera senza di essa, ma unicamente perchè Iddio a principio ha fatto liberamente il decreto di concederla all' umanità, e in virtù di questo decreto le è dovuta. Or Adamo colla sua prevaricazione spogliò la natura umana di questa grazia per sè stessa non dovuta, e non fece alcun altro male all' umana natura. Noi dunque, suoi figliuoli, nascendo senza grazia, siamo peccatori, figliuoli dell' ira, inimici di Dio e almeno negativamente avversi a Dio, [...OMISSIS...] . Nell' uomo dunque che nasce non v' ha alcun difetto morale, v' ha sola la limitazione naturale , che importa il non aver la grazia soprannaturale; e questa è peccato formale, perchè non dovrebbe esservi « juxta ordinem a Deo constitutum ». La stessa limitazione, la stessa mancanza di ciò, senza cui la natura può esser perfetta, è peccato, o non è peccato, secondo il decreto di Dio. Se Iddio non avesse decretato di dar al figliuolo di Adamo la grazia, non sarebbe per lui peccato l' andarne privo; ma avendo decretato di dargliela, se il padre la conservava; è un peccato del figliuolo l' andarne privo a cagion del padre, che gliela perdette. Non dipende dunque dalla cosa in sè, ma dal positivo decreto di Dio l' esser peccato la nudità della grazia, che per se non è punto peccato; ma Iddio il rese peccato col suo decreto! Se non che ci sarebbe senso nel dire, che un decreto con cui Dio decretò di dare agli uomini un dono, sia obbligatorio anche per quegli uomini, a cui questo dono non è dato? quel decreto di Dio poteva essere obbligatorio pel bambino che nasce? ovvero, contribuì il bambino a invalidarlo? Nulla di ciò. Tutto si fece all' insaputa del povero bambino. Iddio fece il suo Decreto ab eterno senza consultarlo. Il padre peccò pure senza farglielo sapere, nè il figliuolo che ancora non esisteva acconsentì punto al peccato del padre. Nacque nella sua persona innocente, senza difetto alcuno nella sua natura; ma nacque privo di ciò che la sua natura non esigeva, e che non dipendeva da lui l' avere o il non avere. Non vale. Incontanente che viene al mondo gli si dice; « sappiate che voi siete formalmente peccatore, inimico di Dio, figliuolo d' ira, a Dio avverso! »Che stupore per una simile creatura a tale intimazione! A riceverla cioè da persone, che l' assicurano in pari tempo che la sua natura è in tutte le sue parti perfetta ed immacolata, non punto obliqua la sua volontà, che non ha altro in somma, che quella necessaria limitazione, che esclude l' ordine soprannaturale! Deh, come crederà sinceramente di portare in sè un vero peccato, unicamente perchè Iddio aveva intenzione di dargli de' doni maggiori di quelli che non esiga la sua natura, e non glieli diede a cagione che suo padre impedì un sì liberale divino consiglio? Ora che Iddio privi tutta l' umana stirpe de' suoi gratuiti favori, pel peccato del suo capo, a cui gli avea largheggiati acciocchè a tutta la stirpe si propagassero, niente v' ha, che pugni colla ragione. Ma che questa semplice privazione, acquisti in conseguenza del decreto divino, la ragione di vero peccato formale in chi nasce da Adamo senz' alcun difetto nella sua volontà naturale; questo non s' accorderà mai colla ragione umana; che l' esser una cosa peccato non dipende da un decreto positivo di Dio, come il fanno dipendere i nostri teologi (1); nè tampoco dipende meramente da un fallo altrui; dovendo essere ogni peccato vero e formale, un mal morale personale (2); onde convien ricorrere a mutare la significazione della parola peccato (1), o per dir meglio a distruggerne affatto la nozione. Veniamo ad esporre altre ragioni teologiche, che dimostrando inammissibile il sistema de' nostri moderni razionalisti, confermino la verità difesa, che il peccato originale cioè non pure priva l' uomo della grazia santificante, ma guasta di più la natura dell' uomo nella parte sua più eccellente, la parte morale. S. Tommaso dimanda, perchè passi di padre in figlio il peccato originale, e non gli altri peccati (2), e risponde: perchè il peccato originale offende la natura , non che la persona; quando gli altri peccati non offendono che la persona . Infatti trapassa per generazione solo quello che appartiene alla natura, non quello che è meramente e strettamente personale. [...OMISSIS...] Conviene dunque cercare, che cosa S. Tommaso intenda per giustizia originale . Sotto l' espressione di giustizia originale S. Tommaso comprende più cose: 1 l' elevazione della mente a Dio soprannaturalmente conosciuto: 2 la rettitudine naturale della volontà, o giustizia naturale: 3 l' ubbidienza delle parti inferiori e corporee alla volontà retta secondo la natura, e secondo la grazia. [...OMISSIS...] Di tutte queste cose si componeva ciò che S. Tommaso intende per originale giustizia: tutte erano annesse e legate per libero decreto di Dio, alla natura umana; ma la prima parte di esse perfezionava essenzialmente l' umana persona nella natura umana esistente. Che cosa è l' umana persona? E` il più elevato principio, che sia nell' uomo, la sua volontà suprema. Indi la prima parte della giustizia originale cioè la sommissione della mente a Dio, era per essenza sua personale. Egli è di qui che s' intende ragione, perchè, restituita all' uomo nel battesimo questa parte personale della giustizia; rimanga tuttavia l' uomo difettoso e privo dell' altre parti di essa giustizia originale , cioè della sommissione delle potenze inferiori alla ragione, e del corpo all' anima. Il qual difetto spiega, dice S. Tommaso, perchè anche l' uomo giustificato trasmetta generando il peccato d' origine. [...OMISSIS...] Ammessa questa dottrina, si dee pure ammettere, che la parte inferiore dell' uomo è guasta, ragione unica per la quale genera un individuo guasto. Se nella parte inferiore non vi avesse natural disordine, e il peccato consistesse, come vogliono gli Anonimi nella semplice privazione della grazia santificante che appartiene alla parte superiore dell' uomo; l' uomo giustificato, rimastosi già senza difetto, dovrebbe generare del pari individui immuni da ogni difetto, e da ogni peccato. Lo stesso si può argomentare dall' altra dottrina di S. Tommaso intorno ad un uomo formato altramente, che per generazione: questi non avrebbe il peccato, perchè il principio che lo formerebbe non essendo guasto, come è guasto il principio generativo, non potrebbe mettere in lui il guasto del peccato ancorchè avesse la sola natura perfetta priva di grazia (2). Nel che s' osservi attentamente, come S. Tommaso spieghi in modo diverso la trasfusione del guasto originale in quant' è COLPA, e in quant' è PECCATO. Quando egli toglie a spiegare come si propaghi la colpa sempre ricorre alla volontà peccatrice d' Adamo, perchè al guasto originale de' posteri non può applicarsi il nome di colpa, se non si considera nella causa libera che lo produsse. Laonde dice: [...OMISSIS...] . Da tutti i quali luoghi apparisce, 1 che il santo dottore distingue nell' originale infezione due cose, un difetto morale, che noi chiamiamo peccato, ed una colpa; 2 che a spiegare come trapassi la colpa sempre ricorre alla libera volontà d' Adamo, perchè niun difetto benchè morale riceve la nozion di colpa, se non è prodotto da una libera volontà. Resta a vedere come spieghi la trasfusion del peccato ossia il difetto morale della natura. Prima che ne esponiamo la maniera, vogliamo far notare, che il peccato e la colpa originale passano ad un tempo per generazione, perchè non si dà fra tali due cose DISGIUNZIONE REALE; ma tuttavia diversa è la maniera di spiegarne la trasfusione: cioè una diversa ragione è quella che fa passare il difetto morale della natura , da quella che fa passar la colpabilità di quel difetto. Quando si tratta di spiegare la trasfusione di quello, S. Tommaso non ricorre più alla volontà libera e prevaricatrice d' Adamo, ma alla generazione . La caduta d' Adamo il corruppe nella parte sua superiore che è la volontà, e nella parte sua inferiore che è principalmente la facoltà generativa. La corruzione della volontà libera d' Adamo è quella che spiega la trasfuzione della colpa ne' posteri; la corruzione della facoltà generativa è quella che spiega la trasfusione del peccato . Udiamo adunque il Santo Dottore: [...OMISSIS...] . Ora questa vis activa in generatione , che S. Tommaso nomina tante volte, come quella che trasmette il peccato, non è già la volontà prevaricatrice d' Adamo, ma una facoltà tutto diversa. E pure la COLPA non viene che dalla volontà prevaricatrice d' Adamo; ma il peccato viene da quella forza attiva; benchè essa non sia soggetto di colpa, nè di peccato; e l' uomo possa adoperarla senza peccare (2). Ma pel guasto, che ha la carne generante produce una carne che sconcerta l' ordine morale dell' anima del generato, e così mette in essere il suo proprio peccato, il quale però non riceve appellazione di colpa se non riferito all' atto libero della disubbidienza adamitica (3). E notisi che alla trasfusione del peccato non basta nè la volontà prevaricatrice d' Adamo, nè tampoco l' esser formato della sua carne: no, questo non basta; conviene che c' entri la forza generativa , perchè [...OMISSIS...] . Ora in costui formato dalla carne d' Adamo prevaricatore perchè mai non passerebbe il peccato? Forse perchè non ci sia in Adamo la volontà prevaricatrice? No. Forse che la carne d' Adamo non sarebbe priva de' doni gratuiti? Sarebbe priva certamente. Non basta dunque che la carne sia priva de' doni gratuiti, e che la carne che l' uom veste sia carne d' Adamo; ma si esige di più, acciocchè sia messo in atto il peccato, la forza generativa , che non è un atto di volontà peccatrice, essendovi anco ne' giusti. La ragione di ciò non si rinverrà mai nel sistema de' nostri Anonimi; ma nel nostro si troverà luminosissima. Così pure nel sistema de' nostri teologi moderni conviene rinunziare affatto a quella ragione, che spiega sì bene perchè il Signor GESU` Cristo, figliuolo di Adamo verissimo secondo la carne, non ebbe tuttavia l' OBBLIGAZIONE di contrarre il peccato originale. La tradizione tutta risponde con S. Agostino (1) e con S. Tommaso (2), che non l' ebbe, perchè non fu generato dal seme infetto, perchè ricevette bensì da Adamo la carne, ma non per via di generazione. E alla natura umana, che volle assumere il Verbo, non era dovuta la grazia; anzi fu predestinata all' unione personale col Verbo, e il Cristo fu unto per libero decreto del Padre. Se dunque non era dovuta alla carne che il Verbo poi assunse la grazia, perchè tuttavia l' umanità di Cristo non fu obnoxia al peccato? Se il peccato non è che la mera privazione della grazia in relazione alla volontà prevaricatrice del primo padre, la carne d' Adamo in qualunque modo da lui si tragga sarà obnoxia peccato . Niente di ciò: anzi benchè alla natura umana non sia dovuta la grazia; pure insegna la dottrina cattolica, che il Nato dalla Vergine non solo non contrasse, ma nè pure dovea contrarre il peccato. Dunque il peccato non è la mera privazione della grazia; ma esso è l' obice che impedisce la grazia, il quale obice è posto dalla seminale generazione, la quale non fu quella di Cristo operata per ispirito Santo. Essendo dunque l' originale vizio ne' posteri e peccato e colpa, due cose ci vogliono acciocchè trapassi coll' una e l' altra qualità: 1 la generazione seminale, 2 la relazione alla volontà di Adamo, che viziò la generazione, poichè [...OMISSIS...] . Ma se si trattasse di trasmettere una mera privazione de' doni soprannaturali, sarebbe vero quello che dicono i nostri teologi, [...OMISSIS...] . Ma questo appunto dimostra l' erroneità del loro sistema. S. Tommaso, e tutti i dottori, tutti i teologi, non hanno creduto inutile una tale questione, anzi difficile, difficilissima. S. Tommaso ha creduto di dover ricorrere ad una [...OMISSIS...] ed ha creduto che non ogni forza o virtù fosse atta a trasmettere il peccato, ma solo quella che opera [...OMISSIS...] . Certo che per trasfondere una privazione semplice non fa bisogno d' una forza, o vita attiva, d' una mozione, e d' una mozione determinata. E` dunque manifesto, che S. Tommaso (a cui non si può negare il buon senso, nè attribuire che siasi abbandonato alla fantasia , o che siasi lambiccato inutilmente il cervello (4); non sarebbe ricorso ad una forza, o virtù attiva di operare per ispiegare la produzione del peccato ne' posteri, se avesse stimato che in questo non ci avesse niente di positivo, ma fosse una mera privazione de' soprannaturali favori (1). Finalmente col sistema degli Anonimi pare almen che si cozzi in un altro errore, quel della proposizione LVI di Bajo, [...OMISSIS...] . Imperocchè nel peccato original de' bambini battezzati non v' ha più certamente l' atto del peccato, già trapassato in Adamo, nè pure v' ha il reato tolto coll' acque battesimali. Che cosa dunque resta, ci dicano, i nostri Anonimi? Nel loro sistema non resta più niente, come dice Bajo, niente più che spieghi veramente la trasfusione del peccato; mentre nel sistema della Chiesa in vece d' una carne naturalmente sana che produce una carne sana, rimane una carne inferma e guasta che produce una carne del pari inferma e guasta, la qual trae la volontà dell' anima dall' eguaglianza della giustizia (2). Ma qui gli avversarii ci fanno un mondo di obbiezioni, alle quali tutte noi vogliamo rispondere, registrandole per ordine, e soggiungendo a ciascuna la sua risposta. Obbiezione 1 E` vero che S. Tommaso dice che all' essere del peccato d' origine concorrono due cose, 1 un difetto naturale , e 2 che questo difetto sia stato in potere della natura mercè la libera volontà del suo corpo, nel che consiste la ragione della colpa (1). Ma S. Tommaso chiama quel difetto naturale , non lo chiama già peccato . Risposta . Quel difetto è chiamato da S. Tommaso ugualmente difetto naturale , o peccato naturale . Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] (ecco la colpa), [...OMISSIS...] (non si ferma alla colpa, c' è qualche altra cosa da aggiungere) [...OMISSIS...] (e non solo privata de' doni maggiori). [...OMISSIS...] ; perchè, come disse altrove ne' posteri, il peccato originale « deficit a ratione culpae ». Laonde S. Tommaso al peccato dei posteri, astraendo dall' attual peccato d' Adamo, attribuisce ugualmente le appellazioni or di « defectus naturalis », or di « peccatum naturale ». Obbiezione 2 S. Tommaso chiama l' accennato difetto naturale [...OMISSIS...] . E` dunque in se stesso una semplice limitazione della natura, non un peccato. Risposta . Ci sono de' difetti, cioè delle mancanze che conseguono necessariamente alla natura umana, e questi sono mere limitazioni della natura; ma vi sono de' difetti che conseguono accidentalmente alla natura; e questi non sono mere limitazioni. Che la natura umana sia fallibile , questo è un difetto necessario, e solo per accidente ella può essere difesa e premunita contro l' errore, e il peccato. Ma che la natura erri, o pecchi realmente, questo è un difetto che consegue a' suoi principii accidentalmente. Dato poi che sia venuto in essa questo accidentale difetto, qual fu il peccato, ch' ebbe luogo nel primo padre; esso difetto si rende necessario nella natura: tale è il disordine abituale della volontà ne' posteri, o il peccato originale. Onde il peccato originale originato è un difetto naturale [...OMISSIS...] ; perchè i principii della natura umana, che è quanto dire i suoi essenziali costitutivi non esigono di necessità che la natura umana sia senza peccato. Se dunque il peccato si considera in Adamo che lo commise, egli è un difetto [...OMISSIS...] ; se si considera trasmesso ne' posteri dopo commesso, egli è un difetto [...OMISSIS...] . Laonde S. Tommaso dichiara, che l' inordinazione della volontà che non può domare le potenze inferiori, [...OMISSIS...] per mezzo della colpa (1), non della natura umana semplicemente. Nel che egli è uopo considerare, che S. Tommaso, come abbiamo già notato, nella giustizia originale distingue una doppia rettitudine di volontà , cioè una rettitudine di volontà soprannaturale , che nasce essenzialmente dal dono della grazia santificante: e la mancanza di questa è un difetto che consegue i principii della natura umana necessariamente, è una limitazione; ed una rettitudine di volontà naturale , che potrebbe esser nell' uomo anco senza la grazia santificante, se Iddio l' avesse creato in istato di natura integra, senza la grazia: e la mancanza di questa rettitudine naturale è un difetto che consegue la natura umana per accidente. Onde un suo interprete preclarissimo, a cui appellano gli stessi nostri avversarii, dopo distinto l' amore di Dio soprannaturale, e l' amor di Dio naturale che si conteneva nell' originale giustizia, dice, [...OMISSIS...] . Di che conchiude che nel peccato originale rimase perduto non che l' amor di Dio soprannaturale, ma anche il naturale: [...OMISSIS...] . Di entrambi questi amori rimasero dunque privi anche i posteri d' Adamo spogli della originale giustizia. Ora il difetto dell' amore naturale di Dio, l' impotenza di amarlo naturalmente , quanto si conviene; è un difetto che consegue i principii della natura umana corrotta; e non mai quelli della natura umana, nell' ipotesi che fosse creata da Dio senza grazia, ma in pari tempo senza vizio. Obbiezione 3. Benchè S. Tommaso dica, che i difetti naturali, che peccato originale si dicono, sieno [...OMISSIS...] ; tuttavia dice anco che questi difetti potrebbero trovarsi in una natura non iscaduta per cagion di peccato, ma formata da Dio medesimo, nel qual caso non avrebbero ragione di colpa . [...OMISSIS...] Risposta . La conclusione che voi tirate dal testo addotto di S. Tommaso non procede in modo alcuno, perchè in quel testo S. Tommaso non parla del formale del peccato originale, ma solo del materiale . A convincervene vi basti quest' altro luogo di S. Tommaso medesimo: [...OMISSIS...] . Ora rileggete il testo addotto, e vedrete se il S. Dottore ivi parli dell' insubordinazione della volontà a Dio, che è il formale del peccato; ovvero se parli solo dell' inordinazione delle forze dell' anima, che è il materiale . Dell' insubordinazione della volontà , voi scorgerete che non vi fa motto alcuno, non dice se non che Iddio potea creare [...OMISSIS...] (2). S. Tommaso dunque non insegna nel testo addotto che Iddio avesse potuto creare un uomo la cui volontà non fosse subordinata a Dio, il che è il formale, l' essenziale del peccato; ma solo che avrebbe potuto crearne uno passibile, mortale, concupiscibile; il che forma nel presente ordine di cose la pena, l' effetto, e il materiale del peccato; ma nell' ordine ipotetico in cui Iddio l' avesse creato tale, sarebbe un difetto, a cui non si potrebbero nè pure applicare tali appellazioni. Laonde si dee conchiudere che dove S. Tommaso parla del peccato intero, racchiudente tanto la parte formale, quanto la materiale, egli nol dice difetto naturale, o conseguente i principii della natura, se non intendendo della natura decaduta, come ho detto nella risposta all' obbezione precedente; dove poi parla della sola parte materiale del peccato, egli concede che possa dirsi un difetto della natura stessa, e che l' uomo potesse esser creato da Dio in tale stato, benchè anche ciò per via di mera congettura, o con qualche limitazione, come vedremo (1). E in fatti egli è troppo assurdo l' attribuire a S. Tommaso l' insegnamento, che Iddio avesse potuto creare un uomo avente un FORMALE PECCATO, quale egli dichiara essere LA MANCANZA DI SUBORDINAZIONE A DIO DELLA VOLONTA` (2). Obbiezione 4. Quel naturale difetto col quale Iddio avrebbe potuto crear l' uomo, S. Tommaso lo chiama peccato originale; onde per esso non intende, come voi dite, la sola parte materiale del peccato. Risposta . Può tirarne questa conclusione solo colui che non conosce la maniera di parlare del Dottore angelico. Esponiamola, e sarà tosto dissipata l' obbiezione. L' espressione giustizia naturale , come l' usa S. Tommaso, comprende 1 la subordinazione della volontà a Dio; 2 la subordinazione delle potenze inferiori alla volontà buona. Il peccato originale poi è la perdita dell' originale giustizia; e però sotto tale espressione egli intende pure 1 l' insubordinazione della volontà a Dio, che perdette per propria colpa la grazia santificante, e così rimase abitualmente insubordinata e spossata, e 2 l' insubordinazione delle potenze inferiori alla ragione. [...OMISSIS...] , dice Francesco de Sylvestris, [...OMISSIS...] . Ora talvolta S. Tommaso dà il nome di peccato originale alla sola parte materiale del peccato, come dà il nome di giustizia originale alla sola seconda parte che si può dir materiale di questa giustizia. Tutto ciò c' insegna l' accennato interprete de Sylvestris, il quale, dopo esposta la dottrina di S. Tommaso che, [...OMISSIS...] ; si fa l' obbiezione: in qual modo S. Tommaso possa dire che resta il peccato originale dopo il battesimo, mentre la concupiscenza che rimane non è peccato, perchè non è [...OMISSIS...] ; e per rispondere a quest' obbiezione e spiegare in che senso S. Tommaso dica che rimanga il peccato dopo il battesimo, ricorre alla maniera di parlare da lui usata, mostrando che secondo questa, la giustizia originale , come pure il peccato originale ha due sensi: [...OMISSIS...] . Onde quando S. Tommaso dice, che il peccato originale è [...OMISSIS...] . Quando poi dice che resta il peccato originale dopo il battesimo perchè resta la concupiscenza, deesi intendere che manca solo la seconda parte dell' originale giustizia, [...OMISSIS...] . Ora si dee osservare, che la seconda parte della giustizia originale non è essenzialmente cosa morale, ma è morale solo in quanto dipende dalla prima parte; e così del pari la privazione della seconda parte della giustizia originale non è essenzialmente peccato, ma è peccato in quanto dipende e sta unito colla privazione della prima parte della giustizia originale, ed anche allora è ciò che forma la parte material del peccato. Quando dunque nell' uomo non manca la prima parte, quando non manca la RETTITUDINE DELLA VOLONTA` SUPREMA, allora la mancanza della sola seconda parte di essa giustizia non è più veramente peccato, e nè pure materia di peccato (cessandole la qualità di materia col cessarle l' unione colla forma); e tuttavia si suol dire ancora peccato per denominazione continuata, cioè perchè fu prima tale, e così pure si dice materia di peccato: dicesi poi reliquia del peccato, perchè inclina al peccato; [...OMISSIS...] . Quando dunque S. Tommaso dice peccato a quel difetto col quale potrebbe Iddio creare l' uomo, lasciandolo alla sua condizione naturale; egli parla al modo stesso come parlò l' Apostolo, quando disse che [...OMISSIS...] . Ma il Concilio di Trento dichiarò che non è quel peccato [...OMISSIS...] . Onde noi dicemmo che tale specie di peccati [...OMISSIS...] . Così l' obbiezione che ci si faceva rimane annullata. A conferma poi della stessa verità si osservi, 1 Che non si troverà mai un passo in S. Tommaso, nel quale egli insegni che Iddio poteva crear l' uomo « con una volontà a lui insubordinata ed avversa »; nel che sta il formale del peccato originale; ma dove parla de' difetti naturali, co' quali Iddio potea crear l' uomo, mostra d' intendere costantemente dell' insubordinazione delle parti inferiori alla ragione, cioè della concupiscenza presa in questo senso, o della mortalità, della passibilità ecc.; 2 Che in quei luoghi, ne' quali si ferma il Santo a mostrare, che que' difetti naturali non sarebbero COLPA se l' uomo fosse stato creato con essi, parla di que' soli difetti che non sono ESSENZIALMENTE morali, com' è l' insubordinazione e l' avversione della volontà a Dio, ma di quelli soli che acquistano la qualità di morali e di colpevoli da questo che hanno proceduto in origine da un peccato colpevole, come nel passo seguente: [...OMISSIS...] . In questo brano si vedono distinti i DIFETTI di cui si parla, 1 dal peccato libero di Adamo, 2 dalla privazione della grazia, e si dicono effetti dell' uno e dell' altra. Non sono adunque per se stessi il peccato, nè la privazione della grazia, la privazione della grazia e il vero peccato prese insieme sono cose che appartengono alla parte superiore dell' anima, e mettono in essa un' inordinazione. Prova dunque S. Tommaso, che meritano il nome di COLPA anche quei naturali difetti, che non sarebbero da sè peccato, unicamente perchè vennero dal libero peccato, e non si trasmettono soli, ma si trasmette per generazione anche il peccato, e venendo essi comunicati in tale compagnia pigliano anch' essi la natura di peccato e di colpa in quanto sono effetti intimamente legati col peccato. Così si debbono intendere tutti que' luoghi, nei quali S. Tommaso si estende a provare che que' difetti non hanno la nozione di peccato in sè stessi, ma la mutuano dal peccato libero che fu loro causa; divenendo anco un male fisico morale, se è prodotto dalla malizia della volontà. Obbiezione 5. Conceduto anche, che i naturali difetti di cui parla S. Tommaso quando dice, che Iddio avrebbe potuto creare un uomo con essi, non sia ciò che v' ha di formale nel peccato originale; ma solo ciò che presentemente forma la parte materiale di esso peccato, cioè la pugna della carne collo spirito, egli è da concedersi che con questa pugna l' uomo privo di giustizia non può amare Iddio sopra tutte le cose, nè naturalmente, nè soprannaturalmente. Dunque l' uomo creato da Dio con questa pugna, benchè non potesse amare Iddio sopra tutte le cose; tuttavia non avrebbe in sè peccato; stantechè Iddio non può creare l' uomo in peccato. Dunque nè pure l' anteporre la creatura al Creatore sarebbe peccato, se non dipendesse dalla libera volontà. Quello dunque che non è colpa, nè pure è peccato. Risposta . I teologi inclinati al Razionalismo cercano di descrivere la concupiscenza inferiore quale presentemente esiste nell' uomo nel modo il più mite: e giungono a dire, ch' ella non impedisce assolutamente l' uomo dall' eseguire tutta la legge naturale, e quindi, dico io, nè pure il dee impedire secondo essi, dall' amare naturalmente Iddio sopra tutte le cose (che è certamente il primo precetto anche della legge naturale), e questa a malgrado di tutte le più forti tentazioni; benchè concedano, che ella renda all' uomo tale virtù ed innocenza naturale assai difficile. Ma questo è il primo errore dei teologi razionalisti apertamente confutato da S. Tommaso in più luoghi. Il S. Dottore dà alle forze della concupiscenza due gradi; l' uno e il maggiore nell' uomo non battezzato, il quale è tale, che l' uomo non può colle proprie forze resistere a tutti i suoi assalti, ma dee cadere dopo qualche tempo di resistenza, almeno nascendogli forti tentazioni, in peccato mortale; l' altro e il minore nell' uomo battezzato; il quale è sempre vincibile colle forze, che l' uomo ha acquistato dalla grazia battesimale, usando i mezzi, che questa grazia gli presta, ma non sì, che non gl' incontri di essere da quel grado di forza leggermente ferito, cadendo ne' peccati veniali; da' quali nessun giusto, senza special privilegio, interamente si libera «( Dottrina del pecc. orig. XCVIII 7 CI) ». Ora s' attribuirà forse a S. Tommaso l' opinione che Iddio potesse crear l' uomo con quel grado di concupiscenza, col quale ora nasce, di maniera che fosse necessitato a peccare contro la legge naturale, e contro il Creatore? Qual torto non si farebbe con ciò al santo Dottore? Si adduca un solo testo dal quale apparisca ch' egli così la pensi, se si può: questo testo non fu mai addotto, nè mai s' addurrà: se ne possono all' incontro addurre molti che spiegano quant' egli sia lontano da un tale assurdo. Se S. Tommaso concede, che l' uomo lasciato alla natural sua condizione sentirebbe la pugna della carne colla mente [...OMISSIS...] , questo non determina ancora il grado della pugna: non è un dire che l' uomo creato da Dio nell' ordine naturale potesse avere quella stessa terribil lotta che ha di presente, perocchè di presente, [...OMISSIS...] . Dove mai dice questo S. Tommaso dell' uomo creato da Dio senza peccato e lasciato da lui all' ordine della natura? Di presente l' uomo che non può resistere alla molteplicità degli assalti della concupiscenza, benchè resister potrebbe a ciascuno, quando cade stretto in tali angustie ACCONSENTE, che senza qualche consenso non si dà certamente peccato, all' incontro nell' uomo creato da Dio senz' ordine soprannaturale non pone mai il santo Dottore alcun NECESSARIO CONSENSO AL MALE, ma solo un SENSO; perocchè dice [...OMISSIS...] . Non intende adunque di dire che Iddio potesse creare un uomo colla stessa lotta, colla quale or nasce l' uomo caduto, l' uom peccatore; ma con un' altra specie di lotta, che nè sarebbe peccato, nè l' indurrebbe mai necessariamente a peccato alcuno. Dunque l' uomo presente, secondo S. Tommaso, è moralmente guasto nella natura, a differenza di quell' uomo, che Iddio potesse creare nell' ordine naturale; il quale sarebbe sì limitato , ma non guasto . E perchè splenda ancora più chiara la dottrina dell' Angelico, si consideri, che l' obbiezione, che ci fa, parla d' una concupiscenza, colla quale l' uomo non potrebbe sempre amare Iddio sopra tutte le cose, nè pure naturalmente. Tale è certamente la concupiscenza, che, secondo S. Tommaso, trae seco uscendo alla luce l' uomo di presente. Ma si osservi, che una tale concupiscenza non è meramente quella che abbiamo designato come la seconda parte del peccato d' origine, e che spesso concupiscenza si dice; ma ell' è una concupiscenza che abbraccia tanto la prima (l' insubordinazione della volontà a Dio) quanto la seconda parte di esso peccato (l' insubordinazione delle potenze inferiori alla ragione). Poichè anche in questo senso si usa spesso la parola concupiscenza da S. Agostino, da S. Tommaso, e da tutta l' ecclesiastica tradizione. Ora, quando sotto il nome di concupiscenza s' intende non solo la semplice parte materiale del peccato d' origine, ma anche la formale, allora si verifica, che la concupiscenza è il peccato stesso originale, allora è una concupiscenza « cum privatione originalis justitiae », presa l' originale giustizia per l' ordinazione e la dirittura della volontà che è uno de' due sensi assegnatile. E questa concupiscenza è quella che ha forze sì potenti da captivare l' uomo sotto il peccato, e da trarlo nel consenso del peccato, se lungamente senza grazia dimora. Che alla concupiscenza vengano sì sformatamente accresciute le forze dalla stortura della volontà superiore, dov' è il formale del peccato d' origine, l' insegna espressamente S. Tommaso, e lo spiega così: [...OMISSIS...] , parole che S. Tommaso dice per dimostrare che presentemente l' uomo privo della grazia santificante non può rimanere a lungo senza mortalmente peccare. La concupiscenza adunque che impedisce l' uomo dall' amare Iddio sopra tutte le cose è quella che è unita colla parte formale del peccato, consistente nell' insubordinazione della volontà a Dio. Ma abbiamo veduto rispondendo alla quarta obbiezione, esser mente di S. Tommaso, che coll' insubordinazione della volontà a Dio, Iddio non potrebbe costituire mai un uomo. Dunque cade l' obbiezione quinta (1): dunque è falso che Iddio potrebbe crear l' uomo con una tale concupiscenza; o che il preferire qualche creatura al Creatore, l' amar più quella che questo, potesse mai non esser peccato; o che la natura umana presentemente sia solo spogliata de' doni gratuiti e non anco ferita nelle parti sue naturali, non certo ne' principii essenziali, ma quanto alle perfezioni accidentali (2). Obbiezione 6. Almeno voi dovete accordare, che « il sentire una qualche lotta della carne collo spirito »consegue dai principii della natura umana, e quindi si troverebbe in un uomo creato da Dio senza la grazia santificante. Risposta . Questa obbiezione eccede i confini della questione. Noi avevamo tolto a provare che l' uomo presentemente non solo è spogliato della grazia, ma è ferito moralmente nella sua stessa natura; e questo è provato coll' autorità di S. Tommaso, disciolte tutte le obbiezioni che si potevano fare per eludere l' autorità sua di tanto peso nella cristiana teologia. Ma per soprappiù rispondo anche a questa sesta obbiezione, osservando, che si possono distinguere tre necessità venienti dalle potenze inferiori: 1 necessità, di meramente sentire, [...OMISSIS...] . 2 necessità, di provare tentazione nella volontà di guisa che la volontà viene incitata ad amare qualche cosa contro l' ordine morale, [...OMISSIS...] . 3 necessità, di consentire alla tentazione o tentazioni moltiplicate, [...OMISSIS...] . Quest' ultima è la trista necessità dell' uomo caduto, che descrive S. Tommaso quando dice, che l' uomo, senza la grazia divina, non può a lungo astenersi dal peccato mortale. Questa necessità non indica solo la nudità della grazia santificante , indica una profonda mortal ferita nella stessa natura morale dell' uomo. Fu provato, che a questa Iddio non potrebbe abbandonare un uomo da lui creato, ciò sconvenendo alla sua infinita bontà e santità. La seconda necessità è quella che si trova nell' uomo caduto, ma rigenerato, è la madre feconda delle venialità. Anche questa è una trista necessità, un vero male morale. Nè pure a questa, diciam noi, potrebbe Iddio abbandonare l' uomo che uscisse senza grazia dalle sue mani (2). Quanto poi alla prima necessità, quella di sentire meramente ciò che è sensibile, senza che la volontà sia eccitata a preferire il bene sensibile al suo dovere, non volendolo il libero arbitrio (1): questo non è certamente un male morale, nè un morale difetto. Dove la volontà non entra affatto con atti disordinati, non ci può essere immoralità: ogni immoralità supponendo qualche attività volontaria. Ora, se questa necessità di sentire sia in qualche parte condizione della natura umana lasciata a sè stessa ed eccellentemente compaginata, questa non è questione teologica; ma meramente filosofica. Si può opinare l' una e l' altra cosa senza pregiudizio della fede. E però si può opinare che Iddio potesse crear l' uomo nell' ordine della natura con questa necessità di sentire, se si tiene ch' ella sia una necessaria limitazione della natura, e si può opinare il contrario, se si tiene che l' uomo anche naturalmente, supposta la natura sua perfetta nell' ordine naturale, dovesse avere un libero arbitrio così signore della volontà da impedire a questa, col suo imperio, anche i primi spontanei movimenti, le prime tendenze attive verso il bene sensibile, opposte all' ordine morale, o a prevenire l' atto stesso del senso. Aggiungerò due osservazioni: 1 Alcuni teologi avvisano, che l' uom primo costituito in grazia non soggiaceva nè pure alla necessità di sentire, [...OMISSIS...] dice il De Rubeis, [...OMISSIS...] . Quello che è certo si è, che la sensazione non avrebbe attratto e nè pur cominciato ad attrarre necessariamente la buona volontà: questa avrebbe potuto impedire ogni lusinga della sensazione sopra di sè con un amore assoluto e non comparativo al proprio dovere. Onde S. Agostino, [...OMISSIS...] . 2 Que' teologi i quali sostengono possibile lo stato di natura pura , intendendo per esso una condizione, nella quale l' uomo sentirebbe la pugna della concupiscenza colla volontà buona, a tale che questa non potrebbe sempre resistere, ed amare Iddio per lungo tempo sopra ogni cosa, questi teologi, dico, nello stesso tempo che dichiarano possibile questo stato dell' uomo, non intendono di lasciar veramente l' uomo ignudo di aiuti gratuiti; ma anzi dicono, che Iddio supplirebbe al bisogno con aiuti ordinarii e speciali, i quali però essendo transeunti e non abituali non impedirebbero che si potesse quello dire « stato di natura pura. »Così Tommaso di Lemos, [...OMISSIS...] . Aggiungiamo alle addotte, altre testimonianze ancora, le quali dimostrino che il parlare di tutta la tradizione ecclesiastica esprime continuamente non già solo uno spogliamento de' doni gratuiti, ma un guasto profondo nella stessa natura. 1 Un gran numero di scrittori ecclesiastici antichi e moderni dicono chiaramente, che la volontà dell' uomo che nasce è curva verso il male, di guisa che convien ritorcerla indietro affine d' addurla alla rettitudine della legge divina, come appunto si farebbe d' un pallone storto. S. Ilario di Poitier commentando quelle parole del salmo [...OMISSIS...] . Si parlerebbe egli d' un vizio opposto alla legge di Dio, da cui conviene togliere il cuore; per dire che il cuore è naturalmente retto? Tanto più che trattasi d' un cuore che già ha la grazia colla quale può staccarsi dal vizio della natura. Che cosa sarebbe questo vizio nel sistema de' nostri Anonimi? La natura spoglia della grazia? no. Che dunque? 2 Se la natura non fosse che spogliata della grazia, basterebbe vestirla di questa, e sarebbe tolto il suo difetto. Ma non così le scritture ed i padri descrivono la giustificazione dell' uomo. S. Paolo parla della deposizione dell' uomo vecchio, e della vestizione del nuovo. Che uomo vecchio ci sarebbe a deporre, se la natura non ha alcun male in se stessa? Dovrebbe bastare di rivestire l' uomo vecchio, senza deporlo, anzi conservandolo tutt' intero. Al tenor dell' Apostolo consuonano i padri. S. Ilario di Poitier così descrive la giustificazione: [...OMISSIS...] . Se la natura umana è di presente senza difetto, che cosa avrebbe ella da deporre? Nulla: avrebbe solo da vestir la grazia. Medesimamente le Scritture, i Concili e i Padri non dicono solo che diventa novo, ma prima dicono che viene seppellito nella morte di Cristo, [...OMISSIS...] , dice S. Leone, [...OMISSIS...] , che è il costante insegnamento di S. Paolo, [...OMISSIS...] (esprime la remozione di ciò che v' ha di male nell' uomo), [...OMISSIS...] (esprime il vestimento della grazia di cui l' uomo viene coperto, deposta la reità del peccato) (3). 3 I Padri non parlano solo de' doni che abbiamo perduto col peccato di Adamo, parlano d' un male positivo, che abbiamo ricevuto dentro di noi. Così S. Gregorio Nazianzeno: [...OMISSIS...] . Questa pravità, questa malvagità non può certo significare un semplice spogliamento della grazia: è qualche cosa che si riceve dentro di se, non qualche cosa che si lascia. Medesimamente il mal dell' uomo si chiama da' Padri un veleno comunicatogli dal serpente, e un veleno non indica una semplice perdita del bene, ma un vero acquisto del male. Così Origene nel commento sulla Cantica, esponendo le parole del Salmo XLII, v. 1, [...OMISSIS...] . La tradizione ebraica parla costantemente d' un veleno nascosto nel frutto vietato, che guastò la costituzione intera dell' uomo (2). 4 Quindi anche il peccato originale si chiama costantemente un morbo , un languore della natura, un contagio , una tabe: parole tutte non significanti un mero spogliamento del vestimento soprannaturale, ma un vero guasto nella naturale costituzione fisico7morale. Così S. Basilio: [...OMISSIS...] . E S. Ambrogio di Cristo, [...OMISSIS...] . S. Anselmo poi, [...OMISSIS...] . 5 I santi Padri di più distinguono espressamente fra lo spogliamento de' doni supremi, e le ferite della natura, e attribuiscono l' uno e l' altro effetto al peccato originale: applicandogli la parabola del Samaritano non solo spogliato dai ladri, ma ancor ferito. Così S. Ambrogio: [...OMISSIS...] ; dove anche chiaro apparisce che S. Ambrogio non mette la morte, l' uccisione dell' uomo nel semplice dispogliamento della grazia, ma nella disorganizzazione morale prodotta dalla ferita del peccato. 6 I padri e i dottori dicono oltracciò, che l' uomo nasce lordo, macchiato (4), immondo, infetto, espressioni tutte che lungi dall' esprimere una semplice privazione della grazia, indica una positiva deformità rimasta nella natura umana. Così il Venerabile Beda: [...OMISSIS...] . E prima di lui S. Ambrogio: [...OMISSIS...] . Da' quai luoghi si vede, come il gran vescovo milanese fissava l' occhio sulla corruzione annessa alla generazione per ispiegare il contagio del peccato astraendo dalla nozione di colpa. Prima però ancora di S. Ambrogio, lo stesso Origene, quando parlò guidato dalle parole della scrittura, descrisse il peccato originale come una verissima sordidezza della natura umana non pur nuda, ma sozza: [...OMISSIS...] . 7 Sono i santi Padri eloquentissimi a descrivere i mali profondi, che il peccato d' origine produsse nella natura. Ecco alcuni de' loro passi. S. Giovanni Grisostomo: [...OMISSIS...] ; passo recato anche da S. Agostino contro i Pelagiani (6). S. Atanasio: [...OMISSIS...] . Ci si dica, quando volessero dire solamente che nell' uomo ora è solo la privazione della grazia, colla qual privazione Iddio potrebbe crearlo, non avrebbe potuto dirlo schiettamente? E che di più facile? O avrebbe detto in quella vece che tutte le cose sono ora contaminate, tutte perturbate? Che il paradiso sia chiuso all' uomo senza grazia, s' intende; ma perchè aperto l' inferno? perchè nemico il cielo? Come si potrebbe significare più vivamente il guasto dell' umana natura, che dicendo l' uomo corrotto, e divenuto simile a' giumenti? potrebbe Iddio creare un uomo corrotto? e a vili giumenti somigliante? o l' uomo che fosse senza la grazia, ma colla natura del resto perfetta, potrebbe mai a' giumenti paragonarsi? E se la natura fosse rimasa senza difetto e sol priva dell' ordine soprannaturale, come potea dire S. Gregorio di Nazianzo: [...OMISSIS...] . Anzi dovea dire: « non son caduto che dall' ordine soprannaturale: del resto ho tutto il mio: sto ancor bene: sono ancor sano: non sono dannato ». E come Cristo avrebbe salvato tutto l' uomo, se tutto non fosse perito? se fosse perito solo quanto all' ordine soprannaturale, v' avea una parte nell' uomo, che non avea bisogno di Cristo, e quest' era tutta intera la natura umana, nella quale, secondo i nostri teologi, non v' ha difetto alcuno. Ma il parlar della Chiesa è ben altro: ella non si stanca di ripetere il concetto, che Tertulliano così espresse: [...OMISSIS...] . Del pari, potea esprimersi con più di chiarezza la corruzione della natura umana ed il bisogno della ristorazione operata da Cristo, di quel che facesse S. Cirillo di Gerusalemme in quelle parole, [...OMISSIS...] . . E non si contentano i Padri e i maestri in divinità di esprimere con parole traslate il guasto intimo, che nell' ordine naturale recò all' uomo il primo peccato: lo dichiarano anche in parole proprie. L' esser privo meramente di grazia non costituisce alcuna malizia; ma la tradizione tutta vede nell' anima dell' uomo espressamente LA MALIZIA, il disordine morale. S. Ilario di Poitier dice: [...OMISSIS...] . La qual malizia è così descritta da S. Bonaventura: [...OMISSIS...] , or non si ferma qui il santo, come gli Anonimi fanno, ma seguita: [...OMISSIS...] . Ora la natura umana senza alcun vizio contratto, ma sol privata dell' ordine soprannaturale, sarà ella d' indole così maligna, da dover esser priva dell' abito di tutte le virtù, prona ad ogni genere di colpa, soggetta alla concupiscenza, schiava e schiava del demonio? Il dirla tale per se stessa, non sarebb' egli un rovesciare, non che altro, nel Manicheismo? Questo appunto dicevano i manichei impugnati da S. Agostino. Ma udiamo anche Gersone, com' egli descriva la malizia, che col peccato d' origine l' uomo ha contratto: [...OMISSIS...] . Tale è la definizione di Gersone. Ora la natura pura avrà ella un' abituale avversione a Dio? quest' abito può egli esser creato da Dio stesso colla natura? o l' abito non è sempre cosa distinta dalla natura che lo riveste? La natura umana, secondo Gersone, non solo ha deposto l' abito della grazia, ma vestito altresì quello dell' avversione a Dio, il quale la rende inchinevole a negare la giustizia a chi è dovuta. Pur seguitiamo ad udire il Gersone. [...OMISSIS...] Di che poi conchiude così: [...OMISSIS...] . Ora avrebbe potuto Iddio creare un uomo nel qual fosse « carentia utriusque partis justitiae », secondo che s' esprime Gersone? quei teologi cattolici che sostengono la possibilità dello stato di pura natura, o come si potrebbe chiamare di natura non intera, aggiungono, come vedemmo, che Iddio supplirebbe al bisogno con degli aiuti speciali, ma in tal caso, cessa la questione (2): questi aiuti speciali sono appunto quelli che dimenticarono nella penna i nostri Anonimi; e così s' allontanarono dalla sana e comune dottrina. 9 S. Giovanni Crisostomo rassomiglia la corruzione dell' anima pel peccato alla corruzione e dissoluzione del corpo, e l' attribuisce al primo peccato [...OMISSIS...] . Questa somiglianza tra la corruzione dell' anima pel primo peccato e la corruzione del corpo torna frequente negli scrittori ecclesiastici; mi valga in esempio un brano di Raimondo Sabunde [...OMISSIS...] . Dalle quali maniere di parlare si scorge 1 che i dottori cattolici non ripongono la morte dell' anima nella mera privazione della grazia, ma in un guasto simile a quello della disorganizzazione del corpo; 2 che l' anima così corrotta e macchiata dal peccato, com' è di presente, non poteva uscire dalle mani del Creatore. 10 Sono del pari gli antichi maestri costantemente intesi ad assegnare la sede dell' original peccato nella volontà, descrivendo il disordine, e l' impotenza di questa al compiuto bene. Così S. Gregorio Nisseno: [...OMISSIS...] . S. Macario d' Egitto (an. 370) distingue espressamente tra la perdita della grazia che dà diritto alla visione beatifica, e il possesso della propria natura che s' ha per la volontà ben ordinata; e dice non solo quella perita pel peccato, ma ben anco questa: [...OMISSIS...] , che è la grazia santificante. Questa perdita della possessione della propria natura fu oggetto d' una definizione di Papa Celestino, il quale in uno de' celebri suoi capitoli dice: [...OMISSIS...] . Il che Teofilatto ascrive agli affetti pravi, che opprimono l' uomo. [...OMISSIS...] . Sarà ella questa la natura pura dell' uomo? Sarà dunque l' uomo, per condizione di sua natura, venduto al peccato, sotto il dominio del peccato oppresso dagli affetti pravi in guisa da non potere rilevare il capo? Se questo fosse natura, non sarebbe la natura per sè mala de' manichei? 11 Quindi è anco, che si rassomiglia il peccato originale ad un vincolo, che lega l' umana natura, il che è troppo più che lasciarla nuda, ma libera. Così S. Ireneo: [...OMISSIS...] . Così pure S. Gregorio Nazianzeno del Battesimo [...OMISSIS...] . E Clemente Alessandrino usava la stessa maniera di favellare: [...OMISSIS...] . Al che s' accorda il parlare di Teodoreto. [...OMISSIS...] L' esser legata è ella cosa propria della natura umana? il legame rappresenta qualche cosa di sopraggiunto alla natura, non certo una condizione della natura stessa. Essendo dunque di presente legata la natura dell' uomo, essa natura dovette esser liberata e disciolta da Cristo, frase comune presso i Padri, in esempio della quale bastino recare queste parole dello stesso Teodoreto, [...OMISSIS...] ; che ripetono quello che avea insegnato Cristo di propria bocca, allorché disse. [...OMISSIS...] . 12 Un altro argomento validissimo, per conoscere intorno a ciò la mente di S. Agostino, si è l' osservare com' egli rispose ad una obbiezione di Giuliano. Abusando questi d' un luogo di S. Basilio, argomentava così: [...OMISSIS...] . Ora se S. Agostino avesse tenuto il sistema de' nostri Anonimi, quanto gli era facile rispondere a Giuliano, che nè la natura, nè la volontá umana ritiene alcun male dalla prevaricazione d' Adamo, ma solo è priva de' gratuiti favori? Ma non venne e non potea venire nella mente d' Agostino una tale risposta, e in quella vece rispose accordando che [...OMISSIS...] . Ammetteva dunque tutta intera l' antichità, ammetteva con essa S. Agostino, un vero male annesso alla natura umana, che Iddio solo potea da essa separare. Se questo male fosse un constitutivo della stessa umana natura, di maniera che creata da Dio priva dell' ordine soprannaturale, ella dovesse seco portarlo; già s' ammetterebbe una natura subbietto essenzialmente del male: che è appunto l' errore de' manichei. 13 Ora non solo dicesi la natura legata, e serva del peccato, ma di conseguente anco schiava del demonio. S. Ottato Milevitano: [...OMISSIS...] . Nè dicano già i nostri Anonimi, che questa è una maniera traslata di favellare, perchè S. Agostino risponderebbe loro, ció che rispose a Giuliano, che tentava di evadere per simili scappatoi, [...OMISSIS...] . Che anzi tanta si riputò l' influenza del nemico sull' uomo peccatore, che allo stesso peccato che porta in se si diede nome di serpente (3). 14 Finalmente anche dalle pene che trae seco il peccato d' origine può inferirsi lo spogliamento della grazia e il guasto della natura. Perocchè alla grazia compete il diritto della visione divina, ed all' incontro, [...OMISSIS...] . Ma colui, che muore col peccato originale non solo perde la vision beatifica o il regno celeste; ma ancora la vita dell' anima, perchè resta in lui il peccato definito dal sacro Concilio di Trento mors animae . Onde il Papa Siricio: [...OMISSIS...] , scrisse ad Imerio, [...OMISSIS...] . Vero è che noi siamo altamente persuasi, che oltre la redenzione di quegli uomini, a cui s' applicano per mezzo del battesimo i meriti della passione di Cristo, anche gli altri uomini, che muoiono senza colpa mortale partecipano della liberalità del Salvatore, il che noi chiamamo donazione di Cristo. E di questa sentenza molte autorità si potrebbero addurre, non solo de' Padri, ma delle Scritture, tra gli altri il testo del salmo citato dall' apostolo, che dice, non solo aver Gesù Cristo condotta sua schiava la schiavitù, cioè gli schiavi del demonio da lui redenti, ma ancora aver ricevuto dei doni da distribuire agli uomini: [...OMISSIS...] . Il che era figurato in Abramo, che fece Isacco suo erede, e dimise con dei doni i figliuoli delle schiave. Ed è d' altra parte di fede, che il beneficio della risurrezione è un dono fatto da Cristo a tutti gli uomini, anche ai non redenti. Onde noi già mostrammo, in un opuscolo su questo argomento, che i bambini morti senza battesimo possono benissimo, dopo la risurrezione, godere d' una naturale felicità, ma non perchè questa si appartenga loro di diritto, ma perchè è conveniente alla somma generosità di Cristo, ed alla sua gloria. Questa felicità dunque gratuitamente loro largita non può addursi a provare che il peccato originale non importi alcun disordine nell' umana natura, come vogliono i nostri teologi razionalisti, ma vale solo a provare la ricchezza e la bontà e l' amore di Cristo verso gli uomini. Lasciato dunque da parte quel che viene da Cristo come gratuito suo dono, e considerata la natural pena del peccato originale ne' bambini, questa è la morte, non pur del corpo, ma dell' anima, che nell' altra vita consisterebbe in uno stato d' eterna inazione, conservata solo all' anima intellettiva l' immota intuizione dell' essere, per la quale esiste. Il peccato originale dunque, cui l' uomo riceve coll' esser generato, è un male morale , e questo necessario . Dunque si danno de' mali morali necessarii. Questo male morale necessario viene nella sua origine rimota da un atto di libera volontà commesso dal primo padre: dunque il male morale è necessario nella sua prossima cagione, ma ha in pari tempo per cagione rimota anch' esso, la libertà. Che anzi la libertà umana dee essere sempre la cagion rimota de' mali morali necessarii, perchè altrimenti si farebbe autore di essi Iddio, o la natura mala, cadendo nel Manicheismo. Tali sono le dottrine della Chiesa: i teologi razionalisti le accusano di Calvinismo e di Giansenismo: di cui sono un documento gli ultimi opuscoli anonimi. Noi ci faremo ad esaminare di nuovo la questione in tutta la sua generalità. Due sono i principali errori de' calvinisti e de' giansenisti intorno all' umana libertà: Essi sostengono 1 Che l' uomo nello stato di natura caduta abbia perduto interamente ogni libertà, di maniera che egli al presente operi sempre necessariamente; operando il bene quando prevale in lui il peso della grazia, e operando il male quando prevale in lui il peso della concupiscenza, senza poter fare altramente; 2 Che operando con una tale volontà necessitata, l' uomo nello stato presente meriti, o demeriti. Tutti gli errori essendo abbinati, come sono sempre abbinati gli estremi, quali saranno gli errori opposti ai due errori calviniani e gianseniani sopra enunciati? I seguenti: 1 Che ogni atto dell' umana volontà sia essenzialmente libero, e la parola volontario non abbia altro significato che quello di libero , e che non sia nè pure atto umano quello che non è libero; sicchè l' uomo operi sempre con una libertà d' indifferenza; 2 Che perciò nella sfera delle cose morali non v' abbia che il merito e il demerito; non potendosi dare moralità buona o cattiva, che sia necessaria. Questi dunque sono i due estremi. Che cosa sente la Chiesa cattolica? Ella cammina dirittamente nel mezzo, e decide contro i primi: 1 Che la libertà d' indifferenza non è perita nell' uomo; 2 Che non si dà merito o demerito nello stato di natura caduta se non allora che l' uomo opera colla detta libertà di indifferenza. Decide ancora contro i secondi: 1 Che l' uomo non opera sempre con libertà d' indifferenza, ma che talora egli opera con una volontà priva di coazione, ma non priva di necessità; senza però che allora meriti nè demeriti; 2 Che quando la volontà umana soggiace alla necessità, se tale necessità è moralmente buona, viene da Dio; se ella è moralmente cattiva, viene da un abuso precedente della libertà umana, fatto o dall' uomo stesso in cui quella trista necessità si ritrova, ovvero dal primo padre; di maniera che ogni qual volta vi è la necessità nella causa prossima (la volontà istante), vi è o vi fu la libertà nella causa rimota (la volontà che liberamente produsse quel malo stato della volontà). Ora chi imprende a difendere la dottrina della Chiesa cattolica, converrà, per ragion di chiarezza, che incominci a distinguere due questioni. Poichè 1 Altro è il dimandare, se, considerata la sola natura della volontà umana, questa abbia due maniere di esser disposta, e di operare, l' una necessaria, e l' altra libera; e posto che sì, se operando il male morale colla volontà libera in causa, ma all' istante necessitata, o avendo allo stesso una suprema propensione, ella contragga od abbia in sè qualche specie di deformità morale; e 2 Altro è il domandare, se, posto il presente ordine di cose e la caduta adamitica, Iddio permetta di fatto, che la volontà umana soggiaccia talora alla necessità del male. La prima è questione astratta e filosofica; la seconda è questione di fatto e teologica, questa è legata con quella, non è quella. Noi cominceremo dalla prima: considereremo la volontà umana in sè stessa, e cercheremo se per sua natura questa volontà abbia i detti due modi di operare e di esser disposta, il necessario ed il libero; e se aderendo al male morale necessariamente, ella contragga o no qualche deformità morale. La prima parte di questa questione si dee sciogliere affermativamente per consenso di tutti i teologi cattolici e de' filosofi. Che la volontà dunque di sua natura abbia i due detti modi di operare il volontario ed il libero, non è a spenderci altre parole. Resta solo che vediamo se, dato che la volontà aderisca necessariamente al male, ella contragga da questa adesione per ciò solo una deformità. S' avverta che qui si tratta di un male morale che sia tale per essenza, com' è l' odio di Dio o del prossimo, l' amore della menzogna, l' amore disordinato di se stesso, e simili, e non che sia male solamente perchè vietato dalla legge positiva; giacchè in quest' ultimo caso non può aver luogo la questione, cessando ogni legge positiva qualora la volontà non possa adempirla. Sosteniamo dunque, che posta l' adesione al male morale della volontà, questa, anche se come soggetto o causa prossima di quell' adesione (1) soggiace alla necessità, dalla stessa e sola adesione contrae una deformità morale. Ed eccone brevemente le prove. I E` di fede che l' anima volitiva contrae necessariamente il peccato originale, e ne riceve una macchia, una deformità (1). Dunque non si può negare, che il male morale che aderisce all' anima, anche con necessità, perciò solo che le aderisce, la deformi; II Non vi sarebbe possibilità di precetto vetante il male , se il male non fosse tal cosa che deforma la volontà che in qualunque modo le aderisce; poichè male , ossia « oggetto moralmente cattivo (2) »altro non vuol dire, se non ciò che, informando la volontà, la disordina; e senza un male, un oggetto da fuggirsi, non può esservi precetto che ne ordini la fuga. Distinguansi bene le varie maniere di concepire l' oggetto. C' è l' oggetto materiale , che è la cosa considerata in se, per esempio Dio e il prossimo in se stessi; non è questo, a cui si riferisce prossimamente la legge vetante. C' è l' oggetto intellettuale , per esempio Dio e il prossimo presenti meramente all' intelletto; nè pur a questo si riferisce prossimamente la detta legge. C' è finalmente l' oggetto morale , cioè l' oggetto in quanto è amato ovver odiato: questo è l' oggetto prossimo della legge vetante. La legge vieta l' odio di Dio e del prossimo . L' oggetto prossimo della legge vetante è dunque ciò che prossimamente produce la deformità della volontà: la legge vieta quella mala adesione . L' odio di Dio e del prossimo per sè ed assolutamente la deturpa. Il male morale dunque è una deordinazione della volontà, la quale è tale in sè stessa, senza bisogno di sapersi s' ella sia stata prodotta necessariamente o liberamente. Essendo mala in se stessa, la legge la proibisce: quella malvagità è anteriore alla legge o al precetto, è fondata nella natura delle cose. Ella è quella che rende possibile il precetto. Questo viene dopo, e non parla che alla libertà , non obbliga che la libertà; la quale se obbedisce al precetto merita, e se disubbidisce, demerita. Ma se la libertà non esiste; se altro non vi ha nell' uomo che la volontà necessitata; la deordinazione di fatto non può mancare, benchè senza demerito, e quella deordinazione è una immoralità; perchè risiede nella volontà; e se questa è suprema nell' uomo, come accade nel bambino non battezzato, dicesi ed è peccato. Egli è vero, che la volontà potrebbe disordinarsi anco in quella sola parte che è libera. Questo è il caso del precetto positivo che è dato alla sola libertà; ond' anco non ammette che una specie sola d' immoralità, il demerito. E tuttavia, come dicevamo, anch' egli si riferisce ad un male reale esistente nella natura delle cose; qual' è l' inobbedienza , che si può definire la deordinazione della libertà . III Se mancasse il fondamento nella natura della cosa, se mancasse il male oggettivo, la deordinazione della volontà , o necessitata, trattandosi di cose intrinsecamente cattive, o libera, trattandosi anche di precetti positivi; se mancasse in una parola l' oggetto prossimo del precetto, nè pure potrebbe esservi colpa; appunto perchè come abbiamo detto al numero precedente non si dà possibilità di precetto, senza un male morale , oggetto del precetto. E però S. Tommaso dopo aver parlato del peccato semplice e della sua deformità intrinseca dicendo, che ella consiste nel deviare della volontà dal fine ultimo dell' umana vita, [...OMISSIS...] passa alla colpa, aggiungendo, ET IDEO (cioè essendovi precedente il male morale da evitarsi dall' umana libertà, che se non ci fosse, la colpa non sarebbe possibile) [...OMISSIS...] ; mostrando così, che anteriormente alla colpa c' è il male morale; e che perciò s' incolpa l' uomo che opera liberamente [...OMISSIS...] , perchè opera il male, perchè commette il peccato, che è l' oggetto della colpa, e della stessa legge vetante. IV Altra prova validissima io deduco dalle perniciose conseguenze della dottrina opposta. Sia vero, come vogliono i teologi razionalisti, che in quel tempo, nel quale l' uomo è privo di libertà nel suo operare, non vi avesse male morale di sorte alcuna. In tal caso quest' uomo non sarà obbligato a cercare i mezzi di accrescere le sue forze morali, non sarà obbligato neppure a domandare da Dio aiuto coll' orazione. Poichè a qual fine lo dimanderebbe? per evitare un male morale, no; chè egli non fa alcun male morale fin che è necessitato; e quando non è necessitato, egli non ha bisogno d' aiuto; può evitare il peccato colle sue forze: [...OMISSIS...] dice S. Agostino, [...OMISSIS...] . Nè vale il dire che il peccato, che commetterebbe negligentando d' accrescere le sue forze, è libero nella causa rimota; perocchè questa risposta supporrebbe quello che si nega, cioè che ci fosse un male da evitare; mentre si sostiene, che l' uomo costituito in necessità non fa alcun male, non ha per questo peccato, checchè egli faccia. Nè pur questa necessità è cosa cattiva, ch' egli debba cercar di evitarla, nel sistema de' nostri teologi; perchè cattiva non può essere, se non ha un oggetto cattivo, ma il suo oggetto cessa d' esser cattivo in faccia ad essa: negandosi che una volontà necessitata abbia un oggetto veramente cattivo che la deturpi. V Ebbe torto dunque, secondo questi maestri, nostro Signor GESU` Cristo, quando mise in bocca de' suoi fedeli quelle parole, « Et ne nos inducas in tentationem », parole tutt' al più utili, secondo il loro sistema, a renderci la fuga del male più facile, ma non necessaria, perchè o possiamo evitarlo colle nostre forze, o, se non possiamo, non è male; nè male è la necessità di commetterlo; rimanendo anzi per essa distrutto il male. Che anzi questa necessità in un tale sistema meriterebbe di dirsi buona, e dovremmo procurarcela. Ebbe del pari torto S. Paolo, quando consigliò a maritarsi coloro che non si potessero contenere, dicendo che « melius est nubere quam uri », giacchè, secondo i nuovi maestri, o l' uomo si può sempre contenere, o almeno chi non si può contenere, non fa male, se non si contiene; e però è inutile cercare un mezzo d' evitare ciò che non è male. Anche il sacro Concilio di Trento dee aver dato una ragione mal fondata, per non isciogliere i cherici costituiti negli ordini sacri, e tentati contro la castità, dalla legge del celibato, dicendo, che colla preghiera essi poteano bene ottener da Dio la grazia della continenza (1). I nostri maestri avrebbero dato una risposta più facile: Chi non può contenersi, non fa male ponendo l' opere della carne. In somma la dottrina che non vuole riconoscere altro male morale deformante la volontà e l' anima umana che il libero , distrugge la pietà ed apre l' adito ad ogni scostumatezza ed empietà, e questa è appunto una gran causa del lassismo in morale. VI Qui ritorna ancora, chi ben considera la questione circa i peccati d' ignoranza, che hanno una causa prossima non libera. Pelagio e Celestio che negava furono condannati dalla Chiesa (2). E condannati perchè il peccato originale si contrae pure ignorantemente e necessariamente, e pur esso è peccato, sicchè chi non riconosce peccato dove non v' è cognizione attuale , viene a negare l' originale infezione quanto colui, che non riconosce peccato dove non v' è libertà . Furono dannati ancora perchè al peccato originale riduconsi certi atti peccaminosi, in cui l' uomo, se non ha la grazia di Cristo, necessariamente cade, notar dovendosi, che qui intendesi per ignoranza non una mera nescienza , ma un errore del giudizio affascinato nelle cose morali dalla passione. [...OMISSIS...] . I quali atti, qualora del solo peccato d' origine sono effetti, non hanno altra colpa diversa che quella dello stesso originale peccato. In terzo luogo ancora furon dannati perchè venivansi con ciò ad escludere i peccati commessi per ignoranza invincibile , di quelle cose, di cui ha l' uomo dover d' istruirsi: dovere che egli non punto avrebbe, se non si desse un peccato, che non cessi d' esser peccato anche in chi ignora che sia. Conciossiachè e come mai potre' io avere obbligazione di conoscere i miei doveri, se, non conoscendoli, già non pecco? Conciossiachè se non li conosco non posso eseguirli, se non posso eseguirli, non sono più obbligato. Laonde io farò anzi bene a conservare la mia ignoranza, che mi lascia libero di far ciò che voglio senza però peccare! Laonde nella Censura fatta da molti Vescovi dell' « Apologia pe' Casisti (1) », già condannata anche dall' Apostolica sede con suo decreto del 21 Agosto 1659, si proscrissero più proposizioni, perchè [...OMISSIS...] . S. Tommaso dunque ha ragione, e han torto i moderni teologi che negano il male morale in causa prossima necessario, quando dice, che l' ignoranza vincibile non iscusa dal peccato, dando di ciò la ragione seguente: [...OMISSIS...] . VII Queste ultime parole mi conducono a por qui una settima ragione che prova l' esistenza d' un male morale nella sua causa attuale ed instante necessario, benchè libero nella causa rimota. I teologi morali si propongono la questione: se chi si mette nell' impossibilità di adempire alle sue obbligazioni pecca poi col non eseguirle. Alcuni rispondono, che non pecca in actu , ma solo in causa . Il Bolgeni si oppone, sostenendo, che pecca in causa ed anche in actu . [...OMISSIS...] . Se fosse vera la sentenza di questo autore, avremmo qui de' peccati necessarii in causa prossima. Io non di meno non posso acconsentirgli (2), ma trovo di dover distinguere. O l' atto peccaminoso che quest' uomo fa per necessità è un attuale deordinazione della sua volontà; o no. Nel primo caso c' è un nuovo male morale in lui; nel secondo, tutto il male morale sta nell' ommissione o commissione libera, per la quale s' è messo nella necessità di peccare. Poniamo il caso dell' uomo, che vinto dal talento di bere s' ubbriaca a malgrado ch' egli prevegga che nell' ubbriachezza commetterà molti altri peccati. L' ubbriacarsi è un peccato che comprende tutti i peccati da lui preveduti, li faccia o no; e in questo senso (in causa) è reo di tutti. Ma sarà egli vero, che come vuole il Bolgeni, faccia altrettanti peccati attuali, quant' egli ne farà di fatto? Ne verrebbe l' assurdo, che se de' preveduti da lui ne facesse di più, sarebbe più reo, se ne facesse di meno, sarebbe meno reo: ora il farne di più o di meno, non dipende ormai più dal suo libero arbitrio. Dico dunque, che una sola è la colpa che comprende tutti i peccati preveduti, almeno in confuso, non tutti i peccati realmente commessi nello stato di ubbriachezza. Ma poi tra questi peccati che commette ubbriaco e di cui nella causa è colpevole, ve ne posson essere di quelli che sono anche peccati in atto, benchè non colpe; ed altri che in atto non sono nè colpe nè peccati. Perocchè è solo peccato nuovo ciò che pone una nuova inordinazione della volontà. Laonde se ubbriaco facesse degli atti d' odio di Dio, e del prossimo; atti che puó e conoscere e volere anche un ubbriaco; questi disordinerebbero la sua volontà, benchè fosse trascinata a ciò dalla passione, dall' abito, o dalla mala inclinazione. Così se s' immergesse in carnalitá a cui l' eccitamento del vino il trascina, conoscendo e volendo quello che fa, chè anche un ubbriaco può conoscere e volere: la sua volontà riceverebbe un nuovo male morale: e male morale sarebbe l' inclinazione contratta a tali peccati, che in lui si rimarrebbe anche risanato dall' ubbriachezza. Ma se i peccati che fa ubbriaco non sono atti nè affetti disordinanti la volontà; come se dormendo ommettesse d' udir la messa in giorno di festa, e mancasse ad altri precetti positivi, che hanno per oggetto cose per sè indifferenti: niuna nuova inordinazione o mal morale in lui avverrebbe; eccetto quello che gli avvenne dall' atto libero, col quale si pose in quella mala necessità. Ad ogni modo nell' una o nell' altra sentenza, s' accorda ugualmente avervi un male morale, nella sua causa prossima ed attuale necessario. VIII Si dimostra la stessa tesi argomentando da diverse decisioni della Chiesa. Io mi restringo ad accennare la condanna della 2 proposizione condannata in Bajo, dalla quale si puó chiaramente inferire, che vi ha un male morale disordinante per se stesso la volontà, quando vi aderisce necessariamente o no. Essa proposizione dice: [...OMISSIS...] . Chi non intende da questa proposizione, che, secondo la Chiesa cattolica v' ha dunque un opus malum , il quale benchè ex natura sua sia malvagio; tuttavia non è demeritorio, provenendo il demerito dalla libertà e non dalla sola natura dell' opera; e che v' ha medesimamente un opus bonum , il quale benchè ex natura sua sia buono, tuttavia non è meritorio, provenendo di nuovo il merito dalla libertà (supposta la grazia), e non dalla sola natura dell' opera? E tuttavia quest' opera mala , e quest' opera buona , che se non è libera non demerita, ell' è un' opera volontaria; perocchè trattasi qui d' opere umane, d' opere ex sua natura buone e cattive moralmente, non già fisicamente: chè per essere opere buone o cattive moralmente si suppongono volute; non essendo nè buone, nè cattive nella loro entità puramente materiale (1). Adunque per far sì che un' operazione sia moralmente malvagia, basta ch' ella sia tale di sua natura; e perciò volontaria; come a fare ch' ella sia moralmente buona, basta che sia ancora tale di sua natura, e perciò all' uomo volontaria. Ma non basta già questo solo perchè si possa attribuire all' una ed all' altra il suo merito; giacchè questo ha bisogno della condizione d' una libera volontà. La Chiesa dunque condannò Bajo perchè egli distruggeva col suo sistema la distinzione tra il semplice peccato , e la colpa; e si può dire, attenendosi allo spirito ed al fondo d' una tale condanna, che contro quella eresia, ella, al suo solito, rimettesse in vigore una sì importante distinzione. IX Se il male morale coll' esser necessario cessasse per questo solo d' esser male, non sarebbe morto Cristo per salvare il mondo dal peccato. Poichè l' uman genere avrebbe potuto da se stesso esser giusto sol che adoperasse quelle forze, che restavano al suo libero arbitrio, niente nuocendogli poi il non adempire ciò che fosse superiore alle sue forze, nè lo stesso peccato originale gli avrebbe nociuto, il quale già non sarebbe stato più peccato nè male alcuno, perchè inevitabile. Laonde come l' ammettere e il riconoscere un male morale deordinante la volontà e perdente l' uomo, per se stesso, vincendo altresì la volontà soggetto o causa prossima di esso, e tenendola schiava del demonio, esalta immensamente la redenzione di Cristo e la riformazione del mondo da esso operata, e la dimostra opera d' un Dio fatto uomo; così il sistema, che riduce ogni male morale alle libere azioni fa ingiuria gravissima a Cristo, rende superflua o almeno non necessaria la redenzione del mondo, e apre il cammino al socinianismo, e all' empietà che la nega. X Ma anche la ragione naturale basta a dimostrare, che l' inordinazione della volontà è un male morale per se stesso, indipendentemente dalla ricerca se la libertà l' abbia o no come cagion prossima prodotto. Poichè la volontà è una potenza come l' altre, è una natura anch' essa, che ha le sue proprie leggi e condizioni necessarie, non dipendenti da se, o dalla sua libertà. Onde S. Tommaso colla sua solita veduta filosofica, applica al disordine della volontà, la stessa definizione, e gli stessi principii, che valgono parlando del disordine dell' altre potenze. Appunto per questa universalità di vedute, egli attribuisce alla parola peccato un senso così generale, che abbraccia anche i disordini non morali, cioè quelli che accadono nella natura, o nell' esercizio dell' arte, dicendo, che, [...OMISSIS...] . Dalla qual definizione induce, esserci tre generi di peccati, cioè peccati della natura , peccati dell' arte , e peccati della volontà; in ciascuno de' quali si verifica la definizione, perocchè ci ha peccato di natura quando la natura devia dal suo fine, ci ha peccato di arte quando l' arte devia dal suo fine, ci ha peccato di volontà quando la volontà devia dal suo fine. Si può poi conoscere, se la natura, o l' arte, o la volontà devia dal suo fine, osservando se queste potenze procedono o no secondo quella regola , che al suo fine le scorge, [...OMISSIS...] . Ora quale, dimanda egli, è la regola della volontà? Risponde. [...OMISSIS...] . Di che raccoglie quale sia il peccato della volontà dicendo, [...OMISSIS...] . Il peccato adunque della volontà, secondo l' Angelico, c' è sempre, ogni qualvolta ella si torca dalla rettitudine della legge morale, onde in universale, senza che c' entri per nulla la libertà, [...OMISSIS...] . Tutta la malvagità dell' atto volontario è cavata unicamente dall' esser quell' atto conforme alla regola o difforme da essa, ordinato o disordinato; allo stesso modo come l' atto della natura e dell' arte, dove non ci può esser libertà, è malo o buono secondo che è diritto o torto in verso alla regola sua che lo dirige al fine. Non entra per nulla la libertà prossima nel costituire il peccato, ma solo c' entra la dirittura o stortura della volontà. Ma, stabilito così da S. Tommaso in un articolo della sua « Somma », che il peccato della volontà sta nella deordinazione della volontà in verso al suo fine (5), passa nell' articolo che segue a parlare dell' accidente, in cui questa deordinazione sia libera, mostrando con ciò la differenza che passa tra il peccato della volontà di cui parla in un articolo, e la colpa di cui parla in un altro, e di cui non avrebbe parlato a parte, se avesse creduto che l' esser peccato fosse un esatto sinonimo dell' esser colpa. Nell' articolo dunque, dove egli parla di questa (1), pone per principio, che l' uomo può esser signore de' suoi atti, cioè che tutti gli atti volontarii sono in balía dell' uomo stesso, per quella forza che si giace nella sua volontà come volontà, e la libertà; e non della volontà come natura. Chè così e non altramente debbono intendersi le parole dell' angelico, [...OMISSIS...] . L' Angelico parla in generale di quello che compete agli atti volontarii come volontarii, non degli atti volontarii come naturali, essendo certo che tali atti hanno, per essenza loro, questa ordinazione e relazione d' essere sommessi alla signoria dell' uomo: il che non toglie, che per accidente avvenga poi altrimenti, perdendo l' uomo la sua signoria e libertà, o mancandogli le condizioni richieste per esercitarla, o in somma operando la volontà come natura, non puramente come volontà. L' attribuire a S. Tommaso un senso diverso, l' intendere le sue parole così materialmente, da fargli dire, che ogni singolo atto volontario è di fatto libero, è un mettere in un' aperta e indissolvibile contraddizione S. Tommaso con se stesso, che apertamente riconosce il movimento necessario della volontà (1). Attenendoci dunque al genuino senso delle parole di S. Tommaso, egli pone il principio, che [...OMISSIS...] ossia soggetto alla sua libertà. Ciò posto, raccoglie in questo modo: 1 l' atto volontario è un disordine, un peccato, ogni qualvolta devia dal fine comune dell' umana vita: [...OMISSIS...] ; 2 ma l' atto volontario di sua natura è nato ad essere in potere dell' uomo, [...OMISSIS...] . Dunque (ecco la conclusione) col peccato libero ci sono due inordinazioni, l' una quella della volontà , che è disordine dell' uomo, in quanto è uomo, in quanto la sua volontà è una natura avente le sue proprie leggi; l' altro quello della libertà , che è disordine dell' uomo in quanto è morale , intesa questa parola per idonea a dare a se stesso de' buoni o mali costumi . [...OMISSIS...] (poichè all' atto malo libero è deformata la libertà, e s' imputa perchè la sua libertà n' è la causa) (2). Si riconosce adunque e si dimostra col naturale discorso: 1 Che la volontà umana se fa un atto obliquo dal fine suo, per esempio se odia Iddio, od ama la menzogna, contrae un disordine, sia che ella aderisca così al male necessariamente, come i reprobi nell' inferno, o che vi aderisca liberamente; il qual disordine deforma e guasta la volontà umana, allo stesso modo come qualsivoglia altra potenza fisica e non libera rimane disordinata e guasta ogni qual volta ella erra dal suo proprio fine, o come dice l' Angelico [...OMISSIS...] ; 2 Che questo disordine della volontà può dirsi morale ogni qualvolta esso riguarda il fine comune della vita umana, perchè [...OMISSIS...] dice lo stesso S. Dottore, [...OMISSIS...] ; 3 Che se la volontà guasta è la suprema potenza, il supremo principio attivo dell' uomo, come accade nel peccato originale; tutto l' uomo ne riman guasto; dipendendo tutte le altre potenze di lor natura dalla prima e suprema; la personalità stessa è infetta, trovasi in istato di peccato; 4 Che se l' uomo è disordinato e guasto nel suo principio supremo, qual è la sua volontà personale, benchè ciò non sia opera della sua stessa libertà, egli non può a meno di averne qualche pena che lo impedisca dal godere una piena felicità, se questa non gli è da Dio misericordiosamente levata; perchè la piena felicità non si può dare, se non in un uomo ordinato e in tutte le sue potenze perfetto; attesochè, come dice S. Agostino, [...OMISSIS...] ; 5 Che sarebbe un manifesto assurdo l' immaginare, che una volontà disordinata, aderente per necessità al male morale fosse ricevuta in Cielo; dove tutto è ordine e bene; nulla vi può esser di disordine e di male. Onde basta che la volontà sia disordinata, eziandio che non sia libera, come accade nel peccato originale, acciocchè ella venga naturalmente esclusa dal Cielo. Di che S. Tommaso dice, che pel peccato originale [...OMISSIS...] , cioè l' anima è soggetta ad un male eudemonologico, che rispettivamente ad Adamo, causa rimota e libera di quella inordinazione necessaria della volontà, acquista il nome di poena , come il male morale, o macchia nella stessa relazione, acquista il nome di colpa. XI Di più. Egli è di fede, che [...OMISSIS...] , cioè che non può più risorgere da se stesso, ma è necessitato di starsi in istato di peccato, se Dio nol libera, quia sponte , dice S. Agostino, [...OMISSIS...] . Il qual dogma fu espresso dal Concilio di Trento: [...OMISSIS...] . Questo peccato, sotto cui è servo ogni peccatore, e di cui per natura è servo tutto il mondo, è egli necessario o libero? Fu libero prima di commettersi; ma commesso, è già divenuto necessario, chè niuno più colle sue forze [...OMISSIS...] . E bene; ne vien forse, che per esser soggetto l' uomo cosí necessariamente al peccato, il peccato non sia più peccato, o non faccia più male all' uomo, non gli deformi più l' anima? Il dirlo sarebbe manifesta eresia. Dunque si deve considerare come eresia anche il pretendere, come fanno i teologi razionalisti, che non ci sia un male morale necessario, e che ogni male morale sia libero. XII Gli abiti non meritano nè demeritano, per consenso comune de' Teologi (4). Ma perchè non meritano gli abiti cattivi , non saranno essi perciò un male morale? E non sono forse una morale inordinazione della volontà? Chi mai potrà disconfessarlo? Ci ha dunque un male morale diverso dal demerito; un male necessario, com' è l' abito; che colle sole forze nostre non si può levare, almeno all' istante. Quantunque però non possa io ammettere la dottrina dell' Estio sul demerito degli abiti; tuttavia ci gioverà riportarla. Conciossiacchè ella contiene una serie d' argomenti attissimi a provare queste due cose, 1 che l' abito malvagio è male morale , ed a Dio odioso, 2 che ha seco congiunto come naturale appendice il mal fisico , che dal morale mai si scompagna. Odasi adunque come l' Estio favella, tutto a confutazione della dottrina pelagiana, tendente sempre a ridurre ogni male morale al solo atto libero, affin di distruggere il peccato d' origine, e con esso tutta le fede di Cristo. [...OMISSIS...] Non che meritino lode o vitupero, ma che deformino la volontà umana si può mostrare con gli argomenti che seguono, i quali noi esamineremo ad uno ad uno: [...OMISSIS...] . Dall' abito non vengono di necessità le azioni delle virtù e de' vizi; che se qualche volta necessariamente venissero, non meriterebbero nè demeriterebbero pur queste. Ma come queste azioni adornano o deformano l' anima; così pure gli abiti; o sieno causa di tali azioni, o sieno solo disposizioni a porle più facilmente, con meno libertà, ma con più forza di volontà. [...OMISSIS...] La vita eterna va dietro alla giustizia infusa, e la dannazione al peccato ricevuto come una natural sequela, per l' unione intima fra il ben morale e il ben fisico, il mal morale e il mal fisico. Ma come la giustizia infusa è meritoria riferita a Cristo che per noi la meritò; così la dannazione dell' originale peccato è demeritoria riferita ad Adamo che per noi demeritò. [...OMISSIS...] Il biasimo che si dà a quell' uomo si riferisce alle azioni libere colle quali egli si pose in quello stato, ma niuno negherà perciò che quello stato sia moralmente cattivo, benchè nel dormiente almeno, necessario. [...OMISSIS...] Egli è vero che la dannazione consegue ad un' anima infetta da' vizii anche considerata questa infezione in se stessa, senza riferirla alla causa libera che la produsse; ma solo riferita a questa causa, quella dannazione dicesi meritata, e ne viene così giustificato Iddio, come ottimo autore di una natura che da se stessa liberamente decadde. Quanto poi alla giustizia ed alla santità, egli è certo che trae seco, per se stessa considerata, nell' ordine eterno delle cose, la beatitudine; e Iddio non ha bisogno di giustificazione se vuol donar questa e quella, informando la volontà della sua creatura pienamente di se, senza lasciargli nè pure la possibilità morale di contraddire a sì generosa comunicazione di bene, onde lo Suarez scrive: [...OMISSIS...] , e come fece con MARIA sua madre. Il che tutto dimostra darsi una moralità necessaria informante e attraente la volontà, e la volontà cooperante e consenziente, senza l' esercizio della libertà d' indifferenza. [...OMISSIS...] Sulle quali parole si debbono fare le stesse osservazioni che sulle precedenti; cioè che il PECCATO, ed il BENE MORALE si trova indubitatamente anche nell' abito , che è cosa di natura sua necessaria, e ha la sequela del male e del bene eudemonologico; ma che, in quanto alla COLPA ed alla LODE, quella si rifonde sempre in quegli atti liberi , che quegli abiti cagionarono. Ma gli abiti son difficili ad osservarsi e a perscrutarne la natura: onde sfuggono facilmente al pensiero degli uomini, benchè non a quello di Dio. Questo non dissi io solo (1); ma l' Estio ancora il vuol ben considerato, così concludendo il suo ragionare. [...OMISSIS...] Passiamo ora ad esaminare la seconda questione. Da tutte le cose fin qui ragionate evidentemente si dee conchiudere, che la risposta affermativa a questa questione, in generale, è DI FEDE. Solamente può aver luogo l' opinione teologica in determinare alcuni casi speciali, ne' quali s' avveri o no quella necessità. Che dunque sia di fede in generale, che v' abbia realmente un male morale, nella sua causa prossima e nel suo soggetto (la volontà), necessitato, si prova, 1 Dall' esser di fede, che i demoni ed i dannati sono in istato di peccato, del qual peccato in cui perdurano la causa prossima ed il soggetto è la loro perversa volontà; 2 Dall' esser di fede, che il bambino che nasce, prima di ricevere il battesimo, ha in sè il peccato originale, male morale, consistente in un' avversione a Dio della sua volontà, la qual volontà si mette colla stessa generazione in quell' atteggiamento per l' attraimento della carne; onde anche qui la causa prossima è necessitata; e il soggetto necessitato. Da questo poi avviene, che tutto il genere umano per se stesso considerato, quale è costituito dalla generazione, dicesi dall' Apostolo MASSA CORRUPTA, di corruzione non già fisica solamente, ma anche morale; come pure vien provando l' Apostolo, colle antiche Scritture che accennano gli effetti, che provano la natural corruzione, [...OMISSIS...] . Laonde S. Giovanni parlando della natura umana: [...OMISSIS...] . Tutto il genere umano dunque, di sua natura, e senza la grazia di Cristo, soggiace ad un MALE MORALE NECESSARIO, benchè libero nella causa remota (6); male che di sua natura lo perde eternamente, se Cristo non entra a salvarlo: indi la NECESSITA` ASSOLUTA DELLA REDENZIONE e della grazia per conseguir la salute, secondo la definizione della Chiesa: [...OMISSIS...] . Questo MALE MORALE NECESSARIO, a cui tutto l' uman genere soggiace dall' origine sua, trae seco, di sua natura, cioè prescindendo dalla virtù di Cristo che accorre a impedirlo, delle REE CONSEGUENZE MORALI NECESSARIE. Anche questo è di fede in generale parlando, e solamente entra l' opinione teologica, quando trattasi di determinare i confini di queste ree conseguenze necessarie . Alla fede appartiene. I Che l' uomo per se solo, senza l' aiuto della grazia di Cristo, non può, assalito da gravi tentazioni, star lungamente senza cadere in qualche peccato; ossia non può adempiere a pieno, di continuo, e in ogni possibil cimento, la legge naturale. [...OMISSIS...] Di che S. Paolo, non alludendo solo al peccato d' origine, ma anche a' peccati attuali, dice: [...OMISSIS...] . Poichè quantunque con tali peccati, se fossero necessarie conseguenze dell' originale, l' uomo, non demeritasse, come non demerita coll' originale; tuttavia ne contrarrebbe deformità morale; e questi peccati insieme coll' originale, di cui sarebbero un naturale sviluppo, lo terrebbero nello stato d' ingiustizia e di perdizione. II Che l' uomo colle forze sue naturali, nè colle opere può acquistarsi la giustificazione in cospetto a Dio, o la salute eterna (1), e nè pur muoversi colla sua sola libera volontà verso quella giustizia che è tale agli occhi di Dio (2); III Che l' uomo, anche così giustificato, non può perseverare nella giustizia senza uno speciale aiuto di Dio (3). Tanto impotente è l' uomo senza la grazia. Rimane a parlare della distribuzione, che fa Iddio di questa grazia del Salvatore sì necessaria agli uomini. Anche qui alcune cose sono di fede, altre appartengono alle opinioni delle scuole teologiche. Intanto egli è certo I Che Iddio non è obbligato per titolo di giustizia a dare la sua grazia a nessuno, sicchè qualor anco tutto il genere umano fosse lasciato alla sorte che gli toccherebbe in conseguenza del peccato del primo padre, e de' peccati che i singoli uomini commettessero a imitazione di lui, niuna ingiustizia vi sarebbe da parte di Dio; II Che quindi Iddio è libero padrone di scegliere quelli che vuole, a cui dare i suoi doni, e l' eterna gloria fra i perduti, il che divinamente dimostra l' apostolo colla figura de' due figliuoli d' Isacco dicendo, [...OMISSIS...] . E soggiunge, a mostrare quant' è libera e gratuita la divina chiamata; [...OMISSIS...] . Dice che la salute non viene dal volere e dal correre degli uomini: perchè non vi ha persona che senza l' aiuto di Dio, voglia e corra come bisogna. Laonde giustamente rivolto all' uomo peccatore e impotente l' Apostolo così favella: [...OMISSIS...] . E su questa gratuita elezione egli è uopo aver presente, come S. Agostino la discorre a confusione de' Pelagiani, discorso pe' nuovi teologi opportunissimo. Egli pone per primo fondamento, che qualunque essi sieno i giudizi di Dio, sono giusti, anche se l' altezza di sua giustizia fosse a noi del tutto inintelligibile, [...OMISSIS...] . Pone per secondo fondamento, che qualor anco Iddio non desse ad un uomo la sua grazia, e così costui perisse necessariamente, o pel solo peccato originale, o anche per altri peccati da questo fonte promananti, non avrebbe tuttavia ragione di lagnarsi, anche unicamente [...OMISSIS...] . E non deduce questo vero dai corti giudizii dell' umano ragionamento, ma dalle scritture, dalla fede della Chiesa cattolica, e dalla ragione teologica. Poichè osserva, che dicendo il contrario ne verrebbe l' assurdo, che la grazia fosse da Dio dovuta, e non fosse quindi più grazia. Pongasi dunque l' ipotesi, che Iddio, come potrebbe farlo, negasse ad un uomo discendente d' Adamo e quindi peccator per natura, il dono della sua grazia. Questi ed avrà l' originale infezione sopra di sè, e non potrà adempire perfettamente i divini precetti, onde dovrà necessariamente peccare (3). Ora potrà egli scusarsi al tribunale di Dio dicendo che è condannato per necessità? Non potrebbe scusarsene, per quantunque misterioso possa parer questo dogma all' umana miopia, e ripugnante all' umana superbia, [...OMISSIS...] , e soggiunge con quella immobile persuasione, che sola infonde la fede, e sol la parola dell' eterno crea nell' animo de' fedeli, [...OMISSIS...] (2). Egli è dunque di fede, che Iddio potrebbe con giustizia lasciare anche tutto il genere umano nella sua propria naturale e NECESSARIA perdizione (benchè l' umano ragionamento d' alcuni resti qui quale alocco esposto al raggio solare); ed è pur di fede, ch' ella è sua pura GRATUITA MISERICORDIA, se anco a un sol uomo accordi la grazia, colla quale egli viva bene e pervenga alla salute. E nulla di meno, dopo di ciò, III E` del pari di fede che tanta è la bontà di lui, ch' egli colla volontà sua antecedente e condizionata, ma verissima e sincerissima, [...OMISSIS...] . E l' efficacia di questa bontà s' intende chiaramente, qualora si considerino gl' innumerevoli mezzi ch' egli ha fornito di spontaneo moto al genere umano, pe' quali se l' umanità non n' avesse abusato colla più iniqua sconoscenza, potevano TUTTI I SINGOLI UOMINI pervenire all' eterna salute. E primieramente, avendo egli creati o costituiti i capi dell' umana stirpe in istato d' originale giustizia, questo stato fortunatissimo dovea trapassare in eredità a tutti i posteri, se non l' avessero que' primi, di propria loro libera volontà, perduto. Onde a tutti i singoli loro discendenti era destinato da Dio il mezzo sicuro e facile d' esser sempre santi e felici; e se ora più non sono tali, non a Dio, ma a' proprii padri, che hanno guasta l' umana natura, il debbono imputare; nè Iddio va loro debitore perciò di cos' alcuna, lasciandoli ad ogni modo con tutto il loro: IV E oltracciò egli è certo, in quarto luogo, che essendo Dio sommamente buono, nè pur avrebb' egli permesso il peccato de' primi padri, se non avesse scorto e provveduto, quanto indi dovea ricevere di splendore maggiore la sua misericordia, e quanto dovea crescere nel cuore de' suoi eletti la riconoscenza e la gratitudine di sua carità e la materia quindi alle lodi che gli avrebbero in eterno cantato. Onde S. Paolo, [...OMISSIS...] . V E` certo di più, che dopo il fatto adamitico, Iddio offeso, lungi d' abbandonare l' umana natura a se stessa, gratuitamente promise all' uomo disubbidiente un Riparatore, colla fede alla qual promessa era annessa la grazia di salvarsi: e questa fede nel Riparatore futuro doveva e poteva passare ai posteri, venendo così dato di nuovo a TUTTI I SINGOLI UOMINI un mezzo affatto gratuito di fuggire dal naufragio universale dell' eterna perdizione. Ma essi liberamente rigettarono anche questa seconda misericordia; e Iddio dovette con un castigo esemplare, cioè col diluvio, distruggere le generazioni corrotte, che avrebbero tramandato a' loro posteri non più ciò che avevano da Dio ricevuto di salutare, ma ciò che da sè avean contratto di vizioso e di pernizioso. Ora fino al diluvio non può essere perita quella rivelazione del futuro Messia consegnata a padri così longevi, che Noè era lungamente vissuto con chi avea per lunghi anni conosciuto Adamo. VI Iddio fece Noè, uomo giusto, nuovo capo della stirpe umana, e a lui consegnò il prezioso deposito di quella promessa, che conteneva la FEDE, mezzo di salute destinato di nuovo a TUTTI I SINGOLI DISCENDENTI del nuovo patriarca. Che però tutti i singoli uomini si sarebbero salvati, fino alla venuta del Messia, secondo il gran disegno della divina bontà e longanimità, se di quel dono s' avessero voluto prevalere. Ma molti rigettarono per la terza volta col libero arbitrio la profferta salvezza, facendo onta a quella infinita bontà che pur volea tutti salvi, e alla salvezza di tutti, anche prima della venuta del Messia, avea provveduto; onde, abbandonato Iddio, caddero nell' idolatria, smarrendo il limpido lume della rivelazione e della fede, e la grazia annessa. E come dice S. Paolo, [...OMISSIS...] . Ometto d' enumerare la vocazione d' Abramo, e i peculiari mezzi di salute dati al popolo ebreo, ed altri mezzi non mancati del tutto nè pure all' altre nazioni, benchè sien meno conosciuti; e dico in quella vece, esser certo che VII Iddio, considerata la sua potenza, poteva, senza trovar ostacolo da parte degli uomini, far tutti gli uomini salvi; nè tuttavia egli volle; ma preferì nella sua sapienza e bontà, di salvare alcuni fra rei per gratuita elezione, permettendo che altri perissero. [...OMISSIS...] . Nè agli orecchi di tutti pervenne dopo di ciò la parola di Dio; e nè pure dopo Cristo a tutti fu applicato col battesimo il merito della sua passione, come dichiarò il Concilio di Trento, [...OMISSIS...] . VIII E` certo quindi ancora, che come non è contro la giustizia e bontà di Dio, che egli permetta la morte de' bambini, non battezzati, nulla togliendo con ciò ad essi, ma non dando loro del suo quanto ad altri; così non si può provare che sia contrario alla sua giustizia e alla sua bontà il lasciar morire altresì degli adulti, a cui non sia stato annunziato il vangelo, dato anche che non avessero aggiunti all' originale, peccati attuali mortali, i quali in tal caso non riceverebbero pena maggiore di quella de' bambini, [...OMISSIS...] . Che se anco degli uomini adulti, a cui non fu annunziato il Vangelo, non potendo colle proprie loro forze eseguire a pieno la legge naturale, cadessero ne' peccati, in quanto ciò avvenisse loro per necessità, non n' avrebbero colpa; ma que' peccati sarebber pena dell' antica colpa, tralci dell' originale infezione. Nè però sarebbe men vero, che le loro volontà fossero inordinate e malvagie, ed essi conseguentemente dannati della dannazione del peccato d' origine. Onde S. Agostino osserva, ch' essi non potrebbero recar per iscusa, [...OMISSIS...] ; perocchè ciò non distrugge il fatto, che vivon male, cioè, per propria volontà, [...OMISSIS...] . In somma coll' esser malvagia la volontà per natura, non per una sua propria elezion precedente, non è men vero ch' ella sia malvagia, e che vivendo male, «DE SUO MALE VIVAT »; ma è vero in pari tempo, che tal morale malvagità è pena, e sciagura, non colpa; e trae dietro a se un male fisico minore di quello che è dovuto alla colpa. Il che riesce difficile a intendere da certuni, i quali pongono il caso di cui si parla in modo alieno dal vero: immaginano cioè quell' impotenza di fare il bene in un uomo, che pur vorrebbe il bene, e che si sforza di farlo, e non può, e perciò cade. Non trattasi, si noti bene, di questo. Colui ha già una volontà incipiente buona: e però s' egli brama, se seco combatte, se prega, sarà aiutato certo da Dio. Chi ne può dubitare, essendo Iddio ottimo? Egli acquisterà certamente tutte le forze che gli bisognano; niuno Iddio abbandona di quelli che a lui ricorrono, e desiderano sinceramente di potere quel che non possono. Ora il caso di cui si parlava è tutt' altro. Trattavasi d' una volontà che non desidera punto il bene, ma al male aderisce; onde di colui che ha tal volontà si può dire col santo dottore: [...OMISSIS...] Ora, se questo è lo stato di un uomo, da qualunque cagione provenga, foss' anco dal solo vizio « quod originaliter traxit », gli è chiusa, fino che così rimane, la porta del cielo; e s' avvera sempre, che [...OMISSIS...] . Di che ognuno che ben intende conoscerà, che il mal morale e la dannazione non vien che dall' uomo, avverandosi il [...OMISSIS...] ; e la misericordia e la salvazione vien solo da Dio; avverandosi il [...OMISSIS...] . E quantunque GESU` Cristo sia morto per tutti affatto gli uomini, non solo per gli eletti, come dissero gli eretici, e dalla sua morte ricevano tutti qualche salutare influenza (3), e a tutti altresì egli profferisca il lume e la grazia, come il sole che a tutti universalmente risplende; tuttavia per proprio difetto, come dicevamo, si perdon non pochi; nè il cieco può lamentarsi del sole se nol rallegra, ma piangere piuttosto l' imperfezione e il vizio della propria natura; quantunque le viziose volontà, di cui favelliamo, nè pure compiangano se stesse per essere moralmente cieche; ma solo si lagnino della fisica pena, che al loro vizio morale s' aggiunge. E tuttavia non è da credere che questo stesso male permetta la divina bontà, se non per cavarne un ben maggiore. Poichè questa crediamo l' unica ragione per la quale Iddio, o ritenga le sue grazie, o ne dia di minori, così esigendo il bene maggiore e l' ordine della sua infinita sapienza (4). IX E` certo del pari, che a tutti quelli che hanno pur conseguita la giustificazione, non possono più mancare gli aiuti senza lor colpa, all' eterna salute, assicurata loro da' meriti e dall' orazione di Cristo (1), bastando la minima porzione di grazia, come dice S. Tommaso, a vincere tutte le tentazioni (2), e dicendo S. Giovanni, [...OMISSIS...] , il che si può spiegare: « non è mai necessitato a peccare. »Laonde non è giammai impossibile ai giustificati l' adempimento de' divini precetti, se pregano, secondo il canone del sacro Concilio, [...OMISSIS...] . X Dee ancora affermarsi, che tutti quelli che dopo giustificati pel battesimo, caddero in colpa mortale, possono di nuovo ricever la grazia, ricorrendo al sacramento della penitenza, fonte di nuova grazia aperto sempre per essi da Cristo. Oltre di che coll' orazione possono impetrare la grazia loro necessaria, quantunque non possano meritarla. La fazione però di Teologi, i cui errori in questo scritto vogliam mostrare, eccedettero anche in questo fino a sostenere cosa probabile, che la sola attrizion naturale basti a giustificar l' uomo, in manifesta opposizione al Concilio di Trento (6), onde anche tale dottrina razionalistica fu dannata dal Papa Innocenzo XI (7). XI Di più, è ancor certo non pugnare nè colla giustizia nè colla bontà divina, che il numero delle grazie, ch' egli conferisce a' peccatori ostinati, sia limitato, e determinato in modo, che scorso quel numero, egli permetta, o che sieno sorpresi dalla morte, o indurati, non [...OMISSIS...] . Dove si noti bene, che tutti quelli che vogliono o sperano, possono sempre salvarsi; non verificandosi l' induramento se non in quelli che più non vogliono e che disperano, sicchè nessuno può dire veramente: io voglio, e non posso. XII E del pari, è certo non opporsi nè alla giustizia nè alla bontà di Dio, che ad alcuni non sia annunziato sufficientemente il vangelo, avvenendo ciò di fatto; come poniamo rispetto agli abitanti d' America e d' altre isole, che vissero in esse prima che fossero scoperte, o in altre ancor da scuoprirsi; giacchè la provvidenza divina, nella sua infinita sapienza e bontà, predispose i tempi e i momenti, ne' quali a ciascuna nazione sia annunziato il vangelo; forse acciocchè abbian prima una cotal preparazione rimota, come pare dal detto di Cristo agli Apostoli: [...OMISSIS...] , prevedendo forse, che non sarebbe ben ricevuta da essi la parola di Dio, e che quindi non servirebbe che ad aggravare le colpe di quelli, a cui fosse annunziata, e da cui fosse ripulsa. XIII Indubitato è pure, che quelli, che non giungono alla giustificazione e alla fede, periscono, perciocchè, [...OMISSIS...] ; non quasichè l' infedeltà loro negativa sia colpa; ma pel peccato originale, e pe' loro peccati attuali. Laonde la fede soprannaturale è di necessità di mezzo, necessaria alla salvazione, [...OMISSIS...] . Ed anche qui la fazione de' nostri teologi detraendo alla grazia divina, soverchiamente attribuirono alla natura, ed alla libertà, volendo che basti a giustificar l' uomo questo solo, ch' egli creda di quella fede che aver si può dal testimonio delle creature, ed alla sola esistenza di Dio, senza la fede esplicita in Dio come rimuneratore del bene e del male (3); dottrina razionalistica, e giustamente anch' essa da Innocenzo XI proscritta. XIV Nè meno si può dubitare, che a tutti quelli, a' quali è proposto sufficientemente il Vangelo, sia data altresì la grazia con cui possano credervi; giacchè le parole di Cristo: [...OMISSIS...] , indicano sufficientemente quella giudiciale condanna, che suppone la colpa, la quale aver non potrebbero, se rimanesser privi della grazia sufficiente per credere. Di più, a tutti quegl' infedeli, a cui Iddio dà delle grazie attuali disponitive alla giustificazione, non può pensarsi che lasci poi mancare i mezzi necessarii di pervenire effettivamente fino alla giustificazione, foss' anco bisogno di mandar loro per miracolo un Apostolo, o un Angelo ad annunziare loro il vangelo, acciocchè [...OMISSIS...] , e così pervengano a ricevere, almeno in voto, quel battesimo che è [...OMISSIS...] . Oltre di che, anche l' orazione d' un infedele, benchè meritar non possa, può però impetrare; ed egli può altresì dimandare nella sua orazione la naturale giustizia, sentendosi rispetto a questa in quella condizione che descrive l' apostolo, dicendo, [...OMISSIS...] . Poichè non supera le forze della natura il volere la naturale giustizia, con una volontà universale, cioè ancor piccola, e priva di forza pratica a perfezionare tutto il bene che l' umana ragione dimostra. Ed una tale volontà, ossia volizione attuale, benchè inefficace ad operare pienamente il ben naturale, può però guidare l' orazione della creatura al suo Creatore naturalmente conosciuto; il quale in tal caso non mancherebbe d' aggiungere per sua pura misericordia i suoi aiuti, implicitamente in quell' orazione dimandati. Se dunque gli atti della volontà (3) d' un infedele fossero naturalmente sì buoni, da desiderare la naturale giustizia, da dimandarla, ed isforzarsi, quanto può, ad adempirla, sarebbe costui, non punto io ne dubito, da Dio soccorso. Perocchè, come dice S. Agostino, [...OMISSIS...] . Ma dubito però assai, che, senza la grazia, possa la mente d' un uomo sollevarsi a sì alto pensiero di domandare al Creatore il dono della giustizia, benchè naturale. Se questo è possibile, sarà possibile a ben pochi; poichè naturalmente l' uom si persuade, essere la virtù riposta nel proprio arbitrio: e pare che solo un raggio superno ci abbia insegnato a conoscere il segretissimo e copiosissimo fonte di ogni giustizia e di ogni santità. Che se via più addentro meditar volessimo nelle divine giustificazioni, dandoci Iddio lume a ciò sufficiente, ci convinceremmo di più, che Iddio sempre mosso dalla sua essenziale bontà, ottimo ugualmente si trova e nel dare che fa le sue grazie, e nel negarle altresì; non negandole egli mai, se non per trarne un bene maggiore alle sue stesse creature; il qual bene, per le limitazioni necessariamente inerenti a tutto ciò ch' ebbe principio nel tempo, non si può ottenere senza permettere il male (1), salva almeno la legge di parsimonia, parte essenziale della divina sapienza. Le quali cose tutte rendono in fin manifesto, come alla giustizia contempera Iddio un' ineffabile, pienissima misericordia. [...OMISSIS...] , per usare ancora le parole di S. Agostino, [...OMISSIS...] . Che si dia adunque un male morale nell' uomo, necessario nel suo soggetto (l' uomo), e nella sua causa prossima (la volontà istante), benchè in origine veniente da un pravo esercizio della libera volontà, egli è un vero innegabile, dalla rivelazione insegnato, dall' esperienza e dalla ragion confermato; il qual vero nè offende la divina giustizia, nè ne impedisce la misericordia, a cui apre un campo amplissimo e gloriosissimo. Ma noia tuttavia un vero così luminoso alle pupille di quelli, che più che d' esaltare la bontà divina, si curano di celebrare la umana; onde strillano al vocabolo necessità , come se il solo pronunciarlo, fosse un distruggere quel libero arbitrio, che se in nulla fosse necessitato, certo potrebbe ogni cosa, e non avrebbe più bisogno di Dio. Oltre questo assurdo teologico, in cui s' urterebbe escludendo ogni necessità dai movimenti della volontà, s' incorrerebbe anche nell' errore filosofico (prolifico di gravi ed erronee conseguenze anche in teologia), che la natura non operasse con leggi fisse sue proprie, o che la volontà non fosse anch' essa una natura, come insegna così apertamente S. Tommaso. Una di queste leggi della volontà e dell' intendimento, come natura, fu da me espressa in queste parole, che dispiacquero a' nostri teologi inclinati al Razionalismo: [...OMISSIS...] Nelle quali parole ogni uomo, che un po' si conosca di filosofia, intende chiaramente, che si dichiara la legge della spontaneità della volontà, e che non vi si parla della libertà; ma della volontà , la quale viene ivi definita per la potenza di operare in conseguenza di ciò che s' intende. Le persone poi che non ignorano le dottrine da me premesse sulla semplice libertà, sanno ancora, che la libertà , è una forza dell' anima DOMINATRICE E DETERMINATRICE DELLA VOLONTA`, avendo io definita la libertà per [...OMISSIS...] . Coll' esporre dunque le leggi psicologiche, secondo le quali si move la volontà lasciata a se medesima, non si nega, nè si distrugge quella potenza superiore ad essa che LIBERTA` si chiama, e che è nata a dominare la volontà modificandone ed infrenandone gli spontanei movimenti. Quindi dopo aver noi parlato di questi spontanei movimenti della volontà semplice , passammo a parlare della libertà, definendo quando ella possa impedire que' moti spontanei, e quando non possa. Dicemmo poi, che essa può sempre farlo, qualora abbia tempo d' accorrere, e la rapidezza de' movimenti inferiori spontanei della volontà semplice eccitata non la prevengano, e così esprimendoci: [...OMISSIS...] . Il sig. C. all' intendere che la volontà si muova per una legge fisica dietro i bisogni pronuncia questa sentenza: [...OMISSIS...] . Ma, con sua pace, fa piuttosto meraviglia che egli non sappia, o non abbia imparato dalla lettura dello stesso libro che censura, che le leggi fisiche a cui obbedisce la volontà possono dalla libertà esser dominate, purchè non manchino le condizioni necessarie all' operazione di questa potenza, che tiene in sua balía gli atti stessi della volontà spontanea. E fa meraviglia ancor maggiore, che lo stesso nostro censore confessi poco appresso in altre parole, quel vero, che riprende in noi così acerbamente. Poichè alla facciata .4 del suo opuscolo, nota ( i ) dice così: [...OMISSIS...] . Dove in prima convien notare ch' egli traduce il praecipue di S. Tommaso per, al più . Siamo qui obbligati di mandare il teologo a consultare il Dizionario. S. Tommaso dicendo, che la consuetudine produce necessità PRINCIPALMENTE negli atti repentini, riconosce poter intervenire una necessità di operare anche in qualche altro caso non repentino , e così dice più di quello che diciamo noi, attribuendo noi sempre la necessità alla fretta con cui opera la spontaneità, quando tal fretta non lascia tempo alla ragione od alla libertà di accorrere e sovvenire all' uomo. In secondo luogo con ciò ritratta quello che avea detto prima, quando parlando del passo di S. Agostino che S. Tommaso interpreta della necessità in repentinis praecipue scrivea con una piena generalità di parole così: [...OMISSIS...] . Convien dire che S. Tommaso non sia un Dottore cattolico , secondo il nostro C., giacchè, per sua confessione interpreta quel passo diversamente da quel che fanno i dottori cattolici. Finalmente ognuno può vedere, se la dottrina di S. Tommaso d' accordo con quella di S. Agostino, che [...OMISSIS...] sia o non sia uguale a quella da noi esposta ne' passi surriferiti, ne' quali si riconosce necessità là dove [...OMISSIS...] . Se non che il C. con tuono quanto insultante, altrettanto menzognero continua così: [...OMISSIS...] . Io dimando compatimento al lettore cortese, se in questo e in altri scritti vo dicendo delle cose trite e soverchiamente comuni. Ma egli consideri (di nuovo il protesto) che la carità mi spinge a scrivere a mio mal cuore, ed a ripetermi e a diffondermi; ben sapendo che gli scrittori razionalisti non possono nuocere colle loro perniciose dottrine agli uomini pienamente istruiti; ma a quelli soli (e ne' nostri tempi sono troppi) pe' quali scrivono e di cui allettano, favellando religiosamente gli orecchi. A questi che nè sono teologi, nè sanno il loro giudizio sospendere, oppure lo sospendono a prò dell' errore e a danno del vero, vuole la carità di Cristo che si sovvenga quanto si può per me, e perciò adduco in questo e negli altri scritti copiose prove di quelle primarie verità che s' impugnano da' contrarii. L' una delle quali è questa appunto, che la passione giugne a legare in certi istanti l' umana libertà, e a trascinar seco la spontaneità del volere; benchè a nessuno di quelli che fedeli a Dio, vivono sotto la sua protezione avvenga giammai che sieno quinci condotti a peccati mortali tanto da essi odiati. A provar questo vero adunque, oltre l' autorità di S. Agostino, e di S. Tommaso, che il nostro C. questa volta volle accompagnar della sua, aggiungerò quella d' un solo Teologo pregiato da tutti senza eccezione, voglio dire di Domenico Viva della Compagnia di Gesù. Il quale scrive appunto nella nostra sentenza così: [...OMISSIS...] . Il nostro teologo dunque C. P., dopo molti andirivieni, è obbligato a concederci finalmente che esiste un modo necessario d' operare della volontà umana, e concede che questa sia dottrina de' dottori cattolici. Ma tempera poi questa concessione dicendo: [...OMISSIS...] . Le quali parole richiedono nel caso nostro diverse osservazioni. Primieramente è da ricordare, che già prima lo stesso nostro autore avea riconosciuto darsi un volontario necessario non solo nella perdita totale della ragione nell' ubbriachezza e nella mania; ma ancora ne' moti repentini. Avea confessato che S. Tommaso insegna, che [...OMISSIS...] . Di poi è da considerarsi, che le parole di S. Tommaso da lui addotte per provar le sua tesi, [...OMISSIS...] non riguardano lo stato di pazzia o di ubbriachezza, nel quale la ragione è perturbata per un eccitamento fisico, come falsamente pretende il nostro teologo. S. Tommaso parla di un eccesso momentaneo di passione veemente d' amore, o d' ira, o d' altra simile perturbazione, volendosi dire in fatto che l' uomo nel momento della passione venuta all' estremo, diviene siccome pazzo, secondo il detto che [...OMISSIS...] ; onde Cicerone del furore afferma, che [...OMISSIS...] , e in generale i latini scrittori usano la parola insanire per esprimere l' effetto d' ogni veemente passione (3). In terzo luogo qual è il valore e la forza di quell' espressione dell' angelico [...OMISSIS...] ; espressione ripetuta poi da' teologi? Nel brano stesso del « Trattato della Coscienza » citato dal Signor C. se ne dà la spiegazione e l' analisi; pure, dopo averlo riferito, egli si fa dimandare: [...OMISSIS...] . Rispondiamo che non vi si ravvisa certamente, nel senso, che pretende il Signor C., perchè non vi si dee ravvisare; ma vi si ravvisa nel senso di S. Tommaso, e della comune de' teologi. Poichè nè S. Tommaso, nè i teologi parlano, come egli suppone, di un uomo, che « sia interamente uscito di senno »qual è colui che si manda all' ospizio de' pazzarelli; ma parlano d' un uomo, che nell' istante che opera non può far uso di sua ragione all' intento di vincere l' impetuosa passione. E nè pure è da credere, ch' essi parlino d' un uomo « in cui cessi da ogni suo ufficio la ragione »; poichè anzi essi parlano solamente d' un uomo, in cui la ragione cessa dal suo ufficio di deliberare; parlano di un uomo a cui la passione ha tolto intieramente l' uso morale della ragione, o, in altre parole, in cui è sospeso quest' uso della ragione morale , com' io più spesso mi esprimo, chè così dee spiegarsi sanamente il [...OMISSIS...] di S. Tommaso. Poichè egli è certo che basta che la ragione non possa accorrere, e in tempo utile deliberare, acciocchè l' uso della ragione sia interamente tolto, quanto fa al caso, benchè la ragione non cessi da ogni altra sua funzione. Laonde [...OMISSIS...] , come dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] , dal qual passo si vede chiaramente che S. Tommaso parla della ragione Deliberante , non della ragione presa in universale quando dice, [...OMISSIS...] , le quali perciò si debbon tradurre « che impedisce affatto all' uomo di deliberare a favore della giustizia. » E per vero niuno dica mai che pecchi colui (prescindendo dalla reità che può avere in causa) che non può coll' uso di sua ragione venire in soccorso alla volontà soprafatta dalla passione. Ora che quest' uso morale della ragione possa mancare, senza che perciò venga meno necessariamente ogni altro uso di essa, scorgesi osservando quant' accade negli stessi ubbriachi e negli stessi pazzarelli come pure ne' bambini. E` un pregiudizio volgare e crudele (e dovrebbe una volta cessare) il credere, che gli ubbriachi, i pazzi ed i bambini non facciano alcun uso affatto della loro ragione, e lo chiamo un pregiudizio non solo volgare ma anche crudele; perocchè ad esso si devono pur troppo imputare i barbari trattamenti che s' usavano una volta verso i miseri pazzarelli, de' quali non riguardati oggimai più come esseri ragionevoli, si faceva impunemente ogni strazio, ed ogni abuso: e lo stesso press' a poco è a dirsi degli ubbriachi. Non v' era nè pure chi pensasse seriamente all' educazione de' bambinelli, salve le sole madri che contraddicendo col provvido loro istinto alla comune ignoranza e barbarie; credevasi inutile studiarsi a dirigere e sviluppare le loro razionali facoltà che si negavano in essi o senza attività si credevano, e dovea solo forse allo scoccar de' sett' anni incominciare tutto improvviso l' uso della ragione . Il che era vero, presso a poco, se per uso della ragione si fosse inteso l' uso della discrezione del bene e del male , come pur dicevano i savi teologi, il che è quanto dire l' uso della riflessione e della libertà, l' epoca quinci del merito e del demerito. All' incontro l' uso della ragione in universale presa come potenza a cui appartengono le funzioni del percepire, dell' universalizzare, del giudicare, dell' analizzare, del sintesizzare ed altri tali, incomincia, vel crediate o no, nei bambini pure col primo riso, con cui salutan la madre. Negli ubbriachi parimente e ne' pazzarelli, sieno maniaci o monomaniaci, l' uso della ragione non è mai tolto del tutto, anzi v' è egli attivissimo; ma per isventura non regolato nelle cose necessarie al vivere e non preceduto da una sufficientemente ponderata deliberazione: percepiscono dunque, universalizzano, fanno de' giudizii e de' raziocinii e talora anco giusti; ma spesso anco sbagliati: e quando riescono troppo di frequente sbagliati in quelle cose ordinarie, nelle quali non falla il comune degli uomini, allora si hanno per pazzi. Che se si dimanda di più la causa onde avviene che l' uso della ragione proceda in essi così sregolato, l' osservazione di un tal fenomeno e la meditazion vi dirà che i loro giudizi sono traviati dalla loro propria volontà, la quale è la potenza che d' ordinario muove e conduce il ragionamento; vi dirà ancora che quella loro volontà poi che travia in essi il ragionamento è fieramente predominata e tiranneggiata dalla attuosità delle immagini, dalla potenza degl' istinti, dalla forza delle opinioni fisse, e dalle abitudini e dalla urgenza seduttrice delle passioni. Sotto alla qual crudele tirannide dell' animalità esaltata, irritata e prevalente la luce liberatrice della giustizia manda ancora i suoi raggi: e talora consiglia quegli infelici, talor li consola (1). La maniera poi onde la passione del sensitivo istinto domina cotanto e trascina la volontà ce l' insegna S. Tommaso, che insegna che non può la passione muovere la volontà direttamente, ma sì indirettamente (2), ed ella fa ciò sottraendo alla libertà le forze dell' anima; perchè dall' anima, come da loro radice, traggono la loro attività tutte le potenze; e l' anima ha una virtù unica e limitata; ond' avviene che se questa virtù sia distratta parte o tutta da una sola potenza, poniamo da quella del senso e dell' istinto animale, si rimane meno od anche nulla all' altre potenze, poniamo alla libertà, allora questa si dimostra indebolita, sfibrata, inerte, ed oppressa dalla veemenza dell' istinto sensitivo cresciuto a tal grado di vigorìa da rapire a se tutta l' anima. [...OMISSIS...] . Di più la passione sensitiva, dice S. Tommaso, trae la mente a fare de' torti giudizii sul valore delle cose, e quindi s' ha un altro modo, pel quale si sregola la volontà, [...OMISSIS...] . Ma qui si deve osservare, che se, dopo che l' uomo ha fatto un giudizio falso sul bene, dopo che, poniamo, ha giudicato che un oggetto sia più buono ch' egli non è, la volontà l' ama di più che non dovrebbe; la volontà stessa però aveva già prima fatto un altro atto col quale avea determinato quel falso giudizio, e quella falsa stima dell' oggetto. Perocchè sebbene la prima apprensione delle cose (percezione, sintesi primitiva) si faccia istintivamente, il giudizio però del loro valore morale ed eudemonologico, si fa sempre per un giudizio diretto dalla volontà, la quale perciò è la causa di tali giudizii (3); e sono sani e retti quando la volontà è sana e retta, e immune dalla violenza di quella passione che, come dice l' Angelico, talora trae a sè sola tutta la forza dell' anima. La mancanza adunque dell' uso della ragione, di cui parla S. Tommaso, che rende l' azione involontaria e, come noi diciamo, non libera, e quindi inetta a meritare, si è quella, per la quale la ragione legata dalla passione non può piú accorrere a deliberare in favore della legge, il qual fatto psicologico da noi viene descritto nelle parole non intese, ma censurate dal C., le quali furono queste: [...OMISSIS...] . La ragione del qual ultimo fatto è quella appunto data da S. Tommaso là dove con tanta sapienza scrive, [...OMISSIS...] . Nel brano arrecato io enumero i varii aiuti, che rendono l' uomo possente a vincere la seduzione di sue passioni ed istinti; e tra questi pongo la meditazione del proprio dovere, e l' animo ben disposto . Da questo il Sig. C. induce che io dunque insegno tutte le azioni essere necessarie, quando si fanno senza meditazione e senz' animo ben disposto! All' incontro le azioni necessarie sono da me descritte così: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole si pone a prima condizione dell' atto necessario , che [...OMISSIS...] come accade ne' primi moti. Ma posciachè, quando l' uomo già ottenne il dominio della propria volontà col grand' uso e coll' abito della virtù; l' uomo previene anche i primi moti e gl' insulti impetuosi delle passioni e degl' istinti tenendo questi abitualmente infrenati; perciò non mi sono contentato d' esigere universalmente a costituire un' azione necessaria, che la passione sia urgentissima e repentina, ma ho soggiunto di più ch' ella non sarebbe ancor necessaria, ch' ella potrebbe essere tuttavia libera, qualora si trattasse d' un uomo abituato al bene sì fattamente, da aver già conseguito una piena signoria di sè stesso. Coll' aggiunta di questa seconda condizione si rende ancora più difficile ad avverarsi il caso dell' azione necessaria; e mentre il comune de' teologi si limita a riconoscerla tale dove una passione si renda eccessiva, io feci di più osservare, che la violenza della passione inducente necessità non si dee misurare dal grado assoluto della sua forza, ma dal grado relativo alla virtù dell' uomo in cui ella opera; poichè un uom virtuosissimo dominatore di sè, giunge in tempo a domare eziandio la passione urgente ed al sommo pressante. Ora quelle condizioni, che io posi acciocchè una azione si possa credere necessaria , il sig. C. asserisce che furono apposte acciocchè l' azione si possa dir libera, capovolgendo tutto il mio sentimento. Sicchè mentre io dico, che l' azione non è mai necessaria, se la passione non sia urgentissima d' una parte e dall' altra se l' anima dell' uomo non sia sgagliardita (1); egli mi fa dire all' opposto che [...OMISSIS...] . Egli dunque non intese che l' abito buono non fu da me posto qual condizione dell' azione libera, ma quale aiuto, pel quale l' azione diviene libera anche quando ella tale non sarebbe per l' urgenza della passione: nè intese pure che l' avere uno spazio di tempo nel quale poter sospendere il giudizio pratico, in considerazione della legge che la proibisce, sono condizioni che indubitatamente avverare si debbono in tutte le azioni libere, essendo assurdo il dichiarar libera un' azione, se chi la fa non ha tempo da sospendere il subito giudizio pratico che la produce, nè da considerar la forza e l' autorità della legge che la divieta. Scorgesi in fine che il nostro teologo dimenticò nell' enumerare le condizioni da me richieste, acciocchè un' azione possa credersi necessaria, la principale di tutte, senza la quale sono nulle le altre, la condizione espressa in quelle parole: [...OMISSIS...] . Dopo aver dunque il nostro teologo fatto supporre, che le condizioni da me richieste, acciocchè un atto sia necessario, sieno in quella vece da me richieste, acciocchè un atto sia libero, e dopo aver taciuta la principale o la sostanziale di queste condizioni, che cosa fa egli? Come rivenisse allora dal mondo nuovo, continua così: [...OMISSIS...] . Ma non solo non è da omettersi; ma lo si doveva dire prima; perocchè se fosse stato detto era resa impossibile la censura. Ma il lasciar fuori da una sentenza la parte principale e così renderla erronea e inveire contro di essa come erronea; e finita l' invettiva uscir fuori colla parte taciuta fino allora, e trovarvi un nuovo errore cioè trovare che la parte taciuta contraddice al sentimento precedente falsamente supposto; ella non è questa l' opera d' un uomo amico del vero, ma d' un cavilloso sofista, che tende a stabilire una dottrina erronea sullo scredito della vera (2). I teologi razionalisti per far prevalere il loro sistema falsificano dunque continuamente l' altrui. Il sig. C. giunge a scrivere così: [...OMISSIS...] . In questo passo il nostro teologo nasconde nel silenzio il preciso caso di cui si tratta. Non si tratta già in universale dell' uomo che opera dietro la concupiscenza e l' altre passioni, com' egli fa credere; ma unicamente e precisamente dell' uomo stretto dalla necessità che gli toglie la facoltà di deliberare a favor della legge. Cangiando la questione fa comparir Bajo un lassista, mentre finqui fu tenuto per rigorista, e dichiara il Rosmini ancora più lassista di Bajo! Affine di restituire la verità, metterò sotto gli occhi de' lettori un solo degli innumerevoli passi dal nostro teologo taciuti, e sarà quel che trovasi alla faccia 169 del « Trattato della Coscienza », che così dice: [...OMISSIS...] . I teologi razionalisti impegnati a dimostrare, che la dottrina cattolica sia l' eretica di Giansenio, e che l' eretica de' Pelagiani sia la cattolica, usano anche un altro artifizio. Solleciti di occultare le vere differenze che distinguono la dottrina eretica dalla cattolica, qualora s' abbattono ad alcuna di quelle differenze per confondere la mente de' suoi lettori s' accendono di zelo e con una cotal piega di artificiose parole togliono a far credere, che quella differenza che caratterizza la sana dottrina, sia un errore così sformato, a cui nè pure giunsero gli eretici fin qui conosciuti. Diamone un chiaro esempio. Uno degli errori di Bajo si fu che i moti della concupiscenza, intesa come un mero istinto animale, meritino in senso proprio l' appellazion di peccato, e si riducano al peccato d' origine anche nascendo CONTRO IL CONSENSO DELLA VOLONTA`. [...OMISSIS...] . La dottrina all' incontro della Chiesa Cattolica non conosce peccato di nessuna guisa, fin che la volontà dell' uomo ripugna; perocchè il peccato è « una declinazione (attuale, ovvero abituale) della volontà personale dalla legge. »Onde, se la volontà dell' uomo ripugna positivamente, e ripelle i moti carnali, egli è chiaro, che non può averci peccato , nè dopo, nè tampoco avanti il battesimo; perchè la volontà potenza superiore al senso è qui personale; e però quella, onde si dee desumere la condizione morale dell' uomo. Ma il Bajo disconosciuta questa dottrina, cadde nell' errore, che, avanti il battesimo, sieno peccato anche i movimenti disvoluti e disdetti dalla volontà, anche [...OMISSIS...] , errore che si contiene, almeno esplicitamente, nella condanna fatta dalla Chiesa del Bajanismo. La Chiesa, in pari tempo, non disconosce o nega alcuno de' fatti antropologici; e però nè pur quello che la volontà talora, ridotta a certe angustie e non soccorsa dalla ragione deliberante, sia tratta a consentire spontaneamente a' movimenti istintivi del senso, senza che le sia possibile ripugnare. Ma questo fatto non può già accadere in quelli, che trovandosi in istato di grazia, sono da questa sempre ne' lor bisogni fedelmente soccorsi, com' io ho dimostrato (nel « Trattato della Coscienza » facc. 165 e segg.). Laonde nell' uomo giustificato non ha mai luogo un necessario acconsentimento della volontà a un male conosciuto, perchè trattasi d' una volontà, come dice S. Agostino, dalla grazia liberata. All' incontro in quelli, che o non sono ancora rinati nell' acque battesimali, o mediante le volontarie loro colpe contrassero un abito di peccare, rimangono in istato di peccato, può accadere quel caso funesto, pel quale l' impeto delle passioni e di più tentazioni quinci e quindi assalitrici, tolgano il tempo all' arbitrio di venire in soccorso, onde vinti rimangono. I quali atti non essendo liberi sono peccati in causa, o che questa causa sia il peccato d' origine in essi non ancora rimesso, come S. Agostino tante volte ripete, o che sieno altre colpe nelle quali essi liberamente s' immersero, indebolendo così la propria libertà; con questa differenza però, che se la necessità venne dalla originale infezione, questi atti disordinati, al peccato originale si riducono, e sono uno con questo, e quindi non si possono dir colpe se non riferendole alla libera prevaricazione di Adamo, là dove, se la necessità fu figliuola delle loro proprie libere colpe che ingenerarono la consuetudine; le conseguenti cadute partecipano dalle dette colpe precedenti la denominazione pure di colpe, e diconsi colpe in causa. Tale è la sana dottrina, ed ognuno intende quanto differisca da quella di Bajo, il quale attribuisce la nozione di peccato anche a ciò che nasce contro la stessa volontà; quando la sana dottrina non attribuisce tale denominazione, se non a ciò, a cui la volontà consente, quantunque necessariamente, se questa necessità fu libera in causa. Ma i nostri teologi introducendo la maggior confusione d' idee, fanno in quello scambio, credere che la dottrina cattolica da noi professata, sia peggiore della bajana. Dopo avere il C. recato quel passo, dove noi descrivevamo il fatto della volontà affascinata dalla passione, alla qual cede miseramente, dicendo: [...OMISSIS...] . Per restituire la verità così violata è necessario fare le seguenti osservazioni: 1 Bajo disse, che non s' imputavano i moti della concupiscenza a' battezzati che non consentono, ma aggiunse che s' imputano insieme col peccato di origine a' non battezzati benchè non consentano; e la Chiesa Cattolica dice, che quando la volontà è contraria non s' imputano que' moti mai nè a' battezzati, nè a' non battezzati; 2 Bajo trova un' imputazione a colpa anche negli atti necessarii, e noi all' opposto diciamo che non si dà imputazione a colpa, se non là dove si dà libertà, e però, se si avvera il caso, che la volontà sia tratta a consentire necessariamente non si dà colpa, se non nella causa libera di questo disordine. E` ella questa dottrina peggiore della bajana? Il nostro teologo alla facc. 136, dopo citato quel passo di Bajo [...OMISSIS...] , ripete la stessa accusa così: [...OMISSIS...] . Non è il Rosmini, ma è la Chiesa, che senza il consenso non riconosce peccato alcuno, e che quando la volontà è necessitata a consentire a' subitanei movimenti non riconosce tuttavia colpa, se non nella causa libera che l' ebbe addotta a sì trista necessità. Ma qui a proposito del consenso il nostro teologo crede di ravvisare una contraddizione tra ciò che si trova scritto intorno al consenso nella « Risposta ad Eusebio » e ciò che si dice di esso nel « Trattato della Coscienza ». Ma questa pretesa contraddizione non è altro che un suo novo abbaglio. Egli asserisce che nella « Risposta ad Eusebio » si dichiari, che il consenso sia sempre un atto personale, quando all' opposto nel « Trattato della Coscienza » si ammette una volontà, che stretta dagl' impulsi istintivi, consente necessariamente alla passione, onde dice: [...OMISSIS...] . Ma o non ha osservato, o dissimula che nella « Risposta ad Eusebio » non si parla d' ogni maniera di consenso, ma di un consenso libero , leggendovisi: [...OMISSIS...] nel « Trattato della Coscienza » all' incontro si parla di un consentire necessario della volontà, il che toglie ogni contraddizione (2). E per vero tra lo spontaneo consentire della non anco libera volontà, di cui si parla nel « Trattato della Coscienza » e il libero consenso, di cui si parla nella « Risposta ad Eusebio », vi ha un immenso divario. La LIBERTA` è una facoltà superiore alla VOLONTA`, poichè è « la potenza di eleggere fra le volizioni. »Qualora adunque la volontà da se sola opera senza la direzione superiore, che consiste nella libertà che elegge, ella si lascia andare spontaneamente dietro alle sensazioni, e si dice che a queste consente , secondo l' etimologia della parola, che viene a dire sente con esse, si adatta ad esse. Ma il consenso della libertà è tutt' altro; questa facoltà non consente immediatamente ALLE SENSAZIONI, ma consente ALL' UNA DELLE DUE VOLIZIONI buone e cattive, fra cui elegge, e questo è appunto il consenso sempre personale, di cui parla S. Tommaso, e di cui noi, attenendoci alla sua guida, parlammo nella « Risposta al finto Eusebio ». Ma nella stessa « Risposta » fu distinto un cotal consentire necessario della volontà, e non della libertà, mostrando ivi esser questa maniera di dire usata da' teologi colla testimonianza dell' Estio (3): il che tutto dissimula il nostro censore. I teologi razionalisti diminuiscono col loro sistema la virtù e l' efficacia della grazia del santo battesimo. Questo si vede anche nell' opuscolo che abbiamo preso ad esaminare, come un recente esempio della dottrina teologica razionalistica. In un luogo si attribuisce ai dottori cattolici (questo è il perpetuo loro stile d' attribuire ai dottori cattolici in corpo i propri sensi) la sentenza, che non pone alcuna distinzione tra ciò che può la concupiscenza originale nel non battezzato, e ciò che può nel battezzato. Questo è manifestamente un diminuire l' effetto salutare del battesimo, per voglia d' esaltare l' umana natura, incorrotta, com' ei la crede, che, secondo la sostanza del suo discorso, non ha di questa medicina del battesimale lavacro bisogno assoluto e solo gli bisogna il battesimo, come diceva Giuliano d' Eclana, per ricuperare i soprannaturali ornamenti (1). Ecco quali sono le sue parole: [...OMISSIS...] . Il nostro teologo dunque attribuisce ai dottori cattolici la sentenza, che non ci sia differenza alcuna tra gli uomini battezzati e non battezzati circa il potere che hanno gli uni e gli altri contro gli assalti della concupiscenza, di maniera che, rispetto a questi, l' effetto del santo battesimo sia del tutto nullo. Ma è ella veramente questa la dottrina cattolica? Non è anzi un calunniare i dottori cattolici l' affibbiarla loro? Vediamolo diligentemente. Se dunque fosse vero, che i Dottori cattolici, (il che è quanto dire la Chiesa, perchè si prendono tutti i dottori in corpo senza eccezione), non riconoscessero alcuna differenza tra i battezzati e i non battezzati, quanto alla vigoria dell' umana volontà e libertà in vincere le passioni della concupiscenza; a che si ridurrebbero gli effetti del santo battesimo? A che vogliono ridurli i teologi razionalisti? Alla remissione del peccato originale? Ma questo peccato che essi diconlo peccato secundum quid e quadamtenus non è nel loro sistema che un peccato di mero nome, ed erano più conseguenti i pelagiani che schiettamente negavano il nome di peccato alla semplice privazione della grazia. All' infusione della grazia soprannaturale? - Ma che cosa è questa grazia, in bocca de' teologi razionalistici, i quali negano ch' ella abbia virtù di attenuare le forze della concupiscenza, e d' accrescere quelle del libero arbitrio, non facendo riguardo essi a questo distinzione alcuna tra battezzati e non battezzati? Il sacrosanto Concilio di Trento decise quanto segue: [...OMISSIS...] . Ora i cuori di quelli, ne' quali è diffusa la carità dallo Spirito Santo e a' quali questa caritƒ diffusa in essi è aderente ( illis inhaeret ), questi cuori che sentono in se stessi la figliuolanza di Dio, e, come dice l' Apostolo, chiamano, animati dallo Spirito Santo: Abba Pater , saranno essi egualmente deboli e fiacchi contro l' ingenita concupiscenza, come quelli che non hanno punto ricevuto col santo battesimo il dono di Dio? Io me ne appello a tutti i fedeli di Cristo, alle anime che amano Iddio; e sono certo, che s' ottureranno gli orecchi come a bestemmie ingiuriose a Cristo ed al Santo Spirito, udendo tali parole del nostro teologo anonimo, e de' suoi confratelli «(V. la mia Risposta al finto Eusebio n. 106) ». Ne' celebri capitoli intitolati: [...OMISSIS...] leggesi tra le altre cose della grazia santificante così: [...OMISSIS...] . Ed ora da che può esser liberato il libero arbitrio, in virtù della grazia, se non da' suoi nemici, che si riducono in fine sotto il nome di concupiscenza? Con qual verità dunque i teologi razionalisti asseriscono che i dottori cattolici insegnino, che circa il potere di astenersi dalle azioni peccaminose non v' ha differenza tra battezzati e non battezzati? Non è questo un passare da un estremo all' altro, e per evitare l' errore di quelli che distruggono nell' uomo, o prima che sia rigenerato, o prima e dopo, il libero arbitrio, cadere nell' errore di quegli altri, che spogliano dalla sua virtù liberatrice e santificatrice la grazia di GESU` Cristo, la qual viene infusa nel santo battesimo? Facciamo un semplice e spassionato paragone tra la dottrina di tali teologi e quella già condannata dalla Chiesa ne' pelagiani, e apparirà manifesto il loro inganno ed il loro errore. I pelagiani dicevano, che la natura umana nasce presentemente senza vizio alcuno e colla sola privazione de' doni gratuiti (1): e il medesimo dicono i nostri teologi moderni. Ma come si salvano dunque, cioè credon salvarsi, dalla condanna di questi antichi eretici? Ritenendo la stessa loro sentenza, ma vestendola d' altre parole. Gli uni e gli altri convengono, che la natura umana nasce senza vizio, con tutti i suoi pregi naturali, e solo priva dei doni gratuiti. Questa è la sentenza comune, ora viene la differenza nelle parole. Quegli antichi confessavano ingenuamente, che nè la privazione de' doni gratuiti, nè le naturali limitazioni, nè i difetti naturali procedenti da quelle, erano peccato , e in questo dicevano bene. Furono adunque condannati, perchè negavano il peccato originale. Questi moderni, tementi la condanna stessa, dicono che quella privazione de' doni gratuiti è peccato, e in ciò dicono male. Ma col dire in tal modo un errore di più, saranno dunque assolti dalla condanna antica? Non credo io. Similmente s' osservi quanto agli effetti del battesimo. Sì gli antichi pelagiani che i moderni teologi dicono, che l' effetto del battesimo consiste solamente nel restituire alla natura buona l' ordine migliore della grazia [...OMISSIS...] questa è la sentenza comune. Ma gli antichi eretici confessano ingenuamente, che l' innalzare semplicemente la natura umana all' ordine soprannaturale, non è lo stesso che assolverla dal peccato; e dicevano bene. Furono adunque dannati perchè negavano che i bambini si battezzassero « in remissionem peccatorum ». I moderni teologi dicono all' opposto, che innalzare la natura all' ordine soprannaturale, è lo stesso che rimetterle il peccato originale; e dicono male. Ora di nuovo, eviteranno questi la condanna, solo col dire un errore di più di quelli? L' eresia consiste in semplici parole o nel senso e nella dottrina, qualunque sieno le parole che si adoperano per esprimerla, o per coprirla? Non verrebbe esposta la nostra santa fede al dileggio degli increduli qualora ella si facesse consistere in puri giochi di parole? Non sarebbe esposta al ridicolo la sacra teologia, qualora potessero dire con qualche verosimiglianza, che i teologi ritenendo le parole sanno di mano in mano modificare e cangiare con sottigliezze e vocaboli, le più essenziali e fondamentali dottrine del cristianesimo? Se si cerca, qual sia la dottrina sana della Chiesa intorno alla naturale possibilità dell' uomo, ed a quella possibilità di viver bene che egli acquista coll' infusione della grazia, conviene indubitatamente rispondere, che la Chiesa decise: [...OMISSIS...] , cioè aver tutti gli uomini perdute due cose, 1 l' innocenza e giustizia, e 2 la possibilità naturale di viver bene; onde S. Innocenzo papa rispetto a questa seconda perdita, così s' esprime: [...OMISSIS...] . Contro alla qual dottrina della cattolica Chiesa offendono apertamente coloro che al battesimo negano la virtù di ristorare le forze del libero arbitrio infiacchite contro la concupiscenza e dichiarano, esser queste uguali nel battezzato e nel non battezzato, come fanno i recenti teologi. Dopo di ciò la Chiesa ancora decise, che [...OMISSIS...] . Fin qui va la questione della dottrina generale. Dopo questa, viene poi la questione del fatto, la quale dimanda: « quando si verifichi, che l' uomo operi il male senza libertà e però senza demerito. » La possibilità intanto di questo fatto la Chiesa l' ammette e suppone pur colla condanna delle proposizioni di Bajo: [...OMISSIS...] , dalle quali e da altre somiglianti, scorgesi, come abbiam provato innanzi, che la Chiesa riconosce ed ammette un operare volontario, ma necessitato, di modochè la parola voluntarium , giusta tali decisioni della Chiesa, non sempre significa liberum , come contende il nuovo Teologo. Questo dunque appartiene ancor alla dottrina della Chiesa cattolica. Ma per venire alla questione di fatto: « quando si verifichi che l' uomo operi senza libertà e però senza merito nè demerito, » oltre il sapere in generale che qualche volta si verifica, il che, come dicevamo, è già parte del cattolico insegnamento; conviene di più determinarne per quanto si può i casi precisi. Al che ottenere vi hanno due lavori a farsi. Poichè altro è determinare i casi, ne' quali l' uomo opera necessariamente in generale, descrivendo le condizioni e le circostanze, sotto l' influenza delle quali egli procede colla necessità; ed altro è poi nel fatto reale accertarsi che tali condizioni e circostanze abbiano luogo in questa o quell' azione particolare. A ragion d' esempio alcuno dirà, che la passione può in alcun istante pigliar tant' impeto ed una così veemente uscita, ch' ella tolga all' uomo la libertà. Ma il dir questo non è mica un dire che in un dato fatto particolare di Tizio o di Cajo siasi avverata questa condizione, non è un dire, che la passione in Tizio od in Cajo sia stata realmente così urgente e così pressante in una data azione da trascinare la spontaneità ed impedire l' arbitrio della volontà. Anzi ella è cosa difficilissima o piuttosto impossibile il definirsi questo con piena certezza nel caso reale, e a Dio solo suol essere pienamente noto. Laonde l' uomo che opera con passione, grandemente s' illuderebbe s' egli leggermente credesse d' aver operato con necessità, anzi in luogo di scusarsi dee certamente condannare se stesso, non solo per le colpe attuali, che gli cagionarono quella torbida e violenta passione, non solo per le occasioni, a cui probabilmente s' espose, e per gli irritamenti a lei conceduti, non solo per non esser ricorso bastevolmente agli ajuti, co' quali avrebbe dovuto e potuto prevenire la sua caduta, ma ben anco per l' atto posto quando essa passione irruente in lui, videsi traboccata nel precipizio: e ciò perchè se da una parte questo gli mostra che tutto è disordinato in lui fin la stessa sua volontà, che è egli stesso; dall' altra perchè egli ha sempre troppa ragione di temere che la stessa sua libertà non fosse legata del tutto, essendo questo, come dicevamo, oltre modo difficile, se non impossibile a definirsi. Dal che apparisce, che lo stabilire semplicemente colla Chiesa cattolica che la passione aiutata dalla consuetudine delle colpe e lasciata andare innanzi ne' suoi riscaldi senza la debita vigilanza, possa talora addur l' uomo a sì stretto passo, al quale egli sdrucciola necessariamente; non è già un dare ansa e sicurtà agli uomini appassionati od abituati a peccare; ma è piuttosto un ammonirli di non confidare nelle forze proprie, ma di ricorrere a G. Cristo liberatore, di cui hanno un bisogno assoluto, per andar salvi dalla crudele tirannide del demonio e dalla loro propria concupiscenza. A torto dunque i teologi di cui parliamo sostengono, che le forze del battezzato, e del non battezzato sono ugualmente capaci di resistere al male; scagliando acri invettive contro quelli che dicono il contrario, asserendo che coll' ammettere una necessitá di cader ne' peccati, senza la grazia di Cristo, aprano la porta alla dissolutezza, con troppo basse parole dicendo, che questa è [...OMISSIS...] . L' estenuare gli effetti del sacramento del battesimo, col quale gli uomini s' incorporano a Cristo, e sono sollevati dalla condizione della natura guasta, all' ordine delle cose soprannaturali, e al regno di Dio favorisce oltremodo la tendenza di questo secolo d' incredulità e di diserzione dalla fede cattolica. La filosofia divisa dalla religione indefessamente lavora a introdurre nel mondo un sistema di Razionalismo che tenga luogo d' ogni religione positiva. Il protestantismo che non può resistere a' suoi assalti si associa ogni dì più con esso allo stesso intento, e rifondendosi in una pretesa religion naturale va cessando d' esistere come credente ad una positiva rivelazione. Predicatori inspirati dall' umana superbia scuotono la fede delle plebi stesse, e già, nelle nazioni protestanti, si trascura l' amministrazione del battesimo, se ne altera la materia e la forma, non considerandosi oggimai questo principal sacramento che come un semplice rito, onde si trovano già moltissimi adulti non battezzati, e degli altri si dee giustamente temere, non forse sieno stati battezzati invalidamente. I filosofi del protestantismo, ed i razionalisti biblici della Germania, con migliaia di libri e d' opuscoli diffondono per ogni canto d' Europa lo stesso spirito freddo, falso, per essenza miscredente, lusingatore dell' orgoglio umano e lo comunicano di nazione in nazione. Nella Francia cattolica entrò legalmente sotto il titolo di Scuola Normale di Filosofia. E sarà ora una dottrina indifferente, e degna di trascurarsi a' nostri giorni quella de' nostri teologi, che insinuano apertamente che il battesimo non accresce le forze dell' uomo ad evitare il peccato? Alla quale, nello spirito razionalistico, consuona pur quella filosofica, che da' sensi, a' quali s' attribuisce la conoscenza, o che dalla forza subbiettiva dell' anima fa venire all' uomo le idee, onde la verità, che nelle idee si contiene, è fatta con ciò figlia anch' essa dell' uomo, non più eterna, non più divina, quand' anco con una perpetua incoerenza si protesti il contrario. Così accade che il Razionalismo corrompa ogni dì più l' educazione della gioventù cristiana, rendendola vana e superba; insegnandole che dalla sua ragione viene la verità, dal suo libero arbitrio la virtù: la rivelazione non esserle necessaria assolutamente; anche senza il battesimo poter essa volere e vincere le proprie passioni. Questo tentativo benchè ne' nostri Anonimi s' appalesi più manifesto, non è per avventura nuovo ma antico, essendosi insinuato già, lentamente, come dicevamo, da più di due secoli; egli non è accidentale, non è momentaneo; ma è concertato in sistema, replicato, incessante. Si è taciuto finora, o almen parlato sommessamente per non rinfrescare la memoria di scandali quasi obliati. Ma io credo, che Iddio già più non voglia che si nasconda la radice del male che occultamente serpeggia: la provvidenza divina ha permesso che quello spirito infausto di Razionalismo e di Pelagianismo, che segretamente corrode i visceri del cristianesimo, toglie la virtù a' sacramenti, ed anco la passione e la morte di GESU` Cristo, scoppiasse più aperto negli opuscoli di alcuni teologi cattolici, fors' anco in buona fede da parte loro, ma con dottrina non sana. Abbandoniamo ogni causa o disputa personale, e siamo solo solleciti della purità della fede, della causa di G. C. e della sua Chiesa. Nessuno che consideri le cose spassionatamente potrà dubitare che i nostri Anonimi in sostanza rinnovano insieme uniti, e sotto color di pietà un assalto alla dottrina della Chiesa ed alla grazia del Redentore; de' quali negli scorsi secoli s' ebbero tanti esempi e basti accennare solo quello celeberrimo dei PP. Arduino e Berruyer. La « Storia del popolo di Dio » di quest' ultimo, di cui s' era promessa la correzione, uscì alle stampe ancor tale, che dovette condannarsi in Roma stessa nel 1734, e poi due volte di novo da Benedetto XIV (1) ed una terza da Clemente XIII (2) dandosi così una prova di più che lo spirito razionalista e pelagiano non teme i replicati fulmini della Chiesa. Ora si raffrontino i sentimenti de' nostri teologi con quelli del Commentario sopra S. Paolo dell' Arduino e della « Storia del popolo di Dio » del suo confratello, e si riscontrino agli originali proscritti dalla Chiesa, le copie. Lo stesso esaltamento della forza della natura, la stessa depressione della grazia di Cristo; un estenuare gli effetti del battesimo, un disconoscerne la virtù salutifera di mitigare i moti della concupiscenza, un diminuire la necessità della redenzione: niuna grazia veramente medicinale, giacchè non può esservi medicina dove non ci ha malattia; una sufficienza, una integrità, una beatitudine all' uomo dovuta senza il lavacro del Redentore. E sogliono costoro attribuire tutti gli errori che seminano, a' dottori della Chiesa, ed alla stessa Chiesa. Laonde ci dicono francamente, che, quando si tratta passar dai primi moti ad azioni peccaminose, dicono TUTTI (i Dottori cattolici) [...OMISSIS...] Ed IN TUTTO QUESTO NON RICONOSCONO DIFFERENZA TRA BATTEZZATI O NON BATTEZZATI. Tanta ingiuria che si fa al battesimo del Salvatore, mi sprona a insistere in questo argomento, che d' altra parte può esser utile a confortare la fede de' cristiani. Pur troppo questi sono bene spesso male istruiti circa gli effetti del santo battesimo, e, attesa la materialità e l' incredulità de' tempi, ripugnano sovente a credere fedelmente a quello, che v' ha di più prezioso e di più divino in tali effetti qual è la riformazione e il miglioramento dell' anima umana, di cui l' uomo non ha coscienza, benchè poscia ne sperimenti i vantaggi. Sia dunque messo in più chiara luce il medicinale effetto che viene impugnato del santo battesimo. Nella « Dottrina del peccato originale (n. XCIII 7 CI) » fu dimostrato come si conciliano le opinioni apparentemente diverse de' teologi cattolici che ripongono l' essenza del peccato originale nella privazione dell' originale giustizia , di quelli che la ripongono nella stortura della volontà, e di quelli che la fanno consistere nella concupiscenza de' non rinati: riprendiamo la descrizione e le prove dell' esistenza della malattia, a cui egli, il battesimo, è soprannaturale rimedio. Fu dimostrato, che ritorna in fondo sempre la stessa dottrina sotto diverse espressioni; e questa unica e consentanea a se stessa è la dottrina della Chiesa dichiarata così sapientemente dal Tridentino. L' identità sostanziale della dottrina insegnata da quei teologi, con varie maniere di parlare, risulta chiara tosto che si definiscano nel debito modo le tre espressioni usate di giustizia originale , di stortura della volontà , e di concupiscenza de' non rinati . Appigliamoci anche qui alla guida di S. Tommaso. Egli distingue la giustizia originale dalla grazia santificante , benchè quella in Adamo dipendesse da questa, stantechè la giustizia originale d' Adamo non era solamente naturale, ma anche soprannaturale, e perchè perdendo egli la giustizia rendevasi anche indegno della grazia, in cui era stato da Dio costituito. La giustizia originale in generale è riposta da S. Tommaso nell' ordine delle umane potenze, pel quale le inferiori ubbidiscono docili alla volontà e la volontà ubbidisce al lume della ragione ed a Dio (1). Egli è chiaro, che supponendo l' uomo creato senza la grazia santificante l' ordine delle sue potenze non sarebbe mancato in un essere opera di Dio, e la natura umana sarebbe stata intera , come acconciamente la chiamano i teologi. Ma in tal caso Iddio sarebbe stato conosciuto dall' uomo col solo lume naturale; e la sua volontà sarebbe stata sommessa a lui così conosciuto: le inferiori potenze poi avrebbero tuttavia ubbidito alla sua buona libera volontà. La giustizia originale dunque in una tale ipotesi, non potea esser più che una giustizia naturale quanto alla sostanza, risiedente necessariamente nella volontà; perchè la sola volontà è per se stessa la potenza morale, non appartenendo alla moralità le potenze inferiori, se non in quanto contribuiscono o sono da lei mosse (1) a disporre bene o male la volontà. Laonde la giustizia originale in qualsivoglia caso riducesi alla rettitudine della volontà , che non si lascia distorre dall' ordine di ragione, per niuna lusinga di bene sensibile o soggettivo. Conseguentemente S. Tommaso mette l' essenza del peccato originale ora nella privazione dell' originale giustizia, or nella stortura della volontà, rientrando queste due cose l' una nell' altra; poichè, definito in che cosa consiste il disordine della volontà [...OMISSIS...] , applica questa definizione al primo peccato così: [...OMISSIS...] . Il qual medesimo disordine nella volontà è pure ne' discendenti del primo padre, che il ricevono insieme colla natura: [...OMISSIS...] . E nondimeno non si dee già credere che quest' avversione della volontà personale sia un positivo odio di Dio, o un' inclinazione che rechi la volontà ad odiare direttamente il sommo bene come pazzamente vollero i bajani (1). Ella consiste bensì in un lasciarsi andare facilmente e in certe circostanze irresistibilmente al dolce del sentimento della natura, in vece di starsi eretta e fissa in quel lume di ragione, dal quale essa dee prendere l' ordine dell' operare e la misura del godere (2). Laonde la ragione prossima di questa deviazione abituale della volontà dall' ordine di ragione, è attribuita all' animalità che agisce con insolente violenza e trae a sè e quasi lega l' anima intellettiva; e questa efficacia dell' animalità assorbente per così dire la miglior attività dell' anima umana si origina, a quanto sembra, dall' attuosità del seme, chiamato per ciò appunto da Innocenzo III ed altri dottori infetto e corrotto. Laonde benchè solo l' anima intellettiva e volitiva sia il subietto del peccato originale, tuttavia, [...OMISSIS...] . E tuttavia è ancor da notarsi, che questo attraimento soverchio che fa la carne dell' anima intellettiva a sè non è ancor propriamente il peccato originale; ma il peccato originale è l' immediato effetto. Poichè a cagione di quell' attraimento, avviene, che l' anima intellettiva sia alquanto ottenebrata (e quest' appartiene alla piaga dell' ignoranza), e alquanto sgagliardita (e quest' appartiene alla piaga della difficoltà) e così sia st“lta dall' ordine di ragione e però da Dio, non rimanendole più forze sufficienti a mantenere costantemente in tutti gli atti suoi ad un tempo quell' ordine di ragione, come quella la cui attività è perduta in parte nell' animalità, il che GESU` Cristo espresse colle parole, [...OMISSIS...] . Ora la naturale applicazione di tanta attività dell' anima intellettiva al sentimento della vita animale, è ciò che i teologi chiamano, conversione alla creatura ; e il conseguente languore dell' anima rimasta debole all' ordine di ragione, e priva della cognizione soprannaturale di Dio, è ciò che chiamano avversione da Dio . Essi insegnano adunque che la piega o conversione alla creatura che l' uomo riceve nell' essere generato, è la causa prossima dell' avversione da Dio; nella quale sta propriamente la ragion formale del peccato, [...OMISSIS...] , dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] ; di che deduce, che il concetto del peccato attuale e dell' originale non è dissimile, contro i teologi razionalisti, che a quest' ultimo negano l' esser peccato semplicemente (2). [...OMISSIS...] ; la qual privazione della giustizia, come abbiamo veduto, consiste nel non esser più la volontà aderente all' ordine di ragione. Di che conclude l' Angelico: [...OMISSIS...] . Nella volontà de' bambini adunque (ancora immersa nell' essenza dell' anima) ha sua propria sede il peccato originale, perchè [...OMISSIS...] . E noi pure dimostrammo, che il peccato suppone sempre qualche attualità e solo un principio attivo può avere per suo subbietto. Dalle quali cose s' intende, come anche si dica, che il peccato originale consista nella concupiscenza de' non rinati , e in che senso il dir questo ritorni in fine allo stesso, che a riporre il peccato d' origine nella privazione della giustizia, ovvero nella stortura della volontà. La concupiscenza propriamente definita in un modo generale può dirsi l' inclinazione dell' anima intellettiva verso l' animalità e il bene subbiettivo. A torto i nostri Anonimi la restringono alle sole parti inferiori dell' uomo, nelle quali è l' appetito animale, che non ha per sè solo come è nelle bestie alcuna ragione di difetto morale (1). All' incontro S. Paolo attribuisce alla concupiscenza «phronema» e «nun» (2), e il catechismo del sacro Concilio chiama la concupiscenza ANIMI APPETITIO, e non appetitio carnis; acconciamente così definendola, [...OMISSIS...] . L' Angelico poi dice, [...OMISSIS...] . Si prende dunque acconciamente la parola concupiscenza anche a significare tutta la facoltà di appetire dell' animo umano la volontà stessa spontanea inclinata a fermarsi nel sentimento animale e nel bene subbiettivo; ed è in questo senso, che nella concupiscenza de' non rinati si può collocare il peccato di origine. All' incontro se per concupiscenza s' intendesse quell' attuosità della vita e del sentimento animale che tira a sè l' anima intellettiva, ella è più tosto la causa prossima del peccato originale, cioè della mala inclinazione della volontà anzi che peccato ella stessa (1). L' anima razionale dunque ed appetitiva dell' uomo, quando l' uomo è generato « si precipita, quasi direi nella carne; e il dolce della vita animale la diletta, senza il riguardo debito a quell' ordine di ragione, che a lei essenzialmente intelligente sta pur davanti almeno implicito nel lume della ragione. » Ma si devono distinguere tre cose in questa condizione dell' anima: 1 La potenza razionale di appetire ancor immersa nell' essenza dell' anima, non pur distinguibile colla mente nostra dall' altre potenze; 2 La stessa potenza che già esce e realmente si separa colla sua azione quando emette le sue appetizioni, o volizioni; 3 E questi stessi atti speciali, che si dicono volizioni. Queste tre attività vengono l' una dall' altra, come dalla radice d' un albero vien fuori il tronco; e da' tronchi escono i rami. Gli atti particolari, le volizioni dunque sono produzioni della potenza di volere; la potenza di volere è quasi direbbesi produzione dell' essenza dell' anima, si che consegue, che, se si tratta di atti spontanei della volontà, questi sogliono trarre la qualità loro dalla potenza, ed esser buoni se la potenza è ben disposta, non buoni se la potenza è male disposta. Medesimamente la volontà come facoltà spontanea di operare, tiene la sua disposizione buona o cattiva, cioè ben ordinata o no, che prima aveva quando si giaceva quiescente nell' essenza dell' anima. di che si deduce, che l' essenza del peccato originale quant' alla macchia non si può riporre negli atti particolari della volontà; e nè pure nella volontà come potenza; ma nell' essenza dell' anima volitiva e appetitiva; onde incomincia quel male che si propaga poscia alla potenza ed agli spontanei suoi atti e però il male di quella e di questi si riduce in fine alla mala disposizione dell' anima che è lo stesso peccato originale. Ma che l' anima stessa, l' essenza dell' anima abbia questa mala disposizione in sè riesce difficile a intendersi per cagione, che quella disposizione immorale sfugge alla coscienza. Ma la fede, rivelandoci il peccato originale che tutti i cristiani credono sulla parola di Dio rivelante proposta loro dalla santa Chiesa, c' insegna indirettamente una verità così profonda; e prevenendo la scienza umana, presta un argomento della sua divinità. La scienza dell' uomo fatta per pochi, viene in appresso e discopre, dopo ricerche di molti secoli, quei veri che erano già supposti dalla fede con divoto stupore degli stessi scienziati (1). Ell' era un' arma de' Pelagiani, negare il peccato d' origine, perchè l' uomo non ne ha immediata coscienza. E S. Agostino accordava loro che il reato della concupiscenza si toglie alla consapevolezza dell' uomo; anzi volea che si distinguesse diligentissimamente tra il sentimento della carne, di cui si ha coscienza, e quella mala qualità e disposizione dell' anima di cui la coscienza ci manca e in cui il peccato originale risiede; stringendo quegli eretici a credere a quanto dice la fede, eziandio che nol dica la coscienza diretta ed immediata. In fatti delle cose che giaciono in fondo all' anima, dove sta quel peccato, o è soprammodo difficilissimo, o al tutto impossibile, l' essere consapevole. [...OMISSIS...] . Il perchè accorda a Giuliano, che l' argomento di cui egli si serviva a negare il peccato d' origine (il non averne cioè noi coscienza) era tale da illudere gli uomini grossi e carnali, ma tanto più in ciò stesso offensivo della cattolica fede; [...OMISSIS...] . Ed avverte, che il male originale non istà nella volontà del fanciullo, presa questa volontà come potenza della quale, operando noi, siam consapevoli; ma è consopito nel fondo dell' anima, dove la coscienza non giunge, e tuttavia viene il tempo che quel peccato occulto si appalesi anche di fuori, colle sue male tendenze, e colle male sue operazioni; [...OMISSIS...] . Dove si scorge, secondo il parlare di S. Agostino, che il peccato originale prima è nascosto in fondo dell' anima ed ivi quiescente, poi operante al di fuori ed in battaglia colla libera volontà, che o il vince corroborata dalla grazia di GESU` Cristo e allora l' uomo è salvo; o si lascia vincere e allora l' uomo è perduto. Ma non si creda perciò soggiunge il Santo, che quel peccato non nuoccia, anche prima di mandar fuori i suoi tralci delle male operazioni, nuoce sempre, se non è sciolto dal Redentore. [...OMISSIS...] Invano adunque Pelagio sosteneva, come fanno i moderni teologi razionalisti, che la concupiscenza non fosse altro che il sentimento carnale (2). S. Agostino rispondeva, che il sentimento è quello che ci rende consapevoli della concupiscenza; ma non è la concupiscenza di cui si parla, occulta madre di quel sentimento. La concupiscenza, quella concupiscenza cioè in cui l' essenza del peccato originale consiste, è una mala disposizione dell' anima occulta in essa, una mala qualità (3). [...OMISSIS...] Ed illustra questo concetto con un esempio che mostra lo spirito veramente filosofico del grand' uomo, [...OMISSIS...] . Riassumendo dunque in poco ciò che abbiamo detto finqui intorno alla concupiscenza ed a' suoi vari significati, 1 Se la concupiscenza si prende per quell' impeto, per così dire, onde l' anima del bambino che si concepisce s' immerge nella viva carne, che l' attira all' atto della concezione, una tale concupiscenza è la causa prossima del peccato d' origine [...OMISSIS...] e non lo stesso peccato d' origine (3); 2 L' animalità così prevalendo trae seco la parte razionale dell' anima, la volontà, che tende da quell' ora spontanea a secondare i movimenti piacevoli della carne; e soddisfarsi nel bene della natura umana come se altro non ci fosse al di là, e a questa tendenza originaria, a questa volontà, o attività razionale dell' anima prona a riporre il suo finale compiacimento nella natura, si dà pure il nome di concupiscenza; ed è in questa, che ha sede quella mala qualità , quella macola , quel reato , in che consiste il peccato d' origine: mala qualità che cessa in virtù del battesimo, benchè rimanga la tendenza alle passioni del senso, ma minuita e che non s' acquieta in questa, perchè la parte suprema dell' anima è sostenuta dall' infusion della grazia. Quella tendenza dunque che rimane specificamente diversa dalla precedente allora dicesi fomite della concupiscenza (1); 3 Dalla detta concupiscenza, o che abbia congiunta la macchia , come ne' non rinati; o che non l' abbia come nei rinati, vengono i movimenti disordinati della volontà prona al senso, che si riducono al peccato originale, se questo vige, o si riducono al fomite, se il peccato originale è pel battesimo estinto. Acciocchè dunque chiaramente s' intenda questa espressione consacrata dalla tradizione, che il peccato originale è il reato della concupiscenza; non dee prendersi la parola concupiscenza per l' atto dell' animalità che attira a sè l' anima razionale nel primo momento dell' esistenza dell' uomo, atto che poi permane; non per gli atti spontanei della volontà, che alle speciali sensazioni abbandonasi; ma per la mera disposizione viziosa a questi atti, posta in essere nella congiunzione dell' anima col corpo; che in noi è quiescente e a noi stessi ignota fin a tanto che non erompe a' suoi atti. E quella disposizione in cui consiste il peccato non è già la semplice tendenza al bene sensibile (la mera concupiscenza senza determinazione di grado) ma ella è la mala qualità , come dicemmo con S. Agostino, che trovasi in quella concupiscenza, quale è a noi innata e dura avanti il battesimo, e che col battesimo cessa. Che cosa è dunque la mala qualità della concupiscenza innata che forma il peccato? Consiste in questo, per dirlo di nuovo, che quella tendenza al diletto animale e al bene subbiettivo della natura rapendo a sè tutta quasi l' attività dell' uomo, rapisce a sè e lega anche la parte suprema dell' uomo la cima dell' anima, nella quale sta la base dell' umana persona, che pure di natura sua dee conformarsi all' ordine di ragione, e sta pure il subbietto di ogni vero peccato. Il lume adunque della ragione, benchè non cessi di risplendere nell' uomo, non è più la costante guida dell' uomo in tale stato; esso lume ha troppo poca influenza sopra un essere così propenso in verso l' animalesca e subbiettiva dilettazione. Poichè quel lume è fatto di natura sua per dirigere a Dio, e già l' uomo non si lascia più da lui liberamente dirigere; quindi dicesi che v' ha in lui mancanza di giustizia consistente nell' inordinazione della volontà, o sia nell' avversione a Dio. Quindi la definizione che dà S. Tommaso dell' originale peccato. [...OMISSIS...] (e non in Adamo, giacchè altro è il peccato considerato in Adamo, altro è il peccato considerato ne' posteri, checchè ne dicano i nostri Anonimi, che menano piedi e mani per confonderli insieme) [...OMISSIS...] ; non la concupiscenza sola, in astratto presa, ma colla mala qualità della privazione della giustizia originale, la qual mala qualità non è meramente l' assenza della grazia, come vogliono i nostri Anonimi (2) (nè l' assenza della grazia è una qualità ); ma è l' indebolimento morale della volontà dell' uomo, pel quale ella non ha più virtù di viver bene, come dice S. Agostino (1), non ha più virtù di muoversi liberamente verso il bene oggettivo (2), il che pur è un disordine morale; e questa virtù non l' ha più, perchè le è sottratta l' attività dell' anima già soverchiamente attratta e legata nell' animalità. L' attività radicale dell' anima è dunque unica, perchè unica è l' anima, ed ella si comparte a diverse potenze (3). Laonde se qualche potenza attrae a sè un soverchio di quell' attività, l' altre ne provan difetto rimanendosi indebolite e torpide a muoversi. Indi accade che la facoltà di seguire il bene oggettivo, che costituisce la volontà buona , sia fiacca nell' uomo, perchè l' animalità oggimai tira a sè troppo dell' attività dell' anima. Rimane potente all' incontro la volontà della carne , cioè quella che segue il bene soggettivo e sensibile, volontà che ha la qualità cattiva in quanto non dà l' attenzione e l' importanza debita al bene oggettivo. Di che riceve gran luce la definizione che dà del peccato d' origine Ugone di S. Vittore, che il dice [...OMISSIS...] . La mala qualità che costituisce il peccato è quella « mortalis infirmitas » della facoltà di volere il bene oggettivo. Questa facoltà di volere il bene è debole perchè l' animalità trae soverchiamente a sè l' attività dell' anima, la quale attività diviene così potente solo a volere il bene soggettivo e sensibile, onde ne consegue quella che Ugone dice « concupiscendi necessitas ». Questa è la dottrina stessa di S. Agostino: [...OMISSIS...] . - Quest' è la dottrina stessa di S. Bonaventura: [...OMISSIS...] : questa in somma è la dottrina tramandataci da tutta l' ecclesiastica tradizione. Forte è dunque la volontà dell' uomo che nasce per volere il bene subbiettivo e sensibile; debole è la volontà di lui per volere il bene oggettivo e morale. Questa debolezza della volontà pel bene è quel languor naturae (3), in cui S. Agostino cogli altri Padri ripongono l' originale peccato; perchè in conseguenza di essa nasce una infelice concupiscendi necessitas contro l' ordine di ragione (4). Poste le quali dottrine innegabili della costante tradizione della Chiesa si può ben far giustizia delle parole, colle quali il moderno Teologo, detraendo alla virtù del battesimo, mette alla medesima condizione i non battezzati, ed i battezzati, dando a quelli una libera volontà capace di viver bene coll' evitare le azioni peccaminose, quant' a quest' ultimi; benchè S. Agostino con tutta la Chiesa chiami il peccato originale, [...OMISSIS...] . Poichè tutto ciò asserisce il nostro C. e parla, in nome di tutti i dottori cattolici: [...OMISSIS...] . Si pesino bene queste ultime parole principalmente. Se, anche l' uomo non battezzato può sempre come il battezzato SENZA DIFFERENZA ALCUNA astenersi dalle azioni peccaminose, non ha dunque necessità per viver bene del santo battesimo; anzi, secondo il nostro autore, nè pure della grazia di Cristo, perchè egli sostiene che la ragione dell' uomo (non la grazia) può sempre accorrere e vincere la passione abusando delle parole dell' Angelico: [...OMISSIS...] . Non è ella questa la genuina sostanza dell' eresia pelagiana, coperta ora più, ora meno, di artificiose parole, ma costituente il fondo di tutti gli scritti de' nostri teologi razionalisti? Non ho io ragione di rispondere a quelli, che non fanno differenza fra battezzati e non battezzati quanto alla forza del libero arbitrio per bene operare, e che attribuiscono all' uno e all' altro un egual potere di reprimere le passioni, ed evitare le azioni peccaminose, quello stesso che S. Agostino rispondeva a quegli eretici che del pari estollevano il libero arbitrio de' non battezzati (e in ciò Agostino era bocca della cattolica Chiesa) [...OMISSIS...] . Laonde se la cattolica Chiesa condannò quelli che dicono impossibili i divini precetti a' giustificati, i quali hanno l' aiuto della grazia, facendo così differenza fra le forze del giustificato, e quelle del non giustificato. [...OMISSIS...] ; d' altra parte condannò altresì quelli che li dissero possibili a' non giustificati operanti colle naturali loro forze. Onde ne' capitoli di S. Celestino Papa si legge (4), [...OMISSIS...] . Che anzi la Chiesa, lungi d' ammettere che il non battezzato che non opera colla grazia possa egualmente che il battezzato astenersi dalle azioni peccaminose, come insegnano i moderni nostri teologi; Ella dichiara incapace di ciò il battezzato stesso, se non riceve ognora nuovo aiuto di Cristo, il quale lo dà a chi lo domanda. [...OMISSIS...] è il terzo capitolo di Celestino, [...OMISSIS...] . Laonde i nostri recenti teologi razionalisti danno più forze al non battezzato, che non dia la Chiesa cattolica allo stesso battezzato. Certo, se io scrivessi pe' soli teologi tali cose, mi darei una cura superflua, essendo loro troppo noto, appartenere alla fede, che le forze del libero arbitrio in un uomo giustificato e incorporato a Cristo pel battesimo, sono di gran lunga maggiori pel bene, di quelle che dalla mera natura abbia un altro non battezzato; e d' altra parte ho già dimostrato ampiamente nella « Risposta ad Eusebio », che passano tre ragguardevolissime differenze fra il potere d' operare il bene che ha l' uomo battezzato e quello che ha il non battezzato e privo di grazia, nel quale scorgesi 1 incapacità di eseguire a pieno i divini comandamenti; 2 cedevolezza al peccato; 3 incapacità di meritare la vita eterna (1), e le contrarie doti sono nel battezzato; tutte le quali dottrine vengono affatto dissimulate dal C., come se da me non fossero state nè manco accennate, non che provate con irrefragabili autorità, scrivendo io dunque piuttosto pe' fedeli non teologi, che si cerca ingannare sotto specie di zelo per la pura dottrina, seguiterò a dir quello, che il loro vantaggio mi sembra richiedere. E questo sarà dimostrare, deducendolo dall' intima natura del peccato originale e della liberazione da esso che si fa pel battesimo, che un effetto di questo sacramento è altresì la mitigazione delle forze della mala concupiscenza e che perciò erra dannosamente colui che non vuol riconoscere differenza alcuna fra battezzati e non battezzati quanto alle forze della libertà umana in evitare le azioni peccaminose, alle quali incita la mala concupiscenza. Egli è di fede, 1 che nel battesimo si ottiene la giustificazione de' peccati; 2 che questa giustificazione non consiste nella sola remissione de' peccati; 3 che ella consegue ad un' operazione della grazia divina, che si diffonde nei cuori per lo Spirito Santo, [...OMISSIS...] . Del sentimento diffuso in noi di questa grazia così parla S. Paolo, [...OMISSIS...] . Dal qual sentimento interiore nasce l' istinto dello Spirito Santo, e la facoltà di operare il bene soprannaturale meritorio di vita eterna. L' uomo battezzato è dunque congiunto con Dio, che a sè solleva l' attività dell' anima, come il senso animale dall' altra parte a sè la deprime. L' attività dunque suprema dell' anima, mediante la grazia, viene innalzata dalle cose terrene, ella è ingrandita, rinnovata, una nuova potenza comparisce nell' uomo superiore per dignità e per potere a tutte l' altre, essa diventa la cima dell' uomo, la base della sua personalità. Per questo le divine Scritture esprimono l' operazione che fa il battesimo dicendo che, l' uomo viene rigenerato; [...OMISSIS...] ; e la distruzione del peccato che ne consegue l' esprimono dicendo, che l' uomo nel battesimo muore al peccato (4), [...OMISSIS...] dove risiede la nova personalità dell' uomo; rimanendo l' attività prima, la precedente volontà, ma scaduta di posto (1), a cui perciò compete più l' appellazione di persona, onde la precedente persona infetta dal peccato è morta, cessando così dall' essere persona subbietto capace di peccato. In questa maniera la facoltà di volere e di fare il bene oggettivo è divenuta quella che S. Agostino colla tradizione chiama il libero arbitrio liberato (2). Messa adunque nell' uomo una volontà suprema retta, anche la giustizia è in lui restituita, che nella rettitudine della personale volontà si ripone; quindi è tolta la macchia del peccato, che sta nell' inordinazione, e nel languore della volontà suprema, e che è la deformità propria della volontà; quindi rimesso il reato, perchè il reato o sia il debito della pena segue la macchia del peccato, e questa tolta, è tolto quello altresì (3). Vero è che continua l' animalità ad operare sull' anima e a tirarne a sè quanto può l' attività; ma essa non la trova più così mobile e fiacca come prima; poichè, se essa la tira al basso; dall' altra banda havvi già Iddio nell' uomo che colla sua grazia la tira all' alto, e di tutto peso, per così dire, la sostiene. Quindi l' attività dell' anima è divisa, non più al solo senso lasciata andar col suo peso; anzi la miglior parte di lei, quella in cui l' uomo personalmente esiste è nella mano di Dio che se l' ha presa; e la guarda; se pure il libero arbitrio dell' uomo, che sempre ad peccandum valet , non gliela sottrae nuovamente. Di che si fa manifesto, che quella, che Ugone di S. Vittore e S. Bonaventura e dopo lui tant' altri, chiamano concupiscendi necessitas , dee nel battezzato di gran lunga mano diminuirsi di grado, e cangiar anco di specie; in una parola dee mitigarsi lo stesso fomite della concupiscenza; benchè la coscienza nol dica all' uomo immediatamente; bastando che gliel dica la fede, e l' esperienza. E in quanto al grado non può negarsi, che la tendenza dell' anima al bene soggettivo e sensibile deva riuscir minore dopo il battesimo, se una parte dell' attività dell' anima e la migliore è attratta dalla grazia che avvalora il libero arbitrio, e lo spirito vi diffonde l' affetto della carità, e dalla soavità di questo, tutta opposta alla carnale dilettazione, si trova occupata. Quanto poi alla specie; la concupiscenza dopo il battesimo varia certo specificamente dalla concupiscenza anteriore al battesimo in questo; che dopo il battesimo, non occupa più la parte superiore dell' uomo; e però non è più concupiscenza personale , ma è solo concupiscenza naturale; non è più concupiscenza con macchia e reato; ma toltole via l' una e l' altro; non è più peccato, ma solo fomite; non perde più l' uomo, ma gli dà occasion di combattere col suo libero arbitrio liberato, di vincere e di meritare. Le quali cose tutte mi si permetta di suggellare colle autorità del Maestro delle sentenze, e dell' Aquinate suo commentatore. Pietro Lombardo così scrive al nostro proposito, [...OMISSIS...] . E tosto passa a provare, che gli effetti del battesimo sono due principali, cioè 1 la soluzione del reato della concupiscenza, e 2 la diminuzione del fomite, e che nell' uno e nell' altro modo si suol dire, che il peccato originale nel battesimo si rimette. [...OMISSIS...] . E prova che la remissione del peccato originale nel battesimo suol dirsi, che si fa anche per la diminuzione della concupiscenza colla testimonianza di S. Agostino, di cui adduce questo testimonio: [...OMISSIS...] . Sulle quali parole aggiunge il Maestro delle Sentenze, [...OMISSIS...] . L' Angelico commentatore di Pietro Lombardo ammette pienamente i due effetti del battesimo, la soluzione del reato della concupiscenza e la diminuzione del fomite della stessa, e dopo aver insegnato, che ogni peccato reca due mali effetti nell' anima, l' avversione a Dio (macchia e reato), e l' inclinazione ad un simile atto (1); mostra come la giustificazione toglie l' uno e l' altro effetto (2). La qual dottrina egli applica in questo modo alla grazia del battesimo, [...OMISSIS...] . Questo è il primo effetto della grazia battesimale; il secondo poi è la diminuzione del fomite, e così viene descritto dal Santo Dottore, [...OMISSIS...] . E` dunque ingiurioso alla grazia di Cristo, è ingiurioso ai dottori cattolici, è ingiurioso alla cattolica religione il dire, che [...OMISSIS...] , di maniera che la ragione de' primi e quella de' secondi sia egualmente forte contro le lusinghe de' sensi, e possa sempre ugualmente [...OMISSIS...] : in tal caso la sola naturale ragione e libertà basterebbe da se stessa, senza la grazia, ad evitare tutti i peccati, e però a vivere giustamente, il che la Chiesa riprova (2). Convien dunque riconoscere da chi vuol tenersi nella dottrina della Chiesa cattolica; che la liberazione che Cristo fece della schiavitù del peccato, secondo la sua promessa (3) non ha un effetto solo, come voleva Giuliano d' Eclana; ma sì, ne ha due, come colla Chiesa cattolica volle Agostino d' Ippona: il quale dopo aver recate le parole del figliuol di Dio, [...OMISSIS...] . Dalle quali dottrine si può conoscere differenza immensa, che i dottori cattolici fanno tra i battezzati e i non battezzati relativamente al potere di operare il bene e di vincere il male. Perocchè nell' uomo non rinato 1 vi è una concupiscenza che è peccato (reatus concupiscentiae), perchè tiene captivata la umana persona, quando una concupiscenza con sì mala qualità , che è il peccato, non esiste più nel battezzato; 2 vi è una concupiscenza che è più intensa nel tirare l' uomo al male (fomes concupiscentiae), perchè ella sola tira quasi tutto l' uomo, anche la persona senza che abbia in opposizione a lei sufficientemente altra forza efficace, che attiri l' uomo, eccetto il troppo debole lume della ragione naturale; quando nel battezzato se da una parte vi è l' animalità che continua ad attrarre a' suoi istinti l' anima; dall' altra vi è la grazia, che possiede la parte suprema dell' uomo e avvalora il suo libero arbitrio, e però nol lascia più abbandonato alle forze della concupiscenza. Concludasi adunque, la concupiscenza dell' uomo rinato differisce di specie e di grado dalla concupiscenza dell' uomo non rinato; e quindi in quello è doppiamente accresciuta la potenza di resistere al male e di operare il bene. Consideriamo ancora la doppia serie di effetti, che ne scaturiscono. In quanto all' operare il bene, il battezzato ha ricevuto una potenza affatto nuova, cioè la potenza che riguarda il bene soprannaturale, colla quale fa le azioni de' figliuoli di Dio, che meritano la vita eterna. Questa potenza soprannaturale è ciò che rende la sua concupiscenza di specie diversa da quella dell' uomo non battezzato, e che gli dà forza di resistere al male. In fatti il non battezzato, come insegna l' Angelico (1), non può colle sue sole forze naturali astenersi per lungo tempo dal peccato mortale ove gravi tentazioni gli si presentino (2). E qui sono da distinguersi più questioni. Primieramente dico, che nel caso in cui il fomite della concupiscenza tragga l' uomo a seguire spontaneamente colla volontà sua il bene sensibile e subiettivo, dimenticato l' oggettivo e morale; senza che la libertà possa intervenire a dominare la volontà obbediente alle leggi piscologiche della spontaneità, il che indubitatamente accade ne' bambini, ne' pazzi, negli ubbriachi, e in tutti quelli in cui la forza dell' imaginativa esaltata e della passione antecede la libertà, togliendole il tempo di considerare colla ragione e di provvedersi di forza pratica; in questo caso dico, ne' non battezzati quella volontà che riman così vinta, suol essere quella stessa volontà, che è rea e macchiata; cioè che ha in sè l' originale peccato, e però gli atti d' una tale volontà cedevoli agl' istinti, riduconsi al peccato d' origine tuttora esistente e regnante, come a sua causa immediata e radice. Queste scorse della volontà quasi trascinata dagl' istinti appartengono in tal caso non già alla forma, ma alla materia dell' originale peccato, la qual materia, come egregiamente dice S. Tommaso, tien luogo della conversione al bene sensibile e soggettivo; senza che il formale del peccato d' origine, nè la colpa perciò si accresca. Laonde nè pure la colpa o il reato, riceve aumento ma s' accresce bensì nell' uomo per sì fatte passioni la disposizione al male, la quale nè anche colla morte si distrugge, ma solo colla liberazione e salvazione di Cristo. Ma ne' battezzati non accade così fino che colla loro libera volontà non hanno di novo perduta la grazia di Dio, essi non possono mai esser necessitati ad alcun atto di peccato, per quantunque forti sieno le naturali inclinazioni. Que' movimenti poi che si suscitano verso i beni sensibili nell' uomo, che è in possesso della grazia santificante, nell' età infantile, e in istato d' alienazione mentale non procedono mai da una concupiscenza macchiata e rea e personale; ma possono procedere dal mero fomite che rimane privo della macchia e del peccato personale o sia che non tocca la persona. Laonde questi sono allora figli di un' altra madre, e non si può più dire che in essi operi il peccato in senso vero e proprio, ma solamente che sieno effetti mediati e lontani di quel peccato, che non è più, ma che partendosi lasciò in essi il tristo legato del fomite che tenta, ma non distacca l' uomo da Dio. Onde nel « Trattato della Coscienza » noi spiegavamo il parlare dell' Apostolo seguendo i Padri e gl' Interpreti, dicendo che quelli, che l' Apostolo chiama peccati, sono peccati senza dannazione e senza imputazione (mentre ne' non battezzati hanno la stessa condizione del peccato d' origine), e il dire peccato senza dannazione e senza imputazione, è manifestamente un dire non peccato nel senso proprio del Tridentino, che il definisce acconcissimamente: « morte dell' anima. »Di che consegue che se ne' non battezzati sono propagini immediate di quel peccato che vige e regna e però possono insieme con lui ricevere la denominazion di peccato, ne' battezzati all' incontro sono meri effetti del fomite, che non è peccato; e al fomite si riducono, e però dal padre loro non possono ricevere la denominazione di vero peccato; nè lasciano dopo morte alcuna mala disposizione od altro malo effetto nell' uomo; perchè distrutto colla morte il fomite con tutte le sue conseguenze, l' anima del giusto rimane del tutto pura e viva in Cristo, che è « la risurrezione e la vita », eccettuate sempre le colpe veniali, a cui anche i battezzati soggiaciono. Oltre di ciò se ne' battezzati tali movimenti cangiano di natura, perchè nascono da una concupiscenza, che è diversa di specie da quella de' non battezzati; essi sono poi anche minori di numero, e meno impetuosi, come quelli che procedono da una concupiscenza diminuita ancora di grado . Ma un' altra differenza ancora, a mio parere, s' incontra fra il battezzato e il non battezzato. Talora il mero istinto animale opera da se solo, come suole avvenir nel sonno, o quando l' uomo si trova in uno stato convulsivo, a ragion d' esempio, perchè colto da idrofobia. A queste operazioni della mera animalità possono essere soggetti anche i giusti, non appartenendo esse all' ordine morale. Ma lasciando da parte questi mali della natura e venendo all' ordine morale la volontà allettata dal bene sensibile e soggettivo può lasciarsi muovere spontaneamente e necessariamente, trovandosi l' uomo in due condizioni diverse. E parlo ora dell' uomo in generale, astrazion fatta dal battezzato e dal non battezzato. Ella può esser rapita e mossa semplicemente e istantaneamente da bene sensibile, senza che l' uomo abbia tempo a considerar la legge e a confrontare l' azione oggettivamente malvagia con essa, e questo accade ne' primi moti, nel qual caso, la volontà umana opera disordinatamente, perchè in modo contrario alla sua natura che è di essere un ragionevole e morale appetito; ma questo disordine più tosto negativo che positivo non è che venial peccato. Può l' uomo in secondo luogo (sempre in generale prescindendo ora dalla grazia) vedere il bene oggettivo e morale, ma poi, attesa la forza della tentazione, essere addotto al bene subbiettivo7immorale, sottratta la forza pratica alla sua volontà, dalla seducentissima dilettazione giunta all' estremo suo termine; di che cade non perchè sia rimasta prevenuta la sua ragione e resa inetta a mostrargli il dovere; ma perchè è rimasta prevenuta e legata la sua libertà, la quale non potè aiutarlo contro lo spontaneo volere, ed a ciò che la ragione gli mostrava, attenersi. Nell' uno e nell' altro di questi casi vi può esser colpa in causa, se questa fu libera; ma in tali atti in sè considerati e prescindendo dalla causa libera, non vi è colpa; poichè si suppone in entrambi, operar l' uomo attualmente privo di libertà, benchè siavi peccato, che in relazione alla causa libera dicesi colpa. Ora sì nell' uomo battezzato che nel non battezzato, il primo caso può aver luogo indubitatamente, non però egualmente; ma più in questo e meno in quello. Quanto poi al secondo, reputo, che possa aver luogo solo nel non battezzato; e reputo che di questo caso intenda dir S. Tommaso, quando parla de' peccati mortali, a cui il non battezzato necessariamente soggiace (1). Egli dice, che quantunque l' uomo non giustificato possa evitare i singoli peccati, tuttavia, « quod diu maneat absque peccato mortali esse non potest », e il prova coll' autorità di S. Gregorio Magno (2), dandone questa ragione, [...OMISSIS...] . Dopo di che si fa l' obbiezione, che l' uomo può anche operare contro il fine preconcepito e contro l' abito, purchè ricorra alla meditazione; ma risponde, che [...OMISSIS...] . Di che conchiude che l' uomo non giustificato non può a lungo astenersi da ogni peccato mortale, perchè [...OMISSIS...] . La cosa però non procede egualmente nel battezzato; e se ne può dare questa ragione filosofica. Fino a tanto che la ragione non può accorrere, confrontando il bene soggettivo e istintivo col bene oggettivo e morale; la volontà va dietro al bene sensibile naturalmente; non gli è proposto veramente ancora un oggetto morale; né l' uomo conosce, nè sente l' obbligazione; e perciò l' operazione non viene dalla volontà personale e morale; o quel barlume che n' ha non basta a costituire una grave inordinazione, un peccato mortale. Ma qualora la ragione gli mostri attualmente e chiaramente ciò che dee fare, egli sente l' obbligazione di operare secondo il bene oggettivo e morale, che scorge. Laonde in questo caso se l' uomo non potesse resistere, sarebbe segno manifesto che v' avrebbe un languore nella stessa persona dell' uomo, non solo nella natura . Ma la persona non ha più languore dopo il battesimo, ma solo la natura. Dunque, come dissi nel « Trattato della Coscienza », non possono mai mancare all' uomo battezzato le forze, colle quali adempire alle obbligazioni da lui conosciute, purchè si giovi degli aiuti che sono in sua mano, fra i quali quello dell' orazione, dicendo il Concilio di Trento, colle parole di S. Agostino, de' giustificati, [...OMISSIS...] , alle quali consuona il Canone XXII. [...OMISSIS...] . Che se pur si avverasse che l' uomo giustificato e faciente quel ch' egli può cedesse necessariamente a qualche lusinga, ciò non potrebbe essere, che ne' primi moti, o in uno stato di ragione turbata, e ciò non farà mai con tutta l' attività voluta dal peccato mortale, a costituire il quale non basta che intervenga l' azione personale o la libera, ma si esige che l' oggetto stesso dell' azione sia personale , e però che abbia ragione di fine ultimo. Di che il cedere non sarà mai che parziale nel detto caso, da parte dell' attivitá umana, non totale: e dato che intervenga qualche disordine nell' azione personale non sarà tale da staccar la persona dall' oggetto buono e morale a cui aderisce. Onde non vi sarà che colpa veniale di cui rimane la miniera anche ne' battezzati, per usare una frase del Cardinal Pallavicino che è il fomite della concupiscenza (1). Possono adunque i giustificati, colla divina grazia, adempire tutte le obbligazioni da essi conosciute, se fanno quello che sta in loro, nè mai sono addotti dalla tentazione senza il consenso della loro libera volontà in tale strettezza e deficienza di forze da dovere arrendersi ad essa in modo da peccare gravemente; là dove a' non giustificati non è assicurata un' egual forza; quantunque sia vero, come dicevamo, che quando essi cadano sotto il fardello delle proprie obbligazioni per assoluta impotenza, non demeritano con ciò se manchi in essi al tutto la forza di evitare il peccato (1). Ma nella loro volontà, se questa è soccombuta rimane una maggior piega ed adesione al male commesso. Nè con questo è mio pensiero di negar loro la possibilità di pregare, eccitati dalla grazia. Reputo ancora, che una orazion naturale, che niente certamente può meritare, possa non di meno essere ordinata a domandare nell' ordine della giustizia naturale aiuti morali da Dio naturalmente conosciuto, ed impetrarli ancorchè non dovuti. S' aggiungono le grazie attuali, che dispongono l' uomo non giustificato, alla giustificazione; le quali Iddio certamente dona a chi vuole, secondo l' altissimo suo beneplacito, secondo quello che insegna il sacrosanto Concilio di Trento. E qui sembrami poter giovare a chiarire le idee (giacchè per questo appunto mi allungo in tali ragionamenti), l' esporre l' origine logica del Giansenismo; cioè il dimostrare, per quali passi sbagliati, l' intendimento degli autori di questa eresia traboccasse in essa miseramente. Lo sbaglio primo si fu l' aver confuso la volontà colla libertà; e il non avere avvertito che queste due facoltà operano con leggi diverse; e formano due sfere di operare; delle quali quella della libertà è superiore a quella della semplice volontà. Il moderno teologo precipita nello stesso sbaglio, quando vuol confuso il mero volontario col libero; e quando incontrandosi in alcuni luoghi in cui noi parliamo della volontà e delle leggi che ad essa presiedono; egli ci accusa (1) di negare la libertà , che pure in tanti luoghi dichiariamo essere una forza superiore alla volontà che perturba e modifica le leggi a cui la volontà da sè sola ubbidirebbe. Ora quali sono le leggi della volontà , quando quella facoltà (diversa dalla libertà) che dicesi, un appetito razionale , rimane abbandonata a se stessa? La legge si è che ella inclina a tutti quanti i beni dall' uom conosciuti, e si lascia muovere dalla loro azione; e acconsente di preferenza al maggiore, se non può aderire a tutti. E questo è infatti lo stato dell' uomo, prima ch' egli possa esercitare la sua libertà, lo stato del bambino, non pervenuto ancora all' esercizio della sua libertà bilaterale. In un tale stato la volontà è dolcemente attratta da ogni bene, perchè è la potenza del bene, ella è mossa da ogni stimolo per piccolo che si voglia perchè è mobilissima e soprammodo delicata; e per quella legge che dicesi anche spontaneità , se due agenti allettevoli contemporanei l' attirano, tende verso ad entrambi, ma a quello, che esercita su di lei una maggior forza, si volge più ardente, o con preferenza. Ora se il bambino non è battezzato, egli è attratto debolmente dal lume di sua ragione, che per se solo non esercita un' azione su di lui realmente sensibile (cioè al modo che è sensibile l' azione delle cose reali di cui ha percezione); ed è attratto fortemente dalla dilettazione del senso animale. Laonde quantunque l' intelletto umano aderisca per sua natura all' essere ideale , e quindi la volontà sia volta naturalmente anche al bene oggettivo universale, onde s' origina nell' uomo la facoltà di operare il bene morale, la quale non può in lui cessare giammai, e con essa si origina pure il libero arbitrio; tuttavia l' animalità e il bene soggettivo predomina nell' uomo in tale stato, essendo questo bene il solo agente reale che sull' anima influisca e che può a sè prevalentemente attirarla. Se dunque avvenga in progresso, che fra il bene morale e il bene subbiettivo nasca forte collisione, e la libertà non trovi in quello forze bastevoli contro questo, l' uomo seguita a veder quel primo, e ad approvarlo; ma s' appiglia coll' opera a questo secondo, [...OMISSIS...] . Nell' uomo battezzato incorporato realmente a Cristo la condizione delle cose è ben altra. Se da una parte v' ha l' azione reale del bene animale, che a sè l' attira, dall' altra v' ha un altro bene reale assai maggiore che pur l' attira o per meglio dire lo tiene; e questo è Dio, che si comunica all' anima, comunicandole la grazia e diffondendovi la dilettazione della carità e così avvalorando poi il libero arbitrio che può sempre vincere. Laonde nell' uomo in tale stato costituito accade che quantunque l' animalità da parte sua seguiti ad allettare a sè l' anima volitiva ed attiva dell' uomo anche dopo il Battesimo siccome prima, onde il fomite; tuttavia quest' anima stessa nella sua parte più eccellente è contemporaneamente tenuta e posseduta da Dio; e così il bene infinito risiede nell' anima non solo idealmente ma anche realmente. L' azione del qual bene, che è Dio, di sua natura (se il libero arbitrio non si oppone) prevale a quella della carne: prevale dico per due guise, l' una perchè Iddio occupando la parte superiore dell' uomo, la punta dell' anima, che è nata a comandare all' altre potenze, sana e santifica il principio personale dell' uomo che in quella punta risiede; ed altresì perchè l' operazione divina è più forte di sua natura di quella della carne, ed ella è sì forte che niente può separare Iddio dall' anima volitiva se non sopravviene la libertà dell' uomo stesso, la quale peccando, per sè medesima si stolga e separi da lui, che per usare le parole di S. Agostino consacrate dal sacrosanto Concilio, [...OMISSIS...] . Egli è dunque chiaro, che qualora si parli della sola volontà dell' uomo, considerandola in separato dalla sua libertà , che è la potenza nata a dirigerla, ma che sempre non si trova in esercizio, come accade ne' bambini, od è legata, o prevenuta dagl' impeti focosi dell' immaginazione e dagl' istinti de' nervi eccitati, come ne' pazzi, o in quelli che sono da veemente accesso di passioni sorpresi; in tal caso la volontà dell' uomo ubbidisce spontaneamente alle dilettazioni che la dileticano, e più a quella che la diletica maggiormente; e se un bene l' occupa nella più alta sua parte, le operazioni che da questa parte incominciano sono personali, e buone o cattive, secondo che quel bene che informa la persona dell' uomo è onesto o disonesto, e la dilettazione che da esso viene onde procedono le azioni, secondo la legge della spontaneità, è buona o cattiva ella stessa. Quindi l' aiuto che riceve il bambino col sacramento del salutare lavacro appartiene a quel genere, che S. Agostino chiama « adjutorium quo »; il qual aiuto è da S. Agostino negato ad Adamo, accordatogli il solo « adjutorium sine quo ». E così dovea essere. Poichè la volontà del bambino essendo rea e non avendo in sè il potere di giustificarsi da se stessa e di rettificarsi; nè potendo come rea che era usar bene nè del proprio arbitrio, come dicono i Capitoli di S. Celestino, nè degli aiuti superni, se non fossero tali che prima la giustificassero o alla giustificazione la disponessero; perciò conveniva, che Dio stesso operasse quasi una creazione novella e colla sua onnipotente grazia sanando e avvalorando l' anima, cangiandola cioè di mala in buona, onde di questa grazia acconciamente dice S. Agostino [...OMISSIS...] . All' incontro la volontà d' Adamo era già naturalmente retta, e però non facea mestieri di essere liberata dal male, bastando che fosse aiutata a fare il bene con quella grazia, «SINE QUA », non si può operare il bene perfetto, appartenente all' ordine soprannaturale (2). E quantunque all' « auxilium quo » di S. Agostino si riferiscano anche le grazie attuali, e sono tali per la loro interna efficacia, e per la certezza con cui realizzano l' eterna predestinazione (1): tuttavia egli prima di tutto lo fa consistere nella grazia [...OMISSIS...] ; al che è consentanea la definizione del sacro Concilio di Trento, il quale insegna che della giustificazione dell' uomo [...OMISSIS...] . Ora egli è certo, che con questa potentissima grazia del Salvatore, l' uomo non può da niuna cosa esser vinto, se liberamente non consente al male; e perciò il bambino battezzato o altri santificati nelle acque del battesimo, in cui il libero arbitrio sia impedito o legato, è in istato di certa salute; perchè prevale in lui la grazia e la carità di Cristo alla tentazione della carne e del demonio, in tanto che questa non può più distaccar l' uomo da Dio. Nè si dee credere, che non operando nel bambino la libertà , sia perciò straniera la volontà all' opera della salvazione; perocchè anzi la volontà è quella che viene santificata e informata dalla carità di Cristo, e quella che poi opera coll' aiuto di questa grazia e dell' attuale (2). Restringendoci adunque entro all' ordine della volontà, e prescindendo dall' ordine della libertà per un' astrazione, ovvero perchè si suppone la libertà inattiva come nel bambino, ha luogo il sistema delle due dilettazioni relativamente prevalenti. Nell' uomo non giustificato prevale la dilettazione della carne e lo perde; nell' uomo giustificato prevale di dilettazione della grazia di Cristo e lo salva. La volontà è tirata ed aderisce a chi l' attrae maggiormente e più altamente: tale è la legge della volontà; non quella della libertà che domina sopra la volontà. E alla volontà sgraziatamente si fermarono i giansenisti. Essi racchiusero tutti i loro pensieri entro la sfera della volontà che si definisce: « un appetito razionale; »entro la quale sfera, prescindendo da quella forza superiore che si definisce coll' Apostolo « « potere sulla volontà »(1) » e dicesi libertà; trova luogo il sistema delle due dilettazioni contrarie, che, secondo il grado di forza prevalente, esercitano successivamente, o alternativamente il dominio sull' umano appetito. Ma ella era una veduta ristretta ed esclusiva la loro. Essi errarono dunque per non avere osservato che al di sopra della sfera della volontà sta nell' uomo un' altra sfera, quella della libertà , nata ad essere signora della volontà, che è una facoltà inferiore relativamente a quella; e questo errore nacque nelle menti perchè non erano in allora ben distinte queste due attività dell' anima razionale, cioè quella di volere , e quella di eleggere fra le volizioni , la volontà e la libertà. Per la quale confusione medesima i pelagiani dall' altra parte coi nostri teologi disconoscendo le leggi della volontà , e attribuendo ogni potere alla libertà , fecero onta alla grazia ed alla salvazione di Cristo, insegnando, che anche ne' non giustificati [...OMISSIS...] . Il che è un manifesto abuso di alcune parole di S. Tommaso, le quali si riferiscono alla potenza rimota , e non alla potenza prossima , secondo la distinzione giustissima del Gaetano (2), nessuno negando che di natura sua la libertà possa accorrere, per se sola considerata; ma negandosi che possa sempre accorrere nelle circostanze dell' uomo caduto e non giustificato, [...OMISSIS...] come dichiara S. Tommaso medesimo, qual si richiede ad evitare il peccato (3). Onde vi ha la potenza, ma non la potenza propria e in assetto a produr fuori l' atto: vi ha la potenza , ma non la possibilità di operare . Di che i Padri del Concilio Diospolitano obbligarono i pelagiani a confessare, fra gli altri capi questo: [...OMISSIS...] . Là dove il nostro teologo viene a sostenere in quella vece che la vittoria contro alle illecite concupiscenze può sempre venire ex propria voluntate , che di conseguente alle forze naturali dell' uomo (battezzato o no è il medesimo) se ne deve dare la gloria! Iddio ci preservi da dottrine che cotanto alimentano l' umana superbia, e così rendono irrimediabile l' umana impotenza. Il vangelo in fatti è tutto nell' umiltà: dove non si semina questa, non si sparge il seme di Cristo. Il vangelo è nella virtù di Dio: ma la virtù di Dio non soccorre all' infermità dell' uomo, se l' uomo ricusa di sentire la sua infermità, non vuol riconoscerla nè confessarla. Il dire, che l' uomo può esser giusto da sè secondo la natura senza bisogno della grazia di Dio (1) non è un confessare la propria infermità; ma stabilire una giustizia dell' uomo contro la giustizia di Dio. [...OMISSIS...] Il Razionalismo introdotto nella Teologia trae seco l' umanismo nell' ecclesiastico ministero . Intendo per Umanismo quello spirito, che, senza dimettere le apparenze della pietà, propende sempre a giudicare in favore dell' esaltamento dell' uomo: sempre intende ad attenuarne la malizia e coprirne le piaghe, a dissimularne o negarne l' impotenza, a secondarne le naturali inclinazioni, ad adularne e giustificarne sottilissimamente le passioni ne' trovati dell' umano ingegno, e ne' mezzi dell' umana potenza, anche trattandosi d' imprese spirituali, a perdere di veduta la povertà e la virtù della croce, a dispregiare la semplicità evangelica, a modificare in mille guise le parole di GESU` Cristo, a interpretarle a voler della carne, quasi per giuoco d' ingegno, ad obliare le promesse del Principe dei Pastori, a non vivere oggimai più di fede ma d' artifizi e di maneggi, non più traendo seco forza dalla sola speranza riposta negli aiuti superni, fuori della quale speranza il più industrioso e costante ecclesiastico in vece della pace di Cristo reca da per tutto dove va la discordia, e in vece di stabilire tra popoli il regno di Dio, vi pone senza saper come impedimento; o fors' anco dopo un frutto momentaneo lascia il campo del Signore ingombro di triboli e di spine da lui stesso seminate. Coloro i quali conoscono la storia delle missioni straniere e n' hanno meditato le vicende potranno dire, quale altro spirito, se non uno spirito tutto particolare ed umano, sia stato quello che fece una sì sottile e sì costante opposizione allo stabilimento dell' Episcopato e della gerarchia in molte missioni straniere, onde avvenne, che appena nate perirono tante cristianità nell' Oriente, e specialmente nel Ton7King, nella Cocincina e nel Giappone? GESU` Cristo mandò degli Apostoli Vescovi ad annunziare il Vangelo. Così fece sempre la Chiesa. A' Vescovi prestarono aiuto grandissimo de' sacerdoti e de' laici. Ma successe un tempo, in cui alcuni religiosi, credendosi aver trovato de' mezzi migliori di propagare e di fondare il regno di Dio, esclusero l' episcopato quant' era da loro e la gerarchia, o le fecero quella guerra lunga or diretta ora indiretta che poteron maggiore (1). Qui basti di rammentare i viaggi, gli stenti, le afflizioni, gli anni ch' ebbe a patire e a spendere il P. Rhodes della Compagnia di Gesù per riuscire, avendo pure i Pontefici alla sua impresa favorevoli, ad ottenere, quanto l' esperienza gli aveva dimostrato sì necessario alla stabilità del Cristianesimo, che de' Vescovadi ed un clero indigeno fossero in quelle infelici e pereunti missioni stabiliti. Lo spirito di Razionalismo nella mente, d' Umanismo nel cuore e nella condotta, è quel sottil veleno, pura essenza, etere invisibile dell' amor proprio, che penetra ben anco in uomini molto innanzi nella virtù; i quali da esso insensibilmente condotti s' allontanano dalla verità e s' affezionano e parteggiano e quasi a sè ed altrui mentiscono lusingati di poter così far del bene e giovare alla pietà. E che altro mai se non questo umano e fallibile ragionare fu quello che in occasione de' riti Cinesi gettò fra i missionari quella sempre mai lacrimevol discordia, che tanto danno recò alle missioni della China, e cagionò la perdita di tante anime, impedì l' acquisto alla Chiesa di tante popolazioni? Che altro se non la propensione a giudicare con troppo favore della naturale sapienza ed a scusare poscia, se non anco lodare quelle debolezze che ad essa natural sapienza conseguitano fu la cagion vera di quegli errori che difesi ostinatamente (1) dovettero pur condannarsi con tante bolle de' Sommi Pontefici, e ultimamente con quella del dottissimo Benedetto XIV degli 11 Luglio 1742? Lasciamo parlare un recente scrittore lodevolissimo per lo spirito d' imparzialità, colla quale narra i principii di sì famosa questione. [...OMISSIS...] Quali funeste conseguenze traessero i nemici della religione cristiana contr' essa dalle accennate esagerazioni a favore della sapienza naturale de' Cinesi, e della giustificazione de' superstiziosi loro riti, con somma equità e moderazione si narra nelle belle lettere del Sig. Luquet che abbiamo citato. A noi rincresce troppo di trattenerci più a lungo in un argomento sì tristo, come quel de' riti cinesi; e ci basta avere solo accennato di nuovo quale sia la prole amara e funesta di quello spirito umano e razionalistico, che par talora servire alla pietà, ma in ver la distrugge. E qui egli è già tempo di chiudere il nostro ragionamento. Prima però debbo dichiarare, che tutto ció ch' io dissi in quest' opera, nol dissi coll' animo di definire, che a me non s' aspetta, ma sol per teologico raziocinio, che a ognuno è permesso. Del resto alla Chiesa, di cui mi glorio essere figliuolo e discepolo ogni mio sentimento sommetto. La Chiesa giudichi se i miei timori sono fondati: ella giudichi il mio giudizio. A me parve, e pare, per ritornare a ciò che dissi al principio, che il maggior pericolo, che or le sovrasti, sia in quel pratico Razionalismo che s' insinua per tutto, sotto apparenze di pietà, e che insensibilmente, come ruggine, la stessa sana dottrina rode e consuma. E questo pericolo è grave principalmente per due ragioni; la prima, che i ragionamenti de' razionalisti sono intesi e favoriti facilmente dal comune degli uomini, quando le verità della fede che quelli corrodono sono all' opposto profonde, arcane, talora all' umane menti ripugnanti: l' altra, che il Razionalismo teologico è sempre in sul far credere, che niun' altra via di mezzo si trovi, ma convenga seguitar lui, o cadere nell' odiosissima e rigidissima eresia del Giansenismo. E queste due cagioni, la somma difficoltà d' intendere in modo non ripugnante alla ragione il dogma profondissimo della grazia conciliandolo col libero arbitrio e colla bontà di Dio che vuol tutti salvi; e il gran timore di cadere nell' eresia de' predestinaziani (1) e de' gianseniani, eresia desolante e inducente a disperazione; ebbero tanta possa di spingere talor anche uomini santissimi sulla via apparentemente piana e fiorita che loro addittava il pratico Razionalismo (2). Indi è che vinto appena il Pelagianismo antico, surse nella Chiesa il Semi7Pelagianismo (3) a cui diedero il loro nome anche uomini, che onoriam sugli altari, o quando la chiesa non avea ancor dannata quell' eresia sottilissima o dopo dannatala, ma ritrattandosi essi innanzi morire. E tanti ebbe seguaci quell' errore seducentissimo, che S. Prospero lamentavasi [...OMISSIS...] . Benchè poi i sommi Pontefici con la Chiesa tutta decapitassero appena risorta in nuove fogge l' antica empietà, con tutto ciò qual idra andò rimettendo di tempo in tempo novelle teste. E allo stesso errore vestito di forme novelle, che non pareva il precedente già escluso, e di nuovi lenocinii provveduto, s' accostavano alcuni e dotti e pii, che altra via non vedevano di salvare a tutti gli uomini que' due beni oltremodo preziosissimi e necessarii la libertà e la speranza della salute. Laonde non è a stupirsi, se dopo le ultime eresie del secol XVI, avutane da esse occasione, lo spirito razionalistico e pelagiano ricominciasse l' antico lavoro più industrioso e più costante di quello che avea fatto o tentato ne' secoli precedenti, scaltrito dalle sconfitte avute, di migliori armi fornito d' erudizione, di dottrina, di astuzia, e di potenza ed influenza sociale, le quali a lui fabbricava la condizione de' tempi, il risorgimento delle lettere, l' incivilimento, la filosofia, la politica. Benchè queste due ultime, chi sottilmente e spassionatamente pensi la storia d' Europa de' tre ultimi secoli, s' accorgerà, che sono più tosto che sue madri, o nutrici, sue legittime figliuole, ed allieve. Poichè in questi ultimi secoli, il Razionalismo pratico introdotto prima nella teologia fu applicato all' educazione della gioventù, e recò pur troppo i suoi frutti amari alla civil società, in cui i fanciulli educati rifondonsi. Invano sperossi di neutralizzarne per così dire, il potente veleno coll' associarlo negli animi giovanili alla divozione. Fino che l' uomo è fanciullo stanno ben uniti in lui Razionalismo e divozione; perocchè ne' fanciulli anche il Razionalismo è fanciullo. Ma questo diviene adulto insieme coll' uomo, e con esso crescono la dottrina, sua prole immanchevole, l' orgoglio e l' immoralità; le quali spegnono la divozione; e spenta questa introducono l' incredulità, che perturba poi, a suo tempo, l' ordine pubblico massime fra genti cristiane. Vero è ch' ella non chiamasi da prima incredulità ma filosofia. Ma che è questo? Il falso nome sol giova ad illudere: e le masse ancora credenti onorano ingannate i filosofi, che loro promettono mari e monti di felicità, e si nutrono in seno gli increduli. Conviene persuadersi: l' educazione fu per lungo tempo in Europa e in Francia massimamente un misto di Razionalismo teologico e di devozione. Ma i principii della mente prevalgono alle abitudini della vita; e cresciuti quelli alla lunga ne cacciano queste, se sono loro contrarie, e se ne formano di omogenee. Così avvenne. I devoti giovani si cangiarono ben presto in filosofi; i filosofi in increduli; gl' increduli in rivoluzionari; i rivoluzionari in sanculotti, terroristi, cannibali: non si puó rompere la serie delle cause, perchè è in natura. Dai collegi adunque uscì la rivoluzione. Chi ben ha penetrazione, m' intenderà. Dove fu mai educata quella gioventù francese, che diede al mondo il più sanguinoso spettacolo che fosse mai? Dove i padri di essa? e dove gli avi? Ne' collegi a maximo usque ad minimum . Ma non instillavasi ne' collegi d' allora la pietà, la divozione? Qual dubbio? E nella divozione non si può certo trovar la causa del male atroce. Altrove dunque si vuol cercare il vizio d' un' educazione che si fece tanto conoscere da' suoi effetti. - Si mediti e si scoprirà il vizioso elemento, il seme funesto depositato negli animi de' giovani essere stato lo spirito razionalistico . Con tal compagno violento la divozione di collegio non potè a lungo reggere; egli spense crudelmente la sua compagna d' educazione: ed ingrato spense altresì in odio di lei i collegi stessi di cui molti buoni piansero la rovina; veggendo perire così i focolari della giovanil divozione. Ma veggendo la divozione uscire da' collegi, perchè le pratiche divote si veggon cogli occhi, non vedevano poi essi chi usciva con lei, perchè quel suo compagno feroce del Razionalismo non vedesi che colla mente, essendo un principio, un pensiero che nella mente risiede. Le quali riflessioni potrebbero per avventura riuscire salutari oltremodo ai nostri moderni teologi, se da esse apprendessero, che carezzando il Razionalismo teologico, com' essi fanno, s' accarezzano il più fiero nemico che aver possano essi stessi, non che la Chiesa, sì la fazione de' teologi razionalisti scava la fossa a se medesima, scavandola alla cattolica teologia. Perocchè, questa non può cadere, e però tutto il danno è suo proprio. Dunque parlo io così a suo favore; quanto ho scritto in quest' opuscolo a suo vero vantaggio ridonda. La fazione de' nostri teologi non pecca solo contro la sana dottrina col deplorabile impegno in cui ella è entrata, pecca ancora contro la savia politica. Deh non ne attenda gli effetti! Quanti mali avrebbe evitati, quanti guai risparmiati alla Chiesa, se avesse uditi docilmente i consigli de' due venerabili Cardinali Baronio e Bona, che scorgeano pure colle loro menti, da lontano i danni del Pelagianismo irruente! Non mancavano certo i veggenti in Israello, e se si vuole alle previsioni di que' due santissimi porporati aggiungere la previsione di un terzo splendore del sacro Collegio, nominerò il Contarini. Non avea questi ammonito certi teologi del suo tempo che indiscretamente pugnavano contro le nuove eresie, di procedere cautamente per non isdrucciolar forse nell' errore contrario? Non avea egli anche scritto: [...OMISSIS...] . Non era loro stato dato in tempo un avviso sì autorevole e savio, cioè prima ancora della metà del secolo XVI? Perchè dunque non approfittarsene? Quanto poi agli uomini di buona fede che non penetrano il fondo di questa lotta; io loro dirò così: Abborrite il Giansenismo, ma guardatevi altresì dal Pelagianismo, non credete mai questo necessario a fuggir quello. Abborrite pure da tutte quelle opinioni teologiche, che scoraggiano gli uomini a fare il bene, e ingiuriano la divina bontà; ma non appigliatevi perciò a quelle che fanno presumere gli uomini delle forze della loro natura, e li rendono negligenti a procacciarsi quelle della grazia, che attenuano la causa e il frutto della Redenzione di Cristo e scemano la virtù a' sacramenti, ed il bisogno che n' ha l' uomo figlio del peccatore. Sia pur questo il criterio che guidi la vostra scelta delle opinioni, quelle sien preferite che servon meglio a condurre le anime alla salute. La carità vi conduce pure alla verità. La morale che ne uscirà da tale scelta sarà dolce, come è dolce il giogo del Signore, ma non lassa. Chè una lassa morale non salva; sì, perde le anime. E che mai giovano alla salute dell' anima certi nuovi dogmi, non della divina Rivelazione, ma dell' umana corruzione? Che giova insegnare che l' uomo reca al mondo la natura incorrotta, e senza bisogno alcun di Battesimo, morendo bambino, l' attende al di là una beatitudine naturale, abitatore di un terzo luogo fra il cielo e l' inferno, come dicevano i pelagiani, se non a render gli uomini ingrati verso di Cristo e negligenti in procurarsi i sacramenti della Chiesa? Che giova insegnare che può l' uomo senza la grazia reprimere le sue passioni, resistere a tutte le tentazioni benchè con difficoltà, sicchè la grazia sia solo utile a ciò ma non necessaria, che giova dico se non a render la grazia meno preziosa e gli uomini men curanti di procacciarsela? Che falsa benignità non è ella questa, o piuttosto benignità crudelissima verso l' umana natura? Che giova il dire, che l' uomo, benchè senza la grazia, non è mai necessitato a peccare, e che peccando in tal caso con necessità niun mal gliene viene, niun peccato commette, se non ad aprire un fonte ampissimo d' immorali azioni, soffocata la voce della coscienza, e l' uomo reso piuttosto amante di rimanere nell' ignoranza e nella schiavitù degli abiti peccaminosi, che non di liberarsene? Che giova dichiarare la concupiscenza effetto naturale e non punto vizioso se non a levare dall' anima l' errore de' suoi disordini? « e ad exscusandas exscusationes in peccatis »? Esaltate adunque la bontà di Dio che vuol tutti salvi, e ne dà i mezzi a tutti quelli che li desiderano, e anche a molti di quelli che non li desiderano, facendo che li desiderino; ma nello stesso tempo non dimenticate, che quella bontà è santità essenziale: e che Dio è buono perchè vuol santi gli uomini, prima ancor che felici, e a ciò li aiuta, non perchè loro permetta di andare per una via larga e lubrica in Paradiso. Deh piaccia a Dio, che anche i nostri avversarii vogliano finalmente intendere con noi uniti queste santissime verità, e cessino dall' imbizzarrire sì sconciamente « sufflantes in pulverem », per usare delle parole di S. Agostino, « et excitantes terram in oculos suos! (1) ».

Introduzione al Vangelo secondo Giovanni

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Questo è spiegato dalle stesse Sacre Scritture, le quali prendono queste tre maniere: « « nel principio era »; - avanti la formazione del mondo era - «ab eterno era » », per maniere sinonime, o tali l' una delle quali spiega l' altra. Perciò si veggono adoperate tutte e tre promiscuamente nel luogo citato dei Proverbii. « « Il Signore mi possedette nel principio delle sue vie » », ecco la prima maniera; « « avanti ch' egli facesse cosa alcuna » », ecco la seconda; « « ab eterno sono stata ordinata » » ecco la terza maniera, che spiega ottimamente le precedenti. Quest' ultima è anco la più esatta: giacchè nelle due prime si esprime l' idea stessa, ma in modo adattato alla comune capacità degli uomini, i quali non si possono elevare fino ad un concetto dell' eternità così puro che sia scevro interamente da ogni relazione col tempo. Infatti, quando si dice che il Verbo « era avanti il tempo », o che « era già quando il tempo incominciò », sembra che si venga a mettere un tempo avanti il tempo, ciò che non sarebbe esatto; chè anzi sarebbe assurdo. E nel vero l' eternità non è avanti il tempo ma è senza il tempo , e non cessa di essere perchè sia il tempo; giacchè essa è cosa che ha da far nulla col tempo, non ha con lui nessuna relazione di tempo. E tuttavia quelle espressioni vengono adoperate dalla Scrittura, che vuol comunicare le sue verità a tutti gli uomini: nè si può già dire che quelle non infondano nelle menti l' idea dell' eternità; anzi la infondono per una via più facile alla moltitudine, ed ecco in che modo. L' espressione, « « avanti che le cose fossero » », da principio non offende, e vien ricevuta nelle menti senza sospetto o timore ch' ella richiegga un' intensa meditazione ad esser compresa. Ma ricevuta nelle menti, vi ha già portato il germe della verità. Perocchè elleno si persuadono, che quella espressione vuol certo significare un' idea vera, venendo ella usata da un' infallibile autorità. Ora qui appunto incomincia l' interno ed utilissimo lavoro delle stesse menti, le quali si industriano di separare fra le idee comprese in quell' espressione tutte quelle che sono accessorie e che non reggono ad un esame rigoroso, e ritengono la principale e sola vera, depurata da ciò che non è altro che il difetto della locuzione (giacchè la Scrittura stessa usa delle locuzioni che sono in corso fra gli uomini), trovano l' idea netta, l' infusione della quale è lo scopo del sacro scrittore o piuttosto dello Spirito che lo dirige. Così appunto accade quanto all' espressione « « avanti che le cose fossero » », che è quanto dire « avanti che fosse il tempo ». Quell' avanti nel linguaggio comune esprime una relazione di tempo, cioè un punto nel tempo a cui ne risponde un altro che si esprime coll' avverbio dopo . E questo valore ha veramente la parola avanti quando il suo relativo dopo significhi un punto, una parte del tempo. Ma nel caso nostro dicendosi « avanti il tempo », ovvero « avanti il principio del tempo », la parola avanti non ha per relativo una parte o momento preso nella serie del tempo, ma ha per suo relativo tutto intero il tempo; sicchè ella non può significare un punto di tempo, giacchè ogni punto di tempo è nel tempo; ma significa « fuori al tutto del tempo »; significa uno stato nel quale non entra niente del tempo, nè pure un punto; e questo stato è l' eternità. Così le menti umane sono costrette d' interpretare la parola avanti nella citata frase in virtù della stessa coerenza delle idee, cioè perchè sarebbe assurdo il darle qualsiasi altro significato. Si osservi che le Scritture antiche cominciano colle parole: « « Nel principio Iddio creò il cielo e la terra » », e il Vangelo di S. Giovanni che, risguardando l' ordine intrinseco delle idee, si deve collocare in testa delle nuove Scritture, comincia: « « Nel principio era il Verbo » ». Iddio creatore (la sua conoscenza, il suo culto) è il principio della Legge antica; il Verbo incarnato (la sua cognizione, imitazione e culto) è il principio della Legge nuova. Col confronto di questi due luoghi si può maggiormente penetrare nel senso di quelle parole « « nel principio » »; conciossiachè così si possono parafrasare le prime parole di Giovanni: « Nel principio, in cui Dio creò il cielo e la terra, era già il Verbo ». Ma in qual principio creò Iddio il cielo e la terra? Certamente nel principio delle cose, nel principio del tempo. Ma qui nasce una difficoltà, e sono appunto le difficoltà che, dandoci il Signore il dono di snodarle, portano nelle menti la luce della verità. La difficoltà è questa: - Iddio opera nella eternità e non nel tempo; la creazione adunque, quest' atto di Dio, non poteva essere fatto in nessuno istante del tempo, neppure nel primo; che anzi il primo stesso degl' istanti, con tutti quelli che venivano appresso, dovevano esser prodotti o, per dir meglio, comprodotti dall' atto di Dio creante, e non essere una cotal forma di questo atto. - Convien dunque riflettere che l' eternità è cosa affatto immune dal tempo, il quale non è che l' oggetto dell' eterno operare di Dio. Quindi non deve punto credersi che l' atto eterno, col quale Iddio creò tutte le cose, sia cominciato in un certo tempo infinitamente remoto dal punto, in cui le cose, effetto di quell' atto, cominciarono ad esistere; perocchè in tal modo si ricadrebbe nell' assurdo, che avanti il tempo vi fosse un' altra serie o tempo infinitamente lungo. Se l' atto di Dio avesse dovuto aspettare un tempo infinito prima che il suo oggetto, il mondo, venisse realmente posto in essere, egli non avrebbe mai avuto il suo effetto, perchè un tempo infinito non finisce mai. E` dunque da dirsi, che l' atto della creazione e il suo effetto sono inseparabili e non divisi da alcun tempo: colla sola differenza che quell' atto è eterno, cioè di una natura scevra al tutto dalla legge del tempo; là dove il suo effetto, almeno il mondo sensibile, è tale che una delle sue forme e leggi è il tempo, creato perciò col mondo a quella guisa che le limitazioni sono fatte insieme con le cose, alle quali esse vanno inerenti. Questo è ciò che volle esprimere il sacro testo dicendo, che « Iddio creò il mondo nel principio »: escluse ogni pensiero di distanza fra il mondo e l' atto di Dio creante. - Ma se l' atto di Dio creante è congiunto senza alcuna distanza di tempo col mondo che egli crea, e col tempo che è una forma di questo mondo creato, perchè quell' atto si dice che fu fatto nel principio del tempo, piuttosto che in qualsiasi altro istante? giacchè quell' atto aveva con tutti gli istanti ugualmente la stessa relazione di unione intima, senza distanza alcuna di tempo, unione, dico, fisica di causa e di effetto? - Rispondo esser verissimo che quell' unico e semplicissimo atto col quale il mondo fu creato risponde e, per così dire, si combacia non solo col primo istante delle cose create, ma con qualsivoglia altro; ma solo in quanto quell' atto si riferisce e riporta al primo istante dicesi creante , in quanto poi si riferisce agli altri dicesi conservante . L' atto che crea è quello identico che conserva, ma gli effetti sono due, che si distinguono appunto nelle creature mediante la successione del tempo, perocchè l' effetto è vestito, come dicevamo, dal tempo. Se dunque l' effetto, il mondo, si considera nel primo istante della sua esistenza, dicesi creato; se poi si considera negli altri istanti successivi, dicesi conservato . E però l' unico atto del Creatore, che crea e conserva, riceve due relazioni significate con due nomi: se si considera in relazione col mondo nel primo istante della sua sussistenza, dicesi creante; se si considera in relazione col mondo negli istanti successivi, dicesi conservante . Volendo dunque Mosè esprimere l' effetto della creazione e non quello della conservazione, egli dovette di necessità scrivere che Iddio « « creò il cielo e la terra nel primo istante » ». - Ma se l' atto creante è eterno, e non di meno le cose create nel primo loro istante sono congiunte con quell' atto senza alcuna distanza o separazione di tempo, come poi accade che Giovanni dica, che il Verbo era già prima che le cose incominciassero: « « Nel principio era il Verbo » »? - Rispondo che in questo ci sarebbe difficoltà, se dalle parole di Giovanni si dovesse inferire, che il Verbo era anteriore all' atto della creazione: ma quelle parole non dicono altro se non che il Verbo era anteriormente al principio del mondo: « Nel principio delle cose era già il Verbo », il che significa, come vedemmo, che il Verbo è fuori del tempo, nell' eternità. E, per intendere ciò che noi diciamo più chiaramente, si consideri, che non si paragona già l' atto producente il Verbo coll' atto producente il mondo; ma si paragona il Verbo prodotto col mondo prodotto, e si dice che quello è avanti questo, il che viene a dire che quello è totalmente fuori di quel tempo che è una condizione e specificazione del mondo. Nel che si badi, che a quella guisa che l' identico atto divino, che fa esser le cose, è intimamente congiunto alle cose in tutti egualmente i loro istanti; così l' atto divino, che fa essere il Verbo, è intimamente congiunto al Verbo nell' eternità. Che se l' atto che fa essere il Verbo è eterno, e il Verbo pure non esce dall' eternità; dunque egli (il Verbo) rimane in quell' atto, sicchè fra l' atto che il produce (la generazione) e lui prodotto non può esservi differenza alcuna reale; ma convien dire che il Verbo sia quell' istesso atto, sia un atto del Padre, da noi poscia considerato in due rispetti, l' uno come producente, chiamandolo sotto tale rispetto generazione , e l' altro come prodotto, chiamandolo sotto quest' altro rispetto generato o Verbo: e ciò per l' imperfezione della nostra maniera di concepire. Per altro egli pare non difficile neppure il sollevarsi ad intendere che un atto fatto nell' eternità non abbia alcun termine distinto da sè, ma sia egli stesso il proprio termine. Per la stessa ragione poi, per la quale il Verbo non uscendo dall' atto che lo produce s' immedesima con quest' atto; per la stessa ragione, dico, anche l' atto creante si dice immedesimarsi coll' atto generante, non uscendo nè l' uno nè l' altro dall' eterno semplicissimo loro principio. Onde S. Paolo dice che il Verbo « « porta tutte le cose colla parola della sua virtù »(Hebr. I, 3) », cioè con se stesso, e quindi pure il celebre detto di S. Anselmo che Dio « uno eodemque (Verbo) dicit se ipsum et quaecumque fecit (Monol. XXXII) ». Un' altra riflessione ancora. Se Iddio generò il Verbo e creò il mondo con un identico atto eterno, e se tuttavia il Verbo ed il mondo si distinguono, perchè il Verbo è l' atto stesso divino ultimato che non esce dall' essenza divina, là dove il mondo è un termine di quell' atto, che si distingue dalla divina essenza; tuttavia il mondo conserva col Verbo una relazione di analogia, trovando nel Verbo il suo Esemplare. Egli è vero che il Verbo non è solamente esemplare del mondo, ma è la figura della sostanza di Dio (1); è questa stessa sostanza in quanto è luce o sia verità, e in esso trova il mondo il suo Esemplare, come il valore del fango trova il suo concetto nel valore del diamante. Intanto però il Verbo divino può esser considerato dalla nostra mente, che concepisce le cose divine come atte ad essere divise dall' astrazione, in due rispetti: o in se stesso in quanto è l' Essere manifesto a se stesso , il Verbo; o in quanto è l' Esemplare del Mondo, benchè sia tale eminentemente. Se dunque il Verbo, come tale, cioè il Verbo concepito da noi nel primo rispetto, si paragona col mondo, si dice che quello era prima di questo, per esprimersi con ciò che quello è nell' eternità e questo nel tempo. Ma se si paragona col mondo il Verbo considerato nel secondo rispetto, cioè come Esemplare del mondo, allora quando si dice che quello era prima del mondo si esprime solamente quella relazione che ha l' Esemplare con la copia. Ora nelle opere degli uomini questa relazione consiste in una priorità e posteriorità di tempo; perocchè lo statuario prima concepisce l' idea della statua che n' è l' esemplare, e dopo forma la statua che n' è la copia. All' incontro nelle semplici idee di esemplare e di copia non si racchiude questa relazione di tempo, non essendo assurdo l' immaginare che coesistano due cose, l' una copia, l' altra esemplare, contemporaneamente. Tuttavia la copia dipende sempre dall' esemplare, di guisa che l' esemplare ha un' anteriorità logica rispetto alla copia, come la causa ha un' anteriorità logica rispetto all' effetto, e il padre rispetto al figlio, benchè siano termini relativi di maniera che non vi possa essere nè la causa nè il padre se non v' è di contro l' effetto e il figliuolo, l' esistenza dei quali è intimamente legata colla causalità e la generazione, e queste col causato e col generato. Qualora dunque le parole di Giovanni « « Nel principio era il Verbo » » si vogliono spiegare anco da quella parte, in cui nel Verbo si considera l' Esemplare del mondo, convien dire che esse, coll' indicare il Verbo preesistente al mondo, intendono esprimere il rapporto di anteriorità logica che passa fra l' esemplare e l' esemplato. Sotto questo rapporto col mondo parlano del Verbo specialmente quelle parole dei « Proverbii » di Salomone «(VIII, 23 7 31) »: « « Fui ordinata ab eterno » » (quando fu generato il Verbo, fu ordinato il mondo; l' ordine al Verbo è essenziale, al mondo no), « « e dalle cose antiche prima che fosse la terra. Gli abissi ancora non erano, ed io già era concepita » » (ecco l' esemplare, il concetto degli abissi anteriore logicamente agli abissi); « « non ancora erano sgorgati i fonti delle acque, non ancora consolidati i monti colla grave lor mole; prima dei colli io veniva partorita: non aveva fatto ancora la terra, e i fiumi, e i cardini del globo della terra » » (ecco l' Esemplare, l' idea dei fonti, dei monti, dei colli, della terra, dei fiumi, dei cardini del globo, anteriore logicamente a tutte queste cose; questo Esemplare è partorito dal seno di Dio, ciò che mostra che non è realmente diverso dal divino Figliuolo). « « Quando egli preparava i cieli io era presente » » (qui l' Esemplare si mostra contemporaneo, coesistente all' atto di Dio creante); « « quando con certa legge e con certo giro vallava gli abissi; quando di su fermava l' aria ed equilibrava i fonti delle acque; quando tirava intorno al mare il suo termine e poneva la legge alle acque acciocchè non trapassassero i loro confini; quando pesava i fondamenti della terra, io era con esso lui, componendo tutte le cose, sollazzandomi alla sua presenza in ogni tempo; sollazzandomi nel globo della terra; e mie delizie erano lo stare coi figliuoli degli uomini » ». Il che esprime che, nell' atto col quale Iddio faceva le cose e governava ab eterno gli avvenimenti di tutti i tempi, l' idea delle cose e degli avvenimenti era con lui; egli vedeva le cose nel suo Verbo e pel suo Verbo, e veggendole le creava; ed essendo le cose distribuite pei tempi, dice che quella divina Sapienza si sollazzava al cospetto di Dio in ogni tempo, perchè l' atto suo eterno riferivasi ad ogni tempo, e del proprio atto Iddio si beatifica. Questa Sapienza che si riferisce al mondo e che Iddio possiede nel suo Verbo, al quale l' atto creante si riferisce come l' artefice riferisce al proprio concetto l' opera sua, è poi quella di cui fa parte anche agli uomini, onde dice che « « sue delizie sono lo stare coi figliuoli degli uomini » ». E perchè questa sapienza comunicabile è nel Verbo eminentemente, perciò anche Giovanni dice del Verbo che « « illumina ogni uomo veniente in questo mondo » ». Ma merita che s' investighi perchè l' Evangelista dica: « « Nel principio era il Verbo » », e non dica: « Nel principio era il Verbo di Dio »(1). Dire « il Verbo »senza più, è un parlare assoluto; viene a significare « quello che è Verbo assolutamente, Verbo per sè, che ha condizione di Verbo e nient' altro, che è Verbo per sua essenza, ossia la cui essenza è di esser Verbo ». Una parola sonora non è solamente verbo, ma è anche suono; un pensiero, un' affermazione umana non è solamente un pronunciato, ma è un pronunciato determinato e limitato a ciò che con esso lui si pronuncia. Dicendosi che il Verbo era, si viene a significare che il Verbo, come tale, era ente completo; perocchè una cosa è in quanto è ente. Se il Verbo non fosse stato a principio compiuto ente, non si sarebbe potuto dire assolutamente e semplicemente ch' egli era a principio. Questo parlare dimostra che l' essere gli conviene in proprio, ossia che la sua essenza è l' atto dell' essere; quindi che egli è Dio, perchè Iddio è quegli la cui essenza è l' essere. Per tal modo quell' espressione assoluta « il Verbo »distingue il Verbo divino da ogni altro verbo che ha bisogno per essere significato di qualche aggiunta, di qualche epiteto, perchè questo non è verbo per sè, ma per analogia col Verbo, e non è puramente verbo ma qualche cos' altro; e non è tal Verbo che sia un ente completo, di maniera che gli competa in modo assoluto l' esistenza; e non è Verbo senza limiti che gli tolgano qualche cosa dall' esser Verbo, perchè in quanto un dato verbo omette dal pronunciare qualche cosa, non è verbo; onde, acciocchè egli sia puramente e pienamente Verbo, egli è uopo che pronunci tutto, niuna cosa esclusa: e molto meno ogni altro verbo era al principio. Che se quel Verbo che era al principio è il Verbo per sè, quindi ogni altro verbo è tale per partecipazione di lui: il che si deve vedere come sia. Acciocchè il Verbo sia puramente e compiutamente Verbo, deve pronunciare tutto, perchè, se non pronunciasse tutto, risulterebbe di due elementi, cioè di verbo e di confini, e così non sarebbe puramente Verbo; nè sarebbe Verbo compiutamente, perchè, in quanto non pronuncierebbe, in tanto non sarebbe Verbo. Dunque ogni altro verbo non può essere che una ripetizione di ciò che è già pronunciato. Tutto è pronunciato: questo tutto viene poi pronunciato a parte a parte con altri verbi che così non fanno che ripetere imperfettamente il primo, e perciò non sono verbi in senso assoluto, ma per partecipazione. E veramente un essere intelligente non può pronunciare se non ciò che è pronunciabile . Ma che cosa fa che una cosa sia pronunciabile? Ogni cosa in potenza si deve ridurre ad una cosa in atto; niente adunque sarebbe pronunciabile, se non fosse già attualmente pronunciato da un primitivo Verbo. Il Verbo primitivo è dunque quello che rende pronunciabili le cose, è quello in cui si radica la possibilità di tutti i pronunciati parziali, accidentali, posteriori, che ripetendo il primo ne partecipano. Le intelligenze finite dunque hanno la loro possibilità ontologica nell' eterno Verbo. S. Tommaso d' Aquino viene a dare la stessa ragione del perchè il nostro Evangelista in questo luogo dica « Verbo »assolutamente e non « Verbo di Dio ». « « Quantunque », dice, «molte sieno le verità partecipate, tuttavia la Verità assoluta è una, la quale è Verità per sua essenza, cioè è lo stesso Essere divino; per la quale Verità tutti i verbi sono verbi. Alla stessa guisa v' ha una Sapienza assoluta elevata sopra tutte le cose, per la partecipazione della quale tutti i sapienti sono sapienti; e v' ha pure un solo Verbo assoluto, per la partecipazione del quale tutti quelli che hanno un verbo sono detti parlanti. Ora è il Verbo divino quello che è Verbo per sè elevato sopra tutte le cose. L' Evangelista adunque, per significare questa sopraeminenza del Verbo divino, ci propose lo stesso Verbo senza quell' aggiunta »(1) ». Di che vedesi anche la ragione onde l' Evangelista non si contenta di dire «logon», ma dice «ton logon»; « il Verbo »distinguendolo così da ogni altro discorso, come hanno osservato S. Giovanni Grisostomo (2) e Teofilatto (3). Verbo, parola, verbum, «logos». - Pare che primieramente gli uomini abbiano nominata la parola esterna e sonante come quella che cade sotto i sensi. Più tardi si sono fermati a considerare che la parola esterna non era che un segno che esprimeva una cosa interna, un oggetto pronunciato dalla mente. Volendo dunque nominare questa cosa interna significata, invece d' imporle un nome proprio, vi adattarono lo stesso vocabolo che significava la parola esterna, lasciando che il contesto del discorso chiarisse quando a quel vocabolo convenisse dare il significato antico di parola, suono proferito con gli organi della voce a significare; e quando gli si convenisse dare il significato nuovo della cosa interna nello spirito colla parola significata. Questa maniera di estendere alle parole vecchie il significato di mano in mano che gli uomini estendono le loro cognizioni, è più comoda che inventare vocaboli nuovi, perchè esige uno sforzo di mente minore e adattato a tutta la comunità degli uomini, oltredichè le idee o cognizioni nuove ritengono in tal modo la relazione colle idee o cognizioni precedenti onde furono derivate, e così meglio si conoscono, e più agevolmente si prestano al ragionamento; giacchè i nessi fra esse e le notizie più antiche e più familiari sono pronti. Solamente più tardi, quando la mente è già sviluppata, e non ha più bisogno di tali dandine, ella inventa parole nuove e proprie per quelle cognizioni che non le sono più nuove; ovvero le parole vecchie da comuni diventano proprie, perdendo il primitivo significato e ritenendo solo il nuovo. Sant' Agostino, per fare in qualche modo intendere al suo popolo il significato di questo vocabolo « parola di Dio », comincia a distinguere nell' uomo la sua parola esteriore dalla sua parola interiore significata da quella prima. Poi mostra che questa parola interiore precede nell' uomo le opere dell' uomo. [...OMISSIS...] , dice egli, [...OMISSIS...] Dopo aver dunque Sant' Agostino stabilito in questa maniera, che la parola interiore, il consiglio si conosce dagli uomini mediante l' effettuazione esterna di quella parola, di quel consiglio; chiama i suoi uditori a conoscere in qualche modo la parola di Dio, il consiglio di Dio dalle opere esterne della creazione, dicendo: [...OMISSIS...] . In questo luogo di Agostino scorgesi manifestamente una leggiera tinta di platonismo, da lui stesso purificata in altri luoghi, e specialmente nella grand' opera che scrisse sulla Trinità. E veramente per i platonici il Verbo di Dio era l' idea del mondo ossia il mondo intelligibile, come talor lo chiamavano. Questo concetto del Verbo, che si erano formato i platonici, non è quello di S. Giovanni, il quale anzi scrive il suo Vangelo a confutazione di quegli errori che avevano dedotto in buona parte dal platonismo Cerinto «(Hier., De Script. Eccles. - Id., Prooem. in Matth. - Iren., III, XI - Id., I, XXV - Tertull., De Praescript. ) », Ebione «(Epiph., Haeres. XXX - Iren., III, XI) », e poco appresso i gnostici; i quali, benchè sembrino esser comparsi con questo nome sotto l' impero d' Adriano, già morto Giovanni, tuttavia prima esistevano coi loro errori, come si rileva da S. Ireneo «(L. III, c. XI - Epiph., Haeres. XXVI, XXVII) ». Tuttavia v' ebbero dei platonici, i quali, non ben intendendo quanto la dottrina di Giovanni si sollevasse sopra la loro, sentendovi ragionato altamente del Verbo di Dio, espressione di cui anch' essi facevano uso, commendarono altamente il principio del Vangelo di S. Giovanni. Alcuno di essi diceva che quel principio meritava d' essere scritto a lettere d' oro sul fastigio di tutte le chiese «(Aug., De C. D. , X, XXIX, ex Simplic. Mediolan. Ep.) ». Così del pari molti altri platonici, fra i quali Aurelio, che viveva nel III secolo, non finivano d' ammirare e lodare il principio del Vangelo di Giovanni «(Euseb., Praepar. E., XI, XXIX - Cyrill. Alex. in Jul., VIII) ». Non può negarsi che Platone attribuisca in alcuni luoghi la creazione al verbo di Dio, «logos» (In Timaeo, e in Epinomide - vedi le notizie di Le Clerc sui primi versicoli di S. Giovanni). Gli stoici del pari usavano del «logos» di Dio per ispiegare la creazione contro gli epicurei che attribuivano ogni cosa al cieco azzardo «(La‰rt., VII - Tertull., Apolog., XXI) ». Filone parla anche egli d' un mondo intelligibile anteriore al presente, esemplare nella mente di Dio, da cui Dio ritrasse tutte le cose create, e che egli chiama pure il «logos» «(Phil., De Opif. Mundi - Id., De Allegor., 1 II - Id., 1 Quis rerum divinarum haeres. - Id. De somn., et alibi) ». Non sarà neppure del tutto difficile trovare qualche brano ne' platonici, fioriti dopo la venuta di Gesù Cristo, nel quale si dica che il logos di Dio è Dio; ma questi non sono che luoghi piuttosto sfuggiti ai loro autori per entusiasmo e senza coerenza co' loro principii, che luoghi esprimenti un loro sistema. « « Nel principio era il Verbo » ». - Egli è uopo che noi ci fermiamo ancora meditando e ricercando, per quanto ci è dato di potere, che cosa sia il Verbo, il divino Verbo, l' essenziale ed assoluto Verbo; nè possiamo in altro modo, se non salendo dalla considerazione del verbo umano. Conviene dunque riflettere che nell' umana mente altro suol essere l' idea , altro è il verbo . L' uomo con l' idea conosce l' essenza della cosa, ma non la sussistenza; per esempio, noi quando abbiamo l' idea dell' animale sappiamo che cosa è animale, ma non sappiamo ancora con questo solo, se un animale sussista. Noi non sappiamo che un animale sussista se non abbiamo dentro di noi affermato che sussiste; l' atto dell' affermazione è un pronunciato, un giudizio, un verbo della mente. Se noi paragoniamo l' idea al verbo della mente umana, noi troviamo che l' idea non è già un prodotto dell' umana mente, ma vien data all' umana mente; la mente la riceve, non la crea. L' idea è lo stesso essere contemplato nella sua essenza, la quale è eterna e quindi sovrumana. Il verbo all' incontro, cioè l' affermazione è un atto della mente stessa, e la sussistenza, in quanto è affermata o pronunciata , è un prodotto di essa mente; onde S. Tommaso dice che « de ratione intelligendi est quod intellectus intelligendo aliquid formet, hujus autem formatio dicitur verbum (1) ». In secondo luogo è evidente, che la mente umana non potrebbe pronunciare il verbo, l' affermazione della sussistenza, se non avesse l' idea della cosa, se non ne conoscesse in qualche modo l' essenza; cioè se non ne conoscesse una qualche definizione più o meno perfetta, perocchè l' essenza è ciò che può essere espresso in una definizione; perocchè in qual modo si può affermare una cosa che non si conosce menomamente? Questo ha fatto dire a S. Tommaso che « verbum semper est ratio et similitudo rei intellectae (2) ». Ma più esattamente è da dire, che l' idea è la ragione della cosa che si afferma, e in qualche modo anche la similitudine; e che il verbo suppone innanzi a sè questa ragione e similitudine nella mente, acciocchè possa esser pronunciato. Ora è qui da cercare la ragione per la quale nella mente umana l' idea ed il verbo sieno così divisi, per modo che con un atto di intuizione si contempla l' idea, e con un altro atto d' affermazione si produca il verbo. Questo avviene, perchè i naturali oggetti reali dell' umana intelligenza sono finiti, cioè sono gli enti creati contingenti. Ora gli enti creati, appunto perchè sono contingenti, non hanno necessariamente la sussistenza , ma questa può essere e non essere; laddove hanno necessariamente l' essenza, la quale non può non essere, e però ella è eterna. Quindi rispetto a questi enti l' essenza è cosa diversa al tutto dalla sussistenza; non sussistono per propria essenza, ma perchè un atto libero di Dio gli ha fatti sussistere. Essendo dunque due cose affatto distinte e separate l' essenza e la sussistenza delle cose contingenti, consegue che sieno due atti distinti quelli con cui la mente umana le apprende: l' uno dei quali, l' intuizione, ha per suo termine l' essenza; l' altro, cioè l' affermazione (preceduta dal sentimento), ha per suo termine la sussistenza dei contingenti. E consegue parimente, che questo secondo atto supponga il primo: perocchè non si conosce la sussistenza d' una cosa, se non si conosca innanzi (di priorità logica) che cosa sia questa cosa, il che è un averne idea, un conoscerne l' essenza compresa nell' idea. Consegue ancora che il formale della cognizione, ciò che illumina la mente, sia l' essenza, giacchè conoscere la sussistenza non è altro che conoscere quale sia l' essenza della cosa che si sente e che si afferma. La sussistenza adunque dei contingenti non è cognita per sè, ma per l' essenza che la illumina nella mente nostra e così la rende conoscibile. Ma se si avesse una sussistenza che fosse per sè cognita, cioè che fosse ad un tempo sussistenza ed essenza, ella sarebbe in tal caso un oggetto unico, il quale si potrebbe ed anzi si dovrebbe apprendere con un atto solo dello spirito. Ora tale oggetto non potrebbe essere un contingente per la ragione detta, ma converrebbe che fosse necessario: perocchè, se l' essenza è sempre necessaria, necessaria convien che sia anche quella sussistenza che ha in sè la propria essenza, e forma con questa un solo essere. Ma l' essere necessario tanto rispetto all' essenza quanto alla sussistenza dicesi Dio. Iddio è dunque quel solo essere la cui sussistenza è l' essenza. Se dunque Iddio sussiste per propria essenza, consegue che Iddio sia l' essere assoluto , l' essere assolutamente considerato, non l' essere comunissimo, il quale non è che un' essenza senza sussistenza come tale; ma sia l' essere essenziale, realissimo. Iddio dunque è l' essere per essenza. Ciò che è per sua propria essenza, non può non essere intelligibile, perchè l' essenza è la parte intelligibile delle cose. Ora, se quell' essere è per sè intelligibile nella sua propria sussistenza, se quell' essere deve apprendersi dallo spirito con un atto solo, perchè in lui la sussistenza è ad un tempo l' essenza; quale sarà quest' atto dello spirito col quale si dovrà apprendere? Quest' atto non può essere una semplice intuizione, perchè l' intuizione non ha per termine che l' essenza, e quell' essere è anche sussistenza. Si apprenderà dunque coll' affermazione ? L' affermazione suppone la distinzione fra l' essenza e la sussistenza, perchè ella è un giudizio, è l' unione che fa la mente d' un predicato e di un subbietto, d' un subbietto però che non è tale prima dell' affermazione, ma che tale diviene coll' affermazione stessa. L' essere adunque sussistente per sua essenza, cioè Iddio, non si apprende neppure per un' affermazione simile a quella che l' uomo fa nella percezione dei contingenti. L' atto dunque, con cui la mente apprende l' essere assoluto a cui è essenza la propria sussistenza, deve essere un terzo atto che, quantunque unico, tuttavia unisca in sè tutto ciò che ci dà l' intuizione e tutto ciò che ci dà l' affermazione, senz' essere precisamente ne l' una nè l' altra; quest' atto si può chiamare sentimento intellettuale, appellazione che consuona in qualche modo a quella che usano i teologi quando chiamano la percezione di Dio visione, parola traslata dal senso del vedere. Se non che la parola visione , acconcissima ad esprimere il modo con cui i Santi in cielo apprendono Dio, suppone una distinzione e una cotal distanza fra il soggetto veggente e l' oggetto veduto, e però non sembra potersi applicare al modo con cui Iddio apprende ed intende se stesso; laddove l' espressione di sentimento intellettuale, più generale, sembra potersi acconciare tanto alla visione beatifica, quanto all' atto con cui Iddio comprende se medesimo. Ma sotto un altro aspetto anche l' espressione sentimento intellettuale trovasi inadeguata a significare il modo onde Iddio intende se stesso. E di vero, se la sussistenza divina è per sè essenza, dunque è intelligibile per se stessa. Ma se è per se stessa intelligibile, dunque è anche per se stessa, a se stessa intesa . Perocchè ciò che è intelligibile è anche inteso tosto che risieda in un essere sussistente. Ora l' essenza divina risiede talmente in un essere sussistente, che la sussistenza di quell' essere è l' essenza di quell' essere. Dunque questa sussistenza per la propria essenza è intesa e nota a se stessa. Non vi ha dunque nulla di potenziale in questa cognizione, non vi ha una facoltà di conoscere che esca dall' atto o che si distingua dall' atto: ma vi ha puramente l' atto necessario altrettanto quanto è necessaria la sussistenza dell' essere di cui parliamo, nè v' ha pure distinzione tra questo atto e la sussistenza medesima: non v' ha che questa sussistenza per sè intesa, per sè lume, per sè notizia, per sè oggetto intellettivo, di modo che l' atto conoscitivo di cui si tratta è la medesima sussistenza. La sussistenza divina adunque, per sè intesa, ha una doppia relazione, quella di soggetto intelligente, e quella di oggetto inteso; ma la sussistenza è identica ed una perfettamente. Ma ella è per sè intesa in virtù dell' atto intellettivo che la rende intesa, atto necessario, perchè è necessariamente ed essenzialmente intesa a se stessa. In quanto poi la sussistenza divina è per sè intesa da se stessa, soggetto ossia persona, in tanto è il Verbo (1). Dal che si rileva primieramente quanto sia giusta l' osservazione di S. Agostino e di S. Tommaso, il quale scrive: « Verbum Dei semper est in actu, et ideo nomen cogitationis Verbo Dei proprie non convenit. Dicit enim Augustinus (1): « Ita dicitur Verbum Dei, ut cogitatio non dicatur ne quid quasi volubile credatur in Deo »(2) »; perocchè la parola cogitazione significa discursus inquisitionis e non un pronunciato compiuto ed ultimato nella mente (3). Si rileva ancora che il Verbo divino non è l' atto intellettivo di Dio, ma il termine di quell' atto intellettivo, cioè la stessa sussistenza divina intesa; e quindi che la sapienza che risulta dall' atto intellettivo divino è comune a tutta la Trinità. Tuttavia, poichè l' intelligente e l' inteso sono correlativi, dalla sostanzialità o piuttosto dalla sussistenza del primo si può argomentare alla sostanzialità o sussistenza del secondo, e sotto questo aspetto ha efficacia l' argomento di S. Tommaso che scrive: « In Deo autem idem est intelligere et esse; et ideo Verbum intellectus, non est aliquid accidens sed pertinens ad naturam ejus. Unde oportet quod sit subsistens, quia quidquid est in natura Dei, est Deus (4) ». E veramente noi abbiamo veduto che il Verbo divino è la stessa sussistenza divina in quanto è intesa, quella stessa sussistenza che è ad un tempo intelligente per sè, ed essere per sè. Noi abbiamo riconosciuto che Iddio è l' essere assolutamente preso, e perciò l' essere compiuto: che egli è sussistente, giacchè altramente non sarebbe l' essere compiuto ed assoluto: che questa sussistenza divina è per sè intesa, e che in quanto ha condizione di essere intesa per se stessa, in tanto è il Verbo divino. Dunque tutta la sussistenza divina, tutto l' essere assoluto è per sè inteso; la sussistenza divina comprende totalmente se stessa, è di continuo e per sua essenza compresa da se stessa. Questa comprensione dell' essere non ha limitazione di sorta, e quindi è Verbo semplicemente per sua essenza, e questo Verbo non può essere che uno (1). Or l' essere non potrebbe essere totalmente inteso e compreso per propria essenza da se stesso, se in questa comprensione non abbracciasse anche tutti i modi in cui l' essere reale e sussistente può venire limitato. Ma poichè nell' essere assoluto non cadono limitazioni, perocchè ogni limitazione il fa cessare dall' essere quello che è, cioè assoluto per essenza; quindi i modi, con cui l' essere può ricevere limitazioni, sono i modi onde l' essere può creare qualche cosa di diverso da sè, fuori di sè, i modi onde può esistere un essere limitato, non più l' assoluto. La cognizione di questi modi è la cognizione delle cose creabili, le essenze delle cose contingenti, le idee pure, a cui non è necessariamente unita alcuna sussistenza, ma che viene unita pel libero atto della creazione. Quindi la sussistenza dell' essere da se stessa e per propria essenza compresa, cioè il Verbo divino, racchiude necessariamente anche le idee, ossia le essenze delle cose creabili e contingenti; perocchè altramente non comprenderebbe perfettamente se stessa, se non comprendesse quelle limitazioni possibili, non sue, che lo farebbero cessare d' essere assoluto, dall' essere Dio, ma che costituiscono l' essere limitato e relativo, la creatura. Ora il Verbo, in quanto è la sussistenza divina che comprende i modi in cui può essere limitata, con che non è più sussistenza divina a cui è essenziale essere illimitata, è l' esemplare de' mondi possibili, l' idea de' contingenti. Le idee dunque dei contingenti appartengono al Verbo, ma non le cose contingenti, le quali non sono se non per un' operazione divina e libera che le fa sussistere e che si dice creazione. Ma qui s' intenda bene. Quando si parla de' modi in cui può essere limitata la sussistenza divina, non è che la sostanza divina riceva limitazioni, la quale non può riceverne. Ma, essendo essa l' essere, e l' essere potendo essere, il che si racchiude nel suo concetto, in due modi, illimitato e limitato; l' essere illimitato e immutabile è la sostanza divina, l' essere poi limitato è la creatura. Nella sussistenza divina vi ha dunque la possibilità delle creature, perchè vi ha l' essere che può essere limitato; ma non vi ha la creatura: vi ha la ragione per la quale la creatura può esistere, perchè vi ha l' essere il quale ha nel suo concetto di poter essere limitato. La possibilità poi della creatura è duplice, cioè logica e fisica . La possibilità logica è l' idea, ossia la ragione della creatura; la possibilità fisica è la potenza, ossia la causa efficiente della creatura, che è la virtù creatrice. L' essere assoluto adunque contenendo nel suo concetto l' idea dell' essere limitato, ossia della creatura, ed anche la virtù di porre, ossia rendere reale e sussistente quell' essere limitato manifesto nell' idea, egli ha tuttociò che bisogna per rendersi creatore, creatore dell' essere limitato, cioè della creatura, rendendola reale, sussistente. Il Verbo divino adunque, in quanto è sussistenza per sè intesa, ha l' idea delle cose contingenti; in quanto poi è sussistenza ha la virtù di crearle: onde la creazione è propria della sussistenza divina che crea secondo le idee che ha in se stessa in quanto ella è intesa per sè, ossia in quanto ella è Verbo: e però la creazione è una operazione che appartiene a tutta la Trinità che ha l' identica sussistenza. Conviene ancora che noi vediamo in che modo l' esemplare delle cose contingenti risieda nel Verbo. Questo esemplare è la conoscenza intima della virtù che ha essenzialmente la sussistenza divina di fare esistere l' essere in un modo limitato; è adunque ancora la sussistenza divina che conosce intimamente e per propria essenza se stessa e quindi la propria virtù. Di che procede primieramente che il Verbo e l' esemplare del mondo non sono due Verbi, ma è un solo, perchè è sempre la sussistenza divina conoscente e comprendente totalmente se stessa; ma in quanto si comprende come l' essere limitabile, cioè avente in sè la possibilità di ente limitato, in tanto fa ufficio di esemplare della realità o sussistenza limitata. Non è dunque una distinzione reale quella che si pone nel Verbo, considerandolo ora come immagine della sussistenza assoluta, cioè come sussistenza assoluta a sè cognita, ora come principio della cognizione del mondo, ossia come esemplare di questo; ma è un' astrazione nostra imperfetta, una considerazione dello stesso Verbo sotto due rispetti: vale a dire, con un rispetto alla sussistenza assoluta, e con un altro rispetto all' ente limitato, ossia alla possibilità di sussistere come ente limitato; la qual possibilità però è contenuta nella sussistenza assoluta costituendone la potenza e la sapienza. Nel concetto adunque dell' essere si contiene una sussistenza assoluta e la possibilità di sussistenze limitate. La possibilità di queste sussistenze limitate è logica in quanto è mera possibilità, cioè contenuta senza ripugnanza nel concetto dell' essere (idea del mondo); ed è fisica in quanto è potenza creatrice della sussistenza divina, cioè potenza che può fare che sieno le sussistenze limitate, non che sieno meramente possibili. La relazione di queste due possibilità è questa, che la possibilità fisica, ossia la potenza creatrice, preceda la possibilità logica ossia ideale, o conoscitiva. Perocchè la potenza creatrice è una forza reale, la quale si contiene nella profondità della sussistenza creatrice. Ma la sussistenza divina è per sè intesa totalmente; dunque anche la sua potenza creatrice è per sè intesa. Ma convien formarsi un giusto concetto di questa potenza divina, e non confondere la sua indole coll' indole della potenza umana che si trasmuta passando all' atto, perocchè in Dio non vi ha trasmutazione nè passaggio di potenza in atto essendo egli atto puro. Convien dunque riflettere che, sebbene in se stessa preceda la possibilità fisica degli enti finiti alla possibilità logica, e questa proceda da quella; tuttavia queste due possibilità non tengono lo stesso ordine nella mente umana, ma vi ha prima la conoscenza della loro possibilità logica, e dappoi la conoscenza della possibilità fisica. La ragione di ciò si è che l' uomo, secondo natura, non è e non ha la sussistenza cognita per se stessa, giacchè l' esser cognita per se stessa non appartiene se non alla sussistenza di Dio. Quindi l' uomo ha bisogno della possibilità logica, cioè delle idee per conoscere gli enti finiti sussistenti, che non sono cogniti per se stessi; laddove la possibilità logica, l' essenza ideale, è data all' uomo ed è cognita per se stessa. Qualora dunque l' uomo voglia conoscere a che s' estenda la possibilità fisica dell' essere, egli dee ricorrere alla possibilità logica, cioè vedere che cosa si contenga nell' idea o concetto dell' essere, e tutto ciò che vi si contiene segnerà la sfera della possibilità fisica, ossia della potenza creatrice di Dio. Ora nel concetto dell' essere si contiene tutto ciò che non repugna, tutto ciò che non involge contraddizione, perocchè l' essere nel suo concetto abbraccia tutto, meno la contraddizione. Nel concetto dunque dell' essere si contiene una sussistenza infinita e necessaria, e delle sussistenze finite possibili a realizzarsi, perchè non ripugna il concetto di enti finiti. Ma, se tutto ciò si trova nel concetto dell' essere, dunque tutto ciò è nell' essere stesso, altramente non sarebbe nel suo concetto, giacchè il concetto dell' essere suppone l' essere. Infatti il concetto dell' essere altro non è che il pensiero o la conoscenza di ciò che si contiene nell' essere. Dunque nell' essere si contiene la sussistenza infinita e necessaria, e la possibilità fisica delle sussistenze finite, cioè la potenza di realizzarle, la potenza che ha l' essere di sussistere in un modo finito. Dunque nel concetto dell' essere noi troviamo la dimostrazione dell' esistenza di Dio (già indicata da S. Agostino, da S. Anselmo e da altri), come quella che è condizione indispensabile dello stesso concetto dell' essere. E per seconda conseguenza troviamo la dimostrazione della potenza che dee avere l' Essere divino di realizzare degli enti finiti contenuti nel concetto appunto dell' essere. Finalmente per terza conseguenza deduciamo che, quantunque l' umana mente debba muovere il suo ragionamento, anzi ogni ragionamento dal concetto dell' essere; tuttavia rileviamo colla riflessione che il concetto stesso dell' essere suppone dinanzi a sè l' essere da cui proceda, cioè la sussistenza dell' essere. Altra è dunque la relazione che il concetto dell' essere e l' essere ha nella mente umana, dove quello precede e fa lume a questo; altra è la relazione che que' due termini hanno in se stessi, per la quale il concetto dell' essere procede dall' essere stesso sussistente per sè noto. Nel concetto dell' essere, diciamolo ancora, si contengono tre cose: 1 La sussistenza illimitata dell' essere; 2 la possibilità dell' ente limitato; 3 la potenza propria della sussistenza illimitata di fare che l' ente limitato sussista. Ma i limiti, che può ricevere l' ente limitato, sono tracciati nella sussistenza assoluta in modo da costituire altrettante idee specifiche realmente distinte? No, perchè la sussistenza assoluta non ammette limiti di sorte, e non ammette in se stessa alcuna moltiplicità o distinzione reale, perchè semplicissima, sebbene ad un tempo compiutissima. Laonde la sussistenza infinita tutto l' essere comprende, anche la possibilità dell' ente finito, e la potenza di farlo sussistere. La possibilità dell' ente finito s' estende a tutto il finito possibile, e la potenza s' estende a potere realizzare tutto il finito possibile; nè l' una nè l' altra ha confini. Onde vengono adunque i confini determinati e speciali dell' ente finito? Dalla potenza creatrice appartenente alla sussistenza divina: questa li determina e prescrive coll' atto con cui vuol crearlo. Di che procede che nel Verbo divino come tale non si contengono propriamente le idee specifiche e realmente distinte de' varii enti finiti, ma si contiene unicamente la possibilità dell' ente finito, il che è quanto dire l' idea dell' essere in universale; la quale, rispetto alla sussistenza divina come essere assoluto e illimitato, è la sussistenza per sè manifesta; rispetto poi all' ente finito non ancora sussistente è puramente idea . Ora, all' uomo secondo natura è comunicata l' idea dell' essere in universale, ma non la sussistenza divina per sè manifesta; e quindi non gli è comunicato il Verbo, ma una luce veniente dal Verbo. In tal modo, relativamente all' uomo, viene limitato l' essere per sè manifesto, per guisa che all' uomo rimane solo l' idea o il concetto dell' essere semplicemente, senza la sussistenza: onde riman perduta la nozione di Verbo e la nozione di Dio, perocchè il Verbo e Iddio non è ciò che è in qualsivoglia modo limitato. Qui si presentano facilmente al pensiero due questioni. La prima: « La divina potenza propria della divina sussistenza, e però dell' intera Trinità, fu quella che determinò quali speciali limitazioni dovesse avere l' ente finito ch' ella voleva creare; questa determinazione fu ella fatta a pieno arbitrio senza alcuna ragione? ». La seconda: « La divina potenza si determinò a creare il mondo senza ragione con cieco arbitrio? ». Alla prima questione rispondiamo, che la sussistenza divina, appunto perchè essenzialmente manifesta, è sapientissima; e però non poteva concepire a cui dar l' esistenza, se non un ente finito in cui risplendesse il carattere della sapienza che lo ideava e creava. Ma qual è il carattere della sapienza? E` l' ordine, cioè la disposizione della pluralità ordinata ad una perfetta ed ottima unità, e l' unità è ottima quando è riposta in un fine ottimo, il quale non può esser che Dio. L' universo adunque non poteva avere per fine dell' ultimazione sua altro che Dio, cioè la manifestazione della gloria di Dio, la qual gloria è la sua santità e la sua beatitudine, in una parola il suo perfetto ed assoluto Essere uno e trino. Questa manifestazione era una comunicazione di questa divina perfezione alla creatura. Tutto dunque doveva cospirare a ciò; perchè Iddio non poteva amare che se stesso, e l' ente finito non per lui, ma per se stesso. Ma, oltre la sapienza di questo ottimo fine che consumava tutta l' opera della creazione nell' unità del primo essere, doveva ancora risplendere la stessa sapienza nel modo con cui la pluralità degli enti tendesse in tale unità; e questo modo consisteva nell' ordine col quale dovevano essere incatenati e connessi fra sè gli enti finiti, con subordinazione delle serie delle cause seconde, e con leggi stabili, in modo da formare anche per questo di tutti gli enti un solo ordine, un solo universo. Ora qui nasce questa difficoltà. Non essendovi nella sussistenza divina altro ordine che quello delle persone, nè altra moltiplicità, nè altra distinzione reale, onde poteva Iddio trovare il canone della sapienza che prescrivesse quella concatenazione delle creature e delle cause seconde, e quella stabilità delle leggi? Si risponde, che questo canone si trova nella sussistenza divina, in quanto che la sussistenza divina, amando l' essere, cioè se stessa, infinitamente, doveva necessariamente voler produrre il maggior essere finito possibile colla menoma sua azione; di che procede che quest' essere dovesse essere ordinato, perchè dove vi ha ordine vi ha più essere che dove non vi ha (1). Quindi la connessione degli enti, la subordinazione delle cause, la stabilità delle leggi, ecc.. Medesimamente la divina sussistenza, amando se stessa, doveva volere che l' ente finito da lei prodotto ottenesse il massimo frutto, cioè partecipasse nella maggior copia possibile della natura divina: quindi di nuovo la necessità dell' ordine. L' ordine dunque, tanto nell' ambito della natura, quanto in quello soprannaturale della grazia, doveva essere il carattere di sapienza impresso all' opera di Dio. A questo si può aggiungere un terzo argomento, una terza via per la quale Iddio doveva volere ordinata l' opera sua; e questa via si è che non avendo nè potendo Iddio aver altro esemplare che se stesso, nè potendo l' ente finito esser altro che limitato e quindi soggetto alla moltiplicità, conveniva però che in questo risplendesse l' unità dell' ordine quanto più fosse possibile, acciocchè egli imitasse il più possibile l' Ente infinito. Dalla qual dottrina deriva che il creato non può esser che uno, benchè risultante da molte parti, da molti enti; uno l' universo, e quindi uno il concetto dell' universo nella divina mente: il qual concetto è la sapienza creata ab eterno coll' atto della creazione del mondo. Le cose tutte contingenti non sono adunque da Dio conosciute per molte idee staccate, ma per un' idea sola emergente dall' atto della creazione, che s' immedesima con quell' atto stesso, come diremo in appresso. Veniamo alla seconda questione: Iddio si determinò ciecamente piuttosto a creare il mondo che a non crearlo, o v' ebbe una ragione? Noi rispondiamo che l' essere è amabile a Dio: amando Iddio se stesso per essenza, egli ama l' essere in tutti i modi; quindi non solo ama l' Essere infinito, ma ama che sussista anche l' essere finito che imita per quanto può il primo. Se dunque ama che sussista, egli ha una ragione in se stesso di farlo sussistere ossia di crearlo: il che gli antichi espressero dicendo che « « il bene è di natura sua diffusivo »(1) ». Essendo dunque Iddio mosso a creare dall' amor di se stesso, col quale ama l' essere assoluto e tutti i modi ne' quali benchè limitati può sussistere l' essere imitando in quella guisa che può l' assoluto, faceva anche sussistere l' essere finito. Si opporrà che, se questa ragione avesse valore, non si vedrebbe più il perchè Iddio si sia limitato a creare quest' universo, e non abbia creato ancor più. Ma l' obbiezione si scioglie ove si consideri che Iddio era limitato nella quantità della creazione dai canoni della sapienza, la quale imponeva, come abbiamo veduto, 1 che l' universo avesse unità nel suo fine; 2 che avesse ordine ed unità nella sua costituzione e congiunzione fra sè; 3 che vi avesse subordinazione di cause e di effetti, stabilità di leggi, ecc.. Le quali condizioni è a credersi che non si potessero verificare in un modo più grandioso che con quella mole di creato, che Iddio ha condotto alla sussistenza, e che qualunque altra combinazione degli enti finiti possibili non si sarebbe prestata ad avverare quelle leggi sapientissime, secondo le quali opera per sua natura l' infinito Creatore. Ora si può dire che egli abbia fatto sussistere con la creazione tutto ciò che era possibile, salve le leggi della sua sapienza e santità. Ancora si obietterà che in tal caso Iddio non era libero al creare e non creare. Rispondesi che la libertà di Dio è perfettissima, perchè la sua essenziale santità e sapienza non limitano la sua potenza, ma la dirigono, e questa è la perfezione essenziale della libertà divina; onde avviene che Iddio non possa fare che il perfetto, e abbia una felice necessità di farlo, nel che consiste appunto la perfezione della divina libertà. E quindi ogni difficoltà sarà tolta quando si ponga ben mente che è cosa molto diversa il dire necessaria la creazione quanto è necessario l' amore che Iddio porta a se stesso, dal dire, come noi facciamo, che dall' amore necessario ed essenziale di Dio per se stesso rampolla l' atto libero della creazione, perchè è pur dottrina comune dei teologi che ogni atto d' amore di Dio benchè libero verso la creatura proviene dall' amore che ha Dio essenzialmente per se stesso, di guisa che suole attribuirsi ogni atto anche libero dell' amore divino allo Spirito Santo (1). Dalle quali considerazioni procede: 1 Che, quantunque l' ente finito creato potesse esser maggiore, più numeroso, se si riguarda la sola onnipotenza del Creatore; tuttavia non potea, se si riguardano gli altri attributi della sapienza e della santità, e quindi che l' ente finito che sussiste per creazione è tutto ciò che di finito poteva sussistere, salvi quegli attributi; 2 Che Iddio fu mosso a creare dall' amore che essenzialmente porta a se stesso, e quindi che la creazione fu fisicamente libera, benchè moralmente necessaria (2); 3 Che il tipo divino dell' universo è uno, e comprende tutto ciò che Iddio fece; 4 Che questo tipo non è diverso in Dio dall' atto della creazione col quale fu distinto e specificato, rimanendo indistinti nella sussistenza divina tutti que' modi co' quali l' ente finito potrebbe, se fosse creato più imperfettamente, imitare l' infinito; 5 Finalmente che questo tipo istesso non fu trovato da Dio per via d' alcun discorso, ma gli fu sempre presente ed appartiene al Verbo divino. Queste due ultime proposizioni esigono qualche dichiarazione. Come il tipo divino dell' universo non sia diverso dall' atto della creazione ma in questo compreso, s' intenderà considerando che la sussistenza divina non è screziata, non ha traccie in se stessa di limiti, ed ella stessa è la potenza di far sussistere l' ente finito. Onde i limiti di quest' ente, non essendo realmente tracciati nella sussistenza divina, convien dedurli dalla divina sapienza che liberamente li pone. Ora la sapienza divina non ha alcun discorso, ma è sempre consumata ed ultimata, onde sta presente a quell' atto libero di sapienza ed intelligenza il suo oggetto. Ma non trovandosi quest' oggetto finito determinato nella divina sussistenza, convien che sia determinato dalla sussistenza sua propria; la quale sussistenza ha luogo unicamente coll' atto di creazione. Convien dunque dire che l' atto eterno della creazione del mondo sia l' atto stesso della Sapienza che vede il mondo sussistente; onde è un atto efficace che vedendolo lo fa ad una sussistere, sicchè la sussistenza del mondo è l' oggetto posto liberamente dalla stessa Sapienza creatrice. Quest' atto unico adunque fa ad una due cose: vede il mondo, e vedendolo lo crea, trova quell' ente finito che nel miglior modo possibile imita l' ente infinito, ed il trovarlo ed il crearlo è il medesimo; il trova senza cercarlo, o piuttosto gli è continuamente trovato, perchè ab eterno lo ha trovato, essendo essenziale a Dio questa stessa attuale sapienza. Di che si vede ancora in che modo l' atto della creazione s' immedesimi coll' atto generativo del Verbo. Quest' atto è la sussistenza divina, in quanto, intendendo se stessa, rende se stessa manifesta; che è il Verbo. Ma rendendo se stessa manifesta, rende manifesto ad un tempo l' ente finito, che imita, come può, la sussistenza divina. Ora il rendere a se stessa manifesto l' ente finito determinato è un crearlo, come dicevamo. Vi ha però questa grande differenza fra l' atto generativo, come tale, e l' atto creativo: che quello è necessario, perchè la sussistenza divina è necessariamente per sè manifesta; questo è volontario, producendolo Iddio liberamente per l' amore che Iddio porta a se stesso, e perciò a tutto quello che lo imita. Dichiarato quanto potemmo, qual sia la natura del Verbo divino, che in greco dicesi «logos» da S. Giovanni, conviene che noi vediamo come i diversi significati di questo greco vocabolo convengano al Verbo. S. Girolamo a Paolino scrive di questa voce «logos»: « « Graece multa significat. Nam et verbum est, et ratio, et supputatio, et causa uniuscujusque rei, per quam sunt singula quae subsistunt. Quae universa recte intelligimus in Christo »(1) ». Ora egli è certo che, quantunque nessun vocabolo umano, cioè trasferito dalle cose umane a significare le divine, possa pienamente convenire a significarle; tuttavia con somma sapienza la Chiesa latina usò più spesso e consacrò la parola Verbum a significar quello che l' aquila degli evangelisti espresse con la parola «logos». E di vero la parola Verbum esprime più da vicino d' ogni altra la seconda persona della Triade augustissima, tanto se lo si consideri rispetto al Padre, quanto se lo si consideri rispetto alle creature. Consideriamolo sotto entrambi questi aspetti. Rispetto al Padre . - Primieramente la parola Verbo si applica a significare, come vedemmo, un atto conoscitivo dello spirito, il quale non è una semplice concezione o intuizione, ma è un pronunciato, un giudizio, un' affermazione; non è una mera notizia ideale, ma è insieme un' adesione persuasiva dello spirito all' oggetto reale. Quindi il termine di quest' atto affermativo non è una mera idea , ma una sussistenza . E però esso conviene mirabilmente alla seconda persona divina, che è l' Essere assoluto e sussistente manifesto per se medesimo in virtù d' un atto suo proprio sempre conosciuto e coeterno che lo rende manifesto, e così lo genera (2). La parola ragione all' incontro indica ben sovente un' idea in quanto serve a ragionare, cioè ad additare il perchè d' un fenomeno. Vero è che talora si trova questo perchè nella sua causa sussistente, onde S. Girolamo dice che «logos» indica ancora « causa uniuscujusque rei (loc. cit.) »; e in questo senso potrebbe convenire alla seconda persona della divina Trinità. Ma ciò che prima di tutto si dee osservare nel Figlio, non è di essere la ragione delle cose, ma di essere generato dal Padre. Oltracciò la parola ragione si adopera a significare la facoltà soggettiva di ragionare, nel qual senso non conviene al Verbo, se non in quanto il Verbo origina in noi questa facoltà, come diremo in appresso, o come dice S. Girolamo: « Quae universa recte intelligimus in Christo (loc. cit.) ». Osservano alcuni Padri che la parola «logos» conviene al Figliuolo, perchè questo procede dal Padre «apathos», cioè senza alcuna passione o corruzione del generatore, appunto come la notizia procede dall' animo (1). Ma non ogni notizia procede dall' animo. Chè le notizie ideali procedono dall' idea, la quale le dà all' animo che le riceve. All' incontro la parola interiore, cioè l' affermazione delle cose sussistenti, procede dall' animo, e però meglio conviene al Figliuolo la denominazione di Verbo. Tuttavia non è al tutto vero che il verbo dello spirito umano procede senza recare alcuna immutazione nello spirito stesso, perchè da lui procede come un accidente; laddove il Verbo di Dio non reca immutazione di sorta al Padre a cui è essenziale. S. Gregorio Nazianzeno e S. Basilio osservarono altresi un' altra analogia fra il significato del «logos» in sè considerato ed applicato al Verbo: cioè che, come il «logos» è intimo all' uomo, così il Figliuolo è intimo al Padre. La quale analogia ha maggior forza, se per «logos» s' intende la facoltà della ragione in quant' è fondata nell' intuizione dell' essere. Ma tuttavia siamo lontani ancora dal trovare in ciò una piena somiglianza, perchè l' essere ideale, intuito dallo spirito umano, nè è la sussistenza di questo spirito, nè con lui s' immedesima, altro essendo l' essere che informa lo spirito nostro, ed altro questo spirito nostro stesso; laddove il Figliuolo ed il Padre hanno la medesima sussistenza. Ma prima di proceder oltre raccogliamo tutte le principali differenze che si possono notare fra il verbo umano e il Verbo divino, acciocchè ci formiamo di questo, quanto ci sia possibile, un esatto concetto, e non mescogliamo con esso lui niente della nostra imperfezione. Queste differenze si possono ridurre a nove, le quali sono: 1 Il verbo umano si produce con un passaggio della potenza all' atto. Il Verbo divino non passa dalla potenza all' atto, ma è sempre in atto, sempre generato ab eterno. 2 Il verbo umano è un accidente dell' anima, di maniera che l' anima umana potrebbe esistere senza di lui, ed essa infatti esiste prima d' avere emesso alcun verbo, come sta nel primo istante della sua esistenza. Il Verbo divino è essenziale alla natura divina di maniera che questa natura non esisterebbe senza il Verbo, giacchè l' essere assoluto, cioè Dio, ha per sua propria essenza di dover esistere in tre forme che si dicono persone. Quindi non si può pensare in Dio una potenza anteriore alla generazione del Verbo, non solo anteriore cronologicamente, ma neppure logicamente; perocchè, se si pensasse questa potenza, ella sarebbe qualche cosa di anteriore a Dio, e nulla si può pensare che sia anteriore a Dio, perocchè Iddio è l' essere, e nulla si può pensare di anteriore all' essere. Qualora dunque a noi sembra di potere pensare una tale potenza, noi c' inganniamo; è un pensare limitato ed imperfetto che non raggiunge la verità. Nè pure si può pensare l' atto della generazione del Verbo in quell' istante (da noi erroneamente supposto) nel quale sia in fieri e non ancor fatto ed ultimato; perocchè quell' istante non esiste, essendo sempre fatto ed ultimato continuamente l' atto della generazione senza passaggio alcuno; atto immanente e semplice; atto primo, cioè l' atto stesso con cui è Dio; atto per conseguente che è Dio stesso. Avanti quest' atto compiuto non vi è nulla, nulla affatto da potersi concepire o pensare; la stessa parola compiuto è inutile ed inesatta, perchè viene a supporre la possibilità di pensarlo incompiuto , quando l' atto di cui si parla è per propria essenza compiuto, senza possibilità alcuna di uno stato incompiuto. 3 Il verbo umano è semplicemente un' interna affermazione che lascia nell' animo la persuasione e la notizia della cosa affermata, di maniera che si distingue il verbo che è transeunte dai suoi effetti immanenti che restano nell' anima per un certo tempo e anche per sempre. Il Verbo divino non è una mera affermazione, perchè nel tempo stesso ha anche ciò che v' ha di positivo nella nostra intuizione e nel nostro sentimento; nè egli è un atto transeunte, nè si distingue dai suoi effetti, perocchè egli è ad un tempo persuasione e notizia immanente, ma è ancora più di tutto ciò, e forse l' espressione che meno gli disconviene è quella che abbiamo detto di sentimento intellettuale . Oltre di ciò, pronunciando lo spirito umano molti verbi, l' analogia che passa fra il Verbo divino e l' umano, come ha osservato S. Agostino (1), si riscontra maggiormente rispetto a quel verbo umano, col quale l' uomo afferma e pronuncia se stesso, non rispetto agli altri verbi coi quali l' uomo pronuncia ed afferma le altre cose diverse da sè; perocchè il Verbo divino è la similitudine o immagine del Padre che lo pronunzia e lo genera, e così il verbo con cui l' uomo pronuncia se stesso è quello che rende l' uomo conoscibile a se stesso. 4 Il verbo umano si fa coll' unire la sussistenza delle cose contingenti colla loro essenza, le quali sono di lor natura distinte e separate, perocchè non è essenziale alle cose contingenti il sussistere; onde per conoscere la sussistenza conviene affermarla nell' essenza: il che si verifica anche quando pronunciamo ed affermiamo noi stessi, ossia il sentimento sostanziale come appartenente all' essere affermante, giacchè neppur noi siamo noti a noi stessi, ma è l' idea ossia l' essenza dell' essere che ci rende noti. All' incontro la sussistenza divina è anche essenza nota per se stessa, senza bisogno che alcun' altra cosa la renda nota; ed appunto l' essere ella per sè nota e per sè affermata, è ciò che la costituisce Verbo dell' atto essenziale intellettivo pel quale ella è tale. Non v' ha dunque a farsi una sintesi per costituire Iddio come oggetto, dico, fra la sua essenza e la sua sussistenza, perocchè questa è già per sè oggetto. Onde per ciò appunto questa è Verbo senza bisogno d' altro, senza bisogno di alcuna sintesi necessaria per oggettivare le realtà contingenti. 5 Oltrediciò, quando l' uomo pronuncia il suo verbo, l' essenza che egli unisce alla sussistenza sta bensì davanti alla sua mente, ma non è la sua mente che ha bisogno ella stessa di venire illuminata; quest' essenza è straniera al soggetto uomo che pronuncia il verbo, anche quando l' uomo pronuncia ed afferma se stesso. All' incontro Iddio Padre che pronuncia il Verbo non toglie altronde l' essenza, la quale è identica alla sua propria sussistenza, onde egli pronuncia se stesso con se stesso, si pronuncia continuamente, o piuttosto la sussistenza divina è continuamente pronunciata, resa continuamente manifesta a se stessa, perocchè è per essenza luce a se stessa. 6 Il verbo umano è molteplice, cioè l' uomo pronuncia molti verbi, perchè egli è un essere limitato escludente dalla sua sussistenza tutti gli altri esseri limitati, i quali sono molti ed esclusivi, ond' egli ha bisogno di pronunciare altrettanti verbi esclusivi, con ciascun dei quali afferma un ente limitato ed esclusivo. All' incontro il Verbo divino è uno solo che pronuncia l' Essere illimitato ed assoluto, cioè la sussistenza divina, e in questa pronuncia la possibilità fisica dell' essere finito, e l' atto della sua volontà che lo fa sussistere, e quindi la possibilità logica, ossia l' essenza, e ad un tempo la sussistenza dell' essere finito nella sua unità, nel suo ordine che lo renda un tutto solo ordinatissimo, qual è l' universo creato con tutti i suoi atti. Quindi egli è semplicemente Verbo, non mescolato di limitazioni, e compiuto Verbo. 7 Il verbo umano col quale l' uomo afferma le sussistenze finite, le quali cadono nel suo sentimento, altro non produce all' uomo se non la persuasione ossia la notizia della loro sussistenza, non produce le cose stesse. All' incontro il Verbo divino è costituente e produttivo. E` costituente della divina sussistenza, perchè a questa è essenziale l' esser Verbo, cioè l' esser per sè oggetto, per sè luce, per sè a se manifesta. E` produttivo delle creature perchè l' atto stesso, col quale le pronuncia, le vede amabili in se stesso, è un atto volitivo col quale le fa sussistere: onde S. Paolo dice di Dio: « portans omnia Verbo virtutis suae (1) ». E l' amabilità dell' ente finito ordinatissimo e completissimo è l' amabilità stessa della sussistenza divina, amabilità che viene partecipata dall' ente finito in quanto questo imita quella, sebbene limitatamente. . Il verbo umano, che è soltanto persuasivo, non è pratico, cioè operativo. Acciocchè l' uomo possa operare razionalmente deve fare un altro verbo o giudizio pratico, col quale dica internamente che l' azione che farà è a lui buona. Questo secondo verbo volontario è il principio nell' uomo delle sue azioni razionali. Se questo verbo non riguarda che l' amore razionale con cui può l' uomo aderire ad una cosa, si può dire che quell' amore si immedesimi in qualche modo a quel verbo pratico, o ne sia un' estensione, una continuazione, o, se si vuole, un compimento. Ma se la cosa giudicata soggettivamente buona con questo verbo pratico dell' uomo è un' azione spettante a qualche altra potenza inferiore, in tal caso l' azione, che si muove in conseguenza del verbo, è affatto distinta dal verbo stesso. Tutte queste distinzioni non cadono nel Verbo divino, col quale Iddio opera. Imperocchè, quantunque la creazione del mondo sia un atto volontario e libero di Dio, tuttavia quest' atto è determinato moralmente dall' amabilità del mondo in quanto imita, nel miglior modo che può l' essere finito, la sussistenza divina, amata per natura, nella quale è amato il mondo. Conciossiachè appartiene alla perfezione dell' Essere divino che sia per essenza morale, e che perciò abbia per essenza amore al mondo. Onde l' atto stesso essenziale alla divina sussistenza (a cui è pure essenziale la libertà) è quello con cui è creato il mondo, e però con quell' unico atto, chè altri non ne sono in Dio, ella opera tutto ciò che opera ad extra; e quest' atto è quell' unico Verbo, col quale vede e pone ad un tempo le finite sussistenze. 9 Finalmente il verbo umano riceve dal Verbo divino tutti gli elementi di cui egli si compone. Perocchè 1 riceve le essenze delle cose, ossia la possibilità dell' ente finito che diviene il lume di sua ragione; 2 riceve le sussistenze finite ch' egli afferma col suo verbo persuasivo, e le azioni ch' egli afferma buone a sè soggetto col suo verbo pratico, perché tutto ciò riceve il sussistere dell' atto del Verbo divino; 3 finalmente l' atto stesso soggettivo dell' affermazione e del giudizio è posto in essere dal Verbo, nel quale e pel quale sono fatte tutte le cose. Il Verbo divino all' incontro nulla riceve da un maggiore di sè, ma solo dal Padre, a cui è uguale, perchè è la sussistenza divina per sè intesa, cioè intesa per un atto suo proprio d' intelligenza che la rende intesa, la rende oggetto reale a sè, soggetto del pari reale. Sotto questo aspetto non di meno il verbo pratico umano ha un' analogia maggiore del verbo persuasivo col Verbo divino, in quanto che quello produce un affetto, e anche, conseguentemente all' affetto, un' altra azione; e però è in qualche modo produttivo come causa seconda, com' è produttivo il Verbo divino non solo di azioni ma ancora di sostanze. I verbi umani poi deontologici, cioè quei giudizi che pronuncia l' uomo sulla convenienza delle cose, hanno una speciale analogia col Verbo divino, di cui sono privi gli altri verbi umani; perocchè la convenienza delle cose non potrebbe essere pronunciata dall' uomo se non fosse prima pronunciata da Dio, nella cui natura Iddio vede qual sia l' essere finito complesso di più enti convenientissimi, e col vederli li rende tali. Onde i verbi o giudizi deontologici dell' uomo si possono dire ripetizioni di ciò che ha pronunciato ab eterno Iddio quando ha generato il suo Verbo. [...OMISSIS...] . - Dobbiamo ora considerare il Verbo rispetto alle creature, e vedere come anche in relazione a queste la parola Verbo si applica convenientemente alla seconda persona dell' augustissima Triade. Abbiamo già detto che verbum, ossia parola, significa tanto un pronunciato interno dello spirito umano, quanto un pronunciato esterno espressione dell' interno. Il primo fa conoscere il pronunciato (la cosa pronunciata) allo spirito pronunciante, il secondo è ordinato a compire, rinforzare, mantenere più fermo dinnanzi alla mente dell' uomo il suo pronunciato, e principalmente a farlo conoscere ad altre intelligenze. Qui si rileva un' altra analogia fra il verbo umano e il Verbo divino: perchè anche il Verbo divino, in quanto è la sussistenza divina pronunciata, ha una relazione col Padre; in quanto è il mondo pronunciato da Dio, è un cotal compimento del primo, in quanto è ancora la sussistenza divina imitabile e imitata dall' ente finito, e in pari tempo ha relazione colle creature che per quel Verbo sussistono, ed imitando, come possono, l' essere infinito, lo esprimono e manifestano a se medesime, cioè all' intelligenza finita. In vero la sussistenza divina non sarebbe compiutamente pronunciata, se in questo pronunciato, ch' ella stessa fa, non si contenesse anche la possibilità fisica dell' ente finito che in essa risiede. La stessa sussistenza senza il pronunciato di sè, cioè senza il Verbo, non sarebbe completa. Per la stessa ragione non sarebbe completa ed ultimata se ella non fosse amabile ed amata da se stessa, e quindi se non amasse l' ente finito che la imita, essendo sua proprietà quella d' essere imitabile; onde segue che pronuncia liberamente, in conseguenza di tale amore, l' ente finito ordinatissimo da lei amato, e pronunziandolo pone ad un tempo la sua essenza determinata e la sua sussistenza. L' essere intelligente finito è la più nobil parte del creato, e l' altre cose sono fatte per lui; possono essere da lui conosciute ed usate: egli poi è fatto per Iddio, cioè per conoscerlo ed amarlo. Il mondo dunque fu fatto perchè Iddio si rendesse manifesto alle intelligenze finite, e queste ne celebrassero la grandezza, ed esultando in questa cognizione di Dio grande e glorioso, ne godessero, e partecipassero della sua perfezione e felicità. Ma la manifestazione delle cose divine alle finite intelligenze comincia pure coll' atto del crearle, perocchè le intelligenze sono tostochè è loro dato l' essere essenziale ideale, per sè manifesto. Il qual essere, essendo per natura sua manifesto, non si dà in altro modo che col manifestarsi. Ora l' essere ideale risplendente nel soggetto creato è un' appartenenza del Verbo divino, perchè è la possibilità logica dell' essere finito che nella divina sussistenza pronunciata da se stessa risiede. Mediante l' essere essenziale per sè manifesto a noi comunicato, noi pronunciamo il nostro proprio sentimento e tutto ciò che cade in esso: cioè gli agenti che in esso operano e lo modificano, e queste stesse modificazioni come determinazioni nostre e come determinazioni degli stessi agenti; in una parola pronunciamo tutte le sussistenze finite in quanto al nostro sentimento appartengono. Il pronunciarle è il conoscerle, e il pronunciare è un dire « che cosa sono », e il dire che cosa sono è un conoscerne l' essenza; onde la cognizione nostra de' reali sta nel riferire il sentimento contingente, e ciò che cade in questo sentimento, all' essenza; ossia nel congiungere il contingente col necessario, il temporaneo coll' eterno, il creato coll' increato e divino, così completandolo. Il che fu preso da Niccolò Malebranche come un vedere le cose in Dio, ma la frase non è accurata, perocchè non si dice vedere una cosa in un' altra se non si vede anche l' altra. Onde si potrebbe correggerla così: apprendere le cose sussistenti nelle loro essenze, le quali sono in Dio, benchè da noi non si veggano in Dio. Ora questa maniera, onde noi conosciamo le sussistenze finite per un' affermazione o verbo, ha un' analogia speciale col Verbo divino. Perocchè, come Iddio è manifesto a se stesso e in se stesso conosce tutte le cose; così noi conosciamo tutte le sussistenze contingenti in noi stessi, cioè nel nostro sentimento nel quale elleno sono ed agiscono: ma colla differenza che il nostro sentimento è oscuro, perchè non è essenza, e quindi dobbiamo vederlo nell' essenza per conoscerlo; laddove il sentimento divino è l' essenza stessa, e perciò è noto per se stesso. Onde la conoscenza nostra del mondo (gli oggetti sussistenti da noi affermati) è una manifestazione analogica del Verbo divino. Ma l' essenza da noi intuita dell' essere, benchè sia un' appartenenza dell' essere, tuttavia non è il Verbo, perchè non è l' essere attuato, ma l' essere in potenza; non è la sussistenza, ma la pura essenza. Il mondo conosciuto nè pur esso è il Verbo, ma ha solo un' analogia col Verbo divino. L' uomo dunque non conosce per natura il Verbo, non lo percepisce per sua natura; e quindi le speculazioni della ragion naturale non giungono se non ad averne un cotal concetto negativo ed analogico. Di qui la deficienza del platonismo circa la dottrina del Verbo, che venne da quella scuola assai sovente confuso colle idee. Il Verbo non si percepisce e conosce positivamente se non per una comunicazione che fa di sè all' uomo il Verbo stesso, la quale perciò si dice soprannaturale, perchè non viene dalla natura finita, ma immediatamente dall' Essere infinito sussistente superiore alla natura. La comunicazione adunque del Verbo all' uomo è un fatto, non è un ragionamento dell' uomo; è un' immediata appercezione la quale umilia l' uomo, perchè gli fa sentire e conoscere la deficienza della sua natura incapace per sè sola di elevarsi all' unione con Dio, e la impotenza della sua ragion naturale di raggiungere positivamente l' essere assoluto. Ora da questa umiliazione ripugna la superbia de' filosofi, i quali credono di possedere la scienza perchè possedono l' errore; l' errore dico di prendere l' idea pel Verbo; nè vogliono conoscere e confessare la propria ignoranza, onde chiudono la porta in faccia al Verbo che loro si manifesterebbe se lo volessero ricevere. Di qui si può tracciare la linea di confine fra l' ordine naturale e l' ordine soprannaturale, fra la dottrina de' filosofi e la comunicazione reale che il Verbo divino fa di se stesso agli uomini: e la fece compiuta nell' incarnazione; a misura per la grazia che ai suoi fratelli comunica il Verbo incarnato. S. Agostino la osservò e la descrisse accuratamente in queste ammirabili parole che a Dio sono indirizzate: [...OMISSIS...] . Dal qual bellissimo luogo del gran Dottore d' Ippona si raccoglie che l' intendimento umano potè speculare sul Verbo interno di Dio, cioè almeno potè ricevere, senza ripugnanza, la divina rivelazione intorno ad esso appropriandosela, perchè infatti tutta conforme e armonica coll' intelligenza; ma che all' opposto tutta quella parte che riguardava il Verbo esterno di Dio, cioè le operazioni e le manifestazioni del Verbo agli uomini, le quali non sono in egual modo razionali, ma positive e di conseguente si debbono ammettere coll' ossequio della fede a Dio rivelante, non furono ricevute dalla superbia dei filosofi, che tutto volevano trarre dal proprio raziocinio, tutto attribuire all' opera del proprio ingegno, magnificando di tali invenzioni se medesimi. E questa ripugnanza di ammettere le manifestazioni volontarie e positive del Verbo è il fenomeno che deve manifestarsi all' uomo naturale privo della grazia. Perocchè l' uomo naturale non sente Iddio, e però della manifestazione esterna di Dio non percepisce che la parte materiale, e non la parte divina in quella investita. Non crede adunque a questa perchè non la sente. Conviene osservarsi che la manifestazione esterna o comunicazione del Verbo alle create intelligenze si fa per opera dello Spirito Santo. Per opera di questo divino Spirito si fece l' incarnazione che è la comunicazione massima del Verbo all' umanità: « Spiritus Sanctus superveniet in te et virtus Altissimi obumbrabit tibi (1) ». Per opera di questo stesso Spirito si fece l' antica rivelazione per man de' Profeti, di cui dice S. Pietro: « Spiritu Sancto inspirati locuti sunt sancti Dei homines (2) ». E siccome i profeti inspirati dallo Spirito Santo pronunciarono e scrissero intorno al Verbo di Dio, così le loro parole non potevano essere intese, nè le loro scritture interpretate senza che lo Spirito Santo ne dèsse alle menti l' intelligenza, significando internamente ciò che esternamente suonavano le parole, onde lo stesso S. Pietro insegna: « omnis prophetia propria interpretatione non fit (3) ». Ma ciò che i profeti annunziarono del Verbo di Dio e della salute che questo avrebbe data agli uomini venendo al mondo, benchè fosse cosa inspirata dallo Spirito Santo e si riferisse al Verbo divino, contenendo un lume interno celeste, tuttavia non conteneva propriamente lo stesso Verbo divino, che doveva esser dato personalmente agli uomini coll' incarnazione, ma soltanto conteneva l' annunzio di esso Verbo, il quale annunzio perchè sia inteso suppone una qualche cognizione generale o anche una certa percezione del Verbo stesso, ma non la percezione compiuta o personale dello stesso Verbo. Onde S. Pietro distingue questi due gradi, o piuttosto queste due specie di luce spirituale, l' una propria dei santi dell' Antico Testamento e specialmente dei profeti, l' altra propria dei santi del Nuovo e specialmente degl' immediati discepoli del Verbo incarnato. Dei primi dice che andavano scrutando in che tempo e quale lo spirito di Cristo significasse in essi dover avverarsi e le passioni e le posteriori glorie di Cristo, ma in pari tempo dice che non ministravano a se stessi, ma a' futuri cristiani quelle cose che annunziavano: « Quibus revelatum est quia non sibimetipsis, vobis autem ministrabant ea quae nunc nuntiata sunt vobis per eos qui evangelizaverunt vobis, Spiritu Sancto misso de coelo, in quem desiderant angeli prospicere (4) ». Ed altrove paragona il lume antico ad una lucerna che luce in luogo caliginoso, e il lume nuovo portato da Cristo all' astro della luce: « Et habemus firmiorem propheticum sermonem, cui benefacitis attendentes quasi lucernae lucenti in caliginoso loco, donec dies elucescat et lucifer oriatur in cordibus vestris (5) ». Il Verbo dunque è comunicato agli uomini per mezzo della operazione interiore dello Spirito Santo, il quale produce anche l' annunzio e la significazione esteriore e sensibile del Verbo; ma questa non può essere intesa senza una nuova operazione interiore del medesimo Spirito che la faccia intendere. Onde la distinzione che fa S. Paolo, parlando dell' intelligenza delle Scritture, fra la lettera e lo spirito delle medesime, dicendo che « littera occidit » (perchè non facendole intendere neppure dà la forza di osservarle), « Spiritus autem vivificat (1) ». Il che medesimamente si avverò nel Verbo incarnato, l' umanità del quale era sensibile a tutti gli uomini, la quale è come la lettera: onde a quelli, che per propria colpa non vedendo che l' umanità non giungono alla fede della divinità, ritorna la loro cognizione a morte, secondo la profezia: « Ecce positus est hic in ruinam »; laddove a quelli, che credono nella divinità, ritorna la loro cognizione a vita « et in resurrectionem multorum (2) ». Onde Cristo è continuamente nella Scrittura paragonato ad una pietra che serve di fondamento a quelli che si edificano sopra di lui come pietre vive formanti il tempio di Dio, e nello stesso tempo è inciampo e morte a coloro che danno in esso di cozzo: similitudine che Cristo stesso dichiarò a sè appartenere: « Nunquam legistis in Scripturis: Lapidem quem reprobaverunt aedificantes, hic factus est in caput anguli? A Domino factum est istud et est mirabile in oculis nostris. Ideo dico vobis quia auferetur a vobis regnum Dei, et dabitur genti facienti fructus ejus. Et qui ceciderit super lapidem istum, confringetur; super quem vero ceciderit, conteret eum (3) ». Ed il doppio essere di Cristo, cioè l' umano visibile agli occhi carnali, e il divino che si rivela solo alle anime per opera dello Spirito Santo, è significato altresì dal chiamarsi egli e figliuolo dell' uomo e figliuolo di Dio . Onde l' interrogazione di Cristo a Pietro: « Quem dicunt homines esse filium hominis », la quale viene commentata così da S. Ilario: « Dominus enim dixerat: Quem me homines esse dicunt filium hominis? Et certe filium hominis contemplatio corporis praeferebat. Sed addendo: Quem me esse dicunt, significavit, praeter id quod in se videbatur, esse aliud sentiendum: erat enim hominis filius. Quod igitur de se opinandi judicium desiderabat? Non illud arbitramur quod de se ipse confessus est, sed occultum erat de quo quaerebatur in quod se credentium fides debebat extendere (4) ». Or questa cosa occulta ed invisibile agli occhi carnali non poteva essere rivelata che dall' operazione interna da Dio; onde, quando S. Pietro rispose anche a nome degli altri Apostoli: « « Tu sei il Cristo figliuolo di Dio vivo » », allora ebbe da Gesù quel magnifico elogio: « Beatus es Simon Bar7Jona: quia caro et sanguis non revelavit tibi, sed Pater meus qui in coelis est (1) », con quel che segue. Dalle quali parole si raccoglie primieramente che la carne ed il sangue, cioè il sentimento animale, non può dare la percezione del Verbo, nè di cosa che al Verbo assomigli; e che questa perciò deve venire da una fonte soprannaturale, giacchè le percezioni tutte naturali dell' uomo appartengono ai sentimenti animali, ai quali applicando l' essere ideale egli forma per via di diverse operazioni la naturale sua scienza. Di poi, che il Padre rivelò a S. Pietro la divinità del Verbo incarnato, attribuendosi al Padre l' operazione dello Spirito, perchè questo dal Padre procede come da fontale origine dell' augustissima Triade. E nulla di meno S. Pietro non avrebbe avuto la mozione e l' occasione di emettere quell' atto di fede, se non avesse avuto sotto i sensi l' umanità di Cristo, la quale era così come l' espressione esterna del Verbo dal quale era assunta e dal quale riceveva una divina virtù. Alla stessa maniera S. Tommaso non avrebbe confessata la divinità di Cristo se non avesse vedute e toccate forse le cicatrici gloriose della sua passione. Dalle quali cose tutte vogliamo concludere: 1 Che altra è la scienza negativa ed analogica del Verbo che può aversi anche colla ragione naturale e colla lettera della rivelazione; altra è la cognizione positiva e percettiva che non s' ha se non per una operazione occulta del Santo Spirito nell' anima umana; 2 Che questa operazione del Santo Spirito è preceduta ed accompagnata da una esterna e sensibile cosa, qual è la lettera nella rivelazione e la stessa umanità di Cristo nell' incarnazione; e che questo segno ed espressione sensibile viene avvivato ed interpretato dallo Spirito che opera interiormente per modo che l' anima insieme con essa percepisca almeno in un modo incoato il Verbo, e quindi ne intenda la positiva significazione. Il qual segno sensibile così interpretato ed inteso viene detto acconciamente la parola esterna di Dio, verbum oris, a differenza del verbum cordis; 3 Finalmente, e questo è quello a cui mirava principalmente tutto il nostro discorso, che imprimendosi in noi il Verbo divino per una operazione dello Spirito Santo, che è quasi il dito che in noi l' imprime; e lo Spirito Santo, che è lo stesso spirito di Cristo, essendo l' essere nella sua forma morale; importa, quand' è da noi consentito o quando non è da noi posto ostacolo, un effetto morale in noi, pel quale ci santifica. E perocchè il morale abbraccia l' umiliazione, la mortificazione, il sacrificio; perciò la percezione soprannaturale e viva del Verbo conduce l' anima a compiacersi nella santità del Verbo, e quindi a riconoscere, amare ed imitare la sua esinanizione, la sua passione, e la gloria veniente da questa ultima perfezione di virtù che nella pazienza e nel sacrificio dei beni naturali è consumata. Ora a questo ripugna la natura e la superbia de' filosofi, e però rimane loro nascosto tutto ciò che appartiene alla comunicazione positiva, vivace e santa del Verbo, le dottrine mistiche, e i santi affetti e i sublimi effetti che indi derivano. Onde maggiormente si scorge qual sia la linea di separazione fra la scienza naturale e la cristiana sapienza. Onde S. Agostino, nuovamente osservando quante cose manchino alla sapienza de' filosofi più celebrati come sono stati i Platonici, sapientemente le annovera in queste dolcissime parole: « « Non habent illae paginae vultum pietatis hujus, lacrimas confessionis, sacrificium tuum, spiritum contribulatum, cor contritum et humiliatum, populi salutem, sponsam civitatem, arrham Spiritus Sancti, poculum pretii nostri ( Ps. 2, 11). Nemo ibi cantat: Nonne Deo subjecta erit anima mea? ab ipso enim salutare meum. Etenim ipse est Deus meus et salutaris meus, susceptor meus, non movebor amplius . Nemo ibi audit vocantem: Venite ad me qui laboratis, etc.. Dedignatur ab eo discere quoniam mitis est et humilis corde; abscondisti enim haec a sapientibus et prudentibus et revelasti ea parvulis (Matth. I, 25). Et aliud est de sylvestri cacumine videre patriam pacis, et iter ad eam non invenire, et frustra conari per invia, circumsidentibus et insidiantibus fugitivis desertoribus cum principe suo leone et dracone: et aliud tenere viam illuc ducentem cura coelestis imperatoris munitam, ubi non latrocinantur qui coelestem militiam deseruerunt. Vitant enim eam sicut supplicium »(1) ». Laonde apparisce oggimai in che e quanto differisca la filosofia naturale dalla scienza de' santi che san Bernardo espresse compendiosamente scrivendo: « Haec mea sublimior interim philosophia scire Jesum, et hunc crucifixum (2) ». Vi ha dunque una scienza naturale, e una scienza o piuttosto sapienza soprannaturale. Quale è il principio dell' una, quale dell' altra? Cioè quale è quel primo lume onde deriva all' uomo la prima? e quale è quel primo lume onde deriva all' uomo la seconda? Il principio della scienza naturale è l' idea, ossia l' essere ideale; il principio della scienza soprannaturale è il Verbo, cioè l' essere reale per sè manifesto. Le divine scritture, che contengono la scienza soprannaturale nella sua esterna espressione, c' insegnano appunto qual sia il principio di essa, giacchè dicono: « Fons sapientiae Verbum Dei in excelsis (1) ». Nel qual luogo le parole in excelsis, che si tradurrebbero « nei luoghi eccelsi », indicano appunto l' ordine soprannaturale del sapere, giacchè ottimamente ciò che è al dissopra della natura si colloca metaforicamente nei luoghi eccelsi, come ciò che spetta alla natura si colloca sulla terra . E di qui si vede, quanto era conveniente che l' evangelista incominciasse ad annunziare il Verbo salendo al principio di tutta quella sapienza che fu data agli uomini da Gesù Cristo, e così ponesse la prima pietra dell' edifizio teologico, il Primo teologico. Il che serve bensì a rispondere alla domanda che si fa il Crisostomo perchè l' Evangelista cominciasse piuttosto dal Verbo che dal Padre, quantunque il Padre sia il principio del Verbo. Perocchè si risponde che altro è l' ordine della processione delle persone fra loro, altro è l' ordine con cui si manifestano nella mente umana. In questo il primo che si rende manifesto è il Verbo, il quale è l' Essere per sè manifesto, ed è pel Verbo che si conosce il Padre. Onde Cristo disse: « « Padre, io ho manifestato il nome tuo agli uomini che tu mi hai dati »(2) ». E quantunque il Padre tragga gli uomini al Figlio (3), tuttavia questo traimento è nell' ordine dell' azione e non in quello della cognizione, e però resta nascosto agli uomini fino a che non hanno conosciuto il Figlio che lo manifesta. Così parimenti, quantunque sia lo Spirito Santo quello che mandato dal Padre mostra all' anime e quasi forma in esse il Verbo, tuttavia anche quest' operazione dello Spirito Santo rimane occulta, nell' ordine delle azioni e non delle cognizioni, fino a che gli uomini, avendo conosciuto il Verbo, non vengono per questo a conoscerla. Laonde degli stessi Ebrei prima di Cristo dice S. Tommaso d' Aquino che non conoscevano il Padre « in ratione Patris, sed ut Deus (1) », appunto perchè « Filius ignorabatur (2) ». E questa ignoranza, che avevano gli Ebrei del Verbo, della quale parla S. Tommaso, non conviene già intendersi d' una ignoranza totale, ma del mancar loro la cognizione positiva e personale del Verbo, la quale non s' ha se non per quella percezione che fu data agli uomini quando il Verbo personalmente prese carne umana. Perocchè egli è indubitato che gli Ebrei avevano: 1 la cognizione razionale del Verbo divino, che, come dicevamo, è negativa ed ideale; e a noi sembra assai probabile che la scuola Italica e Platonica avessero dallo stesso fonte tratte le loro dottrine filosofiche intorno al Verbo, e che i nuovi Platonici le avessero prese massimamente dalle scuole ebree esistenti in Alessandria prima di Cristo, dove fra gli altri filosofi ebrei fioriva Aristobolo. 2 Che la cognizione che ebbero gli Ebrei del Verbo, era anche più che filosofica, benchè non giugnesse alla percezione del Verbo; e ciò perchè non mancava presso l' Ebraica Chiesa la grazia Deiforme, che dava una cotal percezione della Divina sussistenza; il che si può argomentare da questo principio che la grazia è sempre corrispondente alle parole rivelate che la esprimono sensibilmente; onde, essendo rivelata la unità di Dio ed i suoi attributi, conveniva che quest' oggetto di quella antica rivelazione fosse avvivato dalla percezione spirituale, acciocchè dèsse un effetto soprannaturale all' anime e interpretasse la lettera collo spirito. Ora da questa percezione incoata di Dio doveva venirne un riflesso spirituale e divino anche alla cognizione razionale e naturale del Verbo di Dio. A questo si aggiunge che l' antica Chiesa ebbe rivelazione di molte verità dogmatiche e morali, e ciò col ministero degli Angeli (3), che le somministravano ai santi uomini e a' più eminenti eletti da Dio acciocchè le comunicassero agli altri. Onde « « Abramo desiderò di vedere il giorno di Cristo, lo vide e n' esultò »(4) », e così è da dirsi degli altri a cui altre cose furon mostrate. Le quali non si riducevano certamente a cognizioni meramente naturali di ragione, o storico7naturali, ma dovevano essere accompagnate dalla grazia e dal lume interiore che convien sempre ridursi a una percezione intellettiva di quelle verità stesse che sensibilmente eran segnate. Ma il Verbo a cui ministravano gli Angeli, non era tuttavia quello che parlava agli uomini, nè loro si mostrava personalmente parlante; e però non avean gli uomini la percezione personale del Verbo rivelante, ma solo alcuni doni e lumi di lui come Verbo rivelato. Il che insegna chiaramente S. Paolo agli Ebrei nelle prime parole della sua meravigliosa lettera a loro diretta, che ancor si conserva: « Multifariam multisque modis olim Deus loquens Patribus in Prophetis, novissime diebus istis locutus est nobis in Filio (1) ». Tuttavia era anche allora Iddio che parlava , sebbene per mezzo degli Angeli che rivelavano ai Profeti le verità che questi comunicavano agli altri uomini. Per ciò le verità rivelate si chiamano anch' esse parola di Dio . E sebbene quelle verità sieno molte, tuttavia non si dicono parole di Dio , ma sì bene in singolare parola di Dio . E ciò assai acconciamente, perocchè la parola di Dio è una, è uno il suo Verbo, nè propriamente Iddio dice altra parola che il suo Verbo. Conviene adunque dichiarare come le molte verità, rivelate nell' antica e nella nuova legge, si riducano tutte al Verbo divino, sieno appartenenze di Lui, e quindi contengano qualche rivelazione soprannaturale del Verbo medesimo; sebbene con esse il Verbo divino non siasi ancora manifestato agli uomini personalmente. E` dunque a considerare che la grazia , la quale consiste in un' azione deiforme che Iddio immediatamente esercita nelle anime umane, è divisibile. S. Paolo parla spesso della divisione delle grazie, e in un luogo dice: « Divisiones gratiarum sunt, idem autem Spiritus (2) ». In un altro poi: « Unicuique autem nostrum data est gratia secundum mensuram donationis Christi (3) ». Tutte le speciali verità rivelate sono adunque doni di Cristo, ma non sono ancora Cristo manifestato espressamente agli uomini, non sono il Verbo comunicante loro personalmente se stesso. Il che è da vedere diligentemente come sia. La differenza, fra le speciali verità rivelate co' morali effetti che ne conseguono e il Verbo sta in due cose: 1 Che in quelle verità non giace la comunicazione della persona stessa del Verbo, ma solo de' suoi doni. 2 Che appunto per ciò quelle verità sono molte, laddove il Verbo, al quale però si riducono, è uno. Noi dobbiamo svolgere l' una e l' altra di queste differenze, e, svolgendo la seconda, vedere come la moltiplicità delle verità e delle grazie si riducano nulladimeno all' unità del Verbo. Le speciali verità rivelate si presentano all' uomo unicamente nella forma oggettiva. Ora, quantunque il Verbo sia l' essere per sè manifesto, e quindi medesimo per sè oggetto, tuttavia, essendo egli in pari modo la sussistenza divina, non può non essere soggetto e persona, di maniera che egli è un soggetto per sè oggetto. Ma nelle speciali verità rivelate, appunto perchè esse non si rappresentano che come oggetto, rimane nascosta la soggettività, e quindi la personalità del Verbo. Laonde nell' antica rivelazione il Verbo non si comunicò personalmente agli uomini. Ma, quando egli prese carne umana ed ammaestrò gli uomini, ed alle sue parole esteriori rispose la grazia interiore che diede agli uomini la percezione del Verbo parlante e operante, la quale perciò si può chiamare Verbiforme; allora gli uomini appresero la stessa persona del Verbo vestita dell' umanità che ne comunicava gli influssi. Che cosa sono adunque le verità speciali dell' antica e nuova rivelazione, e le grazie speciali che le accompagnano? - Certo sono doni del Verbo, non ancora il Verbo stesso. Ma di più sono appartenenze del Verbo, le quali in lui non sono nè divise fra loro, nè divise dalla personalità, ma sono divise nell' uomo a cui vengono comunicate, e in questo stato di divisione non mantengono più l' identità col Verbo, di maniera che si possano dire la Parola sussistente di Dio, ma però dalla loro origine tengono de' caratteri divini, come sarebbero l' immutabilità, l' eternità, una certa virtuale totalità, ecc., i quali bastano perchè si riconoscano quali appartenenze del Verbo divino, e in lui si rifondano, e quindi si chiamino altresì parola di Dio . Nel che però è da osservarsi che v' hanno delle appartenenze del Verbo naturali , e delle appartenenze del Verbo soprannaturali , onde convien vederne la differenza. La differenza fra il lume naturale e il lume soprannaturale fu da noi collocata in questo che il lume naturale è semplicemente ideale , laddove il lume soprannaturale è anche reale , perocchè in questo vi ha un' azione della sussistenza divina nell' anima umana: di maniera che l' atto che fa l' anima nel ricevere il lume naturale dicesi intuizione, laddove l' atto che fa l' anima nel ricevere il lume soprannaturale merita il nome di percezione . Il lume naturale è l' essere ideale per sè oggetto, e quindi questa si può chiamare un' appartenenza ideale del Verbo divino; laddove il lume soprannaturale, che accompagna le verità rivelate a cui prestiam fede, è l' essere reale, ossia la divina sussistenza, e quindi questa si dee chiamare un' appartenenza reale dello stesso Verbo . Rimane a spiegare come le speciali verità rivelate sieno molte, laddove la parola di Dio, il Verbo è uno. A tale intento egli è uopo osservare come tutte le verità naturali, tutte le idee si riducono ad una, cioè all' idea dell' essere ; così somigliantemente tutte le verità soprannaturali si riducono ad una, cioè alla Verità sussistente, all' Essere reale soggetto per sè oggetto, che è il Verbo. Ora come, essendo una l' idea , questa poi si trasmuta in molte che chiamiamo più propriamente concetti? Questo accade per tre cagioni: 1 per la moltiplicità delle sostanze create, ognuna delle quali, attesa la loro limitazione, è esclusivamente in se stessa fuori di tutte le altre. Onde avviene che, quando applichiamo l' essere ideale a conoscere l' una di esse, con questo non conosciamo punto l' altra, ma abbiamo una notizia esclusiva affatto separata dalla notizia di tutte l' altre cose. 2 Da questa moltiplicità di sostanze finite nasce una moltiplicità di rapporti pure esclusivi, e limitato ciascuno a se stesso: onde di nuovo procede una moltiplicità di notizie mediante altrettante applicazioni dell' essere a più sostanze che si raffrontano per rilevarne le varie relazioni. 3 La terza ragione deriva dalla moltiplicità che si trova in ciascuna sostanza creata, niuna delle quali è perfettamente semplice, notandovisi accidenti, passioni, ed azioni, cangiamento di modi, divisioni di spazio, successioni di tempo, ecc.. A ciascuna delle quali cose, che ha natura esclusiva e sua propria, applicandosi tuttavia l' essere ideale, se n' hanno altrettante notizie e concetti. Fra le limitazioni delle sostanze create la più notabile è quella per la quale la loro sussistenza non è contenuta nella loro essenza; onde è uopo che la sussistenza, che esiste esclusivamente, sia conosciuta dallo spirito umano con un atto diverso da quello con cui egli conosce la loro essenza. Ed è oltracciò da osservare, che lo stesso spirito intelligente dell' uomo è anch' egli una sostanza limitata, in modo che ha bisogno di varii istrumenti ed atti successivi a trovare la materia delle sue cognizioni, non essendogli dato per natura che la realtà dell' animalità propria. Ora ogni singolare notizia è fondamento ad un diverso affetto dello spirito conforme o difforme dalla legge della moralità: quindi la pluralità delle virtù e de' vizii e i molteplici accidenti dello stato morale dell' uomo, benchè ogni pregio morale riducasi finalmente ad una sola essenza morale, che è l' amore dato all' essere. Ora, se noi passiamo a considerare la moltiplicità nell' ordine soprannaturale, si riconoscerà agevolmente ch' ella dipende appunto dalla moltiplicità dichiarata fin qui dell' ordine naturale dell' intelligenza e della moralità: perocchè la grazia non muta la natura, ma non fa che perfezionarla e sublimarla. L' uomo, le cognizioni dell' uomo, le virtù ed i vizii di cui è suscettibile, essendo così molteplici come gli abbiamo veduti; ne doveva provenire, che egualmente molteplici fossero i rapporti di Dio con lui, molteplici i mezzi che adoperasse Iddio per condurlo a sè, dove giace la sua perfezione e la sua beatitudine; che la rivelazione di Dio si frangesse, per così dire, in molte verità speciali, e che vi avessero divisioni di grazie e di doni, e tuttavia era uno il Cristo che compartiva i suoi doni, uno lo Spirito che compartiva le sue grazie. [...OMISSIS...] . Ma noi dobbiamo vedere come tutte le verità speciali si riducano ad unità, cioè ad un solo oggetto, come questo sia un' appartenenza del Verbo, e come, ove ei si riveli, quest' oggetto, in quanto è soggetto ossia persona, allora sia egli il Verbo a noi comunicato. Dobbiamo vedere il medesimo delle grazie a noi comunicate, come si rifondano e riducano in una grazia sola, appartenenza del Santo Spirito, che è incontanente lo stesso Santo Spirito quando in quella grazia egli ci si rivela come persona. Tutte le verità speciali che abbiamo dalla divina rivelazione si riducono a verità che dichiarano la natura divina, che cosa abbia fatto Iddio e conseguentemente quali doveri noi abbiamo verso Dio, in una parola riguardano il credere e l' operare. Ora le verità che regolano le operazioni, si riducono alle verità imposte a credere, perchè l' operazione morale non è altro che una ricognizione della verità appresa dall' intelletto, ricognizione che produce gli affetti e le azioni ben ordinate che ammigliorano e perfezionano moralmente l' uomo. Le verità teoretiche poi, che riguardano la natura e le azioni esterne di Dio, si riducono alla natura divina, perocchè Iddio non agisce se non con quell' atto stesso con cui esiste, e propriamente si riducono alla cognizione del Verbo divino, perchè, come abbiamo veduto innanzi, la creazione e l' altre operazioni esterne sono fatte pel Verbo, e in Dio non sono distinte da quell' atto che costituisce il Verbo divino. E a questa unità ridusse lo stesso Gesù tutto il suo Vangelo quando disse: « Haec est autem vita aeterna, ut cognoscant te solum Deum verum et quem misisti Jesum Christum (1) ». Il Padre poi non si conosce che pel Figlio e nel Figlio, e però tutta la cognizione e la verità soprannaturale si trova racchiusa e contenuta nella cognizione del Verbo, il quale è chiamato Verità e il fonte della sapienza nel cui spirito « desiderant Angeli prospicere ». Tutte le verità rivelate adunque si riducono al Verbo come in loro principio nel quale sono eminentemente contenute, e propriamente altro non sono che tante parziali applicazioni alle cose create della prima cognizione soprannaturale che è questa del Verbo. Ma il conoscere che tali verità speciali sono contenute nella sola cognizione del Verbo divino, questo ha due gradi. Perocchè: 1 O si conosce ciò unicamente perchè di fatto tali verità ci servono a conoscere qualche cosa della natura divina e delle sue azioni nel mondo, senza però che percepiamo il Verbo personalmente manifestante tali verità; il che dà luogo ad una cognizione diretta comune dei fedeli della Chiesa di Dio, e ad una cognizione riflessa e scientifica propria dei maestri che alle rivelate verità applicano il ragionamento: tutto questo l' ebbero anche gli Ebrei. 2 Ovvero si conosce che tutte le speciali verità di cui parliamo sono contenute nel Verbo, e nello stesso tempo si percepisce il Verbo personalmente nell' atto di manifestarcele, non già solo ai nostri orecchi carnali che non basterebbe, ma agli orecchi del nostro cuore; e questo è proprio solo de' cristiani, e dicesi acconciamente vedere le verità soprannaturali nel Verbo . Il qual grado di cognizione dà tuttavia luogo ai due modi sopraindicati: il diretto, che si fonda nella percezione del Verbo che ai cristiani tutti è data nel battesimo; e il riflesso e teologico, che è proprio di quelli che sopra tal cognizione diretta riflettono e ne traggono la scienza formulata: la quale, o si occupa soltanto del Verbo come oggetto, e dicesi semplicemente Teologia; o anche del Verbo che agisce nell' anime come soggetto e persona per sè oggetto, e suol dirsi Teologia mistica . Ma è mestieri chiarir meglio la cognizione soprannaturale data agli uomini prima della venuta in terra del Signor nostro Gesù Cristo. Ella si riduceva ai seguenti capi: 1 Le verità speciali rivelate; 2 Quel tanto che ciascuna verità fa conoscere della natura divina, nel che ricevevano unità, riducendosi tutte a gradi ed aspetti diversi della cognizione della stessa cosa; 3 Atteso la grazia divisa secondo le verità speciali, questa natura divina, che davasi a percepire come per sè manifesta, oggetto reale per sè manifesto, era il Verbo, ma soltanto oggettivamente appreso, non il Verbo come soggetto e persona; e quindi, propriamente parlando, era la divina sussistenza per sè manifesta, ma non operante, e dicente « « Io e il Padre siamo una cosa » », in quanto si distingue la manifestazione dall' operazione . 4 Vi aveva altresì la promessa della venuta al mondo del Verbo qual soggetto e persona, il che non importa una comunicazione interna di questa personalità, bastando la fede in quella misteriosa promessa. Onde la persona del Verbo promesso era indicata coi nomi di Dio, Dio con noi, Padre del secolo futuro, Principe della pace, ecc.; e come tale Abramo (1) ne può aver veduto la gloria ( diem ), e Davide può aver conosciuto che sarebbe suo Signore (2), benchè suo discendente, senza che perciò ne avesse la percezione stessa personale . Di maniera che la cognizione del Verbo come persona data agli antichi non era positiva e percettiva; ma negativa, razionale, simbolica, misteriosa, oggetto di fede assai più che non sia presentemente ai cristiani, i quali ne hanno una iniziale percezione; e la lor fede si riferisce soltanto alla percezione completa e svelata che costituisce la celeste beatitudine. 5 Finalmente vi era la riflessione e meditazione filosofica, che, ritornando sopra questi dati rivelati esteriormente ed internamente, riducevano in teoria scientifica le credenze; onde nacque quella Teologia Ebraica, ond' io credo non poco deducesse il Platonismo, e specialmente la Scuola Alessandrina. Le quali cognizioni dell' antica Chiesa intorno al Verbo divino rendono plausibile ragione come la denominazione di Verbo applicata a Dio fosse già in uso prima di Cristo. La perifrasi caldaica di Onkelos (targum Onkelos), che probabilmente è anteriore a Cristo, dove nel testo ebraico si legge [...OMISSIS...] Jeova, vi aggiunge frequentemente [...OMISSIS...] « mimra, cioè Verbo (3) ». Si spiega ancora perchè S. Paolo, commentando quelle parole « Juxta te est sermo valde in ore tuo et in corde tuo (2) » e le precedenti, le interpreti di Cristo. Ecco il luogo di Mosè: « « Questo comandamento, che io oggi t' impongo, non è sopra di te, nè posto in lontananza, nè situato in cielo, sicchè tu possa dire: Chi di noi può salire al cielo e indi tradurlo a noi perchè l' udiamo e l' adempiamo? Nè sta via oltre il mare, sicchè tu possa coglier cagione di dire: Chi di noi potrà passare il mare e fin di là portarcelo perchè possiamo udire e fare quello che ci è prescritto? Ma egli è un sermone molto vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore perchè tu il possa compire » ». Ora S. Paolo, illuminato dallo spirito di Gesù Cristo già venuto, ci fa sapere che pei cristiani quel luogo di Mosè acquistò nuova luce appunto dalla venuta di Cristo, dovendosi con questo nuovo lume interpretare. Onde insegna che in quel luogo mosaico si parla della giustizia che nasce a noi redenti dalla fede nella misericordia e redenzione di Cristo: giustizia che invano spereremmo dalle nostre opere non avvalorate dai meriti di Gesù Cristo. Laonde così lo dichiara l' Apostolo: « « Or poi della giustizia che vien dalla fede dice così: « Non vorrai dire in cuor tuo: Chi ascenderà in cielo? » » cioè per trarne Cristo (che ti possa salvare dai tuoi peccati e così darti la giustizia che è dalla fede in lui). « « O chi discenderà nell' abisso? cioè per risuscitarne Cristo » » (da cui è la salute). « « Ma che cosa dice la Scrittura?: Vicina è la parola nella tua bocca; quest' è la parola della fede che noi predichiamo »(1) ». Con che l' Apostolo viene a dire che quel Cristo Salvatore degli uomini per la fede, ne' meriti del quale vengono rimessi i peccati di cui sono macchiate le loro opere, non è lontano, anzi egli viene comunicato mediante la predicazione apostolica e la fede che a questa si presta (per la qual fede alla predicazione, e pel battesimo che in conseguenza di tal fede si riceve dalla Chiesa, viene data all' uomo la percezione del Verbo umanato che forma la salute delle anime); viene dato all' anima pel carattere indelebile e per la grazia, in virtù di cui sta eziandio sulla bocca dei Cristiani che pronunciano al di fuori ciò che sentono al di dentro. Di che si vede che quello, che era sermo, praeceptum, mandatum, ecc. per gli Ebrei, pei Cristiani è il Verbo, o Cristo; perocchè, se per quelli tali voci significavano una dottrina rivelata da Dio oggettivamente considerata, per questi, cioè per noi, significa lo stesso Cristo rivelante soggetto e persona, nella cognizione del quale tutta quella dottrina abbondantemente si comprende; onde quella dottrina stessa oggettiva diventa ai Cristiani un soggetto ossia una persona divina per sè oggetto, per sè manifesto come tale, manifestantesi come persona. Laonde quando il salmo dice: « Constitue, Domine, legislatorem super eos (2) », dove la voce ebraica [...OMISSIS...] moreh significa doctorem, prega che venga quel dottore appunto, la cognizione e percezione del quale contiene tutta la dottrina stessa, poichè egli, in quanto è per sè noto, è per sè dottrina. Laonde que' Padri della Chiesa che in luogo di Verbum tradussero ed usarono la parola sermo (1) non furono universalmente seguiti. Poichè, quantunque la parola sermo non fosse disacconcia ad esprimere il Verbo interno del Padre (salvo che il sermone suppone pluralità di voci o di concetti, onde anche per questa ragione la parola Verbum, come toccammo, meglio indica l' unità del Verbo di Dio), tuttavia ella non era acconcia ad esprimere la personale manifestazione del Verbo agli uomini, nella quale il Verbo non è solamente la dottrina, ossia il sermone parlato, ma è di più e nello stesso tempo il dottore parlante. E come tale ci venne dato in Cristo, come tale ci è annunziato in questi luoghi dell' Evangelio: « Unigenitus qui est in sinu Patris, ipse enarravit (2) », e: « Tres sunt qui testimonium dant in Coelo » (cioè nell' interiore dell' anime) « Pater et Verbum et Spiritus Sanctus (3) ». E dove G. C. vien chiamato « testis fidelis (4) », o anche assolutamente « Fidelis et Verax », a cui si soggiunge: « et vocatur nomen ejus Verbum Dei (5) ». Le quali maniere non esprimono solamente la dottrina rivelata oggetto della mente, ma il Verbo di Dio che è ad un tempo dottrina per sè manifesta e persona. Laonde si vede quanto differiva la dottrina dell' antica Chiesa da quella della nuova, la quale è acconciamente ricapitolata da S. Paolo in quelle parole: « Non enim judicavi me scire aliquid inter vos nisi Jesum Christum et hunc crucifixum (6) ». Quello che era nell' antica Chiesa mera dottrina, divenne nella nuova anche persona per sè nota, e da questa nuova luce ricevono le antiche carte nuova interpretazione, l' interpretazione accennata da Cristo stesso quando disse ai peregrini di Emmaus: « O stulti et tardi corde ad credendum in omnibus quae locuti sunt prophetae!... Et incipiens a Moyse et omnibus Prophetis interpretabatur illis in omnibus scripturis quae de ipso erant (7) ». E ancora: « Scrutamini scripturas, quia vos putatis in ipsis vitam aeternam habere, et illae sunt quae testimonium perhibent de me (1) ». E fu soltanto dopo la gloriosa sua risurrezione che a' suoi discepoli diede il conoscimento delle antiche scritture: « Tunc aperuit illis sensum ut intelligerent scripturas (2) »; perocchè solo allora ebbero creduto a pieno in Cristo glorificato, compiendosi colla sua risurrezione le profezie. Passando ora dall' ordine intellettuale all' ordine morale, si vedrà agevolmente che vi si possono applicare le stesse dottrine. L' ordine morale ha da una parte la legge, dall' altra l' adesione che dà l' uomo alla legge. Noi abbiamo già indicate le cagioni perchè vi abbia moltiplicità di leggi, e tuttavia tutte le leggi morali non sono prive di unità, perocchè le leggi speciali si riducono ad una legge prima semplice ed una, la quale dice: Riconosci l' essere. Come uno è l' essere, una è l' idea dell' essere, così una è l' esigenza che manifesta l' essere di venire amato come quello che è per sè amabile all' essere intelligente. E se uno è l' oggetto amabile, l' essere; una la necessità morale di amarlo: unico è quindi il dovere morale, unico il pregio morale dell' ente intellettivo, il quale consiste nel suo amore illimitato all' essere. Qui finisce ogni virtù; tale è la parte formale di ogni atto virtuoso. Ma l' amore all' essere, rimanendo sempre ordinato, cioè compartito in ragione della quantità di essere, può riuscire d' una fisonomia e d' un atteggiamento diverso, secondo le potenze che concorrono nell' uomo a ridurlo in atto, secondo la perfezione e la varia indole ed efficacia di queste potenze, secondo le occasioni d' esercitare quell' atto di amore verso l' essere molteplice e limitato, e verso l' Essere infinito, secondo la cognizione diversa dell' essere; e quindi anco secondo che un tale amore viene attuato in un modo o in un altro, e una parte venendo attuato, l' altre parti rimangono tuttavia in un atto primo virtuale: quindi le diverse virtù, gli speciali atti virtuosi, i diversi stati morali dell' uomo. Supponendo che l' uomo conosca l' Essere supremo, Iddio, l' unità morale spicca maggiormente, perocchè le azioni umane acquistano un fine solo, e tutto l' amore all' essere finito dee rifondersi almeno virtualmente nell' amore dell' essere assoluto, fonte e causa di ogni essere. Allora quando quest' ordine dell' amore si attua in modo che l' uomo riferisca esplicitamente a Dio tutte le sue azioni, allora tutta la virtù sua diviene amore di Dio: questo è il formale della virtù; la virtù è divenuta religione, santità; è una, perchè è uno ne' diversi atti umani l' amore, è uno l' oggetto dell' amore. Ma se Iddio non si conosce che naturalmente, e però negativamente, oltrecchè questa santità naturale riesce difficilissima, ella rimane virtù ancor nei limiti della natura. Quando si aggiunge la cognizione soprannaturale di Dio, cioè l' infusione della grazia, che è una cotale percezione della divina realità, allora tutto l' ordine morale si sublima, e diviene soprannaturale, perchè l' amore morale acquista per oggetto l' Essere assoluto positivamente conosciuto, sentito, percepito. La qual comunicazione immediata di Dio all' anima suol avvenire con qualche manifestazione esterna di Dio, con qualche rivelazione, segno, ossia sacramento. Allorchè poi il Verbo prese carne, allora si manifestò esternamente colla natura umana da lui vestita, e a questa comunicazione esterna corrispose la percezione interna e graziosa della persona divina del Verbo, la quale è il principio ed il fondamento della virtù cristiana, la perfezione cristiana della virtù soprannaturale. Ogni grazia viene infusa per operazione del Santo Spirito, ma, come dicevamo, questo non manifesta se stesso quando infonde i doni (1), e nè pure quando imprime il Verbo come persona nell' anime. Ma di poi il Verbo, che già insiede nell' anime, comunica a queste palesemente il suo Spirito, prima in forma di doni sensibili ed apparenti, e poscia anche quale persona (2), siccome avvenne il di della Pentecoste, e tuttodì avviene per mezzo del sacramento della Confermazione. Il sentimento personale dello Spirito Santo è tale che per esso si sente, non solo l' ispirazione al bene, ma lo stesso ispirante; sicchè non si dubita che l' ispirazione venga dall' infinito essere, che si riconosce appunto come persona divina, perchè si sente per sè agente, per sè amabile, per sè amore, per sè virtù. Ma la riflessione dell' intelletto difficilmente arriva a cogliere tale distinzione e formularla, e pochi conseguentemente si formano di ciò qualche distinta coscienza atta ad essere espressa in parole. Questi pertanto sono i gradi specifici della virtù soprannaturale e naturale, la quale però riducesi sempre ad una medesima essenza compresa in una sola e semplice idea. Noi abbiamo detto che l' Evangelista Giovanni, incominciando dal Verbo divino il suo Vangelo, mosse dallo stabilire così il principio ed il fonte della sapienza soprannaturale che nel suo libro prendeva ad esporre. Fra i quattro stemmi di Cristo (1), l' aquila è simbolo della sua divinità, e però s' applica all' Evangelista che lo illustrò più degli altri. Perocchè nessun altro evangelista nominò Cristo colla denominazione di Verbo, nessun altro entrò sì addentro nel mistero dell' incarnazione. Conveniva che prima fosse annunziata l' umanità di Cristo, il che fece principalmente S. Matteo; poi, che fosse annunziato il regno da lui fondato, a che mira S. Marco; quindi l' eterno e regale suo sacerdozio, a che intende S. Luca; acciocchè finalmente quasi per questi gradi ascendesse l' umana mente a contemplare in Cristo lo stesso Verbo del Padre, il quale annunzio fu riserbato specialmente all' ultimo degli Evangelisti, al diletto discepolo. Si deve aggiungere che dal Verbo viene anche la formazione della ragione umana, benchè con questo solo a lei non si manifesti, comunicando ad essa soltanto l' idea dell' essere, principio e mezzo universale del sapere. Onde esso Verbo è il principio remoto anche della scienza naturale. Ma, oltrecchè il Verbo di Dio forma remotamente le intelligenze, quand' egli poi si manifesta o come oggetto divino rivelato, od anche come persona, muove colla sua efficacia noi stessi, se non gli contrariamo, ad arrenderci ai dettami della ragione, ed allontana da noi, come ebbe osservato Origene, tutto ciò che è alla ragione contrario (2). Perocchè nè egli è freddo ed inefficace a muoverci come la nuda idea, nè egli ci muove parzialmente verso qualche essere finito a pregiudizio di qualche altro; ma ci muove ad aderire all' Essere assoluto, e di conseguente a tutto l' essere, secondo la debita proporzione: perocchè il Verbo è appunto l' essere assoluto, la pienezza dell' essere oggetto per sè noto e persona: onde il nostro spirito affissantesi e aderente a tutto l' essere, a ciò che è solo essere, diventa imparziale verso tutte le partecipazioni dell' essere, quali sono gli esseri finiti. Ma la comunicazione del Verbo che si dà a noi a percepire si fa col mezzo di qualche segno sensibile, come i segni che si dicono sacramenti; e prima di questi coll' umanità sensibile di Gesù Cristo, che può dirsi il primo, il massimo sacramento, il fonte di tutti gli altri sacramenti da lui instituiti; ed altresì coi segni delle parole di cui si tesse l' evangelica predicazione. Onde, quando S. Paolo chiama la parola di Dio « gladium spiritus (1) », intendeva la predicazione animata dall' interna comunicazione del Verbo potente a operare sull' anime nel tempo stesso che la parola esterna de' suoi predicatori ferisce i sensi. Un' altra ragione più prossima, per la quale S. Giovanni cominciò il suo Vangelo dall' annunziare il Verbo di Dio, si è perchè egli toglieva a scrivere la vita di Cristo, di cui conveniva innanzi tutto esprimere l' eterna generazione volendo dimostrare l' origine della persona di cui parlava. Cominciando dall' annunziare il divin Verbo, egli veniva a indicare l' unità dell' opera del mondo, perocchè dimostrava colui che è autore ad un tempo della creazione e della redenzione, venendo questa seconda ad essere la continuazione e il perfezionamento d' un solo primitivo disegno. La qual ragione acconciamente è toccata da S. Ireneo che dice: [...OMISSIS...] . Tolta dunque l' occasione dagli eretici Cerinto ed Ebione, che negavano Cristo essere esistito prima di Maria, e munendo in pari tempo la Chiesa contro le eresie successive (3), supplendo in pari tempo alle lacune lasciate dagli evangelisti precedenti, egli tolse a scrivere il suo meraviglioso Evangelio inaugurandolo con un principio così sublime col quale « erexit se non solum super terram et super omnem ambitum a‰ris et coeli, sed super omnem etiam exercitum Angelorum, omnemque constitutionem invisibilium potestatum, et pervenit ad eum per quem facta sunt omnia (4) ». Dopo aver detto che avanti a tutte le creature, ab eterno era un assoluto Verbo, un Verbo necessario che non poteva non essere, perocchè egli era l' Essere per sè noto; passa ad insegnare dove era, e risponde: appo Dio. Questa progressione di concetti è perfettamente logica, dovendosi partire da ciò che è per sè manifesto, e venir poscia al manifestato; partire dal lume e venire all' illuminato. E` per il Verbo che si rivela il Padre agli uomini, come abbiamo veduto: il Verbo è per sè luce che illumina ogni uomo. Quest' è dunque l' ordine nel quale procedono le intelligenze, e nel quale dee procedere chi le ammaestra. Non vale il dire che nell' ordine della generazione il Padre precede il Verbo, perocchè qui non siamo nell' ordine della generazione, ma in quello dell' intelligenza e dell' ammaestramento: i due ordini procedono in senso contrario. Vero è ancora, che, tostochè si conosce il Verbo, si conosce il Padre di maniera che la cognizione del secondo non precede di tempo la cognizione del primo, secondo quelle parole di Cristo: « « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio »(1) ». Ma ciò non toglie la precedenza logica, secondo la quale antecede la cognizione personale del Verbo alla cognizione personale del Padre. La filosofia naturale è obbligata a seguire lo stesso metodo. Ella muove dall' idea dell' essere, come dalla prima cosa che conosce: l' essere ideale è per sè noto, è pura luce, non può essere negato da alcuno, siccome quello che è necessario. Convien dunque ammettersi questo, e quindi passare alla relazione ch' egli dimostra coll' ente realissimo ed assoluto. Quantunque l' essere ideale proceda dall' assoluto, e non possa essere senza di lui; tuttavia l' esistenza dell' assoluto si conosce per mezzo di lui, giacchè prima si trova la necessità d' ammettere assolutamente l' essere ideale, poi si vede che questo non potrebbe essere senza l' assoluto, quindi la mente si sente obbligata ad ammettere l' assoluto. Annunziare adunque il Verbo prima di tutto, e poi discorrere da questo al Padre, è l' ordine logico, pel quale deve procedere la scienza cristiana. E S. Giovanni ci conduce tosto al Padre dicendo: « « e il Verbo era appo Dio » ». Iddio qui significa il Padre (1), e con queste parole dimostra la distinzione della persona del Verbo dalla persona del Padre. Si domanderà perchè qui Iddio significhi la persona del Padre. - Rispondiamo osservando primieramente con S. Tommaso d' Aquino (2) la differenza fra il significato della parola Dio , e della parola Deità . Questa seconda indica la divinità in astratto, e però vale a significare solamente la natura divina; laddove la parola Dio significa la divinità nel supposito, concretamente, e però ella vale a significare anche la persona: come, a ragion d' esempio, la parola uomo significa una persona umana, quando la parola umanità significa soltanto l' umana natura. Quindi i teologi ammisero per buona questa frase Deus generat Deum, perchè viene a significare che una persona divina genera un' altra persona divina, ma non ammettono quest' altra « la deità genera la deità », perocchè così dicendo si verrebbe a significare che la natura divina genera un' altra natura divina, e così si moltiplicherebbero le nature. Ma dopo ciò, sebbene la parola Dio s' adoperi convenientemente a significare il supposito, ossia la persona divina; tuttavia con essa non si determina piuttosto una persona che un' altra, e perciò rimane a cercare come nel luogo di S. Giovanni, « « E il Verbo era appo Dio » », la parola Dio indichi il Padre. Or questo si rileva dal contesto, giacchè non può significare il Figliuolo che è lo stesso Verbo, nè tampoco lo Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figliuolo; onde si direbbe piuttosto che egli fosse appresso il Padre e il Figliuolo che viceversa, come meglio dichiareremo parlando della forza significativa della particella appresso . Finalmente è da osservarsi che la parola Dio si suol applicare in primo luogo al Padre come quello che è il principio fontale dell' altre due persone, a cui comunica la stessa sua propria natura divina numericamente identica. Perocchè il Padre è la sussistenza divina, l' Essere sussistente, che con un atto suo proprio si rende per sè manifesto ed amato, il che è la processione delle due altre persone; e la parola Dio indica appunto la sussistenza dell' essere assoluto senza determinare in esso di più. Onde conviene a quella persona che è prima di tutto la sussistenza e non l' ha ricevuta, perocchè questo averla ricevuta non è espresso nella parola Dio . Onde, quando la parola Dio si vuole assumere ad indicare il Figliuolo o il Santo Spirito, è necessario che il contesto lo dichiari, aggiungendovi la relazione che costituisce le persone procedute; non così quando si vuole indicare il Padre. E S. Giovanni, dicendo che « « il Verbo era appo Dio » », parlava più in conformità delle antiche scritture, le quali nominano spesso il « Verbo di Dio »; laddove non nominano « il Verbo del Padre ». Oltredichè, dicendo che « « il Verbo era appo Dio » », si veniva a rendere la ragione del perchè Iddio generante si chiamasse Padre, chiamandosi Padre appunto per questo che egli ha appo sè il Verbo generandolo; laddove se avesse detto che il Verbo era appo il Padre, avrebbe supposto che i lettori avessero già conosciuto chi era il Padre, il quale volevasi anzi dall' Evangelista far conoscere per mezzo del Verbo, e della relazione che il Verbo aveva colla divina sussistenza che lo generava. La parola era indica l' eternità del Verbo appo il Padre; perocchè come, dicendo che « « in principio era il Verbo » », aveva significato che il Verbo era eterno; così egualmente dicendo che era appo il Padre significa che dall' eternità risiedeva appresso Dio suo Padre (1). Onde viene a dire del Verbo quello che le antiche carte dissero della sapienza che al Verbo si riduce: « omnis sapientia a Domino Deo est, et cum illo fuit semper et est ante aevum (2) »: dove, non contento il sacro scrittore d' aver detto « fuit semper », quasi si potesse intendere durante la durazione del mondo, il corso del tempo , aggiunge per dimostrarne l' eternità « est ante aevum », è avanti il tempo, usando il verbo E` in presente, per escludere ogni successione e modificazione, e significare senza alcun equivoco l' eternità. E siccome il Verbo era assoluto Verbo ed avente una esistenza necessaria, così doveva essere colla stessa necessità appresso il Padre pure necessario, di maniera che la necessità del Verbo dimostra, secondo il processo della nostra intelligenza, la necessità di Dio Padre presso cui fosse. Volendo ora noi venir dichiarando il valore del vocabolo appo , usato dall' Evangelista, conviene che osserviamo prima di tutto come le cose divine, che hanno natura diversa dalle create, non si possono insegnare agli uomini che usando vocaboli istituiti a significare cose create, e però inadeguate a rendere i divini concetti; il perchè, applicati a questi, vengono a prendere nuova significazione, e a formare tali proposizioni, che, applicate alle umane cose, riuscirebbero assurde. Qui dice S. Giovanni che il Verbo era appo Dio. Ora nessuna delle cose create, propriamente parlando, può essere per se stessa appo Dio, come quelle che hanno un' infinita distanza dall' eccellenza e dalla natura del Creatore. Dunque ciò che di natura sua è appo Dio deve avere la natura divina, dee esser Dio; giacchè fra l' infinito e il finito non v' ha mezzo alcuno, e il finito è distante infinitamente dall' infinito: l' infinito poi è Dio stesso. Avendo dunque detto che il Verbo era appo Dio, ci ebbe posto in mano il principio da cui cavare la conseguenza che dunque il Verbo era Dio, conseguenza che cava l' Evangelista incontanente appresso. La qual conseguenza, che distrugge le sottigliezze degli Ariani, fluisce tanto più spontanea che l' Evangelista dice che il Verbo era appo Dio in principio, il che, come vedemmo, viene a dire da tutta l' eternità, nella quale non potevano essere le creature; e cioè necessariamente, perchè trattasi di un Verbo assoluto, e perciò necessario, perciò eterno, il quale non può star solo, ma richiede per una relazione necessaria Colui che lo pronuncia. Oltracciò la parola appresso nella sua prima istituzione significa vicinanza di luogo, dalla quale fu poscia trasportata a indicare vicinanza o relazione intima di natura. A quelli dunque che non sapendo concepire le cose senza collocarle in qualche luogo (1) domandassero: se il Verbo era già prima che fosse creato il mondo, dove stava egli? L' Evangelista risponde che era appo Dio, e con ciò insegna ch' egli era semplice, e che non aveva bisogno di essere in un luogo, essendo appo Dio. Una simile difficoltà si fanno gli uomini quando cominciano ad applicarsi alla filosofia, e vien loro detto che antecedentemente a tutte le cognizioni vi ha l' essere ideale, lume della mente. Perocchè tosto domandano: dove è dunque quest' essere ideale? e conviene rispondere che è in se stesso, il che non è agevole il far loro ammettere per l' imaginazione che giuoca in essi, e che dimanda che venga collocato in qualche luogo, sembrando loro che non si possa senza questo concepire. Or quattro maniere si adoperano nelle divine scritture per esprimere la connessione di Cristo col Padre. Si dice che « « il Verbo è appo Dio » »; che è « « nel Padre »(2) »; che è « « nel seno del Padre »(3) »; che « « siede alla destra del Padre »(4) ». Perocchè, non potendo il linguaggio umano esprimere con una sola espressione questa connessione, egli è uopo adoperarne molte, acciocchè una supplisca in qualche modo al difetto dell' altra. Conviene adunque vedere il valore di ciascuna di queste espressioni, e come l' una emendi e completi l' altra. Ora, quanto a quest' ultima espressione, ella appartiene all' umanità di Cristo innalzata sopra tutte le creature per l' unione ipostatica col Verbo, e collocata vicino al trono di Dio. Ciò si scorge nel Salmo CIX, che comincia: « « Il Signore disse al mio Signore: siedi alla mia destra » »: dove il Signore, cioè Dio, parla al figliuolo di Davidde, come sappiamo dal Vangelo (1), cioè a Cristo, come uomo, a cui pure disse: « « Tu sei sacerdote in eterno secondo l' ordine di Melchisedecco » », e l' essere Sacerdote appartiene a Cristo come uomo, come pure l' essere Re, benchè la grandezza di questo sacerdozio e di questo reame nasca da quella dignità infinita che acquistò la sacratissima umanità dalla sua congiunzione personale collo stesso Verbo. Rimane dunque a cercare il valore delle altre tre espressioni, che al Verbo divino appartengono. Ora nessuna di esse, presa in separato, sarebbe stata per sè idonea ad esprimere convenientemente la congiunzione del Verbo con Dio che lo pronuncia. Perocchè la parola appo , applicata alle cose umane, suol significare la vicinanza di due cose o persone distinte sostanzialmente fra loro, non avendovi nelle cose create alcun esempio in cui cada l' identità di sostanza con diversità di persona. D' altra parte nelle cose divine non può darsi moltiplicità di sostanze e di sussistenze, perchè Iddio non può essere che uno. La particella in nelle cose create suol significare la congiunzione di un accidente colla sua sostanza, onde si dice che « il colore è nel corpo », e non presso, appo il corpo; laddove si dice che « un uomo è appo un altro uomo », e non in un altro uomo. Nelle cose create la parola in non trova come possa essere adoperata altrimenti, perocchè non si verifica mai il caso in tutta la natura che una persona sia in un' altra persona senza confondersi con essa, e pur avendo identità di sostanza. Questa specie d' inesistenza non si avvera nel creato, e però la parola in applicata a Dio non può esprimere una congiunzione accidentale, come accade quando si applica ai corpi. L' espressione che « « l' Unigenito è nel seno del Padre » » non si può intendere in senso proprio, perocchè il Padre non ha seno; ma nello stesso tempo rappresenta più acconciamente delle due prime l' inesistenza di due persone, colla similitudine della madre che ha nel proprio seno il figliuolo da lei concepito, e col concetto di generazione che racchiude. Conviene dunque che queste tre espressioni, applicate all' unione del Verbo con Dio che lo pronuncia, si correggano e si completino l' una coll' altra, in modo che si escluda da ciascuna di esse quello che non può convenire alla divinità, e così si venga per esse ad intendere quanto di questa si debba pensare. Ora le due prime che usano le particelle appo ed in si correggono e perfezionano prese insieme; perocchè l' appo dimostra che tra il Verbo e Dio che lo pronuncia non si dee mettere una unione simile a quella dell' accidente colla sostanza quale viene espressa dalla particella in applicata alle cose corporee; e l' in dimostra che nè pur si dee ammettere una vicinanza di due sostanze o nature separate come suole esprimere la particella appo applicata alle finite sostanze. Ritenendosi adunque l' unità di sostanza, che viene significata in quella congiunzione che si esprime colla particella in , e ritenendosi la moltiplicità delle persone che viene espressa in quella congiunzione che si addita colla particella appo , noi, mediante l' uso di tali particelle, intendiamo che in Dio aver vi dee unità di sussistenza, e ad un tempo pluralità di persone, e che tale è l' unione del Verbo con Dio che lo pronuncia a sè consustanziale e ad un tempo personalmente distinto. Ma se la particella in indica meglio l' inesistenza d' una persona nell' altra che non sia la particella appo, tuttavia quella prima non fa conoscere la qualità di congiunzione che hanno le due persone fra loro, potendosi dire ugualmente che « il Padre è nel Figliuolo »e che « il Figliuolo è nel Padre ». Al che soccorre la parola appo . Perocchè questa parola, come hanno osservato gli antichi Padri (1), e come osservò in appresso S. Tommaso, « significat auctoritatem in obliquo »; perocchè non si direbbe propriamente che il re sta presso il soldato, ma che il soldato sta presso il re, e così non si direbbe che il Padre abita presso il Figliuolo, ma il Figliuolo abita presso il Padre, di maniera che la persona presso cui un' altra abita si suppone la principale e autoritativa in qualche modo rispetto alla seconda. Ora, quantunque fra le divine persone vi abbia una perfetta uguaglianza di dignità, tuttavia vi ha una relazione d' origine per la quale il Padre genera il Figliuolo, onde acconciamente si dice che il Figliuolo è appresso il Padre che lo genera, laddove non vi avrebbe ugual proprietà dicendo che il Padre è appo il Figliuolo, la quale espressione non si trova nelle divine Scritture. Ma se la particella apud applicata alle cose create viene a significare una maggioranza, una principalità, un' autorità o priorità della persona, appo cui si dice stare un' altra; conviene vedere quale tra questi significati si debba attribuirle applicata alle persone divine. Ora noi sappiamo da altri luoghi delle scritture, che queste sono eguali in tutto, eccetto nella causalità. « Ego et Pater unum sumus (1) » disse Cristo: quindi la particella apud nelle cose divine non può significare altro che quella relazione, per la quale il Padre genera il Figlio, ossia la proprietà di generante nel Padre, e di generato nel Figlio. A determinare questo significato della parola apud giova appunto l' altro luogo parallelo che dice: « Unigenitus, qui est in sinu Patris, ipse enarravit (2) », dove è significata la relazione tra il Padre e il Figlio, cioè la generazione. Sono significate altresì alcune differenze fra la generazione, qual è nelle cose finite, e la generazione del Verbo. Primieramente, dicendosi che l' Unigenito è nel seno del Padre, scorgesi che egli non si distacca dal Padre, ma che rimane continuamente in esso. In secondo luogo scorgesi nella parola est l' eternità della generazione, non potendo nella Divinità avvenire nulla di nuovo, e però non potendosi dire quello che avviene in essa, perchè nulla avviene, ma solamente quello che è. In terzo luogo si rileva da una tal espressione che la generazione del Verbo non è un' operazione che incomincia e che ha mezzo e fine come l' umana, ma è sempre in atto compiuto immanente, onde si dice ad un tempo che il Verbo sempre si concepisce e che sempre è concepito. Mediante questo luogo adunque s' intende che l' espressione, « et Verbum erat apud Deum », non indica altra autorità nel Padre se non la proprietà che egli ha di essere il principio generante, onde qualche Padre della Chiesa lo chiamò autore del Verbo. Ma all' Evangelista era opportuna questa espressione eziandio per significare con essa altre verità. Perocchè, volendo passare a dire dell' opere del Verbo, e come egli fosse l' autore del mondo e si fosse poi personalmente manifestato nella redenzione da lui operata del mondo medesimo, era conveniente che prima dicesse ove e come era il Verbo prima che operasse e che si manifestasse agli uomini. Onde, salendo l' Evangelista colla sua mente al di là di tutte le opere esteriori del Verbo, prima di dire che cosa abbia fatto e come si sia manifestato agli uomini, dichiara che cosa era da tutta l' eternità: era appresso Iddio che lo pronunciava eternamente, era Verbo di Dio indiviso da Dio. Quivi stava nell' eternità nascosto alle creature che ancora non esistevano. Il qual senso è dichiarato da S. Giovanni medesimo, dicendo egli in altro luogo: « Annuntiamus vobis vitam aeternam, quae erat apud patrem, et apparuit nobis (1) »: dove contrappone alla manifestazione del Verbo il suo stato nascosto nel seno del Padre suo (2). S. Gregorio Magno, che riconosce questa significazione delle parole dell' Evangelista, non dubita di intendere nello stesso modo quelle parole di Elifaz nel libro di Giobbe: « Ad me dictum est verbum absconditum (3) », e sarebbe veramente rimasta nascosta a quell' amico di Giobbe la parola, in quanto che non ebbe conosciuto il personaggio che gli parlava in quella notturna visione: « Stetit quidam cujus non agnoscebam vultum (4) »; onde la persona parlante gli rimase sconosciuta, e la parola dettagli non era appieno conosciuta, rimanendo occulta la parola parlante; col veder la quale avrebbe subitamente conosciuto che l' uomo non si poteva giustificare in comparazione di Dio (5), perchè avrebbe veduto la purezza, la santità, la perfezione di Dio stesso. In queste parole il Verbo è il soggetto, e Dio è il predicato, come si scorge dal testo (1), in modo che la costruzione naturale è questa: « « E il Verbo era Dio »(2) ». Il Verbo dunque, che era ab eterno, ed era appresso Dio, non poteva essere che Dio egli stesso. Non trattasi adunque d' un verbo transeunte, ma d' un Verbo permanente, necessario, che non può cessare d' esser Verbo; non trattasi d' un verbo accidentale, ma sussistente per sè, il quale, essendo appo Dio, doveva conseguentemente essere una persona divina. Abbiamo già osservato che la parola Dio esprime un supposito, una persona, non l' idea astratta o essenza divina, come la parola Deità . Quindi dicendosi « E il Verbo era Dio », si viene a dire « E il Verbo era persona divina ». Ma era stato detto altresì che « il Verbo era appo Dio », dunque una persona divina era appo una persona divina: forza è dunque il dire che queste persone divine, l' una delle quali sta appo l' altra, sieno due, perocchè non si direbbe mai che la medesima stèsse appo se medesima, nè ci sarebbe bisogno alcuno di dirlo. Che se entrambi sono Dio, dunque hanno la stessa natura divina, perocchè la natura divina non può essere che una, non può essere che un solo Dio. Perocchè la Parola divina, quantunque indichi la deità nel supposito, tuttavia indica la deità, la natura divina; dunque, benchè il pronunciante il Verbo sia Dio, e il Verbo pronunciato sia Dio, tuttavia non ne viene che sieno due Dii, ma un solo Dio essente in due persone. Ora, posciachè nelle cose create non v' ha alcun esempio di più persone nell' identica natura, egli è uopo dimostrare che ciò non involge contraddizione. A tal fine convien ricorrere alla definizione della persona, la quale è questa: « Un essere intelligente in quanto ha un principio supremo ed incomunicabile si dice persona ». Posta questa definizione, chiaramente si deduce che l' ente può essere il medesimo, e tuttavia avere più principii supremi ed incomunicabili, cioè inconfusibili, nel qual caso l' identico ente sussisterebbe in più persone. Ora Iddio pronunciante il Verbo ed il Verbo pronunciato sono principii supremi ed incomunicabili, cioè inconfusibili fra loro: quindi sono due persone essenti nello stesso ente, nella stessa natura. Ma il Verbo è appresso a chi lo pronuncia: Iddio dunque che pronuncia il Verbo è una persona che ha una priorità causale ossia d' origine, in quanto è quella che pronuncia il Verbo eternamente eguale a se stesso. Nelle parole « E il Verbo era Dio » [...OMISSIS...] S. Giovanni non pone l' articolo alla voce Dio perchè è costruito come predicato, e quanto si costruisce come predicato non si usa di anteporre l' articolo. Usata la parola Dio come predicato, ella dà alla clausola questa sentenza: « E il Verbo aveva la natura divina », cioè la persona del Verbo aveva la stessa natura divina che aveva quella che lo pronunciava. Questo basta a rifiutare le sottigliezze vane degli Ariani, che dall' omissione dell' articolo alla voce «Theos» volevano inferire che il Verbo non era detto Dio nello stesso senso di Dio Padre (1). Si potrebbe forse aggiungere che l' omissione dell' articolo nel luogo di S. Giovanni è anche opportuna perchè non si confondesse la persona del Verbo colla persona del Padre. Perocchè avendo detto che « il Verbo era appresso Dio », [...OMISSIS...] con che voleva dire che era presso la persona del Padre, se avesse poi detto che il Verbo era Dio coll' articolo «o Theos»; sarebbe sembrato ch' egli fosse la stessa persona del Padre, cui nominò prima appunto Dio coll' articolo «ton Theon». In queste tre clausole adunque S. Giovanni disse che il Verbo era ed era ab eterno; dopo disse dove era, cioè appresso il Padre; finalmente disse più esplicitamente che cosa era, cioè Dio. Qui Origene domanda perchè dicesse che cosa era il Verbo, dopo aver detto quando era e dove era: e risponde che, essendo il Verbo per origine presso Dio, conveniva prima dimostrare che egli era nel Padre o presso il Padre, anzichè dire che il Verbo era Dio. A cui noi soggiungeremo cosa, che o sarà uno svolgimento della ragione arrecata da questo Padre della Chiesa, o sarà una ragione novella: il che lasciamo definire ai lettori. E` dunque da considerare che la parola Dio non basta a definire il Verbo: perocchè quella parola, eziandio che esprima la natura divina sussistente, epperò qual supposito o persona; tuttavia non determina più una persona che l' altra, epperò conviene a tutte tre le persone ugualmente. La terza clausola adunque di S. Giovanni non dichiara pienamente che cosa sia la persona del Verbo, ma dichiara solamente che cosa sia la sua natura. Ora che cosa sia la persona del Verbo è dichiarato già fino dal cominciamento colla sola parola Verbo, dicendo: « « In principio era il Verbo » », dimostrando che il Verbo come persona è l' Iddio per sè noto, il principio della dottrina teologale cristiana, la Verità sussistente; che perciò non ammette definizione, non potendosi intendere nè spiegare con parole esteriori, ma solamente coll' interiore lume della fede, col quale egli si manifesta immediatamente, che poi esprimono con parole esteriori; e con queste venendo annunziato agli uomini, questi assentendo per la grazia che gli illumina ad intenderle, sono trasportati in una condizione soprannaturale in virtù della stessa fede. L' Evangelista adunque annunziò prima di tutto la persona del Verbo, come il primo noto nella dottrina cristiana; e poi più esplicitamente ne espresse la natura dicendo che egli era Dio. Le tre clausole fin qui riferite dell' Evangelista, secondo l' osservazione dell' Aquinate, ribattono tre specie d' errori (1). La prima clausola: « « Nel principio era il Verbo » », mostrandone l' eternità, ribatte l' errore di Ebione e di Cerinto, i quali volevano che Gesù Cristo non fosse preesistente alla Vergine, dalla quale avesse preso l' essere e il cominciamento della durata, considerandolo essi come un puro uomo che avesse poi meritata colle sue sante azioni la divinità. A' quali eretici si fecero seguaci Fotino e Paolo di Samosata. La seconda clausola: « « E il Verbo era appo Dio » », stabilendo la distinzione delle persone del Verbo e di Dio che lo pronunzia, ribatte l' errore di Sabellio, il quale ammetteva che Iddio, che aveva preso carne dalla Vergine, non avesse avuto da questa principio e fosse eterno, ma diceva che fosse lo stesso il Padre ed il Figliuolo, e che non era altra la persona del Padre, che ab eterno era, dalla persona del Figliuolo che s' era incarnato. La terza clausola: « « E il Verbo era Dio » », ribatte l' errore di Eunomio, il quale insegnava che il Figliuolo fosse al tutto dissimile dal Padre, quando invece, secondo l' Evangelista, egli era Dio come il Padre. Queste tre clausole onde incomincia S. Giovanni dimostrano l' altezza di questo Evangelista sopra gli altri che lo hanno preceduto. Perocchè, come S. Matteo «(cap. I) » narra l' umana generazione di Cristo, così S. Giovanni narra come il Verbo fosse già nel principio, cioè da tutta l' eternità; come S. Luca narra subito la manifestazione di Cristo ai Pastori ed ai Magi (cap. II), così S. Giovanni narra com' egli stèsse ab eterno appo Dio nascosto alle creature; come S. Marco lo descrive annunziante agli uomini l' Evangelio del Regno di Cristo, così S. Giovanni nella terza clausola annunzia che Cristo era Dio egli stesso. Colle tre comme precedenti S. Giovanni ebbe data la dottrina del Verbo eterno: qui comincia quella delle opere sue. Ma prima riepiloga la dottrina data del Verbo essente nel seno di Dio che lo pronuncia, per continuarsi a ragionare come esce alle opere sue ed alla sua manifestazione. Questo epilogo è da lui fatto dicendo: « « Questo (cioè il Verbo) era nel principio appo Dio » ». Così dichiara Origene questo versetto con l' approvazione dell' Angelico, di cui riferiremo qui le parole: « « Origene poi, molto bellamente esponendo questa medesima clausola, dice: non esser ella qualche cosa di nuovo diversa dalle tre prime, ma essere un cotale epilogo delle premesse. Poichè, dopo avere l' Evangelista insinuata la verità dell' esser del Figliuolo, dovendo passare ad insinuare la sua virtù, raccoglie sommariamente epilogando nella quarta clausola ciò che aveva già detto nelle tre prime. E innanzi tratto, dicendo questo, intende la terza clausola; dicendo era nel principio, raccoglie la prima; soggiungendo poi era appo Dio, raccoglie la seconda: onde così tu non intenda un altro Verbo esser quello che era nel principio, ed un altro quello che era Dio; ma questo stesso Verbo che era Dio, era nel principio appo Dio »(2) ». Laonde, oltre che questa clausola riepiloga le tre prime e rannoda il discorso con quello che deve venire appresso delle opere esteriori del Verbo, giova altresì a indicare l' identità del Verbo che era in principio, e che era appo Dio, e che era Dio. Il perchè S. Cirillo (3) trova appunto opportuno questo riepilogo che fa l' Evangelista delle cose dette intorno al Verbo a tagliare le vane sottigliezze degli Eunomiani, e di alcuni Ariani, i quali dicevano altro essere il Verbo che era in principio appresso Dio, ed altro quello pel quale furono create le cose. Perocchè, lasciate le sole prime tre clausole, si poteva fisicare mettendo in dubbio se si parlasse d' un Verbo solo o di più, e a quale di questi spettasse la creazione del mondo. S. Giovanni Crisostomo trova utile il riepilogo che fa l' Evangelista delle tre prime clausole nella quarta, perocchè con questa è tolto ogni dubbio che il Verbo, che era appo il Padre, fosse appo il Padre in principio, cioè ab eterno (1). Teofilatto osserva oltracciò che, dicendo che « « il Verbo era in principio appo Dio » », viene l' Evangelista a dimostrare la perpetua concordia e consenso di volontà fra il Verbo e Dio che lo pronuncia, dal quale non è mai diviso (2). Qui contrappone adunque l' Evangelista il Verbo, che era presso Dio fin dal principio, alle creature che furono fatte per esso, e quindi insegna, come osservò Leonzio, che il Verbo non è creatura, non è una delle cose che furono fatte, ma quello pel quale furono fatte tutte quelle che furono fatte (1). Queste ultime parole del versetto di S. Giovanni, « « e senz' esso nè pur una fu fatta di quelle che furono fatte » », tagliano affatto una delle solite vane sottilità degli Ariani, i quali dicevano che tutte le cose furono fatte pel Verbo, eccetto il Verbo stesso che fu fatto dal Padre. Poichè, se si ripone il Verbo fra le cose fatte, non sarebbe più vero quello che dice l' Evangelista che nè pur una delle cose fatte fu fatta senza il Verbo (1). Oltrediciò, se il Verbo era già in principio appresso il Padre, dunque non fu fatto, perocchè quello che è non ha bisogno di esser fatto. Queste medesime parole abbattono altresì l' errore di Origine che disse lo Spirito Santo essere stato fatto dal Verbo, pel quale furon fatte tutte le cose; errore che fu in appresso de' Macedoniani che professavano lo Spirito Santo essere una creatura, e che S. Giovanni Crisostomo e Teofilatto riconoscono posare sulla mala intelligenza di quelle parole: « omnia per ipsum facta sunt », separandole da quelle altre che le limitano, « et sine ipso factum est nihil quod factum est ». Onde S. Gregorio Nazianzeno dice che questi eretici dovevano prima provare che lo Spirito Santo fosse tra le cose fatte, il che non provano, e solo di poi avrebbero potuto inferirne che egli dovesse esser fatto nel Verbo. L' Evangelista, prima di passare alla creazione del mondo, dicendo che tutte le cose che furon fatte, furon fatte pel Verbo, volle ripetere che il Verbo era in principio appo Dio, quasi esordio alla dottrina della creazione, acciocchè dicendo poi: « « Tutte le cose furon fatte per esso » » non s' intendesse che furon fatte per esso quasi per un istrumento distaccato da Dio Padre creatore. L' essere il Verbo nel principio appo Dio Padre mostra la consustanzialità col Padre quindi mostra che egli doveva avere un' operazione creativa identica a quella del Padre. Con che son rase le cavillazioni degli Ariani e di altri eretici (1). Si dimanderà: Perchè adunque l' Evangelista preferì dire, che « tutte le cose furon fatte per esso », al dire esso fece tutte le cose? Quale è qui il proprio significato della parola per? In prima è da considerare che, se l' Evangelista avesse detto egli fece tutte le cose , avrebbe certamente parlato con proprietà, come parlò con tutta verità e proprietà il salmista dicendo: « Initio tu, Domine, terram fundasti et opera manuum tuarum sunt coeli (2) », che S. Paolo interpreta di Cristo (3); ma sarebbe parso che il solo Verbo avesse creato il mondo senza la compagnia del Padre: onde anche soggiunse « et sine ipso factum est nihil quod factum est », dove la parola sine , o extra com' altri interpretano, dimostra che non fu solo a creare, ma col Padre, « apud Deum », come hanno osservato i Padri (4). Vero è che la particella per, «dia», non sempre s' adopera a significare compagnia di cause, ma semplicemente causa, come in questo luogo dell' Apostolo dove parla del Padre: « Fidelis Deus per quem vocati estis in societatem filii ejus (1) ». E per ciò appunto, giusta l' esposizione di Sant' Ilario, l' Evangelista aggiunse, « et sine ipso factum est nihil quod factum est », a dichiarar meglio che il Verbo operava in compagnia del Padre, o, come anco aveva detto, « « appo il Padre » ». E tanto più riesce opportuna questa spiegazione che aggiunse l' Evangelista, inquantochè il « factum est », essendo in forma intransitiva, non indicava altra causa; laddove, qualora il per viene soggiunto ad un verbo costrutto attivamente, non lascia dubbio sull' indicare compagnia di causa, come in quel luogo dell' Apostolo « per quem fecit et saecula (2) ». Dove apparisce che Dio Padre fece i secoli pel Figliuolo. E quantunque tutto ciò dimostri l' opportunità di quell' aggiunta: « et sine ipso factum est nihil quod factum est »; contuttociò non è men vero quello che fu osservato da altri, essere consuetudine degli Ebrei, si può dire degli Orientali, quello che dicono in modo affermativo, dirlo di nuovo in modo negativo, come fa Isaia dove dice: « Omnia quae in domo mea sunt viderunt: non fuit res quam non ostenderim eis (3) »; e come fa pure Geremia dicendo: « Omne verbum, quodcumque responderit mihi, indicabo vobis, nec celabo vos quidquam (4) »; ma ciò non toglie che l' aggiunta in forma negativa, oltre il dare una maggior forza di asseveranza al discorso e recidere ogni cavillo sul significato di ciò che viene detto, non possa contenere qualche nuovo sentimento, non possa aggiungere di quei concetti accessorii ed obliqui che sempre si accompagnano al principale in ogni discorso e in ogni proposizione, spesso anche nelle singole parole. Onde l' osservazione di S. Ilario su questo luogo dell' Evangelista rimane egualmente solida. Dicevamo dunque che la parola per nel luogo di S. Giovanni: « omnia per ipsum facta sunt », ha valore di significare compagnia di causa, quasi venga a dire: « Tutte le cose sono state fatte dal Padre pel Verbo », ma questa compagnia di causa, indicata anche da Cristo in quelle parole: « « Pater usque modo operatur et ego operor »(5) », dee intendersi non già come nelle cose umane dove le cause diverse, i diversi operanti hanno diverse operazioni; ma dee intendersi in un modo tutto divino, per modo che una ed identica sia l' operazione del Padre e del Verbo, come una ed identica ne è la natura. Anche qui, rispetto alla particella per, è da richiamarsi l' imperfezione che ha il linguaggio umano, istituito a significare le cose create, insufficiente ad esprimere adeguatamente le increate e divine che non hanno esempio in quelle, onde conviene dare ai vocaboli, con cui si esprimono le divine, un valore novello. La particella per adunque fu istituita a significare o piuttosto indicare il mezzo ad un fine. Ora, posciachè il mezzo alla esecuzione d' un fine può variare di natura e di modo, quindi quella particella riceve più significati. Il primo mezzo, affinchè una cosa sia, è la causa efficiente della medesima, e questa talora si esprime con quella particella. Ma in tal caso, la causa efficiente essendo quella che opera, quella particella non si costruisce con un verbo attivo, perchè in un verbo così costruito l' operante è già espresso nel nominativo, e non c' è più bisogno di esprimersi colla particella per; ma il verbo si costruisce in un modo intransitivo nel quale non essendo espresso l' operante si soggiunge poi mediante la particella per, o da, o alcun' altra. In questo senso si può dire egualmente: « Iddio fece il mondo », ovvero « il mondo fu fatto da Dio o per Dio », cioè per mezzo di Dio causa efficiente del medesimo. In questo senso la particella per conviene egualmente a tutte tre le persone, potendosi dire: « il mondo fu fatto pel Verbo », egualmente che pel Padre, o per lo Spirito Santo. Nella maniera del pensare umano si distingue anche nelle cose create sovente la forma dalla materia di cui sono composte, e della forma si fa un elemento a parte astraendolo da' suppositi in cui si trova e considerandoli come causa immediata del medesimo supposito. Quindi il concetto tanto usato dagli antichi di causa formale . Acciocchè sia naturale un dato supposito nelle cose corporee è necessario che abbia la sua forma, quindi si considera questo come un mezzo alla sussistenza di lui, e anche questa maniera di causa astratta si esprime usando la particella per co' verbi intransitivi. Lo stesso convien dirsi della causa materiale che si divide colla mente dai suppositi che risultano da materia e da forma: e, quantunque la materia sia un loro elemento e non una loro causa, tuttavia si riguarda come un mezzo o condizione necessaria alla loro sussistenza. Si esprime quindi anche questa causa materiale mediante la parola per co' verbi intransitivi o passivi. Quindi si dice egualmente questa statua sussiste per la sua forma, ovvero sussiste per la sua materia. Ora in questi due ultimi significati la parola per non si può applicare ad esprimere la creazione fatta da Dio, perchè Iddio non è nè la forma, nè la materia dell' universo. Nelle cose create oltracciò vi ha una subordinazione di cause. Ora le cause seconde, fra le quali si annoverano le istrumentali, sono pure mezzi all' ottenimento dell' effetto o del fine. Ma, perciocchè queste suppongono la causa prima che è il principale agente, perciò non solo queste possono significarsi colla particella per col verbo intransitivo o passivo, ma ben anco col verbo attivo; nel qual caso il nominativo che regge la costruzione esprime la causa principale, e la parola per esprime la causa subordinata ed istrumentale . Così si dice che « il falegname opera per l' ascia o per la pialla, lo scultore per lo scalpello, ecc. ». E se si vuol costruire passivamente, in tal caso l' agente principale si mette nel genitivo che esprime la causa della causa, come a ragion d' esempio: « Questo scanno fu fatto per l' ascia e la sega del falegname; questa statua fu scolpita per lo scalpello del tale autore », di maniera che le due cause subordinate nell' uno e nell' altro modo vengono egualmente espresse. Non si può dare in alcun modo questo valore alla particella per nel luogo di S. Giovanni ove dice del Verbo « « tutte le cose furon fatte per esso » », perchè il Verbo non è una causa subordinata al Padre, ma ad esso uguale; e perchè le cause subordinate hanno diversa natura e diversa operazione, laddove il Verbo ha con Dio che lo pronuncia una sola natura ed una sola operazione, benchè sieno due persone, dicendo S. Giovanni che il Verbo, pel quale sono state fatte tutte le cose, è « « appo Dio » », cioè consustanziale al Padre, come vedemmo. Nelle cose create ancora si distingue il subbietto sostanziale dalle sue potenze e virtù, e queste si considerano come mezzi alle sue operazioni e agli effetti ch' egli produce: onde si dice, a ragion d' es., che « per la mente l' uomo pensa », ovvero che « per la mente o per la scienza sua l' uomo compone un libro ». Ma in Dio non v' ha distinzione alcuna reale fra le potenze e virtù e l' essenza, non essendovi che la semplicissima essenza che è Dio, e che opera tuttociò che fa Iddio. Onde non può dirsi in questo senso « che Iddio fa tutto pel suo Verbo », intendendo che il Verbo sia una parte, o una potenza, o una virtù speciale di Dio; quand' anzi egli è Dio stesso, tutto quant' è nella divina essenza, la quale opera. Il dire poi che Iddio opera per la sua propria essenza non è un parlare molto proprio, sembrando dal costrutto che Iddio operante sia qualche cosa di diverso dalla sua essenza, ma non contiene errore quando si intenda dire con quella maniera che Iddio « opera per se stesso ». E quando si dice che Dio opera per la sua sapienza o per la sua virtù, devesi intendere egualmente che Dio opera per la sua essenza, ossia per se stesso, perchè la sapienza e la virtù di Dio è la stessa sua essenza, senza alcuna reale distinzione. Tuttavia se si considerano i vestigi della sapienza e della virtù di Dio nelle sue opere esteriori, cioè nelle cose finite da lui create, vedesi che, appunto perchè queste sono finite, non possono aver esaurita la sua sapienza e la sua virtù. Quindi l' uomo argomenta col suo pensare imperfetto e al tutto inadeguato, che Iddio nel produrre dal nulla il mondo abbia adoperato una parte della sua sapienza e della sua virtù, e distingue questa parte della sapienza e della virtù creatrice dalla totale sapienza e virtù di Dio; mediante la qual distinzione crede di parlare esattamente dicendo che Iddio creò il mondo per la sua sapienza e per la sua virtù, distinguendo questa sapienza e virtù parziale e quantitativa dalla totale ed infinita sapienza e virtù di Dio che è la sua essenza. Ma questo è un pensare imperfetto, come dicevo, è un parlare inesatto; è un pensare che dimostra la limitazione della mente umana. Perocchè la distinzione che questa mente pone fra quella parte di sapienza e di virtù divina che il Creatore adoperò nella fabbrica mondiale dalla sua essenziale sapienza e virtù, non ha luogo se non relativamente al pensare dell' uomo, nè è una parte di questa che è indivisibile, ma è tutta questa. Onde più esattamente si deve dire che Iddio creando il mondo adoperò tutta la sua sapienza e virtù, ma non totalmente, appunto perchè le creature essendo finite non ammettevano in sè la comunicazione totale di essa. Altro è dunque la sapienza e virtù adoperata nell' azione di Dio creante, e questa è l' essenza di Dio semplice ed indivisibile, altra è la sapienza comunicata alle creature, e questa è una sapienza sotto diversi aspetti, limitata, distinta dall' essenza divina soltanto relativamente alle creature che la concepiscono e la considerano astrattamente, ma tale però che in Dio si rifonde nella stessa sapienza divina; nella quale, quello che è per noi raggio, trovasi esser sole infinito senza potersi in questo sole distinguere realmente il raggio da esso medesimo sole o luce illimitata. Ma la sapienza essenziale di Dio non è il Verbo divino; ella è un attributo che conviene egualmente a tutte e tre le divine persone, le quali hanno una stessa ed identica natura ed essenza. Laonde quando, dicendosi « che Iddio creò il mondo pel suo Verbo », s' intende dire che creò il mondo per la sua sapienza essenziale, allora non si parla in senso proprio, ma in senso, come dicono i teologi, appropriato, in quanto che la sapienza si suole attribuire al Verbo, perchè il Verbo procede per via d' intelletto e quindi vi ha una cotale affinità tra la sapienza ed il Verbo. Onde S. Tommaso così s' esprime: « « Dicimus Christum Dei virtutem et Dei sapientiam: ideo appropriate dicimus quod Pater omnia operatur per Filium, id est per sapientiam suam. Et ideo dicit Augustinus quod hoc quod dicitur: « Ex quo omnia »appropriatur Patri, « per quem omnia »Filio, « in quo omnia »Spiritui Sancto (1) ». Ma vi ha un significato di queste parole: « « Tutte le cose sono fatte per esso » » che non è appropriato, ma proprio: e questo dobbiamo ora noi cercare. Noi abbiamo detto che il Verbo divino è la sussistenza dell' essere nota per se stesso: esso è oggetto, ma non oggetto ideale come sono le essenze delle cose finite, ma oggetto sussistente, e quindi ancora oggetto che è ad un tempo soggetto ossia persona nella sua stessa oggettività in quanto si sente e vive come oggetto e oggetto vivente. Quindi sotto due aspetti noi possiamo considerarlo: 1 come oggetto per essenza, che è quanto dire come luce; 2 e come sussistenza personale. Questi due aspetti non si debbono prendere così, quasi che vogliamo porre una distinzione reale nel Verbo, la quale non vi è, ma unicamente come due riguardi della mente nostra, fondati in una doppia relazione che hanno le creature con esso lui. Perocchè nelle creature si distingue l' oggetto, che è l' essenza, dalla sussistenza che è la realità delle medesime. In quanto dunque viene dal Verbo l' essenza delle cose, in tanto si considera il Verbo come oggetto o luce primitiva; in quanto poi viene dal Verbo come da causa la sussistenza delle cose, in tanto lo si considera come sussistenza operativa e producente. Se dunque si considera il Verbo come sussistenza e quindi anco come virtù creatrice, egli ha la stessa sussistenza di numero e quindi l' identica virtù creatrice del Padre che gliela comunica. Avendo dunque l' essere dal Padre, e di conseguenza avendo dal Padre l' esser causa delle cose, si può dire ch' egli è costituito causa delle cose pel Padre, cioè per cagione del Padre che gli dà tutto l' essere medesimo di esso Padre. Ma se il Verbo si considera come oggetto, cioè come l' essere luce, l' essere per sè noto, in tale aspetto dicesi con tutta proprietà che il Padre fa tutte le cose pel suo Verbo, come insegnano i dottori Agostino e Tommaso, il quale ultimo dice: « « Ora se si considerano rettamente le predette parole, Omnia per ipsum facta sunt, appare ad evidenza che l' Evangelista ha parlato in un modo al sommo proprio ( propriissime fuisse locutum ). Poichè chi fa qualche cosa, egli è uopo che prima la concepisca nella sua sapienza, che è la forma e la ragione della cosa da farsi, come la forma preconcepita nella mente dell' artefice è la ragione dell' arca che sta per fare. Così adunque Iddio non fa nulla se non pel concetto del suo intelletto, che è il Verbo di Dio e il Figlio di Dio; e perciò egli è impossibile che faccia qualche cosa eccetto che pel Figlio. Onde S. Agostino (1) dice che il Verbo è l' arte piena di tutte le ragioni viventi, e così apparisce che tutte le cose che il Padre fa le fa per esso »(2) ». Sotto questo particolare aspetto di essere il Verbo l' oggetto per sè, lo considerarono quelli autori i quali trassero la ragione del perchè egli si chiami «logos», dall' essere egli la notizia del Padre, o dal contenere la definizione, la ragione, il concetto, l' essenza ideale di tutte le cose, «to eautu logo», cioè, definitione sua omnia complecti, come fra gli altri si esprime Vittorino ne' libri contro Ario. E questo è il solo aspetto sotto cui seppero considerarlo in qualche modo i Platonici, fra' quali Filone, che di conseguente lo fa minore del Padre e lo chiama sempre «logos», non mai «uios». Perocchè questi filosofi ignorarono sempre la personalità del Verbo. I due aspetti, sotto cui noi diciamo doversi il Verbo considerare, rendono appunto ragione della doppia appellazione che gli viene applicata nelle Scritture, cioè di «logos» ragione, e «uios» figliuolo: giacchè quella esprime l' oggettività, questa la personalità del Verbo, e questa doppia appellazione è di conseguente una prova della verità di ciò che diciamo. Così si conciliano le diverse opinioni dei Padri, alcuni de' quali, come S. Cirillo (3) ed Eusebio (4), dicono il Verbo essere stato conosciuto da' Platonici, laddove altri lo negano, come S. Girolamo che scrive del Verbo appunto: « Hoc doctus Plato nescivit, hoc Demosthenes eloquens ignoravit (5) ». I platonici l' hanno in qualche modo conosciuto come oggetto , l' hanno ignorato come persona; hanno conosciuto che non si poteva spiegare la cognizione senza supporre che vi avesse un primo oggetto, un noto per se stesso, una luce in cui tutte le cose si vedessero; ma hanno ignorato che questo primo oggetto, termine d' ogni conoscimento, avesse un' esistenza personale, e perciò fosse Dio. Il che non si può dire un conoscere il Verbo, semplicemente parlando, e però la sentenza di S. Girolamo: « Hoc doctus Plato nescivit, hoc Demosthenes eloquens ignoravit », è assolutamente vera. Tanto più che il Verbo platonico, l' oggetto essenziale da loro ammesso, era un esemplare del mondo, ma non giunsero neppure a conoscerlo come Iddio per sè cognito: dalla qual parte altresì difetta la dottrina platonica. All' incontro S. Paolo espresse magnificamente i due aspetti in cui conviene riguardarsi il Verbo in quelle parole: « cum sit splendor gloriae et figura substantiae ejus (1) », nelle quali il splendor gloriae si riferisce alla proprietà di oggetto, e il figura substantiae alla sussistenza personale. E dice splendor gloriae , perchè Iddio è tutto glorioso e magnifico a se stesso ed a quelli che lo conoscono, onde basta che sia conosciuto per esser glorificato (quando la libera volontà non si opponga negandogli questa gloria che nel suo concetto risplende), e quindi Gesù Cristo disse: « Haec est vita aeterna ut cognoscant te solum Deum verum, et quem misisti Jesum Christum (2) », nè altro volle Gesù Cristo se non far conoscere il Padre, perchè conoscerlo veramente è un glorificarlo. Dice poi « figura substantiae ejus », invece di dire semplicemente substantia ejus, perchè la sostanza, o come dice il greco «ypostasis» sussistenza, è comune a tutte e tre le persone, ma nel Verbo è la sostanza nella figura, la sussistenza personale nell' oggetto, il che è proprio del Verbo, perocchè la parola figura, in greco carattere, [...OMISSIS...] , esprime la conoscibilità della cosa, ciò che fa conoscere la cosa. Laonde, quantunque lo splendore della gloria si riferisca più alla proprietà di essere oggetto , e il carattere della sussistenza divina si riferisca più alla proprietà di essere una sussistente persona; tuttavia l' espressione dell' Apostolo mantiene queste due cose indivise, indivise essendo nel Verbo, e solo così indivise danno la vera notizia del Verbo stesso. Nè manca alcunchè all' espressione dell' Apostolo, quantunque non vi si esprima che il Verbo è anche l' esemplare del mondo, perchè questo è già contenuto nella sua proprietà primordiale di essere la sussistenza divina in forma di oggetto. Nè l' espressione « figura substantiae ejus » è da credersi che escluda la sostanza, quasichè altro sia la figura ed altra la sostanza. Perocchè è da riflettersi: 1 Che della sostanza divina non v' ha rappresentazione adeguata fuori di lei; 2 Che, anche in generale parlando, le sostanze non hanno figura o tipo diverso da se stesse, qualora per sostanza s' intenda la sussistenza che è ciò che v' ha di proprio nelle cose reali, onde conviene che se la prima sostanza ha figura, cioè espressione, conoscibilità, questa sia ella medesima, non entrando la sussistenza in alcuna idea che sia pura idea; 3 Che finalmente l' espressione greca che dice il « carattere della sussistenza » toglie ogni equivoco, perocchè il carattere di una cosa è nella cosa stessa, ed alla cosa appartiene, onde il carattere pure della sussistenza divina è nella sussistenza divina, e a questa appartiene. E poichè la sussistenza divina è semplicissima ed è tutto Dio, perciò il suo carattere non può esser altro che lei stessa, in quanto essa è per sè intelligibile, per sè intesa. Non basta adunque a dichiarare come il Padre operi la creazione del mondo pel Verbo il considerar questo come oggetto ed esemplare. Perocchè, quantunque sia vero che l' artefice, per esempio lo scultore, faccia la statua pel concetto che ne ha nella mente, tuttavia non si può già dire che il concetto stesso sia artefice e facitore della statua; conciossiachè il concetto è una semplice regola secondo la quale opera lo scultore, è puramente un' idea, è oggetto, ma non soggetto o persona sussistente ed operante egli stesso. All' incontro il Verbo, oltre essere per sè oggetto, e quindi contenere anche l' idea del mondo, oltre essere idea dell' essere assoluto, è anche sussistenza, soggetto persona operante, perchè ha la stessa natura del Padre. Se dunque si considera che il Verbo è la sussistenza divina per sè conosciuta, e conosciuta pienamente, perciò conosciuta in sè e in tutti i modi nei quali può essere imitata dall' essere finito, perchè l' essere racchiude questo nel suo concetto di poter sussistere in un modo assoluto ed infinito e in un modo relativo e finito, allora s' intende che il Padre opera tutto quello che opera al di fuori pel Verbo, non solo perchè in questo vede le essenze delle cose finite, ma ben anco perchè queste essenze hanno virtù di essere realizzate come quelle che esistono nella sussistenza divina, senza distinzione da questa, purchè solo si aggiunga la volontà della stessa sussistenza comune alle tre persone augustissime. Ed essendo l' essere per sè amabile, anche in quanto sussiste limitatamente, per l' analogia che ha coll' essere sussistente illimitatamente, perciò questa volontà non può mancare per tutto l' essere limitato possibile, possibile dico non fisicamente, ma logicamente e moralmente. E dicevamo che l' essere conosciuto in modo limitato ha bisogno della volontà divina per essere realizzato a cagione che egli non è necessario ma contingente, cioè egli non ha la ragione della sua realizzazione nel proprio concetto, ossia nella propria essenza. Di che la ragione del suo realizzamento non può trovarsi che nella libera volontà del Creatore. Il Padre dunque crea l' essere finito, cioè il fa sussistere amandolo, che è quanto dire volendolo (1), e non lo ama se non dove lo conosce, e lo conosce dove è conoscibile cioè nel Verbo, e perciò lo crea pel Verbo. Ma perocchè il Verbo è la stessa sussistenza divina per sè nota e che ha in sè le cose finite per sè note, perciò questa sussistenza del pari ama in sè, e vuole le cose collo stesso amore e volontà del Padre. E poichè lo Spirito Santo ha del pari la stessa identica sussistenza, in quanto è per sè amata (ed è per sè amata in quanto è per sè nota), quindi anche lo Spirito Santo crea colla stessa volontà creante delle due prime persone. Ma perchè si dice piuttosto, che il Padre crea pel suo Verbo, anzichè crea per lo Spirito Santo? Per una ragione analoga a quella per la quale si dice che lo statuario fa la statua pel suo concetto e non pel suo amore. In fatti l' amore muove lo statuario a fare la statua, ma il mezzo col quale la fa è il concetto della sua mente, che dirige le sue mani nel martellare il sasso e trarne l' opera da lui concepita. In un modo analogo, come dicevo, il Padre, mosso certamente dall' amore essenziale, vede nel suo concetto, cioè nel suo Verbo, l' essere finito e vedendolo lo crea. Ma questo concetto del Padre non è, come quello dello statuario, una pura idea, senza realità corrispondente, ma è un concetto sussistente della sussistenza divina identica a quella del Padre; onde la sussistenza divina creante crea le cose guardandole nell' oggetto, ossia nel Verbo, che è la stessa sussistenza nella forma oggettiva. Onde si può dire che la stessa sussistenza divina comune a tutte e tre le divine persone sia quella che crea pel Verbo, che è ella stessa per sè nota. Una qualche analogia di questo fatto della creazione, l' uomo lo ha nella sua immaginazione intellettiva. Quando immagina un oggetto corporeo, questo oggetto esiste solo relativamente all' uomo che lo immagina. Supponiamo ora che quest' oggetto sussistesse anche relativamente a se stesso: in tal caso quest' oggetto sarebbe creato. Ora tale è la potenza della volontà divina, che, quand' ella vuole che sussista un ente finito e relativo, lo immagina, dirò così, sussistente, e questa divina immaginazione fa sì che l' oggetto esista non solo relativamente a Dio che lo immagina, ma ben anco relativamente a se stesso e ad altri esseri, e così sia creato. In fatto, se l' immaginazione, per usare questo termine analogo, non può rappresentare un oggetto che a se stessa, ella è imperfetta; non fa pienamente ciò che vorrebbe fare, perchè l' oggetto reale, acciocchè sia veramente tale, dee sussistere a se stesso e agli altri enti a cui ha per sua natura rapporto. Ma in Dio non può esservi imperfezione, e ciò che vuole immaginare dee per conseguente essere pienamente vero, dee essere l' oggetto che vuole immaginare. Ma non sarebbe la verità, l' oggetto non sarebbe vero oggetto reale e sussistente, se non sussistesse a se stesso e agli altri enti a' quali per sua essenza è legato. Dunque Iddio conviene che abbia questa potenza d' immaginazione, che quando si rappresenta un oggetto, questo veramente sussista a se stesso e agli altri; e questo è creare. Creare dunque è far sì che un oggetto veduto nella sua essenza ed immaginato (l' immaginazione intellettiva è quella potenza che si sforza di vedere un' essenza nella sua realizzazione) esista come soggetto (o come esistente nei soggetti che lo possono percepire), esista relativamente a sè (o a quei soggetti personali che lo possono percepire), perocchè senza di questo l' oggetto non sarebbe realizzato, e quindi l' immaginazione errerebbe, difetterebbe nel rappresentarselo tale; nè in Dio può esistere errore, essendo essenzialmente verità e realità, nè può cadere difetto di potenza e di operazione. Dunque, volendo egli rappresentarsi un oggetto come realizzato, quest' oggetto dee esistere come soggetto e persona, o se non è intellettivo dee esistere relativamente alle persone che, secondo la propria natura, hanno virtù di percepirlo, ovvero sia di sentirne l' efficacia sostanziale, il che è appunto creare. Supponendo adunque che in Dio vi abbia una perfetta facoltà di immaginare le cose, ossia di rappresentarsele realizzate, egli è giuoco forza ammettere in lui la facoltà o potenza di creare. Ma la realità d' un ente non si vede che nell' essenza, che è l' oggettività della cosa, e l' essenza è contenuta nel Verbo che è l' essere come oggetto: dunque la creazione si doveva fare pel Verbo e nel Verbo (1). E quindi S. Paolo chiama Cristo « Dei virtutem et Dei sapientiam (2) ». Nelle quali due parole sono indicate le due proprietà da noi distinte nel Verbo divino. Poichè in quanto egli è sussistenza, lo chiama Dei virtutem, in quanto egli è oggetto, lo chiama Dei sapientiam . Dove è da notarsi che la parola sapienza riceve due significati, come pure la parola scienza . Perocchè que' vocaboli si prendono talora in un senso soggettivo, indicandosi l' abito della scienza e della sapienza, il possesso soggettivo della notizia; e talora si prendono in un senso oggettivo per l' oggetto stesso della scienza, per la notizia posseduta. Ora se si prende la sapienza in un senso soggettivo, ella è comune a tutte e tre le persone e s' attribuisce al Verbo soltanto in un senso appropriato . Ma se ella si prende in un senso oggettivo, ella è propria del Verbo, o piuttosto è il Verbo stesso, e in questo proprio significato il Verbo è chiamato nelle divine scritture la Sapienza. Simigliantemente la virtù o potenza divina presa in senso soggettivo è comune a tutte e tre le divine persone. Ma, se si considera che la potenza divina, colla quale Iddio crea, è la facoltà divina di rappresentarsi l' essenza delle cose finite realizzata, la quale essenza è nel Verbo; anche essa facoltà, come soggettiva che è, è ancora comune alle tre persone divine, ma poichè l' essenza, e in questa la sua realizzazione, giace nel Verbo, si dice che il Verbo è la virtù di Dio, perchè in esso e per esso Iddio crea, ossia vede le cose sussistere. Convien rammentarsi, ciò che abbiamo osservato, la parola ebraica verbo, parola , [...OMISSIS...] usarsi dagli Ebrei a significare la realità, che anche chiamano la verità delle cose. Quindi ogni parola di Dio, ogni suo verbo dee essere pienamente vero, e però la cosa da Dio pronunciata dee essere reale, quando la pronuncia come reale, altramente non sarebbe vera. Indi è che quando Iddio pronuncia la propria sussistenza, pronuncia un oggetto reale; per questo pronunciamento la sussistenza divina è divenuta oggetto, e quest' oggetto non sarebbe appieno vero se non fosse soggetto reale anzi persona. Egli dunque pronuncia il suo Verbo, il quale è la stessa sussistenza divina divenuta oggetto (se così lice esprimersi) pel pronunciamento di Dio che in quanto pronuncia si chiama Padre. Non è dunque questo un pronunciamento sterile come quello dell' uomo, il quale afferma le cose che sono quando le percepisce; ma non può farne di nuove, e, se pronuncia come sussistente cosa che non è, pronuncia il falso, perchè pronunciandola, la cosa non si fa sussistere. Il che insegna S. Agostino con quelle parole: « Proinde, tanquam se ipsum dicens, Pater genuit Verbum sibi aequale per omnia » (anche nell' essere una persona). « Non enim se ipsum integre, perfecteque dixisset, si aliquid minus, aut amplius esset in ejus Verbo quam in se ipso (1) ». Ed indi il S. Dottore passa ad esporre la differenza fra il verbo umano e deficiente, e il divino perfetto e compiuto. La ragione di questa differenza fra il pronunciare dell' uomo e il pronunciare di Dio, fra il verbo dell' uomo e il Verbo di Dio, consiste in questo, che l' uomo è una partecipazione limitata di essere relativo, che colla sua azione non può uscire dai limiti e dalla relatività dell' essere; all' incontro Iddio è l' essere per se stesso, assoluto, infinito, onde l' azione sua termina sempre all' essere, non è limitato all' essere relativo o ad una porzione di essere, perchè ha tutto l' essere in se stesso; e però qualunque essere pronunci, qualunque porzione di essere, la trova in se stesso, senza uscire da sè, la rende sussistente, perchè non può mancargli l' essere che pronuncia avendo tutto l' essere in tutti i suoi possibili modi, alcuni de' quali possono mancare solamente se egli non gli pronuncia; come accade degli esseri relativi non pronunciati, non creati da Dio, i quali però tutti giacciono indistinti e senza l' individualità che gli fa essere a se stessi (il che è un essere fuori di Dio) nell' abisso dell' essere stesso. Se noi consideriamo che l' essere divino è vivente e d' ogni parte infinito, noi agevolmente intenderemo che se gli potesse mancare una cosa sola di quelle che ama, egli cesserebbe d' esser tale, avrebbe una limitazione. Or l' essere ama l' essere, e però l' essere amato non può mancare. L' Essere ama se stesso, e però vuole se stesso: ma non potrebbe amarsi se non fosse a sè cognito, ama dunque se stesso cognito. Se stesso cognito ha un' anteriorità logica a se stesso amato: quindi il Verbo ha un' anteriorità di origine (non già di tempo o di natura) allo Spirito Santo. L' essere divino è per sè cognito perchè è per sè pronunciato ossia generato come oggetto per sè cognito, e come tale soggetto, persona. Ma nell' essere divino per sè cognito, cioè nel Verbo, sono cogniti anche tutte le limitazioni possibili dell' essere, tutti i modi limitati di essere, compresi nel concetto di essere. Ora, posciachè l' essere cognito è per sè amato, quindi sono per sè amati anche tutti i possibili enti finiti. Ma poichè la loro sussistenza, come limitata che è, si esclude reciprocamente; quindi, sebbene ciascuno si possa realizzare, tuttavia non tutti insieme. L' ordine dell' essere è anch' esso essere, perocchè quest' ordine appartiene all' essenza dell' essere nella sua forma ideale (1); il bene morale dell' essere è anch' esso essere appartenente alla sua essenza nella forma morale. Dato dunque che Iddio ami e voglia l' essere finito, consegue che egli lo voglia nella sua maggior quantità. Ma questa esige che si calcoli anche l' ordine, cioè la connessione dell' essere finito, e il bene suo morale ed eudemonologico, che è la forma perfettiva dell' essere, alla quale è ordinato l' essere fisico, e l' ordine o la connessione di lui. Dato dunque che Iddio amando tutto l' essere, ami l' essere finito, egli non poteva moralmente parlando volere se non la maggior somma di bene eudemonologico7morale nella minima quantità di essere finito fisico, connesso fra sè nel miglior modo per l' ottenimento di tale scopo, e questo è il mondo creato. Amando dunque Iddio l' essere finito così concepito ed ordinato, che nell' essere per sè noto è per sè noto anch' egli; non poteva essere che per ciò stesso non avesse il suo realizzamento. Così la facoltà di creare l' essere finito si prova necessaria alla perfezione dell' essere infinito, perchè senz' esso non sarebbe d' ogni parte infinito, perchè amerebbe una cosa che gli mancherebbe. Quest' atto di volontà creatrice corrisponde agli atti della ragione pratica, i quali consistono nell' adesione della propria energia all' ente conosciuto. E` un atto dunque di ragione, ma non di una ragione semplicemente speculativa, ma di una ragione piena alla quale il soggetto unisce e quasi porta se stesso nell' oggetto conosciuto per realizzarlo. E` un atto completo d' intendimento dove la volontà è identificata coll' intelletto, mentre l' atto della ragione speculativa è un atto iniziale, ricevente anzichè dante, che termina nell' ideale anzichè nel reale. Iddio adunque crea con un atto d' intendimento perfetto e pratico, ossia operativo, che ha in sè quello che corrisponde nell' uomo alla volontà. Crea insomma colla sua parola, col suo Verbo. Ma una delle differenze massime fra la generazione del Verbo e la creazione si è questa, che genera il Verbo e poi lo ama, non già che vi sia un prima e un poi di tempo nella divinità, ma solo un ordine logico di relazioni. Poichè essendo il Verbo l' essere per sè noto, quindi posto dal Padre per sè oggetto, l' essere non può essere amato prima d' essere oggetto conosciuto. E però quantunque sia vero quello che dicono alcuni teologi che il Padre genera il Verbo liberamente, cioè senza essere a ciò mosso o costretto da cosa alcuna straniera, tuttavia non lo genera volontariamente, ma necessariamente, perchè tale è la natura divina, senza aver precedentemente un fine che il muova all' atto della generazione. All' incontro nel Verbo generato, e quindi sussistente come persona, Iddio vede l' essenza dell' essere finito, ed amandola e volendola lo pronunzia sussistente, e così lo crea guardando nel Verbo. Onde le creature si producono da Dio con un atto posteriore d' origine alla generazione ed alla spirazione per cui è lo Spirito Santo, e posteriore all' amor divino, quindi per un atto di libera volontà . Iddio dunque crea le cose pronunciandole nel suo Verbo dove le conosce, e quest' atto onde pronuncia le cose non è di tempo posteriore al Verbo, perchè in Dio non vi è tempo, ma tutto si fa ivi nell' eternità dell' essere divino, e tutto è fatto. Laonde è vero ciò che dice S. Anselmo, che con uno stesso pronunciamento Iddio dice se stesso e le cose esteriori. Ma conviene però intendersi, che rispetto all' origine il pronunciamento delle cose esteriori è posteriore logicamente alla costituzione, se così lice esprimersi, delle tre persone, e che questo pronunciamento è fatto dalla natura divina comune a tutte e tre le persone, non dal solo Padre, benchè l' oggetto di questo pronunciamento sia nel Verbo, in cui le cose sono per sè note, e quindi nel Verbo e pel Verbo sono fatte. Il Verbo dunque crea perchè ha la natura divina, è Dio; la natura divina sussistente in tre persone crea pel Verbo, perocchè crea per l' essere conosciuto, giacchè non potrebbe creare se non avesse presente l' oggetto, l' essenza che dee creare; crea nel Verbo giacchè pronunciando ciò che è per essenza in quest' oggetto, che è il Verbo, le cose acquistano realità, sussistenza relativa a se stesse. Quindi nelle divine scritture è frequente il dirsi che le cose sono state fatte non solo pel Verbo ma ben anco nel Verbo. San Paolo lo chiama primogenito di ogni creatura, « quoniam in ipso condita sunt universa in coelis et in terra, visibilia et invisibilia (1) ». E lo chiama primogenito, non perchè le creature sieno anch' esse generate in senso proprio della parola, ma per la povertà della lingua greca che dice egualmente generato e fatto, onde anche il primo libro del Pentateuco, in cui si narra la creazione del mondo, si intitola in greco: « Della generazione », [...OMISSIS...] . Un' altra ragione può addursi della denominazione di primogenito data a Gesù Cristo da S. Paolo, ed è che la generazione, o si considera nel suo principio, o nel suo termine. La generazione divina nel suo principio, cioè nell' operazione stessa, è, come abbiamo veduto, un pronunciamento; ora, rispetto al principio, con un pronunciamento di Dio come intelligenza, fu egualmente generato il Verbo, e furono creati gli enti finiti. Onde la generazione e la creazione sono simili nel loro principio, cioè nel modo onde avvennero. Rispetto poi al termine, la generazione importa che il generato riceva la stessa natura del generante, onde si chiama Figliuolo, ed è in questo che si distingue il generare, che è un comunicare la propria natura, dal creare che è produrre dal nulla cosa d' altra natura. Una terza ragione ancora si può aggiungere se le parole di S. Paolo s' intendono di Cristo, cioè non del solo Verbo ma del Verbo incarnato, dell' umanità assunta dal Verbo. In questo senso Cristo è il primogenito nell' ordine non delle cose naturali, ma delle soprannaturali, perchè è il fine dell' universo, e il fine è il primo nella mente dell' operante, perchè è il primo dei predestinati, e il principio della predestinazione, e perchè anche gli altri uomini sono generati soprannaturalmente da Dio, venendo adottati in figliuoli, perchè loro si comunica Cristo e vive in essi Cristo e il suo spirito. Nel Verbo divino adunque sono radicate e fondate universa in coelis et in terra, perchè nel Verbo come in oggetto sussistente termina l' atto interno della creazione, pel qual atto le cose esistono anche come soggetto e persona relativa a se stessa, o come ciò che cade in tale persona relativa la quale costituisce l' esistenza esterna e loro propria delle creature. E così anche S. Paolo disse che « omnia per ipsum et in ipso creata sunt, et ipse est ante omnes, et omnia in ipso constant (1) ». E anche dice di Cristo medesimo: « portansque omnia verbo virtutis suae (2) », appunto perchè, essendo in lui create e radicate le cose, conseguentemente le porta, cioè le conserva nell' essere loro; ed aggiunge che le porta colla parola della sua virtù, per indicare che anch' egli il Verbo è creatore, e non è solamente quello nel quale le cose sono fatte, ma quello altresì che le fa unitamente al Padre ed allo Spirito Santo. Laonde, essendo le cose create nel Verbo, si avvera appieno quello che in altra circostanza dice S. Paolo di Dio, che « in ipso vivimus, et movemur et sumus (3) », nel qual luogo si dice che noi stessi viviamo, noi stessi ci moviamo, noi stessi siamo, con che viene indicata l' esistenza a noi relativa e dirò così esterna, ma nello stesso tempo dice che viviamo, ci moviamo e siamo in Dio, perchè nel Verbo siamo creati, benchè di questa connessione nostra col Verbo noi non siamo consapevoli e però non formi parte dell' esistenza nostra propria finita. Noi siamo dunque relativamente a noi stessi ed alla nostra consapevolezza fuori del Verbo, relativamente poi a Dio ed alla sua azione creante nel Verbo. E poichè noi esprime una relazione soggettiva a noi stessi, assolutamente parlando è vero che noi siamo fuori del Verbo; ma se il noi esprimente il soggetto nostro si prende oggettivamente, in tal caso è vero che noi soggetto, come oggetto reale, siamo nel Verbo. Noi dunque in senso composto siamo fuori del Verbo, in senso diviso siamo nel Verbo. E quindi in questo senso il Verbo è quella materia invisa da cui dice il libro della Sapienza che furono create le cose tutte dell' universo: [...OMISSIS...] ; in questo senso il Verbo è quello in cui sono contenute quelle cose invisibili, da cui, secondo S. Paolo gran dottore anche nell' Ebraismo, furono cavate le visibili: [...OMISSIS...] . Nel Verbo adunque, che è l' oggetto sussistente, furono fatte le cose come oggetti sussistenti, non solo ideali. Ma perciocchè queste cose relativamente a sè hanno una soggettività, perciò nella loro esistenza propria, che è quella di esistere come soggetti, o nei soggetti, esse stanno fuori del Verbo, e non sono il Verbo, e non si mescolano punto col Verbo, il quale è assolutamente. Onde S. Giovanni nell' Apocalisse, per indicare questa doppia esistenza delle cose contingenti, adopera due parole: una erant, la quale si riferisce alla loro sussistenza nel Verbo, dove Dio vedendole e volendole le fece essere; l' altra creata sunt, la quale si riferisce alla sussisistenza loro propria e soggettiva fuori al tutto del Verbo (3). Che la creazione dell' Universo sia stata fatta nel Verbo è una verità che fu annunziata in un modo iniziale e negativo fino al cominciamento della rivelazione. Il Verbo, secondo l' interpretazione di molti Padri, fu annunciato come principio delle cose già nelle prime parole del Genesi: « « Nel principio creò Iddio il cielo e la terra » ». E veramente Gesù Cristo disse espressamente d' esser egli il principio, giacchè domandandogli gli Ebrei: « « Tu chi sei? » », egli rispose: « « Il principio che anco parlo a voi »(1) ». Il che è ripetuto da S. Giovanni nell' Apocalisse dove chiama Gesù Cristo: « testis fidelis et verus qui est principium creaturae Dei (2) » nel qual luogo il testis fidelis et verus si riferisce più al Verbo come oggetto, cioè come quello che fa conoscere, e il principium creaturae Dei, più al Verbo come sussistente ed efficace operatore. Se non che le due proprietà non sono divise ma unite, giacchè dicendosi testis fidelis et verus non si rappresenta il Verbo solamente come oggetto per sè noto, e lume in astratto, ma come oggetto personale ed illuminatore, con che viene indicato l' esser egli oggetto persona, e dicendosi principium creaturae Dei non si esprime solo un' attività operante, perciocchè il Verbo è principio delle creature tanto come oggetto, quanto come sussistenza, onde quell' appellazione esprime una sussistenza7oggetto. La sentenza del Genesi consuona con quella del Salmo: « Tu in principio Domine, terram fundasti (3) », e da Origene è commentata in questo modo: « Quod est omnium principium, nisi Dominus noster et Salvator omnium Christus Jesus primogenitus omnis creaturae? In hoc ergo principio suo, hoc est in Verbo suo, Deus coelum et terram fecit (4) ». S. Basilio pure interpreta allo stesso modo la parola del Genesi, e chiama il Verbo « artifex (5) ». Medesimamente S. Ambrogio: « In hoc ergo principio, id est in Christo, fecit Deus coelum et terram (6) ». A cui consente S. Agostino: « In hoc principio, Deus, fecisti coelum et terram, in Verbo tuo, in Filio tuo, in virtute tua, in sapientia tua, in veritate tua (7) ». E lo stesso S. Girolamo, nel libro delle tradizioni ebraiche sul Genesi, scrive: « In capite libri scriptum est de me, id est in principio Geneseos (.) ». S. Tommaso d' Aquino ragiona sottilmente di tutti i significati che può ricevere la parola principio . Perocchè questa parola, di natura sua, ha una significazione indeterminata e generica, la quale dal contesto si determina variamente. « « Poichè, importando la parola principio un cert' ordine ad altre cose, egli è uopo che si rinvenga un principio in tutte quelle cose, nelle quali vi è un ordine »(4) ». Quindi vi è un principio della quantità, come il principio de' numeri, il principio dell' estensione, il principio del tempo, ecc.: vi è un principio nella scienza e nelle discipline, vi ha un principio nella produzione e durazione delle cose contingenti. Conviene adunque vedere come al Verbo convenga l' appellazione di principio . A lui conviene quest' appellazione nel modo più assoluto, tanto nell' ordine ideale quanto nell' ordine reale, tanto nell' ordine della scienza quanto in quello della produzione e della durazione delle cose create. Nell' ordine della scienza gli conviene nel modo più assoluto, perchè egli è l' essere per sè noto e conseguentemente l' intelligibilità stessa. Quindi egli è principio oggettivo del sapere a tutte le intelligenze. E relativamente all' uomo ed alla scienza umana egli è principio oggettivo della scienza umana sia naturale, sia soprannaturale. Della scienza umana naturale egli è il principio remoto ed occulto, perocchè il principio oggettivo della scienza naturale è l' idea dell' essere, la quale, come pura idea che ella è, non è il Verbo, come dichiareremo meglio più sotto, e però viene dal Verbo mostrata alle menti, senza però ch' egli ancora mostri loro se stesso. Nell' ordine poi della scienza soprannaturale, questa ha due quasi parti o modi: poichè ella, o è interna, infusa per grazia mediante una comunicazione immediata del Verbo o de' suoi doni; o è esterna, rivelata, insegnata colle parole e segni esteriori, e questa propriamente è l' espressione e l' analisi della prima. Rispetto adunque alla scienza soprannaturale interna il Verbo è il principio prossimo, come nel tempo di grazia, nel quale si comunica personalmente, o nel tempo antico della legge naturale e scritta, nel quale si comunicava co' suoi doni, non ancora personalmente. Rispetto poi alla scienza rivelata ed analizzata più o meno, secondo che vi s' aggiunge o no il lavoro degli scienziati, anche qui si dee distinguere la scienza dell' antico testamento da quella del nuovo: ed è da dire che rispetto alla scienza dell' antico testamento il Verbo è principio, ma remoto, onde l' imperfezione di quella; rispetto poi alla scienza perfetta del nuovo testamento il Verbo è principio immediato. E parlando di questa S. Tommaso distingue due maniere di principii: il principio della scienza cristiana considerata in se stessa, e il principio relativamente al modo nel quale l' apprendono gli uomini. E tanto l' uno che l' altro principio è Cristo, ma in modo diverso: « secundum naturam quidem », dice il Santo Dottore, « in disciplina Christiana, initium et principium sapientiae nostrae est Christus, in quantum est sapientia et Verbum Dei, id est secundum divinitatem. Quoad nos vero, principium est ipse Christus, in quantum Verbum caro factum est, id est secundum ejus incarnationem (1) ». Venendo ora all' ordine della realità, cioè della produzione e della durata delle cose create, S. Tommaso insegna che il Verbo è principio delle cose in due modi, cioè perchè ne contiene la ragione, ossia l' essenza ideale, e perchè effettivamente egli le fa essere sussistenti, « principium est creaturarum (persona Filii) secundum rationem virtutis activae, et per modum sapientiae quae est ratio eorum quae fiunt (2) ». E questi sono appunto i due aspetti, sotto cui noi abbiamo detto doversi considerare il Verbo, come oggetto , e come sussistente persona . I quali due aspetti sono anche indicati in quelle parole che Cristo disse definendo se stesso: « Principium, qui et loquor vobis (3) ». Quasi dicesse io, persona, sono il principio pel quale e nel quale furono fatte tutte le cose, e sono anche il principio della scienza, la quale ora io parlando comunico a voi. Ma io dicevo che l' aver Mosè annunziato il Verbo semplicemente come principio non è ancora un annunziarlo espressamente come persona, appunto perchè la parola principio ha un significato generico e indeterminato, e non tutti i principii sono persone. Il concetto di principio è uno degli elementi che si contengono nell' idea dell' essere, i quali noi anco chiamiamo idee elementari, e l' idea non è ancora il Verbo, benchè possa essere la base di una scienza negativa ed iniziale del Verbo stesso. Medesimamente nelle antiche scritture si legge che Iddio fece ogni cosa « « nella sapienza »(4) », e che « in sermone ejus composita sunt omnia (5) », il che significa certamente che tutte le cose furono fatte nel Verbo. Ma v' è indicato il Verbo con vocaboli generali ed astratti come sono quelli di sapienza e di sermone, i quali non esprimono ancora la personalità del Verbo, perchè si possa indurnela per illazione, quando pur la mente umana abbia tanta saldezza di logico ragionare. Nelle antiche carte non è solo accennato che ogni cosa fu fatta nel Verbo, ma altresì pel Verbo. Già Mosè, lo storico della Creazione, fa che Iddio ordini il cielo e la terra colla sua parola: « « Disse Iddio: sia fatta la luce, e la luce fu fatta »(1) », e così parimenti in tutte l' opere delle sei giornate. Al che alludendo il salmista dice: « Verbo Domini coeli firmati sunt et spiritu oris ejus omnis virtus eorum. Quoniam ipse dixit et facta sunt, ipse mandavit et creata sunt (2) ». Il Crisostomo osserva che S. Giovanni disse più con una sola parola, « omnia per ipsum facta sunt », che non dicesse Mosè con molte (3); perchè Mosè non fece menzione che delle cose sensibili, laddove S. Giovanni abbracciò tutte non meno le sensibili che le insensibili. Il che è vero pigliandosi il racconto di Mosè secondo quello che suonano a noi le sue parole materialmente prese. Ma egli sembra indubitato che presso gli Ebrei la parola cieli significasse anche le cose spirituali di cui i cieli materiali erano l' emblema, il simbolo. Onde le Scritture attribuiscono i cieli a Dio, la terra agli uomini (4), distinguendo gli Ebrei tre cieli: l' uno quel degli uccelli, l' altro quel delle nubi, il terzo quel degli spiriti, e di questo erano come simbolo i precedenti cieli visibili. Onde S. Paolo disse che fu rapito al terzo cielo, che è l' ordine delle cose spirituali ed insensibili (5), dove udì parole arcane che non può l' uomo esprimere, mancando il linguaggio; e S. Pietro, parlando dell' eredità di Cristo, dopo aver detto che è « « conservata ne' cieli » », spiega tosto il suo detto, interpretando la parola cieli coll' altra che soggiunge « in vobis », cioè nelle anime nostre (6); ed innumerabili luoghi della Scrittura provano il medesimo. Laonde, quando Mosè disse: « « Nel principio Iddio creò i cieli [...OMISSIS...] e la terra » », venne a dire universalmente: Iddio creò le cose spirituali e le corporee, ovvero: Iddio creò le cose che appartengono al cielo, l' universo angelico, e quelle che appartengono alla terra, l' universo umano, tutte così abbracciandole; e indi lasciando i cieli angelici, s' estende a narrare come fu ordinata la terra, cioè l' universo dell' uomo, dove compariscono di nuovo i cieli visibili come parte dell' universo della terra, cioè dell' uomo. Mosè dunque prima narrò la creazione in generale in quelle parole: « « Nel principio Iddio creò il cielo e la terra » », dove non si fa altra distinzione che quella delle sostanze puramente spirituali, e delle sostanze materiali o materiate; poichè in vero queste non potevano esistere confuse nè pure nella prima creazione informe, come quelle che sono separate d' essenza; di poi narra la seconda creazione, cioè l' ordinamento dell' universo sensibile ed umano. - Ma qui si presenta alla mente una questione. Alla prima creazione delle sostanze non assegna tempo: cominciarono tutte ad essere in un istante, a cui si riferisce il detto della Scrittura: « Qui vivit in aeternum creavit omnia simul (1) »; alla seconda assegna sei distinte epoche. Della prima dice che le sostanze spirituali, e materiali furono create nel principio, cioè nel Verbo ; la seconda espone come fatta mediante la parola, pel Verbo di Dio. La questione dunque che si offerisce al pensiero si è: « perchè la produzione delle sostanze si dica fatta nel Verbo, il loro ordinamento pel Verbo ». Tutto nelle carte ispirate è degno di essere perscrutato, perchè niente è senza cagione. Onde dunque una tale proprietà e distinzione di parlare? Il Verbo, abbiamo detto, ha due proprietà indivisibili: d' essere oggetto7persona, e d' essere persona7oggetto. Come persona, è operante, in quanto è soggetto sussistente, colla stessa sussistenza divina comune alle tre persone; come oggetto, è per sè intelligibile, e l' intelligibilità contiene la ragione e la forma ideale delle cose. Ora nelle cose contingenti la sussistenza è fuori dell' idea, ossia fuori della loro essenza ideale: perciò l' essenza delle cose nell' idea non contiene la sussistenza. La sussistenza dunque delle cose contingenti non può passare dal non essere all' essere se non per un' azione creante, per la volontà creante, senza che l' idea ancora le prescriva la forma, o l' ordine che dee avere. All' incontro, quando si tratta di determinare la forma e l' ordine della sussistenza, allora conviene ricorrere all' idea che la contiene come la parte oggettivamente conoscibile della cosa, noi diremo brevemente come intuibile. Egli è vero che non può stare la sussistenza limitata senza una determinazione, una forma, un ordine; ma ciò non toglie che le due cose non si possano distinguere col pensiero astraente, come due aspetti della stessa cosa. E le distinse Cirillo Alessandrino, che rispondendo agli Ariani, i quali dicevano che il Verbo avesse imparato l' arte di creare dal Padre, fra le altre cose disse che il creare non è proprio dell' arte, ma della potenza. Perocchè l' arte s' adopera nell' ordinare e conformare la materia preesistente, ma il creare propriamente è un fare che la stessa materia esista (1). Ora l' arte appartiene all' intelletto in quanto ne contiene le regole, i tipi; laddove la potenza appartiene alla sussistenza. Nondimeno altro è il mutare la forma e l' ordine che già deve avere una materia preesistente, e questo non appartiene al creare; altro è il dare quelle prime forme e quel qualunque ordine alla sostanza, senza il quale nessuna materia, nessuna sostanza potrebbe esistere, e questo appartiene alla creazione, perchè si tratta di quelle forme che vengono concreate colla materia o colla sostanza delle cose; e di queste parla Mosè. Se dunque la mera sussistenza non ha idea, non è determinata da alcuna essenza ideale, da alcun oggetto intuibile, ma dal solo sentimento, procede di conseguente ch' ella non viene prodotta sul tipo di alcuna idea, non ha tipo; non è dunque per l' idea che esiste, ma è prodotta immediatamente dall' agente. All' incontro ogni altra qualità, eccetto la sussistenza, ogni ordine, determinazione od ordine della sussistenza, ha un modo ideale di essere, è nell' idea compresa; quindi l' artefice ricorre all' idea per formarla, e così si dice che la forma per «l' idea (2) ». La sussistenza adunque, ogni sussistenza si riduce al Verbo come a principio, in quanto il Verbo è sussistente, persona sussistente ed operante; all' incontro ogni forma delle cose risplendente nell' idea si riduce al Verbo come a principio in quanto il Verbo è oggetto, cioè per sè noto, per sè intuibile. Iddio dunque creò la sussistenza delle cose contingenti nel Verbo immediatamente, come sussistente; creò poi la forma e l' ordine della sussistenza pel Verbo, come oggetto, che racchiude ogni regola, ogni tipo, ogni forma, ogni ordine, sul quale come sopra esemplare le sussistenze possano venire ordinate. Onde apparisce che quando si tratta d' esprimere la creazione formata è maggior proprietà di parlare il dire che fu fatta pel Verbo, come lo scultore fa la statua pel suo concetto. Onde sembra potersi concludere che dicendosi le cose tutte fatte pel Verbo, si viene a dire di più che dicendosi fatte nel Verbo, perocchè quest' ultima maniera potrebbe restringersi a significare la creazione informe e sostanziale, laddove la prima dice la creazione formata e compiuta, come quando si legge: « qui fecisti omnia verbo tuo, et sapientia tua constituisti hominem (3) », ovvero quando il Salmista dice: « Verbo Domini coeli firmati sunt et spiritu oris ejus omnis virtus eorum. Ipse dixit et facta sunt; ipse mandavit et creata sunt (4) », dove si parla di tutta la creazione, tanto della parte materiale e sostanziale, quanto della parte formale e accidentale, perocchè questa non sta senza quella, di cui è il compimento. E però quantunque S. Giovanni, dicendo: « « Omnia per ipsum facta sunt » », venga ad abbracciare ogni cosa creata ed ogni modo e forma della medesima, tuttavia Origene, o un altro autore, osserva che non istette a ciò contento, ma che nelle parole che soggiunse: « « e senza di lui non fu fatta nè pure una cosa » », secondo la forza della parola greca «choris autu», ci venne a dire altresì che tutte le cose sono fatte nel Verbo. La quale interpretazione essendo lodata da S. Tommaso, qui la recherò colle stesse parole dell' Angelico: [...OMISSIS...] . Laonde S. Giovanni colle parole che dichiariamo espone ad un tempo che tutte le cose sono fatte e conservate pel Verbo e nel Verbo. Il Verbo adunque concorre alla creazione in due modi: concorre a produrre la materia e in generale la sussistenza delle cose, come potenza ossia come sussistenza divina; e concorre a produrre la forma, e in generale l' ordinamento delle cose come arte, cioè come oggetto che fa conoscere l' ordine dell' essere, ossia l' essere nel suo intrinseco ordine. In quanto vi concorre come sussistenza divina, egli non è un agente minore del Padre, come deliravano gli Ariani (1), ma uguale al Padre, come quello che ha l' identica sussistenza, e però l' identica virtù del Padre. Perocchè, dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] . Nè può addursi in contrario la decisione del Concilio di Sirmio, il quale, interpretando quelle parole: « Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram (3) », le intende come dette dal Padre al Figliuolo, e que' Padri dissero di conseguente che nella creazione delle cose « « Filium obsecutum fuisse Patri »(4) », e colpiscono d' anatema chi dicesse altramente. Perocchè era lontanissimo dalla mente di quel Concilio il sottoporre al Padre il Figlio o farlo di lui inferiore: chè anzi la decisione era pronunciata contro gli Ariani. E nel vero quel luogo del Genesi è atto a confutare gli Ariani, al quale intento l' adoperò Cirillo d' Alessandria, osservando che le parole: « « Facciamo l' uomo » » non sono d' un superiore che comanda, ma d' un uguale che parla ad un uguale. Perocchè, se avesse parlato comandando, avrebbe detto « Fate », e non « « Facciamo »(5) ». Oltredichè quelle parole si possono altresì interpretare di tutte e tre le divine persone, che a una sola voce, prendendo il consiglio di far l' uomo, dicono: « « Facciamo l' uomo » », dove non v' ha distinzione dall' una all' altra nell' opera che stanno per intraprendere, giacchè tutte e tre si eccitano a far l' uomo: nol fa una sola, il fanno tutte e tre; non vi coopera più l' una che l' altra, tutte egualmente: « « facciamo l' uomo » »; il fanno ad una sola immagine e similitudine, « ad similitudinem nostram », indicando così che una è la natura di tutte e tre, se tutt' e tre danno una sola immagine e similitudine. In qual senso adunque si debbano intendere le parole del citato Concilio, che dicono il Figliuolo nella creazione avere assecondato il Padre? Non altro se non avere avuto dal Padre colla natura la virtù creatrice, e però creare colla natura e colla virtù ricevuta dal Padre, e identica a quella del Padre. Onde, secondo alcuni scrittori (1), si può concepire una cotale officiosità fra le divine persone, che non le rende punto l' una all' altra inferiore, e che si riducono alle stesse relazioni per le quali sono persone distinte. Così il Figliuolo conosce d' aver ricevuto dal Padre ogni cosa, e lo Spirito Santo dal Padre e dal Figliuolo. Il Padre conosce d' aver dato ogni cosa al Figliuolo ed allo Spirito Santo pel Figliuolo, ed ama se stesso nelle altre persone. Ora il riconoscere d' avere ogni cosa dal Padre è nel Figliuolo un cotal atto di giustizia e di gratitudine (se così si può dire); e il riconoscere d' avere ogni cosa dal Padre e dal Figliuolo è un cotal atto di gratitudine nello Spirito Santo. Ma più veramente e più propriamente si dee dire, che tali offici scambievoli fra le divine persone si contengono nello stesso Spirito Santo, che è la sussistenza divina per sè amata; e quindi altro non vi è nella Triade eccetto le persone; benchè niente vieti che come nel Verbo, secondo la limitata nostra intelligenza, distinguiamo più proprietà, che però altro in sè non sono che la stessa semplicissima persona del Figliuolo; così nello Spirito Santo distinguiamo più uffici morali, non distinti realmente fra loro, anzi costituenti la sola semplicissima persona dello Spirito Santo in un modo superiore alla nostra intelligenza. Ma dobbiamo altresì considerare il secondo modo nel quale il Verbo concorre alla creazione, cioè dobbiamo considerare il Verbo, secondo l' espressione di S. Agostino, come Arte, e noi diremo come oggetto assoluto ed infinito. A questo modo si riferiscono le parole di S. Tommaso di sopra da noi riferite, e che qui porremo di nuovo sotto gli occhi del lettore. « « Ora se si considerano rettamente » », dice l' Angelico nel suo commentario, « « le parole predette: Tutte le cose sono fatte per esso , apparisce con evidenza che l' Evangelista favellò propriissimamente. Perocchè chi fa qualche cosa, conviene che prima la concepisca nella sua sapienza che è la forma e la ragione della cosa che si fa, siccome la forma nella mente dell' artefice è la ragione dell' arca che sta per fare. Così adunque Iddio non fa nulla se non pel concetto del suo intelletto, il qual concetto è la sapienza concepita ab eterno, cioè il Verbo di Dio, e il Figliuolo di Dio; e però è impossibile che egli faccia qualche cosa se non pel Figlio. Il perchè S. Agostino (1) dice che il Verbo è l' Arte piena di tutte le ragioni viventi, e così apparisce che tutte le cose che fa il Padre, le fa per esso » ». Ora, le ragioni, le forme, i concetti delle cose non racchiudono, come tali, la sussistenza delle cose contingenti, e però essi non somministrano la sussistenza delle cose da crearsi, ma ne determinano le forme, i limiti, l' ordine, e tutto ciò che cade nelle cose, eccetto la materia e sussistenza. Quindi questo modo di creare riguarda la creazione formale ed ordinativa, alla quale il Verbo presta l' esemplare al Padre. Conviene ben ritenere che queste due maniere di creazione, che troviamo distinte nella narrazione mosaica, non sono separate nel fatto, perocchè, come abbiamo detto, la sussistenza delle cose contingenti non può attuarsi senza qualche forma, senza limite ed ordine: onde l' atto della creazione è un solo. Ma ciò non toglie che la mente nostra distingua con verità in essa due effetti contemporanei e legati indivisibilmente insieme: quello della sussistenza, e materia; e quello della sua forma. Ora rispetto alla forma il Padre ed il suo Verbo con egual virtù creano, ma non in egual modo (e lo stesso diremo in appresso del Santo Spirito): perocchè essendo detto con proprietà, secondo l' Angelico, che il Verbo è il concetto e l' arte, il Verbo somministra l' esemplare, e il Padre crea, guardando in questo esemplare. Nello stesso tempo è da dire, che inabitando e circuminsedendo il Verbo nel Padre, il Padre ha in sè il Verbo, cioè la sussistenza per sè nota, e però il Padre niente mutua dal Verbo in modo che non l' abbia in se medesimo; e però ha in se medesimo anche l' esemplare delle cose medesime, perchè ha in sè il Verbo, giacchè le persone sono indivisibili, benchè, come persone, realmente distinte; di maniera che è un solo Dio sussistente in tre persone, e se non sussistesse in tre persone non sarebbe Dio. Onde, se il Padre, il Verbo, e lo Spirito Santo si separassero al tutto fra loro, cesserebbero d' essere Dio, non essendovi un Dio Padre separato da un Dio Verbo, nè un Dio Verbo separato da un Dio Spirito Santo, nel qual caso sarebbero tre Iddii, il che è assurdo. Nella creazione adunque della materia o della sussistenza tutte e tre le persone concorrono con una identica virtù e nello stesso modo: perchè questa creazione è dovuta alla sussistenza o natura divina comune a tutte e tre le persone, e perciò si attribuisce al Padre come quello che è sussistenza divina in quanto la comunica al Figliuolo, unitamente col quale la comunica allo Spirito Santo. Nella creazione poi della forma, tutte e tre concorrono con una uguale virtù a realizzarla, ma non nello stesso modo a determinarla, perchè è il Verbo quello che ne contiene il concetto, l' esemplare. Finalmente nel fine, nella perfezione soprannaturale dell' universo, che è la santità, tutte e tre le persone concorrono con una eguale virtù, ma non nello stesso modo, perocchè lo Spirito Santo, che è l' essere per sè amato, comunica l' amore soprannaturale agli uomini. Quindi si manifesta la ragione perchè nell' Universo creato e nelle sue vicissitudini si scorga non solo la onnipotenza di un Dio uno, ma ben anco i vestigi di un Dio uno e trino, un ectipon dell' augustissima Trinità. Ma giova che noi torniamo su quello che abbiamo detto della doppia esistenza delle cose: nel Verbo divino, in cui esistono oggettivamente; e in se stesse, a cui esistono soggettivamente. Questa doppia esistenza spiega come l' atto creativo sia eterno e ab eterno fecondo, e come nello stesso tempo le cose esistano nel tempo. Le cose create esistono nel Verbo fino dall' eternità, nella quale è emesso l' atto creativo; ma esistono nel tempo in se stesse fuori del Verbo. Perocchè il tempo è una relazione subbiettiva delle cose fra loro, e però egli è concreato alle cose, e nel Verbo non cade che come oggetto, non come al tempo soggiacesse lo stesso soggetto Verbo. Dell' eternità dell' atto creativo S. Agostino scrive [...OMISSIS...] . E il venerabile Beda, il quale legge, Quod factum est in ipso vita erat, intendendo quell' in ipso per in ipso Verbo, reca la stessa dottrina in queste parole: [...OMISSIS...] . E qui si vede altresì come a Dio sono presenti tutti i tempi e tutte le cose, « et vocat ea quae non sunt tanquam ea quae sunt (3) »: poichè nel Verbo divino sono ab eterno tutte le cose che egli crea, eziandio che non sieno ancora a se stesse; sono nel loro fondamento che è il Verbo, secondo l' espressione di S. Agostino: qui s' intende come abbia luogo senza alcuna ripugnanza la previsione e la predestinazione divina. Dopo avere parlato della creazione in generale e aver detto che tutte le cose furono fatte pel Verbo e niente fuori del Verbo, l' Evangelista discende a parlare in ispecie degli uomini, per salute dei quali egli scrive l' Evangelio, e a dimostrare che cosa il Verbo ebbe fatto per essi, o piuttosto che cosa è il Verbo per essi. Dichiara adunque colle indicate parole qual sia l' intima costituzione della creatura intelligente umana fatta pel Verbo. E comincia a farci considerare che « « nel Verbo vi è vita » », che non si tratta d' un verbo morto, ma di un Dio vivo, anzi di un Dio7vita, e che egli è « « luce » », non trattandosi d' una vita puramente sensibile, ma d' una vita intellettiva: e finalmente dice, che la vita che è nel Verbo è luce agli uomini, dimostrando così come gli uomini sono costituiti esseri intelligenti pel Verbo. Le due parole vita e luce si riferiscono appunto a que' due aspetti sotto i quali noi abbiamo detto doversi considerare il Verbo divino. Perocchè la vita si riferisce al Verbo in quanto è sussistenza, e la luce si riferisce al Verbo in quanto è oggetto, termine dell' intelletto vivente. Ma, nello stesso tempo che S. Giovanni accenna questi due aspetti del Verbo divino, mostra altresì la loro indivisibilità, perocchè dice che la stessa vita del Verbo è la luce degli uomini, nè potrebbe esser luce agli uomini se non fosse per sè luce; solo essendo luce per sè ed a sè, egli poteva esser luce agli altri, e non solo agli uomini, ma ben anco a tutte le intelligenze create; benchè l' Evangelista non faccia menzione che degli uomini, come di quelli a cui il suo Vangelo era ordinato. E qui deve osservarsi che nella generazione del Verbo la vita e la luce tengono un altro ordine da quello che hanno nella creazione e formazione dell' uomo. Perocchè la generazione si fa per un pronunciamento intellettivo del Padre, col quale il Padre pronuncia la propria sussistenza, e così questa diviene oggetto ossia luce. Ma questo pronunciamento essendo pienissimo e completissimo, ha virtù di fare che l' oggetto pronunciato sussista come soggetto ossia persona, e l' oggetto vivente e sussistente è appunto il Verbo: di che il detto pronunciamento si chiama generazione, perchè fa sussistere una persona che ha la stessa sussistenza della pronunciante e generante. Laonde nell' eterna generazione vi ha quest' ordine logico, secondo il nostro modo di vedere, che prima e immediatamente sia l' oggetto ossia la luce, poi quell' oggetto ossia luce sussista come vita, cioè come persona per sè vivente. All' incontro nella creazione e formazione dell' uomo, questo riceve prima (sempre parlandosi d' ordine logico e non cronologico) la vita, e poi l' oggetto ossia la luce che lo renda intelligente, « quia lux non nisi viventi attribui potest », come dice l' Angelico (1). L' oggetto adunque vivente è la persona del Verbo. Dove è da considerare che la parola vita esprime quell' atto in un modo oggettivo, laddove se l' Evangelista avesse detto semplicemente il Verbo vivente, avrebbe espresso il vivere in un modo solamente soggettivo. Il Verbo dunque ha vita, prendendo questa parola come oggetto, come essenza, come essenza vivente; di maniera che il soggetto vivente è l' oggetto vita, o l' essenza vita in lui dimorante; o anche, viceversa, la vita come essenza, come oggetto, è soggetto vivente. Se l' oggetto fosse rimasto solo oggetto, egli non sarebbe stato più che un' idea; ma ricevendo la vita, la stessa vita essenziale a Dio, divenne persona, la persona del Verbo. Quindi egli stesso dichiarò il modo della propria generazione eterna quando disse: « « Siccome il Padre ha vita in se stesso, così diede anche al Figliuolo avere vita in se stesso »(1) ». E dice « in se stesso »pronome personale, quasi venga a dire nella propria persona, indicando così che la persona non è divisa dalla vita, ma questa vita è nella persona stessa. Ma perchè l' Evangelista dice, che « « nel Verbo era vita » », e non dice piuttosto, che il Verbo stesso era vita? Conviene ben considerare, che la parola vita esprime un modo di essere astrattamente, secondo il nostro parlare umano, da cui viene il significato di quella parola, di maniera che la parola vita non indica per sè alcun soggetto, alcuna persona. Ritenendo adunque la proprietà del parlare, non si poteva dire che la vita fosse la persona, ma si doveva dire che la persona avesse la vita in se stessa, o che la vita fosse nella persona. In fatti la vita esprime una proprietà comune di tutti i soggetti, i quali tutti appunto perchè soggetti hanno vita; ma per sè la parola vita non esprime più un soggetto che l' altro, anzi nessun soggetto, come dicevamo, ma una proprietà o condizione del soggetto. Non già che nel Verbo vi abbia distinzione reale fra la sua vita e la sua persona, ma noi siamo obbligati a porre una distinzione di concetto fra queste due cose, atteso l' imperfezione del nostro parlare astratto, nel quale la mente divide delle cose che sono in natura unite. Nè vale il dire che Cristo disse anco: « « io sono la via, la verità e la vita »(2) »; perocchè in questo luogo non dice di essere la vita in se stesso, ma relativamente agli uomini, pei quali è anche la via di pervenire al loro beato fine, contenendo in sè tutta la legge morale, che è appunto la via che conduce alla beatitudine. Il che si vede dal contesto, perocchè risponde a Tommaso, che gli avea dimandato: « « Signore, non sappiamo dove tu vai; e come possiamo sapere la via? » », e dopo aver detto: « « Io sono la via, e la verità e la vita » », soggiunge: « « Niuno viene al Padre se non per me »(3) ». E nel testo greco in queste parole vi ha l' articolo premesso alla parola vita «e zoe», laddove nelle parole di S. Giovanni: « « in esso era vita » » manca l' articolo «en auto zoe»; il che indica che nel primo luogo si parla d' una vita determinata, cioè di quella degli uomini, laddove in questo si dice semplicemente che il Verbo non è per avventura cosa morta, ma avente la vita. E non dicendosi che « nel Verbo era la vita »ma che « « nel Verbo era vita » », non v' ha pericolo che s' intenda forse ch' egli solo il Verbo possieda la vita, e non il Padre o lo Spirito Santo. Perocchè, dicendosi che nel Verbo era vita, niente impedisce che sia vita anche nell' altre due persone, onde l' omissione dell' articolo sembra meglio indicare la comunione della vita, che hanno le tre persone augustissime. E così ogni qual volta le Scritture parlano della vita che il Verbo ha in se stesso, e non rispetto a noi, omettono l' articolo, come nel testo citato di sopra [...OMISSIS...] ; e quando parlano della vita rispetto a noi, lo pongono, come: « « Io sono la risurrezione e la vita »(2) ». Dicendo dunque l' Evangelista che nel Verbo era vita, viene a dire che il Verbo di Dio non è, come il verbo dell' uomo, sterile e non sussistente in se stesso, un atto, un accidente dell' uomo stesso; ma che il Verbo stesso aveva in sè vita, ossia viva sussistenza. Di che poi avveniva ch' egli, avendo in sè vita, potesse comunicare della sua vita anche a noi. Ma prima di passare a vedere come il Verbo sia vita a noi, conviene che meditiamo più addentro, come in lui sia vita. Che cosa è la vita? - La vita è il sentimento: dove non vi ha sentimento di sorte alcuna non vi ha vita. Pure, quando il sentimento è prodotto, anche l' incessante produzione del sentimento si chiama vita, e allora si distingue la vita dal sentimento; ma anco presa la vita in questa significazione, il significato d' una tale parola ha una relazione essenziale col sentimento, sicchè può dirsi che il sentimento sia la vita in atto, e la sua produzione la vita in potenza. Laonde abusivamente si dice che le piante vivono, qualora non si voglia attribuir loro qualche sentimento. Ma gli uomini, non solendo attribuire alle piante sentimento, attribuiscono loro nondimeno la vita per un' analogia con ciò che osservano avvenire negli animali, ne' quali la vegetazione è riproduttiva del sentimento, e però dicesi vita. Ora nelle piante vi ha pure vegetazione, e per questo si suol dire che vivano, benchè quella vegetazione, nella opinione comune, non produca nelle piante alcun sentimento. Ma fra ciò che sente e ciò che non sente vi ha differenza specifica, e però la parola vita applicata alle piante ha un significato specificamente diverso dalla parola vita applicata agli animali; quella della pura vegetazione, che non va a finire in alcun sentimento; è vita in senso analogico e traslato, non è vita in senso proprio, non è vera vita. La vita dunque in senso proprio e completo è il sentimento. Ora è da osservare che la vita, cioè il sentimento, viene all' uomo dal di fuori, e non la ha in se stesso. E di vero la vita animale è suscitata dal termine corporeo: l' anima non è che il principio senziente; se non avesse il termine sentito, ella nè sentirebbe, nè sarebbe principio d' alcun sentimento, nè per conseguente sarebbe. Dunque l' uomo non ha la vita in se stesso. Anche nell' ordine intellettuale vi ha un sentimento, e però una vita. Ma se si considera l' uomo come essere intellettivo, e come egli è costruito tale, primieramente si scuopre ch' egli non potrebbe ricevere l' intelligenza se non avesse prima la vita animale, quia lux nonnisi viventi attribui potest; in secondo luogo anche l' intelligenza egli la riceve dal di fuori, cioè dall' essere ideale, che gli sta presente come oggetto che lo informa, e così lo rende intelligente. Onde l' uomo, la persona umana, non ha neppur la vita intellettiva in se stessa, ma le viene comunicata da qualche cosa che non è lei, e che a lei manifestandosi si costituisce sua forma. Non è così del Verbo divino, dice S. Giovanni, perocchè « « in esso medesimo è vita » ». Poichè « « siccome il Padre ha in se stesso vita, così egli diede anche al Figliuolo avere vita in se stesso » ». Nella persona del Verbo dunque è vita, è sentimento: non si può distinguere in tal persona il principio dal termine della vita: questo termine non vien dato al principio vivente dal di fuori, non è cosa di natura diversa e straniera al principio vivente; ma la vita, il sentimento è nello stesso principio vivente. Consegue da questo che alla persona del Verbo la vita è essenziale, come a quella del Padre e dello Spirito Santo. Di che si scorge che una tal persona è immortale ed eterna, perchè niente può sottrarle la vita e così distruggerla. All' uomo può esser sottratto il termine del sentimento animale, e così può perdere la vita; all' anima separata può esser sottratto l' essere ideale, suo oggetto informante, da quella stessa potenza che glielo dà, e così verrebbe annichilata, perchè non esisterebbe più un principio intelligente. Ma se l' anima non avesse bisogno della materia e dell' idea dell' essere per vivere della sua doppia vita sensibile e intelligibile, essa non potrebbe nè morire, nè essere annichilata, perchè sarebbe assoluta signora della sua propria vita. Ora S. Giovanni ci dice, che questo appunto accade del Verbo, dicendoci che in esso stesso è vita, e che perciò non ha una vita mutuale, o dipendente da qualche cosa di straniero a se stesso. La vita dunque è nella stessa persona del Verbo, non le viene data da un termine d' altra natura di essa, e però ad essa straniera come nell' uomo, in cui per conseguente la persona è distinta realmente dalla natura. Da ciò consegue che la vita del Verbo dee essere una vita illimitata altresì, infinita, pienissima. Perocchè in tutti quei soggetti ai quali viene costituita da termini di natura distinta da essi, e sono tutti affatto i soggetti creati, onde accade che la vita sia limitata? La limitazione della loro vita viene dalla limitazione del loro termine vitale, il quale non dipende da essi, ma essi lo ricevono quale loro vien dato. Ma nella persona divina questo termine non è fuori di lei, non è d' una natura da lei distinta o separata, non vi ha una potenza straniera che glielo dia, e in dandoglielo possa limitarlo: non vi ha dunque alcuna cagione di limitazione, come nelle persone, o più generalmente ne' soggetti creati. Nel Verbo dunque vi ha vita senza possibilità di limitazione, vita pura, quindi vita infinita senza gradazione, tutto ciò che può esprimere la parola vita, l' essenza della vita realizzata ed ultimata. Lo stesso si raccoglie quando si considera quello che di sopra ha detto l' Evangelista che « « il Verbo era Dio » »: se dunque egli è Dio, deve avere una vita infinita: se è Dio, e la vita è nel Verbo, conviene che la vita del Verbo sia in Dio, e perocchè in Dio non v' ha nulla di finito, conviene che la vita non sia finita; perciocchè in Dio non v' ha nulla che non sia Dio, conviene che la vita stessa del Verbo sia Dio, sia la divina natura e sussistenza. Questa natura dunque, questa sussistenza divina è vita, è sentimento: infinito sentimento, che accoglie tuttociò a cui può estendersi il significato di questa parola. E che la vita, che è nel Verbo, sia la stessa sussistenza divina che il Padre comunica al Figliuolo in generandolo, scorgesi in quelle parole: « « Siccome il Padre ha vita in se stesso, così diede anche al Figliuolo avere vita in se stesso » ». Parlasi dunque d' una vita comune al Padre ed al Figliuolo, o piuttosto parlasi di vita puramente. Ora vita esprime un' unica essenza: l' essenza è unica e non più, benchè molti possano essere i soggetti che variamente partecipano della realizzazione d' un' essenza. Se dunque la vita, come essenza (qual viene espressa nell' idea della vita), è semplice ed una, e se in Dio l' essenza stessa è realizzata: dunque convien dire che la vita che è nel Figliuolo non possa essere altra se non quella stessa numericamente che è nel Padre, la quale è la stessa sussistenza o natura divina. Ma, come dicevamo innanzi, le specie della vita che si ravvisano nelle creature sono diverse, e ciascuna ha i suoi gradi. Se dunque consideriamo la vita nell' uomo, preso semplicemente nell' ordine naturale, noi troviamo in lui tre specie di vita. Perocchè troviamo primieramente la vita animale, che consiste nel sentimento animale, che dà vita al principio senziente. Questa vita è unicamente soggettiva, perocchè non ha alcun oggetto nel quale si compiaccia, giacchè l' oggetto è il termine del solo intendimento. In secondo luogo vi ha la vita intellettiva o razionale, che consiste nel sentimento intellettivo che nasce al contemplare la verità e la bellezza, o si rinviene nella ricerca e nel possesso della scienza. Questa è vita oggettiva, perchè si compiace dell' oggetto conosciuto; e questa vita nella presente condizione s' innesta sulla prima, giacchè nell' uomo logicamente precede l' animalità, che lo costituisce soggetto, all' intellettualità che lo costituisce persona. Finalmente vi ha la vita morale, la quale consiste nel sentimento morale, cioè nella copia di que' diletti che produce all' uomo la virtù da lui praticata. Ora non potendo noi ragionare di Dio se non secondo l' analogia di ciò che osserviamo in noi, opere sue, dove ha certamente impressi i vestigi di se stesso, dobbiamo anche in Dio riconoscere qualche cosa di analogo alla triplice vita che noi sperimentiamo nella nostra natura. E però anche in Dio dobbiamo riconoscere qualche cosa d' analogo al puro sentimento soggettivo, anteriore logicamente all' oggetto, benchè senz' alcun termine materiale; questo lo chiameremo sentimento semplice perchè non ha oggetto nè termine: qualche cosa d' analogo al sentimento oggettivo che nasce alla contemplazione o veduta dell' oggetto: qualche cosa di analogo al sentimento morale che sorge dalla perfetta consensione del soggetto, come volontà, all' oggetto totale, cioè all' essere completo conosciuto. Ora è da vedersi ciò che in questa triplice vita divina è proprio della divina natura, e però identico a ciascuna delle tre divine persone; come tuttavia per appropriazione si attribuisca piuttosto una che l' altra di queste vite a ciascuna delle divine persone; e finalmente se v' ha qualche cosa di proprio alle singole persone. Il principio senziente ed il sentimento esprimono concetti diversi. Ora egli è fuori di dubbio che appartiene all' essenza divina il triplice sentimento e la triplice vita, di cui abbiam favellato. Per appropriazione poi il sentimento semplice, ossia la vita reale, si può attribuire al Padre; il sentimento intellettivo, ossia la vita intellettiva, al Figliuolo; e il sentimento morale, ossia la vita morale, allo Spirito Santo: e ciò perchè ciascuna persona concorre in una sua propria maniera a porre in atto tali maniere di vita e di sentimento. Perocchè conviene ben considerare che l' essenza divina non è realmente distinta da ciascuna persona, di maniera che ella non sarebbe se non fossero le persone; e non è che nelle persone, e in tutte tre simultaneamente e identica, di guisa che sarebbe assurdo il concepirla in uno o in due, e non nell' altra o nell' altre. Onde, quantunque si dica che le persone concorrono a costituire sotto un qualche rispetto l' essenza vivente, non si vuol con ciò dire che l' essenza dipenda dalle persone, nè le persone dall' essenza, non potendo cadere in Dio dipendenza alcuna; ma solo una priorità e una posteriorità logica, secondo il nostro modo limitato di pensare. Dobbiamo dunque vedere come ciascuna persona divina concorra per sua parte a costituire una delle tre vite da noi distinte nell' Essere divino, e questo concorso è appunto ciò che è proprio e non appropriato alle singole persone. Il sentimento semplice primieramente, ossia la vita reale, si concepisce da noi anteriormente ad ogni oggetto e ad ogni atto intellettivo, e perciò si concepisce anteriormente in ordine logico alla generazione del Verbo, si concepisce come proprio dell' essenza, astrazione fatta dalle persone. Ma questa essenza reale e vivente di semplice sentimento è comunicata ad un' altra persona, cioè al Verbo: e quindi le due persone del Padre e del Figliuolo. Il Padre è l' essenza vivente, in quanto pronunciando se stessa rendesi oggetto, ed oggetto sussistente e personale; e il Figliuolo è l' oggetto stesso, la stessa sussistenza, divenuta oggetto e persona ad un tratto. Supponendo ora quest' oggetto7persona, forz' è che nella stessa essenza divina, e quindi tanto nel Padre quanto nel Figliuolo, esista il sentimento intellettuale cioè un' infinita compiacenza della verità essenziale, e della bellezza essenziale, e della sapienza: perocchè l' oggetto7essere è verità essenziale, e l' ordine intrinseco di questo oggetto7essere è la bellezza essenziale, e la notizia di quest' oggetto è la sapienza essenziale. Dunque, dato quest' oggetto, cioè generato qual persona dal Padre, conviene che tutte e due le persone godano di quest' oggetto e si compiacciano in Lui, il che costituisce l' infinito sentimento intellettuale; e che questo sentimento identico, in quanto appartiene al Padre abbia il suo oggetto nel Figliuolo, e in quanto appartiene alla persona del Figliuolo abbia il suo oggetto in se stesso; di maniera che questo sentimento è appropriato al Figliuolo, perchè è proprio del Figliuolo il somministrarne l' oggetto od il termine il quale è egli medesimo. Il sentimento intellettivo è una contemplazione gaudiosa della verità, della bellezza, della sapienza, e suppone un oggetto; onde si dice sentimento oggettivo. Nell' uomo vi ha una contemplazione puramente teorica, perchè la verità, la bellezza, la sapienza si manifestano a lui come oggetti puri, cioè idealmente. Ma l' oggetto del sentimento intellettuale divino non è puro oggetto, è nello stesso tempo personal sussistenza. Quindi in Dio non si può dare un sentimento puramente teoretico, ma dee essere anche pratico, cioè di volontaria adesione, e compiacente affetto nella persona che è in pari tempo essenzialmente oggetto. Questa sussistenza, come è per sè intelligibile ond' è anco oggetto inteso e persona, così è per sè amabile nella sua intelligibilità, onde è anco per sè amata. Il Padre che pronuncia il Verbo, cioè la sussistenza, e così la genera oggetto7persona, la ama altresì come essenzialmente amabile e così è essenzialmente amata; e questa sussistenza, in quanto è essenzialmente amata, è spirata persona, la qual si dice lo Spirito Santo. Onde l' oggetto7persona, in quant' è amata, colla spirazione del Padre è un' altra persona che sente se stessa nella forma di amata. Così il Padre spira lo Spirito Santo pel Verbo, perocchè nel Verbo ama la sussistenza, dove termina l' atto conoscitivo e generativo; perocchè la sussistenza divina non potrebbe essere amata se il Padre non l' amasse, nè il Padre potrebbe amarla se non la conoscesse e pronunciasse come oggetto7persona Verbo. Ma lo Spirito Santo procede non solo dal Padre pel Verbo, ma anco dal Padre e dal Verbo con una sola spirazione; perocchè è la sussistenza divina comune al Padre ed al Verbo, ed essente nell' uno e nell' altro, che amando se stessa, si rende amata persona. L' amare dunque la sussistenza divina è comune a tutte e tre le divine persone che identica la posseggono, e questa è la santità propria dell' essenza divina e il sentimento morale comune a ciascuna persona. Ma alla persona dello Spirito Santo logicamente precede quell' amare del Padre e del Verbo la sussistenza divina conosciuta; pel quale amore, la sussistenza amata è costituita persona che come tale ama dello stesso amore, perchè gli è comunicata la sussistenza divina intelligente ed amante. E quest' amore efficace pienamente è la spirazione unica comune al Padre ed al Figliuolo, il cui termine è la sussistenza amata come tale, sussistente qual persona. Onde l' amore si appropria allo Spirito Santo, perchè è il termine sussistente soggettivamente di un tale amore, cioè la sussistenza divina per sè nota e per sè amata in conseguenza dell' amore della sussistenza stessa essente identica nel Padre e nel Figliuolo e costituente queste due persone: l' essere dunque sussistenza divina amata è proprio della terza persona, cioè dello Spirito Santo, il quale perciò è anche il termine del sentimento ossia della vita morale di Dio, benchè questo sentimento e questa vita appartenga all' essenza divina, e perciò sia identicamente comune a tutte e tre le divine persone. Dopo aver noi veduto, per quanto ci è dato, quale sia la vita che è nel Verbo, domandiamoci perchè S. Giovanni sia passato a dire che nel Verbo era vita: come ciò si rannodi alla serie della sua narrazione. Questa sentenza si rannoda colle precedenti e colle susseguenti. Colle precedenti, perocchè avendo in esse annunziato il Verbo, cioè la parola di Dio, volle far conoscere l' Evangelista che questa parola non è, come le parole dell' uomo, senza vita propria, ma che è una parola vivente e sussistente, come abbiamo già notato. Si rannoda colle susseguenti, colle quali espone la creazione, l' istituzione e la salute eterna dell' uomo operate dal Verbo: onde stabilisce il fondamento che « « nel Verbo era vita » », perocchè dalla vita essente nel Verbo quelle tre opere si derivano e si compiscono. Nella causa doveva esser prima quello di cui poi partecipa l' effetto, e questo rimane spiegato quando è posta una causa ad esso corrispondente, avente in sè quanto si richiede a produrlo. L' effetto, cioè l' uomo, come essere vivente, razionale, abbellito di grazia, e in fine beatificato, ha la sua spiegazione compiuta nella vita che è nel Verbo, dalla partecipazione della quale, secondo diversi gradi, procedono all' uomo tutte quelle prerogative e tutti que' beni. Ma convien distinguere accuratamente questi gradi di partecipazione della vita del Verbo. Il Crisostomo, Cirillo Alessandrino, Teofilatto ed Eutimio (1) stimano che S. Giovanni dica nel Verbo è vita, per dimostrare che il Verbo conserva e governa le cose, non pure le crea, intendendo per vita quel vigore che il Verbo imprime in tutte le cose, e col quale le conserva e governa. Il dire che nel Verbo era vita esprime, secondo il Crisostomo, che il Verbo non solo potè creare, ma ben anco in lui rimane sempre una vita, quindi una causalità indeficiente, un flusso perpetuo delle cose senza alcun dispendio o diminuzione in lui stesso, nel quale la vita non cessa mai. E poichè la vita che è nel Verbo è pienissima, non solo reale, ma intellettuale e morale altresì; perciò l' Evangelista, secondo il Crisostomo, dicendo che nel Verbo è vita, viene a dire che egli non fa e produce le cose per una cieca necessità di natura, ma per volontà ed intelletto, onde anche sapientemente e santamente le governa. E` però da osservare che quanto a quel vigore onde si conserva in essere la materia non si può chiamar vita, o partecipazione di vita, perocchè la materia, come tale, è priva di vita, perchè è priva d' ogni sentimento. L' esistenza della materia, come suggerisce la filosofia, non è soggettiva, perocchè ella non è principio nè senziente nè intelligente: non è oggettiva, perocchè essa non è oggetto per sè sola e s' intende soltanto nell' oggetto o idea che vi aggiunge la mente. E` puramente un' esistenza terminativa , cioè la sua essenza è di essere termine d' un soggetto sensitivo. Nella materia non si scorge che la mera sussistenza senza relazione a se stessa, ma ad altro, cioè al soggetto sensitivo di cui ella è termine. Laonde S. Tommaso dice: « « Si conserva nelle parole premesse un ordine conveniente. Perocchè nell' ordine naturale delle cose, prima si trova l' essere (la mera sussistenza), e questo da prima insinuò l' Evangelista dicendo: « Nel principio era il Verbo », poi si trova il vivere, e questo è cio che segue: « In esso era vita », in terzo luogo si trova l' intendere, e di conseguente aggiunse questo: « E la vita era la luce degli uomini »(1) ». Così l' Evangelista addita che nel Verbo, fonte delle creature, si trovano causalmente ed eminentemente tutti i gradi di essere che si ravvisano nelle creature effetto di quella causa. I Manichei leggendo questo luogo con un' altra interpunzione da noi rifiutata, cioè: quod factum est in ipso (Verbo), vita erat, ne abusarono per sostenere i loro errori. Questi sono due: Il primo teologico, quello de' due principii, perchè dicevano che non tutte le cose erano fatte pel Verbo, ma quelle che erano fatte pel Verbo (riputando essi un sinonimo perfetto il dire fatte pel Verbo o nel Verbo) erano viventi, spiegando il soprallegato testo così: « era vita, cioè era vivente ciò che era stato fatto nel Verbo », dicendo poi che il niente era l' altra cosa, l' altro principio fatto, ma non dal Verbo, dicendo S. Giovanni che « « il niente era stato fatto senza il Verbo » et sine ipso factum est nihil (2) ». Il secondo filosofico, perocchè questi eretici dicevano che anche le pietre e i minerali tutti erano vita e però vivevano. A' quali due errori se n' aggiunge un terzo, che i Manichei, confondendo la vita sensibile colla vita intellettiva, attribuivano quest' ultima a tutti i viventi. Ora, che il luogo di S. Giovanni, nè pure letto come facevano tali eretici, suffragasse punto nè poco alla loro empia dottrina, apparisce da questo che, giusta il testo interpuntato a lor modo, le cose fatte nel Verbo non sarebbero solamente viventi, ma sarebbero vita, cioè assai più di quel che essi pretendono. Le cose partecipi della vita hanno una vita limitata, secondochè più o meno ne partecipano; ma la vita in se stessa non esprime alcun limite, di che consegue che l' esser vita a Dio solo appartiene, il quale non ha alcun limite nel suo vivere, e non partecipa già della vita, ma è vita egli stesso essenzialmente senza specie, gradi e confini: è la vita sussistente. Se dunque ciò che è creato fosse vita, sarebbe Dio; nè si scorgerebbero i diversi gradi della vita, come si scorgono ne' vari esseri di cui il mondo si compone. Ciò che è creato oltracciò non potrebbe soggiacere alla morte, perchè, essendo la vita, questa non può mai cessare di esser vita e passare ad uno stato di morte, perchè morte e vita si escludono a vicenda. Solamente quello che vien fatto partecipe della vita, ma che non è vita egli stesso, può venirne anco spogliato e morire. E` dunque impossibile che l' Evangelista abbia detto che ciò che è fatto pel Verbo fosse vita, e però niun vantaggio possono cavare i Manichei a favore de' loro errori da questo luogo di S. Giovanni, alla lor foggia interpuntato. Rifacendoci or noi a considerare il vigore che S. Giovanni Crisostomo attribuisce a tutte le cose, pel quale egli in certa maniera le considera come viventi, non però al modo de' Manichei, dobbiamo osservare che la materia, avendo natura e condizione di termine, e come tale essendo cosa inerte, conviene spiegare quell' attività che nondimeno in essa si manifesta. Primieramente ciò che esiste come termine suppone un principio, al quale sia termine e nel quale esista. Il qual principio non può esser altro che sensitivo, perocchè ciò che non sente, non può aver natura di principio, ma sol di termine. Non par dunque alieno dalla dottrina filosofica e teologica il supporre che Iddio ad ogni atomo di materia abbia congiunto un principio sensitivo, di diversa e contraria natura dalla stessa materia, pe' quali principii la materia sussista come termine, e dai quali riceva l' azione ed il movimento che in essa si scorge. Il che è mirabilmente accomodato a spiegare i fatti della natura. Non proverrebbe da questo che gli atomi nella materia fossero animali, giacchè l' animale suppone composizione ed organismo; ma solo che fossero animati. Nè sarebbero perciò intelligenti, perocchè i principii loro non più potrebbero essere che principii sensitivi, il cui sentire limitatissimo non avrebbe altro termine che quello dell' atomo stesso, non quale apparisce al di fuori a' nostri organi sensorii, ma qual sarebbe rispetto ai suoi principii medesimi. Nella qual sentenza, a cui suffragano i progressi delle scienze naturali e delle filosofiche, e che ottimamente si accomoda alla spiegazione dei fenomeni, la sentenza del Crisostomo, che vede nella vita che è nel Verbo quel vigore onde si conservan le cose, verrebbe nobilitata e resa più grave. Perocchè quel Verbo creatore, che in se stesso ha vita, creando le cose avrebbe come ritratto da sè il vigor vitale, e l' effetto meglio risponderebbe alla natura della sua cagione. La vita sensitiva è il sentimento semplice e cieco, perchè non illuminato dalla vista di alcun oggetto. Quindi, ove noi dall' effetto saliamo ad una causa corrispondente, non è necessario che nella causa creatrice di lei ravvisiamo la forma oggettiva. Considerando noi dunque, secondo il nostro modo d' intendere, l' essenza divina con un concetto anteriore logicamente a quello delle persone, la vita sensitiva si attribuisce da noi, come a causa, alla divina essenza, senza considerazione delle persone, e per approssimazione al Padre, nel quale l' essenza divina sussiste come nel principio fontale della Triade Augustissima. Ma se noi veniamo alla vita umana, cioè alla vita razionale, questa suppone una causa che sia oggetto, e però non si può concepire se non aggiungendovi la considerazione del Verbo che è per sè oggetto. E questo viene a dire l' Evangelista colle parole che seguono alle dichiarate sin qui: « « E la vita era la luce degli uomini » », cioè l' oggetto che informa ed illumina il loro spirito e così li rende intelligenti. Se il Sacro Scrittore non avesse avuto per iscopo d' insegnare la creazione ed istituzione degli uomini, egli non avrebbe detto che « « nel Verbo era vita » », poichè avrebbe in tal caso potuto dire egualmente che « era vita nel Padre e nello Spirito Santo », nei quali sussiste l' identica vita che nel Verbo. Ma perchè dunque preferì di dire che « nel Verbo era vita »? Perchè il suo intendimento era di favellare della vita in significato oggettivo, la quale, essendo per sè oggetto, fosse luce alle umane intelligenze, e così dichiarare come vengono costituite le menti umane. Ora la forma oggettiva della vita è propria del Verbo, perchè il Verbo è appunto l' essere come oggetto; benchè la sapienza e l' intelligenza soggettiva, che risulta dall' atto intellettivo che ha nell' oggetto il suo termine, sia comune ed identica in tutte egualmente le tre divine persone, come propria dell' essenza, considerata questa posteriormente alla processione delle persone. Laonde, se si considera lo spirito intelligente come effetto, e da questo si vuol salire a formarsi il concetto della causa, conviene pervenire non più alla semplice essenza di un Dio creatore, ma all' essenza considerata posteriormente (in ordine logico) al Verbo generato; che, essendo per sè oggetto, può solo divenir luce degli spiriti creati, e questi pure possono partecipare dell' essere in forma oggettiva, divenendo così intelligenti. Laonde il termine dell' umana intelligenza, che è l' essere ideale per sè oggetto, è un' appartenenza del Verbo divino, benchè non si possa dire lo stesso Verbo a cagione che l' essere a noi si manifesta come puro oggetto, e non come oggetto persona, quindi come oggetto ideale non sussistente e reale. A questa dottrina, che, relativamente all' uomo e non in sè, distingue le appartenenze del Verbo dal Verbo stesso, fu fatta quest' obbiezione: L' oggetto informante lo spirito umano, che dicesi appartenenza del Verbo, o è creato o increato: se increato, dunque è il Verbo stesso; se creato, egli non può essere un' appartenenza del Verbo, perchè tutto ciò che appartiene al Verbo è increato, non è fatto ma è eterno. Alla quale obbiezione risponde S. Tommaso d' Aquino colla seguente dottrina: « Conviene avvertire che qualche cosa si dice del Figliuolo di Dio secondo sè, come quando lo si dice Dio onnipotente e simiglianti cose. Qualche cosa poi si dice di lui rispettivamente a noi, come quando lo si dice Salvatore e Redentore. Qualche cosa ancora si dice di lui nell' uno e nell' altro modo, come quando lo si dice sapienza e giustificazione. Ora in tutte quelle cose che si dicono del Figliuolo assolutamente e secondo sè, non si dice che egli sia fatto: così non dicesi che il Figliuolo sia fatto Dio o sia fatto onnipotente. Ma in quelle che si dicono di lui per comparazione a noi, ovvero nell' uno e nell' altro modo, si può aggiungervi l' esser fatto, come secondo quel luogo a' Corinti (1): [...OMISSIS...] . Onde, sebbene sia stata sempre in esso la sapienza e la giustizia, tuttavia si può dire, ch' egli di nuovo è stato fatto a noi giustizia e sapienza. Secondo questo adunque Origene esponendo dice, che, quantunque in se stesso sia vita, tuttavia è stato fatto a noi vita, perchè egli ci vivificò giusta quello ai Romani: « Siccome tutti muojono in Adamo, così parimente in Cristo tutti saranno vivificati »(2). E però dice, che il Verbo che è fatto a noi vita, in se stesso era vita, acciocchè un tempo divenisse a noi vita, il perchè tosto soggiunge: « « E la vita era la luce degli uomini »(3) ». Ora posciachè le appartenenze del Verbo, siccome sarebbe la verità che naturalmente a noi risplende, l' essere ideale, sono rispetto a noi tali, quindi si può dire che sieno fatte, o create, o forse meglio concreate con noi, sebbene nel Verbo considerate e quindi rifuse nel Verbo stesso senza distinzione, non sieno fatte, nè create, nè concreate; ma eternamente sussistenti, perchè sono il Verbo stesso, ed hanno perduta la loro condizione di appartenenze del Verbo, dal Verbo distinte; non essendo tali che rispetto a noi. Ma noi dobbiamo vedere come la vita che era nel Verbo sia la luce degli uomini. Primieramente si consideri come la vita nel Verbo abbia forma di oggetto, giacchè il Verbo stesso è l' essere assoluto nella forma di oggetto7persona. Dalla forma di oggetto che prende la vita (e l' essenza di Dio tutta è vita non essendovi nulla in esso di morte, nulla che abbia il concetto di nuda sussistenza, o di puro termine, qual noi concepiamo essere la materia) comunicata dal Padre al Verbo, risulta la vita intellettiva comune e identica in tutt' e tre le divine persone. Di più l' essenza vitale di Dio, oggetto per sè noto, per sè inteso, è anche per sè amata, e quindi la vita per sè intesa, per sè amata, è sollevata dalla spirazione unica del Padre e del Figliuolo ad una esistenza personale, cioè è in pari tempo la persona del Santo Spirito, onde è la vita, il sentimento, il gaudio morale puro identico in tutte e tre le persone augustissime. Quindi la vita, che è nel Verbo una e semplicissima, tuttavia secondo il nostro modo di concepire è triplice: di semplice sentimento, che s' appropria al Padre che la comunica, con tutto il resto; la vita intellettiva, che s' appropria al Figliuolo non perchè ella non sia dell' essenza divina, ma perchè ha per condizione l' oggetto e la forma oggettiva dell' essere che è propria del Figliuolo o Verbo; la vita morale che è pure dell' essenza divina, ma per appropriazione attribuita allo Spirito Santo, perchè ella ha per condizione l' oggetto per sè amato, e la forma dell' amabilità dell' essere è propria dello Spirito Santo. Ora, ciò presupposto, come avviene che la vita che è nel Verbo sia la luce degli uomini? Ella non potrebbe esser luce se non fosse oggetto dello spirito umano, che informandolo lo rende intelligente. Ma quest' oggetto non è mero oggetto perocchè è vita7oggetto, e di più è oggetto vitale e sussistente per sè amabile e per sè amato. Da questo procede: 1 Che nelle parole di S. Giovanni « « e la vita era la luce degli uomini » » non trattasi più di narrare la creazione d' un mero essere sensitivo, come poteva essere la statua che il Genesi racconta fatta da Dio di terra; la statua, dico primachè Iddio v' ispirasse in faccia lo spiracolo della vita (giacchè, se si suppongono gli atomi materiali animati, come abbiam detto, quella statua poteva essere un essere sensibile, e, dividendosi l' uomo nelle Scritture sempre in due parti, e non in tre, chiamata l' una carne vivente perchè concupisce contro lo spirito, l' altra spirito; ella quella statua poteva essere la carne vivente); ma trattasi di spiegare come l' uomo venne costituito nell' ordine degli enti intellettuali e morali. 2 Che la creazione dell' essere meramente sensitivo non esige che la vita del Verbo si comunichi come luce, ma basta che venga comunicata una vita semplice dall' essenza di Dio creatrice, senza che la mente nostra in tal causa vegga la special forma dell' essere oggettivo, ossia dell' essere come Verbo. Onde S. Giovanni dice che « « la vita era luce degli uomini » », e non degli animali, delle piante o de' minerali [...OMISSIS...] 3 Ma la luce che viene dal Verbo non è mero oggetto perchè è vita7luce, e la vita è sentimento e quindi realità, non è dunque una mera idea. Non è dunque la nuda idea dell' essere quella vita, di cui parla S. Giovanni, che è la luce degli uomini. Che anzi quella vita, che è luce nel Verbo, non è solamente vita, sentimento, non è solamente luce7oggetto, onde la vita intellettuale, ma di più è vita7luce per sè amata nello Spirito Santo, onde viene la vita morale. Dunque S. Giovanni parla in questo luogo d' una luce compiuta, che santifica l' uomo e gli dà la sua ultima soprannatural perfezione. Quindi Gesù Cristo disse: « « Io sono la luce del mondo: colui che mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà il lume della vita »(2) ». E, dicendo: « « il lume della vita » », non solo unisce alla vita il lume, ma ben anco fa derivar questo dalla vita, giacchè la vita posta in genitivo, secondo il favellare orientale, indica « causato dalla vita », e propriamente « figliuolo della vita », ovvero avente la natura di vita: onde tali parole di Cristo rispondono a capello a quelle di S. Giovanni, che « « la vita era la luce degli uomini » ». Si chiama ancora da S. Giovanni Gesù Cristo « « il Verbo della vita » » in queste parole: « « Quello che fu dal cominciamento, quello che noi udimmo, che noi vedemmo cogli occhi nostri, che percepimmo e le nostre mani hanno contrettato del Verbo della vita »; (e la vita si è manifestata, e la vedemmo, e l' attestiamo ed annunciamo a voi questa vita eterna che era appresso il Padre e apparì a noi), «quello che vedemmo ed udimmo, l' annunciamo a voi »(1) ». Dove è da notare che l' espressione, « « Verbo della vita » » [...OMISSIS...] viene ad unire il lume alla vita, perocchè la parola verbo indica oggetto pronunciato, e l' oggetto, se è per sè oggetto, è luce della mente, onde significa un verbo che ha in sè vita, che ha natura di vita. E` anche da osservarsi in queste parole colle quali S. Giovanni commenta ciò che si legge nel suo Evangelio che abbiamo alle mani, che vi si dice che la vita era appresso il Padre, il che risponde alle parole: « Et Verbum erat apud Deum »; e dimostra la serie che tiene la narrazione dell' Evangelista a principio del suo Vangelo, cioè volendo egli annunziare che il Verbo della vita si è manifestato agli uomini, incomincia dal dire che era ab eterno appresso il Padre occulto agli uomini e che a questi si è manifestato nel tempo, quello stesso che stava prima del tempo appresso Dio; ed anche allora era essenzialmente vita ed eterna vita, ma non ancora vita a noi. Ma rimane fermo quello che dicevamo, che, rispettivamente alla nostra maniera d' intendere e di favellare, noi concepiamo che Iddio dev' essere in se stesso essenzialmente vita, anche prescindendo dalla considerazione e dalla cognizione del Verbo, onde si chiama continuamente nelle Scritture « « Iddio vivo »(2) », in contrapposizione degli Iddii morti e materiali degli idolatri; e S. Pietro usa la frase: « per Verbum Dei vivi (3) », attribuendo la vita a Dio, cioè al Padre onde il Verbo procede e onde riceve la divina natura; e il Salmista dice: « « Deus vitae meae »(4) »; e nel Deuteronomio dice Mosè al popolo che « Iddio è la sua vita (5) ». Ma quando si tratta della vita7luce degli uomini, allora non si può più intendere senza considerare Iddio come oggetto sussistente e vitale, e quindi è già un' iniziata cognizione del Verbo. E quantunque nella comunicazione a noi di questa vita7luce concorrano tutte e tre le persone divine, onde S. Paolo dice: « « colui che fu fatto da Dio a noi sapienza »(6) », attribuendo al Padre la missione del Figliuolo, perchè dal Padre viene generato e quindi anco mandato; tuttavia il termine di questa illuminazione vitale degli uomini è il Verbo, il quale è pure il termine dell' Incarnazione, benchè il principio di questa appartenga a tutta la Triade augustissima, ma del Padre sia propria in quanto è generatore. Il Verbo poi, a noi comunicatosi, emette e diffonde in noi, purchè non trovi in noi stessi ostacolo di peccato che lo impedisca, i doni dello Spirito Santo e lo stesso Spirito Santo che dal Padre e dal Figliuolo procede: con che si compie la nostra vita soprannaturale. Le quali cose premesse, sembra apparir più chiaro come queste parole di S. Giovanni, generali come sono, e tali in cui si parla degli uomini senza distinzioni, siano vòlte a dichiarare in che consiste qualsivoglia luce intellettiva dell' umana creatura. Qualunque raggio d' una tal luce, l' Evangelista c' insegna venire dal Verbo, perocchè questo è assolutamente detto esser la luce degli uomini. Non è egualmente detto in modo assoluto ed universale che il Verbo sia la vita degli uomini; perocchè non ogni vita è intellettiva, ma v' ha una vita animale, nella cui causa non è a noi necessario vedere l' oggetto7luce che si comunica, bastando che concepiamo una causa vivente qual' è l' essenza divina comune a tutte e tre le persone. Nulladimeno la vita animale non è la vita propria della creatura umana, essendo essa comune alle bestie; ma la vita propria dell' uomo è la vita intellettuale, la quale non si può spiegare senza supporre che innanzi allo spirito umano stia l' essere nella forma di oggetto, e però senza ricorrere ad una causa che sia ella stessa oggetto, e che all' uomo, come tale, si manifesti. Quindi dice S. Giovanni che la vita era la luce degli uomini. Or se si trattasse dell' essere meramente ideale, questo sarebbe luce, ma non sarebbe vita; perchè la semplice idea dell' essere non dà un sentimento reale, ma una pura intuizione. Qui non vi ha dunque quella « vita che è luce degli uomini ». Di che si deduce che, essendo « la vita che è nel Verbo la luce degli uomini », conveniva che questa fosse data nella prima istituzione del genere umano. Laonde, quando il Genesi narra: « « Il Signore Iddio formò adunque l' uomo del limo della terra, ed inspirò nella faccia di lui lo spiracolo della vita, e l' uomo fu fatto in anima vivente (1) » », conviene intendere per questo spiracolo della vita quella vita che è la luce e che è nel Verbo. E però è da dire, che il primo uomo fu costituito non già nel solo ordine naturale, al quale nulla più si esige che l' essere come oggetto ideale dato da intuire allo spirito; ma ben anco che fu costituito nell' ordine soprannaturale, al che si esige che l' essere come oggetto, dato ad intuire all' uomo come oggetto, sia reale, e quindi abbia in sè vita: onde al primo uomo fu fatta una cotale comunicazione dello stesso Verbo di Dio. E questo dichiara meglio in che modo l' uomo fu creato a imagine e similitudine di Dio secondo quelle parole: « « Facciamo l' uomo ad imagine e similitudine nostra, e presieda ai pesci del mare, e ai volatili del cielo, e alle bestie, e a tutta la terra, e ad ogni rettile che si muove sulla terra (2) » ». La quale imagine e similitudine di Dio, a cui fu fatto l' uomo, si vede primieramente in questo, che anche nell' uomo si riscontrano le tre forme dell' essere analoghe a quelle che in Dio costituiscono le tre divine persone: cioè la forma soggettiva, la forma oggettiva nell' essere che gli è dato ad intuire, e la forma morale nell' inclinazione e armonia di sè soggetto all' essere oggetto manifestato; e quindi anco le tre vite, reale, intellettuale, e morale che le due prime congiunge e nel cui abbracciamento affettuoso consiste. Ma la forma oggettiva dell' essere non è data all' uomo in modo da costituire una parte dell' uomo stesso, perchè l' uomo è puramente soggetto, e non può diventar oggetto, che sarebbe un diventare Iddio. E poichè l' oggetto essere è l' immagine dell' essere secondo il parlare delle Scritture, quindi i Padri osservano che l' uomo non si dice già l' uomo fatto imagine di Dio, ma fatto ad imagine, il che avviene perchè l' imagine di Dio è l' oggetto che egli intuisce secondo la sua primitiva istituzione (3). Quello che è propriamente chiamato imagine di Dio nelle scritture sante è il Verbo. Di Cristo dice S. Paolo: « qui est imago Dei (4) »; e altrove: « qui est imago Dei invisibilis (5) », dove quell' attributo d' invisibile, dato a Dio, indica chiaramente che Iddio si conosce pel Verbo, nel quale egli ha la forma di oggetto e però di lume, e appo Iddio invisibile stava il Verbo prima che si rivelasse. Perocchè, come dice S. Paolo stesso, « omne quod manifestatur lumen est (1) »; non potendovi essere altro che si manifesti se non il lume, il quale è visibile per se stesso, e l' altre cose per lui che le illumina. E posciachè quello che si conosce delle cose è la forma (2), chiamata anche figura [...OMISSIS...] che risponde all' idea, e non la materia o la mera sussistenza; perciò S. Paolo chiama Cristo figura, ossia, in greco, carattere : « qui cum sit splendor gloriae et figura substantiae ejus (3) ». Al che si riferisce altresì quello che già nelle antiche carte fu scritto della Sapienza, che « « ella è un vapore della virtù di Dio e una cotale emanazione sincera della chiarezza di Dio onnipotente; onde niente di macchiato incorre in essa, poichè è candore della luce eterna e specchio senza macchia della maestà di Dio e imagine della bontà di Lui (4) » ». Nel qual luogo sembra favellarsi della sapienza di Dio in quanto viene comunicata agli uomini: onde la sapienza oggettiva di Dio, che riducesi al Verbo, chiamasi « virtù di Dio », e la comunicazione di essa agli uomini « un vapore di tale virtù », la sapienza chiamasi « chiarezza di Dio onnipotente », e la comunicazione di essa « una cotal emanazione sincera »; la sapienza chiamasi « luce eterna », e la comunicazione « candore di quella »; la sapienza « maestà di Dio », la stessa maestà in quanto è comunicata « specchio senza macchia »; e finalmente la sapienza, in quanto ha in se stessa l' amabilità, che si riduce allo Spirito Santo, chiamasi « bontà di Lui », e la stessa bontà comunicata dal Verbo « imagine di essa bontà ». Ed ogni qual volta nelle divine scritture si nomina il volto o la faccia di Dio, queste metafore esprimono la conoscibilità di Dio; perocchè dal volto, o faccia, si conoscono gli uomini; e quindi tali espressioni nominano il Dio oggetto, il Dio conoscibile, il quale noi sappiamo essere il Verbo: onde molti Padri ottimamente interpretano quelle maniere di dire del divin Verbo, il quale è luce, o vita lucente per se stessa. L' uomo adunque fu istituito ad imagine di Dio, cioè colla percezione del divin Verbo, in quella maniera che spiegheremo in appresso, e quindi fu collocato in uno stato soprannaturale, dotato della divina grazia. E quantunque dalla parte dell' uomo non vi avesse alcun diritto a questo stato soprannaturale, nè la grazia costituisca un elemento di sua natura, nè tampoco un elemento di sua natura intelligente fosse una tale congiunzione di lui col Verbo, non appartenendo alla costituzione della natura umana se non la intuizione dell' essere ideale, senza la quale non potea essere intelligente, e però nè tampoco uomo; tuttavia dalla parte di Dio era convenientissimo, e di una necessità morale, che l' uomo uscente dalle divine mani fosse sublimato a tanta altezza, perocchè il Verbo era la luce degli uomini; e dando loro questa luce, si dava loro la vita altresì, perchè « nel Verbo era vita, e la vita era la luce degli uomini »: l' effetto così corrispondeva pienamente alla condizione della causa. L' Ecclesiastico così narra la istituzione de' primi uomini: « « Iddio creò l' uomo di terra e lo fece secondo la sua imagine. E ancora fece che si convertisse a quella, e secondo questa lo vestì di virtù. Gli diede copia di giorni e tempo, e gli diede il dominio di quelle cose che sono sopra la terra. Pose sopra ogni carne il timore di lui, e quasi signoreggiò le bestie ed i volatili. Creò da esso un ajuto simile a lui: diede loro consiglio e lingua, e occhi, ed orecchi, e cuore da pensare: e gli empì della disciplina dell' intendimento (1) » ». Le quali parole ben dimostrano che Adamo ed Eva furono dotati di doni soprannaturali, e di quello che è per natura sua soprannaturale, cioè della grazia, di modo che non l' idea mera dell' essere fu loro comunicata, ma altresì una incipiente visione del Verbo, nel quale è quella vita che è luce degli uomini. Ma qui si offerisce alla mente la questione: Se i primi uomini usciti recentemente dalla mano del loro fattore avessero impresso nelle loro anime il carattere, onde, non trovando ostacolo, provenisse la grazia e la loro santificazione. La qual questione si dee distinguere dall' altra: Se, avendo essi il carattere nell' animo loro, questo fosse uguale a quello che si riceve ora dagli uomini nel lavacro battesimale istituito da Gesù Cristo, o in che differisse. Lasciando per intanto questa seconda questione, parmi poter sciogliere la prima affermativamente: e ciò perchè il carattere, preso generalmente, essendo la manifestazione abituale del Verbo allo spirito umano, non poteva mancare a quelli che erano creature intelligenti di quel Verbo nel quale era la vita luce degli uomini. Ma, come vedremo poi in appresso quando tratteremo la seconda delle due questioni proposteci, questo carattere in Adamo ed Eva era potenziale, e però non indelebile; quando nel Cristiano è del tutto attuale ed indelebile; e forse per questo non si dice espressamente nelle Scritture che i primi Padri del genere umano avessero il carattere, riserbandosi questa parola a significare propriamente il carattere del Cristiano. E tuttavia questo luogo di S. Giovanni sembra acconcio a provare che si può in qualche modo attribuire un carattere divino ai primi uomini. I primi uomini avevano abitualmente la luce soprannaturale, e questa luce non è una mera idea, ma è vita, vita che sta nel Verbo. Dunque era loro data una cotal percezione del Verbo, nel che sta il carattere di cui parliamo. La stessa parola di carattere è propria del Verbo, che S. Paolo chiama «karakter tes ypostaseos autu» (1), da cui crediamo esser provenuta la denominazione di carattere, a quel primo effetto del battesimo che consiste in una cotal impressione del Verbo nelle umane menti. Il che riceve conferma dall' addotto passo dell' Ecclesiastico, dove sembra distinguersi con precisione ed esattezza il carattere impresso nell' intelligenza del primo uomo, dalla grazia santificatrice della sua volontà. Perocchè il primo è significato in quelle parole: « « che fece l' uomo secondo la sua imagine » », la quale imagine di Dio, come vedemmo, non è altro che il Verbo: [...OMISSIS...] la seconda, cioè la grazia abituale e santificante, è significata in quel che soggiunge, che, dopo averlo fatto secondo l' imagine sua, fece che a questa egli si rivolgesse e convertisse: « et iterum convertit illum in ipsam »; la qual conversione di Adamo all' imagine non pare potersi intendere altramente che della soave inclinazione della sua volontà ad amare e ad aderire all' imagine di Dio, secondo la quale era fatto, cioè al Verbo divino lucente nella sua intelligenza, al che fare non trovava ancora alcun ostacolo di peccato. Nè egli sembra che il « convertit illum in ipsam » si possa intendere della conversione a Dio di Adamo peccatore, perchè il sacro scrittore aggiunge in appresso la formazione di Eva: onde nel luogo da noi citato parla di Adamo, se non andiamo ingannati, in quel tempo in cui non aveva ancora peccato nè ricevuto da Dio l' ajuto che poi gli fece della sua compagna. Il che è confermato dalle parole, che seguono a quelle: « et iterum convertit illum in ipsam », le quali sono: « et secundum se vestivit illum virtute », accomodatissime a significare la grazia abituale. Nè l' essere stato vestito di virtù appartiene ad Adamo dopo il peccato, ma alla prima sua istituzione. Egli sembra che per questo appunto l' Apostolo chiami rinnovazione dell' uomo quella fatta da Cristo, il quale venne a togliere il peccato introdotto da Adamo nel mondo, e a restituire alla sua prima origine l' opera di Dio, benchè, in ciò facendo, l' abbia elevato ad una dignità e santità vie maggiore: « « Ora rinnovatevi nello spirito della mente vostra, dice S. Paolo a que' di Efeso, e vestite l' uomo nuovo che fu creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità »(1) ». E a' Cristiani di Colossi dice: « « Spogliandovi l' uomo vecchio cogli atti suoi, e vestendovi il nuovo, quello che si rinnova nel conoscimento secondo l' imagine di lui che lo creò »(2) ». Vero è che questi luoghi si potrebbero intendere unicamente dell' uomo nuovo formato da Cristo, che fu una cotal creazione, senza ricorrere all' esempio di Adamo; ma tuttavia la parola « qui creatus est » sembra fare allusione alla creazione di Adamo stesso. Oltre di ciò, dicendosi « « l' uomo nuovo rinnovato nel conoscimento » [...OMISSIS...] «secondo l' imagine di lui che lo creò » », viene ad alludere manifestamente alla prima creazione dell' uomo, che dal Genesi è detto « « fatto ad imagine di Dio » ». Di più in questo luogo dell' Apostolo non si dice solamente « « l' uomo nuovo » », ma, secondo il testo originale, si aggiunge « « rinnovato nel conoscimento » », onde non si parla unicamente di una cosa nuova, ma di una vecchia ripristinata nella sua condizione primitiva di conoscimento. Il quale conoscimento secondo l' imagine di lui che lo creò, viene a significare « il conoscimento secondo il Verbo », giacchè l' imagine di Dio è il Verbo, e quindi viene a significare il carattere impresso nell' anima, che è pure il Verbo chiamato da S. Paolo « « carattere della sussistenza di Dio » ». Alla predetta sentenza potrebbe fare qualche difficoltà il luogo dove l' Apostolo scrive: « « Si semina un corpo animale, sorgerà un corpo spirituale. Se vi ha un corpo animale, vi ha del pari un corpo spirituale, siccome è scritto: Il primo uomo Adamo fu fatto in anima vivente (1), il novissimo Adamo in ispirito vivificante. Ma non è prima quello che è spirituale, sì quello che è animale; di poi quello che è spirituale. Il primo uomo dalla terra, terreno; il secondo uomo dal cielo, celeste. Quale il terreno, tali anche i terreni; e quale il celeste, tali anche i celesti. Laonde, siccome abbiamo portato l' imagine del terreno, portiamo anche l' imagine del celeste. E questo dico, o fratelli, perchè la carne e il sangue non possono possedere il regno di Dio, nè la corruzione possederà l' incorruzione (2) » ». Se questo luogo si potesse intendere di Adamo peccatore, la difficoltà sarebbe superata. Ma fanno ostacolo a ciò le citate parole del Genesi: « Et factus est homo in animam viventem », le quali dal sacro storico sono dette di Adamo quando fu creato innocente, di conseguente prima d' aver peccato. Convien dunque dire che l' intendimento dell' Apostolo qui sia quello di magnificare i doni e le grazie conferite all' umanità da Cristo sopra quelli che ebbe ricevuto Adamo quando fu creato. E questa sopraeccellenza dell' uomo in Cristo rinnovato sopra l' uomo da Dio creato, risulta dal contesto di tutto il luogo dell' Apostolo, e particolarmente da quelle parole: « Primus homo de terra terrenus, secundus homo de coelo coelestis ». Questo secondo uomo venuto dal cielo, e non cavato dalla terra, è il nostro Signor Gesù Cristo, come risulta chiaramente dal testo greco, che, invece di dire: « dal cielo celeste », dice: « « Signore dal cielo », [...OMISSIS...] . Onde viene a dire che il primo Adamo fu semplice uomo, ma il secondo Adamo fu Dio, fu il Verbo divino, proveniente non dalla terra, ma dal cielo sede di Dio; fu il Signore, [...OMISSIS...] , di tutte le cose ed anco dell' antico Adamo. Laonde il primo uomo trasse l' origine dalla terra corruttibile, benchè poi Iddio lo vivificasse col suo spiro e così lo rendesse anima vivente, partecipe della vita, non solo animale e intellettiva, ma di quella vera vita che era nel Verbo. Ma se quel primo uomo era anima vivente, non era però spirito vivificante, siccome è il Verbo divino; il quale non solo ha la vita, ma è vita egli stesso (1), e quindi la può dare, ed è quello che la dà agli altri, onde da S. Pietro è chiamato « « autore della vita »(2) », che equivale allo « « spirito vivificante » » di S. Paolo. Qa quello che è la vita non può mai mancare la vita; ma quello, che è solamente vivente, può morire, può perderla, com' è avvenuto ad Adamo: e perciò non era per se stesso incorruttibile ed immortale, come non era impeccabile. Era di natura sua corruttibile perchè formato di terra, la quale poteva sciogliersi in polvere, come la polvere che era stata raccolta a forma di uomo. Era peccabile perchè non era la stessa vita morale, ma questa vita l' aveva ricevuta da quello che era la vita; ed era stato collocato nel suo libero arbitrio di conservarla, o di fare miseramente getto di essa. [...OMISSIS...] . Così l' Ecclesiastico. Il nuovo uomo all' incontro è impeccabile perchè è Dio, è comprensore ad un tempo e viatore, è confermato in grazia come quello che è l' autore della grazia (4) e fu unto dal Padre (come uomo) e mandato nel mondo (come Dio) (5). Adamo non poteva dar la grazia a' suoi discendenti, ma il nuovo Adamo dà loro la grazia. Adamo non poteva dar loro l' immortalità, ma Cristo la dà loro: nell' uno e nell' altro senso egli è spirito vivificatore. Quindi anche la differenza fra la grazia data da Dio ad Adamo, e la grazia che è in Cristo e che Cristo comunica a' suoi seguaci. S. Agostino dice che la grazia data ad Adamo era un ajuto senza il quale l' uomo non poteva operare il bene soprannaturale, ma la grazia di Cristo, e comunicata al Cristiano da Cristo per mezzo del suo spirito, è un ajuto, col quale si opera il bene soprannaturale (6). Era l' uomo che operava in Adamo, non però senza la grazia: e la grazia di Cristo è Cristo stesso (7) che opera nel cristiano tutto il bene soprannaturale che fa il cristiano, non però senza il cristiano. [...OMISSIS...] , dice S. Paolo, [...OMISSIS...] . Non già che l' uomo non possa resistere alla grazia; l' uomo può volere il male. Ma quando il cristiano opera il bene, allora è Cristo, allora è la grazia di Cristo che opera in lui e con esso lui. Laonde quando S. Paolo esorta que' d' Efeso e que' di Colossi a vestire l' uomo nuovo, e spogliare il vecchio, allora per quest' uomo nuovo s' intende Cristo, e quelle parole equivalgono a quest' altre: « Induimini Dominum Jesum Christum (2) ». Il che viene ad indicare una cotale congiunzione fisica del Cristiano non solo col Verbo, ma col Verbo incarnato, il N. S. Gesù Cristo; connessione insegnata da Cristo stesso quando disse che egli era la vite e i suoi discepoli erano i tralci che dalla vite suggevano l' umore vitale di cui si nutrivano e vivevano (3). E` la vite il principale agente di tutte le operazioni del tralcio, benchè queste sieno operazioni del tralcio, senza il quale esse non sarebbero: onde chi opera nel cristiano le operazioni della vita soprannaturale è Cristo col cristiano, la vite col tralcio, non ego sed gratia Dei mecum . In Adamo innocente era l' uomo che operava colla grazia di Dio; nel cristiano è la grazia di Dio coll' uomo: in Adamo era l' uomo, ma senza la grazia non poteva nulla, auxilium sine quo; nel cristiano è la grazia di Dio, ma questa senza l' uomo nulla farebbe, auxilium quo . Lo stesso insegna l' Apostolo quando paragona la Chiesa di Gesù Cristo al corpo umano (4). Di questo mistico corpo Cristo è il capo, i fedeli sono le membra. La vita e le operazioni vengono dal capo unito alle membra, e quantunque le membra ricevano tutto dal capo, tuttavia anch' esse operano unite con lui. Ma rimane sempre che Cristo sia il capo onde ogni bene e ogni vita deriva. Con un' altra similitudine ancora si chiarisce quell' intimo nesso che ha Cristo con quelli che in lui sono incorporati. Tutti insieme formano un solo edifizio, una sola casa, ma Cristo è il fondamento che la sostiene (5). Questi diversi paragoni spiegano quella intima segreta unione che congiunge Cristo qual nuovo Adamo con quelli ch' egli genera spiritualmente alla vita eterna che è in lui. Ma prima di perscrutare più addentro cotesta unione, noi dobbiamo dimostrare alcune altre differenze che conseguono al principio da noi posto della differenza prima fra lo stato soprannaturale di Adamo e quello dell' uomo rigenerato in Cristo e da Cristo. Primieramente l' uomo incorporato a Cristo sente che non è egli che opera il bene, ma Cristo con lui, « non ego sed gratia Dei mecum, » e ciò pel merito della passione sofferta da questa grazia di Dio, « ut gratia Dei pro omnibus gustaret mortem (1) ». Essendo dunque Cristo che opera tutto il bene soprannaturale nel corpo de' fedeli di cui è capo, il fedele sente profondamente la verità che Cristo stesso gl' insegnò dicendo: « Sine me nihil potestis facere (2) », e sente nello stesso tempo che tenendosi in Cristo egli può tutto: « omnia possum in eo qui me confortat (3) ». « « Io sono la vite, voi i tralci: quello che si tiene in me, ed io in lui, questi porta molto frutto. Poichè senza di me non potete far nulla. Se alcuno non rimane in me, sarà gettato fuori siccome un tralcio, e si seccherà, e lo metteranno nel fuoco ed arderà. Se vi rimarrete in me, e le mie parole rimarranno in voi, qualunque cosa vorrete la dimanderete e vi avverrà. In questo è chiarificato il Padre, che voi apportiate il massimo frutto, e diveniate miei discepoli »(4) ». Dalle quali parole si ricava: 1 Che senza Cristo l' uomo non può far nulla. 2 Che tenendosi in Cristo l' uomo può portare molto frutto, anzi il massimo frutto e divenire discepolo di Cristo, parola altissima che dice tutto: può portare tutto il frutto che vuole, perocchè qualunque cosa voglia, egli anche la domandi, essendo l' orazione il segno della vera volontà cristiana, e domandata gli avviene. Ma non tutti quelli che si tengono in Cristo vogliono le stesse cose, e quindi non tutti acquistano lo stesso grado di santità, perocchè non a tutti è dato di ugualmente volerle e di dimandarle. Ma tutt' insieme il Corpo mistico di Gesù Cristo porta tuttavia il massimo frutto, secondo il calcolo infallibile del celeste agricoltore, e ciascuno porta il massimo frutto comparativamente al grado di volontà che gli è data, perchè tutta quella volontà che egli ha soprannaturalmente viene a pieno trasfusa nell' orazione ed adempita da Cristo, il quale è « « verità »(5) », cioè reale compimento dell' idea. E tuttavia niuno è forzato a tenersi in Cristo, e nè pure necessitato, qualora non sia confermato in grazia; onde Cristo dice a' suoi discepoli: « « Tenetevi in me, ed io in voi »(1) », a ciò esortandoli, perocchè la libertà di fare il male non è tolta agli uomini. Onde gli uomini possono col loro libero arbitrio staccarsi da Cristo, e non riceverne più la benefica e vitale influenza; e possono non distaccarsi da lui, e allora, rimanendo in lui, possono fare tutto il bene che vogliono e che domandano, perchè Gesù Cristo è quegli che lo vuole e lo domanda in essi e con essi. Onde da S. Giovanni questa unione si chiama anche società: [...OMISSIS...] . Da' quali due principii, che l' uomo non fa nulla di bene soprannaturale per sè, ma che tutto il bene lo fa Cristo in lui e con lui, e che Cristo con esso lui può fare tutto ed egli in Cristo apportare il più abbondevole frutto, procedono due sentimenti nel Cristiano: quello del proprio nulla e quello della propria grandezza dignità e potenza. Il sentimento del proprio nulla è luce a lui, perchè gli dà la consapevolezza della propria impotenza e nullità ad ogni bene, e della potenza di Cristo che in lui fa tutto e può tutto. Questo sentimento e questa luce di Cristo che ne rifulge, è l' origine, la prima la sommaria causa dell' umiltà cristiana, fondamento e condizione della virtù de' seguaci e discepoli del Salvatore. Come alla presenza d' un leone, un cagnolino chiuso con esso lui trema sentendo la nullità delle sue forze verso a quelle del generoso re della foresta; così ed assai più, ma in senso tutto diverso, il vero discepolo si sta annullato in se stesso e quasi tremante pel sentimento di Cristo, di quel Leone di Giuda che è in lui, con cui abita in un modo più vicino e più stretto che non il cagnuolo nella gabbia del leone, di quel possente che è in lui e con lui fa tutto il bene, quand' egli nulla può senza di lui, ed anzi non ha che la potenza del male: onde santamente e giustissimamente non pur non si pregia, ma odia e dispregia se stesso. E come il Leone potentissimo di Giuda divora, per così dire, nel cuore dell' uomo l' uomo stesso, facendo che s' annichili nell' umiltà: così in pari tempo usa di tutta la sua potenza, non al male, ma al bene, non alla morte, ma alla vita di quello entro cui vive ed opera; ma dandogli la propria vita immortale invece della sua mortale. Onde l' umiltà dell' uomo incorporato all' Uomo7Dio non è unita col timore riverenziale del suo redentore e vivificatore che in lui abita e con quel sentimento di timore che nasce sempre in presenza d' una immensa potenza anche benefica; ma bensì è unita con gran timor di se stesso di non istaccarsi forse dalla sua vita, cioè dallo stesso Signor nostro Gesù Cristo coll' arbitrio che gli rimane di operare il male. Quindi è che negli uomini santi, durante specialmente la visitazione superna e la comunicazione di lumi e di grazie gratofacienti, ne' quali momenti il sentimento della presenza di Cristo è più vivace, non si manifesta la tentazione di vanagloria e di superbia, quando anzi sono occupati e compresi da un sentimento indicibile di umiltà e si senton sospinti incredibilmente a glorificare Iddio: il che attestano essi medesimi, come si può vedere, fra gli altri scritti dei santi, nelle opere di S. Teresa di Gesù. Ora questo sentimento immenso d' umiltà, che è uno de' caratteri più meravigliosi della virtù cristiana, non era come in noi nel primo uomo Adamo, benchè fornito del carattere e della grazia; perocchè il carattere e la grazia in lui era d' altra natura lungamente diversa da quella che ha il carattere e la grazia di Cristo. Era l' uomo che operava in Adamo, benchè non senza la grazia. Adamo viveva d' una vita sua propria, naturale, benchè sublimata da doni soprannaturali. La sua natura era piena e perfetta, e n' aveva tutto il sentimento, n' aveva la gioia e la forza. Il cristiano non ha altra vita con cui opera e di cui fa stima che la vita di Cristo. La sua vita naturale nulla la stima, e non aspetta da lei quelle operazioni vitali colle quali ottenere il compiuto suo bene. Adamo era creato per godere della felicità naturale, entro i limiti della giustizia, e per passare poi gradatamente ad una felicità soprannaturale, che sarebbe stato un compimento di quella prima, e ciò di mano in mano ch' egli si fosse avanzato nella virtù e nel conoscimento ed amore di Dio, alla cui contemplazione poteva attendere se avesse voluto, e più o meno com' egli avesse voluto. La scelta lasciata al suo libero arbitrio era nell' occuparsi più o meno al godimento onesto de' doni naturali, ovvero più o meno alla contemplazione ed all' affetto delle cose celesti. La grazia gli era pronta se avesse voluto servirsene, la grazia accompagnava le sue azioni anche naturali mantenendone specialmente la rettitudine ne' rapporti con Dio: ma in quanto all' oggetto stesso diretto de' suoi affetti, rimaneva in suo arbitrio lo scegliere Iddio, o la natura retta ed onesta. Onde il carattere era in lui piuttosto potenziale, che attuale: il Verbo gli stava presente e Adamo potea rivolgersi al Verbo, piuttostochè fosse impresso nell' anima sua e la dominasse come principio operativo. Con che si incomincia a dare qualche soluzione alla questione propostaci innanzi (Lez. LIV, p. 139): qual differenza vi avesse fra il carattere indelebile de' primi uomini, e il carattere indelebile del Cristiano. E veramente leggiamo nel Genesi, dove descrive l' istituzione del primo uomo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole da una parte è detto che l' uomo fu fatto ad imagine di Dio, dall' altra non gli è assegnato altro che il dominio sulla natura, il nutrimento della natura, l' occupazione intorno la natura, e un limite posto con un precetto divino alle cose di cui doveva l' uomo cibarsi. Convien dunque riflettere che le operazioni dell' uomo possono essere ornate di due specie di moralità, sia naturale, sia soprannaturale: la moralità di forma, e la moralità d' oggetto. La moralità di forma è quella che rende l' azione buona ed ordinata, quantunque l' azione abbia per oggetto cosa materiale e non morale, come il mangiare e il moltiplicarsi (coll' accennarsi nel Genesi di queste due cose solamente, si volle dimostrare il modo come Iddio istituendo l' uomo provvide alla conservazione dell' individuo, e anche della stirpe sopra la terra): la moralità d' oggetto, all' incontro, è quando l' uomo si occupa direttamente d' un oggetto per sè morale, come di Dio, e della virtù prendendola per fine. Ora questa seconda specie di moralità era quella a cui Adamo doveva innalzarsi in appresso col suo libero arbitrio, ma non era quella in cui venne da Dio costituito. Perocchè Iddio nell' istituire l' uomo nulla fece di ciò che l' uomo potesse fare da se stesso: volle, secondo l' economia della divina sapienza, che l' uomo stesso divenisse l' autore della sua perfezione morale, e quindi lo costituì nell' infimo grado della moralità soprannaturale, quasi seme onde poi dovesse svolgersi la gran pianta. Tuttavia gli accennò il fine delle sue operazioni nella narrazione della creazione, che è da credersi comunicata ad Adamo in quelle parole « et requievit die septimo ab universo opere quod patrarat. Et benedixit diei septimo, et sanctificavit illum, quia in ipso cessaverat ab omni opere suo, quod creavit Deus ut faceret (1) ». La quale benedizione data al giorno settimo, chiamato la requie del Signore, e la santificazione del detto giorno, era o un precetto, o certo un invito a' primi padri di consacrare questo tempo al riposo dalle occupazioni terrene e alla contemplazione delle celesti e divine, ed accennava la requie perpetua e beata a cui eran chiamati dopo compito lo stadio delle occupazioni terrene. Una adunque delle principali differenze fra la condizione in cui da Dio fu posto Adamo, e la condizione del Cristiano, si è che in quello dominava ed operava la natura umana perfetta e felice in tutto il suo vigore, accompagnata però da quella grazia, colla quale, se avesse l' uomo voluto, poteva e non abusare de' doni naturali ubbidendo Dio, ed altresì sollevarsi a contemplare ed amare direttamente Iddio come supremo ed infinito oggetto di beatitudine; nel Cristiano all' incontro la natura umana sua propria non ha alcun valore, alcuna virtù, in ordine alla vita eterna: ei non è chiamato a nulla se non alla distruzione ed alla morte; ma in quella vece chi opera in lui è la natura umana di Cristo, natura perfetta, trionfatrice della morte. Perocchè, in un modo ineffabile e misterioso di cui ci verrà forse altrove occasion di parlare, l' umanità gloriosa di Cristo è in una comunicazione reale ed unione permanente con tutti quelli che hanno ricevuto il battesimo e gli altri sacramenti, onde vivono della vita di Cristo; e da questa vita procedono i loro atti e tutto il bene soprannaturale che fanno, sia di forma, sia d' oggetto, nè altro prezzano che questo bene. L' uomo cristiano adunque che si tiene in Cristo, sentendo che un altro e potentissimo opera in lui e con lui, ha una certa consapevolezza d' essere escluso ed annullato nelle operazioni della vita eterna: annullato cioè in questo senso ch' egli non è più il principio supremo onde partano le dette operazioni, ma partono da un altro principio verso al quale egli tiene ragione quasi di attivo istrumento. Quindi il fondamento profondo della cristiana umiltà. Ma a questo si aggiunge, quasi a rinforzo dell' umiltà stessa, che la vita naturale del figliuolo di Adamo peccatore è inferma, mortale, precaria, e di più ha qualche cosa di ripugnante a dilatarsi nell' infinito, e ad abdicare se stessa per lasciare il governo dell' uomo e il principio dell' attività alla vita di Cristo. Quindi la lotta fra la carne e lo spirito, e le grida del principio soprannaturale del Cristiano contro la propria animalità: « « Me uomo infelice! Chi mi libererà dal corpo di questa morte » », e soggiunge: « « La grazia di Gesù Cristo Signor nostro (1) » ». Perocchè la grazia è appunto quel principio supremo che s' aggiunge all' uomo, e questo principio è Cristo stesso che diviene così primo operatore delle azioni dell' uomo che non gli si oppone: onde l' uomo dominato da questo principio è divenuto uomo nuovo . Questo è il mistero della vita cristiana dichiarato ai Romani specialmente dall' apostolo Paolo, la qual vita non apparteneva nè punto nè poco ad Adamo ed Eva. Questi erano creati innocenti: peccarono essi stessi e la loro discendenza divenne serva del peccato. Ecco la base della grandezza cristiana: l' annullamento dell' uomo morale avvenuto pel peccato, l' essersi reso l' uomo inetto al fine per cui fu creato. Da questo principio muove S. Paolo nella sua meravigliosa lettera ai Romani: [...OMISSIS...] . Dice gli uomini in quello nel quale peccarono volendo dire gli uomini in quanto erano in Adamo, perocchè in Adamo era la natura umana che dovea poscia rifondersi in altri individui. Onde quella che peccò fu la natura umana in Adamo; per la qual cosa il peccato originale ne' posteri dicesi « peccato della natura », e gl' individui o suppositi diconsi aver peccato in quanto ricever dovettero la natura peccatrice. La natura poi si fa peccatrice perchè la natura umana non è solamente fisica, nè solamente intellettuale, ma ella è altresì essenzialmente morale, come quella che è fornita di volontà; e la volontà come natura morale può rendersi difettosa per un agente disordinato che la disordina, quale nel caso nostro è il corpo, la cui concupiscenza non è più in balìa totalmente della ragione libera, ma opera senza di questa in parte, e a dispetto di questa, in quanto che la volontà rimane a lei aderente e con esso lei legata in modo da esser sottratta alla dominazione dell' uomo, o per dir meglio alla libertà determinantesi pel bene; la qual forza della libertà, o è così fiacca che non sorge a combattere la volontà lusingata dalla concupiscenza, o, se sorge scossa dalla bellezza della virtù che gli dimostra innanzi l' intelletto, non ha polso da eseguire. Il che è quello che dice S. Paolo in persona propria parlando dell' uomo peccatore: [...OMISSIS...] . Di che induce l' esistenza in tutti gli uomini del peccato originale, come principio d' operare il male che prevale [...OMISSIS...] . La legge del peccato risiede dunque, secondo l' Apostolo, nelle membra del figliuolo di Adamo, e questa legge è la concupiscenza che, non vinta dalla grazia di Cristo, cattiva l' uomo, lo spoglia della sua libertà al bene perfetto: e questo debilitamento o spogliamento della libertà del bene, onde la volontà aderisce alla concupiscenza, è quello che chiamasi peccato originale nei posteri; peccato abituale, principio operativo del disordine, il quale però non ha la nozione di colpa, come insegna l' Angelico, perchè è nell' uomo che viene ingenerato alla vita, senza che sia in potestà dell' uomo stesso l' evitarlo. Non è già che l' Apostolo non conceda al libero arbitrio del figliuolo di Adamo il fare anche qualche bene naturale. Il concede [...OMISSIS...] . Ma primieramente l' Apostolo accusa i gentili di non aver fatto nè pur quel poco di ben naturale che avrebbero potuto fare con quelle forze morali che lor rimanevano, e perciò gli chiama inescusabili. E rispetto a questo gli accusa per due capi. Dice in primo luogo che col lume della ragione conoscevano Iddio, e colla loro volontà non lo riconobbero, anzi si sforzarono d' imbrattare e sfigurare il concetto di Dio che era in essi: [...OMISSIS...] . Egli è certo che se i gentili avessero conservato netto quel concetto della divinità che dava loro la ragione contemplatrice dell' universo, e ad essa fossero ricorsi per ajuto, ella avrebbe loro sovvenuto nella sua essenziale misericordia. Ma non avendo voluto far questo, s' aggravò d' assai la loro condizione morale. E prima di tutto s' oscurò il loro cuore insipiente, perchè datosi liberamente ad un male che potevano evitare: il quale così oscurato li precipitò nell' idolatria: [...OMISSIS...] . Così non ebbero il soccorso da Dio, onde solo potevano averlo, e Iddio li abbandonò al loro reprobo senso, il quale, già originalmente viziato, divenne per la volontaria corruzione viziato ancor di più e privo dell' unico faro che potevano avere, se avessero voluto, nel loro naturale intendimento, un concetto puro e sincero di Dio. Quindi le passioni ignominiose che descrive l' Apostolo (3). Dice in secondo luogo San Paolo che sono inescusabili perchè essendo tanto deboli e miseri, in vece d' umiliarsi riconoscendo il proprio stato, anzi s' insuperbivano, e i superbi si chiudono ogni adito alla divina misericordia. Già la superbia stessa delle loro immaginazioni era stata la causa dell' idolatria. Perocchè: « dicentes se esse sapientes, stulti facti sunt (4) ». Or questa stessa superbia soprastante, anzi crescente al colmo nel fondo della corruzione, faceva sì che, nel mentre essi erano tanto rei, pigliassero tuttavia l' aria di dottori e di giudici co' loro simili, co' quali giudizi condannavano se stessi: [...OMISSIS...] . Nel qual errore di condannare superbamente i proprii simili erano incorsi principalmente gli Ebrei, i quali condannavano fieramente i Gentili e vantavan se stessi d' avere la legge di Mosè che non osservavano. Di che raccoglie S. Paolo che tutti e Gentili e Giudei erano colpevoli, cioè non solamente erano macchiati originalmente del peccato ereditato dal primo padre, ma ben anco da' peccati loro proprii, e da quello principalmente, che più impediva che Iddio li soccorresse, della superbia, disconoscendo essi l' impotenza in cui erano di operare il bene, o gloriandosi e giudicando gli altri, invece di umiliare e giudicare secondo la verità se stessi: [...OMISSIS...] . Ma lasciando da parte i peccati attuali e liberi, osserva S. Paolo che quantunque colle forze morali, che rimanevano all' uomo, questi avrebbe potuto fare qualche bene secondo natural legge, tuttavia ciò non bastava a salvarlo perchè « bonum ex integra causa, malum ex quolibet defectu . » Tale è l' ordine morale, che egli è uno, semplice, tutto intero, e mancandone solo una parte viene distrutto. [...OMISSIS...] . Ora a questo è impotente per sè l' uomo concepito in peccato, e perciò l' uomo non può operare la propria salute che è il bene morale completo: non la potè il gentile perchè non seppe osservare compiutamente la legge naturale, non la potè l' ebreo perchè non seppe osservare compiutamente la legge mosaica: [...OMISSIS...] . Il figliuolo adunque di Adamo è nullo nell' ordine morale, perchè non può colle sue sole forze ottenere il verace bene morale nè nell' ordine naturale, e molto meno nel soprannaturale. Il sentimento, la ricognizione pienissima di questa verità è la seconda ragione che noi vogliamo esporre dell' umiltà cristiana. Questo sentimento non poteva essere in Adamo, appunto perchè, come dicevamo, aveva la natura intellettiva perfetta coll' integrità del suo libero arbitrio, vestito altresì della grazia che lo trasportava nell' ordine soprannaturale: onde in lui era il sentimento vivissimo delle proprie forze colle quali operava il bene. Certamente Adamo ancora aveva cagione di professare l' umiltà, come l' ha ogni creatura, anche il più sublime degli angeli: ma quella era un' umiltà lungamente diversa dalla cristiana, consistendo unicamente nel riconoscere i limiti della propria natura, e la intera dipendenza di questa natura sua dall' Essere Supremo, onde aveva tutto ricevuto, onde tutto riceveva di continuo colla conservazione, e d' onde doveva aspettare il rallargamento dei proprii limiti, a cui l' idea illimitata dell' Essere che gli splendeva innanzi lo chiamava, e Iddio gliene aveva dato l' arra ed il mezzo nella grazia conferitagli. Adamo riconobbe bensì i proprii limiti, ma non la compiuta sua dipendenza da Dio, e cercò altrove di completarsi ed estendere se medesimo, dando orecchio alla seduzione diabolica, che gli persuase poter diventare un Dio mangiando del frutto vietato. Invece adunque di ricorrere a Dio pel proprio ingrandimento e completamento, cercò questo nella creatura alla quale diede pazzamente una virtù misteriosa e divina di trasformare gli uomini in altrettante divinità. Fu probabilmente ingannato dalla grandezza della natura angelica che gli si diede a conoscere; della qual grandezza angelica non abbracciando colla limitazione umana i determinati confini, la credè onnipotente ed infinita: e a questa natura angelica egli credette probabilmente d' incorporarsi mangiando quel frutto dal demonio posseduto ed investito. Così, nel congiungersi al demonio per mezzo del cibo, aspirò alla somma grandezza fisica ed intellettuale, e dimenticò la grandezza morale a cui non si volse come ad oggetto; la qual grandezza morale e completa, che trae seco le due prime, gli era offerta nel congiungimento di lui con Dio, che avrebbe dovuto perfezionare coll' ubbidienza alla sua volontà e quindi coll' umiliarsi. Credette di arrivare alla dilatazione dei proprii confini senza por mente all' elemento morale, dove la vera grandezza consiste; e quindi senza bisogno d' umiliarsi e di dipendere dal suo creatore: il che secondava il sentimento delle proprie forze, quale la natura piena e perfetta a lui infondeva. Fin qui noi abbiam favellato del primo dei due sentimenti che abbiamo detto esser proprii del Cristiano, cioè dell' uomo incorporato in Cristo: abbiamo favellato del sentimento del proprio nulla onde s' origina l' umiltà cristiana; ed abbiamo veduto come un tale sentimento non poteva essere in Adamo innocente. Dobbiamo ora considerare il secondo sentimento, prodotto nel Cristiano dalla presenza in lui di Cristo, ed è quello della magnanimità . Come l' uomo cristiano sente di non poter nulla da sè solo, di avere una natura guasta che ricalcitra al bene morale perfetto, e che concupisce contro lo spirito; così sente ancora di possedere un nuovo principio di vita spirituale, il quale è lo stesso Signor nostro Gesù Cristo con esso lui meravigliosamente congiunto. L' uomo primitivo, Adamo, dotato di una natura umana perfetta, doveva ascendere dalla perfezione fisica alla intellettuale, e dalla perfezione intellettuale alla morale. La natura fisica come pure l' intellettuale era retta in lui, e la sua volontà era fornita di un dono di grazia col quale poteva innalzarsi alla percezione sempre maggiore di Dio per mezzo della fedele ubbidienza che avesse prestato alla sua volontà manifestatagli in un precetto positivo. Egli indugiò sulla via prescrittagli, e invece di percorrere indivisamente i tre gradi dell' azione animale, intellettuale e morale, si arrestò a' due primi, non fece il terzo dell' ubbidienza al creatore, si fermò a voler solo la propria grandezza fisica ed intellettuale, e per ottenerla, senza la suggezione alla legge morale, tentò di unirsi cogli angeli prevaricatori mangiando il frutto vietato di cui essi erano probabilmente in possesso. Tutt' altra è la via del Cristiano. Questa non incomincia dalla perfezione fisica o intellettuale, ma dalla morale. Quelle due prime non contano più nulla perchè guaste irreparabilmente. Ma ricuperata soprannaturalmente una nuova vita morale, questa è quella che risuscita, riconquista e restituisce all' uomo le due prime. Questa vita morale viene ricuperata dall' uomo colla sua congiunzione a Gesù Cristo, che è il pane disceso dal Cielo: e in questa vita morale e soprannaturale di Gesù Cristo, partecipata dall' uomo, consiste la nuova dignità dell' uomo, la sua grandezza, la sua potenza, e il sentimento che noi dicevamo della magnanimità cristiana. Il primo effetto di questa nuova vita che riceve l' uomo venendo incorporato a Cristo, si è il sentimento della potenza morale, col quale egli disprezza la vita precedente, fisica e intellettuale, e così si sente superiore alla morte. Questa superiorità alla morte veniva espressa da S. Paolo [...OMISSIS...] . Il disprezzo della vita fisica e di tutte le cose umane veniva espresso dall' Apostolo medesimo in quest' altre parole a que' di Filippi: [...OMISSIS...] . Il disprezzo della vita intellettuale nuda separata dalla morale, fu pure espresso da S. Paolo così a que' di Corinto: [...OMISSIS...] . Il secondo sentimento che si racchiude nella magnanimità del Cristiano è quello della ricchezza e della padronanza che il Cristiano sente d' aver ricevuto su tutte le cose della natura, perchè possiede Cristo che è il Signore della natura. A questo sentimento si riferisce primieramente il poter de' miracoli promesso alla fede di cui Cristo disse: [...OMISSIS...] . Ed ancora: [...OMISSIS...] . E di nuovo: [...OMISSIS...] . Ed anche: [...OMISSIS...] . Alla preghiera fedele è promesso tutto, senza ostacolo che possano fare le leggi della natura. Avviene però che il fedele rare volte cerca miracoli per sè, e quasi sempre li desidera perchè i popoli conoscano per essi la verità evangelica: egli che già crede non ne ha bisogno, e pel rimanente si contenta dell' ordinaria provvidenza di Dio, nelle cui mani sta; il suo unico desiderio è di possedere la santità, alla quale ottenere non fanno mestieri miracoli esterni. Onde, non desiderandoli, nè volendoli, nè pure può aver quella fede di ottenerli che li produce. Quindi i miracoli succedevano più frequenti al principio quando si dovea propagare il Vangelo, ed ancora accadono quando sembrano necessarii agli uomini apostolici per diffondere alle nazioni infedeli l' evangelica verità. Del rimanente può anche accadere che si desiderino i miracoli per aumento della pietà o per la glorificazione dei santi; e se sorge nel cristiano questo desiderio, e la fede con esso, e quindi dimanda il miracolo, questo avviene indubitamente, siccome avviene ancora ove il santo desiderio insorga nell' animo per qualsiasi altro onesto motivo, e quel desiderio sia semplice e produca una volontà assoluta d' ottenere il miracolo, una volontà santa che si trasfonda in orazione senza esitazione di sorta. Questa volontà santa, semplice ed assoluta di volere quella cosa miracolosa e di dimandarla conseguentemente senza esitazione, se non nasce per una speciale ispirazione di Dio o non vi abbiano i motivi addotti della propagazione del Vangelo o della glorificazione dei santi, suol trovarsi più facilmente nei santi uomini idioti che non sia ne' gran letterati, benchè santi anche questi, a cagione che questi ultimi, avendo più lumi intorno l' ordinaria Provvidenza, più in questa si confidano, e tanto di questa si assicurano e ne aspettano con pazienza lo svolgimento, che non vedono alcun assoluto bisogno di volere e di dimandare il miracolo, onde non ne hanno una volontà assoluta e non lo dimandano semplicemente e senza condizione a Dio. Nè perciò questi si tengono meno ricchi e padroni degli avvenimenti de' primi. Tutti gli uomini santi sentono di possedere in Cristo il tutto, e con esso tutte le cose di cui egli è Signore, onde S. Paolo: « Si Deus pro nobis, quis contra nos? » [...OMISSIS...] . Di che di nuovo l' Apostolo: « Habeo autem omnia et abundo (2)... » Laonde tutte le cose dell' universo avvengono dirette dalla Provvidenza al bene e al perfezionamento dei Santi: [...OMISSIS...] , dei quali ha detto Cristo non perirà un capello (4). Ma nel medesimo tempo l' uomo santo intende che il possesso ch' egli ha di tutte le cose, lo ha in Cristo e per Cristo che è in lui, onde si considera come un figlio di famiglia che è bensì padrone, ma subordinatamente al Padre che è il vero padrone, sentimento espresso dall' Apostolo in quelle parole ai Corintii: [...OMISSIS...] . E ancora i santi incorporati a Cristo si chiamano suoi coeredi , perchè, essendo Cristo l' erede, come quello che morì in forma dell' uomo vecchio e risorse uomo nuovo, ereditando tutto ciò che all' uomo vecchio apparteneva ed anzi tutte le cose, egli, formante un corpo solo coi fedeli sue membra, chiamò queste stesse a parte della regale e magnifica sua eredità. Il terzo sentimento della magnanimità cristiana si è il disprezzo delle ricchezze e di tutte le cose del mondo; perocchè l' uomo incorporato a Cristo e santo, non cura di possedere a titolo umano e con brighe e sollecitudini temporali poche cose ed incerte, quando sa di possederle tutte in Cristo, e d' averle pronte, senza darsene briga o fastidio, ogni qual volta gli bisognano al proprio fine soprannaturale che solo apprezza come vero bene. Di che egli sente la beatitudine della povertà proclamata da Cristo, alla quale fu promesso il regno de' Cieli (1); sente ancora quell' altra voce di Cristo: « Nolite ergo solliciti esse dicentes: quid manducabimus, aut quid bibemus, aut quo operiemur? haec enim omnia gentes inquirunt. Scit enim Pater vester, quia his omnibus indigetis. Quaerite ergo primum regnum Dei et justitiam ejus et haec omnia adjicentur vobis (2) ». Per le quali cose l' Apostolo descrive il ministro di Cristo con queste parole: « Sicut egentes, multos autem locupletantes: tanquam nihil habentes, omnia autem possidentes (3) ». A cui s' aggiungono le ricchezze non corrotte e non corruttibili promesse al Cristiano dalla voce di Cristo in un altro tempo, di cui potrà goderne senza timore e senza diminuzione di santità: [...OMISSIS...] Il quarto sentimento della magnanimità cristiana è la quiete nella condizione e nell' esercizio de' doveri del proprio stato, quando Iddio non muova e chiami all' opere straordinarie; e per l' opposto è l' intraprendenza e il coraggio perseverante nell' affrontare e condurre a termine le opere straordinarie a cui Iddio dà la mossa, e che mostra di volere. La quiete nasce nell' uomo incorporato a Cristo, rispetto ai beni umani ed al miglioramento di sua condizione, perchè sentendo di posseder Cristo è soddisfatto come del possesso del tutto. [...OMISSIS...] . Onde quelli che hanno in sè il sentimento di Cristo, non possono essere inquieti e solleciti per ottenere umani avanzamenti e ricchezze, ma vivono nel loro stato tranquilli. Ma nè pure il cristiano esce dalla sua quiete per intraprendere di proprio moto e senza conoscer prima la volontà di Dio opere straordinarie, benchè in se stesse sante e rivolte a glorificare Iddio. E ciò pel sentimento di umiltà, pel quale sa di essere un nulla e di nulla per se stesso capace. Di poi perchè non ignora che Gesù Cristo, che è in lui e il qual solo può fare in lui e con lui le cose grandi per la divina gloria, se le volesse, gliene darebbe l' impulso e gli manifesterebbe, cogli avvenimenti diretti dalla sua Provvidenza e in altri modi altresì, il suo volere. In terzo luogo perchè l' uomo non può sapere se un' opera anche buona in se stessa entri nel gran piano di Dio, e quindi sia un vero bene nel tutto, e quindi ancora Iddio la voglia far riuscire. [...OMISSIS...] . In quarto luogo perchè sa che tutte le cose, in qualunque modo egli operi, sono dirette dal Padre alla massima glorificazione del Figlio, ed anzi sono tutte date in mano del Figlio: onde questo effetto ch' egli tanto desiderava già viene ottenuto, o con lui se vuole Iddio, o senza di lui se non vuole. Ma quando lo spirito di Cristo, che è in lui, lo muove, quando la volontà di Dio si manifesta, quando si presenta quella necessità morale, di cui diceva S. Paolo: [...OMISSIS...] (4), allora l' intraprendenza, il coraggio, la perseveranza del Cristiano per la salvezza delle anime e per l' opera più stupenda di carità non ha limiti. Già egli mandato da Dio sente la sua immensa potenza in quel Cristo nel quale opera: egli superiore alla morte e a tutti i beni del mondo che disprezza, sapendo d' aver tutto ciò in sue mani, dice coll' Apostolo: « Omnia possum in eo qui me confortat (1) »: le difficoltà, le angustie, le infermità lo avvigoriscono: [...OMISSIS...] . Nè lo arretra o sgomenta il sentimento della propria debolezza, perchè confida in Cristo e non in se stesso, perchè sa e sente quello che dice l' Apostolo: « quae stulta sunt mundi elegit Deus, ut confundat sapientes: et infirma mundi elegit Deus ut confundat fortia: et ignobilia mundi et contemptibilia elegit Deus et ea quae non sunt, ut ea quae sunt destrueret: ut non glorietur omnis caro in conspectu ejus (3) ». E l' uomo incorporato a Cristo ripone veramente se stesso fra le cose che non sono, [...OMISSIS...] perchè egli non vive più della vita propria, cioè non conta più questa vita e non vuole operare secondo essa, ma vive in lui l' uomo nuovo Gesù Cristo, pel quale solo e col quale, siccome sua nuova vita, vuole operare e sa di potere. Laonde in questo sentimento del proprio nulla, viene esclusa la falsa umiltà, ed ha luogo la ricognizione de' doni di Cristo, e quella cotal maniera di gloria di cui l' Apostolo dice: « Qui autem gloriatur in Domino glorietur (4) ». Il che ha più significati: perocchè vuol dire di gloriarsi in quel Signore che fa tutto il bene in noi, attribuendone a lui solo la gloria di cui egli ci fa partecipi (5); vuol dire di gloriarsi non della nostra nullità o nelle cose vane e riprovevoli, ma di riporre la nostra gloria nell' essere uniti a Dio (6); vuol dire ancora di aspettare che quel Signore Gesù Cristo che è in noi già glorificato dal suo Padre celeste comunichi a noi egli stesso della sua gloria, senza che ce la prendiamo noi stessi, che non siamo conoscitori nè giudici del merito, nè nostro, nè altrui (7). Ora nè pure la magnanimità cristiana, sentimento nobilissimo da più sentimenti risultante, poteva essere nel primo uomo, perchè egli non era annientato per lasciare in sè luogo a Cristo; ma Adamo viveva della vita sua propria, benchè la sua mente avesse la percezione del Verbo, e secondo quella vita umana e limitata operava, e poteva, se avesse voluto, e onestamente operare, e sempre più spingersi a partecipare della vita intellettiva e della grazia del Verbo. Dalla congiunzione fisica7intellettuale7morale dell' uomo con Cristo, per la quale Cristo diviene il capo, i fedeli le membra che dal capo ricevon la vita e l' operazione, di maniera che Cristo è il principale operante nel Cristiano che non pone ostacolo cooperando alla mozione del capo, si viene ad intendere il valore di alcune formole solenni usate nelle divine Scritture e risonanti di continuo in bocca de' primitivi cristiani. Una di queste formole è quella « in Cristo »: [...OMISSIS...] Essere in Cristo Gesù è quanto dire essere inseriti in lui come il tralcio nella vite, e dice: ex ipso cioè ex Deo, perchè questa incorporazione è opera della santissima Trinità e s' attribuisce al Padre, dal quale procede il Verbo e con esso Verbo tutto ciò che al Verbo s' unisce e forma un corpo con lui, quasichè i fedeli stessi, divenuti una cosa col Figliuolo, e così divenuti Figliuoli anch' essi, procedessero essi pure dal Padre. « In Christo Jesu per Evangelium ego vos genui (2) ». Generare in Cristo è lo stesso che incorporare, inserire in Cristo. E si dice generare, perchè Cristo divenendo il principio supremo dell' operare, ossia suscitando per la sua congiunzione coll' uomo una nuova attività nell' uomo, superiore a tutte le altre ed atta a dominarle, l' uomo diviene con ciò una nuova persona, giacchè la base della personalità consiste nel principio intelligente supremo dell' operare. Onde S. Paolo considera l' uomo in Cristo come creato di nuovo, un uomo nuovo (3), una nuova creatura, che sola ha prezzo, nulla valendo tutto il resto [...OMISSIS...] . E poichè, rinnovata la personalità, creato un principio supremo e dominatore nell' uomo santo, ed incorruttibile, egli è come seme da cui dee rinnovarsi l' intera natura umana e tutto ciò che è fatto per essa, giacchè, ottenuto il fine, non possono, secondo la divina sapienza, mancare i mezzi, e il principale dee tirare a sè l' accessorio; quindi nel rinnovamento della parte superiore dell' uomo vede l' Apostolo giustamente la rinnovazione di tutto il mondo umano e la restaurazione di tutte le cose: [...OMISSIS...] , ed è quello che avevano già predetto gli antichi profeti (2). Il che fu l' eterno gran disegno di Dio, pel quale anche permise la caduta del primo uomo: « ut notum faceret nobis sacramentum voluntatis suae, secundum beneplacitum ejus quod proposuit in eo, in dispensatione plenitudinis temporum instaurare omnia in Christo, quae in coelis et quae in terra sunt, in ipso (3) ». Dove per quelle cose che sono ne' cieli s' intendono le spirituali, l' intelligenza e tutto ciò che è e si fa in essa, ossia la volontà intelligente, la quale va di cielo in cielo, di virtù in virtù, di perfezione in perfezione fino che, toltale intorno la benda corporea e tutte le macchie, perviene al cospetto di Dio nel Cielo de' Cieli. Per le cose poi che sono in terra deve intendersi il corpo umano, l' animalità e tutte le cose esterne che alla vita animale si riferiscono, le quali pure a suo tempo saranno restaurate, e già incominciano ad essere per la Provvidenza che le guida e rivolge a favore di quelli che amano Dio. E dice in ipso , perchè in Cristo sono tutte incorporate e formanti con esso lui un solo corpo, di cui egli è il capo e lo spirito vivificante; perocchè con Cristo non è solo incorporata l' anima, ma essendo Cristo non solo Dio, ma ancora uomo, e l' umanità di Cristo essendo composta necessariamente d' anima e di corpo, egli è di conseguente rettore, capo e vita non meno delle anime che de' corpi degli uomini, in un modo nel presente, in un altro più perfetto nel futuro, quando anco i corpi saranno intieramente rinnovati e perfezionati. Laonde S. Paolo anche nel tempo presente chiama i corpi de' Cristiani membra di Cristo [...OMISSIS...] . E non già che il corpo nella presente condizione sia pienamente riformato e fatto anch' egli degno della vita di Cristo; ma per la sua congiunzione collo spirito incorporato in Cristo, e per l' influenza dell' umanità di Cristo, come vedremo in appresso, acquista una cotale santificazione, e partecipa in qualche modo della stessa vita spirituale. Il che è quello che vuol dire S. Paolo conchiudendo: « Qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est », non apprezzandosi il corpo come corpo, ma come partecipe d' una cotale spiritualizzazione, onde impedisce meno allo spirito di santificarsi, e alla santificazione di lui coopera. Rimanendo però nel corpo, fino che sta nella vita presente, qualche cosa di restìo e di materiale, onde anche soffre quanto più lo spirito a Dio si congiunga; conviene che a suo tempo venga distrutto e rinnovato colla risurrezione, al che si riferisce S. Paolo [...OMISSIS...] . Innumerabili sono le maniere di dire nelle quali ricorre nel favellare degli apostoli e de' loro discepoli l' espressione in Cristo, perocchè tutto ciò che è o che fa l' uomo cristiano, è in Cristo, lo fa in Cristo. [...OMISSIS...] ; e così di ogni altra cosa che avviene all' uomo soprannaturale, o che egli patisce, o che egli fa. Basta aprire le scritture degli Apostoli per abbattersi in questa fecondissima espressione in Christo, che egualmente ricorre ne' primi scrittori della Chiesa, nelle lapidi mortuarie cristiane, negli altari e nelle Chiese, in tutti i monumenti della cristiana tradizione. In questa solenne parola in Christo si contiene compendiato tutto il Cristianesimo, perchè esprime la reale mistica unione dell' uomo con Cristo, nella quale unione e incorporazione consiste il Cristianesimo in atto. Questa unione e incorporazione è il principio della pietà e scienza cristiana, perocchè il Cristianesimo, prima è pietà appartenente all' ordine attivo morale, e poscia è scienza appartenente all' ordine astratto intellettuale. Dal sentimento di questa incorporazione procede tutta la dottrina morale ed ascetica dell' uomo cristiano: questo sentimento è luce che lo illumina, perocchè è il sentimento di Cristo. L' unione e l' incorporazione reale dell' uomo con Cristo ha due parti. L' una e la prima e fondamentale è l' opera di Dio solo, è il fondamento della seconda; quella che si chiama anche la generazione spirituale, la nascita dell' uomo nuovo: è il congiungimento stabile che Cristo fa dell' uomo a sè; onde la nuova creatura. La seconda parte, propagazione ed effetto della prima, non è fatta dal solo Cristo, ma da Cristo coll' uomo, a cui s' è congiunto. L' uomo, acciocchè abbia luogo questa seconda parte della sua incorporazione a Cristo, acciocchè questa incorporazione abbracci totalmente l' uomo, dee non porre ostacolo all' operazione di Cristo e lasciarsi muovere spontaneamente secondandone gli istinti. La prima di queste due parti è l' impressione del carattere, di quel carattere che, secondo l' Apostolo, è il carattere della sussistenza di Dio; cioè del Verbo incarnato. La seconda è la diffusione nell' uomo della grazia abituale e santificante che viene dal carattere, cioè dal Verbo di Dio incarnato che emette il suo spirito nell' uomo che non resiste e lascia muovere la propria spontaneità da esso spirito. Dicevamo che l' impressione del carattere è fatta dal solo Cristo: questo si verifica a pieno nel bambino che non può opporre alcun ostacolo. Nell' adulto però, che è in condizione di operare colla sua volontà, quando viene battezzato (giacchè col battesimo, come noi diremo in appresso, s' imprime primieramente il detto carattere), si esige che almeno abbia l' intenzione di ricevere il battesimo di Cristo, o il battesimo datogli dalla Chiesa di Cristo: perocchè se egli o avesse intenzione semplicemente di subire quella funzione materialmente o la subisse con animo del tutto avverso a ricevere esso battesimo, non volendo anzi al tutto riceverlo, l' effetto dell' impressione del carattere non seguirebbe. Conviene adunque pel primo effetto, che nell' uomo non vi abbia la volontà avversa a riceverlo: e pel secondo, che vi abbia la volontà credente e docile al sentimento di Cristo, qualora questa vi possa essere; e se non vi può essere alcun atto di volontà, come nel bambino, conviene che vi abbia la volontà in potenza che riceve l' abito della fede e l' inclinazione ad essa senza ostacolo. Perocchè Cristo, che incorpora a sè il bambino, piega a sè abitualmente la volontà del medesimo, la quale si lascia piegare a quello che la tira, senza possibile resistenza. Laonde il carattere s' imprime nell' essenza dell' anima in quanto è intelligente, affettando la natura umana; la grazia poi informa la volontà dell' uomo, cioè l' essenza dell' anima in quanto è volitiva: e così tutto l' uomo rimane a Cristo congiunto, il che San Paolo chiama: « « vestire Cristo (1) » ». Ora da questa meravigliosa congiunzione dell' uomo con Cristo gli Apostoli e i loro successori derivarono, come dicevamo, tutti i precetti della morale e della perfezione cristiana quasi da un principio che nel loro seno tutti li racchiude, ed indi trassero argomento a tutte le loro esortazioni colle quali stimolavano i fedeli alla virtù cooperando a quel fondamento che già era in loro collocato della spirituale loro salvazione. E da prima da questa dottrina procedeva che la vita puramente naturale dell' uomo, cioè l' uomo vecchio, corrotto dal peccato naturale, non aveva più alcun valore, e però era condannato alla morte, e doveasi considerare come morto; laddove la vita novella, la vita di Cristo comunicata all' uomo era quella in cui doveva porsi ogni speranza, contenendo il seme dell' immortalità ed essendo veramente per sè immortale ed eterna. Onde S. Paolo diceva ai Romani [...OMISSIS...] . Sotto la parola carne e la parola corpo s' intende la vita naturale, adamitica, guasta dal peccato, onde nulla si può sperare perchè dannata alla morte, quando il bene e la salute dell' uomo sta nell' immortalità. Onde anche Cristo aveva detto: « Spiritus est qui vivificat, caro non prodest quidquam (3) ». E l' Apostolo: « Ergo, fratres, debitores sumus non carni, ut secundum carnem vivamus. Si enim secundum carnem vixeritis, moriemini: si autem spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis. Quicumque enim spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei (4) ». Laonde queste due maniere esse in carne (1) ed esse in spiritu significano e contrappongono l' una all' altra le due vite: la vita naturale, mortale, corruttibile e corrotta ricevuta da Adamo per via di naturale generazione; e la vita di Cristo a noi comunicata per la generazione soprannaturale. Alle quali due maniere rispondono quest' altre: ambulare secundum carnem, cioè vivere secondo i desiderii della vita naturale e infetta dal peccato; e ambulare spiritu, cioè vivere secondo gli istinti della vita nuova di Cristo incorruttibile a noi comunicata. « Nihil ergo nunc damnationis est iis qui sunt in Christo Jesu, qui non secundum carnem ambulant (2) »: dove il qui sunt in Christo Jesu indica la prima fondamentale incorporazione con Cristo, e il qui non secundum carnem ambulant indica la cooperazione di colui che opera secondo gli istinti della nuova vita ricevuta dalla congiunzione con Cristo. Nulladimeno, quantunque chi vive della vita di Cristo non si considera più come fosse in carne, perchè rinunziò a questa vita carnale; tuttavia, fino che l' uomo vive, cammina in qualche modo nella carne, perchè questa non è tolta effettivamente del tutto, e combatte contro lo spirito. Onde S. Paolo dice di sè: « In carne enim ambulantes, non secundum carnem militamus », e ne rende la ragione dicendo: « Nam arma militiae nostrae non carnalia sunt, sed potentia Deo ad destructionem munitionum, consilia destruentes (3) »: nel qual luogo « il camminare nella carne »significa la condizione dell' uomo cristiano in questo mondo ancora impacciato colla vita animale corrotta, la quale sta sempre sull' assalire lo spirito, ma questo la combatte, non già contrapponendo alla carne armi carnali, ma spirituali, cioè tolte dalla vita di Cristo di cui egli partecipa, e di cui solo tien conto, come sua propria vita. La frase poi esse in spiritu, per opposto di esse in carne, significa appunto la perfetta incorporazione con Cristo, che si compie, come abbiamo detto, colla volontà consenziente e cooperante alla operazione di Cristo, nel che sta l' effetto della grazia. Perocchè lo spirito di cui si parla è lo spirito di Cristo, onde soggiunge: « Si quis autem spiritum Christi non habet, hic non est ejus (4) », e si chiama anche « « lo spirito della vita di Cristo ». Lex enim spiritus vitae in Christo Jesu liberavit me a lege peccati et mortis (5) », perocchè questo « spirito della vita », onde l' uomo viene avvivato quando è incorporato a Cristo anche colla sua volontà, è santo ed immortale. Ma conviene, perchè vi abbia questa vita nell' uomo, che Cristo stesso sia in noi spiritualmente, cioè che egli diffonda lo Spirito Santo che da lui e dal Padre procede nell' anima nostra: altrimenti non percipiamo Cristo secondo lo Spirito, ma solo secondo la carne. Il che dice S. Paolo così [...OMISSIS...] : il che è quanto dire, che solo col ricevimento della grazia di Cristo, e non per la sola impressione del carattere, e molto meno per una cognizione esterna priva della fede o della carità, si conosce Cristo spiritualmente, cioè partecipando del suo « spirito di vita », ma solo si conosce secondo la carne, la quale è morta e non dà la vita. E S. Paolo ripone appunto in questo la figliuolanza di Dio, non nella sola impressione del carattere battesimale, ma nella grazia che a lui consegue, se non trova ostacolo, in modo che l' uomo si lasci muovere dalla grazia, che è quanto dire dallo spirito di Cristo, e secondo questo operi: « quicumque enim spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei (2) ». Ora da questa doppia vita che è nell' uomo viatore, cioè la vita adamitica, e la vita di Cristo in cui siamo incorporati, vengono primieramente due parti della Cristiana sapienza: l' una speculativa ed è la dottrina intorno la lotta mortale fra quelle due vite, fra que' due uomini, il vecchio ripudiato, ed il nuovo, e intorno la storia di questa lotta è gran parte della teologia: l' altra morale ed ascetica e contiene i precetti del combattimento spirituale. La lotta fra la vita adamitica chiamata carne e la vita di Cristo in noi chiamata spirito è descritta di frequente nelle divine scritture. Dice S. Paolo: « Caro enim concupiscit adversus spiritum: spiritus autem adversus carnem: haec enim sibi invicem adversantur: ut non quaecumque vultis illa faciatis (3) ». Le quali ultime parole indicano la libertà di fare senza ostacolo il bene limitato dagli istinti della vita adamitica guasta in noi dal peccato. Questi istinti sono così enumerati dall' Apostolo: « Manifesta sunt autem opera carnis: quae sunt fornicatio, immunditia, impudicitia, luxuria, idolorum servitus, veneficia, inimicitiae, contentiones, aemulationes, irae, rixae, dissensiones, sectae, invidiae, homicidia, ebrietates, commessationes, et his similia: quae praedico vobis, sicut praedixi, quoniam, qui talia agunt, regnum Dei non consequentur ». All' incontro lo stesso Apostolo enumera i frutti dello spirito di Cristo in questo modo: « Fructus autem spiritus est: caritas, gaudium, pax, patientia, benignitas, bonitas, longanimitas, mansuetudo, fides, modestia, continentia, castitas (1). » Ma l' Apostolo c' insegna altresì che la vita naturale ed adamitica dell' uomo non sarebbe così corrotta e non lotterebbe di tanta forza contro lo spirito di Cristo, qualora non intervenissero le potenze malefiche degli Angeli delle tenebre, le quali sono entrate nella natura umana e nel mondo materiale quando i primi parenti mangiarono il frutto vietato, dove, come crediamo, il demonio si accoglieva: « Induite vos armaturam Dei », dice a que' di Efeso, « adversus insidias Diaboli. Quoniam non est vobis colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus principes et potestates, adversus mundi rectores tenebrarum harum, contra spiritualia nequitiae in coelestibus (2) ». E dice in coelestibus per significare la parte superiore dell' uomo, cioè la volontà, col solo consentimento della quale si compie il peccato formale, cui tende produrre in noi il demonio. E chiama i demoni principi e podestà, e rettori del mondo di queste tenebre, perocchè il demonio divenne principe di questo secolo da lui conquistato colla seduzione de' primi parenti: onde la vita adamitica, appunto perchè infestata dal demonio, è abbandonata a lui, che era omicida fino dal cominciamento (3), essendo il suo costante intendimento quello di estinguere l' uomo. Ma l' uomo nuovo Cristo, immune al tutto dal peccato, non potè venire menomamente in balìa del demonio, e quindi ottenne una vita immortale, colla comunicazione della quale agli altri uomini crea in essi un' umanità nuova, una vita nuova non soggetta alla morte, e però eterna: « Renati », dice S. Pietro, « non ex semine corruptibili sed incorruptibili per Verbum Dei vivi et permanentis in aeternum; quia omnis caro ut foenum, et omnis gloria ejus tamquam flos foeni: exaruit foenum et flos ejus decidit. Verbum autem Domini manet in aeternum (4) ». Lo stesso S. Pietro poi raccomanda a' primi cristiani di osservare la sobrietà e la vigilanza, colle quali virtù si tiene in suggezione la carne, e ne dà per ragione: « quia adversarius vester diabolus tamquam leo rugiens circuit, quaerens quem devoret (5) », dimostrando così essere gli angeli ribelli quelli che rendono insolente la carne, e tentano di dare all' uomo il tracollo acciocchè consenta ai desiderii ed istinti della carne. E Cristo stesso insegna che il diavolo porta via il buon grano seminato dal celeste agricoltore e caduto in sulla via: la qual via rappresenta il cuore di colui che ascolta predicare la parola del regno e non la intende (1), e che lo stesso inimico dell' uman genere soprasemina le zizzanie nello stesso campo dove il padrone aveva seminato il buon grano (2). E lo stesso Cristo disse agli Ebrei: « Vos ex parte diabolo estis (3) » per indicare la loro consumata malizia comunicata loro dal diavolo, il quale, come voleva estinguer l' uomo, così voleva uccider Cristo; nel qual pensiero erano pur venuti gli Ebrei; e per indicare l' ultimo grado di malizia del discepolo traditore, gli dà il titolo stesso di diavolo: « ex vobis unus diabolus est (4) », quasi indicando l' individua unione che il diavolo aveva stretto coll' Iscariotta, nel quale e col quale operava, quasi direi a quel modo stesso come Cristo fa nell' uomo santo già in lui innestato. Perocchè il demonio possiede più o meno dell' uomo adamitico, e solo Gesù Cristo per se stesso è inaccessibile al demonio, onde potè dire: « Venit enim princeps mundi hujus, et in me non habet quidquam (5) ». Maria SS fu certamente immune da ogni invasione del diavolo per grazia singolare ricevuta dal Figliuolo di cui ella era Madre. Ma, universalmente parlando, ne' Santi stessi, ne' quali non vi ha nulla di dannazione, vi ha qualche porzione della loro parte inferiore molestata e in qualche modo posseduta dal demonio: onde la lotta che accresce il loro merito, le venialità, e il bisogno della purificazione col fuoco e colla morte. Fin a tanto però che il demonio non possiede la parte superiore dell' uomo, la volontà suprema, l' uomo è imperfetto, ma salvo tuttavia per Cristo, e non sarà in lui distrutto dal fuoco se non quello che avrà edificato di combustibile sopra il fondamento di Cristo che è in lui: [...OMISSIS...] . Posta questa lotta accanita fra l' uomo adamitico e l' uomo nuovo, cioè Cristo, nel cristiano, deriva la dottrina, come dicevamo, del combattimento spirituale. Questo combattimento ha due parti: l' una tende a rinforzare l' uomo nuovo, farlo crescere sempre più robusto e sicuro; l' altra tende a debilitare il nemico, cioè l' uomo adamitico, togliendogli la baldanza di nuocere. Ora S. Paolo enumera specialmente le armi che valgono per ottenere il primo effetto in queste parole: [...OMISSIS...] . Sono dunque queste armi, enumerate da san Paolo, e da lui chiamate anche « armi della luce »(2). 1 La castità espressa coll' espressione de' lombi succinti, che S. Pietro unisce alla sobrietà dicendo « Propter quod succincti lumbos mentis vestrae, sobrii perfecte sperate in eam quae offertur vobis gratiam, in revelationem Jesu Christi (3) »: e dice i lombi della mente, perchè la castità risiede principalmente in una mente pura, serena, ed aliena da ogni cosa carnale, il quale stato della mente, a cui ottenere assai conferisce la sobrietà, facilita oltremodo all' uomo l' innalzarsi alle speranze di quella grazia gloriosa che è offerta all' uomo, quando Gesù Cristo si manifesterà a lui nel punto della sua morte e nella fine dei secoli. E l' Apostolo aggiunge « succincti lumbos vestros in veritate », volendo significare come non basti una castità apparente, un esterno decoro, ma una vera castità che rifugge da ogni immondezza, non solo negli occhi degli uomini, ma in quelli di Dio e della propria coscienza. 2 La giustizia che quasi lorica cuopra tutto il corpo dell' uomo, quella rettitudine d' animo che è sempre disposto a dare a tutti il suo, nè fa mai a nessuno alcun torto. 3 L' affetto e la buona disposizione all' evangelio della pace, al che richiede l' Apostolo che l' uomo abbia i piedi calzati, come colui che dee viaggiare, cioè sia pronto a far viaggio per cagione dell' Evangelio o debba egli esulare per la persecuzione, o sia chiamato ad annunziare il Vangelo ad altre genti, ovvero venga da Dio chiamato all' altra vita, dove l' Evangelio della pace si compie nella magione del Dio della pace. E dicendo l' Evangelio della pace, dopo avere raccomandato la giustizia, viene ad inculcare la mansuetudine e la pace con tutti. 4 La fede, colla quale siccome con un saldo scudo si può spuntare tutte le saette delle fallacie e false argomentazioni de' falsi sapienti del mondo, e degli eretici, suscitate nelle loro menti e suggerite dall' iniquo, cioè dal demonio. E chiama queste saette di fuoco, per la loro sottigliezza e nequitosità, e per rammentare la perdizione a cui sono destinate nel fuoco eterno della malizia onde provengono. 5 La speranza che chiama galea di salute, ossia del salutare [...OMISSIS...] che è Gesù Cristo, perocchè la speranza è appoggiata alle promesse di Cristo. E che la galea, ossia l' elmo del salutare, sia la speranza, rilevasi da un altro luogo dell' Apostolo ove dice: [...OMISSIS...] . Ora l' elmo è un' arma difensiva che protegge la testa, perchè la speranza procede dalla mente, dove sta la fede in Cristo, ne' suoi meriti, e nelle sue promesse. 6 La cognizione e lo studio della parola di Dio, giacchè l' uomo cristiano nella virtù di questa parola fondata nell' infallibile e fedele autorità di Dio stesso trova tali ammaestramenti e tali sentenze con cui repellere tutti i sofismi e le tentazioni dell' inimico; di che abbiamo l' esempio di Cristo che alla trina tentazione diabolica oppose altrettanti detti delle divine scritture. 7 L' orazione e l' ossecrazione continua [...OMISSIS...] fatta collo spirito e non colle sole labbra [...OMISSIS...] e con ogni istanza [...OMISSIS...] . Questa assidua orazione dee farsi per sè e per tutti i santi, cioè per tutti i fedeli che costituiscono insieme un solo corpo di cui è capo Gesù Cristo, e particolarmente per i ministri evangelici, acciocchè Iddio conceda loro il dono della parola, e la fiducia di predicare liberamente l' evangelica verità e di aprirne agli uomini il mistero. . A cui s' aggiunge, qual conseguenza necessaria, la vigilanza cristiana nello spirito d' orazione, per la quale l' uomo sta continuamente svegliato a ricevere le divine comunicazioni ed attento sopra se stesso e su tutte le sue operazioni per evitare ogni offesa di Dio, ed ogni mal passo. « Igitur non dormiamus », dice in altro luogo l' Apostolo, « sicut et caeteri, sed vigilemus, et sobrii simus (1) », giacchè la mancanza di sobrietà impedisce non meno la vigilanza che l' orazione. L' orazione e la vigilanza furono congiunte insieme anche da Cristo quando disse: « Vigilate et orate ut non intretis in tentationem (2) ». L' uomo è composto d' una parte intellettiva e d' una parte animale che presta all' intendimento i segni delle cose reali col mezzo de' quali egli le pensa. L' unione individua di queste due parti costituisce la razionalità in cui risiede la natura umana. Ma nella parte intellettiva e dotata di attività, onde prende il nome di volontà, risiede la persona umana in quanto la volontà è un principio attivo supremo. Salvata la persona, è salvato l' uomo; perita la persona, è perito l' uomo. Laonde il demonio tende a pervertire la persona, e Cristo all' opposto a salvarla. Cristo la salva congiungendo alla persona, cioè alla parte suprema dell' umana natura, se stesso, dandole della propria vita. Il demonio cerca per opposto sedurla operando nell' animalità, e col gioco de' fantasmi traendola a pensare al male e allettandola a volerlo. Quindi due nemici dell' uomo: 1 il demonio co' sofismi che induce nel pensiero umano, togliendo i fantasmi che potrebbero indurre a pensare rettamente, e quindi a pensare la verità, il bene, e sommovendo de' fantasmi che, pel loro disordine, stravolgono e ottenebrano la mente umana e la fanno pensare malamente e conchiudere alla falsità ed al male; 2 l' animalità che incita l' uomo, non senza opera del demonio, ai diletti sensibili, distogliendolo dai diletti spirituali. Il primo di questi due nemici si combatte principalmente col rinforzare l' uomo nuovo mediante gli otto mezzi suggeriti dall' Apostolo e di sopra enumerati. Laonde S. Paolo li propone come armi acconcie a combattere le potestà malefiche, dopo aver detto che la nostra lotta, anzichè contro la carne e il sangue, è « contra spiritualia nequitiae in coelestibus (1) ». Il secondo nemico, cioè la carne, si combatte coll' estenuare di forze l' uomo vecchio. Perocchè, quantunque il demonio cerchi di stimolarlo e dargli una forza prevalente, tuttavia egli non può tutto in quest' opera, e l' uomo può mortificando la carne rendere inutili gli sforzi dell' inimico per rinforzarla, il qual nemico d' altra parte viene ad essere diminuito di potestà e di forze mediante gli otto mezzi enumerati. La seconda parte adunque del combattimento spirituale consiste nel scemare forze all' uomo vecchio in quanto contraddice e molesta l' uomo nuovo; e l' uomo vecchio chiamasi carne, non perchè la sola carne formi l' uomo, o perchè si debba intender per esso la sola vita animale, ma perchè nell' ordine naturale tutto l' uomo vive della vita animale, giacchè la sola animalità gli somministra il sentimento soggettivo, nel quale sta la vita, il quale sentimento soggettivo, radicalmente animale, si fa razionale per l' intuizione dell' essere, col quale ragiona sulle cose sensibili od astratte e quelle razionalmente appetisce. L' uomo nuovo all' incontro ha un nuovo sentimento soggettivo, come diremo in appresso, nel quale sta la sua vita, e quel sentimento è una partecipazione della vita di Cristo. Quindi adunque procede tutta la dottrina della mortificazione della carne, e della penitenza cristiana, la quale conviene ora che noi dichiariamo. Conviene dunque considerare che l' uomo col peccato si era reso inutile al gran fine pel quale Iddio l' aveva creato, che era quello d' unirsi a lui e così partecipare della sua santità e della sua beatitudine; e, reso inutile, l' uomo doveva morire, perocchè non è secondo la divina sapienza e perfezione che sussista una cosa senza fine. Per questo già all' intimazione del precetto dato ad Adamo vi era annessa la comminazione della morte [...OMISSIS...] . Della morte poi dell' uomo fu occasione il diavolo, il quale aveva tolto a correre una sfida con Dio. Perocchè Iddio, per mettere alla prova la soggezione e fede degli Angeli, aveva creato l' uomo così mortale e fragile, com' egli è di sua natura, e aveva promesso di renderlo immortale santificandolo e fin anco divinizzandolo (coll' unirlo ipostaticamente al suo Verbo), e così renderlo oggetto d' adorazione agli angeli stessi, che per natura sono tanto più eccellenti dell' uomo. Alla qual parola di Dio credettero gli angeli buoni, e furono confermati in grazia. Ma i prevaricatori, superbi della loro eccellenza di natura, non credettero al misterio della divina parola, e parve loro un intollerabile abbassamento il pensiero di dover adorare una creatura tanto ad essi inferiore. Che anzi si lusingarono di poter distruggere un essere così fragile, come vedevano esser l' uomo. Quindi impossessatisi d' un frutto pensarono che entrerebbero nell' uomo, quand' egli, spiccatolo dall' albero, ne mangiasse; giacchè il cibo convertendosi nel corpo animato dell' uomo, essi potevano entrare a man salva nell' animalità, ossia nella vita soggettiva di questo essere, e farne quel governo che si proponevano. Il che diede occasione a Dio di avvertir l' uomo del pericolo, dandogli il precetto di non mangiare di quel frutto, coll' avviso che se ne avessero mangiato, sarebbero morti: il quale precetto amorevole dalla parte di Dio era d' altra parte opportuno per dar all' uomo occasione di sollevarsi al Creatore prestandogli fede ed obbedienza: il che era un vantaggio che Iddio traeva dalla malizia degli angeli ribelli. Questi dunque, posti all' impresa d' indur l' uomo a mangiare di quel frutto, trovarono dapprima l' opposizione del divino comando, ma ingannarono ben presto la donna promettendole, se n' avesse mangiato, di divinizzare lei e suo marito; il che era una pungentissima tentazione all' uomo, che sentiva tutta la potenza della vita e il voto della natura intelligente d' innalzarsi fino ad una infinita e divina eccellenza. La donna, compresa da una parte della grandezza della natura angelica che le parlava, la quale è da credere ch' ella abbia conosciuta smisuratamente maggiore della propria, cioè dell' umana, e tale da non potersi dall' uomo misurare, quindi indefinitamente grande (1); dall' altra, sollucherata dalla grandezza della promessa e dalla pienezza di cui godeva della vita umana, tenendosi sicura soverchiamente del futuro, riuscendole anche molesta la mortificazione e l' umiliazione dell' ubbidienza, e allettata dal senso che le mostrava il frutto oltremodo bello ed appetibile, e dalla curiosità di farne la prova, falsamente conchiuse esser cosa migliore il divenire pari a Dio per grandezza naturale, cioè fisica, e intellettuale, come le prometteva di presente l' angelo, secondando alla propria inclinazione naturale, che non sia, opponendosi a questa, acquistare la perfezione morale coll' ubbidienza al divino comandamento intimatole in passato, la quale la obbligava ad una costante sudditanza a Dio medesimo. Vinta da questo falso consiglio, credette al seduttore, e negò fede all' eterna verità, e così cadde ella prima e poscia il marito nella colpa, e col frutto mangiato si unì colla grandezza diabolica da cui s' era data a sperare sì gran fortuna. Così da una parte l' uomo naturale si rese inutile al fine della creazione, onde Iddio non aveva più cagione di difenderlo dalla morte; e dall' altra era entrato il demonio a guastare e disordinare l' umana natura, che rimase in tal guisa, e per giustizia divina, e per fragilità umana, e per istrazio diabolico, soggetta alla morte. L' uomo naturale adunque fu reso inutile: condannato alla morte, posseduto dal diavolo, che altro non fa che vie più disordinarlo e guastarlo, e condurlo più prontamente alla morte e al peccato che è lo stimolo (1). Se così fossero restate le cose l' umanità sarebbe rimasta distrutta, e il demonio avrebbe vinta la sfida col Creatore. Ma il Creatore non poteva perdere, e questa momentanea vittoria del demonio era l' occazione, la via, il mezzo col quale il Creatore medesimo voleva dar compimento al suo misericordioso disegno. Egli spiegò dunque il mistero della sua eterna volontà cogli avvenimenti. Preservò dal peccato originale una donzella eletta da tutta la stirpe d' Adamo, nella quale nulla potesse il demonio: alla quale preservazione dall' infezione originale bastava che rimanesse incorrotto un menomo seme nell' uomo, trascurato forse dal demonio stesso, dal quale seme incorrotto passato di generazione in generazione uscisse a suo tempo la Vergine che doveva schiacciare il capo al serpente (2). In questa Vergine s' incarnò per opera di Spirito Santo il Verbo, e così l' uomo che ne nacque fu non solo uomo ma Dio ad un tempo. Quest' uomo aveva la natura umana perfetta, incontaminata, del tutto innocente: a lui non era dovuta la morte. Gli altri uomini morendo pagavano la pena del peccato; per essa erano disfatti da uomini perdendo la vita soggettiva; nè dalla morte v' aveva possibile ritorno. L' Uomo7Dio nacque passibile e mortale, come gli altri figliuoli di Adamo, quantunque, essendo Dio, se avesse voluto avrebbesi potuto rendere immortale e impassibile, e sottrarsi in qualsivoglia guisa alla morte ed alle sofferenze. Ora il far questo era un atto di gran virtù, perchè era un rinunziare generosamente al proprio; era un atto di virtù, perchè in tale stato d' Uomo7Dio aveva occasione di esercitare con maggior ampiezza tutte le virtù verso Dio e verso gli uomini; era un atto di umiltà e di soggezione a Dio, onde solo egli aspettava ogni esaltamento ed ogni gloria; ed era un atto d' amore verso gli uomini, di cui voleva partecipare la somiglianza e tutti i mali, eccetto il peccato, e così poter con esso loro più comodamente trattare, e istruirli sull' abisso in cui erano caduti e sulla necessità di convertirsi a Dio colla parola e coll' esempio. Ora, se questo era moralmente eccellente, era mestieri che l' Uomo7Dio, che doveva in sè accogliere tutta la grandezza morale che è la vera e compiuta grandezza, ciò che non aveva inteso l' uomo primitivo, pigliasse questa via sublime: e così fece. Ma il Padre, oltracciò, abbandonò quest' agnello innocente alla rabbia de' lupi. Gli uomini rei e schiavi del demonio non poterono sostenere la vista del giusto nel mezzo di essi. Essi dunque dissero e fecero quello che si trovava già scritto molti secoli prima nelle Scritture, le quali dovevano compirsi (1), e Iddio ve l' aveva fatto scrivere acciocchè apparisse che era il suo eterno decreto. Dissero: [...OMISSIS...] . Tutto ciò alla lettera gli uomini compirono col solo Giusto, il S. N. Gesù Cristo: « fecerunt quae manus tua et consilium tuum decreverunt fieri (3) ». Gesù Cristo espresse alla stessa guisa del libro della Sapienza il fatto dell' odio gratuito, con cui il perseguitarono gli uomini: odio tutto proprio di Cristo solo, perchè solo aveva la pienezza della giustizia, della santità e della divinità. Ai suoi parenti, che lo esortavano a recarsi nella Giudea per farsi conoscere, rispose: « Non potest mundus odisse vos: me autem odit: quia ego testimonium perhibeo de illo, quod opera ejus mala sunt (4) ». E altrove [...OMISSIS...] . Conviene anche osservarsi, che mentre Cristo diceva a' suoi parenti, quando ancora non credevano in lui: [...OMISSIS...] dice all' incontro ai suoi discepoli che già credevano e quindi erano incorporati con lui: [...OMISSIS...] . E più altre volte predice ai suoi seguaci che saranno trattati come lui, perchè « non est discipulus supra magistrum (6) », che anzi l' Apostolo pronuncia in generale che «omnes qui pie volunt vivere in Christo Jesu persecutionem patientur (7) ». Questa è la lotta fra l' uomo vecchio e il nuovo: quella lotta medesima che si manifesta nell' uomo rigenerato fra lui e quel rimasuglio d' uomo vecchio che ci rimane, fra lo spirito e la carne. Solamente che l' uomo nuovo, che vive della vita di Cristo ed opera secondo gli istinti di questa vita, non ha più in se stesso per avversario un altro uomo, ma solamente delle forze nemiche quali sono la concupiscenza e il demonio che più o meno vi si può maneggiare. All' incontro nella lotta fra Cristo e il mondo, cioè gli uomini malvagi, e lo stesso si dica della lotta fra i cristiani che sono in Cristo e i malvagi che li perseguitano, il combattimento non è della persona umana e delle forze nemiche, che appartengono alla natura dell' uomo ma non sono costituite in persona, ma bensì fra persone e persone, fra uomo ed uomo. La causa nulladimeno e la natura del combattimento è la medesima: salvo che nel primo caso tale combattimento è un fenomeno che si manifesta entro un individuo; nel secondo è un fenomeno che si manifesta in più individui, gli uni persecutori o insidiatori, gli altri perseguitati o insidiati. Esigendo dunque la perfezione della virtù, nel che consiste la grandezza morale, che l' uomo sia inteso unicamente a fare la volontà di Dio, e che dimentichi se stesso, cioè gli interessi proprii soggettivi, per non vivere che a seconda dell' oggetto; e quindi esigendo di aspettare ogni protezione, difesa, laude e gloria da Dio medesimo, che provvede magnificamente a' suoi servitori; esigendo finalmente che tutto ciò che appartiene al bene eudemonologico si brami e si aspetti come un effetto che fiorisce dal bene morale, di cui, secondo l' ordine ontologico, deve essere una cotale appendice e finimento, e non da se stesso senza la sua connessione naturale del bene morale: era mestieri che Cristo, destinato ad essere tipo e il realizzamento d' ogni perfezione, non provvedesse al proprio esaltamento, non usasse della divinità che possedeva a rendersi impassibile e glorioso, o a sottrarsi in altro modo dalle condizioni penali degli altri uomini, e quindi nè pure a togliersi dalla persecuzione che gli sarebbe fatta a cagione della sua giustizia odiata dal mondo maligno, che non riconosceva altra grandezza umana se non la fisica e l' intellettuale, ma che anzi sopportasse per la giustizia l' estremo dei patimenti e la morte. Il Padre celeste, per la ragione appunto che amava il Verbo incarnato d' un amore eterno ed infinito, doveva volere questa grandezza e perfezione morale di Cristo, in cui l' umanità doveva essere recata all' estrema altezza della eccellenza, la quale nel bene morale primieramente consiste. Questa dunque fu l' opera commessa dal Padre al Figliuolo mandato da lui nel mondo; questa volontà del Padre fu l' unica e costante regola della condotta di Cristo: [...OMISSIS...] . L' opera del Padre era l' uomo: quest' opera doveva essere condotta alla perfezione dal Figliuolo vestito dell' umana natura. « Non quaero voluntatem meam, sed voluntatem ejus qui misit me (1) »: cioè, io non cerco la mia volontà umana, soggettiva, non vo dietro all' istinto limitato dell' umanità; ma cerco la volontà perfettissima ed infinita di Dio Padre da cui procedo, e da cui sono mandato al mondo. Or questa volontà del Padre era ella una volontà positiva ed arbitraria? Voleva così il Padre perchè così era bene, ovvero era bene perchè così voleva il Padre? E se il Padre voleva così perchè era bene, qual è la ragione onde Cristo disse sempre esser venuto a far la volontà del Padre, in luogo di dire esser venuto a fare ciò che in se stesso era il bene perfetto, giacchè in tal caso l' esser bene ciò che faceva sarebbe stato una ragione del suo operare anteriore a quella della volontà del Padre, giacchè l' esser bene sarebbe stato la ragione dello stesso volere del Padre? Se poi la volontà del Padre era unicamente positiva ed arbitraria, non sarebbe ella stata una volontà senza ragione? e una volontà crudele, come quella che sommetteva il Figliuolo a tanto patimento senza una necessità? Per rispondere a questa difficoltà conviene prima di tutto riflettere, che non vi ha nulla di anteriore alla divinissima Trinità: non vi ha Dio, perchè Iddio è la Trinità; non vi ha l' essere, perchè l' essere è Dio; non vi ha l' ordine dell' essere, perchè appunto non vi ha l' essere, e l' ordine intrinseco e fondamentale dell' essere consiste nelle relazioni personali che costituiscono l' augustissima Triade; non vi ha dunque nè pure la forma morale dell' essere, perchè non vi ha l' ordine dell' essere di cui la forma morale è parte completiva. Ora questa forma morale è prima di tutto, nella sua assoluta ed originale perfezione, come persona, la persona dello Spirito Santo. Ora la persona dello Spirito Santo, che è l' essere oggettivo amato per se stesso, procede dal Padre per mezzo del Figliuolo per modum voluntatis, come dicono i Teologi, giacchè amare e volere suonano lo stesso, onde l' essere oggetto persona, amato ossia voluto per se stesso dalla sussistenza, cioè dal Padre, è lo Spirito Santo dove risiede l' assoluto bene morale, l' assoluta e personale santità. Vi ha dunque una volontà personale del Padre che è la spirazione che mette in atto lo Spirito Santo, nel quale la moralità essenziale come in proprio fonte si raccoglie. Non è anteriore adunque a questa volontà alcun bene morale, ma il bene morale originariamente da essa procede e si costituisce, ed è ad essa contemporaneo, ma secondo l' ordine logico posteriore. Convien dunque dire che la volontà del Padre, di cui parliamo, sia la ragione prima anteriore ad ogni moralità; ma, lungi da essere irragionevole ed arbitraria, è anzi quella che costituisce ogni ragione morale, ed è necessaria, come è necessaria nell' essere divino la spirazione del Santo Spirito che compisce e perfeziona la divinità sussistente in tre forme persone. A questa volontà per tanto si riferiva Gesù Cristo quando diceva di cercare non la volontà propria, ma la volontà di colui che lo ha mandato, di colui da cui egli stesso generato ab eterno aveva ricevuto di spirare, con una sola spirazione, lo Spirito Santo; di volere l' essere per sè voluto, per sè amato. Quest' essere adunque, in quanto è infinitamente amato, è l' oggetto della volontà del Padre e del Figliuolo, e la norma dell' operare di Cristo, il quale perciò doveva dare le massime ed esterne prove dell' amore verso l' essere stesso, sia in Dio dov' è assolutamente e per essenza, sia negli uomini dov' è contingente, relativo e partecipato. E quindi tale volontà del Padre, avendo una necessità morale, è chiamata da Cristo anche precetto, o mandato, e s' estende a tutte le azioni e passioni di quello che doveva esser tipo agli uomini di ogni perfezione: [...OMISSIS...] . E dice che questo mandato del Padre è la vita eterna, a cui riscontro sta la vita temporale; perocchè quel mandato essendo essenzialmente morale, contenente cioè la spirazione dello Spirito Santo che è il bene morale sussistente personalmente, esso dee contenere necessariamente la vita morale, la quale di natura sua è eterna. Con che in pari tempo dimostra, quanto il mandato del Padre valga più della vita temporale, la quale è passeggiera e momentanea, per modo che nulla si debba riputare il getto di questa pel guadagno di quella. Per adempire dunque questo mandato, e mostrare il suo amore al Padre (e nell' amore, come dicevamo, sta la forma morale dell' essere), Cristo non prezzò punto la temporale sua vita, e si soppose a quella passione che doveva essere l' estremo della morale eccellenza: [...OMISSIS...] . Il che è quanto dire che non moriva per necessità di giustizia, giacchè il demonio, che in lui non possedeva cosa alcuna, non aveva alcun diritto di conquista sopra di lui, e però non poteva dargli morte come agli altri uomini. Ma che egli nulladimeno moriva non costretto, ma per ispontaneo amore al Padre: il quale amore tuttavia era una necessità morale, e però un mandato del Padre, che, volendo in lui l' eccellenza morale, voleva l' amore e la prova suprema dell' amore, lo spontaneo sacrificio della vita. Onde la morte di Cristo fu al tutto spontanea ed effetto d' amore: ma, perchè questa spontaneità d' amore era la suprema eccellenza della virtù del Padre voluta nel suo Figliuolo umanato, perciò era ad un tempo stesso un mandato o precetto del Padre suo. Le quali due qualità, in apparenza opposte ma veramente armoniche, della morte di Cristo, cioè l' essere essa effetto di spontaneo amore e nello stesso tempo mandato del Padre che voleva questo amore nel Figliuolo, sono congiunte da Cristo anche in queste altre sue parole: « Propterea me diligit Pater, quia ego pono animam meam ut iterum sumam eam. Nemo tollit eam a me: sed ego pono eam a meipso; et potestatem habeo ponendi eam, et potestatem habeo iterum sumendi eam. Hoc mandatum accepi a Patre meo (1) ». E che il sacrificio dipendesse dalla sua libera volontà era stato già predetto anche da Isaia che aveva scritto di lui: [...OMISSIS...] . Ora, nelle citate parole di Cristo trovasi la conferma di quanto abbiamo detto: « Per questo, dice, mi ama il Padre, perchè io depongo l' anima mia per riprenderla ». Ora l' amore, che il Padre ha al suo Verbo come essenzialmente amabile ed amato, è la spirazione dello Spirito Santo; il Verbo, in quanto è oggetto amato, e non in quanto è Verbo cioè oggetto sussistente per sè cognito, è la persona dello Spirito Santo, la quale amabilità amata è l' essenza morale. Convien adunque che anche il Verbo incarnato, l' Uomo7Dio, fosse amato dal Padre, in quanto attuava la massima virtù morale, il massimo amore, di cui il sacrificio della vita temporale è il massimo atto, la massima prova: di maniera che il mandato dato a Cristo dal Padre è un atto di massimo amore del Padre verso il Figlio, è l' amore stesso del Padre e del Figliuolo formante la norma che doveva seguire l' umanità assunta dal Figliuolo. Ed ancora è da osservarsi, che non è solo volontà e mandato del Padre che il Figliuolo deponga spontaneamente la sua vita temporale acciocchè così eserciti la perfezione della virtù morale, ma è volontà del Padre altresì che poi la riprenda, e non più temporale, ma impassibile, gloriosa, resa vita eterna; e quindi il Figliuolo, a capello in accordo col Padre, non la dimette per dimetterla, ma per riassumerla dimessa; e in questo ancora è amato dal Padre, e in questo ancora ama il Padre: « Per questo mi ama il Padre, perchè io depongo l' anima mia per assumerla di nuovo. Nessuno me la toglie; ma io la pongo da me stesso, ed ho la potestà di riassumerla. Questo comandamento ho io ricevuto dal Padre ». Onde il comandamento del Padre si estende, non meno che alla morte, altresì alla risurrezione del Figliuolo: il male ed il bene per amore egualmente; e l' amore del Padre che vuole, è l' amore del Figliuolo che eseguisce; tutto il comandamento non è che amore: il bene eudemonologico qui tiene la naturale sua relazione col bene morale; non precede quello, è una sequela, un' appendice, un compimento di questo. Fra le ragioni, per le quali il Padre permise che il suo Figliuolo incarnato incontrasse la morte, si può annoverare anche quella, acciocchè apparisse manifesto dove tendesse l' uomo guasto dal peccato adamitico e in possesso del Demonio; a che conduceva lo sviluppo di un tal germe funesto; qual frutto era proprio di un tal albero. La profonda nequizia di un tal germe, la malizia diabolica che in esso operava, non sarebbe apparita intieramente agli occhi degli uomini; sarebbe stata nascosta, e quindi giudicata troppo più benignamente del merito, se non fosse pervenuta a commettere, in cospetto di tutte le nazioni, il deicidio. Laonde Simeone aveva predetto a Maria: « Ecce positus est hic in ruinam et in resurrectionem multorum in Isra‰l, et in signum cui contradicetur, et tuam ipsius animam pertransibit gladius, ut revelentur ex multis cordibus cogitationes (1) ». E forse, quando la turba rispondeva a Gesù Cristo che aveva detto perchè mi volete uccidere?, che nessuno lo voleva uccidere, ella non sapeva ancora il reo disegno de' principali della Sinagoga, e tuttavia Gesù Cristo rimprovera alla turba stessa che volesse ammazzarlo (2), per indicare che, quantunque la turba a cui favellava non avesse forse attuata una tale intenzione, tuttavia la portava virtualmente in se stessa nel peccato di cui era infetta. Non avendo adunque Cristo difeso se stesso, e il Padre suo avendolo abbandonato nelle mani degli uomini peccatori (3), egli fu crocifisso in odio della verità e della giustizia che predicava e che mostrava luminosissima e perfetta in se medesimo: il che rese Cristo il primo dei martiri e de' penitenti. Or, prima di avanzarci nel nostro ragionamento, consideriamo chi era Gesù Cristo. Egli era prima di tutto Dio, era il Verbo che costituiva la sua personalità; ma era ad un tempo uomo. E qual uomo era? In quanto era uomo senza peccato, egli era l' uomo innocente, il nuovo Adamo. Ma in quanto egli aveva voluto ricever la carne proveniente da Adamo, la carne passibile e mortale soggetta a tutte le infermità e dolori provenienti dal peccato, di cui egli non partecipava, egli era il Figliuolo dell' uomo . Con questa umile denominazione amò Gesù Cristo di chiamarsi (1); Figliuolo dell' uomo significava qualche cosa di più basso ed umile di uomo . Perocchè la denominazione uomo non involgeva il concetto di uomo decaduto dal primitivo suo stato, di uomo destinato alla morte; ma l' altra di Figliuolo dell' uomo indicava lo stato di decadimento, indicava il figliuolo del peccatore, indicava colui che soggiaceva alla pena del peccato. In questa condizione di uomo passibile e mortale, onde alcuni Padri si esprimono dicendo che aveva assunta la carne del peccato, egli poteva esercitare la massima virtù, rendersi l' esempio perfettissimo degli uomini, e morire calunniato e perseguitato per la giustizia, il che è appunto il maggiore esercizio e segno della morale perfezione. E tuttociò egli, ed il Padre suo, permise appunto che avvenisse. Ora, qual fu l' eterno disegno, l' ineffabile mistero che si racchiudeva in questa permissione? Ecco quanto conseguì dal fatto della morte di Cristo. La morte di tutti gli altri uomini era pura giustizia: pagato questo debito non avanzava loro nulla che potesse restituirli in vita, erano morti per sempre. Ma la morte di Cristo non era atto di giustizia, perchè non era giusto che l' innocente, il Santo, l' Uomo Dio patisse e morisse. Quest' uomo, e ad un tempo Dio, s' era abbandonato sino alla fine nelle mani del Padre suo; e per quella illimitata confidenza non aveva sottratto se stesso, come poteva, dai dolori; non aveva voluto dar nulla a se stesso, avea voluto tutto aspettare, tutto ricever dal Padre, perocchè questo era conforme alla norma della virtù, secondo la quale « « è migliore il dare che il ricevere »(2) ». Cristo non aveva mai pensato che a dare a Dio e agli uomini, in che consiste la generosità, una generosità illimitata ed eroica. Ma il Padre per un istante lo abbandonò, non lo protesse contro i suoi persecutori, lo lasciò spirare in sulla croce. E se mandò l' angelo a refocillarlo nell' orto, fu unicamente acciocchè non morisse nella tristezza e nell' agonia in cui era caduto, dando un ristoro fisico alla sua umanità languente acciocchè fosse riserbata al sacrificio della croce. Onde Cristo morì da parte sua due volte: sofferendo prima il supplizio del senso interno, cioè dell' imaginazione nel Getsemani; e poscia soffrendo il supplizio del senso esterno sul Calvario. Sicchè l' umanità in Cristo sofferì tutto ciò che poteva sofferire sino alla morte dell' una e dell' altra parte di cui risulta la facoltà sensitiva dell' uomo, cioè da parte della fantasia e da quella dell' esterno sensorio. Tutto questo senza che lo meritasse, perchè del tutto innocente, meritando anzi il contrario perchè pieno d' ogni santità. Ma il Padre è l' essenziale giustizia, e come giusto l' aveva invocato il Figliuolo quando aveva detto: « « Padre giusto, il mondo non ti conobbe, ma io ti ho conosciuto: e questi conobbero che tu mi hai mandato. E feci lor noto il tuo nome, e noto lo farò, acciocchè la dilezione colla quale tu hai amato me sia in essi, ed io sia in essi »(1). » Era dunque necessario che il Padre, come giusto, compensasse il Figliuolo di quanto aveva così ingiustamente tollerato e patito quasi fosse stato il massimo peccatore. I meriti del Figliuolo avevano d' altra parte un valore infinito, perchè unito ipostaticamente colla divinità in modo che si poteva dir veramente, per la comunicazione degli idiomi, che Dio stesso aveva patito ed era morto. Conveniva dunque, ad aggiustare queste partite della divina giustizia sbilanciate, 1 che l' umanità di Cristo, restituita alla vita non più mortale, fosse assunta agli onori divini, collocata nel più alto seggio alla destra del Padre; 2 che tutti i desiderii dell' umanità fossero appieno appagati, e posciachè fra questi ci aveva quella di dominare i suoi nemici, di esser fatta signora del mondo, anche questo doveva essere appagato. Queste due cose erano state predette e promesse al Figliuolo nelle antiche Scritture, e particolarmente nel Salmo che narra queste promesse così: « « Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra fino a tanto che io ponga i tuoi nemici sgabello a' tuoi piedi. Il Signore emetterà da Sionne la verga della tua virtù: signoreggia nel mezzo de' tuoi nemici. Teco è il principio nel dì della tua virtù fra gli splendori della santità: ho generato te dall' utero prima del lucifero. Giurò il Signore e non si pentirà: Tu sei Sacerdote in eterno secondo l' ordine di Melchisedecco. Il Signore è alla tua destra: Egli stritolerà i regi nel giorno dell' ira sua: farà giudizio tra le nazioni: empierà di rovine ogni cosa: farà battere in sul terreno il capo di molti. Egli s' abbevererà al torrente della strada: perciò alzerà il capo »(2). » In questo magnifico e sublimissimo Salmo il Padre dice al Figliuolo che ha consumato il suo sacrificio, e che s' è abbeverato al torrente della tribolazione e della povertà: « Sorgi e siedi alla mia destra ». Ecco la prima parte della mercede dovuta al Figliuolo: l' assunzione all' immortalità ed alla gloria divina della sua divina umanità. E di questa parte Cristo aveva detto: « Ego te clarificavi super terram: opus consummavi quod dedisti mihi ut faciam: et nunc clarifica me tu Pater apud temetipsum claritate quam habui priusquam mundus esset apud te (1). » Le quali parole rammentano quelle di S. Giovanni: « In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum; » e vengono a dire: Io prima d' esser manifestato agli uomini, anzi prima che fossero gli uomini e il mondo, cioè ab eterno, ero Dio: io fui generato prima dell' astro della luce fra gli splendori della santità, come dice il citato Salmo, della tua stessa sostanza, ex utero . Ora tu dunque decora anche la mia umanità di questa stessa gloria divina ed infinita, che come Dio non ho mai perduta, siccome tu già prima della costituzione del mondo hai predestinato nel tuo altissimo e sapientissimo consiglio facendomi sedere glorioso appresso di te, cioè alla tua destra. Dove scorgesi che l' espressione adoperata da S. Giovanni al cominciamento del suo Vangelo, apud Deum, conviene, benchè in diverso significato, non meno alla divinità che all' umanità di Gesù Cristo, in quanto questa è indivisa dalla divina persona. Questa comincia nel tempo a fruire di tal gloria per una cotale partecipazione, quando il Verbo la fruì ab eterno ed essenzialmente. L' altra parte del compenso e della mercede dovuta a Cristo si è l' accontentamento di ogni naturale desiderio della sua umanità rispetto agli uomini co' quali ha comune la natura umana. Il desiderio naturale dell' uomo è quello di essere il signore e dominatore del mondo, e di aver tanta potenza da poter sottomettere pienamente a sè i suoi nemici. Il qual desiderio è malvagio qualora non sia sottomesso alla giustizia e si voglia soddisfare indebitamente e senza un legittimo titolo, come avviene; ma in se stesso è fondato nella natura, e però non punto nè poco riprovevole: quand' anzi è tale che innalza e nobilita l' umana natura. Quindi nel citato Salmo Iddio dà a Cristo in piena balìa il mondo: gli promette di porre i suoi nemici a sgabello de' suoi piedi, lo esorta a signoreggiare nel mezzo di essi: la verga, cioè la potenza di Dio, uscirà da Sionne che rappresenta la giustizia, il bene morale, facendo che dalla virtù morale proceda la forza; e dice che nel giorno del suo trionfo sarà seco il principio, cioè Dio Padre, che è essenzialmente il principato, non solo il principe. Ma in qual maniera l' Uomo7Dio si prevale di tanta potenza accordatagli, di quella potestà di cui Cristo stesso aveva detto « dedisti ei potestatem omnis carnis (1), » e ancora dopo la resurrezione: « data est mihi omnis potestas in coelo et in terra (2)? » Amando Cristo come uomo la natura umana che egli possedeva, doveva amarla anche in tutti i suoi simili. Quindi, secondando il suo naturale affetto, doveva, colla risurrezione di tutti gli uomini, restituire tutta la natura umana distrutta colla morte. In tal modo egli vinceva il demonio, disciogliendo il maligno disegno di perdere questa fragile e mortale natura, che pure Iddio come opera sua voleva conservata. Aboliva anche il peccato originale, in quanto esso consiste e procede dalla corruzione della carne, dando ai risorti, quanto a sè, qualora non abbiano peccati attuali, un corpo perfetto. Onde l' Apostolo: « Nunc autem Christus resurrexit a mortuis primitiae dormientium: quoniam quidem per hominem mors et per hominem resurrectio mortuorum. Et sicut in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes vivificabuntur (3). » E altrove dice che « purgationem peccatorum faciens, sedet ad dexteram majestatis in excelsis (4), » attribuendo alla gloria di Cristo che siede in cielo, e di là può render partecipi gli uomini della sua gloria, la purgazione dei peccati. Ma non bastava a Cristo il restituire al genere umano, già divenuto preda della morte, la vita sua propria: l' affetto, di cui ardeva verso Dio e verso i suoi simili, troppo più richiedeva. E` proprio della natura umana l' amicizia; niuna cosa più desidera l' uomo non corrotto quanto l' unione col suo simile: ciascun uomo sente di non essere tutta la natura umana, e che una parte di questa è in altri individui: a lui sembra dunque di completare in se medesimo la umana natura, qualora può congiungersi il più strettamente che egli possa con altri individui della natura stessa, e divenir quasi una sola cosa con essi. Ma i vincoli, coi quali gl' individui umani possono stringersi ed adunarsi insieme, sono limitati dalle condizioni della stessa natura. Uno, e forse il più intimo di questi vincoli, è il coniugale che dell' uomo e della donna fa una sola carne, in cui vivono due anime concordi. Questa imagine viene adoperata nelle Scritture per indicare la stabile, perpetua e reale unione di Cristo co' suoi santi in Cielo. Cristo, quale Sposo, celebra colà eterne nozze colla Sposa sua la Chiesa in istato di termine, che è la società dei predestinati già comprensori. Giovanni nell' Apocalisse descrive la visione avuta di questa Sposa dell' Agnello nell' atto ch' ella scendeva da Dio di Cielo in terra: [...OMISSIS...] Nel Cantico de' Cantici si cantano i casti amori, divini preludii in terra dello stabile indissolubile matrimonio la cui consumazione è la stessa beata eternità: quivi non cade infedeltà di sorta o raffreddamento d' affetto. Or, come il coniugio è tolto a simbolo delle nozze di Cristo e della Chiesa, così viceversa quest' unione mistica, essendo perfettissima e santissima, diviene l' esemplare del coniugio dell' uomo e della donna cristiana, partecipando Cristo ai suoi seguaci che si uniscono in matrimonio di quella grazia e santità spirituale che annoda lui ineffabilmente colla Chiesa beata. Laonde S. Paolo dice: [...OMISSIS...] Laonde Cristo in compenso, e mercè de' suoi meriti e ineffabili patimenti senza alcuna sua colpa sostenuti, potè dal genere umano cavarsi la Chiesa, cioè unire e incorporare a sè quel numero di uomini che a lui piace, e fra questi eleggere quelli che partecipino della sua gloria. « Ascendisti in altum, » avea detto il Salmista, « cepisti captivitatem; accepisti dona in hominibus (2). » Il qual luogo, commentato da S. Paolo, dice: « Unicuique autem nostrum data est gratia secundum mensuram donationis Christi. Propter quod dicit: Ascendens in altum captivam duxit captivitatem: dedit dona hominibus. Quod autem ascendit, quid est nisi quia et descendit primum in inferiores partes terrae? Qui descendit, ipse est et qui ascendit super omnes coelos ut impleret omnia (4). » Così Cristo in conseguenza della gloria ottenuta co' suoi patimenti e della signoria del genere umano, atteso l' amor suo verso di Dio suo Padre e verso gli uomini consorti della natura da lui assunta, divenne loro redentore dalla morte e dal peccato originale, loro maestro e salvatore da tutte le colpe attuali, e loro glorificatore. Quindi ebbe la dignità di mediatore e di sacerdote, non solo quella di Re, come soggiunge il Salmo sopra citato: « Juravit Dominus et non poenitebit eum: Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech (1). » La dottrina del sacerdozio di Cristo è profondamente esposta nella lettera di S. Paolo agli Ebrei. In essa dimostra l' Apostolo come questa dignità di Pontefice se l' acquistò Cristo e meritò col suo essere passibile e mortale, e la esercitò co' suoi patimenti coi quali fece il sacrificio di se stesso. [...OMISSIS...] Il che viene a dire che avendo Cristo patito ed essendo stato tentato, quando la giustizia divina non avea cosa da punire in esso, conveniva che la giustizia stessa, che non concede che l' innocente soffra alcuna pena, dèsse a Cristo un ristoro e compenso del patimento sofferto e non meritato; e questo fu il lasciargli podestà non solo di risorgere egli stesso impassibile ed immortale, ma di poter anco venire in ajuto de' suoi fratelli nei loro patimenti e nelle loro tentazioni. Dice ancora « Non enim habemus pontificem, qui non possit compati infirmitatibus nostris; tentatum autem per omnia pro similitudine absque peccato (3). » Dove è da considerare, esser così fatta l' umana natura, che dall' esperienza del patimento ella ritenga una positiva cognizione di esso, la quale, per la legge della simpatia che è fra individui aventi una stessa natura, rende lei compassionevole e pietosa: e la natura umana in Cristo volle subire le leggi, fra le quali anche questa, alle quali essa natura soggiace. E quantunque ogni cosa meritassero i suoi patimenti, a compensazione de' quali ogni suo desiderio doveva venire soddisfatto dal Padre; tuttavia, perchè doveva esercitare in ogni cosa la massima generosità ed essere a noi compiuto modello, volle avere la gloria e la vita dovutagli piuttosto come impetrata con umili preghiere, che per giustizia meritata: o certo nell' uno e nell' altro modo. Di che di nuovo S. Paolo: « Et quidem cum esset Filius Dei didicit ex iis quae passus est obedientiam: et consummatus factus est omnibus obtemperantibus sibi causa salutis aeternae, appellatus a Deo pontifex juxta ordinem Melchisedech (4). » Il sacrificio adunque di Cristo ebbe virtù di rimettere i peccati degli uomini, perocchè, come dice S. Paolo: « Eum, qui non noverat peccatum, pro nobis peccatum fecit » (soffrì d' esser trattato come un peccatore), « ut nos efficeremur justitia Dei in ipso (1); » ed essendo egli risorto dopo aver patito, ed entrato in cielo, ivi egli esercita un perpetuo sacerdozio, e può riconciliare e far partecipi della stessa gloria quanti uomini a lui piace. Perocchè, come dice di nuovo S. Paolo, egli è fatto sacerdote « « non secundum legem mandati carnalis, sed secundum virtutem vitae insolubilis »(2), » e soggiunge: « « Et alii quidem plures facti sunt sacerdotes, idcirco quod morte prohiberentur permanere: hic autem, eo quod maneat in aeternum, sempiternum habet sacerdotium. Unde et salvare in perpetuum potest accedentes per semetipsum ad Deum, semper vivens ad interpellandum pro nobis »(3) » Laonde il solo sacrificio della morte di Cristo, dalla quale risorse glorioso, fu accettevole ed efficace per sempre a rimettere i peccati e salvare gli uomini. [...OMISSIS...] Imperocchè è da considerarsi che i sacerdoti della nuova legge, sebbene molti, tutti partecipano dell' unico sacerdozio di Cristo, e non offrono se non la medesima oblazione, cioè il corpo ed il sangue di Cristo. Nel che ancora apparisce l' unità che tutti formano con Cristo, perocchè è sempre Cristo quello che in essi opera quando sacrificano, per modo che un solo Cristo in tutti essi è il vero sacrificatore e la vera vittima sacrificata. Il perchè niuno può essere sacerdote della nuova legge se non è battezzato, attesochè solo pel battesimo s' incorpora l' uomo con Cristo, e Cristo è nell' uomo. La morte dunque di tutto il genere umano satisfaceva alla divina giustizia, ma non salvava l' uomo, anzi lo distruggeva; e l' anima separata dal corpo rimaneva sempre sotto la medesima giusta dannazione. Ma la morte di Cristo, sostenuta da lui senza averla meritata, non era una soddisfazione che dovesse dar Cristo per i proprii peccati; ma era un credito ch' egli acquistava verso la divina giustizia, un credito infinito, col quale, dopo pagato il debito dell' uman genere, rimaneva ancora tanto avere, da poter regalarne gli uomini d' ineffabili doni e di prezzo infinito. La morte di Cristo adunque salvò il mondo perchè meritò la risurrezione di Cristo, glorioso Signore onnipotente, Re ad un tempo e Pontefice, secondo il giuramento interposto dall' eterno suo Padre. Quindi è che le sacre carte attribuiscono sempre la salvezza del mondo alla risurrezione di nostro Signor Gesù Cristo, che, come aveva detto il Salmo, ascendendo nell' alto menò captiva la captività, cioè tolse al demonio il dominio sopra gli uomini e li fece captivi a se stesso, ed ottenne copia di doni da distribuire agli uomini stessi da lui liberati per giusta conquista. Laonde Cristo stesso avea detto agli Apostoli che tornava loro conto ch' egli se ne andasse di questo mondo al Padre « Quia vado parare vobis locum. Et si abiero et praeparavero vobis locum, iterum venio et accipiam vos ad me ipsum, ut ubi sum ego et vos sitis (1). » Conveniva che Cristo fosse glorificato, acciocchè egli potesse far partecipi della sua gloria i suoi discepoli. Il ritorno di cui parla Cristo, nel quale viene a prendergli, a riceverli a sè, a collocarli là appunto dov' egli è (non dice dove sarà, perchè Cristo fu sempre appresso Dio, non solo come Verbo, ma ben anco, in un altro senso, come uomo godendo della visione beatifica, benchè questa non espandesse i suoi effetti gloriosi fuori della mente del Salvatore), questo ritorno è appunto la comunicazione della gloria da lui ottenuta, e si riferisce principalmente alla seconda venuta del Salvatore, quand' egli risusciterà i giusti, che in lui credono, e li ammanterà della sua propria gloria. Perocchè, dicendo iterum venio et accipiam vos, parla all' uomo intero e non alla sola anima. Tuttavia un altro ritorno di Cristo è anche quello che avviene alla morte del giusto che in lui crede, quando accoglie a sè l' anima sua, e le dà della sua vita ammettendola alla visione di Dio. Un terzo ritorno di Cristo è l' effusione dello Spirito Santo, il quale segna Cristo nelle anime in cui viene, e dà loro la caparra dell' immortalità e della risurrezione; e di questo ritorno parla Cristo poco appresso dicendo [...OMISSIS...] Dice che pregherà il Padre, mostrando che come uomo egli impetra per gli altri uomini il dono dello Spirito Santo, di cui siamo per conseguente obbligati all' umanità di Gesù Cristo, che dopo aver meritato di essere esaudito in ogni suo desiderio, pregò mosso dalla sua carità per noi, e il priego che manifestava il suo desiderio non poteva andare inesaudito. Dice che non li lascierà orfani, cioè senza Padre, perchè egli, che è il Figliuolo entrato già in essi e ad essi congiunto come il capo alle membra, sarà illustrato dalla luce del suo Spirito, e avranno coscienza di possederlo, e così di essere veramente figliuoli di Dio partecipando della Figliuolanza del Verbo incarnato a cui sono indivisamente uniti. Di che S. Paolo attribuisce al Santo Spirito la consapevolezza che noi abbiamo d' esser divenuti figliuoli di Dio: [...OMISSIS...] dice, [...OMISSIS...] Dice finalmente che i suoi discepoli al lume dello Spirito Santo lo vedranno anche quand' egli sarà partito dal mondo, quia ego vivo et vos vivetis, cioè perchè essi partecipano della stessa vita di Cristo; e il veder Cristo è un atto di questa vita. Dice del pari che conosceranno il Santo Spirito, perchè apud vos manebit et in vobis erit: giacchè lo Spirito Santo non si può conoscere se non per lo Spirito Santo, onde il mondo non lo vede e non lo conosce, perchè nol può ricevere, atteso l' ostacolo del peccato. Ripete ancora che torna conto a' suoi discepoli che egli se ne vada, perchè, venendo egli glorificato, manderà lo Spirito Santo caparra della loro gloria futura: [...OMISSIS...] Per le quali cose S. Paolo attribuisce alla risurrezione di Cristo la nostra giustificazione; giacchè, se questa fu meritata dalla Passione di Cristo, fu però attuata e compiuta mediante la risurrezione; per la quale Cristo acquistò la signoria sopra di noi, e potè fare di noi secondo l' amoroso suo cuore: « qui traditus est » (così l' Apostolo) « propter delicta nostra, et resurrexit propter justificationem nostram (4); » giacchè, se non fosse risorto Cristo, egli non poteva comunicarci di quella sua vita gloriosa, e quindi noi non saremmo risorti, ma rimasti sotto la condannazione del peccato. Medesimamente S. Pietro attribuisce alla risurrezione di Cristo la nostra rigenerazione: [...OMISSIS...] E deduce dalla risurrezione medesima di Gesù Cristo, la virtù che ha il battesimo di porre in noi il germe della vita che aspettiamo gloriosa: [...OMISSIS...] La qual dottrina consuona mirabilmente con quella di S. Paolo, che a' Colossesi scriveva: [...OMISSIS...] Imperocchè non bastava che si distruggesse il vecchio uomo adamitico, se non si faceva vivere l' uomo nuovo: il che Cristo fece comunicando all' uomo della sua vita nuova ricevuta nella risurrezione. Perocchè l' uomo incorporato a Cristo, e divenuto un membro di quello stesso corpo di cui Cristo è il capo, dovea partecipare di tutte le vicende del capo, e con lui morire, e con lui risorgere. Laonde L' Apostolo non dubitava dire: « « Si autem Christus non resurrexit, inanis est ergo praedicatio nostra, inanis est et fides vestra: invenimur autem et falsi testes Dei, quoniam testimonium diximus adversus Deum quod suscitaverit Christum, quem non suscitavit si mortui non resurgunt. Nam si mortui non resurgunt, neque Christus resurrexit. Quod si Christus non resurrexit, vana est fides vestra, adhuc enim estis in peccatis vestris. Ergo et qui dormierunt in Christo perierunt. Si in hac vita tantum in Christo sperantes sumus, miserabiliores sumus omnibus hominibus »(1). » Nel quale luogo S. Paolo argomenta la risurrezione dei morti dalla risurrezione di Cristo; perocchè gli uomini non avrebbero potuto risuscitare, se Cristo risorto non avesse acquistato la potestà di fare altresì risorgere quelli che partecipavano con esso lui della stessa natura umana. Ma particolarmente dalla resurrezione gloriosa di Cristo argomenta la risurrezione gloriosa di quelli che morirono in Cristo, cioè incorporati a Cristo, e che perciò con Cristo formano una sola cosa, un solo corpo, che dee esser tutto avvivato della stessa vita, o tutto giacere nello stesso stato di morte: onde, posta la risurrezione del capo, è giocoforza porre altresì la risurrezione delle membra. Di più dice senza questa risurrezione rimane lo stato di peccato, adhuc enim estis in peccatis vestris, e perciò è vana la predicazione dell' Evangelio, cioè della buona novella, e vana è pure la fede che ad esso si presta; perocchè, giacendo gli uomini prostrati dalla morte, non può dirsi rimesso il peccato a quelli, in cui ne dura la pena. Finalmente fa intendere che senza la risurrezione non v' ha più speranza nella vita futura, e quindi i Cristiani sarebbero i più miseri fra gli uomini, posciachè dovrebbero sperare unicamente nella presente, a' cui diletti hanno rinunziato, ed è da loro considerata piuttosto come morte che come vita. La qual dottrina consuona a capello con quella che è costante in tutti i libri dell' Antico Testamento, dove la speranza della vita futura trovasi sempre fondata nella fede della risurrezione, e non in altro. Laonde il libro della Sapienza, parlando de' giusti defunti, non commenda il loro stato pel presente godimento a cui fossero ammessi, ma per la speranza, perchè « spes illorum immortalitate plena est (2), » e perchè a suo tempo Iddio perdona ad essi, « et in tempore erit respectus illorum (3), » e l' incontaminato « habebit fructum in respectione animarum sanctarum (4), » cioè nella risurrezione. E il fanciullo maccabeo, che veniva tormentato, nella risurrezione pone ogni sua speranza, dicendo che: « Rex mundi defunctos nos pro suis legibus in aeternae vitae resurrectione suscitabit (5). » E ancor più efficace è quel luogo ove parlandosi della colletta di dodicimila dramme d' argento fatta da Giuda Maccabeo ed offerta in Gerusalemme, acciocchè vi si offerisse un sacrificio pe' morti in battaglia, a cui erano stati trovati sotto le tuniche doni degl' Idoli, il sacro storico dice in modo assoluto, che se non vi avesse la risurrezione sembrerebbe inutile il pregare pei morti per la remissione de' loro peccati. E le parole son queste: [...OMISSIS...] La qual dottrina offerisce a noi cristiani una difficoltà che dobbiamo sciogliere accuratamente. Tutta la nostra felicità, la nostra speranza di felicità, si fa per essa dipendere dalla risurrezione: la remissione stessa dei peccati, o la giustificazione si afferma dipendere dalla risurrezione medesima. Ora noi sappiamo per fede che l' anima separata dal corpo, se non ha macchia di peccato, viene ammessa alla visione di Dio, e che se essa porta seco delle macchie leggere viene addetta al fuoco che la purga e rimonda, e, tosto che è resa netta e pura del tutto, la visione beatifica le è conceduta prima della risurrezione dei corpi. Come dunque può dirsi col citato libro de' Maccabei, che sembrerebbe superfluo e vano pregare pei morti ut a peccatis solvantur, quando non dovessero risorgere, mentre pure giova intercedere per le anime purganti acciocchè cessi presto il tormento, e passino presto a godere Iddio? E come, ancor più, può egli sembrare al vero conforme quello che dice l' Apostolo, che, se non vi avesse la resurrezione de' nostri corpi, noi cristiani saremmo i più miserabili degli uomini, quando pure le nostre anime, anche prima della risurrezione, possono fruire del beato consorzio di Dio? Affine di risolvere queste apparenti difficoltà conviene por mente a due cose: 1 Quale sarebbe lo stato dell' anima separata dal corpo ed abbandonata intieramente a se stessa; a ciò che ella ha per natura sua, senz' altra aggiunta o azione esteriore: 2 Che cosa s' intende per la risurrezione, opera del nostro Gesù Cristo, che cosa s' intenda particolarmente pei giusti che risorgono. Quanto alla prima questione è da rispondere che l' anima umana, privata che sia del corpo, ove non le venga alcuna giunta dal di fuori, non venga fatta in lei alcuna azione da qualche agente a lei straniero, l' anima umana separata, da sè sola, primieramente non ha più alcuna sensazione, nè fantasma, nè può fare alcun atto sensitivo, al che si richiede l' organo corporeo; e di conseguente non può più raziocinare nè pensare a cose reali, nè ad astratti che hanno sempre bisogno di qualche segno sensibile per esser pensati. Ella dunque non ritiene se non l' intuizione immota dell' essere indeterminato, e gli abiti contratti nella vita precedente che la individuano, i quali abiti non passano giammai all' atto, perchè nulla vi ha che li tragga a questo. Laonde l' anima, senza alcun termine reale, non avrebbe alcun sentimento, in quanto questo si definisce per la forma reale dell' essere; e però sarebbe senza alcuna vita, eccetto il semplice atto intellettivo dell' intuizione che non si direbbe propriamente vita: l' anima così esisterebbe, ma non vivrebbe. Nel quale stato non essendo a lei possibile alcuna riflessione su di se stessa, nè alcuna coscienza, la sua condizione si potrebbe rassomigliare ad uno stato di perpetue tenebre, e di sempiterno sonno: onde i negri tartari (1) ed i luoghi bui (2) de' poeti, e il loro ferreo ed eterno sonno. Questa fu una delle cause per le quali alcuni filosofi, che non ricevettero il lume della rivelazione, e forse fra questi Aristotele, almeno secondo l' interpretazione di Pomponaccio e d' altri negarono l' immortalità dell' anima: e il loro errore fu di crederla annullata o disciolta, non distinguendo fra vita ed esistenza, e non conoscendo quell' atto intuitivo dell' essere, e quel deposito di abiti rimanenti nell' anima dalla precedente sua unione col corpo, che dà a lei un' esistenza intellettiva ed una individualità, sebbene non una vera vita nel senso che noi crediamo proprio di questa parola. Nello stesso errore era caduta, presso gli Ebrei, la setta dei Sadducei. Questi credevano che l' anima non soprastesse alla sua separazione dal corpo, o piuttosto la negavano (3); e ciò qual conseguenza dell' altro loro errore pel quale negavano la risurrezione. Ora Gesù Cristo, togliendo a confutare il loro errore, non toglie a stabilire la tesi generale che l' anima separata dal corpo viva; ma si limita a parlare degli uomini santi, e dice di questi che nella risurrezione vivranno per non più morire. Perocchè, avendo i Sadducei proposta la difficoltà di chi sarebbe nella resurrezione la donna che avesse avuto per mariti successivamente sette fratelli, Cristo risponde loro: « Filii hujus saeculi nubunt et traduntur ad nuptias: illi vero qui digni habebuntur saeculo illo, et resurrectione ex mortuis, neque nubent neque ducent uxores: neque enim ultra mori poterunt: aequales enim angelis sunt, et filii sunt Dei, cum sint filii resurrectionis (4): » e nulla disse dell' anima per sè sola considerata, nè tampoco de' reprobi che pure risorgeranno, ma « non in resurrectione vitae, sì in resurrectione judicii (5). » Ora dalle citate parole di Cristo si può raccogliere due cose: la prima, che la resurrezione è quella che dà ai giusti l' immortalità; la seconda è, che per la risurrezione i giusti sono figliuoli di Dio, tolti per conseguente da ogni pena o sequela del peccato, fatti simili agli angeli santi, spiritualizzati senza il legame o l' impaccio di un corpo materiale. Ma dopo di ciò Cristo continua provando a' Sadducei la verità della risurrezione de' giusti in questo modo: « Quia vero resurgant mortui, et Moyses ostendit secus rubum (1), sicut dicit Dominum Deum Abraham, et Deum Isaac, et Deum Jacob: Deus autem non est mortuorum sed vivorum: omnes enim vivunt ei (2). » Le quali parole confermano mirabilmente quello che dicevamo. Perocchè Cristo argomenta così: « Mosè disse che il Signore è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Ora, se questi Patriarchi fossero morti, non si direbbe che il Signore fosse il loro Dio, perocchè il Signore è Dio de' vivi e non dei morti. Dunque questi Patriarchi sono viventi. Ma non potrebbero dirsi viventi, se un giorno non dovessero risorgere. Dunque convien dirsi che i morti risorgono ». Questo ragionamento fa dipendere la vita di que' Patriarchi dalla loro futura resurrezione. Perchè sono vivi? perchè risorgeranno. Dunque non sarebbero vivi se non dovessero risorgere. Dunque l' anima separata se non fosse destinata a risorgere, se non avesse in sè una ragione o un germe della sua futura palingenesi, troverebbesi in una condizione e stato di morte. Soggiunge però che a Dio tutti vivono, omnes enim vivunt ei, per indicare che Iddio ha virtù di far tornare a vita tutti quelli che egli vuole. Il che sembra accennare alla risurrezione universale sì dei buoni che de' cattivi; ma, dicendo che « tutti vivono a Dio »; parla d' una vita relativa a Dio, non d' una vita relativa a se stessi, non d' una vita soggettiva; e con ciò dimostra, che tutte le anime continuano ad esistere anche separate dal corpo, e però tutte possono essere ravvivate da Dio, in relazione al quale perciò vivono (3). Veniamo alla seconda questione: che cosa s' intenda per la resurrezione che opera nostro Signor Gesù cristo ne' giusti. Secondo la maniera di favellare delle divine scritture, sotto la parola risurrezione non s' intende solamente l' ultima palingenesi, quando gli uomini ricupereranno un corpo proprio, e i giusti un corpo proprio e glorioso che non più deporranno: si intende il nuovo uomo, s' intende Cristo che è nell' uomo e la cui vita è eterna. Coll' incorporazione dell' uomo in Cristo comincia nell' uomo la vita eterna: la vita adamitica e corruttibile perisce, ma sotto di questa ve ne sta un' altra nascosta come sotto la morta spoglia del serpente sta una pelle nuova e viva che si discuopre colla deposizione di quella. Laonde Cristo disse: « « Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, benchè egli sia morto, vivrà; e ognuno che vive e crede in me, non morrà in eterno »(1). » Ora Cristo in altro luogo dice de' suoi discepoli parlando al Padre: « Ego in eis et tu in me (2). » Se dunque Cristo è la vita, e se egli è nei suoi discepoli, egli è conseguente che a questi non può mai venir meno la vita se non si tolgono dall' unione con Cristo: deve rimanere in essi una vita eterna, una vita che di sua natura non può perire. Onde Cristo assolutamente dice che « ogni vivente e credente in lui, non morirà in eterno ». Ma Cristo non è solo la vita, ma anche la resurrezione. Qui evidentemente il discorso si riferisce a due forme o maniere di vita; altramente chi ha la vita non avrebbe bisogno di risorgere. Altra è dunque la vita propria degli umani individui, la qual consiste nell' unione vitale dei proprii loro corpi colle loro anime; ed altra la vita che comunica loro Cristo, quando ad esso incorporati ne partecipano la grazia. Rispetto a questa maniera di vita, Cristo dice se stesso di esser la vita; rispetto alla prima, dice di esser la risurrezione . Quegli stesso che è la vita permanente negli uomini santi della nuova legge, è anche la loro risurrezione. Quella vita non può venir meno giammai, perchè « Christus resurgens ex mortuis jam non moritur, mors illi ultra non dominabitur (3). » Ma pure Cristo una volta morì; ed allora sono forse morti gli Apostoli e discepoli suoi ne' quali egli era? Sì, quel Cristo che era in essi morì: nel triduo della morte di Cristo, Cristo morì ne' suoi discepoli: i discepoli di Gesù Cristo in quel tempo ebbero in se stessi Gesù Cristo morto: nella stessa eucaristia che avevano ricevuto la vigilia della morte di Cristo, se si conservò in essi, vi aveva Cristo morto, il corpo separato dall' anima. Ma primieramente si consideri che la divinità non abbandonò giammai nè il corpo nè l' anima di Cristo, e che perciò la persona di Cristo non fu soggetta alla morte, perchè quella persona era il Verbo. Cristo dunque, sebben morto come uomo, era vivo come Dio ed aveva la podestà di riassumere la sua vita umana come aveva avuto la podestà di deporla. Cristo come Dio conservava il suo corpo immune dalla corruzione, lo conservava in suo potere, nè perciò permetteva che di lui si vestissero altri animali, come accade de' cadaveri degli altri uomini, ne' quali si generano i vermi ed altri minimi esseri viventi, quand' anzi può credersi che il divin corpo non avesse ricevuto nella Passione alcuna di quelle disorganizzazioni che impediscono assolutamente di vivere, eccetto l' emissione del preziosissimo Sangue. Di poi non sarebbe alieno dal credersi, che, quantunque Gesù Cristo avesse cessato di vivere della vita naturale dell' uomo, tuttavia vivesse l' anima sua della vita eucaristica, della qual misteriosa vita forse altrove ci accadrà di parlare più estesamente. Ma lasciando per un momento da parte questa misteriosa vita, conviene tuttavia distinguersi anche in Cristo primieramente due vite: la vita divina che aveva come Dio, la quale non gli potè giammai venir meno, perchè Iddio non muore; e la vita umana che consisteva nella unione dell' anima sua sacratissima col suo divinissimo corpo. Ora, quantunque Cristo nel triduo della sua morte si trovasse ne' discepoli suoi morto della vita umana, tuttavia viveva in essi colla divina, la quale è la prima causa della risurrezione che Cristo stesso attribuiva alla virtù di Dio, quando a' Sadducei diceva « Erratis nescientes scripturas, neque virtutem Dei (1), » e quando chiamava « figliuoli di Dio »i « figliuoli della resurrezione »(2). Ora la virtù, cioè l' onnipotenza di Dio, poteva certamente dare un termine reale alle anime separate, in qualunque maniera egli si compiacesse di farlo, il quale tenesse luogo del corpo, e così poteva farle vivere di vita soggettiva, benchè non della naturale. Imperocchè la vita dell' anima, generalmente considerata, altro non richiede se non un termine reale così ad essa congiunto, che con esso lei formi un unico soggetto, il quale possa, aggiungendosi le condizioni opportune, fare le operazioni vitali del sentire e del pensare su cosa reale. Ma questo termine reale può esser vario: onde le varie maniere di vita, e l' onnipotenza di Dio, come dicevamo, anche ad un' anima separata dal proprio corpo naturale può aggiungere un' altra realità, che tenga per essa luogo del proprio corpo. Il qual termine noi stimiamo sia, come toccammo, l' essere sacramentale di Cristo, giusta quelle parole: « « il pane che io darò, è la mia carne per la vita del mondo »(3), » cioè la mia carne, sotto forma di pane, di alimento, terrà luogo, farà le veci della vita del mondo. Si distinguano adunque oggimai quattro maniere di vita in Cristo e nei discepoli di Cristo: 1 La vita naturale, cioè l' unione del corpo umano naturale in un individuo soggetto; 2 La vita divina, misteriosa, eucaristica, che rimase nel triduo della morte di Cristo; 3 La vita spirituale di Cristo ancor viatore, qual ebbe prima della sua morte, la qual consisteva in una santificazione e divinizzazione di Cristo come uomo naturalmente vivente, cioè in una santificazione e divinizzazione della sua anima e del suo corpo uniti insieme individuamente, dal che proveniva la potenza che aveva di trasfigurarsi, come fece sul Tabor, e di glorificarsi quando avesse voluto, benchè volle piuttosto contenere questi effetti della sua divinità lasciando che il suo corpo e l' anima sua potessero patire, come abbiamo detto, e dividersi per morte; il che non toglieva che la vita immortale e gloriosa di Cristo non fosse in lui viatore, ma nascosta, quasi in germe, che a suo tempo sarebbesi sviluppata e manifestata, il che fu nella resurrezione; e 4 Finalmente la vita gloriosa dopo la resurrezione, e dopo l' ascensione al Cielo (due gradi della stessa vita), la quale è la stessa vita precedente attuata nella pienezza del suo vigore e dei suoi meravigliosi effetti. La prima di queste quattro maniere di vita era destinata alla morte in Cristo e ne' suoi discepoli: ne' suoi discepoli come conseguenza penale del peccato adamitico, pel quale la vita naturale degli uomini era divenuta corruttibile, ricalcitrante allo Spirito Santo, e preda del demonio: in Cristo, perchè Cristo per la sua magnanimità, come abbiamo detto, volle prendere su di sè la pena del peccato senz' alcun peccato, e così riuscire quel tipo perfettissimo di virtù morale, che il suo eterno Padre voleva che fosse ed apparisse in questo mondo. La seconda vita non venne mai meno in Cristo, nè pure nel tempo della sua morte e durante la dimora del suo corpo sacratissimo nel sepolcro. Che durante questo tempo Cristo e i suoi discepoli in lui incorporati vivessero della vita eucaristica sembra indicarsi da queste parole di Gesù Cristo «: Operamini non cibum qui perit, sed qui permanet in vitam aeternam, quem Filius hominis dabit vobis (1). » Il cibo adunque che Gesù Cristo non avea dato fino allora, ma che prometteva di dare, dice esser tale che non muore, non vien meno perchè permane nella vita eterna, e questo è il cibo eucaristico. E soggiunge questa ragione: « Hunc enim Pater signavit Deus (2) »: quasi voglia far intendere che quel Figliuolo dell' uomo, che Iddio segnò come sua proprietà anche morto quant' è alla vita naturale, non può non avere qualche altra maniera di vita, in modo che la vita soggettiva in lui duri eterna, e la possa comunicare a' suoi, dandosi loro sotto forma di cibo. Poco appresso soggiunge: « Non Moyses dedit vobis panem de coelo, sed Pater meus dat vobis panem de coelo verum. Panis enim Dei est, qui de coelo descendit, et dat vitam mundo (1). » Questo pane del Cielo è Gesù Cristo stesso, ma non nella sua vita naturale, ma nella sua vita eucaristica. I SS. PP., che interpretarono questo capo VI dell' Evangelista Giovanni, hanno inteso costantemente dell' essere eucaristico o sacramentale di Cristo, ciò che ivi si legge del pane celeste. Questo pane si dice dato dal Cielo, perchè Cristo, nella forma di cibo o di pane, non è più nel suo essere naturale umano, non è nella vita adamitica, ma in un modo miracoloso, soprannaturale; ha un altro essere, un' altra vita nascosta e al tutto misteriosa: e questa vita è per comunicarsi al mondo, dat vitam mundo: dà al mondo, che ha perduto la vita in Adamo, una vita di forma del tutto nuova; la quale rimane anche quando il mondo è morto della sua vita naturale, di quella vita che gli venia dalla terra e non dal cielo, che gli veniva dalla carne e dal sangue e non da Dio: « qui non ex sanguinibus, neque ex voluntate carnis, neque ex voluntate viri, sed ex Deo nati sunt (2). » Questa vita poi, che viene comunicata meravigliosamente agli uomini, ha condizione di cibo, perchè sia così ristorato l' antico modo col quale gli uomini si dovevano rendere immortali, cioè col mangiare del frutto dell' albero della vita: modo stabilito da Dio a principio e reso inutile dall' insidia del demonio. Ora, dovendo il demonio esser vinto e confuso in tutti i suoi tranelli, dispose l' Eterno di dare al mondo riconquistato un altro albero della vita, assai migliore del primo, e questo fu Gesù Cristo; e il cibo eucaristico, la vita di Cristo nascosta in esso, è il frutto di quest' albero. Il qual cibo noi possiamo acconciamente chiamarlo frutto, perchè fu impetrato da Cristo appresso il Padre e meritato colla sua passione e morte, di cui per questo pure è la vivente memoria, perchè egli dura e vive anche quando Cristo è morto nella sua umana natura. Alla qual vita nascosta ed eucaristica, che non vien meno, consuonano quelle parole dell' Apostolo « Qui in diebus carnis suae, preces supplicationesque ad eum qui possit illum salvum facere a morte, cum clamore valido et lacrymis offerens, exauditus est pro sua reverentia (3). » Ora dalla morte naturale Cristo non fu immune, non fu esaudito; e, quantunque ne sia poscia stato campato colla resurrezione, tuttavia questo non toglie che l' abbia sostenuta. Ma, se poniamo che Cristo, anche morto, vivesse d' un' altra vita occulta, e fuori dell' ordine naturale, qual è l' eucaristica; in tal caso egli fu esaudito, perchè non fu mai senza qualche maniera di vita. E` anche da osservarsi che questa maniera occulta di vita comunicandosi agli altri per modo di cibo, suppone che essi già vivano: ed è per ciò che l' eucaristia non si può ricevere se non da quelli che sono nati nelle acque battesimali. Dice Gesù Cristo di nuovo agli Ebrei « Ego sum panis vitae: qui venit ad me non esuriet: et qui credit in me non sitiet unquam (1) » Ed alla Samaritana avea detto il somigliante dell' acqua che ha pur forma di cibo: « « Si scires donum Dei, et quis est qui dicit tibi: Da mihi bibere; tu forsitan petisses ab eo, et dedisset tibi aquam vivam »(2). » E ancora: « « Omnis qui bibit ex aqua hac, sitiet iterum; qui autem biberit ex aqua, quam ego dabo ei, non sitiet in aeternum: sed aqua, quam ego dabo ei, fiet in eo fons aquae salientis in vitam aeternam »(3). » Quest' acqua è il premio della fede, onde dice: « qui credit in me non sitiet unquam; » e mescolata nel calice col vino si transustanzia anch' essa nel sangue di Cristo. L' acqua mescolata col vino non diviene una sola sostanza con lui, non si combina con esso lui chimicamente; e pure secondo i teologi nel calice insieme col vino diviene sangue di Cristo. Ed anche il pane eucaristico è farina impastata coll' acqua, come osserva S. Cipriano, di cui Innocenzo III cita questo testo: [...OMISSIS...] La fede è il principio della salute: essa dà il diritto al battesimo e agli altri sacramenti. Se questi non si possono ricevere, la fede, che ne produce il desiderio, salva l' uomo, dandogli il diritto di ricevere dopo morte quella vita da Cristo, che in terra non ha potuto ricevere da' sacramenti desiderati. Il sangue di Cristo si dee dunque ricevere misto coll' acqua viva della fede, come la farina pure divenuta pane per l' acqua. Per questo si suol dire giustamente che l' acqua nel calice rappresenta il popolo che si unisce strettamente e s' incorpora a Cristo, il che avviene per la fede viva di esso popolo: l' acqua rappresenta dunque il popolo credente, rappresenta l' atto o l' abito della fede, col quale il popolo aderisce a Gesù Cristo e si fa uno in se stesso. Ma della fede e delle altre virtù teologali, che uniscono a Cristo dando il diritto all' unione corporale con lui, parleremo in appresso. Cristo disse alla Samaritana: « Si scires donum Dei, » il che sembra alludere al mistero eucaristico, giacchè la stessa parola eucarestia, secondo l' interpretazione di valenti grecisti, significa buon dono, eccellente, ottimo dono, da «eu», bene, e da «charizomai», largior, dono (1); onde «charisterion», donum, e dono è chiamata l' Eucaristia dai più antichi Padri (2). Vero è che dono è anche la parola significativa dello Spirito Santo, ma questo suppone prima Cristo dal quale procede; e nell' Eucaristia, che è Cristo coll' essere e colla vita di cibo, si diffonde lo Spirito Santo, essendo quello il mistero dell' amore di Gesù Cristo. Il che è confermato dal contesto. Perocchè dicendo: « Si scires donum Dei, et quis est qui dicit tibi: da mihi bibere; tu forsitan petiisses ab eo, et dedisset tibi aquam vivam, » quasi voglia dire: « tu stessa domanderesti il dono dell' acqua viva, se conoscessi qual dono sia questo, e chi sia colui che a te domanda dell' acqua materiale: il quale è tale che potrebbe ben darti dell' acqua molto migliore a te ». Laonde il dono si riferisce all' acqua, e l' acqua, simbolo della fede, si riferisce all' eucaristico soprasostanziale alimento. Tornando dunque alle citate parole di Cristo [...OMISSIS...] esse si possono parafrasare in questo modo: « Chi verrà a me con disposizione di credere alle mie parole, non avrà più fame, perchè io lo accoglierò e gli darò finalmente me stesso a suo nutrimento, per guisa che egli vivrà della mia vita, di quella vita che io ho sotto forma di pane; e chi già crede in me, non avrà più sete, perchè io gli darò me stesso a sua bevanda per guisa ch' egli pure vivrà di quella vita che io ho sotto la forma di vino e di acqua col vino mista ». Accenna due semi della salute dell' uomo: le disposizioni alla fede, e la fede già ottenuta. Promette che l' uno e l' altro seme frutterà e recherà l' uomo alla vita eterna, perchè Cristo gli si darà in alimento, e sotto questa forma gliela comunicherà. Dice, che colui che mangierà o berrà questo nutrimento divino, non avrà più fame d' alcun altro cibo, nè sete d' alcun' altra bevanda; ma non avrà tuttavia sazietà dello stesso cibo, come si rileva dalle parole della stessa Sapienza che sembrano contrarie alle riferite di Cristo, e non sono: « qui edunt me adhuc esurient, et qui bibunt me adhuc sitient (1), » perocchè queste parlano della fame e sete della sapienza che non s' estingue, e quelle della fame e sete che s' estingue in quelli che sono satollati della sapienza e della vita di Cristo. E Cristo stesso dichiarò la cosa: quando, dopo aver detto alla Samaritana che chi berrà dell' acqua ch' egli darà non avrà più sete in eterno, soggiunge di ciò questa ragione: « sed aqua, quam ego dabo ei, fiet in eo fons aquae salientis in vitam aeternam . » Non è dunque a intendersi che non avrà più sete, quasi non voglia più bere di quest' acqua; ma non avrà più sete per penuria di essa acqua; non vi avrà più pericolo che quest' acqua gli possa mancare, onde debba sofferire una sete molesta perchè non soddisfatta del bramato umore: chè l' acqua, cioè la fede, che io gli darò, diverrà in lui stesso una fonte copiosa e perenne di acqua viva, a cui continuamente si abbevererà, e quest' acqua salirà fino alla vita eterna, giacchè dalla fede germinano le altre grazie, e la vita che comunicano e conservano i sacramenti, fra i quali in modo più che mai pieno l' eucaristico. Continuandoci ora a considerare il discorso di Gesù Cristo, che avevamo allegato, dopo aver detto: « Ego sum panis vitae, » poco appresso soggiunge: « Haec est autem voluntas ejus, qui misit me, Patris, ut omne quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die. Haec est autem voluntas Patris mei, qui misit me, ut omnis qui videt Filium et credit in eum, habeat vitam aeternam, et ego resuscitabo eum in novissimo die (2). » Questi due periodi cominciano egualmente: « Questa è la volontà del Padre che mi ha mandato », ma non è da credersi che ripetano la stessa cosa. Anzi essi manifestano le due maniere onde Cristo dà la vita agli uomini, delle quali abbiamo sopra toccato. Perocchè: A tutti gli uomini Cristo nell' ultimo giorno restituirà la vita naturale che aveano perduta per insidia del demonio col peccato del primo uomo; A quelli che sono predestinati alla eterna salute darà la vita eterna, e li risusciterà nell' ultimo giorno. Di vero egli dice, che tale è la volontà del Padre che lo ha mandato, che egli non perda nulla di ciò che gli ha dato. Ora, che cosa il Padre diede al Figliuolo? Lo dice altrove in quelle parole: « dedisti ei potestatem omnis carnis (3). » Ogni carne dunque è in potere del Figlio, il quale però integra ogni carne nell' ultimo giorno colla resurrezione. Egli non dice che ogni cosa che gli diede il Padre sarà da lui resuscitata nel giorno estremo. Parlando di ciò ch' egli resuscita nel giorno estremo, usa il genere neutro omne quod dedit mihi; ma parlando di quelli che hanno la vita eterna , usa del genere maschile omnis qui videt Filium et credit in eum . Il genere neutro si conviene alla natura, il genere maschile alla persona: il primo conviene alla carne, il secondo allo spirito. Cristo colla resurrezione ultima de' buoni e de' tristi reintegra tutta la natura umana, restituisce la vita a tutta la carne: « Haec est autem voluntas ejus, qui misit me, Patris, ut omne quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die . » Cristo, colla comunicazione della vita misteriosa che sta nella percezione e incorporazione di lui, salva le persone che gli sono state date dal Padre, e a queste, oltre l' aspettazione della resurrezione futura colla quale ricuperano quella vita che consiste nell' unione delle loro anime col loro corpo naturale, hanno oltracciò un' altra vita misteriosa, che noi crediamo consistere nella percezione di Cristo vivente sotto forma di cibo o di pane: [...OMISSIS...] Vedere il Figlio è percepirlo, averne la percezione, il che si consegue quando viene impresso nell' anima il carattere indelebile; credere nel Figlio è dare l' assenso volontario; e, se la fede è viva, è altresì un dare la ricognizione pratica e l' adesione al Figlio percepito. Questi, dice Cristo, ha la vita eterna . Ma se ha la vita eterna, qual bisogno avrà egli di essere resuscitato nell' ultimo giorno? Acciocchè alcuno possa esser resuscitato, conviene che sia morto: ma chi ha la vita eterna non è morto. Conviene dunque dire che l' uomo possa esser morto secondo una vita, cioè secondo la vita naturale, e possa tuttavia vivere d' un' altra vita migliore ed eterna, la quale egli ha qualora veda il Figliuolo di Dio e creda in Lui. Attesa questa vita eterna di cui l' anima è dotata per la grazia di Cristo, nel quale ella è incorporata, non s' avvera giammai dell' anime cristiane l' ipotesi, che noi facevamo più sopra, di un' anima cioè separata dal corpo, che non ritiene altro se non la sua propria natura, la quale, abbiam detto, esisterebbe sì ed avrebbe l' intuizione dell' essere e certi abiti conservati dalla sua precedente unione col corpo; ma non però avrebbe vita, in quanto la vita esprime « il sentimento d' una realità »; e però sarebbe del tutto priva d' ogni altra attività, di ogni altro atto, e molto più d' ogni consapevolezza. L' anima cristiana all' incontro, anche separata dal corpo, non riman sola, perchè è unita con Cristo; non riman senza vita, perchè ha la vita eterna: il cui termine reale era probabilmente nel triduo della morte di Cristo il suo corpo e il suo sangue sotto la forma di cibo e di bevanda; e, dopo risorto, è non solo il corpo di Cristo secondo l' essere sacramentale, ma ben anco secondo l' essere suo naturale glorioso. Ma nella vita presente l' uomo è incorporato a Cristo secondo la vita misteriosa e sacramentale solamente, perchè l' essere naturale e glorioso di Cristo gli rimane al tutto nascosto, acciocchè sia oggetto della fede, e s' avveri il detto del Signor nostro «: Beati qui non viderunt et crediderunt (1), » e l' uomo s' abbia quella beatitudine che altramente non avrebbe. Tutto in beneficio dell' uomo, anche la limitazione de' doni. Perocchè il non vedere Iddio e tuttavia credere alle sue parole con efficacia di opere, dà maggiore onore a Dio che credendo dopo aver veduto. Quell' atto contiene una intiera fiducia in Dio rivelante, un intero abbandono a lui come verità, ed è un atto di mente più ferma e libera e dominatrice dei sensi e delle loro apparenze che sogliono attirare e legare l' assenso dell' uomo. Onde nella fede v' ha un prezzo e una dignità morale maggiore che non sia nella semplice visione, e tutto l' intento divino è di condurre l' uomo alla maggiore perfezione dell' essere. Questa è la fede di quelli che sono già incorporati in Cristo: la fede dopo la percezione occulta di Cristo, colla quale si percepisce Cristo, nel suo essere sacramentale di cibo; la fede di cui disse Cristo «: Ut omnis qui videt Filium et credit in eum habeat vitam aeternam (2). » Prima dice videt filium, e poscia dice et credit in eum, perocchè a quella visione del Figlio soprastà la fede . Non è una visione che tolga la fede, quand' anzi le dà il fondamento, giacchè la fede è « « la sussistenza delle cose da sperarsi, l' argomento delle non vedute »(3); » definizione che conviene sommamente alla fede dell' uomo già incorporato con Cristo, nel quale Cristo percepito occultamente, e non nel suo corpo naturale nè glorioso, è la sussistenza delle cose da sperarsi, cioè della manifestazione di Cristo nel suo esser glorioso, ed è l' argomento inconcusso di questo esser glorioso di Cristo che nella vita presente non apparisce. Cristo disse ancora nella stessa conferenza cogli Ebrei: « « Nemo potest venire ad me, nisi Pater, qui misit me, traxerit eum: et ego resuscitabo eum in novissimo die. Est scriptum in Prophetis et erunt omnes docibiles Dei (1). Omnis qui audivit a Patre, et didicit, venit ad me. Non quia Patrem vidit quisquam, nisi is, qui est a Deo, hic vidit Patrem. Amen, amen dico vobis: qui credit in me habet vitam aeternam »(2). » Nelle quali parole Cristo descrive tutto il progresso pel quale l' uomo perviene a quella fede in lui, onde ha la vita eterna. Prima l' accenna in generale dicendo, che « niuno può venire a lui se il Padre che ha mandato Cristo non tragga l' uomo a Cristo »; e promette « che se il Padre lo trae, in qualunque modo lo tragga, Egli lo risusciterà nell' ultimo giorno ». Questo trarre a Cristo può anche in qualche modo intendersi di tutte le cose, come Cristo altrove disse «: Et ego si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsum (3); » e in questo senso si possono interpretare le parole che seguono [...OMISSIS...] della universale resurrezione, allo stesso modo come abbiamo spiegato l' altre parole precedenti « ut omne quod dedit mihi non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die . » Ma l' espressione del « trarre del Padre »abbraccia di più; come generalissima abbraccia ogni maniera di traimento, e specialmente di quelli che sono tratti a Cristo, acciocchè non siano solamente in potestà di Cristo, ma sieno salvati da Cristo, rispetto a' quali la promessa di Cristo « ed io lo risusciterò nell' ultimo giorno »dee intendersi della resurrezione beatifica e gloriosa. Se il Padre trae in questo significato a Cristo, la persona che è tratta non è ancora venuta a Cristo, non ancora incorporata con esso lui: ma è nondimeno in sulla via a questo felice termine. Il traimento adunque del Padre a Cristo comprende quelle grazie e quei doni che costituiscono la disposizione dell' uomo a credere in Cristo, e che perciò precedono la fede compiuta attuale ed abituale. Queste disposizioni non sono propriamente la rettitudine naturale del pensare e dell' operare, la naturale scienza, la naturale onestà. Questa non può essere che una cotale disposizione iniziale e remota, che sarà nondimeno anche questa valutata « in die cum judicabit Deus occulta hominum, secundum Evangelium meum per Jesum Christum (4). » E tuttavia anche questa si attribuisce convenientemente al Padre, a cui s' attribuisce la creazione; e conviene poi al Padre in proprio, in quanto il Padre genera il Figliuolo, e di conseguente tutte le appartenenze del Verbo, fra le quali è il lume della ragione umana, cioè l' essere ideale: si attribuisce al Padre altresì la conservazione e la provvidenza delle cose, onde viene a tutte le cose e nominatamente all' uomo il vigore pel quale durano in essere ed operano, ed ancora la ragione per la quale certi uomini sembrano incontrare nella vita minori tentazioni al mal fare. Ma le immediate ed efficaci disposizioni al ricevimento di Cristo e del suo Vangelo, pei Gentili erano le antichissime tradizioni orali, provenienti dalle primitive rivelazioni fatte da Dio ad Adamo, ed ai successivi Patriarchi prima che l' uman genere si separasse in nazioni, e per gli Ebrei erano le rivelazioni speciali e tradizioni orali e scritte consegnate alla famiglia d' Israele. Mediante queste rivelazioni e tradizioni divine, tanto i Gentili quanto gli Ebrei potevano avere qualche notizia del futuro Redentore del mondo, su cui si fondasse la fede in esso. E al Padre s' attribuiscono queste verità rivelate, perchè, essendo esse, come abbiamo detto (Lezione L, facc. 130), appartenenze soprannaturali del Verbo, benchè non ancora il Verbo stesso, a questo si riducevano, e il Padre che genera il Verbo e lo manda al mondo produceva con ciò stesso tuttociò che al Verbo appartenesse: onde Cristo non si contentò di dire: « Nemo potest venire ad me nisi Pater traxerit eum; » ma disse: « Pater qui misit me » quasi dica: Colui che a me è Padre ab eterno, e che agli uomini mi manda e mi comunica nel tempo. Dice nelle parole appresso che nessuno degli uomini vide il Padre, « nisi is qui est a Deo » perchè il Padre non è conoscibile e percettibile se non pel Figlio e nel Figlio, il quale n' è il Verbo che tutto lo comprende, e quindi n' è l' intelligibilità. Ma tuttavia dice che, se il Padre non si può vedere dagli uomini, tuttavia da essi si può udire, onde il profeta Isaia dice che « saranno tutti docibili », ossia atti ad essere ammaestrati da esso Dio Padre. Ora questi ammaestramenti dal Padre dati agli uomini che ancora non conoscono Cristo, dati specialmente avanti la venuta di Cristo, sono appunto quelle rivelazioni e istruzioni soprannaturali di cui abbiamo parlato, e che abbiam detto non essere ancora il Verbo, ma essere tuttavia appartenenze del Verbo. Ora queste, ricevute docilmente, umilmente, fedelmente dagli uomini, sono le disposizioni prossime ed efficaci che poscia li fa ricevere Cristo e credere in lui. Onde Cristo promette, con infinita bontà, che: « omnis qui audivit a Patre, et didicit, venit ad me . » Non basta che gli uomini odano dal Padre quello che loro insegna, quello che loro insegnò colle primitive rivelazioni, quello che insegnò agli Ebrei colle rivelazioni speciali fatte alla casa di Giacobbe; conviene ancora che imparino quanto il Padre insegna, acciocchè vengano a Cristo: cioè conviene che aggiungano la loro cooperazione, l' adesione della loro libera volontà, [...OMISSIS...] In tal caso vengano a Cristo. Il venire a Cristo sembra che sia una disposizione ancora precedente alla fede, precedente al credere in Cristo. Quando l' uomo udì dal Padre, quando l' uomo imparò ciò che il Padre gli favellò, allora egli va a Cristo, cioè nasce in lui il desiderio che sia completata quella scienza che gli ha insegnato il Padre, ed opera in conformità di quel desiderio, cercando quel completamento che ancora non ha, ancora non conosce, il quale completamento è Cristo. Postochè Cristo gli si annunzia; allora egli crede in Cristo, ed opera in conformità di quella fede. Giunto a questo punto la sua salute eterna è assicurata, promettendolo Cristo: « Amen, amen dico vobis, qui credit in me habet vitam aeternam . » Ma chi ha la vita eterna crede in Cristo, cioè continua a credere, e crede con maggior luce, cioè colla luce della vita eterna che oggimai egli possiede. Ora Cristo passa ad insegnare come questa vita eterna si formi nell' uomo, dicendo: [...OMISSIS...] Aveva detto che chi crede in lui ha la vita eterna, e poi dice di essere egli stesso pane di vita, di cui quegli che avrà mangiato, vivrà in eterno. Se la Fede basta per avere la vita eterna, come poi mette per condizione all' uomo per vivere eternamente, ch' egli mangi del pane della vita? E se questo pane della vita è il pane eucaristico, se è la carne di Cristo, come espressamente spiega lo stesso Cristo, « et panis quem ego dabo caro mea est; » sarà egli vero che colui che ha la fede e non ha ricevuto l' eucaristico pane non abbia la vita eterna? Questo sarebbe opposto a quanto aveva detto, perocchè Cristo aveva detto assolutamente e senza altre condizioni: « qui credit in me habet vitam aeternam . » E` dunque da dirsi che questa fede in Cristo trae seco per natural conseguenza il desiderio del battesimo e degli altri sacramenti, il qual desiderio, quando non può essere soddisfatto, basta all' uomo per l' eterna salute. Ma in tal caso, in qual modo Cristo dice assolutamente poco appresso: Se non mangerete la carne del Figliuolo dell' uomo e non berrete il suo sangue, non avrete la vita in voi: [...OMISSIS...] Queste parole sono assolute ed universali. Qui sembra occultarsi un grande mistero. E quantunque questo mistero rimarrà sempre in parte occulto, tuttavia sembra che Gesù Cristo medesimo ce l' abbia in parte svelato. Gesù Cristo ci dice che egli si comunica agli uomini in forma di cibo: che questo cibo è la sua carne: che questa carne sotto forma di pane e di bevanda dà la vita: che se non si ciba questo pane e questa bevanda non si può avere la vita in se stessi: e che il pane che egli darà è la sua carne per la vita del mondo, [...OMISSIS...] ovvero, come dice il testo greco « « è la mia carne che io darò per la vita del mondo » », [...OMISSIS...] quasi dicendo: quella stessa carne, che io darò a morte acciocchè il mondo viva, è il pane della vita; cioè quel pane che darà al mondo una nuova vita immortale ed eterna. Vi ha dunque una carne che Cristo abbandona alla morte; ma questa carne stessa, destinata alla morte, sarà il pane della vita eterna, cioè avrà una maniera di vita che non può venir meno; e questa darà la vita agli uomini, anche quando questi avranno perduta la loro vita naturale, la vita del mondo. Io darò dunque a morte la mia carne, ma nello stesso tempo darò un' altra vita, perocchè questa mia carne rimarrà sempre un pane vivo, un pane che dà la vita. Questo pane adunque dee dare la vita anche a quegli uomini che sono morti secondo la vita naturale ed adamitica. Il che importa che ci abbia un' azione, un effetto dell' eucaristia al di là di questa nostra vita naturale, sicchè le anime nostre anche separate vivano di quella vita che dà la carne di Cristo sotto forma di pane della vita, in un modo del tutto occulto e misterioso. E veramente Gesù Cristo disse agli apostoli, dopo istituito il sacramento eucaristico, ch' egli avrebbe bevuto un vino nuovo insieme con essi, quando fosse entrato nel suo regno: [...OMISSIS...] Il vino eucaristico che Cristo dichiara che avrebbe bevuto nel regno del Padre suo, lo dice « vino nuovo »perchè il suo corpo sarebbe stato glorioso: dice che lo avrebbe bevuto « con esso loro », per indicare la partecipazione ad essi della sua vita eucaristica: il vino eucaristico suppone anche il pane, come il sangue suppone il corpo; ma Cristo si limita ad accennare quell' umore che dà la vita al corpo naturale, giacchè era scritto: [...OMISSIS...] E poco prima aveva detto: [...OMISSIS...] Questo sangue, che è destinato da Dio pro piaculo animae, non è il sangue d' alcun animale, il quale non poteva che raffigurarlo; nè è il sangue dell' uomo corrotto: ma il sangue del Figliuolo dell' uomo che è insieme Figliuolo di Dio, Gesù Cristo Signor Nostro. Non si potea cibare qualunque altro sangue, perchè era sangue morto, e traendolo dal vivente, gli dava morte; ma Gesù Cristo irritò anche questa prescrizione legale compiendola, dando all' uomo il suo preziosissimo sangue in forma di vino, sangue vivo e vivificante, vero piaculum delle anime, sangue del nuovo ed eterno testamento. Oltre di ciò, parlando Cristo a' suoi discepoli, preferisce di parlar loro del sangue suo, che avrebbe bevuto nuovo nel suo regno sotto forma di vino, perchè l' assunzione del sangue era riserbata specialmente ai perfetti, ed ai sacerdoti, a' quali poi riserbolla la Chiesa diminuito il primo fervore dei fedeli, come quello che contiene in modo speciale le grazie più perfette, qual è l' allegrezza nel fare il bene significata dalla specie del vino che « laetificat cor hominis (3), » e la grazia della fortezza e del martirio significata nel sangue che Cristo il primo dovea spargere. Onde quelle parole erano conforto ad un tempo e robustezza aggiunta a' dolenti discepoli che doveano quanto prima vedere il loro Signore e Maestro barbaramente crocefisso. L' essere adunque eucaristico di Cristo, che vive in forma di pane e di vino, opera al di là di questa vita, e dà all' anima separata, come all' anima unita al corpo, una vita misteriosa in Cristo che non può venir meno giammai, perchè di sua natura è eterna. [...OMISSIS...] Questo pane è sempre vivo: « Ego sum panis vivus; » questo pane è vivo in modo che dà altrui la vita: « Ego sum panis vitae . » Cristo può esser dunque morto della sua vita naturale, ma non della sua vita eucaristica. Questo pane vivo è disceso dal cielo: « Ego sum panis vivus qui de coelo descendi » e perciò appunto non muore, perchè non è nato della terra: il cielo è il luogo della vita e non della morte: ciò che è dal cielo non soggiace alle leggi della terra, e perciò non muore, perocchè nè la terra nè le forze della terra, nè quelle dell' inferno non hanno potestà sulle cose del cielo: il corpo naturale di Cristo era venuto dalla terra perchè composto del sangue della Vergine, e però fu potuto abbandonare alla morte: ma il corpo eucaristico ha un essere soprannaturale, che viene unicamente dal Cielo, e però è vivente e vivificante: niuno lo può distruggere. Una dottrina così recondita e meravigliosa faceva stupire gli Ebrei che non la intendevano, e ne mormoravano dicendo: « Quomodo potest hic nobis carnem suam dare ad manducandum? (1). » E tuttavia Cristo non ritratta o spiega in senso traslato quanto aveva detto, ma lo conferma e rinforza dicendo e ripetendo: [...OMISSIS...] Nelle quali parole Cristo mette per condizione ad avere in se stessi la vita il mangiare la carne sua e bere il suo sangue: « Nisi manducaveritis carnem Filii hominis et biberitis ejus sanguinem non habebitis vitam in vobis . » Le parole sono chiare ed assolute, a tal che, prima che fosse deciso dalla Chiesa l' assunzione dell' Eucaristia non essere di necessità di mezzo alla salute (3), v' ebbero alcuni, come S. Agostino (4) e Innocenzo I (5), che ritennero non bastare all' eterna salute de' bambini ricevere il battesimo, se ancora non fosse data loro l' eucaristia. Ma ora è definito il contrario dall' infallibile autorità della Chiesa; e pure quelle parole di Cristo son così assolute ed universali, come quelle che inculcano la necessità del battesimo: [...OMISSIS...] Se dunque chi non mangia la carne del Figliuolo dell' uomo e bee il suo sangue non ha la vita in se stesso, e tuttavia chi muore col battesimo d' acqua, o di sangue, o di desiderio è certo che acquista la vita eterna, convien dire che quella comestione della carne e del sangue di Cristo, che non fece nella vita presente, gli verrà somministrata nella futura al punto della sua morte, e così avrà la vita in se stesso: giacchè, come abbiamo veduto, l' eucaristia ha degli effetti anche al di là di questa vita, e Cristo stesso disse che entrato nel suo regno glorioso egli l' avrebbe presa insieme co' suoi discepoli. In questo modo anche a' santi dell' antico testamento, quando Cristo discese al limbo, potè Cristo comunicare se stesso sotto la forma di pane e di vino, e così ravvivarli da quello stato di tenebre e di sonno in cui si trovavano; e, mettendoli a parte della propria vita eucaristica, renderli atti alla visione di Dio; la fede loro era per essi il titolo, con cui sono morti, di un diritto ad rem, che fu poscia effettuato da Cristo, quando diede loro il possesso delle cose in cui speravano, onde il loro divenne un diritto in re . Il medesimo dicasi di tutti que' Gentili che ebbero la fede nel futuro Salvatore del mondo, e che vissero senza peccato mortale, o pentiti n' ottennero il perdono. Lo stesso di que' Cristiani che muojono, benchè battezzati e mondi dal peccato attuale, senza aver ricevuto nella vita presente l' eucaristia, come accade a molti bambini, e come accadde a colui, a cui disse Cristo in Croce: « Hodie mecum eris in Paradiso (1). » La qual dottrina viene confermata dal sacrificio della messa. Perocchè in questo, dopo avvenuta la transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue del Redentore, si prega che questo venga portato dall' angelo « in sublime altare tuum, in conspectu divinae majestatis tuae, » e che quanti partecipiamo di questo altare, « omni dono coelesti et gratia repleamur : » il che è la società e comunicazione nostra co' santi che sono in Cielo. Laonde Innocenzo III nella sua opera sulla liturgia, venuto a questo passo che incomincia: « Jube haec perferri, » appone al capitolo questo titolo «: De profunda quorumdam intelligentia verborum; » ed appresso scrive così «: Tantae sunt profunditatis haec verba ut intellectus humanus vix ea sufficiat pertractare . » Vede in quelle parole il mistero, e non osa quasi per riverenza svelarlo; non osa per la profondità sua investigarlo: perocchè veramente ella è questa una delle più arcane dottrine della cattolica Chiesa. Che se noi osiamo favellarne, è solo per la persuasione in cui siamo che così voglia Iddio in questo tempo. Quel sommo Pontefice nondimeno lo accenna colle parole di C. Gregorio Magno, di cui allega due testi, continuandosi in questo modo: [...OMISSIS...] (1). Dopo recati tali testimonii, Innocenzo III passa a spiegare quelle parole in un senso meno profondo, attestando però di nuovo l' alto mistero che esse nascondono con dire: [...OMISSIS...] Ma poscia, venendo a parlare di quell' altare sublime in cui il sacerdote prega che sia portata dall' Angelo l' eucaristia, dice: « Multiplex autem altare legitur in scripturis superius et inferius, interius et exterius » e si fa ad enumerare questi diversi altari superiori e celesti, ed inferiori e terreni, e fra questi dice che altare superiore è anche la Chiesa trionfante, altare poi inferiore la Chiesa militante [...OMISSIS...] Ed acconciamente pel sublime altare, di cui è fatta menzione nelle citate parole che pronuncia il sacerdote nella messa poco dopo la consacrazione, si può intendere la Chiesa trionfante, la quale è fatta partecipe degli stessi divini misteri, di cui si rende partecipe il credente viatore su questa terra, vivendo e l' una e l' altra dello stesso cibo, fruendo della medesima vita di Gesù Cristo. Qual ineffabile consorzio! Qual intima unione del Cielo colla terra! qual divino legame fra le cose visibili ed invisibili! Qual ammirando commercio fra la vita presente e la futura! Quale unità di tutto il Corpo di Cristo, la quale discende da questo corpo glorioso e si comunica non meno alle membra già partecipi della sua gloria che alle membra che ancor vivono di fede sperando! Ora nella Santa Messa, dopo che il sacerdote pregò Iddio perchè comandi che l' Angelo porti il pane e il vino della vita, che sta in sull' altare terreno, anche sull' altare celeste, cioè che la porti a' celesti comprensori, egli prega per le anime dei defunti non ancora pervenute allo stato di termine e che debbono purificarsi dalle leggiere macchie che da questa recaron seco nell' altra vita. Perocchè, se questo cibo vitale venga dato a quelle anime fedeli, esse saranno tantosto liberate dalla loro oscura prigione, ottenendo quella vita di Cristo colla quale nell' altra vita si è atti a vedere la faccia di Dio: giacchè questo cibo rimette i peccati leggieri, e monda le anime intieramente, « tamquam antidotum quo liberemur a culpis quotidianis, » come disse il Sacrosanto Concilio di Trento (1). Alla commemorazione poi delle anime purganti, segue l' orazione che incomincia: Nobis quoque peccatoribus, colla quale il sacerdote prega per sè, per gli assistenti, e per tutti i fedeli che costituiscono la Chiesa militante su questa terra, e dimanda che mediante il cibo eucaristico possiamo tutti aver qualche parte coi santi martiri ed altri comprensori celesti, in modo che, dopo esser vissuti quaggiù della vita nascosta di Cristo, possiamo in cielo godere della vita palese e a pieno manifesta. Così le tre parti in cui la Chiesa è divisa, cioè la trionfante, la purgante e la militante, conviene che vivano della stessa vita di Cristo, benchè in gradi e modi diversi, e che abbiano uno stesso mezzo con cui partecipare di questa vita. Conviene riflettere che il concetto del sacrificio fu sempre eguale dal principio del mondo, nè fu solo conservato presso gli Ebrei, ma presso tutte le genti. Questo concetto non involgeva solo l' immolazione della vittima alla divinità, ma ben anco acchiudeva la persuasione che della vittima immolata si cibassero, parte la divinità stessa, parte gli uomini che facevano il sacrificio. Si concepiva così che un solo cibo diventasse comune a Dio, od agli Dei, ed agli uomini, e per tal modo gli uomini partecipassero della stessa vita di Dio o degli Iddii. E Iddio presso il suo popolo mandava sovente il fuoco dal cielo ad assumere la vittima quasi egli stesso se ne nutrisse. [...OMISSIS...] si legge ne' libri de' Maccabei, [...OMISSIS...] Questo concetto costantissimo presso tutte le nazioni, non fu effettuato in antico se non simbolicamente; ma Cristo compiè il simbolo, e adempì la verità di quel concetto profetico. Se dunque era nell' antica tradizione, e nell' istinto della natura umana, che una vittima dovesse esser cibo comune a Dio ed agli uomini, era convenevole che Iddio divenuto uomo e glorificato partecipasse d' un alimento sacro di cui potessero altresì partecipare gli uomini, e questo alimento fu il pane ed il vino divenuti sua carne e suo sangue. E se Cristo glorioso ne partecipa, conveniva che tutta l' umanità gloriosa, che forma un solo corpo con esso lui, pure ne partecipasse: questo dunque è il cibo soprasostanziale di tutti i santi che ammantano Cristo, e compiscono il suo corpo santissimo. Quando parla Gesù Cristo del cibo eucaristico chiama se stesso « Figliuolo dell' uomo »: [...OMISSIS...] Abbiamo detto che questa era la denominazione più umile che poteva dare a se stesso. Ma egli era venuto a prendere la difesa dei figliuoli dell' uomo contro il demonio, a prendere la forma così bassa ed umile di figliuolo dell' uomo (espressione che allude alla generazione, nella quale il demonio aveva posto il guasto della natura umana e per la quale il peccato si propagava di padre in figlio, benchè Gesù Cristo, non concepito per umana generazione ma per opera dello Spirito Santo, ne andasse del tutto immune, come ne andava pure immune per essere in pari tempo Dio) per rinnovare e rialzare dal suo avvilimento lo stesso figliuolo dell' uomo, il quale in lui sussisteva perfetto e sublimato: perfezione e sublimità che voleva pure comunicare agli altri figliuoli degli uomini a cui s' era fatto fratello secondo la carne, a cui voleva pure esser fratello secondo la divinità. Quindi, in onta al demonio, egli esalta e magnifica quel figliuolo dell' uomo, che l' inimico aveva tanto umiliato e distrutto, e però egli dice: « Ut autem sciatis quia Filius hominis habet potestatem in terra dimittendi peccata (1); » dice ancora: « Dominus est Filius hominis etiam sabbati (2); » dice: « Mittet Filius hominis angelos suos et colligent de regno ejus omnia scandala (3); » dice: « Filius enim hominis venturus est in gloria Patris cum angelis suis, et tunc reddet unicuique secundum opera ejus (4): » e tante altre cose dice in onore della umana natura che il Demonio aveva tanto abbassata, ed egli era venuto ad innalzare. Ed è da considerarsi che egli non esaltava solo questa natura in un solo individuo di lei, cioè in se stesso, ma la voleva esaltata in molti individui che rappresentassero tutte le forme o specie di onore e di gloria di cui ella fosse suscettibile (1), giacchè invitava tutti gli uomini a partecipare di que' pregi, ed onori, e glorie che in lui primo dovevano essere, fino a dire: « Amen dico vobis, quod vos, qui secuti estis me, in regeneratione, cum sederit Filius hominis in sede majestatis suae, sedebitis et vos super sedes duodecim judicantes duodecim tribus Israel (2). » Ora, nello stesso modo parlando del cibo eucaristico, invece di dire: « Se non mangerete la mia carne, »ovvero: « se non mangerete la carne del Figliuol di Dio », dice: « Se non mangerete la carne del Figliuolo dell' Uomo », quasi volendo dire: Il figliuol dell' uomo fu corrotto dal peccato per insidia del diavolo: ora, a scorno del medesimo corruttore ed insidiatore, il figliuolo dell' uomo troverà il rimedio da riparare a' suoi danni in se stesso, non avrà bisogno d' uscire da sè per rinvenirlo. Il che tutto dimostra un ineffabile amore per l' umana natura, di cui Iddio si rende il campione prendendone la difesa: dimostra una delicatezza che provvede all' onore di questa natura tanto vessata dal suo perpetuo inimico, e quella cotal riverenza verso essa, di cui favella il Libro della Sapienza, ove dice: « Tu autem, dominator virtutis, cum tranquillitate judicas, et cum magna reverentia disponis nos (3). » E tuttavia la vita eucaristica è soprannaturale e divina. Il che Gesù Cristo fa intendere con quelle parole: « Sicut misit me vivens Pater et ego vivo propter Patrem, et qui manducat me et ipse vivet propter me . » Il Padre dà la missione al Verbo d' incarnarsi, in generandolo, ed il Verbo incarnato vive, tutto Dio e uomo, della vita del Padre: perocchè, come Verbo ha comune col Padre la vita, e come uomo partecipa, per l' unione ipostatica, di quella vita. Questa non è la vita naturale, ma la vita divina partecipata, la vita essenziale di cui dice S. Giovanni: « « In ipso vita erat ». » Questa vita è la sussistenza vivente nel Padre, conosciuta per essenza nel Figliuolo, amata per essenza nello Spirito Santo. Questa vita della persona divina di Cristo reggeva come principio supremo la sua natura umana, e nascondeva questa natura umana vivente della vita divina e da questa governata sotto la forma di cibo per potersi così comunicare agli altri uomini. Perocchè l' uomo non acquista il termine reale del suo sentimento, per il quale egli vive, se non per generazione e per nutrizione: in questi due modi il suo spirito si unisce alla corporea sostanza come a termine del suo sentire. Ora, essendosi guastato il primo modo, con cui si doveva propagare la vita naturale, per opera del demonio; restava intatto il secondo, giacchè l' albero della vita non fu potuto profanare nè dal demonio nè dall' uomo. Al frutto dunque dell' albero della vita, che nella prima istituzione doveva aggiungere all' uomo colla nutrizione un termine corporeo che lo avrebbe reso immortale, Iddio sostituì un altro cibo tolto dall' uomo stesso, cioè la carne ed il sangue di Gesù Cristo. E questa vita, misteriosa ed occulta, è quella vita colla quale il Padre provvide al Verbo incarnato, quando si consigliò di abbandonarlo rispetto alla vita naturale, nelle mani de' suoi crocifissori; quella colla quale il Padre esaudì il Figlio secondo le parole dell' Apostolo: « « Qui in diebus carnis suae, preces supplicationesque ad eum qui possit illum salvum facere a morte, cum clamore valido et lacrymis offerens, exauditus est pro sua reverentia »(1); » il qual clamore, le quali lagrime non potevano non essere pienamente esaudite; quella vita di cui rese grazie Cristo quando istituì il Santissimo Sacramento: « Dominus Jesus, in qua nocte tradebatur, accepit panem, et gratias agens fregit (2). » Essendo dunque questa vita divina, e per sè indipendente dalla carne e dal sangue ma per divino consiglio all' umanità di Cristo comunicata, Cristo dice, quasi a conclusione del suo insegnamento sull' eucaristico cibo: « Spiritus est qui vivificat, caro non prodest quidquam; verba, quae ego locutus sum vobis, spiritus et vita sunt (3), » volendo dimostrare due cose: che la vita, che sta nella sua carne e nel suo sangue, è vita divina; e che questa non si può ricevere se non per opera dello Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo: onde quelli che ricevono l' Eucaristia col peccato nell' anima, non ricevono, non possono ricevere quella vita. Laonde S. Agostino, spiegando le parole di Cristo, dice che non muore colui che riceve nell' eucaristico cibo [...OMISSIS...] E ancora dice: [...OMISSIS...] Laonde Cristo, che promette che non morranno quelli che mangeranno la sua carne e il suo sangue ma avranno in sè l' eterna vita, fa intendere chiaramente che egli parla di una manducazione colla quale l' uomo riceva rem sacramenti, e non solamente il sacramentum . Questo non è quel mangiare di cui parla Cristo; perchè « « Spiritus est qui vivificat, caro non prodest quidquam ». » Onde di nuovo S. Agostino, parlando di questo Sacramento [...OMISSIS...] Per mangiare adunque veramente il corpo e il sangue di Cristo, nel senso che intende Cristo colla voce mangiare, conviene esser membro del corpo di Cristo, e membro vivente. Non basta aver ricevuto il carattere indelebile nel sacramento del battesimo, o anche negli altri sacramenti che lo conferiscono, cioè nella Confermazione e nell' Ordine sacro; conviene ancora aver la grazia che ci rende membro vivo di quel corpo. Perocchè Cristo disse: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem, in me manet et ego in illo . » Ora, se ivi è l' obice del peccato, questo, che di natura sua avverrebbe per la forza del Sacramento, non può avvenire, perchè « quae conventio Christi ad Belial? (4). » Onde Cristo in quelle parole esprime l' effetto della Santissima Eucaristia, quale essa per sua virtù arreca, prescindendo dall' accidentale impedimento che pone l' uomo. Il perchè S. Agostino dice che nelle citate parole di Cristo il Signore espone « quid sit manducare corpus ejus, et sanguinem ejus bibere . » E soggiunge: [...OMISSIS...] (5). Le quali parole del Santo Dottore vanno intese con buon senno. Perocchè anche chi ha ricevuto il battesimo colla grazia che di natura sua conferisce, questi è già membro vivente del corpo di Cristo, e però egli è in Cristo e Cristo in lui. Ma la Santissima Eucaristia conserva questa unione e mutua inabitazione come fa il cibo che conserva la vita in chi già l' ha: il che viene espresso da quella parola di Cristo manet ( in me manet et ego in illo ), che significa permanenza e continuazione. Di più, il cibo ristora ciò che il corpo vivente va perdendo ogni giorno; e questo fa pure l' Eucaristia togliendo i peccati veniali, in cui quotidianamente l' uomo incappa, rimettendo in lui e rifondendo nuova vita. In terzo luogo il cibo rende l' uomo adulto, e così fa l' Eucaristia dell' uomo nuovo e spirituale, facendo in lui crescere Cristo. In quarto luogo il pane rinforza, e il vino eccita e rallegra; e questi pure sono effetti dell' Eucaristia; la quale dà all' uomo la pienezza della vita, del sentimento, e dell' attività della vita, perchè pone nell' uomo Cristo corporalmente, lo pone tutto, il corpo, il sangue, l' anima e la divinità; laddove il battesimo congiunge l' uomo al corpo vivente di Cristo, ma non pone nell' uomo tutto lo stesso Cristo. In secondo luogo non è da credere che senza la reale manducazione del pane e del vino consacrato l' uomo possa per altra via venire in possesso di tutte queste grazie, e possa aver Cristo corporalmente in se stesso: ma egli può nondimeno salvarsi, perocchè il desiderio di pascersi del corpo e del sangue sacratissimo, e l' essere in istato di grazia, quantunque non glie ne dieno il possesso, e, per così dire, il diritto in re , tuttavia glie ne danno il diritto ad rem , il quale dopo la sua morte lo mette alla partecipazione reale del pane e del vino celeste. Ed ora noi possiamo più precisamente rispondere alla questione: « Che cosa s' intenda nelle divine scritture per risurrezione ». La qual parola riceve più significati dalle diverse maniere di vita a cui si riferisce. Perocchè noi abbiamo distinte in Cristo quattro maniere di vita di cui partecipa il Cristiano, a ciascuna delle quali si riferisce una maniera di risurrezione. E le vite da noi distinte furono: 1 la vita naturale che consiste nell' unione dell' anima col corpo; 2 la vita eucaristica; 3 la vita spirituale di Cristo viatore, che consiste per Cristo nell' unione teandrica dell' uomo con Dio, e pel Cristiano nella partecipazione della grazia di Cristo, per la quale l' uomo non solo percepisce il Verbo ma vi acconsente e vi aderisce colla sua volontà, ancora vivente della vita naturale; 4 la vita gloriosa cominciata per Cristo dopo la sua risurrezione e completata dopo la sua ascensione al Cielo, e che comincierà pel cristiano dopo la resurrezione del suo corpo. La terza e la quarta di queste vite, sono una sublimazione soprannaturale della prima, o, per dir meglio, hanno la prima per loro base e quasi subietto: la seconda, cioè l' eucaristica, è una vita miracolosa e misteriosa. Ciò premesso, per risurrezione nelle divine scritture s' intende: Talora quello che accade per la fede e pel battesimo che restituisce all' uomo la terza delle vite enumerate, cioè la vita della grazia. L' uomo, che nasce dal mal seme di Adamo, nasce corrotto, peccatore; e però si dice morto, cioè privo della vita spirituale. Egli ha bensì la vita naturale, ma soggetta irreparabilmente alla morte, di cui porta i germi in se stesso, e quindi egli non ha che una vita inutile al conseguimento del suo fine che è l' immortalità. Perduta la vita naturale, egli si rimarrebbe morto per sempre: l' anima sua cadrebbe in quello stato di tenebre e d' inazione che abbiamo descritto. L' uomo, che si fa Cristiano ricevendo il Vangelo, depone ogni sua confidenza nella sua vita naturale e corrotta, e si tiene rispetto a questa per morto, ponendo tutto il suo bene e il suo affetto nella nuova vita che egli acquista incorporandosi a Cristo, e vivendo della vita di Cristo. Questo è quello che insegna S. Paolo in quelle parole: [...OMISSIS...] L' immersione nelle acque battesimali rappresenta, secondo l' Apostolo, la morte dell' uomo naturale7corrotto, la morte del peccato. Perocchè Gesù Cristo colla morte del suo corpo naturale7innocente acquistò, come abbiamo veduto, il diritto di giustificare gli altri uomini, pei peccati dei quali la divina giustizia rimaneva soprabbondantemente soddisfatta; acquista il diritto di unirli a sè, com' egli tanto bramava a cagione della generosa sua carità, e quindi di fare che l' uomo morto alla vita soprannaturale risorgesse a questa vita formando un solo corpo con esso lui: e questo risorgimento è simboleggiato dall' uscita dell' acqua, in cui l' uomo era stato immerso quasi in sepolcro. Di che l' Apostolo deduce che l' uomo dee fare gli atti propri della vita nuova, non più dell' antica già deposta, [...OMISSIS...] E fa intendere che in questa vita spirituale noi abbiamo la caparra della futura resurrezione de' nostri corpi: perocchè Cristo, che è in noi, è risorto; onde anche noi risorgeremo alla vita naturale sublimata alla gloria quando deporremo la presente nostra vita naturale7corrotta, che noi dobbiamo già riguardare come morta e vivere come già fossimo risorti anche corporalmente: [...OMISSIS...] E come Cristo morì una volta della morte naturale, e oggimai più non muore; così noi morti al peccato viviamo di vita perenne: [...OMISSIS...] Anche l' Apostolo S. Pietro attribuisce il morir nostro al peccato alla morte di Cristo, e il nostro risorgimento alla vita della grazia ce lo rappresenta come un effetto della risurrezione del Signor nostro, colla quale gli fu dato il diritto di distribuire agli uomini la vita spirituale, germe della futura risurrezione de' loro corpo. E paragona il battesimo alle acque del diluvio, quando nell' arca « « pauci, idest octo animae, salvae factae sunt per aquam » ». E soggiunge: « « Quod et vos nunc similis formae salvos facit baptisma: non carnis depositio sordium, sed conscientiae bonae interrogatio in Deum per resurrectionem Jesu Christi, qui est in dextera Dei, deglutiens mortem ut vitae aeternae haeredes efficeremur, profectus in coelum, subjectis sibi angelis, et potestatibus, et virtutibus »(1). » La differenza fra la vita spirituale e la vita che il cristiano viatore riceve dalla percezione della santissima Eucaristia sta primieramente in questo, che nel battesimo egli acquista la percezione iniziale del Verbo, che lo segna col carattere indelebile, onde fluisce la grazia dello Spirito Santo se non trova ostacoli; e questa maniera di vita gli è comunicata dall' umanità di Cristo per un segreto contatto del suo corpo vivente e glorioso colle acque nell' atto che il battezzatore proferisce le parole, forma del Sacramento. Perocchè, come diremo in appresso, il corpo di Gesù Cristo emana una virtù vitale col solo suo contatto, e questo basta per legare a sè ed incorporare con una comunicazione di vita gli uomini. Laddove nell' Eucaristia l' uomo, incorporato già e vivente di Cristo, non gode del solo contatto invisibile e misterioso del corpo di Cristo, che comunica all' acqua quella virtù vivificatrice onde l' uomo vive di Cristo; ma l' uomo riceve in se stesso tutto l' Autor della grazia, il suo corpo e il suo sangue, e con essi insieme la sua anima e la sua divinità, in forma di alimento. E come l' alimento diviene nostro sangue e nostra carne, così avviene del corpo e del sangue di Cristo sotto gli accidenti del pane e del vino, sicchè un medesimo termine di sentimento e di vita corporea abbiamo noi ed ha Cristo; onde, come da fonte di ogni vita e di ogni grazia, ogni vita ed ogni grazia possiamo derivare. La seconda differenza si è che quell' uomo, che si nutre di questo cibo divino e lo fa suo alimento, non è l' uomo vecchio, ma l' uomo nuovo: è quest' uomo nuovo che, contenendo la virtù della vita di Cristo a sè comunicata colla fede e col battesimo, può mediante questa virtù alimentarsi di Cristo, cioè rendere termine del proprio principio vitale la carne ed il sangue di Cristo. Perocchè, come nella nutrizione comune se non vi avesse nell' anima, cioè nel principio senziente, nel principio soggettivo, la virtù nutritiva, non potrebbe rendere il cibo, preso per bocca, sua propria carne viva, e suo proprio vivo sangue, e non si direbbe che fosse un vero mangiare, un vero alimentarsi, come non è mangiare, non è alimentarsi quello d' una macchina inanimata (per esempio delle macine del mulino) che prende e stritola e fa passare da sè delle sostanze che rispetto agli animali si dicono alimentari; così del pari nella nutrizione eucaristica, se chi la prende non ha già la vita di Cristo, o per non essere battezzato o per essere attualmente morto alla grazia a cagione di peccati attuali, egli può premer bensì col dente le specie eucaristiche, secondo la frase di S. Agostino; riceve bensì il corpo e il sangue reale di Cristo dentro se stesso sotto il velame delle specie; il pane ed il vino consecrato passa per il suo corpo come per una macchina; riceve gli effetti fisici delle specie, ma non si nutre di quello che sta sotto le specie, non si nutre, non si alimenta, non s' impingua dello stesso corpo e dello stesso sangue di Cristo, e però propriamente il suo non è un mangiare la carne e bere il sangue del Salvatore. E però Gesù Cristo adopera queste parole di mangiare e di bere solo per indicare la manducazione e la bibita che fanno del Sacramento augustissimo le anime giuste, che se ne rincarnano e rinsanguinano veramente. Onde dice « Panis enim Dei est qui de coelo descendit, et dat vitam mundo (1), » e ancora: « Si quis manducaverit ex hoc pane vivet in aeternum (1). » Onde colui che non vive della vita eterna, egli è segno che non ha mangiato questo pane, benchè l' abbia materialmente ricevuto nella sua bocca, e fatto passare pe' suoi visceri. Dice ancora, per dimostrare la cooperazione dell' uomo alla nutrizione eucaristica, « Operamini non cibum qui perit, sed qui permanet in vitam aeternam, quem Filius hominis dabit vobis (2). » All' incontro il battesimo non suppone la vita, ma dà la vita a chi non l' ha ancora: perocchè il ricevere la vita non è un' opera del principio vitale, com' è la nutrizione, ma quella viene all' animale e all' uomo dal di fuori per una operazione anteriore al nuovo vivente ch' ella produce. Quindi se del battesimo è proprio ufficio il dare la vita di Cristo all' uomo che non l' ha ancora, onde si chiama generazione o nascita spirituale; egli è proprio effetto dell' eucaristia il conservarla, come faceva il frutto dell' albero della vita, e l' accrescerla, rendendo l' uomo bambino adulto e gagliardo, onde si paragona alla nutrizione o alimentazione. Quindi, il ricevimento dell' eucaristia non si dice un risorgere. Ma nondimeno la vita eucaristica ha il suo proprio risorgimento, e questo avviene quando l' uomo muore. Perocchè l' anima separata dall' uomo che muore riceve dalla vita eucaristica quella unione perenne con Cristo glorioso di cui disse Cristo: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem in me manet et ego in illo (3); » e la quale, alla morte, presta « quel lume di gloria », di cui parlano i teologi, che rende l' anima atta a vedere Iddio faccia a faccia insieme con Cristo e quindi a fruire della eterna beatitudine. Questo è quello che promette Cristo in quelle parole: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem habet vitam aeternam, et ego resuscitabo eum in novissimo die (4). » Egli ha la vita eterna, e tuttavia si promette che sarà resuscitato. Che bisogno di essere resuscitato ha colui che già vive, ed eternamente vive, perchè ha mangiato la carne e bevuto il sangue di Cristo? Egli vive, ma in questo secolo vive d' una vita nascosta, la quale si manifesta luminosissima solo alla morte, quando è tolto dagli occhi dell' anima il velame della carne corrotta, velame significato nel velo dell' antico tempio che impediva ai fedeli la vista e l' ingresso del Sancta Sanctorum . Onde, quando morì Gesù Cristo, questo velo fu scisso, perchè, entrato una volta in esso Sancta Sanctorum il nuovo ed eterno Pontefice secondo l' ordine di Melchisedecco, potevano e dovevano necessariamente entrarvi tutti coloro che con esso formavano una cosa, secondo il suo benigno decreto: [...OMISSIS...] Ora quell' anime, benchè separate dal corpo, le quali sono una cosa nel Figliuolo e nel Padre [...OMISSIS...] ; quelle in cui è il Figliuolo [...OMISSIS...] ; quelle che Gesù Cristo vuole che sieno là appunto dov' egli si trova al cospetto della nuda e svelata faccia di Dio [...OMISSIS...] , quelle che debbono vedere la gloria di Cristo [...OMISSIS...] , certo debbono altresì vedere Iddio faccia a faccia insieme con Cristo, partecipando della vita gloriosa di Cristo. Il passaggio da questa vita alla futura è dunque per costoro una vera risurrezione, e però s' adempie nel Nuovo Testamento, colla morte di Cristo, quanto egli aveva detto a Marta: « Ego sum resurrectio et vita; qui credit in me etiam si mortuus fuerit vivet (2). » Cristo disse di chi mangierà il suo corpo e berrà il suo sangue ch' egli lo risusciterà nell' ultimo giorno [...OMISSIS...] Ora vi hanno due giorni ultimi: l' ultimo giorno dell' uomo, e l' ultimo giorno del mondo. Cristo gli abbraccia entrambi col suo detto, e quindi egli accenna a due resurrezioni come effetto del cibo eucaristico: a quella che avverrà all' uomo fedele, tosto che sarà spirato e avrà deposto il peso della sua carne mortale; e a quella che avverrà nella fine dei secoli quando gli sarà restituita una carne gloriosa. Gesù Cristo ne' passi più sopra allegati tutto attribuisce alla fede. Egli prega per quelli che credituri sunt, vuole che questi sieno là dove è egli medesimo. Egli dice [...OMISSIS...] Attribuisce dunque alla fede, di cui egli è autore e consumatore (4), non a qualunque fede, quello stesso che attribuisce altrove alla manducazione ed alla bibita della sua carne e del suo sangue; e tuttavia dice che senza di questa non si può aver la vita in se stessi: [...OMISSIS...] Conviene dunque dire che chi ha la fede in Gesù Cristo mangi la sua carne e beva il suo sangue: perocchè senza di questo non possono aver la vita in se stessi; quando pure è certo, per testimonianza di Cristo, che « omnis qui videt Filium et credit in eum habet vitam aeternam . » Ma non tutti quelli che ebbero la fede in Cristo mangiarono, durante la lor vita mortale, del Figliuolo dell' uomo, nè bevvero il suo sangue: non la mangiarono tutti que' credenti che morirono prima dell' istituzione del Santissimo Sacramento dell' altare; molti, anche dopo questa istituzione, morirono nella fede di Cristo senza poterla ricevere. Convien dunque dire, che essi mangino la carne del Figliuolo di Dio e bevano il suo sangue dopo morti, e per esso risuscitino alla vita eterna. Gesù Cristo adunque parla prima della Fede, e poi del cibo eucaristico, per comprendere nel suo discorso anche tutti i santi dell' antico testamento, e tutti i credenti sparsi per le nazioni in tutti i tempi. Perocchè tutti questi si salvarono per la fede in Cristo venturo, o in Cristo già venuto. Onde l' Apostolo: « Fide intelligimus aptata esse saecula Verbo Dei, ut ex invisibilibus visibilia fierent (6): » cioè, acciocchè le cose invisibili, che sono l' oggetto della fede, la mercede promessa e la gloria futura, si avverassero, si adempissero e divenissero visibili, non più oggetto di fede, ma di visione e di esperienza. Di che soggiunge: [...OMISSIS...] Laonde troppa ragione aveano gli antichi santi di riporre la loro fiducia e speranza, non nella immortalità naturale dell' anima separata che non avrebbe potuto dare a se stessa nè luce nè azione, ma bensì nella risurrezione che avrebbe loro dato Iddio per Gesù Cristo, cioè nella restituzione di una vita ed attività soggettiva, in un termine nuovo del loro principio sensitivo e soggettivo, giacchè senza un termine reale non si dà, propriamente parlando, una vita attuale. In questa risurrezione delle loro anime li fa sperare S. Paolo, e non in altro. [...OMISSIS...] E pur que' santi dell' antico testamento dovevano rimanere colle loro anime separate lungamente nello stato di tenebre e d' inazione, cioè fino al tempo in cui Gesù Cristo avesse istituito il mistero della risurrezione, cioè il sacramento del suo corpo e del suo sangue, ed egli fosse entrato nel suo regno, perocchè dovevano essere perfezionati alla vita insieme con noi, dice l' Apostolo. [...OMISSIS...] « Deo pro nobis melius aliquid providente , » dice l' Apostolo; perocchè noi, che Iddio predestinò a vivere nel tempo della grazia del Salvatore, quando usciamo dalla vita presente senza macchia di peccato, siamo tantosto resuscitati alla vita eucaristica e gloriosa, e per questa vita vediamo Iddio; nè l' anime nostre separate hanno ad aspettare, come quelle degli antichi giusti, ad essere ammesse alla gloria. Oltre di ciò noi, oltre altri vantaggi sopra gli antichi, ancora in questa vita mangiamo il corpo e beviamo il sangue del Signore, e così abbiamo in noi quell' eterna vita, che alla morte nostra si rivela con luce fulgidissima, e che veniva simboleggiata da quelle faci che Gedeone aveva fatte nascondere ai trecento dentro a vasi di creta, rotti i quali esse apparirono (5). Quindi la Chiesa cattolica dà il nome di Viatico alla santissima Eucaristia che ricevono i moribondi, ed essi, quando il possano, ne tiene obbligati, acciocchè morendo abbiano quella vita eterna in se stessi, che è il germe della subitanea resurrezione delle loro anime, tostochè sono divise da' corpi. Il che dimostra che non convien troppo scrupoleggiare nel concedere la ripetizione del Viatico all' infermo che sopravvive qualche tempo, dopo averlo ricevuto la prima volta. E questa è altresì, oltre l' altre, una ragione che persuade a' Cristiani la frequente comunione che li tiene di continuo preparati alla venuta dello sposo, come le vergini prudenti (1), facendogli avere continuamente in sè quella vita che si manifesta nell' ora della loro morte. Il sacrosanto Concilio di Trento parla espressamente del convito celeste dell' anime separate, il quale viene pure espresso negli antichi monumenti cristiani, per indicare la beatitudine che gode l' anima in cielo; e sembra che il citato Concilio si giovi di questa ragione appunto per raccomandare a' fedeli la venerazione e l' uso della santissima eucaristia, o almeno che vi faccia allusione. Perocchè egli s' esprime così: [...OMISSIS...] Sulle quali notabilissime parole del sacrosanto Concilio egli è uopo che noi facciamo alcune riflessioni. Egli adopera la parola mangiare, tanto riferendola all' assunzione del corpo di Cristo in questo mondo, quanto riferendola a ciò che si farà in cielo dall' anime separate da' corpi: egli ammette adunque una manducazione del corpo di Cristo nell' altra vita che darà la beatitudine. Egli dice che le anime nostre, passate da questa vita senza macchia o purificate nel fuoco, saranno ammesse a cibare lo stesso pane degli angeli, che relativamente mangiano i viatori in terra . Cristo adunque nella vita futura si unirà alle anime in modo simile a quello col quale il cibo si assimila ed unisce di presente all' anime nostre divenendo nostra carne e nostro sangue. Non dice il Concilio semplicemente che nel celeste regno saremo uniti a Cristo, goderemo di Cristo, ma dice che lo mangeremo, e lo mangeremo siccome pane, cioè al modo del cibo, e che sarà lo stesso pane eucaristico che ora mangiamo in terra, [...OMISSIS...] Che anzi l' essere questo pane chiamato celeste nelle Scritture, del quale io intendo quel luogo di S. Paolo « Gustaverunt etiam donum coeleste (1) » e in figura, della manna è detto « Januas coeli aperuit, et pluit illis manna ad manducandum, et panem coeli dedit eis: panem angelorum manducavit homo (2) » nel libro poi della Sapienza, tutto applicabile più veramente all' Eucaristia che alla manna, si legge: [...OMISSIS...] e ne' tanti altri luoghi delle divine Scritture l' Eucaristia figurata nella manna è chiamata pane del cielo (4). Convien dunque dire che nel cielo si mangi questo cibo divino. E Cristo lo dice ancora più chiaramente parlando di que' servi fedeli che saranno trovati vigilanti alla venuta del loro Signore, per la quale s' intende da' Padri la morte: « Beati servi illi, quos cum venerit Dominus invenerit vigilantes. Amen dico vobis quod praecinget se, et faciet illos discumbere, et transiens ministrabit illis (5). » Questo è il convito che si fa ai Cristiani, che muojono giustificati, in cielo subito dopo la loro morte, e all' anime che escono pure d' ogni macchia dal fuoco del purgatorio. Cristo è quello che ministra alla mensa, come fece in terra co' suoi discepoli, ed è il cibo stesso ch' egli amministra. Ma perchè dice ministrerà il Signore a que' servi fedeli in passando? Questa misteriosa parola indica la risurrezione di cui parliamo, che avviene all' anima mondata subito dopo aver deposta la soma terrena, perchè Cristo nell' Eucaristia dall' essere suo nascosto, sub sacris velaminibus, come dice il Concilio di Trento, si apre e manifesta ed è mangiato absque ullo velamine . Al qual passaggio di Cristo, qual cibo, da uno stato nascosto ad uno stato palese risponde quella risurrezione dell' anima di cui dice Cristo che passa dalla morte alla vita [...OMISSIS...] E le due risurrezioni, cioè questa e la finale, sono distintamente annunziate da Cristo in questo luogo; perocchè, dopo aver detto che chi crede al Padre che lo ha mandato ha l' eterna vita e passa dalla morte alla vita, tosto aggiunge dell' altra resurrezione finale: « Amen, amen dico vobis, quia venit hora, et nunc est, quando mortui audient vocem Filii Dei: et qui audierint vivent (2). » E dice che già allora i morti udivano la voce del Figliuolo di Dio, et nunc est, benchè non dica che già allora risorgessero, ma che viveranno, et qui audierint vivent; perocchè a' santi defunti venne comunicata gradatamente la salute e la grazia di Cristo per que' gradi stessi pe' quali venivano comunicate agli uomini viventi in terra ne' giorni della vita terrena del Salvatore: onde alla predicazione di Cristo la luce uscente dalla sua parola dee essere splenduta altresì a quelli che erano al limbo. La parola transiens s' avvera ancora in un altro modo. Cristo nell' eucaristia passa pe' nostri corpi, come passa il cibo; e un simigliante passaggio, benchè continuo, è credibile che avvenga rispetto all' anime separate venendo in tal modo esse continuamente refocillate da nuovo cibo divino. Onde la parola pasqua, che viene a dire passaggio per indicare il passaggio dell' Angelo, che non sommise alla morte, ma lasciò in vita tutti quelli che avevano tinti gli stipiti delle loro abitazioni col sangue dell' agnello. Allo stesso modo, essendo tutti gli uomini condannati alla morte, l' Angelo della morte non può nulla su quelli che sono vitalmente incorporati a Cristo, perchè ognuno che crede, benchè muoja della morte naturale, pure non muore assolutamente parlando, ma transit a morte in vitam . Così la pasqua degli Ebrei è un segno parlante dell' Eucaristia. Ma qui si presenta una difficoltà sulla denominazione di pane degli Angeli data al cibo eucaristico. Gli Angeli non mangiano, non si nutrono di cibo come gli uomini. Come dunque si può dire che Cristo, la carne ed il sangue di Cristo, si renda cibo de' puri spiriti? E` vero che gli Angeli sono spiriti puri, ma essi hanno nulladimeno una relazione e un' azione sui corpi. Come i corpi sono il termine attivo della vita animale, di maniera che il principio sensitivo riceve da essi un' azione, per la quale egli ha il suo atto di sentire e di essere; così i medesimi corpi sono un termine passivo degli Angeli, di maniera che dagli Angeli essi corpi ricevono quell' attività per la quale possono agire nel principio della vita sensitiva corporea. Quindi gli Angeli possono benissimo esser congiunti al loro modo al corpo eucaristico di Cristo, ad un modo che non è certamente il mangiare dell' uomo, ma che, corrispondendo esattamente ed analogicamente al mangiare e all' alimentarsi dell' uomo, può colla stessa parola denominarsi, non avendo l' uomo altre parole, per significare quanto appartiene alle sostanze pure che non cadono sotto la sua esperienza, se non le analogiche che la propria esperienza gli somministra. Perocchè questa espressione cibo degli Angeli dee avere una verità, e non essere una pura imaginazione degli Ebrei, che, vedendo cadere la manna dal cielo, la dissero cibo degli Angeli che stanno in cielo, e un' imaginazione sarebbe per la manna, ma non pel vero pane celeste che da un altro cielo spirituale discese, e per ragione del quale Iddio permise che così gli Ebrei concepisser la manna, e questo si conservasse scritto ne' libri divini. Può ancora considerarsi che la parola Angelo, che significa mandato, non accenna alla natura ma all' ufficio, onde Angelo è detto nella divina scrittura S. Giovanni Battista, Angeli i Vescovi delle Chiese (1), Angelo del testamento Gesù Cristo medesimo in questo luogo di Malachia: « Ecce ego mitto angelum meum, et praeparabit viam ante faciem meam. Et statim veniet ad templum suum Dominator, quem vos quaeritis, et Angelus Testamenti, quem vos vultis (2). » Il qual Profeta dice pure del Sacerdote: « Labia enim Sacerdotis custodient scientiam, et legem requirent ex ore ejus, quia Angelus Domini exercituum est (3). » Ora il pane ed il vino eucaristico è soprattutto il cibo del Sacerdote, a cui dalla Chiesa venne riserbato in proprio il calice, specialmente essendo profetato dell' eucaristico cibo in questo modo: « Quid enim bonum ejus est, et quid pulchrum ejus, nisi frumentum electorum et vinum germinans virgines? (4). » Qui si farà da alcuno questa difficoltà. Ond' è che la Chiesa cattolica raccomanda sì caldamente di ricevere nell' ore estreme il Corpo di Cristo? Questo vien dato dopo la morte a tutti i giusti, in quella maniera misteriosa ed ineffabile che l' umana lingua non può a pieno spiegare, eziandio che non lo ricevessero prima di morire. La risposta si contiene nella stessa denominazione di Viatico che la Chiesa dà all' eucaristico nutrimento preso dagli infermi vicini a morte. E il Tridentino sopracitato lo dichiara assai nettamente con quelle parole: « et is vere eis sit animae vita ed perpetua sanitas mentis, cujus vigore confortati ex hujus miserae peregrinationis itinere ad coelestem patriam pervenire valeant . » Il passo di questa all' altra vita, che l' uomo fa colla morte, quant' è pericoloso, altrettanto è rilevantissimo, perchè da quello dipende l' eterna condizione dell' anima, onde niun mezzo si dee dell' uomo trascurare per averne ajuto e conforto. E di tutti validissimo è l' ajuto e il conforto del cibo eucaristico, del quale fu simbolo il pane e l' acqua recato dall' angelo al profeta Elia fuggente da Acabbo, di cui è scritto [...OMISSIS...] E veramente l' uomo non ha altra fortezza nè altra vera vita che quella che gli viene da Cristo, dall' essere incorporato a Cristo, dal vivere della vita di Cristo, dall' aver Cristo in se stesso. E la vita di Cristo, di cui l' uomo partecipa cibandone il corpo sacratissimo, è tanto potente che rimonda l' uomo da' peccati veniali e dagli stessi mortali, quando egli ne sia pentito, e non avendone coscienza, o non potendoli sottomettere al potere delle Chiavi, ne vada ancor debitore; perchè quella vita repelle e caccia da sè ogni impedimento, a meno che non osti la mala disposizione della volontà dell' uomo, per la quale disposizione malvagia l' uomo riceve il cibo divino senza riceverne tuttavia la vita. Si ponga oltracciò l' attenzione del pensiero in quelle parole del Tridentino « ut is vere eis sit animae vita . » E` chiamato vita non del corpo, ma dell' anima; avendo anche l' anima quella specie di morte naturale di cui abbiamo parlato, oltre la morte del peccato. Sicchè gli antichi giusti che non ebbero il vantaggio della Eucaristia, sostennero quello stato simigliante ad una morte dell' anima, nel quale, come abbiamo detto, si trovavano nel limbo in aspettazione di Cristo che li facesse risorgere. Ma anco fra i Cristiani, che muojono giustificati, si può credere che v' abbia una differenza secondo che muojono con aver ricevuto il Viatico o senza averlo ricevuto, non solo pel grado maggiore di santità e di unione col fonte della santità di cui quelli si vantaggiano, ma altresì rispetto alla condizione della loro morte. E per dare maggior luce a questo concetto, distinguiamo tre casi: 1 quelli che muojono col solo desiderio del battesimo senza averlo ricevuto realmente; 2 quelli che muojono giustificati dopo ricevuto il battesimo senza aver tuttavia ricevuto il Viatico; 3 quelli che muojono giustificati dopo aver ricevuto il Viatico. Egli è certo e ben definito che tutti e tre si salvano. Tuttavia i primi, che hanno un diritto alla vita, hanno la vita di diritto ma non ancora di fatto, e però passano in certo modo per quello stato di morte naturale dell' anima, dal quale incontamente vengono resuscitati da Colui che disse: « Io sono la resurrezione e la vita, chi crede in me eziandio che sia morto vivrà », e questi sono simili agli antichi giusti, colla sola differenza che gli antichi giusti rimasero lungamente in quello stato, laddove essi non fan che passarci istantaneamente. I secondi, che muojono rinati dall' acqua e dallo Spirito Santo, hanno di diritto e di fatto la vita dell' anima, ma non partecipano che inizialmente alla vita di Cristo, benchè rechino seco il diritto di entrare in possesso pienissimo di quella vita. Laonde, deposto che abbiano il corpo, essi non passano neppure per un istante per quello stato di morte naturale dell' anima, ma passano per quello stato di vita iniziale qual è quella che hanno ricevuto nel battesimo e che portano seco, dal quale Cristo immantinente sollevandoli dà loro la vita piena. I terzi, finalmente, avendo ricevuto Cristo effettivamente prima di morire, non soffrono che la morte del corpo, e nell' altra vita si trovano già con quella pienezza di vita che altro non esige se non d' illuminarsi e di manifestarsi, senza che l' anima loro passi per alcun grado inferiore. Rimane ora a dichiarare come, laddove gli uomini viatori cibano il corpo ed il sangue di Cristo che rimane loro occulto e velato, i comprensori celesti si nutrano dello stesso divino alimento senza che alcun velo ne contenda loro la vista [...OMISSIS...] Gesù Cristo, deposta la vita mortale e seppellito il divino suo corpo, poscia risorto, coll' ascensione al cielo si tolse agli occhi degli uomini. L' uomo, incorporato in Cristo, partecipa di tutte le vicissitudini di Cristo, e quindi è morto e seppellito e risorto e salito al cielo in ispirito con Cristo, come membro di Cristo. Il che egli fa colla vita interiore e novella da lui acquistata, venendogli impedito dal farlo compiutamente e corporalmente dall' ostacolo dell' uomo vecchio fino a tanto ch' egli vive ancora della vita adamitica e non ha deposto il corpo mortale; non ha ricuperato il nuovo e glorioso coll' ultima risurrezione: onde al presente dee fare tutte queste cose mediante la fede di cui vive (1), per la quale egli le fa senza averne la piena consapevolezza, e la chiara visione. Quindi la vita dei Cristiani che è in Cristo viene chiamata da S. Paolo vita nascosta . La qual vita si manifesterà, s' animerà di un vivissimo sentimento, brillerà d' una luce ineffabile, primieramente alla morte del corpo, quando avviene la prima resurrezione, che è quella dell' anima; poscia alla ricuperazione del corpo nostro proprio glorioso nella fine dei secoli, che sarà la seconda resurrezione. « Igitur, » così il Vaso d' elezione, « si consurrexistis cum Christo, quae sursum sunt quaerite, ubi Christus est in dextera Dei sedens: quae sursum sunt sapite, non quae super terram. Mortui enim estis, et vita vestra est abscondita cum Christo in Deo. Cum Christus apparuerit, vita vestra; tunc et vos apparebitis cum ipso in gloria (2). » Il che viene a dir così: Cristo il quale si tiene in voi è la vostra vita. Ma Cristo è nascosto presentemente all' esperienza de' vostri sensi, perchè questi sensi guasti e materiali non sono degni nè atti di vederlo o percepirlo, perchè non sono degni nè atti di vedere Iddio in cui è Cristo, nè è degna o atta di vederlo quella vita, quell' anima che dee presiedere a tali sensi: quindi Cristo, nostra vera vita, è nascosto al presente in Dio, alla cui destra egli siede. Tuttavia voi vivete, benchè non abbiate la consapevolezza di tutti i tesori che in quella vita, quasi involuti a forma di germe, sono nascosti e che debbono poi apparire in voi d' improvviso, quando vi apparirà in tutto il suo splendore. Dunque avete bisogno di credere tutto ciò, di credere alla vostra vita, di aspettarne la sfolgorante manifestazione: dovete altresì condurvi consentaneamente alla vostra vita immortale ed eterna: dovete rinunziare coll' affetto della volontà e colla stima alla vostra vita naturale e corrotta destinata alla morte, quasi morti con Cristo ed in Cristo, e non cercare, non assaporare se non le cose celesti, cioè a dire Cristo che siede alla destra del Padre in cielo e le cose tutte di Cristo, aspettando la meravigliosa manifestazione di Cristo in voi che vi è promessa. Onde in altro luogo dice [...OMISSIS...] E altrove l' Apostolo vuole che abbiamo fiducia nell' ingresso al Sancta Sanctorum, che è la parte più santa del tempio antico simboleggiante il cielo, dove Iddio e Cristo a noi si svela e la nostra vita occulta si manifesta: ingresso che ci fu aperto col sangue di Cristo, e del quale la carne mortale di Cristo era come il velo pendente che ne toglieva la vista; deposta la qual carne, quel velo è tolto, e noi possiamo entrare, purchè deponiamo anche noi la nostra carne, come ha fatto Cristo, la cui carne era innocente e solo per sua volontà ebbe condizione mortale e passibile, per aver voluto assomigliarsi a noi, la cui carne materiale, non solo mortale ma corrotta, è veramente un velo che impedisce l' ingresso e la vista del luogo santissimo: [...OMISSIS...] Cristo adunque incominciò egli a battere questa via nuova e vivente (perchè anche mentre siamo in sulla via viviamo ), che conduce nel più segreto ed augusto luogo del Santuario, per la quale c' invita ed esorta l' Apostolo di metterci. Di questa « vita nascosta con Cristo in Dio », di cui in questa terrena peregrinazione vive il cristiano, accenna ancora S. Pietro quando favella di quell' eredità preziosissima che si conserva nei cieli pe' fedeli, e che sta pronta per rivelarsi e manifestarsi luminosamente quando finirà la vita di ciascuno, e più pienamente ancora quando finirà il mondo: [...OMISSIS...] pel quale ultimo tempo s' intende non meno quello che è ultimo a ciascun uomo, che è il giorno della morte, quanto quello che è ultimo al mondo, che è quello della finale risurrezione. Vi ha dunque l' eredità immarcescibile conservata in cielo per noi [...OMISSIS...] , colassù palese, a noi ora nascosta: la quale eredità è Cristo, rispetto ai viatori invisibile, rispetto ai comprensori visibile e fulgente; sicchè, quando a noi pure apparirà tale, saremo manifestamente in Cielo. Ora, prima che noi entriamo ad investigare in che consistano i veli che di presente ci avvolgono il cibo eucaristico, e qual cangiamento nasce in noi alla remozione di tali veli; prima che ci facciamo a cercare quanto di questo sublime argomento sia dato a noi di conoscere, è prezzo dell' opera che noi tocchiamo quello che ci insegnano le divine lettere sul progressivo incremento della vita divina ed eterna degli uomini. Perocchè noi abbiamo veduto che anche quelli, che precedettero Cristo, vissero « sub testamento aeternae vitae (1), » anche dopo deposta la soma mortale; onde l' Iddio dei Patriarchi è Iddio de' viventi e non de' morti. Giova dunque dichiarare, quanto a noi è dato, la gradazione di queste vite. S. Paolo insegna che tutti i viatori vivono di fede, e la fede non è delle cose apparenti, ma di quelle che non cadono sotto il nostro sentimento. Ma la fede non è già pura tenebra, ma ella ha ancora della luce, la quale si fa piena allorchè nell' altra vita, cessando interamente la fede, sottentra la piena e lucidissima visione. Fino che questo non avvenga, gli uomini sulla terra possono avere ed ebbero una fede mescolata di maggiore o minor lume di sentimento divino, vi ha fede e cognizione insieme; cose che assai spesso S. Paolo congiunge; per esempio scrivendo a Tito si dice nel saluto apostolico di Cristo, « secundum fidem electorum Dei, et agnitionem veritatis, quae secundum pietatem est (2). » Per il che lo stesso S. Paolo distingue quasi più maniere di fede là dove dice: « ex fide in fidem (3). » « La giustizia di Dio, dice, si rivela nell' Evangelio di Cristo di fede in fede », quasi l' uomo passi per esso da una fede all' altra, da una fede di minor luce ad una fede di luce maggiore. Così il giusto gentile e il giusto giudeo, aderendo alla predicazione del cristianesimo, passarono d' una fede più oscura ad un' altra fede più lucente, perocchè nè anche il gentile poteva esser giusto senza credere. Laonde, non solo rispetto a' gentili, ma ben anco rispetto agli ebrei, la nostra fede è chiamata luce, chiarezza, gloria da S. Paolo, il quale anzi non dubita di scrivere così: « Nos vero omnes, revelata facie gloriam Domini speculantes, in eandem imaginem transformamur a claritate in claritatem tamquam a Domini spiritu (1) » nel qual luogo Giovanni Diodati traduce il vocabolo speculantes [...OMISSIS...] « contemplando come in uno specchio », che risponde ottimamente a quello: « videmus nunc per speculum (2). » E questa eccellenza, questa maggior luce della fede cristiana, sopra quella di coloro che erano avanti Cristo, consiste principalmente in questo: che nell' antico tempo, Cristo non essendo ancor venuto al mondo, non poteva operare colla sua umanità divina sulla nostra umanità e comunicarci, coll' unione fisica, benchè invisibile ed ineffabile, di lui a noi, parte di quella vita di cui gode egli stesso, e così ravvivare la nostra vita soggettiva. La qual comunicazione della vita umana divinizzata in Cristo mancava pure ad Adamo nello stato dell' innocenza; quindi un' altra differenza del carattere di Adamo, se così vogliamo chiamarlo, dal carattere dei Cristiani; perocchè quello non era che oggettivo, cioè la percezione iniziale del Verbo divino, ma questo, oltr' essere oggettivo, è anche soggettivo, perché è la percezione di Cristo oggetto come Verbo, soggetto come uomo . Vero è che il Verbo è l' oggetto ad un tempo persona, e anco la persona del Verbo può esser data all' uomo da percepire, ma soltanto alla mente, e però solo in modo oggettivo. Può bensì il Verbo assumere a sè la natura umana in un individuo, ma questa è l' incarnazione, nella quale la persona stessa del composto è la persona divina; com' è avvenuto in Cristo, nel quale il soggetto umano non è persona, giacchè la persona è il supremo principio operativo d' un individuo, e il supremo principio operativo in Cristo fu il Verbo. La persona divina adunque del Verbo, come a me pare, non può comunicarsi in modo soggettivo ad un individuo dell' umana natura se non incarnandosi in esso. All' incontro l' umanità di Cristo, per la virtù divina di cui è informata, poteva operare fisicamente e in modo soggettivo sull' umanità nostra, come un amico agisce sull' amico, e uno sposo sulla sposa; e la vita di Cristo come uomo assunto dalla divinità poteva operare sulla vita nostra soggettiva, e aggiungerle del suo vigore e della sua propria vitalità; perchè la vita si comunica, come si vede nella generazione, nella nutrizione, e meno palesemente in altri fenomeni ancora, specialmente in quelli dell' amore. Ora dal Verbo oggettivamente percepito può promanare in qualche modo lo Spirito: ma l' effetto di questo spirito sembra dover essere limitato a rendere il bene amabile all' intelletto; non a rinforzare e muovere immediatamente le facoltà inferiori operative soggettive. Laddove, per la congiunzione di Cristo a noi, per l' unione a noi del Verbo incarnato, cioè non meno del Verbo che dell' umana natura assunta dal Verbo, tutte le nostre potenze sono ad un tempo sollevate, corroborate, divinizzate, non solo le oggettive, ma le soggettive ancora. Il che è una notabilissima differenza fra la grazia di Adamo innocente e quella del Cristiano, cioè dell' uomo rinato in Cristo. E di questa vita soggettiva, a noi comunicata dalla vita umana7divina di Cristo, sono quelle parole di S. Paolo « in eamdem imaginem transformamur: » perocchè, come altrove dice: « Vivo autem, jam non ego, vivit vero in me Christus (1). » Altrove: « Mihi vivere Christus est (2). » Ed agli Ebrei: « Participes enim Christi effecti sumus: si tamen initium substantiae ejus usque ad finem firmum retineamus (3): » dove, quantunque il greco non dica substantiae ejus, ma solamente substantiae [...OMISSIS...] , tuttavia ottimamente la Volgata traduce substantiae ejus, apparendo, che si parla dall' Apostolo della sussistenza o sostanza di Cristo in noi, dalle prime parole del versetto: « participes enim Christi effecti sumus . » Per la partecipazione adunque della vita umana7divina di Cristo noi ci trasformiamo nella stessa imagine di Cristo, ci trasformiamo in qualche modo in Cristo, diveniamo in un certo senso altrettanti Cristi viventi in lui, tale essendo la forza di quella parola imagine , come abbiamo notato più sopra, ponendosi l' imagine per la stessa cosa incipiente, siccome in quel luogo: « Umbram enim habens lex futurorum bonorum, non ipsam imaginem rerum (4), » cioè non ipsa bona quasi in embrione, sentendo noi quello che sente Cristo, piacendoci quello che piace a Cristo, dispiacendoci quello che a Cristo dispiace, volendo quello che vuole Cristo diventiamo amabili al Padre che ama in noi le stesse cose che sono in Cristo e sono in noi, ama Cristo in noi. Onde il Salvatore disse de' suoi discepoli, promettendo loro la venuta personale del suo Spirito: « Venit hora, cum jam non in proverbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiabo vobis. In illo die in nomine meo petetis. Et non dico vobis quia ego rogabo Patrem de vobis. Ipse enim Pater amat vos, quia vos me amastis, et credidistis quia ego a Deo exivi (5). » Queste dolcissime e benignissime parole disse Cristo a' suoi discepoli. Nelle quali è da osservare: 1 Che quel dire, ch' egli parlerà apertamente e palesemente del Padre, dimostra quanto sia illuminata la fede de' Cristiani per la partecipazione della vita soggettiva di Cristo sopra la fede degli antichi, e risponde a quella di S. Paolo: « in eamdem imaginem transformamur a claritate in claritatem, » o, come dice il testo greco: «apo doxes eis doxan». Questa chiarezza non è propria della fede degli Ebrei, ma solo de' Cristiani; perchè gli Ebrei avevano la notizia di Cristo che doveva venire al mondo, ma non potevano avere il sentimento di Cristo, perchè, non essendo ancora venuta al mondo la sua reale umanità, non poteva questa agire sull' umanità loro, come agisce realmente benchè misteriosamente sull' umanità nostra. Onde S. Paolo altrove dice, che Cristo venendo al mondo « illuminò la vita »: [...OMISSIS...] Quasi voglia dire: Vi era una vita anche avanti Cristo (sebbene anch' essa per Cristo), ma questa vita era oscura e non illuminata perchè non era soggettiva, ma soltanto oggettiva, per modo che il soggetto debole ed esile non poteva fare gli atti vitali di sentimento, cavandoli dall' oggetto, che non gli poteva dare l' immortalità soggettiva. Ma Cristo, per mezzo dell' Evangelio, cioè della fede e de' sacramenti, diede all' anima, cioè al soggetto, di quel sentimento immortale ch' egli aveva nella sua umanità congiunta ipostaticamente al Verbo, e così distrusse la morte, cioè quello stato dell' anima separata che rimane senza sentimento operativo perchè priva di un termine reale che formando con essa un solo soggetto la renda atta all' azione, benchè non si rimanga priva d' intellezione anche con un oggetto reale (il Verbo), e però di vita oggettiva; quindi distrusse la morte anche rispetto alla vita naturale, facendo che all' anima sia un tempo restituito un corpo glorioso colla risurrezione della carne. Vero è che agli Ebrei furono preannunziate molte cose di Cristo, e la fede che davano ad esse era soprannaturale. Era soprannaturale perchè queste cose stesse le percepivano oggettivamente in quell' esistenza oggettiva che hanno le cose nel Verbo per una interiore comunicazione del Verbo più o meno chiara, ma sempre mista di molta oscurità. Onde, quando venne Cristo al mondo si adempì la profezia: « Eructabo abscondita a constitutione mundi (1), » e Cristo potè dire: « Mandatum novum do vobis, ut diligatis invicem sicut dilexi vos, ut et vos diligatis invicem (2), » e potè rassomigliarsi al Padre di famiglia che « profert de thesauro suo nova et vetera (3). » Se le verità fossero state annunziate agli Ebrei solamente in parole esterne senza che queste fossero accompagnate da alcun lume interiore di fede, la loro condizione non si sarebbe potuta dire soprannaturale, benchè quella rivelazione fosse scaturita da una fonte soprannaturale; ma il lume interiore, donato in varii gradi a que' fedeli, faceva sì, come dicevamo, che percepissero nel Verbo quelle verità che venivano loro annunziate di fuori colle parole. 2 Ma, quantunque gli Ebrei vivessero per questa loro fede, tuttavia quella fede non dava loro la vita soggettiva, non li trasformava, come dice S. Paolo, nella stessa imagine di Cristo, non li toglieva dalla morte e dalla corruzione di sè come umani soggetti; onde coll' aver illuminata la vita, secondo San Paolo, Cristo distrusse la morte e la corruzione, [...OMISSIS...] E come potrebbe venir meno la vita soggettiva a quelli che sono amati dal Padre dello stesso amore del quale ama il suo Figliuolo diletto in cui si compiace, [...OMISSIS...] e le preghiere de' quali, fatte in nome di Cristo, sono accette ed esaudite: [...OMISSIS...] Le preghiere e i sacrificii degli antichi santi, ancor che fatte in nome di Cristo, non potevano salvarli dalla morte soggettiva, e dalla condanna al limbo: conveniva prima, che risorgessero e fossero edotti da quella cotal prigione, e perciò, che venisse Cristo e pregasse per essi, e fosse esaudito secondo il mandato che aveva ricevuto: [...OMISSIS...] Il perchè S. Paolo chiama la stessa legge antica, quantunque santa in se stessa: « ministratio mortis, ministratio damnationis (5), » perchè l' uomo non era avvalorato soggettivamente ad adempirla, e non adempita comminava la morte, nè l' uomo di conseguente si poteva salvare per l' adempimento perfetto di quella legge, ma per la fede in Colui che toglieva e cancellava i loro peccati, i cui meriti per la fede si sarebbero loro applicati. Quindi gli antichi fedeli vivevano di una vita oggettiva, ed avevano una certa speranza della vita soggettiva; ma non ancora la stessa vita soggettiva di Cristo. La qual vita de' santi Cristiani, chiamata bene spesso l' uomo nuovo, l' uomo interiore, viene altresì rassomigliata da S. Paolo ad un vestimento, e la mancanza di questa vita alla nudità della persona: similitudine acconcissima rispetto all' anima separata dal corpo, la quale priva di questo suo termine naturale rimane nuda, se non gli è dato da Dio soprannaturalmente qualch' altro termine reale (il quale secondo noi è l' essere eucaristico di Gesù Cristo), ed è trovata vestita se seco adduce questo termine ineffabile e misterioso, pel quale le è comunicata della vita di Cristo. Medesimamente questo termine reale della nostra vita interiore e spirituale è rassomigliato ad una casa, la quale rimane anche quando la casa temporanea del nostro corpo si discioglie: [...OMISSIS...] 3 Conviene in terzo luogo notare che le recate parole di Cristo si riferiscono allo Spirito Santo, il quale è quello che rende propriamente gli uomini, che colle loro volontà non si oppongono e potendo cooperano, figliuoli di Dio, onde passano, come dice S. Paolo, « a claritate in claritatem tamquam a Domini Spiritu: » il che si può intendere, tanto dell' ascendere di virtù in virtù, di perfezione in perfezione, di eccellenza ad eccellenza durante la presente vita, quanto del passaggio dalla chiarezza o gloria interna, che ha il giusto cristiano in questa vita, a quella chiarezza e gloria sfolgorante e completa che avrà nell' altra. 4 E poichè lo Spirito Santo è l' amore divino essenziale, e quindi diffonde in noi la carità, che riforma e santifica la nostra volontà, secondo quello: « Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis (2), » e ancora: « Ipse enim Spiritus testimonium reddit spiritui nostro, quod sumus filii Dei (3); » perciò Gesù Cristo dice che il Padre ama noi, perchè noi amiamo lui, [...OMISSIS...] giacchè non vi ha la vita soggettiva di cui parliamo dove non vi ha carità, almeno abituale, non avendovi ivi lo Spirito Santo che è quello che congiunge Cristo alle anime nostre nel modo della vita soggettiva. La carità poi (che è assai più d' un semplice affetto naturale ed accidentale, come lo Spirito Santo è assai più che semplicemente l' amore accidentale, essendo sussistente persona divina) ha per oggetto Cristo umanato, quale ci è proposto dalla fede; onde il Signore soggiunge al « quia me amastis, » quest' altra parola: « et credidistis quia ego a Deo exivi . » Nel qual vocabolo, exivi, non è solamente indicata la processione del Verbo dal Padre, ma ben anco la sua missione visibile nel mondo e la sua incarnazione, come dichiarano le parole che vengono appresso: « exivi a Patre et veni in mundum (1), » che rispondono a quelle di Giovanni: « Et Verbum erat apud Deum . » L' Evangelio adunque, cioè non la lettera ma lo spirito, aggiunse una gran luce alla fede antica, ed illuminò la vita spirituale e la scienza: « Quoniam Deus, qui dixit de tenebris lucem splendescere, ipse illuxit in cordibus nostris, ad illuminationem scientiae claritatis Dei in facie Christi Jesu (2). » E dice in facie Christi Jesu, perchè lo Spirito Santo che illumina l' anima, ha quest' effetto suo proprio di fare intendere, e sentire, e quindi amare Gesù Cristo, come abbiam detto, Dio e uomo, uscito dal Padre, mandato nel mondo dal Padre. Ora tutta questa chiarezza e luce ineffabile della vita cristiana è nondimeno velata in paragone di quella che rifulgerà alle anime nostre, quando sarà squarciato il velo de' nostri corpi: [...OMISSIS...] dice S. Paolo, [...OMISSIS...] Laonde nell' antico testamento vi era la fede, ma vi era un' altra fede da rivelarsi, la quale, appunto perchè doveva rivelarsi, aveva più di chiarezza; al presente poi la nuova fede è rivelata, e non rimane a rivelarsi altra fede, ma solo la gloria. Della fede, che era da rivelarsi e che si rivelò col Vangelo, dice S. Paolo: « Prius autem quam veniret fides, sub lege custodiebamur conclusi in eam fidem quae revelanda erat (4). » E nello stesso senso lo stesso Apostolo dice, che si rivelò in lui Cristo: [...OMISSIS...] Della gloria poi, e non più della fede che al presente resta a rivelarsi, dice S. Pietro: « qui et ejus, quae in futuro revelanda est, gloriae communicator (1). » E l' Apostolo de' Gentili afferma che la sua predicazione ha per oggetto « il mistero di Cristo », perocchè nella dottrina di Cristo rimane sempre una parte misteriosa a noi che siamo nella presente vita: [...OMISSIS...] dice a que' di Colosse, [...OMISSIS...] e tuttavia soggiunge « ut manifestem illud ita ut oportet me loqui (2) » perocchè questo mistero si può annunciare, credere e in parte anche manifestare, secondo quel modo di conoscimento che a noi è dato finchè siamo circondati dal corpo corruttibile; onde anche prima l' avea chiamato « mysterium quod absconditum fuit a saeculis et generationibus, nunc autem manifestatum est sanctis ejus, quibus voluit Deus notas facere divitias gloriae sacramenti hujus in gentibus, quod est Christus, in vobis spes gloriae, quem nos annuntiamus (3). » Nel qual luogo dicendosi che il mistero di Cristo fu manifestato ai Santi, e non dicendosi a tutti quelli cui fu predicato, ben s' intende che l' Apostolo parla d' una cognizione e manifestazione soprannaturale, per la quale i Santi dentro illustrati dal lume della fede intendono e penetrano nel recondito di tale mistero, quando quelli che non credono, nulla più ne capiscono che la lettera, la quale non è cognizione vera del mistero stesso, nè soprannaturale. Il che spiega l' Apostolo più ampiamente nella sua prima ai Corinti, dove, dopo aver detto che la sapienza di Dio nel misterio è nascosta e nessuno de' principali uomini del mondo la conobbe, soggiunge: « « Nobis autem revelavit Deus per Spiritum suum. Spiritus enim omnia scrutatur, etiam profunda Dei. Quis enim hominum scit quae sunt hominis, nisi spiritus hominis qui in ipso est? ita et quae Dei sunt, nemo cognovit nisi Spiritus Dei. Nos autem non spiritum hujus mundi accepimus, sed Spiritum qui ex Deo est, ut sciamus quae a Deo donata sunt nobis. - Animalis autem homo non percipit ea quae sunt Spiritus Dei: stultitia enim est illi, et non potest intelligere: quia spiritualiter examinatur. Spiritualis autem judicat omnia: et ipse a nemine judicatur »(4). » Dalle quali parole raccogliamo che la cognizione che ha il cristiano in questo mondo comprende il tutto; comprende tutto ciò che conoscerà con maggior luce all' altro mondo, perchè ha lo Spirito di Dio, che omnia scrutatur, etiam profunda Dei, di maniera che il cangiamento che succederà sarà una vera rivelazione, secondo l' etimologia della parola, un vedere le cose stesse che conosce, adesso sotto un velo, allora senza velo, giusta le parole citate dal Concilio, « eumdem panem Angelorum, quem modo sub sacris velaminibus edunt, absque ullo velamine manducaturi . » Quindi, per indicare quel passaggio dalla condizione presente del Cristiano alla futura, talora si nomina una rivelazione di Gesù Cristo. Parlando della seconda venuta di Cristo, dice il Vangelo: « qua die Filius hominis revelabitur (1). » E prima aveva detto dello stato presente del fedele, che ha in sè Cristo in un modo velato: « Non venit regnum Dei cum observatione, neque dicent: Ecce hic, aut ecce illic. Ecce enim regnum Dei intra vos est (2), » e quindi trapassa a favellare come questo regno di Dio, che viene senza attrarre l' osservazione degli uomini, si manifesti rifulgente alla gran venuta del Figliuolo dell' uomo. Medesimamente l' Apostolo promette requie a que' di Tessalonica, che avevano patito pel regno di Dio, « in revelatione Domini Jesu de coelo cum angelis virtutis ejus (3). » La ragione poi, perchè nelle divine scritture si parla più frequentemente e si promette la rivelazione di Cristo alla fine dei secoli, anzichè quella che avviene alla morte di ciascun fedele, mi sembra poter essere che quella è più solenne e compiuta per la risurrezione dei corpi, e doveva forse essere più inculcata come più maravigliosa: oltre di che, se quella gloria privata, dirò così, che ciascuno de' giusti Cristiani riceverà dopo morte, interessa il particolare; quell' ultima è cosa appartenente a tutta la Congregazione de' fedeli, a tutto il corpo della Chiesa. Talora poi il passaggio dalla condizione nostra presente alla gloria futura si appella « rivelazione nostra propria, rivelazione dei figliuoli di Dio, rivelazione della gloria in noi », come in questo luogo [...OMISSIS...] Le quali ultime parole, adoptionem filiorum Dei expectantes, redemptionem corporis nostri , ci avvisano che anche in questo luogo S. Paolo parla dell' ultimo compimento della gloria nostra, che sarà quando risorgeremo gloriosi, e non di quella gloria, quasi direi provvisoria, sebbene beatificante, che avranno le anime nostre separate dal corpo. Ed è da osservarsi che si chiama libertà, tanto quella che ora godiamo in Cristo: [...OMISSIS...] quanto quella che acquisteremo colla gloria finale: [...OMISSIS...] perchè ora la nostra libertà, perfetta quanto allo spirito, è nulladimeno unita ad una certa servitù quanto al corpo corruttibile. Similmente noi siamo già stati adottati figliuoli di Dio quanto allo spirito; [...OMISSIS...] ma, quanto al corpo aspettiamo tuttavia adoptionem filiorum Dei . Secondo la stessa maniera di parlare, nel giorno del Signore si riveleranno le opere nostre quali sieno alla prova del fuoco: [...OMISSIS...] Tutto è adunque nel Cristiano: tutto nella fede e nella cognizione spirituale di colui che è in Cristo secondo lo spirito della santità; ma tutto vi è velato, e in un modo sentimentale a cui non giunge o debolmente giunge la riflessione generatrice della coscienza. Quando poi deporremo il corpo, e più compiutamente quando riavremo un corpo glorioso, tutto sarà a noi svelato, manifesto, fulgente di gloria. Venendo ora alla vita eucaristica, quaggiù velata, colassù in Cielo palese, dico primieramente che i veli che ci nascondono al presente il corpo e il sangue glorioso di Cristo sono gli accidenti del pane e del vino, che soli cadono sotto i nostri sensi esteriori. Ora è da considerarsi che il pane e il vino consecrato (che non è più nè pane nè vino) fa cogli accidenti che conserva, ne' nostri organi sensorii e nell' interno del nostro corpo, gli stessi effetti fisici come non fosse consecrato, cioè come fosse ancora vero pane e vero vino. Ora, questi effetti fisici non sono gli effetti eucaristici. Il corpo adunque ed il sangue di Cristo si sta cotalmente nascosto sotto gli accidenti del pane e del vino, che naturalmente e per la fisica legge de' corpi non produce nessun effetto sul corpo nostro. Quando viveva Gesù Cristo in terra, il suo corpo passibile e mortale era sensibile ed operante ne' corpi degli altri uomini secondo le ordinarie leggi fisiche che presiedono alla mutua azione dei corpi fra loro: ma non così il corpo eucaristico di Gesù Cristo, nel quale tali leggi sono tutte sospese dall' onnipotenza divina, e però non è visibile, nè tangibile, nè odorabile, ecc.. Quindi procede che gli effetti eucaristici dipendono unicamente dalla volontà e podestà dello stesso nostro Signor Gesù Cristo, secondo quelle leggi che governano l' ordine morale. Di che avviene che quelli che non sono battezzati, e quindi incorporati a Cristo, non ne ricevono alcun effetto (se non gli effetti fisici degli accidenti); e lo stesso si dica di quelli che assumono il Santissimo Sacramento colla coscienza o colla volontà di peccato mortale (oltre il sacrilegio che commettono), perocchè « quicumque manducaverit panem hunc vel biberit calicem Domini indigne, reus erit corporis et sanguinis Domini ) (1). » Consegue ancora che gli effetti eucaristici vengano da Cristo prodotti ne' fedeli, che ricevono il suo corpo santissimo, secondo il tenore della loro disposizione; e però quelli che sono meglio disposti, e più e meglio cooperano cogli atti della loro volontà, ne ricevano in maggior copia, e in minore gli altri. I quali effetti sono primieramente operazione dello Spirito di Cristo che diffonde la carità nelle anime: ed è per ciò che Cristo disse, parlando dell' Eucaristia: « Spiritus est qui vivificat: caro non prodest quidquam: verba quae ego locutus sum vobis spiritus et vita sunt (2). » Ma egli conviene che noi esponiamo, per quanto ci è dato, in che modo Cristo col suo Spirito produca in colui che riceve il suo corpo ed il suo sangue cotesti maravigliosi effetti. E` dunque da considerare primieramente, che il supremo principio operatore in Cristo è il Verbo, il quale perciò non è soltanto persona divina, ma persona di Cristo, cioè persona divina incarnata; giacchè la persona d' un individuo intelligente è quel supremo principio operativo che è in esso. Ora, come la persona divina del Verbo unì a sè la natura umana? Certa cosa è che il Verbo per questa unione non sofferì passione, nè cangiamento alcuno, non essendone suscettibile, come quello che è immutabile, ed in cui non cadono accidenti di sorta. Ma è da riflettere, qual preliminare della dottrina che dobbiamo esporre, che le cose tutte esistono nel Verbo non solo idealmente, ma anche realmente, come abbiamo detto, in un modo oggettivo; e in questo modo oggettivo, come tutte l' altre cose, così esisteva nel Verbo anche l' umanità di Cristo. Ma qui non ci ha ancora l' incarnazione, non ci ha l' unione ipostatica: altramente il Verbo sarebbe stato congiunto con tutte le creature ipostaticamente, il che è assurdo. L' esistenza oggettiva è sempre divina; le cose create non hanno che un' esistenza soggettiva, o un' esistenza che alla soggettiva si riferisce (esistenza extrasoggettiva). Quindi le cose nella loro esistenza oggettiva, appartenenze del Verbo, non sono le cose quali esistono puramente a se stesse, dal che viene che sieno creature reali. L' esistenza oggettiva delle creature è reale pel Verbo (assolutamente reale), ma non è nelle creature stesse, la cui esistenza propria è soltanto soggettiva, di maniera che quella potrebbe essere nel Verbo (ed è il Verbo stesso) senza che queste ancor fossero. Laonde le creature per la sola esistenza oggettiva non sono a se stesse; e, quando esse sono (soggettivamente), allora esse non apprendono necessariamente il Verbo, sebbene il Verbo le abbia in sè oggettivamente, e l' esistenza oggettiva e soggettiva sieno due modi dello stesso ente. Acciocchè dunque il Verbo assuma a sè e si congiunga una creatura intellettiva in quanto questa è a se stessa, non basta ch' egli l' abbia oggettivamente, sebbene realmente, in sè; ma è necessario ch' egli si congiunga soggettivamente a quella creatura, o per dir meglio congiunga quella creatura soggettivamente a sè. Così fece incarnandosi, cioè congiungendo a sè la natura umana in individuo ipostaticamente. La mutazione, come dicevamo, non avvenne in lui, ma nella natura umana assunta, la quale trovò d' esser mossa e governata, come da suo proprio principio supremo, dalla persona del Verbo. La comunicazione di Dio soggettiva all' umanità è operazione dello Spirito Santo: quindi il Verbo s' incarnò per opera di esso Spirito: [...OMISSIS...] E Cristo chiama se stesso: « quem Pater sanctificavit et misit in mundum (2), » facendo precedere, non quanto al tempo ma quanto al concetto, la santificazione alla missione nel mondo, quasi venendo a dire santificò l' umanità di Cristo in modo che nello stesso tempo mandò in essa il Verbo, il quale a sè ipostaticamente unita l' assunse. Onde l' Apostolo chiama Cristo, « qui praedestinatus est Filius Dei in virtute secundum spiritum sanctificationis (1). » E la stessa parola Cristo significa l' unto del Signore, così venendo chiamato Colui che era stato mandato coll' unzione dello Spirito Santo, come avevano già preannunziato i Profeti: [...OMISSIS...] dice il Redentore in Isaia: [...OMISSIS...] E il Salmo: [...OMISSIS...] E all' udire il racconto che Pietro e Giovanni fecero del processo loro intentato dalla Sinagoga dopo la guarigione dello storpio alla porta del tempio di Gerusalemme, i primi discepoli dissero: « Convenerunt enim vere in civitate ista, adversus sanctum puerum tuum Jesum quem unxisti, Herodes et Pontius Pilatus cum gentibus et populis Isra‰l (4). » E S. Pietro alla famiglia del Centurione dice di Gesù: « Vos scitis - quomodo unxit eum Deus Spiritu Sancto et virtute (5). » Ora è da considerarsi che è proprio dello Spirito Santo l' agire in modo soggettivo, perocchè egli s' unisce come principio attivo alla volontà umana, e questa con esso lui unita s' innalza a riconoscere praticamente l' essere, e massimamente l' Essere assoluto, nel che sta la santificazione dell' uomo. Ora parmi che sia da credere che nell' umanità di Cristo la volontà umana fu talmente rapita dallo Spirito Santo ad aderire all' Essere oggettivo, cioè al Verbo, che ella cedette intieramente a lui il governo dell' uomo, e il Verbo personalmente ne prese il regime così incarnandosi, rimanendo la volontà umana e l' altre potenze subordinate alla volontà in potere del Verbo, che, come primo principio di quest' essere Teandrico, ogni cosa faceva, o si faceva dalle altre potenze col suo consenso. Onde la volontà umana cessò di essere personale nell' uomo, e da persona che è negli altri uomini rimase in Cristo natura. Dove è da osservarsi che tutte queste operazioni dello Spirito Santo quasi preambole all' incarnazione, e della stessa incarnazione o unione ipostatica, non furono già successive, ma contemporanee, compiute in un istante, nell' istante dell' incarnazione medesima. Il Verbo poi, incarnato così per opera dello Spirito Santo, estese la sua unione a tutte le potenze ed alla carne stessa, onde potè dire S. Giovanni che « « il Verbo si fece carne » »; come pure mandò lo Spirito Santo in esse e negli altri uomini, prima i doni e poscia la medesima persona che loro suggerisse praticamente quant' egli loro diceva quasi teoricamente. E la missione dello Spirito Santo santificatrice dell' umanità di Cristo è sempre procedente dal Verbo, sia quella che si concepisce logicamente preambola all' incarnazione medesima, sia quella che si concepisce logicamente posteriore a questa, venendo la prima dal Verbo separato, la seconda (identica alla prima) dal Verbo medesimo unito. E in un modo somigliante avviene la rigenerazione spirituale dell' uomo, salvo che l' operazione preambola dello Spirito Santo può precedere anche di tempo alla stessa rigenerazione, come accade negli adulti. Questi sono quei doni e quelle grazie, di cui parla il sacrosanto Concilio di Trento come dispositive alla giustificazione, nelle quali in prima la vocazione divina si contiene. [...OMISSIS...] Di poi viene la fede, di cui così lo stesso ecumenico e sacrosanto Concilio: [...OMISSIS...] Queste operazioni che lo Spirito Santo fa nell' adulto per disporlo alla giustificazione battesimale, le fa pure nel bambino, quanto alla sostanza, ma in altro modo occulto, per mozioni abituali della sua volontà e contemporaneamente alla giustificazione; di maniera che nello stesso istante che riceve questa pel battesimo riceve quelle grazie altresì. Nel battesimo poi, nel quale si compie la giustificazione, il Verbo si unisce come oggetto reale alla mente del battezzato, e, dove la volontà di questo non pone ostacolo ma è disposta a riconoscerlo, continua e compie la missione in essa dello Spirito Santo, colla quale egli viene santificato, adottato figliuolo di Dio, e coerede di Cristo. Onde il più volte citato Concilio dichiara che la giustificazione, che pel battesimo si conseguisce, « non est sola peccatorum remissio, sed et sanctificatio et renovatio interioris hominis per voluntariam susceptionem gratiae et donorum (2), » e l' unica causa formale della giustificazione [...OMISSIS...] Ma in quest' opera dello Spirito Santo il Verbo divino viene impresso nelle menti, come dicevamo, qual oggetto, non già qual soggetto; e però non è un' incarnazione, ma soltanto una congiunzione reale delle persone umane col Verbo incarnato, le quali persone sono come membra di quel corpo mistico di cui il Verbo è capo. Nulladimeno, atteso che questo capo, cioè il Verbo incarnato, influisce nelle membra la virtù dello Spirito Santo, prima di tutto la volontà di esse membra, dove risiede la loro personalità, è santificata, cioè tratta a riconoscere praticamente quel Verbo che percepisce; e perciocchè così acquista una nuova attività soprannaturale che non aveva prima, perciò la persona dicesi rinnovata, formatosi un uomo nuovo, nel che consiste la spirituale rigenerazione: « Voluntarie enim genuit nos, » dice S. Giacomo, « verbo veritatis ut simus initium aliquod creaturae ejus (1): renati, » continua S. Pietro, « non ex semine corruptibili, sed incorruptibili, per Verbum Dei vivi et permanentis in aeternum (2). » Or, come abbiamo detto già innanzi, crediamo assai probabile che la virtù vitale di Cristo si comunichi all' acqua battesimale per un segreto contatto del suo corpo glorioso, in virtù e nel momento nel quale sono pronunciate le parole, forma del Sacramento; e che l' acqua, toccando il corpo di lui che si battezza pella fede sua propria o in quella della Chiesa, comunichi la predetta virtù di Cristo, la quale passando dal corpo all' anima ed allo spirito, rinnova finalmente la superiore parte dell' uomo, imprimendo nella sua mente il Verbo. Ma nell' eucaristico Sacramento il pane ed il vino non è solamente toccato dal corpo di Cristo, ma assunto e transustanziato nella sua carne e nel suo sangue glorioso. Onde ricevendo questo Sacramento l' uomo non riceve soltanto l' influenza della virtù di Cristo, come nel battesimo, dove l' acqua rimane acqua, benchè diventi il veicolo della virtù di Cristo, e tocca il corpo momentaneamente e spontaneamente; ma si ricevono le stesse carni viventi e gloriose, e il sangue di Cristo dentro di noi (e per concomitanza altresì l' anima e la divinità), le quali restano dentro di noi qualche tempo, benchè non tocchino il corpo nostro, il quale è toccato solo dagli accidenti del pane e del vino. I quali accidenti operano tuttociò che operano il pane ed il vino non consacrati, venendo digeriti ed assimilati, e così passando in nostra nutrizione. Ma imperocchè sotto questi accidenti vi è il vero corpo e il vero sangue di Cristo, questo produce i suoi effetti spirituali nell' anima e nello spirito dell' uomo battezzato e ben disposto. Perocchè, se gli accidenti del pane e del vino sono a un contatto reale colle nostre carni, il corpo ed il sangue di Cristo, nascosto sotto quegli accidenti, trovasi a un contatto spirituale e corporeamente insensibile; e come la carne nostra è viva, e viva è pure la carne gloriosa di Cristo, per questo contatto spirituale si comunica della vita di Cristo alla nostra vita, in quella misura ch' egli vuole e secondo le disposizioni che in noi trova. Il battesimo fa due cose nell' uomo: 1 imprime il carattere indelebile; 2 conferisce la grazia santificante. Pel carattere indelebile l' uomo è posto in comunicazione col Verbo per mezzo della sua intelligenza essenziale; per la grazia l' uomo è posto in comunicazione collo Spirito Santo per mezzo della sua volontà essenziale. Essendo aperta, mediante il battesimo, questa comunicazione dell' uomo col Verbo e collo Spirito Santo, ricevendo gli altri Sacramenti, e soprattutto quello della SS. Eucaristia, egli riceve dal corpo e dal sangue del Signore gl' influssi dello Spirito Santo che è carità, « Deus Charitas est (1), » e indi anche se li deriva. In qual maniera questi effetti avvengano egli è cosa segreta: tuttavia non crediamo aliena dalla dottrina cattolica, che sola è verità, la seguente conghiettura. La carne ed il sangue di Cristo, in cui si è convertita la sostanza del pane e del vino, è termine del principio senziente di Cristo. Ora, questa carne e questo sangue, nel modo che è nell' Eucaristia, può divenir termine altresì del principio senziente dell' uomo che lo riceve. La sostanza del pane e del vino ha cessato intieramente d' essere sostanza del pane e del vino, ed è divenuta vera carne e vero sangue di Cristo, quando Cristo la rese termine del suo principio senziente, e così la avvivò della sua vita, a quel modo come accade nella nutrizione, che il pane che si mangia e il vino che si beve, quand' è, nella sua parte nutritiva, assimilato alla nostra carne e al nostro sangue, egli è veramente transustanziato, e non è più, come prima, pane o vino, ma è veramente nostra carne e nostro sangue, perchè è divenuto termine del nostro principio sensitivo. Concependo in questa maniera la transustanziazione, noi possiamo più facilmente ravvisare e determinare qual sia il Corpo di Cristo eucaristico. Perocchè, quantunque Cristo abbia un solo Corpo, al presente glorioso, tuttavia, avvenuta la transustanziazione, si può intendere che al Corpo glorioso si sia aggiunto qualche parte in esso incorporata, ed indivisa e del pari gloriosa. E questa parte aggiunta, cioè la sostanza del pane e del vino transustanziata, che forma una cosa sola col Corpo di Cristo glorioso, come una porzione della nostra carne e del nostro sangue forma una cosa sola col nostro proprio corpo, si può intendere che sia quella che diventa termine comune al principio senziente di quell' uomo che in grazia di Dio riceve il cibo eucaristico. Ma qui prima di proceder oltre dobbiamo sciogliere alcune obbiezioni. La prima, che secondo una tale dichiarazione non ci avrebbe nell' Eucaristia tutto il Corpo di Cristo. A cui si risponde che appunto perchè il Corpo di Cristo è unico ed indiviso, egli è necessario dove si trova una parte si trovi tutto; ma che la distinzione della parte dal tutto non si fa che rispetto alla operazione spirituale ed interna nell' uomo che riceve bensì tutto quel Corpo, ma non tutto quel Corpo diviene termine del suo principio senziente, ma unicamente quella parte che risponde a quel tanto che v' aveva di sostanza di pane e di sostanza di vino nella transustanziazione. Ancora ne verrebbe che in virtù delle parole divine questa sostanza del pane e del vino si transustanziasse in carne e sangue del Salvatore; ma il rimanente del corpo e del sangue vi rimanesse unito per concomitanza, il che non par contrario alla dottrina cattolica, secondo la quale è bensì di fede che tutta la sostanza del pane e del vino si transustanzia, ma non che si transustanzia in tutto il Corpo e in tutto il Sangue glorioso di Cristo, secondo le parole del sacrosanto Concilio che definì: [...OMISSIS...] dove dicesi: [...OMISSIS...] ma non dicesi: « In totam substantiam corporis et sanguinis Christi ». Un' altra obbiezione si cava dalla Psicologia. In questa fu da noi detto che se due principii senzienti avessero lo stesso termine, essi s' immedesimerebbero e ne diverrebbe un solo. Ora, sarebbe un assurdo, contrario alla fede ortodossa, il dire che il principio senziente di Cristo e quello del fedele che si comunica in grazia diventi un solo principio. A cui si risponde, che l' immedesimazione de' principii non ha luogo se non quando il termine corporeo sia totalmente identico. Ma nel caso nostro la cosa non va così; perocchè il principio sensitivo del fedele che si comunica in grazia non ha di comune col principio sensitivo animatore di Cristo tutto il corpo di Cristo, ma solo quella parte che risponde alla sostanza del pane e del vino transustanziata; e neppur tutta questa, ma una parte di questa, corrispondente a quegli accidenti del pane e del vino che passano nella nutrizione del fedele, e non a quella parte di essi che corrompendosi, senza passare in nutrizione, cessano dall' essere velo al corpo e sangue di Cristo, e tornata la sostanza materiale passa questa dal corpo del fedele per altra via. Quella parte di carne e di sangue di Cristo, che rispondeva prima della transustanziazione alla sostanza del pane e del vino, contiene propriamente, se vere sono le conghietture sopra esposte, quella vita eucaristica, che non cessò mai in Cristo neppure nel tempo della sua morte avvenuta nel suo corpo naturale, come abbiamo di sopra accennato, e per cui fu esaudito, come dice S. Paolo, quando pregò d' essere campato dalla morte: onde l' Eucaristia si chiama pane vivo, e non fu giammai pane morto come fu morto il suo corpo naturale. E il pane ed il sangue eucaristico, che è detto « novi et aeterni testamenti (1), » è l' oggetto di un sacerdozio, che da S. Paolo si asserisce fatto « secondo la virtù di una vita insolubile »: [...OMISSIS...] Ora, se la vita eucaristica di Cristo, oggetto del sacerdozio, si fosse sciolta anche per poco tempo, non sembra che si potesse chiamar più vita insolubile . Sebbene adunque questa denominazione d' insolubile convenga ottimamente alla vita gloriosa acquistata da Cristo dopo la risurrezione, tuttavia più pienamente luce la verità di quella parola, interpretandola dell' insolubilità della vita eucaristica, perocchè Cristo esercitò il suo sacerdozio prima della sua morte nell' ultima cena, ed era costituito sacerdote secondo l' ordine di Melchisedecco, che offerì pane e vino già prima della sua risurrezione gloriosa, e però fin d' allora era costituito tale « secondo la virtù della vita insolubile ». Onde a tutta ragione S. Ignazio martire, discepolo degli apostoli, chiama l' Eucaristia « pharmacum immortalitatis (3), » e il Santo Concilio di Trento lo dice « « un ineffabile e al tutto divino beneficio quo mortis ejus victoria et triumphus repraesentatur »(4). » Continuandoci dunque al discorso precedente, se egli è vero che il principio senziente di quelli che ricevono tutto Cristo nella Santissima Eucaristia riceva per termine quella porzione del corpo e del sangue di Cristo che risponde alla sostanza del pane e del vino che era prima della transustanziazione, s' intende come questo Sacramento sia dai Padri e dai Concilii chiamato « Signum unitatis (5), » e certo non un segno inefficace ma un segno efficace, cioè operatore dell' unità ch' egli segna, come sono segni efficaci tutti i Sacramenti di Cristo; cioè operatori nell' uomo di quel che segnano. La quale unità è doppia, cioè de' fedeli con Cristo e de' fedeli fra loro. L' unità di chi riceve il corpo di Cristo con Cristo diviene somma ed al tutto ineffabile. Perocchè, quantunque non s' identifichi Cristo con lui, come abbiamo detto, tuttavia una porzione della vita sensitiva di Cristo s' identifica in certo modo con una porzione della vita del fedele che riceve Cristo, perocchè queste due vite hanno una porzione del loro termine corporale identica: Cristo ed il fedele sentono come porzione del proprio corpo lo stesso corpo eucaristico. Questo sentimento non accade in quelli che non hanno ricevuto il battesimo, i quali non sentono che gli accidenti del pane e del vino, rimanendo in essi il corpo e il sangue di Cristo inefficaci, cioè non comunicando Cristo loro quel termine corporeo, in quanto è termine della vita di esso Cristo, e perciò non avvenendo la comunicazione delle due vite, la parziale identificazione dei due sentimenti. E ciò perchè lo spirito di questi non ha ricevuto la virtù che li rende atti a comunicare collo Spirito di Cristo, perchè non sono congiunti a quel Verbo che produce nei battezzati tale virtù soprannaturale, che giunge a percepire quell' umanità di Cristo che sta sotto gli accidenti. Perocchè l' uomo da sè solo non potrebbe mai comunicare colla carne e col sangue vivente di Cristo, che sta nascosta sotto il velo degli accidenti del pane e del vino, soli accessibili naturalmente al senso dell' uomo; ma l' uomo battezzato è già congiunto con Cristo, e Cristo in lui e con lui comunica necessariamente colla propria carne e col proprio sangue, e così l' uomo insieme con Cristo. Ora, la vita sensitiva di Cristo è intimamente e individualmente congiunta colla sua vita intellettiva, e la persona del Verbo è congiunta con entrambi in modo, che l' umanità intera di Cristo appartiene in proprio alla persona del Verbo, e non ha altra persona se non questa che tutta la regga e governi, qual principio supremo dell' unico Cristo. Quindi l' uomo che partecipa nel modo detto della vita sensitiva di Cristo, partecipa nello stesso tempo della virtù e della divinità di tutto Cristo, il quale nei giusti emette il suo Spirito di Carità, onde tal Sacramento è chiamato giustamente il Sacramento dell' amore, « vinculum charitatis (1). » E come l' amore ha più gradi, ma il massimo è quello per il quale gli amanti s' uniscono sostanzialmente in quella più stretta guisa che la natura loro concede, e godono l' un dell' altro in questa unione, quasi con un indiviso sentimento; così egli è manifesto, che essendo sostanziale e reale l' unione del fedele con Cristo mediante l' Eucaristia, fino ad avere in parte uno stesso termine della vita, che è la massima unione che si possa concepire secondo la natura umana e la condizione della vita presente; quindi questo Sacramento, com' è il massimo pegno dell' amore di Cristo verso gli uomini, così contiene il più intimo atto d' amore fra l' uomo giusto e Cristo. E quell' amore non è puramente ideale e spirituale, ma reale, sostanziale, soprannaturale e vitalmente corporeo. Dove cade in acconcio di commemorare il canone del Sacro Concilio di Trento, che dice: « Si quis dixerit Christum, in Eucharistia exhibitum, spiritualiter tantum manducari, et non etiam sacramentaliter ac realiter, anathema sit (1). » E` dunque da distinguere fra non battezzati, i quali non ricevono, assumendo l' Eucaristia, nè il Sacramento, nè la cosa del Sacramento, dai battezzati, i quali ricevono il Sacramento, e, se sono in grazia di Dio, anche la cosa del Sacramento . I primi non comunicano che cogli accidenti secondo le leggi fisiche e naturali, ma i secondi comunicano con Cristo: ma in diverso modo quelli che sono in grazia, e quelli che sono in disgrazia di Dio. I battezzati, che non sono in grazia, hanno il Verbo nella loro mente, la quale appartiene alla loro persona umana, ma non la costituisce; e però dall' avere l' impressione del Verbo non sono santificati, perchè il Verbo che è in essi non manda lo Spirito Santo, ossia la grazia di questo, nella lor volontà, che costituisce la loro persona. Laonde il Verbo impresso nella loro mente si completa, quasi direi, colla carne e col sangue che essi ricevono quasi in essi incarnandosi; ma tutto ciò nell' ordine della mente e del sentimento in cui non giace la santificazione. Perocchè è da osservare che quantunque l' acqua battesimale operi gli effetti soprannaturali per virtù del contatto segreto dell' umanità di Cristo, tuttavia nel battesimo non viene comunicata all' uomo la stessa umanità di Cristo, la stessa carne, o lo stesso sangue vivente, ma solo la virtù che esce dal corpo del Salvatore, la qual virtù è atta a comunicare la percezione del Verbo, onde Cristo ebbe a dire a S. Filippo: « Philippe, qui videt me » (cioè la mia umanità in modo soprannaturale) « videt et Patrem (2), » cioè « vede me come Verbo, e in me conosce il Padre mio di cui sono l' imagine ». Laonde colla Eucaristia si completa nell' uomo la comunicazione di Cristo incominciata nel battesimo, aggiungendosi la carne ed il sangue, cioè l' umanità di Cristo al Verbo che risplendeva nella mente, e tutto ciò, se l' uomo ha una volontà peccatrice, non a sua salute, ma a sua condanna. Questo è il primo effetto della SS. Eucaristia. Ma se l' uomo battezzato è in grazia, il Verbo emette in lui lo Spirito Santo, col quale santifica la sua volontà, dove giace la personalità dell' uomo, e quindi rimane santificata la persona dell' uomo. Allora poi che quest' uomo, ricevendo l' Eucaristia, riceve l' umanità vivente di Cristo, e si completa in lui il Verbo incarnato, questo Verbo incarnato emette lo Spirito Santo nell' uomo, non solo come luce, immediata operazione del Verbo, ma ben anco, per mezzo del suo corpo santissimo, come luce e sentimento e gaudio corporale. Quindi lo Spirito Santo emana alla santificazione dell' uomo da tutto Cristo, sempre venendo mandato dal Verbo. Ma se il Verbo prima non illustrava col divino Spirito se non la suprema parte della volontà dell' uomo, cioè la facoltà del riconoscimento pratico e l' intelligenza ad esso ubbidiente; di poi la volontà umana ed inferiore di Cristo comunica lo Spirito Santo anche alla volontà inferiore dell' uomo e la corrobora a sottomettersi alla volontà superiore, e il sentimento ed istinto sensitivo di Cristo comunica dello Spirito Santo al sentimento ed istinto animale dell' uomo e lo tempera dal male e lo governa al bene, e le carni e il sangue di Cristo comunicano pure del Santo Spirito alle stesse carni ed allo stesso sangue dell' uomo, e rendono l' uomo casto, sicchè tutte le parti di Cristo operano in tutte le parti dell' uomo, e s' avvera da parte di Cristo quant' egli disse nella orazione al Padre che pronunciò prima di patire: « Pater, venit hora, clarifica Filium tuum, ut Filius tuus clarificet te, sicut dedisti ei potestatem omnis carnis, ut omne quod dedisti ei det eis vitam aeternam (1). » E da parte del fedele allora si possono dire appieno verificarsi le parole dell' Apostolo ai Filippesi: « Et pax Dei quae exsuperat omnem sensum custodiat corda vestra et intelligentias vestras in Christo Jesu (2), » e quelle: « Hoc enim sentite in vobis, quod et in Christo Jesu (3); » onde dal sentimento di Cristo a noi comunicato s' apprende la sua umiltà, che non possono insegnare le parole degli uomini, seguitando a dire S. Paolo: « qui, cum in forma Dei esset, non rapinam arbitratus est esse se aequalem Deo; sed semetipsum exinanivit formam servi accipiens in similitudinem hominum factus et habitu inventus ut homo (4), » perocchè veramente effetti speciali dell' Eucaristia, in chi degnamente la riceve, sono la castità e l' umiltà. E perciocchè lo Spirito Santo si comunica alla volontà dell' uomo, e sono a questa soggiogate l' altre potenze inferiori; perciò fra la volontà, costituita in istato soprannaturale di grazia, e lo Spirito Santo è aperta una comunicazione, per la quale l' uomo, cogli atti della sua volontà stessa, può derivare maggiore o minor copia del Santo Spirito, di che la quantità di grazia, che i giusti ricevono, come dagli altri sacramenti, così ancora da questo della SS. Eucaristia, è varia secondo la loro disposizione e cooperazione. Onde della stessa giustificazione che si riceve nel battesimo, « quod est sacramentum fidei sine qua nulli unquam contigit justificatio, » il Tridentino dice che l' unica causa formale è la giustizia di Dio, « qua nos justos facit - justitiam in nobis recipientes, unusquisque suam secundum mensuram, quam Spiritus Sanctus partitur singulis, prout vult, et secundum propriam cujusque dispositionem et cooperationem (1). » E posciachè, consacrato il pane ed il vino, anche prima dell' uso, dimora sempre sotto quegli accidenti tutto intero Cristo; quindi da lui possono derivare i fedeli, anche senza riceverlo realmente, delle grazie spirituali (emettendo egli in essi i doni del Santo Spirito) col solo adorarlo di presenza, e col desiderio e col voto di riceverlo sacramentalmente: il qual modo di partecipare si chiama comunione spirituale. Laonde il Tridentino dice dell' uso che fanno i fedeli dell' Eucaristia: [...OMISSIS...] Rimane perciò fermo che nella comunione spirituale non si riceve il corpo di Cristo nè realmente, nè sacramentalmente; ma che se ne derivano le grazie dello spirito, se ne raccoglie frutto, se ne esperimenta l' utilità. Ancora un' altra differenza fra la comunione sacramentale e la spirituale è questa: che nella prima Cristo stesso opera ne' giusti che l' hanno ricevuto l' emissione dei doni del suo Spirito ex opere operato, e così il primo va incontro all' anima colla divina sua operazione, la quale ne sentirebbe l' effetto quand' anche l' uomo non fosse in grado, per malattia o per sopore, di fare alcun atto d' affetto volontario, dopo aver ricevuto il corpo di Cristo; laddove nella comunione spirituale è l' anima che cogli atti della sua volontà deriva a sè le grazie del sacramentato Signore. E qui si osservi che, quantunque il corpo che noi abbiamo ricevuto da Adamo sia guasto e destinato alla morte, e buono solo a farne un sacrifizio al Signore, secondo l' Apostolo: [...OMISSIS...] tuttavia quell' ostia stessa, cioè il corpo dei cristiani, si dice « ostia vivente, e santa, e a Dio piacente », perchè dai sacramenti di Cristo anche il corpo riceve un' influenza santificatrice, ma specialmente dal sacramento eucaristico nel quale lo stesso corpo glorioso del Signore s' inserisce in parte nel corpo nostro e vi mette un elemento d' immortalità. Il perchè l' Apostolo chiama non solo i nostri spiriti, ma ben anco i nostri corpi membra di Cristo e templi dello Spirito Santo: onde deduce qual insulto si faccia a Cristo colla fornicazione violando le sue membra e il suo tempio: [...OMISSIS...] Di che conchiude: « Glorificate et portate Deum in corpore vestro (5). » Laonde S. Pietro chiama il suo proprio corpo « « un tabernacolo » (6), » dimostrando così, ch' esso era una custodia del Verbo e dello Spirito. E S. Paolo dalla stessa dottrina trae più altri precetti morali (giacchè, come abbiam detto, il principio di tutta la morale cristiana è l' inabitazione di noi in Cristo e di Cristo in noi). E primieramente insegna ai cristiani di non contrarre matrimonio cogli infedeli pel rispetto che debbono avere a' proprii corpi santificati dalla dimora in essi di Cristo: [...OMISSIS...] Dallo stesso principio deduce l' amore e il rispetto che i mariti debbono avere alle loro mogli: [...OMISSIS...] Deduce ancora l' obligazione che i Cristiani si astengano dal partecipare alle vittime immolate agli idoli. Perocchè dice: [...OMISSIS...] Ma, quantunque il corpo de' Cristiani guasto dalle conseguenze del peccato d' origine riceva qualche influenza dalla grazia di Cristo, e coll' eucaristia riceva altresì qualche parte che in lui s' inserisce del corpo di Cristo; tuttavia il corpo animale è destinato a perire, perchè non può essere senza di ciò intieramente rigenerato: e però quell' elemento occulto di vita che quaggiù riceve da' Sacramenti, ma soprattutto dal Sacramento Eucaristico, è oggetto di fede, anzichè di piena e manifesta esperienza, e un saggio e un pegno della futura risurrezione; onde dice S. Paolo: « Quod autem nunc vivo in carne, in fide vivo Filii Dei, qui dilexit me et tradidit semetipsum pro me (3). » Ora il pane eucaristico non è solamente un vincolo d' unione del fedele con Cristo, ma ben anco de' fedeli fra loro. E come l' unione del fedele comunicante con Cristo ha due modi, l' uno de' quali si fa immediatamente per Cristo, l' altro per lo Spirito Santo che diffonde nell' anime la carità che da Cristo procede; così parimenti una duplice unione de' fedeli fra loro trovano i fedeli che ricevono degnamente Gesù Cristo nella SS. Eucaristia. L' unione del fedele comunicante con Cristo che si fa immediatamente per Cristo è fondata in due ragioni. La prima, che tutti ricevono lo stesso Cristo tutto intero. La seconda, che ciascheduno converte in termine della propria vita quella quantità della carne e del sangue di Cristo che risponde alla quantità della sostanza del pane e del vino che era prima della transustanziazione. L' unione del fedele comunicante con Cristo, che si fa per mezzo dello Spirito Santo, nasce dall' emissione dello Spirito e de' suoi doni che fa Cristo al fedele in quella misura che Cristo vuole e in proporzione della disposizione e della cooperazione dello stesso fedele. Queste due maniere d' unione che si formano o si perfezionano col ricevimento del Sacramento eucaristico sono indicate da S. Paolo in quelle parole: « Unum corpus et unus spiritus, sicut vocati estis in una spe vocationis vestrae (1). » Col sacramento della fede, cioè col battesimo, gli uomini incominciano ad essere membra del corpo mistico di Cristo; ma coll' eucaristia si connettono vieppiù col corpo di Cristo perchè una porzione di questo corpo, indivisa dal tutto, s' inserisce in essi quasi porzione di loro proprio corpo, e così vi ha una continuazione più piena di essi con Cristo. Ma l' essere essi divenuti corpo di Cristo non giova alla loro salute, anzi grandemente loro pregiudica, se, trovandosi essi in istato di peccatori con volontà avversa a Cristo, non ricevono l' unione dello spirito. Che se la volontà non pone ostacolo, in tal caso lo Spirito di Cristo in essi si diffonde, ed allora giova loro senza fine l' essere un corpo con Cristo, col quale diventano in pari tempo, per così dire, uno spirito. Per ciò adunque che riguarda l' Eucaristia, l' unione che forma di essi un corpo solo con Cristo (il qual corpo, sebbene reale, si dice mistico, che vuol dire occulto, perchè in questa vita non si vede ed è oggetto di fede) nasce dal divenire propria carne e proprio sangue del fedele quella porzione della carne e del sangue di Cristo che risponde alla sostanza del pane e del vino che era prima della consacrazione. E questo si fa in modo occulto, perchè il fedele non s' accorge che in lui rimanga una parte della carne e del sangue di Cristo, rimanendo questo velato sotto gli altrui accidenti, come rimane velato tutto il corpo reale di Cristo indiviso da quella piccola parte. Sicchè il corpo di Cristo rispetto al fedele non opera che spiritualmente, perocchè Cristo tutto intero nel suo corpo o condanna il fedele se in consapevole peccato, ovvero lo santifica comunicandogli lo spirito di santità. Ma ciò non toglie che rispetto a Cristo, questi non sia inserito nel fedele in parte col suo proprio corpo reale nel modo di essere eucaristico: e che un giorno, cioè dopo la vita presente, non si manifesti. Cristo adunque da parte sua tiene tutti i fedeli che si comunicano uniti al proprio corpo reale, quasi con altrettante funicelle, colle diverse porzioni del pane eucaristico che loro divide. Onde questa parola di dividere o frangere il pane sì di spesso ripetuta nelle scritture parlanti di questo sublime mistero. [...OMISSIS...] E nella moltiplicazione dei pani, in figura del sacramento eucaristico: [...OMISSIS...] E del pari nella seconda moltiplicazione dei pani: [...OMISSIS...] E la medesima espressione scrupolosamente inseriscono nella loro narrazione S. Marco (6) e S. Luca (7). Anche negli Atti Apostolici, facendosi uso della stessa parola solenne, vi si dice: « fragentes circa domos panem (.), » luogo che i sacri interpreti intesero dell' Eucaristia. Nella Liturgia Ambrosiana in quell' atto che il sacerdote spezza l' ostia dice: frangitur corpus Christi: la quale espressione, acciocchè non contenga errore, deve intendersi come la dichiarò il Sassi nella sua Dissertazione. Il corpo di Cristo adunque non può dividersi, ma niente vieta che una parte del corpo di Cristo nel suo essere eucaristico sia legata più strettamente delle altre col corpo del fedele che si comunica; e questa parte, che più strettamente si lega col corpo di un fedele, sia diversa da quella parte con cui più strettamente si lega il corpo di un altro fedele; e queste diverse parti, ciascuna delle quali è destinata alla nutrizione spirituale di un fedele rimanendo indivisa dall' intero corpo di Cristo, sieno corrispondenti a quella quantità della sostanza del pane che vi avea in ciascuna ostia prima della consacrazione: le quali parti si raffigurano in que' grani di frumento sparsi dal seminatore e cadenti altri sulla pubblica via, altri sulla pietra, altri fra le spine, ed altri finalmente sul buon terreno (1), giacchè Cristo altrove si chiama appunto grano di frumento (2). Tutti adunque i fedeli mediante l' Eucaristia s' attengono al corpo di Cristo e formano un sol corpo mistico e tuttavia reale con esso lui. Quindi sono altresì uniti strettamente fra sè, come le membra d' un solo corpo, che quantunque distinte non sono divise: [...OMISSIS...] Laonde, giusta l' esposta sentenza, la diversità delle membra del corpo mistico di Cristo troverebbe altresì un fondamento nella diversità di quella porzione eucaristica che ricevono, e che in ciascuno frutta diversamente secondo il terreno o secondo la qualità della pianta in cui viene innestata. L' unione poi dei fedeli fra loro, l' unione, dirò così, misticamente corporea, risulta dal partecipare tutti come cibo e nutrizione di una parte appartenente allo stesso corpo, e dal ricevere colla detta parte l' intero e identico corpo di Cristo in se medesimi, il quale non può separarsi da quella parte che ciascuno in modo più speciale si appropria. Ma soltanto l' unione che nasce dallo Spirito Santo è quella che unisce non la sola natura dell' uomo con Cristo, la quale s' unisce per la sopradescritta unione corporale, ma lo stesso uomo, la stessa persona dell' uomo: e che unisce in un solo spirito tutte le persone dei fedeli fra loro, perocchè dice San Paolo: « qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est (4). » Questa unione spirituale che procede dalla corporale, come lo Spirito di Cristo procede da Cristo, fu quella che Gesù Cristo domandò al Padre nella sublime orazione che fece nel cenacolo: [...OMISSIS...] Cristo dunque, l' identico Cristo è ugualmente tutto in tutti, e tutte le parti di Cristo comunicano della loro virtù a tutte le parti dell' uomo, di che fu figura la maniera usata da Eliseo a risuscitare il figlio della Sunamitide. Perocchè narra la Scrittura: [...OMISSIS...] Essendo dunque il medesimo Cristo in tutti, tutti hanno, per lo Spirito Santo che in essi si diffonde, e sanno d' avere un solo ed identico bene infinito, tutti una sola vita immortale, quella che partecipano da questo bene che possedono cioè da Cristo, tutti un solo amore, una sola volontà. Onde de' primi fedeli si legge: « Multitudinis autem credentium erat cor unum et anima una (3). » Di che proveniva che, come avevano in comune Cristo che era l' unico loro bene, così volessero avere in comune anche l' altre cose che non reputavano beni se non in ordine a Cristo: [...OMISSIS...] E descrivendo questa unanimità e comunità di beni si fa dagli Atti Apostolici speciale menzione dell' Eucaristia, che n' era il fonte e la più efficace cagione, perchè si dice [...OMISSIS...] L' esemplare di questa unione che Cristo desiderava nei suoi fedeli era l' unione ch' egli aveva col Padre suo: ut sint unum sicut et nos . Il Verbo divino col suo Padre è unito colla natura che è identica nell' uno e nell' altro, ma è distinto quanto alla personalità. Così ne' fedeli deve restar distinta la personalità di ciascuno, ma debbono comunicare fra loro nella natura. Gli uomini, prescindendo dalla grazia, convengono nella medesima specifica natura, quindi la loro medesimezza appartiene al solo ordine ideale ed oggettivo, ond' essi, avendo il modo di essere soggettivo, non conseguono da questo di essere veramente unificati nè quanto alla persona, nè quanto alla natura. Ma il Verbo divino è oggetto non solo ideale, ma reale; onde il suo operare (in quanto trapassa l' ordine della natura e tende a perfezionarla compiendo le sue lacune e limitazioni senza distruggerla), è sempre perfetto e compiuto, e però vòlto a realizzare l' oggetto anche rispetto alle nature soggettive. E perocchè in tutti gli enti il principio ritrae la determinazione e l' attività sua dal termine immanente con cui è legato per sintesi ontologica, e il termine del principio intellettivo è l' oggetto; perciò il Verbo manifestandosi alle intelligenze le unifica anche realmente: perocchè, in quanto hanno per termine lo stesso Verbo, il principio intelligente che le costituisce soggettivamente viene determinato ed attuato nello stesso modo, e s' identifica non totalmente, ma in quanto ha quell' oggetto reale comune. In quanto poi il Verbo si manifesta diversamente e con diversi gradi di luce alle intelligenze finite, in tanto esse si distinguono fra loro. E nel battesimo già si dà questa segreta comunicazione del Verbo, e questa parziale identificazione, della quale S. Paolo scrive: « Unus Dominus, una fides, unum baptisma (1). » Ma Cristo non era solo Dio, ma anche uomo, in modo però che la personalità di quest' uomo risiedeva nel Verbo di Dio, onde il Verbo di Dio come persona reggeva l' umanità quasi potenza inferiore. Quindi anche l' umanità riceveva dal Verbo il divino istinto di unificare realmente gli uomini, ne' quali amava la similitudine della natura; e questo l' ottenne coll' istituzione del Sacramento eucaristico, nel quale tutti gli uomini acquistano per termine della loro vita sensitiva una porzione del corpo di Cristo indivisa dall' intero corpo, e quindi anche il principio sensitivo, base della natura umana, ha una identificazione parziale di natura, rimanendo distinte le persone. Onde aveva ben ragione Isaia di cantare predicendo le opere del Salvatore: « « Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris, et dicetis in die illa: Confitemini Domino et invocate nomen ejus: notas facite in populis adinventiones ejus. - Exulta et lauda habitatio Sion: quia magnus in medio tui Sanctus Isra‰l »(2). » Dall' essere Cristo connesso coll' uomo, e l' uomo inserito in Cristo come tralcio nella vite ne' modi sopraddetti, ne viene che l' uomo sia connesso altresì coll' eterno Padre, nel seno del quale è il Figliuolo, e che è pure nel Figliuolo. [...OMISSIS...] Quindi la società dell' uomo con Cristo ordinata dal Padre, di cui dice l' Apostolo: « Fidelis Deus, per quem vocati estis in societatem Filii ejus Jesu Christi Domini nostri (3), » è società ad un tempo col Padre stesso, come insegna S. Giovanni: [...OMISSIS...] E si osservi quanto qui è proprio il vocabolo di società, la quale esige che più persone abbiano un bene posto in comune. Ora i fedeli con Dio e fra sè hanno in comune, e in comune godono il loro bene che è appunto Cristo, e il suo Corpo santissimo, ed il suo Spirito. E venendo a parlare dello Spirito che emette Cristo in quelli ne' quali egli dimora, primieramente diremo che questo è Spirito di vita soggettiva . Perocchè nell' essere senziente ed intelligente, considerando com' egli è ontologicamente costruito, si distinguono due estremi, il principio ed il termine . E benchè il principio (che è propriamente il soggetto) non sia senza il termine, tuttavia, posto ch' egli esista, ha un' attività sua propria colla quale può più o meno aderire al termine. Il che si scorge massimamente nelle creature intelligenti e libere, di cui l' atto soggettivo, che può essere di maggiore o minore intensità, è l' adesione dell' amore. Laonde, quantunque non si può dare l' atto soggettivo dell' amore se manchi l' oggetto cui amare, secondo l' adagio voluntas non fertur in ignotum; tuttavia, quando vi ha l' oggetto, questo può essere più o meno amato dal soggetto. Nell' ordine della vita soprannaturale, di cui parliamo, l' oggetto immediato è sempre Cristo. Ora l' atto soggettivo, col quale si ama Cristo conosciuto, è mosso dallo Spirito Santo. Questo Spirito è mandato dall' oggetto stesso, cioè da Cristo. Cristo adunque è l' autore immediato della vita oggettiva, fonte della soggettiva. Della vita oggettiva disse Cristo: « Haec est autem vita aeterna: ut cognoscant te, solum Deum verum, et quem misisti Jesum Christum (1), » e questa vita si dice oggettiva, non perchè non sia anch' essa un atto del soggetto (nel qual senso ogni vita è soggettiva), ma perchè è determinata necessariamente dalla sola percezione immanente e primitiva dell' oggetto, ove non vi ponga ostacolo la volontà che può rifiutarla, il quale oggetto Cristo ha lo Spirito Santo in se medesimo. Della vita soggettiva, opera speciale dello Spirito Santo, Cristo disse: « Et notum feci eis nomen tuum, et notum faciam » (mandando il Santo Spirito personalmente); « ut dilectio, qua dilexisti me, in ipsis sit, et ego in ipsis (2). » Nell' una e nell' altra vita opera lo Spirito Santo, che perciò si chiama « Spiritus vitae (3), » in quanto entrambe sono soggettive, atto del soggetto; ma nella prima lo Spirito opera inizialmente e quasi potenzialmente (con che vogliam dire che al sentimento dell' uomo lo Spirito non si manifesta come persona, ma in forma di doni semplicemente, e non distinto da Cristo). L' effetto dello Spirito Santo è di aggiungere forza all' attività soggettiva soprannaturale in modo che conosca più vivamente e perfettamente Cristo e le sue parole, e più grandemente ed efficacemente lo ami. Il Verbo si rimane distinto dal soggetto uomo in cui dimora per quella differenza che v' ha fra l' oggetto e il soggetto, la quale è categorica; lo Spirito Santo si rimane distinto solo come il creante e il creato, il movente e il mosso. Il soggetto mosso, nel nostro caso, sente la mozione, sente che vi ha in sè quello che non era prima, sente la carità, possiede le azioni sante; ma non iscorge per questo alcun oggetto nuovo, perchè lo Spirito non ha la forma oggettiva propria del Verbo. Onde Cristo disse: « Spiritus ubi vult spirat, et vocem ejus audis, sed nescis unde veniat aut quo vadat: sic est omnis qui natus est ex spiritu (4). » E S. Paolo distingue la mente dell' uomo, la quale ha l' oggetto per forma, dallo spirito che è a foggia d' istinto senza oggetto nuovo e suo proprio, onde dice: [...OMISSIS...] Ed altrove dice che lo Spirito prega nell' uomo, e dimanda quel che deve dimandare, quando l' uomo stesso non sa che cosa debba dimandare siccome si conviene (1). Lo Spirito si unisce dunque, e in certa maniera si mescola col soggetto che egli santifica, operando in lui in modo che il soggetto è insieme quello che opera. Onde Cristo attribuisce allo Spirito l' uomo nuovo, l' uomo nato alla santità; il qual uomo perciò si dice divenuto uno spirito con Dio: [...OMISSIS...] E S. Paolo: « Qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est (3). » Onde lo stesso Apostolo dice, che lo Spirito in noi prega quando noi preghiamo: [...OMISSIS...] Ma, oltrechè lo Spirito viene dato « secundum mensuram donationis Christi (5), » come s' esprimono le Scritture, rimane sempre distinta la consapevolezza divina dello Spirito, dalla consapevolezza umana dell' uomo, nel quale lo Spirito si manifesta. E così pure si distingue la giustizia di Dio, « qua ipse justus est », dalla giustizia di Dio « qua nos justos facit (6); » perocchè, benchè sia una la giustizia e la santità ed identica, tuttavia sono diversi i soggetti che la partecipano o la possiedono, e n' hanno il sentimento o la consapevolezza. Come adunque Cristo unifica la natura umana, così il suo Santo Spirito unifica le persone umane nella più intima società ..........

Introduzione alla filosofia

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

E così nella storia dell' umanità è segnata una via di alterni periodi, negli uni de' quali prevalgono i sofisti, negli altri i filosofi, negli uni l' errore baldanzoso s' arroga il nome di filosofia e il comune degli uomini sorpreso dalla nuova foggia del ragionare non glielo contende; negli altri lo stesso errore rimane spoglio con ignominia di quel nome malamente usurpato, riconoscendo pressochè tutti, che in coloro, i quali prima si chiamavano filosofi, non v' era in fondo che un' ignorantissima petulanza (onde questi bei nomi di filosofia e di filosofi rimangono per qualche tempo infamati). E questo alternare di periodi di un fallace e di un vero sapere è una di quelle molte maniere di vicende, che, regolate a misura di tempo e quasi a battuta, dalla provvidenza, come fisse leggi, regolano il corso dell' umanità sulla terra, e, uscendo dal male il trionfo del bene, rendono quel corso, quasi contemperato di varie note, una cotal musica dilettevole al divino intelletto. Nel secolo XVIII i sofisti (e anche questo è uno di quei nomi che in Grecia prima e poi per tutto e per sempre, perduta la prima loro nobile significazione, se ne acquistarono una obbrobriosa, quando i falsi ingegni che se l' erano ambiziosamente appropriato furon vinti dai migliori) occuparono il regno dell' opinione: il libro di Giovanni Locke (1690) fu il segnale dell' aprimento di questo novello periodo di volgarissime e pur efficacissime fallacie. Da quell' ora gli uomini, sviati dalle più ferme e salubri verità, vennero illusi e uccellati con apparenze d' utilità e con magnifiche promesse d' un facilissimo e non mai prima conosciuto sapere: le menti blandite ricevettero in sè docilmente gratuite opinioni e goffi errori nella sfera delle cose religiose, in quella della morale, in quella della politica, in quella dell' umana socievolezza, in tutte le questioni più gravi e più importanti alla salute ed alla vita dell' uomo nel tempo e nella eternità. A' quali errori certo da valentissimi scrittori fu risposto e tuttavia ancor seducono, perchè non impugnati intieramente nelle loro proprie forme. Laonde a queste che, sebbene alquanto appassite, pure non cessano di parer seducenti, par necessario di trovare e contrapporre le forme correlative della verità, il che si tenta, come che sia, di fare in varie opere contenute in questa raccolta. Dicevamo che secondo il disegno della Provvidenza l' occhio della quale non si chiude giammai sul mondo, dal male dell' errore procede il bene del trionfo del vero. E già S. Agostino osservava, che gli eretici occasionano questo nobilissimo vantaggio alla Chiesa, « « che i veri da essi impugnati si considerano per la necessità della difesa con più diligenza, e s' intendono con più chiarezza e con più istanza si predicano »(1). » E altri vantaggi ancora arrecano al progresso fra gli uomini della verità, senza volerlo e senza pure accorgersene, i maestri dell' errore. Chè non potendo essi insinuare l' errore nelle menti se non ammantandolo col vestito della verità, non distruggono l' amore di questa in universale a cui anzi prestano testimonianza, e di più sono obbligati di mettere attorno al falso alcuni brandelli della stessa verità, onde prenderne l' avviamento de' loro discorsi e il principio de' loro sillogismi. I quali brandelli sogliono essere per lo più alcune parti di verità, che fino allora erano meno osservate e da' legittimi e sinceri maestri forse neglette, onde con quelle, siccome con altrettanti veri trovati e inculcati da essi, si raccomandano nell' opinion degli uomini e ne magnificano la propria scuola. Di che accade, che colla stessa industria colla quale intendono propagar l' errore, traggono alcuni veri, giacenti quasi nell' ombra, in aperto lume, e così ogni particella della verità ha il suo tempo di venire a galla, d' acquistare il suo giusto valore e di mettersi in corso, servendola di ciò gli stessi nemici. E tuttavia gli uomini che abboccano a quest' esca del vero, rimangono pur troppo presi nell' amo del falso. Al quale danno non poco contribuisce una cotale apparenza di merito, che a' fallaci dottori appartiene. Perocchè cotesti non potendo sedurre gli uomini, se non col trasferire, siccome noi dicevamo poco fa, gli errori antiquati, a cui era stato già cavato il pungolo velenoso da lucidissime confutazioni, in una regione di riflessioni più alta, sforzano i savi che li vogliono combattere a seguitarli, e ad innalzare seco stessi la verità, le forme della quale così s' ingrandiscono agli occhi dell' umana intelligenza; chè l' uomo venuto ad una riflessione maggiore fa appunto come colui, che dalla valle recatosi all' altezza delle vette de' monti, di colà scorge un orizzonte smisuratamente più vasto del primo. Veramente ad ogni ordine di riflessione, battano queste nel vero o nel falso, lo sguardo dell' umano intendimento prende un nuovo orizzonte di scienza o vero od illusorio. Di che non fa maraviglia, che i falsi savi attirino a sè gli uomini colla novità delle forme e coll' originalità del linguaggio, chè la novità, quasi fosse luce, occupa e diletta la mente sempre avida di sapere e prontissima alla speranza di francare i limiti antichi, l' originalità la sorprende e ne riscuote l' ammirazione; e però coloro, che con questi modi si presentano maestri degli uomini, non falliscono mai d' acquistarsi nella volgare estimazione il nome e la fama d' antesignani del sapere e del progresso. E perchè noi dobbiamo essere giusti a tutti, fino al primo autore del male, riconosciamo noi pure, che i sofisti in qualche senso sono gli antesignani del progresso scientifico, in quanto che, con sempre nuove assurdità, essi riscuotono quelli che possedono il vero dalla loro quiete, e li sforzano all' opera di sospingere innanzi l' umano intendimento. Così avviene che questo, pel corso de' secoli, va contemplando la bellezza dell' immutabile verità da tutti i suoi molti lati, de' quali sol uno alla volta ella presenta alle umane menti, e sotto tutte le più nobili forme di cui ella possa rivestirsi. Perocchè è troppo vero, che i savi, ove non sieno vivamente scossi al pericolo della verità che li appaga, assalita da apparenti fallacie, o a quello de' loro simili colti facilmente in queste reti, non dimostrano a pezza quella straordinaria attività, che negli ingegni falsi e cavillatori viene suscitata, secondo l' espressione d' Agostino, dalla loro calda inquietudine. Ma quantunque i figliuoli di questo secolo sieno più prudenti de' figliuoli della luce, il progresso che procede indirettamente da' loro errori non può ascriversi a loro merito, benchè sovente gliel' ascriva la moltitudine nella sua semplicità captivata: chè qui ogni merito non è dell' uomo, ma dell' altissima provvidenza che presiede allo sviluppo dell' umanità, e con infallibile effetto l' ottiene, sia permettendo quel male, che lo provoca quasi stimolo, sia producendo ed operando quel bene che lo compie; epperò nell' immenso suo regno, dove ogni essere è limitato e niuno può far da sè solo alcuna cosa compita, ella adopera ciascuna maniera di enti a lavorare una parte della grand' opera da essa ab eterno contemplata, ora licenziando l' arguzia degli ingegni straniati ad irrompere coll' errore in una nuova sfera di mentali riflessioni, ora aiutando le sane e rette intelligenze a recare in quella stessa la verità, pel qual movimento alterno, come dicevamo, progredisce sollecita a' suoi destini l' umana mente e l' uman cuore con essa. Aggiungi, che il Dio della verità, che con tanta sapienza mette a profitto tutte le potenze e le volontà umane, buone o triste, senza violentarle ad accelerare la realizzazione di quell' idea in cui egli mirava creando l' universo, trae di quell' impaziente operosità d' alcune menti che rifuggendo dal vero lo cercano tuttavia continuamente nel falso, un altro nobilissimo vantaggio a pro di coloro che della sincera verità si dilettano. Poichè questi all' esempio di quelli si sentono provocare ad emulazione, ed esperimentano di necessità una cotale erubescenza considerando la propria inerzia intellettuale, che facilmente scade alla lassezza ed alla infingardaggine, col paragone di quella faticosa e sempre mai irrequieta assiduità. E questo pudore de' buoni ingegni al vedersi precorsi e avanzati nelle scientifiche investigazioni da coloro, che le rivolgono ad offuscare le prime e più salutari verità, in cui pende la vita intellettuale e morale dell' uomo, se mai fu lodevole in altri tempi, in questi nostri è divenuto manifestamente doveroso, ed è così vivamente sentito, che io mi credo, niuno degli onesti che s' applicano alle lettere ed hanno cuore, il possa evitare. Perocchè ci stanno davanti tanti secoli, e in essi l' esperienza tante volte replicata del danno improvviso e quasi procelloso sopravvenuto al mondo per la divulgazione di funestissimi errori, i quali non trovando sufficientemente preparati ed armati quelli che avrebbero dovuto combatterli appena nati, e che allora neppur li riconobbero per quel che erano, ebbero tutto il tempo e l' agio di radicarsi nelle menti, e di farsi adulti e gagliardi, rendendosi poi l' opera del vincerli e dello schiantarli oltre misura più ardua e lunghissima. E questo stimolo che la Provvidenza aggiunge naturalmente agli amatori del vero e del bene, coll' esperienza de' fatti che ella permette, è quel medesimo col quale il divino autor del vangelo spronava i suoi discepoli ad emulare nel bene la prudenza de' figliuoli delle tenebre, ed insegnava, addotto l' esempio dell' amministratore infedele (1), a saper trovare negli stessi malvagi qualche cosa degna d' imitare: che anzi nel giudice iniquo, nel tepido amico, nel principe crudele (2) egli accenna un elemento per sè non reo, che ritrae alcuna somiglianza di quelle leggi, colle quali Iddio medesimo suole operare. Riscosse le intelligenze de' migliori a tali eccitamenti ed ammonimenti, e già infervorate non più solo a dissipare i cavilli di quelli che invidiano agli uomini la luce della verità, ma a prevenirli, s' accende in esse un nuovo ed incredibile desiderio di recare la verità stessa alla sua ultima e più nobile forma ed espressione, e, percorrendone tutto il campo, raccorne ogni membro, e decentemente al suo tutto congiungerlo, facendone riuscire un corpo scientifico di tanta bellezza e luce, che l' odio sì possa oltraggiarlo, non più il sofisma, con qualche probabilità di guadagnar le menti offuscarlo. Il qual desiderio nobilissimo che incomincia a farsi sentire soltanto ad una certa età della vita umanitaria, ed è un nuovo sviluppo di quel tesoro di germi che l' umanità nasconde nel profondo della sua essenza, e nol conosce ella medesima prima che al suo atto esteriore si maturi, cresce in appresso ognor più coll' invecchiare del mondo. E chi molto o poco nol sente in questa nostra età? Ora quale spirito gentile può esserci, che vedendosi davanti tanti nobili veri, utilissimi e fertilissimi, quanti sono quelli, che purgati ed accertati dai sapienti, giacciono consegnati alle carte di cui ogni secolo a noi fè dono, non desideri e non chieda qualche grande sintesi, nella quale tutti quasi d' un solo sguardo si possano abbracciare, que' veri, ordinati a bella unità, e nell' evidenza d' un loro supremo principio di nuova vita accresciuti? Perocchè come da tutte le maniere d' errori sembra che oggimai sia stata travagliata successivamente la verità; così di mano in mano tutte le sue parti più sostanziali furono e validamente difese e descritte con diligenza e con singolare amore ed eloquenza illustrate e adornate. Laonde, la mercè di quelli che istantissimamente s' adoperarono ad oscurare il vero e che insensatamente ambirono alla celebrità di vericidi, è venuto per l' uman genere un' età di tanto suo sviluppo, che i buoni e diritti ingegni, i quali prima (comunemente parlando e fatta eccezione ad alcune menti straordinarie) o s' accontentavano di possedere quasi per abito la verità o si levavano a difenderla solo quand' era assalita, vedendosela ora innanzi divenuta così ricca e molteplice, già si sentono accesi di contemplarla raccolta nella sua scientifica integrità, e di coltivarne lo studio meno ancora per rifiutare gli errori, che per possederne la forma più elegante, e pascersi consapevolmente di quella nuova luce, di cui, nel suo compiuto disegno, ella mostrasi sfolgorante. Nè deve rallentare lo sforzo delle nostre intelligenze a soddisfare questo nuovo bisogno che la Provvidenza ha risvegliato in esse coll' opera de' secoli ne' quali fu combattuta parte a parte e parte a parte difesa la verità, il pensiero che anche dopo essere noi riusciti a inserire in un solo corpo di scienza, con perfetta euritmia, le sparse membra del vero, i sofisti non si ristaranno perciò dall' opera loro, e dedurranno da una riflessione ulteriore nuove fallacie, tendendo con esse nuovi agguati alle menti. Poichè è necessario distinguere tra le singole parti, e il sistema intero della verità. Quella serie d' ordini di riflessioni, che noi abbiamo accennata, si prolunga indefinitamente rispetto alle singole parti; non così da quel punto, in cui la riflessione, lasciate le parti, dee occuparsi del tutto: questo non ammette quegli ordini indefiniti; chè quando una riflessione abbraccia veramente il tutto, un' altra non trova più alcuna nuova materia (non restando altro fuori del tutto), e però ella s' identificherebbe colla precedente, nè da questa si potrebbe distinguere. Laonde, supposto che una volta sia trovato e bene costituito l' intero sistema della verità, non si può più continuare quella lotta se non presso coloro che non vogliono prender cognizione di quel sistema, ovvero che, dopo averla presa, vi ricusano l' assenso dell' animo, nel qual ultimo caso rimane la lotta delle volontà, anzichè quella degli intendimenti, una lotta cioè che niuna scienza, niuno umano argomento può ricomporre, giacchè l' uomo è libero, e la libertà può ben esser condannata dalla ragione, ma vinta solo da Dio. Egli è dunque desiderabile che oggidì tutti gli studiosi del vero e del bene, amici fra di loro, pongano la loro industria nell' opera di comporre (giovandosi dei materiali che il tempo ha già così copiosamente accumulati) quel sistema intero della verità che noi dicevamo, e per aiutare comecchessia quest' impresa, anche noi tentammo noi stessi. Noi diremo appresso in che modo credemmo di poter accingerci a questo tentativo: vogliamo per intanto avvertire come questo secondo fine de' nostri studi serbi un' intima relazione col primo. Poichè prendendo un tale intento per mira s' incontra per via una nuova maniera più efficace e più completa d' impugnare gli errori. Altra cosa è dimostrare che una dottrina è falsa, ed altra insegnare di più qual sia la dottrina vera da sostituirsi. Il primo assunto è assai più agevole del secondo, ma non soddisfa ad ogni bisogno delle menti, le quali per natura avide della verità chiedono che la si annunzi loro espressamente, e tanto poco s' appagano di maestri che si limitino ad impugnare gli errori (il che è un ammaestramento negativo che distrugge ma non edifica) che per la molestia che loro arreca il rimanersi, tolti di mezzo gli errori, tuttavia nell' ignoranza e nell' incertezza, s' attengono fortemente a qualunque opinione, per poco che ella goda di una probabile apparenza o di qualche fama, e dagli errori stessi assai più difficilmente si staccano, quando s' accorgono che, depostili, non hanno perciò guadagnato alcun positivo conoscimento. Anzi questo è uno di que' costanti artifizi co' quali i maestri degli errori traggono gli uomini alla propria scuola e ve l' invescano, il prometter loro una scienza positiva, certa, superiore a tutte l' altre, atta a spiegare ogni cosa; chè la loro formola infine è sempre quell' antica; « In qualunque giorno mangerete di questo frutto si apriranno gli occhi vostri, e sarete siccome Iddii, scienti il bene ed il male; »colla quale l' antichissimo de' sofisti invitò i primi parenti a giudicare il divieto divino; e questo era appunto un far ascendere il loro pensiero ad un ordine di riflessioni superiore, formandosi il giudizio con una riflessione più alta di quella, a cui appartiene la notizia della cosa su cui si giudica. Da quell' ora ad una riflessione erronea convenne di necessità contrapporre un' altra verace, e tale fu veramente il giudizio che pronunciò Iddio sul colpevole giudizio di Adamo; e la disputa del vero col falso, dell' argomento col sofisma è divenuta inevitabile. I maestri del vero non corrono così facilmente a promettere come i seduttori, i quali non si curano dell' attenere, ma di sorprendere, e fare al momento seguaci. Ma ora sembra venuto quel tempo, in cui necessiti soddisfare con una positiva esposizione della verità a modo di scienza, la curiosità tanto cresciuta, anzi divenuta in tutti gli animi pungentissima di sapere in questa forma riflettuta. Tanto più che qualora non si possa contrapporre una dottrina sana e luminosa a quella che si vuol combattere, bene spesso accade che questa non si lasci nè intendere nè vincere compiutamente: se ne parano i mali effetti, se ne mostrano le conseguenze assurde; pure la radice non è schiantata, e talor' anco, senza avvedersene, si coltiva la pianta de' frutti mortiferi. Il qual difetto si può osservare ne' bene intenzionati nostri scrittori. A ragion d' esempio per ciò che riguarda la questione del sensismo e del soggettivismo, fonte di tutti i moderni delirŒ, invano il Galuppi disse di confutarlo a Napoli, il Bonelli a Roma, molti nell' alta Italia: questi ed altri filosofi italiani (per non parlar che de' nostri) non potendo sostituire al sensismo e al soggettivismo alcun sistema positivo intorno alla natura ed all' origine della cognizione, mentre pur ne dimostrarono alcuni accidentali difetti, lasciarono saldo nelle loro scritture il ceppo di quegli errori, e, quasi diradandogli intorno il folto de' suoi silvestri virgulti, lo resero più vivace. Che anzi tanto è difficile conoscere tutto il veleno nascosto nell' errore quando lo si combatte soltanto e non si raggiunge il sistema vero da sostituirvi, che noi ancor poco fa udimmo un Collizi, un Mastrofini, un Costa ed altri venirci a dire che il sensismo fu calunniato, e, persuasi d' averlo essi già d' ogni macchia purgato con alcune accessorie modificazioni, tesserne l' apologia! Noi ci siamo dunque consigliati di prendere il cammino contrario, cioè di cercare prima d' ogni altra cosa in qualsiasi questione ed investigazione il vero positivo, e questo, il meglio che per noi si potesse, descrivere e stabilire: su questo poi quasi su fermo appoggio puntar la leva per dare all' errore la rivolta. Ed abbiamo creduto talmente importante ed utile quel primo intento, che non sempre ci siamo poi trattenuti ad assolvere il secondo, parendoci facilissimo a ciascheduno che il brami, conosciuta solidamente la verità, dedurne la rifutazione dell' errore; massimamente che ci parve tanta esser la fecondità e la potenza di quella, che non un solo errore, ma innumerabili cadono bocconi al suo cospetto, e il parlare specificamente di tutti sarebbe cosa infinita. Così alla domanda assai naturale che sogliono far coloro, i quali si convincono in qualche disputazione d' essere ingannati: « diteci dunque qual sia il sistema che in questa materia si deve tenere, »noi credemmo di non ammutolire, e procurammo di dare quella soddisfazione, di cui hanno, in qualche modo, diritto gl' interroganti. Qualora dunque si consideri che gli uomini aspirano a conoscere e contemplare la verità, e conoscerla e a contemplarla, i presenti segnatamente, in un modo riflesso ed attuale, perchè ne vogliono godere consapevolmente (e senza l' uso della facoltà di riflettere l' umana mente è inconscia delle sue proprie notizie): se si considera ancora, che non si rappresenta il vero alla riflessione nella sua nudità, ma bensì colla compagnia, e coll' aiuto di cose sensibili, fra' quali i vocaboli delle lingue sono i soli che conducano i passi della riflessione a lungo cammino, di maniera che la verità riflessa e parlata è quella infine che più manifestamente e consapevolmente cercan gli uomini, non ci sarà, speriamo, per noi bisogno di giustificare quell' intento, a cui dicevamo avere indirizzate, qualunque sieno, le nostre fatiche, cioè a raccogliere colla meditazione della mente e a raccomandare a' segni delle parole, ordinata a scienza, quella dottrina che è, o che credemmo essere, IL SISTEMA DELLA VERITA`. Ma se un tale intendimento, per se stesso considerato, non ha bisogno di giustificazione, pure prevediamo che ci verrà rivolta questa ragionevole domanda: « come quell' intendo sia possibile, come abbiamo noi creduto di poterlo ottenere almeno per approssimazione: » Non sono le cognizioni umane, ci si dirà, senza numero? e perciò senza numero le verità? In quante scienze non è oggimai compartito il sapere? e non racchiude ciascuna di esse tanti veri o già trovati o trovabili da riuscir soverchi a qualsivoglia memoria e a qualsivoglia intelletto? »Alla quale questione noi sentiamo il debito di rispondere, e lo facciamo tanto più volentieri, che, rimanendo sospesa, non solo i nostri amici potrebbero, trovando ottimo in se stesso lo scopo, riputarlo nondimeno impossibile e vano e temerario, ma noi non avremmo chiarito abbastanza il nostro pensiero, il quale non inteso, neppure potrebbe essere equamente giudicato. Il sapere umano, in quanto si dispone ed ordina scientificamente, può essere rappresentato da una piramide a forma di tetraedro: la base sterminatamente grande è formata, quasi d' altrettante pietre, da' veri particolari, i quali sono innumerevoli; sopra di questi corre un' altra serie fatta di un ordine di quei veri universali, che fra gli universali, sono i più prossimi ai particolari, e anche questi moltissimi, ma non quanti i primi: e se così di mano in mano si ascende agli altri strati o scaglioni superiori, ciascheduno di essi si trova contenere un minor numero di veri, ma di una potenzialità od universalità sempre maggiore, fino a che, pervenuti alla sommità, il numero stesso è scomparito nella unità, e la potenza dell' universalità è divenuta massima ed infinita nell' ultimo tetraedro che forma la cima della piramide. Questa immagine mostra ciò che vogliam dire, ma non in tutto; essendo impossibile che una figura materiale abbia le condizioni spirituali delle idee: quello dunque che non può essere rappresentato o significato da questa similitudine si è, che un ordine più elevato di veri contiene virtualmente in seno l' altr' ordine che gli è prossimamente inferiore (perocchè quelli sono veri più universali, questi meno), e coloro che sanno fare l' ufficio del figliuolo di Fenarete, possono estrarlo dalle sue viscere; laddove un' ordinanza di pietre soprapposte non ha virtù generatrice dell' altra ordinanza che le sta sotto, nè questa nel seno di quella si chiude, nè indi può trarsi fuori alla sua propria esistenza. La quale condizione del vero di trovarsi implicato ed involto in una suprema unità, d' onde si spiega e si svolge nel numero, e ciascuna unità di questo numero implica anch' essa e di sè svolge un altro numero di meno estese verità, feconde pure di germi, pure generative di altre feconde verità, (ond' è che cresce e si moltiplica senza fine questa famiglia d' immortali, e classificata poi a specie e a generi, l' intellettuale progenie forma di sè tante scienze, tante arti, tante discipline); questa condizione, dicevo, del vero che si riversa e quasi si rinnova in altri veri, e in questi diviene di continuo più numeroso senza cessare di essere quello di prima unico e semplicissimo, ella è tanto incorporea e divina che non trova, per dirlo di nuovo, negli enti sensibili e materiali, per qualunque parte dell' universo si vada cercando, alcuna adeguata similitudine o sufficiente rappresentazione. Non è qui il luogo di dire o d' investigare come un vero si risolva in più veri, e come quando questi sono venuti alla luce della mente umana, quello, che s' è quasi direi sgravato di tanti portati, non cessi d' esser qual era per nessuna guisa modificato, gravido ancora degli stessi veri, nè più nè meno di quel che era prima. Ma ci conviene bensì osservare che i veri così figliati da altri veri antecedenti, che in sè li portano, ricevono da questi loro generatori la legge e la norma del loro essere, e ne mutuano tutta la luce. Perocchè egli è manifesto, che non può rinvenirsi più di essere e più di luce ne' veri derivati, di quello che se ne ritrovi ne' loro principŒ, da' quali per giuste inferenze furono dedotti, e tutto il di più che si voglia collocare nelle inferenze e non sia contenuto ne' principŒ, è puro errore. Ora da questa ordinatissima costituzione della verità, e da questa sua singolar natura, che una serie di veri più elevati porti in sè tutte le serie de' veri inferiori, e più sono elevati, meno è grande il lor numero, si può raccogliere, che nella piramide scientifica, quanti sono i gradi della medesima, altrettanti sono i modi, ne' quali la stessa verità è concepita ed espressa dall' uomo, di manierachè tutta intera la verità si trova nella detta piramide replicata altrettante volte in diverse forme, quanti sono gli ordini orizzontali de' massi, per dir così, sovrapposti, con questa sola eccezione, che i veri che costituiscono gli ordini inferiori, scompagnati da quelli degli ordini superiori onde derivano, rimangono quasi ombrati, e l' uomo privo della luce de' loro principŒ, non può farne grand' uso, nè cavarne a' suoi bisogni gran pro; laddove congiunti nell' umana mente ai veri più alti che li generano e in questi contemplati, diventano lucidi, maneggevolissimi ed utilissimi. Laonde sebbene i veri che appartengono alle sezioni più basse della piramide siano smisuratamente più di numero, ed anzi innumerevoli; tuttavia l' essere in tanta moltitudine non li rende nè più splendidi nè più preziosi di quelli, sempre men numerosi, che appartengono alle sezioni superiori; anzi l' esser tanti loro pregiudica doppiamente, e perchè non possono esser tutti conosciuti e raccolti dall' umano ingegno, e perchè la verità così divisa in parti, perde di quella dignità e di quello splendore di cui ella rifulge nella sua interezza. Certo che anche i veri degli ordini superiori acquistano un maggior uso e un maggior corso, quando si possedono dall' uomo accompagnati dalla loro prole, cioè da' veri degli ordini inferiori. Ma posciacchè l' apprensiva e la memorativa di ciascun uomo non s' estendono all' infinito, epperciò non possono abbracciare tutti i veri particolari; al conoscimento di molti di questi è da preferirsi di gran lunga il conoscimento di que' pochi che li racchiudono tutti, e da' quali altresì la mente può ricavare e dedurre, ogni qual volta le piaccia, gli altri, in maggiore o minor numero, secondo il tempo e le forze, ch' ella spende nell' opera della loro derivazione e deduzione. Le quali considerazioni già fanno intendere, che cosa volevamo dire nominando il sistema della verità : dimostrano che questo sistema, il più nobile ed alto scopo a cui si possano rivolger gli studŒ, non è impossibile a rinvenirsi, nè vano o temerario deve riputarsi il tentarlo: di più, che il prenderlo di mira è necessario a chi vuol dare un segno fisso alle filosofiche meditazioni, e finalmente che non può biasimarsi nè pure colui, che quantunque nol colga del tutto, pure se l' è proposto, e vi si è in qualche modo avvicinato. Perocchè il sistema della verità altro non è, per dirlo con diverse parole, se non la descrizione di lei, in quella forma nella quale sta contenuta ne' principŒ, non già ne' veri particolari; ossia, per continuarci nella similitudine usata di sopra, qual ella si trova ne' più alti gradi della piramide, di pochi, ma grandi veri composti, che, avendo in sè potenzialmente tutti quelli de' gradi inferiori, riassumono la verità intera. E certo ad alcuni pochi principŒ i veri più minuti si riducono, i quali principŒ, come dicemmo, sono la viva e pura luce di questi, e ad una tal luce, come si possono discernere tutti i veri, così si possono riconoscere altresì e separare tutti gli errori. Ora il determinare i principŒ ossia le prime ragioni di tutto il sapere, e con precisione pronunciare e affidare ai vocaboli quest' altissima parte dell' immensa piramide dello scibile umano, è appunto l' ufficio della FILOSOFIA. A questa dunque noi abbiamo stimato di dover rivolgere l' attenzione della mente, a questa abbiamo indirizzati i nostri varŒ scritti, ciascuno de' quali intorno a qualche porzione di lei si travaglia. Altrove noi abbiamo definita la Filosofia: « la dottrina delle ragioni ultime »(1), secondo la qual definizione non è malagevole determinare con precisione quale porzione della nominata piramide ella costituisca (2). Perocchè in primo luogo è manifesto, che quel tetraedro nel quale la piramide finisce e che rappresenta Iddio, o la scienza di Dio, deve essere il principale argomento, e formare la precipua parte della filosofia, giacchè Iddio è la ragione ultima e piena di tutte le cose che esistono nell' universo o possono cadere nelle menti. A quel divino e finale tetraedro poi si congiunge immediatamente l' ordine primo di quei veri, che riguardano il creato, e nè anche questi possono essere dimenticati dalla Filosofia, quantunque non costituiscano la ragione assolutamente ultima, la quale non è altra che Dio medesimo; ma essi sono gli ultimi veri, le ultime ragioni fra quelle che all' universo appartengono, facendone in qualche modo parte. Perocchè l' universo ha in se stesso le sue ragioni relativamente ultime, e sono le prime cause create o concreate, dalle quali dipendono, secondo natura, tutti gli enti, e tutte le leggi, al cui tenore gli enti si muovono alle loro operazioni, ed operando pervengono alla loro perfezione, o al parziale decadimento, che pur contribuisce poi anch' esso alla perfezione del tutto, la quale non può essere frustrata giammai. Le ragioni ultime dunque al di là del mondo, e le ragioni ultime nello stesso mondo; ecco l' oggetto della filosofica disciplina, che così prende i due ultimi, e più elevati gradini della immensa piramide scientifica, che noi abbiamo descritta. Di che la Filosofia si rimane chiaramente separata dall' altre scienze e sopra esse innalzata, siccome la madre e la guida comune di tutte, formando queste i gradi inferiori della piramide, che da que' due supremi dipendono, e ne ricevono il lume e la vita. Non potea dunque caderci nell' animo di trattare tutte le scienze, ma bensì di occuparci della loro comune sommità, negletta pur troppo, ed anzi in questi tempi superbi di materiali godimenti e pensieri, ravvolta nel fumo e nella caligine. Dalla sovversione anzi dall' annientamento della Filosofia operato nel secolo scorso dagli autori del sensismo, guazzabuglio di negazioni e d' ignoranze, che sotto il nome assunto di filosofia invase tutta l' Europa con più detrimento del vero sapere, che non vi avesse recato giammai alcuna invasione barbarica, derivò quella corruzione profonda della Morale, del Diritto, della Politica, della Pedagogia, della Medicina, della Letteratura, e più o meno di tutte l' altre discipline, della quale noi siamo testimoni e vittime: e questa corruzione, trasfusa nelle azioni e nella vita mentale de' popoli e della stessa società umana, continua a dilacerare, come mortifero veleno, le viscere di quelli e a minacciar questa stessa di morte. Da quell' ora sembra essersi in molti quasi perduto nelle cose morali il senso comune; le passioni e l' ignobile calcolo degli interessi materiali sono divenuti l' unico consigliere, l' unico maestro delle menti: e queste, aperte a tutte le prevenzioni, disposte a dare il loro assenso sull' istante alle sentenze più stravaganti, a toglierlo pure sull' istante alle più dimostrate, secondo l' opportunità casuale; orgogliose di soggiacere alla schiavitù delle opinioni più appassionate, anzi, appunto perciò, schizzinose della soggezione più ragionevole; credule fino all' assurdo (1), incredule all' evidenza, legislatrici del mondo intero, intolleranti di ogni legge, frenetiche de' proprii diritti, immemori de' proprii doveri, entusiaste, in parole, della filantropia, professanti co' fatti la frode e l' egoismo, irreligiose, disonorate nelle lascivie, impudenti, sembrano avere perduto ogni coscienza della virtù e della verità, e l' esistenza stessa dell' una e dell' altra è divenuta per esse un problema od una vana chimera. Se questa condizione di cose fa nascere da se stessa il pensiero e il desiderio di un radicale rimedio, e invita gli studiosi a indagare una migliore filosofia da sostituirsi a quella che si mostrò feconda di tanti mali, altri gravissimi eccitamenti ancora inclinarono i miei studii verso un tale scopo, e a' miei amici e benevoli non sarà discaro, se io li trattenga qui brevemente colla narrazione di qualche fatto personale, che d' altra parte mi sembra necessario a purgarmi presso alcuni altri dalla taccia di soverchia presunzione nelle mie proprie forze. Ecco dunque quello che mi confermò nel proposito di por mano, per quanto lo concedessero le mie facoltà e le opportunità, alla ristorazione della Filosofia. Io mi trovavo l' anno 1.29 in Roma, e Mauro Capellari in allora Cardinale della S. Romana Chiesa, al quale mi legava il vincolo d' un' antica amicizia, m' esortava e consigliava a scrivere e pubblicare in quel centro della Cattolicità il « Nuovo Saggio dell' origine delle idee, » di cui avevo in allora solamente concepito il disegno, e gettatone il seme negli « Opuscoli filosofici, » che ne' due anni precedenti erano usciti alla luce in Milano. Quell' opera, che effettivamente scrissi e pubblicai quell' anno e sul principio del seguente nella capitale del mondo Cattolico, e che fu approvata da' romani censori, tendeva a combattere il sensismo, fonte di tanti altri errori, ed anzi di tutti i nostri mali: e non a combatterlo soltanto nelle sue conseguenze o a dimostrarne erronei i principŒ, ma a combatterlo a quel modo che abbiamo detto, col mettergli a fronte il vero sistema intorno alla natura e all' origine delle cognizioni; chè il falso, quando gli è posto in faccia il vero, rimane come un reo convinto, ed anche confesso davanti al giudice; e da se stesso si dilegua a quel modo che sgombrano le tenebre all' apparire della luce. A cui s' aggiunse un altro autorevolissimo conforto a non farmi più parere temeraria l' impresa, a cui aveva posto mano col « Nuovo Saggio » ed a condurla avanti, rendendomela un dovere. Poichè in sul bel principio dell' anno seguente Pio VIII assunto al trono pontificale dissipava da me tutti i timori, non tanto della difficoltà dell' impresa, quanto dell' incertezza, se quel tempo e quelle forze che avrei dovuto spendervi, non potessero per avventura essere impiegate a maggior vantaggio del prossimo in altre occupazioni. Ricordo ancora le sue amorevoli ed autorevoli parole, le quali presso a poco furono queste: « E` volontà di Dio che voi vi occupiate nello scrivere de' libri: tale è la vostra vocazione. La Chiesa al presente ha gran bisogno di scrittori: dico, di scrittori solidi, di cui abbiamo somma scarsezza. Per influire utilmente sugli uomini, non rimane oggidì altro mezzo che quello di prenderli colla ragione, e per mezzo di questa condurli alla religione. Tenetevi certo, che voi potrete recare un vantaggio assai maggiore al prossimo occupandovi nello scrivere, che non esercitando qualunque altra opera del sacro ministero ». In tal maniera quel sommo Pontefice di santa memoria mi tracciava la via, e m' esortava a calcarla; e non posso dimenticarmi con quante parole e con quanto calore e bontà seguitasse a dimostrarmi la verità del suo consiglio, e specialmente a persuadermi, che gli uomini si dovevano condurre col ragionamento. A Pio, che rimase sì breve tempo al governo della Chiesa, successe Gregorio XVI, cioè quel Capellari, onde m' erano venuti i primi consigli e conforti, e che durante il lungo suo Pontificato non mancò giammai di raffermarmi nello stesso proposito, d' aiutarmi a compirlo con ogni dimostrazione di paterna benevolenza e di costante protezione. Così fu determinata la direzione de' miei studŒ successivi, e la riforma della filosofia divenne l' intento universale de' lavori fin qui da me pubblicati o promessi; a cui consegue di sua natura quella ristaurazione di tutte l' altre scienze, delle quali la filosofia è madre e nutrice, principalmente delle morali, dove ogni decoro ed ogni onore dell' umanità consiste. Il sensismo e il soggettivismo, che non è, propriamente parlando una filosofia, non può avere una Morale: perocchè noi non dobbiamo prendere i nomi con cui giocano i sofisti, per le stesse cose. Niuna Morale deriva dall' umano soggetto, il quale è bensì colui che viene obbligato dal dovere, ma non è, e non può essere colui che obbliga. Coll' avere i sofisti trasformato l' obbligato nell' obbligante, scambiando il passivo coll' attivo, fecero fare un capitombolo alla Morale. Acciocchè dunque questa disciplina si raddirizzi (chè se non è diritta non è più dessa), egli è uopo dimostrare, che v' ha un oggetto, il quale sia degno di riverenza e d' amore: e lo stabilire questa dignità dell' oggetto, che importi un' esigenza di essere riverito ed amato, di maniera che il non farlo sia un disordine, una turpitudine, è quanto un rimettere la Morale nella sua natural posizione, restituendole il suo primo fondamento. Quest' oggetto è l' ESSERE, in tutta l' estensione che prende questa parola; perocchè l' essere ha di sua natura quella forma appunto, per la quale dicesi oggetto: egli è PER SE` OGGETTO, e quindi medesimo non può mai non essere oggetto. Che se l' essere non può non essere, e se non gli può mancare la forma oggettiva, perchè senza questa non sarebbe pienamente; dunque l' essere oggettivo è necessario, e quindi la Morale pure è necessaria. Non si potea dunque rendere alla Morale il suo immobile fondamento, nè proteggerlo validamente contro gli assalti di coloro, che l' aveano voluto rovesciare nell' opinione umana, senza ascendere col pensiero fino alla teoria dell' essere oggettivo: il che ci obbligò di principiare la serie de' nostri lavori dall' Ideologia, donde ogni sapere umano incomincia. Per la stessa ragione e per una strada ancora più corta il sensismo ed il soggettivismo rovesciò la scienza del Diritto sul quale si reggono non meno le relazioni dell' umana convivenza, che quella delle umane società. Poichè il Diritto nella sua parte materiale è una facoltà soggettiva che ha per fine l' utilità di chi la possiede, e l' esercita: all' opposto della Morale, che tutta si racchiude nel riconoscimento volontario e riverenziale dell' oggetto, senza che le conseguenze eudemonologiche formino, od accrescano l' inflessibilità dell' obbligazione, assoluta come la verità. E quella facoltà soggettiva, che è come la materia del diritto, rimane, anche rimossa la morale; ma colla remozione di questa, che è come la forma del diritto medesimo, essa perde incontanente la dignità e l' essere formale di diritto. La quale dignità morale, che quella soggettiva facoltà d' operare non ha in se medesima, le viene dal di fuori, cioè dalla morale appunto, che la consacra proteggendola, coll' imporre a tutti gli altri uomini l' obbligazione di lasciarla intatta e libera a' suoi atti. Laonde ristabilita la morale, fermatane immobilmente la base, è con questo stesso salvato anche il diritto, e la doppia eccellenza delle azioni umane, cioè l' etica e la giuridica. Se col sensismo e col soggettivismo la mente, coerente a se medesima, non può riconoscere l' esistenza nè di doveri nè di diritti; coll' annullamento poi di questi, ella non può più concepire alcun' altra politica che quella che si consuma in frodi e in violenze, e che, come il principe ideale del Macchiavelli, è biforme, cioè mezza volpe e mezzo leone, quella che ha per suo necessario effetto procacciar l' odio a tutti i governi, quell' odio universale, che li rende tutti impossibili, e che pur troppo vediamo diffuso in Europa a guisa di un diluvio, in cui affogano i governanti, con esso tutte le forme governative. Solo quando sia restituita la morale (e con questo dico la religione, che è la vita della morale) e colla morale il diritto (non una larva ingannevole di diritto), allora è possibile una scienza politica, custode della giustizia, tutrice della libertà di tutti, promotrice d' ogni bene, autrice della concordia de' cittadini, fortissima madre della pace. E quantunque questa scienza che presiede al governo delle società civili, non sia che la prudenza applicata a condurre quelle speciali società al loro fine, e però non possa avere per suo proprio scopo ed effetto altro che l' utilità de' governati, tuttavia se si considera più profondamente, e s' investiga la connessione e la lunga serie di tutte le cause e degli effetti onde la civile società perviene a quella prosperità che le è propria, nella fine di una tale investigazione e di un tal calcolo, la mente riesce ad una conclusione nobilissima; la quale è questa: « Il governo civile instrutto della dottrina della giustizia nelle sue tre parti, la commutativa, la distributiva e la penale, e dotato di una perfetta coerenza di ragionamento, può e deve dedurre tutte le regole della prudenza politica dalla sola giustizia »: conclusione, che può sembrare, nel primo aspetto e superficialmente considerata, un paradosso, perchè veramente è una sentenza fuor d' opinione, non potendo esser di molti la coerenza della mente, che ne' principŒ vede le più lontane inferenze, e pur troppo mancando nei più un alto sentimento morale, quella magnanima fede e sapiente nella giustizia stessa, che n' aspetta ogni migliore effetto, ne fa uno studio continuo, ne prevede con secura speranza gli ultimi felicissimi risultati. Ora quello che prima di tutto insegna la giustizia sociale, quello che i presenti governi sono più che mai lontani d' avere imparato o di voler imparare, si è che il civile governo co' suoi atti e colle sue disposizioni, non dee uscire giammai da' naturali confini della sua autorità, i quali non si possono assegnare, se prima non si definisce che istituzione sia quella del civile governo. Laonde sino a tanto che non si riconosca sinceramente il supremo impero della giustizia, nessun governo può avere un confine, oltre il quale il suo potere non voglia trapassare. Perocchè la sola utilità, questa incertissima e vanissima parola, non può prescrivergli limite fisso, dipendendo essa dal calcolo probabile delle circostanze, e però essendo variabilissima in se stessa e commessa all' arbitrio di chi assume di fare quel calcolo. Onde se a questa sola guida sono rimessi i governanti, come non hanno più alcuna ragione d' anteporre l' altrui utilità alla lor propria, a tutte le occasioni, in cui credano poterlo fare impunemente, stenderanno su tutto quello che loro piace le mani, nè i governati sapranno mai prevedere dove essi voglian fermarsi, nè potranno imporre ragionevolmente un termine al potere o pretendere guarentigie, le quali, accordate che pur fossero, non avrebbero un maggior valore di quello che prima s' avesse la loro propria forza: chè per certo, disconosciuta la morale e la giustizia, sono impossibili le convenzioni; cancellandosi dalle menti il « verba ligant homines », rimanendo solo superstite il « taurorum cornua funes ». Ed egli è così forte il piacere dell' imperare e del governare, anche per le utilità proprie che se ne traggono, talmente seduce, quasi all' impensata dell' uomo stesso, che non solo prima di Cristo, quando tutto era signoria e servitù, ma anche dopo, quando il cristianesimo fece nascere le società civili, non si è mai pensato seriamente (il che pare incredibile e pure è vero) a definire il poter civile, e a circoscriverlo con precisione, ma se n' è mantenuto il concetto nel vago e nell' indeterminato, sebbene la giustizia volesse che la prima questione a risolversi da' governanti, colla massima accuratezza, dovesse essere questa: « che cosa è una società civile; a quale intento è istituito il governo della medesima? »La quale rimanendo insoluta, nè il governo può andar sicuro di non oltrepassare i suoi limiti, nè del pari i governati possono esigere alcuna cosa da chi li governa, senza incorrere nel medesimo pericolo. Ma rimanendo oscura ed incerta la natura e l' intento della civile istituzione, chi governa crede di poter fare alto e basso d' ogni cosa a sua volontà, il che è incredibile quanto a lui piaccia, ma insieme quanto noccia a tutto il popolo. Sarebbe dunque ormai tempo di ben intendere che la società civile non è una società universale nel senso, che comprenda nel suo seno tutte le altre e di conseguenza tutti i diritti delle altre; ma ella è una società particolare che vive a lato delle altre, come pure a lato di tutte le individualità, perchè neppur queste possono essere da lei assorbite colla perdita del loro proprio essere individuale; è una società che lungi di poter appropriarsi, od invadere i diritti degli individui e delle altre società, ha l' intento di tutelarli, senza distruggerli, senza minorarli, senza legarli o recar loro altro pregiudizio, ciò che sarebbe appunto il contrario del tutelarli; è una società che tutta si posa e si fonda sul rispetto de' diritti di qualunque maniera, il qual rispetto è la sua prima, la sua essenziale ed universale obbligazione, onde discendono tutti gli altri suoi speciali doveri, non rimanendole appunto altro diritto, che quello di osservare questi doveri: è una società che per tutelare e proteggere i diritti li modifica altresì nella forma, li coordina, acciocchè non s' impediscano reciprocamente, e possano coesistere pacificamente, e pacificamente svolgersi e prosperare: e in una parola è una società istituita al solo fine di REGOLARE LA MODALITA` DI TUTTI I DIRITTI DE' SUOI MEMBRI, lasciandone intatto il valore. Questa questione fondamentale di giustizia si eleva di gran lunga sopra la questione delle forme di governo, e a tutte impone la stessa legge: « di non disporre menomamente del valore di alcun diritto, limitandosi a regolare, come dicevamo, la modalità di essi tutti per guisa che tutti possano coesistere, svolgersi liberamente, prosperare »: nè dichiara una forma migliore dell' altra, se non in quanto, avuto riguardo ai tempi ed alle circostanze, in una forma possono trovarsi maggiori probabilità, che quella legge fondamentale sia dal governo osservata e seguita. Ora questa determinazione precisa dell' unico ufficio universale della società civile, quando sia abbracciata o resa così evidente nell' opinione di tutti, che non possa più da' governi ricusarsi, è il solo rimedio radicale e specifico del dispotismo, il quale in tutte le forme di governo si è sempre rinvenuto, ma più subdolo e più ributtante che in altre, in certe forme viziate dalle passioni sofistiche all' .9 in poi, nelle quali gli arbitri de' parlamenti compaiono al pubblico con in sul volto l' onesta e mansueta maschera della legge, quasi che la legge dell' uomo non possa anch' ella esser dispotica e tirannica, ma sia una purissima idea astratta, che nulla tiene d' umanità, e non sappia punto odore del volere di quelli che l' hanno fatta. L' onnipotenza attribuita pazzamente al popolo si travasa ne' deputati, i quali (parlo sempre di costituzioni viziate alla francese) si persuadono, che ormai non più colla giustizia, ma con essa onnipotenza si faccian le leggi: contro l' iniquità delle quali il mondo freme e si dibatte, e, poichè rimane confitto nelle menti il vizioso principio, colla ribellione non s' ottiene che di fabbricarsi de' legislatori peggiori, che impongono al popolo ribelle che gli ha scelti, leggi peggiori. E come può essere diversamente, se niuno, nè governanti nè governati, conosce il termine a cui deve andare, nè la strada che vi conduce? Niuno sa precisamente perchè il governo esista? perchè la società civile sia istituita? Niuno vuol saperlo o supporre di saperlo, senza prendersi la cura di ricercarlo? E niuno, massimamente di quegli ambiziosi che s' incaricano di guidare il popolo, accetta i limiti naturali di questa società, ma in persona di difensori del popolo, pubblicano a suon di tromba, che la volontà del popolo può ogni cosa giusta od ingiusta? Cioè creano un' onnipotenza per fondarvi su una società civile pure onnipotente, e questo fanno acciocchè ne riescano onnipotenti gli organi e gli strumenti, cioè il governo che sperano recarsi in mano? Tale è il sofisma dell' egoismo politico, che co' più bei nomi si copre, e specialmente con un bellissimo di liberalismo, e questa specie di liberalismo consiste nell' edificare in sul dorso incurvato degli uomini la mole d' un governo onnipotente, che è quanto dire d' impor loro un dispotismo sofistico così sfrenato, che non fu mai tale sopra la terra da Nembrotte in poi, denominandolo per refrigerio, e consolazion del popolo, libertà! Dal qual laccio le nazioni non possono trarre il collo, se prima nol traggono da quello del sofisma che ha prodotto lo stato, nel quale si logorano e straziano senza volerlo e senza sapere il perchè, cioè se esse non tornano a consacrare il diritto sconsacrato dall' utilitarismo, riponendolo sotto la protezione della morale e della religione che ne è l' effettività, e riconoscendo, che nè il popolo, nè gl' individui che il compongono, nè i parlamenti, nè i monarchi, nè i ministri, nè alcuna autorità sopra la terra può toccarlo; e quindi che i governi non hanno e non possono avere altra incombenza, nè altra autorità, se non quella, che i diritti di tutti (i quali non sono già da' governi creati, come pazzamente fu asserito), i diritti degl' individui, e di tutte le società oneste, sieno conservati nella loro integrità di valore, e, salvo questo valore, regolati nella loro modalità per sì fatta guisa, che senza impedirsi reciprocamente, senza sacrificarsi gli uni agli altri, coesistano, s' esercitino, liberissimamente si svolgano. E` questo il solo principio che può somministrare una politica salutare, che guarisca la malsanìa delle nazioni, e con esse salvi la stessa società umana. Dacchè dunque il senso corporeo, che non apprende la verità, fu proclamato il solo maestro sicuro, la sola guida fedele degli uomini, e questi prestarono fede a quella sentenza che portava la contraddizione in se stessa, la Morale, il Diritto e ogni altra cosa di natura eterna, perì insieme colla Verità nell' opinione degli allucinati, e la politica divenne un' arte aleatoria, nella quale gli uomini giocarono e giocano se stessi, e le loro cose più care co' due dadi dell' astuzia, e della forza brutale. E su questa dottrina furono educate le novelle generazioni alla sensuale sapienza. La voluttà de' sensi divenne, come divenir doveva, il fine della scienza e dell' arte pedagogica, ed acciocchè quella, consumando le sostanze, non consumasse troppo celeramente se stessa, le fu dato a contrapeso la scienza dell' economia politica (anche questa scienza per sè bellissima ed utilissima così corrompendosi), alla quale noi italiani imparammo da Melchiorre Gioja ridursi la morale! Nè vogliamo qui perscrutare quale istinto inducesse i sensisti a conservare con tanta sollecitudine questo nome di Morale, quando parea dover loro bastar quello d' Economia politica, giacchè, non dovendo rimaner più che questa sola scienza, pare che per una scienza sola non ci sia bisogno di due nomi. Certo che la verità si resta colà ritta ed immobile davanti ai deliri degli uomini, e questi, sebbene, chiudendo gli occhi, dicano che quella non è più perchè non la vedono, tuttavia non potendo tenerli sempre chiusi perfettamente, che è uno sforzo contro natura, di quando in quando s' irritano in percependone alcuni raggi, e allora scappano loro quelle incoerenze ed indirette confessioni del vero, che ognuno può avvertire nelle loro parole, se ci bada: ma se quei raggi battono in essi più vivi che non vorrebbero, cagionano loro infiammazione degli occhi, e allora vanno in furore per la doglia: indi l' origine di quella lotta tremenda, incessante, vendicativa che non pochi movono alla verità ed a suoi confessori, nella quale si riassumono tutte l' altre lotte, chè, senza quella prima ed essenziale, l' altre o non sarebbero o cesserebbero facilmente. Al piacere dunque, all' economia politica che lo alimenti, ed all' astio della verità morale e religiosa, nel sistema di cotali educatori, devono sacrarsi le novelle piante umane destinate a formare « la selva selvaggia ed aspra e forte »che ricopre tutta quanta la terra incivilita. Ma se a questo termine dee condurre necessariamente quel sistema ideologico, che nega ogni eterno e immutabile elemento e che abbandona il genere umano e le sue giovanili propaggini al flusso dei sensi; per lo contrario si raccoglie, che la scienza e l' arte dell' umana educazione, qualora non deva essere un' industria dotta e sistematica di corrompere ed imbastardire i teneri rinascenti germogli dell' umana famiglia, converrà che abbia per fondamento anch' essa quell' elemento eterno, che costituisce la nobiltà dell' uomo, e, sollevandolo al di sopra del minerale, del vegetale e dell' essere sensitivo, il fare della terra e scopo della creazione; quell' elemento, a cui il senso corporeo è straniero e soggetto, e che l' Ideologia addita nell' idea, che splende con inestinguibile lume alla mente come prima manifestazione dell' essere necessario; la Morale mostra nella legge, che con autorità assoluta lega la volontà, qual seconda manifestazione dell' essere medesimo; e la Religione fa trovare in Dio stesso, manifestazione ultima e compita, fonte misterioso e della luce ideale ad un tempo e d' ogni legislazione, soddisfacente ogni voto dell' umanità, che nell' essere infinito s' immortala, s' assolve, si bea, si deifica. Al quale sublimissimo fine, a cui l' uomo, col suo intelletto, colla sua volontà, colla sua stessa essenza tende sempre di stendersi al di là del creato, deve dunque indirizzarsi con perseverantissima industria e con perfetta coerenza anche la scienza e l' arte dell' umana educazione, ad un semplice ed evidente principio tutte le altre parti subordinando, le quali, subordinate così, partecipano di quella infinita dignità e contribuiscono alla verace perfezione e alla felicità degli educati. All' opposto, abolita la dignità intellettiva per opera del sensismo, non ci ha più cagione di non abolire la stessa natura sensitiva e discendere al materialismo, come nel fatto è avvenuto. Perocchè chi non ha tanta virtù di mente da vedere l' assurdo, che le idee sieno fenomeni sensitivi, non può neppure ravvisare l' altro assurdo, che le sensazioni sieno fenomeni materiali. Quella mente che non sa conoscere il primo errore è fors' anco meno atta ad accorgersi del secondo; chè dall' idea alla sensazione v' ha un tratto maggiore, che non dalla sensazione alla materia: col primo salto si precipita dall' infinito al finito, col secondo si va dal finito ad un altro finito, benchè di opposta natura. In tutti i rami del sapere, non solo in quelli che riguardano lo spirito razionale e morale, ma ancor più immediatamente in quelli che riguardano il corpo vivente, il materialismo esercitò la sua dannosa influenza intrudendovi il sofisma nel metodo, l' errore nel risultato. La Medicina divenuta materiale (e si parla sempre della scienza, non degli individui, i quali per una felice incoerenza possono credere alla spiritualità dell' anima, coltivando pur la scienza medica quale la trovano, chè non è dato a tutti il cangiarla) ruppe con orgoglio anch' essa il filo della sua tradizione, rinunciò all' eredità de' maggiori: il padre della medicina non fu più un genio, non si vide più nel vecchio di Coo, che un uomo volgare e pregiudicato. E di vero l' antica medicina avea la colpa di riconoscere nella vita e nelle sue funzioni, o in istato di sanità o in quello di malattia, un principio spirituale: Ippocrate riconosceva l' unità perfetta della vita e del vivente, e ne' morbi stessi avea conchiuso nascondersi un principio così straniero alla materia, che egli non seppe in altro modo denominare, che dicendol divino. Non si potea dunque professare il materialismo senza condannare ad un tempo la dottrina di tutti i secoli, e a' sofisti di quest' arte sembrò una magnifica gloria di collocarsi da se stessi al di sopra de' secoli, calcandoli sotto i piedi: gl' Ippocrati infatti (se pur si contentano di questo nome) a' dì nostri formicolano per ogni villa. Così la materia fu termine fisso alle mediche investigazioni portate a cotanta altezza, il pensiero e la sensazione divennero funzioni della fibra altrettanto quanto il meccanico o chimico movimento, e sul cadavere si studiò la vita, e si cercò col microscopio la spiegazione de' fenomeni vitali. Ma quando si muove dalla supposizione che il principio della vita non sia che materia, allora non presentando questa, per qualunque studio l' uomo vi faccia, se non fenomeni passivi, è smarrito quel principio attivo, onde tutte le funzioni, sieno fisiologiche o patologiche, dipendono come da loro causa, e quindi è anche smarrito necessariamente il vero principio dell' arte salutare, nè questo si ritroverà più, se non quando, tornandosi un po' indietro, si riconoscerà di nuovo, che il principio sensitivo, lungi dall' esser materia, è anzi quello che agisce sulla materia e l' avviva e la domina come il principio razionale agisce sul sensitivo, lo modifica e in gran parte lo signoreggia. Di che consegue, che se la medicina vuol influire con utilità sul vivente, è uopo che ella si rimetta in comunicazione con questi due principŒ (il sensitivo e il razionale), dall' azion de' quali il vivente e il suo stato morboso o normale deriva; e in quest' azione benefica confidi assai più che in se stessa, e ad aiutare e riordinare quest' azione tutta la sua industria rivolga. Nell' ordine del senso animale, a cui la sofistica riduce tutte le facoltà dell' uomo, restano le passioni, perchè le passioni sono sentimenti, ma non più rimane la norma intellettiva e morale che le ordina, or temperandole, ora eccitandole, sempre governandole agli alti fini dell' umana destinazione, a cui debbon servire. E quando le passioni ebbero ricevuto dal sensismo, col bando della loro guida e signora, l' intelligenza, il desiderato dono della libertà (e questa è veramente quella libertà, che trae a sè seguaci più numerosi e più clamorosi), allora, tolte al guinzaglio della ragione, esse si svolgono con tutto quell' impeto, in tutti que' capricci, in tutti quegli eccessi, di cui per loro natura sono suscettive. E così esse rimasero sola materia alla letteratura del secolo sensista, da Lord Byron a Vittore Ugo. Lo spettacolo di tutte le passioni uscite agli ultimi loro atti cozzanti fra loro a morte, intrecciantisi in una mischia variata da strani accidenti e quasi in un ballo complicatissimo e capricciosissimo, parve sublime, parve l' ultima rappresentazione estetica degna della letteratura del secolo, e certo ell' era l' unica, perchè il sensismo non ne lasciava altre. Vero è che ritorna a mescolarsi in quella danza la ragione tapinella quasi di furto, sia perchè quand' anco si cacci colla forca la natura, la si presenta poi di nuovo all' impensata, sia perchè senza ragione nè letteratura, nè altra scienza o arte può stare, di che il sensismo condannato a divenire incoerente per esistere, va a finire col suicidio. Ma la meschina è da que' letterati riammessa nella loro letteratura a patto di serbare l' incognito; poniamo, come un personaggio esiliato per legge d' ostracismo, richiamato poi segretamente dalla polizia per averne informazione o altro confidenziale servigio, il quale è in città, donde presto riparte, senza che alcuno sel sappia. Per certo la ragione è necessaria alle passioni stesse, delle quali alcune senz' essa non vivono, altre non possono concitarsi e irritarsi quanto si brama per averne l' effetto della meraviglia, e per cotesti buoni servizi ella s' accoglie nella letteratura, però travestita da figliola o da servetta della sensualità; chè nel suo proprio abito di regina e di regolatrice del senso stesso e delle passioni, non se ne sostiene la vista. E poichè negli storici avvenimenti non si scorge un sublime disegno, se non quando si contemplano in quella ragione e sapienza eterna che gli ordina e li dirige ad un fine, perciò a coloro i quali, eliminata dal calcolo l' intelligenza, non vogliono tener conto che del solo senso, non può parere la storia che cosa gretta, fredda e nuda d' ogni bellezza. Ed è questa la vera ragione del perchè i sensisti furono obbligati ad alterarla e a rifarla a loro gusto (e tutte le storie del secolo scorso sono veramente rifatte non sulle memorie de' tempi, ma sul disegno delle prevenzioni appassionate degli scrittori); e finalmente per avere un maggior campo all' arbitrio, fu inventato il genere ibrido del Romanzo storico, in cui le passioni possono a tutta lena sbizzarrire e disordinarsi, come non si trova mai nella storia; romanzo vestito, qual cornacchia, d' alcune penne della storia medesima, che così si disvuole e si vuole ad un tempo. La qual maniera di contraddizione non fa noia a coloro che altro non ricercano nelle scritture se non sensazioni ed emozioni, quali si sieno, al che il sistema de' sensisti ammaestra gli uomini, anzi d' ogni altro bello o d' ogni altro sublime rende loro impossibile il desiderio: a quelli, a cui è qualche cosa l' intelligenza e l' amore, e d' un delicato sentimento delle cose morali sono dotati, pare che così facendo venga profanata la storica verità, che col filo degli eventi, quasi con caratteri incancellabili, scrive i disegni di Dio, e, per la riverenza a questi ed alla stessa natura umana che li compie, brama che il vero di fatto rimangasi intemerato, siccome un' arca che racchiude de' segreti di bontà e di sapienza, i quali non sono pel sensista che materialmente lo considera. Quindi lo stesso autore del più perfetto e del più maraviglioso de' romanzi storici (e coll' idea dell' alta sua mente, non coll' ignobile senso ne aveva ordite le fila), mal pago di se medesimo, fra l' inaudita celebrità ei solo riprendendo se stesso d' aver saputo trovare un verosimile che dal vero della storia intrecciatavi non si discerne, spuntò la penna onde avea scritto l' opera immortale, e la rattemprò di poi per accusare l' intrinseco vizio di quel genere di componimento. Il sensismo dunque rapendo la parte ideale e divina alla letteratura, e a tutte le arti del bello, o le distrugge col legar l' uomo al positivo della sensazione, o certo le ignobilita lasciando loro il solo ufficio d' imitare, o rappresentare in un aspetto seducente gli eccessi delle passioni, nè altrove si può raccendere la facella del genio, se non al fuoco sacro della verità, della morale e della religione, che il senso ignora, e l' intelligenza consapevole ne' suoi penetrali conserva (1). I tre intenti o almeno i tre desideri, che abbiamo sin qui dichiarati, spiegano in gran parte la ragione de' diversi lavori, che si danno in questa raccolta. Ma un altro bisogno dell' età nostra sollecitava l' animo dell' autore, e il desiderio di soddisfarvi, quant' era da lui, guidavalo nelle sue fatiche. Ei ben vedeva il Vangelo risplendere al di sopra di tutti gli umani sistemi, siccome il sole, a cui le nubi della terrena atmosfera non giungono; e sapeva di più che « «il cielo e la terra trapasseranno e quelle parole non trapasseranno »(1) » Nè ignorava che la divina sapienza non ha bisogno d' alcun filosofico sistema per salvare gli uomini, e che ella è perfetta d' ogni parte in se medesima. Tuttavia sapeva ancora che fra la rivelazione ed una verace filosofia non può sorgere alcun dissidio, non potendo la verità esser contraria alla verità, come quella che, una e semplicissima nella sua origine, è consentanea mai sempre a se medesima: considerava oltracciò che la filosofia, dove non si diparta dalla verità, giova alla mente dandole una naturale disposizione e una cotale preparazione rimota alla fede, di cui fa sentire all' uomo la necessità: che gli errori, le prevenzioni, i dubbi che nascono dall' imperfezione della ragione, e che frappongono altrettanti ostacoli al pieno assenso da prestarsi alle verità rivelate, possono e devono risolversi e dissiparsi colla ragione medesima; che la stessa Chiesa cattolica invita ed eccita i filosofi (specialmente nell' ultimo Concilio di Laterano) a prestar quest' ufficio co' loro studŒ; che la rivelata dottrina non può esporsi compiutamente a modo di scienza senza supporre le verità dimostrate dal filosofico ragionamento, giacchè la religione non distrugge ma perfeziona la natura, la divina rivelazione non abolisce ma completa e sublima la ragione, e però la natura e la ragione sono i due postulati, o sieno le due condizioni e prenozioni del vangelo e le prime basi, su cui s' innalza l' edificio della sacra Teologia (1). Ne' primi secoli della Chiesa i Padri s' erano appigliati, per averne questi aiuti, alla filosofia di Platone da essi emendata; nell' età di mezzo fu preferita la filosofia d' Aristotile, pure emendata da' dottori e maestri della scuola. Nell' uno e nell' altro di questi due periodi di tempo la dottrina filosofica, a cui s' attenevano i Teologi, era universalmente ammessa e consentita; la diversità delle opinioni non ne scoteva l' edificio, perchè rimanevano fra pochi, nè si propagavano a tutto il corpo della scienza, di cui almeno restava sempre comune e incontroversa la forma dialettica, il metodo ed il linguaggio. E questo agevolava oltre misura lo studio della Teologia che s' innalzava a guisa d' un tempio, compito d' ogni sua parte, solidissimo e venerando agli occhi di tutti: ne' primi secoli quella scienza delle cose divine pareva disegnata a foggia d' un tempio greco o romano, ne' posteriori, d' un tempio gotico, ma sempre perfetto e magnifico. Nell' ultima età l' erudizione, la critica, la classica letteratura perfezionarono l' esposizione della scienza Teologica, rendendola più schietta, ed aggiungendo nuove prove positive, ben accertate, ai dogmi; ma caduto e dimentico il sistema filosofico della scuola, che le sopponeva un fondamento naturale, ella perdette la regolarità delle sue forme e la sua maravigliosa unità scientifica, per la quale, congiunta intimamente colla ragione naturale e con tutte le più nobili speculazioni, appariva manifestamente siccome un compimento soprannaturale dell' umana natura e dell' umano sapere, quasi l' ultima mano che il creatore stesso avesse posto all' opera sua. L' uomo allora sentiva altamente che la Teologia non era divisa da lui, e che, sebbene ella travalicasse, per l' origine e la sostanza, i limiti della natura, pure ella parea una continuazione di se stesso, il qual passava dal ragionevole al rivelato, quasi ascendendo da un palco inferiore ad un altro superiore dello stesso palagio della mente, con un solo disegno da Dio fabbricatogli. La Teologia cristiana in quella età era senza contrasto la conduttrice e la custode di tutte l' altre scienze, la signora delle opinioni. Chi avrebbe allora pensato, che sarebbe venuto un altro tempo, in cui alcuni pensassero, doversi la Teologia dividere interamente dalla Filosofia? E pure nacque questo pensiero: nacque, tostochè mancò una filosofia comunemente ricevuta, e si disperò di trovarne un' altra solida e coerente in tutto alla religione. Ma la sfiducia non è mai consiglio, non è ragione. Se il Teologo rinuncia alla filosofia, o egli dovrà intralasciare le più profonde questioni e lasciar imperfetta la scienza (1), o se tuttavia vorrà mettersi dentro ad esse, non gli riuscirà di risolverele, se non forse in una maniera assai imperfetta o falsa, onde n' avrà biasimo da' veri filosofi, dileggio dagli altri, con discredito della sacra disciplina. [...OMISSIS...] La filosofia poi di natura sua amica e fedele ancella della Teologia, se viene da questa ripudiata e dalla sua compagnia cacciata, non cessa perciò di vivere, massimamente ne' tempi nostri, che secondo la sentenza di Pio VIII vogliono gli uomini esser guidati al bene ed alla fede stessa dalla ragione; ma avverrà pur troppo di lei siccome di fanciulla derelitta da' suoi genitori e tutori, che per pane vende a chi ella incontra l' onestà ed il decoro. E qual maraviglia che la Filosofia, come noi pur vediamo dovunque avvenire, degeneri in quel superbo razionalismo, che ambisce oggimai d' esser solo, cacciatane in bando ogni rivelata Teologia? E` dunque desiderabile, che si volga il pensiero a ricomporre e ristabilire un sistema di Filosofia, il quale vero e sano e sufficientemente compiuto, possa essere dalla scienza teologica ricevuto per suo ausiliare, e questi due rami del sapere si ricongiungano in quella unità alla quale son nati, e nella quale reciprocamente si giovano, fiorendo entrambi a vantaggio dell' uman genere (2). Un antico detto consiglia l' uomo a prefiggere alle sue operazioni il più alto scopo concepibile dalla sua mente, acciocchè mirando in un ideale di perfezione e di bellezza possa prenderne sicurissime ed eccellentissime regole d' operare e attignervi quell' amore, quell' inspirazione, quell' aumento di forze, colle quali, eziandiochè non raggiunga la nobilissima meta, pure vi si avvicina abbastanza da far conoscere col suo lavoro, che cosa egli abbia voluto, e da potersi applicare senza vanto e senza vergogna quell' in magnis et voluisse sat est . E dall' esposizione de' fini che mi sono proposto nell' esercizio delle lettere, i miei amici si saranno avveduti, che quel documento mi fu presente all' animo, e o loderanno o scuseranno il mio ardire. Ora io devo loro indicare altresì la via, per la quale mettendomi, mi è sembrato poter più facilmente accostarmi all' intento. Non mi propongo di descrivere i mezzi e i sussidii, onde trassi vantaggio, il che condurrebbe il discorso a lungo senza necessità, nè tampoco di discutere o di giustificare in tutte le sue parti il metodo da me preferito, ma di due sole cose far cenno, cioè della libertà colla quale ho osato filosofare, e della conciliazione che ho procurato di fare, per tutto dove mi fu possibile, delle altrui sentenze. Il vero ed il falso è una qualità de' giudizŒ e degli assensi dell' uomo. Se l' uomo assente a ciò che è, il suo assenso è verace; se assente a ciò che non è, il suo assenso è mendace. Si suol parlare d' idee e di cognizioni vere e false: questa è una di quelle tante improprietà o imperfezioni di dire, che producono questioni inutili (questioni che rimangono escluse solo che si riformi il linguaggio), ovvero che implicano e rendono difficili a risolversi quelle, che sarebbero di loro natura pianissime. E per fermo, se si riserbasse il nome di cognizione a significare quelle che l' uomo acquista o s' appropria per un assenso verace, e le altre si chiamassero noncognizioni, quanti equivoci scomparirebbero incontanente dall' umano discorso? Primieramente si giudicherebbe un uomo saperne tanto, quanto egli possiede di pura verità; e non si metterebbero più in conto di dottrina gli errori, che frequentemente ingombrano le menti di quelli, che passan per dotti, a quella maniera, come chi vuol rilevare l' asse d' una famiglia non somma insieme i crediti e i debiti, siccome fossero quantità d' una stessa natura, ma sottrae questi da quelli, e così ne ricava il netto della sostanza. Ma poichè colui che aderisce a molti errori, crede di saper molto; perciò volgarmente si appella sapere anche quello, che non è altro se non una falsa persuasione che l' errante ha di sapere. Ora con questa sola avvertenza quanti ci avrebbero, che perduto il nome di dotti e di scienziati che malamente portano, benchè abbiano faticato molto sui libri, rimarrebbero in opinione d' ignoranti! E quanto si scemerebbe allora il numero di quelle ingannevoli autorità, che impongono agli uomini, e invece di lasciarli accostare al vero, li trattengono spesso vacillanti fra il vero ed il falso? E per la stessa ragione convien dire che tutti quelli che dubitano, non sanno ancora; chè i dubbŒ non sono cognizioni. Laonde se noi poniamo da una parte gli uomini, che dubitano di molte verità, e dall' altra quelli che a queste verità concedono un pieno assenso: questi secondi hanno indubitatamente maggior copia di cognizioni di que' primi, e così si deve conchiudere, senza tener conto del maggiore studio che possono avere posto i primi per riuscire al dubbio, di quello che abbiano posto i secondi, riusciti alla verità. Perocchè lo studio è il mezzo e non il fine, e anch' egli è vano, se non ci produce altro, che il dubbio del vero; ma soltanto quello studio ha un gran valore, che o ci arricchisce del vero, o ci spoglia del falso, o anche ci fa dubitar di questo, se già ne siamo imbevuti; benchè col farcene dubitare tanto solo ci arricchisca, quanto s' arricchisce colui, che non avendo altro che debiti, acquista quello che gli basta a pagarne una parte. L' assenso dunque che diamo al vero è ciò che ci mette in possesso del vero, fuori del quale non si trova la scienza, ma soltanto l' ignoranza o il dubbio che è un' ignoranza maggiore, o finalmente l' errore che è l' ignoranza massima. L' assenso suppone la notizia di ciò a cui si assente, e che coll' assenso si accetta per vero; e però se la cosa è vera, in ogni assenso, qualunque sia il modo nel quale si dà, c' è sempre cognizione, c' è sapere, e acquisto di verità. Ma l' assenso poi si può dare per più cagioni, le quali si riducono a queste due: o per la sola efficacia che la volontà esercita sulla facoltà dell' assenso, o per una necessità razionale veduta dall' intendimento, che muove al suo atto la facoltà dell' assenso. Nel primo caso l' assenso è arbitrario, cioè voluto non già senza un fine, ma senza una ragione; nel secondo caso l' assenso s' appoggia ad un motivo di ragione, e viene da una facoltà illuminata e qualche volta anche necessitata dall' evidenza, che in certe circostanze dell' animo, determina lo spontaneo moto dell' assenso medesimo. Ora quantunque l' assenso arbitrario non muova da ragioni che dimostrino la verità della cosa, e però sia un atto che non può dirsi strettamente ragionevole, tuttavia anche questa maniera d' assenso può essere dato ad una cosa che è e quindi esser verace, o ad una cosa che non è e quindi esser mendace. E se egli è verace, anche con quest' assenso l' uomo partecipa della verità e vi aderisce, ma nello stesso tempo che sa che quella cosa è vera perchè vi presta fede, egli non conosce il perchè sia vera, e questa è la parte di verità che egli ignora e che gli rimane a cercare. ora questo assenso cieco, che dimostra che l' uomo ha la potestà di assentire e di non assentire, è un fatto degnissimo della meditazione del filosofo, come quello che spiega innumerevoli altri fatti i quali frequentemente avvengono ed esercitano un' amplissima influenza sulla vita umana, voglio dire tutti i giudizŒ temerari, i pregiudizŒ, le prevenzioni, le credenze, le presunzioni, le persuasioni, che talora si manifestano fortissime negli animi, senza sapere onde vengano, senza poter trovare alcuna buona ragione in cui siano fondate, senza che questa ci sia, o almeno senza che ci sia piena e dimostrativa. Il maggior numero degli atti della vita, e stavo per dire pressochè tutti gli atti più necessarŒ, senza i quali l' uomo non potrebbe vivere, vengono diretti da prevenzioni e da credenze, le quali talora sono del tutto in aria, supplendo al loro fondamento di ragione la forza che ha la volontà di determinare l' assenso, la volontà, dico, con tutto ciò che influisce su di lei, colle inclinazioni, cogl' istinti, colle passioni, co' bisogni: talor poi si fondano in ragioni meramente conghietturali, più o meno probabili, in apparenze, in indizŒ o reali o trovati dall' immaginazione ed assunti di nuovo arbitrariamente come segni e generali indicazioni del vero. Se l' uomo, prima d' operare, volesse sempre avere davanti alla mente la dimostrazione delle verità che suppone in operando e che lo determinano a quello o a quell' altro modo d' operazione, egli non s' indurrebbe mai ad agire, e parrebbe divenuto una statua, e cessato d' essere un uomo. La facoltà dunque della persuasione immediata, la qual dipende dalla volontà, gli è oltremodo necessaria e preziosa, e l' aiuta all' azione più dello stesso ragionamento dimostrativo. Ma questa facoltà, se talora coglie nel vero, sovente batte nel falso: si può anzi dire che da essa provenga, universalmente parlando, la funesta potenza che ha l' uom d' errare, da essa altresì il vero ostacolo al libero filosofare. Vediamo qual sia l' ufficio della Filosofia relativamente alle tante prevenzioni, che prendono posto così facilmente nella mente degli uomini. La Filosofia chiama ad esame tutte queste prevenzioni, tutti gli assensi più o meno gratuiti, e distingue quelli che sono prestati al vero da quelli che sono prestati al falso. Riguardo ai primi, la Filosofia aggiunge quello che loro manca, cioè, fa conoscere la ragione che giustifica l' assenso, ricevuta la quale l' uomo non solo possiede la verità, di cui s' era già persuaso non ancora sapendo il perchè, ma ben anco possiede quell' altra verità che gliene rende il perchè, e così la sua cognizione coll' abbracciare queste due verità si completa, e la sua persuasione diventa razionale. Che se l' assenso era stato dato sopra ragioni di probabilità, la Filosofia o tenta di condurre la probabilità a dimostrazione, o, non giungendovi, s' adopera a dimostrare, che in quel caso non si può trovare il certo, e a misurare i gradi della probabilità che gli convengono. Relativamente poi agli assensi che l' uomo ha dato agli errori o senza ragione o per ragioni false, cioè per altri errori precedenti da cui i primi si derivino or come logiche illazioni, or come illazioni credute logiche anch' esse per errore, è propria incumbenza della Filosofia il dimostrare l' erroneità di ciò a cui fu dato l' assenso, ed anche l' erroneità di ciò che fu preso per ragione dell' assenso, e finalmente, se in dedurre il primo errore da questo secondo, non s' inferì bene, anche l' erroneità di questa inferenza: laonde la Filosofia in quest' ultimo caso ha da dimostrare per ogni falso assenso almeno tre errori. Ma gli errori, le prevenzioni erronee, sono di sovente ostinate; anzi convien dire che ogni persuasione, erronea o no, tiene nella sua propria natura una forza di resistenza ad essere annullata, ed è quella stessa forza di conservazione che ha ogni ente, ogni atto di qualunque ente. Laonde quando il filosofo col ragionamento prende a distruggere tali persuasioni (ed è obbligato a farlo per andare avanti), egli non può a meno di entrare in una lotta più o meno forte, più o meno pertinace, cogli uomini, che non vogliono al primo intìmo abbandonare, quasi parendo loro ignavia, il proprio errore. La Filosofia non trova un simile ostacolo se le prevenzioni che ella incontra negli animi, quantunque gratuite, pure sieno vere, perchè allora ella non è obbligata di combatterle anzi con esse si associa, e in vece di rovesciarle, si mette dalla lor parte per fortificarle, illuminarle, difenderle, completarle, con costruirvi il fondamento che loro manca e che è la loro propria ragione. Dal che si deduce che non sono le prevenzioni e i pregiudizŒ per se stessi e nella loro universalità, quelli che ingombrino il passo alla Filosofia (come falsamente si dice), ma sono le sole prevenzioni, e pregiudizŒ erronei, e in una parola sempre e poi sempre l' errore invalso nelle menti. E ne consegue, che colui che avrà ammesse in sè prevenzioni e pregiudizŒ di tal natura, cioè erronei, sarà un uomo del tutto inetto al libero filosofare, e per rendersene atto, egli dovrà prima deporre quelle persuasioni, o certo, entrare in tale disposizione d' animo, che gravemente dubiti di esse, e si renda indifferente a deporle o no, secondochè la Filosofia, lasciata discorrere così libera come se quelle non esistessero, pronunci la definitiva sentenza. Ecco dunque la vera causa del lento e contrastato progresso della Filosofia: le prevenzioni e persuasioni erronee, ecco altresì la causa logica della perdita della sua vera libertà, e quella de' suoi traviamenti. E che le prevenzioni e persuasioni erronee, diffuse specialmente nella moltitudine, sieno causa del lento progresso della Filosofia, si scorge a non dubitarsene ove si consideri, 1 che il sistema filosofico della verità non può arrecare in un popolo que' frutti saluberrimi che in sè contiene siccome in germe, se non a condizione, che riesca a prevalere universalmente nell' opinione. Ma più sono le prevenzioni erronee infisse negli animi, più ancora sono i nemici che egli dee combattere e vincere prima di stabilirvisi, e dove dominano molti errori, gli animi discordi sono più irritabili e superbi, nulla rendendo l' uomo tanto altero, tanto indocile, quanto la tirannia dell' errore, chiamato sapere dallo schiavo che la subisce. 2 Che non solo la Filosofia, supposto che sia già trovata e ordinata, ma colui stesso che meditando la cerca, incontra nelle prevenzioni erronee invalse nella società, in cui vive, un' immensa difficoltà a raggiungere il vero che si propone, sia perchè coll' educazione e colla consuetudine de' suoi contemporanei egli stesso n' ha in sè poco o assai ricevute, sia perchè le opinioni abbracciate dal comune si presentano con una grande autorità, crederebbesi coll' autorità del genere umano, e l' uomo si perita e tituba a prendersela con questo cotal senso comune, e diffida di se stesso, nè si risolve a confessare con franchezza una verità che gli si rivela, dissentendo tutti, avendo tutti per giudici che lo condannano, e per lo più non con una seria e motivata sentenza ma colla derisione. E qui è veramente dove spicca la necessità di quel coraggio ed ardire filosofico, col quale tanto facilmente si confonde la presunzione e la temerità, perchè queste diversissime disposizioni si rassomigliano al primo aspetto, e spesso le ultime fanno come quegli impostori, che alla morte di qualche Imperatore le cui fattezze imitano, si spacciano per lui stesso ancor vivente, e non, come si credeva, già morto. Questo è il buon coraggio che libera la Filosofia da inutili restrizioni ed ingiusti vincoli, ed egli nasce nella mente di chi prende a filosofare mosso dall' amore della verità . Quando quest' amore è puro e vivace: quando colui che si dedica alla filosofica investigazione, sente che c' è un tal bene nella verità (nella verità dico d' un ordine sublime e morale), che a niun altro è comparabile, e la stima di tal valore che per acquistarla è disposto a far getto di tutte l' altre cose, e pur gli pare d' averla in dono gratuito: quando le cose, che non sono verità o ad essa s' oppongono quella reputa vane, anzi, meno della vanità e del nulla, una quantità negativa, perchè ingombrando la luce di quella ne impediscono il pieno e tranquillo possesso, la desiderata fruizione; quand' egli soggiace a quella potentissima debolezza, per la quale non può resistere per così dire alle immortali attrattive di lei e a lei cede senza difesa e senza pentimento; allora quest' uomo captivo di sì giusta imperatrice della mente, trovasi innalzato al di sopra di sè, delle sue proprie prevenzioni e delle altrui, pronto a sacrificar quelle senza dolore, e a combatter queste senza timore, se dopo un imparzialissimo sindacato le une e le altre appariscano erronee; e non può più mancare a costui quel coraggio e quel filosofico ardimento, che la prudenza e la modestia, quasi dandogli mano, accompagnano. E questo è quello che rivendica la Filosofia alla sua natural libertà, onde senza lasciarsi arrestar dagli intoppi, alla scoperta del vero con celerità s' incammina. Io ho sempre riputato in questa generosa disposizione contenersi il primo e il più importante dovere di chi prende a filosofare, la condizione indispensabile del filosofo. E in questa persuasione procurai spingere qualunque investigazione fino agli estremi quesiti, e raccoglierne con esultanza, qualunque fossero, i risultati; procurai di verificare se quei risultati erano veramente gli ultimi e perchè non ce ne potessero essere di ulteriori, di cavarne finalmente le conseguenze; e tutto questo pel primo lavoro. Le conclusioni in tal modo avute non meritano ancora un pieno assenso; devono considerarsi come possibili, o non molto più, fino che non s' è data la riprova all' operazione della mente che le ha somministrate, e questa riprova è il secondo lavoro. Il quale consiste nell' esaminare con attenzione, se i risultati ottenuti, o in se stessi, o nelle loro conseguenze, vengano a cadere in contraddizione con qualche verità, che già si conosce siccome certa, o con qualche opinione probabile, o con qualche prevenzione anche gratuita. Perocchè essendo la verità a pieno coerente seco medesima, se si può accertare che una conclusione qualsiasi, o qualche sua legittima conseguenza, si mostri ripugnante ad una qualunque sia verità, ella è indubitatamente da rigettarsi come fallace, e conviene riandare tutto il calcolo, e rifarlo, fino a scoprirne lo sbaglio. Se poi la lotta è con un' opinione probabile, non si può progredire, se questa non è stata prima esaminata e trovatone l' accerto: chè se ella si convince di falsità, non è a farne più caso; se poi è conosciuta vera, s' ha di nuovo la lotta di quella conclusione colla stessa verità. Il somigliante è a dirsi delle prevenzioni da cui le menti sieno universalmente occupate: non si devono dispregiare eziandiochè gratuite, ma discutere se quelle possano ricevere un fondamento di ragione, o al contrario se v' abbia una ragione che le riprovi per vane ed erronee. Con che il filosofo o le cambia colle sue ricerche in verità accertate, o le discopre errori, e, secondo il risultamento, o se ne giova quali indizŒ sicuri di qualche fallo o trascorso del suo primo ragionare, o, lasciatele indietro, egli continua animosamente ad avanzarsi pel suo cammino. Laonde egli è mal fido consiglio il prestare subitamente l' assenso alle proposizioni singolari che il filosofo crede d' avere discoperte col suo ragionare. Prima di tutto gli conviene diffidare assai di se stesso, altamente persuaso, che gli stessi ragionamenti più speciosi possono ingannare per qualche difetto, o salto che vi s' asconda (chè la fallacità è una delle limitazioni più manifeste dell' umana natura); e per cautelarsene, egli è uopo che faccia l' assaggio d' ogni singolare proposizione, chiamandola al confronto di tutte le altre, e delle verità certe, quasi reo posto al contradditorio co' testimonŒ; perocchè se non regge a questa prova, non può assolversi da grave indizio d' errore, ma se la proposizione regge così bene che si riscontri a pieno consentanea con tutte l' altre verità, allora si potrà fidarsene, e riceverla in lor compagnia. E così non sono tanto le ragioni dirette, che accertano soggettivamente una proposizione, quanto il consenso che ella mantiene con tutte l' altre, e quel sistema apparirà e sarà vero, in cui si trovi tanto perfetta consonanza, che tutte le sue parti, anche minime, quasi ad una voce facciano fede della verità di ciascuna, e in ciascuna, siccome in foco, s' accentrino i raggi di tutte, rendendola con sì gran luce evidente: chè ella è primissima condizion del vero la concordia, l' unità, la perfettissima pace. E qui non posso trapassare un pregiudizio, anzi un errore gravissimo, che si trova ripetuto da molti scrittori de' nostri tempi, rispondendo brevemente a coloro che ce lo opporranno sicuramente come un' obbiezione. Il quale errore si è quello di credere, che il libero filosofare sia interdetto o impedito a coloro che professano la cattolica religione. Opinione assai strana in se stessa, e più strana ancora, in quantochè non si considera, che questo impedimento che s' attribuisce ai cattolici, si dovrebbe, per la stessa ragione, riconoscere in qualunque altro uomo, il quale s' avesse pure una qualche fede religiosa. Di che proverrebbe la singolare conclusione, che il solo ateo si trovasse in istato di liberamente filosofare! Ma da qual principio s' inferisce una tale persuasione? Si pretende forse che l' essere in possesso di alcune verità sia un impedimento alla filosofia? In questo caso converrebbe portare la conseguenza ancora più in là, e sostenere che quegli solo può mettersi sicuro e lesto nell' arringo filosofico, il quale non conosce nè manco una sola verità. Ora quell' uomo di tutto ignaro, non rallegrato da alcun raggio del vero, non si trova, grazie a Dio, sopra la terra, e se ci si trovasse, egli non sarebbe uomo: chè l' uomo riceve da natura il primo lume, quasi concreato con lui, e questo lume è la forma prima che lo rende intelligente, e cresce questa forma con esso lui nell' infanzia, nella puerizia, nell' adolescenza, e continuando a crescere in isviluppo anche quando non crescono più le sue membra, non l' abbandona nè nella virilità, nè nella vecchiaia, nè nella morte. E d' altra parte che cosa vogliamo noi che sia la Filosofia? Tutti quelli che ne intendono alquanto, vi diranno che ella è il prodotto del movimento riflesso del pensiero. Ma come crediamo che possa darsi il movimento riflesso , se il pensiero non trova alcuna materia nel deposito della mente, su cui ripiegarsi? La cognizione riflessa in generale, e molto più la filosofica che è di una riflessione molto elevata, suppone prima di sè la cognizione diretta , e la cognizione popolare e sociale; e in ciascuno di questi generi di cognizione può trovarsi la verità, anzi deve almeno trovarsene una parte, chè altramente non sarebbe cognizione. Noi, definendo la Filosofia, l' abbiamo sollevata su tutte l' altre scienze con dire, che ella è quella che investiga le ultime ragioni di tutto il sapere umano. Ora come potrebbe farsi quest' ultima di tutte le ricerche, se non ci fosse dato precedentemente il sapere, che nelle varie scienze e discipline si comparte? E non è appunto per questo, che nella vita del genere umano i Filosofi e la Filosofia, propriamente detta, comparvero assai tardi, dovendosene prima raccogliere i materiali; e che lo spirito umano, salendo, dopo molte prove e ricco di molte notizie, a quella sublime riflessione, dall' alto della quale egli scorge in che si fondino le già prima conosciute e raccolte verità, giudica di se stesso, del suo proprio cammino, delle leggi che lo guidano ne' suoi passi, e si prescrive un metodo e si rende consapevole della necessità dialettica di quelle cognizioni, di cui fino allora non sapea indicare la ragione necessaria? Ella è dunque la più grande delle assurdità il sostenere, che le verità possedute precedentemente da colui che s' accinge a filosofare sieno un impedimento, un vincolo posto al suo libero pensiero, come chi dicesse che l' ali sono un impedimento, un legame all' uccello, che vola con esse. La verità dunque non impaccia il pensiero giammai: ma quello che lega il pensiero e lo impedisce dal volare liberamente è l' errore, o creato da un fallace ragionamento, o ricevuto gratis nella mente siccome una prevenzione od un pregiudizio: questo è il vero, il solo nemico della libertà filosofica. Laonde è pur maraviglioso e doloroso ad un tempo il vedere, che allorquando un autore produce delle opinioni le più stravaganti e le più erronee, contrarie al senso comune, e mette il suo miglior vanto nel professare delle empietà, benchè non ne adduca prova efficace di sorta, costui trovi chi l' onori (e certo non possono essere che degli ignoranti) del titolo di libero pensatore; quando il suo pensiero è pure allora così vincolato e schiavo all' errore, che non può muovere un passo verso la verità, e di più è trascinato, repugnante invano la natura umana, nel contrario cammino, rivolto il dorso al sole della medesima verità. L' audacia dunque di coloro, che assaliscono le più venerabili e più consentite verità, non è il certo segno, come crede il volgo de' dotti, della libertà del filosofare, ed è anzi del suo contrario. Ma a quante e a quali significazioni diverse non è stata abusata questa parola di libertà! A quanti inganni non s' è prestata strumento, a quante discordie! Quanti odŒ non ha ella commesso, quanti parapigli non ha occasionati, quante lagrime e quanto sangue non hanno sparso uomini che la presero a vessillo per abbaruffarsi con altri uomini che volevano la libertà altrettanto e più di essi, la libertà dico, che la natura umana non può disvolere! Ma o non s' intendevano sul significato del vocabolo e si menavano busse da ciechi, o non volevano intendersi, come non vogliono tuttavia, e in nome della libertà facevano e fanno a chi può meglio opprimere e soverchiare. Chè tutte quelle parole che ricevono diverse significazioni nelle dispute de' filosofi, e così prestansi acconcissime agli artificŒ e alle cavillazioni de' sofisti di tutte le professioni, quelle stesse applicate alle cose della vita reale dividono gli uomini in partiti violenti, ciascuno de' quali rappresenta l' idea diversa che allo stesso vocabolo attribuisce, idee, che poi, quasi incarnate ne' loro fautori, avvolgono in orrenda mischia la società di cui niuno sa predir facilmente la fine. E certo poichè le immortali idee non cadono sotto il ferro, nè trafitte dal piombo, quelle dissensioni, e guerre civili non possono trovare la loro fine, se non là donde presero il principio, cioè nella regione dell' intelligenza, nella quale l' errore tolse dapprima la maschera del vero che si mise in sul volto, deposta la quale, è restituito il regno della pacifica verità, nel cui seno, come in loro proprio domicilio, tutte le idee ritornano (lasciati di fuori gli assensi erronei e gli appetiti che colà entro non sono ammessi), e divinamente ordinate ed unificate dimorano. Libertà dunque è una di queste parole equivoche indeterminate, polisenne, e il mondo che freme e schiuma per essa, come un mare combattuto da contrarii venti, n' è testimonio. E il senso più astratto che s' applica a quella parola è il più assurdo di tutti: perocchè alcuni ripongono il concetto dell' uomo libero in questo, che egli non abbia più alcun legame di soggezione, e però si propongono di liberar l' uomo non meno dal giogo della verità che da quello dell' errore, e di formar così il libero pensatore ; non meno dal vincolo del dovere e della virtù, che da quello del vizio, e di formar così il libero cittadino ! I quali dimostrano, che non solo ignorano la natura umana, ma perdettero ancora totalmente il senso di se medesimi. Che cosa ci rimane dell' uomo, se gli togliamo ad un tempo il vero ed il falso, il vizio e la virtù? Nulla: quello che ci rimane è il bruto, il quale non è suscettivo di libertà, chè in ogni sua operazione è determinato e necessitato dagli istinti. Onde i Comunisti e i Socialisti, che intendono così appunto la libertà, prima di tutto negano affatto all' uomo il libero arbitrio! (1) E per tal modo l' astrazione immoderata trasporta cotesti speculatori fuori del subbietto della questione, cioè fuori dell' uomo che essi distruggono. L' uomo, che non è sottomesso alla verità, necessariamente è sottomesso all' errore; l' uomo, che ha scosso da sè il peso della legge morale e della virtù, necessariamente sostiene il peso del vizio. La verità dice: « « Chi non è meco, è contro di me »(2) » Fra la verità e l' errore, come pure fra la rettitudine e la tortitudine morale, non v' ha mezzo: il punto che le divide è il nulla dell' intelligenza. Convien dunque che l' uomo scelga in questa alternativa: perocchè non istà in suo potere il cessar d' essere uomo. Sia pure che la verità imponga anch' essa all' uomo una cotal soggezione, un cotal giogo. Già la verità in persona l' ha detto di sua bocca: « « il mio giogo è soave, e il mio peso è leggiero »(3): » ha parlato d' un giogo, d' un peso che impone all' uomo. E uno degli Apostoli della Verità ha indicato mirabilmente l' indeclinabile alternativa delle due servitù, scrivendo così ai cristiani di Roma [...OMISSIS...] L' uomo dunque è sempre servo, se così si vuole: a tutte e due quelle opposte servitù non può sottrarsi: egli può solamente scegliere fra quella che il rende servo della verità e della giustizia, e l' altra che il rende servo dell' errore e dell' immoralità. - Quale eleggerà? - Ecco la sola questione possibile; e perchè egli la sciolga, o di nuovo la risciolga, Iddio l' ha fatto libero; ma questa elezione non può esser sospesa: col solo volerla lasciar sospesa, l' uomo ha già scelto, e scelto il male: il momento dunque dell' elezione si può replicare, ma è sempre un momento: non costituisce uno stato, non è una disposizione; è un punto, nel quale l' uomo entra liberamente in uno de' due stati suoi proprŒ, o dall' uno passa all' altro, entra o passa nel regno della verità, o in quello dell' errore. Ma qui io prevedo, che coloro, i quali hanno eletta la verità per loro signora, si lagneranno di me, che chiamo servitù anche la loro felicissima condizione. Io mi scuserò a loro, come Paolo si è scusato a que' di Corinto d' una somigliante maniera di favellare; Paolo, dico, il quale non solo riconobbe due servitù , quella della giustizia e quella del peccato, ma ben anco due libertà , quella che rende l' uomo libero dal peccato, e quella che lo rende libero dalla giustizia. Perocchè dice: [...OMISSIS...] . Come dunque si giustifica di questa maniera di parlare? « « Io parlo alla maniera degli uomini, » dice, «per l' infermità della vostra carne »(2). » Veramente, se l' uomo non fosse limitato, debole, infermo, non gli verrebbe mai nella mente o sul labbro, che l' esser conformato alla verità ed alla conseguente giustizia fosse una condizione di servitù. Perocchè l' ordinario concetto di servitù acchiude in se stesso qualche cosa di ripugnante, d' involontario; giacchè si direbbe mai servo colui che potesse sempre fare, e che sempre facesse tutto ciò che egli vuole? che non trovasse alcun ostacolo al suo volere? non trovasse alcuno, che obbligasse la sua volontà a deviare dalla strada ch' egli s' elesse, riputandola di tutte la migliore ed a sè la più cara? Niuno certamente chiamerebbe cotesta una servitù, anzi una pienissima libertà. Questo sembra evidente: soffermiamoci dunque a considerare come e quanto, secondo questo stesso principio, possa convenire d' appellare servitù la soggezione dell' uomo alla verità ed alla giustizia. La natura umana si può considerare da tre aspetti; in se stessa, astraendo dagli atti posti da essa e dagli abiti acquistati; in quello stato nel quale s' è piegata all' errore ed al male; e in quello, nel quale ella s' è volta alla verità ed al bene. Se consideriamo la nuda natura umana in se medesima, noi la troviamo limitata. Ma fu divino consiglio di chi la compose, ch' ella potesse, quasi per un cotale spiraglio, lasciatole aperto, dell' intelligenza, attignere ed appropriarsi coll' efficacia della sua volontà l' illimitato e l' infinito. Così l' uomo limitato, come soggetto ha proposto dinanzi a sè un oggetto illimitato e illimitabile, l' essere in forma d' idea, che è la verità, verso a cui egli può stendersi senza fine, e, seguendola fedelmente come stella che gli mostra il cammino, ingrandire oltre misura se medesimo. E a questo ingrandimento egli aspira, come a sua propria perfezione. Tuttavia l' abbandonare le primitive sue limitazioni, e il romperle per cercarsi un altro modo più ampio e più nobile d' esistenza, gli è faticoso e difficile; chè gli pare una negazione e quasi un infrangimento di se stesso. Il che accade in questo modo. Egli è dotato di più potenze, e ciascuna ha il suo proprio impulso pel quale ella è portata ad operare indipendentemente dall' altre, e l' indipendenza di tali impulsi e di tali azioni cagiona disordine e disarmonia fra le potenze medesime. A mantenerle in concordia sicchè tutte cospirino armonicamente a migliorare il soggetto, dal quale, come da un' unica virtù, procedono, sta di continuo presente all' uomo la verità, e da alto luogo, siccome divino auriga, colla voce le dirige e le affrena e le inanima. Laonde quest' autorevolissima moderatrice di tutte le umane potenze incontra non di rado opposizione nell' impeto particolare di ciascheduna, che inconscia dell' altre si svolge; ma niuna opposizione trova, nè può trovare nello stesso soggetto che tutte in sè le contiene, a pro di cui ella le governa, almeno se il soggetto stesso volontariamente non si snaturi, lasciando la propria unità, e spezzandosi, trasformandosi quasi in una sua speciale potenza, a' capricci della quale sacrifichi se medesimo. Sotto al governo dunque della verità v' ha una cotale servitù delle singole potenze, non quella dell' uomo; che anzi questi per la verità lungi d' acquistar servitù, diviene il governatore di se medesimo, il signore di tutte le sue proprie facoltà. Ma quando l' umano soggetto invece d' operare coll' istinto suo proprio, che del bene complessivo dell' intero uomo è promotore, si lascia trascinare all' istinto esorbitante d' una sua potenza particolare e a questo ubbidisce; allora noi non abbiamo più davanti la nuda natura umana priva di modificazioni e di alterazioni, ma uno stato di lei acquistato co' suoi atti e cogli abiti; l' abbiamo presente già ripiegata verso l' errore ed il male. Dico anche verso l' errore, perchè l' umano soggetto, se non abbandona la verità, non può dimenticare se stesso, e perdere la sua unità e totalità, per seguir le voglie esclusive d' una sua speciale potenza, in questa sola quasi attuandosi e consumandosi; chè la verità l' ammaestra di fare il contrario, anzi gli dà la forza di reggere e di mantenere nel debito ordine le diverse sue attività, acciocchè tutte cospirino a produrgli quel bene complessivo che è il suo proprio, il bene di tutto l' uomo. E poichè l' uomo considerato nella sua integrità ed unità, naturalmente non può voler altro che il bene di se stesso, non quello d' una sua parte a scapito del suo tutto; perciò l' attenersi alla norma della verità, che gliene insegna la via e gliene dà il potere, è così conforme e consentaneo all' umana natura, che dalla congiunzione di questa colla verità nasce appunto la maggiore delle umane potenze, cioè l' intelletto, e il più eccellente, il più proprio degli umani istinti, quello del bene. E non si potrebbe nè pure intendere in che modo l' uomo che alla verità deve tanta parte di sua esistenza e quell' essenzialissimo istinto che solo, rigorosamente parlando, merita il nome di umano , potesse poi abbandonarne la luce e prendere nelle sue operazioni una direzione contraria, se non lo si sapesse dotato d' una libera volontà, potenza unica nel suo genere, e diversissima da tutte l' altre; chè l' altre tendono solo al bene di se stesse ed altro non possono; per la libera volontà l' uomo può scegliere ugualmente il bene ed il male, può operare così alla propria perfezione come al proprio deterioramento, può rivolgere le sue forze a conservarsi, od anche (quantunque nol possa pienamente conseguire) a distruggersi. Qualora dunque l' uomo coll' abuso di questa singolar potenza (nell' investigazion della cui natura i filosofi si sono di frequente smarriti come in un laberinto) abbia collocato se stesso di contro alla verità per combatterla, diventa necessario che egli consideri quella luce amica, come inimica, e non ravvisi più in lei se non una severissima legislatrice, una regnante crudele, di cui sente pesantissima e molestissima la servitù, e che non gli paia più d' esser libero se non allora, che se la sia tolta d' addosso. Ma il combattere contro la verità è in suo potere, il ritorsene d' addosso la servitù (quella servitù che s' è creata egli stesso) non è in suo potere. Poichè certo il potere dell' umano arbitrio non si stende fin quà: egli può determinare le operazioni dell' uomo e dar loro un avviamento ritroso alla verità, ma non può nulla sulla stessa natura umana, che è guardata dal Creatore; e in questa natura appunto, che sta nella mano dell' Onnipotente, è collocato, come in una rocca munitissima e indistruttibile, anzi inaccessibile a' suoi nemici, la verità; e quivi ella regna, o beneficando, anzi assumendo al proprio talamo i suoi fedeli, o castigando i ribelli. V' ha dunque una servitù della verità, ma sol per quelli che ricusano di partecipare delle sue nozze e del suo regno a cui son tutti invitati. Ma chi può regnare colla verità, il che è più ancora d' esser libero, e in quella vece elegge da se stesso d' esserle servo, anzi di que' servi che furono detti servi di pena, può egli lagnarsi d' una tale servitù volontaria, può dire che la verità e la conseguente giustizia tolgano all' uomo la libertà? Riassumendo dunque, noi vediamo, che, se si considera l' uomo in se stesso, la verità, che lo illumina e gli dà intelletto, impone una cotale servitù alle singole sue potenze, non all' uomo medesimo, a cui anzi mette in mano la libera signoria di queste, onde se ne giovi come gli piace alla propria grandezza. Che se poi si considera quell' uomo, il quale, ricusata questa signoria offertagli in dono dalla verità, preferisce di discendere e d' assudditarsi egli stesso al capriccioso istinto di qualche sua singolare potenza, alla quale, invece di comandare, ubbidisce, allora la giusta servitù della potenza ricade sullo stesso soggetto, cioè sull' uomo, che, servendole, si è reso volontario servo di questa serva. Ma cotesta maniera di bassissima servitù non viene dalla verità, ma dalla rea volontà dell' uomo medesimo, che l' antepose alla libertà. Non è un servire l' operare secondo la propria natura, chè questa forma d' operazione è anzi spontanea e dilettosissima; ma qui sta il concetto della servitù, che altri sia costretto ad operare l' opposto di quello a cui la sua natura propende. E l' unione intima dell' uomo colla verità è naturale, onde l' operare secondo questa unione è consentaneo alla libertà umana. Ma poichè la libera volontà può opporsi all' umana natura , quindi da essa procede la volontaria servitù dell' uomo; e stando la cosa così per colui che ritorce la terribile potenza della propria libertà contro se stesso, egualmente può dirsi, che quella servitù provenga dalla signoria della natura umana, e che provenga dalla signoria della verità; perocchè queste due sono una sola e medesima signoria. E come l' uomo, che si sforza di scuoter da sè la signoria della propria natura, tenta (benchè impotentemente) la propria distruzione, così l' uomo, che si dibatte per iscuoter da sè la signoria della verità, tenta la distruzione medesima. Onde chi non vuole esser servo della natura umana e della verità, diventi libero e signore, che ben lo può; non opponendosi a quelle, da quelle non dividendosi; ma rimanendo con quelle indiviso, regni liberamente e felicissimamente. E questo è il terzo aspetto nel quale noi ci proponevamo di considerar l' uomo: questa è quella condizione, che l' uomo trova quando alla verità ed al bene s' è interamente concorso. Nella quale alla verità non consegue alcuna maniera di servitù, non c' è nulla che costringa l' uomo, che lo leghi. Poichè non è legato colui, che, come dicevamo, fa sempre quello che vuole, il che avviene a chi non vuole altro che la verità e ciò che consegue alla verità; onde la verità ed il bene non è per cotest' uomo alcun giogo o peso, chè non può esser tale l' oggetto stesso de' suoi affetti, de' suoi desiderŒ, de' suoi voleri. Con quest' oggetto egli sente se stesso di sè più grande, da esso deriva e prende una potenza che gli si aumenta in mano di giorno in giorno, in esso trova un' immortale dilettazione, dove acquieta l' ardore dell' anima. La libera volontà di costui è in perfettissimo accordo colla propria natura, o piuttosto ella è la stessa natura nobilitata. Perocchè come la natura dell' uomo, dico la sua natura propria e specifica, consiste in una congiunzione e in un' immanente visione della verità, così la volontà rettissima non fa altro con tutte le sue operazioni che stringere, e perfezionare via più, e quasi consumare questo connubio, nel quale l' uomo più o meno perfetto sussiste. Laonde l' istinto della natura intera dell' uomo e la libera volontà, non avendo più scissura nè opposizione nè lotta di sorte alcuna, si unificano: e l' uomo è uno e perfetto. Il che veniva a significare molto altamente S. Paolo, quando diceva, che « « la legge non è imposta al giusto, ma agli ingiusti »(1). » Perocchè la legge non è qualche cosa d' opposto alla volontà del giusto; che anzi ella dice quello, che questa volontà vuole, onde in altro luogo l' Apostolo afferma ancora, che l' uomo che vuole il bene, è già egli stesso legge a se medesimo (2). Le singolari potenze possono sì nella loro cecità insorgere disgregate e mettere cotanta pace a cimento, tentando d' ingannare e di sedurre la volontà: ma, se questa s' attiene alla verità tanto fortemente che basti, ella le domina, e non riceve offesa da' loro assalti. Se poi la volontà cede per sua fiacchezza, non è questa colpa della verità, onde ogni valore ed ogni forza le deriva. Ma a questa stessa fiacchezza di volontà venne il Creatore in soccorso, e questo comunicando all' uomo di nuovo la verità, ma in misura più copiosa, in un modo più intimo, in una nuova forma più sublime, che non sia quella, in cui egli la consegnò prima universalmente alla natura umana; e così la libertà dell' uomo contro alla cieca violenza de' suoi particolari e parziali istinti fu guardata ed assicurata da Dio medesimo. Il quale diede una tanta promessa agli amatori della verità; quando disse: « « Se voi vi terrete nel mio sermone, sarete miei veri discepoli, e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi »(3) » La verità dunque lungi d' imporre per se stessa una servitù agli uomini, è l' unica causa della loro libertà, della qual libertà essi non rimangono privi se non allora che essi la ricusano, col ricusarne la causa. E nella verità tende tutta la Filosofia. Poichè, che altro vuole questo studio e quest' amore inquieto di sapienza, se non discoprire la verità, e discoperta contemplarla, e contemplata penetrarla più innanzi, quasi visitandola negli ultimi suoi recessi, dove ella più disvelata si manifesta, per ivi refrigerare la sete ardentissima, che n' ha l' umana natura, all' acque d' una più pura e più alta sorgente? Laonde s' egli fosse così, che la verità traesse seco una servitù del pensiero, che altro sarebbe lo stesso filosofare, se non un andare in cerca di servitù e di servitù sempre maggiore? E come si potrebbe allora esigere in coloro, che alle filosofiche investigazioni si danno, un libero pensare? Quanta e quale dunque non è la contraddizione di coloro, che, facendo pur encomio della libertà del pensare, temono poi della verità e della vera religione, che per avventura non la facciano loro perdere, e considerano meno liberi quelli, che più di verità possedono, e che son quindi più prossimi ad ottenere il fine della Filosofia? E quanto questa contraddizion così strana non si aumenta e moltiplica, allorchè s' ascoltano costoro lodare altamente, siccome liberi pensatori, quelli che si presentano al pubblico autori de' più sformati e stravaganti sistemi, accozzamento di delirŒ e di assurdi, pigliando essi per sicuro segno della libertà del pensiero la novità e il coraggio d' allontanarsi, delirando, dai veri i più consentiti dal genere umano, e di sottrarsi a questa luce quasi ad una volgare ed ignobile servitù, nella quale vivano abbietti gli uomini comunali! Così questi appunto, che sono gli schiavi dell' errore, si predicano i pensatori liberi, e le menti, che la verità ha fatte libere dall' errore colla sua luce e colla sua potenza ha rese signore delle passioni che diffondon le tenebre, si dicono schiave! Qui l' ingiustizia mentisce troppo apertamente a se medesima. Ma taluno dirà: « Voi asserite, che l' avere ricevuto nella mente delle verità, ancorchè ciò sia per modo di prevenzione, di pregiudizio, o di fede, non è una disposizione contraria ed anzi è favorevole al libero filosofare, perchè la verità non impone mai servitù, che anzi è quella che forma nell' uomo la stessa libertà, e fin qui niuna opposizione da parte nostra. Ma voi avete aggiunto, che nè anco le credenze cattoliche scemino la libertà al pensiero filosofico, con che avete supposto che tali credenze sieno altrettante verità. Ora tutti quelli, che non ammettono questa supposizione, vi negheranno la conclusione. » - La quale obbiezione, a buon conto, mi concede, che tutto ciò che dicevo, deve essere assentito senza difficoltà da ogni uomo che professa la cattolica religione; e qui già un gran numero di suffragi viene a confermare il mio ragionamento. Poichè la cattolica Chiesa dilata le sue tende fino ai confini della terra, ed accoglie sotto di esse, tutte o gran parte, le civili nazioni. Per verità un' udienza così numerosa, così civile, ed unanime può soddisfare, anche sola, un uomo che ragiona. Agli altri, cioè a quelli che non ebbero il dono della fede, o dubitano ancora della verità delle cattoliche credenze, io, unito con tutti i filosofi cattolici, volgerò la seguente comparazione: « Fatevi in una scuola dove si spieghi Euclide: voi ci giungete nell' atto, che il maestro dimostra agli scolari la proposizione dell' ipotenusa. Non essendo voi stato presente all' esposizione di tutta la serie delle proposizioni che la precedono, non potete raggiungere quella dimostrazione, che suppone conosciute ed ammesse per vere le altre proposizioni sulle quali ella si fonda. Ora voi vi fate a dire così al maestro: Io non posso assentire alla dimostrazione che voi avete data di questa proposizione, perchè voi ne supponete vere tant' altre, di cui non me n' avete dato alcuna prova. Voi dunque ve ne andate avanti siccome colui, che non adopera un pensiero libero, ma bensì legato da molte gratuite supposizioni. » Chiaro è che quel matematico risponderebbe subito al suo nuovo uditore in questa guisa: « Badate che siete voi quello che non procede con un pensiero libero da false supposizioni, voi che a torto supponete che io ammetta gratuitamente per vere le proposizioni che ho adoperate in ordendo la dimostrazione da voi udita: a voi par questo, perchè, non essendo voi intervenuto alle lezioni precedenti, non avete intese le prove, che di ciascuna di esse io diedi a questi miei discepoli. Se dunque a voi piace d' imparare la geometria, io m' offerisco d' insegnarvela per ordine in lezioni private, e di condurvi di proposizione in proposizione fino a raggiungere questi miei discepoli coi quali potrete poscia continuare lo studio. » A quest' uomo, che giudica di matematica per averne sentito a caso una sola lezione di mezzo al corso, e trova esser la mente del matematico schiava di pregiudizŒ, de' quali egli va liberissimo, è somigliante colui che si dà a credere che il filosofo cattolico ammetta gratuitamente le sue credenze, e queste sieno false, e però gli tolgano la libertà del filosofare la quale, come ci fu conceduto, non è impedita che dall' errore. All' incontro il filosofo cattolico, al pari dell' accennato matematico, reputa che non a sè manchi la libertà del pensiero, ma bensì a colui, che ignora la cattolica verità, e che, ignorandola, la tiene per vana: al quale solo insieme coll' ignoranza appartiene l' errore, che è l' opposto della verità e della libertà. E però egli fa appunto come quel matematico, riducendo la disputa ad una importantissima questione di metodo. Perocchè, come il matematico invitò quell' uomo, che volea incominciare lo studio della geometria dal mezzo invece che dal principio (ond' avveniva, che non gli paresse ben dimostrata la proposizione dell' ipotenusa, perchè ne ignorava le precedenti), lo invitò, dico, a riprendere la scienza dal suo principio; così il filosofo cristiano invita colui che nol crede libero pensatore perchè s' attiene alle credenze del cattolicismo, a discutere prima di tutto sulla verità di queste, e poscia ad accompagnarsi con esso lui nel cammino più innoltrato della Filosofia. Poichè questa appunto è la prima di tutte le discordanze e la fonte dell' altre tra i filosofi cattolici e i non cattolici, che reciprocamente s' accusano di non esser liberi pensatori, cioè la discordanza nel metodo. Il filosofo non cattolico vuole creare tutta intera la Filosofia, senza mai cercare se il cattolicismo sia un errore o una verità: e poichè egli la tiene per un errore, o n' ha almeno il dubbio, vuol filosofare con questo pregiudizio in capo senza discuterlo. L' ateo, molto più, vuol filosofare astraendo da Dio, che suppone non esistere, supposizione che egli pure ricusa d' esaminare, e che appunto perciò è un pregiudizio che egli manda avanti a tutti i suoi ragionamenti filosofici, quasi a capitanarli. Il filosofo cattolico vuole, con chi non ha la vera religione o ne dubita, che prima si ragioni sulla religione stessa, e si stabilisca se il cattolicismo è vero o no; perchè trovatolo vero, è con ciò stesso dimostrato ch' egli non arreca alcun nocumento al libero filosofare, ed anzi rende più facile e più sicura la soluzione delle altre filosofiche questioni. E il filosofo cattolico ha tanto diritto a ciò, quanto n' avea il matematico a volere che colui che bramava applicarsi alla geometria incominciasse l' Euclide da capo; perocchè con qual diritto può il filosofo non cattolico accusare il cattolico d' avere il pensiero inceppato e servo di preventive credenze, se non dimostra che queste sien false? e se non esamina nè manco se quelle siano ammesse senza alcun fondamento di ragione? Chè se sono vere e ragionevoli, certo non impediscono il pensiero dell' uomo, ma lo liberano dall' errore, e l' aiutano mirabilmente. Laonde anche il sommo filosofo di Tagaste diceva, che « « in quelli che ardono d' un grande amore per la verità perspicua, non è da riprendersi lo studio, ma da richiamarlo all' ordine » » cioè, al giusto metodo, « « in modo che incominci dalla fede e colla bontà de' costumi si sforzi d' arrivar dove tende » » cioè alla perspicua, o scientifica verità (1). Veramente ella è una manifesta prevenzione e una prevenzione erronea quella de' filosofi non cattolici, che pretendono d' assumere per cosa certa, che la fede cristiana sia del tutto cieca, una credenza prestata a caso, simile a quella, che la plebaglia accorda al loquace cerretano. Pure il loro pensiero è così fattamente schiavo di questo giudizio temerario, che non arrivano mai a sentire la necessità di sottomettere quella loro prevenzione ad un serio esame, onde ad essa non resta altro fondamento che l' ignoranza della religiosa dottrina e della cristiana fede. E` dunque ragionevole chiamarli prima di tutto a questa discussione; nella quale entrati con lealtà, non sarà difficile il convincerli prima di tutto, che l' intelligenza nell' uomo cattolico precede, accompagna, e sussegue la fede, di manierachè la fede cattolica non va giammai scompagnata dalla luce dell' intelligenza, quando, se più addentro è dato di penetrare, la fede stessa è una parte, la parte migliore di questa luce. E nel vero, i motivi della credibilità sono all' aperto, e a ciascuno è lecito, talor anche doveroso, sottometterli all' esame e alla prova del ragionamento. La religione cattolica poi in questa disamina non teme che una sola cosa, cioè che la discussione si faccia troppo leggermente, superficialmente, non bastevolmente accurata, paziente e profonda. Chè quanto quella discussione si porta più avanti, si conduce con maggior rigore, perseveranza, dottrina, tanto più si tiene sicura la cattolica fede d' uscirne vittoriosa, come sempre accade alla verità, che più è messa alla prova, e più viva luce trasmette; e solo allora non è veduta e abbracciata dagli uomini, quando la disprezzano, ed orgogliosi, con un sogghigno, senza guardarla in faccia, le passano avanti. Laonde è passata quasi in proverbio quella sentenza di Bacone, che una scienza superficiale (non mai priva d' allucinazioni e d' errori) ritrae gli uomini dalla religione, ma una profonda ve li riconduce. Che se i motivi di credibilità resistono saldissimi alla prova del filosofico ragionamento, e rimane vinto, che essi addimostrano la verità della rivelazione e del magistero della Chiesa che ne custodisce il deposito e agli uomini il propone e il comunica, sarà egli filosofo, sarà uomo ragionevole colui che rifiuta nondimeno d' ammettere per vera quella scienza, che esce, come da immediato suo fonte, non da una scuola umana, ma dall' intelligenza di Dio medesimo? In che modo il pensiero che cerca la verità, temerà di non esser più libero quando la trova nel suo più alto fonte? Come la Filosofia prenderà sospetto di un tanto acquisto, dopochè ella stessa n' avrà riconosciuto il fonte e la legittima derivazione ed accertate le prove? Chè nel vero, supposto che la Filosofia abbia trovati efficaci e concludenti gli accennati motivi di credibilità, pure con ciò ella ha imposto a se medesima il dovere di riconoscere per veri gli articoli della fede: ricusarli, la metterebbe in contraddizione, e la contraddizione distrugge la Filosofia. E` dunque per la necessità di conservare se stessa, che la Filosofia accetta la fede, di cui ha discussi i motivi. E parimenti, chi dirà che il pensiero tolga a se medesimo la libertà colle sue proprie, libere, e naturali operazioni, e col subirne le conseguenze? La prima di tutte le leggi del pensiero è la coerenza, chè l' incoerenza, in quant' è incoerenza, non è nè pur pensiero. Se dunque il pensiero, liberamente movendosi, è pervenuto a scoprire l' esistenza d' un' autorità divina e d' un magistero infallibile, egli con queste sue operazioni s' è messo nella necessità o di cessare d' essere, ovvero di assentire a tutto ciò che attesta quell' autorità, il che è quanto dire di credere. V' ha dunque una ragione che precede la fede, e il credere è anch' esso un atto del pensiero, che ubbidisce alla ragione, benchè non sia questo solo. Se facesse altrimenti, allora, e allora soltanto, il pensiero avrebbe perduta ogni sua libertà; poichè non ci potrebbe essere che una causa straniera che gl' impedisse il suo proprio atto, cioè di far quello a cui la sua natura lo determina; e questo appunto è servitù, non potere operare come inclina la propria natura, per un ostacolo, che l' agente incontra fuori di sè al suo svolgimento. Ma non tutti, direte, prima di prestare la fede, esaminano filosoficamente i motivi di credibilità - Sia, se così volete; ma che un gran numero di quelli che ricevono l' evangelica predicazione, ne esaminino o no i fondamenti, quest' è una questione affatto aliena dall' argomento: noi parliamo di ciò che può fare il filosofo, se lo vuole: e basta che lo possa, perchè cada in nulla l' accusa di coloro che dicono, il filosofo cattolico non poter conservare la libertà del suo pensiero. Tuttavia su di questo stesso mi sia permesso frapporre alcune parole. Io richiamo anche qui l' obbiettante a una questione preliminare di metodo. Sieno discussi avanti ogn' altra cosa i motivi di credibilità, e suppongasi che da questa discussione risulti la loro validità, rimanendo così provato, che i dommi cattolici sono altrettante verità. Conosciuto questo, un' altra questione si presenta, di natura totalmente filosofica: « Come l' uomo conosce la verità? C' è un solo modo di conoscerla? E quest' unico modo è forse quello della discussione filosofica, dell' esame condotto a regolo e forma di scienza, di maniera che ad ogni uomo che non è filosofo, o che non s' è applicato alle scienze (e in questo caso si trova il più degli uomini) rimanga precluso interamente l' adito alla verità? E (quello che ne consegue), che quasi tutto il genere umano, eccettuati i pochissimi scienziati, sia condannato negli argomenti più importanti e più necessari al fine dell' umana natura, ad una di queste due cose, all' ignoranza, o all' errore? perchè tolta la verità, questi due mali rimangono ». Ed io credo che può rinunziare alla Filosofia colui che risolve questa questione affermativamente; chè al buon senso ha già rinunziato: credo che se la Filosofia, intendo quella che ha vestito forma di scienza, tanto si restringe, tanto si divide dal genere umano, che si persuada in sè sola contenersi tutta la verità e la certezza, nella gran maggioranza degli uomini non rimanerne un minuzzolo, quella non è più Filosofia, ma invece di Filosofia un' ignorante baldanza che n' ha preso il nome e l' acconciatura. Ma se pure si danno di costoro, i quali abbiano cotanto impacciato il pensiero e da una così ingiusta prevenzione legato, sieno filosofi o no; si può ragionare anche con questi, purchè vogliano veramente seguire quel ragionamento tirato a filo di scienza, al qual solo s' affidano, o piuttosto dicono d' affidarsi. Perocchè appunto con esso quel ragionamento scientifico, in cui ripongono tutta la causa della verità, si devon condurre a istruirsi meglio intorno alle proprietà ed alle operazioni della mente umana, colla qual maggiore istruzione dismettano quell' errore. Chè una credenza così erronea, così ingiuriosa all' umanità, non ha la sua origine nella scienza, ma nell' ignoranza della natura dell' intendimento umano, e delle vie più segrete, per le quali egli alla verità si congiunge. E di vero un' investigazione profonda dell' intendimento conduce a riconoscere, che v' ha indubitatamente una prima verità, la quale comunica senza mezzo con tutte le menti, e questa è l' essere stesso nella sua essenza indeterminata, e nella sua forma ideale. La quale notizia prima ha l' uomo per visione, non per ragionamento, come quella appunto che non ha bisogno di mezzo termine. E chi ne dubitasse, e al ragionamento volesse appellarne, la stessa natura del ragionamento, diligentemente perscrutata, lo convincerebbe che la cosa è così; perocchè il ragionamento non può esistere da sè solo, ma da quel primo vero immediatamente intuìto procede, e, tolto via questo, esso è estinto prima di nascere, come in vano supporreste esistenti i colori de' corpi, se prima di fare questa supposizione, aveste negata la luce. E che fa mai il ragionamento, qual è il suo ufficio, a che s' estendono le sue forze? Non ad altro che a dedurre una verità da un' altra anteriore, per mezzo d' una verità media. Ora quella verità anteriore dove si prende? vorremo procacciarcela per via d' un altro ragionamento? E bene, in tal caso noi la dedurremmo da un' altra verità: se ripetiamo lo stesso discorso anche su l' origine di questa, ad un' altra ci troveremo condotti più lontana; ma così risalendo di verità in verità e di sillogismo in sillogismo, o non ci potremo mai fermare, o dovremo posare il piede in una prima verità, non dedotta dal ragionamento, ma nota per se medesima, come luce immediata della mente. Ora ci atterremo noi al primo braccio di questo dilemma? Il solo tentarlo è un cadere in molti assurdi: poichè se così fosse, ogni ragionamento sarebbe impossibile, e non ci somministrerebbe mai alcuna certa verità. Sarebbe impossibile, perchè supporrebbe un infinito numero di sillogismi conchiusi prima di venire all' ultima conclusione; chè la verità, da cui si toglie a dedurne un' altra, sarebbe ella stessa dedotta da un' altra, e questa da un' altra, e questa da un' altra di nuovo all' infinito. Ora l' uomo è consapevole a se stesso, che niuna delle verità che egli conosce gli costa tanto, e che a niuno di que' sillogismi, co' quali egli ha stimato conoscere qualche verità, ne ha premesso altri infiniti, nè riputò mai esservene bisogno. Di poi, dato anche che l' uomo spendesse tutta la sua vita quant' è lunga a comporre una catena intrecciata di sillogismi, questa catena gli si spezzerebbe in mano colla morte, e così non sarebbe più infinita, e perciò egli non sarebbe arrivato in tutta la vita sua a pur conoscere la minima delle verità. Facciamo l' uomo immortale, e apparirà ancor meglio l' assurdo dell' ipotesi che la verità non si possa conoscere, se non per la via del ragionamento. Dato un uomo che non muoia mai, quand' anco egli in altro non s' occupi che in infilare l' un nell' altro sillogismi, mai non giungerebbe nè manco quest' immortale al termine dell' opera, cioè ad averne infilato quel numero, di cui egli abbisogna per conchiudere con efficacia ad una sola verità, poichè quel numero dovea essere infinito. Che se egli venisse a capo di questo lavoro, la serie de' ragionamenti avrebbe trovato il suo termine, e così non sarebbe più infinita. Onde se ogni verità ha bisogno d' esser provata col ragionamento, niuna verità si può provare; non trovandosi mai in questa deduzione la prima verità da servire di fondamento a tutte l' altre susseguenti: e non solo non si trova, ma nè pure esiste; chè a poter esistere avrebbe bisogno che l' eternità fosse tutta scorsa, e l' eternità non si può scorrere tutta, senza che cessi di essere eternità. Mancherebbe dunque sempre il primo anello della catena delle verità, niuna di esse potrebbe conoscersi dall' uomo, niuna dimostrarsi: chi introduce la verità in questo labirinto, l' ha trasformata in un assurdo, e quella che è per natura sua necessaria, l' ha perduta nell' impossibilità. Dicevo dunque che il ragionamento senza qualche verità precedente, la cui cognizione da lui non dipenda, o è impossibile, o almeno non ci può fornire alcuna certa verità. Impossibile, se si vuole spingere all' infinito la serie de' sillogismi, e fu dimostrato pur ora; non ci può fornire alcuna certa verità, se fermando la serie ascendente de' sillogismi in una prima proposizione, poi si neghi che questa risplenda all' intelletto, come un vero per sè evidente, e si sostenga che quella proposizione, più o men rimota in cui è giocoforza fermarsi, non abbia veruna autorità, e si ammetta soltanto per la necessità che a ciò costringe, come un postulato gratuito, o come un pregiudizio di cui non si può rilevare il valore. Con questo colui che avea cominciato a proclamare il ragionamento qual unico mezzo di conoscere la verità, avrebbe finito, non volendolo e non accorgendosene, col trovarsi divenuto uno scettico: colui, che per mantener libero il pensiero, l' avea affidato alla sola scorta dell' argomentazione ricusando d' ammettere qualsivoglia verità non dimostrata per essa, scorgerebbe d' avere legato mano e piedi il suo pensiero medesimo, fino a renderlo impotente a conoscere cos' alcuna, resolo non solo schiavo, ma scimunito. E questo non è tanto ciò che si prova dover conseguitare dialetticamente, quanto quello che si vede avvenuto; è la storia della moderna filosofia, cioè di quella che i moderni s' ostinano a chiamare Filosofia. Non vediamo noi i filosofi della Germania per un lunghissimo e tortuosissimo cammino aver condotto il pensiero umano in trionfo al suo estremo supplizio? Perocchè l' ultima conclusione de' loro infaticabili studii si fu che la ragione teoretica è impotente a conoscere qualunque siasi verità in se medesima, col qual decreto vericida hanno chiusa ad un tempo stesso la loro rivoluzione filosofica, e finita la filosofia. Di poi hanno tentato di farla risuscitare (perocchè in qual maniera può contentarsi l' uomo di esistere senza la verità?), e sono perciò ricorsi alla ragione pratica , cioè ad una ragione, che assume de' postulati senza poterli dimostrare, per aver qualche punto, in che possa insistere, non tanto il pensiero, quanto l' azione degli uomini; parendo loro più facile rinunziare a quello che a questa. Sono dunque ricorsi ad una cosa indimostrata, non più ad una verità; sono ricorsi ad una ragione, che ha bisogno d' un epiteto per esser ragione, ed è quanto dire ad un fantoccio di ragione messo sul trono, acciocchè, per la grazia dei filosofi, regni, ma non governi; sono ricorsi ad una ragione fatta da loro a mano, schiava della più crudele necessità, dopo aver espulsa la ragione libera e veramente regina. Ecco quello che è avvenuto; ecco quello che doveva avvenire dall' aver posto il principio, che il pensiero non è libero, se non s' affida interamente al ragionamento senza una verità primordiale, che guidi come face luminosa ogni ragionamento. Convien dunque riconoscere, che questi nuovi maestri degli uomini hanno incominciato i loro studŒ da una gratuita ed erronea prevenzione, per la quale hanno accordato al ragionamento maggiori forze ch' egli non s' abbia; che essi dunque non furono filosofi liberi, ma legati e veramente pregiudicati. Convien riconoscere che il ragionamento non è l' unico nè il primo mezzo di conoscere la verità; ma che o avanti il ragionamento ce ne devon essere degli altri, oppure la è finita della verità e della certezza, e molto più della filosofia, e l' uomo si dee rassegnare a rinunziarvi in sempiterno. Ma quello che, considerando l' impotenza del ragionamento di dar fondamento da sè solo alla cognizione umana ed alla certezza, noi induciamo dover essere, quello stesso troviamo che è, osservando e perscrutando con diligenza l' essere, e il fare dell' umana intelligenza. Imperocchè con questa diligente perscrutazione, noi prima intendiamo, che, avanti il sillogismo (alla qual forma si riduce ogni ragionamento), l' intendimento umano pronuncia i giudizŒ, e avanti i giudizŒ, egli vede le idee, senza la qual vista i giudizŒ non si possono pronunziare, come senza aver questi pronunciati non si possono ordire i sillogismi. E poichè le idee composte da' giudizŒ stessi ci vengon date; dunque è da conchiudersi, che anteriori ai primi giudizŒ non sono che le idee semplici, e cercando quali queste sieno, se n' ha per risultamento che una sola di esse è tale, e questa è l' idea dell' essere; di cui investigando poi la natura, rilevasi, che ella a tutti i giudizŒ precede, di nessuno abbisogna, ai giudizŒ tutti è ella stessa così necessaria che senz' essa nessuno è possibile, nessuno concepibile. Quest' idea dunque è la prima di tutte, quella in cui affissando l' occhio della mente, l' umano soggetto può giudicare e raziocinare, onde perciò egli attigne l' intelligenza: noi abbiamo dunque trovato in essa il lume della ragione , la forma oggettiva dell' intendimento: l' uomo crede a questo primo vero, non può non credervi, perchè è pura luce, e da quest' atto di razionale credenza ogni ragionamento toglie tutto quel valore che ha, ivi incomincia l' attività razionale, ed ivi pure finisce. Applichiamo questa dottrina a provar quello che ci proponevamo. Quell' Essere, che ha formata l' umana natura concedendole d' intuire, con certa limitazione, la luce della verità, e così rendendola intelligente, voglia comunicarle un' altra parte di verità, un altro grado specifico di quella luce. Non sarebb' egli verosimile, ed anzi indubitato, che quest' Essere che appieno conosce la sua fattura e che vuole in essa aggiungere verità a verità, la illustrerebbe con un ordine simile e del tutto rispondente a quello, secondo il quale l' ha creata, e quindi medesimo non affiderebbe già la nuova porzione di verità di cui la vuole arricchire, al ragionamento, ma sì bene a quella prima facoltà che al ragionamento ed allo stesso giudizio precede, e in cui, come abbiamo veduto, il giudizio ed il ragionamento si fondano? Anzi, a vero dire, egli non potrebbe far altro; chè il ragionamento non crea la verità, ma la deduce, e il giudizio non la crea neppur egli, ma la analizza e la connette. Onde, qualunque perfezione s' aggiungesse al giudizio o al ragionamento, non sarebbe mai un aumento di verità, non sarebbe che la deduzione di un vero dall' altro resa più sicura e più celere, sarebbe il vero stesso veduto da più lati e nelle sue relazioni: nessuna porzione di verità nuova sarebbe per questo aggiunta all' uomo. Il giudizio, e il ragionamento, come risulta da ciò che abbiamo detto, sono facoltà che altro non fanno che congiungere in nuovi modi l' uomo alla verità che già possiede, senza accrescergliela, gliela scompongono, questa verità, in varie parti, gli collegano queste parti a diverse connessioni, sicchè le une si vedano scorrere da altre, ciò che dà all' uomo una cognizione più esplicita, più viva ed efficace della verità, ma ne lascia uguale la sostanza e la misura primitiva all' uomo conceduta. Egli è dunque manifesto che Dio stesso non potrebbe comunicare all' uomo una nuova parte sostanziale di verità, se non l' aggiungesse a quell' altra parte di essa che l' uomo possiede per natura, continuando l' edifizio a quel punto dove l' ha lasciato, se non la confidasse a quell' intuizione intellettiva, che ogni altro atto di ragione precede, precede ogni giudizio, precede il ragionamento. Ora quello che ho supposto che Iddio volesse fare, co' motivi di credibilità di cui abbiam parlato, si prova al filosofo che l' ha fatto veramente. Almeno questo è il metodo, a cui noi abbiamo richiamato, o invitato il nostro filosofo. L' abbiamo invitato prima a discutere sui motivi di credibilità; trovato poi che questi sono efficaci a dimostrare l' esistenza d' una divina rivelazione, contenente una nuova porzione di verità, che non è all' uom visibile per natura, e che perciò dicesi soprannaturale , e con essa l' esistenza d' un visibile e permanente magistero, che ne conserva intemerato il deposito acciocchè non perisca sopra la terra; l' abbiamo condotto a cercare come Iddio poteva fare che gli uomini ricevessero nel loro spirito quella nuova porzione di verità contenuta nella detta rivelazione, e quindi vi assentisser coll' animo; e abbiamo conchiuso, che non potea farlo in altro modo, se non illustrando egli stesso lo spirito umano con una nuova luce, onde prendesse poi origine una nuova serie di giudizŒ, una nuova serie di ragionamenti, diversa da quella serie di giudizŒ e di ragionamenti, che prendono il loro movimento dalla prima porzione di verità, data all' uomo nella formazione della sua natura. Ed ora qui badate bene che non sono più io, ma è la stessa Religione cristiana, che spiega se stessa in questo modo. Ella si presenta appunto all' uomo come un lume primitivo, intimo, nuovo, che illustra in segreto il fondo dell' anima in un modo simile a quello che fa il lume della ragione, onde i cristiani si dissero sempre, fino dal primo tempo in cui fu annunziato il Vangelo, illuminati ; e il Battesimo, rito scelto dall' Onnipotenza divina qual mezzo ordinario a dar questo lume, si disse illuminazione ; e a questo lume che si comunica ugualmente a tutte le età dell' uomo, si attribuì sempre l' origine della potenza di giudicare e di ragionare sanamente nell' ordine delle cose della salute eterna, che eccedono la natura. A qual filosofia è venuto mai in mente una cosa simile? qual religione si è mai presentata agli uomini sotto la forma di un lume così misterioso ad un tempo, e così ragionevole? Anzi qual religione si è rivolta all' umana essenza e ha dichiarato d' esercitare su di lei una potenza che la migliori e che la sublimi? Tutte, dalla prima all' ultima, le religioni, o veramente le superstizioni inventate dagli uomini si sono indirizzate all' adulto e non al bambino, hanno rivolto il loro discorso alle potenze , all' immaginazione, ed al ragionamento, niuno di esse ha mai osato, ha neppur pensato, di poter entrare e collocare la sua radice nella stessa natura intellettiva dell' essere umano e di là, da quel fondo dove non penetra che il Creatore, regnare sull' uomo, rigenerare coll' uomo tutte le sue potenze. Laonde tanto è lungi che possa farsi al Cristianesimo un' accusa del non rivolgersi egli esclusivamente e immediatamente all' umano ragionamento, ma a quel più recondito principio onde ogni ragionamento deriva e mutua la propria luce, che anzi questo, chi bene il considera, è un palmare argomento della sua divinità, come il non aver saputo, nè potuto osare, nè promettere, nè pensar tanto le altre religioni, è un argomento palmare, che sono invenzioni umane (1). Alla qual conclusione pervenuto, il nostro filosofo non ci domanderà più: « perchè molti credano alla cattolica predicazione senza aver prima esaminati i motivi di credibilità »; chè a questo saprà rispondersi da se medesimo. E per rispondersi non avrà neppure bisogno di considerare, che certi miracoli, certe profezie, ed altri tali motivi possono essere riconosciuti come argomenti legittimi, e a sufficienza efficaci anche dal comune degli uomini, senza che vi spendano un lungo esame; chè anzi di tali argomenti appunto perchè più spediti e manifesti, volle Iddio che non mancasse la rivelazione che egli faceva al genere umano: tutto ciò sarà trapassato dal nostro filosofo come un di più, come una conferma della più diretta e più intima risposta, che da se stesso saprà fare a quella sua interrogazione. Perocchè, se l' uomo quando appena apre gli occhi alla luce, già incomincia a giudicare dell' esistenza delle cose esteriori che gli feriscono i sensi, e non s' inganna; ed egli fa questi giudizŒ, dà questi assensi alle percezioni sensibili, perchè, intuendo egli per natura la luce dell' essere, conosce l' essere, e sa di conseguente, che tutto ciò che agisce su di lui, non può esser altro che essere, e i vari modi, e gruppi separati e specifici di nuove sensazioni che esperimenta, non indicar altro che altrettanti esseri; così somigliantemente l' uomo che apre gli occhi dell' intelletto all' evangelica predicazione, vi può e vi dee dare l' assenso, senza passare pel mezzo di alcun ragionamento, avendo già in se stesso il criterio che gli fa discernere immediatamente il vero ed il falso nell' ordine soprannaturale; il qual criterio è quella nuova visione di verità, come dicevamo, che Iddio discuopre per grazia all' intelletto, la quale, eccedendo la verità naturale, è una cotal nuova forma di verità che dicesi soprannaturale, principio e base d' un nuovo ragionamento. Laonde a quest' interna illustrazione della mente cristiana richiamandosi S. Agostino, con frequenza dice di non potere aprire il secreto delle verità rivelate, se Iddio stesso da dentro non lo aiuti (1). Che se si vuole investigare che cosa sia quest' altra porzione e forma di verità sopraggiunta alla naturale, non cadrà lontano dal vero chi la definisca: « un' intima notizia di Dio medesimo »; il quale è la sussistente verità. Laonde, come col sapere già prima per immediata intuizione che cosa è l' essere, l' uomo acquista la potenza di giudicare dove sia un essere, e che cosa all' essere appartenga e convenga, e che cosa all' essere ripugni; alle quali cose si riducono tutti i naturali giudizŒ: così somigliantemente con quell' intima notizia di Dio che è data all' uomo per immediata e graziosa percezione, egli acquista la potenza di giudicare dove sia la parola di Dio, e se le cose annunziate e predicate a Dio appartengano e convengano, o a Dio ripugnino, alle quali cose si riducono i giudizŒ soprannaturali che fa l' uomo, quando accoglie liberamente l' evangelica predicazione, e rigetta ogni altra che sia superstiziosa o profana. Che se il nostro filosofo continuerà i suoi studŒ su questa via, e, non lasciandosi legare e impedire dall' erronea prevenzione di sapere quello che egli non sa, indagherà più a fondo il mistero della cognizione umana (argomento del tutto filosofico), perverrà a convincersi, che l' uomo, anche il più idiota, non solo pronuncia de' retti giudizŒ, ma ben sovente li pronuncia come conseguenze de' suoi segreti e rapidissimi ragionamenti; e che perciò v' ha una maniera di ragionare naturale e propria degl' idioti, d' una forma sintetica, che conchiude con uguale, se non anco talora con maggior sicurezza, di quella dell' uomo dotto, al quale non par di pensare, se non analizza e divide ogni sua argomentazione in varie proposizioni, e se non le pronuncia tutte ad una ad una; quando l' uomo della plebe le trascorre con uno sguardo mentale, e, all' insaputa degli altri e di se stesso, afferra in un baleno la conclusione, che sola pronuncia e sola sa pronunziare. E sapendo questo, il nostro filosofo non affermerà più con tanta sicurezza, com' egli faceva, che la moltitudine suol dare l' assenso all' evangelica predicazione senza motivi di credibilità, o senza avervi adoperato il ragionamento; perchè vedrà esser troppo possibile, anzi certo, che molte volte vel dee avere usato, benchè non a modo degli scienziati, ma al suo proprio, non meno valido: essergli poi del tutto impossibile l' affermare che non ve l' abbia usato. Laonde l' uomo che filosofa di buona fede con questa discussione si potrà facilmente convincere, che le credenze della cattolica religione non iscemano la libertà del filosofare, perchè questa non viene scemata, se non da quell' ingombro, che gli errori fanno alla mente. Ora se egli discute i motivi di credibilità, i quali non ricusano alcun ragionevole esame, e se li trova efficaci, è già obbligato a conchiudere che quelle credenze non sono erronee, ma altrettante verità. Nè queste verità potrebbero impedire il pensiero, nè manco se fossero ricevute dagli altri uomini a modo di gratuite prevenzioni, perchè non cesserebbero per questo dall' esser vere, e il vero, lo diremo ancora, non può nuocere al vero. Ma questo stesso è un pregiudizio erroneo di molti di quelli che si dicono filosofi liberi, il credere cioè che sieno così ricevute; quando in quella vece gli uomini che prestano il loro assenso alla predicazion del Vangelo, hanno a guida, come abbiamo detto, una luce interiore, che dà loro quasi un senso intellettuale a percepire e gustare la verità, che in essa si trova, ed una facoltà di pronunciare veritieri giudizŒ, di ordire altresì sui motivi d' assentirvi efficacissimi, benchè complessivi, ragionamenti. Nè mai la fede, o la Cattolica Chiesa che la propone, ha messo limiti al pensiero, ma solo ne ha proscritto l' abuso, che non è altro che un impedimento del pensiero medesimo. Anzi i Padri della Chiesa hanno trovato nella fede cristiana uno stimolo, dirò di più, un' obbligazione di svolgere più ampiamente, che non sia stato mai fatto prima di essi, l' intelligenza; non già temendo le conclusioni che ne potessero uscire, quasi alla fede potessero esser contrarie, certi anzi di trovarle sempre alla medesima fede consonanti, di scoprire testimonianze nuove a favore di essa, luce aggiunta a luce, da rendere il giorno più chiaro. Arrecherò a conferma di ciò la sola testimonianza dell' Aquila de' Padri latini. Il quale in una sua lettera riprende gravemente Cosenzio, che voleva fare andar la fede da sè, disgiunta dalla ragione; e fra l' altre cose gli scrive così: [...OMISSIS...] La fede dunque non può stare senza la ragione, di cui è la luce completiva, come il perfetto non può stare senza il suo rudimento, quantunque la ragione naturale, appunto perchè rispetto alla fede è un cotal rudimento, può stare senza la fede. E però l' effetto della fede cristiana introdotta nel mondo fu quello di dare uno inaspettato, maraviglioso, infinito sviluppo alla ragione umana, e di mutar faccia alle nazioni che l' abbracciarono, mettendo nelle mani di queste lo scettro di tutta la terra, uno scettro non materiale che facilmente si spezza, ma spirituale, che dominando la materia, non ha da temer nulla da essa. E di che s' insuperbisce cotanto oggidì il genere umano se non di quella civiltà, che nelle sole nazioni cristiane ha il suo seggio, e il suo stabile domicilio? E guai ad esse se s' insuperbiranno troppo di quella luce, che esse debbono all' umiltà della fede! Chè la superbia adduce seco l' ingratitudine; e dove in queste ingiustizie insolentiscano [...OMISSIS...] potrà loro accadere che di quello splendido effetto, che fa lor nascere per vana gloria il capogiro, perdano la causa, cioè la fede; e la perenne sorgente della civiltà stessa e della luce inaridisca nel mezzo di loro. Tant' è lungi dunque che la fede cristiana tolga la libertà alla ragione, e le impedisca di svolgersi, che anzi quella aggiunse agli uomini uno stimolo fortissimo all' onesto e legittimo uso di questa, vi aggiunse un' obbligazione novella di trafficare con più industria e sollecitudine quel talento, pel quale, come dice S. Agostino, Iddio li creò più eccellenti delle bestie e simili a se stesso, e coll' uso del quale devono dalle cose animalesche dividersi, ed avvicinarsi alle divine, dove sta la causa della loro dignità. La ragione da quell' ora potè camminare più sicura, perchè più robusta, e mutò i passi vacillanti di un bambino in quelli di un gigante: la nuova luce divenne il criterio, e quasi il paragone dell' antica, e non solo questa sentesi più coraggiosa in tal compagnia, ma ben anco di più acuta vista, e chiaroveggente. Laonde le stesse verità che appartengono alla ragion naturale entrata la fede nel mondo, divennero più luminose, e talora così evidenti da divenire un problema per noi difficile a sciogliersi, come prima o non sieno state vedute dagli uomini, o abbian potuto sembrar loro dubbiose. Ed è un' osservazione fatta più volte, e facile a farsi, che gli scrittori gentili di morale, che fiorirono dopo Cristo, si vantaggiano immensamente su tutti quelli che fiorirono innanzi. Chè quantunque non ricevessero la fede, e però rimanessero ciechi alle verità soprannaturali, tuttavia parteciparono di quello splendore, che la fede stessa avea diffuso sulle verità naturali. Perocchè nel Cristianesimo si contengono le une, e le altre, le naturali, e le soprannaturali, e la fede che raggia di sè queste ultime, illumina quelle prime. Laonde anche al presente quelle nazioni che rimangono fuori della Chiesa, quanto si trovano collocate più da vicino alle nazioni cristiane, tanto più prendono del riflesso, che manda loro il lume del Cristianesimo, e s' avvera anche in questo modo la profezia d' Isaia, che dopo aver invitato il Salvatore a sorgere come il sole sopra Gerusalemme, aggiunge, che le genti cammineranno al suo lume, e i Regi allo splendor del suo nascere (1). Ma a chi, anche dopo tutto ciò, dubitasse non forse la fede ponga qualche impedimento al libero esercizio della ragione, io favellerei in questo modo: E` chiaro che dalla fede non può venir alcun impedimento alla ragione, se qualche principio, o deduzione di questa non si trovi in contraddizione con qualche articolo di quella. Perocchè qualora niuna contraddizione intervenga, è necessario che o tutte e due, la fede e la ragione, camminino di conserva, e riescano alle stesse verità, o che l' una non s' incontri sulla stessa strada coll' altra, e quindi non s' urtino, nè s' impediscano. Se vanno di conserva alle stesse verità, invece che l' una pregiudichi all' altra, si giovano reciprocamente: se vanno scompagnate, di maniera che l' una investighi un ordine di verità, e l' altra ne proponga un altro, ciascuna allora compie l' opera sua indipendentemente, e liberamente, senza possibilità di conflitto. Perocchè non possono cadere in conflitto, e in contraddizione, a ragion d' esempio, due matematici, che risolvano due problemi diversi, ma bensì due che risolvono lo stesso problema in modo diverso. Ora in questi diciannove secoli da che il Vangelo fu predicato nel mondo, e ne' quali la ragione fu in continuo esercizio, e fruttò tante scienze e tante scoperte, quante non ne diedero i quaranta secoli anteriori a Cristo, in tutto questo tempo dico, dove la fede cristiana ebbe a lottare con ogni maniera di nemici, e con tutte le cavillazioni, che seppe trovare lo spirito dell' empietà, comparve mai una contraddizione certa e dimostrata fra una verità di ragionamento, e una verità di fede? Mai. Furono bensì prodotte delle apparenze di contraddizione, delle conghietture: ma messe ad un serio esame, tutte si trovarono, si dimostrarono vane ed illusorie: non v' ebbe una sola delle credute contraddizioni, che sia stata riconosciuta tale, e che abbia avuto l' assenso concorde degli intelligenti. Che se questa ci fosse, o ci potesse essere, è egli verosimile che in tanti secoli, con tante prove, con tanti sforzi d' ingegni ostili al Cristianesimo, non si sia trovata, non s' abbia potuto rendere evidente ed irrecusabile? Nè pur una sola? E a malgrado che il Cristianesimo insegni senza esitare, e senza investigare, tante cose le più sublimi, cose nuove, che non furon mai dette prima e non le insegni come conghietture, al che solo arrivava l' ardire de' più gran filosofi, quando toccavano di quelle cose, ed anzi non tema di rispondere subito e francamente a qualunque questione riguardante i supremi destini dell' umanità? non s' abbia potuto trovare una contraddizione del cristianesimo nè con se stesso, benchè egli non muti dottrina giammai, e perciò non ritratti, non nasconda mai nulla di sè; nè colla ragione, benchè sotto la sua influenza si sviluppi del continuo, e faccia nuove scoperte, ed abbia anche frequente bisogno di emendare i suoi risultamenti, i quali così si mutano e si accrescono di secolo in secolo? Tant' è! Tutti gli sforzi per cogliere il cristianesimo in una sola contraddizione con se stesso, o co' principŒ della ragione, o colle necessarie lor conseguenze, sforzi mille volte ripetuti, tornarono affatto inutili, rimasero solo argomento palmare dell' ignoranza e della fallacità di que' sapienti del secolo, che li facevano; a tale, che quantunque degli increduli ve n' abbiano sempre, perchè Iddio lasciò l' uomo libero di dare, o negare l' assenso alla fede, volendo dagli uomini un ossequio spontaneo, e lor proprio; tuttavia essi non sogliono più assalire seriamente da questo lato la cristiana, e cattolica religione, non più tentare di mostrarla in conflitto colla ragione, sfiduciati di poter indicare una sola contraddizione fra essa, e i dettami certi della ragione. E pure il cristianesimo si è presentato al mondo in modo assoluto, dicendo implicitamente agli uomini: « Se voi potete trovare una sola contraddizione vera, e apoditticamente provata, rigettatemi. » Questo è il patto sottinteso, dirò così, anzi è la sfida che fanno tutti i Teologi cattolici ai filosofi, e ai sapienti del secolo, e il patto fu sempre mantenuto, e per quantunque que' filosofi si limassero il cervello per trovarli in fallo, non ne sono mai venuti a capo, come dicevamo; i teologi hanno sempre vinto pienamente quella sfida. Odasi che cosa accorda alla ragione S. Tomaso: « « Quelle cose che sono insite naturalmente alla ragione, è noto che son verissime, di maniera che non è nè pur possibile di pensare che sieno false »(1) », e un commentatore osserva qui, che « « ne' primi principŒ è virtualmente contenuta la notizia di tutte l' altre cose conoscibili coll' investigazion naturale »(2): » di che consegue, che il non contraddire alla ragione s' accetta dai cattolici come una condizione indispensabile e necessaria alla fede, e si concede, che se questa contraddicesse a' primi principŒ della ragione, e alle conseguenze da questi logicamente dedotte, non si potrebbe dagli uomini ammetter per vera. Che si vuole di più? E quel grande dottore delle scuole cristiane conferma la stessa condizione con quest' altro principio: « La cognizione de' principŒ noti per natura è in noi inserita da Dio, il quale è l' autore della nostra natura. »Di che consegue, che la fede cristiana non verrebbe da Dio se ella fosse in contraddizione con que' principŒ della naturale ragione, o colle loro conseguenze. Lo stesso egli argomenta dall' assurdo che ci avrebbe, qualora Iddio dopo aver dato all' uomo la ragione, gl' imponesse una fede contraria alla medesima, guastando così l' opera sua, cioè impedendo l' intendimento umano dall' emettere i naturali suoi atti, e quindi dal pervenire alla verità, perocchè « contrariis rationibus , » dice sempre S. Tomaso, « intellectus noster ligatur, ut ad veri cognitionem procedere nequeat . » Laonde, secondo i cattolici, la libertà intera lasciata alla ragione è una condizione necessaria della verità della fede, perocchè quando la fede si dovesse tener per divina, benchè in contraddizione colla ragione, s' imporrebbe all' uomo un' obbligazione impossibile, ed anzi si legherebbe del tutto la sua attività razionale; chè egli non potrebbe determinarsi a prestare l' assenso nè all' una, nè all' altra, così rimanendosi privo del vero; non alla fede, essendo impossibile all' uomo il rinunziare ai principŒ della ragione; non alla ragione, non potendo egli opporsi alla fede, nell' ipotesi, che fosse tuttavia divina; non ad entrambi, perchè in contraddizione; [...OMISSIS...] Ella stessa dunque, la religione cristiana, professa prima di tutto di non essere in contraddizione colla ragione: ella stessa c' insegna, che quando una religione qualunque si potesse convincere di contraddizione co' principŒ della ragione, o colle loro legittime conseguenze, sarebbe falsa, non sarebbe religione, ma superstizione: ella stessa ci dà in mano questo criterio per distinguere le religioni false dalla vera; con questo criterio appunto ella convince l' altre religioni di falsità, e contro i sofisti, che si assottigliarono per mostrare in essa una tale contraddizione, si difende, e si è sempre difesa colle sole armi della ragione, dimostrando efficacemente, che quella pretesa contraddizione che le si opponeva non era tale per modo alcuno, di maniera che la necessità della concordia della ragione colla fede, è insegnata dalla stessa fede, è un punto essenziale della religione, e la Chiesa cattolica diffinì questo punto anche nell' ultimo concilio di Laterano. Laonde quelli che credono alla fede cristiana, credono necessariamente anche alla ragione, e nello stesso tempo che essi, fermi nella loro fede, ritengono e sanno, che qualunque affermazione contraria alla fede è per ciò solo falsa, non dubitano punto di dire a quelli che non credono: « Se voi giungete a dimostrare apoditticamente colla ragione una proposizione qualunque, statevi certi, che la fede cristiana non v' insegnerà mai nulla di contrario, non avrete ad incontrare con essa alcuna lotta, perchè la fede cristiana si professa alla prima di ricevere, e di ammettere, quasi preliminari, tutte, qualunque sieno, le verità della ragione ». Che se questa è la dottrina del cristianesimo, chi potrà più dire colla minima apparenza di verità, che i cattolici non possano esser filosofi liberi, e che la cattolica religione impedisca, o leghi il libero e pieno sviluppo dell' umana intelligenza? Chi dicesse ciò mostrerebbe chiaramente d' avere la mente preoccupata dall' errore, e dall' ignoranza della fede cristiana, e non sarebbe più filosofo libero egli stesso. Sono appunto i filosofi non liberi, i filosofi servi dell' errore, per lo più ignoranti della cristiana dottrina, quelli che invidiano alla nostra libertà, e tramutando i nomi alle cose, vogliono far passare per una servitù quella fede che ha liberato il pensiero. Non credo necessario che qui io mi trattenga a togliere l' obbiezione tratta da' misteri, obbiezione volgare, che non può esser proposta in buona fede da un filosofo, e che fu sciolta le mille volte. Il fonte de' religiosi misteri è l' infinità incomprensibile di Dio. E che Dio sia infinito, e però eccedente l' intelligenza umana, che è finita, è la semplice ragione che lo dice e lo dimostra. Laonde i religiosi misteri non sono esclusivamente della fede cristiana, ma si trovano ugualmente in qualsiasi teologia naturale, che è una scienza puramente filosofica. Se dunque bastasse trovare de' misteri nella fede per rigettarla, sarebbe necessario di rigettare prima la ragione che li propone egualmente, e vi dice perchè vi sieno, e perchè vi devano essere. Confondere poi il mistero colla contraddizione è uno di quegli sbagli grossolani, che fa la sola ignoranza, non la vera filosofia. Si dice avervi un mistero quando in una data proposizione v' ha qualche cosa che non s' intende, che non può intendersi da una ragion limitata. Non è già che in quella proposizione non s' intendano molte cose, ma basta che ne resti una inintelligibile. S' intendono gli argomenti che la dimostrano vera, quella proposizione, procedano essi dalla ragione o dall' autorità. Così la proposizione: « Iddio è infinito »si prova esser vera anche con argomenti somministrati dalla sola ragione, e pure l' infinito non si comprende, è un mistero, è il complesso di tutti i misterii. La proposizione « un solo Dio è in tre persone » si dimostra vera coll' argomento cavato dall' autorità di Dio rivelante, e la rivelazione si prova anche con argomenti somministrati dalla ragion naturale. Ma come un solo Dio sia in tre persone, questo riesce incomprensibile, è un mistero, benchè la natura stessa somministri delle analogie di questo mistero. In tali proposizioni misteriose, oltre gli argomenti che ne provano la verità, molte altre cose s' intendono colla ragione. Per esempio, s' intende, benchè non appieno, che cosa sia Dio, che cosa voglia dire infinito, uno, trino, essere; ma resta qualche cosa di non inteso, poniamo resta non inteso il nesso de' termini, il modo, come la cosa sia così (1): perocchè non avviene già sempre, nè anco nelle cose naturali, che quando la ragione ci dimostra che una cosa è, ci dimostri anche in che modo ella sia. Così accade, che noi vediamo un fenomeno, un avvenimento, e che tuttavia non lo sappiamo spiegare perchè ne ignoriamo la causa, il che è frequentissimo. La ragione umana dunque ignora molte volte, ma non si contraddice mai: quando d' una data cosa, di cui conosce qualche parte, ne ignora qualche altra, e per quanto faccia non può venire a conoscerla, allora si dice che c' è un mistero , ma non una contraddizione. La contraddizione importa sempre un errore, non così l' ignoranza, chè chi ignora, non erra, non nega il vero come fa l' errante. E` dunque manifestamente un' obbiezione puerile l' addurre i misteri come esempio di contraddizione della fede colla ragione. Se ciò fosse non sarebbe la fede quella che contraddirebbe alla ragione, ma sarebbe la ragione quella che contraddirebbe a se stessa; perocchè l' ignoranza è propria della ragione; chè è la ragione quella che ignora: le limitazioni sono attributi del soggetto a cui appartengono, e l' ignoranza è una limitazione della ragione. Se la ragione umana non fosse limitata non incontrerebbe misteri nè nella natura, nè nella fede: questi dunque non si devono attribuire nè alla natura, nè alla fede, ma alla ragione umana che è limitata. Che se la fede aggiunge delle altre verità misteriose a quelle che la ragione trova nella natura, questa è una nuova ricchezza che la fede medesima dona alla ragione, la quale in quelle verità della fede intende sempre qualche cosa, se non tutto; e applicandosi a quelle (ed è materia degnissima e sublimissima) essa può, aiutata dal lume divino, esercitarsi, e penetrare sempre più addentro, e intenderne sempre più, di manierachè gli stessi misterŒ sono fonti d' inesauribile luce, benchè non si possa mai intendervi tutto, e la medesima ragione il sa in precedenza, e nol pretende, perchè essa conosce la limitazione sua propria, e l' assoluta infinità dell' oggetto. Ma v' ha più ancora, chè la ragione medesima è quella che sentendo d' esser fatta per l' infinito, benchè nol possa comprendere, si slancia in esso come può quando non ha la fede, e molto più quando gli viene offerto dalla fede, conscia di non poter trovare la sua quiete, se non tuffandosi in quel pelago luminoso, nè la piena sua vita, se non perdendosi in quell' abisso (1). E che tutte queste cose non sappian coloro, i quali servi di prevenzioni contrarie alla fede cristiana, non si curano di conoscerla e di farne studio profondo (onde la condannano ignorata ed inaudita), questo non può far maraviglia. Ma è a stupire, e più ancora a dolersi, che alcuni cristiani, e cattolici, i quali professano la pietà, disconoscano anch' essi da questo lato la propria fede, e le facciano un gravissimo torto, facendolo insieme alla verità, in cui non confidano bastantemente: parlo di quelli, i quali si stanno sempre in su un cotal sospetto, e quasi in un femminil timore del naturale ragionamento, come se col legittimo uso di questo potesse pericolare mai la loro fede. Cotestoro inceppano pur troppo il proprio pensiero e l' altrui; non sono questi nè i veri filosofi cattolici, nè i veri teologi di cui parlavamo (1): nè egli è giusto nè ragionevole, che sulla meticulosa ignoranza d' alcuni, che autorità non hanno, si faccia giudizio della relazione tra la Fede cattolica, e la Filosofia. Spaventati soverchiamente dall' abuso, questi osteggiano l' uso stesso del ragionare: altri dal medesimo abuso, che di tanti errori, e di tanti deliri fu padre, deducono, che il naturale ragionamento non può fornire all' uomo alcuna certezza, e così risuscitano il sistema sopraccennato di Cosenzio, già confutato da S. Agostino. Ma il rispettabile signor Bautain, che deluso nella speranza di trovare ne' sistemi filosofici della giornata la verità s' era troppo sfiduciato della Filosofia, e avea riproposto quell' antico sistema, che, segregata la ragione, nella sola rivelazione ripone il vero ed il certo, s' avvide ben presto, che con questo egli s' allontanava dalla dottrina della Chiesa cattolica, che credea sostenere, e si ritrattò del suo errore, la stessa fede riconducendolo alla ragione. Come poi questo filosofo, perchè fedele discepolo alla Chiesa, ritornò discepolo altresì alla ragione; così per l' opposto nel secolo XVI gli autori della falsa Riforma in Germania (si ponga ben mente), abbandonato il magistero della Chiesa cattolica, ripudiarono con esso la stessa ragione. Chè in qualsiasi modo s' interpretino le tesi che Lutero difese l' 11 gennaio 1539, certo è che in esse la naturale ragione è depressa, quasi contraria alla rivelazione (2); come pure è certo, che, a quella scuola educato, Daniele Hoffmanno, e i due suoi discepoli Giovannangelo Werdenhagen, e Venceslao Schilling riprovarono apertamente la filosofia, e la coltura della ragion naturale, onde sollevataglisi contro la facoltà filosofica dell' Università di Helmstadt, l' Hoffmanno fu obbligato ad emettere una dichiarazione pubblica, riconoscendo il suo errore, per decreto del Duca Giulio Enrico di Brunswik del 16 febbraio 1601 (1). E la ragione così spregiata s' indebolì a tal segno nelle menti di que' primi settari, che non sapevano più vedere, e però negavano la differenza intrinseca del bene e del male, e alla sola positiva rivelazione l' attribuivano, sottraendo così alla morale il primo suo fondamento (2). Staccarsi dunque dalla Chiesa cattolica, e prendere la ragione a calci fu tutt' uno: il che non avrebbero potuto fare senza riprension della Chiesa, ma poichè non vollero udire la sua voce nè pure vollero udire quella ragione, che all' autorità della cattolica Chiesa gli avrebbe conciliati (1). Ora che ne riuscì? La natura compressa risaltò, e dell' oltraggio si vendicò crudelmente: i protestanti che avevano prima degradata la ragione a pro, come si credevano, della fede, in appresso, con un errore opposto, degradarono la fede a pro della ragione; di maniera che i discepoli condannarono i maestri, come i maestri aveano già in precedenza condannati tali loro discepoli. Così rompendo sempre negli eccessi, con quello spirito esclusivo che hanno tutti gli errori, mentre aveano incominciato la riforma con un cieco misticismo, e positivismo , finirono con un altrettanto cieco razionalismo ; dissero di non voler più altra guida che la ragione, ma la ragione com' essi la intendono, com' essi la fanno, nuda, disarmata, limitata arbitrariamente a quel genere di materia che loro piace lasciarle in dominio, cioè ai veri naturali, escluso l' ordine dei veri soprannaturali. E questi razionalisti credettero con ciò d' avere aperti gli occhi, e d' essere divenuti simili agli Dei. Se non che avvenne loro ben presto un caso spiacevole: che furon banditi dal paradiso terrestre. Perocchè tanto innalzarono l' umana ragione, tanto la restrinsero in se stessa (vollero fin anco che ne' suoi visceri rientrassero tutte le cose dell' universo, e tutte ne uscissero); che ultimamente s' accorsero che ella moriva loro in mano di replezione, o, se par meglio, per oppressione, come la moglie del levita di Efraim. Infatti la filosofia Germanica discendente in linea retta dal protestantismo, dopo di aver promesso di sè al mondo cose miracolose, si spense in un desolantissimo scetticismo, o certo ella s' addormentò in un sogno panteistico, e l' ultima sua parola fu: « Io ragione non posso conoscere cosa alcuna eccetto me stessa »! Che se noi vogliamo esprimere con altre parole, e con altra similitudine lo stesso fatto diremo, che la ragione in mano di quelli che si tolsero alla Chiesa, si consacrò vergine vestale nel tempio che le eressero, ond' ella non può oggimai aver più figliuoli senza violare, sacrilega, i proprŒ voti. Non è per fermo questa la ragione libera; non è la ragione libera e feconda del Cattolicismo; ma è la ragione che dicono libera coloro, che dal Cattolicismo si dividono. La scelta e il giudizio di queste due libertà a quelli che non hanno ancor perduto il senso comune. Certo è cosa naturale anzi doverosa che un uomo, il quale vuol applicarsi allo studio della Filosofia in Europa, in presenza di un' autorità così grande, così solenne, come è quella della Chiesa cattolica, venerata e ubbidita da milioni di discepoli diffusi in tutta la superficie del globo, fra i quali si contano sublimi intelligenze, cultori esimŒ di ogni maniera di dottrina; un' autorità, che con assoluto magistero favella a tutto il mondo già per un corso di diciannove secoli, e per tutto questo corso è ascoltata da sempre nuovi discepoli, la cui voce persuasiva non è mai vecchia non mai affiocchita per qualunque opposizione e contrasto le muova tutto ciò che nel mondo si reputa forte, prudente, sagace; un' autorità, a cui è dovuta per consenso di tutti la civiltà europea, nella luce della quale egli vive, è doveroso, dicevo, che un uomo che vuole applicarsi alla Filosofia in mezzo ad una tal società, e in presenza di una tale autorità che a lei presiede, qualunque sieno le sue opinioni o prevenzioni, incominci dall' esaminare in quali relazioni si trovi la filosofia, e la libertà della ragione umana con essa autorità, cioè colla cattolica Chiesa. E se questo si facesse da quei che filosofano n' avrebbero il risultato, che noi stessi n' abbiam dato più sopra, cioè la libertà del pensiero, e questa libertà protetta, e in molte maniere aiutata. Ma qualora questo esame non si faccia, o non si faccia seriamente; che altro rimane, se non la prevenzione che, per quanto sia antifilosofica, è tuttavia così frequente, diciamolo pure colla franchezza d' una esperta persuasione, e così comune ne' filosofi? Che cosa sogliono mai fare molti di quelli che così si chiamano? Invece di ricercare qual sia la dottrina della Chiesa cattolica intorno all' uso della ragione, che è la sola questione importante, essi s' appigliano alla sentenza di qualche scrittore particolare, che, quantunque cattolico, non rappresenta la Chiesa cattolica, e non ne esprime con accuratezza l' insegnamento; e della sentenza di questo particolare scrittore fanno un sistema, e gli danno un nome che egli stesso non gli ha dato, un nome equivoco ed improprio, e contro questo nome, contro questo nemico della filosofia creato da se stessi, e resosi a bella posta una fantasima spaventosa, menano i loro colpi, i quali appunto perchè la fede cattolica vi è sempre taciuta dove dovrebbe essere nominata, par che s' indirizzino a questa. E un tal lamento mi spiace di doverlo fare altresì a quell' eloquente scrittore di Vittore Cousin, che con tanto amore, con tante fatiche tentò di promuovere in Francia lo studio della Filosofia. Vedete come nella prefazione al manuale del Tennemann, anch' egli dissimula la questione importante della relazione fra il ragionamento filosofico e la fede, e in quella vece vi parla d' una scuola teocratica , dando evidentemente questo nome al Bautainismo, cioè a una sentenza, che non è quella della Chiesa cattolica, e che fu rivocata dallo stesso suo autore, perchè da lui riconosciuta contraria a quella della Chiesa medesima: egli vi parla della secolarizzazione del pensiero, parola di partito, insensata, e indegna di un filosofo: egli vede nel fantasima che s' è creato della scuola teocratica un nemico, che vuole arrestare la civiltà e distruggere la Filosofia: egli vi butta là una sentenza, che può esser vera, e falsa, che in fatti non è nè vera, nè falsa, perchè non ha senso preciso, dove dice: « « La teocrazia è la culla legittima delle società nascenti; ma non le accompagna nel progresso del loro sviluppo, progresso necessario, che deriva dalla natura delle cose »(1). » Che se per teocrazia intende un' autorità divina, la sua proposizione è manifestamente falsa, e contraddittoria, se pur fra le cose non voglia negare il suo posto a Dio, che è la prima di tutte le cose, e di tutte le nature, anche ascoltando solo la filosofia, e, come io credo, anche ascoltando quella che professa il nostro filosofo. A che dunque questo armeggiare all' aria? che voglia è questa di battagliare contro nemici che non esistono? E in ogni caso, se voi temete di quelli che vogliono separare la fede dalla ragione, ripudiando quest' ultima, non sarebbe stato più semplice e più convincente, che vi foste limitato a dire a costoro: « Voi altri siete gente da non temere, perchè non avete per voi nè il suffragio della filosofia che rifiutate, nè quello della fede cattolica, a cui vorreste attenervi, e da cui siete rifiutati; chè questa è l' amica intima della ragione, e della filosofia. » Convien dunque qui ripetere che al filosofo della civiltà è necessario prima di tutto risolvere la questione dell' accordo fra la ragione, e la fede, che sono i due elementi indivisibili de' popoli civili. E senza aver riconosciuto questo accordo sin da principio, non avrà il filosofo autorità sui suoi contemporanei; chè la civiltà cristiana, la sola civiltà che esista, e che sia mai esistita, udirà la sua voce con ragionevol sospetto; o certo egli non potrà dare una dottrina filosofica proporzionata all' altezza del suo secolo. Verrà forse da questo, che la Filosofia si confonda colla fede, o viceversa? No: chè la fede è tutt' altro dalla filosofia. La fede è un volontario assenso prestato all' autorità di Dio rivelante, in qualunque modo poi si conosca quest' autorità. La filosofia è una scienza, la quale investiga le ultime ragioni delle cose, e da queste ultime ragioni deduce le conseguenze, di maniera che alla filosofia è necessario il ragionamento esplicito, il quale non è necessario, come abbiam veduto, alla fede. La fede contiene delle verità che possono esser date altresì dalla filosofia, e provate col naturale ragionamento, ma ne contiene ancora di quelle, che, senza contraddire giammai a questo, superano le sue forze. La fede ha una sola ragione, ma potentissima, in cui si fonda, quella dell' autorità di Dio rivelante, ma questa non condanna, non esclude, anzi apprezza le altre ragioni: la filosofia trae le sue ragioni unicamente dall' intima natura delle cose, e dai nessi che hanno fra loro; ma queste cose su cui argomenta la ragion filosofica, non sono già create dalla stessa filosofia, ma le vengono dal di fuori, le sono date, e se non le fossero date, mancherebbe alla filosofia la sua materia, la filosofia non esisterebbe più. Il Creatore diede questa materia alla filosofia colla formazione dell' universo, ma lo stesso Creatore dando la fede agli uomini, diede una nuova materia al filosofico ragionamento. Questa nuova materia non distrugge la prima, ma la accresce e la completa. Laonde come la natura presta la materia ad una prima filosofia, così la fede presta la materia ad un' altra più sublime filosofia, che non distrugge, ma amplifica e compie la prima. La fede così resta sempre indipendente dalla filosofia, e bastevole a se stessa, bastevole a tutti gli uomini. Ma non è per questo ostile alla filosofia, che è ricchezza di pochi, anzi ella tiene il suo luogo frammezzo a due filosofie, ad una filosofia naturale che la precede, e ad una filosofia soprannaturale che la sussegue, e quasi paciera fra esse, e mediatrice ne congiunge le destre. Chi poteva comunicare una fede, che avendo tanta dignità stesse in tanta armonia colla natura, e colla ragione umana, se non il Creatore dell' una e dell' altra? Ma tornando a quelli tra cattolici, i quali non intendono come la fede supponga la ragione (chè, come dice Agostino, noi non crederemmo se non avessimo anime ragionevoli), e come la fede e la ragione scambievolmente si giovino, per uno stolto amor della fede sono alla ragione molesti, noi n' abbiamo distinte due classi, l' una di coloro, che, temendo le illazioni della ragione quasi potessero essere contrarie alla fede, astiano lo sviluppo di quella, i quali noi possiamo chiamar timidi : l' altra di coloro, che avendo perduto ogni fiducia nella ragione, e non credendola atta ad accertare la verità; e questi, il sistema de' quali è indebitamente chiamato teocrazia dal Cousin, noi possiamo chiamare sfiduciati . A queste due classi principali si può aggiungerne una terza, niente migliore delle precedenti, quella degli indifferenti , i quali professano questo singolar principio: « Non conviene aderire ad alcun sistema di filosofia: chè ogni sistema è buono quando non s' opponga alla fede, e convien servirsi di tutti in servigio della stessa fede ». La qual proposizione a chi, se la esamina, non parrà strana ed assurda? chè certo niuno può ammettere quella proposizione, se non ad una di queste due condizioni: o che egli stimi, che in diversi e contrarii sistemi giaccia ugualmente la verità, e così non ci sieno due sole verità, come dissero assurdamente taluni fra protestanti, ma molte verità fra loro contradditorie, cosa più assurda ancora; ovvero che egli reputi indifferente il vero ed il falso, cosa assurda, e stolta altrettanto ed immorale. E` non meno stravagante il credere, che, avendovi una sola verità, e però non potendo esser vero che un solo sistema filosofico, tuttavia gli altri sistemi, necessariamente falsi, possano ugualmente accordarsi colla fede, e colla teologia cristiana, e a questa prestare aiuto (1). Certo per me ho sempre creduto, o piuttosto il genere umano intero ha creduto, che una sola sia la verità, e che come il vero non può essere opposto al vero nè nuocervi, così il falso sia opposto al vero e gli pregiudichi; e quindi non ho mai compreso quale utilità possa cavare la cattolica verità dai falsi sistemi di filosofia. Ancora io ho riputato un dovere morale per l' uomo amare quella verità una, che non può mai essere amata abbastanza, e quindi medesimo mi sarebbe parso d' operare contro coscienza se non mi fossi appigliato ad un solo sistema, a quello nel quale mi parve di vedere contenuta la verità, lasciando però fare il contrario a coloro che per qualsiasi ragione non possono formarsi una ferma persuasione (e però nè pure un chiaro conoscimento) d' alcun sistema; purchè essi non pretendano di convertire in una legge universale obbligatoria per tutti, l' esitanza del loro proprio intendimento, e quindi non distribuiscano a larga mano la taccia di superbe a tutte quelle menti, che non sanno trattenersi nell' incertezza, dalla quale non trova onde uscire la loro. Quanto a me io confesso, che la luce della verità mi colpì vivacissima e brillantissima, e che sarebbemi stato impossibile di fare altramente da quel che ho fatto. Laonde se mi resta il biasimo di cotestoro, non mi resta però il rimorso d' aver resa duplice la verità. Le quali parole bastano a rispondere ad alcuni, che m' hanno più volte fatto questo rimprovero di seguitare un solo sistema, quasi che il far questo fosse cosa immodesta ed orgogliosa, come veramente ne pareva a que' censori, i quali affermavano, che coll' abbracciar io un unico sistema; venivo a condannare tutti gli altri concepiti da uomini di altissimo merito: il che io nè posso nè voglio negare, ma scusarmene, opponendo loro l' impossibilità di fare altrimenti, per aver io trovata la verità così altera, e così impolitica, che vuol sempre esser sola, e si ricusa d' essere in due: de' quali costumi della verità io non ho colpa. Tale è la limitazione dell' uomo, che quand' egli è occupato d' alcuna cosa di suprema importanza si rende facilmente, senza avvedersene, ingiusto con altre cose d' importanza minore. E però se non sono in questo lodevoli, sono però in qualche modo scusabili que' teologi (e son pochi, e di minor conto), i quali pare che dieno poca importanza alla verità filosofica, e, invece di cercare qual sistema sia vero, credono meglio d' appigliarsi or all' uno, or all' altro, anche de' più contrarŒ, e sembra loro troppo esclusivo colui, che, coerente a se stesso, ne accetta uno solo. Ma se questo facilmente si spiega, è inesplicabile per l' opposto com' essi trovino imitatori tra quelli che s' applicano di proposito agli studi filosofici. Chi potrebbe credere, che fra questi professori della Filosofia si trovasse alcuno, il quale ignorasse, che il sistema della verità filosofica non può esser che uno? e che essendo uno solo, gli altri tutti non possono esser che falsi? Chi potrebbe credere, che un uomo il quale si propone d' innalzare la Filosofia al di sopra di tutto, al di sopra della Religione stessa, dichiarasse poi che nell' unicità d' un sistema vi ha il sepolcro della Filosofia? e che confondesse la storia de' sistemi filosofici, che nella massima sua parte è la storia delle aberrazioni dello spirito umano, colla stessa filosofia? La quale sembra che per quest' uomo non sia altro, che un cotale spettacolo di atleti, uno spettacolo, in cui gli errori sotto infinite forme or fanno alla lotta, or giuocano al pugillato, or colla spada, col pugnale, col coltello, e con ogni sorta di armi combattono corpo a corpo colla verità, la quale può esser vinta, ma non deve vincerli mai, che vincendoli, terminerebbe a gran danno degli spettatori il divertimento che si chiama filosofia. Il filosofo che s' è formato questo concetto della sua scienza, somiglia allo storico, che deplora quelle età, che non gli danno a narrare guerre atroci, e dissidŒ civili, e affronti di calamità, o accidenti, e rovine di regni, e di popoli, ovvero a quel principe bellicoso, che ripone l' infelicità del suo regno nella tranquillità della pace. E mi duole d' incontrare nell' illustre autore dell' ecletismo francese delle sentenze simili alle summentovate. Perocchè quanto non ci va egli, per lo meno, vicino, quando considera la storia della filosofia come una lezione perpetua di quel suo ecletismo appunto che vuole esser l' unica filosofia possibile a' nostri tempi (1)? [...OMISSIS...] Ma dopochè voi avrete trovata e distaccata quella porzione immortale di verità che ciascun sistema contiene, vi resteranno ancora i medesimi sistemi? o pretendete che quella porzione di verità immortale, che avete svincolata dall' intero sistema, sia ella sola quel sistema? anche se questa porzione è piccola, perchè voi non dite se questa porzione di verità sia grande, o piccola, od uguale in tutti i sistemi? Se non volete dir questo (che sarebbe strano, che voleste confondere quella porzione di verità che può trovarsi nel sistema col sistema stesso); perchè dunque date l' epiteto d' immortale alla porzione di verità che vi si contiene? Chiamando voi immortale questa sola porzione, venite a confessare implicitamente, che è mortale tutto il resto del sistema: e se questo resto del sistema è mortale perchè non gode di quell' immortalità che è la prerogativa divina della sola verità, che compassione ve ne prende? lasciatelo subire la sua sorte, lasciatelo morire, che anche morto resterà nella storia dello spirito umano. Ed anzi, se volete confessar il vero, non potete far altro, quando pure non v' arroghiate la facoltà di rendere immortali i mortali, o non vogliate far la figura di que' medici che hanno trovato l' elixir vitae che preservava gli uomini dalla morte. Infatti, non molto dissimile a questi, voi vi proponete di salvar dalla morte gli errori, cioè quei sistemi da cui avete succhiato fuori, siccome ape industriosa, il miele della verità; e non contento d' assumere voi stesso un così difficile incarico, lo volete dare anche a noi, che non sappiamo d' avere tanta virtù, ed anzi a tutti, prescrivendo loro « di perfezionare i sistemi l' uno per via dell' altro senza tentare di distruggerne alcuno. »Ma badate che non accada a voi stesso di fare involontariamente quel che proibite. Perocchè i sistemi filosofici rassomigliano sovente a quegl' insetti di così ammirabile e dilicatissima tessitura, che per quanto gentilmente si tocchino colle dita, s' infrangono, e muoiono con gran rammarico dell' osservatore della natura; e però parmi, che voi stesso, benchè protestiate in contrario, facciate un tentativo di distruggere que' sistemi, non solo arrischiandovi di toccarli, ma di più sottomettendogli ad una operazione pericolosissima, qual' è quella che estrae da' loro visceri quella porzione di verità che è la loro anima. E voi stesso lo confessate quando dite: « « L' autorità di questi differenti sistemi viene di qui, che tutti hanno qualche cosa di vero e di buono (1) ». » Dite ancora che « « ciascun sistema per quella porzione di verità che contiene, è fratello di tutti gli altri, e figliuolo legittimo dello spirito umano »; » di che consegue necessariamente, non me lo potete negare, che quando voi gli avete tratto di corpo quella porzione di verità, che è l' operazione che vi proponete di fargli subire, quello che resta dopo tale operazione non è più un fratello degli altri sistemi, nè un figliuolo legittimo dello spirito umano. E, per trarre da questa vostra dottrina un' altra conseguenza, ciò che rimane di quel sistema si può legittimamente seppellire nella storia, come cosa morta, e siete stato voi stesso che l' avete ammazzato, senza mancar di rispetto alla libertà dello spirito umano, il che voi giustamente raccomandate. E che? Pretendete forse, o avete il diritto di pretendere dopo queste vostre confessioni, che la libertà dello spirito umano consista in lasciar sussistere tutti i sistemi filosofici l' uno accanto all' altro, i sistemi più contraddittorŒ, i sistemi falsi, altrettanto quanto il sistema vero, i sistemi misti di falso e di vero, anche dopo aver loro tratto di corpo il vero che contengono? Voi sperate di conservarli nel vostro ecletismo, e promettete che vi staranno in pace, come le bestie nell' arca di Noè, e così camperanno dal diluvio: ma a dir vero voi con questo cadete nel solito errore de' falsi liberali, scambiando la libertà colla servitù; poichè siete voi quello che sotto il nome di libertà imponete allo spirito umano la più irragionevole e tirannica servitù, dichiarandogli, che non c' è da far altro che d' attenersi al vostro ecletismo (1), il quale impone allo spirito umano l' obbligazione (ecco come s' intende la libertà) di non distruggere alcun sistema, e di perfezionarli tutti! Il che è quanto dire, che allora si rispetta la libertà dello spirito umano, quando gli si proibisce d' esercitare il diritto, e d' adempire il dovere che ha di rigettare i falsi sistemi, e d' attenersi al sistema vero, che non può essere, che uno solo! Questa è la libertà, che i nostri filosofi liberali spaventati dalla fantasima della scuola teocratica, che giganteggia nella loro immaginazione, lasciano alla ragione umana. E v' assicurano, che questo è uno onorare lo spirito umano, e che sia così, ve lo provano; ascoltate il loro argomento: « Tutti i sistemi sono tanto vecchi quanto la filosofia, e inerenti allo spirito umano che li produce il primo giorno, e poi di continuo li riproduce: il tentare dunque di distruggere un solo di questi sistemi, che sono tutti creature dello spirito umano, è un disonorare lo spirito umano: dunque per lo contrario è un onorarlo il conservarli tutti ». Peccato che il filosofo, che ragiona così sottilmente, si sia lasciato scappare di bocca, che i sistemi sono figliuoli legittimi dello spirito umano per quella porzione immortale di verità che contengono. Parlando di figliuoli legittimi si suppone che ve n' abbiano anche d' illegittimi, e se la verità è prole legittima dello spirito umano, consegue che la falsità sia la prole bastarda del medesimo: e se la prima è una gloria, non pare che si possa riputare una gloria del medesimo spirito umano la seconda che è figliuola della fornicazione. Laonde il concetto che s' è formato il nostro filosofo dell' onore dovuto allo spirito umano non è più giusto di quello che abbiamo veduto essersi egli formato della libertà. Se non vogliamo impazzire, dobbiam riconoscere che lo spirito umano è fallibile, e però che non sono tutte vere, nè tutte belle le cose che fa questo spirito, e che però colui veramente l' onora, che lo dirige sulla via della verità, dalla quale sola riceve il suo onore e la sua gloria, e non punto quell' uomo superstizioso, che per onorarlo l' adula, e lo trasforma in una divinità, il quale così facendo si rende simile a que' cortigiani, che raccoglievano religiosamente, ed adoravano gli escrementi del loro imperatore. Lungi da noi tanta viltà, e tanta servilità. Noi vogliamo esser liberi seguaci della verità, e non rinunziamo in grazia di checchessia, foss' anche l' ecletismo o 'l sincretismo che ci si vuole imporre a nome della libertà e dell' onore dovuto allo spirito umano, al diritto che abbiamo di tentare la distruzione di tutti i sistemi erronei, e di tutta la parte erronea che ci è dato di discoprire ne' medesimi. Tale è il concetto che noi ci siamo formati della libertà dello spirito umano, e della maniera di onorarlo, e reputiamo che chi non l' onora in questa maniera, lo disonora, forse senza avvedersene. Che cosa è un sistema? L' accozzamento di alcune proposizioni senza nesso fra loro? o si vogliono distinguere i sistemi co' puri nomi de' loro autori senza por mente al contenuto della dottrina? Per noi un sistema non è nè un nome, nè dei brandelli staccati a caso da diversi corpi di dottrina; ma è un principio elevato con tutte le sue conseguenze. Laonde molti di quelli che nella storia della Filosofia si descrivono come sistemi diversi, perchè esposti da autori diversi, e con un ordine diverso, non sono agli occhi nostri diversi, qualora que' corpi di dottrina si possano ridurre ad uno stesso principio. Laonde quegli autori, i quali convenendo in un dato principio, ne cavano conseguenze diverse, e non opposte, o s' applicano a dedurne conseguenze nuove, o s' occupano esclusivamente a svolgere quel principio per un nuovo genere d' applicazioni trascurate dagli altri; questi non sono autori di sistemi nuovi, ma lavorano intorno allo stesso sistema, perchè lavorano a fecondare lo stesso principio. E così i sistemi veramente diversi sono in minor numero che non si creda, quantunque la storia della filosofia, come fu fatta fin qui, e che l' ecletismo francese prende a suo fondamento, ce li moltiplichi. Or poi se il sistema filosofico si contiene in quel principio elevato, onde il filosofo muove tutto il suo ragionare, n' avremo questa conseguenza, che, come il principio del sistema il quale è una proposizione semplice non può esser che vero o falso, non essendovi niente di mezzo fra la falsità, e la verità, così converrà dire, che anche i sistemi diversi non possono essere che veri o falsi, e però o da ammettersi o da rigettarsi. Nè vale il dire, che in ogni sistema v' ha una porzione di verità: perocchè quand' anco s' ammetta una proposizione così universale, e per ciò stesso così gratuita, che è un dire antifilosofica; quella porzione di verità o riguarderà il principio, se il principio è vero, o riguarderà alcune conseguenze, se alcune conseguenze prese da se sono proposizioni vere. Se riguarda il principio, e però questo sia vero, in tal caso tutto il sistema è vero, e le conseguenze false, che s' incontrano non possono essere che mal dedotte e si devono espungere, come straniere al sistema sostituendovi le vere. Ma de' principŒ veri, e de' sistemi veri non ve ne possono esser che uno. Se riguarda le conseguenze, di maniera chè alcune conseguenze prese per sè sieno proposizioni vere ma dedotte (probabilmente mal dedotte) da un principio falso; tutto il sistema è falso, e non si salva il sistema, salvando quelle proposizioni vere che non gli appartengono, e da esso si devono separare, raggiungendole a quel sistema, a cui veramente appartengono, cioè a quell' unico che ha un principio vero. Ond' ella è cosa vana e impossibile far quello che prescrive troppo dispoticamente l' ecletismo francese, non tentare di distruggere alcuno de' sistemi prodotti dallo spirito umano. I quali sistemi, vi dice l' ecletismo, sono inerenti allo spirito umano che li ha prodotti il primo giorno della filosofia e li riproduce senza posa. Sia: ma sono veri o falsi? Ecco tutta la questione della libera filosofia, d' una filosofia che non ammette il giogo delle aberrazioni dello spirito, e che ricusa dichiararsi mallevatrice e pagatrice de' suoi errori, e de' suoi delirŒ, che anzi giustamente si sdegna contro a chi le fa violenza per costringerla a tanta umiliazione, e le va prodigando i titoli di serva, e di teocratica, perchè ella, giusta signora, si ricusa di pagare i debiti de' prodighi e degli scapestrati. Protesta altamente, dice all' ecletismo: « Se i sistemi dell' errore sono inerenti allo spirito umano, come voi dite, ed egli gli ha prodotti il giorno che io sono nata, tal sia di lui, io non gliene ho fatto procura, e se egli ha speso il mio nome, e adulterate le carte, non mi resta altro che dargliene querela di falso. »E veramente il dire, che lo spirito umano fino dall' ora che prese a filosofare ha prodotto tutti i sistemi anche falsi, come dice Vittore Cousin, questo non prova, che si debbano ammettere, e religiosamente conservare; ma piuttosto disvela il peccato originale dello spirito umano, un vizio inerente al medesimo, che l' indebolisce e sommette la sua ragione alle seduzioni dell' errore; il quale vizio non gli può venir dal Creatore, che l' ha fatto per la verità. E non è maraviglia che tornino sempre in campo gli stessi sistemi, quando si sa, che le inclinazioni e le passioni umane che affascinano la ragione, e la fanno servire, sono sempre le medesime, ed hanno leggi fisse nel loro operare. Il signor Cousin producendo la prescrizione a favore dell' errore che tiene in servitù lo spirito umano, imita fuor di proposito gli avvocati che difendono i debitori che non vogliono pagare i debiti, senza accorgersi, che se quella prescrizione vale in legge per il solo foro esterno, in filosofia non è buona nè per l' uno, nè per l' altro foro. Una ragione libera dunque, una filosofia libera ha diritto di sdegnare tutto ciò che è falso, e di congiurare colla verità a distruzione di tutti i sistemi falsi: niuno può impedirla dall' esercitare questo diritto di guerra: ognuno può richiamarvela, se non gli resta fedele. E tuttavia egli è vero, che coloro i quali trattano la verità come una femmina, si adirano sconciamente quando la trovano scompiacente, e ritrosa a piegarsi alle vane e capricciose loro opinioni, e di rusticità l' accusano, « siccis rustica veritas capillis (1) »: è vero ancora (noi non lo possiamo negare senza mentire) che tutti quelli che cercano lei sola, lei sola abbracciano; vengono facilmente in voce d' orgogliosi, perchè di necessità, e contro loro voglia, si trovano in diretta opposizione a tutti gli altri, che non consentono con esso loro nello stesso amore del vero, o che a questo antepongono degli altri amori: e in tutti i tempi dovettero scusarsene agli uomini irritati con esso loro. Se ne dovette scusare lo stesso Socrate, pochi giorni prima di lasciare la vita, per cagione dell' invidia di coloro, che egli coll' insegnamento della verità dimostrava ignoranti, e con Teeteto ebbe a dire: « « Molti oggimai, o maraviglioso giovanetto, sono così mal disposti inverso di me, che vorrebbero lacerarmi co' denti, se alcuna volta io discacciassi da essi qualche ciancia, non istimando che da me si faccia questo per benevolenza, essendo essi troppo lontani dal sapere, che niuno Iddio è malevolo agli uomini. Nè io fo per malevoglienza alcuna cosa somigliante, ma non pare a me lecito in verun modo di accettare il falso, e ribattere il vero »(1). » E veramente questi appunto a cui si appone taccia di alterezza sono i più benevoli, anzi i soli benevoli a tutti gli altri uomini. E sebbene davanti ad essi non v' abbia accettazione di persone o di opinioni, tuttavia ne' loro studŒ preparatorŒ alla filosofia non ricusano punto la storia, nè schifano di riguardare negli altrui sistemi tutto ciò che v' ha di vero, e di sincero, ma non confondono però la storia colla filosofia, e non fanno nè credono poter fare della storia, o colla storia la filosofia. Chè la Filosofia non si stabilisce sopra alcuna autorità, nè pur divina, non che umana; poichè la Filosofia è ragionamento, e non altro che ragionamento. Laonde un' autorità sia pure infallibile può bensì segnalare la via al ragionamento filosofico, acciocchè non si perda, ma non può mai surrogarlo: può, ancorchè non infallibile, eccitare il pensiero di colui che cerca una Filosofia, ma non può prevenirlo, ed escluderlo, quasi non più necessario. E dee pur fare un' altissima maraviglia l' incoerenza di coloro, i quali mettendosi in gran sospetto dell' autorità divina, che loro apparisce siccome una scuola teocratica, dimostrano poi la riverenza più servile alle sentenze de' filosofi, o di quelli che così si chiamano, registrati nella storia, a tal che si fanno coscienza di distruggere un solo de' loro sistemi, per non recare, dicon essi, onta allo spirito umano, che pure non veglia sempre, anzi di quando in quando dormicchia e sogna. Singolar cosa è il vedere introdotta nella Filosofia la riverenza allo spirito umano (ed è la sola riverenza, che conoscono costoro), come se questo, o alcun altro simile sentimento potesse valere assai nel decidere questioni di verità e di falsità. Del resto qualora la storia dei sistemi ci porga altresì colle sentenze de' ragionamenti, questi non possono esser ricevuti nella Filosofia a titolo d' essere storici, ma al solo titolo d' essere veri, e di procedere con logica dirittura; il che è quanto dire, d' essere non di questo, o di quel filosofo, ma della mente, e però una proprietà comune di tutte le menti, rimanendo affatto esclusa dalla Filosofia la questione erudita: qual' individuo abbia il primo veduti que' veri colla sua mente e convenevolmente pronunciati colla sua lingua. Come diceva dunque Socrate che niun Dio è malevolo agli uomini, così anch' io dicevo, che quelli che amano e cercano la verità, cosa divina, che è l' onore dello spirito umano non perchè egli la formi ma perchè n' è informato, sono i più benevoli, anzi i soli benevoli agli uomini, ed ai sistemi stessi da loro inventati; ch' essi soltanto sono quelli che procacciano il vero bene alla natura umana, che dalla verità deriva, e alla verità si riduce, e dentro a' loro sistemi riconoscono volentieri ed amano e prezzano tutto quello che c' è d' amabile, e d' apprezzabile, cioè appunto la porzione immortale di essi, la verità, nella quale sinceramente s' accordano e s' uniscono. Così non fanno coloro, i quali s' imaginano, che lo spirito umano meriti un onore per se stesso, indipendentemente dalla partecipazione della verità, e sembra che onorino questa come una creatura di quello, alla stessa maniera dell' errore, che certamente è una creatura, una pura creatura del medesimo. Costoro, non avendo più alcun punto fermo a cui dirigere i loro affetti, ripongono tutto il bello, la vita, la gloria della filosofia in quel movimento continuo, pel quale diversi, e contrarŒ sistemi nascono e cadono, e ricompariscono senza posa, e s' abbaruffano fra di loro in una mischia che non deve mai finire, acciocchè continui a mostrarsi vivace e rigogliosa la filosofia. Nell' arringo della quale essi si spingono cavallerescamente, non per la pace, ma per la guerra, e per la palma della vittoria, e tuttavia i più bravi fra essi non astiano il valore de' loro compagnoni, chè anzi ne lo magnificano, acciocchè sia più glorioso il combatterli, e nel vincerli spicchi maggior prodezza. Solo quelli che non hanno una cortesia così raffinata si strapazzano a vicenda prima di venire a' colpi, come gli eroi d' Omero. Tutti cotesti dilettanti dell' armeggiare gustano assai che i sistemi filosofici sieno molti e che rimangano sempre molti, acciocchè i tornei riescano più brillanti e spettacolosi, dando luogo a un maggior numero di campioni. E questo spiega perchè fin qui la storia della Filosofia, invece di narrare le avventure di quella Dama, che tutta soletta vince molti cavalieri, cioè dell' unica verità, che giostra co' moltissimi errori, non sia che una continua narrazione di gare e di puntigli, che hanno preso l' abito e le forme de' sistemi, i quali scaramucciano con gran valentìa senza intendersi, e senza che la vittoria si decida per l' una o per l' altra delle parti, perchè tanto dall' una, che dall' altra, s' adopera per lancia la verità mista coll' errore. A chi mai non è noto tutto ciò che è stato detto contro lo spirito irascibile, e contenzioso de' filosofi? A cui non son venute a noia le lor perpetue discordie ed emulazioni? Chi non ha preso scandalo di quella interminabile mischia di sempre nuove e contradditorie opinioni, nella confusion delle quali è impossibile, anche agli uomini di miglior vista, discernere la verità, o credere che ve ne sia una, quando i densi nuvoli che si sollevano di polvere olimpico, ne offuscan la luce? Perocchè non tutti gli uomini son battaglieri, o si dilettano solo di zuffe: onde volendo divertire troppo il mondo di sè, si finì pur troppo coll' annoiarlo. E si pretende ora di rimettere in istima la filosofia con uno spediente così nuovo (che in pratica è così antico) di divietare che si distrugga alcun sistema, e di raccomandare che si fortifichino tutti, acciocchè tenzonino ancor più alla disperata (1)? Quando pure, questa è la vera ragione del discredito, per non dire del disprezzo, in cui è caduta la filosofia: la cagione, per la quale gli uomini finirono col credere, che la verità filosofica sia irreperibile, e la filosofia stessa un trastullo di certi ingegni astrusi e stravaganti, che, senza curarsi gran fatto della verità, nè poter riuscire alla certezza e a recare alcun frutto all' umanità, amano di far prova e pompa delle loro forze colla vana gloria della cavillazione! Qual meraviglia che quando comparve al mondo improvvisamente un' altra dottrina di contrario carattere, sicura di sè, immutabile come la verità, completa come la sapienza, voglio dire il Vangelo, ne ricevessero una così grande scossa le scuole de' filosofi, e comparissero alla luce di que' trattati che, sottosopra, avean per titolo: Irrisio philosophorum ? E di questi trattati se ne vogliono ora degli altri? Il Vangelo li produsse in allora, e il Vangelo sta lì per riprodurli, se gli uomini ritornati sofisti, gliene dieno nuova occasione (e la scuola che il Cousin chiama teocratica, n' è almen la minaccia); il Vangelo, dico, che solo potè in appresso, siccome fece, rimuovere dalla filosofia la derisione e la beffa, restituendo al mondo la fiducia che avea perduta nella ragione e nella verità, comunicandogliene una grandissima parte, la parte essenziale e necessaria, anzi facendo molto di più, chè egli ne guarentì la perpetua esistenza nel genere umano, in virtù di quello stesso potere che ordina al sole di nascere ogni giorno e risplendere sulla terra; e accrebbe l' obbligazione d' amarla, infondendone ad un tempo negli animi un amore infinito. Così fu il Cristianesimo, che con tutti gli altri beni, dopo aver abbattuta la falsa, salvò anche la vera filosofia, la quale avrebbe sicuramente trovato la sua tomba nell' ecletismo alessandrino, o questo stesso, per dir meglio, senza di lui, non avrebbe avuto il tempo di farne balenare agli occhi degli uomini l' ultimo raggio. E però noi consideriamo come nostro dovere il mantenere alla filosofia quella dignità che le ha dato il Cristianesimo, e che tutta consiste nella nobilissima obbligazione, o se si vuole, nella felicissima necessità, di dover essere d' allora in poi, maestra di verità, e non punto altro; non già perchè l' uomo che filosofa sia divenuto infallibile, ma perchè tutto ciò ch' egli pensa o dice di contrario al vero non può più usurparsi, senza contrasto, il nome di Filosofia. [...OMISSIS...] Di che necessariamente consegue, che i pensatori e gli scrittori si debbano giudicar tanto filosofi, quanto hanno pensato o scritto di filosofica verità; e per aver essi pensato o scritto altre cose erronee, quante se ne vogliano, non si dee attribuir loro il nome di filosofi (chi pur voglia provvedere all' onore, alla conservazione, e al progresso della stessa filosofia); ma conviene che si denominino sofisti, nemici della Filosofia, o, secondo i loro speciali costumi, filosomati, filocremati, filomachi , o in generale, come volea Platone, « filodossi (2). » Poichè colui che si stanca e si lima l' ingegno non per arrivare al conoscimento della verità, ma per riuscire a distruggerne, se gli fosse possibile, o negarne alcuna parte, e con ardue, ma indottissime cavillazioni, annuvolare il sereno degli umani intelletti; questi fa appunto l' officio contrario a quello che è assegnato al filosofo; e quindi è manifestamente improprio e barbaro l' uso d' applicare lo stesso nome a chi professa due uffici non pur diversi, ma così contrari, quasi che il fare e il distruggere fosse una sol' arte. Ed è cosa ben singolare a vedere, che mentre gli uomini non usano così quando danno i nomi ad altre cose (chè nè s' intenderebbero più tra loro, nè canserebbero il morso del ridicolo); in questa sola materia della Filosofia, cadono in tanta confusione e inversione di linguaggio senza che se ne avvedano. Chi vorrebbe chiamare scultore egualmente il Canova, e colui che prendesse diletto nel graffiare e bucherare le finitissime sue statue? Chi accomunerebbe la denominazione di pittore a Raffaello ed a quell' insensato, che per mostrare il valor suo nell' arte, s' occupasse con grande assiduità, e mettendoci tutta la diligenza, a suggellare con qualche bel colore le pupille degli occhi, ed impastare i nasi, imbellettar le gote de' volti divini, che s' ammirano nelle tavole dell' Urbinate? A niuno potrebbe venire in mente, che un parlare così stravolto si giustificasse colla ragione, che tanto il Canova quanto il guastatore delle sue statue v' adoperi gli stessi ferri, gli stessi scalpelli, le scuffine, le raspe; e che tratti pure gli stessi pennelli, e gli tinga alla tavolozza de' colori altrettanto, quanto faceva il Sanzio, quel disennato che ne deforma le inapprezzabili dipinture. Ma che cosa è il sistema della verità, se non un cotale augusto simulacro, o una figura nobilissima di Dio stesso? E quanto questo altissimo lavoro col quale si scolpisce e colora in anime immortali la viva imagine d' un' eterna sapienza, non ha egli più di pregio, non merita più di riverenza, di quello, col quale gli eccellentissimi artefici danno forme eleganti al marmo e le avvivano sulle tele? Or poi quell' artista, che ad una tant' opera si consacra, chiamasi Filosofo; e l' arte che egli professa, chiamasi Filosofia. Laonde se questo è l' intento, questo lo scopo assegnato alla professione del filosofo; come se ne profanerà, e abuserà il nome accomunandolo anche a coloro, che maneggiano bensì lo stesso stromento del pensiero, ma con sì vituperevole imperizia, che ad altro non riescono che a demolire o sformare l' opera del filosofo? ad offuscare cioè co' sofismi quel lume di verità, che l' arte filosofica mette in aperto, a disformare, troncare, imbrattare colle macchie degli errori quelle membra decentissime del corpo della sapienza, che ritrae in carte il filosofo? E pure questa biasimevolissima improprietà passò quasi universalmente in costume, e nel secolo scorso l' ateismo stesso fu detto il segno d' una mente filosofica! E noi non istupiamo punto, che si vedesse qualche cosa di mostruosamente grande in una sì grande negazione, chè certo non ve n' ha un' altra che cancelli una porzione maggiore e più importante di verità, quand' anzi l' ateismo veramente la cancella tutta. Chi mai non sa che si dà anche un' ignoranza grande, un errore grande, una grande demenza? Ma ci maravigliamo, che si confondesse questa grandezza colla grandezza del sapere e della Filosofia. E a confondere grandezze di cose così opposte, s' usava questo argomento: « « Non v' ha gente così barbara e inospitale, che non ammetta qualche divinità, e con qualche culto non la onori: dunque per lo contrario non può essere che opinione di uomini dottissimi l' ateismo (1). » Quasi che la dottrina giunga al suo colmo, allorquando si dimostra potente a rimuovere dalle menti degli uomini quelle stesse verità, che nè anco la più efferata barbarie, e la salvatichezza medesima non vi ha potuto scancellare. Non ignoriamo quanto sia, e sia sempre stata cosa odiosa, lo scacciare dalla compagnia de' filosofi i maestri dell' errore: ma coloro che amano la verità devono esser disposti a subire l' applicazione dell' antico proverbio: « La verità partorisce odio », come Socrate, che negò coraggiosamente il nome di filosofi ai sofisti del suo tempo (2). Noi dunque non ci terremo, ma continueremo a dire, che è un' ignobile adulazione, perchè è una falsità di parlare, quella d' onorare col titolo di sistema filosofico, qualunque viluppo di proposizioni vere o false, che l' aberrazione della ragione umana o il delirio d' una imaginazione inferma, vi presenti siccome un trattato di filosofia. Può essere una debolezza d' animo e di mente il ricever la legge da' titoli de' libri, e da nomi de' loro autori: che se vi piace mantenere questa improprietà di parlare per qualche vantaggio reciproco che n' aspettate, ell' è una colpevole connivenza. Or come l' accogliere nel novero de' sistemi filosofici anche quelli che hanno per principio l' errore, col pretesto che racchiudono tuttavia qualche particella di verità (quasichè quel che hanno di vero non sia un elemento a loro eterogeneo da sceverarsi per raggiungerlo a quel sistema della verità di cui è proprietà inalienabile), pare un largheggiare d' onori, con manifesta ingiustizia, a cosa che non li merita; così è del pari un negare o scemare l' onore dovuto alla verità, con un' altra ingiustizia, il parlar di sistemi senza distinzione, mettendoli tutti in un fascio, partano essi da un principio vero o da un falso: questo umilia la verità fino al grado ignominiosissimo dell' errore; questo umilia ancora lo spirito umano. E poi, come sapete, che tutti i sistemi sono egualmente un miscuglio di vero e di falso? Pretendete, voi filosofo, che vi si creda sulla parola, che basti l' autorità del vostro giudizio? E come dunque avete poi tanta paura della teocrazia? ne sareste forse geloso? E pure non ci avea bisogno d' una grande penetrazione a capire, che se il principio supremo d' un sistema è vero, tutto il sistema dee riceversi siccome vero e rettificarne soltanto le conseguenze se mai non fossero derivate logicamente, cavarne dell' altre e così svolgerlo e completarlo: se poi il principio supremo d' un sistema è falso, tutto il sistema si dee avere per falso, e se vi s' incontrassero per accidente delle cose vere, queste che non son sue, nol rendono vero. Onde l' accoglierli tutti senz' altra distinzione, è un voler esser filosofo alla guisa d' Omero, che avendo, come osserva Seneca, ne' suoi poemi tutte le filosofie, non ne ha veramente nessuna (1). Convien dunque dire, che niun sistema, propriamente parlando, è misto di vero e di falso (benchè il vero ed il falso possa esser misto ne' libri in cui i sistemi si contengono), ma i sistemi sono tutti o semplicemente veri o semplicemente falsi; ed i sistemi veri (1) si allontanano più che il cielo dalla terra da' falsi, e però non si possono confondere nella medesima categoria, nè pronunciar di tutti in monte una sentenza; e di più, i sistemi falsi, son sistemi d' errori, e quindi a rigore non meritano il titolo di filosofici, ma sì d' antifilosofici. Convien dunque onorare lo spirito umano, diciamo anche noi col signor Cousin, ma intendendo l' onore dello spirito umano in altro modo. Chè per noi tale onore non consiste punto nel calore e nella ostinazione con cui esso spirito umano contraddice e discerpe se stesso, nè si procaccia il richiamare indietro il mondo a' costumi gentileschi, cioè a un tempo passato per sempre. Allora framezzo alle scandalose e impotenti mischie de' filosofi s' udì una voce nuova e potente che diceva: « « La Filosofia non si può ottenere da coloro che consumano l' opera loro in pugne e contrasti di parole »(2), » voce ascoltata da' migliori tra gli stessi filosofi (3), ma più ascoltata da tutto il mondo, a cui parve manifesta la vanità di que' dottori, che faceano la filosofia, come i condottieri del medio evo faceano la guerra. L' onore dello spirito umano, ripetiamolo ancora, per noi sta unicamente nella verità di cui egli può esser partecipe, e n' è veramente, la cui conseguenza è la pace e la concordia; siccome il suo disonore sta nell' errore e nella perpetua incertezza della dissensione. Laonde il disonorare quella verità che lo spirito umano non crea, ma vede, e, vedendola, se ne illumina ed incorona, e l' onorare per l' opposto quell' errore, pur troppo sua creatura, che acceca e scorona il suo creatore; sono due modi di fare ugualmente allo spirito umano vitupero e atrocissima ingiuria. E questo si fa appunto nell' uno e nell' altro modo ad un tempo col sommettere alla stessa sentenza del signor Cousin, benchè sentenza più di grazia che di giustizia, i sistemi veri ed i falsi, e in volerli tutti conservati e affortificati egualmente. Ora se di questa sentenza si possono chiamar contenti tutti gli autori e seguaci de' sistemi falsi; per l' opposto il nostro paciere s' avrà sollevati contro con essa tutti gli autori e seguaci de' sistemi veri, i quali appellano e fanno valere davanti ad un tribunale più autorevole, qual è il senso e la coscienza del genere umano, benchè a dir vero tribunale teocratico, i loro gravami. Come dunque l' ecletismo promette la conciliazione di tutti i sistemi tanto filosofici, quanto antifilosofici, senza distinzione? che conciliazione è possibile in questo modo? Quanto a noi, intendiamo di gratificare agli autori de' sistemi veri; e se il signor Cousin riesca a metter pace, almeno tra' suoi, forte ne dubitiamo (1): all' opposto confidiamo di poter noi aver pace co' nostri, noi che consideriamo il sistema della verità come il fondamento dell' unica pace possibile fra le intelligenze, e causa d' ogni altra pace. E come si può ottenere la pace, quando la pace stessa si pone nella guerra, cioè nel conflitto de' sistemi? Come si può parlare di conciliazione, mostrarne l' importanza, declamare contro quelli che la ricusano da uno, che mette per condizione alla medesima il conservare tutti gli opposti sistemi, e anzi di più l' affortificarli tutti? e che nello stesso tempo vi dice, v' assicura sulla sua parola, che in tutti, niuno eccettuato, v' ha qualche cosa di falso? Non è proprio degli errori, che hanno una natura così moltiplice, d' escludersi e di combattersi a vicenda? e di combattere sopra tutto la verità? Onde, se tutti i sistemi racchiudono nel proprio seno errore e verità (2) (che è il postulato su cui si fabbrica l' ecletismo, e non è altro certo che un postulato, e per buona sorte non come quelli de' matematici che non si possono rifiutare), non solo avremo molti sistemi discordi, ma in ciascuno avremo i semi della discordia! E notate, che si confessa, che l' indole di tali sistemi è l' esclusività, per modo che ciascuno vuole esser solo, ed è questa esclusività che li rende sistemi distinti, cessata la quale, non rimarrebbero più molti sistemi, ma si fonderebbero in uno. Il che si riconosce anche per un difetto, ed un difetto, che a ciascun sistema è così essenziale, che senz' esso non si può conservare, molto meno fortificare. Tuttavia ogni sistema si vuol conservare ed affortificare, a condizione che niuno domini in su gli altri, cioè che non sia esclusivo! Mi dispiace che la contraddizione qui spicchi a tal segno, che mi taglia quasi a mezzo il ragionamento che stavo facendo; perocchè non si può più nè pur domandare come una contraddizione sia possibile, chè una tale domanda equivarrebbe a quest' altra: come sia possibile l' impossibilità. Ricopriamo dunque per un poco questa contraddizione col velo di quelle parole vaghe ed indeterminate, colle quali la copre l' autore dell' Ecletismo, e sostituendo la parola di conciliazione a quella di contraddizione, dimandiamo come la conciliazione promessa sia possibile? Ci si risponde: colla tolleranza (1). Bellissima parola, e gratissima agli orecchi degli uomini che ci vivono. Ma si è mai pensato seriamente al significato di questa parola: tolleranza ? Certo se per tolleranza s' intende - diffidare della propria opinione e rispettare l' altrui dentro i confini che la prudenza assegna, compatire gli altrui errori anche evidenti e le altrui debolezze anche viziose, non prenderne pretesto d' invadere gli altrui diritti, astenersi da ogni giudizio temerario, esser benigno e benevolo a tutti, - questa è una virtù preziosa, ma una virtù che s' esercita verso le persone, non verso i sistemi, e, appunto perchè è una virtù, è un abito della volontà umana, non una scienza. Ora noi non eravamo nel campo della volontà, eravamo in quello della mente, parlavamo di filosofia, di sistemi filosofici, di errori e di verità: bisogna che ce lo ricordiamo. Non è egli un grande scambio cotesto, di trasportare all' intelletto le leggi della volontà, e pretendere ch' egli ubbidisca ad altre leggi diverse dalle sue proprie? Chi non sa che la tolleranza è una legge impossibile a praticarsi dalla mente? chè la mente è sempre per sua natura intollerante (se mi si permette di così parlare), e se potesse tollerare la contraddizione e l' errore da lei conosciuto, compirebbe con ciò una tale annegazione di sè stessa che si annullerebbe. Il costringere dunque la mente ad essere tollerante è un costringerla ad annullarsi: e questo per fermo non è filosofico: anzi a buon diritto si può chiamare un' intolleranza, e un' intolleranza così enorme, che l' uomo per essa non tollera più l' esistenza sua propria della sua mente, e di conseguente molto meno quella della Filosofia. E la colpa per certo non è della mente, se non si presta a leggi che non son fatte per lei: la colpa, se qui c' è colpa, è tutta dell' intollerantissima verità, dell' inesorabile logica: le idee non le fa l' uomo, le riceve bell' e fatte, nè si rifanno, ed oltracciò esse non sono persone, in verso a cui si possa usare la virtù della tolleranza, della compiacenza, e somiglianti. La conciliazione dunque de' varŒ sistemi fatta per via di tolleranza, quale ci viene proposta dall' Ecletismo francese, somiglia perfettamente all' unione delle sette protestanti incominciata nel ducato di Nassau nel 1.17, ed estesa poscia in altri Stati, e specialmente in Prussia per opera del defunto Re, unione singolare, nella quale ciascuna setta mantiene la sua credenza, e tuttavia con credenze diverse e contraddittorie, ciascuna delle quali condanna l' altra, vogliono tutte formare una sola Chiesa, che chiamarono evangelica , come se il Vangelo fosse il complesso di mille contraddizioni, il sincretismo mostruoso di tutte le sette protestanti! Questi fedeli, che per formare una sola Chiesa si contentano d' un nome comune e d' alcune esterne forme, indifferenti poi alle cose , ai dogmi dagl' individui professati, v' assicurano di rappresentare colla più fedele somiglianza la Chiesa Cristiana de' primi secoli! A tale esemplare si modella l' ecletismo francese: egli propone a' filosofi una unione, o conciliazione d' egual taglia, in cui un nome comune, alcune frasi indeterminate, qualche botta contro la teocrazia scusano e ricoprono la sostanziale differenza d' opinioni, che divide gli ecletici, i quali protestano di mantenere, d' affortificare, per onore dello spirito umano, tutti gli opposti sistemi. Solo che a questa proposta di conciliazione, n' aggiungono un' altra speciale, ed è, che i sistemi esclusivi si facciano alcune reciproche concessioni (1), quasichè sistemi su principŒ diversi fondati, potessero esser tanto compiacenti, o far concessioni senza distruggersi, anzichè conservarsi ed affortificarsi. Per fermo che unioni e conciliazioni di tal natura non sono filosofiche, nè da filosofi possono esser proposte, nè ricevute: lasciamole dunque fare a' politici, a' ceremonieri, a' protestanti. Noi distinguiamo la legge dell' intelletto da quella della volontà: non imponiamo questa a quello, che sarebbe una confusione troppo madornale: nè con tali scambŒ potremmo mai condurre avanti la filosofia, nè scorgere quali sieno le cose, che, nell' ordine dell' intelletto, ammettano una conciliazione, quali quelle che non l' ammettano. La verità si concilia sempre colla verità, l' errore si concilia rare volte con se stesso, mai colla verità. L' assumersi un' autorità così grande, com' è quella d' imporre a proprio arbitrio un' altra legge all' intendimento, è un vincere in assurdo que' demagogi, che sotto il nome di libertà insinuano la più ributtante tirannia, è un darsi a credere di poter estendere a man salva il proprio dispotismo intellettuale sull' umana natura, e su quella verità che n' è la legislatrice e l' unica regina legittima. La verità dunque, ecco il solo punto possibile della conciliazione, e questa conciliazione (non ne riconosciamo alcun' altra) è quella che noi abbiamo sempre tenuto davanti agli occhi nelle filosofiche discussioni. Ci permettano anche qui gli amici nostri di rammemorare il cominciamento de' nostri studŒ e come nacque in noi il desiderio e il tentativo di una tale conciliazione. Nell' adolescenza la nostra mente ignara di ciò che era stato pensato e scritto, entrò con ardire, non insolito a' giovani, nelle questioni filosofiche: ve l' introdusse un uomo quasi sconosciuto al mondo, indimenticabile a noi, Pietro Orsi. Colla gioia che il primo aspetto scientifico della verità infonde nell' anima, con una sicurezza quasi baldanzosa, con delle speranze indefinite proprie di quella età che per la prima volta si volge con una riflessione elevata e consapevole, all' universo ed al suo autore, e gli par assorbir l' uno e l' altro colla facilità con cui respira, noi ci ravvolgevamo giorno e notte, quasi pei sentieri d' un giardino, nel vasto campo delle filosofiche questioni, non ci arretravamo dinanzi ad alcuna difficultà, anzi la difficultà ci rendeva più animosi, chè in ogni difficultà vedevamo un secreto atto ad eccitare la nostra curiosità, un tesoro a scoprire, e consegnavamo alla carta il frutto giornaliero di quell' ingenua e ancora inesperta libertà di filosofare, conscŒ di affidarvi i semi che ci doveano preparare il lavoro di tutta quella vita, che Iddio ci avesse poi conceduta. E per vero tutti gli scritti che poscia, in età più matura, comunicammo al pubblico, furono lo svolgimento di que' semi. Dopo quella prima fatica, noi confrontammo di mano in mano a quegli spontanei e imperfetti pensamenti, tutte le dottrine de' filosofi; ed ogni qualvolta le riscontrammo ad essi consentanei, ci tornò caro come può esser caro l' incontro d' un amico, e il trionfare in sua compagnia. Eravamo troppo persuasi della fallacità della mente di un solo e della nostra particolarmente, e intendevamo, che, per assicurarsi a pieno del vero, non solo è necessaria un' autorità in quelle cose divine, a cui non giunge il raziocinio della mente, ma di più, che un' autorità, o, se si vuol meglio, l' assenso d' altre menti è mestieri soppravvenga a confermare la dirittura degli stessi naturali raziocinŒ. I quali certo sono quelli che costituiscono la scienza, chè la Filosofia, come abbiam detto più sopra, di raziocinŒ si compone, e non di autorità; ma l' autorità sopraggiunge sempre a tempo ed utilissima a rivedere ed a suggellare colla sua testimonianza, i medesimi raziocinŒ, di cui quella s' intesse. Allora intendemmo via meglio e apprezzammo la maniera di sentire di Seneca, dove dice: [...OMISSIS...] Non apparisce in questo filosofo, che è de' più sensati, alcun timore, che, stabilendosi nelle menti l' unico sistema vero, la Filosofia vi trovasse la sua tomba. Quando il capo dell' ecletismo francese si dimostra sollecito e in gran pensiero di questo che gli pare troppo sinistro avvenimento, mi comparisce del tutto simile ad Alessandro Magno, che piangeva d' una vittoria riportata da suo padre, per timore che non gli restasse più paese da conquistare. Noi crediamo, che in questo vecchio mondo, ricco di così varie e lunghe esperienze e di tanti disinganni, il diritto di conquista sia oggimai screditato, e che come nell' ordine delle cose politiche difficilmente può evitare la taccia di prepotenza, così nell' ordine delle cose filosofiche difficilmente possa evitar quella d' impostura. E ad ogni modo crediamo che alla contenzione degli spiriti che ambiscono con nobile gara di scoprire la verità, sia da preferirsi la verità già scoperta: crediamo che anche dopo essersi questa scoperta, non possa giammai mancar il lavoro a quelle intelligenze che vogliono assumersi la fatica d' accrescerne la luce e di renderla evidente agli occhi degli uomini, persuasi siccome siamo, che la luce della verità possa sempre aumentarsi all' intelligenze umane: crediamo che come ogni sistema riposa in un principio, onde anche emana; così il principio di quello che noi chiamiamo il sistema della verità abbia una natura tanto feconda, che affaticandosi intorno ad esso tutti gli uomini, non possano finir mai di derivarne nuove conseguenze, nuove, inaspettate e importantissime applicazioni, e che l' opera dell' annodare a quel principio tutte le scienze e tutti i fatti della natura e della storia che ci si riferiscono, e di farne riuscire così, congiunto in un corpo bellissimo, tutto lo scibile umano, sia inesauribile e per poco infinita: crediamo che quand' anco questo smisurato lavoro potesse quando che sia compirsi dagli umani ingegni, ne rimarrebbe loro un altro, sempre nuovo, sempre rinascente, non meno pregevole che non concederebbe alcun ozio, quello di conservare tanta copia di ordinata dottrina, di propagarla a tutti gli uomini, di vestirla di tutte le forme, di tramandarla intatta alle generazioni che si rinnovano, di difenderla e di proteggerla contro all' attivissimo, inquietissimo, cavillosissimo principio che mai non muore e sempre s' agita, del male e dell' errore: finalmente crediamo, che gl' intelletti esercitino un' azione grande e compiuta, anche col solo riposarsi nella verità, col fruirne, col comunicarne in se stessi la fruizione alla volontà, che sola l' attua, la realizza, e, rapendola al cielo della mente dove si mostra quasi pendula, la reca veramente in mano dell' uomo. Il perchè niun filosofo si spaventi, come le femmine della versiera, al pensiero della morte della filosofia predetta dall' ecletismo, nè perciò desista o si rallenti nella ricerca di quell' unico sistema, nel quale, come nella sua più alta idea, dee riguardare e fissamente intendere la filosofica investigazione. Chè niuna cosa muore col giungere alla sua perfezione, e non è verosimile che quest' accidente succeda alla sola filosofia giungendo al suo sistema perfetto. Piuttosto l' arduità e la vastità dell' impresa consiglia ad affrettarsi al lavoro; e prima a rimuovere gli ostacoli della discordia, i quali impediscono che le menti s' uniscano veramente nella verità. Laonde egli è un avvicinarsi a sì desiderabile effetto lo svelare i sistemi erronei, e, colla luce del vero, senza alcuna compassione, dileguar quelle ombre, lasciandoli soltanto segnati nella storia, come gli scogli e le arene nelle carte de' navigatori. Fra i sistemi veri, noi dicevamo, la conciliazione è possibile e desiderabilissima. E prima di tutto è mestieri vegliare attentamente per non cadere nell' ingiustizia, per non escluderne alcuno, e rilegarlo a torto nella classe de' falsi. Che se si riscontra qualche particella di falsità nelle conseguenze mal dedotte da un vero principio, questa si vuol correggere, non il sistema stesso rigettare. Di poi è necessario misurare l' altezza di ciascuno di que' principŒ che costituiscono la base de' sistemi, e a quelli che sono più elevati subordinare i principŒ meno elevati, e tutti all' altissimo, dal quale gli altri derivano siccome conseguenze. Con questa prima industria un sistema s' inserisce opportunamente nell' altro al debito luogo, come ramo al suo tronco, onde di molti parziali ne riesce un solo o completo, o certo meno parziale. Di poi, è da distinguersi la verità dalle varie forme di cui ella si veste, dai varŒ modi di concepirla, dagli aspetti o lati differenti, da' quali ella si mostra visibile alle menti. Questi non sono che altrettante parti della stessa verità, niuna delle quali esclude l' altra, niuna contraddice l' altra, ciascuna le aggiunge un nuovo raggio di luce. Quel savio che sarà animato dallo spirito della conciliazione, troverà sotto tante espressioni diverse, entro molteplici pensamenti, l' unità bellissima del vero, moltiplice senza misura nelle sue apparizioni, ma sempre concorde e consentaneo con se medesimo: questa è la seconda industria colla quale si può addurre una giusta conciliazione fra tutti quelli che rettamente filosofeggiano. Una forza che aiuta grandemente la conclusione di questa pace filosofica, vuol essere la benigna interpretazione delle altrui sentenze. Perocchè non è meno difficile il retto favellare del retto pensare. E però non di rado accade che l' uomo non esprima convenientemente tutto il proprio pensiero, ed allora l' equità esige, che chi ascolta o legge, lo interpreti, e quasi l' indovini sotto l' enimma dell' imperfetta espressione, quasi nobile simulacro coperto dà un velo. Conviene in tal caso cogliere lo spirito dello scrittore piuttosto d' attenersi alla lettera: considerare ciò che risulta da tutto il contesto de' vocaboli, delle sentenze e de' ragionamenti, ma soprattutto porre l' attenzione nella coerenza che aver devono le conseguenze dubbiose co' principŒ certi e colle intenzioni chiaramente manifestate dal pensatore. Un lietissimo e oltremisura desiderato risultamento mi trovai in mano dall' applicazione di queste regole, e si fu aver io acquistato la persuasione; che tutti i grandi filosofi, rispetto alle cose principali e più necessarie all' uomo, differiscono fra di loro più in apparenza che in sostanza, e sebbene di varie forme, non sempre convenienti e adeguate, rivestano la verità, pure nella verità stessa, senza talora avvedersi d' esser concordi, s' abbattono. Laonde lasciando da parte coloro che Cicerone chiamava « minuti filosofi (1) » alla qual distinzione del romano oratore tra i filosofi minuti e i grandi risponde quella che noi trovammo necessaria tra gli autori de' falsi, e gli autori de' veri sistemi; mirabil cosa è a vedere, come le sentenze coincidano nelle medesime capitali e supreme verità, e concordino colla fede e colla coscienza del genere umano, dalla quale que' minuti, non filosofi ma sofisti, dipartendosi, pensano, con insensatissima vanità, di parere dottissimi. E tuttavia questi stessi, qualunque abuso facciano del loro ingegno, qualunque sieno le illusioni di cui si circondano, quasi d' uno steccato che tenga da loro lontana la verità, in qualunque abisso d' errori si sprofondino per non esserne raggiunti, non arrivano mai a radere del tutto dall' anime loro quello che v' ha impresso con caratteri indelebili la natura, nè a soffocare del tutto quella inestinguibile fiammella, ond' hanno accesa l' intelligenza, nè ad imporre un intero e perpetuo silenzio in sè al sentimento umano, che cerca pur quella luce, che con sì grand' arte gli si toglie, come fanno le pupille del moribondo. Laonde da costoro medesimi, non perchè filosofi, ma perchè uomini, si possono raccogliere efficacissime testimonianze rese alle medesime verità, sia in quelle confessioni che scappano loro di bocca in alcuni istanti ne' quali vigilano meno la propria natura, sia nelle contraddizioni colle quali da se stessi tradiscono e distruggono i proprŒ errori, sia in que' temperamenti, che nell' esitazione aggiungono alle proprie dottrine, le quali con una aperta e nuda assurdità offenderebbero soverchiamente, e provocherebbero alla difesa il comun senso degli uomini. Chè sentono anch' essi, e non possono non sentire, la felice necessità d' aggiungere all' errore qualche brano di vero. Poichè come l' essere è necessario al nulla acciocchè questo si possa concepire, così la verità è necessaria all' errore, acciocchè questo si possa ricevere nelle menti, dalle quali sarebbe ripulso se non facesse valer come sua l' amabilità ch' egli usurpa al vero con cui astutamente si mescola, e si confonde. E anche in un' altra maniera tutti coloro che trattano le questioni appartenenti alla filosofia, ragionino in buona o in mala fede, rendono indirettamente testimonianza alla verità, e n' aiutan la causa; cioè col dare a vedere, pur cogli sforzi de' loro ingegni, dove abbian trovato il forte della questione, cioè il nodo difficile che tentarono, quantunque invano, di sciogliere, e che non potendo e pur volendolo ad ogni patto, diede a molti di loro occasione d' errare. Perocchè il sapere dove giaccia precisamente la difficultà, è già un passo, e grande, verso la stessa verità; chè, quando questa è recondita e munita d' ostacoli, non si può espugnare, se prima non s' esplori da tutti i lati la fortezza che la difende. Di che possiamo recare in esempio le disputazioni molte e i sistemi de' filosofi intorno alla quistion principale dell' origine delle idee, che tutti coll' aver urtato nella medesima difficultà, presentatasi loro in varie forme, concorsero a renderla più manifesta e da molti aspetti visibile, e così ne facilitarono gli approcci, e n' apparecchiarono l' espugnazione. Laonde a me pare non inutile l' autenticare i raziocinŒ, che son venuto esponendo, quasi di continuo colle altrui autorità, e colle sentenze de' grandi filosofi precipuamente, interpretate con equità, collazionare e confermare le nostre; non già per surrogare nella filosofia l' autorità al ragionamento, ma perchè è una guarentigia della mente, un gran conforto dell' animo, di cui la stessa filosofia nell' arduo suo viaggio tanto abbisogna, l' udire quel quasi concento delle umane intelligenze. Come dunque la conciliazione e la concordia non può trovarsi che nell' unità, così ci parve assurdissimo il cercarla nella moltiplicità de' filosofici sistemi, voluta mantenere ad ogni costo dall' ecletismo colla fiducia di piacere in tal modo a tutti i loro seguaci; il che, siccome abbiamo già prima osservato, è un cercar la pacificazione della filosofia, dove non è punto la filosofia, cioè fuor della mente, lasciando frattanto in questa ardere, anzi attizzandovi, il dissidio delle opinioni e delle idee. E se nell' unità del sistema può solamente trovarsi la conciliazione degl' ingegni e la perfezione e la pace della filosofia: dunque nella verità, perchè la verità sola è una, e l' errore molteplice. Certo per coloro che, avvezzi alla scuola, all' animoso fervor della disputa, al grato spettacolo che dà l' attrito e la percossione delle menti giovanili ond' escono inaspettate scintille di luce, alla gioia della vittoria nelle superate tenzoni, non distendono i loro pensieri fuori delle mura dell' Università, può parere di poca importanza quella conciliazione e quell' unità, a cui, secondo noi, è uopo d' indirizzare seriamente i filosofici studi. Ma se traendo fuori l' animo e con esso l' attenzione della mente dallo steccato filosofico, si riguarderanno le conseguenze della proposta concordia, queste si ravviseranno così importanti all' umanità, che il voler tuttavia conservata, nella moltiplicità de' sistemi, la materia e il fomento alle questioni scolastiche, incomincierà ad apparire più ancora colpevole che puerile. E il timore stesso, che possano mai mancare a quelle questioni argomenti, è vano come vedemmo. Che la conciliazione sia desiderabile, il dimostrano, a troppa evidenza, i dissentimenti, onde noi, cogli occhi nostri, vediamo il mondo diviso, e turbato: scissure, odŒ, guerre, minaccie di guerre, partiti che, a guisa di tori, dirò con un antico, traggettano in v“to le corna. E perchè tanta divisione di animi, tante sette che s' insidiano a morte, tanto incendio di passioni, dove più fiorente è la coltura, più avanzata la scienza, in questa Europa, con iscandalo de' popoli ancora incolti? Forse, che dove più sono le idee, ivi ancora si debbano accendere più numerose le discordie? Ovvero avvien questo, non pel numero maggiore delle idee e delle opinioni, ma per la loro discrepanza? Certo il verace fondamento della concordia nella convivenza umana, come pur quello della discordia, nelle idee e nelle opinioni o concordi o discordi, si dee ricercare. Perocchè ell' è sempre un' idea, quella che presiede, guida e s' imprime, per così dire, in tutte le operazioni degli uomini. E non solo le singole operazioni hanno per base un' idea; ma fra le idee stesse, ve n' ha di sì generali che costituiscono il tipo e danno il carattere a quella lunga serie d' azioni onde s' intesse l' intera vita degl' individui, e medesimamente da una di quelle primarie idee, come da una secreta norma, prende un' unica sua forma tutta quella mole d' operazioni, dal complesso delle quali risulta in ogni tempo la condizione morale e civile e politica delle nazioni. Che anzi nel fondo stesso della storia, come fu già osservato, nel fondo di tutte le varie vicende per le quali procede, svolgendosi e trapassando su questo globo, l' umana specie, si rinvengono alcune idee, divenute altrettante leggi di quella complicatissima successione d' avvenimenti, in apparenza casuale, e la compartono regolarmente in determinati periodi, ciascun de' quali non è già governato dalla dominazione e dall' influsso d' un astro; ma sì bene dal dominio d' una idea prevalente a quel tempo nelle menti umane, la quale poscia dà luogo di mano in mano al dominio d' un' altra. Laonde se le idee e le opinioni sono discordi nelle umane menti, forz' è che gli affetti altresì dell' animo e le operazioni della vita esteriore riescano discordanti; e per lo contrario, se le umane menti si mettan d' accordo nelle idee e nelle opinioni, incontanente questo mentale consenso influisce nel vivere, e comparisce la benevolenza fra tutti, e quell' unione, in cui sta la pace e la forza sociale. E tu il sai troppo bene, povera Italia, che più lungamente e più atrocemente d' ogni altra regione esperimentasti i funesti effetti della discordia, e ne fosti la vittima! Perocchè io mi credo che il genio stesso del male, temendo forse più da te, che da ogni altra nazione, per ogni tuo angolo agitasse più che altrove la face della discordia, e ve l' accendesse, acciocchè discorde, tu fossi altresì divisa, e divisa, tu rimanessi debole, e debole, tu divenissi pusillanime ed infingarda, e prostesa nella tua infingardaggine, tu non sapessi più nè manco conoscere la vera cagione della discordia. Eccoti questa qual è: il non aver tu un' opinione ben ferma, e l' averne molte deboli e discrepanti. Nella tua mollezza, ne' tuoi studŒ superficiali, in recitando, vecchia fanciulla, le lezioni apprese alle scuole altrui, tu non ti potesti formare giammai una filosofia, una dottrina che fosse tua, e però nè pure avesti una nazionale opinione: sorgi, tendi all' unità intellettiva, che, se tu vuoi, non ti può esser contesa, e diverrà allora fortissima la tua sciagurata bellezza. Or poi sieno qui rese grazie a que' generosi, che all' intento d' ordinare una filosofia che conduca a raggiungere quegli scopi, che ho indicati nella prima parte di questo discorso, e le utilità che conseguono alla conciliazione delle opinioni, mi porsero amicamente la mano. Molti n' ho trovati fra' miei concittadini, e sarebbe impossibile il nominarli tutti, benchè a tutti sia v“lta la mia riconoscenza. Non posso però passarmi in silenzio primieramente i professori dell' Università Torinese Giuseppe Andrea Sciolla, Pietro Corte, e Michele Tarditi, che i primi dettarono de' trattati, difesero, portarono in sulle cattedre, con rara concordia d' intendimento, quella dottrina stessa che noi proponevamo. Ed ahi che due di questi egregi, i quali l' amore d' uno stesso vero e la consuetudine delle stesse fatiche filosofiche, avea resi con noi quasi fratelli, ci furono così in breve rapiti dalla morte con non lieve danno della scienza e della patria; l' uno quello specchio di probità, quell' esempio d' amicizia, lo Sciolla, già inclinato a vecchiezza, ma l' altro, il Tarditi, nel pieno vigor dell' età, e nel fiore delle speranze! Ma essi, lasciando dopo di sè una bella accolta di valorosi discepoli, or sono là « « dove vegliano con perpetua vista nel sacro amore (1) » » e questo sia al dolor nostro lenimento e conforto. Gustavo di Cavour, a cui siamo avvinti con tutti que' legami d' antico affetto e di stima che s' intessono di cose eterne, fu forse il primo che, scrivendo in lingua francese, facesse conoscere la stessa dottrina alla Francia. Di poi Alessandro Pestalozza, professore di Filosofia nel Seminario Arcivescovile di Monza, ne pubblicò, il primo nella patria lingua, un intero e più copioso corso, e con più scritti validamente la difese contro alle obbiezioni mosse e svolte con eloquenza, da un celebre ingegno. Finalmente colui che avea rapito tutta l' Italia coi numeri d' una nuova lirica divina, che vi avea iniziati gli studŒ storici coll' esempio d' una diligenza non comune presso di noi, e con un acume di critica raro per tutto, che in una sagacissima pittura dello spirito umano, sotto forma di romanzo, avea date lezioni di severa e delicata morale, che con nuovi principŒ sulla lingua e sulla letteratura avea saputo additar la via da render quella più omogenea e più certa, questa più virile e più sincera, l' una e l' altra stromento più acconcio all' italiana concordia; questi, riposandosi quasi, dopo aver percorso sì varŒ e sì felici studi, nella filosofia, occupazione convenientissima alla sua età ed alla sua erudizione, fece pur ora dono all' Italia di un dialogo intitolato « « Dell' invenzione » », nel quale resta in dubbio se vinca la finezza dell' ingegno perspicacissimo, o l' urbanità dello stile, e non sai a quale delle due egregie doti, tu conceda più la tua maraviglia. Finalmente noi professiamo la nostra riconoscenza anche ai nostri leali avversari. Abbiamo narrato nelle due parti precedenti quello che abbiamo fatto, o che abbiamo avuto intenzione di fare. A compimento del discorso rimane ora da dire quello che non abbiamo fatto, e che non si può fare con letterarie fatiche e studŒ. Di questi studŒ, de' quali rendemmo conto ai nostri amici e a tutti quelli la cui benevolenza c' impose la dolce obbligazione della gratitudine, furono effetto gli opuscoli che abbiamo pubblicato e che or si raccolgono. Ma quello che si contiene ne' libri, ne' quali non si può trovare altro che scienza, non è nè il tutto, nè il meglio dell' uomo, o i libri trattino di quelle cose di cui, non essendo autor l' uomo, solamente da lui si contemplano, o di quelle le quali, essendo nella potestà dell' uomo, da lui non solo si contemplano, ma ancora si fanno. Chè la potestà che ha l' uomo di farle e le stesse azioni con cui egli le fa, come pure tutte l' altre realità da lui percepite, nè sono scienza, nè possono ne' libri racchiudersi: la stessa natura le esclude dalle scritture, e le colloca al di fuori della scienza, alla quale le scritture richiamano e dirigono, siccome altrettanti segni, il pensiero. Il che non è negato da persona, ma pochi tuttavia intendono quanto importi che questo si consideri. Perocchè v' ha qui una di quelle verità d' indole singolare, che sono nel tempo stesso e facilissime a concedersi, e difficilissime a comprendersi. E di ciò non è dispregevole prova il vedere che così sovente gli uomini, anche dotti, ripongono ogni importanza nella scienza e mostran di credere che con essa sola altri diventi sapientissimo uomo e perfetto, onde colla scienza che appartiene all' ordine delle idee, tornano a confondere la bontà della vita che appartiene all' ordine delle azioni e delle cose reali, la quale alla scienza è bensì confinante, ma al di là per gran tratto si stende. E a conferma di questo posson giovare le sentenze di quegl' ingegni che a perscrutare la natura delle cose morali più particolarmente si applicarono, le quali di rado sono consentanee a se medesime, ma per lo più, senza alcuna costanza, asseriscono l' una cosa e l' altra: ora dalla filosofia distinguersi la virtù, ora queste due cose farne una sola, ora finalmente distinguersi, ma andarsene sempre di conserva indivisibili. Vedasi una tale incoerenza nelle lettere di Seneca. In più luoghi questo moralista ripone la Filosofia nell' insegnamento della virtù, e, come più sopra noi abbiamo escluso dalla classe de' filosofi quelli che non professano la verità, così egli ricusa tal nome a coloro che non danno la dottrina della virtù: « Videndum, utrum doceant isti virtutem an non: si docent, philosophi sunt (1) ». Nella quale sentenza, non guari lontana dalla nostra, e che ugualmente mira a ristabilire la proprietà del parlare riserbando i vocaboli alle cose per le quali furono istituiti, si distingue la virtù, e l' insegnamento della virtù , e non in quella, ma in questo si ripone l' ufficio della filosofia. Ma in un' altra lettera, dimentico d' aver detto che la filosofia è una scienza (e la scienza giace nelle mere idee), un insegnamento (e l' insegnamento si compone di parole), benchè l' una e l' altro possa avere la virtù per oggetto, egli colloca la filosofia non più nelle idee, non più nelle parole che le significano, ma nelle cose, cui quelle rendono note all' uomo, e queste insegnano all' altr' uomo, e vi dice che: « Philosophia - non in verbis, sed in rebus est (2). » Così colui, che avea prima chiaramente distinta la scienza dall' azione , la prima delle quali non può uscir mai dall' ordine delle notizie senza perdere il suo carattere di scienza, la seconda entra nell' ordine delle cose reali; di poi, perduta di vista questa massima differenza, vuole che la scienza della filosofia nelle stesse cose si trovi, in quelle cose che ad essa non ispetta altro che insegnare o additare co' vocaboli all' altrui intendimento. Ma in un terzo luogo egli poi torna a riconoscere che quelle cose che qui confonde in una, sono due, e due a segno, che hanno fra loro una cotale opposizione, come il passivo e l' attivo; onde esponendo l' altrui sentenza, alla quale egli non nega l' assenso, le vuol distinte, ma però indivisibili. [...OMISSIS...] Nelle quali parole quantunque si distinguano la filosofia che è lo studio, e la virtù che n' è l' oggetto, tuttavia non si riconoscono per due forme categoricamente diverse, ma piuttosto per due gradi della cosa medesima, perocchè non pare che si possa intendere il concetto espresso nel testo allegato, se non così: che la Filosofia sia una virtù incipiente, la quale accresca e perfezioni se medesima coll' esercizio; ovvero che la filosofia sia una virtù speciale, la quale conduca l' uomo all' acquisto delle altre virtù, alla virtù universale; e nell' uno e nell' altro modo la filosofia ha perduto il carattere di pura scienza. Quello che professavano que' due sofisti di Chio, Eutidemo e Dionisiodoro, che Platone introduce a disputare nel dialogo che egli inscrisse col nome del primo di essi, cioè « di aver trovata l' arte di rendere gli uomini da malvagi buoni », e questo in un modo facile ed ottimo, unicamente con alcune loro argomentazioni, è quello nella sostanza che promisero agli uomini tutti i filosofi gentili prima di Cristo, e che promettono, se non così esplicitamente chè non potrebbero più esser creduti, pure implicitamente, anche molti de' moderni. I quali tutti non possono evitare l' uno di questi due errori, o che la bontà e la virtù morale consistano unicamente nella scienza, confondendo cose disparatissime, o che basti all' uomo di sapere il bene, perchè incontanente egli riceva col sapere anche la volontà e la forza d' operarlo in modo consentaneo a quel che la scienza gli addimostra. Delle quali due cose, l' una e l' altra è ugualmente smentita dall' esperienza, e da un' accurata osservazione dell' umana natura. Così è frequentissimo trovare negli scrittori confusa l' arte , che è un abito, il quale si riduce al genere dell' azione (1), colla scienza che spetta al genere di contemplazione ; e già notai altre volte la poca proprietà della parola pratico applicata a ciò che non è altro che notizia speculativa, come si dice filosofia pratica per dire la filosofia che specula sulle cose pratiche, cioè sulle azioni umane, e come si definisce la coscienza morale: un giudizio pratico , quando pure la coscienza non è che un giudizio speculativo sull' onestà, o inonestà delle proprie azioni particolari, ossia sulla pratica (2). Egli è facilissimo dunque rispondere a chi propone la questione netta ed immediata: « Se sia lo stesso la conoscenza d' una cosa reale o d' un' azione, o altrui, o anche propria, e quella cosa , quell' azione »nè v' ha alcuno (se lasciamo da parte alcuni filosofi che si perdono nella stessa speculazione) che tostamente non ne senta la differenza, e non risponda, esser quelle due cose, anzi non asserisca, distare infinitamente il conoscere dal fare. Ma perchè dunque una differenza così evidente, negata da nessuno, confessata da tutti, quand' è riguardata in faccia scappa poi dalla mente di molti allorquando essa entra nel discorso in un modo indiretto, e voi vi abbattete da per tutto, anche per mezzo alle più eccellenti scritture di uomini grandissimi, in quelle due cose ridotte ad una, o l' una confusa, o convertita nell' altra? Questa contraddizione in cui cadono senza avvedersi, deve avere la sua ragione, e merita d' essere ricercata: all' intento poi del nostro ragionamento, che è di porgere l' idea della sapienza, l' investigarla è necessario. Ed ella si trova in questo, che ci sono due sorti di notizie, nelle une si ferma il solo intelletto, nelle altre si spiega l' attività del soggetto, e in virtù dell' adesione di quest' attività soggettiva, esse stesse diventano operative, di maniera che si può dire ugualmente che esse operano per virtù della volontà, o che la volontà opera per virtù di esse. E nel vero tutti consentono che la volontà è il principio delle azioni umane. Ma cos' è la volontà? Esisterebbe questa potenza senza notizie? No: chè a' principŒ attivi i quali operano senza alcun lume di cognizione non s' addice il nome di volontà , che è un principio razionale onde la sentenza comune, che la volontà non si muove mai verso l' incognito. Una notizia dunque è necessaria ed essenziale alla costituzione della volontà, od è la forma oggettiva della volontà stessa. Poichè come l' attività del soggetto, astraendo da ogni notizia, non è più che, quasi direi, la materia costitutiva della volontà, così quando quell' attività è informata dalla notizia del bene, allora essa è divenuta volontà; non è più un semplice rudimento materiale della volontà, è la volontà a pieno formata; non è la volontà ancora in via ad essere, nel quale stato si vuol chiamare con una maniera antichissima della scuola italica non7ente , ma è la volontà pervenuta al compiuto suo essere. Questo è dunque l' ordine intrinseco, nel quale la volontà si natura: c' è prima la notizia oggettiva nell' intelletto, poi l' attività soggettiva a quella si congiunge, assentendo: l' attività soggettiva così congiunta all' oggetto è divenuta un principio attivo, che si chiama volontà: questo congiunto, questa potenza di volere è il principio delle umane operazioni: ed ha un grado di forza proporzionato al grado della sua adesione all' oggetto intellettivo: laonde si può dire che la notizia dell' intelletto diventi operativa per l' adesione ad essa del soggetto e quindi che ella operi per la volontà di cui è divenuta la parte formale, e si può dire altresì, che la volontà operi per la notizia che è la sua forma. Ci sono dunque, per ricapitolare, due generi di notizie, le une speculative, le altre pratiche ossia operative; quelle costituiscono la scienza , queste costituiscono il principio reale delle azioni umane. E qui si avverta bene (perocchè l' equivoco e la confusione che vogliamo spiegare sta qui), si avverta, che la scienza può speculare su tutto, anche sul principio delle azioni, la volontà, sulle notizie pratiche, come fin anco sopra se stessa; ma lo speculare sopra una cosa non è già un convertir la cosa in ispeculazione, un' assorbirla con essa speculazione: chè tanto è lungi che la speculazione cangi ed assimili le cose reali, e le azioni a se stessa, che anzi ella è quella che ci fa conoscere queste cose e queste azioni avere e mantenere una natura diversa ed opposta a quella della scienza, a cui diventano oggetto. Laonde le notizie pratiche di cui parlavamo non sono scienza, nè si possono scrivere ne' libri, perchè cesserebbero dall' esser pratiche , e quando si pretende di scriverle (ecco l' illusione), quando si crede di averle scritte, allora altro non s' è fatto, altro non s' è scritto, che la dottrina che versa intorno a quelle notizie pratiche , non le stesse notizie, in quanto sono pratiche, cioè in quanto sono le radici delle reali operazioni, non potendo stare immobili dentro un libro le operazioni dell' uomo che passano, benchè dentro ad esso possa stare un trattato scientifico sulle medesime; chè le idee non passano, ancorchè le cose di cui sono idee, passino. Ma onde poi quest' allucinazione, per la quale si confondono insieme due ordini così distinti quali sono l' ordine delle cose ideali , e l' ordine delle cose reali ? due ordini che gli uomini hanno un bisogno frequentissimo di distinguere, e che in fatti frequentissimamente distinguono nel comune linguaggio? La prima ragione che si presenta alla mente è quella de' vocaboli. Chè gli stessi vocaboli si usano veramente così a significare le idee delle cose come le cose, così a significare le cose possibili, come le cose reali. Quando si dice a ragion d' esempio: « l' uomo è un essere ragionevole », la parola uomo non significa alcun uomo reale, ma l' uomo nella sua essenza e possibilità. Quando poi si dice: « l' uomo che tu vedi chiamasi Pietro », la stessa parola uomo è usata a significare non più la sola idea dell' uomo, ma con essa l' uomo reale. Ora vocaboli che s' applicano a significare più entità differenti, fanno sì che alcune volte le entità stesse, confuse nel discorso, si confondano nella mente, e si parli dell' una come se fosse l' altra. La qual ragione tuttavia non è l' ultima: chè ci resta a cercare: perchè poi gli uomini impongano gli stessi vocaboli alle idee ed alle cose, agli esseri meramente ideali, ed agli esseri reali corrispondenti a quelli. E la dottrina intorno all' umana conoscenza, ci discopre questa ragione ulteriore. E` indubitato, che l' uomo non può applicare un segno vocale, un nome, se non a quello che egli conosce. Ora l' uomo non potrebbe conoscere ciò che cade nel suo sentimento, se non riferisse il sensibile all' idea , rendendolo così intelligibile . All' incontro l' idea non ha bisogno per essere intesa della presenza della realità sensibile; di che questa è una prova evidente, che l' idea rimane nella mente senza la realità, per modo che l' idea è intelligibile per se sola, quando il sensibile non è intelligibile se non per mezzo dell' idea, e colla continua presenza dell' idea. L' idea dunque è l' ente in quanto è conoscibile per se stesso ed è la conoscibilità delle altre cose o entità che non sono idee, cioè degli enti in quanto sono reali e sensibili. Come dunque c' è un ordine logico fra le notizie, di manierachè le prime a conoscersi sono le idee, le seconde poi sono quelle cose che si conoscono per mezzo delle idee, così conviene, che anche l' invenzione de' vocaboli proceda con lo stesso ordine, di manierachè anche ne' vocaboli si distinguano due classi, e la prima sia quella de' vocaboli, che significano idee, la seconda sia quella de' vocaboli che conducono la mente alla realità delle cose. Ora alla prima di queste due classi appartengono i nomi comuni (e comuni sono quasi tutti), alla seconda poi appartengono i nomi proprŒ , e tutte quelle particelle, sieno pronomi, o avverbi, od altro, che si adoperano a trasferire la mente dall' idea comune ed universale, al proprio ed al reale. Così quando io voglio far servire il nome comune di uomo a significare non più la sola idea, ma un uomo particolare e reale, io non posso adoperare quel nome tutto solo, nel qual caso altro non additerebbe alla mente altrui che l' uomo universale, cioè l' idea, e però ho bisogno d' aggiugnergli qualche altro vocabolo, che lo determini a significare l' uomo particolare, per esempio il nome proprio Pietro , o « che tu vedi »o delle particelle che ne indichino la presenza ai sensi, come « che è qui », od altri modi che richiamino alla memoria o all' attenzione l' uomo che fu presente ai sensi nostri altre volte, o ai sensi altrui, o un uomo insomma particolare in qualsivoglia modo determinato. Colle quali aggiunte si restringe il significato di quel nome comune, e si dà a intendere a coloro, co' quali si parla, che quell' idea fa conoscere, in quel caso e per quella volta, una data realità sensibile , e non altro: e così la si prende come fosse la conoscibilità di questa sola, sebbene per sè significhi una conoscibilità universale. Laonde i nomi comuni (a cui si riducono pure gl' infinitivi de' verbi, i participŒ, e gli addiettivi d' ogni maniera), non son essi che significhino il reale, ma l' aggiunte che ad essi si fanno nel favellare; ma essi sono necessarŒ, perchè son necessarie le idee a far conoscere il reale, che separato dalle idee è oscuro, ed essenzialmente ignoto. Or se l' ideale, e il reale sono differentissimi, come in quello e per quello si può conoscer questo? (1) La risposta si trova nell' intima osservazione della cognizione, e del modo di conoscere. La quale osservazione ci attesta, che il fatto è così; e tanto dee bastare a qualunque uomo ragionevole: chè non è mai ragionevole il negare un fatto ben accertato. Ma la stessa osservazione, ove sia penetrante, non solo ci attesta il fatto, ma anche ce lo spiega, perchè è uno di que' fatti, che nel suo seno contiene la sua propria ragione. Noi dunque entrando coll' attenzion della mente negl' intimi penetrali di quel fatto, troviamo che quantunque l' ideale e il reale sieno differentissimi, tuttavia hanno un elemento identico, e questo è l' ente: lo stesso ente identico trovasi nell' uno, e nell' altro, ma a diverse condizioni, e sotto una forma diversa: una forma sotto cui si trova l' ente è l' idealità, o la conoscibilità, o l' oggettività (espressioni che vengono tutte a dire, sostanzialmente, il medesimo), un' altra forma sotto cui si trova il medesimo ente è la realità, la sensibilità, l' attività, che anche queste sono espressioni, che dicono in sostanza il medesimo. Così una massima differenza sta nella forma, un' identità sta nel suo contenuto, che è l' ente stesso: questo in quanto è puramente conoscibile, in tanto è ideale, in quanto è sensibile in tanto è reale: il sensibile reso conoscibile, cioè l' accoppiamento di quelle due forme, è ciò che ci dà la percezione intellettiva, e la cognizione del reale. Dopo di ciò non possiamo più maravigliarci, che i filosofi confondano talora quelle due forme; perchè questo accade loro ogni qualvolta, non accorgendosi che il loro ragionamento si volge intorno alle forme , e riputando in quella vece di parlare dell' ente , accade loro di prendere quelle due forme per una sola, o di prender l' una per l' altra, appunto perchè l' ente, di cui credono ragionare, è uno solo sotto le due forme. All' incontro quando s' accorgono apertamente, che il loro ragionamento s' aggira circa le forme, e che non è dell' ente, come quando si propongono direttamente la questione che batte sulle forme, « se l' idea, e la cosa sia il medesimo », allora non avviene mai che le confondano. Rimane nondimeno a dare un passo più oltre, cioè a investigare perchè accada sovente, che quando il ragionamento tratta delle forme, i filosofi, non avvedendosene, lo dirigano a dir quello che dovrebber dire se si trattasse dell' ente: perchè questa difficoltà a distinguere quando l' oggetto di cui si parla è l' ente, e quando l' oggetto di cui si parla sono le forme? Si osservi, che l' uomo comune, alieno dalle scientifiche astrazioni, non fa riposare mai la sua attenzione intellettiva nè sul solo reale scompagnato dall' idea, che senza questa non si può conoscere; nè sulla mera idea, che sa bensì usare a conoscere il reale, ma d' essa sola non sa che farne: di manierachè ciò, in cui si ferma l' attenzione naturale dell' uomo, è sempre il reale unito all' ideale, colla quale unione si forma il termine della percezione. Ma quando l' uomo si solleva alle astrazioni scientifiche, allora s' accorge di questa duplicità che è negli enti da lui percepiti, onde distingue (in qualunque maniera chiami questi due elementi) la materia e la forma della cognizione. E allora l' idea acquista una nuova relazione colla mente umana, non è più solo oggetto dell' intuito, e mezzo di conoscere le realità, ma è divenuta ancora oggetto della riflessione , e quindi mano mano della scienza. Ma il reale scompagnato dall' idea, privo della sua luce, rimane del tutto incognito, e il rimanere incognito equivale a un dire, che, rispetto alla mente, è caduto nel nulla. La mente però che prima lo conosceva, non vuol perderlo; e per non perderlo, ella, senza pure avvedersene, lo riveste di nuovo dell' idea: quell' idea che gli ha tolto consapevolmente, quella stessa gliela restituisce inconsapevolmente. E quindi ella cade in una prima allucinazione, e poi traendo seco quest' allucinazione (quasi una penna con un peluzzo nel taglio che scrivendo imbratta tutte le eleganti lettere che va formando) fonda la filosofia sopra due elementi, cioè sull' idea staccata dal reale, e sul reale unito di nuovo all' idea; prendendo così l' idea due volte, invece di prenderla una volta sola. Con un' altra riflessione spontanea su questo prodotto erroneo della riflession precedente, il filosofante incappa necessariamente in un altro errore; chè egli oggimai trova da per tutto l' idea da cui è inseguito, o accompagnato nella stessa fuga, la trova anche in quell' elemento che egli crede aver sceverato da ogni idea, perchè questa, alla sua insaputa come dicevamo, c' è ritornata, anzi c' è l' ha rimessa egli stesso per un istinto intellettivo, non per alcuna riflessione, e quindi senza coscienza. Trovando dunque l' idea anche là dove pensa che ci sia sola la realità, è natural conseguenza, che confonda l' idea con essa realtà: e questo io stimo essere il vero principio, e il processo dell' errore d' un illustre italiano, che di quest' errore fece un sistema sull' esempio de' Tedeschi. Ma i filosofi tedeschi caduti in quest' errore, in cui ci cadono tanti altri, il raccolsero con quella gioia, con cui si trova un tesoro, e colla loro diligenza, colla maraviglia loro famigliare, vi edificarono sopra un gigantesco, o piuttosto grottesco sistema; all' incontro gli altri, che pure confondono la scienza coll' azione reale, il fanno senza badarci, e senza darvi alcuna importanza. Non è men vero per questo, che anch' essi vengano in tal maniera a riporre tutta l' umana natura che è reale, nella scienza, e a ridurre l' uomo allo scienziato: e quindi oggimai non può fare maraviglia se facilmente si persuadano, che quando un uomo ha la scienza, abbia ancora con essa la virtù, e che essi soli diano questa agli uomini nelle loro scuole, perchè in esse comunicano loro le proprie teorie. L' impossibilità dunque in cui è l' uomo di pensare direttamente, e più ancora d' immaginare il reale scompagnato affatto dall' idea, conduce lo scienziato, che non istà sommamente guardingo, per questa serie d' allucinazioni, onde perviene a ridurre ogni cosa alla scienza (nulla più vedendo fuori di questa) o almeno a pigliare la scienza per la stessa virtù morale, che all' opposto nel reale dell' operazione consiste; tanto più che l' operazione, per esser virtuosa, è necessario che si riferisca e conformi all' idea, ossia a quella Filosofia, che Seneca, quando non confonde le due cose, definisce (ancor troppo parzialmente) « lex vitae (1) ». Al di là dunque della scienza vi ha un mondo reale, che sfugge non di rado agli occhi degli scienziati e de' filosofi; e in questo mondo vive in gran parte l' uomo, il quale non vive di sola scienza. Se si cerca quello che è perfetto nell' uomo, e che acconciamente può esser denominato sapienza , non convien fermarsi al primo elemento cioè alla scienza, o più generalmente alla cognizione , ma a questa è necessario unire il secondo, che è l' azione reale , in cui la bontà morale consiste. In certi lucidi intervalli della mente sentirono questa verità assai bene gli stessi filosofi gentili, e parlarono della sapienza come di qualche cosa di completo, di qualche cosa, che dovea comprendere tutta la perfezione dell' uomo , la quale nella mente s' inizia, ma si continua poi a ordinare gli affetti, e a rendere onestissime e piene d' armonia tutte, anche le menome sue azioni. Onde qui opportunamente scrivea il filosofo morale che abbiamo citato: « Maximum hoc est et officium sapientiae et indicium, ut verbis opera concordent, ut et ipse ubique par sibi idemque sit (2). » E non preterisce a questo luogo la distinzione fra la filosofia come scienza, che può annunziarsi colle parole, o consegnarsi alle scritture, da quella sapienza la quale non concede che per intero o si dica, o si scriva, e che s' ottiene allorquando la scienza trapassa nell' attività umana, e ne riforma le passioni, gli affetti, le operazioni. [...OMISSIS...] Dove si scorge distinta la filosofia dall' uso della filosofia, da quell' uso , dico, pel quale l' uomo non già co' ragionamenti e colle lettere, ma co' fatti e colle operazioni, che son fuori di tutta la scienza e di tutti i libri, realizza quello che la filosofia insegna nelle parole e ne' libri, e converte le massime di lei in sentimenti, che è quasi un farle penetrare dentro i precordŒ, sede dagli antichi assegnata alle passioni. E in una maniera somigliante viene descritta la sapienza da Platone in quel dialogo che nominò dal giovanetto Teeteto, dove cercasi la definizione della scienza, senza mai rinvenirla, o almeno senza che la si profferisca espressamente, al che forse era un ostacolo, che rendea quella disputa anche lunga ed intrigata, il non distinguersi bastevolmente dal concetto della scienza , quello dell' arte e della vita . Ma la sapienza si ripone senza esitare « « nella perfetta congiunzione della giustizia e della santità colla prudenza »(2). » Chè Socrate dopo aver detto essere impossibile che tutti i mali s' estirpino nelle cose umane e soggiunto « « che tuttavia quelli non possono avere alcun luogo presso gli Dei », » continua così: [...OMISSIS...] Laonde, secondo il senno più compiuto e più purgato degli antichi, la sapienza ha due parti, le quali però in essa si trovano individuamente congiunte, la prima che nella mente, e questa se si separa, e col mezzo della riflessione ordinatamente si dispone, acquista il nome di scienza , che s' insegna, e si scrive; l' altra poi è tale, che nè s' insegna dalle cattedre, nè si può scrivere ne' libri, ed ha la sua propria ed unica sede nell' animo e nella volontà, e in tutte le affezioni, e le operazioni; e tuttavia ella è quasi la stessa scienza, discesa dalla mente, trasfusa nella realità del sentimento, penetrata nella vita, dove con pieno e beneficentissimo imperio governa. E veramente si può mai scrivere l' azione? l' azione umana dico in qualunque de' suoi tre o quattro gradi che sono la cognizione pratica, il sentimento, il decreto, l' operazione esteriore? Ponete mente, che non è mai abbastanza avvertita la distinzione: quando voi avete scritta la parola azione , avete scritto altro che un' idea? Non altro: e l' idea di un' azione sarà ella l' azione nella sua realità? Se voi invece di scrivere azione solamente scrivete di più: « quest' azione reale » ovvero « questa cognizione pratica, questo sentimento che proviamo, questo decreto della mia volontà, onde venne il movimento alle mie mani che or maneggian la spada », allora voi avete scritto delle azioni reali, ma cosa vuol dire scrivere delle azioni reali? Forse prendere le azioni medesime, e incarteggiarle, inserirle nello scritto? Nulla affatto, nulla di questo; vuol dire solamente tracciare in sulla carta de' segni che richiamano tali azioni all' intendimento. Quando poi l' intendimento riceve questi segni, che operazione fa egli per trasportare la sua attenzione da essi alle azioni significate? Forse un' operazione di tal natura che con essa intruda in sè, nel suo pensiero, come in un astuccio, le operazioni stesse reali, per forma che la cognizione che n' acquista diventi essa stessa quelle operazioni? Certo no: che, se fosse, come potrebbe pensare, il che pur pensa, che quelle azioni erano prima che fossero da lui conosciute, e saranno dopo che egli avrà cessato di pensarvi, e che hanno una causa, che egli fors' anco ignora, o conosce esser diversa dal suo pensiero, nè mai gli accade di credere fino che è sano di mente, che il solo pensarle sia un produrle? Dunque nè lo scritto, nè il pensiero delle azioni sono le azioni scritte e pensate, si pensino esse nel loro essere ideale per via di semplice intuizione, o nel loro esser reale per via di apprensione, e di affermazione: fuori della cognizione teoretica, della scienza, rimane sempre qualche cosa, rimane l' azione reale; fuori delle idee, rimane tutto il soggetto. Ma pur questa è una legge dell' anima, che quando agisce esclusivamente con uno de' suoi principŒ operativi, allora ella è questo stesso principio, nel quale ha trasfusa tutta la sua attualità, o certo non le pare di esser altro, perchè gli altri suoi principŒ non sono in quell' istante attuati. Ora lo scienziato, o diremo meglio il pensatore, vive di pensiero, e però egli è attualmente il pensiero, e quindi facilmente cade nell' illusione di riputarsi solo pensiero. Ma le cose che attualmente non cadono nel pensiero, come abbiamo detto di sopra, sono nulla al pensiero, perciò il pensiero immediato le dichiara nulla . Ecco qua di nuovo l' origine del nichilismo hegeliano, la quale in fondo è la medesima di quella che abbiamo indicata più sopra, ma qui vestita d' altre parole. Il nulla onde Hegel fa uscire tutte le cose dell' universo, e nel quale le fa poscia rientrare, non è altro, preso alla sua origine, se non quello che non è divenuto ancora oggetto del pensiero, e che però è nulla al pensiero dell' uomo, e ritorna nel suo primitivo nulla, quando il pensiero cessa dall' atto consapevole. Il qual fenomeno che nasce al pensatore ingannò quel filosofo (ed è lo stesso inganno che subirono gli antichi dell' India) che pose per principio delle cose il nulla (chè gli enti sono prima non pensati, e però nulla al pensiero, e poi pensati, e però relativamente al pensiero esistenti). Quello adunque che era un' apparenza relativa al pensiero immediato e percettivo o anche al pensiero consapevole, e che dipendeva da una legge soggettiva del medesimo pensiero, il filosofo di Stuttgarda, chiuso così in quella sfera del suo pensiero, lo diede per cosa assoluta. Per fermo l' anima che trova la scienza non è, e non può essere, in quell' atto, che solo pensiero, essendo soltanto in questo attuata, e quand' anco ella fosse attuata in altro, quest' altro atto che ella avesse in quell' ora, non sarebbe quello che le produrrebbe la scienza, e però la scienza non lo rappresenterebbe. Ora poi se s' aggiunga, che il primo fondamento su cui s' eresse la filosofia tedesca fu un pregiudizio introdottosi universalmente dopo Locke, cioè che « le cognizioni sieno un mero prodotto dell' intendimento », e però del soggetto umano, ell' è ovvia la spiegazione del sistema hegeliano, e, nel suo traviamento, mostra la forte dialettica dell' inventore, chè tutto si deriva per diritto da queste due proposizioni, entrambi erronee: 1 Il pensatore come tale non riconosce per esistente quello che non è ancor oggetto del suo pensiero, e però lo dichiara NULLA; 2 le cognizioni sono mere produzioni dell' intendimento, e però anche gli oggetti del pensiero sono da questo prodotti e quindi creati, chè il pensiero dal NULLA li fa passare all' ESSERE. E dissi che anche la prima di queste due proposizioni è un errore (l' errore contenuto nella seconda fu da noi lungamente esposto nell' Ideologia), perchè ella non è una proposizione che proceda dal pensiero preso nella sua totalità, ma da un atto particolare di esso, dall' atto della percezione , a cui i tedeschi diedero un' estensione maggiore che non abbia (1): giacchè il ragionamento che sussegue alla percezione, e che certamente è pensiero anch' esso anzi pensiero più innoltrato, conduce l' uomo ad ammettere l' esistenza attuale anche di enti che non cadono nel pensiero percettivo, o nel pensiero consapevole, purchè abbiano relazione con cose che cadano in quel pensiero. Per altro questa illusione non è un fatto isolato: è dello stesso genere di quella che accade agli uomini dati sfrenatamente ai piaceri de' sensi, i quali si mostrano sempre inclinati a credere che quel genere di piaceri sia tutto, e che l' anima umana sia unicamente sensitiva, com' è quella delle bestie, appunto perchè l' anima loro è tanto attuata nella sensazione, e quasi in essa assorbita, che non si conosce più se non come anima senziente, o non ha d' altro coscienza. Pure l' illusione della filosofia Prussiana ha un carattere che la distingue dall' illusione dell' uomo sensuale, e la rende più superba, e quel carattere deriva da questo, che la filosofia è effettivamente opera del solo pensiero, non del senso, e però al filosofo, ridotto quasi ad essere un pensiero puro, accade facilissimamente di non conoscere e di non ammettere che il pensiero, e di prendere i fatti del pensiero per fatti ontologici, come è già avvenuto alle scuole Indiane e alla stessa scuola d' Elea; laddove se il sensualista prende a filosofare, egli è necessitato a salire al pensiero, e, non potendolo disconoscere, si contenta d' attribuirlo al senso dove trova pure il sostegno d' una realità. Ridotto poi l' uomo da' nominati filosofi al solo pensiero, e le idee ridotte pure a non esser altro che produzioni, e modi del pensiero, e confuse necessariamente colle cose (che fuori del pensiero nulla più si riconosce), l' uomo dovea acquistare nelle mani di tali filosofi un cotale stato d' oggettività, e d' impassibilità, che lo divideva necessariamente dagli umani sentimenti, e dai doveri morali. Perocchè io lascio qui da parte le altre gravissime conseguenze, che discendono da' principŒ della scuola hegeliana, quali sono il panteismo, con tutte le dottrine inauditamente mostruose dell' empietà germanica, e voglio solamente osservare, come l' uomo divinizzato in quella filosofia si trovi ad un tempo dissecato ed inaridito riguardo a tutti i più nobili umani affetti, i quali non sono nobili se non sono dai doveri morali nobilitati. Chè allorquando l' uomo si ferma ai sentimenti e ai doveri, sieno religiosi, o di padre e figlio, o di sposo e sposa, o altri quali si vogliano, egli non è ancora divenuto Dio secondo tali maestri, perchè egli non è ancor consumato nell' oggettività del suo pensiero, e per usare una frase famigliare a tali sofisti la « sua coscienza è ancora involta nel travaglio della sua propria creazione. »Quando poi ella emerge da questa sua « immediatità creativa, »del tutto sviluppata, a guisa della farfalla dal bozzolo, allora, divenuta pensiero oggettivo, ella contempla tutte l' altre cose che appartengono agli uomini, cioè i sentimenti e i doveri, dall' alto del suo trono dell' astrazione, siccome cose a sè inferiori, che non più a sè appartengono, ma le stanno davanti a modo d' uno spettacolo artistico, nel quale lo spettatore non ha a fare alcuna parte attiva. L' IO allora è libero, dicono, perchè la morale stessa è sotto di lui: egli la contempla con una perfetta indipendenza e separazione, siccome un pittore che fattosi ricco, e divenuto per la virtù dell' oro più che pittore, sdegna oggimai il dipingere, e si contenta di riguardare con signorile alterezza i quadri dagli altri pittori dipinti. Questa mostruosa dottrina dovea riflettere sulla politica, sulla famiglia, sulla letteratura germanica, e per non parlare che di quest' ultima il Goethe ne fu il rappresentante più ammirato. Il carattere della letteratura del Goethe è appunto l' oggettività nel senso della filosofia germanica: non l' oggettività che l' uomo riconosce per qualche cosa di superiore a sè, a cui si sommette con umile riverenza, ma l' oggettività che l' uomo espugna ed invade, mettendo in essa se stesso e di là regna (cioè s' immagina di regnare), senza aver bisogno di riconoscere più nulla sopra di sè, ma tutto sotto di sè: in una parola è la scalata data al cielo. Tutti gli affetti, tutti i doveri stanno sotto i piedi di quest' uomo [...OMISSIS...] Il Faust è il carattere d' un uomo che non può sofferire di sentirsi chiuso dentro i confini dell' umanità, vuol romperli, tenta ogni cosa per uscirne: si profonda nella scienza della natura, in vano: fa ricorso alla magia, in vano: s' immerge in tutta la voluttà de' sensi di cui l' uomo è capace, si sdegna col Creatore che l' ha rinserrato in que' cancelli dell' essere umano, si vende al demonio, tutt' in vano; infine dopo avere tanto sperato inutilmente di trovare il TUTTO nel NULLA di Mifistofele (2), raggiunto dalla morte, in presenza di questa esclama: « « O natura ch' io non sia null' altro che un uomo davanti a te! porterebbe in tal caso la pena d' essere un uomo! » » E` un' imitazione del Prometeo d' Eschilo, se non che la figura del Semideo è d' un disegno grandioso e puro: il Faust è un piccolo titano del secolo XVIII, un vero professore delle università tedesche, senza un solido sapere, d' immensa ma sregolata immaginazione, credulo, voluttuoso, ambizioso, visionario, pazzo: e per fermo che sotto a questo aspetto il Faust di Goethe è la più acre derisione di quella filosofia ond' egli attinge la vita. Tale è il capo d' opera del poeta prodotto dal panteismo germanico. Non sarà inutile soggiungere il giudizio dell' Herder sopra il Goethe; eccolo: [...OMISSIS...] Non ci parve inutile distenderci alquanto dimostrando le conseguenze d' un errore, nel quale, ove la questione si ponga direttamente, l' uomo non cade mai, ed anzi pare allora impossibile che uomo alcuno ci cada; vogliam dire l' errore che confonde l' idea colla realità, e assorbe tutte le cose nella scienza e nel pensiero che la produce. Dall' aver obliato questa distinzione, che forse a molti può sembrare una sottigliezza metafisica senza utilità alcuna, vennero tutte le conseguenze di cui abbiam parlato: quell' oblivione fu la fucina a cui fabbricaronsi l' armi, di cui alcuni professori tedeschi, quasi gelosi della gloria de' giganti che gemono sotto l' acque, s' armarono. L' uomo della vita comune, a cui non manca mai una logica naturale, bastevole dentro la sfera onde non escono le sue azioni, non va soggetto a sì strana allucinazione; chè il termine de' suoi pensieri, su cui posa la riflessione, è sempre il congiunto dell' idea e del reale, che cade nelle sue percezioni: egli non divide i due elementi; non si ferma a considerar l' idea in separato dalla cosa, molto meno la cosa in separato dall' idea. Distingue bensì questa da quella, ma non la separa: vede l' una in faccia all' altra. Laonde non trova nella cosa reale alcun mistero che lo sorprenda; quando la cosa conserva i suoi rapporti coll' idea, ella trovasi illuminata da questa, è conoscibile; laddove se la cosa si separa dall' idea per un' astrazione costante, come fa il filosofo, subitamente ella gli diviene in mano un enimma: un non so che, che d' una parte non può negare perchè gli rimane nella mente la memoria della notizia che n' ebbe quando la considerò congiunta all' idea, e che dall' altra non può ammettere, perchè non sa più affatto che sia, astratta a quel modo, o come sia, priva dell' idea, ed anzi ne vede l' impossibilità: antinomia singolare e trascendente, per isnodare la quale il pensatore s' ingolfa in quelle ipotesi che sono altrettante mostruose aberrazioni. Conviene dunque che lo scienziato così aberrante ritorni uomo, e non può ritornarvi se non per lo stesso cammino della scienza pel quale s' è traviato; chè la scienza, o ciò che si usa di chiamar scienza, è quella maga che ha virtù di convertire gli uomini in bestie, e in vari generi di mostri, ed anche in demoni, e di farli poi ritornare uomini, ma d' una statura maggiore di quella di prima. E queste due contrarie operazioni quell' antica incantatrice le compie l' una per mezzo de' sofisti, e l' altra per mezzo de' filosofi che loro succedono, come abbiam veduto di sopra; chè i sofisti rompono audacemente le sfere del cielo della mente, quasi fossero di cristallo, entrando in ordini superiori di riflessioni, e colassù tiranneggiano per un po' di tempo la scienza; ma i filosofi che ivi sopravvengono, gli spossessano poi del campo con violenza usurpato. Così la filosofia tedesca s' innalzò per vero ad una riflessione più elevata di quella a cui trovavasi la filosofia del tempo quando considerò il reale diviso intieramente dall' idea, e s' accorse che in questa separazione, egli si rimaneva un incognito, e di più diventava un impossibile. Allora ella conchiuse frettolosamente, secondo il costume della sofistica, e coll' entusiasmo proprio delle vane creazioni, che il reale, e quindi il soggettivo, si dovea ad ogni patto ricacciare dentro ne' visceri dell' idea cioè dell' oggettivo, e ne comparve immantinente la teoria dell' identità assoluta , e la logica hegeliana che si divora la metafisica, come Saturno i suoi figliuoli. Indi le rovine della filosofia e di tutto ciò che è vero e santo. Ma come i diversi ordini della riflessione non determinano nè la verità nè l' errore, ma sono indifferenti all' una e all' altra; onde in ciascuno tanto l' errore, quanto la verità trova un amplissimo spazio in cui collocarsi, e tanto più ampio, quanto l' ordine è più elevato; così rimaneva che, entrando i veri filosofi, per la porta aperta, nella medesima sfera, vi combattessero l' errore arrivato il primo, conquistando quella nuova zona celeste alla verità. E la filosofia fa questo, ragionando così: Vero, che il reale diviso totalmente dall' idea è un incognito, e, se volete, in tale stato, anche un impossibile: ma da questa premessa non deriva la conseguenza che dunque egli appartenga all' idea, che questa se l' abbia in sè, di sè lo emetta e in sè di nuovo lo assorba: cose tutte che si possono anche direttamente mostrare contrarie al fatto, ed assurde; ma deriva soltanto quest' altra conseguenza, che il reale non è mai senza l' idea, dalla quale per un' astrazione arbitraria della mente si divide, è coll' idea, non nell' idea come un suo momento, sicchè reale e idea sono indivisibili, ma non identici: il primo non può stare senza la seconda, ma non si confonde mai colla seconda e d' altra parte l' idea può stare, fino a un certo segno, senza il reale. Altro è dunque il dire che il reale abbia una relazione essenziale coll' idea, un sintesismo ontologico; altro è il dire, che da que' due elementi si deva, si possa rimovere la dualità, concentrandoli in uno solo. Come abbiamo già detto innanzi, il reale è indivisibile dall' idea e insieme distintissimo; perchè quell' essere che è nell' uno, è identicamente nell' altra, ma non sotto la stessa forma, nè alle stesse condizioni: tale essendo l' immutabile natura ed eterna dell' essere, che, nella sua perfettissima unità, in due forme distintissime ed affatto inconfusibili si ritrovi. Di qui la dualità dello stesso sapiente, tanto diverso dallo scienziato. Chè il sapiente nasce dalla piena conformazione dell' uomo reale colle idee, e per mezzo delle idee con tutto l' ordine delle cose reali: conformazione che niuno gli può dare se egli non la dà a se medesimo colla propria attività, cioè colla libera potenza di volere, la quale sola rende pratico, cioè operativo, lo stesso pensiero. E tutta quest' azione della volontà, benchè sia comunicata al pensiero, è però distinta dal pensiero teoretico che si ferma nelle idee e nelle notizie; è un' azione unita al pensiero, ma non confusa con lui, un' azione del soggetto sopra il soggetto, a cui il pensiero diventa mezzo e stromento, dalla quale, il diremo di nuovo, il soggetto reale - persona umana - rimane modificato e nobilitato, partecipando della divina eccellenza delle stesse idee, senza poter giammai trasformarsi in esse. Quando l' umanità era ancora, quasi direi, nella sua culla, e non s' era molto inoltrata nella scoperta delle regioni astratte, regioni vastissime e piene di pericoli, come pe' viaggiatori sono gl' immensi deserti, a lei si affacciava quest' imagine della sapienza in tutta la sua nativa semplicità e verità, ed ella tendeva a raggiungerla. Questa tendenza, questi sforzi, in cui s' esperimentava sempre più la difficoltà dello scopo, più lontana apparendo la sapienza, più che progredendosi verso di lei se ne scopriva meglio la divina natura, (come l' areonauta quanto più s' innalza nell' atmosfera, tanto più intende quanto lontane stieno le stelle, o come incontra a colui che ascende un' altissima montagna, che la vetta, che gli parea da principio toccare, gli si dilunga e gli par più inaccessa): questa tendenza, dico, e questi sforzi furono chiamati convenevolmente filosofia , significando appunto la parola « amore e studio di sapienza ». Ma non è ancor quì la filosofia come scienza , nel quale significato, a cui fu più tardi ristretto il vocabolo, noi la prendiamo: quell' antica filosofia è più ed è diversa dalla scienza. E` più della scienza, perchè questa non ha e non può avere a scopo se non d' illuminare l' intendimento, grandissimo aiuto alla buona volontà, a cui spetta di compir l' opera rendendo, l' uomo sapiente; ma aiuto prestato alla volontà senza violentarla o necessitarla lasciandola libera, rinforzando anzi la sua libertà, sia di dirigere e modificare l' umano soggetto e tutte le sue potenze a quel modo che la scienza dimostra, sia nel modo contrario, qualora riponga, con un falso giudizio, la sua grandezza e la sua felicità in altra cosa, e fors' anco in una lotta d' orgoglio contro la vera scienza e la verità in quella racchiusa, e cerchi una gloria più grande, anche non isperando vittoria, quant' è più grande ed augusto il nemico col quale combatte, da cui si lascia uccidere, senza arrendersi. La filosofia dunque, noi dicevamo, nel senso, « d' una tendenza pratica alla sapienza »è più della filosofia come scienza, che al cospetto di quella rimane umiliata. E questa giusta umiliazione, rivelata al mondo dal Vangelo che dell' umiltà fece la più alta e la più ragionevole delle virtù, è causa d' un' irritazione, che talora giunge al furore, nell' uomo dedito alla sola scienza che si crede divenuto puro pensiero, e come tale vuol esser tutto. Le sue potenze inferiori vanno disordinate: egli le lascia andare quasi non appartenessero a lui, ed arrivano a trascinar seco, lui medesimo: disordinano il suo stesso pensiero traviandolo dalla verità, ma egli non cura, chè non pone l' eccellenza nel modo , ma nella forza del pensiero. E allora appunto, il suo proprio pensiero gli par forte, perchè lotta colla verità, e la violenza della lotta mette in gioco anche le poche forze delle costituzioni deboli. Pure il pensiero che in quel furore sembra a sè stesso così potente, in verità è reso schiavo della volontà pervertita: questa gl' impone di giustificare il proprio disordine, dandogli una base scientifica: egli cancella le leggi della morale, ne inventa dell' altre: pronuncia che qui consiste la libertà: finalmente si presenta come l' uomo7oggetto, nuovo Dio Pan, che assorbe in sè la morale, il mondo: e l' antropolatria è il nuovo culto, che comparisce sopra la terra. Or la filosofia nel senso « d' una tendenza pratica alla sapienza » non solo è più, ma è anche cosa diversa dalla scienza: il che, se noi prendiamo a cercar come sia, ne rimarrà non mediocremente illustrato il primo de' due elementi, di cui abbiam detto comporsi la sapienza. Osserva Seneca, che la Filosofia, a differenza della Matematica, della Fisica, e somiglianti, che mutuano i loro principŒ da altre scienze superiori, « « non prende nulla altronde, ma innanlza tutto l' edificio dal suolo »(1). » Della qual sentenza si trova la ragione nella definizione che noi abbiam dato, dicendo la Filosofia essere la scienza delle ragioni ultime, ultime cioè a rinvenirsi dall' uomo, ma prime rispetto all' albero dello scibile, che da esse incomincia e germina come da radici, onde anche furono dette madri da qualche antico. Laonde la Filosofia sola è quella, fra le scienze, che, in un senso a sè appropriato, può dire, « Sed summa sequar fastigia rerum (2). » Ma la Filosofia nel nostro senso, è una scienza, e benchè sia la prima fra le scienze, sicchè non prenda nulla de' suoi principŒ dall' altre, quando l' altre tutte prendono i loro da lei; tuttavia, appunto perchè è scienza, non può esser prima di tempo in tutto l' ordine intellettuale, chè ogni scienza è opera della riflessione, e la riflessione non è il primo modo, che abbia l' uomo di conoscere, ma egli n' ha e n' adopera degli altri prima di cominciare a filosofare. Noi abbiam detto in qualche luogo, che la filosofia non potrebbe esistere se non a condizione di prendere altronde non de' principŒ, ma de' postulati: e questi postulati dati alla filosofia dalla natura umana come condizione del suo nascimento, sono due, la notizia naturale e immediata dell' essere, e il sentimento (1); l' ideale e il reale primitivo , che diventano in appresso oggetti della riflessione, la quale con tali materiali, e non mai col nulla, edifica l' edificio della dottrina filosofica. L' atto che dà la notizia dell' essere si chiama da noi intuizione , e questo è il primo modo di conoscere anteriore di molto alla riflessione filosofica, la facoltà dell' intuizione è l' intelletto in senso proprio. Il sentimento, come tale, non appartiene all' ordine intellettivo (benchè ci sieno de' sentimenti intellettuali, razionali, e morali che l' accompagnano o prossimamente lo seguono), ma egli presta materia all' intelligenza. Il primo sentimento è quello che costituisce il soggetto uomo, perchè l' uomo (intuente l' essere e percipiente il proprio corpo con quell' immanente percezione che il rende ad un tempo animale e razionale (2)), è un sentimento sostanziale e individuale, che riceve modificazioni accidentali, e in varŒ modi attivo. La percezione primitiva , nella quale sta l' unione dell' anima col corpo, è un modo di conoscere contemporaneo alla prima intuizione , e solo logicamente posteriore; ed è quell' atto primo, che costituisce la facoltà della ragione. L' intuizione e la percezione primitiva appartengono alla cognizione diretta , a cui si riducono molti altri atti di conoscere, come, a ragion d' esempio, tutte le percezioni accidentali che susseguono (3); e la cognizion diretta non è la riflessione, e di molto precede la riflessione filosofica. La riflessione che sopravviene è un secondo modo di conoscere; e molte riflessioni precedono quella d' un ordine alquanto elevato, che genera la Filosofia. Il complesso di queste riflessioni, o, a più vero dire, una parte di queste riflessioni costituiscono quella che abbiamo chiamata cognizione popolare (1). Tutti questi modi di cognizione precedono la cognizione filosofica. E per determinare con maggior accuratezza quel punto nella serie delle varie riflessioni, che divide la cognizione umana in due gran parti, o stadŒ, quella che precede la filosofia, e quella colla quale l' uomo ha incominciato a filosofare; basterà che noi ricorriamo alla preaccennata definizione della filosofia come scienza. Se la filosofia tratta delle ragioni ultime, egli è evidente, ch' essa incomincia precisamente a formarsi con quella riflessione, colla quale l' uomo o implicitamente o esplicitamente, rivolge a se medesimo la domanda: « Quali sono le ragioni ultime di tutto lo scibile? »Con questa domanda, non prima, incomincia dunque il lavoro filosofico dello spirito umano. Vero è che con essa non c' è ancora la filosofia, non c' è la scienza delle ragioni ultime; ma c' è la questione, a cui tien dietro la ricerca, e questo è quanto dire la strada che conduce all' invenzione della filosofia, e però si può dire che l' uomo da quell' istante filosofeggi. Ora di certo non è a credere, che prima che sia venuto quest' istante, nel quale il bisogno d' una filosofia si fa sentire all' uomo, lo spirito umano si trovi interamente vuoto di cognizioni: anzi n' ha molte, che non solo dispongono le sue facoltà, esercitandole; ma offrono alla riflessione copiosi materiali pel nuovo edifizio filosofico ch' ella a suo tempo porrà mano a costruire. E in questa costruzione della scienza, che fa la riflessione? A dir vero, non altro se non vestire la verità precedentemente conosciuta di nuove forme, le quali prestano questo nobilissimo vantaggio, che l' uomo per esse la vede da più lati, e da lati più lucenti, e può usarne in nuove utilissime maniere. Poichè conviene distinguere con diligenza la verità, e le forme di lei che la rendono più accessibile, più visibile, e più maneggevole all' uomo: convien distinguere le idee dalle forme che prendono nell' umana mente e poi nell' umano linguaggio s' esprimono. Le idee e le notizie tutte variamente spezzate coll' analisi, raggiunte colla sintesi, ordinate colle loro intrinseche relazioni, diventano acconce a innumerevoli ragionamenti, si lasciano aggruppare e distribuire in formole secondo i bisogni della mente, e danno a questa quelle nette conclusioni, colle quali, avendole a mano, ella opera speditamente, e lo spirito se ne sente confortato, arricchito, di nuova potenza accresciuto. Fino che voi avete dell' oro in verghe, poco uso far ne potete: mandatelo alla zecca che ve lo restituisce coniato in monete, e ammodato in tal forma voi lo cangiate assai facilmente in tutto quello che vi piace. La zecca è la mente filosofica. Questa svolge le idee e ne trae ciò che hanno ne' visceri: sembrano altrettante nuove verità, quantunque alla fin fine, per dirlo ancora, non v' ha dato che nuove forme; chè le idee, su cui avete esercitato il vostro pensiero, c' erano innanzi, e contenevano quello che voi ci avete cavato, c' era implicito e voi l' avete reso esplicito. Così un principio si pronuncia in una breve proposizione: e pure se voi ne deducete le conseguenze, una scienza intera v' è nata in mano: infinito vantaggio: ma dovete confessare che non avete creato nulla, chè tutta quella scienza già si conteneva nel principio, d' onde voi non l' avreste potuta cavare se non ci fosse stata. Un gran numero di notizie che la mente vedeva ad una ad una, il pensiero filosofico le considera tutt' insieme, ne ferma le relazioni, e con queste le integra, e secondo queste le dispone in un ammirabile sistema: bellissimo lavoro; ma le notizie c' erano, avevano le loro relazioni, forse erano complesse ed intere, e fu bisogno d' astrazione e d' analisi, come le pietre hanno bisogno d' essere rotte dal martello, e riquadrate, acciocchè s' aggiustino al luogo dell' edificio, ove devono essere collocate, ma in fine, checchè faccia il pensiero filosofico, lavora sempre su quello che gli è dato innanzi, nol può creare, cioè non può trovar nulla che sia per intero nuovo, poichè la funzione stessa dell' integrazione non fa che passare dal termine dato d' una relazione essenziale all' altro termine trascendente in virtù d' una legge nota (1). La differenza dunque tra l' uomo comune e colui che filosofa, non istà in questo, che al primo manchino le cognizioni, e n' abbia il secondo; ma in questo, che il primo dà l' attenzione della sua mente ora a questa ed or a quella cognizione delle tante che il tesoro dell' anima sua racchiude, non per vero dire a caso, ma secondo il bisogno che gliene viene di farne uso, siccome un padre di famiglia che trae dall' armadio que' soli vasi di cui abbisogna al momento; il secondo, che filosofeggia, prende per assunto di riguardare tutto il complesso delle medesime cognizioni, non perchè egli abbia bisogno d' usar di tutte in una volta, ma per diletto di contemplare quel ricco tesoro, ed altresì per conoscerne meglio il valore e ben ordinarle, alla guisa d' un vigilante ed operoso amministratore, che ripassa e inventaria tutti i vasi preziosi, le ricche masserizie, e gli arnesi della casa, e li classifica, ed altri ne dispone in altrettanti armadŒ, non solo ripulendoli dalla polvere, ma inserendoli ancora in astucci e in guaine eleganti, altri poi d' argento e d' oro, come troppo antiquati e pressochè inutili, li fa rifondere, e cavarne altri collo stesso metallo di miglior gusto, più conformi agli usi ed alla moda del tempo. Ma il valsente con tutto ciò rimane il medesimo, benchè un grandissimo vantaggio riceva la famiglia da queste diligenze. Ora posciachè il primo elemento della sapienza è LA VERITA`, sotto qualunque forma ella sia; perciò noi dicemmo, che la sapienza, e conseguentemente la filosofia definita all' antica siccome uno studio pratico della sapienza, contiene un primo elemento, l' elemento conoscitivo diverso dalla scienza. E la differenza sta qui, che l' elemento della sapienza è la verità, prescindendo dalle forme, e però sotto tutte le forme, sieno queste quelle di cui ella si riveste prima che l' uomo si risolva a filosofare, o sieno le forme filosofiche; laddove la filosofia come scienza riguarda un genere speciale di forme, di cui il pensiero riflesso veste la verità. Di che si trae questa conseguenza, che la Sapienza può ugualmente precedere, ed anche succedere alla Filosofia: e che quantunque questa giovi non poco a quella, rendendo la verità accessibile all' uomo da più punti e da punti più cospicui, tuttavia non è a quella del tutto indispensabile e necessaria. Non vorrei, che l' aver detto questo, m' attirasse l' indegnazione de' filosofi (che per quanto è a' sofisti, mi ci conviene ad ogni modo rassegnare). Ma quella io spero o d' evitarla, o di poterla comechessia calmare. Perocchè niuno dee conoscere qual sia il nobile e vero amore degli uomini meglio de' filosofi; ai quali perciò conviene che riesca lieta una dottrina, che dimostra, esser tutti gli uomini capaci della sapienza, non esser questo bene riserbato ad una sola classe, eziandio che fosse quella de' filosofi. Perocchè se tutti gli uomini hanno ricevuto la stessa verità, sebbene implicita fin da principio della loro esistenza nel lume della ragione, e se tutti quelli che vissero ad una certa età, hanno più o meno svolta la verità ricevuta in germe, secondo lo stimolo de' bisogni e le occasioni; e se oltracciò portano l' animo ben disposto verso a quella verità che conoscono, riconoscendone liberamente l' autorità suprema e l' immutabil bellezza; onde la loro volontà unita e quasi conglutinata alla verità coll' affetto, a questa, come a norma guida l' altre facoltà; tutti cotesti uomini, i quali hanno saputo mettere in sè stessi tant' ordine e fra le proprie potenze tanta concordia, ed ancora con ciò stesso saputo rendere il mortale e finito consonante all' infinito ed all' eterno, cioè alla verità, di cui riscuotono l' approvazione, tutti costoro dico, si meritano il nome di sapienti. Essendo dunque la verità il primo elemento e la base della sapienza, è da conchiudere che come la verità è variamente sviluppata negli uomini, e sebbene una e sempre uguale in se stessa, è oltre ogni misura feconda e moltiplice nelle sue attuazioni, onde molte sono le forme, più o meno magnifiche, più o meno ornate e quasi a mano trapunte, nelle quali agl' intendimenti diversi ella si dona; così pure sieno molte, e propriamente altrettante, e di consimile ricchezza ed eleganza di lavoro, le forme della sapienza . Di che, principiando da un qualche savio sconosciuto agli uomini, e che deva esser chiamato abnormis sapiens crassaque minerva , fino a un Agostino o ad un Tommaso d' Aquino, o ad altro qualsivoglia dottissimo tra' sapienti, noi avremo innanzi una lunghissima serie non solo d' uomini illustri, ma ben anco d' ignoti a' loro simili, anco dispregiati, benchè non dispregevoli, a cui il nome di sapiente si conviene giustissimamente accordare. E questa conclusione è tale, che non solo può confortare l' animo di colui, che allo spettacolo delle umane ignoranze, e alla somma arduità della scienza , accessibile a pochi, (confondendola egli per errore colla sapienza , o credendola l' unica via per la quale a questa s' arrivi), diffida soverchiamente dell' umana natura, e diffidandone, quasi di troppo inetta al bene, la disama; ma devono e desiderar che sia vera, e goderne, quando per vera la riconoscono, tutti quelli, filosofi o no, che dell' onore, della dignità, e della felicità dell' umana specie si curano. Poichè una tale notizia è la buona novella data ai piccoli: e coincide con quella, che nell' ordine perfetto e soprannaturale, la stessa Sapienza di Dio diede di sua bocca alla umana stirpe, dicendo: « « Colui che viene a me, non lo caccerò fuori »(1) ». Il che non riesce di alcun disdoro alla filosofia; chè comunque questa si prenda, ha sempre la verità a suo proprio oggetto e scopo, e però è affine alla sapienza. Se si prende come scienza, ella insegna le più elevate verità, ed abbiam detto non esser filosofo colui che in vece della verità, insegni l' errore; se come studio di sapienza, ella non solo cerca la verità, ma la rende operativa. Laonde Platone, descrivendo il filosofo, in modo che all' uno e all' altro senso di questa parola risponda: « « Trovasi forse qualche cosa, dice, che sia più famigliare alla sapienza della verità? - Nessuna - E` dunque possibile che la medesima natura sia filosofica (amatrice di sapienza) ad un tempo, e mendace? - In niuna maniera - Dunque colui che è cupido d' apparare, forz' è che tosto dalla puerizia sia soprammodo affezionato ad ogni verità »(2). » Tale deve essere la disposizione del filosofo, anche se si prende questa parola solamente per indicare quello che alla scienza è applicato. Dove si disvela la relazione, e l' intimo nesso che passa fra que' due elementi che abbiamo trovati esser parti integrali, ed anzi essenziali, della sapienza, cioè la verità , e la vita alla verità conforme , nel che consiste la virtù. Il primo de' quali è sempre posseduto dal sapiente, sotto qualsivoglia forma; ed è l' oggetto della filosofia non sotto qualsivoglia forma, ma sotto una forma scientifica, universale, complessiva, splendida all' umana consapevolezza. Ora il filosofo perverrà egli al possesso, e alla sublime cognizione della verità, se non l' ami? o se l' ama solo splendiente, ma la teme redarguente (3)? Il che è quanto dimandare: Se la volontà dell' uomo è alla verità contraria, se lotta con essa, se la rifiuta per maestra della vita, se ne riceve continui rimproveri, potrà poi l' intendimento ne' suoi assensi e dissensi, guidato dalla volontà a cui il vero non piace, riconoscere e confessare pienamente, e prontamente il vero stesso, dovunque gli si presenti, qualunque egli sia, con una perfetta imparzialità e giustizia? quando è appunto perchè alla sua volontà manca la giustizia, che il vero gli si rende molesto, ed odioso, e ripugnante all' assenso? « « Ogniqualvolta, diceva un celebre sofista del secolo scorso, la ragione sarà contraria all' uomo, l' uomo sarà contrario alla ragione » (1) » Ma quand' è che la ragione sarà contraria all' uomo? sempre, quando l' uomo colla sua libera volontà, avrà reso se stesso contrario alla ragione; di certo, questa non è mai la prima ad esser contraria all' uomo. Leibnizio diceva, che le stesse verità matematiche, diverrebbero argomento di grandi disputazioni fra i dotti, qualora comandassero agli uomini de' sacrificŒ e ne regolassero i costumi. La virtù dunque o la disposizione alla virtù conduce alla verità non meno gli uomini tutti, che quelli che vogliono filosofare: tanto è intimo il nesso fra i due elementi costitutivi della Sapienza. E nello stesso tempo nasce di quì l' onore e la dignità della filosofia, rendendosi manifesto, che questa scienza, a differenza di tutte l' altre, benchè nè sia da sè sola la sapienza, nè tampoco sia una forma speciale della sapienza; tuttavia è involta nella felicissima necessità di non poter essere a pieno professata, se non da un sapiente. Laonde Socrate appresso Platone in commendazione di questa disciplina domanda a Glaucone: « « Puoi tu dunque, in qualunque modo, condannare questo studio » (della Filosofia), «che niuno può compire con sufficienza, se di natura non sia perspicace, memore, magnifico, grazioso, amico e famigliare della verità, della giustizia e della temperanza? »(2). » E con ragione questa sentenza è temperata da quella parola « con sufficienza ». Poichè anco di quelli, i quali non hanno la volontà, in cui sta tutto l' uomo come persona, nè di conseguente la vita conformata al vero, possono pronunciare una parte della verità, e con questa apparire filosofi, ma tutta la verità non mai. Altramente non avrebbe potuto aver luogo quella comune, e così giustificata querela mossa a' filosofi del paganesimo, ed ad altri che li prendono ad imitare, cioè che « magna loquuntur, sed modica faciunt (1) ». Se non che era cosa avventurosa e degna di qualche lode anche questa, ch' essi non facessero tutto quello che dicevano ed insegnavano, poichè, come osserva uno di loro stessi, molte cose assai strane, erronee, e riprovevoli uscirono di loro bocca, delle quali, dopo rammentate alcune, quello scrittore continua: « « E moltissime altre cose simili a queste dicono i filosofi, le quali essi non oserebbero mai di farle, se non si trovassero nella repubblica dei Ciclopi e de' Lestrigoni »(2). » Non fanno dunque, ma nè pur dicono, nè possono dire il vero nella sua integrità, nella quale solamente egli costituisce quell' elemento della sapienza , e quell' oggetto della filosofica scienza , che noi dicevamo. E a' nostri lettori, che si rammentano dove noi abbiamo collocata questa integrità, non potrà mai sembrare, che noi con un favellare troppo vago ed indeterminato facciamo contumelia a molti che, a loro possa, s' applicano lodevolmente agli studŒ della filosofia. Essi sanno troppo bene quanto sia lungi da noi l' intenzione di pretendere, che il filosofo, per meritar questo nome, deva conoscere tutte le singole verità: il che se fosse, non solo alcuni cultori di questa scienza rimarrebbero esclusi dal novero de' filosofi, ma non si potrebbe trovarne un solo sopra la terra: chè ogni uomo, di qualunque ingegno, qualunque età abbia speso nel meditare, ignora di molte cose, e per fermo molte più di quelle, ch' egli ne sappia. Non è dunque l' integrità materiale della verità, quella di cui parliamo, ma un' integrità formale, di cui noi dicevamo più sopra la filosofia essere il sistema, come anche Aristotele l' avea definita « « la scienza della verità »(3). » Conviene aver presente quel modo, in cui piacque all' autore dell' umana natura, che questa fosse partecipe della luce della verità. Perocchè, l' abbiamo veduto, volendo Iddio che questa natura fosse intelligente, egli ordinò che fin dal primo suo esistere, le si rendesse visibile la verità, non una parte, ma tutta, come quella che è una e semplicissima, e per conseguente, non capace di divisione. Il perchè non può esser veduta col primo intuito una sola parte di lei recisa dall' intero suo corpo, che anzi questa parte non c' è; benchè quando la mente vede il tutto, allora essa nel tutto stesso, possa poi limitare la sua riflessione e quasi concentrarla in una parte, ch' ella stessa si circoscrive. Ma questa verità, che è l' essere per sè intelligibile , e che, senza che le manchi cos' alcuna (giacchè se mancasse qualche cosa all' essere, non sarebbe più l' essere), sta di continuo presente allo spirito, contiene sì in se stessa tutte le cose vere, ma in un modo implicito e virtuale; e però queste a principio non si vedono in lei le une dalle altre nè separate nè distinte, e nell' atto loro proprio, ma tali vi si scoprono, quando lo stesso spirito umano, aiutato da' sentimenti corporali, coll' uso di diverse attività conoscitive, attua quello che vede in potenza, e quello che già possiede implicito, se lo rende esplicito, quello che è indistinto, distinto; quello poi che sommerso e nascosto nella virtù dell' essere come in un mare senza limiti, lo fa venire a galla, e quasi, direbbe Socrate, esercitando l' arte pescatoria, lo prende e lo ripone nella dispensa della sua memoria. Che se l' uomo non avesse alcun bisogno di far tutto ciò, e le notizie particolari gli fossero date belle e formate dalla natura, non ci sarebbe più cagione della sua propria razionale attività, e rimarrebbe un essere maraviglioso per le preziose cose che conterrebbe, come gl' Iddii d' oro inseriti nel petto de' Sileni, ma privo di quell' onorevolissima azione, per la quale egli si fa quasi maestro a se medesimo. L' essere dunque oggetto dell' intuizione conceduto all' umana natura è la verità nella sua integrità formale. E questa integrità è quella che si dee trasportare dall' attività stessa dell' uomo a cui Iddio l' ha consegnata, nell' opera scientifica della Filosofia: il che si fa, come abbiamo detto, coll' uso di una riflessione elevata. Laonde il primo oggetto, e però il principio della filosofia, non può esser altro che quello che è il primo lume nella natura, e che è il primo principio di tutte le indefinite cognizioni, di cui può arricchirsi l' umanità, le quali tutte, da quello, siccome da un cotal fuoco eterno e sacro, custodito nel tempio della natura, s' accendono. Imperocchè se quello è il primo lume, conviene che in quel solo si trovino le prime ed ultime ragioni delle cose di cui va in cerca, o, trovate, professa d' insegnare la Filosofia. E però è indubitato che intorno a questa scienza, da tempi remotissimi sino a noi, si sono fatte molte, ingegnosissime, e sublimi ricerche, ma, a veramente parlare, non si può dire ch' ella sia stata trovata od abbia esistito, se non allora che si rinvenne quel principio, intorno a cui si facevano quelle investigazioni, il qual solo è la base, su cui regolarmente e a modo di vera scienza, si edifica. Che se quell' essere intelligibile , che è come il sigillo della natura umana, onde questa è intelligente, e che quando poi dalla riflessione è colto e trasportato nel campo della scienza, diviene la prima pietra dell' edificio, contiene la verità nella sua integrità formale, quantunque in modo ancora implicito; questa integrità non si perde più co' lavori che si vanno facendo dalla mente di chi filosofeggia sopra di quel fondamento, se ne innalzino poco o molto al di sopra del suolo le muraglie; e, ancorchè non si arrivi colla fabbrica fino al tetto, si può dire oggimai con verità, che la filosofia è fondata, sebbene non condotta al suo colmo. Ma in questa edificazione è in primo luogo necessario, che l' architetto ponga mente alla perfetta commettitura delle pietre, sicchè non resti fra loro vacuo o fessura, ma ciascuna, squadrata e spianata a giusta misura, si continui all' altra: con che vogliam dire, che le verità speciali che si vogliono ordinare e costruire a forma di scienza, procedano, senza alcun salto, quasi una continuazione della stessa idea che l' uomo per natura intuisce, il primo ordine di esse a questa s' appoggi, i successivi l' uno sull' altro, per modo che in su quel solo e primo fondamento si regga e solidi tutta quanta la fabbrica. Dipoi, non tutte le qualità di pietre sono acconcie a tanto edificio; ma solo quelle che, traendosi dalla prima idea, come da' visceri di ricchissima miniera, ritengono della stessa natura e condizione di pietra durissima, non fragile od arenosa. Il che ha bisogno di qualche dichiarazione, e non vedo di poterne rinvenire altra migliore di quella che ne dà Platone sulla fine del quinto dialogo della Repubblica, là dove Socrate vuole che Gluacone avverta, che non si direbbe con verità che taluno amasse una cosa, se non l' amasse tutta, ma una parte n' amasse, e un' altra parte della cosa medesima odiasse. Di che egli deduce, che quando si dice, che il filosofo è l' amatore della sapienza, allora si asserisce ch' egli è avido d' ogni sapienza, non d' una specie o d' una parte: con che il filosofo ateniese tocca incidentemente quell' integrità formale della verità di cui noi parlavamo, siccome d' una condizione necessaria dell' oggetto della filosofica scienza. Onde in appresso soggiunge, i veri filosofi, cioè gli amatori della sapienza, doversi chiamar quelli, che sono cupidi di vedere la verità; coloro all' incontro che vogliono veder altre cose, non senza il suo solito attico sale, egli dice, che non filosofi, ma si devono chiamare simili a' filosofi , perchè almeno assomigliano a questi nella voglia di vedere. Ma tosto appresso quando cerca che cosa sia quella verità in cui arde di affissare lo sguardo il vero filosofo, allora parla in modo che noi intendiamo quanto vogliano esser salde e durissime quelle pietre, di cui dicemmo, potersi con esse sole costruire l' edificio della scienza filosofica. Perocchè quella verità, di cui parla il grand' uomo, è l' essere : onde risulta che la filosofia dee riputarsi non altro che la scienza dell' essere . Ma Platone qui distingue tre cose, cioè quello che è, quello che non è, e quello che ora e in parte è, ed ora ed in parte non è. Quello che è, è l' essere; quello che non è, è il nulla; e quello che ora e in parte è, ora e in parte non è, e, qualche cosa di mezzo fra l' essere e il nulla, di maniera che non si può dire di lui, semplicemente ed assolutamente, nè che è, nè che non è; ma conviene aggiungere all' assertiva qualche distinzione, o condizione, o limitazione. Ora l' essere è l' oggetto della scienza e della cognizione: col nulla, con quello che in tutt' i sensi è nulla, non prestando alcun oggetto alla mente, rimane l' ignoranza: ma quello che in parte è, e in parte non è, si presta ad una maniera di sapere che cammina medio tra la scienza e l' ignoranza, e non può dirsi nè assolutamente scienza «(episteme)», nè assolutamente ignoranza, onde Platone lo chiama opinione ( «doxa»). la filosofia dunque contempla quello che semplicemente ed assolutamente è, l' essere senza più, e le relazioni di questo col non essere, o con tutto ciò che è solo in parte; e così ella si distingue dall' ignoranza, e dall' opinione. Ora quello che semplicemente è, non accade mai che non sia, e perciò è eterno: è sempre nello stesso modo, e perciò è immutabile: è per essenza, cioè in questo sta la sua essenza, nell' essere, e perciò è necessario: dunque è solidissimo, costantissimo, insuperabile, ugualissimo a se medesimo: tale è la saldezza e la durezza di quelle pietre, di cui, lasciate da banda tutte l' altre meno consistenti, noi dicevamo doversi murare il filosofico palagio. Platone per fare intendere la differenza fra la cognizione di queste cose eterne, e l' opinione che s' aggira intorno le cose contingenti e mutabili, fa uso di un esempio: distingue le cose belle dal bello veduto nella sua idea. Quelle sono molte e varie, e possono divenire, od essere state, brutte, ma il bello stesso, quale l' idea lo fa conoscere alla mente, è perfettamente uno, e non può mai essere stato, o in futuro divenir brutto, perchè è appunto questa la sua essenza, d' essere il bello, e nessuna essenza si può pensare diversa da quello che è, e che appare immutabilmente all' intelligenza. Le cose che possono ora esser belle, e ora esser brutte, non sono assolutamente e semplicemente il bello, ma ora e in parte sono tali, ora e in parte tali non sono: partecipano del bello; e per questa partecipazione Platone le chiama similitudini del bello. Ora, dice, colui che prende le similitudini delle cose, per le cose stesse , fa come chi sogna, che prende le cose sognate per altrettante cose reali. E la massima parte degli uomini sognano a questo modo; poichè si fermano col pensiero alle cose che sono per partecipazione, e si persuadono che al di là di esse nulla ci stia, o non ci pensano: pochissimi giungono a cogliere colla riflessione quell' immutabili essenze, in cui la cosa è veramente in un modo semplice ed assoluto, e questi soli vegliano. Questa facoltà dunque di veder le cose nella veglia della mente, come veramente sono, appartiene a' filosofi. Quello poi che Platone dice della bellezza, vuole che si dica egualmente della giustizia e dell' altre essenze (1); le quali in ultimo sono i soli materiali accomodati a costruire la fabbrica della Filosofia. E veramente noi dicevamo che la Filosofia è la scienza delle ragioni ultime. Ora le ultime ragioni di tutte le cose contingenti e mutabili, le quali sono e non sono, si trovano appunto in quelle loro essenze che nelle idee appariscono, necessarie ed immutabili, che non già sono e non sono, ma semplicemente sono. Tali pietre ci abbisognano, e per trovarle conviene che l' uomo, dice Platone, si stacchi dalle cose corporee e corruttibili, e si rivolga tutto alle eterne e divine, onde chiama questa scienza, «periagogen,» cioè rivolgimento (1), e una specie di morte, solutio atque avulsio animi a corpore, cum ad intelligibilia et ad ea quae vere sunt, convertimur (2): così intimo è il nesso della virtù, che abbiam detto essere il secondo elemento della sapienza, colla scienza filosofica, che nessuno è acconcio a questa, se non è reso generoso e sublime da quella. Ma trovate le pietre, conviene unirle, non a caso, ma secondo il disegno del tempio, che si medita edificare. E come quelle pietre sono eterne e assai più dure del diamante, così eterno ed unico è pure il disegno. Ma questo è sufficientemente indicato alla mente umana dalle stesse pietre, chè ciascuna di esse, tosto che sia estratta dalla miniera, staccata e rinettata da tutto ciò che le aderisce, ma non le appartiene, chi attentamente l' osserva, trova essere numerizzata, e sopra di sè porta scritto il luogo della fabbrica, in cui vuol essere inserita, di maniera che il muratore non ha a far altro, che locarla con ogni fedeltà e con somma esattezza in quello stesso ordine e in quello stesso luogo, che dice la scritta, e con questo il disegno nell' eseguir l' opera si manifesta da sè, e risulta perfettissimo, senza averlo pur veduto su qualche carta delineato. Ora noi stimiamo, che Platone (giacchè non sappiamo facilmente staccarci da un così grand' uomo, poichè l' abbiamo nominato), il quale seppe indicarci le vere pietre colle quali costruire la Filosofia, non abbia poi nè veduto tutto l' edificio, nè conosciutone l' intero disegno; ma certo a lui torna di somma ed immortale onoranza, l' aver conosciuto quale ne dovesse essere il fastigio e, quasi dicevo, il comignolo, benchè ne tocchi con un modesto timore (che parmi il più certo argomento della grandezza di quella mente) di non parlarne in modo degno, quindi anco con una soverchia brevità. Il qual fastigio egli l' addita nell' idea del bene. La quale idea è chiamata da lui disciplina massima , e vuole, che i custodi della città ne sieno, più che di qualunque altra scienza, imbevuti. Perocchè, « come non ci gioverebbe, dice, il possedere qualunque cosa senza il bene, così, se ci è ignota quell' idea, e, senza di essa, pur conosciamo ottimamente l' altre cose, di nessuna utilità ci possono essere tutte queste cognizioni. »Soggiunge poi, che « l' anima intera desidera il bene, e per esso fa tutto quello che fa, augurandosi che il bene sia pur qualche cosa; e tuttavia ella dubita, e non può sufficientemente comprendere che cosa sia, nè sa trovarne una persuasione ferma, qual è quella che usa circa il resto: e quindi anche nell' altre cose s' inganna, quando si continua a giudicare che cosa sia utile. »Dalle quali parole, aguzzata negli uditori la voglia di conoscere una così magnifica e misteriosa verità, che cosa sia il bene, Glaucone ne pressa Socrate di caldissime istanze, che ne voglia ragionare; ma Socrate: « temo, dice, che mi manchin le forze, e che io mi paia più inetto, e muova gli uditori a riso, osando sopra il potere »; onde, scusandosi dall' entrare per allora nella questione dell' essenza del bene, promette di dire in quella vece, quale ne sia il figliuolo a lui somigliantissimo, ma prega gli uditori, anche così restringendo il discorso, di stare bene avvertiti, non forse in un argomento di sì gran rilievo egli inscientemente gli inganni, recando loro di quel figliuolo un vano concetto. E questo, che Socrate chiama il figliuolo del bene è il lume della ragione umana come prole a lui somigliante. Qual mai pensatore in tutta l' antichità gentile vide tant' alto, pronunciò una sentenza più stupenda di questa? Perocchè, egli dice, come nell' ordine delle cose corporee, oltre la forza visiva, e oltre le stesse cose visibili, per aversi la visione, è necessario che ci sia il lume , il quale informi la virtù dell' occhio traendola all' atto, e nelle cose produca i colori, senza i quali non sarebber visibili, così del pari accade nell' ordine delle cose intelligibili. E come il lume del visibile mondo emana dal sole, così quel lume che informa l' intelligenza e rende le cose intelligibili, è immediato figlio del bene essenziale , che Platone chiama spesso l' idea del bene, perchè nell' idea è l' essenza (1). Ora questo lume è la causa della scienza, dice, e della verità, che l' intelletto apprende, e dall' eccellenza di queste cose vuole che la mente ascenda ancora più su, a conoscere cioè l' eccellenza e la prestanza di lunga mano maggiore di quel Sole, da cui, aggiunge egli, non solo è figliato il lume, ma sono altresì causate tutte le cose mutabili, alle quali, causandole, dà il generarsi, l' accrescersi, il nutrirsi, quando pure quel Sole non è niuna di queste cose. Il che noi dichiariamo così, secondo la mente di quel gran filosofo: le cose reali mutabili e contingenti (che Platone chiama con parola tecnica della sua filosofia generabili , ossia soggette alla generazione) non si conoscono da noi, nè sono conoscibili, se non nelle loro essenze, le quali sono eterne e per sè intelligibili, e si chiamano idee, quando sono comunicate alla mente: ora queste essenze si riducono tutte ad un primo lume, che dicesi il lume della ragione, e non è altro che l' essere manifesto alla mente fino dalla prima costituzione di essa: ossia, che è il medesimo, l' essenza dell' essere intuìta da noi senza confine, nè determinazione alcuna, è l' idea prima che produce l' altre, come il lume corporeo, i colori; perchè l' altre idee ed essenze in esse vedute, non sono che la stessa idea dell' essere variamente determinata e limitata, siccome appunto i colori sono la luce, non tutta unita, ma rifratta, separata in fascicoli luminosi, in una parola, anch' essa limitata. Ora il vero, il permanente essere delle cose, quell' essere che è sempre e in uno stesso modo, nè tentenna fra l' essere e il non essere, ma semplicemente è, trovasi nelle loro essenze, di cui le cose contingenti e mutabili non sono propriamente che espressioni imperfette, e, come Platone le chiama, similitudini . Come dunque la similitudine ha per sua cagione l' originale di cui è un' imitazione, così le essenze sono cagioni delle realità, e il lume delle essenze, nelle quali sta il vero essere delle realità, e il Sole che è il bene per essenza, di tutte queste cose insieme. La qual dottrina è per avventura così magnifica e santa, massimamente nella bocca di un gentile, ch' io mi credo non poter dispiacere al lettore, se io qui soggiunga una porzione delle parole stesse, con cui ne parla quell' uomo straordinario: [...OMISSIS...] Nessuna mente prima di cristo fra i gentili salì mai più alto. Il fastigio dell' edificio filosofico qui è chiaramente mostrato in Dio, autore del lume dell' umana ragione, sede delle essenze, autore delle cose. E Dio è indicato, con sommo accorgimento, come l' essenza del bene ; giacchè la sola natura del bene ha in sè la ragion del diffondersi, e, per questo suo istinto diffusivo, Iddio dà sussistenza all' universo. Ma noi dicevamo, che avendo Platone così sagacemente quasi a dito mostrato il colmo della mole filosofica, non potè però disegnarne con accuratezza e distinzion sufficiente l' intera architettura. Chè certo nella sola idea del bene si rinviene il principio intenzionale ed il fine reale del mondo. Ma l' idea della causa finale non è la sola ragione ultima : conviene ad essa aggiungere la causa esemplare , che è per sè idea, o a dir meglio quello di cui l' idea è l' analogo, come pure la causa efficiente . Queste tre cause offeriscono alla meditazione filosofica le tre ragioni ultime di tutte le cose, delle quali l' una non è superiore all' altra, nè l' una si rifonde nell' altra, come sembra supporre Platone, che alla natura del bene subordina l' altre due o con essa le confonde. E anche qui impedì a quella gran mente di conservarle sufficientemente distinte, l' avere ignorata la legge, di cui noi parliamo di continuo, del sintesismo , per la quale accade, che più cose devano essere insieme, e ciascuna si possa annullare col ragionamento, fatta solo la supposizione che manchino le sue compagne, e tuttavia l' una non è l' altra, anzi dall' altra distintissima. Onde essendosi accorto Platone, che l' idea del bene non potea essere senza che si collocasse nello stesso bene l' intelligibilità e la potenza , prese queste come elementi di quella, non come idee da quella distinte. Che se egli avesse considerato altresì, che nè pure l' idea della potenza si regge, se in essa non si collochi l' intelligibilità e il bene; nè l' esemplare, che, come dicevamo, è per sè idea, o verbo di cui l' idea è l' analogo, senza l' esemplato potente e buono; si sarebbe facilmente accorto, che nessuno di questi tre si può ridurre all' altro, benchè ciascuno reciprocamente si chiami e si supponga. Sarebbe stato necessario altresì, a tracciare un disegno perspicuo della filosofica scienza, l' osservare che l' idea della causa efficiente deriva e s' inchiude in quella d' essere reale e soggetto, la causa esemplare poi è l' essere ideale (che si riduce al Verbo divino a cui è analogo), l' essere per sè manifesto , o per sè oggetto; in ultimo l' idea della causa finale scaturisce dall' idea del bene, che è l' essere morale , quasi talamo dell' essere soggetto e dell' essere oggetto. Le quali sono tre forme, ciascuna delle quali in se stessa contiene il medesimo essere e tutto intero, per guisa che quella trinità si consuma nell' unità semplicissima dell' essere stesso. Nè con questo vogliam dire che a torto Platone derivi dal bene essenziale come da causa immediata il lume dell' umana ragione, e l' essenza delle cose mutabili, e queste stesse cose, perocchè veramente quello che è ultimo in Dio, secondo l' ordine logico della mente nostra, è primo rispetto al mondo, è la ragion prima del movimento creativo; ma il grand' uomo, non avendo altro lume che il naturale, corse troppo frettoloso al mondo considerando le cose divine nell' ordine che hanno con questo, senza prima meditare, com' era mestieri, quell' altr' ordine precedente ed assoluto, che quelle hanno tra sè. Onde sebbene ne faccia giustamente stupire l' altezza di quella mente, che chiamò il lume della ragione figliuolo del bene essenziale, similissimo al padre ; tuttavia in un tanto e sì nobilissimo sforzo di sollevarsi alla somma altezza, ci rimane una prova manifesta della limitazione dell' ingegno dell' uomo, il quale per quantunque levasse verso al cielo una mano di gigante, per verità non si potea credere che lo toccasse, ma pure per l' analogia del natural lume, seppe additare dalla lunga un Verbo, ossia un lume eterno, figliuolo del bene essenziale, e anche questo non senza essersi probabilmente aiutato d' antiche tradizioni. La sola parola di Dio stesso vale a guidare per le celesti ragioni l' umana intelligenza, senza smarrirsi, e renderla idonea alla più sublime filosofia. Il punto dunque ove termina la filosofia e onde pure incomincia è l' essere , e il suo ordine intrinseco , cioè le sue tre forme, che si riflettono nel mondo, e costituiscono la base delle categorie a cui tutte le cose si riducono, e diventano le ragioni ultime, intorno alle quali la meditazione filosofica si rivolge. Perocchè nell' essere sotto una prima forma reale è necessario investigare la prima ragione di tutte le realità che costituiscono il mondo reale, nell' essere sotto una prima forma oggettiva è neccessario investigare la prima ragione di tutte le idee e cognizioni che costituiscono il mondo ideale ed intelligibile; nell' essere sotto una prima forma del bene, è necessario investigare la prima ragione di tutte le esigenze e le leggi, di tutte le morali attività co' loro effetti, che costituiscono il mondo morale. Chè l' intrecciamento di questi tre mondi è il creato, e pende dal suo Creatore, a cui somiglia, quasi siccome un frutto dall' albero. E che nella natura delle cose e nella composizione di questo universo si possano facilmente ravvisare calcate queste tre impronte, e quasi solchi di altrettante vie, per le quali il pensatore si conduce a trovare le ultime ragioni delle cose, nel che sta il filosofico esercizio, lo dimostra anche la partizione dell' antica filosofia, da' migliori filosofi distribuita in tre parti, che nominarono « naturale, razionale, e morale (1). » E quantunque lo sviluppo immenso di queste tre membra primitive abbia introdotto in appresso tali e tante suddivisioni, che fecero dimenticare que' tre principali tronchi, aventi la comune radice dell' essere, onde uscirono gli altri rami; tuttavia chi si fa a riandare il cammino percorso, e torna a sintesizzare quello che l' analisi ha moltiplicato e, quasi dicea, sparpagliato, si trova restituito di nuovo a quelle tre parti primitive, a cui noi pure riconducemmo i nostri lavori (1). S. Agostino ci fa riflettere, che quella divisione non fu instituita da' filosofi, ma da essi trovata esistente nella natura delle cose (2), e vi riconosce un cotale vestigio della divina trinità, vi scorge i tre problemi dall' umana scienza non mai sciolti, a dir vero, da' gentili filosofi, ma tuttavia proposti, la cui ultima soluzione s' annoda alla cristiana dottrina delle tre divine persone. Perocchè dice « « avendovi in ciascuna di quelle (tre grandi e generali questioni) una discrepanza moltiplice d' opinioni, tuttavia niuno esita in affermare, che v' ha qualche causa della natura, qualche forma della scienza, qualche somma della vita »(3). » Ecco come la cima più alta della filosofia, quasi vetta d' altissimo monte che si perde nella maestà delle nubi, si continua col lume superno custodito nella cristiana credenza, e questa mette in sul capo a quella un' augusta e celeste corona. Egli è dunque manifesto, che quello che abbiamo detto il secondo elemento della sapienza, LA VIRTU`, e la religione che n' è la perfezione, fa la strada al primo che è LA VERITA`, di cui la Filosofia, come esercizio, è l' investigazione, e la Filosofia, come scienza, è il sistema. Ma la scienza poi dà una nuova forma e più sublime alla stessa sapienza . Perocchè se la sapienza ha per sua base la cognizione della verità, e se questa si può conoscere nella sua integrità formale in due maniere, l' una delle quali è comune a tutti gli uomini, l' altra, riflessa e consapevole, propria sol de' filosofi; convien dire che v' abbiano del pari due maniere di sapienza: una sapienza comune a tutti, che s' edifica sulla cognizione comune, diretta e popolare, quando l' attività libera dell' uomo, senza lasciarsi anneghittire da alcuna tenebra d' affetto, nè sommovere da alcun impulso di cieca passione, cammina nella luce di quella verità che conosce ed ama su tutte le cose, onde il soggetto uomo, che nella volontà dimora, è conformato ed accordato all' oggetto, come due corde d' una stessa cetera; e una sapienza propria del filosofo, che s' edifica, non sulla sola scienza, a dir vero, che rade volte è perfetta ed intera, ma sulla scienza e ad un tempo su quel fondo di cognizioni che in lui rimane, di cui la scienza è come un ricamo a rilievo; quando amando tutto quello che sa di vero, lo sappia in una forma o nell' altra, cerca di realizzarlo tutto, e di rendere quasi sussistente e vivente in se medesimo quella verità che conosce. E quantunque nel viaggio all' alta regione della scienza l' ingegno incontri nuovi pericoli e strane lotte da sostenere con nuove forme d' errori (chè trasportato l' umano ragionamento, spesso ambiguo, ad una riflessione superiore in un campo senza pari più ampio, gode provar le sue forze a scoprire egualmente ed a coprire il vero, e seco stesso combattere, come in vasto mare i venti si sbrigliano con più di libertà e di furore che in un lago angusto); tuttavia e può l' uomo trionfare di tali procelle, se il guida un illimitato amore della verità, e giunto in fine alla scienza, può rendere a quella verità che come scienza possiede e vede perspicua e da molti lati, un più profondo ossequio, e una testimonianza più illustre; e ad essa dare quasi in dono, una porzione più eccellente di se medesimo, qual è la volontà riflessa e consapevole che sorge come nuova potenza in seno alla scienza, e che nel vero, di cui fruisce, rinviene una gioia sua propria, che anch' essa è cognizione, e amore, e nuovo ossequio del vero. E` dunque somministrata dalla Filosofia nuova materia alla Sapienza, che per essa aggrandisce, e nuovo stimolo all' amore della Sapienza. Laonde se la Sapienza che precede, guida l' uomo alla Filosofia, e con questa dimora; la Filosofia da sua parte restituisce l' uomo alla Sapienza che sussegue, e che è maggior della prima. Tali sono le intime e preziose relazioni fra la scienza filosofica e la Sapienza. Invano s' è tentato di sciogliere vincoli così naturali e sì sacri. Ogni qual volta si è voluto separare la scienza dalla virtù morale , e si è preteso che quella dovesse andarsene sola e bastare a se stessa; ella s' è trovata languire e morire nelle mani temerarie che le hanno fatto subire quest' esperimento, come il corpo d' un uomo, a cui si estragga il proprio sangue, per rifondervi forse quello d' un caprone. Chè per verità egli è più facile comporre un essere vivente ed intelligente accozzando insieme elementi materiali per via di chimiche operazioni, che, senza l' amore della verità e della virtù, comporre la Filosofia. Quella è l' illusione del materialista, questo il perpetuo sogno del razionalista. Tanto più che non essendo la Filosofia che una rappresentatrice fedele e quasi una disegnatrice dell' essere (giacchè tutto il resto non è Filosofia, ma sofistica), e l' essere, ordinato nella sua essenza, avendo principio, mezzo e fine, cioè sussistenza, intelligibilità, e amabilità, onde risulta la virtù, e, come sua appendice, la felicità; così essa, la Filosofia, dopo aver ritratto l' ente come principio, e l' ente come mezzo, dee terminare e riposarsi nella scienza della virtù e della felicità, dove pur l' ente, come in termine di sua perfezione, si riposa e si compie; nè la scienza della virtù si rivela a chi le è nemico. Chè, come accade delle sensazioni, le quali niuno potrebbe inventare o immaginare, qualora non ne avesse avuto esperienza, così del pari la sola osservazione ed esperienza è finalmente quella che in un modo positivo ed intimo fa conoscere i fenomeni morali che la natura e l' eccellenza della virtù spiegano e manifestano: il che non può dirsi, almeno in grado eguale, del vizio, il quale ha natura di negativo e di privativo, e però colla notizia del positivo, che è il suo contrario, sufficientemente s' intende. Di che di nuovo si raccoglie, che la disposizione più necessaria allo studio della filosofia consiste in questo, che l' uomo pratichi la virtù, come, nell' ordine d' una scienza e d' una sapienza più elevata, sta scritto: « « Figliuolo che desideri la sapienza, conserva la giustizia, e Iddio te la darà »(1). » E` dunque un distruggere l' uomo il separarne, come vuol fare la scuola tedesca, la parte intellettiva dalla parte attiva e morale, e in quella, cioè nella scienza pura, assorbire anche questa. I primi che fondarono questa scuola, il Kant ed il Fichte, non sapendo spiegare, a cagione del soggettivismo ingozzato a modo di pregiudizio dal loro secolo e non mai digerito, come l' intelligenza potesse conoscere cose diverse dall' uomo; su questa loro ignoranza fondarono il nuovo sistema, e sentenziarono, la ragione esser del tutto incapace di percepire il mondo esterno, e così la dichiararono incapace di fare quello che ella continuamente fa. Ma temendo che gli uomini si spaventassero di soverchio agli assurdi d' una dottrina che, come una Dea irata colla ragione , criticandola, la castigava e riduceva all' impotenza; ricorsero per temperamento all' azione , e in questa riconobbero una cotale comunicazione reale dell' uomo col mondo esterno: di che sotto il nome di ragione pratica restituirono allo spirito umano (però entro una sfera soggettiva) quello che avevano tolto al medesimo sotto il nome di ragione teoretica . Il ripiego non potea durare, chè le incoerenze non durano. Laonde il Schelling, l' Hegel e i loro discepoli abolirono quel dualismo che restava nell' uomo, e più fedeli al principio, che l' uomo non può uscire di sè (del che era prova concludentissima questa che la loro mente ne ignorava il modo, e il decoro d' un professore d' Università voleva ch' egli non ignorasse cosa alcuna, e che piuttosto di confessare la propria ignoranza, negasse imperterrito i fatti più comuni e più evidenti della natura), dissero, che l' azione durava fenomenalmente nell' uomo fino che questi non fosse giunto alla scienza , e propriamente all' idea che sola esiste e diventa uomo, azione, oggetto, soggetto, concetto, natura, Dio, ogni cosa. L' uomo non arriva a conoscere questa gran verità, che l' idea è tutto, fino che la coscienza di lui è ancora immersa e approfondita nel travaglio di pervenirvi, che è successivamente creazione ed annullazione (perocchè non vi ha requie, ma soltanto, come diceva Eraclito, continuo moto); pel qual travaglio l' uomo mai non è, ma sempre diventa , e diventa or pura idea, or nulla, ora dal nulla sorte novellamente uomo, [...OMISSIS...] per rientrare poi tosto nella natura materiale, o indiarsi, o idealizzarsi, o ripiombare di bel nuovo nel gran nulla. Così in questa scienza ogni azione, e con essa ogni moralità, non è più che una passaggera metamorfosi dell' idea, e l' Uomo7idea è a tutte cose superiore, anzi è tutte le cose, nè egli, il tutto, può più ricevere altronde alcuna legge. Sebbene poi disparisca nel nulla anche la coscienza di sè , tuttavia questa sola, appunto perchè non esce di sè, è verace, e la cognizione dell' altre cose, che in Germania si chiama coscienza senza più, deve esser vinta da quella. Perocchè la coscienza di sè , e la coscienza (cognizione dell' altre cose) lottano insieme, secondo la filosofia germanica, al modo degli antropofagi, e colla vittoria che spetta alla prima, questa si mangia saporitamente la seconda. Laonde la coscienza , ossia la cognizione di Dio e de' proprŒ simili, essendo divorata dalla rabbiosa fame della coscienza di sè stesso , che sola rimane soprastante, i doveri morali verso Dio e verso gli uomini sono divorati con essa, e di queste vecchie cose è sparita pur la notizia. Allora l' uomo, coscienza pura di sè stesso, nel che sta l' apice di sua grandezza, è liberato d' ogni obbligazione, salvo che gli resta, non il dovere certamente, ma il piacere di adorare se medesimo; come anche quel nulla , in cui poco stante farà un capitombolo, per riuscirne di nuovo, come dall' ovo primordiale. Le quali non sono conseguenze che noi caviamo: anzi il merito d' averle dedotte appartiene parte allo stesso Hegel, parte poi a' suoi discepoli, che non hanno ancora acquistato alcun merito di essere nominati. E così sotto il nome di scienza e di filosofia, la sofistica in Germania tolse a schernir l' uomo, palleggiandolo fra il nulla e il tutto , senza riposo: coll' uomo poi rimase uno scherno la scienza, la filosofia, la sapienza: tutte cose che di continuo escono dal gran mare del nulla, in cui rifluiscono. Niuna maraviglia, che la voce della filosofia ora in quel paese sembri ammutolita e confusa. Pure la dualità della cognizione e dell' azione che quei sofisti cotanto abborrono, non toglie l' unità dell' essere identico nell' idea e nell' atto, nè impedisce l' unità della sapienza, che dall' intima congiunzione, organata ed armonica, di que' due elementi risulta, vivente non morta, come è inevitabile che si rimanga l' uno, se si spoglia di qualunque pluralità. Nè fra la contemplazione e l' azione v' ha contrarietà di sorte, quasichè questa impedisca la pienezza di quella, come si suppone, chè la mente contempla ugualmente sì nell' uomo che opera, come nell' uomo che non fa nulla: nel primo contempla anche quello che egli stesso fa: niuna cosa rimane esclusa dalla contemplazione, benchè le cose contemplate abbiano poi un' altra forma d' essere che le pone fuori di essa; e questo stesso è la contemplazione che ce lo dice e ce l' accerta. Riassumendo dunque, noi dicevamo, che nella cogniziione della Verità, di cui la scienza è soltanto una forma riflessa, giace il primo elemento della Sapienza; ma questa stessa cognizione non principia ad essere elemento di Sapienza fino che è puramente speculativa, e non ancora assentita ed amata fino che l' uomo, non v' ha aggiunto del suo, fino che la cognizione non è divenuta azione libera; chè la stessa visione del vero è doppia, l' una necessaria, l' altra volontaria e amorosa, alla qual ultima spetta più propriamente il nome ora di contemplazione , ora di cognizione pratica . Laonde c' è una cognizione ed una scienza psicologicamente anteriore a quel punto in cui la Sapienza incomincia. Ora per non lasciare questo discorso imperfetto e l' immagine della sapienza senza capo, conviene che noi facciam passaggio dall' ordine naturale a quell' altro senza pari più sublime, cioè al soprannaturale. Prendiamo il ragionamento del suo principio. L' uomo arriva in due modi all' acquisto delle cognizioni: l' uno, difficile e lento, quand' egli abbandonato a se stesso, senza alcuna educazione ed istruzione, senza poter far uso d' alcun maestro, col proprio ingegno s' avanza, fin dove può, alla scoperta del vero: l' altro facile e spedito, quando sotto la disciplina di maestri apprende dalla loro parola non solo quelle poche verità ch' egli avrebbe potuto scoprire da se medesimo, ma per ordine una copia smisurata di notizie raccolte colle fatiche d' innumerevoli studiosi, e quasi ammassate e trasmesse di secolo in secolo alle successive generazioni, siccome eredità o patrimonio comune dell' umana famiglia. Tutti unanimamente convengono, che l' efficacia di questo secondo modo d' erudirsi sia infinitamente maggiore del primo: e però in tutti i tempi dopo i primissimi v' ebbero maestri e scuole, ne' tempi poi più civili, dove, essendo già maggiore lo sviluppo degl' ingegni individuali, sarebbero parute men necessarie, si riconobbero in quella vece più importanti; e crebbe fuor di misura la sollecitudine d' istituire Università e Licei ed ogni altra maniera di scuole, nelle quali dalla voce di sceltissimi precettori venissero a moltissimi quelle notizie comunicate e propagate. Chè la comunicazione della verità da una mente ad un' altra per mezzo della parola è la via di tutte e più fruttuosa e più spedita, per la quale, con leggera fatica, gli uomini trapassano dall' ignoranza al possesso del sapere. L' autorità dunque è il natural pedagogo, che incammina più direttamente e più pienamente alla scienza: ella inizia, eccita, dirige, arricchisce, rinforza, e quasi moltiplica l' umana intelligenza. Ma egli è evidente, che il maestro non può insegnare quello che non sa: quindi l' importanza che sia dotto. Nè ella è legger cosa al profitto la stima e la fiducia de' discepoli nel proprio istitutore. Che anzi in molti problemi difficili e di sommo momento, gli uomini il vorrebbero avere del tutto infallibile, e lo si augurano onnisciente. Il quale natural desiderio di sapere il vero e saperlo con certezza, che conduce le menti a comporsi l' ideale del maestro a cui appartengano le due doti, dell' infallibilità e dell' onniscienza, suol muovere l' affetto de' discepoli a celebrare con ogni esagerazione la dottrina e l' autorità de' loro precettori; e vediamo non pochi di questi avere in vari tempi conseguita l' appellazione di divini, od altra di pari eccesso: i discepoli poi aver sovente giurato nelle parole de' maestri ed essersi compiaciuti di risolvere le questioni tutte colla solennissima formola dell' ipse dixit . Ma Platone, a cui pure fu dato l' epiteto di divino, ogni qual volta ne' suoi ragionamenti s' abbatte in alcuno di que' rilevantissimi e misteriosi problemi, di cui tutti desiderano sapere la soluzione, perchè da essi dipende l' umana destinazione di que' problemi, pe' quali si coltiva la filosofia non altrimenti che si coltivi l' albero pel suo frutto non s' arrogò mai alcun divino sapere, ed anzi confessò la propria ignoranza, facendo voti che lo stesso Dio s' avvicinasse e rivelasse agli uomini, come quelle cose si stessero, e colla sua autorità infallibile ne desse loro una piena sicurezza (1); chè di queste due cose ad un tempo hanno gli uomini sommo bisogno, e di conoscere la verità di tali questioni, e di conoscerla senza titubanza bastando la sola titubanza a rendergli infelici. Che se Alessandro Magno ringraziava gli Dei dell' averlo fatto nascere in un tempo, in cui viveva Aristotile, quanto non si sarebb' egli tenuto più fortunato, se gli fosse toccato un Dio per maestro? E tutti quelli che conobbero tra i gentili a che caro prezzo di fatiche e di studŒ si prevenga alla verità, tutti quelli che per arrivarvi logorarono la propria vita in lunghi viaggi, in veglie, in privazioni d' ogni maniera, e dopo di tutto non riuscirono che ad opinioni contrastate, a congetture più o meno probabili, e mai alla sicurezza di possederla, tutti questi dico, qual contento, qual giubilo non avrebber provato, se avessero potuto anche un solo istante abboccarsi con Dio medesimo, e dalla sua propria bocca intendere quelle risposte infallibili, e quegli indubitabili ammaestramenti che desideravano! Ed anzi ell' è comune, naturale all' umanità, non declinabile a nessun uomo, ardentissima, inquietissima la brama di pur sapere quali sieno gli esiti finali della virtù e del vizio, e che cosa sarà dell' uomo dopo questa breve vita se sopravviverà l' anima alla dissoluzione del corpo, se sopravvivendo si rimarrà sempre dal corpo divisa; e che farà, che patirà in una eterna esistenza, se sarà felice, o infelice: questioni tutte sulle quali gli uomini nè possono vivere incerti, nè da se stessi con positiva sentenza, e d' alcuna titubanza non indebolita, pronunciare, onde quelle qualunque opinioni, che i filosofi intorno ad esse immaginarono, si rimasero vaghe nella forma, congetturali nella sostanza, molteplici, contraddittorie, prive poi d' autorità, e di stabilità di consenso: e sopra tutto ciò in dominio de' poeti, che favoleggiandole, vie più incredibili le resero, onde i più potenti ingegni per aver pure qualche cosa di positivo e di meno indeterminato s' appigliavano, siccome il naufrago che s' apprende ad ogni fuscello ad ogni foglia che nuota nell' onde, a certe voci antiche, di cui per una popolare tradizione giungea fino ad essi il lontano rumore (1). Qual cosa dunque più conforme al bisogno instante e al voto di tutti gli uomini, che il rinvenire un maestro così eccellente che tutte queste cose sappia egli stesso per iscienza indubitabile, e possa narrare altrui con piena autorità d' esser creduto e facoltà di persuadere? E quale può essere un maestro così fatto, se non Dio stesso? O chi potrebbe avere a dispetto un maestro di tal condizione, o provare rincrescimento, ch' egli discendesse in sulla terra per ammaestrare gli uomini? Chi arrossirebbe di farsene discepolo, chi si chiuderebbe gli orecchi per non udirlo? Certo nessuno, se non fosse venuto a tanta dissennatezza da odiare la luce, e a tanto pervertimento da soffocare in se medesimo il più vivo, l' immortale istinto della natura umana. E` dunque desiderabile a tutti quelli che amano la verità, e cercano la sapienza, che Iddio stesso si renda maestro degli uomini; ed è anco probabile, che, essendo Iddio ottimo e conoscitore de' bisogni e di tutte le tendenze di questa natura umana che è opera sua, l' abbia voluto; nè solo è probabile che l' abbia voluto, ma questo è oggimai il fatto più di tutti i fatti luminosissimo, il quale è risonato in tutti i secoli, ed ha empito della sua virtù tutta la terra. V' ha dunque una scienza soprannaturale e divina, conforme al desiderio dell' umana creatura, e all' esigenza della ragion vacillante, che, dopo aver tentato di scoprire e d' indicare all' uomo la via della felicità, confessava di non rinvenirne alcuna che fosse sicura tra i non prevedibili e fatali avvenimenti della presente vita, d' una vita di cui ella non potea penetrare il mistero, simile ad una catena di sogni, che certamente si dovea rompere, e in breve e in un istante sconosciuto: al quale istante condotta la ragione si vedeva fermata davanti alla ferrea porta della morte senza poterla aprire, e dentro traguardare che v' avesse al di là, quali sedi, quali dimore aspettassero l' anime intellettive, che si sentivano pure immortali. Che se la sapienza fu definita, non a torto, « « la scienza della felicità »(1) » conviene per fermo conchiudere, che quella cognizione soprannaturale, che fu insegnata agli uomini dallo stesso Iddio, fattosi loro maestro, questa cognizione, dico, che sola aperse ai mortali il segreto della morte, e della nuova ed eterna vita, a cui la stessa morte è varco, si meriti ella sola il titolo di sapienza. E via più, che da un tanto maestro l' uomo non impara solamente a conoscere quali beni gli stieno preparati oltre al confine del tempo, ma a quali condizioni egli possa venirne in possessione, e ne apprende l' arte, e ne acquista gli stromenti. E così in questa scuola soprannaturale fu sciolto col fatto un altro altissimo problema, che, nell' ordine naturale, venia proposto e discusso dai più sagaci intelletti, cioè « se la virtù si potesse insegnare. » Del qual problema Platone in più luoghi diede una risoluzione negativa, affermando che la virtù non è cosa che insegnar si possa, come s' insegna la scienza , nè si possano trovare fra gli uomini i maestri di essa, e di conseguente neppure i discepoli, e finalmente che il solo Iddio ne poteva essere e il maestro ad un tempo, e il donatore (1). Nuova potentissima ragione riconosciuta dalla naturale filosofia, per la quale era non pur desiderabile, ma necessario un maestro divino. E a Dio veramente è dato di comunicare ad un tempo e la verità alla mente, e la virtù all' umana volontà. Sapendo ora dunque l' umanità di possedere questo maestro, la scuola del quale non si racchiude in alcun' aula magnifica, o in uno spazioso portico, o in qualche ameno bosco o villa, nè in alcuna città, ma risuona per tutti i luoghi dove risplende il sole, e dove l' aria fa anelare il petto dell' uomo, noi dobbiamo, volendo in qualche modo abbozzare l' immagine della sapienza, accennare più distintamente, che cosa s' insegni, che cosa s' impari in questa scuola, dove entrambi que' due elementi di cui dicevamo risultar la sapienza, si danno gratis a tutti quelli che li desiderano, e così compiuti, come a un Dio che insegna è possibile e condecente. Consideriamo la nuova scienza , a cui in appresso si continuerà spontaneo il discorso della nuova virtù . Noi abbiamo distinto la verità dalle diverse forme , nelle quali ella si presenta alla vista degli uomini. Queste cangiano nelle varie età, e nel vario svolgimento delle facoltà intellettive, di modo che la verità prende delle forme infantili, dell' altre proprie della puerizia, e così dell' adolescenza, della virilità, della vecchiaia, altre nel comune degli uomini, altre ne' soli scienziati. Ma prima di tutte queste forme v' ha la stessa verità, ed ella è quell' essere ideale nel quale tutte le entità sono conoscibili. La verità anteriore alle forme comunica immediatamente coll' uomo, e lo costituisce intelligente. Ora anche qui domanderemo qual è il maestro che insegna all' uomo la verità pura, anteriore alle forme e di tutte poi suscettiva? Qual è il maestro che gli dice questa prima parola, colla quale l' uomo interpreta, ed intende tutte le altre? Nessuno de' mortali insegna a questo modo la verità e se un tale ci fosse, da chi l' avrebbe egli apparata? E come potrebbe comunicarla? colle parole? Ma queste non sono che suoni, che diventano poi segni, non tanto per la virtù e per l' opera di chi le pronuncia, ma assai più per l' opera di chi le ascolta, e le interpreta a se medesimo, e che non potrebbe interpretare ed intendere, se non potesse trasportare la sua mente da' suoni esteriori alla verità significata, che non è ne' suoni, ma che egli si trova dentro nell' anima. Ogni magistero umano dunque suppone prima di sè un magistero divino, il magistero di colui che fu chiamato « « luce vera, che illumina ogni uomo veniente in questo mondo »(1). » Al qual magistero l' uomo crede per natura e non per raziocinio, di manierachè anche nell' ordine naturale, non solo nel soprannaturale, la fede precede la ragione , e s' avvera la sentenza « « se non avrete creduto, non intenderete » ». Ecco il maestro primo, ecco il solo, a cui veramente s' appartenga un tal nome, perchè il solo che comunica la verità, quando gli altri non fanno che ammonire ed eccitare coloro, a cui la verità è già comunicata, a pensarvi, a riflettervi, a considerarla sotto forme speciali. E però a tutta ragione questo maestro represse la boria de' sapienti della terra, dicendo a' suoi discepoli: « « Voi non vogliate chiamarvi maestri, perchè uno solo è il vostro Maestro, e voi tutti siete fratelli »(2). » Il qual precetto fu dato quando Iddio, mostrandosi in forma di maestro visibile, alla prima parola colla quale illuminava l' umana specie nel giorno che la creò col darle ad intuire la verità, aggiunse una seconda parola più sublime assai della prima, ma interna come la prima, verità come la prima, anteriore anch' essa alle forme, come la prima efficace, come la prima ed insieme colla prima luce non bisognevole d' altra luce per vedersi, visibile per se stessa. E a quel modo che la prima parola fu porta che intromise l' uomo nel mondo dell' intelligenza naturale , la seconda è porta che lo introduce in un altro mondo più ampio dell' intelligenza soprannaturale . E quanto si rispondano questi due lumi, e come il metodo col quale viene illuminato l' uomo nell' ordine delle cose soprannaturali proceda identico a quello col quale egli viene illuminato nell' ordine delle cose naturali, ond' apparisce la scuola esser la stessa, lo stesso il maestro, fu da noi prima accennato e sarebbe lungo a pienamente descrivere. Ma osserveremo solamente, che quando Iddio, creando l' uomo, lo ammaestra col lume della ragione, allora in pari tempo egli lo rende atto e ad apprendere da sè più cose che sotto molte forme gli danno a vedere la stessa verità, che senza forme già vede, e a ricevere altresì ammaestramento dalla voce degli altri uomini, e ad ammaestrare altri egli stesso, loro comunicando le cose e le forme da lui conosciute; di che seguita, che la scuola del maestro divino che il primo e il solo comunica la luce del vero, è quella che rende possibili tutte l' altre scuole, o che l' uomo coll' aiuto di quella luce investighi da sè la verità ed ammaestri se stesso, o che sia ammaestrato da altri. Il primo maestro dunque forma tutti gli altri maestri, come pure forma gli stessi discepoli; chè e quelli e questi esistono soltanto in virtù di quel primo tacito, ma potentissimo magistero. Ora il somigliante accade nell' ordine soprannaturale, dove il magistero divino che dà il lume all' anima rende questa idonea ad investigare, apprendere ed insegnare le cose che a quell' ordine appartengono, e così rende possibile anche in quest' ordine un magistero esterno ed umano. E a quegli uomini appunto che furono incaricati d' esercitare quest' umano magistero nell' ordine superiore a quello della natura, a quegli uomini che furono istituiti da Dio stesso maestri delle cose più eccellenti, a tutte le nazioni, e a tutti i secoli, fu detto: « Voi non vogliate chiamarvi maestri, perchè uno solo è il vostro maestro, e voi tutti siete fratelli. »Quest' ammonizione non poteva uscire dalla bocca d' alcuno, che non fosse Dio, e a quelli a cui era data, essa rammentava di continuo, onde derivasse la chiarezza e la potenza della loro parola, che sarebbe pur sempre echeggiata, e sempre intesa di generazione in generazione sino alla dissoluzione del globo: il tuono della quale al di sopra d' ogni vociolina, o ronzio terreno, già per lo spazio di diciannove secoli senz' alcuna interruzione, si propaga. Chè la rivelazione esterna e la predicazione nè sarebbe a sufficienza intesa, nè assentita dagli uomini, nè resa operativa dalla cooperazione della volontà umana, se non fosse a ciascuno di essi interpretata, illustrata ed avvalorata dalla luce interiore del carattere e della grazia . Laonde un dottore che colla mente penetrò più addentro di moltissimi in questo vero, venutegli a mano quelle parole in cui Cristo si chiama « principio che anche parla a voi », così ne scrisse: [...OMISSIS...] Laonde questo stesso uomo sapientissimo dalla cattedra dove sedeva maestro di altissimi veri co' suoi uditori usava un linguaggio nuovo e per umiltà inaudito nelle scuole dei filosofi, dicendo a tutto il suo popolo, ai dotti, e agl' indotti ugualmente: « « Egli è più sicuro, che e noi che parliamo, e voi che ascoltate riconosciamo di essere condiscepoli sotto un solo maestro. Al tutto ella è questa cosa più sicura e giovevole, che voi ascoltiate noi non come maestri, ma come condiscepoli »(2). » Di due parti dunque si compone l' insegnamento soprannaturale del lume interiore e della rivelazione esteriore che la predicazione e il magistero ecclesiastico perpetua nel mondo. E il divino Maestro entrambi le accennò quelle parti, quando interrogato chi fosse, rispose: «PRINCIPIUM, QUI » (ovvero propterea ) «ET LOQUOR VOBIS (1). » Dicendo principium egli espresse il lume interno, che è appunto il principio di ogni verità e cognizione, non potendo la voce corporea esser principio, o comunicare altrui il principio dell' intelligenza, come quella che ha bisogno per essere intesa di trovar già nell' uomo quel primo lume che è chiave ad aprire ed interpretare il significato d' ogni segno sensibile: dicendo poi, qui et loquor vobis , espresse quell' esteriore e sonoro ammaestramento, che all' interno risponde lo svolge, e che egli medesimo, Iddio fatto uomo, volle pure esercitare infra gli uomini, e commettere poi a' suoi Apostoli di tramandare le cose udite da lui, ed intese per lui, agli altri, a cui egli avrebbe continuato il lume, col quale avessero potuto intenderle. Laonde nella parola « principio »è indicata chiaramente la natura divina e il divino magistero: in quel che segue « e perciò parlo a voi », è indicata la natura umana e il magistero umano che dal primo dipende: l' una e l' altra natura nella identica divina persona, l' uno e l' altro magistero dalla stessa persona esercitato, e il secondo veniente come conseguenza dal primo: « « e perciò anche vi parlo; «oti kai lalo umin» (2) »: quasi dicesse: « Io ho la facoltà e il diritto di parlarvi, perchè sono il principio, che v' illumina: non vi potrei parlare esternamente queste cose, se io non fossi quello che ve le fa intendere internamente. » La Filosofia che è l' opera della riflessione , corre il pericolo d' impiccolirsi, come abbiam già osservato, restringendosi dentro la sfera del pensiero riflesso, e negando tutto ciò che è, e vive fuori di esso. Quindi a molti di quelli che la professano, chiusi nell' angustia di quel pensiero speciale col quale filosofeggiano, che essi scambiano col pensiero generale , riesce difficilissimo a riconoscere, che avanti alla stessa riflessione esiste un lume che tocca immediatamente l' anima, un lume comune a tutti gli uomini, non bisognevole di filosofia per risplendere, quando la filosofia ha pur bisogno di lui, siccome la lampada del fuoco, al quale s' accende. Una filosofia, così rannicchiata in se medesima, non può intendere quel magistero soprannaturale di cui parliamo, chè non intende nè manco qual sia la natura del magistero naturale della verità. Ma la scuola germanica impossessatasi, come abbiam detto, di questa cotale ignoranza filosofica, vi fabbricò sopra con tutta la forza e la profondità possibile all' ingegno che lavora sul falso, un compiuto sistema. I discepoli di Hegel intimarono esplicitamente la guerra più accanita a tutto ciò che essi denominarono l' immediato , intendendo sotto questo vocabolo qualche cosa di divino che elevi la mente dell' uomo più su della coscienza scientifica e determinata. Negarono Dio stesso per questa curiosa ragione che « l' idea di Dio non si riflette su di se stessa »; quasichè l' idea di Dio porgesse alla mente un Dio inconsapevole: tanto era loro divenuto invisibile tutto quello che rimanea fuori della riflessione, o che esiste senza di essa! Dicevamo dunque, che l' ordine in cui procede la cognizione delle cose soprannaturali è analogo, e, per così dire, dello stesso stile, all' ordine in cui procede la cognizione delle cose naturali. Nella notizia delle cose naturali c' è un primo lume interiore, e un primo lume interiore c' è pure nella notizia delle cose soprannaturali; quel primo lume è la verità che veste poi varie forme, le quali costituiscono tutte le cognizioni che non eccedono la natura, scientifiche o no, comprese le ultime speculazioni della Filosofia; quest' altro primo lume è ancora la verità che veste varie forme, le quali costituiscono tutte le cognizioni soprannaturali, comprese le più alte contemplazioni della Teologia: quel primo lume è il criterio della naturale certezza, lui si consulta dall' uomo in ogni dubitazione (1); quest' altro primo lume è il criterio prossimo della certezza soprannaturale, lui pure s' interroga da chi vuol conoscere d' una dottrina annunziata in nome di Dio, il vero ed il falso (1); quel primo lume si svolge e per le proprie meditazioni e per la parola altrui; quell' altro primo lume del pari si svolge e si moltiplica o col meditare che l' uomo faccia da sè, o ascoltando l' altrui parola: onde lo spirito di Dio come ancora la sua legge è detta molteplice (2). Nell' uno e nell' altro ordine dunque si riconosce lo stesso disegno, la stessa mano, lo stesso autore, lo stesso maestro, e questo divino. Ma ora in che sta poi la differenza fra le due verità primitive, fra i due ordini di cognizioni? Il primo lume che rende l' anima intelligente è l' essere ideale e indeterminato: l' altro primo lume è ancora l' essere , ma non puramente ideale, ma ben anco sussistente e vivente. L' essere sussistente è Iddio: egli stesso disse « « Io sono l' ESSERE »(3) » Avendo usato il pronome personale IO, egli si manifestò come persona , l' essere come oggetto è il Verbo, e quest' essere oggetto è persona, di cui pure è scritto: « « In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e Dio era il Verbo »(4). » E` quello stesso che altrove chiamò se stesso principio (5): principio d' ogni intelligenza, e d' ogni cognizione: perchè il principio della cognizione è l' oggetto primo, e il primo ed essenziale oggetto che contiene tutti gli oggetti è l' essere: gli altri oggetti del pensiero sono oggetti per l' essere, l' essere è oggetto per se stesso. L' idea dunque è l' essere intuito dall' uomo; ma non è il VERBO; chè non quella, ma questo è sussistenza; quella è l' essere che occulta la sua personalità , e lascia solo trasparire la sua oggettività indeterminata ed impersonale: nella mente, che intuisce l' idea non cade la personalità dell' essere, nè la sussistenza, e perciò ella non vede Iddio: ma chi vede il Verbo, ancorchè per ispecchio e in enimma, vede Iddio. Laonde se la naturale scienza termina, in qualche modo, in quella che Boezio chiama: « sola rerum PRIMAEVA RATIO; » la scienza soprannaturale giunge a quella che è ad un tempo stesso « nullius indigens VIVAX MENS (1). » L' uomo è un soggetto reale : quindi non può fermarsi all' idea, egli aspira a congiungersi col reale. Il reale dato all' uomo nella natura è finito, e l' idea conduce l' uomo a conoscere e ad amare questo reale finito, ma nello stesso tempo glielo mostra finito, ed essendo infinita l' idea gli mostra la possibilità, la necessità d' un altro reale infinito, che non è dato all' uomo. L' uomo a ciò che conosce, estende anche il suo desiderio: questo dunque va all' infinito, a quell' infinito che l' idea gl' indica dover essere, senza il quale nè la potenza dell' idea sarebbe esaurita, nè il conoscimento possibile all' uomo compito, nè il suo desiderio di conoscere, di congiungersi e di godere appagato. Ora questo infinito reale è dato inizialmente all' uomo nel lume soprannaturale, che Iddio gratuitamente gli aggiunge: la percezione di questo lume sostanziale e sussistente è la percezione del divino Verbo; quivi il desiderio riposa, quivi l' uomo, in un cotal modo, anche nella vita presente, si sazia. Il maestro dunque, di cui noi teniamo discorso, ha, fra le altre, questa singolarità che lo distingue da tutti gli altri maestri, che mentre a questi nel trasmettere che fanno a' loro discepoli le varie scienze e discipline ch' essi professano d' insegnare, non cade mai nella mente d' insegnar loro se stessi: e s' alcun d' essi, foss' anco un professore di qualche Università del Settentrione, invasato dal Demonio della vanità, prendesse seriamente ad annunziare dalla cattedra la materia del suo insegnamento in questo modo: « O giovani, io in quest' anno vi darò lezioni sopra me stesso, la scienza che v' insegnerò sarà la scienza della mia propria persona. »Probabilmente quegli uditori, benchè così generosi, così entusiasti de' loro professori, vinti questa volta non dall' ammirazione, ma dalla compassione, andrebbero mestamente ad avvisare il Rettor Magnifico della disgrazia accaduta a quel gran cervello. All' incontro il maestro unico, di cui noi parlavamo, non destò nè compassione, nè riso, dicendo espressamente agli uomini, che la scienza che insegnava, era quella che faceva loro conoscere lui stesso. Invano qualche professore tedesco mostrò dell' invidia di questo parlare divino (1). Gli uomini riconoscono, che quel maestro che loro così s' annunzia è anche il proprio e il massimo oggetto della cognizione e della scienza, un oggetto che nel momento che si comunica, è noto, come quello che per essenza è intelligibile. Quel maestro non ha che a dire: eccomi, vedetemi: e l' uomo è istruito: questa è la vera arte notoria. Chè essendo il maestro di cui parliamo, Iddio, e in Dio contenendosi tutte le cose, anche quelle che non sono Dio, ma create da Dio, poichè anche queste hanno una maniera d' essere in colui che « « porta tutte le cose colla parola della sua virtù »(2), » e tutte le cose essendo in Dio intelligibili, perchè Iddio è intelligibile per essenza, e, in quant' è così intelligibile, si chiama il Verbo; consegue che chi conosce Iddio, il Verbo di Dio, conosce il tutto, perchè il tutto in esso si trova. E niun altro può ascendere ad una scienza compiuta delle cose, se non ascende a colui, nel quale tutte s' accolgono, s' impernano, si collegano, si unificano: nè v' ebbe mai filosofo d' alta mente che non intendesse a sintesizzare le sue cognizioni, riferendo le cose conosciute all' Essere divino, o che credesse di dover aspettar altronde il compimento dello scibile umano, o questo riputasse ultimato e assoluto, finchè, speculando, non fosse siccome rigagnolo ricondotto nel mare dell' essere e della sapienza, ond' era quasi direi evaporato, e poscia condensato in acqua di scienza. L' idea è una forma v“ta, come dicevamo, non contiene l' essere completo , ma una cotal sua delineazione: indica all' uomo, soltanto l' enimma dell' essere completo, non glielo porge perchè non l' ha in se stessa: il Verbo all' opposto, che è il lume soprannaturale, è l' essere completo: ha il compimento di quell' essere, di cui nell' idea vedesi un languido abozzo. Il senso, cioè la facoltà di sentire le cose corporee ed altre incorporee, come l' anima, ma finite, nell' ordine naturale, viene in soccorso dell' intelletto, ossia della facoltà d' intuire l' idea. Ma quanto è povero questo soccorso! Come dice il poeta: [...OMISSIS...] E di vero non v' ha alcun organo o altra facoltà sensoria nella natura dell' uomo che senta Iddio, e perciò rispetto alle cose divine, che sole possono adempire l' idea, questa si riman vota ed impotente. Acciocchè l' opera della creazione acquistasse tutta la sua possibile perfezione, era uopo che nell' essere umano, fornito d' intelligenza per mezzo dell' idea, fosse aggiunto graziosamente un sentimento, il quale s' estendesse altrettanto, quanto l' idea; e come questa si stende al finito ugualmente e all' infinito, ella non poteva essere pienamente soccorsa, e quasi direi, contrabilanciata, se non da un sentimento di pari ampiezza. Ma non poteva Iddio esser contato fra gli enti della natura, di cui egli è il Creatore, e perciò egli rimane sempre distinto da essa, che ha per condizione il limite per la sua qualità di creata. Non potea dunque la natura dell' uomo avere un sentimento di Dio: ma neppure potea rimanere imperfetta l' opera di Dio. Quello dunque che non è racchiuso nella natura, nè alla natura è dovuto, Iddio l' aggiunse all' opera sua mosso unicamente dalla sua propria liberalità e infinita santità. La rivelazione fa conoscere, che Iddio costituì i primi padri del genere umano in istato soprannaturale di grazia. Se non si sapesse che questa rivelazione è vera, quanta sapienza si dovrebbe pure scorgere in essa! quant' armonia e convenienza colle divine perfezioni! Chi avrebbe potuto inventare, una notizia così profondamente ragionevole, così filosofica, che pur fu data agli uomini prima che filosofassero, prima che la scienza fosse trovata! Or poi ancora in questo tardo secolo, che si dice civile e filosofico, v' hanno di quelli, che non sono ancora arrivati ad intendere come sia stato conveniente, e conformissimo ai divini attributi, che il Creatore aggiungesse al natural lume, un altro lume soprannaturale, di quelli che ancora non comprendono come il primo non basti a tutti, perchè non vedono il rapporto tra l' idea e il naturale sentimento, e la sproporzione e insufficienza di questo a quella. E se nè pure adesso, colla natural sapienza, gli uomini giungono a tanto, chi mai in secoli meno colti avrebbe potuto inventare quella rivelazione? Troppo più ci voleva che l' umano ingegno. Ma chi o vede da sè, o gli è fatta vedere quella sproporzione che dicevamo, ben intende, siccome l' uomo, quest' opera sublime dell' essere perfettissimo, se Iddio l' avesse lasciato privo d' un senso soprannaturale, sarebbe riuscito, quasi direi, simile ad un figliuolo nato con una gamba assai lunga, e l' altra corta. La natura umana non aveva di più, non c' era di più nell' essenza di questa natura. Ma questo, che bastava alla natura umana, non bastava a colui, di cui è scritto: « « Tu facesti tutte le cose nella sapienza »(1). » E` dunque la natura dell' uomo quella che, non sapendolo e non pensandoci l' umano individuo, quasi direi, chiede per grazia il soprannaturale, come l' indigente dimanda colla sua sola indigenza: è la ragione, che, avendo un lume, questo le vale a conoscere la mancanza di qualche altro lume che le completi quel primo (benchè non sappia dire a se stessa che cosa quest' altro lume sarà), è il cuore umano che esige di possedere tanto di realità, quanta ne concepisce, e, avendo l' idea, ne concepisce un' infinità confusa, e si slancia nel v“to, con isforzo d' infrangere i termini della natura che gli sembrano angusti. Colui che così fece la natura umana, ne conoscea il voto misterioso, e inesplicabile a lei stessa, già fin da quando l' ebbe formata, e le spiegò egli stesso quel voto, e vi soddisfece: nè permise che l' avversario di questa natura che volea distruggerla, lusingandone l' amor proprio col persuaderla, che potea divenire simile a Dio da se stessa, rendesse inutile l' opera del Creatore. Permise sì che cadesse; ma caduta per la disubbidienza, spogliatasi colle sue mani de' soprannaturali ornamenti, resa di questi incapace ed indegna, vulnerata in tutte le sue potenze, egli la ristorò, e la ripose in una condizione assai più magnifica, e più sublime di prima. E questa fu l' opera non del primo lume della ragion naturale, non dell' idea, ma dell' altro primo lume della ragione soprannaturale, fu l' opera del VERBO di Dio. Quel maestro, che Platone desiderava venisse sopra la terra, per isvelare agli uomini le cose più necessarie e per arrecarne loro la certezza; quel maestro, Iddio, che è ad un tempo lume, oggetto unico ed essenziale dello scibile, persona, Verbo divino, si fece carne ed apparve in mezzo degli uomini, vero uomo anch' egli senza cessare d' esser vero Dio: GESU` Cristo ebbe nome, Salvatore, Unto di Dio. Egli insegnò a conoscere il Padre, avendo detto a chi prestava a lui fede: « « Niuno mai vide Iddio, l' Unigenito che è nel seno del Padre, egli l' enarrò »(1). » E ancora ad uno de' suoi discepoli: « « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre »(2). » Ancora, mandò lo Spirito della verità, secondo quello che avea promesso: « « E quando sarà venuto quello Spirito della verità, egli v' insegnerà ogni verità, poichè non parlerà da se stesso, ma parlerà tutte quelle cose che udirà e vi annunzierà le cose avvenire. Egli mi chiarificherà, perocchè riceverà del mio, e lo annunzierà a voi »(3). » Così l' Iddio Uno e Trino fu disvelato agli uomini: il Maestro svelò se stesso, e compì lo scibile nell' umanità. La natura e la scienza aveano incamminato l' uomo all' essere infinito per una triplice via, ma così lunga, che per viaggiare che egli facesse non potea fornirla: si trovò improvvisamente trasportato a quel punto infinitamente distante, a cui implicitamente voleva andare: si trovò in quell' essere infinito che cercava: si trovò quivi per miracolo, non in virtù d' alcun suo ragionamento, ma in virtù della fede. Ei credette quell' Essere [...OMISSIS...] Credette lui ed in lui, ed a lui: e tutto ciò, senz' ancora avvertire qual relazione s' avesse il punto elevato in cui egli già era, colla triplice via per la quale s' era messo col suo ragionamento; ma di poi, lo stesso ragionamento si ripiegò sulla fede, e riconobbe che quel termine, che andava cercando, a cui le tre vie dell' intelligenza convergevano, quel punto unico per infinita distanza inarrivabile, era quello appunto in cui la fede, quasi di sbalzo, l' avea collocato. Per verità l' essere si fa presente all' uomo in una triplice forma, come reale , come idea , come virtù . Ciascuna di queste forme siccome in suo ultimo termine d' attuazione, si riduce nell' infinito essere. L' uomo quasi in un cotal sogno divino, cerca la realità infinita , che non trova in natura; ma ben intende, che se una realità fosse veramente infinita, con tutte le sue condizioni, ella dovrebbe essere lo stesso essere infinito; cerca uno scibile infinito , che nell' idea non ha se non in potenza, ma ancora intende del pari, che se un oggetto per se intelligibile fosse veramente ed attualmente infinito, con tutte le sue condizioni, di nuovo, non potrebbe esser altro che l' essere infinito; cerca finalmente quell' infinito amore , che in lui non è che una capacità d' amare delusa sempre, sempre tradita dalle lusinghe e dall' infedeltà di tutte le cose naturali; ma finalmente, a mente sana, vede quello non esser possibile, se non v' abbia un reale infinito, infinitamente conosciuto, che ne sia l' oggetto amabilissimo, ed intende, che un tale termine dell' amore qualora ci fosse, non potrebbe essere ancora che l' essere stesso infinito, che tutto l' essere, tutto il bene. Ciascuna delle tre forme conduce il pensiero allo stesso termine, all' identico essere infinito. E queste tre vie erano indicate dalle tre summentovate parti della filosofia. Platone sembra aver veduto, che ciascuna di esse dovea terminare in Dio, nel quale riconosceva la « « causa del sussistere delle cose, la ragion dell' intendere, l' ordine del vivere »(1). » Ma chi gliene dava l' accerto? O chi prestava fede alla parola vacillante d' un uomo, che confessava d' aspettar un maestro divino, il quale gli rivelasse di tai cose la verità? E chi, anche credendo o intendendo l' alto concetto di Platone, poteva appagarsi d' un bene di cui gli si rendeva ad un tempo e nota l' esistenza e sentita la privazione? Poichè quello non era più che un modo negativo e indicativo di conoscere Iddio, non un conoscerlo colla percezione, col sentimento, colla fruizione. E poi, sciolto un nodo, un altro ancora più difficile ne usciva: « Se quelle tre cose sono tanto differenti, come si riducono ad una? e se si riducono ad una, come appaiono tanto differenti? »La dottrina dunque della TRINITA`, la dottrina cioè dell' essere uno e trino profondamente, interamente scioglie quel problema dallo spirito umano sempre proposto come un enimma a se stesso, vinto non mai: comunica all' uomo la dottrina dell' essere in tutte le sue forme. La dottrina dunque dell' augustissimo de' misteri discende dal cielo come una cupola d' oro che si colloca in sull' edificio dello scibile naturale, il quale senz' essa resterebbesi discoperto e patente alle piogge ed ai venti, e l' uomo, anche il filosofo, sarebbe condannato a vivere mal pago di sè, siccome colui che cerca continuo quello che non trova giammai. Ecco il soprannaturale della scienza necessario altrettanto che il soprannaturale della vita . Come l' umana vita non è perpetua e felice, ma divien tale in virtù d' un dono soprannaturale, così la scienza umana non è finita ed assoluta, ma divien tale in grazia anch' essa d' un' illustrazione, d' una credenza soprannaturale. Abbiamo detto, che la sapienza ha per sua base una cognizione della verità. Dunque una cognizione nuova della verità porge la base ad una nuova sapienza, una cognizione maggiore ad una sapienza maggiore. La cognizione naturale, qualunque sia la sua forma, rimane imperfetta, unita colla soprannaturale riceve perfezione. Dunque la sapienza umana non può che riuscire imperfetta, un abozzo, una ricerca di sapienza come gli stessi filosofi confessarono (tra i quali il fondatore della scuola italica rifiutò quasi arrogantissimo il nome di sapiente, chiamandosi studioso della sapienza (1)): solo colla cognizione soprannaturale è stato posto il fondamento d' una sapienza nuova, perfetta, che non cerca la verità, ma la possiede e la gode. Veniamo al secondo e formale elemento della sapienza; il quale risiede nella volontà, quando questa, con tutte le sue forze, si volge, assente, aderisce, si conforma, e conforma tutte le potenze, su cui ha impero, alla verità conosciuta, nel che sta il concetto della virtù. Allora l' uomo è virtuoso e bene ordinato, quando distribuisce il suo volontario affetto e l' attività che ne deriva secondo l' ordine oggettivo degli enti, o, come dice S. Agostino: « Haec est perfecta iustitia quae potius potiora, minus minora diligimus (2). » Ora coll' ordine oggettivo , che è la verità, viene talora in contrasto l' ordine soggettivo e limitato della natura umana: in questa collisione l' uomo non può conservarsi giusto senza sacrificio: deve sacrificare ciò che è, o che pare il suo proprio bene all' ordine assoluto, buono e venerando in se medesimo, senza alcuna relazione precisamente soggettiva. Ma se noi esploriamo l' uomo racchiuso dentro i confini della natura, vediamo che l' ordine oggettivo nella sua integrità gli è presente nell' idea; ma non gli è dato nella realità. Chè della realità l' uomo della natura, non percepisce, come dicemmo di sopra, che una parte, la realità finita del Mondo (e neppur tutta, nè pur la maggior parte di questo), laddove nell' idea egli intuisce tutto l' essere ideale. Questo squilibrio fra l' ideale e il reale che rende incompleta la scienza, è quello altresì, che rende impossibile all' uomo la perfetta virtù. Poichè se d' una parte l' idea gli mostra l' ordine intero, universale, assoluto, come una necessità morale, onde non può dissentire senza rendersi ingiusto e colpevole, dall' altra non gli dà la forza operativa, colla quale effettivamente compirlo. Donde mai viene all' uomo la forza? Questa appartiene all' ordine delle cose reali, non a quello delle ideali: alla realità appartiene il fare, all' idealità solamente il mostrare come si convenga fare. Dunque è uopo, che l' uomo trovi la forza in se stesso, o nelle realità esteriori; in una parola in quella sfera di cose reali, che a lui è conceduta. Ma questa sfera di realità è limitatissima, da essa trovasi esclusa la realità infinita, e la maggior parte delle realità finite. La forza dunque, che può attignere l' uomo dalle entità reali a lui concedute per natura, non è proporzionata alla grandezza dell' ordine ideale, che gli sta davanti come legge inesorabile. Che anzi le cose finite percepite dall' uomo, cospirano talora, come dicevamo, contro quella legge, e invece d' aiutarlo a compirla, il tentano a violarla; appunto perchè l' ordine finito che esse presentano, riesce diverso, e perciò assai spesso contrario all' ordine infinito dell' idea. Per sopperire in qualche modo a questa deplorabile mancanza di forze reali, che rendono l' uomo deficiente a realizzare il grand' ordine morale, a cui esser chiamato forma l' alta sua dignità, che cosa fecero i filosofi più eccellenti? Perocchè non parlo di quelli, i quali disperati di poter mettere un accordo fra l' ordine reale e l' ideale, nè volendo, nè potendo rinunziare al primo, cancellarono il secondo, e decretarono che l' uomo si dovesse contentare d' esser materia o senso, e così contro la sua natura s' abbandonasse tranquillamente al piacere dell' oggi, stimolandovi se stesso col pensiero della morte dell' indomani. Non ragionando dunque di questi, domandavamo, come i filosofi più eccellenti s' ingegnassero d' aiutar l' uomo a trovar quelle forze, che a lui negava la natura reale, e che pur gli bisognavano per adempire alla legge dell' ordine ideale. Veramente questi savŒ amatori del bene fecero tutto ciò che potevano fare: accorti che l' uomo domandava in vano la forza morale, di cui abbisognava, a quella porzione d' essere reale, che gli era conceduta, e che questa in vece di somministrargli forze pel bene entrava spesso in contrasto coll' ordine oggettivo, ed accresceva le forze del limitato e cieco istinto soggettivo; s' industriarono d' allontanar l' uomo dalle stesse cose reali e di concentrarlo nell' idea: e questa essi celebrarono come cosa d' infinita bellezza, ed esortarono con tutta la loro eloquenza gli uomini a restringersi nella contemplazione di sì divino lume, e a contentarsi della maravigliosa sua vista, e chiamarsene felici. Acciocchè poi l' uomo non s' impaurisse dell' alto precetto, e non gli paresse, che in vece d' accrescergli le forze per adempire al dovere gli s' imponesse un dovere ancor maggiore; que' filosofi magnificarono le forze dell' umano arbitrio (di cui, con poca coerenza a dir vero, aveano prima temuta la debolezza, e promesso di rinfrancarla) asserendo, che niuna delle altre cose era in potere dell' uomo, ma quella virtù che essi gli prescrivevano, sì: Gli esseri, e i beni reali dunque, onde solo può venire la forza efficacemente pratica al soggetto umano, furono da' migliori filosofi giudicati insufficienti a dare all' uomo quel vigore morale che gli bisognava, anzi reputati causa della morale sua debolezza e degli ostacoli alla virtù; e non restò loro altro scampo, che di chiedere a quella stessa idea, che imponeva il dovere, anche la forza d' adempirlo. Socrate nel «Fedone » di Platone si dilunga a provare la necessità, che ha l' uomo che ama e cerca la sapienza, di ritirarsi del tutto dal reale sensibile , e ricoverarsi nelle idee , come in porto di salvezza, cioè di dividersi coll' astrazione filosofica dal corpo e dalle cose corporee, aspettando il felice momento d' esserne al tutto diviso colla morte. [...OMISSIS...] Tanto era il timore, che le menti più grandi, prive della luce cristiana, prendevano della sinistra influenza che esercitava sull' uomo quella porzione di ente reale, che alla sua percezione è conceduta dalla natura; chè non solo da essa non aspettavano aiuto alcuno all' esercizio della virtù ed all' acquisto della sapienza; ma fino che una tale porzione di ente reale non fosse sottratta all' uomo interamente colla morte, trovavano impossibile per lui l' acquistare quella sapienza che pur tanto desiderava; e quest' era la sapienza naturale , chè altra non ne conoscevano. Laonde lasciavano all' uomo in questa vita la sola speranza d' avvicinarvisi, e questa speranza, a qual condizione? A quella di rinunziare alla realità, quasi avvelenata, di comunicare il meno possibile, e soltanto per estrema necessità, con essa, cercando nelle sole idee un rifugio, un' abitazione segreta, dove vivere occulto, alienato e quasi già morto. E pure quest' era lo sforzo più ammirabile della ragione umana! Essa non poteva salire più in su nè poteva dir cosa nè più vera, nè più ardua; era l' unica soluzione possibile del gran problema. Certo le idee sono cose divine, il solo elemento divino che si rinvenga nella natura, quand' anco si percorra, cercando palmo a palmo, tutto l' universo: e le cose divine non si lasciano posporre a nulla, anzi nulla è ad esse comparabile, tutto vale per esse, tutto diventa spregevole ciò che è contrario ad esse. Questo legge l' intendimento nelle idee, ammira in esse l' autorità, ne contempla l' incomparabil bellezza. E che non hanno osato, che non hanno sofferto alcuni amatori delle idee? Lo abbiamo di sopra avvertito. Archimede non sente l' entrata de' Romani in Siracusa e dà l' esempio di quella forza della mente, che si toglie momentaneamente a tutte le cose presenti ai sensi: i viaggi e la povertà d' Anacarsi; le veglie e le fatiche di Aristotile (1); la dimenticanza del cibo di Carneade (2); le privazioni, le sofferenze di tant' altri, se provano che l' amore al sapere può acquistare al pari d' ogni altra passione una forza presso che infinita nell' uomo, non provano tuttavia che l' uomo abbia mai trovato una piena soddisfazione nè nell' altre ignobili, nè in questa passione del sapere nobilissima. Non può l' uomo mantenersi del continuo attuato nella contemplazione della mente: anzi quanto breve non è il tempo in cui egli valga a sostenersi così assorto? Quanto pochi poi sono coloro che vogliono o possono, postergate le cose sensibili, vivere innamorati unicamente delle idee impalpabili, e quasi in esse sospesi; od abbiano l' agio di cercare e di coltivare questo faticoso diletto della mente? Ed anche questi pochissimi, che con lodevole sforzo s' innalzano alla regione delle idee pure, e vi si mantengono qualche istante per ricader poscia nella regione naturale e ordinaria della realità (3), consegue forse, che, perchè contemplano le idee, secondo quelle regolino e dispongano tutte le azioni reali di cui ordiscono la loro vita? La realità sensibile finita gli aspetta per dar loro battaglia: ella li lascia viaggiare liberamente al mondo ideale, sicura che non gli scappano per questo, e che, dopo una breve lontananza, fanno ad essa ritorno. Come un pescatore che ha preso all' amo un enorme pesce, gli allenta ed allunga il filo, sì che esso può alquanto allargarsi dentro le acque; ma poi più sicuramente sel tira a sè quando è sfinito dalla ferita e dalla fuga; così accade troppo sovente che adoperi coll' uomo la lusinga della sensibile realità; coll' uomo, dico, il quale già fino dal suo nascimento porta seco il seme e il fomite della concupiscenza. Pare a costui di salvarsi dalla seduzione del mondo quando gli riesce di sollevare da esso la propria mente colle più pure astrazioni, e ne vaneggia e ne insuperbisce: ma gli altri uomini intanto ricevono da lui medesimo autorevoli esempi di molte azioni viziose e riprovevoli, e dalle verità, da lui speculate, pare loro che egli non abbia riportato se non quell' orgoglio che lo fa peccare più arditamente. Aveva dunque ragione Platone di confessare che nella presente vita si concepisce bensì una naturale sapienza, ma non si consegue appieno giammai; onde voleva che gli uomini migliori l' aspettassero dopo la morte. E gli stoici stessi, che cotanto esagerarono le forze del libero arbitrio, dubitarono poi o negarono al tutto, che fra gli uomini in alcun luogo, o in alcun tempo, si rinvenisse quel sapiente, che essi concepivano, e magnificamente descrivevano (1). La naturale filosofia rimane dunque convinta e confessa della sua impotenza a rendere l' uomo sapiente, anche di quella sola sapienza, che nel lume della natura si scorge ideata. Iddio maestro degli uomini fece l' una e l' altra cosa ad un tempo, cioè ampliò senza fine il concetto della sapienza, e diede agli uomini il vigore di attuarlo in se medesimi. Onde a buona ragione un Padre della Chiesa osserva, che quelli che furono aiutati dalla fede, poterono fare coll' opera assai più, che non potessero concepire e desiderare i filosofi, o insegnare colle parole (2). E questo, Iddio lo fece col produrre quell' equilibrio che manca nella natura dell' uomo, fra l' idea, e la realità. Perocchè abbiamo detto, che l' idea spazia all' infinito, dando a vedere l' essere universale, e così ancora indicando qual sia l' ordine compiuto dell' essere, al quale deve congiungersi la volontà potenza, che di natura sua segue quella dell' intelletto; e che all' incontro la realità naturale non porge all' uomo che una cotal briciola dell' essere stesso, dove non si trova più l' ordine compiuto ed assoluto, mostrato dall' idea, ma un ordine angusto, quale può racchiudersi in una così piccola parte dell' essere; abbiamo detto ancora che, essendo l' uomo un ente reale, non può esser mosso ad operare che da un reale, quindi non dall' idea, ma o dalla propria sua intima attività e da' suoi proprŒ istinti, o dall' eccitamento del reale esteriore; e che colla forza che ha in sè dell' arbitrio, può, fino a certo termine, attuare la sua mente nell' idea e invaghirsene, ma per breve tempo può stare così attuato, lasciando inerti l' altre potenze, e per uno sforzo difficile, quasi contro natura e di pochissimi; onde tantosto l' altre potenze inferiori rientrano in azione, e vi rientrano spesso irritate dallo stesso ozio in cui giacquero e quasi vogliose di ricattarsene, e allora il reale sensibile pare divenuto più acre stimolatore al disordine che prima non fosse. Se dunque potesse avvenire, che come l' uomo intuisce tutto l' essere ideale in un modo implicito e semplice, il quale in appresso si può esplicare indefinitamente, così pure gli fosse dato a percepire immediatamente tutto l' essere reale in un modo del pari implicito e semplice, atto poi ad esser pure esplicato e svolto all' indefinito, chiaro è che quella grande, immensa esigenza dell' idea, che impone il dovere morale, troverebbe nell' uomo un suo corrispondente, cioè troverebbe un fonte di potenza ugualmente grande ed immensa, idonea ad eseguire l' imposto dovere. Perocchè se ciò avesse luogo, tutte le realità finite si conoscerebbero, o potrebbero conoscersi e considerarsi come parti, ed anzi minime ed evanescenti particelle di tutto l' essere reale, nel quale, come gocce nel mare, si perdono, e allora nel reale dall' uomo posseduto vi avrebbe quell' identico ordine, che nell' idea; e quest' ordine reale darebbe all' uomo eccitamento e valore sufficiente a compiere quell' ideale coll' efficacia della volontà: fra i due ordini, l' ideale e il reale, non sarebbe più alcuna discrepanza, alcuno invincibile contrasto, ma l' uno chiamerebbe l' altro, l' uno coll' altro, quasi direi, si combacierebbe; e la volontà non più divisa infra due che la si contendono, potrebbe darsi tutta con un solo atto ad entrambi, i quali s' unificano nell' identità dell' essere , e quindi la giustizia perfetta, e la sapienza nella pace. Ora il Vangelo è stato pubblicato per far sapere agli uomini, che questa che noi indichiamo, non è una supposizione, non è quello che sarebbe stato solamente desiderabile che Dio facesse, nè tampoco quello, che, essendo conformissimo a' divini attributi, è presumibile che Dio abbia fatto; ma per far loro sapere, che è quello, che Iddio Creatore ed ottimo provvisore del genere umano ha positivamente fatto, e quello che il Vangelo fa in tutti coloro che liberamente lo ricevono: « « E diede loro la potestà di divenire figliuoli di Dio »(1). » Perocchè il Verbo « « è il carattere della sostanza del Padre »(2); » vale a dire è quello pel quale Iddio si rende percettibile, tale essendo la forza della parola greca carattere . Insegnò dunque il Cristianesimo, che il Verbo carattere o faccia di Dio, come vien anco sovente chiamato nelle scritture, s' imprime nelle anime di quelli, che colla fede ricevono il Battesimo di Cristo, a cui volgendosi la volontà e aderendovi, rimane e santificata e giustificata. Onde all' uomo, nel quale è impresso il Verbo e però n' ha la percezione, è con ciò comunicato l' essere nella sua realità totale ed infinita, quantunque in un modo implicito e semplicissimo; come ancor piccolo, ma fertilissimo seme consegnato all' anima da coltivare e da svolgere colla propria sua attività e cooperazione. E così l' uomo non solo ha la completa cognizione, ma ben anco la virtù necessaria per conformare se stesso alla medesima; e quindi non gli mancano più i due elementi della perfetta sapienza. Laonde coerentemente a questa sublime dottrina si trova scritto ne' libri divini: «FONS SAPIENTIAE, VERBUM DEI IN EXCELSIS (1) ». Vero è che nella vita presente, essendo data all' uomo questa realità totale assoluta ed infinita in un modo così implicito e potenziale, ed all' incontro la realità finita del mondo operando sull' uomo in un modo esplicito ed attuale; questa riceve dal modo d' agire un' efficienza maggiore di quella; onde rimane all' uomo la necessità di lottare contro le angustie e le limitazioni della realità finita, che vorrebbe captivarlo esclusivamente a se stessa, impedendolo di darsi al tutto: ma allora il contrasto e la lotta non è più immediatamente fra la realità e l' idea, ma fra la realità finita e la realità infinita, quella premendo l' uomo con un' urgenza maggiore, e questa avvalorandolo e allettandolo a sè con una maggiore dignità e grandezza. Nè senza ragione colui che provvede dall' alto al maggior vantaggio degli uomini, lasciò loro questa difficoltà da superare, acciocchè la virtù e la sapienza sieno un acquisto de' loro generosi sforzi, e non cosa apposta loro, senza loro consenso e cooperazione; consistendo appunto in questo l' apice dell' eccellenza e della gloria dell' uomo, l' essere egli medesimo, in quel modo che può essere, l' autore della propria sapienza e della propria virtù. Iddio dunque rese questo all' uomo, seco congiunto, possibile: lasciò poi a quest' uomo il dovere di ridurre all' atto quella potenza che gli ebbe conferita. Chè la percezione di quella realità infinita, cioè del Verbo divino, può ridursi per la grazia che ne emana; ad un' attualità sempre maggiore, esplicarsi senza misura, e prestare all' uomo tutta la forza morale che gli bisogna, anzi una forza senza alcun paragone superiore a tutto il dolore, a tutto il piacere, con cui la realità finita, ma vivace dell' universo, tenta sedurlo. E tutto ciò è posto in pienissimo potere dell' uomo unito a Dio e assistito da Dio: onde l' apostolo: « « Io posso tutto in quello che mi conforta »(2). » E di questa stessa assistenza di Dio una nuova e profonda dottrina ci recò il Cristianesimo non mai veduta, nè potuta vedere dai filosofi, e tuttavia così consentanea alla natura di Dio ad un tempo e a quella dell' uomo, così coerente a tutte le verità razionali e rivelate, che la ragione stessa non può a meno di approvarla, maravigliata che le sia dato quasi del suo, e pur tale che in se stessa non l' aveva, nè l' avrebbe mai scorto. Poichè, secondo la dottrina di Cristo, quando il Verbo è congiunto coll' uomo, egli vi emette il suo spirito, che santificando la volontà, qualora l' uomo stesso che rimane libero, non vi si opponga, santifica l' uomo. Questa è la prima santificazione, e chiede e rende possibile dopo di sè la cooperazione umana. E` santità , ma non si può ancora dire sapienza ; chè l' uso di questa parola pare riservato a significare un acquisto fatto dall' uomo col suo positivo e manifesto concorso; ma in quella santità sta la sapienza come nel germe. D' allora Iddio e l' uomo operano sempre insieme, qualora l' uomo non isfugga liberamente da così fortunata società. Iddio ha istituito de' mezzi positivi ed esterni che furono denominati sacramenti , ai quali è unita una grazia determinata. L' uomo anch' egli ha la facoltà di porre molti atti di virtù, e, fra questi, quelli del culto interiore ed esteriore, ai quali tutti risponde il frutto d' un accrescimento di grazia interiore. Nell' esercizio di tutta questa attività, in tutto questo lavoro di operazioni divine ed umane, s' aumenta continuamente nell' uomo la comunicazione dello Spirito del Verbo, che è lo spirito della santità e della perfezione. La parola spirito viene acconcissima ad esprimere non solo l' impellente, ma anche l' impulso e quell' istinto operativo d' una natura dotata d' intelletto, quand' ella prende l' impeto del suo operare dalla vivacità e dalla realità della luce che illustra il fondo della sua intelligenza. Nel caso nostro, questa luce è il Verbo, che nell' essenza intellettiva dell' anima dimora, e investe la volontà col suo Spirito, senza bisogno di passare pel mezzo d' alcuna riflessione. Ora questo Spirito del Verbo, abbiamo detto che è anch' egli l' Essere come il Verbo, ma l' Essere sotto un' altra forma, sotto la forma di essere amabile e per sè amato , quindi per se operativo e perfettivo: ha dunque per sua dimora la volontà e per suo effetto e condizione nell' uomo l' azione santa più o meno esplicata. E di più, è rivelato, che egli ha una sussistenza personale , che non si confonde colle altre due persone, onde questa terza procede. I due elementi dunque della sapienza , che abbiamo detto essere cognizione e virtù , quando dall' ordine naturale si trasportano nell' ordine soprannaturale, s' avverano e realizzano in modo così sublime, che l' uno e l' altro si trovano consistere in un cotal contatto e commercio di Dio medesimo: tien luogo della cognizione, il Verbo percepito; tien luogo della virtù lo Spirito Santo vivente ed operante nell' anima umana (1); onde della sapienza, di cui la virtù , come abbiamo detto, è la parte formale, sta scritto: « « Egli stesso » (il Creatore) «la creò nello Spirito Santo »(2); » ed è questo Spirito che combatte a favore dell' uomo e nell' uomo e coll' uomo contro la carne, cioè contro quella porzione di realità finita, che colla sua esclusività minaccia di perturbar l' ordine della realità intera ed infinita (3). Ora lo Spirito divino si esplica nell' uomo co' suoi effetti e doni, ed accompagna l' esplicazione della cognizione, ossia del lume soprannaturale, che ne' battezzati è il divin Verbo. Secondo le quali esplicazioni, i giusti nella Chiesa si dividono in quattro classi. Poichè v' hanno gli uomini manuali ed illetterati, i quali dalla riverenza e dal timore di Dio di cui, per un' intima cognizione, temono e riveriscono la maestà, sono guidati e conservati lontani dal male, e questa prima maniera di sapienza vale più d' ogni scienza di coloro che non ne traggono il frutto dell' onesta vita: onde leggiamo: « « E` migliore quell' uomo che sa meno, ed è men sensato, nel timore (di Dio), di colui che abbonda di senno, e trasgredisce la legge dell' Altissimo »(4). » In costoro non v' ha una cognizione teoretica consapevole e separata dalla pratica, v' ha una sola cognizione, luce ad un tempo ed istinto morale, e, quasi direi, v' ha solo l' arte di fare il bene. Ma quando alcuno di essi, coll' uso della riflessione, s' applica alle lettere, la teoria allora si separa, e comparisce una scienza ideale, che si distingue dalla pietà : quella è pura speculazione, questa azione: e benchè questa pietà derivi da quella scienza e ne riceva la norma, tuttavia non è la scienza che sia la prossima causa dell' azione, ma questa si appoggia immediatamente ad un pratico riconoscimento della verità nella scienza conosciuta. I quali uomini di scienza e di pietà formano una seconda classe di giusti, con una maniera di sapienza più esplicata che non era quella de' primi. Non basta però essere uomo scienziato e pio ad avere la prudenza nel governare spiritualmente gli uomini, ed a compire a loro vantaggio magnanime imprese. Per arrivare a questo più alto grado si esige una perspicacia di consiglio ed un ardire di fortezza : consiglio che consiste nella celerità e nella sicurezza della mente, colla quale si trovano le regole di giudicare ed ordinare le cose (1), e gli spedienti migliori per arrivare al fine, ne' quali spedienti tutte le innumerevoli circostanze di fatto sfuggenti alla vista comune sono già poste nel calcolo e comprese nella risoluzione: fortezza, che giace in una cotal disposizione, per la quale l' uomo si sente maggiore degli impedimenti, non li teme, confida di dominarli coll' altezza del pensiero santo, colla costanza dell' animo, soprattutto colla fiducia in colui che è l' arbitro di tutti i fatti onde colui è mosso ad operare, e onde ripete e il pensiero e la costanza. A questa terza classe di giusti, ne' quali risplende una maniera di sapienza via più esplicata ancora che nelle due precedenti (2), si continua la quarta, che si compone di que' rarissimi, i quali, sollevati su tutte le cose finite, vivono affissati nell' infinità di Dio: e in questa contemplazione della mente riflessamente comunicano con esso Dio, e in lui rifondono se stessi, e le cose dell' universo, e Iddio in essi e per essi nelle cose dell' universo si rifonde; ed indi derivano altresì per la via dell' astrazione, una scienza ideale altissima e nobilissima delle cose divine, ai quali appartiene la più perfetta maniera di sapienza , e alla scienza che ne estraggono, fu riserbato il nome d' intelletto . V' ha qualche cosa di analogo a queste quattro classi di sapienti anche nell' ordine naturale, e non senza ragione, anzi mostrando grande elevatezza d' intendimento, Platone (1), seguito poi nella sostanza da Aristotile (2), volle che cogitazione si chiamasse la scienza delle verità matematiche e delle altre somiglianti, che si deducono, ragionando, da certe supposizioni, ma intelletto la notizia del principio dell' universo, che non si suppone, ma è assolutamente, nel quale hanno il loro essere oggettivo tutte le cose. Tutte queste diverse maniere di Sapienza sono compartite agli uomini da uno stesso ed unico spirito, lo spirito del Verbo. Il qual verbo, essendo l' archetipo eterno dell' infinita sapienza, anzi la sapienza oggettiva ad un tempo e personale, Iddio volle che gli uomini in esso, come in uno individuo della propria specie, vedessero e toccassero, per così dire, sensibilmente l' ideale realizzato di quella sapienza, di cui è capevole l' umanità. Così soddisfece Iddio alla convenienza di aggiungere all' umana natura quel di più che non le poteva appartenere, perchè increato, e di cui tuttavia abbisognava, se doveva raggiungere compiutamente il fine di quella sapienza e di quella soddisfazione che gl' indicava l' idea. Coll' incarnazione del Verbo dunque fu soverchiato il desiderio dell' umana natura, a cui non si poteva affacciare pure il pensiero di tanto mistero: e se era da presumersi che il Creatore dell' uomo avrebbe riempiuto il v“to che restava nella sua idea, cui non empiva il finito; il fatto non solo avverò quella presunzione; ma alla comparsa dell' Uomo7Dio, l' idea stessa divenne la misura buona e pigiata e scossa e traboccante, di cui parla il Vangelo (1). Su quell' uomo dunque, di cui Dio stesso volle costituire la personalità, dovea « « riposare lo spirito del Signore, lo spirito della sapienza e dell' intelletto; lo spirito del consiglio e della fortezza, lo spirito della scienza e della pietà; e riempirlo, lo spirito del timore del Signore »(1). » Nelle quali parole pronunciate più di sette secoli prima della venuta di GESU` Cristo, l' espressione che lo Spirito del Signore si sarebbe riposato in su quell' uomo, trova la sua naturale ragione e compiuta spiegazione nell' unione ipostatica. Chè se il Verbo è la persona divina del Cristo, come il Verbo è divenuto indivisibile dall' assunta umanità, così lo Spirito del Verbo dovea in questa riposare con pienezza; non potendo esso andare e venire, aumentare i doni o diminuirli, siccome è concepibile che avvenga negli altri uomini, i quali rimangono persone umane, o sieno o no congiunte al Verbo, partecipino o no del suo Spirito. E come negli altri uomini, a cui la comunicazione del Verbo è la diffusione dello Spirito, si trova una scala di doni e di perfezioni; la quale principia col timore di Dio, chiamato nelle scritture l' inizio della Sapienza (2), chiamato anche sapienza, perchè n' è la prima maniera (3), e ascende alla scienza e alla pietà, poi al consiglio ed alla fortezza, e finalmente alla sapienza e all' intelletto; così in Cristo (parola che si riferisce appunto all' unzione dello Spirito Santo (4)), in cui tutti questi doni, divisi fra gli uomini, trovavansi uniti, tenevano un ordine logico inverso; per modo che si concepisce in lui prima la più perfetta ed ultimata sapienza, e da questa poi derivarsi l' intelletto, mediante la facoltà della mente umana di Cristo d' intuire in quella sapienza, a sua volontà, l' ordine delle essenze e delle idee; dalla sapienza poi e dall' intelletto derivarsi il consiglio e la fortezza, mediante la facoltà, che aveva pure l' anima di Cristo, di applicare la sapienza e l' intelletto agli ufficŒ del giudicare, dell' ordinare, del governare e dell' operare magnanimamente: da questi quattro doni poi scaturire la scienza e la pietà mediante la facoltà di conoscere le cose generiche e le speciali, e di rivolgerle all' onore ed al culto di Dio; e finalmente risultare da tutte queste cose insieme quell' immenso timore riverenziale della umana natura di Cristo, che, così limitata così angusta, vedevasi accompagnata, empiuta, posseduta, assunta, in una parola, da un ospite di tanta maestà, che, come sua propria persona, la reggeva, la santificava, assolutamente ne disponeva. Tale è il sapiente di Dio! Di quanto non vince egli colla realità il sapiente ideale dell' uomo? Iddio solo poteva esser quello e fu quello che lo ideò ad un tempo, e lo realizzò, lo pose nel mondo sotto gli occhi degli uomini. Il sapiente di Dio fu la sapienza incarnata. A questo sapiente, ossia a questa sapienza incarnata, nove secoli prima che comparisse sulla terra, furono poste in bocca queste parole: [...OMISSIS...] Così Iddio, qual maestro degli uomini parlava alcuni secoli prima che nascesse Platone in Atene ad esprimere il desiderio d' un tal maestro, e a dimostrarne il bisogno in nome della natura umana. E questo maestro, quest' uomo in pari tempo Dio, questo archetipo vivente e palpabile del Savio « « in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza »(2), » quest' incarnata sapienza; questo giusto e santo sin dalla doppia sua eterna e temporale origine, per la stessa sua natura e condizione, da diciannove secoli occupa manifestamente il primo posto fra gli uomini, acquistatolsi, a un nuovo titolo, col merito del suo compiuto sacrifizio. Egli è di necessità il capo dell' umana natura, il principe dell' uman genere, e quantunque principe, servì all' uman genere, e gli ministrò, e ne vinse di più l' ingratitudine col lasciarsi levar la vita, la quale egli depose e riprese da se stesso, per salire appresso a Dio Padre ed essere colassù l' avvocato de' suoi nemici (1). Così l' umanità divisa e sparpagliata dalla morte, effetto del peccato, che la privò del suo padre secondo natura, fu ricondotta all' unità dal vincitore della morte, che le diede per padre il suo proprio unico Padre Iddio, e fu ricostituita sotto il governo d' uno, « « a cui fu data ogni potestà in cielo ed in terra »(2) »: fu riunita ad un capo di tanta eccellenza, a cui non poteva ascendere il suo pensiero, nè estendersi il suo desiderio. Nè questo pensiero, o questo desiderio poteva tampoco ideare o indovinare il modo d' un tale raggiungimento. Chè questo modo (una delle tante invenzioni di Dio a beneficio degli uomini (3)), non fu soltanto un' amicizia, una società, una soggezione, una beneficenza, qual può essere fra uomo ed uomo, di cui l' uomo si forma il concetto; ma di tutt' altra guisa, inescogitabile, divina: fu un raggiungimento di percezione, suggellandosi il Verbo nell' anima, un raggiungimento d' inabitazione, diffondendosi per entro ad essa lo spirito, un raggiungimento fisico per via dell' umanità di Cristo, che con mistero opera ne' sacramenti, e si copre ella stessa d' un sacramento nel cibo eucaristico. Onde gli uomini possono divenire, ove lo vogliano, vere e vive membra di questo corpo, di cui Cristo è capo: e questo capo potè dire colla più rigorosa verità: « « Io sono la vite, voi i tralci: chi si tiene in me ed io in lui, questi porta molto frutto »(4): » su' quali fondamenti, quasi su monti santi innalzò la sua Chiesa. Ma poichè Iddio rispetta la libertà degli uomini, e vuole da essi il consenso e l' accettazione de' suoi benefizŒ, che divengono quasi oggetto d' un contratto gratuito; perciò rimane a loro stessi la scelta fra il nobilissimo posto di figliuoli che è loro offerto nella sua famiglia divina, e la condizione di stranieri o l' ignobilissima di schiavi. La mente dunque (per ricapitolare in parte quello che abbiamo detto) d' ogni cosa o artistica o morale si compone, più o meno perfettamente, un concetto ideale di perfezione; ma poi niun' opera di arte umana compiutamente lo realizza, e quella è molto lodata, che gli s' avvicina. Onde la realizzazione d' ogni ideale rimane sempre per l' uomo un desiderio penoso perchè non è mai soddisfatto: nuova prova che l' idea stende in lui troppo maggior ala, che non la potenza. Ma l' ideale più di tutti all' uomo desiderabile è quello di se stesso, e l' arte massima , quella che intende a realizzarlo. Se non che l' uomo si trova più insufficiente a quest' arte, che a tutte l' altre. L' autore di lui soccorse alla sua creatura così bisognosa per causa della sua stessa grandezza. Tenendo ad esemplare di tutte l' opere sue un ideale senza pari più perfetto di quello che possa cadere in mente umana, non fallisce mai, che non lo adempia. L' uomo ideale è l' ideale sapiente : questo, concepito dagli stoici e da altri filosofi, da nessuno fu realizzato; e secondo la celebre interpretazione data da Socrate all' oracolo di Delfo, il sapientissimo dovea esser colui, che questa sola cosa sapeva, « di non sapere ». L' ideale del sapiente nella mente di Dio fu dunque sulla terra effettuazione. In un sapiente7tipo apparve il tipo dell' uomo. L' umanità trovò in GESU` Cristo l' ideale di se medesima, ma divinizzato, e quest' ideale sollevato alla divinizzazione, lo trovò reale. Il Verbo e lo Spirito Santo tennero luogo in questo sapiente de' due elementi della sapienza, la cognizione , e la virtù . D' amendue fu fatta comunicazione agli uomini. GESU` Cristo disse: « « Io a questo son nato » (come uomo) «e a questo sono venuto nel mondo » (come Dio nell' incarnazione) «di prestare testimonianza alla verità »(1); » e la verità era lo stesso Verbo divino che così favellava, avendo anche detto: « « Io sono la via, la verità e la vita: nessuno viene al Padre se non per me »(2). » Come uomo egli prestava testimonianza in faccia degli uomini, al Verbo divino: come Verbo incarnato, ancora gli rendeva testimonianza, perchè le parole esteriori, con cui ammaestrava gli uomini, si riferivano al lume interiore, e lo esplicavano, lo rendevano accessibile alla riflessione: era la voce del Verbo che suonava per render testimonianza al Verbo, il quale senza suono interiormente illuminava (1). Questo Verbo interiore, a cui dovevano essere riscontrate le voci e le parole esteriori dello stesso Verbo, era il paragone, la riprova di tali parole, che ciascuno, a cui fosse dato quel lume, portava in se medesimo: onde Cristo dopo aver detto d' esser venuto a rendere testimonianza alla verità, immediatamente avea soggiunto: « chiunque trae il suo essere dalla verità, ascolta la mia voce. » [...OMISSIS...] (2). Perocchè la percezione, sebbene imperfetta, del Verbo dà un essere nuovo e più sublime all' uomo, di cui ella è una seconda nascita, nella quale gli uomini « « non nascono dai sangui o dalla volontà della carne o dalla volontà dell' uomo, ma da Dio »(3) »; onde quelli che sono rinati a questa guisa « « hanno la potestà di rendersi figliuoli di Dio »(4) » ascoltando la voce di Cristo. Le parole esterne dunque di Cristo testimoniano del Verbo interiore, e il Verbo interiore , per sè luce dimostra e conferma la verità di quelle parole. E poichè il Verbo è mandato dal Padre per tutto dove è mandato, anche nell' anime, perciò anche il Padre, la cui sussistenza si percepisce nel Verbo, coll' aver mandato questo nel mondo e nelle anime, gli rende testimonianza; onde Cristo disse: « « Io sono, che » (esternamente predicando) «rendo testimonianza di me stesso » (che internamente dimoro nelle anime); «e rende testimonianza di me quegli che mi ha mandato, il Padre »(5). » Perchè « « non può il Figliuolo far cosa alcuna da sè, se non quello che vede fare al Padre »(6), » e però le opere esterne ed interne che io fo, non le fo solo, ma col Padre; il che esprime la perfetta corrispondenza ed unità di natura fra l' intelligibile divino ed il reale divino , a cui è analoga quella che concepisce e desidera la mente umana fra l' idea ed il reale: in quella perfetta corrispondenza di forme, e identità di essere, colloca Cristo la testimonianza pienamente soddisfacente, ch' egli rende alla verità (1). Ma una somigliante corrispondenza che Cristo ci chiama a considerare fra le due prime divine persone, in un modo assoluto ed universale; egli l' annunzia altresì in se medesimo entro l' ordine delle cose morali con quest' altre parole: « « Io sono la via, la verità, e la vita. » » Perocchè la via è la cognizione, l' idea, a cui si riduce ogni legge e comando: i doveri morali tracciano all' uomo la via, per la quale egli arriva al suo fine. Ora nel Verbo stanno tutte le idee, le leggi, le morali necessità: queste sono l' intelletto , che, come dicemmo di sopra, giace nella sapienza , e per la riflessione e per la limitazione che gli viene aggiunta, da quella si separa. La verità poi qui si prende per la realizzazione dell' idea morale o della legge, nel qual senso pure è detto, che « « per Mosè fu data la legge , - per GESU` Cristo è stata fatta la verità »(2) » cioè il pieno adempimento di quella. Poichè GESU` Cristo non essendo venuto a sciogliere la legge, ma ad adempirla (1), fece quello che non avean saputo far gli uomini, pareggiò e superò, colla santità delle sue operazioni, l' ideale della virtù, quale nella legge mosaica era stato delineato davanti agli occhi degli Ebrei, acciocchè il realizzassero. Così, rispetto all' ordine morale, si vide in Cristo restituito l' equilibrio fra l' idea, non l' idea mosaica, ma la sua propria; onde non disse: « la legge mosaica è la via », ma: « Io sono la via », e sono pure la verità delle operazioni a quell' idea pienamente corrispondenti. E quest' equilibrio videsi del pari restituito in tutti quelli che credettero in lui ed a lui, poichè, avendo questi in sè il VERBO IMMANENTE, secondo l' espressione dello stesso Cristo (2) si trasformano, per così dire, in altrettanti Cristi: chè il Verbo anche in essi è via , manifestando ciò che si deve operare, ed è verità , dando loro valore di operarlo. Ed è poi anche vita: poichè consistendo la vita nella produzione d' un sentimento sostanziale o nell' atto di un tal sentimento il Verbo, coll' emettere il suo Spirito, produce un sentimento efficace nell' anima, che innalza questa ad una vita deiforme, la quale le fa riconoscere lo stesso Verbo e fruirne, e poi, di sua natura eterna, cresce e si perfeziona nel tempo e si rivela in beatitudine nell' eternità. Non v' ebbe certo alcun altro maestro fra gli uomini che esercitasse un magistero di tal fatta: tutto quello che insegna il cristianesimo intorno ad esso, è degno di Dio, e talmente n' è degno, che la mente umana, qualunque ideale del sapiente studiasse di comporsi, non potea nè pur da lontano pensarlo: pure se alcuno l' avesse pensato o proposto, sarebbe parso una stravaganza, e non inteso: l' uomo non conosceva a sufficienza Dio e se stesso per potere immaginare ciò che conveniva all' uno in relazione coll' altro: ma quando GESU` Cristo esercitò quel magistero, gli uomini credettero il fatto prima d' averne veduta, e creduta la possibilità (3); era cosa più facile a credersi esistente che possibile. Quando si cangiano profondamente le cose e di conseguente si cangiano profondamente i pensieri degli uomini, e fin anco la maniera del pensare, allora gli stessi vocaboli ammettono nuovi usi, e nuovi significati: si cangiano le lingue, ed anche a questo alluse forse GESU` Cristo, quando promise, che i credenti avrebbero parlato « « nuove lingue »(1), » espressione che pare dire ancora di più, che le lingue diverse dalla propria. Così mentre noi, parlando fin qui secondo l' uso degli uomini, dicevamo che la verità teoreticamente conosciuta, è un elemento di quella qualunque naturale sapienza che è accessibile all' uomo: secondo la nuova lingua, dobbiam dire che quella verità non è più un elemento della sapienza soprannaturale, ma la via che vi conduce, riserbando la parola Verità ad un nuovo e più sublime significato, al significato dell' idea , se si può dir così, realizzata , pienamente compiuta, vivente, non più impersonale, ma una divina persona, nella quale tuttavia si conserva sempre il suo carattere di oggetto, d' intelligibile, in cui si fonda l' analogia che passa fra l' idea , e il Verbo divino . Quindi nella Sapienza di Dio comunicata agli uomini dallo stesso Dio, fatto maestro dell' umanità, non si può più separare il primo elemento, la verità, dal secondo, cioè dalla virtù, benchè si possa mentalmente distinguere; perchè, separato, cambia natura, non è più quel di prima, non è più elemento di quella sapienza; chè separata la verità dalla sua realizzazione, rimane l' idea, e ciò che appartiene alla sapienza soprannaturale dell' uomo non è l' idea, ma il Verbo divino, nel quale però colla sola mente si distingue la via dalla verità . Pure, quantunque questa nuova sapienza sia così una ed indivisibile, ella presenta un doppio aspetto, essendo nella sua unità perfettissima biforme (e potremmo eziandio dire triniforme, se il dichiarare come ciò s' intenda, non ci menasse a lungo, senza che la necessità del ragionamento lo esiga), perocchè, guardata da un lato, ella s' assolve tutta nel nuovo significato che ha ricevuto la parola verità; guardato poi dall' altro lato pure si assolve e comprende tutta sotto il significato della nuova parola carità . Così sono indivisibili ed une nell' essere e nella natura le due persone distinte del Verbo e del suo Spirito. Laonde se la Verità nel nuovo significato esprime Dio nella persona del Verbo, come disse il Verbo stesso; la nuova parola Carità esprime il medesimo Dio nella persona dello Spirito, come è scritto: « « Dio è carità, e chi rimane nella carità rimane in Dio, e Dio in lui »(1) ». E la Verità e la Carità in questo sublime significato si rendono reciprocamente testimonianza, perchè l' una è nell' altra, e niuna delle due fuori dell' altra si trova. Laonde chi ha questa Verità ha con essa la Carità che l' adempie, e chi ha questa Carità ha la Verità adempita. E come non si dà questa Verità alla persona umana, senza l' adempimento dell' opere, così, senza un tale adempimento, non si dà la carità. [...OMISSIS...] Onde quegli che opera il bene, ha la carità, e questi anche conosce la verità; poichè non può conoscerla appieno colui, che non la opera, e però non la sente, e però non ne ha lo spirito che solo fa conoscere una tale sostanziale e soprasostanziale verità; poichè « « lo Spirito è quegli che testifica che Cristo è la VERITA` »(3). » Nella verità dunque è la carità, che l' adempie; onde Cristo pregò il Padre: « « Santificali nella verità; il tuo sermone è la verità »(4) » nella carità poi è la verità adempita: « « Non amiamo colla parola e colla lingua, ma coll' opera e colla verità: da questo conosciamo, di trarre l' essere nostro dalla VERITA` »(5). » Sono dunque due le parole in cui si compendia la scuola di Dio, reso maestro degli uomini, VERITA` e CARITA`; e queste due parole significano cose diverse, ma ciascuna di esse comprende l' altra: in ciascuna è il tutto; ma nella verità è la carità come un' altra, e nella carità è la verità come un' altra: se ciascuna non avesse seco l' altra, non sarebbe più dessa. Come poi la Verità è lo stesso maestro GESU` Cristo, che si comunica all' essenza intellettiva dell' anima, e in pari tempo s' esplica tanto esternamente quanto internamente, cioè tanto al di fuori, nella rivelazione e nella predicazione evangelica che si continua coll' umanità sulla terra, e nella divisione de' ministerŒ; quanto al di dentro, in tutte quelle cognizioni divine che producon la scienza; così del pari la Carità, che è lo Spirito Santo, s' esplica ne' doni che abbiamo enumerati, ne' soprammodo molteplici affetti dell' amore, ne' frutti, nelle grazie, e nelle sante operazioni: di manierachè non è parte dell' attività del discepolo, non potenza, non atto, che non sia accompagnato dal Verbo e dal suo Spirito, e in cui quello e questo non si trovi. E qui si vede non solo il perchè la sapienza cristiana si riduca all' imitazione di Cristo, ma di più come questa imitazione sia possibile agli uomini, e possibile in un modo del tutto singolare e maraviglioso. Se il Maestro di cui si tratta, è di una natura così diversa dall' umana, che egli ha la potestà di entrare e quasi assidersi nell' anima stessa del discepolo , e quinci, come un auriga dal cocchio, guidarne tutte le potenze, ed anzi di più, del suo proprio spirito animarle, e di conseguente, se la sapienza de' discepoli non è che la stessa sapienza divina partecipata, lo stesso maestro, che, entrato in essi, ivi col loro consenso e colla loro adesione, inabita e li fa vivere di sè; quelle tre cose che noi toccavamo non hanno più alcuna difficultà ad essere intese; cioè diventa chiarissimo, come all' imitazione di Cristo si riduca la sapienza soprannaturale degli altri uomini, e come questa imitazione sia possibile, e possibile in una maravigliosa guisa, riscontrandosi una cotale identità di sapienza. Quale umano intelletto potea mai concepire una maniera così stupenda e così sublime d' effettuare quel precetto, che pur giunse a indicare la stessa filosofia: « « Imita Dio? »(1). » Che se l' eterna sapienza, una, semplicissima, sussistente e vivente, Dio e Verbo di Dio, è quella che, sempre identica, realmente è in tutti gli uomini che vi aderiscono (al che son tutti chiamati), e in essi ella vive e regna, volendolo essi medesimi; due conseguenti soprammodo lieti per l' umanità se ne raccolgono: il primo che con ciò questa umanità veramente s' organizza in un solo corpo, con un solo capo divino, e così rimane soddisfatto il profondo e misterioso desiderio col quale da noi s' aspira ad ottenere, senza sapersi poi come, che la moltitudine degl' individui umani imiti ed emuli, colla loro unificazione, la perfetta unità della specie: l' altro, che ogni individuo, essendo in lui Cristo, riceve la dignità di un cotal fine dell' universo, costituisce quasi un centro suo proprio, a cui tutte l' altre cose si riferiscono, reso simile ad un astro, che esercita su tutti gli altri, disseminati nell' immensità dello spazio celeste, come credono gli astronomi, la sua attrazione. Dal che procede ancora la stabilità e il continuo incremento della scuola di Cristo sopra la terra, il quale disse a' suoi discepoli, prima di dipartirsi da loro colla sua esterna presenza: « « Ecco io sono con voi tutti i giorni - fino alla consumazione del secolo »(1) » La propagazione della scuola, ossia della Chiesa di Cristo, di secolo in secolo, di nazione in nazione è l' opera del suo Spirito, l' opera della carità. Questa carità cominciò da Dio Padre: [...OMISSIS...] Il Verbo mandato nell' umanità che assunse, adempì la carità del Padre: [...OMISSIS...] Gli uomini che si fecero discepoli al Verbo incarnato, ricevendolo in se medesimi, ricevettero con esso il principio della stessa carità, e ciascuno, il Verbo in essi ed essi nel Verbo, la esercitano del continuo sopra la terra: [...OMISSIS...] E il discepolo dell' amore: « « Se ci amiamo reciprocamente, Iddio dimora in noi, e la carità di lui in noi è perfetta. Da questo conosciamo di dimorare in lui, ed egli in noi, che egli ci ha dato del suo spirito »(2). » Dimorando dunque il Verbo divino, sebbene invisibile, in terra, nell' anime de' suoi discepoli, e imprimendosi in esse di generazione in generazione, e diffondendovi il suo Spirito, l' opera della sua Chiesa è in ogni tempo nuova e fresca, non può mai invecchiare, ricominciando essa in ogni uomo reso in un cotal modo Cristo, e perciò giustamente questa dottrina non dismette mai il nome di novella buona , ossia d' Evangelio, datole la prima volta che fu annunziata. E se nella lotta che sostiene contro lo spirito del male e la debolezza degli uomini, sembra in alcuni tempi che ne soffra la Chiesa, ed a periodi di splendore succedono periodi di amarezze e d' umiliazioni, questi non sono che momentanei, e passaggeri; ch' ella è una società di tal natura che porta in se medesima la potenza di ristorarsi e di ringiovanirsi, mediante il governo de' pastori co' quali Cristo promise di essere per tutti i secoli, e mediante quella carità ch' egli esercita nell' anime de' suoi, colla quale la fondò da principio; e quindi ancora la potenza d' un incessante progresso. Onde tutti i discepoli di Cristo sono de' sapienti, che fanno di continuo quello che ha fatto Cristo, e che Cristo fa continuamente in essi, cioè proseguono l' opera della Chiesa, e in essa dell' unificazione del genere umano, e, secondo l' espressione di S. Giovanni, sono « « cooperatori della Verità »(3). » In questa carità esercitata nella verità consiste veramente l' opera della sapienza cristiana . Tutti vi sono chiamati: a quelli che rispondono alla chiamata son divisi i ministeri: a taluno è affidata una parte maggiore, ad altri una parte minore dell' opera comune. Presiedono a tutto il lavoro quelli, a cui Cristo ebbe detto: « « Pace a voi: Come il Padre ha mandato me, così anch' io mando voi »(4). » Questi sono i sapienti de' sapienti, i maestri di coloro che sanno. Perocchè tutti i cristiani interiormente sanno; onde un Apostolo scrivea loro: « « Ma quant' è a voi, l' unzione, che avete ricevuta da lui, dimora in voi, e non avete mestieri ch' alcuno v' insegni. Ma come l' unzione di lui v' ammaestra di tutte le cose, e quel di che v' ammaestra è vero, e non menzogna, rimanete in esso, com' ella v' ha insegnato »(1). » E nulladimeno questo stesso Apostolo insegnava ed ammoniva, perocchè non tutti, eziandio che sappiano internamente, sanno anche esternamente, e il Verbo interiore ha bisogno d' essere esplicato dall' esteriore, ed oltracciò anche quegli che sa, può esser sedotto dall' errore, dal quale è difeso, attenendosi a coloro che Cristo mandò appunto, acciocchè insegnino e ministrino esternamente agli uomini lui medesimo. Quanto poi s' estenda questa carità della cristiana sapienza è maraviglioso a pensare. Perocchè ella s' estende appunto altrettanto, quanto la verità. La verità di questa sapienza non ha limiti, come abbiamo veduto: il Maestro dice a' suoi discepoli: « « Oggimai io non chiamerò voi servi, poichè il servo non sa che cosa faccia il suo padrone; ho chiamato voi amici, perchè io feci note a voi tutte quelle cose che io ho udito dal Padre mio »(2), » e di più promette loro il suo Spirito, che tutte queste cose, dette prima da lui, raccenderà loro in mente, e di nuovo insegnerà loro « « ogni verità »(3). » Come poi l' uomo così limitato possa portare tanta mole di verità, l' abbiamo detto, dove abbiamo avvertito, che tutta la verità gli è data in un modo implicito e potenziale, il che S. Giovanni esprime, dicendo che nel cristiano dimora « « il seme del Verbo »(4), » quel seme onde l' uomo è rinato. L' esplicazione poi di questo seme ne' diversi uomini è più o meno, sempre tuttavia, limitata, e si fa in ordine a tutto ciò che è necessario alla natura umana e da questa voluto, cioè alla perfezione morale ed alla felicità dell' uomo. Ora lo stesso ragionamento conviene applicarsi alla carità . Questa di natura sua è in ciascuno de' discepoli universale ed infinita, benchè limitata nella sua esplicazione ed attuazione. E così deve essere, se deve rispondere perfettamente a quella verità, di cui è il nostro discorso, dalla quale, come dicevamo, la carità è indisgiungibile. Poichè la carità non è altro che l' esecuzione e la sostanziazione della verità, onde nelle Scritture si nomina « « la carità della verità »(1), » e si esorta a « « fare la verità nella carità » (2) »: è una verità che si fa, non si conosce solo, come la verità naturale; e si fa colla carità. Or come abbiamo distinta dalla verità naturale e incompleta la verità soprannaturale e sussistente, così anche la carità che a questa corrisponde si distingue dal naturale amore . E non parlo dell' amore naturale soggettivo , vario di genere, e di forma e di costume, il quale non appartiene per sè solo all' ordine morale; ma dell' amore naturale oggettivo che costituisce la naturale virtù. Questo riceve tutte quelle limitazioni e imperfezioni che nella verità naturale e meramente ideale si trovano, ed è oltracciò combattuto e distrutto spesso dall' amore soggettivo che si fa reo con questo stesso combattimento. In fine, quand' anco l' amore naturale oggettivo potesse reggersi così debole e quasi aereo, com' egli è, di fronte a tale avversario violento e disordinato; nè soddisfarebbe al bisogno d' amare che sente il cuore umano, e che tanto si stende quanto l' idea, cioè all' infinito, perchè non v' ha nella natura alcun oggetto infinitamente amabile, nè un tale amore potrebbe esser principio di quell' infinita beneficenza, a cui di nuovo tende l' animo umano. Chè l' amare è voler bene, e non si può volere un bene infinito all' amato, se chi ama non conosce o non ha alcun bene infinito da comunicare. Non potendosi dunque la mente e il cuore umano fermare se non in ciò che è infinito, e perciò il suo fine compiuto potendosi trovar solo in un infinito reale, che l' amor naturale non trova; in questo come in suo fine compiuto non può essere esaurita compiutamente e tranquillamente quella capacità di affetto che il Creatore ha posta nella natura umana. La carità all' incontro trova e possiede il fine assoluto dell' amore che è Dio Uno e Trino. E come l' ama in sè stesso, positivamente e immediatamente conosciuto, così l' ama negli uomini ne' quali egli dimora, e, in un diverso modo, in quelli altresì, ne' quali egli può dimorare, e sono tutti quanti vivono in terra. Laonde la carità di Cristo prende le due forme, della fraternità e dell' umanità . La prima è quella « carità della fraternità »che venia tanto raccomandata a' primi fedeli dagli Apostoli (1), per la quale tutti quelli ne' quali già vive Cristo, si amano d' un amore indicibile, e quasi beatificante, e si prevengono in ogni onore ed aiuto con ogni sacrificio, perchè Cristo, che in essi abita, cresca ne' fratelli e in tutta la comunità. L' umanità poi è quella forma di carità, colla quale si amano gli uomini, non perchè abbiano in sè Cristo, ma perchè, non avendolo ancora, lo possono avere: e questa è il fonte di quello zelo infaticabile della salute delle anime, onde l' uomo desidera e fa quant' è da lui, che tutti quelli che sono fuori ancora della Chiesa di Cristo, vi si aggreghino, e si convertano i peccatori in modo; che, giustificati, Cristo possa di nuovo in essi diffondere il suo spirito, a cui hanno fatto contumelia. E questa è la filantropia cristiana, che tende a giovare in tutti i modi agli uomini, acciocchè vengano a possedere il bene vero, finale, assoluto, infinito, nel cui possesso solamente la natura umana chiama sè stessa soprammodo contenta, priva del quale, non è mai pienamente contenta per qualunque altro bene. Laonde è questa una filantropia ragionevole, non ingannatrice, chè per essa si vuole agli uomini il bene vero, desiderato confusamente per natura, e gli altri beni solo in ordine a questo, contro al qual ordine sarebber mali, eziandio che ritenessero le apparenze ingannevoli di beni: è appunto la filantropia o umanità di Cristo, di cui parla S. Paolo, ove dice: che « « quando apparve la benignità e l' umanità » [...OMISSIS...] «di Dio Salvator nostro, egli ci fece salvi, non per opere di giustizia fatte da noi, ma secondo la sua misericordia »(2) » e di cui parla S. Giovanni, ove pure dice: « « In questo è la carità, non quasi che noi abbiamo amato Dio, ma perchè egli stesso il primo amò noi, e mandò il Figliuol suo, propiziazione de' nostri peccati »(1) » I discepoli dunque che sanno d' essere stati amati da Cristo prima d' esserne degni e acciocchè degni ne divenissero, anch' essi amano gli uomini che non sono ancor degni d' essere cotanto amati, acciocchè diventino degni del soprannaturale amore com' essi, con acquistare la dignità di membra del corpo di Cristo viventi dello stesso spirito di Cristo. La carità dunque ha in sè necessariamente lo spirito di proselitismo, e, in altre parole, il principio d' associazione. S. Giovanni scriveva ai fedeli: « « Noi vi annunziamo quello che abbiamo veduto ed udito, acciocchè anche voi abbiate società con noi, e la nostra società sia col Padre e col Figliuolo di lui GESU` Cristo »(2) » Ed ancora: « « Che se noi camminiamo nella luce, come anch' esso è nella luce, abbiamo fra noi società, e il sangue di GESU` Cristo figliuolo di lui, ci monda da ogni peccato » (3) » La carità è sempre nella luce , perchè la luce è la verità, e la carità è la verità adempita. Abbiamo detto di sopra che la verità sussistente, cioè il Verbo divino, di natura sua associava gli uomini, essendo un identico principio reale e vitale da tutti quelli, che sono in lui, partecipato, e perciò gli uomini congiunti col Verbo rassomigliano quasi ad un grappolo d' uva, in cui tutti gli acini uniti, allo stesso racemo s' attengono, succhiandone coll' umore la vita. Ora la stessa cosa è a dirsi della carità . La quale per sua natura è unione, e unione la più perfetta e sublime, che può in qualche modo dirsi unificazione. Niuna maraviglia dunque, che tosto introdotta nel mondo la carità, l' umanità sentisse un insolito bisogno d' associarsi e incominciasse in essa un movimento, un lavoro tendente a produrre sempre nuove, ora meno, ora più perfette, associazioni. La società grande era stata costituita dallo stesso Maestro, che n' avea posto i due principŒ, della verità e della carità: quest' è la Chiesa cattolica, cioè universale. Come rispetto alla verità ella si compone di maestri e di discepoli in quel modo che abbiamo detto, così rispetto alla carità ella si compone di ministri che comunicano il Verbo e il suo Spirito, per certi mezzi instituiti dal Salvatore e avvalorati dalla sua onnipotenza, e che governano esteriormente tutto il corpo, e di quelli a cui amministrano , di quelli che tale grazia e tal governo ricevono. E poichè la verità e la carità è l' identico bene divino sotto due forme, così gli stessi che come Maestri viarŒ conservano e tramandano la verità, sono quelli altresì che come Vescovi e sacerdoti sacrificano, amministrano i sacramenti e governano: sono gli stessi con due potestà. Ma, come abbiamo detto, in ogni discepolo dimora il Verbo e vi effonde il suo Spirito, di maniera che ciascuno è un cotal centro e fine del tutto, benchè sia anche membro, maggiore o minore, esercente una funzione più o meno importante, del corpo di cui Cristo è il capo. Ciascuno dunque ha il suo lume di verità, e ciascuno ha il suo fuoco di carità: non v' ha pure il minimo cristiano che si tenga nella grazia, il quale non l' abbia. Quindi ciascuno e s' attiene più che mai stretto all' associazione grande essenziale e fondamentale della Chiesa, e ha in sè il principio e l' inclinazione ad altre associazioni benefiche: e più o meno v' inclina, secondo che più o meno egli coopera alla carità, e più o meno questa, per le cognizioni esteriori e pe' doni, in lui s' esplica. Di qui tutte quelle religiose associazioni , le quali si propongono d' esercitare, con più d' attività e d' estensione e di ordine, la carità e la beneficenza verso il prossimo: le quali non sono, come manifestamente apparisce, che propaggini della verità e della carità, radici sempre feconde, e conseguenti naturali e necessari della Scuola, di Dio fatto maestro, e redentore degli uomini, che è la sua Chiesa. Perocchè la carità può essere esercitata da ogni individuo, ma con più frutto da una collezione d' individui associati, cospiranti tutti d' accordo, come un cotale esercito pacifico ben ordinato, istrutto, e disciplinato, nello stesso esercizio. E veramente chi ama una cosa, la ama tutta e non una parte; e come la verità di cui parliamo non ha confini, così la carità pure è di natura sua infinita, nè può mai dire: basta, senza ripugnare a sè medesima: tende dunque al sommo, a fare tutto il bene che ella può. I confini di lei non sono che soggettivi: poichè s' ella si trova nell' uomo ancora implicata ed involta, non può spandersi nell' opere esteriori, e rimane così implicata quanto nell' uomo stesso rimane implicata la verità. Quell' ignoranza dunque, che può trovarsi anche nel cristiano in ordine a quel sapere che appartiene alla riflessione, e la scarsa cooperazione della libera volontà all' esplicazione della verità stessa, sono i due limiti che riceve ne' diversi uomini l' operosità della carità di Cristo. Ma questi limiti possono essere sempre più in là sospinti ed allontanati: e quindi l' indefinito e sempre nuovo svolgimento della carità nel Cristianesimo. Perocchè la carità giugne a far tutto, e con ogni sacrificio. Or tutti i beni, eziandio che temporali, possono inservire al fine de' beni , che è il fine stesso dell' uomo, sul quale, per conghietture o argomentazioni non autorevoli, fu tanto disputato da' filosofi prima di Cristo, senza che mai ne vedessero il chiaro, o convenisser fra loro; ma dopo Cristo a niuno può essere oscuro o dubbioso quale, quel fine, egli sia. Laonde la carità è uno amore, pel quale l' uomo, dimenticando se stesso pe' suoi simili, altro diletto non cerca a se medesimo che quello di procacciar loro ogni bene, con ogni suo studio, fatica e patimento, sia questo bene corporale, intellettuale, o morale: ordinando i due primi all' ultimo, che è il fine degli altri. I quali tre sommi generi di carità, se si considerano attentamente, ritornano alle tre forme dell' essere, la reale, l' ideale, e la morale: e spettano a quelle tre categorie supreme, in cui si riassumono tutte le cose concepibili dalla mente, le quali nelle tre forme primordiali dell' essere si fondano. Onde si vede, che l' ultimo intento della carità è di fare che gli uomini tutti partecipino dell' essere al maggior grado, e in tutt' e tre le sue forme. E come in quest' essere appunto uno e trino si assolve la verità, così nuovamente si raccoglie in che modo la carità termini nella verità, e come pure questa in quella si trasfonda. Ora la compiuta verità è ordinata, perchè l' essere è ordinato; di maniera chè, secondo l' ordine di generazione, precede l' essere reale all' ideale, ed entrambi al morale, che tutto l' essere seco congiunge e perfeziona. Così, allo stesso modo appunto, è ordinata altresì la carità. Di che, ogn' altro amore, che si diparta da quest' ordine, s' oppone all' ordine della verità , e di conseguente convien dire che è falso, ed anzi che benefico, dannoso. Cristo dunque portò il vero amore in terra, il quale non potè essere del tutto vero se non a condizione d' essere altresì sublimissimo e divino, come vi portò la vera sapienza, pure sublimissima e divina; ed a buon diritto egli potè dire, che questo precetto era il suo (1). Come poi la carità s' esercita dai discepoli o separati, o uniti in società; così ella s' esercita del pari a favore d' individui, e a favore di società, quantunque il termine umano della carità sia sempre l' individuo; che le società stesse hanno condizione di mezzi e non di fini, non potendo esse aver altro fine che o il bene degl' individui associati, o d' altri. Quindi nella carità v' ha il principio immortale della ristorazione e della riforma non solo della Chiesa, come abbiam detto parlando della verità, ma ancora della società domestica, essendo principalmente l' educazione opera gratissima alla carità, e della società civile, procacciando la carità, ove ne sieno animati i membri di lei, che essa si fondi sulla giustizia, di cui tempera il rigore, conciliando le opinioni e gl' interessi colla reciproca stima e colle vicendevoli concessioni e ragionevoli transazioni de' cittadini, e soprattutto spuntando l' orgoglio e il dispotismo tanto famigliare e quasi inseparabile da questa potente società, coll' insegnarle che cosa ella sia, cioè unicamente l' ancella, non punto la signora nè della Chiesa, nè della Famiglia, l' una e l' altra delle quali società pel loro concetto a lei precedenti, ella dee riverire come suo proprio fine, e rispettare e servire. Laonde anche la famiglia, e la nazione partecipano di quella immortalità, che la cristiana sapienza comunica a tutte le cose che ella tocca od affetta, e che prima di null' altro ella assicurò di sua propria bocca alla grande scuola da lei aperta, cioè alla Chiesa universale. Ma la carità non si ferma, come dicevamo, nell' uomo, ma termina in Dio; chè ella ama gli uomini o perchè partecipano della divina natura, o perchè ne possono partecipare. Onde come Iddio, maestro del mondo, è la Verità, e questa, nel suo movimento comunicativo agli uomini, termina alla Verità, di maniera che ella è il principio e ad un tempo il termine del divino insegnamento, che in un circolo non già vizioso, ma potente e vitale incessantemente si volge e dimora; così Iddio, Spirito di verità, è la Carità, la quale comunicandosi agli uomini ritorna continuamente in sè stessa, di maniera che, secondo l' osservazione di S. Agostino, si ama in fine lo stesso amore (1), e tutt' è amore, Dio Amore il principio, e Dio Amore il fine. E così disvelato, ed anzi comunicato all' uomo il fine de' beni , furono all' umanità assicurate quelle due cose supreme, ch' ella da sè va sempre, a tastone e nelle tenebre, ricercando, cioè la compiuta virtù e la beata vita . Perocchè quella maniera di vivere e d' operare che si limita, che si ferma per via, che non intende nel fine assoluto di tutte le cose, Iddio, può bene dimostrare in sè stessa qualche similitudine o piuttosto analogia colla virtù, a cui è avviata, e questa similitudine o analogia o avviamento, può esser preso dagli uomini in fallo per la virtù, ma essere la virtù, egli non può, « « nè, siccome dice S. Agostino, è vera sapienza quella, che nelle stesse cose da lei vedute con prudenza, operate con fortezza, raffrenate con temperanza, distribuite con giustizia, non indirizza la sua intenzione a quel fine, nel quale Iddio sarà tutto in tutti, con eternità certa, e con pace perfetta »(2). » Nella quale virtù completa l' uomo trova già su questa terra, in cui tutto è incipiente, nulla consumato, in cui la verità sussistente è percepita come un enigma, in cui la carità è operosa come un esercizio e uno sforzo, trova, dico, su questa terra la vita beata , ravvolta certo in fra quei veli della verità, e in fra quei patimenti della carità, ma pure verissima; chè l' uomo posto in tale condizione dichiara sè a se medesimo contento, e lo dichiara con ogni sincerità. Egli sa di possedere l' infinito, e nella volontà di lui, di cui sente l' infinita amabilità e maestà, come in luogo sicurissimo riposa, e confida d' una speranza, che non può confonderlo: chè anzi egli, educato da Dio medesimo alla generosità de' sentimenti, non si risolve tampoco di preferire l' eterno godere al temporaneo meritare, e o contrabilancia il valore di questi due egualmente infiniti tesori, come una femminella diceva: « o patire o morire », e lo stesso Apostolo mostra esitar nel dubbio, quale de' due gli deva esser più caro (3); ovvero antepone il merito alla stessa visione, come dicea un' altra femminella: « non morire, ma patire », e come il medesimo Apostolo Paolo in un altro luogo: « « Io desideravo di essere anatema da Cristo » (cioè separato dalla vista di lui) «pel bene de' miei fratelli »(1). » Ma se nel tempo della scuola, della palestra, del merito, basta a rendere felice l' umana vita « « quella speranza, » per usar le parole di S. Agostino, «della contemplazione di Dio, la quale ha pur seco dilettevole e certa intelligenza della verità » (2): » cessato il corso del tempo, la verità sussistente, che or è nell' uomo come principio , manifestandosi anche come termine , apre a lui davanti ed offre tutti i tesori eterni, che nella profondità dell' essere reale si nascondono, e così Cristo, secondo la frase ammirabile della Scrittura, restituisce il Regno al Padre già svelato agli uomini (3); e la Carità che alla Verità, da cui è spirata, s' accompagna e si proporziona, rompendo, per così dire, la fornace che comprimea le sue fiamme, innalza ed espande il corno dell' incendio che non consuma, ed avventandosi a tutto l' Essere discoperto, fa che l' uomo di lui viva, quasi d' una vita di fuoco divino ed immortale. La promessa, come chiaramente apparisce, è degna del Maestro, ella è consentanea alla sublimità della scuola: tutto s' attiene, se il maestro è Dio, dunque egli dovea essere tutt' insieme e l' oggetto della dottrina, la verità, e il fonte e l' oggetto della carità, e finalmente anche l' eterno oggetto della beatitudine: qualunque altra scienza, fuori di questa, sarebbe stata inferiore a un tale maestro e a una tale scuola, come qualunque altro fine del mondo sarebbe stato inferiore alla grandezza del Creatore. S. Agostino osserva che v' ha certe cose, l' aver le quali non è altro che il conoscerle; e queste non possono esser sottratte dagli uomini al nostro amore (1). Ma in pari tempo alcune di esse non possano esser conosciute a pieno, e però nè tampoco avute, da chi non ne fruisce, e la fruizione è un atto d' amore; non possono dunque essere avute se non sono conosciute, nè conosciute se non sono amate e godute. Il bene è appunto in tali condizioni: [...OMISSIS...] Dalla qual dottrina applicata alla beata vita si conferma quello che noi dicevamo, cioè: 1 Che nella cognizione della verità s' acchiude la carità , perchè quella essendo un bene, non può essere a pieno conosciuta, se non s' ami e fruisca, e viceversa nella carità s' acchiude necessariamente la cognizione della verità , perchè avere quell' oggetto amabile è un medesimo che conoscerlo. Il che non involge punto alcun vizio di circolo, ma bensì la necessità che verità e carità inabitino, quasi direi, l' una nell' altra, acciocchè possano reciprocamente comunicarsi e completarsi. 2 Che quelle due parole, a cui si riduce tutta la scuola di Cristo, Verità e Carità , non solo contengono la sapienza dell' uomo nella presente vita, ma altresì la beatitudine della futura: di maniera che questo riceve il discepolo da una tale scuola, d' avere in sè una sapienza, che, dopo averlo appagato in mezzo alle sofferenze presenti, e datogli una somma dignità e una somma pace in mezzo alle lotte che intorno a lui s' agitano o dalla natura in perpetui e fatali attriti, o dall' umanità in incessanti e volontari dissidŒ, si rivela colla morte temporale, e si cangia in eterna beatitudine. Laonde siccome il precetto del divino Maestro: « « Amerai il Signore Dio tuo in tutto il cuor tuo, e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua »(3) » non è solamente un documento di giustizia, ma ancora un avviso di prudenza dato all' uomo, acciocchè egli conosca dove possa rinvenire quella vita di eterna beatitudine, che è l' ultimo de' suoi voti e la somma de' suoi bisogni, e ciò perchè nella perfetta carità si rinviene la compiuta verità; così, simigliantemente, la stessa vita beata gli è mostrata, e quasi a dito indicata dallo stesso divino Maestro, nella perfetta cognizione della verità, la quale non può esser perfetta, se l' uomo ne ignori quella parte che la sola carità gli rivela, avendo egli favellato così: « « Ora questa è la vita eterna, che conoscano te, solo Dio vero, e colui che tu hai mandato, GESU` Cristo »(1). » Riassumendo dunque quello che per noi fu detto fin qui, noi abbiamo distinto la Filosofia come scienza dalla Sapienza ; abbiamo detto, che quella è puramente cognizione, e cognizione sotto la forma speciale di scienza , la qual forma è l' opera della libera riflessione: questa all' opposto risulta da due elementi, della cognizione e della virtù , che traduce la cognizione in azione reale e morale. Abbiam fatto vedere, che come la Filosofia ha per suo oggetto l' intera cognizione che nell' ultime ragioni delle cose si racchiude, così pure quella cognizione che costituisce il primo elemento della sapienza (qualunque forma ella si abbia) non è l' una o l' altra cognizione particolare, ma la cognizione della verità nella sua interezza ed universalità, benchè ella possa trovarsi nell' uomo più o meno ravvolta e quasi in germe, e più o meno svolta ed esplicata: ma che come all' esercizio della virtù, che è il secondo elemento della sapienza, si richiede l' uso della libertà umana, così alla cognizione a cui essa virtù s' appoggia, si richiede sempre qualche grado di riflessivo sviluppamento. Abbiamo veduto ancora, che la cognizione che serve di base alla sapienza, non essendo legata ad alcuna forma, e avendovi negli uomini una cognizione anteriore alla filosofia, e una cognizione scientifica, che è la filosofia stessa, forz' è che v' abbia una Sapienza anteriore alla Filosofia, che può esser posseduta da tutti gli uomini, quantunque illetterati; ed una Sapienza che accompagna la Filosofia, propria de' filosofi che alla verità conosciuta accordano la maniera del vivere e dell' operare, sapienza della prima più luminosa e più sviluppata. Ma dopo di tutto ciò, abbiamo osservato, quanto la cognizione naturale della verità, specialmente quella parte che riguardando gli ultimi destini dell' uomo ha un' importanza unica e incomparabile, rimangasi limitata, oscura, incerta, fallace, senza autorità di persuadere, e però sempre controversa; e come quindi essa non possa collocare un solido e sufficiente fondamento alla morale virtù: indi la necessaria imperfezione dell' umana sapienza. Abbiamo intese le voci della natura e della filosofia, che prima di Cristo, per bocca di Platone, domandava che venisse Dio stesso a disciogliere gli enimmi, da cui l' uomo, anche il più dotto, vedevasi circondato e confuso, e ad ammaestrare con certezza tutti i mortali sulle più importanti e necessarie questioni, disperati di trovarne mai il vero ed il certo, se non dalla bocca di un tal maestro. E dicemmo che Iddio, il quale avea già troppo innanzi veduto il bisogno, udito il voto della sua creatura, si degnò discendere in forma di maestro nel mezzo degli uomini, uomo anch' egli. Fece assai più di tutto quello che l' uomo avea saputo bramare o concepire: non operò secondo la misura dell' uomo, ma secondo la sublime via a lui tracciata da' suoi infiniti ed ininvestigabili attributi. In tutto quello che fece, vinse l' umana previsione coll' opera, col modo, coll' effetto: non si contentò di comunicare all' uomo la scienza , s' incarnò egli medesimo, eterna sapienza , vinse l' umana perversità e l' umana limitazione, che impediva all' uomo la compiuta sapienza: la vinse con quell' atto appunto di sapienza, col quale si lasciò uccidere, e col quale redense il genere umano, e lo incorporò seco, gli diede per vivere della sua propria vita, e per luce della sua propria luce: invitando gli uomini tutti al gran banchetto da lui loro imbandito di nuova ed inescogitabil sapienza, e pascendo quanti tennero il suo generosissimo invito di se medesimo. Platone, come abbiamo veduto, osservava, che chi ama una data cosa, l' ama tutta e dovunque ella sia, e se n' esclude dal suo amore una parte o l' ama in un luogo e non in un altro, non dice più il vero quando dice d' amarla. Onde anche la sapienza o si ama in ogni sua parte e dovunque si ricerca, o non è vero che s' ami. Che converrà dire di coloro, i quali, senza alcun serio esame, anzi disdegnando d' applicarsi allo studio di quanto insegna il Cristianesimo, in cui milioni d' uomini in tutti i secoli asseriscono contenersi una sapienza perfetta insegnata da Dio, limitano il proprio amore e studio a quella qualsiasi natural scienza o sapienza, la quale tostochè tocca il suo più alto punto e non mentisce, si confessa povera ed impotente? Diranno costoro il vero quando si dicono filosofi nel senso d' amatori e cercatori della sapienza? Chi n' è amatore veramente, l' ama tanto più, quant' ella apre e scuopre una maggiore e più eccellente parte di sè; chi n' è vero cercatore, la cerca per tutto e dove la trova, l' abbraccia; ma chi l' ama solo a condizione d' attignerla ad un torbido rigagnolo, e l' odia poi o non la cura nel limpidissimo e copiosissimo suo fonte, costui nè la cerca veramente, nè l' ama. Che se fu lodata la sentenza di Bione, il quale paragonava coloro che, postergata la Filosofia, s' applicavano all' altre scienze, agl' innamorati di Penelope, i quali repulsi dall' eroina sposavano le sue ancelle (1); dopo che nel mondo s' introdusse la Sapienza insegnata da Dio stesso tanto più eccellente della Filosofia, si dovette mutare la similitudine, e trovarne una nuova, riconoscendosi nella serva egiziana d' Abramo Agar il simbolo della Filosofia, e nella sua padrona Sara quello della cristiana Sapienza (2). Che se la serva insolentisce, Abramo la concede in balìa di Sara, ed anco giustamente la licenzia di casa sua. Ignobile cosa è dunque al contrario, per amor della serva a dimettere la padrona, dalla quale sola può nascere la prole della promessa. Nè dovrà mai dirsi amatore della Sapienza colui, che ama solamente quella disciplina che alla Sapienza è serva, e con questa, che spesso s' erige ed insuperbisce contro la sua padrona, adulterando, questa con gran viltà e bassezza d' animo trascura e dispregia. Questi opuscoli filosoficŒ sono stati scritti in diversi tempi e in diverse circostanze ne' momenti avanzati all' Autore dalle altre sue occupazioni. Non si può dunque esigere fra essi una rigorosa connessione, giacchè non furono lavorati sopra alcun disegno generale. Tuttavia sono essi privi al tutto d' una relazione che dia loro qualche unità? Non già; ella v' è: l' Autore non ve l' ha messa, ma ve l' ha trovata; e crede utile il farla osservare anche a' suoi leggitori. Si può dire che i primi quattro Saggi, i quali formano il primo Volume, riguardano tutti la divina Providenza, sebbene non sia ciò indicato dal loro titolo: questa almeno è l' idea dominante in essi, e quella intorno a cui si raggirano, come intorno a loro centro, tutte le altre. Nel primo Saggio si presenta l' uomo applicato al meditare, che dal vedere afflitti talora i buoni ed i pravi rallegrati, tituba quasi nella fede della divina Providenza circa la distribuzione de' beni e de' mali su questa terra: ma diffidando di se stesso, prima di passare ad una vera dubitazione, si fa ad esaminare le forze della propria intelligenza; a riconoscerne i limiti; e a considerare le strade diritte e sicure che il possono condurre alla verità in una ricerca sì spinosa e sì rilevante: le quali strade egli riconosce esser due; l' una più breve e più certa della Rivelazione; l' altra più lunga ed incerta della Ragione, la qual però rendesi luminosa e certa anch' essa, se dal lume rivelato venga irraggiata. Nel Saggio seguente l' uomo si mette in cammino per queste vie, non meno per quella della Rivelazione, che della Ragione; e discuopre, che la divina Sapienza doveva seguire nella dispensazione de' beni e de' mali terreni certe Leggi sublimi, che sfuggono al corto vedere della maggior parte degli uomini, ma che, dov' elle sono vedute, arrecano la più gran pace alla mente che prima titubava per la propria ignoranza, e temeva non forse mancasse un ordine degno di Dio nell' ampio governo del fisico e del morale universo. La Providenza comparisce nel terzo Saggio come quella che avendo educato l' umanità con un fine costante ed infinitamente sublime, e avendo a quest' unico fine tutti gli avvenimenti del mondo o sieno piccioli o sieno grandi preordinati e diretti, si è fatta esemplare, da cui ricopiar devono i pastori de' popoli, i principi delle nazioni, e tutti quelli che influiscono sull' educazione degli uomini, e che Dio chiama a parte della grande sua impresa di realizzare il sistema da lui disegnato ab eterno, e nella creazione cominciato (1). Dopo aver considerata la Providenza come l' esemplare della educazione umana, trapassa nel quarto Saggio (2) a contemplare l' opera della Providenza, cioè l' università di tutte le cose colle loro leggi e nell' immenso loro corso da quelle regolato, come il subbietto generale delle belle arti , quando queste sieno sollevate da terra mediante genŒ possenti e cristiani, e sieno chiamate a diffondere la virtù e la pace fra gli uomini, e la gloria intorno al trono dell' Altissimo. Queste belle arti riformate e battezzate per così dire anch' esse nelle acque della salute, depongono le ultime loro spoglie idolatre al piè della croce: e mutano la falsità nella verità, le passioni turbolente negli affetti celesti, l' ipocrisia nella virtù, e le favole mitologiche ne' grandi misterŒ della fede, dalla cui profonda oscurità tutte emanano le ragioni delle cose create. Egli è rivolto il quinto Saggio (1), col quale comincia il secondo Volume, e che s' intitola « Della Speranza , » a dimostrare le agitazioni del cuore umano, quando rifuggendo dalla patente luce del Cristianesimo, ritorna solitario indietro sui passi già fatti dall' uman genere, e si costituisce isolato fra nazioni pagane, s' abbandona alle loro illusioni, come alle loro abbominazioni: egli percorre tutta la serie degl' inganni; e finalmente cerca orribilmente la requie non mai trovata nell' inganno stesso, che perpetuamente rinasce e perpetuamente svanisce. Infelice! rinunziando alla verità egli avrebbe distrutto se stesso, se non dovesse sopravvivere per iscontrare un debito infinito che ha contratto colla medesima! Ma le illusioni che cominciano all' uomo quel corso che sempre più accelerando, lo precipita finalmente nel sistema omicida del rinascente inganno della Speranza, si nutrono coll' abuso delle cose esterne, ed il seguente Opuscolo si rivolge appunto ad additare i danni del lusso e della moda (2): di quel lusso nella proscrizione del quale l' Evangelio immutabile, che veniva poco fa contraddetto da una Economia politica poco avanzata, ricevette testimonianza dalla stessa scienza economica tosto che si perfezionò: testimonianza dico che conferma il detto di un uomo non parziale della religione « che il cristianesimo il quale sembra non pensare che alla felicità degli uomini nell' altra vita, fa ancora la loro felicità nella presente ». E giacchè i sofismi sul lusso cercano di sostenersi colla falsa definizione della ricchezza , nell' Opuscolo che succede l' autore parla dell' abuso di questa parola, che può servir d' esempio agli infiniti errori ingenerati dai diversi sensi, che gratuitamente si sogliono alle parole attribuire. Nè meno sono cagione d' errore le false definizioni che le inesatte classificazioni , come appare dall' ultimo Opuscolo rivolto ad additare il modo di distinguere con aggiustatezza i varŒ sistemi filosofici (1), perchè si possa parlare di essi con qualche ragione, e non formare perpetuamente di que' ragionamenti vaghi, che con un gran rombo di parole nulla significano, e riescono solo a partorire vane dispute e interminabili contrasti. E come v' ha qualche relazione naturale fra l' un Saggio e l' altro, così pure non sarà difficile scorgere in tutti uno stesso spirito, e quella formale unità che ricevono gli scritti d' un autore, sebbene d' argomenti varissimi, dall' unità indivisibile della mente, nella quale, quasi in una vasta regione dello spirito, tutte le idee si ritrovano e s' incontrano, e nello incontrarsi o sentono d' amarsi e s' uniscono, o di abborrirsi e si ripellono ed escludono scambievolmente. A me pare che i principŒ che noi abbiamo nello spirito, rassomiglino ad altrettanti centri d' attrazione, intorno a' quali s' aggirano un poco di tempo tutte le idee presentate innanzi alla nostra mente fino che si precipitano in essi e ad essi si rannodano: quelli dunque danno un moto regolare, per così dire, alle idee di qualunque maniera elle sieno, e con ciò queste idee si mettono da se stesse in qualche ordine nella mente fornita di principŒ, talora ben anco senza che l' uomo il voglia o il faccia con deliberazione, se pur esse abbiano il tempo bastevole d' essere attratte da que' centri e di finire il loro moto vorticoso unendosi ne' medesimi. Ma se questo avviene in tutti più o meno gli uomini, senza pure ch' essi se n' accorgano, molto più è necessario che ciò accada in chi non iscrive solo quanto a lui suggerisce l' animo all' istante in cui scrive, ma segue de' principŒ generali precedentemente esaminati, fermati, e resi famigliari. Nè egli sarà difficile che il leggitore scorga per questi Saggi le membra sparse del corpo di una Filosofia dall' autore seguita costantemente. Che se si chiede di che genere ella sia, parmi che si possa descrivere, non già nelle sue parti singole, ma nel suo spirito, con pochi cenni, dicendo ch' essa, in sull' orme di sant' Agostino e di san Tommaso, tutte le sue meditazioni rivolge al gran fine di far tornare indietro lo spirito umano da quella falsa strada, nella quale col peccato si mise, e per la quale, allontanandosi da Dio, centro di tutte le cose ed unità fondamentale onde tutto riceve ordine e perfezione, si divagò nella moltiplicità delle sostanze disordinate, quasi brani di un universo crollato, privi del glutine che tutti univa in un' opera sola maravigliosa. Ma chi volesse avere anche fermato con alcune parole lo stesso spirito e la forma di una simile filosofia, basterà ch' egli ritenga due vocaboli, i quali disegnano i suoi due generali caratteri, atti a farla conoscere e contraddistinguere, e questi sono UNITA`, e TOTALITA`. Nessuna filosofia può giammai pienamente conseguire l' uno di questi due caratteri senza l' altro; chè la piena unità delle cose non si può vedere se non da chi risale al loro gran tutto ; nè si abbraccia giammai il tutto , se non si sono concepiti ancora i più intimi cioè gli spirituali legami delle cose, che dall' immenso loro numero ne fanno riuscire mirabilmente una sola. Ma se pure v' avesse una filosofia a cui convenir paresse uno solo di questi due caratteri, non sarebb' ella ancora tale d' affidarsi al suo lume interamente; giacchè l' unità quando non abbraccia in se stessa le cose tutte, non è che una limitazione arbitraria, un timido ristringimento, una povertà di sapere. Ma dov' anco una filosofia aspiri a comprendere in se stessa tutte le cose, ella non sarà più atta per questo a produrre buon frutto, se le considera staccate dalla unità , ma solo varrà a stancare inutilmente l' umana ragione con un travaglio che la vince senza fortificarla, e che l' annoia senza istruirla. Le cose fisiche si raggiungono alle morali, ed è dall' osservazione di noi stessi , che siamo scorti alla filosofia professata dall' autore. L' uomo non ha che a dare uno sguardo sopra se stesso in un istante di calma dalle passioni, per riconoscere la propria debolezza e la propria naturale dipendenza da un altro essere fuori di lui. Così l' occhio se potesse riflettere sopra di se conoscerebbe d' avere una dipendenza naturale dalla luce, giacchè solo colla luce può fare l' atto pel quale egli fu ottimamente costruito. Come questa dipendenza, che l' uomo può conoscere in sè con tanta facilità, lo conduce a conghietturare almeno l' esistenza di quell' essere da cui essenzialmente dipende; così la propria debolezza ed insufficienza, senza quest' essere, lo conduce a riconoscere, che tutto ciò che di grande e di felice egli può desiderare, si riduce appunto al desiderio che quest' essere esista. Finalmente non saprei meglio accennare la dipendenza dell' uomo da altri esseri, che colle parole d' uno scrittore recente, che così si esprime: [...OMISSIS...] Come tale filosofia è l' interprete della natura, così è pure l' interprete dei voti del cuore umano. Ella medita da una parte di unire gli uomini al Creatore, e da un' altra di unirli fra loro. Se colla prima sua cura si fa ministra di pace e di felicità ad ogni individuo; la seconda sua cura è di spargere l' amore fra gli uomini; un amore pieno e profondo; un amore universale e permanente, perchè ha per guida la verità, e per fine la virtù. L' amore che non nasce dalla verità delle cose non è che parziale, e finisce coll' odio; e quello che non mira di condurre gli uomini alla virtù non è che momentaneo. Solo dunque quella filosofia che abbia per caratteri l' unità e la totalità delle cose è la madre di una vera benevolenza, perchè que' due caratteri sono la virtù e la verità! Parve all' autore che una tale teoria fosse quella dell' Evangelio, e che la pratica della medesima fosse l' opera della divina Providenza tendente a far di tutti gli uomini un cuor solo, ed un' anima sola; e di tutta la terra un solo ovile con un solo pastore. Dopo di ciò non sarà maraviglia se l' autore con quella sincerità e con quella gioia che all' uomo cristiano apporta la coscienza d' appartenere alla Chiesa universale che diverrà sempre più quest' ovile, e d' essere sottomesso al suo capo che diverrà vie più questo pastore, sottoponga quanto ha scritto in quest' opera ed in tutte quelle che ha precedentemente pubblicate, al giudicio supremo della santa romana Chiesa. Egli gode di ripetere ciò che altra volta ha stampato « ch' egli non riconosce altra gloria più bella che di professarsi a questa gran madre figliuolo ubbidiente e devoto; e che non credendo di potersi a pieno assicurare del proprio giudizio individuale, revoca già e condanna precedentemente quanto mai fosse per riprovare nella medesima il Sommo Pontefice, il maestro ed il giudice inappellabile costituito da Gesù Cristo, acciocchè tutti gli uomini sulla terra possano con ogni sicurezza ed in qualunque tempo distinguere nella Fede la verità dall' errore, e nella vita il bene dal male. » Questa egli crede che sia la tessera della grande fratellanza de' battezzati. Guai a coloro che seminando l' odio fra gli uomini, raccolgono la discordia e la distruzione! che ricusano di far parte con quelli, che sentendosi nati all' amore, fabbricano la casa comune in sulla pietra, e vi si riposano nella pace e nella unità! Nel Volume presente si contengono due Opuscoli sopra i promessi. Essi non prendono a trattare direttamente nessun nuovo punto di filosofia, ma sono più tosto indirizzati a sgombrare la via dagli ostacoli che si frappongono agli avanzamenti della vera filosofia. Uno di questi ostacoli, e non certo il meno dannoso, è la disacconcia maniera colla quale gli uomini dedicati allo studio talora comunicano insieme i pensieri e le diverse loro opinioni. Questa maniera vorrebbe pur essere serena e tranquilla, quale è necessario di conservare la mente e l' animo, acciocchè sieno idonei alla verità; ma in quella vece è bene spesso commossa, azzuffata e turbolenta; e in molte scritture che si pubblicano presso di noi di letterarie controversie, egli par di vedere anzi le idee sollevate in tumulto a difesa dello scrittore o a rovina dell' avversario, che lo scrittore stesso sorto alla propugnazione delle idee salutari e della verità. E a tor via un vizio così nocevole ai progressi del vero, a torlo via massimamente dalla italiana letteratura, che dovrebb' essere essenzialmente sincera, e gentile, tende uno dei due Opuscoli aggiunti, intitolato: « Galateo de' Letterati . » L' altro, che ha per titolo: « Breve esposizione della filosofia di Melchiorre Gioja (1), » procaccia di mostrare in tutta la sua nudità ed abbiezione la filosofia di Elvezio riprodotta sgraziatamente in veste italiana da tale, che se avesse, in vece di copiar servilmente il male dagli stranieri, ricercata liberamente col suo ingegno la verità, non avrebbe giammai prescelto d' estinguere, quant' era da lui, nell' uomo l' intelligenza riducendola alla sensazione, e la morale rivocandola tutta al piacere. Come tutto ciò che può render nobile la filosofia teoretica, si è la distinzione dell' idea dalla sensazione; così non v' ha nulla nella filosofia morale di elevato e di sublime, che non discenda dalla distinzione fondamentale fra una legge che obbliga, ed una semplice inclinazione che alletta. Se non v' ha nulla nell' umano intelletto che differisca essenzialmente dalla sensazione, non v' ha nè pur nulla che costituisca una differenza essenziale dell' uomo da' bruti; e se non v' ha altra legge morale che l' inclinazione a ciò che è piacevole, è tolto via con questo ogni diritto , e non esiste che un fatto . Una tale filosofia distrugge dunque l' umanità , e non lascia per oggetto della filosofica investigazione che l' animale: ella è dunque falsa, perchè manca di uno de' due caratteri che distinguono la vera filosofia, cioè di quello della TOTALITA`. Ma il carattere della TOTALITA`, com' abbiamo osservato, è congiunto essenzialmente coll' altro della UNITA`; e non può avervi nè pur questo in una dottrina filosofica che si trovi priva di quello. Perciò una materiale filosofia non può congiungere le sue parti ad unità, appunto perchè ciò che rigetta dello scibile umano, ciò che ella non vede, sono « i più intimi, cioè, gli spirituali legami delle cose, che dall' immenso loro numero ne fanno riuscire mirabilmente una sola. » In fatti, riducendo essa alla sensazione corporea tutto ciò che è nello spirito umano, non le resta ad oggetto del suo sapere (benchè, a parlare con coerenza, questo stesso sarebbe impossibile), che la materia, o, per meglio dire, i puri accidenti della materia: e la materia è subbietto di divisione indefinita, e non può somministrare alla mente alcuna nozione di vera unità: gli accidenti perdono anche quella unità che aver potrebbero, ove vengano divisi dal subbietto nel quale esistono, o, per parlare più accuratamente, del quale formano il modo d' esistere (1). Solo lo spirito è il fonte della unità; e solo le essenze che allo spirito risplendono, sono quei legami intimi e spirituali che unizzano, per così dire, le cose, le essenze ond' aver possiamo un subbietto unico, indivisibile, e onde la materia stessa, che di natura sua indefinitamente si moltiplica e sperde, veste una forma semplice e costante, e rendesi idonea a farsi oggetto de' nostri intellettuali concetti e de' nostri ragionamenti. Quindi nella filosofia della sensazione (1) una contraddizione interna ed una pugna continua con se medesima; poichè mentre l' intelletto non può veder nulla se non semplificato nella unità, il filosofo della sensazione all' incontro fa tutti gli sforzi, col suo intelletto medesimo, a persuadervi che non esiste cosa alcuna che sia veramente semplice ed una, s' assottiglia per dimostrarvi di non veder ciò ch' egli vede, e per riuscire a sciogliervi le idee astratte in altrettante collezioni d' individui , e a spezzarvi le idee d' individui in replicate sensazioni . Nè la parte morale della filosofia che tocchiamo, è meno priva de' due caratteri che contraddistinguono una dottrina vera e accomodata a' bisogni della umanità: perocchè essa non può aver quello della TOTALITA` cominciando da una esclusione , cioè escludendo fino la vera idea della obbligazione, e non può aver quello della UNITA` stabilendo una regola della vita variabile, siccom' è il piacere, a seconda de' tempi, de' luoghi, delle abitudini e di accidenti innumerevoli, in una parola de' capricci e degli appetiti umani. E pur sembrerebbe che una filosofia, acciocchè dovesse essere dichiarata falsa e rigettata, bastasse l' averla dimostrata priva di due caratteri essenziali così patenti; e non rimanesse più dubbio in sul danno di lei, dopo aver conosciuto ch' essa da un lato è parziale , cioè tendente ad escludere una parte dell' umano sapere, e conduce all' idiotismo , e fino alla distruzione delle cose , se l' esistenza di queste fosse all' umana ragione abbandonata; e che dall' altro è priva essenzialmente di unità , giacchè non lascia che il senso e distrugge la mente , ed « « è solo colla mente, » come dice S. Agostino, «che si percepisce l' unità »(2). » Similmente pareva, che io non avessi dovuto trovare contraddizione affermando che una vera filosofia doveva essere imparziale , doveva amar tutto e odiar nulla , doveva abbracciare, quanto era da sè, in se medesima tutti gli enti ch' ella potesse conoscere, e tutte le idee che trovasse vere, senza prevenzioni e senza avversioni; e che quando non avesse rifiutato nulla della verità, allora essa sarebbe penetrata fino ne' più intimi e spirituali vincoli delle cose, e mediante questi sarebbe salita ad una sublime unità, per la quale solo le cose sono possibili, giacchè, per citar di nuovo uno de' due lumi che ho segnato per mia guida, « « essere non è altra cosa che essere uno »(1). » Ma non piacque altrui che io predicassi questa dottrina, che è la dottrina dell' amore ; e che altamente, quanto io sapevo, gridassi, che il bisogno presente ed urgente in questo miserabile stato della umanità, era quello di cooperare perchè « « si conducesse l' uomo ad assomigliare il suo spirito all' ordine delle cose fuori di lui, e non ostinarsi a tentar di conformar le cose fuori di lui alle casuali affezioni dello spirito suo »(2) » Nel che io non trovo d' avere peccato, se non forse in una cosa, che in vece di dire la filosofia fornita de' due caratteri summentovati esser quella che io avea tolto a seguire, avrei potuto dire assai meglio, esser quella a cui tende ed anela tutto il secolo nostro, che sembra affaticato e contendente a tornare indietro dalla falsa strada, per la quale correva abbandonato il secolo precedente, e fuggiva, quasi direi, dalla eccellenza della umana natura per rannicchiarsi e racchiudersi tutto nel senso del corpo « « che ignora Iddio »(3). » Perocchè a quelle sentenze che io scriveva nel primo Volume degli Opuscoli, e che provenivano dal desiderio, sebben fornito di poco potere, d' una universale ed immobil sapienza, concordavano i sentimenti di tutti i buoni; tocchi intimamente da tanti mali, e pensosi sui grandi bisogni della umanità. Io predicava TOTALITA` ed UNITA` nell' « Educazione: » e mentre io affermava trovarsi un' educazione fornita di tali caratteri risalendo al modello che Iddio ci presentava nella sua Providenza, la quale non era altro finalmente che una educazione data all' intera umanità (4); altrove assumevasi il concetto medesimo per farlo servire di base appunto ad un' opera rivolta alla riforma della educazione, opera che in Francia si coronava, ed in essa scrivevasi: « « L' opera del perfezionamento consiste per l' uomo nell' imitare il piano della Providenza nel complesso della creazione, e nel compirlo in se medesimo »(1). » Io riprovavo la dottrina de' sofisti, che limitava la coltura umana alle relazioni dell' uomo colla società (2), e lo aggravava d' un fardello di cognizioni positive tanto più pesante, quant' erano staccate fra loro; nè queste si pregiavano nell' armonia che dovea risultare dal lor complesso, ma ciascuna a parte, e per se medesima; e non era io solo che così pensavo, ma altrove pure si riconosceva il medesimo vero; chè forza a conoscerlo l' esperienza di un decadimento precipitoso, sofferto dall' umanità sotto l' educazione materiale de' sofisti, cioè sotto un' educazione parziale e priva di scopo; e così si diceva [...OMISSIS...] Io volevo TOTALITA` ed UNITA` nella enciclopedia delle scienze; e in vece d' un immenso campo sparso di scientifiche ruine, dicevo conforme allo spirito del Cristianesimo il pensiero di Bacone, che mirando nell' opera della divina Providenza, scrivea dell' unione delle scienze: « « Noi meditiamo di fondare nell' intelletto umano un sacro Tempio, il quale rappresenti ed esprima il Mondo »(5). » Questo che io dicevo, e il lamento che io facevo contro a' sofisti de' nostri tempi, i quali ostentando una falsa modestia (1), affermavano che l' uomo non può conoscere quegl' « intimi e spirituali vincoli delle cose », da' quali solo viene alla scienza una certa TOTALITA` ed UNITA`, e senza i quali l' uomo non si appaga della verità, ma cerca di diffondersi nella finzione e fino nella distruzione, è il fatto che si riconosce e si deplora; e anche fuori d' Italia si descrivono gli sforzi de' sofisti per impiccolire la verità. [...OMISSIS...] Come questo fatto non è da me solo veduto, così è veduto parimente quell' altro, che, all' opposto de' sofisti che cercano impoverire il sapere umano e introdurre la guerra delle scienze fisiche a distruzione delle morali, la religione cristiana nel tempo che tutte promuove le scienze, infonde altresì in esse il principio della pace e della UNITA` (2). [...OMISSIS...] Io chiedevo oltre a ciò TOTALITA` ed UNITA` nelle belle arti, e massimamente nella poesia: a tal fine io richiamavo questa a' suoi principŒ, perchè non vagasse più a caso a intrecciar fiori che le appassiscono in mano, ma si rendesse maestra insieme e sollievo di una vita intelligente e affaticata; e trovavo, i principŒ di essa essere stati la meditazione nella divina Providenza, della quale questo universo è un gioco sublime; e questo mio voto, questo mio sentimento si ritrovava poco fa vero, e si ripeteva presso di noi, così favellandosi del padre della greca poesia: [...OMISSIS...] Il poeta e l' artista, che s' innalza alla contemplazione della Providenza nelle opere della natura o ne' fatti degli uomini che egli esprime, in pari tempo ch' egli sublima i suoi concetti, perchè raggiunge la parte col TUTTO (3) e non resta nulla di piccolo o di lieve momento a lui che considera anche ciò che è piccolo per se stesso in una necessaria relazione con ciò che è grande; raccoglie ancora ogni moltiplice varietà in un ordine, in UNA cosa sola; conciossiachè egli ravvisa in checchè avvenga ed in checchè esista, l' opera di un solo autore, un solo disegno, una sola mente immensamente benefica, savia e potente. L' unità trovasi nell' uomo della natura: questi non è ancora diviso e sparso in infiniti oggetti e relazioni parziali; e l' ordine delle sue potenze, che conserva in se medesimo, lo rende atto a sentir l' ordine delle cose esteriori, ed a sollevarsi immediatamente e quasi d' un semplice volo alla prima causa: ma quest' uomo, in uno stato quasi individuale, è abbandonato a se stesso, e soggetto alle illusioni sensibili; dietro a quelle poi si spezza, si moltiplica, si disordina: indi il severo senno ne' primi artisti, e il progresso d' una crescente mollezza ne' posteriori (1). Ma intanto che l' individuo si corrompe, e che la poesia e le arti del bello da un grave carattere e da una elevatezza onde abbracciano l' universalità delle cose, discendono ad affezioni più singolari e arbitrarie, a sensi più minuti e più attenuati (2); i progressi più lenti della società umana (3), ma più costanti, riparano incessantemente alla corruzione individuale, e mentre questa ha percorso forse più volte il suo intero periodo, quella d' un passo uguale procede, senza ritorno, senza che niente valga a metterle intoppo, là dove la guida, sarei per dire, dall' alto cielo un infallibile auriga, cioè ad una meta ch' egli le ha fermato seco medesimo, e che non manifesta ai mortali se non coll' evento (1). Si trovano dunque due contrarŒ andamenti nelle belle arti, rappresentatrici dello stato dell' umanità: l' andamento dell' individuo inclinato a scadere dal totale al parziale, e l' andamento della società che continuamente si estende e si ammigliora per opera della Providenza, e mira a rialzar gl' individui nuovamente dal parziale al totale. Quindi ciò che v' ha di integro e di sapiente in Omero, è dovuto all' individuo della natura: e ciò che v' ha di spirituale e di puro in Virgilio, è dovuto ai progressi della società (2). La spiritualità di Virgilio è l' estremo che toccò giammai la società nel Paganesimo, ma è infinitamente lontana da quella a cui tende la società Cristiana: questa è essenzialmente spirituale e perciò essenzialmente universale, mentre quella non potea che manifestare una tendenza a questa, un desiderio dell' umana natura, un inesplicato bisogno. Perciò quando io dicevo, che le arti e la letteratura dovevano anch' esse ne' nostri tempi vestire quella grandezza e quella spiritualità che rende sì magnifica la società de' credenti (3); io non pronunziava una sentenza mia particolare, non facevo che dichiarare ciò che conviene al mio tempo, che essere l' interprete del mio secolo, il quale anche meglio de' precedenti pare che senta intimamente come il governo del Cristianesimo è una cosa stessa col governo che fa dell' Universo la divina Providenza. E se Virgilio, per esser caro alla maggiore società che fosse fino a quel tempo nel mondo stata, e anche ad una migliore, si partiva, quanto poteva il più, ne' suoi versi, da ciò che è basso e corporeo, e « cercava i più intimi cioè gli spirituali legami delle cose »; noi vediamo che oggidì il sentimento umano via più sublime procede, e dimanda una purezza ed una estensione maggiore: e gli uomini non si appagano più tanto del mondo sensibile, ma esso pare che sia raffreddato al loro senso; e per vagheggiare una felicità, devono uscir co' pensieri dalla terra e dalle sfere degli astri, e cercarla nell' interminabile, nell' eterno, nell' assoluto, in quella UNITA` nella quale la TOTALITA` si contiene. La felicità più spirituale che Virgilio potè descrivere sollevandosi su tutte le ignoranze e le cupidigie umane, fu una quiete sicura, un' abbondanza di sostanze, una fuga dalla vita cittadina per riposare fra i greggi e in mezzo ai campi, ove egli diceva avere Giustizia impresso i suoi estremi vestigi quando abbandonava la terra: [...OMISSIS...] Ma inefficaci a soddisfare l' animo dei presenti uomini sono tali beni, e tali amenità della natura fisica: che dico l' animo? la fantasia medesima di questi non ne è saziata: ella stessa aspira a qualche cosa di morale, che la raggiunga ad un mondo invisibile, il quale contenga la spiegazione e il compimento del visibile. La spiritualità della poesia cristiana, dirò anche della poesia del secolo nostro, può sentirsi in questi versi, paragonandoli a quelli soprarrecati di Virgilio: [...OMISSIS...] Egli è quest' alienazione dalla natura materiale, o almeno questo bisogno di avvivar tutto ciò che è corporeo con legami che lo raggiungano a ciò che è spirituale; è quest' ambizione, direi quasi, di mostrarsi alto da terra, che sembra dover caratterizzare il secolo nel quale già siamo avviati, e che lo diparte dal precedente che ha fatto tutti gli sforzi per rendersi materiale, e non ha potuto. Egli non ha potuto che apparir tale; e perchè ogni apparenza è breve, bastò qualche lustro, acciocchè il mondo materiale ed incredulo, si ritrovasse, maravigliando di se medesimo, e spirituale di nuovo e cristiano. [...OMISSIS...] Quando il poeta o l' artista mira la natura e la storia come opera della Provvidenza, allora gli si dissipano innanzi tutte le irregolarità e le deformità che a primo scontro presenta la realtà delle cose. E` solamente considerando le parti nel tutto , che quelle ricevono un ordine ed una bellezza: indi come io predicavo il bisogno della VERITA` nelle arti cristiane, così additavo la via di trovare in essa una perfetta BELLEZZA: e affermavo, gli uomini non aver bisogno d' inventarne una artificiale e falsa, se non quando non sono ancora atti a vedere la reale e la vera nelle opere del Creatore (2). Ma sono io il solo, il primo a proclamare la verità nelle arti, o non è essa una voce fortissima, universale? non è questo il più manifesto bisogno del tempo così insaziabile di udire fatti, di leggere storie? e nel quale si vuole sommettere fino il Romanzo , opera essenzialmente menzognera, alla verità? e non si finirà forse anche coll' escluderlo dalla letteratura interamente? Non voglio dire che non v' abbia alcuno individuo nel nostro tempo, che a questi veri pur faccia mal viso: tutti quelli che si angustiano nelle cose particolari, senza allargarsi a considerar queste con uno sguardo universale, devono rinvenirle povere, a tale da rendere con esse basso lo stile; non possono che lamentarsi « della trista e fredda realtà delle cose (3), » e correre a racconsolarsi in vane creature della propria fantasia; ed uno di questi, un' anima ardente, che sentiva pure il bisogno di ampiezza, ma non avea trovata la via che il rallargasse nella verità, cercava di associare a questa la finzione, sperando di renderla, con tale giunta, più ampia e più bella; e così, non ha molto, scriveva: [...OMISSIS...] Dico che questa non è voce della presente società, ma voce di un individuo che abbandona i suoi contemporanei per retrogredire fra gli adoratori degl' idoli, senza che abbia però forza di strascinar seco gli uomini del suo tempo. Questi sono v“lti indeclinabilmente all' unità primitiva: l' analisi non parte che da una sintesi precedente; e mentre sembra da questa allontanarsi fino che non è ancora perfetta, a quella si avvicina più che acquista di perfezione, ed in quella ritorna e termina intieramente quando alla sua piena perfezione è pervenuta. Quindi l' arte dell' educazione quanto si farà più adulta, tanto più agognerà di ricondur l' uomo incivilito a que' pochi elementi che pose in esso Iddio con una prima rivelazione, quasi semi di un grande sviluppamento: allora le infinite suddivisioni delle scienze racquisteranno quei vincoli già spezzati con esse, che le ritornino ad una scienza unica, a quella unità di sapere che tanto era cara ai primi sapienti (3): e le arti del bello, queste lingue degli affetti, tenderanno via più ad un amore compiuto, da nessun odio limitato, ad un amore degno dell' uomo perchè figliuolo della verità, e che si sente profondo nei primi poeti (1). Finalmente io dicevo che l' UNITA` delle idee conduce all' UNIONE delle persone, e che la TOTALITA` di quelle può solo congregar queste in una SOCIETA` UNIVERSALE: che se la formazione di tale società travalica le forze degli uomini abbandonati a se stessi, essa non è superiore alle forze di Dio: che onde vien la sapienza, cioè la scienza completa (2), indi viene ancora la CATTOLICA UNITA`: e che quegli potè comandare l' AMORE DEL PROSSIMO, che potè rivelare la VERITA` (3). Ma tutto questo non fui io solo a dirlo; mentre da mille parti si ripetono i veri compresi nelle seguenti non mie parole (1) [...OMISSIS...] La filosofia è la scienza delle ragioni ultime. Le ragioni ultime sono le risposte soddisfacenti che l' uomo dà agli ultimi perchè , coi quali la sua mente interroga se stessa. Vi ha due classi di ragioni ultime: le ragioni di tutto lo scibile, e le ragioni ultime di qualche parte speciale dello scibile. Le ragioni ultime di tutto lo scibile sono le sole veramente ultime, e però costituiscono lo scopo della filosofia generale . Le ragioni ultime di certe determinate parti dello scibile non sono ultime, se non rispetto a tali determinate parti, e costituiscono lo scopo delle filosofie speciali delle singole scienze: la filosofia delle matematiche, la filosofia della fisica, la filosofia della storia, la filosofia della politica, la filosofia dell' arte ecc.. L' uomo che si mette in cammino per investigare le ragioni ultime e soddisfare ai perchè, interrogazioni spontanee della sua mente, non può che cominciare dal riconoscere lo stato delle sue cognizioni e delle sue persuasioni, e quindi muovere all' opera di renderle compiute, a tale che soddisfacciano al bisogno dell' intelligenza, che non si appaga se non rendendosi ragione di tutto ciò che sa; se non rendendosene una ragione così evidente che non abbia bisogno di un' altra, ma ella stessa sia quella, in cui la mente trovi sua quiete. La quiete della mente di cui qui si parla non è che una quiete scientifica , una quiete ottenuta per via di scienza, la quiete che risponde al perchè, col quale interroga se stessa la mente inquisitrice. Ma non è a credersi, che la mente rivolga sempre a se stessa tali interrogazioni: molti uomini non se la fanno; o se ne fanno alcune, ma non tutte quelle che si potrebbero fare. La mente che non interroga se stessa, è quieta, e la mente che interroga se stessa fino a un certo segno e non più in là, è parimenti quieta e tranquilla; tostochè ella ha trovata la risposta a quel limitato numero d' interrogazioni, quantunque non sia pervenuta alle ragioni ultime, delle quali non ha bisogno a conseguire tranquillità. Quindi la scienza delle ragioni ultime, cioè la filosofia, non è necessaria alla quiete delle menti del maggior numero degli uomini, i quali s' appagano mediante una cognizione più limitata. Questa cognizione non ancor filosofica può essere vera e certa e quindi atta a produrre nell' uomo una ragionevolissima persuasione. Ma dato prima un uomo in possesso di persuasioni ferme e certe, senza che egli ancor senta il bisogno d' investigare le ragioni ultime di esse, può in appresso sorgere nella sua mente l' interrogazione degli ultimi perchè. Sarà egli allora inquieto, o in istato d' incertezza, fino che non ha trovate le bramate risposte? Convien qui distinguere fra il riposo della mente e il riposo dell' animo. Alla prima appartiene il ragionamento , alla seconda la persuasione . Queste sono due facoltà diverse grandemente fra loro. Il ragionamento ha qualche cosa di necessario e, per così dire, fatale; la persuasione ha molto del volontario. Laonde possono essere nell' uomo persuasioni fermissime, quantunque l' uomo non sappia darne a se stesso espressa ragione. Di più, fra le persuasioni di cui l' uomo non sa dare a se stesso ragione, ve n' hanno di cieche e di ragionevoli. Le persuasioni cieche sono così arbitrarie, che non s' appoggiano a ragione alcuna, e sono spesso erronee, ma possono anche per accidente esser vere. Le persuasioni ragionevoli, di cui l' uomo non sa dar ragione a se stesso, sono quelle che s' appoggiano ad una ragione solida, dall' uomo direttamente conosciuta e penetrata in modo che gli produce l' assenso, ma di cui egli non ha coscienza, perchè non sa rivolgere la sua riflessione sopra di essa, epperciò non sa esprimerla nè renderla o a se medesimo o agli altri, se ne lo interrogano. Manca dunque qualche cosa alla mente, al ragionamento di quest' uomo; gli manca lo sviluppo della riflessione; ma egli possiede nondimeno la verità e la ferma persuasione della verità, onde l' animo suo è quieto, e può altresì esser quieta la sua mente, se egli non dia alcuna importanza alle interrogazioni interiori di essa, ond' è come se la mente in tal caso non facesse interrogazione alcuna. Ma la mente, come tale, il ragionamento di quest' uomo considerato come ragionamento, e non in ordine alla persuasione e quiete dell' animo nè al possesso della verità e della certezza, non ha tuttavia soddisfatto a pieno a se medesimo, e in questo senso non ha trovato ancora il suo riposo. La filosofia è quella che conduce a ritrovare questo riposo scientifico della mente. Vi ha dunque una cognizione popolare che può essere sufficiente alle esigenze dell' uomo, e vi ha una cognizione filosofica che soddisfa alle esigenze del ragionamento: questa seconda è l' opera della riflessione , sviluppata fino all' invenzione delle ragioni ultime. Per arrivare a questa l' uomo parte dallo stato intellettivo in cui egli si trova. E la prima interrogazione ch' egli fa a se medesimo si è: « Io credo di conoscere molte cose, ma che cosa è questa mia cognizione? non potrei io ingannarmi? perchè mai non potrebb' essere un' illusione tutto ciò che io credo sapere? » Questa domanda lo conduce all' invenzione dell' Ideologia e della Logica , che sono scienze d' intuizione perchè hanno per loro oggetto le idee. IDEOLOGIA. - L' ideologia si propone d' investigare la natura del sapere umano; e la logica si propone di dimostrare che la natura del sapere umano è tale, che non ammette errore: di maniera che ogni errore è da cercarsi fuori della natura del sapere; l' errore non è sapere. Ecco in qual modo procede l' ideologia. Non si può conoscere la natura del sapere umano, se non si osserva tale qual è. L' osservazione adunque interna , quella che affissa l' attenzione nelle cognizioni nostre per rilevare esattamente che cosa sono, è l' istrumento dell' ideologia, è il metodo da tenersi in questa investigazione. A torto direbbesi, che, non essendosi ancor trovata la veracità dell' osservazione, ella non può esserci una scorta fedele; perocchè noi non adoperiamo a principio l' osservazione come mezzo di dimostrare, ma l' adoperiamo provvisoriamente, come mezzo di stabilire ciò che si dovrà poi dimostrare, quando il risultato dell' osservazione, assunto come una mera apparenza, ci si cangerà in vero e certo, perchè in lui stesso troveremo la prova indubitabile della sua verità e certezza, fino a non esser possibile il contrario. Osserviamo adunque attentamente le cognizioni umane. Queste sono innumerevoli. Volendo esaminarle ad una ad una, l' opera sarebbe infinita. D' altra parte noi non cerchiamo quello in cui esse differiscono l' una dall' altra, ma quello in cui esse convengono. Esse convengono nell' esser tutte cognizioni, e ciò che noi vogliamo osservare e meditare si è appunto la natura della cognizione. Egli è dunque uopo, prima di tutto, cercare ciò che abbiano tutte di comune; giacchè questo elemento comune sarà appunto l' essenza della cognizione. Ridotta e concentrata in questo punto la nostra ricerca, io vedo intanto che, per lo meno rispetto ad un numero grandissimo di cognizioni, si avvera che io non le ho se non mediante un atto, col quale io affermo qualche cosa. A ragion d' esempio, io so d' esistere, io so ch' esistono altri esseri simili a me, io so ch' esistono de' corpi estesi, larghi, lunghi e profondi. Non cerco ora se questo mio sapere m' inganni o no; io intanto so tutto questo e cerco di sapere come lo so. Ora io veggo che io non saprei che esiste un solo ente, se io non dicessi, se non avessi mai detto a me stesso, che quell' ente esiste. Sapere dunque che esiste un ente, e dire o pronunciare meco stesso che esiste, è il medesimo. La mia cognizione adunque degli enti reali non è che un' affermazione interna, un giudizio . Conosciuto questo, non mi rimane che ad analizzare un tale giudizio, ad osservarne l' intima sua costituzione: in tal modo avrò forse fatto un passo avanti nella scoperta della natura della stessa cognizione. Quando io dico meco stesso, che esiste un dato ente qualunque particolare e reale, io non intenderei me stesso, non intenderei ciò che dico, se non sapessi già che cosa è ente, che cosa è entità. La notizia dunque dell' entità in universale debb' essere in me, e precedere tutti quei giudizŒ, coi quali dico che qualche ente particolare e reale esiste. Mediante questa prima considerazione, io rilevo che altro è conoscere che cosa sia ente in universale, e altro è conoscere che esiste un ente particolare e reale. Per conoscere che esiste un ente particolare e reale, io ho bisogno di affermarlo a me stesso, come dicevo: ma per sapere semplicemente che cosa è ente, io non ho bisogno di nessuna affermazione , ma d' un altro atto dello spirito che chiamerò intuizione: questa maniera di conoscere per semplice intuizione è al tutto diversa dall' altra maniera di conoscere per affermazione. Sono due maniere di conoscere innegabili, l' una delle quali, cioè quella per intuizione, precede all' altra, cioè a quella per affermazione. Le cognizioni umane adunque si dividono in due grandi classi: cognizioni per affermazione , e cognizioni per intuizione . L' ordine di queste due classi di cognizioni risulta da ciò che è detto; le cognizioni per affermazione non si possono acquistare se non sono precedute da qualche cognizione per intuizione: queste dunque sono anteriori a quelle. Di nuovo dunque, prima di conoscere un ente particolare e reale si deve conoscere l' ente in universale. Esaminiamo la differenza che passa fra l' ente particolare e reale , e l' ente universale . Fin a tanto che io so soltanto che cosa è ente, non so ancora se un ente particolare o reale esista, ma però conosco che cosa è ente. Conoscere che cosa è ente si traduce in questa frase filosofica: conoscere l' essenza dell' ente . Coll' intuizione adunque si conosce l' essenza dell' ente . Ma se io, oltre conoscere l' essenza dell' ente, affermo anche meco stesso, e quindi so che un ente particolare esiste, che cosa so io allora più di prima? Per bene rispondere a questa domanda, debbo meditare sull' atto della mia affermazione, col quale io mi formo questa nuova cognizione, debbo perscrutare la natura e la ragione di essa. Perchè dunque affermo io che un ente esiste? che m' induce a ciò? che cosa è quest' esistere? Egli è certo, che, se non sempre, almeno molte volte, a pronunciare che un ente esiste, io son condotto da un sentimento . Così io son condotto a pronunciare che esistono i corpi esterni mosso dalle sensazioni che mi producono. Son condotto a pronunciare che esiste il mio proprio corpo dai sentimenti speciali che ho di esso. Finalmente son condotto a pronunciare che esisto io stesso pure da un intimo senso. In tutti questi casi adunque, ciò che mi fa dire che esiste un ente particolare e reale, è il sentimento; di maniera che ogni affermazione, ogni giudizio (ne' casi detti), col quale pronunzio e dico a me stesso che esiste un ente particolare e reale, si riduce a questa formola: vi è un sentimento; dunque esiste un ente . Questa formola merita di essere ben meditata ed analizzata. Intanto ella suppone che fra il sentimento e l' esistenza reale v' abbia un nesso necessario, a tal che non si possa dare sentimento senza che vi sia un ente reale: ella suppone dunque che nel sentimento si riscontri in qualche modo realizzata l' essenza dell' ente, che prima si conosceva solo in universale. Dato dunque uno spirito che prima conosca semplicemente l' essenza dell' ente senza sapere se l' ente esiste; e dato poscia che questo spirito riceva, provi, avverta un sentimento, tosto egli afferma che quell' ente di cui prima conosceva l' essenza, anche esiste. Il sentimento dunque è ciò che costituisce la realità degli enti . Ma qui nascono obbiezioni in folla. Primieramente si affaccia al pensiero, che la cognizione dell' ente che precede l' affermazione di un ente reale, riguarda un ente universale, mentre l' ente che si afferma è particolare. A questo si risponde che l' essenza dell' ente che si conosce non è punto universale, ma che la parola universale , che vi si aggiunge, altro non esprime che il modo col quale la si conosce; onde, quando si afferma che quell' essenza è realizzata, non si afferma già che sia realizzato il modo con cui quella essenza si conosce, ma che sia realizzata lei stessa. Insorgono altre difficoltà su ciò che abbiam detto, l' esistenza reale dell' essere trovarsi nel sentimento: primo perchè noi veggiamo che molti sentimenti si cangiano rimanendo identico l' ente subbietto de' medesimi: secondo, perchè i corpi esterni non hanno sentimento, e pure si affermano e si credono esistenti. Ma è da considerarsi quanto alla prima difficoltà, che il subbietto de' sentimenti che si cangiano, è un sentimento egli stesso, altramente non si conoscerebbe; o per evitare ogni discussione su di ciò, è almeno un principio senziente che si riferisce al sentimento, e che perciò da ogni sentimento non si può scompagnare. Quanto poi ai corpi esterni, non per altro si percepiscono, se non perchè agiscono nel nostro sentimento; onde anch' essi si conoscono unicamente per la relazione che hanno col sentimento, in quantochè sono principii attivi modificatori del sentimento, cadono dunque nel sentimento come agenti in esso. Ogni ente reale adunque a noi cognito per esperienza si riduce finalmente al sentimento, o al principio del sentimento, o a certe virtù che agiscono nel sentimento. Per comprendere tutto in una espressione ed evitare ogni lunga discussione, diremo, che ciò che nella percezione degli enti reali si afferma essere un ente, è sempre un' attività sentita . Or proseguiamo l' analisi dell' affermazione degli enti reali. Affermando noi dunque che l' essenza dell' ente è realizzata in un' attività sentita, noi affermiamo che esiste un ente reale. Conoscere adunque l' esistenza di un ente reale, è il medesimo che affermare una specie d' identità fra l' essenza dell' ente e l' attività che nel sentimento si manifesta. Tuttavia quest' identità non è perfetta; conciossiachè in una data attività sentita o senziente non si esaurisce l' essenza dell' ente: quindi innumerabili sentimenti, che ci fanno affermare l' esistenza di altrettanti enti reali, l' uno diverso dall' altro. Di ciascuno affermiamo che esiste, che è un ente: di ciascuno affermiamo la stessa cosa, in ciascuno riconosciamo l' essenza dell' ente. Riconoscere in ciascuno l' essenza dell' ente, è lo stesso che dire che l' essenza di ciascuno di questi enti che affermiamo, è identica coll' essenza dell' ente che conoscevamo prima: eppure sono tutti enti diversi. Dunque convien dire che, sebbene sieno diversi in altro, abbiano però qualche cosa di comune, e questa cosa di comune è l' essenza dell' ente, perocchè sono tutti enti. Si noti che in tutto ciò noi non facciamo che osservare il fatto della cognizione degli enti reali , ed analizzarlo, senza aggiungervi alcun ragionamento. Intanto, dal sapere che in tutta la realità degli enti reali che noi affermiamo, troviamo realizzata l' essenza dell' ente, possiamo meglio intendere in che senso abbiamo detto che l' essenza dell' ente è universale; è universale perchè è atta a realizzarsi in tanti enti particolari; quindi perchè con essa sola noi conosciamo tutti gli enti reali: questa universalità non è in essa, è una sua relazione cogli enti reali. Ma se gli enti che affermiamo, convengono nell' essere enti, ma poi differiscono in altre cose, queste altre cose in cui differiscono, non sono elleno altrettante entità? Certo, se non fossero entità, non sarebbero al tutto. Dunque l' essenza degli enti si realizza anche nelle differenze degli enti. Anche in queste differenze, in quel modo che sono, si scorge l' identica essenza dell' ente. Or come l' identica essenza dell' ente può riscontrarsi realizzata in tanti enti diversi? e non solo in ciò che questi enti hanno di comune, ma anche in ciò che hanno di proprio? Anche a rispondere a ciò altro non ci può aiutare che l' osservazione, la meditazione della cosa: dobbiamo anche qui vedere come la cosa è: non dobbiamo argomentare a priori com' ella possa o debba essere. Ora quest' osservazione filosofica ci dice, che ogni ente reale ed ogni differenza degli enti reali fra loro è sempre una realizzazione dell' essenza a noi conosciuta dell' ente. L' essenza dell' ente è identica, le sue realizzazioni sono molte e varie. Dunque L' essenza dell' ente ha vari gradi e modi di realizzazione; Nessuno di questi gradi e modi finiti di realizzazione esaurisce l' essenza dell' ente, sicchè ella può essere ancora realizzata in altri gradi e modi, non cerco ora se all' infinito. I gradi e modi diversi in cui si realizza l' essenza dell' ente sono limitati, perchè di questi soli parliamo, e queste limitazioni costituiscono la loro differenza. Ora queste limitazioni che cadono negli enti reali non appartengono già all' essenza dell' ente, che anzi sono non7enti. Quindi l' essenza dell' ente si trova realizzata nei vari enti in quanto sono enti, e non in quanto sono non7enti. Questa realizzazione è limitata, e in quanto è limitata cessa l' identità coll' essenza conosciuta dell' ente. L' essenza dunque dell' ente si realizza più o meno, ma in quanto si realizza, vi ha tutta (non totalmente), poichè ella è semplice e indivisibile, allo stesso modo come l' essenza del vino vi è tutta in una goccia di vino, e tutta egualmente in una gran botte. Ciò vuol dire che abbiamo bisogno di tutta l' essenza dell' ente o del vino per conoscere anche una piccola parte dell' ente reale, per esempio del vino. Dalle quali osservazioni si trae la conseguenza, che la quantità è cosa appartenente alla realizzazione dell' ente e non all' essenza dell' ente; ed è da osservarsi, che alla quantità si dee ricorrere per ispiegare le limitazioni, i modi diversi, i gradi, le differenze degli enti, il numero ecc.; cose tutte non appartenenti all' essenza dell' ente, ma alle leggi della sua realizzazione. Si dirà: Se tutte le cose si conoscono mediante l' essenza dell' ente, come poi si conoscono le accennate proprietà negative che non sono nell' essenza dell' ente? e non vi sono forse idee degli enti particolari, delle loro differenze ecc.? Rispondo, che l' essenza dell' ente è quella stessa che fa conoscere tutte le negazioni, perchè la cognizione di esse non consiste in altro, se non nel sapere che sono il contrario, sono negazioni dell' ente, e la negazione di una cosa si sa tostochè si conosce la cosa che si nega. Per altro è da notarsi, che il linguaggio indica con un segno positivo, con una parola tanto l' ente quanto la negazione dell' ente, e l' uomo dice il nulla, il limite, il modo ecc., come dice pure, l' ente. Di che avviene, che quelle cose si rappresentino alla nostra immaginazione come fossero altrettante entità, benchè non siano. Rispondo dunque, che le idee che hanno per oggetto la negazione dell' ente, altro non sono che l' idea dell' ente stesso; più l' atto di negazione che noi facciamo di esso. Quanto poi alle idee di enti particolari composti tutti di positivo e di negativo, cioè di realizzazione e di limitazione, altro esse non sono se non il rapporto fra l' ente reale (o la memoria che abbiamo di esso) e l' essenza dell' ente; di maniera che l' idea di un cavallo, a ragion d' esempio, non è altro se non l' essenza dell' ente in quanto può essere realizzata in un cavallo, l' idea di un uomo non è altro se non l' essenza dell' ente in quanto può essere realizzata in un uomo ecc.. Così il fondamento della cognizione di tutti questi esseri è sempre l' essenza dell' ente; le idee dunque degli enti particolari sono sempre l' idea dell' ente considerata in rapporto con un certo dato grado e modo di realizzazione, onde a propriamente parlare, non si dà che una idea sola, la quale alla mente nostra fa conoscere più enti particolari, e così si cangia in altrettanti concetti , diventa i concetti speciali di tutti questi enti. Ma oltre a tutto ciò, si debbono fare alcune altre considerazioni per coglier bene in che consista quest' identità imperfetta, che noi dicevamo riscontrarsi fra le entità da noi sentite, e l' essenza dell' ente da noi intuita. Dicevamo che le limitazioni non entrano in quest' identità. Or una di queste limitazioni è la contingenza delle cose finite. Quindi la contingenza non si riscontra nell' essenza dell' ente. Di che v' ha anzi sotto questo aspetto opposizione fra l' ente contingente e l' essenza dell' ente, la quale è da noi intuita come immutabile e necessaria. Di più: allorquando noi osserviamo l' identità dell' ente reale contingente coll' essenza dell' ente, noi osserviamo questa identità nella nostra percezione e cognizione, non già nell' ente diviso da essa cognizione, o percezione. Di vero, è nell' ente reale conosciuto che questa identità si trova, si forma; ed è anzi mediante la formazione di questa identità che l' attività sentita si percepisce e conosce. In fatti, fino a tanto che l' attività sentita non è identificata coll' essenza dell' ente, ella non è conosciuta, nè percepita; non è ancora un ente percettibile, un oggetto. Coll' atto dunque della percezione si aggiunge all' attività sentita qualche cosa, e così la si rende un ente percettibile, e quest' è appunto l' ente, di cui il sentimento o l' attività sentita contingente non è che un modo imperfetto, non percettibile in separato dall' ente, ma solo nell' ente oggettivo, come meglio dichiareremo più sotto parlando della percezione [92 7 94]. E sebbene in tal modo concorra la mente a costituire l' ente percepito , l' oggetto; non è men vero ciò che percepisce la mente, perchè la mente stessa sa ciò che vi aggiunge e ciò che le è dato: onde sa la cosa com' è. Da quest' analisi della cognizione nostra degli enti reali si spiega perchè gli uomini sono generalmente persuasi di non conoscere il fondo delle cose, ciò che le fa essere. La ragione di tale ignoranza si è, che nelle attività sentite questo fondo manca, e viene dato loro, per così dire, ad imprestito dalla stessa mente che le percepisce. La mente cioè suppone una radice delle cose contingenti, perchè senza di essa non le potrebbe percepire, ma non determina che cosa sia questa radice, perchè non la percepisce. Il mezzo adunque con cui noi conosciamo le cose reali è l' essenza dell' ente; e perciò l' essenza dell' ente, in quant' è mezzo di conoscere, è detta da noi essere ideale . Ma si noti bene che la parola ideale non significa l' essenza dell' ente, ma significa la dote che ha quest' essenza di farci conoscere le cose reali. Onde, quando noi affermiamo che esiste un ente reale, non affermiamo già l' idealità , non affermiamo ch' egli sia ideale, ma affermiamo che egli ha l' essenza di ente. Ma se noi conosciamo le cose reali coll' essenza, come poi conosciamo l' essenza stessa dell' ente? L' osservazione del fatto ci attesta, che la notizia dell' essenza dell' ente è data al nostro spirito prima di ogni altra cognizione; e se noi ne meditiamo la natura, troviamo di più che non può essere altrimenti, che una tale notizia non si può acquistare e formare per mezzo di alcun' altra, finalmente ch' ella è conoscibile per se stessa. E veramente il fatto ci dice, che l' uomo non comincia ad usare le facoltà del suo spirito, se non in occasione delle sensazioni esterne, e che il pensiero dell' uomo comincia dall' accorgersi che esistono de' corpi, che esiste egli stesso, che esiste qualche cosa di reale. Ora questo primo pensiero non è, come abbiam detto, se non una affermazione, è affermare un ente; il che suppone che si conosca innanzi l' essenza dell' ente [14]. Dunque l' essenza dell' ente è nota all' uomo prima di tutti gli atti del suo pensiero: dunque ella non è acquistata cogli atti del pensiero: ma è data precedentemente dall' autore della natura. Di più, supponiamo che l' uomo non sapesse che cosa è ente; egli non potrebbe mai, per quanti piaceri o dolori sentisse, dire che c' è un ente. Non potrebbe riconoscere che la sensazione suppone un ente, perocchè appunto non saprebbe che cosa sia ente: dunque non conoscerebbe nulla, e non conoscendo nulla, non avrebbe alcuna cosa nota che gli facesse la via a conoscere l' essenza dell' ente. Dunque l' essenza dell' ente non può essere conosciuta per mezzo di altra notizia, ma per se stessa: l' essenza dell' ente adunque è conoscibile per sè ed è il mezzo che fa conoscere tutte le altre cose ; ella è dunque il lume della ragione . In questo senso si dice che l' idea dell' ente è innata , e che è quella forma che dà l' intelligenza. Ma questa parola forma abbisogna di essere chiarita, perchè riceve diversi significati. La parola forma si prende a significare « ciò per cui un ente ha un atto suo proprio primitivo, che lo fa essere quello che è ». Così l' essenza dell' essere conoscibile per se stesso si dice forma dell' anima intelligente , perchè ella è ciò che dà all' anima quell' atto pel quale ella è intelligente. Ma dopo di ciò è da osservarsi che due specie di forme si possono distinguere. Ciò che dà il suo atto primitivo ed essenziale ad un essere, quanto alla nozione della mente, è cosa diversa dall' atto stesso; ma talora ciò che dà l' atto essenziale ad un essere, è parte dell' essere stesso, o si confonde collo stesso atto, rimanendo diviso dall' atto solo mentalmente e per via di astrazione; altre volte è cosa diversa realmente dall' atto, e dall' essere che viene informato. Così la forma di una cosa tagliente, per esempio di un coltello, non è che lo stesso taglio o filo del coltello, e appartiene al coltello, non è cosa da lui diversa. All' incontro la forma di un ferro rovente è il fuoco, cosa diversa dal ferro, e ogni qualvolta due enti si mettono in comunicazione, l' uno diventa la forma dell' altro, in quanto agisce ed entra nella sfera di essere dell' altro. Ora in quale dei due sensi l' essere ideale dicesi forma dell' intelligenza? Convien anche qui osservare e meditare il fatto della cosa. Attentamente osservando troveremo che l' essere ideale è forma dello spirito intelligente solo nel secondo significato e non nel primo. E veramente, sebbene noi arriviamo ad intendere che non siamo esseri intelligenti se non in virtù dell' essenza dell' essere che ci sta presente; tuttavia è impossibile che crediamo, che l' essenza dell' essere sia noi stessi, o che ella formi una parte di noi stessi. Trattasi dunque di una forma diversa da noi. Ciò che mette nell' atto d' intendere il nostro spirito è cosa grandemente da noi distinta, benchè sia in noi (sia a noi presente). Ma non basta. Anche presa la parola forma in questo significato, ella non si applica all' essere ideale, se non in un modo tutto suo proprio, in un modo tutto diverso da quello, in cui due esseri reali che esercitano fra loro reciproche azioni, come il fuoco e il ferro, si possono dire l' un forma o materia dell' altro. E` dunque ben da notarsi che il modo nel quale l' essenza dell' essere diviene forma del nostro spirito, non è punto nè poco simile a quella onde un essere reale diventa forma di un altro essere reale per via di azioni e di reazioni. L' essenza dell' essere diventa forma del nostro spirito unicamente col farsi conoscere, col rivelare la sua naturale conoscibilità; quindi dalla parte del nostro spirito non v' ha niuna reazione. Questo non fa che ricevere: il lume, la notizia che riceve, è ciò che lo rende intelligente: l' essenza dell' essere è semplice, inalterabile, immodificabile, non si può confondere o mescolare con altro: così si rivela, nè si può rivelare altramente. Lo spirito che la intuisce e l' atto dell' intuizione rimane fuori di lei. Lo spirito, intuendo lei, non intuisce se stesso. Quindi è che l' essenza dell' ente prende il nome di oggetto , che è quanto dire cosa contrapposta allo spirito intuente, al quale è riserbato il nome di soggetto . Dal che si vede che quando noi diciamo che l' essere ideale è forma dello spirito, usiamo la parola forma in un significato intieramente diverso ed opposto alle forme kantiane; perocchè le forme di Kant sono tutte soggettive, e la nostra è una forma oggettiva, e anzi oggetto per essenza. L' essenza dunque dell' essere col solo rendersi conoscibile allo spirito lo informa per modo da renderlo intelligente, ossia produce la facoltà d' intendere , perocchè ogni atto d' intendere ha sempre per oggetto l' entità. Tutto l' intendere si riduce ad intuire le essenze degli enti, e a pensare l' ente di cui si conosce l' essenza, realizzato in un dato modo, con certi limiti. L' essenza dell' ente fu da noi chiamata essere ideale : le sue realizzazioni enti reali . Se l' ente ideale si considera in relazione alle possibili sue realizzazioni, chiamasi anche ente possibile . La parola possibile non si applica all' ente come una sua propria qualità, ma unicamente per esprimere ch' egli può essere realizzato. Il che è da osservare attentamente, acciocchè forse non si creda che l' essenza dell' ente sia ella stessa una mera possibilità e nulla più. No: ella è una vera essenza, non è una possibilità di essenza; ma questa essenza può essere realizzata; se non è realizzata, è possibile la sua realizzazione: ecco ciò che significa ente possibile. Essendo poi molti gli esseri reali, e ciascuno di essi avendo un rapporto coll' ente possibile, l' ente possibile, considerato solo in rapporto coi diversi enti reali o realizzabili, diviene l' idea o per dir meglio il concetto di essi: quindi si dice che i concetti , le idee, gli enti ideali, gli enti possibili sono molti, perchè appunto sono tanti quanti sono i modi nei quali l' essenza dell' ente si può realizzare. Cerchiamo ora qual sia la relazione fra gli enti ideali e gli enti reali . Dato che io mi abbia l' ente ideale, io conosco l' essenza dell' ente, ma nulla più: non so ancora se quell' ente di cui conosco l' essenza, sia realizzato. Ciò viene a dire che io non ho ancora verun sentimento o almeno non vi rifletto, perocchè se riflettessi d' aver un sentimento, tosto conoscerei una realità. Ma rimossa da me ogni cognizione di ente reale, e supposto che io sappia solo che cosa è l' ente, senza sapere se è realizzato, l' oggetto della mia mente è forse il nulla? No certo; perocchè in tal caso la mia mente non conoscerebbe nulla, laddove pur conosce l' essenza dell' ente. Se in quel caso l' oggetto della mia mente non è il nulla, sono forse quest' oggetto io stesso? Neppure; perocchè io sono un ente reale, e la mia mente, nel caso posto, ha per oggetto solo l' ente ideale senza alcuna realizzazione; senza che io so troppo bene di non essere l' essenza dell' ente in universale; come pure so che l' essenza dell' ente è l' oggetto che intuisco , mentre io sono il soggetto intuente , e fra intuito e intuente vi ha opposizione: dunque l' uno non è l' altro. Convien dunque dire che non essendo un nulla l' essere ideale intuito dalla mente, e non essendo un ente reale vi abbia un' altra maniera di essere oltre quella della realità, e quindi è forza stabilire che i modi dell' essere sono due, il modo dell' essere ideale , e il modo dell' essere reale . Or posciachè l' uno e l' altro è un vero modo di essere, si possono applicare ad entrambi le parole esistere ed esistenza ; laonde per comodità di parlare giova riserbare al solo modo dell' essere reale le parole sussistere, sussistenza . Egli è chiaro che l' essere ideale, in relazione coll' essere reale, prende la natura di disegno, modello, esemplare, tipo, tutte le quali parole altro finalmente non significano se non mezzi di conoscere, conoscibilità dell' ente idea. Ora se gli enti reali sono limitati e contingenti, egli è chiaro che la loro realità è distinta dall' idea, la quale è immutabile e inalterabile, mentre gli enti reali possono essere e non essere. Quindi altra è la cognizione della loro essenza, altra la cognizione della loro sussistenza. Quella si ha coll' idea , questa coll' affermazione in occasione del sentimento (o di qualche segno che tenga luogo del sentimento). Ma la cognizione della sussistenza di un tal ente suppone che si conosca l' essenza dell' ente almeno in universale. Dato dunque il sentimento in un essere che non conosce che cosa è ente, il sentimento rimane cieco ed inintelligibile perchè non ha ancora ricevuta l' essenza [2.] che lo fa conoscere; l' essere che lo avesse, non affermerebbe un ente reale, perchè non potrebbe riferire il sentimento all' essenza, non direbbe a se stesso che cosa quel sentimento è. Tale è la condizion delle bestie fornite di sentimento, ma prive dell' intuizione dell' essere; perciò incapaci d' interpretare a se stesse i propri sentimenti, di completarli, di affermare, di dire a se stesse che vi sono enti reali. L' uomo all' incontro avendo la notizia dell' ente, tostochè prova i sentimenti, dice subito, che vi sono enti reali. Ma poichè il sentimento è una realità distinta dall' essere che lo fa conoscere, rimane a vedere come l' uomo possa congiungere questi due elementi dell' ente percepito. Affine d' intender ciò, convien ricorrere all' unità dell' uomo , alla semplicità dello spirito umano . Quell' io, quel principio stesso che sa che cosa è ente, è quello che ne prova in se stesso l' azione, giacchè il sentimento è un' azione dell' ente. Fin a tanto che quest' azione o questo sentimento si tiene separato dalla notizia dell' ente, esso è incognito, ma il principio semplicissimo intelligente7senziente non permette, per la sua semplicità, che il sentimento e la notizia dell' ente rimangano separati; l' uomo dunque vede l' ente operare in sè , il che è quanto dire produrre il sentimento. E` l' ente stesso identico che da una parte si manifesta all' uomo come conoscibile , dall' altra come attivo producente il sentimento. Nel che si osservi bene che tutta l' attività dell' ente si riduce alla sua entità; in questa si trova come nel suo fonte; è l' ente stesso attivo, e come tutto l' ente è conoscibile, così tutta l' attività sua in lui è conoscibile; dunque anche il sentimento, che è questa attività, è conoscibile nell' ente. Prima che l' ente operi, tale attività è conoscibile solo in potenza, perchè essa non esiste che in potenza; prima che l' ente operi in un determinato modo (producendo il sentimento), esiste in potenza il modo di tale attività, e non è determinato piuttosto un modo che un altro di essa, quindi l' attività potenziale che si conosce è indeterminata; per questo l' essere ideale si dice essere indeterminato . Taluno potrebbe qui fare la seguente obbiezione. Quando l' uomo afferma un ente, fa un giudizio. Ora per fare un giudizio si debbono conoscere i due termini del giudizio, il predicato ed il soggetto. Ma l' uno dei due termini cioè il sentimento, la realità, nel caso nostro, non si conosce. Dunque non si può fare il giudizio, che si suppone. La qual obbiezione chi ben la consideri, non può aver altra forza se non quella di negare l' appellazion di giudizio all' affermazione, colla quale si affermano, ed affermando si conoscono gli enti reali. Ora quand' anco si togliesse con ragione l' appellazione di giudizio alla detta affermazione, questo non distruggerebbe punto la teoria sopra esposta, cavata dall' osservazione; quand' anco adunque l' obbiezione si ammettesse, riman sempre fermo che sapere che un ente sussiste è un dire, un affermare dentro di sè che quell' ente sussiste, e quindi rimane egualmente ferma l' analisi fatta di questa affermazione, e le conseguenze dedottene. Tuttavia per soddisfare in tutto all' obbiettatore, esaminiamo altresì la nuova questione; se l' affermazione interiore con cui noi conosciamo la sussistenza di un ente, si possa chiamare un giudizio . Egli è certo che fino a tanto che i due elementi della detta affermazione, cioè l' essenza dell' ente e l' attività sentita , si considerano separati l' uno dall' altro, essi non presentano i due elementi necessarŒ alla formazione del giudizio, perocchè l' uno di essi è ancora incognito; di che procede l' obbiezione. Ma se questa obbiezione valesse, non si potrebbe ella fare contro ogni altro giudizio? In fatti in ogni giudizio si avvera, che il giudizio non vi è, e non vi può essere, fino a tanto che i termini del giudizio rimangono separati; e che egli non comincia ad essere, se non allora che i due termini sono già fra loro congiunti. Dunque basta, che i due termini sieno atti a formare un giudizio quando sono già uniti, e non importa se prima di unirsi non sieno termini idonei al giudizio. Convien dunque esaminare nel caso nostro se quei termini che prima del giudizio non sono idonei, coll' unirsi divengano tali; il che non è possibile a concepirsi. E questo è appunto ciò che avviene. Ma prima di dimostrarlo, facciamo alcune altre considerazioni. Perchè si dice, che il predicato ed il soggetto non si possono unire in giudizio, se prima entrambi non sono conosciuti? Perchè si suppone, che il principio che gli unisce, sia l' intelligenza, ossia la volontà intelligente, come avviene nella massima parte de' giudizŒ: ed è indubitato che l' intelligenza non unisce due termini, se non a condizione di prima conoscerli. Ma non potrebbe egli essere, che quello che unisce i due termini non fosse l' intelligenza, ma fosse la stessa natura? Questo è appunto quello che avviene nel caso di cui si tratta, perocchè l' essenza dell' ente , e l' attività sentita non vengono già unite dalla nostra intelligenza, ma dalla nostra natura, come abbiam detto: quella unione dipende dall' unità del soggetto e dall' identità dell' essere conoscibile e dell' essere attivo (sentito). Ora, se la natura unisce questi due elementi, resta a vedere se coll' averli uniti, ella gli abbia resi idonei ad esser termini del giudizio. Per veder ciò, convien prendere la formola di un tal giudizio, e analizzarla nei suoi termini, e considerare se questi termini abbiano la detta idoneità. La formola possiamo enunciarla così: L' ente (di cui io ho notizia) è realizzato in questo sentimento (in quest' attività sentita). Pronunziata dentro me quell' affermazione, io già conosco l' ente reale, conosco che cosa è il sentimento, l' attività sentita, conosco cioè che è un ente: l' elemento dunque che mi era incognito prima di conchiudere l' affermazione, mi è cognito tostochè l' affermazione è chiusa. Dunque, sebbene il sentimento prima dell' unione coll' ente ideale mi fosse incognito e però non atto ancora a divenire uno dei termini del giudizio; tosto che la natura lo mise insieme e lo congiunse coll' ente ideale mediante l' affermazione spontanea, egli è divenuto cognito e quindi idoneo ad essere uno dei termini del giudizio. Se noi vogliamo chiamar soggetto il sentimento o sia la realità, s' intenderà la ragione per la quale abbiamo più volte detto che questa primitiva affermazione, questo primitivo giudizio produce il suo proprio soggetto. Dunque l' affermazione di un ente reale merita l' appellazione di giudizio quand' ella è formata e non prima. Ora la riflessione distingue il predicato ed il soggetto in un giudizio qualunque, analizzando il giudizio già formato, perocchè se non fosse formato, non potrebbe analizzarlo e scomporlo. Mediante questa analisi o scomposizione, colla quale si distingue il predicato dal soggetto, si giugne altresì a formare la definizione del giudizio, dicendo che il giudizio è l' unione logica di un predicato con un soggetto . Ora questa definizione è analitica, è l' opera della riflessione sopra l' affermazione. Perciò la qualificazione di giudizio che si dà ad una affermazione qualunque, è una qualificazione posteriore ad essa, non esprime la sua primitiva origine, ma esprime la sua natura quale apparisce all' analisi ed alla riflessione: queste concepiscono l' affermazione al loro modo, con certa modificazione che viene dalle leggi del loro operare; e questa modificazione è ciò che fa acquistare all' affermazione l' appellazion di giudizio. Ciò che qui diciamo si renderà ancor più chiaro, se si considera, che quando la riflessione, analizzando un giudizio qualunque, distingue in esso il predicato ed il soggetto, ella non separa veramente questi due termini d' infra loro, non li disunisce; perocchè disuniti che fossero, essi perderebbero la qualità di predicato e di soggetto, non sarebbero più termini del giudizio, il giudizio stesso sarebbe distrutto. La riflessione dunque non fa che distinguere i due termini, distinguerli mentalmente; ma sempre lasciandoli congiunti nel giudizio formato e conchiuso appieno; perocchè, solo restando così congiunti, si possono dire predicato e soggetto . E veramente, pigliamo a considerare un giudizio qualunque: per esempio: quest' essere che io veggo è un uomo . Che cosa questo giudizio mi fa conoscere? Che questo essere che io veggo è un uomo. Prima che io avessi pronunciato dentro di me un tal giudizio, io non sapevo che questo essere ch' io veggo, fosse un uomo, poichè il saperlo e il dirlo a me stesso è perfettamente il medesimo. Ebbene, ora analizziamo colla riflessione questo giudizio. Quest' essere è il soggetto, e un uomo è il predicato. Mi si dica: se io considerassi da una parte quest' essere , dall' altra l' uomo in separato, senza punto nè poco badare alla loro relazione, saprei io che quest' essere è il soggetto e che l' uomo è il predicato? No certamente, io nol saprei: quest' essere e l' uomo cesserebbero dall' essere i termini di un giudizio, cesserebbero affatto dall' esser predicato e soggetto. Come diventano dunque predicato e soggetto? Per mezzo del giudizio stesso. Il predicato e il soggetto adunque non esistono prima del giudizio; è il giudizio che li forma, e, dopo che il giudizio gli ha formati, la riflessione li trova nel giudizio. Applichiamo il medesimo ragionamento all' affermazione nostra: l' ente è realizzato in questo sentimento , ossia l' attività di questo sentimento è un ente . Analizzandola, dico che il sentimento è il soggetto, l' esistenza è il predicato: lo dico perchè nel giudizio vi è compresa tale notizia, è il giudizio stesso che me la dà. Ma certamente che se io prendo il sentimento fuori del giudizio, e così distruggo il giudizio, il sentimento non è più soggetto, perchè mi è del tutto incognito. L' obbiezione dunque che si fa, benchè speciosa in apparenza, è priva di valore, partendo dal falso supposto, che il soggetto come soggetto debba esistere prima che si faccia il giudizio, mentre anzi è il giudizio stesso che sempre lo produce. L' unica differenza che passa tra l' affermazione con cui si conoscono gli enti reali e gli altri giudizŒ tutti, si è che negli altri giudizŒ il predicato ed il soggetto, benchè prima del giudizio non siano conosciuti come predicato e come soggetto, pure sono conosciuti dalla mente in altro modo; laddove il soggetto sentimento prima dell' affermazione dell' ente reale non è conosciuto in modo alcuno. Ma questa differenza non fa che il giudizio primitivo sia di diversa natura da tutti gli altri giudizŒ; perocchè la cognizione che negli altri giudizŒ si ha di ciò che poscia diventa soggetto, non è già quella che produce la cognizione che ci apporta il giudizio, anzi su questa cognizione che ci dà il giudizio, niente affatto influisce. Mi spiegherò coll' esempio. Quando io giudico che l' ente che veggo è un uomo, qual è la cognizione che mi apporta questo giudizio? Ella è, che sia un uomo l' ente che veggo. Prima di giudicare mi è dunque affatto incognito che l' ente che veggo, sia un uomo. L' ente che veggo, non lo conosco affatto come uomo; lo conosco come ente veduto. Ora il conoscerlo semplicemente come ente veduto non ha a far niente col conoscerlo siccome uomo: di maniera che io potrei conoscerlo come ente veduto per migliaia d' anni senza mai conoscerlo come uomo: e così avverrebbe, poniamo, se io non avessi alcuna notizia dell' uomo. L' ente dunque da me veduto, benchè cognito sotto un aspetto, è cosa per me affatto incognita prima del giudizio relativamente al predicato uomo ; e però in ogni giudizio avviene che il soggetto come tale, cioè in relazione al predicato, sia incognito prima della formazion del giudizio: l' effetto di ogni giudizio è sempre quello di rendermi cognito ciò che è incognito: il soggetto dunque del giudizio come tale è sempre un incognito che si dee render cognito. Ma nell' affermazione degli enti reali la cognizione che si vuole acquistare, è la primitiva, innanzi alla quale non ve ne può essere un' altra. Quindi in questo giudizio accade che il soggetto considerato prima di formare il giudizio stesso, sia incognito non solo come soggetto e in relazione al predicato, ma ben anco sotto ogni altro rispetto, sia incognito del tutto; perocchè se in qualche modo si conoscesse, già non sarebbe più vero che la cognizione degli enti reali, che s' acquista coll' affermarli, fosse la prima di tutte le cognizioni reali, giacchè precederebbe ad essa quella certa cognizione di ciò che diviene poscia soggetto. Se dunque è vero che ogni giudizio produce una cognizione che prima in noi non era, e se è vero che le cognizioni discendono l' una dall' altra di maniera, che, riascendendo per la scala di esse, se ne dee trovare una prima, la quale non può essere altro che l' affermazione dell' esistenza, necessariamente consegue: 1 che i soggetti di tutti i giudizŒ sono sempre incogniti come soggetti, cioè in relazione al predicato, prima che sia formato il giudizio: 2 che, sebbene prima che sia formato il giudizio, i detti soggetti sieno incogniti come tali, tuttavia si può conoscere di essi qualche altra cosa: 3 che quest' altra cosa che si conosce di essi, è stata conosciuta anch' essa con un giudizio precedente: 4 che risalendo così al primo di tutti i giudizŒ, egli dee avere necessariamente un soggetto, di cui, prima di esso giudizio, non si conosceva nulla affatto, giacchè mancava un giudizio precedente che ce n' avesse potuto dare qualche notizia: 5 che il primo di tutti i giudizŒ è quello con cui conosciamo che esiste qualche ente reale; giacchè tutto ciò che possiamo mai conoscere di un ente reale, suppone sempre che noi prima conosciamo che egli esista: 6 che dunque l' affermazione prima dee formare un soggetto, che prima di essa sia affatto incognito per una legge comune a tutti i giudizŒ. Attesa questa proprietà dell' affermazione degli enti reali, noi abbiamo dato a questo giudizio il nome di sintesi primitiva , e la facoltà dello spirito umano che la forma, l' abbiamo chiamata ragione , la quale è quella forza unica dello spirito che unisce insieme l' essere e il sentimento, e poscia vi usa sopra la riflessione. Noi abbiamo detto che nella sintesi primitiva si può considerare il sentimento come soggetto e l' esistenza come predicato. Non di meno si potrebbe anche dire il contrario considerandosi l' essenza dell' essere come soggetto e la sua realizzazione come predicato. La ragione di questa convertibilità del soggetto e del predicato nella sintesi primitiva si è, perchè ella è un giudizio d' identità [23 7 2.], nel quale si fa un' equazione fra il sentimento e l' essenza dell' essere, mediante l' idea (la conoscibilità di questa). Da tutte le cose dette rimane spiegato che cosa sia la ragione , che cosa sia il lume della ragione , la forma che rende intelligente lo spirito , la facoltà di conoscere . Rimane dunque sciolta altresì la questione dell' origine delle idee. Vi ha un' idea primitiva, quella dell' essere. Con questa si formano i giudizŒ primitivi, si affermano gli esseri reali sentiti, e così si conoscono. I rapporti dell' idea dell' essere cogli enti reali sono i concetti, ossia le idee specifiche degli enti particolari. Su queste idee si esercita l' analisi, la riflessione, l' astrazione ecc., quindi gli astratti e i diversi enti di ragione. Chi vuol seguire la deduzione più divisata delle idee o concetti speciali e generali e di tutte le cognizioni umane, potrà ricorrere al « Nuovo saggio sull' origine delle idee , » e al « Rinnovamento della filosofia in Italia » ecc.. Nelle quali opere si svolge ed applica la teoria ideologica sovra esposta. LOGICA. - La logica è la scienza dell' arte di ragionare. Lo scopo del ragionamento è la certezza: e la certezza è una persuasione ferma, conforme alla verità conosciuta. La logica dunque ha due uffizŒ: dee difendere l' esistenza della verità in generale, e quindi l' efficacia del ragionamento; dee poscia insegnare ad usar il ragionamento in modo, che metta l' uomo in possesso della verità e gliene dia la persuasione, in una parola che gli produca la certezza. Queste sono le due parti della logica, difesa della verità, mezzi di giungere alla verità ed alla certezza. La verità è una qualità della cognizione. La cognizione è vera quando ciò che si conosce, è. Si consideri bene questa definizione della verità. Se la cosa che si conosce, è, ella è vera; dunque la verità si riduce all' essere della cosa che si conosce. L' essere dunque che si conosce, è la verità della cognizione. Ma la forma dell' intelligenza è l' essere , come c' insegna l' ideologia. Dunque la forma dell' intelligenza è la verità. La prima verità dunque è posseduta dallo spirito umano per natura. Questo argomento semplicissimo abbatte quella classe di scettici che negano ogni verità e quell' altra che, o ammettendo o lasciando in dubbio che esista qualche verità, pure negano all' uomo il possesso di ogni verità. Lo stesso argomento si può esporre in altre parole così: Se ciò che conosco, è, io conosco la verità. Ma per natura io intuisco l' essenza dell' essere. Ora l' essenza dell' essere non è altro che l' essere stesso, giacchè il dire essere esclude il non essere. L' essere dunque che io conosco per natura, è: dunque la mia cognizione prima è vera: possiedo una prima verità, poichè ciò che conosco, è. Qui si fa avanti l' idealista trascendentale, e ci dice: La vostra è un' illusione. A voi pare di sapere che cosa sia essere, ma forse nol sapete . Rispondo: L' obbiezione che mi fate, prova chiaramente, che voi non avete inteso la maniera colla quale io testè dimostrai che l' uomo possiede la prima verità; prova che non avete inteso che cosa sia la prima verità di cui si parla, poichè l' obbiezione che voi fate della possibilità di una illusione non cade affatto sulla prima verità. In fatti che cosa significa essere illuso? Significa parere una cosa che non è, o parere una cosa in un modo diverso da quello che è. Ora nè l' una nè l' altra di queste due illusioni può cadere sulla cognizione prima di cui parliamo; ma tutt' al più potranno cadere tali illusioni sulle cognizioni seconde che si vengono formando, per esempio, sulla affermazione degli esseri reali, il che esamineremo a suo tempo. E certo, in generale parlando, quand' io affermo un certo essere reale, non è impossibile la doppia illusione che si obbietta. Io posso cioè affermare un certo essere reale, e questo pure non essere, non sussistere. Posso affermare che un certo essere reale sia in un dato modo, e il medesimo essere in un altro modo. Ma niente di ciò ha luogo rispetto a quella cognizione per la quale io so che cosa sia essere senza più. Dimostriamolo relativamente alla prima illusione. Il sapere semplicemente che cosa è essere, senza aggiungervi alcuna determinazione, e il credere di saperlo, è la medesima cosa: credere di sapere che cosa è essere, è sapere che cosa è essere; e sapere che cosa è essere, è sapere la verità perchè l' essere essenzialmente è. In fatti, riteniamo che sapere che cosa è essere, è sapere la verità. Ciò posto, l' illusione che si oppone, si fa consistere in questo, che si creda forse di sapere, ma che non si sappia che cosa è essere. Ora si consideri bene che sapere che cosa è essere, è la semplice concezione dell' essere, non è affermazione di alcun essere sussistente. E considerato questo, si può egli mover dubbio, che la concezione dell' essere si abbia o non si abbia, senza averla questa concezione? Dubitare che ci sia la concezione dell' essere suppone per data la concezione dell' essere, di cui si dubita. Medesimamente, credere d' aver la concezione dell' essere suppone la concezione dell' essere che è l' oggetto a cui si riferisce quella credenza. L' illusione adunque che si obbietta non è possibile, giacchè non si può favellare della illusorietà della concezione dell' essere senza ammettere già questa concezione di cui si disputa. Tale è la natura delle semplici concezioni, che si hanno o non si hanno; e se non si hanno, non si può credere d' averle, poichè col credere d' averle già si hanno. Veniamo alla seconda illusione, e dimostriamo che neppur essa può cadere nella notizia prima dell' essere. « Voi » si dice « intuite l' essere, ma sapete voi d' intuirlo com' egli è? L' essere non potrebbe essere in un modo diverso da quello in cui vi apparisce? »Questa obbiezione suppone che l' essere abbia modi diversi. Ma per ciò stesso ella non può attaccare la prima intuizione, perocchè in questa prima intuizione l' essere è senza modi. Di nuovo, l' obbiezione adunque non può valere, se non applicata a quelle cognizioni, per le quali l' uomo conosce l' essere vestito di qualche modo particolare. Può allora darsi che l' uomo s' illuda, e che l' essere gli apparisca in un modo, quando in se stesso esiste in un altro modo. Se ciò sia possibile, e fin dove sia possibile, questo si dee esaminare quando si toglie a parlare della verità delle cognizioni speciali, che hanno per loro oggetto esseri determinati. Ma qui nel discorso presente si tratta dell' essere privo al tutto di modi, si tratta della pura e semplice essenza dell' essere stesso; le illusioni adunque che cader possono sui modi dell' essere qui rimangono del tutto escluse, sono impossibili. Per questo dissi in qualche luogo, che la verità evidente ed essenziale dell' essere luce nella sua universalità . Quest' universalità distrugge affatto lo scetticismo trascendentale, il quale suppone gratuitamente che l' intendimento umano abbia delle forme ristrettive e modali, mentre egli ha una sola forma universale, e priva affatto di modi che hanno la loro esistenza solo nel mondo reale. Risulta parimenti da ciò non solo gratuito, ma evidentemente falso e contradittorio, che l' essere nella sua universalità e semplicità sia una produzione soggettiva, cioè una produzione del soggetto uomo; che anzi l' uomo stesso non è che una ristretta, modale e contingente realizzazione dell' essenza dell' essere. Ed ecco che, dopo aver noi stabilito, che lo spirito umano sa che cosa è essere mediante l' osservazione , ignorando tuttavia che questa osservazione fosse un testimonio certo della verità; ora veniamo a giustificare e riconoscere valida l' osservazione, poichè avendo trovato che il risultato dell' osservazione è l' intuizione dell' ente, noi siamo giunti a tale da convincerci della veracità della stessa osservazione, poichè nell' ente intuito abbiamo trovato la luce evidente della verità che esclude ogni possibilità che in tale osservazione entri inganno, errore od illusione di sorte [11]. Le ragioni, colle quali abbiamo disciolte le obbiezioni scettiche degli idealisti trascendentali, e abbiamo provato, che la semplice concezione dell' essere non ci può al tutto ingannare, valgono medesimamente a provare che non può cadere errore di sorta nè meno nei concetti o idee speciali. Perocchè l' errore non potrebbe cadere che o nell' essere ch' esse ci mostrano o nei modi ne' quali ci mostrano l' essere limitato. Ma già vedemmo che nell' essere, se si prescinda dai modi, non ci ha possibilità alcuna d' errore; resta dunque a vedere se potesse avercene nei modi de' medesimi concetti. Or che cosa vuol dire esserci errore ne' modi dell' essere? Vuol dire apparirci un essere vestito di un modo, mentre in se stesso ne ha un altro. La possibilità dunque dell' errore nasce da questo, che un solo essere non può avere nello stesso tempo che un solo modo; onde se noi giudichiamo che ne abbia un altro, il modo che gli attribuiamo, non è; e perciò il nostro è un giudizio falso, un errore. Questa falsità di giudizio accade spesso negli esseri reali, i quali sono limitati ad un solo modo; per esempio, io posso giudicare falsamente che un dato ente sia un uomo mentre egli è una bestia ovvero un ceppo; erro, perchè gli attribuisco un modo non suo. Ma se non si tratta di esseri reali, ma dell' essere semplicemente ideale, la detta condizion dell' errore manca del tutto. Poichè l' essere ideale non è limitato ad un solo modo; ma egli ha potenzialmente tutti i modi, in tutti i modi può esser realizzato: quindi ogni modo che io concepisca dell' essere ideale, è immune da errore, perchè è un modo suo proprio. Questi modi dell' essere ideale sono i concetti, le idee specifiche e generiche: dunque tutte le idee specifiche e generiche sono affatto immuni da errore. Quindi giustamente gli antichi insegnarono che l' errore non può mai stare nell' idee, ma risiede nei giudizi; e che le notizie così dette di semplice intelligenza , sono scevre affatto da ogni errore. Per questo si dice ancora, che le idee sono le verità esemplari, e che le cose (gli enti reali) ricevono la loro verità dalla conformità che hanno colle idee. Se io giudico, a ragion d' esempio, che un dato ente reale è un cavallo, ed è un cavallo, si dice che è un cavallo vero , per dire che corrisponde a quell' idea di cavallo, a quel modo che io gli attribuisco e col quale lo giudico. Ma dicendo noi che nelle semplici idee non può cadere errore, non intendiamo di estender ciò anche alle relazioni delle idee , nelle quali può cadere certamente errore, perchè si affermano con un giudizio che può esser vero o falso. Così, a ragion d' esempio, io erro se giudico che un' idea è inchiusa in un' altra, quand' ella non è; che il due, poniamo, stia tre volte nette nel cinque, quando non vi sta che due e mezzo. Insomma non vi può essere errore, se non v' è giudizio: l' intuizione semplice non ammette errore. E tuttavia non consegue, che in ogni giudizio vi possa essere errore: v' ha anco de' giudizi, ne' quali l' errore è assolutamente impossibile. In fatti, trovato che nell' intuizione dell' essere, universale o speciale, non cade errore, io posso esprimere ciò in forma di giudizio, dicendo appunto non cade errore nelle idee : ho formato con ciò un giudizio immune da errore appunto perchè ciò che esprimo con esso è immune da errore. Allo stesso modo sono immuni da errore tutti que' giudizŒ che altro non esprimono, se non ciò che la mente intuisce; per esempio questi due: l' oggetto del conoscere è l' ente; l' essere e il non essere ad un tempo non è oggetto di cognizione . Queste proposizioni, questi giudizŒ altro non dicono se non ciò che mostra a noi l' intuizione dell' essere. Il primo equivale ad esprimere il fatto che l' essere è l' oggetto essenziale, la forma dell' intelligenza; il secondo altro non significa, se non che se l' essere, oggetto dell' intelligenza, mi è levato via, egli non può ad un tempo esser presente: è ancora la semplice intuizione dell' ente che si dichiara necessaria per conoscere. Quando ciò che si contiene nell' idea si pronunzia in forma di giudizio e s' esprime in una proposizione, allora l' idea, così espressa, prende nome di principio . L' idea è sempre universale in questo senso, che ella può essere realizzata (salve alcune eccezioni che qui si ommettono) più volte. L' idea dell' essere può realizzarsi in tutti i modi; le idee generiche, in molti modi, e così pure le idee specifiche astratte; se l' idea specifica non è astratta, ma piena, di maniera che contenga anche gli accidenti tutti dell' ente, ella può esser realizzata in un modo solo, ma in più individui (salve le dette eccezioni). Perciò le idee si dicono tutte universali . Quindi anche i principii sono giudizi universali, i quali si applicano a molti casi . Per esempio, il principio che dice: l' ente è l' oggetto del conoscere , si applica e si avvera non già in un solo atto del conoscere, ma in tutti affatto gli atti conoscitivi. Il principio di contraddizione: l' essere e il non essere ad un tempo non è oggetto di conoscere , esprime l' assurdo di tutte le proposizioni contradittorie. Assurdo vuol dire inettitudine della proposizione ad essere oggetto di conoscenza. I principii dunque non essendo che le idee intuite, il cui oggetto si pronunzia in forma di giudizio, sono immuni da errore altrettanto quanto le idee stesse. Ma se le idee e i principii dell' umano sapere sono superiori alla sfera dell' errore, che cosa è a dirsi della sintesi primitiva, colla quale si affermano le cose reali che a noi si comunicano nel sentimento? E` ella immune da errore la percezione delle cose reali, per la quale intendiamo appunto un' attività da noi sentita ed affermata come un ente? Nella percezione di un ente reale si debbono distinguere due cose: l' affermazione dell' ente, e l' affermazione del modo dell' ente determinato dal sentimento. Nell' affermazione dell' ente, prescindendo dal suo modo, non può cadere errore, appunto perchè non può cadere errore nell' essenza dell' ente da noi intuita. Affermare l' ente è affermare l' essenza intuita nella sua realizzazione: quest' essenza la conosciamo con evidenza senza possibilità di errore; dunque dobbiamo altresì riconoscerla senza errore, presentandosi ella a noi realizzata. Il modo poi dell' ente è determinato dal sentimento e non dalla nostra intelligenza. Ora è da osservarsi attentamente, che il bambino nelle sue prime percezioni, non afferma già il modo dell' ente, ma si accontenta di affermar l' ente, lasciando che il sentimento lo determini senza occuparsi a misurare questo sentimento, senza dargli un' attenzione intellettiva, senza affermarne i limiti, la forma, le differenze. Non pronunziando dunque nulla sul sentimento che costituisce la realità dell' essere, ma prendendolo solo per una realizzazione modale dell' essere senza più, qualunque ella sia, l' uomo non s' espone a pericolo di alcun errore. Tali percezioni adunque fatte dal bambino o da chicchessia, nelle quali il sentimento non si prende se non come la realizzazione dell' essere senza fermar l' attenzione al suo modo e a' suoi limiti, son tali, che l' errore ne è affatto escluso. Il giudizio adunque che afferma l' esistenza degli esseri reali è immune da errore. Rimane a vedere se sia immune da errore il giudizio che afferma il modo determinato degli esseri reali, cioè che afferma in conseguenza di un dato sentimento che sussista piuttosto un essere che un altro. Si dirà, che l' essenza dell' ente viene da noi aggiunta al sentimento per poterlo affermare e conoscere come ente, e però noi conosciamo nel sentimento ciò che in esso non vi è. Ma si osservi che quest' obbiezione sarebbe assai forte quando fosse vero che noi affermassimo che il sentimento stesso fosse l' essenza dell' ente. Ma noi non facciamo già questo: aggiungiamo bensì l' essenza dell' ente all' attività sentita, per renderla un ente percettibile e conoscibile; ma sappiamo nello stesso tempo, che l' attività sentita da se sola non è l' essenza dell' ente, ma è una sua realizzazione contingente, un suo modo, il termine della sua azione: sicchè l' essenza dell' ente che gli aggiungiamo, non è altro che il mezzo di conoscerla; perocchè l' attività sentita non è conoscibile se non veduta nell' ente. Allo stesso modo, cioè in un modo simile benchè non uguale, noi non possiamo percepire l' accidente senza percepirlo nella sostanza , e tuttavia non c' inganniamo, perchè sappiamo bene che l' accidente non è la sostanza che a lui pure aggiungiamo in percependolo. Dall' istante, che abbiamo detto, che l' attività sentita è l' essere realizzato, egli è chiaro, che in quel modo che è l' attività sentita, in quel modo stesso è realizzato l' essere. Dunque, qualora si verifichi che io, col mio giudizio sul modo dell' essere, altro non fo che pronunciare ed affermare quell' attività che veramente sento nè più nè meno, in tal caso il mio giudizio non può che esser vero. Qui dunque ho trovata la condizione, adempiuta la quale non posso ingannarmi, nè anche nel giudizio che porto circa il modo dell' essere percepito: la condizione si è, che io non affermi altro, se non quello che sento nè più nè meno. Rimane a vedere se questa condizione si avveri sempre necessariamente in tali miei giudizŒ; o per lo contrario non si possa mai avverare; o finalmente se si possa bensì sempre avverare, ma non sempre si avveri. Nel primo caso il mio giudizio sarebbe necessariamente vero: nel secondo sarebbe necessariamente falso: nel terzo potrebbe sempre esser vero se io voglio, se io procedo colle necessarie cautele; ma potrebbe anche esser falso, se io non voglio o procedo incautamente. Ora è manifesto che io non sono necessitato a dir sempre a me stesso precisamente quel che sento. Posso mentire a me stesso; posso dire di sentir più o di sentir meno, di sentire in un modo o di sentire in un altro. Posso prendere un sentimento per un altro, un' immagine, a ragion d' esempio, per una sensione esterna; posso dunque ingannarmi. Ma egli è ancor manifesto che non sono necessitato ad ingannarmi. Chi mi costringe a dire quel che non sento, o a dire di sentir più o di sentir meno o in altro modo da quel che sento? Anzi, se non avessi sperimentato mai che un solo sentimento, mi sarebbe impossibile di fingermene un altro, o di alterarmelo a volontà. Dunque in me vi è la facoltà di affermare il sentimento tale quale lo provo; questa è la facoltà naturale. Se io m' inganno adunque, è perchè non uso della facoltà naturale, ma mi servo anzi di un' altra a turbare e confondere quella. E io posso provare di avere la facoltà naturale di attestare a me stesso nè più nè meno quello che sento, considerando che questa facoltà non è poi ancora che un nuovo uso, un' altra funzione della facoltà che ho detto infallibile, di affermare l' essere senza i suoi modi. Poichè affermare l' essere è riconoscere l' identità fra il sentimento e l' essenza dell' essere: ora, poichè in tutte le attività anche minime del sentimento è realizzato l' essere, dunque posso affermarlo in tutte con infallibil certezza. Ma affermare l' essere in tutte le attività anche minime del sentimento è lo stesso che affermare tutto intero il modo del sentimento nè più nè meno. Dunque non mi manca la facoltà naturale di affermare con sicurezza anche il modo dell' essere, anzi questa facoltà è infallibile, e se m' inganno, il mio errore dee procedere non da questa facoltà, ma da un' altra che ad essa io sostituisco, e che per ora chiamerò semplicemente la facoltà dell' errore . Esclusi dunque i due estremi della verità necessaria e dell' error necessario nel giudizio che io fo intorno al modo dell' essere da me percepito, rimane che qui trattisi di un errore possibile a sfuggirsi, ma possibile anche ad incorrersi. Si può dunque un tale errore evitar sempre? Sì, noi diciamo, purchè vogliamo ed usiamo le cautele a ciò necessarie: ma prima di parlare di queste cautele, facciamo un' osservazione. L' errore di cui qui parliamo, non cade propriamente sulla percezione dell' ente reale. La percezione dell' ente reale è fatta, tostochè noi all' occasione del sentimento l' abbiamo affermato. Sopravviene la riflessione sopra l' ente percepito, che vuol determinare, vuol pronunziare il modo preciso, l' estensione precisa dell' ente percepito: al che fare, oltre portare l' attenzione sul sentimento e su tutte le sue parti, è uopo ricorrere altresì al confronto con altri sentimenti, con altri esseri. La percezione dunque degli enti reali è infallibile; l' errore comincia solo colla riflessione sulla percezione , e s' apre tanto maggior campo all' errore, tanta maggior facilità di errare, quant' è maggiore la riflessione, più elevata, più complicata. Dicevo, che per determinare da noi stessi il modo e la quantità del sentimento, non basta l' osservazione accurata sul medesimo, ma è necessario ricorrere a confronti con altri sentimenti, con esseri altre volte percepiti. La ragione si è, che i giudizŒ che trattano di misura , non cadono mai sulla misura assoluta, ma sempre sulle misure relative. Se l' uomo non percepisse che una data quantità, e non n' avesse un' altra a cui confrontarla, egli non pronuncierebbe su di essa giudizio alcuno, non inventerebbe neppure il vocabolo di quantità per nominarla. Laonde, se si prescinde interamente dalla riflessione che tende a misurare il sentimento mediante confronti, può benissimo concepirsi un' osservazione o attenzione intellettiva portata sul sentimento; ma tale, che non pronunzia niente in separato dalla percezione, e che è tanto infallibile quanto la percezione stessa di cui è parte, onde la percezione può avere due forme che, se vogliamo esprimere con parole, potremo così enunciare: « percezione che pronunzia l' esistenza di un essere reale determinato dal sentimento senza più »; e « percezione che pronunzia la presenza di un essere reale e il sentimento che lo determina senza riferirlo a niun altro sentimento. » L' aver dimostrato, che l' uomo ha una facoltà infallibile della percezione, è bastante contro gli scettici. Quanto poi all' ordine della riflessione, dove l' errore è possibile, posciachè la riflessione è verace o mendace secondo la maniera onde se ne fa uso, perciò appunto fu inventata la Logica, acciocchè ella insegni tal maniera di far uso della riflessione, che ci conduca alla verità, e ci additi come conoscere ed evitare l' errore. Se ben si considera, l' errore è sempre arbitrario, e quindi non è mai il prodotto delle semplici facoltà di conoscere. La riflessione stessa non produce l' errore per sè, ma perchè le si fa dire quello che ella non dice. E veramente la riflessione ha per suo primo oggetto le percezioni, le quali, come vedemmo, non ammettono errore. Questa prima riflessione altro non fa se non dire ciò che si contiene in una o più percezioni; quindi le analizza e le compone: ma se la riflessione dicesse che nella percezione v' è quel che non v' è, in tal caso non sarebbe, propriamente parlando, riflessione, perchè non rifletterebbe sulle percezioni; sarebbe un' altra potenza, che simulerebbe la riflessione; vi avrebbe un mentitore, che direbbe che la riflessione dice quel che non dice. Questo mentitore è certamente l' uomo stesso: egli ha la facoltà di affermare a se stesso ciò che la ragione non gli dice. Questa è la facoltà della persuasione , che si dee distinguere affatto dalla facoltà del ragionamento . Il ragionamento è e debb' essere mezzo di persuasione. Ma la persuasione si forma anche senza ragionamento: si forma una persuasione nel seno dell' uomo che vi sia un ragionamento quando non c' è, che il ragionamento dica una cosa quando non la dice: l' uomo si persuade, dà il suo assenso, giudica non sempre mosso dalla ragione, ma talora dall' istinto, dall' abitudine, dal pregiudizio, dall' affezione, dalla passione. Quindi l' errore s' intromette nell' essere ragionevole, non perchè egli sia ragionevole; chè se fosse solamente ragionevole, non potrebbe mai prendere errore; ma perchè, oltr' essere ragionevole, egli ha altresì la facoltà di giudicare ad arbitrio. Per questo si dice, che la natura dell' errore è di essere volontario. Non avviene tuttavia da questo che l' errore sia sempre peccaminoso o colpevole; ma egli ritiene di quella condizione morale che hanno le cause che lo hanno prodotto. Alla logica appartiene enumerare le cause occasionali ed incentive dell' errore, ed insegnare ad evitarle. Egli è qui chiaro, che per evitare gli errori colpevoli convien ricorrere a rimedŒ morali, convien sanare la volontà disordinata che influisce sulla facoltà della persuasione, traviandola ai suoi colpevoli fini. Le cause fisiche dell' errore, come i morbosi istinti, l' alterazione dell' immaginativa ecc. debbono levarsi con rimedŒ fisici. Se l' errore proviene finalmente da precipitazione ed imprudenza, conviene opporvi de' mezzi prudenziali, delle regole logiche precisamente espresse. La logica non si contenta d' indicare le diverse maniere di rimovere la causa degli errori, ma ella insegna altresì a riconoscerli quando sono già formati e ad emendarli. I sintomi degli errori sono moltissimi. Una specie di questi sintomi si riscontra nella forma verbale dei ragionamenti; e quella parte di logica che addita questa specie di sintomi degli errori, è quella che si chiama sofistica . Ma torniamo alla percezione, che è il solido fondamento di tutto quello scibile che riguarda gli enti reali. Basta qualsivoglia attività sentita acciocchè lo spirito intelligente affermi che sussiste un ente reale. Attività (sentita) e realità è il medesimo: è una forma dell' essere, non è l' essere, il quale vi si aggiunge nella percezione. Le prime attività da noi sentite, dalle quali si suscita la nostra facoltà di giudicare e di affermare la sussistenza di alcuni enti, sono le sensioni corporee. Se noi analizziamo queste sensioni, troviamo in ciascuna di esse tre attività: 1 l' attività che ci modifica senza nostro volere, verso cui noi siamo passivi: 2 la sensione che è l' effetto di quella attività che ci modifica: e 3 noi stessi che siamo modificati. Tuttavia l' attenzione nostra intellettiva non si porta da prima egualmente sopra queste tre attività, ma innanzi tratto su quella che ci modifica, e ad essa si ferma: perciò noi affermiamo prima di tutto i corpi esterni. Quando noi affermiamo i corpi esterni, nella nostra sensione v' ha certamente di più dei corpi esterni, cioè dell' agente che ci modifica; ma noi non ci badiamo. Si deve qui osservare la legge dell' attenzione dello spirito. L' attenzione intellettiva è la forza che dirige ed applica il nostro intendimento, ed ha per suo carattere di poterlo applicare a quell' oggetto che vuole, restringerlo a un solo oggetto, ad una sola parte del sentimento, affermare un oggetto solo alla volta, trascurando tutti gli altri. Non è però a credere, che l' attenzione nell' applicare e concentrare l' intendimento nostro in una sfera più o meno ristretta proceda a caso: ella segue certe leggi costanti, che le vengono imposte in gran parte dalla natura dell' essere; ma non è qui luogo di esporre queste leggi. E` bensì importante ritenere, che per questa proprietà dell' attenzione accade, che la percezione si ristringa ad un solo oggetto, quantunque molti altri possano essere con quello connessi anche necessariamente. Il nesso necessario di due oggetti fra loro non entra nella percezione, e neppure in quel concetto dell' essere che immediatamente si cava dalla percezione. Così quando l' uomo afferma un corpo esterno e quindi lo percepisce, è del tutto falso che colla stessa percezione affermi se stesso, come è falso del pari che la percezione de' corpi esterni debba necessariamente aver seco congiunta la percezione di se stesso. E` dunque un sofisma quello di Fichte che l' uomo percepisca l' io e il non io contemporaneamente e con un solo atto. Onde provenne l' errore di Fichte? Dal non aver egli ben distinto ciò che accade nel sentimento , e ciò che accade nella percezione intellettiva . E` vero verissimo, che nella nostra sensione non vi ha solo l' agente esterno (il mondo esterno), ma ci siamo anche noi stessi che veniamo modificati e limitati: tale è la natura del sentimento corporeo, sempre duplice, risultante dal senziente e dal sentito. Ma altra è la natura del sentimento, ed altra quella della percezione intellettiva. Sebbene nel sentimento concorrano due enti, tuttavia la percezione si restringe ad un solo alla volta, ed è per questo che ella distingue l' uno dall' altro: la percezione termina in ciò che afferma: quando afferma il mondo esterno, termina in esso; se non terminasse in esso, lo confonderebbe con noi stessi, e non lo separerebbe, come lo separa. Dico lo separa , non dico lo distingue : poichè per separarlo basta percepire lui stesso e nulla più; per distinguerlo da noi si dovrebbe negare noi, e quindi aver percepito noi, giacchè non si può negare ciò che non si conosce. E fu appunto l' abuso della parola distinguere che rese specioso il sofisma di Fichte. All' incontro quando si percepisce una cosa sola, ignorando affatto tutte le altre, ella è già separata da tutte le altre senza bisogno che noi positivamente le neghiamo, e da essa le distinguiamo. L' errore di Fichte nacque adunque dall' aver confuso il sentimento colla percezione sensitiva: è ancora un errore dovuto al sensismo. La natura della percezione ben considerata rovescia parimenti il principio di Schelling, che fu rimpastato e riprodotto anche poco fa. Schelling ammise il doppio oggetto della percezione di Fichte, e gliene aggiunse un terzo. L' oggetto della percezione di Fichte, benchè duplice, era finito. Schelling disse che non si potea percepire il finito senza l' infinito , a cui quello si riferiva. Or come Fichte attribuì alla percezione intellettiva ciò che è proprio solo del sentimento ; così Schelling attribuì alla percezione intellettiva ciò che è proprio solo del ragionamento : nè l' uno nè l' altro filosofo conobbe la natura della percezione , la quale si è di limitarsi ad un solo oggetto, senza esser necessitata a distendersi agli oggetti connessi con quello. La percezione termina nell' oggetto finito senza pure considerare che egli sia finito, e che quindi addimandi, per esistere, d' un infinito; termina in esso, senza punto nè poco considerare che sia un effetto, e senza conchiudere ch' egli quindi non può esistere senza una causa: lo considera per un ente, vi aggiunge l' essenza dell' ente senza punto considerare che non sarebbe, diviso dall' essenza dell' ente. Tutte queste sono riflessioni posteriori, sono ragionamenti, che hanno per oggetto la percezione, ma che non sono la stessa percezione. Rimane bensì a vedere, perchè, quantunque nella percezione s' apprenda un oggetto in separato da tutti gli altri, tuttavia poscia il ragionamento conosca che quel dato oggetto, quel reale non può sussistere da se solo, e se è finito, è condizionato necessariamente ad un infinito, se è contingente, ad un necessario che gli sia causa ecc.. Questo avviene perchè la riflessione rivolgendosi sull' oggetto percepito , lo paragona all' essenza dell' essere che è il lume della mente, e a questo paragone tosto conosce, che in quell' ente non è realizzata appieno l' essenza dell' essere; quindi conosce altresì, che il suo sussistere è condizionato ad un altro essere maggiore. Risulta da tutto ciò, che l' ultimo filosofo tedesco di cui abbiam parlato, travide qualche cosa di vero senza poterlo significare con precisione. Si acc“rse, che la mente umana dovea aver presente fin da principio di tutti i suoi ragionari qualche cosa di pieno, di completo, di universale, a cui come a tipo riportasse ciò che è modale, incompleto, relativo; perocchè altrimenti sarebbe stato inesplicabile come l' uomo si fosse accorto che il mondo, a ragion d' esempio, sia contingente, e che domandi una causa, che sia finito, cioè discosto immensamente dall' infinito ecc.. Certo, per conoscere tutto ciò, doveva esistere nella mente umana il tipo perfetto dell' essere che presiedesse a tutti questi giudizŒ. Ma il filosofo tedesco non ha poi saputo distinguere l' intuizione dalla percezione , il modo ideale dell' essere dal modo reale , l' essenza dell' essere dalla sua realizzazione , la ragione della sussistenza dalla sussistenza medesima , ciò che ha l' essere perchè la percezione gliel dà, da ciò che è l' essere . Attribuì dunque alla percezione ciò che appartiene all' intuizione , ossia al confronto del percepito coll' intuìto , confronto che è opera del ragionamento. Conchiuse che lo spirito umano percepiva naturalmente l' assoluto , quando solamente intuiva la ragione assoluta , l' essere ideale. E posciachè nella percezione si hanno gli enti distinti, poichè la distinzione limitante appartiene all' ordine delle realità, perciò volle che nella percezione da lui supposta primitiva e naturale si trovassero già distinti l' io il non io , e l' assoluto essere; laddove nell' essere ideale nulla è distinto, non cade alcuna limitazione, alcun modo: egli è l' essere in una sola forma illimitata. Eppure quest' essere ideale basta alla mente, non solo perchè le si renda possibile la percezione delle cose particolari, ma ben anco per dar le ali al ragionamento, col quale conosca i limiti degli oggetti della percezione e la necessità dell' illimitato e dell' assoluto. Ma noi dobbiamo chiarir meglio le leggi della percezione e del ragionamento, e giustificarle in modo che riescano sufficientemente difese contro alle obbiezioni degli scettici. Cominciamo dalla percezione dei corpi esterni. Quando noi proviamo una sensione che non avevamo prima, la nostra attenzione intellettiva si porta sull' agente, sulla forza che ci modifica. Egli è certo in fatti, che sentiamo in noi stessi una forza la quale non siamo noi: anzi ella è opposta a noi. Noi siamo passivi, ella è attiva. Intanto si osservi qui, che questo fatto basta perchè noi possiamo affermare che esiste un ente, senza che perciò diciamo che quest' ente sia noi. Noi siamo ancora incogniti a noi stessi. E se questo non si vuole ammettere, si prenda pure per una mera supposizione. Dico che, anche supposto che l' attenzione nostra intellettiva non si fermi, non si porti punto sopra noi stessi, ma si concentri nell' agente che opera nel nostro sentimento, noi affermeremo che quell' agente è un ente reale e non lo confonderemo perciò con noi, poichè, quantunque abbiamo il sentimento di noi stessi, tuttavia su questo sentimento, secondo la supposizione fatta, non posiamo la nostra attenzione. Dunque supporre il contrario non è necessario. Or questa natura della percezione limitata sempre ad un solo ente, che perciò appunto non resta mai confuso cogli altri perchè è solo, basta a spiegare come noi conosciamo il mondo corporeo. Le difficoltà che mossero gl' idealisti, nascevano tutte dal considerare i corpi fuori della percezione; nascevano dal non conoscere la natura della percezione, e dall' averne trascurata l' analisi. Certo che se si considera il mondo senza relazione alcuna alla percezione, non potremo saper che esista, perchè è tolto via (mi servirò d' una celebre frase) il ponte di comunicazione fra noi e lui. Questo ponte di comunicazione è la percezione. La percezione ben meditata ed analizzata ci somministra altresì una verità ontologica della più alta importanza, affatto sconosciuta ai sensisti; la quale si è, che un ente entra in un altro colla sua azione, che gli enti in quanto sono agenti, possono benissimo inesistere l' uno nell' altro senza mescolarsi e confondersi insieme, rimanendo essi al tutto distinti, mediante i rapporti contrarŒ d' azione e di passione. Nella percezione dei corpi sentiamo un agente che non siamo noi, e verso il quale noi siamo passivi. Quest' è il fondamento della dimostrazione dell' esistenza d' un essere esteso, il quale non è noi, cioè del corpo. Viene poi un tempo, in cui noi percepiamo anche noi stessi. Io sono persuaso che, sebbene il sentimento ci accompagni sempre, tuttavia noi non abbiamo la percezione intellettiva di noi stessi se non dopo la percezione intellettiva dei corpi. Ma checchessia del tempo in cui ci formiamo la percezione intellettiva di noi stessi, ciò che è importante per la filosofia, si è il ben intendere, che la percezione di noi stessi è una percezione diversa da quella de' corpi; appunto perchè noi stessi siamo diversi dai corpi; una percezione non è l' altra, altrettanto quanto un ente non è l' altro; nè la percezione di un ente ha bisogno per esser tale di negare positivamente gli altri enti, ma solo di affermare l' ente che costituisce il suo oggetto, il quale esclude gli altri per natura, cioè perchè egli non è gli altri, senza bisogno che lo spirito umano si affatichi egli con una negazione ad escluderli. Vero è che noi, dopo che abbiamo percepito il mondo corporeo e noi stessi, possiamo riflettere su queste due percezioni, paragonare fra loro i due enti percepiti, e rilevarne i rapporti. Il paragone non si potrebbe fare se noi non avessimo presente allo spirito l' ente universale, che è la misura di tutti gli enti. Riferendo l' ente reale particolare, limitato, all' essenza dell' ente (sua ragione e principio), noi intendiamo ch' esso non è una realizzazione completa di questa; e riferendo alla medesima altri enti reali particolari, limitati, intendiamo se essi siano una realizzazione d' ugual modo e quantità della precedente, o di modo e di quantità diversa. Se un secondo ente che noi riferiamo all' essenza dell' ente, è una realizzazione uguale di modo e di quantità, lo diciamo ente della medesima specie. Quantunque però fosse uguale in tutto al precedente, tuttavia possiamo accorgerci che egli è un individuo diverso, dall' essere egli oggetto d' un' altra percezione contemporanea alla prima, principio della discernibilità degl' individui . Se fosse oggetto della medesima identica percezione, non sarebbero due individui, ma un solo. Noi conosciamo adunque il numero delle percezioni contemporanee, quando in tutto il resto gli enti individuali sieno affatto uguali (supposizione logicamente possibile): e ciò perchè noi in tal caso possiamo riferire all' ente universale i due o più individui contemporaneamente, al qual lume veggiamo che la realizzazione di due è più che la realizzazione di uno. Così si originano le idee de' numeri , riferendo all' essere ideale più enti contemporaneamente; ben inteso che sopravviene poi l' astrazione (attenzione riflessa limitata a certi elementi osservabili dell' ente), la quale cava i numeri puri . Ma se due enti percepiti si riconoscono differenti non solo perchè si percepiscono con diverse percezioni contemporanee, ma ben anco perchè hanno qualche diversità fra loro o nel modo o nella quantità della loro realizzazione, in tal caso si riconoscono differenti di specie, o, se la specie è la medesima, differenti per qualche diversità accidentale. Il modo diverso della realizzazione costituisce la diversità di specie: la quantità o anche l' attualità diversa è cagione di differenze accidentali. Quando adunque noi riferiamo all' essere universale la percezione dei corpi e di noi stessi, e quindi paragoniamo gli oggetti delle due percezioni, allora troviamo i rapporti di limitazione scambievole fra l' uno e l' altro, e il nostro spirito aggiunge le negazioni e le distinzioni. Allora il mondo corporeo si potrà chiamare un non7io (benchè il concetto dell' io è molto più complicato; ma non vogliamo qui entrare a spiegarne minutamente la formazione); allora si potrà dire, che l' io e il non7io si limitano scambievolmente, e insieme colla percezione dell' io negheremo il corpo, insieme colla percezione del corpo negheremo l' io. Sarà poi necessario, che sopravvenga una riflessione, qualora dal finito intenderemo di argomentare all' infinito. Converrà, che l' attenzione della mente non si fermi più a ciò che hanno di proprio l' io e il non7io; ma piuttosto che consideri ciò che hanno di comune, cioè la limitazione, e dal pensiero del limitato, del contingente ecc. ascenda all' illimitato, al necessario ecc.. Dunque per ascendere al pensiero dell' illimitato, del necessario, dell' assoluto, io non ho bisogno delle due percezioni, ma posso ascendervi ugualmente partendo da ciascuna di esse; perchè ciascuna è limitata, ciascuna contingente, ciascuna relativa. Dunque quell' atto della mente con cui ascendo all' infinito, non è la prima percezione; neppure è quella riflessione con cui paragono la percezione dell' io alla percezione del non7io; ma è una riflessione con cui dai limiti dell' io, o dai limiti del non7io mi slancio ugualmente nell' infinito. Le relazioni adunque degli enti percepiti si conoscono colla riflessione , riferendoli all' ente universale, e avvertendo quanto alla sua pienezza s' accostano, e quanto dalla sua pienezza si discostano. Così è discoperto il fonte di tutti i ragionamenti e il principio supremo sul quale essi si fondano. Se noi vogliamo formolare questo principio, esso si ridurrà al seguente: « Conoscendo lo spirito umano l' essenza dell' ente, egli afferma l' ente nel sentimento; e poscia paragonando e riferendo l' ente affermato all' essenza dell' ente, conosce le sue condizioni, i suoi limiti, le sue relazioni: e quindi mediante nuove riflessioni, riferendo medesimamente all' essenza dell' ente le cognizioni avute, ne cava sempre di nuove. » Fermiamoci a considerare le condizioni degli enti percepiti. Le condizioni alle quali sussistono gli enti reali, sono di due maniere: quelle che cadono nella percezione , e quelle che si rilevano col ragionamento . Per condizioni che cadono nella percezione intendo quelle che rendono l' ente reale atto ad essere percepito. A queste condizioni appartiene il principio di sostanza , che ora noi dobbiamo spiegare. Vedemmo, che in ogni sensione corporea da noi acquistata cadono tre attività: 1 l' attività che ci modifica, 2 la modificazione nostra, e 3 noi stessi modificati. La prima attività è l' oggetto della percezione del corpo: la terza attività è l' oggetto della percezione di noi stessi: riman dunque a considerarsi la seconda attività, la modificazione nostra, che è la sensione medesima. La sensione o modificazion di noi stessi è certo quella che stimola la nostra attenzione intellettiva a percepire i corpi e noi stessi. Ma pure la sensione nostra non è il corpo che la produce. Neppure ella è noi stessi. Che cosa è dunque? La percepiamo noi? Se noi ne consideriamo la natura, ben veggiamo che ella è un atto passivo del nostro sentimento; e che noi stessi siamo un sentimento suscettibile di varie modificazioni. Noi veggiamo ancora, che questa modificazione di noi7sentimento è prodotta dall' azione d' un agente esterno. Ma tutte queste cognizioni intorno alla sensione noi le abbiamo ora per via di riflessione : non cade ella dunque nella percezione? Anche qui è da esaminarsi il fatto per non inventare a capriccio, ossia fingerci la natura delle cose. Ora il fatto ci dice, ch' ella non ci cade e non ci può cader sola . E veramente che cosa è la percezione se non l' affermazione di un ente reale? Ora la sensione sola è ella forse un ente? No certo. Ella non è se non una certa attualità passiva o qualità di un ente. Quindi è, che in occasione delle sensioni noi non percepiamo giammai la sensione sola; percepiamo noi stessi che siamo un ente, e solo unitamente a noi percepiamo la sensione come una modificazione di noi stessi. Quindi si può sciogliere la questione non poco difficile che movono i filosofi; se la percezione degli enti si faccia immediatamente, o per via di ragionamento . La risposta che noi diamo si è, che la percezione degli enti si fa immediatamente, cioè mediante un semplice giudizio , senza ragionamento alcuno. Ma dopo di ciò noi diciamo, che la nostra riflessione che sopravviene, scioglie la percezione in un ragionamento che è creato dalla riflessione stessa, e che non entra a dir vero nella percezione, ma che fa sì, che noi ci persuadiamo, essersi operato un secreto ragionamento nell' atto del percepire, benchè veramente ciò non sia. Il ragionamento nel quale la riflessione traduce la percezione di noi stessi, si è il seguente: Quando lo spirito umano riceve una sensione, tosto s' accorge che v' ha una realità. Ma la realità è sempre un' entità che dee appartenere ad un ente. Ora la mera realità della sensione non è ella stessa un ente. Dunque se v' è questa realità che non può appartenere che ad un ente, ed ella stessa non è un ente, necessariamente dee sussistere un ente a cui essa appartenga, di cui sia un' attualità. Dunque sussiste l' ente. Tale è il ragionamento che sembra formarsi in ogni percezione; ma propriamente parlando esso non è che l' opera della riflessione, che vi pone del suo senza accorgersi. In fatti la percezione è affermazione di un ente. Dunque non v' è percezione se non quando lo spirito ha detto a se stesso che v' ha un ente, ha proferita l' ultima delle proposizioni dell' esposto ragionamento: sussiste l' ente. Le precedenti proposizioni sarebbero adunque precedenti alla percezione. Ma avanti la percezione non si dà ragionamento alcuno; poichè il pensare umano intorno alle realità comincia colla percezione. Dunque l' accennato ragionamento non appartiene propriamente alla percezione, ma è l' opera della riflessione. Come adunque accade la percezione? forse alla cieca? No certamente; anzi in piena luce: tostochè l' uomo sente modificato se stesso, pronunzia l' esistenza di se stesso, perchè altro egli non può pronunziare che l' esistenza di un ente: la prima cosa che vede lo spirito umano, data la sensione, è l' ente in cui sta la sensione, l' ente modificato: prima di percepir l' ente, la sensione non è che sentimento: dato questo sentimento, l' uomo afferma direttamente il suo principio del sentimento, inseparabile dal sentimento, e così inseparabile, che il sentimento non può essere conosciuto come non può esistere senza di lui, che è l' ente nel quale è. Il sentimento adunque move lo spirito umano ad affermare, non il sentimento solo, ma l' essere in cui è il sentimento , e a percepire quindi l' ente e il sentimento nell' ente contemporaneamente. Questa necessità di percepire intellettivamente la sensione nell' ente senziente, e non la sensione sola, formolata in un principio generale, dicesi principio di sostanza , e può esprimersi così: Ogniqualvolta il sentimento è una realità che non costituisce da se sola un ente percettibile, la percezione intellettiva non si limita a quella realità, ma afferma l' ente a cui quella realità appartiene . La realità che non costituisce da se sola un ente percepibile, dicesi accidente; l' ente a cui quella realità appartiene, dicesi rispettivamente sostanza , in quanto è il sostegno prossimo dell' accidente, cioè ciò in cui si conosce e si afferma sussistere l' accidente. Prima di proceder oltre, rispondiamo ad una difficoltà accessoria, che qui può nascere ragionevolmente nella mente del lettore. Questi dirà: voi avete supposto che, date le sensioni, l' uomo percepisca se stesso e le sensioni sue come modificazioni di se stesso. Ma il fatto non va così. Il bambino alle prime sensazioni che riceve, percepisce i corpi piuttosto che se stesso; e le sue stesse sensioni egli attribuisce ai corpi, onde crede che i corpi sieno colorati, saporosi, sonori ecc.. Tale è certamente, rispondo io, il fatto del bambino; e questo stesso è riprova che nel bambino la percezione de' corpi, come ho già detto, precede la percezione di se stesso; ma il principio di sostanza rimane inconcusso. Appunto perchè il bambino non ha ancora la percezion di se stesso, egli è condotto dalla legge del suo intendimento, che ubbidisce al principio di sostanza, ad attribuire a' corpi le sue proprie sensioni; poichè in virtù di questo principio, egli non può percepire le sensioni senza attribuirle ad un ente. Non potendo adunque attribuirle a se stesso, perchè non si è ancor percepito, le attribuisce ai corpi, all' agente straniero, a questo agente che opera in lui e di cui percepisce la forza, l' attività, colà appunto dove sente, nelle stesse sue sensioni, le quali perciò difficilissimamente si posson dividere dall' agente che le produce, richiedendosi a ciò la più attenta riflessione. Si replicherà: dunque il principio di sostanza è fallace, inducendo l' uomo ad attribuire ai corpi come loro accidenti le sue proprie sensioni. Ma la cosa non va così: non è il principio di sostanza che induca l' uomo ad attribuire piuttosto ai corpi che a se stesso le sensioni. Questo principio obbliga solamente l' uomo ad affermare una sostanza, quando egli ha il sentimento degli accidenti, ma non ad affermare una sostanza piuttosto che un' altra. Tocca dunque all' uomo a mettersi in guardia, che la sostanza che afferma, sia quella propria degli accidenti. E se l' uomo commette errore, egli può correggerlo, perchè n' ha la facoltà. Così noi con un' attenta riflessione veniamo a conoscere più tardi, che le sensioni sono accidenti nostri e non accidenti de' corpi, benchè queste sensioni siano da noi sentite insieme e nello stesso luogo dei corpi, in quanto questi corpi sono agenti nel nostro sentimento, che è finalmente il solo concetto che di essi abbiamo. Or basta che noi abbiamo la facoltà di correggere gli errori nei quali incappiamo, perchè restino confutati gli scettici e assicurato a noi stessi il possesso del vero. Che cosa è dunque il principio di sostanza? Non altro che l' applicazione dell' idea dell' ente a quelle realità sentite che da se sole non bastano a formare un ente percettibile: è la legge della percezione. Ma la percezione è infallibile: dunque anche il principio di sostanza è infallibile. Noi diciamo che una data realità sentita, per se stessa non costituisce talora un ente percettibile. Per dir questo egli è necessario che noi sappiamo che cosa costituisca un ente percettibile. Il sapere che cosa costituisce un ente percettibile, è lo stesso che sapere che cosa sia l' essenza dell' ente che si afferma nel sentimento, e ciò noi sappiam per natura. Dunque il principio di sostanza non è altro che l' intuizione che abbiamo dell' essenza dell' ente applicata alle realità: noi possiamo affermarla, date certe realità (sostanze); non possiamo affermarla di altre realità (accidenti), se non unite a quelle prime: siamo guidati a ciò dalla stessa essenza dell' ente che non può essere realizzata in queste seconde senza le prime (il che ci dimostra che l' ente ha un ordine intrinseco). Ma l' intuizione dell' essenza dell' ente non ammette errore, è l' intuizione della verità stessa. Dunque il principio di sostanza non ammette errore, è vero essenzialmente. La condizione adunque della percezione si è che ella non può affermare nel sentimento, se non un ente. La riflessione ha troppe altre condizioni che ella tende ad avverare, ed una di queste condizioni si è il principio di causa , di cui pure dobbiam dimostrare la natura e la veracità. Già abbiam detto in che consiste la riflessione. Ella è un atto, col quale la mente considera gli oggetti della percezione o di riflessioni precedenti, in rispetto all' essenza dell' ente. Parliamo della riflessione di primo ordine, cioè di quella che si rivolge sugli oggetti delle percezioni, e non sugli oggetti di riflessioni precedenti. Quando la riflessione riferisce gli enti percepiti all' essenza dell' ente, allora vede quanto sono limitati, quanto poco prendono dell' essenza dell' ente, quanto loro manca ad avere in sè esaurita l' essenza dell' ente, vede che hanno l' essenza dell' ente, ma non sono questa essenza. Così anche discopre la loro mutua dipendenza; poichè la dipendenza che uno ha da un altro, non è che una specie di limitazione. Altro è dunque ciò che fa sì che gli enti contingenti e limitati sieno enti separati , distinti, altro è ciò che li rende indipendenti . Possono esser enti separati e distinti, quantunque sieno poi dipendenti. Quindi ciascuno di essi, come ente separato, può essere oggetto di una speciale percezione. La sua dipendenza non è l' oggetto della percezione, ma della riflessione. Allora quando si vede cominciare un essere che non esisteva prima, allora quando si vede cominciare una realità, un modo, un accidente nuovo, la riflessione del nostro spirito dice incontanente che dee esservi una causa che ha prodotto quell' ente, quella realità, quel modo, quell' accidente; e chiama effetto tale produzione. Considerando questa operazione dello spirito, si vede che il concetto e il nome di effetto è posteriore al nome di causa. E` solamente dopo che si è conosciuto che un dato ente non potrebbe esistere senza una causa, che egli riceve il nome di effetto. Che cosa vuol dire riconoscere che un ente ebbe una causa? Non vuol dir altro se non riconoscere che quell' ente (la sua essenza) non ha in se stesso la propria sussistenza, e però gli viene di altronde. Venire la sussistenza di un ente non dall' ente stesso ma altronde, è lo stesso che avere una causa. Quando dunque si giudica che un ente dee avere una causa, altro non si fa se non riconoscere che l' ente per sua essenza non ha la sussistenza. Riconoscere che un ente (o una realità spettante ad un ente) non ha la sussistenza per sua propria essenza non è altro che confrontare l' ente reale percepito coll' essenza dell' ente, il che è l' opera, come dicevamo, della riflessione. Una delle condizioni adunque, alle quali opera la riflessione, una delle sue regole impreteribili si è il principio di causa. Dal detto risulta ancora che il principio di causa non è che un' applicazione che fa la riflessione dell' idea dell' essere ad un ente percepito, mediante la quale applicazione rileva, che l' essenza dell' ente percepito non ha in sè la sussistenza, la quale gli viene d' altronde. Dunque il principio di causa è per se stesso infallibile, perchè l' oggetto della percezione è immune da errore, e l' essenza dell' ente a cui lo confronta, è la stessa verità; e altro non trattasi se non di riconoscere, se nell' essenza dell' ente percepito sia compresa o no la realità. Dire che l' essenza di un ente non comprende la sua sussistenza, è quanto dire che l' ente percepito non ha la ragione del proprio esistere in se medesimo, e che è contingente . Col principio di causa l' uomo percorre la serie delle cause seconde; ma poichè le trova tutte contingenti, egli non può fermarsi in esse: la sua riflessione non riposa, se non giunge ad una causa prima, nell' essenza della quale sia compreso il sussistere, e questa è Dio. Il principio di causa che così si svolge e giugne all' ultima sua operazione, fu anche detto da noi principio d' integrazione . L' umanità tutta intiera, per un bisogno della riflessione intelligente, usa del principio d' integrazione con gran celerità, percorre le cause seconde in globo, e per un istinto razionale irresistibile giugne alla cognizione di Dio. Perciò l' esistenza di Dio fu ammessa in tutti i tempi, da tutti i popoli del mondo. La riflessione è guidata ancora da altri principii: ma ogni sua operazione finalmente si riduce al confronto che ella fa di un oggetto conosciuto coll' essere ideale, per vedere quanto e in che modo partecipa dell' essenza dell' essere, e quanto ne ha difetto. Quindi ogni riflessione per se stessa è un istrumento idoneo alla verità, perchè ha per misura delle cose tutte e per tipo la verità. Dimostrata così l' efficacia dell' umano ragionamento, la logica dee insegnarne l' arte. L' arte di ragionare fa sì primieramente che si evitino gli errori; e in secondo luogo, che si giunga con ragionamento a quello scopo che si propone. Si evitano gli errori, quando si procede in modo che la mente nulla affermi gratuitamente, ma la facoltà della persuasione sia sempre guidata dalla ragione , di maniera che ciò che l' uomo dice a se stesso sia sempre per via di puro ragionamento , senza che intervenga l' arbitrio. A questo tendono le quattro regole cartesiane del metodo. Lo scopo che s' intende di ottenere col ragionare è triplice, perchè si può ragionare: 1 per dimostrare la verità e difenderla; 2 per ritrovare nuove verità; 3 per insegnare la verità ad altri. Quindi tre metodi, il metodo dimostrativo , il metodo inquisitivo o inventivo, e il metodo didascalico , ciascuno de' quali ha le sue speciali regole. Il metodo dimostrativo usa di varie forme d' argomentare, ma tutte si riducono a quella del sillogismo. L' artifizio del sillogismo consiste in far vedere che la proposizione che si vuol dimostrare, è già contenuta in un' altra proposizione o evidente, o almeno certa. Il sillogismo si compone di tre proposizioni, l' ultima delle quali si chiama la conclusione o la tesi, e si chiamano premesse le due precedenti. L' una delle due premesse contiene implicitamente la tesi, e l' altra prova che veramente la contiene. La proposizione che si vuol dimostrare esser contenuta nell' altra dee avere identico con questa o il subietto o il predicato. Se il subietto è identico nelle due proposizioni, basta dimostrare che il predicato della tesi è contenuto nel predicato della proposizione assunta. Se è identico il predicato, basta dimostrare che il subietto della tesi è contenuto nel subietto della proposizione assunta. A dimostrare che il predicato o il subietto della tesi è contenuto nel predicato o nel subietto della proposizione assunta, si prende un concetto, che si chiama termine medio, e si mostra che questo s' identifica coll' uno e coll' altro predicato, ovvero coll' uno e coll' altro subietto; con che è dimostrato, che i due subietti pure, ovvero i due predicati s' identificano pel principio: « che due o più cose uguali ad una terza sono uguali fra di loro. » A vedere se un sillogismo sia efficace o abbia qualche vizio, si può applicare questa regola universale: « Il termine medio dee essere d' una comprensione almeno pari a quella del predicato, e d' una estensione almeno pari a quella del subietto della tesi. » Quando non si trova un solo termine medio, che si possa identificare coi due subietti o coi due predicati, se ne può prendere due o più, i quali s' identifichino fra di loro, e il primo d' essi s' identifichi con uno de' due predicati o de' due subietti, e l' ultimo di essi s' identifichi coll' altro de' due predicati o de' due subietti. Allora invece della seconda premessa si ha due o più proposizioni; forma che si chiama sorite . Le premesse devono esser certe acciocchè la conclusione sia necessaria e quindi v' abbia dimostrazione. Se sono soltanto probabili, la conclusione è pure probabile; se sono ipotetiche, tale è pure la conclusione. La dottrina della probabilità è importantissima e moltiplice. Il metodo inquisitivo della verità insegna la maniera di attignerla ai diversi fonti che sono in potere dell' uomo e che si riducono sommariamente a tre: 1 l' autorità e la tradizione; 2 l' osservazione e l' esperienza; 3 il raziocinio; ciascuno dei quali fonti si suddivide in molti. La maniera di applicare le diverse facoltà umane a questi fonti di notizie per attignerle pure ed abbondanti, e la maniera d' adoperare certi mezzi esteriori, che dirigono ed aiutano le facoltà, somministrano una abbondantissima materia a questa parte della logica. Il metodo didascalico è generale o particolare, secondo che contiene i principŒ generali che dirigono quelli che vogliono comunicare altrui la verità, o le regole particolari per insegnare le speciali scienze. Ciascuno de' tre metodi ha un principio supremo che lo dirige. Il principio del metodo dimostrativo è: « data una proposizione certa, è certa anche quella che in essa è implicitamente contenuta. » Il principio del metodo inquisitivo è: « l' idea dell' essere che è il lume della ragione applicato a' nuovi sentimenti, e a notizie già ricevute nel debito modo, produce all' uomo nuove cognizioni. » Il principio del metodo didascalico è: « le verità che si vogliono insegnare, si dispongano in una serie ordinata in guisa, che quelle che precedono, non abbiano bisogno per esser intese di quelle che seguono. » L' Ideologia e la Logica furono da noi dette scienze d' intuizione , perchè trattano del mezzo di conoscere, che è l' essere ideale che s' intuisce. L' uomo, venuto in possesso del mezzo di conoscere, rimane che lo applichi agli enti diversi, e ne cerchi le ultime loro ragioni. Ma la prima di tutte le applicazioni che l' uomo possa fare del mezzo di conoscere agli enti, è mediante la percezione. Conciossiachè se l' intelletto ha per unica sua funzione l' intuire , le funzioni della ragione umana si riducono a queste due percepire e riflettere . Ora l' uomo non può riflettere su cosa alcuna che riguardi gli enti reali, se la percezione non gliene somministra la materia. Tutte le scienze astratte non possono adunque esser legittimamente cavate, se non da ragionamenti , che abbiano per materia gli enti percepiti. Ora, quali sono gli enti che si possono percepire dall' uomo? Tutti quelli e quelli soli, che cadono nel suo sentimento, dove egli trova la realità: se stesso, e il mondo esterno. Le scienze filosofiche adunque di percezione, sono la Psicologia e la Cosmologia . La dottrina cristiana c' insegna, che l' uomo per una comunicazione graziosa riceve anche il sentimento di Dio, col quale egli viene levato all' ordine soprannaturale. La scienza che tratta di questa percezione deiforme, è da noi detta Antropologia soprannaturale: ella eccede i confini della semplice filosofia. PSICOLOGIA. - La Psicologia è la dottrina dell' anima umana. Essa fa tre cose: 1 dichiara qual sia l' essenza dell' anima; 2 descrive il suo sviluppo; 3 ragiona dei destini dell' anima. L' essenza dell' anima si conosce per via di percezione. Se l' anima non si sentisse , non si potrebbe percepire: ma questo è un fatto primitivo, da cui muove il ragionamento dell' anima, che ciascuno sente e percepisce l' anima propria. Lo stesso fatto, enunciato in tutta quella estensione in cui lo porge l' esperienza e la ragione della cosa, è, che senza sentimento nulla si percepisce. In fatti i corpi stessi non si percepirebbero dall' intendimento, se prima non fossero sentiti. Ma fra il sentimento de' corpi e quello che ha ciascuno dell' anima propria, v' ha una gran differenza; chè i corpi si sentono come una cosa straniera, e l' anima come una cosa propria, anzi come noi stessi: i corpi si sentono dall' anima e l' anima si sente da se stessa e per se stessa. Da questa osservazione si ricava tosto una prima definizione dell' anima: perocchè se l' anima si sente per se stessa; dunque ella è per essenza sua sentimento, poichè è il solo sentimento che si sente per se stesso, e se i corpi si sentono dall' anima, e l' anima si sente per se stessa, l' anima è il principio di sentire: « l' anima dunque è un principio di sentire insito nel sentimento. » Ma l' anima umana non sente solamente, ma anche percepisce intellettivamente, percepisce i corpi sentiti, e percepisce se stessa. L' anima umana dunque è un principio ad un tempo sensitivo ed intellettivo. Questo principio sensitivo quando pronuncia se stesso, adopera il vocabolo IO. L' IO dunque è un vocabolo, che esprime l' anima, ma la esprime in quanto pronuncia se stessa, e quindi non l' anima pura, ma l' anima vestita di certe relazioni con se stessa, l' anima in uno stato di sviluppo. Volendo dunque formarci il concetto dell' anima pura, conviene meditare ciò che si contiene nell' IO, e separare nello stesso tempo tutta quella parte che si riconosce come sopraggiunta ed acquisita colle operazioni dell' anima stessa. In questo senso l' IO è il principio e il subietto della Psicologia. Procedendo per questa via il Psicologo, trova coll' aiuto dell' Ideologia una definizione più compiuta dell' anima umana, che si può esprimer così: « L' anima umana è un soggetto o principio intellettivo e sensitivo, che ha per sua natura l' intuizione dell' essere, e un sentimento, il cui termine è esteso; e certe attività conseguenti all' intelligenza ed alla sensitività. » Dalla quale definizione, che ne esprime l' essenza, si deducono le sue proprietà, delle quali sono nobilissime le seguenti: 1) La semplicità , la quale si prova da questo appunto, che l' anima è un principio unico e immune dallo spazio, perchè l' identico principio che sente, è anche quello che intende: perchè l' atto del sentire in opposizione all' esteso sentito, esclude l' estensione per la medesima opposizione: finalmente perchè il principio intelligente riceve la forma dall' idea, cosa immune affatto dallo spazio e dal tempo. 2) L' immortalità , la quale si prova: 1 dall' esser l' anima il principio che dà la vita al corpo; ora l' anima essendo quella che dà la vita, è vita ella stessa; perciò non può cessar d' esser vita se non coll' annullamento, onde da se stessa non può morire, è per sè immortale; e 2 perchè la forma dell' anima intelligente è l' idea eterna ed immutabile. E` vero che, essendo l' anima di natura contingente, potrebb' essere annullata, ma ciò non potrebbe fare che Dio, il quale solo ha virtù di creare e quindi anche d' annullare. Ora Dio niente annulla di quanto ha creato, ripugnando ciò a' suoi attributi, come si dimostra nella Teologia naturale . Abbiamo detto che l' anima è un principio intellettivo e sensitivo, che ha per natura l' intuizione dell' essere e un sentimento il cui termine è esteso. L' essere intuito dall' anima è del tutto indeterminato; quindi, qualora ella non avesse che questo solo, non potrebbe avere alcuna cognizione di cosa determinata, e il suo sviluppo intellettivo sarebbe stato impossibile, non per mancanza di potenza, ma per mancanza di materia. Il creatore vi provvide, dando all' anima quel sentimento il cui termine è l' esteso, dandogli lo spazio ed un corpo. Quel sentimento dell' anima, che ha un termine ossia un sentito esteso, termine che subisce diverse modificazioni, somministra dunque all' anima la materia prima di tutte le sue operazioni intellettive, dalle quali ella poi trae tutte le sue cognizioni: quindi lo svolgersi dello scibile umano. E` dunque un errore quella sentenza di Platone, che considerava il corpo come un impedimento al volo dell' anima: egli è anzi, considerato per sè, lo strumento dello sviluppo e del perfezionamento della medesima. Ma la sentenza di Platone ha la sua verità, se, invece di applicarla alla natura del corpo, s' applica alla corruzione entrata nell' animalità colla prima colpa. Consideriamo ora più attentamente questo termine esteso. Egli è duplice, lo spazio ed il corpo , che è una forza che si diffonde in una parte limitata dello spazio. Lo spazio per sè è immobile, semplice, illimitabile, indivisibile. Ma il corpo è mobile, limitato, divisibile e quindi anche composto. Mediante queste varietà, che subisce di continuo il corpo, accade una continua variazione del termine del sentimento, e quindi la moltiplicità immensa delle sensazioni e delle percezioni, e l' abbondanza della materia prima data all' umano conoscimento. Ma qui nasce da sè la questione, come un sentito esteso possa darsi all' anima, la quale è un principio semplice. E prima di risolvere questa questione, conviene osservare, che i due estremi della proposizione, cioè, che l' anima sia un principio semplice e che essa abbia per termine del suo sentire un esteso, sono un fatto indubitabile; onde, quand' anche l' uomo non potesse giungere a intenderne il come, non per questo se ne potrebbe negare la verità, ma converrebbe confessare anche qui uno di que' molti misterŒ, in cui o niuno degli uomini o pochi sanno penetrare. Venendo dunque alla questione del come, e non parlando che de' corpi, egli è manifesto che quel fatto che si deve spiegare, è duplice anch' esso, perchè l' uomo sente due maniere di corpi ben distinte: sente in primo luogo quel corpo, ch' egli chiama suo proprio, e che l' anima accompagna sempre, in qualunque luogo dello spazio esso si trasporti; e sente i corpi diversi dal suo, ma questi li sente appunto come stranieri; e li sente, perchè modificano con violenza il corpo suo proprio, che solo è continuamente sentito. Qualora dunque fosse spiegato, come l' anima sente continuamente il corpo suo proprio, non sarebbe più tanto difficile a spiegare, come senta i corpi esterni, che modificano lo stesso corpo suo proprio. Infatti è da osservarsi la maniera con cui il principio sensitivo sente il corpo suo proprio. Egli nol sente con una semplice passività, ma con una passività mescolata di molta azione, non solo perchè il sentimento è un atto del principio senziente, e un atto continuo rispetto al corpo suo proprio, ma perchè di più è un atto così potente, che per mezzo di esso il principio senziente, cioè l' anima, modifica ed atteggia continuamente il proprio corpo, e produce in esso molti movimenti e cangiamenti; e il corpo suo proprio come inerte, subisce quest' azione del principio sensitivo, nella quale consiste l' intima unione del detto principio con esso corpo. Ciò posto s' intende come, se in quel corpo, che è in podestà dell' anima, nasca un cangiamento indipendente dall' anima, ed anzi opposto alla sua continua azione, ella senta un contrasto, una violenza, e questo è quanto dire sente un corpo straniero. Dal qual fatto si può raccogliere un principio ontologico, ed è, che un principio senziente oltre il sentire suo proprio e spontaneo, sente anche e riceve in sè una forza straniera, che si oppone all' azione sua istintiva e spontanea, e anche l' aiuta, e ciò senza perdere punto della sua semplicità. Quando poi sia stato spiegato come l' anima senta in sè qualche cosa di straniero a se stessa, il che è quanto dire un' attività, che lotta contro la sua propria, ovvero anche, che stimola la sua propria, allora non sono più difficili a spiegarsi le qualità seconde de' corpi esterni, quali sono i colori, i sapori, gli odori ecc.. Perocchè tutte queste cose appartengono al corpo proprio dell' anima in quanto è termine del suo sentire, e non rimane altra difficoltà, che quella dell' estensione de' corpi; rimane cioè la sola questione che abbiamo prima proposto, come l' anima, essendo un principio semplice, possa aver per termine l' estensione. Ora questa questione, quando si consideri intimamente, non presenta più quella ripugnanza che dimostra nell' apparenza, ed anzi si prova che non può esser altro che così; di maniera che se n' ha infine questo risultato, che « l' esteso continuo non può esistere che in un principio semplice, come termine del suo atto. »Perocchè se così non fosse, non ci sarebbe una ragione della continuità delle parti, che si possono assegnare in tale esteso, giacchè l' esistenza di una parte finisce in lei, e non contiene la ragione dell' altra parte che gli sta aderente. La ragione del continuo non istà dunque nelle singole parti, ma in un principio che abbraccia tutte le parti insieme, e questo semplice. Oltrediciò, le parti stesse, delle quali si supponesse formato il continuo, svanirebbero davanti a chi le cercasse, perchè, essendo l' esteso divisibile all' indefinito, non si possono trovar mai le prime parti, anzi al tutto non esistono. Non è dunque possibile considerare il continuo come un aggregato di parti, eppure ciascuna parte in esso assegnabile col pensiero, è fuori dell' altra, e ha un essere indipendente dall' altra. Convien dunque che tutto insieme il continuo esista con un atto solo nel semplice che lo sente. Proseguendo le ricerche su questa via si riesce ai seguenti risultati: 1 Che il principio senziente, ossia l' anima sensitiva, ha per suo primo termine l' estensione pura, ossia lo spazio immisurato . 2 Che ha per suo secondo termine una forza limitata diffusa nello spazio, la quale perciò è una misura limitata dello spazio, che non rimane tuttavia scisso o discontinuo. Questo è il corpo proprio dell' anima, che viene da lei informato, ed è la sede di tutti i suoi sentimenti corporei. 3 Il corpo proprio dell' anima è sentito da lei con un sentimento fondamentale e sempre identico, benchè sia suscettivo di variazioni ne' suoi accidenti. Il corpo proprio sentito con un tal sentimento fondamentale non ha ancora distinti confini, e perciò non ha figura distinta nel sentimento dell' anima. 4 Questo corpo viene modificato dall' azione di altri corpi esteriori e stranieri all' anima, e queste modificazioni in quanto sono sentite si chiamano sensazioni esterne e sono di diverso genere, secondo i varŒ organi del corpo. Ma tutte queste sensazioni presentano un sentimento esteso solamente in superficie, e mediante queste sensazioni superficiali, il corpo proprio acquista dei limiti ed una figura determinata sentita dall' anima. 5 Il corpo proprio, come pure i corpi esteriori, occupano una sola parte dello spazio, e si possono muovere in esso, cioè cangiar di luogo. Questi movimenti diventano la misura di altrettante parti dello spazio e così si presenta al sentimento, date certe condizioni, uno spazio misurato , che può essere sempre più ingrandito indefinitamente, giacchè v' ha un' indefinita possibilità di movimento. Il principio sensitivo, rispetto al primo de' suoi termini, cioè allo spazio immisurato, non esercita alcuna attività, se non quella di semplicemente averlo per termine senza potergli cagionare alcuna modificazione. Ma rispetto al suo secondo termine, cioè al corpo proprio, egli non è soltanto ricettivo o passivo, ma ben anco attivo; e questa passività e questa attività, reciproca e moltiplice, è diretta da mirabilissime leggi. In quanto il principio, ossia l' anima sensitiva è passiva, si suol dire che è dotata della facoltà di sentire, ossia della sensitività ; in quanto poi è attiva, si suol dire che è dotata dell' istinto . Il primo atto dell' istinto è quello che produce il sentimento, e dicesi istinto vitale ; ma ogni sentimento, suscitato nell' anima, vi produce una nuova attività, e questa seconda attività, che succede ai sentimenti, si chiama istinto sensuale . Mediante questi principŒ, cioè, 1 l' istinto vitale, 2 la sensitività, 3 l' istinto sensuale, si spiegano mirabilmente i fenomeni fisiologici, patologici, e terapeutici dell' animale: onde ha origine la medicina. L' unione del principio animale col suo termine corporeo è così intima, che non si concepisce il principio senza il termine, nè il termine senza il principio; e però quantunque l' uno non sia l' altro, l' uno anzi sia opposto all' altro, tuttavia formano un ente solo, un solo animato, e quando del termine si fa un ente a parte e intieramente separato, non si ha per risultato che un prodotto dell' astrazione. Tuttavia conviene nel termine dell' animale distinguere tre cose, che danno luogo a tre specie di sentimenti: 1 il continuo corporeo , termine del sentimento dell' esteso corporeo ; 2 il movimento intestino degli atomi, o delle molecole, o delle parti dell' esteso corporeo, termine del sentimento d' eccitazione ; 3 la continuazione armonica del detto movimento, termine del sentimento organico . Ora il principio sensitivo può esser privo delle due ultime maniere di sentimento, ma non della prima. Se egli ha soltanto la prima e la seconda maniera di sentire può dirsi animato , ma non animale: il carattere distintivo dell' animale è il sentimento organico, al quale è necessaria una congrua organizzazione. Si può dunque dire che l' animale muore, ma l' animato non muore. Nulladimeno questo subisce delle mutazioni essenziali rispetto alla sua individualità. Le quali si riassumono nelle seguenti leggi: 1 Ogni esteso continuo ha un solo principio sensitivo del continuo. - Dal qual principio procede che qualora più atomi vengano al contatto in modo da formare un solo continuo, i principŒ sensitivi s' unificano, riducendosi in un solo, che ha in sè l' attività di tutti i precedenti non distrutta ma accentrata, e quando il continuo si spezza in più continui, il principio si moltiplica in più principŒ sensitivi. Qui non v' ha divisione o composizione , ma unicamente moltiplicazione e unificazione . 2 Che se il movimento intestino in un dato continuo è parziale, il principio del continuo rimane uno, ma i principŒ del sentimento eccitato si moltiplicano quanti sono i sistemi di movimenti continui. 3 Che se il movimento armonico intestino nelle parti d' un continuo, abbraccia tutto il continuo, v' ha un solo principio senziente di quest' unica armonia, ma se i sistemi de' movimenti armonici nello stesso continuo sono più, v' hanno più principŒ senzienti, cioè tanti quanti sono que' diversi sistemi, benchè tutti abbiano per base, ossia per primo atto, il principio, che abbraccia tutto il continuo. Ma l' anima umana non è soltanto sensitiva, ma ancora intellettiva. Ella è un principio intellettivo e sensitivo ad un tempo. In quanto è un principio sensitivo ha per termine il proprio corpo; ma poichè il principio intellettivo è unificato col sensitivo, di maniera che è un principio solo con due attività, perciò l' anima intellettiva e sensitiva, o in una sola parola l' anima razionale , ha per suo termine il corpo. In quanto è sensitiva, l' ha come termine sentito , in quanto è intellettiva, l' ha come termine inteso: il corpo dunque è un termine dell' anima umana sentito7inteso. V' ha dunque una percezione intellettiva del proprio corpo, primigenia ed immanente, e in questa percezione consiste il nesso fra l' anima umana ed il corpo. Così s' intende il reciproco influsso dell' anima e del corpo; perocchè qualunque realità che abbia natura di principio, è di natura sua attiva, e però agisce secondo certe leggi nel suo termine. Ma poichè per agire in esso, conviene che lo abbia per termine, e non lo può avere se non gli è dato, quindi anche il principio è ricettivo e passivo rispetto al termine, e a quella virtù che gli dà il termine e a quell' altra virtù che gli modifica il termine. Egli è dunque chiaro, che fra l' anima umana e il suo corpo vi ha un commercio o fisico influsso. Come poi il principio intellettivo e il sensitivo sieno un solo principio, non sarà del tutto impossibile il concepirlo, ove, per una semplice supposizione, si considerino prima separati, e poi si supponga che il principio sensitivo, indivisibile dal suo termine, sia dato a percepire al principio intellettivo, e si domandi, che cosa ne dovrà avvenire. Converrà rispondere che il principio intellettivo non potrà percepire il principio sensitivo, se non unendosi strettamente con lui, cioè percependo tutto quello che egli sente, chè la stessa natura del principio sensitivo risulta unicamente da quello che sente. Così i due principŒ diventano un principio solo senza che si distruggano le loro attività. Perocchè due principŒ non possono essere termini l' uno dell' altro, senza che l' uno, cioè il percipiente, acquisti l' attività del percepito; chè la percezione è un nesso fisico, e un' attività non può avere un nesso fisico con un' altra attività che sia principio, senza congiungere a sè la detta attività e il detto principio. Infatti un termine rimane separato dal suo principio unicamente per la loro diversa natura, cioè perchè il termine è esteso, e il principio è semplice; perchè il termine è oggetto, e il principio soggetto; ma se la natura è la stessa, e sono entrambi due principŒ soggettivi, non si può intendere altra congiunzione fisica se non questa, che il percipiente riceva o congiunga a sè l' attività dell' altro principio senziente da lui percepito. Nè viene già per questo, che le due attività si confondano in una terza, ma soltanto, che le due attività, restando distinte, acquistino un solo principio da cui incominciano, benchè l' una subordinata all' altra. Che se dal principio intellettivo, che è il percipiente, si distacca l' attività sensitiva, il che suol avvenire quando il corpo, termine di questo, si disorganizza, e quindi il suo principio sensitivo rimane senza il termine organato che gli è proprio, ond' egli vien meno, allora succede la morte dell' uomo. La Psicologia dopo avere così ragionato dell' essenza dell' anima e della costituzione dell' uomo, passa a ragionare del movimento e dello sviluppo dell' essenza medesima, che dirama la sua attività nelle diverse potenze ed operazioni. E venuta su questo argomento ella fa due lavori, l' uno analitico , col quale deriva dall' essenza dell' anima le facoltà, e distinguendole prima dalla stessa essenza, poscia tra loro e sempre più quasi rami d' un albero, che si moltiplicano quanto più si producono, le enumera e le definisce tutte ordinatamente; l' altro sintetico , col quale raccoglie le leggi , ossia i modi costanti di operare delle dette facoltà. Nel derivare le potenze dall' essenza stessa dell' anima si presentano inevitabilmente delle gravissime questioni ontologiche, a ragion d' esempio: « come si concilii l' unità dell' essenza, e la moltiplicità delle potenze »: - « in che modo v' abbia successione nelle potenze, e permanenza o immutabilità nell' essenza »: - « come l' essenza medesima possa sostenere diversi stati accidentali » - ed altre somiglianti. Mirabili poi sono le leggi colle quali opera l' anima, o immediatamente, o col mezzo delle sue varie potenze. E l' anima essendo una, e questa razionale, dal principio razionale in relazione co' suoi termini devono emanare tutte quelle facoltà che si dicono umane, e le leggi altresì del loro operare. Quindi altre di queste leggi sono psicologiche , e son quelle che procedono dalla natura stessa dell' anima come principio attivo; altre sono ontologiche , e sono quelle che vengono imposte all' anima umana dal suo termine superiore intellettivo, il qual termine è l' ente; altre finalmente sono cosmologiche , e son quelle che vengon imposte all' anima dal suo termine inferiore, cioè dal mondo sensibile. La suprema fra le leggi ontologiche è il principio di cognizione, che si esprime così: « il termine del pensiero è l' ente. » E` incredibile quanto sia feconda e meravigliosa questa legge nelle sue applicazioni. Le leggi cosmologiche altre sono quelle che presiedono al movimento, che dà il termine sensibile allo spirito umano, altre in quelle che determinano la qualità di questo movimento. Le prime si chiamano leggi della mozione , le seconde leggi dell' armonia . Le leggi psicologiche finalmente, cioè quelle che nascono dalla stessa forza dell' animo, si dividono in due classi, perchè altre rispondono alle ontologiche, altre rispondono alle cosmologiche. La Psicologia finalmente tenta di scoprire la destinazione dell' anima umana. Ma ella non può compire questa scoperta coll' uso della sola ragione naturale, ovvero col semplice esame della natura umana. Ella può bensì mediante quest' esame rilevare dove tenda questa natura, ma le rimane ignoto quel di più, che le ha destinato la gratuita liberalità e magnificenza dell' infinito Essere che la creò. Quel solo adunque che risulta dall' esame della natura umana è questo: la prima parte di questa natura è l' intelligenza, e l' intelligenza è fatta per la verità. La seconda parte di questa natura è la volontà, e la volontà è fatta per la virtù: con essa l' uomo aderisce alla verità, la ama in tutte le cose, e così ama tutte le cose secondo la loro verità. Ma questo amore che cerca soddisfarsi negli enti, secondo la verità, vorrebbe pienamente possedere quello che ama, e che gli è bene appunto perchè l' ama. Vi è dunque una terza parte nell' uomo, e questo è il sentimento in tutta l' estensione di questa parola. Il sentimento è una tendenza a godere. La volontà dunque che aderisce alla verità, e però che è virtuosa, la volontà che di conseguente ama tutti gli enti secondo la verità, desidera altresì che tutti questi enti le si dieno a godere, giacchè col godimento si compie il suo conoscimento e il suo amore di essi. Questo è quanto dire che cerca la felicità. Di che si raccoglie, che l' anima tende di sua natura ed è destinata alla sua perfezione, e che questa perfezione consiste nella piena vista della verità, nel pieno esercizio della virtù e nel pieno conseguimento della felicità, triplice fine, triplice destinazione, in cui si trova tuttavia una perfetta unità, poichè non ci può essere un solo di questi tre elementi in modo completo, senza che ci sieno gli altri due: la verità non è veduta ne' suoi intimi visceri, se non da chi l' ama e la gode; nessuno ama pienamente la verità negli enti in cui è attuata, senza che ce la veda e ne goda; nessuno ne gode pienamente ed è felice, se pienamente non l' ama, ed è virtuoso, e pienamente non la vede ed è sapiente. L' uno di questi tre beni implica gli altri due: non sono che tre forme d' un solo ed unico bene. Ma se dall' esame della natura umana risulta che questa è la sua destinazione, come l' uomo ci arriva? Qui ammutolisce l' umana ragione, anzi rimane confusa al vedere, che non trova mai nella vita presente uno stato dell' uomo, che corrisponda pienamente a quel fine, a cui aspira. Da una parte la natura delle umane potenze diligentemente investigata, e i voti incessanti del cuore umano, fanno conoscere alla ragione l' altissimo scopo, a cui è rivolta l' umanità: dall' altra la ragione medesima vede l' umanità in sulla terra ravvolta di continuo nell' ignoranza, ludibrio delle passioni e de' vizŒ, guasta dappertutto e da per tutto infelice; la vita fuggevole siccome un lampo, incerta sempre, sempre una lotta, sempre un sacrificio, la morte di tutti quelli che nascono, chiudere tutto questo dramma. A un tale spettacolo la ragione stessa vacilla, crede d' aver sognato, perde la confidenza in sè medesima. Finalmente quasi facendo uno sforzo si ristora con un' ipotesi consolante, quella della vita futura. Ma l' umana ragione non viene da Dio abbandonata nelle sue esitazioni. Ecco, Iddio rivela all' uomo il secreto della sua bontà creatrice: l' assicura che la teoria ispirata dal sentimento, trovata dalla ragione collo studio e la meditazione dell' umana natura, non mentisce e non l' inganna: sarà adempita, ad essa risponderà fedelmente il fatto in un modo ancor più sublime della stessa teoria: tuttociò, che si manifesta sopra la terra, come un ostacolo e come una smentita data alla ragione, rimane spiegato dalla manifestazione dell' intero disegno del Creatore: diventa in questo disegno un mezzo necessario ed una conferma di quanto insegnò la ragione medesima. L' ipotesi d' un' altra vita è convertita in certezza da una testimonianza infallibile. Quest' altra vita che non ha fine, in cui l' uomo più non muore, ha in se stessa tanta copia di beni e di mali da colmare tutte le disuguaglianze e correggere tutte le irregolarità della vita temporale: in questa stessa Iddio pose i segni di quell' ordine futuro ed eterno: consegnò all' uomo de' mezzi eccellenti e al tutto divini, coll' uso dei quali egli può, volendolo, conseguire quella sublime destinazione, che la ragione soltanto da lontano e imperfettamente indicava. Questa parte dunque della destinazione dell' anima e dell' intero uomo non può essere esaurita nella Psicologia, o nell' Antropologia naturale, ma in un' altra Psicologia o Antropologia, che attigne le sue dottrine dalla bocca di Dio medesimo. COSMOLOGIA. - Questa scienza è la dottrina del mondo. L' abbiamo posta fra le scienze di percezione, perchè sono oggetti di percezione lo spirito umano ed i corpi di cui si compone il mondo. Tuttavia nel gran sistema della creazione v' ha degli altri esseri che non cadono sotto l' esperienza sensibile, e s' inducono per ragionamento; tali sono gli spiriti puri, gli angeli. La cosmologia considera il mondo 1 nel suo tutto, 2 nelle sue parti, in quanto si riferiscono al tutto, 3 nel suo ordine. La cosmologia come dottrina del tutto contingente, tratta 1 della natura dell' essere reale contingente, 2 della sua causa. L' essere contingente non ha in se stesso la ragione della propria esistenza, quindi esige una causa; e poichè niuna parte dell' essere contingente, nè sostanziale nè accidentale, ha in sè la ragione della propria esistenza, quindi esige una causa creatrice: l' essere contingente è dunque tratto ogni istante dal nulla. Altra prova della creazione del mondo si ha dall' analisi della percezione; la quale analisi ci mostra, che tutto ciò che cade nel sentimento (noi stessi e il mondo), non potrebbe esser percepito, il che è quanto dire non sarebbe ente, se la mente stessa non lo vedesse unito all' essenza dell' ente: onde è questa essenza che gli dà l' atto dell' essere quasi a prestito; lo crea. Nella coscienza di noi stessi e di ogni nostra sensione o percezione troviamo una terza prova che l' ente contingente è creato, perchè noi sentiamo di sussistere, ma non sentiamo la forza che ci fa sussistere; perciò sentiamo di non sussistere per noi stessi. La natura dell' essere contingente maggiormente si illustra coll' esposizione delle sue essenziali limitazioni . Dallo studio di queste procedono importantissimi corollarŒ, un de' quali si è la dottrina intorno alla possibilità del male. Dalla dottrina delle limitazioni essenziali dell' universo, la scienza passa a quistioni più elevate. I creabili, ossia i possibili esistono distinti in Dio? e se no, come vengono distinti fuori di Dio? sono essi finiti ovvero infiniti? onde fu mosso Iddio a creare? Egli è impossibile dare una compendiosa esposizione di sì alte questioni colla soluzione delle difficoltà ch' esse ingenerano nella mente. La seconda parte della cosmologia distingue le parti dell' universo, 1 in ispiriti puri, 2 anime, 3 corpi; e tratta di ciascuna di queste parti considerate come parti dell' universo. Finalmente nella terza, in cui si parla dell' ordine dell' universo, si vengono esponendo le leggi cosmiche cioè universali a tutte le cose contingenti; e quindi si compie il discorso, incominciato già nelle parti precedenti, intorno alla bontà del mondo ed a' suoi destini. Ma questi soli cenni bastevolmente dimostrano che la Cosmologia non si può trattare compiutamente, separandola dall' Ontologia e specialmente dalla Teologia. Imperocchè come si può trattare della natura dell' ente in quant' è contingente e limitato, senza trattare ad un tempo o aver trattato dell' ente necessario e illimitato? Come si può trattare della maniera, in cui il mondo cominciò ad esistere, se non si tratta della natura e dell' operare del suo autore? Come si possono intendere le cose in quanto sono temporanee, senza l' intendimento delle cose eterne? Come si può dar ragione degli atti transeunti, senza ricorrere agli atti immanenti? Noi dunque riputiamo impossibile il fare della Cosmologia una scienza compiuta stante da sè; ma crediamo, ch' ella non possa esser altro che una parte d' un' altra scienza superiore, che dà la dottrina dell' ente, sia in astratto ed universale, e sia nel suo atto compiuto ed assoluto. L' intuizione somministra il mezzo del ragionamento; l' intuizione e la percezione somministrano al ragionamento la sua materia . Non si dà ragionamento che non prenda in fine la materia da questi due fonti. Le scienze d' intuizione e di percezione sono scienze di osservazione: osservano ciò che si presenta allo spirito da intuire, ciò che avviene nello stesso spirito, e ciò che avviene nel corpo in quanto egli è un agente nel sentimento. Su queste osservazioni si volge e si rivolge la riflessione, e seguendo la guida di que' principŒ che le somministra il lume dell' essere a cui riferisce ogni cosa, discopre nuove verità, e fin anco argomenta all' esistenza di enti che si sottraggono all' intuizione ed alla percezione. Le scienze filosofiche di ragionamento si dividono in due classi. Le une trattano degli enti come sono, e si dicono ontologiche; le altre trattano degli enti come devono essere, e si dicono deontologiche . SCIENZE ONTOLOGICHE. - Le scienze ontologiche sono due: l' Ontologia propriamente detta, e la Teologia naturale . ONTOLOGIA. - L' ontologia tratta dell' ente considerato in tutta la sua estensione come è all' uomo conosciuto; tratta dell' ente nella sua essenza e nelle tre forme in cui è l' essenza dell' ente, la forma ideale , la forma reale , e la forma morale . L' essenza è identica in tutte e tre queste forme; ma le forme sono distintissime fra loro ed incomunicabili. La forma ideale non può concepirsi senza l' essenza dell' essere, perchè ella è appunto essenza dall' essere, in quant' è conoscibile ; ma la forma reale si concepisce anche priva per sè dell' essenza dell' essere. In tal caso, la forma reale non acquista il nome di ente, nè d' oggetto, e non è concepibile se non perchè vi s' aggiunge l' essenza dell' essere, la quale le dà quell' atto di essere che le mancherebbe. Indi in parte si spiega l' origine dell' essere contingente, la creazione di quest' essere. La forma morale è il rapporto che ha l' essere reale con se stesso mediante l' essere ideale. In quanto l' ente è ideale , in tanto ha la proprietà di esser lume, e di essere oggetto . In quanto l' ente è reale , in tanto ha la proprietà di esser forza e di esser sentimento attivo e individuo, e quindi soggetto . Ma il principio senziente, ossia il soggetto, può avere per suo termine tal cosa che non è lui stesso, come sarebbe l' estensione e il corpo, e questo termine non è oggetto , e non è neppure soggetto , ed è fuori del soggetto, onde si chiama estrasoggetto . Ma questo estrasoggetto, come tale, ha un' esistenza solamente relativa al soggetto, di cui è termine. I modi dunque dell' ente reale sono due, il soggettivo , e l' estrasoggettivo . In quanto l' ente è morale , in tanto ha la proprietà di essere l' atto che mette in armonia il soggetto coll' oggetto, di esser virtù perfezionatrice, compimento del soggetto mediante l' unione e l' adeguamento all' oggetto7beatitudine dell' ente. Qualora gli enti limitati che cadono nella cognizione umana si vogliano classificare nel modo più sommario, tutti si riducono a queste tre ultime classi di enti ideali, enti reali , ed enti morali: di maniera che le tre primordiali forme dell' ente sono anche il fondamento delle categorie . Le categorie sono classi più estese di tutti i generi, e non sono generi e molto meno specie, poichè lo stesso ente che si divide in generi, e in ispecie, appartiene a tutte e tre le categorie. Quando si considera l' ente in tutta la sua estenzione, allora si scorge ch' egli ha un ordine interno , ammirando ed immutabile, di cui l' ontologia copiosamente ragiona. Da quest' ordine si raccoglie, fra le altre, la legge del sintesismo dell' ente ; la quale si manifesta in mille modi; ma principalmente mediante questa verità, che « l' ente non può esistere sotto una sola delle tre forme, se non esiste anche sotto l' altre due, quantunque al pensiero umano l' ente, anche sotto una sola forma, si rappresenti come stante da sè e percettibile in un modo distinto. » L' Ontologia non solo dà la teoria delle tre forme primordiali dell' ente e dell' identità dell' ente in esse, ma distribuisce l' ente medesimo identico sotto le tre forme in generi, specie e individui , e cerca la ragione di questa distribuzione ne' visceri dello stesso ente, colla quale investigazione va trovando in che modo l' ente sia suscettivo di limitazioni, e così spiana la via alla dottrina intorno all' origine dell' ente limitato e contingente, la quale appartiene alla Cosmologia. Ella medesimamente tratta delle proprietà essenziali all' ente, deducendole dal principio di cognizione: « l' ente è l' oggetto del pensiero », applicandolo al ragionamento, mediante quest' altro principio: « quando rimossa una data proprietà, l' ente non si può più pensare, quella proprietà gli è essenziale », che è il principio stesso di cognizione espresso in forma ontologica. Quindi deduce le proprietà ontologiche di cui deve necessariamente partecipare l' ente limitato e contingente, acciocchè sia possibile: dottrina anche questa necessaria alla Cosmologia. TEOLOGIA NATURALE. - Ma il pensiero umano non comprende totalmente l' ente come è in sè: di questo tratta la Teologia. La Teologia dunque è quella scienza che tratta dell' ente come è in sè, in quanto la mente nostra s' accorge che l' ente, oltre quella parte che a noi si manifesta, via più si stende: tratta in somma dell' Essere assoluto, di Dio. L' ente che cade naturalmente sotto l' intuizione dello spirito umano è illimitato, perchè è l' essenza stessa dell' ente, ma non è tuttavia l' ente assoluto, perchè l' intuizione non coglie l' essenza dell' ente, se non sotto una sola delle sue tre forme, sotto la forma ideale. L' ente che cade sotto la percezione dell' uomo non è che la realizzazione parziale dell' ente, realizzazione per sè distinta dall' essenza dell' ente; e il sentimento, materia della percezione, non è che la forma reale dell' ente, di maniera che l' intendimento è costretto, se vuol percepirlo, di comporlo insieme coll' essenza dell' ente, benchè quest' essenza non appartenga propriamente al sentimento contingente, come quella che è eterna. Dunque i materiali che ha l' uomo, su cui appoggiare il suo ragionamento, affine di cavarne una dottrina compiuta dell' ente, sono imperfetti e manchevoli. L' ente dunque nella sua totalità e pienezza non è dato naturalmente all' esperienza dell' uomo, e l' uomo non può sapere come egli sia , benchè egli possa sapere che è in una guisa travalicante l' umana intelligenza. Questa maniera di cognizione dicesi negativa , e tal è la cognizione spettante alla Teologia naturale che tratta dell' ente nella sua assolutezza, dell' ente non come è conosciuto all' uomo, ma come è in se stesso. La Teologia naturale dimostra primieramente l' esistenza di Dio, e ciò per molte vie, fra le quali, le principali si possono ridurre a quattro. La prima dall' essenza dell' ente che si intuisce; dimostrando, ch' ella non è nulla, ma è cosa eterna e necessaria. Ora non potrebbe esser tale s' ella non sussistesse identica anche sotto la forma di realità e di moralità. Ma l' essenza dell' ente è infinita; ed essa esistente sotto le tre forme è l' essere da ogni parte infinito, assoluto, Dio. La seconda dimostrazione dell' esistenza di Dio si trae dalla forma ideale . Questa forma ideale è luce che crea le intelligenze, ed è luce eterna, e oggetto eterno: dunque dev' esserci una mente, un soggetto eterno . Questa luce è illimitata: dunque questo soggetto dee avere una sapienza infinita, e il suo conoscere non dev' essere un atto transeunte, ma in lui tutto deve essere conosciuto per se stesso. Un soggetto che nello stesso tempo esiste come oggetto infinito , ha l' unione massima di lui coll' oggetto, onde è l' atto infinito della bontà o perfezione morale che costituisce la terza forma primordiale dell' essere. Quest' essere è dunque assoluto, è Dio. La terza dimostrazione si trae dall' essere reale percepito dall' uomo, ed è quella che abbiamo accennata, con cui la mente sale dal contingente al necessario, alla prima causa e ragione di tutto [104]. La quarta dimostrazione si deduce dalla forma morale conosciuta all' uomo. Infinita e insuperabile è l' autorità della legge morale, infinito il pregio della virtù e l' ignobilità del vizio. Questa forza obbligante, questa dignità del bene morale, non è nulla, dunque ella è eterna, necessaria, assoluta. Ma nulla sarebbe, se ella non esistesse in un essere assoluto. L' essenza della santità appartiene all' essenza dell' essere, di cui è l' ultimo compimento; come all' essenza dell' essere appartengono l' altre due forme. Vi ha dunque un essere assoluto, Dio. Dimostrata l' esistenza di Dio, la Teologia naturale deve occuparsi a determinare con precisione in che modo l' uomo possa, rimanendo nell' ordine della natura, conoscere Iddio. Ella dimostra che l' uomo non può conoscere Iddio, se non col ragionamento. Non potendo nè intuire nè percepire Iddio naturalmente in questa vita, si rende necessario il ragionamento a discoprirne l' esistenza. Ne discopre l' esistenza, come abbiamo veduto, paragonando l' uomo gli enti che intuisce e che percepisce coll' essenza dell' ente, ed osservando che essi non la esauriscono, e che dall' altra parte ella dev' essere esaurita, realizzata appieno, completata, e ciò per l' esigenza dell' essenza stessa dell' ente che noi intuiamo. Ma di quest' essere assoluto che non intuiamo, che non percepiamo, nulla possiamo sapere di più di quanto ci mostra la stessa esigenza dell' essenza dell' ente, oggetto dell' idea. Questo è il confine della cognizione che possiamo aver di Dio nell' ordine naturale: e perciò la cognizione nostra della divina natura si potrebbe anche chiamare negativa ideale. E una tale esigenza ci dimostra due cose. La prima che non possono appartenere a Dio nè i difetti, nè le limitazioni degli enti che conosciamo. La seconda, che tutti i pregi degli enti che conosciamo devono appartenere a Dio, ma non in quel modo che sono negli enti da noi conosciuti, perchè in tali enti questi pregi sono o contingenti, o limitati, o divisi, e, in una parola, essenzialmente forniti di qualche limitazione o divisione; quando nell' essere supremo devono esistere necessariamente senza divisione e limite, e insomma in tutt' altro modo, o anzi senza modo. Queste due maniere di conoscere la natura dell' ente assoluto si sogliono chiamare via exclusionis , e via eminentiae . Conosciute le maniere per le quali il pensier nostro si forma la dottrina intorno a Dio, convien passare all' esposizione di questa dottrina, la quale considera Iddio in se stesso, e in relazione alle creature come autore del mondo, completando in questa seconda parte ciò che delle operazioni divine ad extra fu detto nella Cosmologia. Iddio considerato in sè è argomento di quella parte della Teologia naturale che tratta dell' essenza divina, della quale prima si espongono gli attributi. Di poi si esamina se l' intelligenza umana, sviluppata e resa potente dalla rivelazione, possa conoscere che l' essenza divina deva essere in tre persone: questione che si risolve affermativamente, come affermativamente fu sciolta da due teologi moderni, il P. Ermenegildo Pini, ed il Mastrofini. Rimane tuttavia ben fermo, che anche la dottrina intorno la Trinità, a cui può giungere la ragione, non è appunto altro che negativa ideale. Trattandosi di Dio come autore delle cose, si ragiona principalmente sulla relazione che ha l' atto creatore coll' atto dell' essenza divina e coll' atto delle stesse creature esistenti. Applicando poi al creatore dell' universo gli attributi dell' infinita potenza, scienza e bontà, di cui s' era parlato, s' entra nell' amplissima dottrina della conservazione e del governo dell' universo, come pure del fine assegnatogli, il cui adempimento non può fallire; e questa parte della Teologia, che contempla nel mondo i vestigi degli attributi di Dio, cioè la Provvidenza che regola gli avvenimenti secondo un eterno disegno, la potenza che li conduce all' adempimento di quel disegno senza vincolare la libertà delle creature intelligenti, e la bontà, la santità e la beatitudine partecipata a queste nature in una misura massima fra le possibili (salvi i divini attributi), che ne è lo scopo finale, forma quello speciale trattato che acconciamente si denomina Teodicea. SCIENZE DEONTOLOGICHE. - Le scienze deontologiche sono tutte quelle che trattano della perfezione dell' ente , e del modo di acquistare o produrre questa perfezione o di perderla. Si può trattare della perfezione degli enti in generale, onde nasce una Deontologia generale , e si può trattare della perfezione propria di ciascuna specie di enti, onde nasce la Deontologia speciale , che in più scienze si divide. DEONTOLOGIA GENERALE. - Gli enti possono considerarsi nella grande unità che formano mediante le loro relazioni scambievoli, di perfezione. Se queste relazioni si classificano secondo le categorie, si avranno tre grandi classi di relazioni: relazioni di perfezione proprie degli enti morali, relazioni di perfezione proprie degli enti intelligenti, relazioni di perfezione proprie degli enti reali, sieno sensitivi, sieno estrasoggettivi . E dissi relazioni proprie degli enti intelligenti, anzichè degli enti ideali, perchè l' ente ideale è propriamente un solo e semplicissimo, onde, quando si prescinde dai soggetti intelligenti e dagli enti reali, egli non ha intrinseche relazioni. Le relazioni di perfezione , disposte nelle accennate tre classi, sono immutabili se si considerano nell' essere supremo, ma, se si considerano nell' essere contingente, possono essere più e meno, e più e meno realizzate. Il loro realizzamento maggiore o minore trae seco altresì la maggiore o minor perfezione degli enti fra cui passano le accennate relazioni. Quindi nell' essere supremo c' è la somma ed immutabile perfezione, perchè le dette relazioni di perfezione sono immutabilmente e compiutamente avverate. L' essere contingente all' opposto è suscettibile d' imperfezione, e di più o men perfezione secondo l' avveramento delle accennate relazioni. Se le relazioni proprie degli enti reali sono appieno avverate, vi ha una perfezione reale: Se sono pienamente avverate le relazioni proprie degli enti intelligenti, vi ha una perfezione intellettuale: Se sono avverate le relazioni proprie degli enti morali, vi ha una perfezione morale. Queste relazioni, nel cui avveramento sta la perfezione dell' essere, hanno dunque un' esigenza sì in se stesse (oggettivamente considerate) che relativamente agli enti che sono i soggetti della perfezione e dell' imperfezione (soggettivamente considerate). Per esigenza oggettiva s' intende quella che concepisce la mente considerando l' essere in se stesso, senza fermarsi alla relazione con un soggetto particolare e reale. L' esigenza soggettiva è quella che concepisce la mente nel soggetto particolare e reale, osservando che la perfezione di questi esige l' avveramento di quella data relazione. La parola esigenza esprime quella necessità che è propria delle condizioni necessarie all' ottenimento di un fine, e che prende natura dal fine stesso. Ora v' ha una necessità reale o fisica, ed è quella esigenza che hanno le relazioni proprie degli enti reali di essere avverate, acciocchè gli enti reali o fisici ottengano la loro perfezione. V' ha una necessità intellettuale, ed è quella esigenza che hanno le relazioni proprie degli enti intellettuali di essere avverate, acciocchè essi ottengano la loro perfezione. V' ha una necessità morale, ed è quella esigenza che hanno le relazioni proprie degli enti morali di essere avverate, acciocchè essi ottengano la propria perfezione. Queste sono le tre necessità deontologiche , diverse dalle necessità ontologiche ; poichè le prime sono necessarie alla perfezione degli enti, le seconde alla loro esistenza. V' ha dunque una necessità fisica ontologica, e una necessità fisica deontologica; una necessità intellettuale ontologica (a cui si riduce anche la necessità logica), ed una necessità intellettuale deontologica; una necessità morale ontologica, ed una necessità morale deontologica. In Dio non cade questa distinzione, perocchè la necessità deontologica è ontologica per l' eccellenza della sua natura. Ma giacchè la perfezione è una forma, e, come abbiam veduto, ci sono forme soggettive e forme oggettive , perciò ci sono pure perfezioni soggettive e perfezioni oggettive . Di più, le forme soggettive, altre hanno una realità distinta dal soggeto informato, altre non sono che un elemento costitutivo dello stesso soggetto informato. Ora la stessa distinzione è da farsi delle perfezioni degli enti. In fatti gli enti reali hanno una perfezione propria, e ne hanno una che ricevono dall' azione scambievole fra loro, conveniente alla loro natura. Da questa scambievole unione ed azione risulta sempre la perfezione degli enti composti. Come la forma che fa esistere le intelligenze è un oggetto, così pure è oggettiva la forma che le perfeziona. Ma la forma che perfeziona gli enti morali, cioè dotati di volontà e di affetto razionale, è soggettiva7oggettiva , poichè la perfezione della volontà sta nel voler bene a tutti gli enti, alla totalità dell' ente, ma distribuendo questo affetto secondo la norma dell' oggetto, ossia, che è il medesimo, secondo il quantitativo di entità misurato negli enti coll' essenza dell' ente, che risplende allo spirito, e che è l' oggetto dello spirito, e la misura universale . L' ente intuito misura i diversi enti; e la volontà sente l' esigenza loro di essere riconosciuti per quel che sono. La volontà non dee opporsi all' intendimento, ma dee compiacersi del vero conosciuto dall' intendimento. Tutti gli enti sono per loro natura beni alla volontà, sono a lei amabili. Ma la volontà, essendo libera, può opporsi a questa legge di natura, e alle entità vere opporre delle entità false, come oggetti del suo amore; può accrescere e diminuire a se stessa le entità, e quindi i beni in opposizione al vero loro essere. Ora così facendo, ella contraddice alla verità, mentisce, fa guerra all' entità, è dunque ingiusta; altera la legge naturale che sta fra lei e gli enti reali, è dunque disordinata, snaturata. La menzogna interna, l' ingiustizia, il disordine volontario è il male morale: il contrario a tutto questo, è il bene. Il male si deve evitare, e il bene seguire. L' obbligazione non è altro che il concetto del male e del bene morale che dimostra all' anima la sua necessità. Fra i beni quello che si presenta più chiaro e più compiuto alla mente è l' ubbidienza all' essere supremo : tra i mali la disubbidienza al medesimo. La verità dunque e l' entità è il primo fonte e il primo nunzio dell' obbligazione; gli enti hanno, rispetto alla volontà, l' esigenza morale. L' esigenza ossia la necessità morale , è dunque diversa grandemente dall' esigenza che traggono seco le relazioni di perfezione degli enti reali e intellettuali; poichè la perfezione degli enti semplicemente reali e degli enti intellettuali non è la perfezione d' una volontà. La perfezione morale all' incontro è la perfezione d' una volontà, e dalla volontà è operata. Ora nella volontà consiste la persona , e la sola persona è vera causa delle azioni, a cui si possono imputare. Sebbene dunque l' ente reale possa essere più o meno perfetto, tuttavia questa perfezione non s' imputa all' ente reale, che n' è il soggetto e non la causa; ma solo si contempla dall' intelletto come una perfezione dell' ente. Lo stesso è a dirsi circa la perfezione dell' essere intellettivo. Sono perfezioni di natura, e non di persona. Quindi, rispetto alla perfezione degli esseri reali ed intellettuali, vi ha una sola esigenza; quella che dice: « acciocchè gli enti reali ed intellettuali siano perfetti, devono essere così e così. » Ma rispetto alla perfezione dell' ente morale concorrono due esigenze, l' una che nasce dall' ente in sè considerato e che dice: « l' entità, la verità dev' essere riconosciuta dalla volontà »: l' altra nasce dalla natura della stessa volontà e dice così: « se la volontà non riconosce l' entità e la verità, essa non ha la perfezione ». La prima è l' obbligazione imposta alla persona dall' esigenza degli enti da lei conosciuti (esigenza oggettiva); la seconda è l' esigenza della volontà stessa considerata come natura suscettibile di perfezione (esigenza soggettiva). La dottrina della perfezione degli enti può dividersi in tre gran parti. La prima descrive l' archetipo di ogni ente, cioè lo stato dell' ente che ha toccato la sua somma perfezione. La seconda descrive le azioni , colle quali si può produrre le perfezioni degli enti. La terza descrive i mezzi , coi quali si può acquistar l' arte delle dette azioni. L' archetipo dell' ente, ossia la perfezione ideale, è l' esemplare e la guida di tutte le arti; le azioni , colle quali si producono le perfezioni degli enti, sono comprese in tutte le arti meccaniche, liberali, intellettuali, morali; i mezzi che conducono a queste arti, costituiscono l' educazione speciale, ossia la scuola delle dette arti. Quindi apparisce l' immensa vastità della Deontologia generale . La Deontologia speciale è più vasta ancora, poichè ce n' è una per ogni specie di enti. E non solo per gli enti naturali , ma ben anco per gli artificiali . E se si parla di quelli di cui è artefice l' uomo, si fanno avanti, tra le arti più nobili, quelle che hanno per iscopo di produrre degli oggetti belli. Ciascuna delle belle arti ha la sua scienza propria; e tutte queste scienze suppongono una scienza del bello in universale, che chiamiamo Callologia, della quale è una parte speciale l' Estetica, che tratta del bello nel sensibile . Ma la Callologia e l' Estetica appartengono prima di tutto alla Deontologia generale, e massimamente a quella parte che descrive gli archetipi degli enti. Noi non ci fermeremo a classificare tutte le scienze deontologiche speciali, ma restringeremo il nostro discorso alla deontologia umana, cioè alla scienza della umana perfezione. L' uomo è un essere reale, intellettuale e morale; quindi partecipa della perfezione propria dei tre modi dell' essere. Ma poichè la perfezione morale è completiva dell' altre, ed ella sola è perfezione personale; perciò la dottrina della perfezione morale è quella che riassume in sè la dottrina dell' umana perfezione. La dottrina dell' umana perfezione presenta alla mente quelle tre stesse parti in cui abbiamo detto dividersi la Deontologia generale, cioè 1 la dottrina dell' archetipo umano , a cui ogni uomo deve procurare di avvicinarsi; 2 la dottrina di quelle azioni, colle quali l' uomo avvicina e conforma se stesso a quell' archetipo; 3 la dottrina de' mezzi ed aiuti, co' quali è stimolato e avvalorato a tali azioni. La prima di queste dottrine dicesi Teletica , la seconda Etica , la terza, cioè la dottrina dei mezzi, si parte in più scienze, perchè l' uomo può acquistare ed applicare questi mezzi a se stesso, e questa scienza dicesi Ascetica; ovvero può applicargli a' suoi simili, eccitandogli e aiutandogli all' acquisto della perfezione umana, e la scienza che insegna ad applicargli all' individuo, dicesi Educazione o Pedagogica; quella che insegna ad applicargli alla società famigliare, acciocchè questa, resa buona, influisca a render buoni gl' individui che la compongono, chiamasi Iconomia; quella che insegna ad applicargli alla società civile, acciocchè anche questa, resa buona, abbonisca i suoi membri, dicesi Politica; quella finalmente che insegna ad applicargli alla società teocratica del genere umano, dicesi Cosmopolitica . TELETICA. - La scienza che descrive l' uomo perfetto come un archetipo, non fu ancora scritta nè tentata, ed ella non potrebbe essere prima che tutte l' altre scienze intorno all' uomo giungano alla loro perfezione; e neppur allora questa scienza sarà mai compiuta. Massimamente che l' uomo al presente è decaduto e la sua natura non fu pura giammai, nè era conveniente che tale fosse lasciata, onde fu sempre mista col divino e col soprannaturale; e ciò che può divenir l' uomo più perfetto in quest' ordine doppio, voglio dire naturale e soprannaturale, è cosa che vince o sfugge il pensiero stesso dell' uomo, e però non può essere compiutamente raggiunto dall' umana filosofia. Ma invece d' avere questo archetipo descritto in parole e consegnato alla morta lettera de' libri, Iddio stesso pose innanzi all' uomo il suo archetipo vivente, e questi è GESU` Cristo, Capo e Signore dell' uman genere. ETICA. - L' uomo dee esser buono e non cattivo: la bontà dell' uomo consiste nella bontà della sua volontà; poichè egli è evidente, che colui che ha una volontà pienamente buona, è uomo buono. Ora la bontà dell' uomo, e non delle cose sue, dicesi bontà morale , e quella qualità della volontà umana, per la quale l' uomo è buono, dicesi bene morale , ovvero bene onesto; e di questo bene tratta l' Etica. L' Etica dunque è la scienza che tratta del bene onesto . Il filosofo morale fa tre cose; 1 analizza il concetto del bene onesto, distinguendone gli elementi, e poi li raccoglie tutti in una definizione scientifica; 2 cerca di conoscere in che modo, cioè con quali atti volontarŒ e liberi e con quali abiti l' uomo il possa conseguire, e per lo contrario in che modo e con quali azioni lo perda, rendendosi malvagio; 3 quanta sia l' eccellenza e la preziosità del bene onesto, senza del quale gli altri non sono veri beni per l' uomo. Quindi l' Etica si divide in tre parti. La prima tratta della natura del bene onesto , e dicesi Etica generale , perchè non discende a nessuno di quegli abiti o atti speciali, ne' quali il bene onesto si trasfonde; ma parla di quella condizione che tutti gli abiti e tutti gli atti devono avere per essere onesti. La seconda tratta de' modi del bene onesto ; e dicesi Etica speciale , perchè lo considera negli abiti ed atti speciali che lo partecipano. La terza tratta dell' eccellenza del bene onesto; e dicesi Eudemonologia dell' Etica , perchè l' eccellenza del bene onesto si scorge singolarmente nel vedere resa da lui perfetta e felice la natura intelligente e volitiva. Etica generale . - Dovendo dunque la prima parte dell' Etica trattare del bene onesto, ella ne investiga gli elementi, i quali sono tre, la volontà e libertà , la legge , e la conformità della volontà e libertà colla legge . Trattando della volontà, l' Etica s' appropria una parte dell' Antropologia o della Psicologia, trattando del potere della volontà sulle altre potenze dell' uomo, de' confini di questo potere e della libertà di cui è fornita, per la quale diventa causa responsabile delle azioni. Parlando della legge (Nomologia), la definisce da principio in un senso larghissimo, come il principio dell' obbligazione . Cerca in appresso quale sia la prima di tutte le leggi, cioè quale il primo principio dell' obbligazione espresso in una formola logicamente anteriore a tutte le altre, di modochè ella esprima l' essenza stessa dell' obbligazione, nel primo atto in cui all' uomo si manifesta, senza che questi abbia bisogno di cercarne una ragione ulteriore. E poichè il lume della ragione e della volontà umana è l' essere ; quindi apparisce, che la prima formola dell' obbligazione evidente per se medesima, si è: « Segui il lume della ragione », ovvero: « Riconosci l' essere »Conoscere è l' atto della ragione, ed appartiene sempre all' ordine teoretico ; riconoscere spesso è l' atto corrispondente della volontà, ed appartiene all' ordine pratico . Ma l' essere ha un ordine in se medesimo, onde avviene che certi esseri sieno maggiori e più eccellenti di altri ed abbiano maggior dignità, e quest' ordine è quello che deve essere riconosciuto dalla volontà, onde la formola dell' obbligazione universale, ossia il principio dell' Etica può anche esprimersi così: « riconosci l' essere qual' è nel suo ordine ». L' atto della ricognizione pratica è quello in cui nasce la stima proporzionata al grado dell' essere, e alla stima tien dietro un' eguale quantità di amore, che si diffonde anch' egli proporzionatamente su tutti gli enti, e all' amore tengon dietro, o per mezzo di decreti della volontà, o senza decreti espressi, le operazioni esteriori ordinate in conformità di quell' amore, le quali rendono decente e armoniosa tutta la vita dell' uomo virtuoso. Ma fra gli esseri, Iddio è assoluto principio e fine di tutti gli altri: egli dunque è il fine ultimo altresì della volontà e de' suoi atti nell' uomo onesto, il fine ultimo in cui tende ogni ricognizione, ogni stima, ogni amore, ogni azione umana: indi la Religione, come morale ultimata e sollevata all' ultimo suo stato di compitezza, nel quale ogni dovere diventa sacro, ogni virtù diventa santità. Come dunque tutti gli esseri procedono da Dio per la creazione e da lui dipendono per la conservazione, così a lui tutti devono riferirsi, e alla volontà divina tutte le volontà conformarsi. E la volontà divina diviene altresì il fonte della legislazione positiva, cioè di quelle leggi che sono positivamente manifestate da Dio agli uomini. L' Etica indica la differenza fra la legge naturale e la positiva , e mostra come il rispetto dovuto a questa procede da quella. Dopo i doveri verso Dio, vengono i doveri verso le create intelligenze, i doveri che ciascun uomo ha verso i suoi simili, quantunque questi sieno subordinati ai doveri verso Dio, come i creati sono subordinati al creante; tuttavia anche gli uomini sono oggetti di doveri morali, come quelli che hanno ragione di fine, ed hanno ragione di fine, perchè sono forniti d' intelligenza e nell' intelligenza c' è l' essere ideale, il quale è un elemento divino. Infatti la volontà che è la facoltà attiva dell' intelligenza, non può avere per suo fine e per suo bene, se non qualche cosa d' infinito e di divino: onde procede quella sentenza che « la morale abbraccia sempre in qualche modo l' essere nel suo tutto. » Svolgendo il secondo elemento del bene morale cioè la legge, l' Etica insegna ancora ad applicarla ai casi speciali, onde la logica speciale sua propria che tratta principalmente della coscienza morale. Quivi si danno le regole per applicare le leggi alle azioni particolari, e specialmente al caso, in cui si dubiti della legge. La regola principale da applicarsi a questo caso è la seguente: « se si dubita dell' esistenza della legge positiva e non si può sciogliere il dubbio, la legge non obbliga, se poi si dubita in una materia appartenente alla legge naturale in modo che il dubbio cada sopra un male intrinseco all' azione, deve evitarsi il pericolo di questo male. » Venendo poi al terzo elemento, cioè alla relazione fra la volontà e la legge, l' Etica espone tutti i modi, in cui questa relazione può variare, e descrive i diversi stati buoni o rei in cui entra la volontà e la libertà umana, e l' uomo stesso mediante tali variazioni. Etica speciale . - Trattando questa seconda parte dell' Etica delle forme speciali del bene e del male morale, comincia dal distinguere l' atto e l' abito , mostrando la varia moralità di cui l' uno e l' altro è suscettivo. Quindi passa ad esporre gli officŒ speciali verso la divinità e verso l' umanità. Riguardo a questi ultimi, l' uomo deve rispettare ed onorare la natura umana in se stesso e ne' suoi simili: deve rispettarla negli individui e nelle diverse società o naturali o artificiali, nelle quali gli uomini si uniscono. Tutte le relazioni sociali prestano occasione all' esistenza di officŒ morali. Tratta in appresso degli abiti , e quindi di tutte le speciali virtù e di tutti i speciali vizŒ . Ragiona ancora de' mezzi co' quali può evitarsi il male e procacciarsi il bene morale, alla qual parte come abbiam veduto, si suol dare il nome d' Ascetica. Eudemonologia dell' Etica . - Questa terza parte finalmente considera l' eccellenza del bene morale e la turpitudine del male morale: mostra che l' una e l' altra è infinita: descrive la dignità e la gioia dell' anima virtuosa, l' ignobilità e la miseria della viziosa: prova che niun uomo veramente virtuoso è infelice, niun malvagio felice: apre quindi la fiducia e l' aspettazione, che giace nel cuor umano, che la virtù abbia premio eterno, il vizio eterno castigo: lo prova co' divini attributi: e dopo aver condotto l' uomo fin qui, quasi pedagogo, il savio filosofo consegna il suo alunno nelle mani d' una maestra più sublime, la Rivelazione. DIRITTO RAZIONALE. - Dall' Etica procede l' amplissima scienza del Diritto razionale: questo nasce dalla protezione, che l' Etica, ossia la legge morale, dà al bene utile , e più generalmente a tutti i beni eudemonologici, di cui possono fruire gli uomini. Infatti uno dei doveri etici è quello che l' uomo non noccia al suo simile: i giureconsulti romani l' espressero colla formola neminem laedere . Nessun uomo dunque può pregiudicare al bene che ha il suo simile. Ora l' uomo che ha questo bene, il quale, in virtù della legge morale non può esser toccato da nissuno, dicesi che ha un diritto . Se l' uomo che ha questo diritto, non avesse la facoltà di cavarne dell' utilità a se stesso, non ci sarebbe più nè il bene, oggetto del diritto, nè il diritto stesso. Il diritto dunque subiettivamente, cioè in rispetto al subietto che lo possiede, è una facoltà eudemonologica, protetta dalla legge morale. E dall' esser questo bene eudemonologico protetto dalla legge morale, egli acquista una certa dignità morale, e colui che lo possiede acquista la potestà di difenderlo contro quelli che glielo volessero rapire, o comechessia deteriorare. La scienza del Diritto quindi si occupa 1 In classificare tutti que' beni che possono esser oggetto o materia di diritto: 2 In determinare qual sia la protezione che la legge morale loro accorda, fin dove s' estenda e a quali condizioni: 3 In decidere i casi dubbŒ, cioè quelli che nascono per la collizione apparente dei diritti: 4 In determinare altresì fin dove sia autorizzata la difesa de' diritti dalla stessa legge morale, e in quali circostanze e condizioni ella sia legittima: 5 Finalmente tratta della soddisfazione e del risarcimento de' diritti violati, e però de' danni e delle ingiurie. Tutti i beni ed i diritti che ha l' uomo in relazione co' suoi simili, ricevono due forme, che diventano la base della suprema classificazione dei diritti medesimi: la libertà , e la proprietà . La libertà è quella potestà che ciascuno ha d' usare di tutte le sue potenze, fino a tanto che non entra nella sfera de' diritti altrui, cioè che non tocca i beni che hanno già i suoi simili. La proprietà è l' unione de' beni coll' uomo: questa unione riposa sopra una legge psicologica, la quale fa sì che l' uomo possa unire a sè delle cose diverse da sè, quasi a somiglianza di quell' unione che ha il suo corpo coll' anima sua. Quest' unione permanente si fa per via di sentimento e per via d' intelligenza; per via di sentimento anche le bestie uniscono a sè delle cose esteriori: così sono uniti i figliuoli alla madre, i cibi che hanno presenti o che raccolgono, i nidi e le abitazioni ed altre cose che talora si contendono tra loro a morte, e così hanno una certa proprietà, ma non morale nè giuridica. L' uomo unisce a sè le cose per vincolo naturale e di sentimento ed anche pel vincolo che vi soprappone l' intelligenza, per mezzo della quale l' uomo fa assegnamento su molte cose esterne e le riserva agli usi futuri. Questa ancora è una certa proprietà, ma non quella proprietà che costituisce il diritto. Ma quando al vincolo del sentimento e a quello dell' intelligenza s' aggiunge il vincolo morale , allora la proprietà è convertita in diritto. Ora questo vincolo consiste, come dicevamo, nella protezione che la legge morale accorda ai due primi vincoli, imponendo agli altri uomini l' obbligazione di rispettarli: la ragion morale poi impone questa obbligazione, quando que' due primi vincoli fra l' uomo e le cose sono stati stretti mediante la libertà giuridica, cioè senza dividere le cose appropriatesi da altri uomini, a cui fossero già unite. E una tale obbligazione nasce da questo: il dividere ciò che l' uomo ha seco unito d' affetto e d' intelligenza, è un cagionarli dolore, un fargli male; ma non si può far male altrui per far bene a se stesso; dunque la ragion morale vieta di offendere l' altrui proprietà. Il subietto dei diritti può essere l' uomo individuo considerato in relazione co' suoi simili, e l' uomo sociale . Quindi la scienza del diritto ha due parti, che sono il diritto individuale e il diritto sociale . Il diritto individuale ragiona di tre cose, cioè: 1 De' diritti connaturali e de' diritti acquisiti, descrivendone la natura e le condizioni, i titoli e i modi d' acquisto: 2 Della trasmissione de' diritti e delle modificazioni che ad essi derivano: 3 Delle alterazioni de' diritti altrui e delle obbligazioni e modificazioni de' diritti scambievoli che ne conseguono. Il diritto sociale nasce dall' individuale , perchè nasce dal fatto dell' associazione, e la facoltà di associarsi onestamente fra loro è un diritto connaturale di tutti gl' individui umani, il quale non viene limitato se non dalla circostanza, che la nuova associazione entri a perturbare un' altra associazione precedente e già in attuale possesso. Il diritto sociale è universale , e particolare . Il diritto sociale universale considera i diritti e i doveri che nascono dal fatto di un' associazione qualunque, e questo è interno fra i membri della società, o esterno tra la società di cui si tratta e le altre società, o anche tra essa e gl' individui che sono fuori della medesima. Il diritto interno si divide naturalmente in tre parti, le quali trattano: 1 Del diritto signorile , in quanto si mescola col diritto governativo. 2 Del diritto politico o governativo, che è quanto dire de' diritti e delle obbligazioni di chi governa e amministra la società. 3 Del diritto comunale , che espone i diritti e le obbligazioni comuni a tutti i membri della società. Questa stessa divisione s' applica al diritto sociale particolare , essendoci in ogni società quelle tre maniere di diritti e di obbligazioni sociali. E ci possono essere innumerevoli società, ciascuna delle quali ha il suo diritto che risulta da un' applicazione de' principŒ esposti nel diritto sociale universale ; ma v' hanno tre società che sono necessarie al genere umano e l' organizzano, la perfezione delle quali dee ricondurre il genere umano alla sua primitiva unità e renderlo come una sola famiglia ordinatissima. Queste tre società sono la Teocratica , che è naturale7divina; la Domestica che è naturale umana, e si biparte nella Coniugale e nella Parentale; e la Civile che è una società artificiale, ma necessaria al bene dell' umana specie. Il diritto particolare di queste tre società dà luogo a tre trattati di altissima rilevanza. La società Teocratica è o iniziale, e avvincola gli uomini per via della morale e della religione naturale; ovvero perfetta, ed è la Chiesa Cattolica che avvincola oltracciò e stringe gli uomini con de' legami positivi d' una religione e d' una morale rivelata e soprannaturale. Anche qui c' è un diritto signorile , un diritto governativo , e un diritto comunale . Il diritto della società domestica è duplice, come dicevamo, quello che riguarda i coniugi , e tratta della natura del matrimonio e delle sue condizioni, della maniera di stringerlo e dei diritti e delle obbligazioni de' coniugi: e quello che riguarda i genitori e i figliuoli , e tratta pure de' diritti reciproci e delle obbligazioni reciproche che vi corrispondono, avuto riguardo altresì alle morali. Il diritto particolare della società civile ne espone la natura e l' origine, e quindi le tre parti della signoria , del governo e della cittadinanza , assegnando i diritti e le obbligazioni di ciascheduna, e, rispetto a questo diritto, potendo la società civile essere costituita a varie forme e provveduta di varŒ organi e funzioni, può darsi una teoria generale di diritto nazionale per tutte le società civili, avuto riguardo solo a ciò che è a queste essenziale e comune, e una teoria di diritto per ogni forma diversa che potesse prendere il corpo civile. Ma a tutto ciò sopravvanza ancora una ricerca più elevata, quando si domanda: « data che fosse una moltitudine, e questa non costituita ancora a società civile, la quale avesse incaricato un filosofo di darle una costituzione, quale sarebbe la costituzione che se le dovesse prescrivere, traendola dai soli principŒ di giustizia e fatta interamente astrazione da ogni riguardo politico ». Perocchè tale e tanta è la virtù e la fecondità dei principŒ della giustizia, che quando si deducono da essi le illazioni che ne procedono (al che si richiede certamente una mente costante), queste sole ci darebbero tutte le leggi anche politiche, colle quali si può organare internamente una nazione, colla massima probabilità di concordia e di prosperità. E sta qui la congiunzione fra le scienze giuridiche e le politiche . Finalmente il diritto esterno , o comune ad ogni società, o particolare di ciascuna di esse, non è che un' applicazione del diritto individuale, considerandosi le società come altrettanti individui. DOTTRINA DE' MEZZI. - Ascetica . - L' Ascetica non può fare una scienza separata dall' Etica, perchè argomento dell' Etica è l' obbligazione morale e la virtù non solo ne' loro concetti universali, ma anche ne' loro atti più speciali; ed è manifesto, che i mezzi e gli aiuti alla virtù sono materia d' obbligazione per l' uomo, e il procacciarsegli e l' usarli convenevolmente sono atti virtuosi, a cui certe virtù si riferiscono. Pedagogica . - Questa scienza tratta dell' arte dell' educazione umana. L' uomo è educato parte da se stesso, parte dalla società domestica, a cui riduciamo ancora l' educazione che riceve da' precettori che suppliscono all' ufficio dei genitori o cooperano con essi, parte dall' influenza che esercita sopra di lui la società civile in cui nasce e cresce, e parte dall' influenza che esercita sopra di lui la società teocratica. Onde questa scienza s' estende a molti trattati, e tali sono quello dell' educazione di se stesso , dell' educazione domestica , della magistrale , dell' educazione civile , e dell' educazione ecclesiastica . E a tutti questi si dee aggiungere un trattato che ha subietto magnifico, vogliam dire il trattato dell' Educazione provvidenziale , cioè di quella con cui Iddio, ordinando e disponendo gli avvenimenti, educò il genere umano e l' educa di continuo e gl' individui stessi. Ciascuno di questi trattati naturalmente si divide in tre parti, potendo l' uomo ricevere educazione rispetto alla sua parte morale, alla sua parte intellettuale e alla sua parte fisica. Ma l' educazione dell' individuo umano dee avere una perfetta unità, ed è un grand' errore il credere che l' educazione fisica, intellettuale e morale sieno tre cose separate e indipendenti. Quindi la prima regola dell' arte pedagogica, che è quella dell' unità . Uno è il bene umano a cui dee tendere l' educazione, e questo è il morale. Tale è il fine. Non conviene dunque che si dia un' educazione intellettuale o fisica disgiunta dalla morale, ma conviene che si dieno queste come mezzi di quella, per modo che niuna cognizione o dote intellettiva e niuna abilità corporale si promova in colui che s' educa, se in pari tempo non si subordina alla sua morale perfezione. E tutto ciò che fa l' educatore, tutti i mezzi che impiega nell' educare devono con una perfetta coerenza e costanza a questo fine ordinarsi. Tale è il principio della pedagogica. Iconomia - L' Iconomia tratta del governo della famiglia, ne indica la costituzione e le leggi reali e quasi direi meccaniche del suo movimento, sia verso la perfezione, sia a ritroso di questa, leggi che nascono dalla sua naturale costituzione. La famiglia ha dei costitutivi essenziali: oltre di questi ne ha di quelli che sono necessarŒ alla sua prosperità e che fluiscono dalle stesse leggi reali che accennavamo. Uno di questi è il principio seguente: « dee esservi equilibrio fra il numero delle persone che la compongono e i mezzi di sostentamento ». Di poi espone i principŒ dell' arte di governarla in modo che prosperi. E questa stessa prosperità vuol essere ordinata ad avvicinare gl' individui che la compongono, alla perfezione e felicità umana. Il governo della famiglia che si descrive, è quello che nasce dall' uso de' mezzi che presta la società domestica, e principalmente del potere proprio del governo famigliare. Il governatore, cioè il padre di famiglia, dee stendere le sue vedute fuori della famiglia stessa formando tali individui che sappiano mantenere la concordia e l' armonia colle altre società domestiche, colla civile e colla teocratica. Una delle malattie proprie di questa società è l' egoismo famigliare : la malattia opposta è l' individualismo . La famiglia, affetta dal primo di questi due morbi, si rende guerriera e s' espone al rischio delle guerre, onde può esser distrutta per violenza o divenire dominante: la famiglia affetta dal secondo si discioglie, o perisce per interna discordia. L' Iconomia addita i caratteri di tali malattie proprie della famiglia, e insegna il modo di preservarnela. Politica - E` la scienza dell' arte del governo civile. Si devono distinguere le scienze politiche particolari dalla Filosofia della politica . Ciascuna di quelle tratta d' un elemento o d' uno de' mezzi , con cui si governa la società civile; ma questa cerca l' ultime ragioni dell' arte. Le ultime ragioni sono primieramente i criterŒ politici , cioè quelle regole supreme che insegnano a valutare il vero valore di tutti i mezzi ed espedienti a cui ricorre l' uomo di stato nel governo della società civile. I criterŒ politici si dividono in quattro classi, che scaturiscono dal considerare la società civile come un corpo che si dee sospingere verso un termine dato. La teoria di questa operazione risulta: Dal considerarsi il termine , a cui si dee sospingere il detto corpo - Così la Filosofia della Politica dee prima di tutto investigare, qual sia il fine verso al quale dee muoversi incessantemente la civil società; e questo è la prosperità pubblica, che risulta come da cause, dalla giustizia e dalla concordia de' cittadini . Quindi i criterŒ tratti dal fine della società civile, i quali si riducono a questi due: a) Rivolgere il governo a mantenere e convalidare quella forza prevalente, a cui è appoggiata l' esistenza della società; e questa forza prevalente, cangia secondo i diversi periodi di vita che la società civile percorre. Quindi la teoria di questi cangiamenti. In altre parole, questo criterio s' esprime brevemente così: « aver cura della sostanza della società civile e trascurare gli accidenti ». b) Rivolgere il governo a fare che i cittadini ottengano la prosperità temporale nella moralità, ossia a fare che la prosperità temporale produca il bene proprio della natura umana, del quale solo l' uomo s' appaga. I cittadini appagati sono tranquilli e concordi. Dal considerarsi la natura dello stesso corpo. - Così la Filosofia della Politica dee investigare la natura della società civile e la sua natural costruzione e dedurne questa regola: « quella politica che avvicina la società civile alla sua costruzione naturale e regolare, è buona, quella che ne l' allontana, è cattiva ». La natural costruzione della società civile risulta da alcuni equilibrŒ che sono i seguenti: a) Equilibrio fra la popolazione e la ricchezza. b) Equilibrio fra la ricchezza e il potere civile. c) Equilibrio fra il potere civile e la forza materiale. d) Equilibrio fra il potere civile e militare, e la scienza. e) Equilibrio fra la scienza e la virtù. I criterŒ politici di questa classe si riassumono in questa formola: « tutti i mezzi politici che avvicinano la società civile ai cinque equilibrŒ sopra indicati, sono buoni, quelli che ne l' allontanano, sono cattivi ». Dal considerarsi le leggi del movimento . - Così la Filosofia della Politica deve considerare nella storia le leggi, secondo le quali si muovono le società civili; pensiero dovuto a Giovambattista Vico, che potè indicarlo, non isvolgerlo a sufficienza, per la profondità delle meditazioni che si richiede a colorirlo e incarnarlo mediante sagaci osservazioni sulle diverse trasformazioni subìte da ciascun popolo della terra. Quindi de' criterŒ politici che si riducono a questa formola: « i mezzi politici che stanno in armonia colle leggi del movimento naturale delle società civili, sono buoni; gli altri come contrari alla natura, sono cattivi. » Dal considerarsi le forze atte a spingere i corpi. - Così la Filosofia della Politica dee valutare le forze, per le quali la società civile è sospinta verso il bene. Questa valutazione esige molta sagacità e una gran potenza d' astrazione, perchè ci sono delle forze dirette e delle indirette , e queste ultime sfuggono alla attenzione, e sono quelle che producono i maggiori effetti. Da questo fonte si deducono de' criterŒ politici che tutti si riassumono in questa formola: « I mezzi politici, che con minor dispendio e con minor azione ottengono un effetto più grande di bene sociale, sono i migliori. » Scoperti così i sommi criterŒ politici, che sono le ultime ragioni di quest' arte e costituiscono la Filosofia civile , rimane a farne l' applicazione, cioè a valutare con essi il vero valore rispettivo di tutti i mezzi politici somministrati dalle particolari scienze politiche, ricerca che conduce a questo risultato: « La Religione e propriamente il Cattolicismo è il mezzo politico di maggior valore, quello che tempera ed armoneggia tutti gli altri. » Cosmopolitica . - Questa scienza è la teoria del governo della società teocratica, come quella da cui sola può venire l' unità del genere umano e la sua organizzazione compiuta. La filosofia spinge avanti tutte queste ricerche fino a tanto che la mente umana trovi il suo pieno soddisfacimento, il suo riposo. La mente trova questo riposo, quando ella è giunta a discoprire le ultime ragioni a cui ella possa giungere, e s' è persuasa ad evidenza, ch' esse sono veramente le ultime, ch' ella non può in alcun modo andare al di là. Ora poi queste ragioni ultime, rinvenute che siano, rispondono altresì ai supremi bisogni dell' animo umano. E tale è il frutto della filosofia. Se il fine della filosofia è di trovar quiete e riposo alla curiosità della mente, il suo frutto più prezioso ancora è di assicurare l' animo umano della possibilità che egli giunga al compimento di tutti i suoi desiderŒ, di togliergli intorno a ciò ogni incertezza, e di additargli quella sicura via, per la quale egli giunga alla cima a cui tende. La qual via lo conduce a Dio, a cui il consumato filosofo si dà ad ammaestrare come discepolo, ed a perfezionare come creatura. Tale è il fine della filosofia, tale il suo frutto. Ma se invece di considerare la scienza , si vuol considerare la scuola della filosofia , ella in tal caso diventa la vera pedagogia dello spirito umano , della mente cui manoduce alla scienza più compiuta, e dell' animo a' cui affetti svela innanzi il più compiuto bene. Sotto il quale aspetto d' una pedagogica dell' umanità la filosofia è concepita da Platone. Mi parrebbe essere troppo scortese, se non ringraziassi V. S. del dono, che non posso dubitare venirmi da lei, del primo dei suoi discorsi sulla necessità di restaurare nelle scuole italiane la clinica Ippocratica , e del suo « Saggio intorno al fondamento, al progresso ed al sistema dell' umana conoscenza »; ma la sola stima, che m' ha ingenerato della sua persona la lettura di queste sue produzioni scientifiche, è quella che mi muove, non dirò a scriverle il mio giudizio di quest' ultima, com' ella mi chiede nella scritta appostavi, ma piuttosto a sottometterle qualche osservazione su di ciò che tanto gentilmente ella dice del mio sistema filosofico. Prima però non posso tacerle il grato sentimento, che in me cagionò la lettura del suo discorso contro la dottrina eccitabilistica, persuasissimo, come sono, che anche in medicina, del pari che nelle altre scienze tutte, la presunzione de' moderni abbia ingiustamente dispregiata l' antica sapienza, o, a dir meglio, la sapienza tradizionale de' secoli. E riconoscendo l' acutezza delle sue vedute e il suo modo complessivo di pensare, più volte nacque in me il desiderio, che ella, come giudice competente, vedesse ed esaminasse quelle cose, che io dissi nell' « Antropologia » sull' animalità, certo che dal suo giudizio se ne potrebbe vantaggiare la scienza. Io ho sempre avuto in sospetto la teoria browniana, qualunque fosse la foggia ch' ella vestisse dopo il primo suo autore, parendomi che quella teoria supponga troppo men complicata la natura ch' essa non è, e troppo facil cosa l' arte medica. Quanto poi alla sua sentenza sulla natura della vita, penso che ella dovesse riscontrare qualche cosa di analogo al suo concetto in quella mia « Antropologia . » Nella quale tuttavia io proposi due maniere di definire la vita che mi sembrano necessarie indispensabilmente a distinguersi, per trovare l' anello di congiunzione fra la Fisiologia e la Metafisica: l' una delle quali tende a definire la vita da' fenomeni soggettivi (di sentimento), e l' altra da' fenomeni estrasoggettivi (d' osservazione esterna); nè so, che questa doppia maniera di concepire e definire la vita sia stata da altri notata o svolta a quel modo che io ho procurato di fare; e molto mi piacerebbe, se ella si compiacesse di considerarla. Ora eccomi ad esporle le osservazioni che le dicevo sulla maniera, ond' ella, nel suo « Saggio » intorno all' umana conoscenza, concepisce il mio sistema filosofico. Mi permetta che affin di procedere con chiarezza maggiore io richiami le sue parole. Dopo aver ella dichiarato di trovarsi meco d' accordo in « riconoscere nella origine dell' umano sapere la concorrenza di elementi sperimentali ed intellettuali insieme », soggiunge così: « Se non che, rispetto alla teorica da lui esposta, dobbiamo dichiarare, non esserci stato possibile di convincerci che tutto il dato, che vien posto dall' intelligenza nella formazione delle conoscenze, si riduca all' idea dell' ente in universale: siccome egli fermamente mantiene in tutti i suoi trattati. » Da queste parole potrebbe credersi, che nella formazione della conoscenza il soggetto uomo, secondo me, non mettesse del suo, se non l' idea dell' ente in universale, il quale dicesi suo solo perchè lo possiede e ne fa uso, benchè non costituisca alcuna parte del soggetto medesimo. Ma qualora si dovessero intendere a questo modo le sue parole, esse non renderebbero la mia mente, anzi se ne dipartirebbero d' assai. Perocchè, io fo risultare la conoscenza (non però ogni conoscenza) da tre, e non da due sole specie ben distinte di elementi, cioè 1 da elementi esterni, estrasoggettivi ; 2 da elementi soggettivi , che sono le leggi venienti dalla natura del soggetto conoscente; 3 da elementi oggettivi , che si riducono poi all' essere , di cui abbiamo, com' io penso, un' immanente intuizione. Vede ella dunque che alle leggi che emanano dalla natura del soggetto , io fo assai volentieri una buona parte nell' opera della formazione della conoscenza umana; e che da queste leggi soggettive io distinguo al tutto l' oggetto , cioè l' essere , il quale non emana punto dall' uomo, soggetto; nè può ricevere da lui alcuna vera passione, ma vien dato all' uomo dal di fuori, cioè da Dio, viene mostrato all' uomo, e il mostrarglielo è il medesimo che dargli il lume d' intendere tutte le cose, in una parola renderlo un essere intelligente. Per me, niuna mente può intendere mai altro che essere, non può ragionare d' altro che di essere, non può affermare altro che essere, sicchè l' essere è essenzialmente l' oggetto intuibile, e perciò il lume dell' intelligenza, tolto il quale essa non può più nè intendere, nè affermare, nè giudicar cosa alcuna, e però ella stessa non esiste oggimai più. L' intuizione dell' essere dunque non forma solo l' intelligenza umana, ma tutte le intelligenze che sono o sono possibili. All' incontro le leggi soggettive , che procedono dalla nostra natura umana e che costituiscono la seconda specie d' elementi che entrano nella formazione del sapere, sono quelle che determinano la conoscenza umana , ossia che danno alla nostra conoscenza quel carattere distintivo, che la separa da quella di tutti gli altri esseri intelligenti che sussistono o possono sussistere d' altra fatta diversa dall' uomo. Sono queste leggi soggettive, che mettono que' limiti alla conoscenza, di cui io ho parlato nel « Saggio sui confini dell' umana ragione » ecc.; e son pur esse quelle, che danno alla conoscenza dell' uomo una conformazione speciale, configurando, per così dire, e insieme concorrendo a produrre la materia del conoscere, e il contenuto stesso della conoscenza, di che ho parlato nel « Nuovo saggio , » nel « Rinnovamento » e nell' « Antropologia . » Mi sono poi occupato in queste stesse opere a dimostrare, che questa parte soggettiva che entra nella conoscenza dell' uomo, non toglie punto a questa la sua veracità; perchè rimane sempre in fondo d' ogni conoscimento un elemento assoluto che è l' essere, il quale è sincerissima luce, che aiuta l' uomo stesso a distinguere la parte oggettiva dalla soggettiva della sua propria cognizione, e dichiara quella assolutamente vera, e questa vera relativamente. Dalle quali cose, ella può in parte rilevare, com' io la senta di quanto dice in appresso, cioè che l' idea dell' essere in universale non costituisca un elemento positivo della intelligenza: « ma invece ci è sembrato, continua, che la suddetta idea (se pure idea nel nostro senso può essere appellata) si risolva nella legge fondamentale dello spirito, per la quale siamo costretti, indipendentemente da ogni principio logico, di congiungere universalmente all' ideale il reale (sussistente o possibile), come termini correlativi intra loro per modo, che il primo non può essere senza il secondo: talchè l' essere è la relazione delle cose, delle loro sostanze, delle loro cause e de' loro fini colle idee delle medesime ». Su queste parole, devo primieramente avvertire, ch' io non potrei dividere il reale, come par ch' ella faccia, in sussistente e possibile ; conciossiachè, alla mia maniera di concepire, il reale in se stesso non è altro che il sussistente, e l' ideale non è altro che il possibile, benchè io accordi che nella mente fra questi due modi di essere passi una relazione, per la quale il reale si può considerare nel possibile e viceversa, relazione che io chiamo inesistenza . La possibilità della cosa non è dunque altro agli occhi miei che la cosa stessa intuita dalla mente nella sua essenza , quando la mente non giudica ancora, che la cosa intuìta realmente sussista. Vero è, che quando la mente contempla l' essenza d' una cosa, nè pur vi aggiunge necessariamente un espresso giudizio sulla sua possibilità; e però accordo, che, chiamando io poi la cosa stessa possibile , aggiungo, con questa denominazione posteriore, una relazione all' essenza della cosa: ma questa però è una relazione, che non ha bisogno d' altro che dell' essenza della cosa intuita, è una di quelle relazioni che sono in se stesse negative e che acquistano una forma positiva soltanto dalle leggi soggettive del pensare. Quanto poi al chiamare l' ideale e il reale « termini correlativi intra loro per modo che il primo non può essere senza il secondo », io l' ammetto nel modo che dirò appresso: ma io aggiungo di più, che la correlazione di que' termini è tanto necessaria, che nè pure il secondo può essere senza il primo, cioè il reale non può essere senza l' ideale. Il che è vero ogni qualvolta per reale s' intenda un oggetto e non un mero soggetto; perchè l' esistenza soggettiva non richiede per immediata necessità l' oggettiva, benchè tuttavia si dimostri con un ragionamento ontologico, che finalmente la richiede. Dicevo dunque, che un reale non può esistere come oggetto, se non a condizione che ci sia una mente, la quale lo riferisca all' idea, e così gli dia l' oggettività. Se ella considera, che l' idea e il possibile sono appunto il medesimo, per usare una frase scolastica re sed non ratione , troverà innegabile questa mia proposizione; conciossiachè egli è innegabile che niente può sussistere, se non a condizione che sia possibile. Vengo a dire in che senso io ammetta, che neppure l' essere ideale possa stare senza un reale. L' essere ideale è l' essere possibile in quant' è intuito, o, se si vuol meglio, è l' essenza dell' essere non necessario. Lo stesso concetto dunque dell' essere ideale involge il termine correlativo d' una mente che lo intuisca. Ora la mente è un soggetto reale; dunque l' ideale non può stare senza il reale. Per questo modo, io ho dimostrato nel « Nuovo saggio » l' esistenza di Dio, cioè d' una Mente Eterna, in cui sia l' essere ideale o, più pienamente, l' essere oggettivo , parimente eterno. Ella vede oggimai in qual senso io faccia strettamente correlativi l' essere ideale e l' essere reale , e d' una relazione al tutto scambievole: di più, avrà osservato che nelle mie opere, io ammetto una terza forma primordiale dell' essere, che chiamo essere morale , e che fo correlativa anch' essa alle due prime. Ciascuno di questi tre termini è correlativo reciprocamente agli altri due, di maniera che, se tutti e tre s' ammettono, ciascuno esiste dagli altri distinto; se uno solo si toglie, nè pur gli altri due sono più, cessano tutti a un tratto. In una parola, l' essere non può essere che uno e trino. In qual maniera poi lungamente diversa questa unità e trinità dell' essere s' applichi al Creatore ed alle creature, ella è cosa che io tratto nell' Ontologia e nella Teologia naturale. Che se poi ella mi chieda, se indi forse non ne venga una legge fondamentale dello spirito, per la quale esso spirito sia necessitato di congiungere que' termini correlativi, rispondo di sì; ma questa legge è imposta allo spirito dal sintesismo di que' termini; e non è già, che il sintesismo di que' termini venga da una legge dello spirito, che ad essi preceda: lo spirito riceve le leggi dalla natura dell' ente che intuisce, e non viceversa la natura dell' ente intuìto è determinata dalle leggi dello spirito. A questa sola condizione, secondo quello che a me pare, ci possiamo salvare dallo scetticismo, e perciò appunto tentai di dimostrare rigorosamente quella proposizione in più scritti, fra' quali nel Dialogo intitolato: «il Moschini , » che mi prendo la libertà d' inviarle insieme con due altri opuscoli. Finalmente ella definisce l' essere così: « l' essere è la relazione delle cose, delle loro sostanze, delle loro cause, e de' loro fini colle idee delle medesime. »Ma tutt' all' incontro, io dico, le cose sono essere, le sostanze sono essere, le cause sono essere, i fini delle cose, qualora si parli de' fini interni cioè della perfezion delle cose, sono parimente essere: dunque l' essere non può dirsi la relazione delle cose ec. colle idee; chè ne uscirebbe questo, che l' essere fosse la relazione dell' essere coll' essere, definizione mostruosa, e tuttavia, in tutt' altro senso, vera. V' ha di più: che cosa sono le idee? Ecco la gran questione: sta qui a mio avviso, il problema della filosofia. L' idea per me è lo stesso essere contemplato dalla mente nella sua idealità: ella è dunque di nuovo, l' essere: per me l' essere in quanto luce alla mente umana, prende il nome d' idea , e in quanto opera nel sentimento, prende il nome di realità , o se si vuole di cosa in senso stretto. La definizione dunque dell' essere, che ella dà con benevolo intendimento d' interpetrare in senso plausibile la mia mente, non potrebbe da me accettarsi secondo la mia maniera di concepire e di parlare, giacchè tradotte quelle sue parole nel mio linguaggio verrebbero a suonare che l' essere è la relazione dell' essere coll' essere. E tuttavia io non ricuso di ricever per buono il detto da lei citato degli scolastici, che il vero e l' ente sono tra lor convertibili, purchè un tal detto convenientemente si spieghi. Per me la verità è lo stesso essere ideale in quanto egli rende conoscibili le cose reali, e però in quant' è lume, tipo od esemplare all' artefice che ha virtù di produrle, ed è regola o norma al critico che vuol giudicare, se sono bene prodotte. Il vero adunque si converte coll' ente , perchè il vero non è altro che l' ente stesso ideale assunto agli indicati ufficŒ. Nè si vuol da questo menomamente inferire, che l' essere intuito dalla mente sia un' astrazione: perocchè l' atto dell' astrazione non si può fare che sopra enti già concepiti: e però la concezione degli enti è manifestamente anteriore all' astrazione che si fa su di essi, e la concezione degli enti suppone che l' uomo sappia già che cosa sia essere . Io stabilisco dunque che l' intuizione dell' essere privo di determinazioni generali e speciali preceda alla concezione degli enti, e questa all' astrazione; benchè da principio quell' intuizione sia in noi senza che n' abbiamo coscienza. Conciossiachè io stimo, che di nessuna cosa che passa in noi, abbiamo coscienza, se non per un atto di riflessione che noi facciamo sopra di quella; il qual atto nol facciamo sempre, e però assai cose ci rimangono nell' animo senza che n' abbiamo coscienza alcuna, e in tale stato ci restano o per sempre, o per molto tempo. Laonde, acciocchè io mi renda consapevole d' intuire l' essere, devo certamente riflettere sopra questa intuizione. E perchè i concetti delle cose a me venuti coll' uso delle sensazioni non contengono puramente l' essere, ma il contengono vestito di certe determinazioni, riflettendo sopra di quelli, io non posso trovare l' essere puro, se non astraggo dalle determinazioni che il limitano; e così avviene, che l' astrazione mi sia necessaria, non acciocchè io mi abbia l' intuizione dell' essere puro che precede a tutto, ma acciocchè io mi renda consapevole d' averla. Di che posi per motto del « Nuovo saggio » quelle parole di S. Agostino: « commonebo, si potero, ut videre te videas . » So per altro benissimo qual sia la difficoltà maggiore, che incontra questa teoria. Ella si è il non potersi da molti concepire, che l' oggetto ideale non sia una produzione della mente, ma qualche cos' altro. Che la cosa ideale sia altro dalla cosa reale, questo s' intende; ma che essendo diversa dalla cosa reale, non sia poi una produzione della mente, questo pare a molti inesplicabile. E pure io sostengo, che la cosa ideale non è certamente la cosa reale , e non è neppure una produzione della mente. - Che cosa è dunque? - E` una cosa eterna, dico io, che illumina la mente, è un modo primitivo dell' essere che in Dio stesso ha la sua sede; questo modo primitivo dell' essere intuibile dalle menti è lume essenziale , è ciò che forma l' essenza del conoscere: tutto ciò mi dà il fatto della cosa bene osservato, ed io non mi posso dipartire dal fatto. L' essere in quanto è ideale, esiste in un modo così diverso dall' essere in quant' è reale, che fra l' un modo e l' altro non v' ha nulla di comune , ma tutto è differenza; il che io esprimo dicendo, che sono categoricamente differenti, e tuttavia l' essere è il medesimo. La difficoltà d' entrare in queste sentenze, nasce dall' estrema malagevolezza che si prova in ammettere, che oltre il reale, v' abbia un altro modo di essere; si vorrebbe ridur tutto al reale e a modificazioni o produzioni del reale; e ciò che non si riduce a questo, credesi doversi chiamar nulla; pregiudizio veniente dal trovarsi la mente umana tanto impacciata colle realità corporee. Per altro, voglia ella considerare, mio chiarissimo signor Dottore, quello che le dicevo, che l' essere ideale, solo ammesso in questo modo, spiega l' essenza del conoscere . E` appunto il conoscere, che si suppone sempre per dato, e si crede che questo gran fatto del conoscere non abbia bisogno di spiegazione. All' incontro devo ripetere che il gran problema della filosofia sta tutto in questa domanda: « Che cosa è il conoscere? »La quale si riduce a quest' altra: « Che cosa è l' idea? »; che è appunto ciò che fa conoscere. E avverta bene, che non trattasi di spiegar questo o quell' altro atto di conoscere, ma semplicemente il conoscere. All' incontro i filosofi nostri si occupano a spiegare gli atti particolari del conoscere, senza che essi s' addieno del bisogno di spiegare il conoscere stesso che essi suppongono come cosa naturalissima ed evidente. Suppongono, così facendo, quello che è in questione, quello che contiene tutta la difficoltà della filosofia, e dopo di ciò hanno un bel fare; perocchè si spacciano certo più o meno agevolmente dall' altre difficoltà che non appartengono alla questione principale. Questo schizzar di mano a' filosofi la vera questione apparisce ugualmente, osservando, ch' essi non muovono discorso che non suppongano fino a principio per belli e dati gli oggetti della conoscenza. A chi mai viene in mente di trattenersi a spiegare, come si dieno oggetti di conoscere? E dati oggetti di conoscere, è data certamente la conoscenza, perocchè sono essi che la fanno; ma resta a vedersi, come una cosa può essere oggetto di conoscere. Ci toglie l' intelligenza di questo problema la stessa natura del linguaggio, che suppone sempre il conoscere, essendo esso stesso una conseguenza e una produzione del conoscere, e però quando si formò il linguaggio, gli oggetti di conoscere già esistevano. Il linguaggio dunque parla di oggetti di conoscere già formati, e però col suo aiuto non si può trovar via da spiegare come si formino; e per giungere a questo, è uopo ricorrere alla tacitissima meditazione della mente. Mi spiegherò con un esempio. Di sopra dicevo: il problema della filosofia consistere in ispiegare, come una cosa possa essere oggetto di conoscere. Ora ecco, che l' imperfezion del linguaggio non m' aiutò tampoco ad esprimere ciò che volevo con precisione, perocchè dicendo cosa , ho già detto oggetto; e se una cosa è un oggetto, non v' ha certo più difficoltà a spiegare come un oggetto possa essere un oggetto . Ma io volevo parlare di una cosa in quel modo di essere, ch' ella si ha, prima che sia fatta oggetto di conoscere, ossia prescindendo al tutto dalla sua oggettività. E per esprimere la cosa secondo tal sua maniera d' esistere non oggettiva, niuna lingua fornisce parola alcuna, perocchè tutte le parole sono state imposte alle cose in quanto queste erano già divenute oggetti di conoscere, nè potea farsi altramente. Laonde solo colla mente che medita e trova, dovere aver le cose un modo diverso dall' oggettivo, si può giungere a vedere quanto sia necessario e difficile lo spiegare, come ciò che non è in se stesso oggetto della mente, divenga poi tale. Ben mi persuado, che ella colla perspicacia della sua mente, pensandovi seriamente, conoscerà quanto tutto questo sia vero; e quindi s' accorgerà come la questione primaria non viene affrontata, ma supposta e trapassata anche nelle parole che ella dice al II (del) suo « Saggio . » « Per questa legge primordiale che governa l' attività della intelligenza, lo spirito umano è costretto di ricercare in qualunque oggetto sperimentale, ed in un modo non accidentale, ma preordinato ed immutabile, la sua causa ed il suo fine ». Cominciando così la teoria della conoscenza col dire, che lo spirito umano è costretto di ricercare queste cose, ella suppone che le possa ricercare e conoscere: quando tutto il nodo della questione sta veramente in definire come ciò sia possibile, a quali condizioni lo spirito possa conoscere, e più brevemente, che cosa sia il conoscere. Perocchè se mi si dà già a principio il conoscere, in tal caso certo non mi resterà più altro carico, che quel solo di definire le leggi, che lo spirito segue ne' suoi varŒ conoscimenti, che è un problema secondario, e non mai il primario. - Ancora, quando ella ammette fin da principio oggetti sperimentali , il gran problema è trapassato via; perocchè questo, come dicevo, riducesi tutto a mostrare come il reale diventi oggetto . Poichè il reale non è oggetto per se stesso, ma è solo soggetto o appartenenza del soggetto ; ma a noi sembra oggetto per sè, perchè sogliamo parlare sempre del reale conosciuto , e pensiamo quello che parliamo. E qui le dirò di più, che senza ascendere alla prima questione, che investiga che cosa sia il lume della mente, e che trova e ravvisa un modo d' esister dell' essere, diverso dal reale, un modo essenzialmente oggettivo e che oggettivizza il reale quando a lui mentalmente si congiunge, non si può, a parer mio, difendersi dallo scetticismo. Non è sufficiente il dire, che la legge preordinata e immutabile colla quale la mente in ogni cosa cerca sostanza, causa e fine, non inganna l' uomo, ma il conduce alla verità e a concepir le cose così come sono, essendo ella posta da Dio. Lo scettico risponde: provatemelo; e con questa sola parola atterra l' argomento; perocchè se per provarlo si ricorre al fatto, questo ci dice bene, che la mente opera così, ma non ci può mica dire, se ella, così operando, non sia avvolta forse in un' illusione trascendentale. Nè pure si può ricorrere alla veracità e bontà di Dio; perocchè lo scettico replica tosto: provatemi prima che si possa conoscere che Dio esiste. Egli è dunque necessario di mostrare agli scettici prima di tutto in che consista l' essenza del conoscere , e dimostrare che questa essenza non può essere impugnata, perocchè coll' atto dell' impugnarsi la si pone. E questa è sola proprietà dell' essere possibile ; perocchè se quest' essere si nega, dunque è possibile, conciossiachè non si nega mai l' impossibile, e se si negasse, resterebbe il possibile, in virtù della doppia negazione. Su questo punto fermo a me è paruto di dover piantare la certezza dello scibile umano. Ogni legge soggettiva, se emana dal soggetto, non può avere le proprietà del vero; e se è preordinata da Dio, non può essere il primo vero, giacchè prima di essa si dee provare questa sua preordinazione, la quale non può esser provata per essa, senza cadere in un circolo: si dee dunque ricorrere ad un altro principio più evidente. Finalmente, le osserverò ancora, che la legge da lei ingegnosamente annunziata, onde lo spirito cerca in tutto sostanza, causa e fine, suppone la cognizione dell' essere . Perocchè quando io dico: « dato l' accidente, vi dee essere la sostanza, »traducendo queste parole in altre vengo a dire: « tale è la natura dell' essere che se fosse semplicemente accidente, non sarebbe essere, e perciò: non v' è essere se non a condizione che vi sia sostanza ». Quando dico: « ciò che comincia ha avuto una causa »; io non fo che affermare di nuovo, essere impossibile un ente cominciante senza causa. Affermo che ciò ripugna alla natura dell' essere; nè potrei dir ciò se non conoscessi la natura dell' essere. Quando poi dico: « ogni ente dee avere un fine »; di nuovo la mia asserzione suppone, che io sappia che cosa deva aver l' ente, ossia suppone, che la natura dell' ente mi sia nota a segno, che io possa dire che cosa egli deva avere. La necessità dunque di causa, di sostanza e di fine emana dalla natura dell' ente a me preconosciuta; nè l' uomo potrebbe sentire quella necessità, se egli non conoscesse questa natura, se non conoscesse quello che io chiamo l' ordine intrinseco dell' essere , il quale ci si rileva nell' essere stesso e coll' essere stesso, quando questo si applica alla realità. Se dunque lo spirito è costretto di cercare in ogni cosa sostanza, causa e fine, io conchiudo: dunque conosce l' essere immediatamente, e, conoscendolo, ne sa le esigenze; dunque anteriormente alla legge che costringe lo spirito a cercar quelle cose nell' essere, è l' intuizione dell' essere stesso; dunque la legge dell' intelligenza sagacemente da lei sviluppata è natural conseguenza di quella notizia dell' essere , senza la quale lo spirito umano niente può vedere, niente pronunciare. Le quali mie osservazioni ella vorrà, spero, chiarissimo sig. Dottore, ricevere cortesemente e come un monumento dell' alta stima che le professo e colla quale sono ec.. Una filosofia la quale non tenda al miglioramento dell' uomo, è vana. Ed oseremo anche dire di più, essa è falsa; poichè la verità migliora sempre l' uomo. Vero è, che l' uomo abusa delle stesse verità: egli fa servire la verità all' errore ed alla propria perversione. Ma ciò nasce da questo, che la verità di cui fa sì deplorabile abuso, non è intera; poichè la verità, quando è intera, esclude necessariamente ogni errore; e però si può odiarla, ma non abusare di essa, non farla servire alla distruzione di alcuna altra verità; conciossiachè essa le comprende tutte e le comprende fornite di una cotal luce di evidenza. Egli è dunque necessario che la filosofia presenti una verità intera; cioè un complesso di verità ben ordinate; dappoichè anche l' ordine è una verità. E non si vuol già dire con questo che un tale adunamento di verità comprenda tutti i veri, tratti fuori, l' un dopo l' altro, per singulo; il che ognun vede essere impossibile: ma bensì che i veri singolari sieno virtualmente compresi nella università de' principŒ che tutti li portano in sè; e di sè all' uopo ingenerano le innumerabili conseguenze, ove sieno alla diversità delle cose applicati. Ma s' abbia pure il filosofo messo nell' animo il nobile proponimento di volere abbracciarsi a tutta intera la verità e di essa far subbietto alla sua filosofia; e d' acconciarla in ogni modo migliore che egli possa, al conoscimento ed al miglioramento dell' uomo. Egli deve ancora conoscere le sue forze, affinchè non gli accada di presumere: egli deve sapere che la filosofia non basta a conseguire che l' uomo veramente si ammigliori. La filosofia non può essere che una parte degli aiuti che si prestano all' uomo, perchè egli si ammigliori e perfezioni. Quand' anche la filosofia sia resa una esposizione della verità nella sua universalità e interezza, ancora, come dicevamo, la verità può essere odiata dall' uomo; e l' uomo può trovare in quest' odio, l' estremo del suo corrompimento. Perocchè la verità appartiene alla intelligenza, ma la virtù appartiene alla volontà; ed è a quest' ultima potenza che spetta il vero miglioramento e perfezionamento umano. Ora della volontà è proprio l' operare e dell' intelletto il conoscere. Egli convien dunque che l' educazione nel tempo stesso che illustra l' intelletto, dandogli il pascolo di una sana filosofia, allevi e pieghi altresì al bene la volontà coll' esercizio delle buone azioni, le quali si cangiano in buone abitudini che pigliano nome di virtù. Di qui è che gli antichi, non sofferendo che queste due cose stessero scompagnate, le congiungevano insieme, applicando all' una e all' altra il solo nome di filosofia che poi definivano « lo studio e l' amore della sapienza ». Ma l' uso ha poscia ristretto il significato della parola filosofia alla sola prima di queste due cose, cioè a significare il complesso delle verità generali e supreme che debbono illustrare e annobilire l' umano intendimento. E non basta sola questa riflessione a conoscere ed a definire l' ufficio della filosofia, e la parte che essa può avere nel miglioramento dell' uomo. Conviene di più considerare la scienza filosofica nel sistema cattolico. E diciamo nel sistema cattolico, poichè supponiamo di parlare a' cattolici. Che se dovessimo parlare ad altri, noi dovremmo condurre il discorso assai più dalla lunga; perocchè ci sarebbe necessario a far intendere il nostro concetto, di provar prima la verità della Cattolica Religione, e solo di poi scendere a vedere che parte si abbia la filosofia nel tutto dell' umano perfezionamento. Conciossiachè nel solo vero Cristianesimo l' uomo viene considerato nel suo intero, e non parzialmente. E dove l' uomo non si consideri nella sua integrità; cioè fornito di tutte le sue reali condizioni e relazioni, non è possibile il determinare la ragione di una sua parte al tutto; perocchè egli è sempre uopo conoscere il tutto, onde conoscere la ragione comparativa della parte. Il perchè, in ragione di metodo, noi così avvisiamo, che non si possa assegnare il suo posto e il suo ufficio alla filosofia, se non si considera l' uomo del Cattolicismo; cioè di quel sistema religioso che determina pienamente i rapporti di esso uomo con Dio, che è l' essere assoluto, da cui l' uomo con tutte insieme le cose ha l' esistere; e da una continua provvidenza del quale viene, senza alcuna posa o rallentamento, condotto e governato. Poniamo dunque vero il Cattolicismo: il che tanto più si conviene a noi, che viviamo in una nazione eminentemente cattolica, e che della fede e della pietà ha fatto il suo più nobile vanto. Or, secondo i principŒ di questo sistema, cerchiamo di definire qual parte aver debba la filosofia nel miglioramento e perfezionamento dell' uomo. Fu innanzi detto che la buona filosofia presenta all' intendimento la Verità nel suo modo intera: ma ciò vuolsi intendere con certa limitazione: perocchè anche la Rivelazione parla all' uomo di verità; e la Grazia stessa, secondo la cattolica dottrina, è lume che vien dato alla mente. Il perfezionamento dell' uomo adunque, anche considerato solo dalla parte dell' intelletto, non viene compiuto, secondo i principŒ del Cristianesimo, se non dalla Religione. La filosofia si limita ad illustrare l' intelletto umano nell' ordine naturale; ma la parola del Cristo è quella che trasporta l' uomo in un ordine soprannaturale, in una regione al tutto divina; e che per tal modo consuma la sua perfezione. Egli è dunque a vedere che cosa sia l' ordine naturale e che cosa sia l' ordine soprannaturale ; e quale relazione si abbia l' uno all' altro; e quindi medesimo, di che fatta miglioramento possa aver l' uomo dal sapere, nell' ordine della natura, e di che fatta perfezionamento possa aver dalla Fede, nell' ordine della Grazia. Ora ecco brevemente questo rapporto: noi lo esponiamo come un risultamento datoci dalla propria indole della filosofia e della Religione. Il principio della filosofia, siccome abbiam detto, è la VERITA`, e il principio della Grazia è pure la VERITA`. Ma la filosofia, parlando della verità, non ce ne parla come di un essere reale e sussistente; ce ne parla solo come di un essere mentale, di un' idea, o, vogliasi ancora, di un' astrazione. Vero è che i filosofi che si levarono più alto nella contemplazione, rimasero sommamente maravigliati e stupiti in considerando la forza delle idee, le quali pure al comune degli uomini, occupati delle sensazioni e delle entità materiali, non sembrano che tenuissime forme e non degne di speciale meditazione: e nella forza delle idee videro contenersi le ragioni e i principŒ eterni di tutte le cose, le basi invariabili, per così dire, dell' universo variabile; sicchè giunsero a dire che le idee sole erano cose realissime, e, trapassando ogni confine, le divinizzarono. Ma lasciando da parte questa sciaurata idolatria delle idee, che fu lo scoglio a cui ruppero tutti i più grandi ingegni che navigarono senza la guida del Cristo, non esclusi quelli de' nostri tempi (1), e fermandosi là dove dissero che le idee sono le cose realissime (2), noi osserviamo che essi però non poterono mai negare la diversità fra le idee e le sostanze sussistenti; e non poterono dare a quelle l' efficacia propria di queste; come, a ragion d' esempio, non poteron mai sostenere che l' idea di un cibo tolga la fame siccome fa un cibo reale e sostanziale. Laonde, checchè dicessero e speculassero nobilmente i filosofi sulla natura delle idee, esse rimasero però idee; e non poterono essere sollevate, con tutti i loro sforzi, a stato di cosa reale. Di che avviene che non potendosi concepire la verità de' filosofi se non come un' idea indeterminata, egli è manifesto che il principio della filosofia non è, e non può esser più di un essere ideale . Ma anche la Religione del Cristo parlò alla terra, come dicevamo, di Verità: ed ella anzi si annunzia come quella che sola comprende la pienezza della verità (3): la Verità è finalmente il fonte, il principio immediato, da cui dice scaturire la sua dottrina. Ma la Religione Cristiana ci parla della verità ben in altro modo da quello in che ci parla di lei la filosofia: essa non ci presenta la Verità come un essere meramente ideale; essa ci dice anzi che la Verità, da cui ella nasce come da suo prossimo principio, è una cosa reale, una sostanza, una persona; la quale persona di più si è congiunta in un modo ineffabile, e per non dividersi quindi giammai, colla natura umana. Questa maniera di parlare è certamente misteriosa e arcana alla ragione nostra, che non è avvezza di considerare la Verità, se non come una astrazione, o certo come una idea, e che non trova modo alcuno da vedere come ciò che è un essere ideale possa anche sussistere in se medesimo, essere una sostanziale e reale persona. Ma questo che è superiore al concepimento naturale dell' uomo, è appunto il mistero della Fede ; ed il solido fondamento, in cui l' edificio tutto intero della Cristiana Religione posa e si eleva. Or ecco dunque ciò che hanno di comune e ciò che hanno di diverso i principŒ della filosofia e della Religione di GESU` Cristo: hanno di comune che l' uno e l' altro principio è la Verità; ma hanno di diverso questo, che la Verità, in quanto è lume naturale dell' uomo e serve di principio alla filosofia, non si presenta a noi che sotto una forma puramente ideale; là dove la Verità, in quanto è lume soprannaturale e principio della Religione Cristiana, si presenta sotto una forma anche reale e compiuta. E volendosi da noi cercare quale sia quella prima ed essenziale Verità che si fa principio alle filosofiche cognizioni, che è quanto dire, a tutto il sapere naturale, egli è evidente che questa non può essere nessun vero particolare; poichè nessun vero particolare è il primo vero, ed ha la ragione sua in un altro vero a lui anteriore e più di lui universale. Di che viene che la prima verità esser debba universalissima; che è quanto dire la verità stessa, e questa indeterminata, ossia l' essere ideale il più universale e indeterminato. L' essere stesso adunque intuìto naturalmente dall' anima, è il principio della filosofia, come con più altri ragionamenti si potrebbe chiaramente dimostrare (1). Ed ora l' essere è anche il nome che esprime l' essenza di Dio nelle divine Scritture: « « Io sono l' ENTE, » dice Dio nell' Esodo: «Ego eimi o on» », secondo la traduzione dei Settanta. Si veda coerenza! il principio della filosofia è il lume della ragione; il principio della Fede è Dio stesso; quello è la Verità, ma solo ideale; questo è la Verità, ma sussistente. La Verità della filosofia è l' Essere , e la Scrittura dice che Iddio è appunto l' Essere . L' essere della filosofia è ideale e indeterminato; l' essere della Fede è anche reale e d' ogni lato completo. Considerando la natura dell' essere ideale , si trova che egli è bensì l' essere , ma veduto imperfettamente; veduto senza i suoi termini, e solo nel suo principio. All' incontro Iddio è l' Essere assoluto e d' ogni lato compiuto. Questo ci scorge a vedere la relazione della filosofia colla Dottrina rivelata, deducendola dalla relazione che hanno infra loro il principio dell' una e il principio dell' altra. Tale relazione consiste in ciò che il lume naturale è un cotal cominciamento di quel lume che si ha completo solo nella Rivelazione. Giacchè quell' essere stesso che, come dicemmo, perfetto è il grande Oggetto della Fede, veduto inizialmente e imperfettamente come il vediamo per natura, è ciò che costituisce il lume della ragione. Egli è perciò che le divine Scritture, parlando del Verbo di Dio, Verità sussistente, Essere completo, dicono che è desso: « « Quegli che illumina ogni uomo veniente in questo mondo » » Il che è quanto dire che il lume naturale è una imperfetta partecipazione dello stesso Verbo divino. Questa dottrina si trova da un capo all' altro de' Sacri Libri; e non sarebbe difficile raccogliere una quantità di testimonianze, cavate dagli scrittori ecclesiastici di tutti i secoli, i quali si tramandarono da uno in altro come un vero tradizionale, che « la verità naturalmente veduta dagli uomini, è una parte, un riflesso, un raggio della Verità, che è Dio medesimo »(1). Una filosofia dunque sana e vera la quale possa adempiere l' ufficio di migliorare gli uomini: primo, non potrà mai venire in collisione colla Religione del divino Maestro; secondo, dovrà riguardare la Fede, come quella che compisce ciò che a lei manca, e riverirla, come sua maggiore; terzo, dovrà preparare la via alla Fede, abbozzando, per così dire, nell' uomo quel disegno di perfezione che alla sola Fede e alla sola Grazia è possibile di condurre a finimento. Ora rimane a vedere come possa la filosofia procedere, volendo por mano a tale opra che a lei è commessa. Noi abbiamo detto che la Verità è sempre di sua natura perfezionatrice dell' uomo; ma che solo la Verità intera chiude al tutto le porte all' errore. Una filosofia adunque salutare deve allargarsi, deve esser mossa da un amore, da una tendenza ad abbracciare la Verità tutta quanta ella è ampia. Egli è solo con questo vastissimo ed onestissimo desiderio che la filosofia si rende giusta verso la Verità: perocchè il rendersi esclusiva e il rifiutare l' una o l' altra parte di verità, è già una ingiustizia che si commette contro l' essenza della Verità: e il cominciare da un' ingiustizia non è migliorarsi. Tutta la Verità è tutto l' Essere, in quanto è concepito dalla mente. Ora l' Essere ha tre forme primordiali: perocchè ci si presenta sotto la forma d' idea ; sotto quella di realtà : e finalmente sotto forma di congiunzione fra la realtà e l' idea . A queste tre forme, noi diamo i nomi di Essere ideale, Essere reale ed Essere morale . Ora, l' Essere contemplato in ciascuna di queste sue forme si fa subbietto alle prime tre scienze filosofiche, le quali si possono nominare Ideologia, Dinamilogia (1) e Agatologia . Queste tre scienze debbono formare un' ampia e solida base di tutto l' edificio filosofico. Ma sia che si consideri l' essere prescindendo dalle sue forme, sia che lo si consideri in ciascuna di esse, egli si presenta alla considerazione della mente sotto due rispetti distintissimi. Poichè la mente, o lo riguarda in universale e ne rinviene una teoria, a cui dà il nome di ONTOLOGIA, ovvero cerca l' archetipo dell' essere stesso, ed allora rinviene un' altra teoria, che è quella dell' essere assoluto, a cui dà il nome di TEOLOGIA (1). Tutte due queste grandi teorie trattano dell' essere, tanto nella sua unità, quanto nella sua trinità, cioè in ciascuna delle sue tre forme; ma l' Ontologia considera l' essere a quel modo che può, cercandone la natura unicamente nell' idea o concetto del medesimo; laddove la Teologia, investiga l' essere, quasi direi, concretato e attuato fino all' ultima sua perfezione, onde tratta di Dio. Queste due teorie abbracciano in se stesse le tre scienze nominate, nelle quali come in altrettante loro parti si dividono; laonde c' è una Ideologia, una Dinamilogia ed una Agatologia Ontologica , ed un' altra Ideologia, un' altra Dinamilogia e un' altra Agatologia Teologica . Convien considerare qui l' ordine di queste tre scienze. E` manifesto che non si può ragionare di quella forma che dà all' Essere l' atto suo perfettissimo, di che tratta l' Agatologia , senza che si conosca prima l' Essere in quanto è reale e in quanto è ideale; conciossiachè la perfezione dell' atto dell' Essere nasce dall' individua e perfetta congiunzione di queste due forme della idealità e della realtà: che perciò di queste si deve aver parlato prima che della loro relazione o unione. Ma egli non è difficile ancora a conoscere che dell' Essere reale , del quale tratta la Dinamilogia , non si può tenere alcun ragionamento, se non dopo aver messa fuori la dottrina intorno all' Essere ideale , che è contenuta nella Ideologia; perocchè nessun Essere ideale da noi si conosce se non coll' aiuto delle idee . E perciò il discorso delle idee è indubitatamente quello, da che dee muovere tutta la filosofia, ed, anzi meglio, tutto il sapere umano. E anche, vi ha egli sapere senza idee? e se ogni sapere dipende dalle idee, qual valore avrà egli, ove restasse il dubbio che le idee c' ingannassero? Conviene dunque sapere prima di tutto: « se le idee che sono il mezzo del saper nostro c' ingannano o ci dicono il vero ». E per sapere se le idee non c' ingannino, ma s' abbiano quella autorità che gli uomini sogliono attribuire loro, a cui dover credere sempre, conviene disaminarne la natura; e la natura delle idee non si mette ad esame e non si conosce se non investigandone l' origine, del che principalmente tratta l' Ideologia . La quale scienza nelle sue ricerche giunge ultimamente a conoscere che non avvi, propriamente parlando, nella mente umana, se non un' idea sola, colla quale e nella quale si vedono tutte le cose; e questa è l' idea dell' Essere in universale ; ed è il proprio lume della mente, e in essa si trova l' evidenza e la necessità della cognizione; sicchè ella costituisce finalmente un tal criterio di certezza , che rende impossibile ogni dubitazione. Con che è posta la pietra fondamentale della Logica che distrugge ogni maniera di scetticismo, e insegna l' arte di ragionare, o sia, di applicar l' idea ad ogni maniera di cose; perocchè il ragionare non è che una continua applicazione dell' idea dell' Essere in universale; e così la Logica nasce figlia primogenita alla Ideologia; e occupar deve il secondo posto nell' albero delle scienze. Conciossiachè è tale l' incatenamento del sapere umano, che una scienza ci rimanda a cercare il suo perchè nella scienza ad essa anteriore. Or la ragione di una cognizione non è che un' altra cognizione, un' idea più generale; di che la prima ragione di tutte le cognizioni non è che l' idea più universale di tutte. Per la qual cosa l' Ideologia e la Logica che trattano dell' idea dell' Essere universale, la prima considerandola come il Fonte delle idee, e la seconda, come il Criterio della certezza, sono di loro natura le prime scienze. E per la medesima cagione definendosi da noi la Filosofia per la scienza delle prime ragioni , egli è manifesto che quelle scienze che trattano della primissima ragione, debbono essere quelle, onde la filosofia stessa incominci. Egli è vero che in ogni disciplina c' è quella idea che ne forma la prima ragione, e che per conseguente c' è la filosofia di ogni genere di sapere. Così c' è una filosofia della fisica, una filosofia della matematica, una filosofia della giurisprudenza, una filosofia della politica, e via dicendo. Ma le ragioni prime di queste scienze non sono prime che relativamente ai particolari complessi di cognizioni che costituiscono esse scienze; laddove l' idea dell' Essere in universale che si fa subbietto alla Ideologia ed alla Logica , è la ragione prima relativamente a tutto lo scibile. Il perchè questa parte si potrebbe anche acconciamente chiamare la filosofia della filosofia. Ad essa poi continuar si deve la Dinamilogia e l' Agatologia , perchè la dottrina dell' Essere si spieghi sotto tutte le sue forme primigenie. Egli è evidente che se non si premette la teoria dell' Essere universale, non si può parlare con sicurezza di nessun essere particolare; e che perciò non si può neppur conoscere l' uomo; poichè anch' egli non è più di un essere particolare. E in vero, chi sottilmente considera, vedrà che i principali e più perniciosi errori presi da' filosofi intorno all' umana natura, ebbero origine dal non aver essi considerata prima nell' uomo la natura dell' Essere universale. Perocchè di qui avvenne che non conobbero il rapporto che ha l' uomo con tutto l' Essere; di che il collocarono in posto non suo; come segnatamente accade a coloro che fecero dell' uomo il centro dell' universo. Con che introdussero nella filosofia teoretica il Panteismo e l' Ateismo, e nella pratica il Filantropismo e l' Epicureismo (1). Or la scienza della natura umana si può chiamare acconciamente Antropologia , la quale deve considerare l' uomo non meno nella sua parte animale, che relativamente al suo spirito, e finalmente nel soggetto in cui convengono l' animalità e l' intelligenza. E questa dottrina dell' uomo egli è manifesto che deve essere la prima nell' ordine delle scienze particolari; chè, come dicevamo a principio, tutto ciò che noi cerchiamo colla filosofia non è finalmente che il miglioramento di noi stessi . Sicchè non c' è altra cagione per la quale noi differiamo a parlar dell' uomo fin dopo aver compiuto il discorso dell' Essere in universale, se non questa, che ci era impossibile il parlarne prima convenevolmente; poichè a chi vuole investigare la natura d' un essere particolare, conviene che sia prima venuto in possesso de' principŒ che scaturiscono dalla dottrina dell' Essere in universale per siffatto modo, che si possono considerare quelle scienze nelle quali viene ordinata una tale dottrina, quasi come una cotal grande Prefazione al trattato dell' uomo. Ora dunque venuti noi a parlare dell' uomo, e della sua perfezione, scopo della scienza, la prima cosa conviene sicuramente conoscerne la natura , come detto è, ciò che fa l' Antropologia: ma tosto appresso conviene cavare dalla teoria della sua natura la scienza delle sue tendenze , la quale noi chiamiamo Eudemonologia , che viene a dire « discorso della felicità »; poichè tutte le tendenze umane vanno finalmente a parare nel desiderio d' essere felice; sicchè la teoria della felicità comprende naturalmente quella delle tendenze dell' uomo. Incontro alle quali tendenze, quasi freno, o, a dir meglio, regolamento, stanno i doveri morali scritti nel cuore dell' uomo, e raccolti dall' Etica ; dalla quale noi pensiamo util cosa, che si derivasse e cavasse poi a parte un trattato de' diritti naturali che sia fondamento alla civile legislazione (1). Ma non basta aver veduta la natura umana, le sue tendenze , i doveri , i diritti , e aver considerato tutte queste cose ne' brevi ed angusti fatti dell' individuo; è necessario di più vederli, quasi riportati sopra una scala maggiore, ne' fatti del genere umano: il che dà luogo ad una Storia filosofica della Umanità; nella quale apparisca principalmente quali sieno le leggi immutabili venienti dalle proprietà della natura umana, alle quali è soggetto tutto lo sviluppo e il perfezionamento successivo della umanità (2). La qual cognizione ci lastrica ultimamente la via a poter entrare sicuramente nel trattato de' mezzi pe' quali l' umanità si viene sviluppando e perfezionando, i quali mezzi, ridotti ai sommi ed universali, sono tre (diciamo de' principali, che non si possono del tutto omettere in un corso scolastico), cioè a dire la società domestica , la società civile , e l' educazione , che, sebbene sia anche l' ufficio dell' una e dell' altra società, tuttavia si può anche considerare come un magistero che sta da sè; poichè non è nuovo, che uomini amatori de' loro simili abbiano allevati i fanciulli altrui con amore di padri, e senza averne ricevuto commessione o eccitamento o mercede da nessuna umana potestà. I quali tre sommi mezzi si rendono per tal guisa argomento di tre nobilissimi trattati filosofici che si volgono intorno all' ottimo ordinamento della società domestica, e all' ottimo ordinamento della società civile, e finalmente all' ottima educazione; trattati si possono acconciamente denominare, come furono denominati dagli antichi, Iconomia , o con altro simile nome migliore (1), Politica , e Pedagogica . Or così assolvesi il corso delle principali scienze filosofiche, v“lte all' umano miglioramento le quali dovrebbero entrare nell' istituzione filosofica, da darsi alla nostra gioventù nell' Accademia. Le quali, riassumendole qui brevemente, si compongono di due serie, cioè; La serie di quelle scienze filosofiche che trattano dell' ESSERE stesso; e La serie di quelle scienze che trattano in particolare dell' UOMO. La prima serie ne contiene quattro: primo, l' Ideologia; secondo, la Logica; terzo, l' Ontologia; quarto la Teologia naturale. La seconda ne contiene otto: primo, l' Antropologia; secondo, l' Eudemonologia; terzo, l' Etica; quarto, il Diritto razionale; quinto, la Storia dell' umanità; sesto, l' Iconomia; settimo, la Politica; ottavo, la Pedagogica. La quale distribuzione può essere facilmente variata, nè certo comprende tutto il ciclo delle scienze filosofiche (2); ma solo ci parve sufficiente e ad un tempo necessaria, acciocchè la facoltà filosofica acquisti nelle nostre Università quella dignità e quell' ampiezza, che le è dovuta, e da cui siamo cotanto lontani, dignità ed ampiezza, mancando la quale lo spirito della gioventù studiosa non si può elevare, ne' tempi nostri, ad un alto sentire e ad un generoso pensare, nè trovarsi a sufficienza armata contro il sofisma, nè bene intendere quale ha il cammino pel quale la scienza conduce alla virtù. Fra le molte obbligazioni, che mi legano a Monsignor Ostini, non è picciola questa d' avere eccitato Lei a scrivermi, e così dato a me l' occasione d' entrare in corrispondenza colla sua rispettabile e dotta persona. Se non che in questo stesso non mi manca cagione di muovere qualche lagno coll' egregio Ostini. La gentilezza di Monsignore me le debbe aver dipinto troppo altra cosa da quel ch' io sono, e fors' anco per un qualche gran baccalare in filosofia: il vedo dalla sua lettera troppo cortese e vantaggiata pe' pari miei. E però La prego prima di tutto di smettere sì falsa opinione, venutale dall' altrui amicizia, e dalla sua propria bontà, non solo per ben mio, acciocchè io non m' abbia poi a vergognare d' essere conosciuto molto diverso alle prove; ma ancora per ben suo, acciocchè Ella non s' abbia a trovare ingannato in sul meglio; ciò che a ciascuno dispiace. Ed ora sono con Lei. Le questioni filosofiche che mi propone nella sua lettera, come Ella medesima ben vede, potrebbero essere soggetto non che di una lettera famigliare, ma di un libro, anzi di molti. Ella sa quanto le varie parti della filosofia sieno connesse tra loro, come ciascuna riceva lume da tutte l' altre; ed appena che io mi creda potersi rendere al tutto chiara qualche verità, quand' ella non si mostra a suo luogo, non s' espone insieme con tutto il sistema delle verità, a cui quella appartiene: ciascuna di queste verità, è piccolo membro a un gran tutto; nè s' intende a fondo, se non si concepisce non solo la sua natura, dirò così, ma ben anche le sue relazioni, que' veri che la precedono e quelli che la susseguono, e de' quali essa o è la ragione, o la conseguenza. E tuttavia non posso negarmele a esporle con brevità alcune cose che io penserei sulle questioni proposte, pregandola, non già a ricevere queste mie considerazioni, come quelle che a me soddisfacciano compiutamente, e molto meno come quelle che esauriscano le importantissime risposte da Lei desiderate, ma solamente come quelle, che mi concede una lettera famigliare e la brevità del tempo. La sua prima dimanda riguarda la classificazione dei sistemi filosofici. Mi sembra, a questo proposito, che i sistemi filosofici si possano classificare in due maniere: 1 o col nome de' loro inventori, 2 o colla diversità de' principŒ che pongono. Ella mostra nella sua lettera di seguire il primo metodo. Ma sebbene io al tutto non lo rigetti, tuttavia mi pare ch' esso non potrà mai essere recato a quella esattezza, e fornito di quella distinzione precisa che nelle dottrine filosofiche è desiderabile e necessaria. E` bensì semplice, e, come il primo che viene alla mente, fu comunemente adoperato. Ma questa divisione mi pare che riposi, se le debbo dire il vero, in quel soverchio d' autorità, che in altri tempi fu conceduto ad alcuni maestri, i quali per le loro dottrine essendosi partiti dal comune degli uomini, furono dagli uomini, veggendoli sì alti, venerati quasi altrettante deità. E di questo soverchio d' autorità dubito non forse ancora si ritenga l' effetto nel tempo nostro, senza che noi pure ce ne avvediamo, e bene spesso anche maritando questo difetto col suo opposto, cioè con quello di una franchezza soverchia in portare giudizio d' uomini grandissimi certamente, e delle dottrine loro, giacchè nello spirito umano simili contraddizioni non sono rare. E veramente questo modo di partire e contrassegnare le filosofie co' nomi degli inventori, suppone che i diversi maestri ed inventori di esse sieno sempre coerenti con se medesimi per tal maniera, che l' uno s' abbia un corpo di dottrine al tutto compaginato e perfetto, e diviso da tutti gli altri corpi o sistemi di dottrine. E comunemente quelli che hanno voce di fondatori di cotesti sistemi, procedono così alti nelle loro promesse, almeno in tutta quella parte nella quale confutano le dottrine altrui, che mostrano di non volere aver nulla di comune cogli altri, e presumono di avere cavata tutta intera da sè soli, quasi facendola esister dal nulla, la filosofia. Promesse di presunzione umana! Se noi gli esaminiamo imparzialmente, massimamente là dove, dopo aver distrutti gli altrui sistemi, cominciano a edificare i proprŒ, vediamo che, per quanto procurino di dividersi dagli altri con una nuova disposizione di cose, vengono però sempre (negandolo essi) presso a poco negli stessi sentimenti: e talora ponendo alcun principio diverso, non consentanee al principio deducono le conseguenze, ed entrano, senza pure avvedersene, nel sistema altrui. Per quanto io abbia riflettuto, non mi è occorso giammai di vedere un sistema al tutto compaginato e stretto con se medesimo e perfetto: almeno mi riesce impossibile il credermi in caso di affermare, che questo sistema ci sia: per dir ciò dovrei credere, che ci sia qualche libro, il quale contenga tutti i principŒ necessarŒ per isciogliere qualunque problema di filosofia. Come dunque i nomi di due filosofi sono totalmente diversi l' uno dall' altro; così venendo a classificare i sistemi secondo questi nomi, sembra che si supponga, i sistemi stessi essere interamente l' uno dall' altro diversi, ciò che non si avvera o difficilmente si può verificare, essendo tanto vasta la filosofia. Di vero la filosofia, e anche, se vogliamo, la sola metafisica è un aggregato di più scienze (1); e quando anche due filosofi in alcuna di queste scienze realmente e non di sole parole discordassero, potrebbero concordare in qualche altra: laonde co' nomi degli autori potrò bensì distinguere materialmente i libri delle filosofie, ma non mai formalmente le stesse filosofie. Poichè quando si vogliono dividere le specie, non deve entrare nell' una quello che nell' altra; altrimenti non sono ben divise. Però sono venuto più volte in questo pensiero, che non si possa aver giammai una classificazione perfetta ed una storia della filosofia, fino a che non è stata fermata la perfezione stessa della filosofia. Allora raffrontando alla perfetta filosofia le altre non perfette o false, si potrà determinare in quali parti discordino: e di ciascuna discordanza si potrà formare la base d' un sistema falso, e quasi il germe di tutto il sistema (1). Ma perchè queste cose sieno chiarite di alcuno esempio, prendiamo non già tutta la filosofia, poichè non è stata ancora ridotta ad un semplice principio, e non viene significata con questa parola una scienza sola; ma prendiamo una parte della filosofia, che da un solo principio, o da una sola questione dipenda. E sia quella di cui più si occupa oggidì il mondo, e che Ella mi tocca nella sua lettera, dell' origine delle idee. Questa si riduce ad un solo principio, o per dir meglio ad una sola dimanda: In che modo lo spirito nostro venga in possesso delle idee . Le farò una classificazione di alcune delle principali opinioni tenute sulla questione. Queste opinioni diverse o questi principŒ diversi, riducendosi ad un solo oggetto, diventano naturalmente germi di varŒ sistemi, i quali, sieno o non sieno abbracciati dagli autori, sono però fra di loro totalmente diversi, perchè sono figli di un principio solo, totalmente diverso. E primieramente osservo che alcuni filosofi si sono il più occupati ad esaminare la potenza di produrre o d' avere le cognizioni delle cose e le idee: altri hanno fermata maggiormente la loro attenzione sui mezzi o aiuti esterni di cui quella potenza ha bisogno per operare. I sistemi dunque sull' origine delle idee si possono dividere da questi due capi di divergenti opinioni; A. dalla differenza delle opinioni de' filosofi intorno la potenza di conoscere; B. e dalla differenza delle opinioni intorno gli aiuti esterni dalla potenza di conoscere. - Cominciando dal primo capo. Alcuni pensarono che bastasse dare all' anima una potenza o facoltà, e per oggetto di questa potenza le sensazioni ricevute per gli organi corporei. Così prima delle sensazioni, non posero nello spirito umano nessuna traccia di cognizione. Di questi, Ella vede, è il Locke, il Condillac ecc.. Altri dissero che la facoltà di pensare non bastava concepirla nell' uomo prima del suo sviluppo, come una mera potenza, ma bisognava darle qualche traccia di cognizione non ricevuta da' sensi, lasciando poi d' esaminare se questa cognizione innata formasse parte essenziale e s' immedesimasse colla stessa facoltà di pensare, e si dovesse distinguere fra la facoltà di pensare e questa innata cognizione. Ad ogni modo costoro, non si appagavano di considerare la facoltà di pensare come una potenza in genere e quasi diremo di natura incognita, come i Lockiani; ma volevano protrarre più innanzi la loro investigazione (1), e non sembrava loro di essere ancor giunti a spiegare l' origine delle idee coll' ammettere semplicemente una facoltà di conoscere nell' anima umana; a loro pareva necessario a tal uopo di entrare ancora a determinarne la natura e le leggi, ricercando quale ella doveva essere questa facoltà per poter servire all' ufficio, che le si attribuiva, di pensare alle cose e quindi averne le idee. Ora a taluno parve che in nessuna maniera si poteva spiegare come sì fatta potenza fosse atta al suo fine, se non se la immaginava d' una natura particolare, e tale ch' ella portasse in qualche maniera seco gli oggetti suoi fino dall' istante ch' ella cominciava ad esistere. Ed in questo risultato convenivano moltissimi ingegni di gran valore, i quali avevano profondamente pensato al modo onde questa potenza di conoscere potesse fare le operazioni che fa, e l' avevano seguita col pensiero in tutti i suoi passi. Ma sebbene tutti questi convenissero che non si sapeva intendere in nessun modo come la facoltà di pensare potesse fare le operazioni ch' ella fa, se gli oggetti suoi ella non portasse in qualche maniera già seco fino dal suo esistere; tuttavia questi si dividevano di parere quando si trattava di definire quale fosse questa maniera , ond' essa avea seco uniti i suoi oggetti immobilmente ed originariamente. Quindi altri dicevano necessario ch' ella avesse a dirittura unite, o per sè o per una cotal giunta, le idee medesime delle cose: sia poi che ciò pensassero veramente, o piuttosto che così dicessero parlando impropriamente per non trovare la via d' esprimere con più esattezza ciò che concepivano nell' animo. E qui ella ravvisa Cartesio e molti Cartesiani. Ma ad alcun altro, parendo da una parte necessarie queste idee innate a spiegare i fatti del pensiero, dall' altra non sapendo come ammetterle al modo di Cartesio, perchè la coscienza non ne somministra argomento, sembrò più ragionevole di ridurre queste idee innate a piccolissimi sentimenti non avvertiti dall' anima, che riceve però impulso da essi ad operare secondo quelle forme quasi solo delineate in essa con lievissimi vestigi, e credettero costoro, che intravedesse questo vero Platone in quella sua reminiscenza, e che solamente a lui mancasse di aggiungere alla reminiscenza il presentimento . Spiegavano l' esistenza di queste idee non avvertite nell' anima nostra colla similitudine d' una statua, la quale esiste in un pezzo di marmo ancora rozzo, tracciata in esso dalle vene naturali del medesimo (1): e facevano poi che il pensiero tutto si creasse per una forza dell' anima determinata col presentimento o coll' instinto alle idee. E parmi questo il sistema di Leibnizio. Kant può avere avuto da questi instinti, onde Leibnizio faceva l' anima mossa alle idee (1) (quasi queste idee stesse fossero potenze separate che si riducessero all' atto per una forza loro intrinseca), il primo concetto delle sue forme innate, le quali non sono altro che determinazioni dello spirito venute a lui dalla sua propria natura, per le quali egli è costretto a veder le cose in un determinato modo subbiettivo, vestendo tutti gli oggetti sì del senso esterno che del senso interno, come dell' intelletto e della ragione (secondo la divisione ch' egli fa delle facoltà dell' anima), di queste forme, o per dir meglio considerando tutte le cognizioni come fenomeni dello spirito. A questo viene Kant; e finalmente Ella comprende come abbia chiamato filosofia trascendentale la sua dottrina, giacchè parla della forma di cui tutte le nostre possibili cognizioni necessariamente sono vestite, della quale perciò non le possiamo giammai svestire; sicchè il parlare di esse piglia un oggetto che transcende lo stesso conoscere; e vede ancora perchè la sua principale opera egli la denomini: « Critica della ragione pura; » assumendo a fare la critica alla stessa ragione, e a sciorre la questione, prima di tutto, se questa stessa critica sia possibile. Questi quattro sistemi differiscono, come dicevamo, dal diverso modo onde considerano la facoltà di conoscere: il primo restrigendosi a considerarla come una mera potenza di conoscere, senza esiger più oltre; gli altri tre giudicando necessario di considerare altresì questa potenza nella sua peculiar natura: e fra questi il primo pretendendo che in essa sia necessario di supporre ancora delle idee al tutto formate; il secondo insegnando che bastino certe potenze che si attuano quasi per via di certi instinti primitivi; il terzo finalmente trovando necessario concepire la ragione fornita di modi o forme venienti dalla sua stessa natura; e dicendo questi tre d' accordo, che non può spiegarsi come l' uomo si procuri le cognizioni col solo immaginare una potenza conoscitiva, se anche non se ne disamina la natura. B - L' altra classe d' ideologi si divide non tanto per la diversità nella quale considerano la stessa facoltà di pensare, quanto per la diversità, nella quale considerano la necessità d' oggetti primitivi, su cui operando la facoltà di conoscere, ecciti o formi o crei a se medesima le cognizioni. E di questi alcuno vuole che non bastino le sensazioni ricevute per gli organi corporei; ma gli oggetti da cui viene affetta la facoltà di conoscere, e da' quali colla sua attività crea a se medesima la scienza, sieno, oltre le sensazioni, tutti i sentimenti interni: ed Ella riconoscerà in questo, per nominare alcun recente, il Laromiguiere. Altri esigono, oltre gli esterni sensibili influenti sull' animo, un continuo lume della divinità che a lei risplenda: e qui vede l' italiano cappuccino Giovenale della Valle di Non, il Tomassino e il Malebranche ec.. E Platone aveva certo veduto il sistema di Malebranche, e travalicatolo, aggiungendo i molti lumi delle sue idee eterne sussistenti quasi esseri al di fuori della divinità, emendato in questo da S. Agostino, che fece la via a tre nominati filosofi. Alcuni poi (massimamente tra' moderni) non contenti di questi varŒ pensamenti, giunsero a credere che alla facoltà di conoscere, oltre le sensazioni, ci voleva un altro aiuto anch' esso esteriore fra il sensibile , dirò così, e l' intelligibile , cioè una favella , e dissero che l' uomo non poteva accorgersi del suo pensare giammai, senz' avere l' espression del pensare. Di cui nacque al visconte di Bonald il suo sistema. E si avvicinano a lui alcune sentenze di Platone e di Socrate; e molti altri lo avevano già prima intravveduto. Tra' quali il vide, prima del Bonald, un Italiano che ne fece pur troppo abuso [...OMISSIS...] Tutti e due conoscono l' assoluto bisogno del parlare per dar origine al pensiero: se non che il secondo non vede da questo di necessità assoluta, che il parlare sia venuto all' uomo dalla tradizione; mentre il Bonald crede con ciò stesso definito, che come la facoltà di parlare è in noi nativa, così l' arte di parlare sia in noi acquistata: quantunque poi dica: [...OMISSIS...] Questi altri quattro sistemi dunque differiscono dalla varietà degli oggetti ed aiuti, da cui credono che debba essere assistita la facoltà nostra di pensare, perchè ella giunga all' atto del pensare. Ora essendo questa questione dell' origine delle idee unica e semplice, si possono benissimo, com' Ella vede, classificare con tutta esattezza i diversi sistemi sulla medesima anche per mezzo de' nomi degli autori, senza dare loro una soverchia autorità, e presupporli infallibili nel tirare le conseguenze dai diversi principii. E` dunque necessario, prima di classificare i sistemi della filosofia, o di qualunque altra scienza, di ridur quelli ad un principio solo, o se questo non si può, di ridurli a quel minor numero di principii che è possibile, e poi per ogni principio fare una diversa classificazione. In tal caso poichè da un semplice principio nasce un sistema di conseguenze direi quasi infinite, quando io ho classificati i principii, vengo ad avere ancora classificato accuratamente i sistemi che o sono stati giustamente tirati da tali principii, ovvero si possono tirare da quelli. Non m' allungo con altri esempi per non essere infinito: ma dirò solo, che chi volesse classificare i sistemi secondo i sommi criterii della certezza, allora avrebbe un' altra questione pure semplice onde potrebbe cavare una esatta classificazione. Che se poi dimostrasse, che tanto la questione dell' origine delle idee, come la questione del sommo criterio della certezza dipendono da un solo principio antecedente, allora avrebbe trovato il modo di distinguere con una classificazione i sistemi che vengono dalle due proposte questioni, non formando esse in questo caso se non due parti di un altro sistema maggiore. E facilmente Ella da questo intende, come, se tutta la filosofia potesse ridursi ad un solo principio, allora si potrebbe ben classificare tutta la filosofia con una sola classificazione, bastando distinguere accuratamente le diverse opinioni sul principio da cui dipende. Ma è tempo che io passi a dire una parola sulla seconda richiesta che Ella mi fa, colla quale aspetta la mia opinione sopra i vari sistemi della filosofia. Ella vede, che la risposta che io le posso fare, dipende strettamente dalla prima che le ho fatto. Sarebbe forse possibile rispondere bene o male sopra qualche punto della filosofia particolare; ma sopra i vari sistemi di tutta la filosofia, non mi pare che si possa dir nulla di fermo e senza equivoco, mentre trovo, come dissi, tanta difficoltà solo in convenire in che differiscano questi sistemi. D' altra parte, per mio credere, non si può giudicare con sicurezza e senza presunzione degli altrui sistemi, se non per mezzo di un altro sistema già formato, pel quale sia venuta in animo grandissima persuasione di aver conseguito la verità che è sola giudice dell' errore: e quand' anche alcuno fosse venuto a questo, sarebbe cosa assai ardua esporlo chiaramente nelle angustie di una lettera. Mi conceda dunque che in luogo di risposta io attenda piuttosto l' indicazione di qualche questione particolare, sopra la quale Ella desiderasse sentire quello che mai mi riuscisse dirle: e per questa le faccio una sola osservazione generale. Io credo giovevole e modesta cosa considerare i sistemi de' filosofi coll' occhio più favorevole. Mi è paruto di vedere che quasi sempre essi sieno caduti in errore per imperfezione d' idee, non per isbaglio nel ragionamento: e però che tante volte bastasse aggiungere in luogo di mutare, e ricondurre alla naturale interezza i germi che essi hanno posti in luogo di distruggerli e gettarli di nuovo. Molte volte ancora due filosofi trattano di un argomento diverso e credono di trattare lo stesso argomento, e vengono alle mani come inimici; mentre che l' uno batte una strada e l' altro ne batte un' altra, senza incontrarsi: l' uno chiarisce un punto dell' umano sapere, l' altro ne chiarisce un altro a quello contiguo bensì, ma che non è quello: e perchè sono nello stesso territorio, ma sopra un' altra parte di esso, si avvisano di combattere insieme per lo stesso punto di terra. Li conduce a questo, confessiamolo ingenuamente, mio caro signore ed amico, quella presunzione e quella baldanza che tanto insensatamente entra nell' animo dell' uomo che aspira al conquisto della scienza, senza aver ricevuto e portato il soave giogo della verità. Però mi riesce dolorosa cosa e importevole il vedere come tutti quasi i filosofi si assaliscano e mordano scambievolmente, vogliano che tutto sia nuovo ne' loro libri; e basta che rinvengano nuove vesti ad un antico pensiero, per dichiararsi creatori di un nuovo sistema, e scopritori di una verità non isplenduta giammai agli occhi degli uomini che gli hanno in terra preceduti. E queste male disposizioni sì proprie de' mortali non è a dire quanto impediscano i progressi del vero sapere, e colla discordia delle sette, quante verità venute all' aperto non rimettano forse per secoli novellamente sotterra colla derisione e collo spregio del sistema nel quale erano contenute. Cosa lontanissima dal dolce e concorde spirito che mette in noi sola la Religione della verità! E così non facevano il grande Agostino ed il gran Tommaso, nè alcuno de' sommi splendori della Chiesa, che appunto per questo sono dalla piccolezza infinita degli uomini tenuti meno in pregio di filosofi e men seguìti perchè non hanno spacciato se stessi a fondatori di sistemi, paghi di contemplare l' intero e illimitato corpo bellissimo della verità. Ed Ella vede che con questo stesso io ho cominciato a rispondere alla sua terza interrogazione: Come arrivare alla scoperta del vero. La bella forma dell' animo, mi pare senza alcun dubbio, la migliore di tutte le disposizioni: di poi l' elevatezza della mente: la perpetua coerenza e profonda cognizione della Religione cristiana, che quanto più si studia, più fa crescer l' ali all' ingegno e spiegarle ai metafisici voli: nel medesimo tempo la libertà dai ceppi tutti che mette al progresso dell' ingegno la piccolezza degli uomini: avvezzarsi a contemplare le idee stesse prive dell' involucro delle parole, degli schemi, de' metodi: sapere avvisare la verità sotto qualunque forma e colore; amarla sotto tutti: abborrire la setta e il sistema in quanto limita queste forme della verità, e studiare assai nelle parole. Nelle parole (questo vero discende dalle osservazioni di Bonald, e prima sonava alto nel Vico) nelle parole sono contenute le scienze delle nazioni: però guardarsi dall' alterarne il senso fisso loro dai popoli, dirò di più dalla Provvidenza, da Dio: la proprietà delle parole strettamente conservata è l' unico mezzo alla chiarezza delle idee, a fissarle, a concordarle. Di questa proprietà fu sottilissimo investigatore, e fermissimo mantenitore S. Tommaso. Il volere alterare il valore delle parole fu l' arte di molti antichi e moderni sofisti, e di molti filosofi profani: appena s' inganna il mondo se non con questa alterazione: di quasi tutte le parole filosofiche e politiche si abusò, e a mostramento di ciò furon fatti molti scritti. Chi osservasse gli errori venuti dall' abuso della parola NATURA nella scienza del diritto e della morale, delle parole SENSAZIONE, PIACERE, DOLORE nella metafisica, delle parole UGUAGLIANZA e LIBERTA` nella politica, della parola RICCHEZZA nella economia, e di molte altre consimili, alle quali comunemente non si fece che aggiungere un senso più esteso del senso dato loro dal comune uso, avrebbe raccolto le origini d' incredibili inganni alla mente, e d' incredibili guai alla Umanità. Ella poi non sarà pago a queste generali avvertenze, già troppo a Lei note, per lo conseguimento del vero: vorrà di più, che io le additi qualche grave scrittore da mettersi innanzi quasi scorta ai passi nel malagevole ed inviluppato cammino. E lo farei ben volentieri, ma voglio riservarmi questa cosa dopo che Ella mi avrà appagato sopra i concetti di S. Tommaso intorno all' origine delle idee: perocchè non essendo giusto che un solo sia quello che spende, m' aspetto in cambio di questo povero scritto, questa moneta da Lei. Avrò allora di ciò occasione più opportuna. Hegel è il bisnipote di Kant, patriarca della moderna filosofia tedesca. Il filosofo di Koenisberga dalla meditazione di un principio noto avanti di lui, che lo spirito umano pensa in modo conforme alle sue proprie leggi, ne trasse quella filosofia che egli denomina critica , perchè assume di portar giudizio della stessa ragione umana; e il giudizio riuscì a dichiarare questa ragione impotente a conoscere, se gli oggetti del pensiero sieno tali in sè stessi, quali col pensiero appariscono. Egli sostenne che, se la mente umana li concepisce secondo le proprie leggi soggettive, ella dunque non può pronunciare che sieno quali le appariscono, ma nè pur negarlo. All' incontro Fichte, suo discepolo dallo stesso principio che la mente opera secondo le proprie leggi dedusse, che tutto ciò che conosceva la mente doveva essere produzione della mente stessa; e quindi assolutamente negò, che gli oggetti concepiti fossero in sè stessi quali appariscono. Il qual sistema veniva da lui rappresentato come la genuina interpretazione della dottrina del suo maestro. Ma il suo maestro Kant disdisse l' interpretazione; poichè infatti altra cosa è che le conclusioni della mente, dipendendo dalle leggi della mente stessa, non abbiano valor di conchiudere su quell' essere che gli oggetti possono avere in se stessi, ed altro è l' affermare a dirittura, che in se stessi non abbiano essere alcuno, ma sieno mere produzioni e modificazioni soggettive. Così il sistema di Fichte fu diverso da quello di Kant, come figlio che traligna dal padre. Ma venne Schelling, e allevato alla scuola di Fichte argomentò che se l' oggetto era produzion del soggetto, dovea col soggetto stesso identificarsi; giacchè niuna cosa genera altra natura da sè diversa; e poi facil cosa è conoscere, che nè il soggetto può stare senza l' oggetto, nè l' oggetto senza il soggetto, onde d' entrambi fece una cosa sola: di più, a lui parve impossibile immaginare un soggetto, che non fosse a un tempo stesso oggetto, e immaginare un oggetto che non fosse a un tempo stesso soggetto, onde diede al suo sistema il titolo di Teoria della identità assoluta . Così questo filosofo tedesco, che a Kant quasi è nipote, si trovò pervenuto a quella tesi, colla quale aveva esordito la filosofia eleatica in Italia per mezzo di Parmenide. Ma qui non ristette il movimento filosofico impresso da Kant nella Germania; poichè, ridotte le cose tutte, che posson essere oggetto della mente, all' unità ed alla identità, fu facile ad Hegel dedurre che quest' unica ed identica cosa, a cui tutte le cose riduconsi, altro non poteva essere che l' idea. E l' argomento di Hegel, considerato in suo fondo e ristretto in poco, riducesi a questo: L' uomo non può pensare nè parlare di cosa alcuna che non sia oggetto del pensiero. Ma l' oggetto del pensiero è l' idea: dunque tutte le cose si riducono all' idea. Ma posciacchè le cose sono varie ed opposte ed anche contrarie fra loro; quindi l' idea è quella stessa che prende diverse forme anche opposte e contrarie, e che va trasformandosi con leggi a lei intrinseche, in tutte le cose. Ella diventa soggetto ed oggetto, realità ed idealità, ente e nulla, relativo ed assoluto, tempo ed eternità; e in questo diventare appunto, che è il mezzo fra il nulla e l' essere, consiste la propria sua essenza. Ella ha quindi due movimenti, per l' uno dei quali s' accosta continuamente al nulla, per l' altro de' quali s' accosta continuamente all' infinito ed all' assoluto. Lo sviluppo della virtù intrinseca di quest' idea è ciò che forma l' argomento di tutta la dottrina hegeliana. In questo quarto discendente di Kant ora dorme il suo sonno la germanica filosofia. Approfittando della licenza, ch' Ella mi dà di sottoporle alcune osservazioni sulla storia della Filosofia da Lei trattata ne' Supplementi al Manuale del Tennemann, non mi sta nell' animo nè di rilevare le bellezze del suo lavoro, nè i difetti. Solamente è mio intendimento di toccare qua e colà alcune pochissime cose, quasi a modo di questione o di domanda, le quali quando ben si chiarissero, crederei poter giovare a condurre una storia della Filosofia, se non anco essere alla perfezione di essa indispensabili. E a ciò fare muovemi il desiderio di veder uscire dalla sua penna una storia degli sforzi, che fecero gl' Italiani al nobilissimo fine di fondare una costante, vera e salutare filosofia, di che già Ella mostrò al pubblico un tentativo col quarto de' suoi Supplementi. E questo mio patrio desiderio non toglie, che io non sappia esser la filosofia universale come la verità che contempla: e però dover essere universale, e non circoscritta da monti e da mari, da costumi e da idiomi, anche la storia completa delle filosofiche investigazioni. Ma questa è tal' opera, alla quale fin quì le forze di molti dottissimi si mostrarono inferiori; e credo che allora solo e non prima potrà avvicinare il suo perfezionamento, quando sarà resa perfetta la stessa filosofia. D' altra parte la Storia della Filosofia Italiana, che io desidererei vedere scritta con somma imparzialità e diligenza, vien da me concepita per nulla più, che per una cotale esortazione a' nostri concittadini di coltivare la sana filosofia col lume de' patri esempi. Al qual fine certo dovrebbesi vedere in questa istoria e i pericoli de' viaggi filosofici tentati dall' ingegno umano, e gli ardiri e i naufragi e le felici scoperte. Conciossiachè se alla storia manca questo, e se, senza alcuno discernimento, essa accozza gli uomini grandi ed originali col minuto volgo de' filosofi, se non divide la buon' audacia delle investigazioni dalla temerità, se non insegna chi furono quelli che pervennero al vero, e quelli che perirono sul cammino prima di giungervi, quali altresì ordinarono il regno della filosofia, e quali lo scomposero, quali finalmente con nuove e più savie leggi il riordinarono; non solo riesce essa fredda e inutile, ma perniciosa. Di che Ella vede come la storia della filosofia patria, che da Lei o da' suoi pari desidero, non è lavoro meramente erudito, ma sapiente e morale. E ad aiutare questo lavoro sian volte le poche osservazioni, che io intendo proporle, le quali a un tempo tendono a rettificare alcuni concetti filosofici, senza i quali parrebbe senz' occhi una storia della filosofia. E le dirò che prima posi l' occhio sulla maniera, secondo la quale Ella classifica i sistemi filosofici (1). Qui veramente mi nasce dubbio, se volendosi che tutto il compartimento della storia sia guidato e ordinato secondo una classificazione de' sistemi, non sarebbe stato più spediente di esporre quella classificazione e dichiararla a principio, anzichè nella fine della storia. Perocchè intervenendo di continuo il bisogno nella storica narrazione di richiamarsi a quella classificazione, egli par richiesto dal metodo che il lettore n' abbia ricevuta già da prima la notizia. Ma lasciando io ciò, mi cade di proporle un' altra questione. « Se egli si stia bene ad uno storico della filosofia, volendo distribuire in varie classi i filosofi, il dar loro un nome ch' essi non diedero a sè medesimi. » Io accordo pienamente, che v' abbia luogo a far ciò, ma ad una condizione; ed è, che quando pongo un nome ad un filosofo non datosi da sè stesso, io provi altresì con argomenti irrefragabili, e co' luoghi delle sue opere, che gli appartiene quel nome. Conciossiachè se il nome sistematico che s' impone ad un filosofo, non garbasse per avventura al filosofo stesso, questi avrebbe buona ragione di querelarsi allo storico, vedendosi dato gratuitamente un' appellazione, che non crede convenirsegli. E qui, mio stimatissimo Professore, io stesso debbo far querela con lei, essendole piaciuto di collocarmi nella setta o classe de' Razionalisti , e degl' Idealisti , quand' io non so per avventura di essere nè razionalista, nè idealista: e sarebbe un po' strano il caso, che io stesso ignorassi il mio nome, e che altri lo si sapesse. Il che se fosse, parrebbemi esser divenuto simile a colui, a cui degli solazzevoli uomini diedero a intendere, ch' egli non si chiamava Pietro, com' ei sosteneva, ma si chiamava Paolo, come non s' era fino allora udito mai appellar da veruno. E vedo io bene, ch' Ella mi viene poscia scusando e difendendo dalla mala impressione, che potrebbero dare que' nomi appostimi, attribuendo loro un cotal nuovo significato (1); ma ciò appunto mi dà occasione di proporle una terza quistione. E la questione si è « Se uno storico della filosofia possa mutare il significato ai nomi, che contradistinguono i sistemi nell' uso comune. » A ragion d' esempio: che cosa s' intende di significare oggidì nell' uso comune colla voce Razionalismo , se non quel sistema, che non pure esige una ragion chiara prima di dare l' assenso (il che non eccede il voluto dalla buona logica), ma che esige oltracciò una ragione riflessa? Di più, che esige oltre la prova, che una cosa sia, anche di comprendere la cosa stessa, prima di ammettere semplicemente che ella sia? O se si vuole definirlo in modo più elevato, quel sistema, che non riconosce alcun elemento che s' appareggi in altezza alle idee , di maniera che ad esse sieno inferiori e sottomesse tutte le cose? (2) Sicchè dicesi Razionalismo teologico quello di molti moderni protestanti, che rifiutano ogni misterio superiore alla ragione umana: e dicesi Razionalismo filosofico quello di Hegel, a ragion di esempio, che tutto dà all' elemento razionale. Ma da ciò appunto si vede come il mio sistema non solo differisca dal Razionalismo , ma di più come sia fors' anche il solo che l' abbatte fino dalle radici: perocchè il mio sistema pone ad una stessa altezza colle idee due elementi diversi dalle idee, e altrettanto supremi quanto le idee medesime; avendo io stabilito (nè so chi altri il facesse prima di me esplicitamente) l' Essere aver tre forme, o modi primordiali, l' idealità , la realtà e la moralità , nessun de' quali sottostà all' altro, ma ciascuno è primo, ciascuno incomunicabile, sebbene si leghino tuttavia nell' essere sempre il medesimo e identico in tutti e tre que' modi. I quali sono poi le tre mie somme categorie , a cui richiamo tutte le cose. Laonde tanto è lungi che io riduca tutto alla ragione, che anzi sono forse l' unico che abbia trovato qualche cosa che l' altezza della ragione possa emulare, e con essa per così dire aver comune l' impero. Quanto poi alla parola Idealismo , che Ella applica al mio sistema, e chi non sa, ch' essa fu sempre adoperata a indicare quei sistemi che negano la realità esteriore od anche l' esterior valore de' concetti della ragione? In che guisa adunque può darsi un idealista oggettivo7reale , come le piace chiamar me, quando quella denominazione nell' uso comune equivalerebbe a quest' altra d' Idealista7non7Idealista? La quale mia osservazione, parmi, rendesi degna di maggiore attenzione, quando Ella voglia considerare il pericolo, nel quale facilmente incappa colui, che aggiunge alle parole delle arbitrarie definizioni. E il pericolo che io noto, è quello appunto di contradirsi. Gliene darò, se mi permette, un altro esempio. Qual' è la definizione ch' Ella propone dell' Empirismo? La seguente. « « L' Empirismo è il sistema, che fonda la cognizione filosofica sull' esperienza sì esterna che interna, ovvero sul semplice fenomeno, o sulla sola apparenza delle cose »(1). » Or quì chiaramente Ella stabilisce, che l' Empirismo è quel sistema, che fonda la cognizione filosofica sulla sola apparenza delle cose, di maniera che se vi avesse un sistema, il qual fondasse la conoscenza filosofica sopra qualche altra cosa, oltre la sola apparenza delle cose, questo sistema non sarebbe più Empirismo. Bene stà: e che cosa è, secondo Lei, il Razionalismo ? Ella lo definisce. « « Il Razionalismo nel senso più largo od esteso è il sistema, che pretende la ragione umana capace per sè sola di conoscere l' essenza od i principii delle cose »(1). » Di questa definizione si vede, che il Razionalismo, secondo Lei, usa della sola ragione a conoscere l' essenza od i principii delle cose: di maniera che se vi avesse un sistema che usasse di qualche altra cosa a conoscere l' essenza ed i principii delle cose, non si potrebbe più chiamare Razionalismo. Or bene riteniamo queste sue definizioni, e vediamo come si accordino coll' altra definizione ch' Ella dà dell' Eccletismo in senso esteso ed universale. « « L' Eccletismo, Ella dice, nel senso più esteso ed universale è il sistema che fonda la cognizione filosofica sull' Empirismo e sul Razionalismo »(2). » Ma se l' Empirismo fonda la cognizione filosofica sulla sola apparenza delle cose, e se il Razionalismo non adopera che la sola ragione, che cosa sarà l' Eccletismo? L' Eccletismo sarà in questo caso « il sistema che fonda la cognizione filosofica sulla sola apparenza, e nello stesso tempo che non contento dell' apparenza delle cose, cerca d' investigarne l' essenza e i principii colla sola ragione. » Vede Ella a che si riduce questo suo Eccletismo? Quello poi ch' Ella aggiunge al paragrafo 474, dove pare che voglia conciliare il Razionalismo coll' Empirismo, non fa che intricare maggiormente la matassa. Perocchè Ella dice che nell' Empirismo tagliasi fuori di botto ogni razionalismo, cessando a rigore di termini l' Empirismo dal momento che si trapassa il fenomeno, o s' inoltra nelle speculazioni della ragione. Di che consegue esser giusto il seguente ragionamento. « O nel suo Eccletismo si trapassa il fenomeno o no. Se si trapassa il fenomeno, non c' è più Empirismo; se non si trapassa, rimane l' Empirismo solo senza il Razionalismo. »Dunque il suo Eccletismo è un Sincretismo che raccozza dogmi contradicenti, e il Sincretismo è nulla. Non voglio io attribuire a Lei questi assurdi, ma li attribuisco bensì alle sue definizioni. E io penso che il suo buon giudizio, meditandovi un poco, ne converrà meco pienamente. E perchè Ella vi mediti, non aggiungo di più a queste poche cose, che ho voluto esporle pel desiderio grande che ho, che si chiarisca la verità, e che ci avviciniamo, se possibil fosse, all' unanimità del sentire: al che è mezzo efficace la libera discussione, e dirò anche una censura severa e santa, che per amore e non per odio l' uno all' altro ci facciamo. Laonde Ella voglia ricevere con benignità questi cenni, e voglia liberamente ammonirmi se sono in errore. Voi volete saper da me, che cosa mi paia di quell' articolo intorno al « Saggio sull' origine delle idee , » che fu inserito tempo fa nel « Tiroler7Bothe , » e che ora ricomparisce nel « Messaggiere Tirolese , » tradotto in italiano dal professore Stoffella. E` cosa dilicata, mio caro maestro, il parlare d' un articolo di giornale, che fa la critica ad un proprio libro, chè nella materia de' nostri biasimi, e meno ancora in quella delle nostre lodi, non ci concede l' equità, nè la prudenza, nè la modestia, che noi c' intromettiamo, essendo gli altri i giudici nostri e noi le parti. Vero è, che ove la causa non è personale, ma è quella grave e comune della verità, non dobbiamo nè anco ritirarci dal più oltre agitarla per una falsa dilicatezza o soverchio timore, non forse altri attribuisca all' amor proprio nostro quello che pur ci viene suggerito da zelo buono del santissimo vero. E questa considerazione appunto mi move a contentarvi, e dirvi schiettamente ciò che io penso su alcun tratto di quell' articolo; perocchè, lasciate al tutto da parte le lodi di cui mi è largo il suo autore, e le quali vere o false che sieno, danno però mostra di animo inclinato alla benevolenza, come quelle che sono verso uno incognito (chè da un animo maligno nè anco la verità colla sua infinita bellezza sa riscotere una parola di approvazione, e un cenno gentile), io non vi dirò se non ciò, che mi sia paruto di quella parte, che tocca la questione delle idee, e la scienza filosofica, a cui tale questione appartiene. Sebbene io non dirò forse cosa, che voi non possiate aver detto prima a voi stesso, come quegli che siete entrato assai dentro e fattovi domestico nelle dottrine del « Saggio , » al trovamento delle quali voi stesso mi avviaste in que' begli anni, ne' quali mi aveste a discepolo nelle filosofiche scienze. Ben mi duole, che il dotto estensore dell' articolo non siasi potuto mettere in un esame dell' opera, e gli sia convenuto restringersi a darne solo un cenno, e gittare un solo dubbio sulla sostanza di essa; chè un cenno, un dubbio non mi dà buona presa da poterne io parlare con sicurezza, dovendomi rimanere in forse, se io pur intenda il concetto che l' estensore voleva al pubblico manifestare. Vi dirò bensì, che mi produsse un grato sentimento l' equità dello scrittore tedesco, ove, parendogli riuscire chiara l' elocuzione del « Nuovo Saggio » anche a svolgere questioni difficili e astratte, egli non dubitò di proporre quella chiarezza come un esempio imitabile ai filosofi della Germania. E veramente mi è avviso, che questo sia un punto principalissimo, se si vuole venire mai in accordo e consension di pareri, l' esser chiaro: e quel poco studio che io ho fatto nelle filosofie m' ha pienamente convinto, che il battagliare de' filosofi tra loro nasce le gran volte dal non intendersi; e che non ci può essere cura e diligenza tanto ben posta, quanto nell' usare parole e locuzioni chiarissime; nè si perverrà a trovare questa chiarissima sposizione, senza che ad un tempo non si pervenga a chiarire a se medesimo le proprie idee, o laddove non vi si giunga, varrà ciò a far conoscere, dalla fatica insormontabile che s' incontra a riuscir chiari, che le idee nostre sono sì implicate ed oscure, che non le possiamo a noi medesimi decifrare; il che avventurosamente insegnerebbe a molti scrittori di por giù la penna, e questa loro prudenza libererebbe il mondo d' un gran numero di noie e di errori, che si pescano sempre dove ci ha un fondo più scuro. E` però sfuggita una parola all' autore dell' articolo che contraddice senza ch' egli punto se ne avveda, al desiderio di questa bella chiarezza di stile, voglio dire quella colla quale afferma, che ogni astratto pensatore « dee da se stesso crearsi un peculiar linguaggio »: opinione pur troppo comunemente invalsa nella Germania, ma, ove senza pregiudizio si consideri, al tutto erronea. Che anzi il vezzo, che hanno preso que' filosofi di voler ciascuno riformare il linguaggio della filosofia è, a non dubitarsi, la principale cagione di quella tanta oscurità, che da' loro stessi nazionali è riconosciuta e confessata. Dovremo dunque nella nostra propria terra per essere filosofi farci barbari e forestieri? In questo dividerci dal comune modo di favellare, e farci una lingua o anzi un gergo da noi, più errori, o anche segreti suggerimenti delle nostre passioni, ci covano. Primieramente un errore, un suggerimento, per dirlo aperto, del nostro orgoglio è quello, che ci mette in cuore la lusinga vana di doverci sollevar noi tanto colle nostre speculazioni al di sopra della linea comune degli altri uomini, da potere, anzi da essere in necessità di rinunziare alla comune favella e perciò medesimo alle comuni idee, e di crearci una cotal lingua divina da noi medesimi, fatti simili agli Dei d' Omero, che chiamavano le cose con nomi diversi da quelli, con cui le chiamavano i mortali. Eh! non ci ha questa sì grande differenza da uomo a uomo, se la nostra vanità non ce la pone, che l' uno sia una divinità all' altro; ed è proverbio italiano e bello quello che dice, che tanto sa altri quanto altri . Riflettete ancora, che le idee, che ciascuno di noi ha ricevute per tradizione, dalla società umana in cui è nato e fu educato, col mezzo della comune favella e con essa stanno individuamente congiunte, sono quelle, colle quali, come con istrumenti, ciascuno di noi pensa, sono la materia, oltre alla quale i pensieri nostri finalmente non escono, e quindi sono tutto il fondo della filosofia. Sicchè le grandi e fondamentali verità il filosofo non fa che analizzarle, e trarle in maggior lume; ma esse non compariscono già al mondo la prima volta ne' libri de' filosofi, sì bene stanno depositate nelle tradizioni e nelle lingue, e i filosofi le prendono dal tesoro comune; e sfido qualsiasi de' filosofi tanto tedeschi, quanto italiani o d' altra nazione, a indicarmi d' aver egli il primo fatta comparire ne' suoi libri una sola verità fondamentale veramente nuova, e incognita prima di lui: sicchè altro sono le parole, altro i fatti di que' filosofi, che tutto vogliono innovare; altro ciò che promettono, e altro ciò che mantengono. E voi ben sapete, che io non ispingo però questa dottrina in quell' eccesso, nel quale la spinsero alcuni recenti filosofi francesi, ma che solamente io sostengo, che tanto di verità noi dobbiamo ricevere dalla società, o più in generale parlando, da un maestro al di fuori di noi per poter filosofare, quanto di lingua per poter favellare; e quanto sia questo tanto di lingua l' ho mostrato e definito nel « N. Saggio (1) » come ho mostrato nell' opera stessa in che modo io intenda e ristringa la dottrina del senso comune (2). Ma questo tanto di sapere e di lingua ciascuno di noi il riceviamo, come seme che feconda il nostro intelletto, dalla società degli uomini; e la società umana l' ha ricevuto da Dio, che le ha incumbenza di conservare e di travasare d' una in altra generazione questo deposito preziosissimo delle prime ed elementari verità. Ed acciocchè l' umanità, come debole ch' ella è, non manchi a questo suo ufficio, acciocchè le verità supreme sieno immobilmente fisse nel genere umano, e sieno anche sviluppate incessantemente, e rese fruttifere, la Provvidenza ne ha dato una speciale missione al Cristianesimo, che l' adempie da tanti secoli. Dal che si vede, che non furono bene comprese quelle mie parole, colle quali io ho dichiarato, che l' « Opera sulle idee » non intendevo che appartenesse ad una filosofia « inquisitiva di nuove verità, ma più tosto a quel genere che travaglia d' aggiungere chiarezza e sviluppamento a delle verità già universalmente conosciute. »Volevo io mostrare con quelle parole la poca fede, che io ponevo in una filosofia che fosse nuova e tutta invenzione d' un individuo; e come io non riconoscevo altra dottrina vera, autorevole e salutare, se non quella, che ha le sue radici, cioè le sue prime verità, nel senso comune degli uomini, e nel deposito dell' ereditaria sapienza, di cui l' umanità è e fu sempre in possesso, a cui non si può aggiungere se non ciò, che ci dà l' analisi e la riflessione, un più alto grado di luce, delle nuove conseguenze, delle nuove applicazioni. Il perchè io venivo con quelle parole a dire, che il far altro non era possibile nè a me, nè a chicchessia de' mortali, e il commentario e la prova di questa mia sentenza è sparsa in tutta l' opera (1). Oltre di ciò sulla lingua, che è essenzialmente l' espressione della società e non mai dell' individuo, se pure un individuo non vuol parlare con solo se stesso, ha diritto la sola società, e solo essa conserva e modifica il valore de' vocaboli, e perciò il valore d' un vocabolo non sancito dall' uso, quem penes , come fu detto sempre, est arbitrium et ius et norma loquendi , è un valore nullo, come di moneta, che non ha corso. Indi è che anche una menoma deviazione dal valor corrente della parola si reputa a peccato negli scrittori, e che l' usare tutte le parole diligentissimamente in quel significato, che l' uso comune loro stabilisce, forma quell' altissima lode delle scritture, che dicesi della proprietà , colla quale solo si ottiene la chiarezza e si tocca l' eccellenza dello scrivere. Ma quanti mali all' incontro non nascono dall' improprietà nell' uso delle parole? In prima le ambiguità, gli equivoci, un dettato incerto e vago, che non rende l' idea nell' altrui mente, se pure chi scrive in tal modo ebbe egli stesso mai in capo un' idea precisa da potere comunicare altrui. Poichè, come diceva Socrate, e questo il batteva fortemente contro a' Sofisti del suo tempo, chi pensa bene, parla bene, chi ha chiarite a se stesso le cose, sa metterle altresì in parole chiare e proprie: chè il nesso delle parole colle idee è sì stretto, che senza aver le parole, cioè senza averle ricevute dalla società, non si possono a mala pena avere le corrispondenti idee. Di che era divenuto fermissima legge anche appresso gli scolastici il dover conservare la proprietà delle parole, vedendo essi, che da questo dipendeva il potersi ben riuscire a insegnare, e fermare la verità e por termine alle questioni. E quel grande ingegno italiano, cui commenda l' autore dell' articolo, S. Tommaso d' Aquino, in più luoghi insegna e stabilisce come importantissimo principio per venire alla verità, e poterla mantenere e difendere, quello di osservare l' uso corrente delle parole e fedelissimamente seguirlo: « Significatio nominis » dic' egli, « accipienda est ab eo quod intendunt communiter loquentes (1) » Il perchè credo di poter dire, che il vedere uno scrittore che usa delle parole con tutt' altro significato da quello, nel quale le prendono gli uomini (2), e che con queste, come note magiche, vi parla da oracolo, e non consente, che alcuno sia con lui d' accordo, ma tutti hanno avuto torto, nè vi fu alcuno che abbia saputo un acca prima di lui, a cui avvenne il primo di trovar le vere basi della filosofia, e ricostruirla dall' imo al sommo; un tale, dico, ha tutto l' aspetto di essere un prestigiatore, o un cantambanco, o certo un uomo, che scoppia di boria, e che è voto di vero sapere. Veramente a certi volghi, e non però al volgo italiano, fa grande impressione il sentire un ardito pronunziare dal tripode, e spacciarsi per qualchecosa di più che tutti insieme gli altri uomini, per da più dell' intero genere umano, e a cui perciò si convenga anche d' avere lingua nuova, originale, e non imbrattare le sapientissime labbra col parlare comune della mandra umana; ma quest' impressione di stupore che fa in alcuni volghi, come dicevo, e nella parte superficiale de' letterati, la qual si guida non a stima di giudizio, ma di rumore, che si leva appunto per cotali stranezze di filosofi; è però tale, che il tempo la cancella, e la cancella per sempre, e con derisione di chi ne fu il zimbello, e del ventoso filosofante, che da tanto alto mandò fuori i vocaboli misteriosi, e nulla veramente di chiaro significanti a chi ebbe la semplicità di ascoltarlo e stupirsene. Il perchè se un uomo, il quale non si lascia imporre dall' apparenza, e che abbia digerito l' ebbrezza della maraviglia che gli avea cagionato da prima uno stile arcano, e promettitore di secreti inauditi, venga fuor di cerimonia e di contegno a fare metter giù il pallio filosofico e la barba, per così dire, a que' sistemi e snudarli e interrogarli a voler dire in latino chiaro ciò ch' essi si vogliano, ciò che essi s' intendano; riesce questi a cavarne di sotto a quelli enimmi delle verità non già arcane e peregrine, ma anzi volgari e notissime, mescolate pure con dei volgarissimi errori, con infinite inesattezze, e con una buona parte di sentenze senza significato, a tale, che l' autore medesimo non seppe ciò che s' abbia voluto dire con esse. L' affettazione dunque d' usar parole nuove o di nuovo significato il più delle volte è un' arte di coprire la propria ignoranza, e d' eccitare maraviglia in altrui, e trarne nome di originalità con pochissimo di sapere e con una testa oltre modo confusa. E non è quindi difficile a' filosofi di una tal mena inventare sempre de' nuovi e nuovi sistemi, i quali, a sentir essi, ve li danno per cosa, di che non s' ebbe mai al mondo sentore, giacchè basta arzigogolare colle parole per venirne a capo, e dei nuovi arbitrŒ, delle nuove improprietà, in somma un impasto nuovo di linguaggio, e se fa bisogno un nuovo rafel maì amech zabi almi , ed eccovi un sistema. E dopo ciò non vi farà maraviglia, se io oso dirvi, che de' tanti sistemi filosofici, che sono usciti in Germania questi ultimi sessanta o settant' anni, da che questa nazione ha preso un nuovo modo di filosofare, ognun dei quali vuol esser unico; appena che due o tre ve n' abbiano, i quali differiscano realmente fra di sè nelle basi, e non di sole parole (1). Ma v' ha di più ancora: un nuovo linguaggio individuale, arbitrario, non solo è il più sovente l' espressione propria di alcun di coloro, a cui si potrebbe rivolgere quel, o anima confusa , che rivolge Dante a Nembrotte; non solo è lo stromento dell' orgoglio sempre solennissimo ciurmadore degli uomini, il qual coi misterŒ e col prometter d' occultare sotto a' misterŒ de' tesori di peregrina sapienza e non mai trarli all' aperto, tenta di preoccupar gli animi della moltitudine e ingenerare in essi un gran concetto di sè; non solo è l' unico stromento acconcio alla fondazione di sette filosofiche (e di sette a dir vero la stagione dovrebbe esser finita); ma egli è qualche cosa di più pericoloso , e di più sospetto ancora: il debbo io dire? debbo io dire ciò che l' esperienza ci ha insegnato a nostro sì grande costo? il dirò spacciatamente a voi, mio caro amico, ed è questo, che il tramutar senso a' vocaboli e un fraseggiar nuovo fu un' arte di fare smarrire, e rimescolare nelle menti degli uomini le antiche e giuste nozioni delle cose, di alterare i costumi, di turbare le cose pubbliche, di distruggere la religione, quella religione, che antica come il mondo, gode pure di un linguaggio antichissimo, e nella sua sostanza, almeno ne' suoi solenni vocaboli e maniere, inalterabile. E non è egli così? Date uno sguardo alle cose de' nostri tempi, e vedrete, che tutte le sette politiche come tutte le sette religiose adoperarono per farsi largo un linguaggio inaudito, loro proprio, e senza di questo non avrebbero certamente potuto ingannare tanto, e tanto universalmente ed infelicemente gli uomini (1). Chiarezza adunque, chiarezza, da lungi i misteri filosofici, da lungi i detti da oracolo, e quel parlar in calmone, che i fiorentini sogliono anche dire furbesco. E per seguitare della chiarezza necessaria nelle trattazioni filosofiche, una cagione di oscurità e del fraintendersi è ancora l' uso soverchio di maniere metaforiche là dove farebbe bisogno un parlar piano e proprio. E a dirvi il vero, per questo appunto è, che io non posso con sicurezza intendere, che cosa voglia dire l' estensore dell' articolo quando parlando del « Nuovo Saggio » mette dubbio; « se il punto di vista, al quale si leva l' autore trovisi veramente a quell' altezza speculativa, dalla quale soltanto si può aspettare una soluzione del tutto soddisfacente. »Quel punto di vista , quell' altezza speculativa , quel del tutto soddisfacente sono altrettante espressioni, che m' imbarazzano. Se egli mi avesse detto: « questa proposizione è vera, o questa è falsa »: io avrei inteso perfettamente ciò che egli voleva dirmi, ed allora io avrei potuto cavar profitto studiando di verificar meglio quella parte, che mi veniva additata come dubbiosa; ma parlandomi di altezza speculativa , io confesso di non saper più che mi si voglia dire; e perciò non sono in caso di approfittare della censura. Farà maraviglia questa mia osservazione, come quella che va a toccare delle espressioni assai frequentemente usate, ma non è egli da credere, che tanto sieno usate da taluni appunto perchè non contengono nessuno ben certo significato? Esse valgono a far credere ai lettori che si dica molto, perchè presentano un senso ravvolto in una nube, dentro la quale l' amor proprio di ciascuno spera di dovervi trovare qualche cosa di prezioso, e non ha coraggio di confessare a se stesso la propria incapacità di trovarci pur niente di solido. E` però vero, che quel passo sembra ricevere qualche lume dalle parole che seguono, e sono queste: [...OMISSIS...] Ma anche queste parole essendo così sfornite d' ogni prova, e così nudamente dette, non mi lasciano assicurare di bene entrare io nella mente di chi le disse. Tuttavia tenterò d' interpretarle a me stesso, e di farci sopra alcune osservazioni, prese in quel senso, che a me rendono. In primo luogo sembra da queste ultime parole, che l' estensore metta per cosa risoluta, e oggimai così certa da non dubitarsene, che la facoltà di percepire le cose particolari e la facoltà di percepire (com' egli dice) le cose universali non sieno punto due facoltà, ma una facoltà sola. Ma d' altro lato non sembra impossibile, ch' egli voglia torre ogni distinzione e diversità fra la facoltà de' particolari, e quella degli universali? Onde si distinguono le facoltà tra di loro? Fu sempre detto, dai loro oggetti, i quali se sono distinti, conviene che sieno distinte anche le facoltà, che a quegli oggetti si riferiscono. Converrebbe dunque dimostrare, che tra il particolare e l' universale, non v' avesse alcuna distinzione, non passasse alcuna differenza a poter dire, che le loro facoltà non sieno diverse, ma una facoltà sola. E se il particolare e l' universale fossero la medesima cosa, ne verrebbe, che si potrebbe l' uno prendere per l' altro, e dire che il particolare sia l' universale, e che l' universale sia il particolare, cosa mostruosa e contraddittoria ne' termini, perocchè solo a osservar la nozione che rendono alla nostra mente queste due parole, ognun vede, che la voce particolare esprime un concetto che è in opposizione appunto a quello della voce universale, e viceversa; sicchè l' una non è solo diversa, ma ben anche contraria dell' altra. Non posso dunque credere, che l' estensore abbia voluto negarmi ogni qualsiasi distinzione e diversità fra le facoltà dei particolari e degli universali. M' ingegnerò dunque di prendere le sue parole in altro senso, e di temperarle da quella sentenza rigorosa che pure proferiscono, e penserò che egli voglia dire, che il particolare e l' universale, sebbene opposti fra loro, hanno un cotal rapporto, sicchè l' uno viene dall' altro, o tutti due da un terzo elemento. Dove questo sia il suo pensiero, io gli propongo le osservazioni seguenti. Egli in prima non può dedurre l' universale dal particolare; chè così facendo si aggregherebbe alla fazione de' sensisti e de' materialisti; tutto l' errore de' quali consiste nell' imaginarsi di poter dedurre dalle particolari sensazioni gli oggetti essenzialmente universali della mente, giacchè la facoltà prima de' particolari non è che il senso, e la facoltà degli universali non è che l' intelletto: due facoltà che i sensisti confondono in una. Ma di questa fazione mostra già l' estensore di non avere alcuna stima, e però non posso attribuirgli un tal sentimento. Non credo nè pure di potergli attribuire il pensiero, col quale egli voglia dedurre dagli universali i particolari, chè non mi è noto, che nella mente di alcun filosofo sia mai caduta una stranezza simile di affermare, che l' uomo percepisca i particolari, non con un senso che ad essi presieda, ma deducendoli per astratto ragionamento, e quasi indovinandoli dalle idee universali della sua mente. Conciossiachè conviene osservare, che qui parliamo de' particolari e degli universali solo in quanto sono gli oggetti delle percezioni dello spirito umano. Troverò io meglio il suo concetto, se supporrò, che egli voglia dire, che tanto gli universali, quanto i particolari scaturiscano da un terzo elemento, come da una fonte comune? Ma questo terzo elemento, mi si dica, sarà egli un universale, o sarà un particolare? perocchè non so che cosa ci possa avere di mezzo fra il particolare e l' universale, nè posso in alcuna maniera concepire un oggetto, che non sia nè particolare nè universale. S' egli dunque è un particolare che produce l' universale, ricaderemo nel sistema dei sensisti, e s' egli è un universale che produce un particolare, verremo ad abbandonarci ad un sistema così assurdo, che non ha bisogno di confutazione. Ma forse egli voleva dire, che considerando noi in questo ragionamento il particolare e l' universale in quanto sono oggetti, o anzi termini dello spirito umano (1), egli non è però assurdo il supporre, e non è impossibile il pensare, che tutti e due questi termini dello spirito sieno prodotti da un terzo elemento, non oggetto e non termine dello spirito, e perciò non apparente allo spirito. In tal caso noi siamo usciti oggimai dall' ordine logico , e siamo entrati nell' ordine ontologico , cioè a dire, siamo usciti dagli oggetti del pensiere umano, e siamo venuti ad un che incognito, che li produce: ora una cosa incognita, una cosa fuori del nostro spirito, fuori della nostra sensitività e della nostra intelligenza, non può in alcun modo costituire una facoltà dello spirito stesso; e perciò questo terzo elemento, questa entità, quand' anco ci fosse, non potrebbe costituire una facoltà superiore a quelle degli universali e de' particolari, sicchè queste da quella uscissero e in quella si unificassero. Vado bensì meco medesimo indovinando che questo terzo elemento sia per l' estensore dell' Articolo la coscienza (noi diremmo il sentimento), i fatti della quale pare a lui non essersi da me considerati quanto sarebbe bisognato nella loro connessione e nella loro più elevata unità; volendo così dall' ordine logico trasportarci all' ordine psicologico , cioè a cercare la spiegazione delle facoltà nel fondo dell' anima stessa, come molti filosofi, massime della scuola tedesca, vanno dicendo. Ma se a questa schiera egli pensa d' aggiungersi, non mi sarebbe punto difficile il fargli osservare i luoghi del « Nuovo Saggio , » dove si dimostra, che un tale pensamento è insostenibile in se medesimo, e scettico nelle sue conseguenze (1). Ma in luogo di ciò, a me basterà di eccitarlo a fare la seguente riflessione. La coscienza, come si suol prendere da' tedeschi, è un sentimento , appartiene quindi alla facoltà di sentire, o anzi, è ella stessa la grande e universale facoltà di sentire dello spirito umano. Ora, se noi consideriamo il sentire come tale, egli non è nulla più che la facoltà de' particolari, giacchè il soggetto senziente uomo è un particolare, e ogni sensazione è una modificazione di questo soggetto particolare, che a suo tempo si chiama IO, e perciò essa è particolare. Perchè adunque la facoltà di sentire passi agli universali, conviene, che le si sopraggiunga qualche cosa, cioè che gli venga posto un oggetto in contrapposizione di lei, soggetto. In tal caso essa non è oggimai pura e semplice facoltà di sentire , ma è divenuta facoltà intellettiva , ed è questa appunto la maniera, ond' io faccio nascere nell' uomo l' intelligenza, cioè col sopraggiungersi d' un oggetto al soggetto , coll' esser dato alla facoltà di sentire universale dell' uomo un termine diverso dal soggetto stesso e da lui indipendente, e quindi coll' acquistare che fa il principio sensitivo dell' uomo una modificazione essenziale, in virtù della quale estende la sua forza fuori di tutto ciò, che racchiude la nozione d' un sentimento puramente soggettivo. La coscienza dunque, a parlare con proprietà, un sentimento puramente soggettivo, appartiene solo alla facoltà de' particolari, e chi volesse da questo trarne la percezione degli universali ricaderebbe in quel sistema, che trae l' universale dal particolare, che è quanto dire, l' idea dalla sensazione, sistema sensistico e materiale (1). Egli è bensì vero, che alcuni filosofi danno alla forza primitiva dell' anima un atto creatore, col quale il soggetto stesso pone il suo oggetto, lo spinge e, quasi direi, lo slancia fuori di sè senza preciderlo da sè, ma mettendolo in opposizione a sè, come termine della sua contemplazione. Ma, oltre che questo sistema è panteistico , ed io l' ho già confutato a lungo (2), non se ne può dare la minima prova, che abbia pur solo del verisimile, e in qualunque caso, egli non può tener luogo, che di una ipotesi, conciossiachè i fatti appunto della coscienza, sieno esterni, sieno interni, non dicono nulla di questo, ma dicono anzi tutto il contrario, poichè la coscienza ci dice, che nella percezione degli oggetti noi siamo i passivi , e gli oggetti sono gli attivi , noi siamo dipendenti, quelli a cui viene imposta la legge; e gli oggetti sono indipendenti, e quelli che impongono la legge. Nè si dica che il concetto di passività involge una specie sua propria di attività; poichè questa attività non è finalmente che quella, per la quale il soggetto paziente esiste e patisce. Ci perderemmo dunque in una filosofia puramente fantastica, se, abbandonato il filo dell' esperienza interna ed esterna e le deposizioni chiare della coscienza, noi volessimo supporre un' operazione arcana nell' intimo dell' anima senza averne la minima prova, ed il minimo reale indizio. Concludiamo dunque da tutto ciò, che non c' è alcuna via da identificare nell' uomo la facoltà di percepire i particolari e la facoltà di percepire gli universali, e che non si può negare che queste non abbiano una diversità reale fra loro. Ma dopo di ciò, se queste facoltà, cioè il senso e l' intelletto, sono diverse, e non si possono confondere; saranno esse anche prive d' ogni rapporto fra loro? non hanno forse una comune radice? non si rassomigliano in cosa alcuna? A tutte queste domande ho risposto lungamente nell' opera, e voi bene vi ricorderete d' averci trovate le seguenti dottrine. In primo luogo, tutte le facoltà, ove le consideriamo dalla parte del soggetto, si unificano, ed hanno per radice comune, il soggetto, il quale è perfettamente uno e il medesimo (1). Quindi c' è un' attività radicale nel soggetto uomo, la quale è identica in tutte le facoltà, che traggono da lei, come altrettante attuazioni d' una medesima potenza; e quest' attività è l' anima stessa, che, come dice Dante, [...OMISSIS...] In secondo luogo, l' attività d' un soggetto, considerata da sola, è un sentimento , pel quale il soggetto sente se stesso, o a dir più vero, sente il modo del proprio essere, sicchè essendo moltiplici i modi dell' essere d' un soggetto senziente, anche quella facoltà da una si fa più, secondo i diversi termini delle sue operazioni: indi si partono non formalmente, ma per la diversa materia, quelli che si chiamano i cinque sensi del corpo, e queste attuazioni diverse della sensitività radicale si possono considerare bensì come altrettante facoltà, ma non però così distinte, che non abbiano sempre il soggetto per loro termine ne' suoi varŒ modi (3). All' opposto questa attività di sentire riceve una nuova funzione, infinitamente più nobile di tutte queste, quand' ella non termina più, come dicea, nel soggetto ; ma un oggetto le è dato da contemplare. Ella allora è maravigliosamente nobilitata da questo suo termine distinto essenzialmente da lei, e che non si può intuire se non distinto; di che al sentimento accade una preclara trasformazione, cioè quella di rendersi intelligente. Questa intelligenza, che viene aggiunta al soggetto col pur presentarsi e giungersi a lui come termine un oggetto, è tale, che il soggetto non potea mai darla a se stesso, perchè l' intelligenza richiede qualche cosa di essenzialmente diverso dal soggetto: e quindi il soggetto dovea ricevere l' intelligenza da qualche cosa diversa e maggiore di sè, da una cosa, che fosse per la propria essenza intelligibile, la quale perciò non potea esser sentita senza esser ad un tempo intesa, il che facea sì che resa termine dell' attività sensitiva, ella traeva quella attività ad una nuovissima e maravigliosissima operazione. Per tal modo è che io faccio nascere, ed uscire l' intelligenza umana dal senso universale, ma non dal senso solo, bensì da una operazione, che viene fatta dall' esterno del soggetto uomo, da una virtù, a cui l' uomo non può resistere, e che nel rendersi recettivo, nel cedere, nel darsi vinto, forma, e crea in lui ciò che aver ci può di più elevato, e di più sublime (1). Dalla parte dunque del soggetto le facoltà si unificano e radicano tutte nel medesimo, e anzi rimarrebbero una facoltà sola specificamente, se al soggetto null' altro si aggiungesse, e tutto terminasse in lui. Ma se questa universale facoltà di sentire che costituisce il soggetto stesso, esce dal soggetto, e l' abbandona per l' oggetto, qual forza ne la trae fuori? che cosa è questo oggetto, che a lei si presenta? questo termine, che, essendo egli essenzialmente conoscibile, dà l' intelligenza coll' esser sentito, e quindi egli, il primo inteso da questa intelligenza da lui per tal modo creata, rende intelligibile, per partecipazione della sua luce, anche tutte l' altre cose solo sensibili? Questa ricerca ho fatto in tutta l' opera sulle idee, ed il risultato si fu, che questo termine dello spirito umano è l' ENTE; e che prima l' uomo vede quest' ente in universale, e in uno stato puramente ideale. Indi col mezzo suo intende anche le altre cose, perocchè l' intelligibilità di queste non consiste se non nel rapporto che esse hanno appunto coll' ente stesso (1). Il risultato si fu ancora, che quest' azione che soffre dall' esterno lo spirito umano, è irresistibile e superiore a qualunque forza: che l' oggetto, l' ente è la stessa VERITA`, l' unica forma della ragione, il fonte della morale , cioè la legge suprema non solo de' pensieri, ma anche delle azioni umane (2), il criterio della « certezza (3), » il principio della « bellezza (4), » e ciò che il volgo chiama assai propriamente il « lume della ragione (5). » Risultò medesimamente dalle mie ricerche, che quest' ente è la causa esemplare delle cose, è l' universale, il necessario, e quindi il fonte di ogni universalità, e di ogni necessità (6); che egli finalmente è immutabile, eterno, infinito (7); e tutto questo che egli mostra non è apparenza ingannevole, poichè quest' ente non può apparirci diverso da quello che è, ed è essenzialmente ed evidentemente veritiero, appunto perchè è la verità; e per ultimo risultò, che sebbene da noi non si veda l' ente nella sua sussistenza , ma solo nell' idea tuttavia non può non sussistere anche in se medesimo, e in questa sua sussistenza considerato è la causa efficiente del tutto, l' ente degli enti, l' unico assoluto, Iddio (.). Così l' Ideologìa mi condusse a mano fuori della mente, e fece che mi ritrovassi sul limitare dell' Ontologìa, ove il discorso non cade più sulle idee , ma sulle stesse cose . Ed è nell' Ontologìa , non ancora da me pubblicata, che io richiamo alla sua vera ed altissima unità anche il mondo reale, come coll' Ideologìa ho richiamato all' unità sua il mondo ideale, per dover poi nella Teologìa naturale congiungere, cioè, far dipendere i due mondi reale e ideale da un solo e medesimo punto, cioè da quell' ente degli enti, nel quale la verità , ossia l' essere mentale, diventa una persona indivisa dalla divina sostanza. Non so, se forse l' Estensore dell' Articolo alludeva a qualche cosa di simile a questo, quando egli desiderava, che io avessi considerati i fatti della coscienza nella loro più elevata unità ; ma in tal caso, come abbiamo veduto di sopra, questa unità è fuori della coscienza, è fuori dell' ambito della ideologìa , ed appartiene all' ontologìa , e si consuma nella teologìa naturale . Per tornare dunque a quella unità di sentimento, che solo è ragionevole di cercare nel « Saggio sull' origine delle Idee , » voi certamente, che molto addentro siete entrato nello studio di esso, vi sarete avveduto di questa strettissima connessione soggettiva, che io pongo tra la facoltà dell' intelletto , e del senso preso in generale , e non solamente preso per quel ramo del sentire corporeo. Ma oltre di ciò ci avrete ancora trovato di più, che io riduco alla unità medesima anche la terza delle facoltà fondamentali dell' uomo, cioè la ragione , facoltà media fra l' intelletto ed il senso . Non vi sarà sfuggito, che anzi non altrove io fondo la possibilità e la propria natura della ragione , se non nell' identità del sentimento e della coscienza del soggetto sensitivo ad un tempo ed intellettivo , sicchè la funzione della ragione io la riduco ad essere la visione delle relazioni fra le sensazioni e le intellezioni; e l' indole propria di ogni idea, che non sia la suprema, semplicissima di sua natura e tutta forma, in quella d' essere un rapporto veduto fra la sensazione stessa, materia , e l' essere in universale, forma , e lume della mente (1). Tre dunque sono le facoltà specificamente diverse nell' uomo, il senso , l' intelletto , e la ragione ; ma l' uomo non è già una facoltà, ma il soggetto unico di quelle tre facoltà: ecco l' unità , a cui si richiamano tutti i fatti della coscienza. Vi risovverrete, che questa dottrina sparsa per tutta l' opera, viene in fine d' essa riepilogata nel seguente passo: « « Nella coscienza esistono tutte queste potenze avanti le loro operazioni, cioè il sentimento di me col mio corpo (sensitività) e l' intelletto . Questa coscienza, perfettamente una, unisce la sensitività, e l' intelletto. Ella ha altresì un' attività, quasi direi, una vista spirituale, colla quale ne vede il rapporto: quest' attività è ciò che costituisce la sintesi primitiva . Se noi consideriamo più generalmente questa attività nascente dall' unità della coscienza, in quanto cioè ella è atta a vedere i rapporti in generale, ella è la ragione , e la sintesi primitiva diventa la prima operazione della ragione »(1). » Una unità maggiore di coscienza e di sentimento dell' identità non si può dare, e questa è quella semplicità, a cui mi sembra d' aver richiamata con evidenza la scienza del pensiero. Io aggradirò, che voi mi diciate schiettamente il vostro parere su queste mie osservazioni, che vi mando per ubbidirvi. Addio. La ringrazio della pregiata sua piena di sagacità, e di quello spirito conciliatore; che se fosse in tutti gli studianti, tanto gioverebbe ai progressi della filosofia, della sapienza e della stessa virtù. Cercherò di chiarire in breve alcune cose ch' Ella mi propone. Prima di tutto è da porre attenzione al senso, nel quale io uso il vocabolo reale o realità. Io mi accorgo che molti intendono per cosa reale una cosa vera o veramente esistente. Ma non è questo il senso che io aggiungo a quella parola. Il reale per me non è che un modo dell' essere , non è l' essere stesso. Io sostengo che l' essere identico è in tre modi o maniere diverse, che io denomino ideale, reale, morale . Lasciamo da canto il morale a fine di semplificare il discorso; dico che l' essere identico si trova tanto nell' idealità quanto nella realità, ma in altro modo. Sia dunque che l' essere si prenda nella sua forma ideale, o che si prenda nella sua forma reale, egli è verissimamente ed è sempre lo stesso essere. Convien dunque con somma diligenza meditare sulla diversità che ha l' essere in queste due forme, nelle quali si presenta, e nell' una delle quali non è più nè meno che nell' altra. Una delle diversità estrinseche, per così dire, che separa l' essere ideale dal reale , si è che l' essere ideale è sempre necessario , laddove l' essere reale non è sempre necessario, ma ora è contingente, ora è necessario. E` facile il dimostrare che l' essere ideale è sempre necessario, sol che si faccia osservare che anche l' idea del contingente è necessaria ed eterna. Ella vede dunque che, secondo la mia maniera di parlare (dalla quale a dir vero non trovo che si possa prescindere), quantunque l' essere ideale sia verissimamente ed anco necessariamente, non si può inferirne che sia reale; chè sarebbe contraddizione il dire che ciò che è ideale, è reale, o viceversa, essendo queste due forme incomunicabili, o inconfusibili. Ella mi domanderà qual sia il carattere, che distingue queste due forme l' una dall' altra. Rispondo, che queste due forme si distinguono come l' idea si distingue dal sentimento , o sia che il carattere dell' essere ideale è quello di far conoscere semplicemente, senza aver alcun' altra azione di sorte; quando il carattere dell' essere reale è quello di agire , producendo o modificando il sentimento. Ancora: l' essere reale è soggettivo , l' ideale sempre oggettivo: l' oggetto si può unire col soggetto, anzi si deve; ma non si può mai confondere con esso. Avverta che per me un soggetto è sempre un sentimento, e il reale è sempre anch' esso il sentimento, o ciò che agisce nel sentimento: l' idea non è mai un sentimento, e qualora si voglia dire che modifichi il soggetto che la intuisce e produca in essa qualche sentimento, tuttavia questa modificazione, di natura sua propria, distinta da tutte le altre, non è l' idea. Del resto, ripeto, che nell' ideale c' è tutto ciò che nel reale, meno la realtà; e nel reale c' è, o ci può essere tutto ciò che nell' ideale, meno la idealità: le sole forme, i modi soli si escludono: il contenuto di esse è l' essere identico . I filosofi tedeschi, e specialmente Hegel, hanno fatti sforzi maravigliosi per trovare un punto, che congiungesse l' oggettivo col soggettivo, cui chiamarono punto d' indifferenza [...OMISSIS...] di cui quest' ultimo filosofo volle fare il fondamento e l' origine di tutte le cose. Vani sforzi! Non videro que' pensatori, che avanti l' oggettivo e il soggettivo, l' ideale e il reale, non c' è nulla, nulla affatto; che, l' essere è l' essenza identica d' entrambi. Ella avrà forse colto questa teoria nelle mie opere, ed esige, parmi, attentissima meditazione a concepirla sì nettamente da non falsarla con alcun' altra, e da poter trovarvi le conseguenze di cui va gravida. Ora venendo più da vicino alla nostra quistione: se d' innanzi alla mente umana stia sempre Iddio collocato, l' essere assoluto; rispondo facendo primieramente osservare, che stare presente alla mente umana non vuol dir altro se non esser dalla mente intuìto , di maniera che ciò che non fosse dalla mente intuìto si dovrebbe dire che non le è presente. In secondo luogo osservo che la parola Dio nel comune significato non indica solamente un essere necessario, ma indica di più un essere reale, indica l' essere reale infinito; epperò necessario. Ora che stia d' innanzi alla mente nostra di continuo l' essere necessario è quello che io sempre sostengo in tutte le opere mie; ma che stia presente alla mente, cioè che sia intuìto continuamente dalla mente quest' essere necessario nella sua forma di realità, questo è quello che nego non solo per l' assurdo teologico che ne verrebbe, ammettendolo; giacchè in tal guisa noi vedremmo Iddio per natura; ma di più per la semplicissima ragione che l' osservazione interna del fatto del nostro spirito ci dichiara che noi non abbiamo quella percezione della realità divina; la quale d' altra parte non è necessaria a spiegare l' origine delle nostre idee, al che ci bisogna solo l' essere ideale per sè noto, per sè lume: e finalmente per una terza ragione, cioè perchè la realtà divina non appartiene all' ordine delle idee, ma all' ordine de' sentimenti, ne' quali solo comunicandosi a noi, si può da noi percepire e dalla facoltà nostra del giudizio affermare. Nulladimeno dall' essere , che sta innanzi alla mente nostra nella sua forma ideale , possiamo passare per via di argomentazione a conchiudere, che quell' essere identico che a noi si comunica come ideale, dev' essere in se stesso anche reale, e un reale necessario e infinito altrettanto che ideale, benchè questa sua realità a noi sia nascosta nell' ordine della natura; conciossiachè nel semplice ordine naturale noi non possiamo percepire che una realità finita; e la percezione della realità infinita è poi ciò che costituisce l' ordine soprannaturale . Trovando mediante tale argomentazione la necessità d' un reale infinito, noi abbiamo dimostrato l' esistenza di Dio a priori; perocchè gli uomini in tutte le lingue intendono ed hanno sempre inteso di significare colla parola Dio non l' essere ideale, ma l' essere reale infinito. Di che ella vede che il non poter applicarsi il nome di Dio all' essere ideale, che noi naturalmente vediamo, non fa sì ch' egli sia perciò diverso da Dio, in se stesso, ma solo che a noi appaia diverso, attesa la limitazione nostra, e il modo parziale con cui ci viene comunicato. Mi spiegherò con un esempio: io vedo da lungi una piccola macchia nera; questa macchia si muove: mi si avvicina: finalmente scorgo che è uomo. Quando io vedea la macchia nera, ma non distinguevo ancora che fosse un uomo, io non potea dire di vedere un uomo, poichè ciò che a me appariva non era punto un uomo; era una macchia nera; ma in quel punto in cui ho cominciato a distinguere le forme umane in quella macchia, io ho potuto dire: vedo un uomo. L' oggetto in se stesso era sempre il medesimo; ma non così l' oggetto a me apparente; prima era una macchia, poi era un uomo. Applichi la similitudine: l' essere infinito è identico tanto nella sua forma ideale quanto nella sua forma reale; ma fino che io lo vedo nella sua forma ideale solamente, non vedo Iddio: vedo Iddio tosto che lo vedo nella sua forma reale: ma non è tanto l' oggetto che varia, quanto la visione dell' oggetto. Questa similitudine non è adequata da tutti i suoi lati; ma fa intendere bastantemente il mio pensiero....... Ricondottomi a Stresa dopo lunga assenza, vi ho trovato la sua « Introduzione alla Filosofia razionale » da Lei gentilmente speditami, e poco stante ebbi la cortese sua lettera, in cui mi chiede qualche parere sulla medesima. Ho letto con piacere non piccolo quella sua operetta, scorgendovi da per tutto la penetrazione del suo ingegno e i vestigi di una non leggera meditazione. Laonde devo sinceramente congratularmi con essolei d' un lavoro che le dee far grande onore. Non le parlerò delle osservazioni che Ella fa sul sistema ideologico contenuto nel « Nuovo Saggio » e che tutte mostrano la rettitudine dell' animo suo e la persuasione sincera di ciò che dice, ma non posso tacere del tutto del sospetto di Panteismo ch' ella mostra di prenderne e dell' accusa ch' ella gli dà d' impotenza a dimostrare l' esistenza reale de' corpi. L' amor suo sincerissimo alla verità dee liberarla a mio credere da ogni timore, che, nella conseguenza del sistema, possa uscirne un panteismo sol che consideri quanto segue. Niun altro sistema, a me pare, pone più gran divisione fra l' essere ideale e l' essere reale . Ora l' essere ideale è necessario ed eterno, quando all' opposto l' essere reale non è essenzialmente necessario ed eterno, avendovi un mondo contingente e soggetto alla limitazione del tempo. Ora essendo l' essere ideale essenzialmente necessario ed eterno, ne viene ch' egli debba ridursi in Dio, ed essendovi in Dio un' unità perfetta, niuna maraviglia è, che anche nell' essere ideale si trovi un' unità perfettissima, cioè che tutte le idee si riducano ad una sola. Se fra le idee ci fosse una real distinzione, una real distinzione ci sarebbe in Dio, il che pregiudicherebbe alla divina semplicità. All' incontro l' essere reale contingente non potendosi ridurre in Dio, nè pure esige l' unità e la semplicità propria del mondo ideale e divino. E tutto ciò è confermato dall' osservazione interna ed esterna; poichè è l' osservazione interna che ci persuade le molte idee non esser altro, che lo stesso lume applicato a conoscere cose diverse: la moltiplicità delle cose reali moltiplica le idee in questo senso, che moltiplica i rapporti fra essi e l' unica idea; avendo io già dimostrato che tutte l' altre idee, eccetto quella dell' essere, non sono che rapporti delle cose con essa idea unica dell' essere ( « Rinnovam . » L. III c. LII). L' osservazione poi esterna ci dimostra la moltiplicità e la limitazione delle cose esteriori, le quali per ciò stesso non si possono in alcun modo confondere con Dio. Di qui risulta, che dall' unicità, che si trova nelle idee, non si può argomentare all' unicità delle cose esterne contingenti, perocchè l' essere ideale è tanto distinto dall' essere reale e contingente, quanto è distinto Iddio dalle creature. All' incontro il vedersi che quell' unica idea si moltiplica, secondochè fa conoscere ora una cosa ora l' altra, dimostra manifestamente la moltiplicità delle cose reali, moltiplicità e limitazione che si trova così dimostrata nel seno stesso del mio sistema. Venendo ora alla obbiezione, che ella fa alla dimostrazione dell' esistenza reale de' corpi , devo confessare che la riflession sua sarebbe giusta qualora quella dimostrazione si appoggiasse, come Ella suppone, all' erroneo principio che un essere illimitato non possa mai produrre effetti limitati . Ma se ella attentamente considera, vedrà che la dimostrazion mia fondasi anzi interamente sull' analisi del concetto di corpo, per la quale io stabilisco che il corpo è quell' agente sull' anima, che l' anima sente nello spazio : e la sostanza corporea non è nè più nè meno di quest' agente. Ora quest' agente sentito immediatamente dall' anima e nell' anima, e avente il modo della estensione, è una sostanza limitata , e perciò non può essere Dio. Merita nome di sostanza , perocchè si concepisce da sè solo senza che il pensiero nostro per concepirlo debba far ricorso ad altro; e questa sostanza è limitata , perchè in tanto è sostanza, in quanto agisce, e in quanto agisce è limitata ed estesa, onde non è Dio. Conviene formarsi una giusta idea della sostanza, riducendola sempre ad un atto, il quale, qualor si considera sotto l' aspetto di principio , dicesi agente , e qualora si considera come cosa che si lascia concepire da se stessa senza bisogno d' altro, dicesi sostanza . La prego di dare la sua attenzione a tutto ciò, e mi persuado, ch' Ella, cercatore della sola verità, rimarrà soddisfatta. Così pure io credo ch' Ella si persuaderà, che non ci sono nè idee nè cose essenzialmente contrarie fra loro; giacchè tutte le idee convengono nell' essere ideale, e tutte le cose partecipano dell' essere reale, e però in quanto sono, non sono contrarie. Finalmente bramerei ch' ella facesse uso dell' edizione milanese del « Nuovo Saggio , » parendomi dal passo ch' ella cita a faccia 124 7 125, ch' ella adoperi l' edizione romana. Veramente dee essere corso errore di citazione, e però non ho potuto riscontrare il passo citato; ma ritengo che nella edizione milanese sia stampato extrasoggettiva in vece di oggettiva , giacchè sensazione oggettiva , a dir vero, non è una frase propria. Non tardo a ubbidire al suo desiderio d' avere qualche dichiarazione intorno all' opinione da me professata in quel luogo del « Nuovo Saggio , » dove dico, che niuna cosa si predica di Dio univocamente, eccetto l' essere. E prima mi compiaccio che a Lei già non sia sfuggita la ragione di quella sentenza, che privilegia l' essere così fuori di tutti gli altri predicati; poichè, com' Ella dice, qui trattasi dell' essere comunissimo ammesso da tutte le scuole, il quale non sarebbe più comunissimo, se non si applicasse sì bene all' essere necessario, come al contingente. Il che apparisce vieppiù chiaro, se si considera che l' esistenza delle cose non si conosce in alcun altro modo, che con una sola idea, quella dell' esistenza; e quest' idea dell' esistenza è quella nè più nè meno, che chiamiamo anche idea dell' essere, come ci siamo già dichiarati. O sarà egli vero che l' esistenza di Dio non si conosca coll' idea di esistenza, colla quale conosciamo l' esistenza delle cose? Se non conoscessimo l' esistenza di Dio coll' idea d' esistenza, in qual altro modo la potremmo conoscere? O non è egli evidentemente assurdo il dire che senza l' idea di esistenza conosciamo l' esistenza di Dio? Se dunque è per lo contrario manifesto, che conosciamo l' esistenza di Dio coll' idea di esistenza, e coll' idea di esistenza conosciamo pure l' esistenza delle creature; non è egli vero che predichiamo l' esistenza dell' uno e dell' altre, mediante un' identica idea? Dove si noti, che l' idea di esistenza è semplicissima, non acchiudendo alcuno dei modi dell' essere, e però non può avere che un solo e semplicissimo significato la parola che la esprime: ond' è manifestamente assurdo ch' ella possa essere equivocamente predicata di checchessia. Ogni cosa qualsiasi o è o non è, senza mezzo. Rispondere che una cosa può essere in un modo e tal' altra in un altro è non aver intesa la questione; Chè non trattasi del modo dell' essere , ma dell' essere stesso separato da tutti i suoi modi e da tutti i suoi termini; di quell' essere che noi pronunciamo, affermando che una cosa è. Voi dunque siete scotista, mi si dirà - Il dir questo sarebbe un tirare conseguenze a precipizio. Le confesso che entro assai di mala voglia nelle questioni storiche, bramando che queste sieno tenute affatto in disparte dalle filosofiche. Io amo assai più di cercare la verità in filosofia e di studiarmi di attenermi ad essa, di quello che sia d' investigare se il tale o il tal altro autore, la tale o la tal' altra scuola la tiene con me, o contro di me. D' altra parte la quistione filosofica è semplice; e i passi che si fanno in essa, se pur si fanno, possono assicurarsi per via di giusto raziocinio. La questione storica è laboriosissima e può divenire interminabile, se si tratta d' interpretare autori, che hanno scritto un gran numero di volumi nelle diverse età di loro vita, e più ancora se si tratta di sapere che cosa tiene un' intera scuola composta d' un gran numero di scrittori che si esprimono diversamente, e che molte volte fra loro stessi dividonsi. Ed è per questo che io non amo chiamarmi piuttosto scotista che tomista o con altra tale denominazione che agli occhi miei non ha un preciso valore. Tuttavia confesso, che molte ragioni mi traggono talora in quistioni che appartengono alla storia delle opinioni e delle sentenze de' grandi filosofi o teologi. Ma quando sono a ciò fare o condotto o sedotto, allora io procuro d' interpretare la mente de' grandi uomini, che sembrano battagliare fra loro, in modo da conciliarli insieme quant' è mai possibile, standomi soprattutto ferma questa persuasione nell' animo, che difficilmente i sani e sommi intelletti vanno discordi fra loro, in ciò che sicuramente affermano, più che nell' apparenza. E parmi che i tentativi da me fatti in ciò sieno riusciti così, che mi confermarono in quel mio sentire. Adunque io credo che nella questione presente « se l' essere ideale si predichi di Dio e delle creature in un modo univoco od equivoco »ci abbia tra la scuola degli scotisti e de' tomisti una facile concilazione. Io gliela proporrò ed ella ne giudichi. Primieramente è da considerare, che il predicare l' essere di Dio e delle creature è operazione della mente umana, la quale distingue il predicato dal soggetto e quindi gli accoppia insieme. Questo modo di fare viene dalla limitazione della ragione umana: chè certa cosa è, che in Dio non c' è alcuna reale distinzione tra ciò che esprime il nostro predicato e ciò che esprime il nostro soggetto. La questione dunque è tutta racchiusa nella sfera del predicare e del concepire umano. Onde se ne avessimo la soluzione affermativa, cioè se risultasse che l' uomo predica di Dio e della creatura l' essere unicamente, non ne verrebbe mica da questo che l' essere in Dio e nella creatura fosse il medesimo, ma ne verrebbe solo la conseguenza, che l' uomo per la sua limitazione predicherebbe dell' uno e dell' altro il medesimo essere, o per dir meglio, l' essere in un medesimo senso, quantunque lo stesso uomo poi sapesse che una tale predicazione è difettosa, e che la mente umana l' adopera per non averne altra. La questione dunque si riduce tutta a sapere, se quando l' uomo dice: « Esiste Iddio », e quando dice: « Esiste il mondo », egli, l' uomo, intenda di esprimere colla parola esiste la stessa cosa o una cosa diversa. Se dunque egli è certo, come dicevamo, che l' idea di esistenza non determina punto i modi della esistenza stessa, ma è l' esistenza precisa da tutti i suoi modi; è manifesto altresì, che l' uomo in quelle due proposizioni intende di predicare di Dio e delle creature l' istessa cosa, cioè la pura e nuda esistenza. Ora la differenza fra l' essere di Dio e quello delle creature riguarda il modo di essere e non l' essere puramente preso nella sua astratta universalità. L' uomo dunque, legato com' è ad un modo di concepire suo proprio, predica questo essere puro di Dio e delle creature univocamente, appunto perchè, quando dice che Iddio esiste, lascia affatto da parte la questione del modo di sua esistenza. Si opporrà che l' uomo, facendo così, erra, perchè attribuisce a Dio un' esistenza astratta, quando in Dio non c' è distinzione alcuna tra l' essere e la natura. Ma quantunque sia vero, che in Dio non ci sia distinzione alcuna fra l' essere e la natura; tuttavia non è mica vero che l' uomo erri, quando predica di Dio l' esistenza, perchè in tal caso sarebbe falsa la proposizione: « Iddio esiste », o vero « Iddio è », la quale è manifestamente vera. E che l' uomo non erri formando questa proposizione, si vede da questo. Acciocchè l' uomo errasse, egli dovrebbe negare il vero. Ma l' uomo pronunziando che « Iddio è »ovvero « esiste », non nega mica il vero, cioè non nega con questa sua proposizione, che l' essere di Dio sia identico colla sua natura, ma altro non fa, che lasciare al tutto da parte la questione di questa identità, restringendo la sua attenzione all' esistenza senza più. E` dunque quello dell' uomo un modo limitato e imperfetto di concepire le cose divine, ma non erroneo. Poichè se l' uomo stesso, dopo aver detto che « Iddio è », s' inoltra colle sue ricerche e va investigando la maniera nella quale Iddio è, arriva ben presto a trovare quest' altra proposizione: « l' essere di Dio è la stessa sua natura »; e questa proposizione non è punto contraddittoria colla prima; che anzi ne è il compimento ed il perfezionamento: il che dimostra che anche la prima è vera, benchè sia insufficiente ad esprimere la dottrina intorno all' essere divino. Ora Ella ben si accorge, che tutta questa è dottrina bellissima di S. Tommaso, e che perciò è al tutto secondo la mente dell' angelico dottore il dire, che si predica univocamente l' essere di Dio e delle creature, quando per essere s' intenda l' essere comunissimo ossia la pura esistenza, come noi intendiamo. Ella vede che la verità della proposizione « Iddio è »o « Iddio esiste », è da desumersi dal puro fatto del significato che l' uomo aggiunge alla parola è , secondo il principio dello stesso Acquinate che « ad veritatem locutionum non solum oportet considerare res significatas, sed etiam modum significandi (S. I, XXXIX, v.) » Ella vede dunque che la conciliazione fra S. Tommaso e Scoto su questo punto non è difficile. Cerchiamo di metterla ancora più in chiaro. S. Tommaso dà due significati alla parola ente: egli dice che con questa parola talora s' intende l' essenza delle cose , e in tal caso si parte ne' dieci predicamenti d' Aristotele; e talora significa un concetto formato dall' anima stessa (S. I, III, IV, ad 2, XLVIII, II ad 2, in I Sent. D. XIX, q. V a I, ad 1 e in molti altri luoghi). Dice ancora, che l' ente, preso nel primo significato, appartiene alla questione che ricerca; quid est? Ma l' ente preso nel secondo significato appartiene alla questione che ricerca; an est? (in II Sent. D. XXXIV, I, in III D. VI, q. II a II). Dunque l' essere si può predicare di Dio nel primo significato, in quanto l' essere esprime il quid est di Dio, come nella proposizione; Deus est ens; e in questo significato l' essere si predica di Dio e delle creature equivocamente, o, se vuolsi, soltanto analogicamente, onde traducendo la proposizione in italiano riuscirebbe a questa forma: « Iddio è l' ente ». Il che non potrebbe mai dirsi della creatura, della quale potrebbesi dire solamente: « la creatura è un ente ». Ma l' essere si può predicare di Dio anche nel secondo significato, in quanto l' essere esprime; an est , come nella proposizione: Deus est; e in questo significato che esprime un concetto della mente, una maniera umana ma vera di concepire, l' essere si predica di Dio e delle creature univocamente. E che questa sia la vera dottrina dell' Angelico, Ella potrà rilevarlo altresì dal considerare semplicemente, che l' acutissimo nostro Dottore sostiene, che l' uomo possa benissimo conoscere; an Deus sit , ma che non possa mica conoscere positivamente; quid Deus sit , ovvero quomodo sit . Il che dimostra, che quando si predica di Dio l' essere preso nel significato di pura esistenza, che è concetto e lume della mente, allora l' uomo conosce benissimo il predicato che egli dà a Dio: laddove quando si predica di Dio l' essere preso nel significato di essenza, l' uomo non sa positivamente, ma solo negativamente ciò che predica di Dio. E perchè questa differenza? Certo perchè quando diciamo semplicemente che Iddio è od esiste , predichiamo di Dio l' essere che non supera l' ordine della natura, nè eccede il lume della ragione; e però è quell' essere che si pronuncia egualmente di Dio e delle cose naturali; laddove quando, predicando di Dio l' essere intendiamo di affermare la sua essenza, e non meramente la sua esistenza, allora parliamo dell' essere proprio di lui, e non comune alle creature; perciò non predicabile di queste nel senso stesso. Ella vede dunque che quando gli Scotisti sostengono che l' essere si predica di Dio e delle creature univocamente, essi hanno ragione, e sono d' accordo con S. Tommaso, purchè intendano dell' essere nel significato di pura esistenza, come l' intendiamo noi. Ed è perciò che nel « Nuovo Saggio , » quando professai questa sentenza, mi sono dato cura di esprimere, che intendevo dell' essere puro senza i suoi termini, acciocchè non nascesse equivoco, o io sembrassi in ciò contraddire all' Angelico Dottore. E certo sarebbe errore gravissimo il dire, che l' essere, in quanto esprime essenza, e non semplice e pura esistenza, si predicasse univocamente di Dio e delle creature; perciocchè in tal modo l' essenza di Dio e l' essenza delle creature sarebbe la stessa, il che è quanto dire, noi cadremmo nel mostruosissimo panteismo. Affine di combattere questo errore, che corrode le moderne filosofie, io scrissi il « Nuovo Saggio »; dove, prendendo il male dalla radice, dimostrai, che il mezzo, col quale l' uomo conosce tutte le cose, è l' essere purissimo e comunissimo, il quale forma il lume della ragione umana. Quest' essere purissimo e comunissimo è appunto l' ente preso nel secondo dei due significati di S. Tommaso, esprimente, come S. Tommaso dice, un concetto della mente. Con quest' idea o concetto l' uomo afferma la semplice esistenza, e non ancora l' essenza propria delle cose. Ora poniamo che invece di stabilire questo vero datomi anche dall' esperienza interna, io avessi stabilito, che il mezzo, con cui l' uomo conosce ed afferma le cose, fosse Iddio stesso, cioè l' essere inteso nel primo significato di S. Tommaso, che esprime la natura divina: in tal caso il panteismo sarebbe stato inevitabile, poichè ogniqualvolta l' uomo avesse predicato delle cose contingenti l' essere, egli avrebbe dato la natura divina alle cose; avrebbe affermato tutte le cose esser Dio, appunto perchè avrebbe predicato univocamente di Dio e delle cose l' essere preso nel primo significato di S. Tommaso. Il che se avesse considerato attentamente il signor Abate Gioberti, non avrebbe sostituito l' intuito di Dio all' intuito dell' essere ideale ed universale, aprendo così la porta amplissima al panteismo, con tutta la buona volontà di combatterlo. Non è facile il dire con brevi parole, in che differisca la filosofia da me proposta da quella del signor Cousin. Tuttavia, lasciando quanto n' ho già detto, e che voi avrete probabilmente letto (1), noterò alcune delle principali differenze, in che le due filosofie grandemente si dispaiono. E, per avere un confine al mio dire, io mi propongo di non uscire dal libro poco fa pubblicato dal Garnier, che contiene il Corso delle Lezioni date dal signor Cousin nel 1.1., e che fu pubblicato coll' approvazione dello stesso chiarissimo professore (2). In questo libro ci sono de' brani, dove il signor Cousin compendia se stesso; i quali, raccogliendo in breve e fedelmente la sua dottrina, potranno servire di solido fondamento alle nostre osservazioni. E appunto in uno di tali sunti, che il professore fa del proprio sistema, io mi scontro alla Lezione VI; e da esso incomincerò; udiamone, senza perder tempo, le prime parole. « Noi siamo partiti dai presenti dati della coscienza umana, e colle indicazioni forniteci da tali dati, noi ci siam provati a raccapezzare l' origine di que' dati, cioè a dire lo stato primitivo dell' intelligenza. » Questo è il vero, anzi l' unico metodo di filosofare sullo spirito umano: egli è quello, a cui io mi sono sempre attenuto, e dove vi ha unanimità nelle due filosofie. La differenza fra noi non principia se non quando si viene ad applicare il metodo; e i risultamenti che se n' hanno, non poco diversano fra di loro. « Noi abbiamo fermato, continua il professore, che il primo fatto della coscienza si compone di due elementi variabili, e d' un terzo reale come gli altri due, ma invariabile, cioè a dire del ME, della natura esteriore (1), e dell' essere universale e assoluto. Noi abbiamo detto, che la filosofia si pone al punto di veduta riflesso, e comincia per conseguente dalla riflessione; ma che la vita intellettuale dell' umanità è tratta in moto dalla spontaneità, e che la spontaneità e la riflessione non contengono nè più nè meno elementi l' una che l' altra. » Ora noi siamo d' accordo in ammettere che la filosofia comincia dalla riflessione, e che alla riflessione precede una vita intellettiva spontanea. Ma già cominciamo a differire circa la natura della spontaneità , e circa il numero e la qualità degli elementi onde si vuol composto il suo oggetto. A sporre con chiarezza queste differenze è uopo che noi riprendiamo quel primo fatto della coscienza, onde il professore muove il suo ragionare. Che cosa è dunque la coscienza pel professor Cousin? Udiamo lui stesso a definircela: [...OMISSIS...] Secondo il professore dunque non si può dare alcun atto intellettivo, senza che esso abbia la coscienza di sè. La mia opinione si allontana grandemente da questa dottrina: io convengo con lui in affermare che la coscienza non è una facoltà speciale, e che ogni coscienza è un prodotto dell' attività intellettiva; ma io nego al tutto, che ciascun atto dell' intelletto involga una veduta inevitabile di se stesso, e però la coscienza di se stesso. Io dico, che la coscienza si produce in noi a due condizioni; cioè 1 a condizione che noi abbiamo un sentimento (chè per me il sentimento è sempre diverso dalla coscienza), 2 a condizione che noi facciamo un atto intellettivo, il quale abbia per oggetto quel sentimento. Se io ho un dolore, e se io penso a questo dolore, tostochè io ci penso, ho coscienza del dolore; ma se io non ci pensassi punto nè poco, avrei bensì il sentimento, non ancora la coscienza del dolore. Ma poichè è sommamente naturale nell' uomo, massime già sviluppato, che il dolore attragga subitamente a sè il pensiero, perciò si confonde assai facilmente il sentimento del dolore colla coscienza del dolore, e si crede che una cosa sia l' altra. Ne' bruti all' incontro, ne' quali non si dà pensiero , ma solo senso , può concedersi il sentimento doloroso, ma in nessuna maniera la coscienza del dolore. Quello che dissi del dolore, dicasi di ogni altra operazione umana. Qualsivoglia operazione umana, o appartenga ella all' ordine sensitivo, o a quello dell' intelligenza, involge un sentimento nell' umano soggetto che la fa; poichè l' uomo è un soggetto essenzialmente sensitivo, e ogni modificazione di un tal soggetto è sensibile. Perciò anche tutti gli atti dell' intelligenza involgono un sentimento, sebbene talora tenuissimo e non avvertibile di leggieri; ma non avviene per questo, che involgano la coscienza di se stessi. La coscienza di un atto nostro intellettivo non è dunque contemporanea all' atto stesso, ma posteriore ad esso: s' acquista, e s' acquista non col medesimo atto intellettivo che è l' oggetto della coscienza, ma con un altro atto pure intellettivo, che si volge sopra il primo. Quando io penso a' miei pensieri, allora io acquisto la coscienza de' miei pensieri; ma io posso avere de' pensieri in me, senza che io punto nè poco ci rifletta, e però senza che io m' abbia di essi coscienza. Egli parrà bene strano a noi questo fatto; ci ha la sua ragione, perchè a noi paia strano. Per altro la natura, per misteriosa che sia, è fatta così, e bisogna pigliarla come è fatta. Egli è vero che molte volte a me torna facilissimo il riflettere a' miei pensieri, e che, riflettendovi, io n' acquisto immantinente coscienza. Acciocchè io faccia ciò, basta la più lieve cagione che mi richiami sopra me stesso. Ma appunto per ciò, che questa coscienza de' proprŒ pensieri s' acquista in un istante impercettibile, s' acquista quando si voglia, purchè si voglia; appunto perciò avviene che si trascuri la distinzione fra un atto dell' intelligenza e la coscienza del medesimo atto, che tien dietro a lui così celere e a lui legasi così stretta, e che vengasi a credere falsamente, che ogni atto dell' intelligenza per sua propria natura conosca se stesso. All' incontro io ho stabilito in molti luoghi delle mie opere la proposizione direttamente contraria, cioè che « ogni atto dell' intelligenza mi fa conoscere il suo oggetto, ma è incognito a se medesimo. » Dissi, che molte volte è facile ed istantaneo l' acquistare la coscienza de' nostri pensieri e de' nostri sentimenti; ma qui devo limitare anche più questa mia affermazione. E certo, molte e molte volte sono in noi de' pensieri, sono de' sentimenti, e fin anco delle sensazioni corporee, di cui ci è difficilissimo aver coscienza. La prova di ciò si è quella sentenza, « Conosci te stesso »; che fu riputato da tutta l' antichità il più importante e il più difficile precetto della morale filosofia. Se la coscienza di tutto ciò che passa in noi, fosse sempre facile ad acquistarsi, se ogni nostro pensamento racchiudesse la coscienza di se stesso, niuno avrebbe bisogno di studiare gran fatto per discoprire a se stesso le proprie propensioni e tutto ciò che passa nella sua mente: non direbbesi che il cuore umano racchiude dei profondi secreti, che l' uomo è un mistero a se stesso: la filosofia, almeno in quella parte che riguarda l' uomo, non sarebbe più una scienza; nè potrebbe cader mai discrepanza nelle opinioni risguardanti le origini de' nostri pensieri e quelle delle nostre affezioni, la qual discrepanza pure è tanta. Ma il fatto si è, che, per aver coscienza di ciò che passa nell' intendimento nostro e nel nostro cuore, c' è bisogno assai sovente di una lunga riflessione, e non ne veniamo tuttavia a capo perfettamente. Pure quelli che acquistarono l' abito di dirigere la propria riflessione sopra di sè, quelli che più costantemente s' applicano all' esame del loro interno, trovano meglio degli altri, e ogni dì s' accorgono di qualche nuovo fenomeno, di qualche nuovo pensiero, di qualche nuova legge del proprio sentire e del proprio pensare, di cui prima non avean preso sentore. Ora, se fa bisogno tanta attenzione e tanta riflessione sopra di noi, a renderci consapevoli di quanto ci passa nella mente e nel cuore, non è dunque vero, che la ragione per la quale la coscienza nostra è spesso vaga e indeterminata, sia, perchè, come vuole il signor Cousin, l' attività stessa intellettuale è indeterminata e vaga; e che ogni qualvolta l' azione dell' intelligenza è chiara e precisa, n' è pure precisa e chiara la coscienza. Questo è un errore, che viene dal precedente. L' uomo, cominciando a ragionare, muove dallo stato in cui si trova. Egli comincia a riflettere sopra di sè. E queste prime riflessioni gli danno una coscienza ancora indeterminata e vaga dei proprŒ pensieri. Da questo egli tosto conchiude, che i suoi pensieri sono vaghi e indeterminati. Ma questa conclusione è sbagliata. Egli prende la coscienza de' suoi pensieri pe' pensieri stessi: egli prende la coscienza dello stato della sua intelligenza, per lo stato medesimo dell' intelligenza. E un tale sbaglio gli è ben naturale; chè l' uomo non conosce i proprŒ pensieri, se non per la coscienza de' medesimi, ottenuta mediante riflessione. Egli parla dunque de' pensieri, solamente in quanto gli sono noti mediante la coscienza ch' egli ne ha. Ora se la riflessione è imperfetta, la coscienza di que' pensieri rimansi imperfetta, vaga, indeterminata; conchiude dunque, che i suoi pensieri realmente sono vaghi e indeterminati. Ma porti quest' uomo più oltre le sue riflessioni: continui a meditare sopra i proprŒ pensieri: egli ci vede quello che prima non ci vedea: ci trova un ordine: ci trova delle leggi: vede che gli uni nascono dagli altri, alcuni esser derivati, altri primitivi: segna le differenze fra loro, le differenze degli oggetti stessi de' pensieri. Tutti questi studŒ sopra qual libro li fece egli un tal uomo? Sopra se stesso, sopra la pagina scritta, per così dire, della propria mente. Se ci ha osservate tante cose, se ci ha trovato un ordine così distinto, così preciso, così luminoso, potea trovarcelo egli, se non ci fosse stato? Dunque c' era già ne' suoi pensieri primitivi tutto ciò che ci ha poscia trovato colla riflessione; c' era certamente; ma tutto ciò era privo di coscienza, appunto perchè non era sopravvenuta la riflessione a formare la coscienza. E bene, quest' uomo, dopo aver tanto riflettuto sopra se stesso, dopo essere stato sì a lungo spettatore di ciò che passa nell' anima sua, che cosa dice? che conchiude? Ora sì, dice egli a se medesimo, io ho chiariti i miei pensieri: la mia intelligenza si è resa determinata e precisa; ed è perciò, che anche la mia coscienza di essa è piena di lume e di precisione. Quest' ultima conclusione ch' egli ne tira, è lo stesso sbaglio ch' egli commise quando giudicò i suoi pensieri oscuri, perchè oscura ne avea la coscienza. La coscienza non si è resa chiara perchè i suoi pensieri si sieno chiariti e distinti: i pensieri anteriori alla coscienza erano già distinti e chiari altrettanto quanto dopo la formazione di essa; ma la loro distinzione, la loro chiarezza non era passata ancora nella coscienza, e però non era avvertita dall' uomo, il quale, non avvertendola, la negava. Dunque, se quest' uomo voglia considerare che tutta quella chiarezza e quella luce, che dice d' aver guadagnato, non è che l' effetto dell' attenzione e della riflession sua posta sui primi suoi pensieri, egli si accorgerà facilmente, che la luce era precedente alla sua coscienza, sebbene egli non se ne potea accorgere prima che la coscienza stessa se ne fosse formata. Così colui che volge gli occhi alla chiarezza del sole, non giudica temerariamente, se dice che il sole esisteva prima che fosse da lui riguardato: e a chi gli dimandasse: « Come potete sapere che il sole sia prima di quell' istante nel quale voi lo vedeste, quando prima di quell' istante voi non l' avete veduto? »: può rispondere ragionevolmente: « Io so che il sole è precedente all' atto con cui io lo vidi, non perchè io prima il vedessi, ma per la natura di quest' atto stesso, che suppone precedente il sole, giacchè non si può vedere ciò che non è ». Concludiamo circa la dottrina intorno alla coscienza: le differenze fra il signor Cousin e me sono due: 1 Egli suppone, ciò che non prova, che l' attività intellettuale involga seco inevitabilmente la coscienza; quando io dico che l' attività intellettuale, come ogni altra attività umana, involge bensì un sentimento , ma non la coscienza . 2 Egli dice che i gradi d' indeterminato e di vago che ha la coscienza de' nostri pensieri, dipendono unicamente dall' indeterminato e dal vago che hanno i nostri pensieri; là dove io dico, che la chiarezza e la determinazione di quelli e di questa dipendono da cagioni al tutto diverse; dico che i pensieri anteriori alla coscienza possono essere chiari e distintissimi, e questa tuttavia esser vaga, indistinta e fin anche nulla; e che la chiarezza e la distinzione della coscienza si vanno aumentando mediante l' opera della riflessione, quando i pensieri primitivi non dipendono dalla riflessione, ma dalla intelligenza spontanea, o diretta. Il signor Cousin sembra venire con noi, là dove definisce la coscienza così « « La vita intellettuale, raddoppiandosi sopra se stessa, costituisce ciò che si chiama coscienza »(1) » Questo è appunto ciò che diciamo noi: da cui ne induciamo la conseguenza, che dunque la coscienza non c' è, prima che la vita intellettuale, raddoppiandosi sopra se stessa, la costituisca. Ma con una contraddizione egli ne deduce in quella vece tutto l' opposto, continuandosi a dire così: « « Come questa vita è doppia, si può dire che ci abbiano due coscienze, la coscienza spontanea e la coscienza volontaria e riflessa »(2). » Ora noi con sua buona pace replichiamo, che se ciò che costituisce la coscienza è il raddoppiamento della vita intellettuale sopra di sè, com' egli stesso afferma; a costituire due coscienze sarebbe bisogno non già solo una doppia vita, ma un doppio raddoppiamento della vita, e perciò una quadruplice vita. Ma io voglio spingere più avanti questa osservazione; voglio mostrare, come questo primo errore intorno la coscienza ne conduca dietro a sè necessariamente degli altri: e tanta è la forza dell' errore, tanta è la violenza che esercita negl' ingegni più conseguenti, che li trascina ove vuole, che li caccia anche là dov' essi meno bramerebbero di pervenire. Quale spettacolo più strano, che il vedere il signor Cousin ritornato Condillachiano? So bene, che al solo annunziare una cosa simigliante, ciascuno esclama al paradosso; ma per dirlo di nuovo, a quali passi un error solo non sa condurre la mente d' un filosofo? Consideriamo bene l' errore del signor Cousin da noi accennato; consiste nel confondere due elementi in uno solo, cioè il sentimento colla coscienza . Il signor Cousin vide che ogni atto intellettivo involge un sentimento; dunque, conchiuse, non si dà un atto intellettivo senza la coscienza di sè; dunque ci sarà una coscienza spontanea e una coscienza riflessa, come ci sono degli atti intellettivi spontanei e degli atti intellettivi riflessi: questo è l' error primo. Ma se il sentimento si confonde colla coscienza , la conseguenza è irrepugnabile: dappertutto dove c' è sentimento, ci sarà coscienza. Dunque anche nella sensazione animale ci sarà coscienza. Ma la coscienza appartiene alla vita intellettiva, anzi è un raddoppiamento della vita intellettiva; dunque anche nella sensazione animale ci sarà vita intellettiva, ci sarà un raddoppiamento di vita intellettiva. Non siamo noi arrivati sul territorio di Condillac? Che cosa è il Condillachismo nel suo fondo, se non il sistema che confonde il sentire coll' intendere ? o che se non li confonde, non li distingue essenzialmente? Che cos' è, se non il sistema che dà allo stesso senso corporeo il potere di giudicare? Abbiamo dunque detto una cosa troppo lontana dal vero, quando abbiamo paragonato Cousin a Condillac? Il professore di Parigi non si fa indietro da tutte le accennate conseguenze, anzi le confessa, le riceve espressamente: udiamo le sue proprie parole: « « La sensazione è ella l' impressione organica? Non contiene ella un elemento intellettivo? »(1). » Ecco fatto entrare nella stessa essenza del sentire un principio, che appartiene all' intelletto: proseguiamo: « « Se non ci fosse stato movimento organico, senza dubbio non ci avrebbe nè piacere nè dolore; ma se il ME non pigliasse cognizione di questo movimento, il piacere e il dolore non esisterebbe »(2). » Ecco come il professor di Parigi, non diversamente dal Condillac, insegna, che non si dà nè piacere nè dolore senza cognizione. Di che viene il conseguente, che anche alle bestie è uopo dare intelletto, quando non voglia adunarsi co' Cartesiani, facendole macchine. Continua ancora: « « Egli è dunque mestieri che il fenomeno passivo dell' irritazione organica faccia giocare l' attività del ME, in altre parole svegli la coscienza , acciocchè si produca la sensazione »(1). » Ecco come coscienza e sensazione o è il medesimo, o almeno sono indivisamente associate, di guisa che la sensazione non si può produrre senza la coscienza, a malgrado che il professore abbia dichiarato, che la coscienza appartiene alla vita intellettiva. Di più ancora (s' oda bene, non è il Condillac che parla, ma il Cousin): « « Conoscere è giudicare; e come sentire è conoscere che si sente, così sentire può dirsi che sia giudicare »(2). » E se vogliasi udire il Cousin divenuto più condillachiano di Condillac medesimo, continuiamo tuttavia: « « Il giudizio è l' elemento intellettuale della sensazione; e non è un giudizio solo, ma molti che figurano nel fenomeno sensibile; io potrei mostrare che non ci ha sensazione senza un giudizio sul tempo, sulla sostanza, sullo spazio, sulla causa, ecc. »(3). » La confusione, cioè l' assorbimento de' due elementi è completo; tutto ciò che si trova nell' intelletto di più sublime, avvi già precedentemente, secondo il professore, nel fenomeno della sensazione. Il Condillac non è mai stato tanto sensista: poichè sebbene attribuisca tutto alla sensazione, tuttavia non seppe riconoscere così espressamente nella sensazione le più nobili parti della intelligenza: il Cousin fece una più piena indagine di questa sublime facoltà, innalzonne i pregi fino alle stelle, ma tutto ciò per farne poi un omaggio, un sacrifizio al fenomeno della sensazione corporea! Dopo di ciò, non ci sarà più difficile a formarci il concetto di quella facoltà che il signor Cousin appella spontaneità . Essa non può esser per lui, se non quell' attività del ME, che viene tratta in movimento dall' irritazione organica, e che così produce la sensazione , quella sensazione che si confonde colla coscienza, e che chiude nel suo seno i giudizŒ intorno al tempo, alla sostanza, allo spazio, alla causa e a tutte l' altre categorie. Sicchè dopo aver parlato della sensazione, dopo aver detto che sentire è giudicare di tutte queste cose, conchiude: [...OMISSIS...] Che cosa dunque è a dirsi? Che tutta la differenza fra quelli che si chiamavano sensisti ed il signor Cousin consisterà in questo, che per quelli la sensazione è un fatto passivo , quando per il signor Cousin è un fatto attivo (2). Se abbiano ragione i primi o il secondo in questa questione, o se forse agli uni e all' altro manchi qualche cosa, io non vo' qui ricercare; ben dico, che i così detti sensisti, sotto le antiche forme, ed il signor Cousin convengono finalmente in questo, di riconoscere la sensazione corporea come il principio di tutta l' umana cognizione e di tutta l' umana intelligenza. Che se questa parola, sensista , segna un filosofo che riduce tutta l' umana conoscenza alla sensazione, non so come questo stesso nome non appartenga al signor Cousin; chè egli non ha già tolto via a questa maniera il principio del sensismo, ma solo modificatolo, vestitolo di nuove forme più ricche e maestose; non ha stabilito un principio del conoscere diverso da quello del sentire; ma riducendo ogni cosa al principio del sentire, s' è contentato di osservare, che il sentire procede dall' attività del ME, e che non è un fenomeno meramente passivo. Coscienza adunque e sensazione, sensazione e intelligenza si confondono nel sistema del signor Cousin, e la spontaneità per lui non è che il principio della sensazione, e perciò della cognizione, principio attivo, che somministra tutti i dati sopra i quali poi si rivolge e lavora la riflessione. Ma qui, dopo che noi abbiamo raffrontato il signor Cousin al Condillac, possiamo medesimamente avvicinarlo al Cartesio. Il Condillac comincia dal sentire , e il Cousin pure comincia dal sentire. Il Cartesio all' incontro comincia dal pensare: « « Io penso; dunque esisto. » » Ma il Cousin non ricusa; si accompagna tosto con Renato Cartesio: e gli è tanto più facile, quanto che se n' è già preparata la strada, dicendo, che nel sentire c' è il pensare , che chi sente giudica, e giudica del tempo, della sostanza, dello spazio, della causa, ec.. Il Cartesio non dimanda pur tanto; ma a fine di non perdere una sì buona compagnia com' è quella del Cartesio, il signor Cousin riterrà anche un poco i suoi passi, e si comporrà con lui. Udiamolo: [...OMISSIS...] Riceve dunque il signor Cousin per buono il principio di partenza cartesiano, cioè il giudizio , senza aver bisogno per questo di rinunziare al principio di partenza de' sensisti, ciò è la sensazione: poichè nel seno della sensazione egli colloca il giudizio, imitando il Condillac. Solamente che a questo giudizio sensitivo trova di dovere attribuire assai più che non facesse il Condillac medesimo, cominciando il movimento dello spirito umano pel Cousin da un giudizio assai più complicato che non fosse quello del Cartesio. L' editore delle sue lezioni, Garnier, così espone il pensiero di lui: « « Il professore mostra che le idee ci vengono simultaneamente e in correlazione le une colle altre, e che così il giudizio trovasi al cominciamento delle operazioni intellettive »(2). » Questo sistema de' correlativi è quello che in Germania si chiama sintetismo; e il professor Cousin cel fa diventare uno sviluppo del principio del Condillac. Dopo di tutto ciò, voi stesso direte quanto da queste sentenze del signor Cousin si allontani la mia maniera di pensare. Io non riconosco nella sensazione corporea alcun elemento intellettivo; e l' anello che unisce i due ordini della sensazione e della intelligenza per me non è che il soggetto unico, e ad un tempo sensitivo ed intellettivo. L' unità del soggetto , cioè l' unità del ME, è il ponte di comunicazione, se volete che così mi esprima, fra il mondo dell' intelligenza e quello de' sensi. Ma sentire ed intendere rimangono sempre nella mia filosofia due essenze separate, com' è separato l' essere reale e l' essere ideale , quantunque la realità e l' idealità siano forme fra loro incomunicabili d' un medesimo essere. Quanto poi alla spontaneità , questa parola per me non esprime una facoltà, ma un modo di operare delle facoltà. Questo modo spontaneo può appartenere tanto alle facoltà sensitive, quanto alle facoltà intellettive, ed è il contrario del violento. Quando noi operiamo senza un motivo preconcepito e predeterminato, diciamo di operare spontaneamente: la nostra natura è quella che opera; l' attività di questa natura o è attuata da una legge intrinseca costitutiva di lei, come avviene in quello che noi sogliamo chiamare sentimento fondamentale e nell' intuizione primitiva dell' essere ; ovvero è invitata all' atto da qualche esteriore cagione, come avviene nelle sensazioni acquisite, e ne' primi pensieri che costituiscono quella che noi chiamiamo cognizione diretta . Nell' uno e nell' altro caso c' è la spontaneità , cioè l' operare spontaneo della natura umana. Distinguiamo dunque due spontaneità; l' una originaria , e costituisce l' atto immanente del soggetto sensitivo e intellettivo, col qual atto questo soggetto è posto; l' altra avventizia , e sempre parziale, che muove i primi passi dell' umano sviluppamento. Di più, tanto la spontaneità originaria, quanto l' avventizia, è sensitiva e intellettiva; chè così il senso, come l' intendimento, hanno spesso un movimento spontaneo, date le condizioni richieste. Pel professore Cousin all' incontro, non c' è che una spontaneità sola, sensitiva per essenza e insieme necessariamente intellettiva, e questa spontaneità non ha alcun atto originario e immanente, ma opera all' occasione dell' irritazione organica, non senza somiglianza all' operare della statua del Condillac. Era necessario di premettersi tutto questo, a spiegare chiaramente che cosa voglia dire il signor Cousin, quando nomina il primo fatto della coscienza . Noi dobbiamo ora parlar di proposito di questo primo fatto della coscienza: dobbiamo vedere come egli lo trova, questo primo fatto, come lo analizza, e se giustifica bene tutte le cose che afferma contenersi in esso. Già l' ho detto: egli arriva al primo fatto della coscienza spontanea, partendo dal punto di vista riflesso. Ma come dalla riflessione discende egli al fatto della coscienza spontanea? Come giustifica questo passaggio? Lo giustifica appoggiandosi al seguente ragionamento: Avanti la riflessione « « c' è la vita umana, la vita non distinta, oscura, spontanea. La riflessione presuppone l' esistenza d' un oggetto sul quale ella cade, e che per conseguente è anteriore. - Così lo stato primitivo dell' intelligenza non contiene niente di più dello stato attuale, ma nè anche contiene niente di meno »(1). » Ed è verissimo, che la riflessione non potrebbe operare se non avesse un oggetto sul quale rivolgersi, e che quest' oggetto dee essere in noi precedente a quell' atto della riflessione; ma ne viene forse, che la riflessione possa cogliere tutto ciò che c' è in noi di precedente ad essa? non possono rimanere in noi delle cose che spesso sfuggono alla nostra riflessione? Se ciò può essere (ed ognuno può attestarlo, per poco che consideri come avvengano le cose in se medesimo), non è dunque vero che nell' ordine della riflessione debba trovarsi tutto ciò che c' è nello stato primitivo, e niente di meno. In secondo luogo, quando io rifletto sopra di me medesimo, cioè sopra i miei pensieri e sopra le mie affezioni, non è mica necessario che gli oggetti, a cui volgo la riflessione, si trovino tutti nello stato primitivo della mia mente; poichè questi oggetti, a cui io rifletto, possono essere essi stessi prodotti da altre riflessioni. Non conviene dunque parlare d' uno stato di riflessione solo; chè ci hanno diversi stati riflessi della nostra mente, come ci hanno diversi ordini di riflessioni. Egli è dunque solamente vero questo, che nel primo ordine di riflessione, prossimo all' ordine della cognizione diretta e spontanea, non ci può esser niente di nuovo, che precedentemente non si trovi in essa cognizione primitiva o diretta; senza però che si possa dire il medesimo degli altri ordini superiori di riflessione; posciachè gli oggetti di queste riflessioni ulteriori sono in gran parte anch' essi delle cognizioni già riflesse. Questa avvertenza dimostra che per conoscere ciò che appartenga allo stato primitivo, non si può partire dal principio, che tutto ciò che abbiamo nello stato presente della mente nostra sia contenuto nello stato primitivo; perchè lo stato nostro presente è il prodotto d' un gran numero di riflessioni. In terzo luogo, a qual condizione si può egli passare dallo stato presente di riflessione allo stato primitivo? Il signor Cousin dice, che noi possiamo passarvi, a condizione di far uso delle induzioni logiche le più legittime. [...OMISSIS...] Ma qui il professore si avvolge manifestamente in un circolo. Poichè a qual fine cerca egli il fatto spontaneo? Al fine di cominciare da esso la filosofia: e però al fine d' indurre da esso anche le regole logiche. L' abbiamo già innanzi udito accordare a Cartesio, che il principio di contraddizione, il primo di tutti i principŒ logici, è posteriore alla percezione dell' IO; e che: l' IO penso, dunque esisto, non suppone prima la proposizione generale: Tutto ciò che pensa, esiste ». Ora come dunque per trovare e raggiungere il fatto spontaneo, ricorre poi alle regole logiche e ne fa uso come fossero già trovate? Da una parte, egli fa partire la filosofia dal fatto spontaneo, perchè, dice, « « non si tratta più oggidì di porre degli assiomi e delle formole logiche, di cui non si verificò ancora la legittimità e di produrre, componendole insieme, una filosofia nominale; bisogna partire dalle realità stesse »(1) » dall' altra parte, per arrivare alle realità, egli non ha più scrupolo di passare per le regole logiche. Egli è bensì vero, che il signor Cousin immediatamente parte dalla realità del pensiero riflesso; ma ciò fa unicamente per arrivare col mezzo di logiche induzioni alla realità del pensiero spontaneo: ed è in questa realità del pensiero spontaneo, che pone il fondamento delle regole logiche e la legittimità delle logiche induzioni! Non è questo un circolo manifesto? All' incontro, voi potrete, esaminando il sistema da me proposto, convincervi, ch' esso non involge mai somiglianti petizioni di principŒ, da cui non so veramente qual altro sistema vada interamente esente. Finalmente, è vero che il signor Cousin nomina spesso fatto spontaneo, stato primitivo, ecc.; ma egli poi non si cura di darcene una descrizione diligente e determinata. Quindi riman difficile il conoscere che cosa intenda precisamente colla espressione di stato primitivo. Se si considera che stato primitivo è per lui lo stato della spontaneità, e che la sua spontaneità è l' opposto della riflessione, conchiuderebbesi che il suo stato primitivo fosse quello in cui la mente umana si trova prima di ogni riflessione. Ma primieramente lo stato della mente anteriore al movimento della riflessione, non è mica uno stato unico e semplice, ma uno stato vario e molteplice; giacchè l' uomo può fare più e meno degli atti diretti colle sue facoltà, prima ancora che sopravvenga nessuna riflessione. Converrebbe dunque sapere, se l' analisi del signor Cousin cada sopra ciascun atto spontaneo, ovvero se cada sopra il complesso degli atti spontanei, che possono precedere la riflessione. In questo secondo caso, l' oggetto da analizzarsi è vago e molteplice, come dicevo; nè ci si può applicare l' analisi, prima di determinarlo. Se poi intende di parlare di ciascun atto spontaneo, ell' è manifesta l' improprietà di chiamare stato primitivo un atto; conciossiachè un atto non è uno stato . Ma via, lasciando l' improprietà della parola, il contesto dimostra bene, che trattasi di analizzare un atto della spontaneità, e non uno stato . Ora a raggiungere questo atto che si dee analizzare, si pretende di pervenire mediante induzioni logiche. Abbiamo notato, che un filosofo che vuol dedurre dall' analisi del fatto spontaneo le stesse regole logiche, non ha diritto a questo passaggio, non potendo usare di quelle regole che ancora non ha dedotto; ma il professore non si contenta d' usurparsi questo diritto, non è pago di passare dalla riflessione all' atto della spontaneità, pretende di più di passare anco dall' atto spontaneo allo stato dell' uomo anteriore a quest' atto. Io credo che molto più difficile gli sarà il legittimare questo secondo passaggio, che non il primo. E in fatto, io non trovo ch' egli in niun luogo s' adoperi a rigorosamente dimostrare, come dovrebbe, la possibilità e la legittimità di un tal passaggio; ma trovo anzi, che colla più grande confidenza mette avanti alcune affermazioni generali, e, com' elle fossero indubitabili e non bisognose di prove, ci fabbrica sopra quello che più gli piace. Una di queste affermazioni gratuite è la definizione della vita intellettiva , tratta dalla definizione della vita organica; dove si vede, per dirlo di nuovo, la base sensistica del sistema di questo filosofo, che tanto si piace delle frasi platoniche. Si oda attentamente tutto il brano, al quale noi facciamo allusione. [...OMISSIS...] In questo brano dunque il signor Cousin non contento di esser passato dallo stato di riflessione allo stato spontaneo, ci assicura di conoscere anche lo stato dell' uomo che ha preceduto lo stato spontaneo. Ci assicura che l' uomo, nello stato in cui fu per lungo tempo innanzi alla spontaneità, era un essere fisiologico e nulla più; la sua vita era per lungo tempo non diversa dalla vita del mondo; i suoi movimenti erano quelli della natura materiale; il mondo non era per lui se non in quel modo che è per la pianta! Ci sia permesso di fare qui un' osservazione su questo sistema eclettico . Il signor Cousin distingue tre stati nell' uomo: 1 lo stato anteriore alla spontaneità, 2 lo stato spontaneo, 3 lo stato riflesso. Se il signor Cousin parla dello stato anteriore alla spontaneità, egli applica all' uomo le frasi stesse che gli applicano i materialisti . Se egli parla dello stato spontaneo, e del principio della vita intellettiva, egli applica all' uomo le frasi colle quali ne parlano i sensisti . Se poi parla dello stato riflesso , o anche se fa l' analisi del fatto spontaneo, egli adopera la lingua di Cartesio e di Platone. Io stimo che sarebbe troppo difficile al signor Cousin evitare la taccia di quel sincretismo , che è certamente diverso dall' eclettismo , sebbene da questo non sia difficile lo sdrucciolo a quello. Ma lasciando ciò, io torno a dire che tutto il ragionamento del signor Cousin intorno allo stato dell' uomo anteriore alla spontaneità e intorno alla natura della vita intellettiva, è interamente gratuito. Questo solo esser gratuito è motivo sufficiente a doversi logicamente rigettare perchè mancano appunto quelle induzioni logiche a cui si appella. Che se bramate di più, lo potete vedere nel « Nuovo Saggio , » e negli altri miei scritti filosofici direttamente combattuto. L' errore principale consiste nella confusione delle due vite sensitiva e intellettiva . Io lascio da parte la vita della natura materiale e quella della pianta, che supponendosi del tutto insensitiva non merita il nome di vita. Ora quanto alla vita sensitiva, egli è vero che in essa trovasi una specie di lotta e di opposizione. Se dunque si confonde con essa la vita intellettiva, cadesi di necessità nell' errore di trovare una lotta anche intellettiva. Il sensismo dunque di Cousin, cioè la confusione della sensitività coll' intelligenza, è la base erronea su cui fabbrica l' ipotesi d' uno stato puramente fisiologico dell' uomo anteriore alla spontaneità, stato privo non solo d' intelligenza, ma ancora di sensazione, come quel della pianta, nel quale il signor Cousin afferma che passi e si agiti lungo tempo l' UOMO! Voi sapete, che, secondo il mio sistema, l' essenza dell' uomo è riposta nel sentimento che chiamo fondamentale, e che come non ci fu mai tempo in cui l' uomo non sentisse, dopo che fu generato, così non ci fu mai tempo in cui non avesse la vita intellettiva, fatta da me consistere nell' intuizione immanente dell' essere. Nel sistema del signor Cousin supponesi (poichè siamo sempre nel regno delle supposizioni ), che dopo essere stato generato l' uomo, ed esser vissuto lungamente della vita della materia (cioè della vita di ciò che non ha vita); dopo essere stato lungamente privo di senso come la pianta, e per ciò stesso privo del ME (che è quanto dire privo di SE` stesso!), finalmente fosse sonata un' ora, un' ora da vero solenne, in cui quest' uomo tolse a muoversi del proprio movimento, a porre se stesso, ad opporsi alla natura. Se questo fatto fosse vero, sarebbe l' avvenimento il più nuovo e il più straordinario che si potesse concepire; e per dare a credere un avvenimento così nuovo, così straordinario, converrebbe (in mancanza di testimonŒ oculari) addurre almeno una ragione del perchè l' uomo, dopo essersi agitato lungamente nel seno dell' universo senza conoscerlo, si sia risoluto a muoversi del proprio movimento, e a porre se stesso. Che almeno di un fatto così portentoso ci sia mostrata la possibilità; che almeno ci sia espresso con maniere di dire sì chiare da poter noi concepirlo. Da vero che questo non s' è fatto. Dicesi che quest' uomo senza senso si è agitato lungamente nell' universo: ma se il senso non c' è, non può intendersi che d' una agitazione di particelle materiali: e se qui si tratta unicamente di un' agitazione di particelle materiali, non trattasi adunque più dell' agitazione di un uomo, quando non vogliasi dire che delle particelle materiali siano un uomo. In tal caso resta a vedere come queste particelle materiali, dopo essersi agitate senza sentirsi e senza conoscersi, finalmente si sieno risolute di moversi del loro proprio movimento; e come commovendosi del loro proprio movimento, sieno diventate ad un tempo senzienti ed intelligenti . Nè pure è chiara ed atta a concepirsi quella frase, che « l' uomo abbia mosso se stesso », quando se stesso ancora non era, poichè il SE` di quest' uomo è pronome personale altrettanto quanto il ME, il qual ME si dice che non era ancora in quell' uomo, ma che cominciò ad esistere col movimento e col combattimento contro la natura. Moversi, combattere , ed altrettali vocaboli metaforici non s' intendono, se non si suppone un ME che si muove e che combatte; e in questo caso la vita sta nel ME e non nel moto, o nel combattimento di un ME che fosse morto. Tutte queste frasi dunque involgono seco assurdi manifesti, e però non sono concepibili. Ora egli è ben evidente, che una dottrina filosofica prima di tutto dee esser atta a concepirsi, e poscia dee esser provata; due condizioni che mancano alla filosofia del signor Cousin. Ma egli è uopo, che, dopo aver noi parlato dello stato dell' uomo supposto dal signor Cousin anteriore alla spontaneità, ci fermiamo a udire la descrizione che egli ci dà dello stato spontaneo, detto da lui anche stato primitivo . « « Da prima, dice, il ME per la sua natural forza compie un atto ch' egli non ha nè preveduto, nè voluto; e in quest' atto il ME non può non appercepire se stesso, ma egli si trova senza cercarsi »(1). » Da queste parole vedesi, che l' atto spontaneo è un atto del ME: il ME agisce per la forza sua naturale (or non si sa come stia tanto tempo senza agire, se la forza gli è naturale), e agendo trova se stesso senza cercarsi. Il ME dunque esisteva prima di agire, poichè non avrebbe potuto agire se non fosse esistito; non avrebbe potuto trovarsi, se non fosse stato. Come dunque farà il signor Cousin a conciliarsi seco stesso, a conciliare queste sue parole con quelle altre, nelle quali insegnò che l' uomo prima di agire sta per lungo tempo nella condizion della pianta, « « e che il ME non esiste che pel combattimento, cioè per l' atto con cui oppone la natura a se stesso? »(1) » Seguita a descrivere l' atto della spontaneità: « « Il ME, trovando se stesso, trova anche la sensazione ch' egli non ha fatta, e per conseguente la natura esteriore, ch' egli reputa NON7ME; ed egli appercepisce il ME e il NON7ME come limitantisi mutuamente: in fine travede un essere nel quale il suo pensiero s' affonda, senza trovarvi limite »(2) » Qui il signor Cousin ha bisogno di nuove conciliazioni con se stesso. Dice che il ME trova la sensazione; dunque la sensazione esisteva prima dell' atto spontaneo: come dunque dice altrove, che l' uomo prima di quest' atto non sente, e che fa bisogno « « che si svegli la coscienza (propria dell' ordine intellettuale) acciocchè la sensazione si produca? »(3) » Dice che il ME trova la sensazione, ch' egli non ha fatta: come dunque s' accorda con ciò che dice altrove, che « « la sensazione stessa è un fatto attivo? »(4) » Come l' attribuisce alla forza attiva del ME, dichiarando fin anco, che è uopo che ci abbia cognizione, acciocchè ci abbia sensazione, piacere, dolore? (5) Di più, il ME agisce; il ME si trova; il ME trova la sensazione ch' egli non ha fatta, e per conseguenza trova la natura esteriore. Ma se trova la natura esteriore per conseguenza , dunque la deduce per ragionamento; la trova perchè egli trova la sensazione che non ha fatta; e perchè non l' ha fatta, giudica che la natura esteriore è NON7ME. Ora questo è un ragionamento: qui si dà successione; si danno principŒ, induzioni, conseguenze. Non è dunque vero che quest' atto della spontaneità sia un atto solo, ma egli si compone d' una successione di atti parte sensitivi e parte intellettivi. Questi atti si succederanno rapidamente quanto si voglia; alcuni di essi coesisteranno; ma egli sarà sempre proprio del filosofo il distinguerli accuratamente, il separare i primi dai secondi e dai terzi, e non farne un atto solo, come pretende il signor Cousin. E non è egli medesimo che dice: « « L' idea della causa ME precede l' idea della causa NON7ME; poichè niente precede l' idea del ME: ella è il centro, onde tutte l' altre sono raggi? »(6) » Se dunque le altre idee sono raggi che escono dall' idea del ME come da centro, devono essere a quella posteriori. Di più, io vedo bene, come non vi possano essere i raggi se non vi è il centro; ma io posso concepire, in qualche modo, il centro senza i raggi. Non è dunque vero che l' idea del ME e del NON7ME siano al tutto correlative. Io accordo che una correlazione si trovi, ove si consideri il ME semplicemente come il principio della sensitività animale; ma nego ch' ella si trovi nel ME considerato come un essere intelligente: anche questo errore dunque del signor Cousin nasce a lui dall' aver adunate insieme la sensitività e l' intelligenza , e parlato di questa colle frasi che non convengono che a quella sola. Per altro ripeto, che la mente del signor Cousin non essendo fatta per radere il terreno co' sensisti, se il fa talora, è costretto di espiare il fallo con una felice contraddizione. Tale io stimo esser quella dove, dopo aver analizzato il fatto della spontaneità come fosse un atto solo, avvolgente tre idee correlative, fa poi che queste idee sieno figlie di tre facoltà diverse, quasichè se sono diverse tra loro le facoltà che a quell' atto concorrono, non sia per sè evidente, che non trattasi più d' un atto solo, ma di molti specificamente distinti e aventi un ordine fra essi (1). Egli è appunto quest' ordine che hanno tra loro i fatti primitivi dello sviluppo umano, che gli sarebbe bisognato attentamente considerare, e che l' avrebbe potuto guardare da molti sbagli: ne accennerò uno de' più importanti. Avendo egli confusi questi atti diversi in un atto solo avente un triplice oggetto, cioè il ME, la natura e l' infinito, egli ne trasse per conseguenza, che niuno di questi oggetti potea stare senza gli altri due. Veramente tale conseguenza non sarebbe stata neppure necessaria, quand' anche quei tre oggetti fossero contemporanei, e condizioni all' atto della spontaneità. Ma riprenderemo poscia questo mancamento logico: or ci basti di far osservare l' errore. Consideriamolo nelle sue stesse parole. « « L' appercezione di quest' ultimo termine (cioè dell' infinito) rende sola possibile l' appercezione del finito, come alla sua volta la veduta del finito è la condizione indispensabile della veduta dell' infinito. - Ogni fatto intellettuale riflesso può dunque esporsi sotto questa formola: Non si dà finito senza infinito, e reciprocamente; e nel seno del finito non si dà ME senza il NON7ME, e non si dà il NON7ME senza il ME: tale è il cominciamento e la fine della vita filosofica »(1) » Questi tre elementi trovati nell' atto riflesso, li pone anche nell' atto spontaneo, e dal trovarsi uniti nel pensiero, com' egli crede, passa ad una conclusione ontologica, affermando che sono indivisamente congiunti anche in se stessi. Quindi l' immenso errore che l' infinito abbia bisogno del finito per esistere, il necessario del contingente, la sostanza dell' accidente, ec.. « « Noi abbiamo veduto, dice, che la causa suppone la sostanza , e che la sostanza non ci è manifestata che per l' accidente. La loro apparizione nella coscienza è dunque simultanea, e la loro simultaneità nella coscienza non è che il riflesso della loro coesistenza reale al di fuori di noi: in effetto, se la causalità suppone l' essere, l' essere alla sua volta non esiste che a condizione d' agire, cioè a dire d' esser causa. Così, tanto in ontologia, quanto in psicologia, l' essere e la causa sono inseparabili, poichè l' accidente o il modo implica l' intervenzion della causa, ed egli è impossibile di concepire o l' accidente senza l' essere, o l' essere senza l' accidente »(2) » Ma qui primieramente ci ha un salto mortale dall' ordine psicologico all' ordine ontologico . Dall' essere due cose nella nostra coscienza simultanee, non si può inferire logicamente, che sieno simultanee anche in fatto. « La loro simultaneità nella coscienza, dice il professore, non è che il riflesso della loro coesistenza reale fuori di noi. »Questa parola riflesso è una metafora e non più: e una metafora non ha valore in filosofia. Perchè l' argomentazione del signor Cousin fosse efficace, essa non dovrebbe essere appoggiata sul semplice fatto della simultaneità di quelle due idee nella nostra coscienza (fatto d' altra parte non provato), ma dovrebbe avere per sostegno la necessità logica, cioè dovrebbe dimostrarsi che il concetto dell' infinito racchiude o più tosto chiama od esige come correlativo il concetto del finito . Ora primieramente il signor Cousin non ha diritto di usare delle regole logiche, pretendendo egli di dedurle da fatti reali. Perciò non può, senza petizione di principio, ammetterle già in principio della sua filosofia. In secondo luogo, egli potrà provare bensì che il finito ha bisogno dell' infinito per essere concepito; ma in niuna maniera potrà logicamente provare che l' infinito abbia bisogno del finito per esistere. Se mi dirà che l' uomo non si forma l' idea dell' infinito che levando i limiti alle cose finite, egli prima di tutto dovrà abbandonare il suo sistema, facendo che l' idea dell' infinito sia un' idea ben posteriore a quella del finito. In secondo luogo, egli non avrà risposto punto nè poco alla questione. Poichè egli mi avrà ben detto come l' uomo, intelligenza limitata com' è, proceda nel formarsi l' idea dell' infinito; ma non mi avrà mica dimostrato con questo, essere assurdo il pensare, che l' infinito sussista senza aver a fronte il finito, quasichè non sia più tosto assurdo il dire, che l' infinito sia condizionato nella sua esistenza dal finito, o quasichè non cessasse d' essere infinito ciò che dipende necessariamente dal finito. Dice il professore, che « l' essere non esiste se non a condizione di agire, cioè di esser causa. »Ma egli confonde due cose ben diverse, l' agire e l' esser causa . L' esser causa è quanto un produrre qualche cosa diverso da sè; ma l' essere può agire , senza produr nulla da sè diverso: lo stesso esistere è un' azione, lo stesso concetto dell' essere è quello di un atto primo; e i teologi assai acconciamente dicono, che Iddio è atto purissimo appunto perchè è purissimo essere; e tuttavia non l' obbligano per questo a produrre nulla fuori di sè, nulla di contingente e di finito. Se il concetto dell' essere involgesse quello di causa, come vuole il signor Cousin, se l' essere non fosse se non a condizione di produrre qualche cosa da sè diverso, niun ente potrebbe esistere nè anche un istante senza produrre, poichè ciò che è assurdo non può aver luogo nè pure per un istante. Il sostenere che fa il nostro professore, che non si può dar l' essere senza che si dia l' accidente, è un errore che lo conduce alle più strane conseguenze: dopo avere reso coeterno all' essere infinito il finito, cosa che conduce a stabilire l' eternità del mondo, egli arriva fino ad ammettere degli accidenti in Dio, proposizione non meno erronea in teologia che in filosofia (1). Tutte queste stranezze, chè con altro nome non saprei chiamarle, sono inevitabili, dopo aversi posto per base della filosofia quell' atto della spontaneità, concepito alla foggia del signor Cousin. Egli è vero, che nel mio sistema s' annunzia un fatto simile; ma questo fatto non è per me primitivo, non è unico e semplice, non involge in se stesso la necessità che vi suppone il signor Cousin. Il fatto di cui parlo, che corrisponde al fatto spontaneo del signor Cousin, e che forse fu quello che, male osservandolo, l' ha traviato, è la percezione . Noi abbiamo analizzata lungamente la percezione intellettiva , e abbiamo mostrato ch' ella si compone delle seguenti parti: 1 della sensazione animale (lasciando ora da parte l' irritazione organica, che non è che una circostanza concomitante fuori del fatto della sensazione); 2 dell' intuizione dell' essere in universale; 3 dell' affermazione , o giudizio di una realità agente in noi. Abbiamo veduto che queste tre parti sono tre atti distinti dello spirito umano appartenenti a tre distinte potenze. Il loro ordine si è, che ciascuno de' due primi è indipendente dagli altri due; ma il terzo non può compirsi senza i due primi, perchè pone una relazione fra i due primi: cioè vi può essere sensazione animale senza intuizione e senza giudizio; vi può essere intuizione senza sensazione e senza giudizio; ma non vi può essere giudizio senza che v' abbia prima sensazione e intuizione, che costituiscono la materia e la forma del giudizio e della percezione stessa. Io ho poi analizzata ciascuna di queste tre parti della percezione intellettiva. Nella sensazione ho trovato qualche cosa di permanente e qualche cosa di variabile . Ciò che è permanente nella sensazione fu appellato da me sentimento fondamentale: le modificazioni del sentimento fondamentale, che è la parte variabile, furono dette sensazioni acquisite , o semplicemente, sensazioni . Di più, tanto nel sentimento fondamentale, quanto nelle sue modificazioni, ho trovato un principio senziente, il quale viene appellato poscia dall' intelletto, che lo concepisce, col monosillabo IO. Ho trovato una passività di questo IO, un agente diverso dall' IO, un NON7IO. Ho dunque riconosciuto nell' ordine della sensazione una opposizione dell' IO e del NON7IO, e, se si vuole, anco una specie di lotta fra loro. La sensazione dunque per noi è duplice; ma non è niente più che duplice. Ma ora si applichi alla sensazione l' intelligenza. Questa giudica tantosto, data la sensazione acquisita, che ci sia una realità, o un agente, che è quanto dire, percepisce la realità esterna. Ma questo giudizio, o sia percezione, non prende già per oggetto il ME, ma il solo NON7ME, di cui così acquista l' idea . Ora a qual condizione può l' intelligenza acquistare quest' idea, formare questo giudizio? Questo giudizio non è se non l' affermazione che esiste una realità. Esso non può dunque farsi se non a condizione che l' intelligenza abbia l' intuizione dell' essere , ossia dell' esistenza; a condizione cioè ch' ella riconosca un essere in quel principio che agisce nella sensazione. Ora io provai che quest' essere che ella intuisce antecedentemente alle sensazioni acquisite, è universale, e perciò infinito , sebbene non gli appartenga propriamente il titolo di essere assoluto (1). La percezione dunque della realità esterna non si ha se non a condizione dell' IO e del NON7IO, del finito e dell' infinito. Ma l' IO non è in questa percezione un' idea , ma un sentimento: il NON7IO è prima un sentimento, di cui poscia l' uomo si forma l' idea compiendo il giudizio, e con esso la percezione. L' intuizione dell' essere è idea , ma non più; non è idea dell' essere assoluto. Di più, questo fatto complesso della percezione spontanea, oltre non esser semplice, non prova in alcun modo, che il finito e l' infinito siano condizioni uno dell' altro; e se un fatto potesse essere fondamento d' una necessità, proverebbe unicamente, che il finito non si può concepire senza l' infinito, non viceversa. Finalmente io ho mostrato che questo fatto della percezione, sebbene sia quello onde comincia a svolgersi l' umano intendimento, e perciò corrisponda al fatto spontaneo del Cousin, tuttavia non è primitivo assolutamente. Antecedentemente alla percezione , l' uomo non è un essere fisiologico come la pianta, non vive della sola vita della materia: anche allora egli ha una doppia vita, una vita sensitiva e una vita intellettiva. Questa doppia vita è ciò che lo costituisce, ciò che forma la sua propria essenza. L' uomo è sentimento ed intelligenza; egli dunque sempre sente e sempre intende; ma nel suo primo stato il suo sentire è equabile e senza variazione. Un tal sentire non può tirare a sè l' attenzione intellettiva: egli dunque non ha coscienza del suo sentire. Questa maniera di sentire la chiamo sentimento fondamentale . L' uomo anche intende tosto che è; che anzi questo intendere è il suo essere; ma questo intendere non ha oggetti finiti, non ha moltiplicità, non ha differenze: ha solo un oggetto equabile e senza limiti. Un tale oggetto, che non subisce variazione, non può eccitare la curiosità, nè muovere la riflessione. Non può che costituire una contemplazione immobile, uniforme, senza gradi e senza moto. Questo intendere dunque dee essere privo di coscienza , e non può cagionare nell' uomo niuna attività parziale. Il pensiero, equabilmente e immobilmente sparso nell' infinito, non può concentrarsi in cosa alcuna distinta. L' intelligenza insomma essenziale all' uomo è formata dall' intuizione dell' essere in universale . Da tutto ciò voi potete vedere in che differisca il mio sistema filosofico da quello dell' eloquente professore di Parigi, il signor Cousin.

Psicologia Vol.III

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

E` dunque ufficio della filosofia, e propriamente della dialettica, il distinguere l' ente mentale , opera della mente, dall' ente vero ed oggettivo, od oggettivabile; e non ragionare di quello come se fosse questo; nel che solo sta l' errore. Nel quale errore è cosa a cader facilissima. Perocchè la mente non solo cangia le sue negazioni in enti positivi, a cagione dei vocaboli o segni a cui ella affigge i suoi concetti, i quali sono atti positivi; ma talora fa anche il contrario, vestendo di una forma negativa il positivo. Di più, il positivo ed il negativo lo tramuta a suo piacere mediante la forma di cui lo veste, e ciò che essendo negativo fu da lei reso per via della forma positivo, torna a vestirlo di forma negativa, e poi lo riveste di altra forma positiva, e così fa un composto di concetti mentali, l' uno involuto nell' altro, mediante quante forme le piace di mettergli attorno. Il qual fatto si vede manifestamente nell' algebra, dove si pone qualunque segno si voglia, o negativo o positivo, a qualunque quantità, o positiva o negativa; e però si nega la negazione, e ancora si nega la negazione negata e così via; perocchè io posso scrivere una quantità positiva con due segni negativi..., e posso scrivere quantità negativa con un segno positivo..., e posso dare a qualunque quantità tutti i segni che voglio, senza che cessi mai di essere positiva o negativa, com' ella era al principio. Lo stesso accade nel linguaggio. Se io dico: « a Dio non manca cosa alcuna », dò forma d' una doppia negazione alla più grande delle affermazioni, perocchè quella proposizione equivale a quest' altra di forma positiva: « Iddio ha tutto ». Ora, questo deve essere il primo ufficio del dialettico, volendo arrivare al fine di una disputa: prendere la proposizione di cui si disputa, e trarle d' attorno, l' una dopo l' altra, tutte le camicie che le ha indossato la mente coll' opera principalmente del linguaggio; e ridottala nuda, come ella è in sè stessa, osservare se la forma sua primitiva è una negazione o un' affermazione. Perocchè così il ragionamento è semplificato, e si spaccia prestamente dai sofismi, a cui dànno luogo quegli inviluppi lavorati dall' operazione soggettiva dell' umano intendimento. Si consegue altresì, con un tale processo, che apparisca assai chiaro se ciò che si predica di una cosa sia un accidente della cosa stessa o una mera relazione colla mente. Quando, a ragion d' esempio, Platone ed Aristotele riprendevano Parmenide di contraddizione per aver detto uno l' ente, e non di meno averlo detto eterno , e così posta nell' ente la pluralità della sostanza, «ten usian», e dell' accidente, «symbebekos» (1), l' italiano filosofo avrebbe potuto replicare così: « E` vero che, predicando l' eternità del mio ente, la forma del discorso divide in esso due cose: l' essere ente e l' essere eterno; ma questa divisione sta solo nella forma del concepire soggettivo e di esprimere la cosa; poichè l' eternità non è che una relazione esterna che concepisce la mente, è una negazione del tempo o della cessazione; onde non pone nulla nell' ente oggettivo più che l' ente stesso; anzi il vero valore di quel predicato è questo, che per esso s' impedisce di trovarsi nell' ente il molteplice, si riduce ad una negazione della molteplicità e dell' accidente ». Tale è dunque l' opera a cui deve applicarsi il dialettico: distinguere le forme diverse colle quali la mente vestì e rivestì, e soprarivestì un concetto o una sentenza, rimettendola nello stato suo primitivo e semplice. I diversi sensorii dell' uomo spezzano l' ente: questa è propriamente analisi cosmologica, cioè somministrata al principio razionale dal suo termine (il mondo). L' analisi comincia ad essere psicologica, quando il principio razionale divide ciò che non è diviso nel senso, e dai sentimenti passivi ed attivi (bisogni sensibili). All' analisi cosmologica risponde una sintesi pure cosmologica, e consiste nell' unire, che fa il principio razionale, le diverse rappresentazioni sensibili, che i suoi vari sensorii gli dànno del medesimo ente, accorgendosi che trattasi di un ente solo, variamente rappresentato nei vari effetti prodotti dalla sua azione in vari sensorii. Questa sintesi è da noi ancora detta cosmologica, perchè è il mondo, termine del sentimento, che somministra il legame a tutte le varie sensazioni e percezioni di un corpo; e questo legame è l' identità dello spazio occupato dal corpo agente in modi sì vari (1), sicchè le varie sensazioni sono diverse pel loro diverso tocco, non pel diverso spazio che occupano; le varie parti dello spazio isolatamente prese sono indiscernibili dall' uomo, perchè una parte dello spazio è come l' altra, quando non se ne possano distinguere i confini e la situazione nello spazio totale. Ora, niun sensorio distingue la situazione e i confini del proprio spazio, perocchè, come dicemmo, i confini dello spazio di un sensorio non sono sensibili allo stesso sensorio; onde il principio razionale non riceve da un sensorio solo il modo di conoscere la situazione, ovvero i confini dello spazio totale di quel sensorio. Ciascun sensorio non somministra al principio razionale se non la situazione e le parti relative alla totalità dello spazio suo proprio, non la situazione e i confini di questa totalità. E poichè la situazione, i confini di tali parti, la proporzionale loro distribuzione nei vari sensorii è identica, perciò lo spazio altresì sembra identico, come abbiamo veduto dello spazio che occupano le sensazioni del tatto e quelle della vista, due sensi che presentano lo spazio più accuratamente disegnato internamente in varie parti. Di qui, dunque, accade che l' uomo non moltiplichi i corpi secondo i suoi sensorii, ma solo le loro rappresentazioni, e tutte queste le riferisca ad un ente solo, che dice tattile, colorito, gustoso, sonoro, ecc.: questa è sintesi cosmologica . Dal qual fatto ebbe origine la distinzione fra la sostanza e gli accidenti; perocchè quell' ente unico, a cui riferisce tutti gli effetti che riceve nei suoi sensorii, l' uomo lo chiama sostanza; e questi effetti glieli attribuisce come suoi accidenti, e ciò perchè, essendo essi per l' uomo rappresentativi di lui, l' uomo non disgiunge la rappresentazione dal rappresentato, essendo quella che gli fa conoscere questo, e questo svanendogli innanzi, se lo vuole al tutto svestire di quella. Vero è che gli effetti, che un corpo produce nei sensorii, sono diversificati dalla varietà dei sensorii; ond' è che al corpo agente appartiene un' azione sola nel principio sensitivo, ed un' altra nel termine di lui, che è il corpo animato, e non più; anzi queste stesse diversificano forse unicamente per la natura diversa del principio sensitivo e del suo termine, in cui accade l' operazione. Spiegata così l' origine del concetto di sostanza , è spiegata altresì quella di specie, sia piena , sia astratta . La specie piena è la specie o concetto dell' ente vestito di tutti i suoi accidenti; la specie astratta è la specie dell' ente spogliato dei suoi accidenti, lasciatogli solamente quel vincolo, quell' unità, a cui tutti gli accidenti rappresentativi si riferivano. Noi abbiamo detto che la specie astratta è quel concetto che ci fa conoscere « « l' atto pel quale l' ente sussiste »(1) »; ma non abbiamo determinato quale sia quest' atto; ora possiamo farlo. Noi conosciamo positivamente gli enti per gli effetti che le loro azioni producono nei nostri sensorii, e più generalmente nel nostro sentimento. Ora il sentimento stesso somministra talora un fondamento, pel quale il principio razionale si accorge che un gruppo di effetti si debbono attribuire ad un ente solo, come accade nel concetto dei corpi che si forma, perchè il sentimento dà la percezione di una forza che si espande in uno spazio solo, benchè in quel medesimo spazio si abbiano sensazioni di diverso tocco (2); onde si conchiude che è una forza sola, un agente solo che produce quei molteplici effetti. Quindi quella forza, quell' agente unico diventa la specie astratta; e l' astrarla è l' opera del principio razionale, perocchè i sensorii non dànno che quella forza o agente, vestito ora di certi suoi effetti, ora di certi altri; ma sempre di questi vestito. Che se noi esperimentiamo un altro gruppo di effetti che non hanno lo stesso legame, la cui unità non è data nel sentimento, come, poniamo, seguitando coll' esempio dei corpi, se non si riferiscono allo stesso identico spazio, noi formiamo tosto di cotesto secondo gruppo un altro ente, e ne abbiamo un' altra specie. Così si origina per noi la moltiplicità degli enti . Ma il gruppo degli effetti sensibili può differire solo quanto alla realità. In tal caso, essendo nel resto simili, essi si conoscono per la stessa idea o specie. Quindi avviene che la loro moltiplicità sia moltiplicità d' individui e non moltiplicità di specie, nè diversità di specie astratta, nè diversità di specie piena; perocchè anche alla specie piena possono corrispondere più individui nell' ordine della realità, e in ciascuno di essi essere la sostanza e gli accidenti, giacchè la diversa realità moltiplica sì quella che questi. Quando, dunque, noi dicevamo che le specie astratte si dividono secondo l' atto diverso dell' essere, intendevamo secondo l' atto dell' essere ideale, e non secondo l' atto dell' essere reale. Perocchè la diversità degli atti dell' essere reale moltiplica solamente gli individui reali. A questi poi risponde una specie sola astratta; onde nell' ordine dell' idealità l' atto dell' essere rimane uno e identico, e però una sola è la specie astratta, una sola la sostanza ideale di più individui eguali. Noi abbiamo detto che la specie astratta rimane la stessa, quando i diversi gruppi di effetti sensibili, che ci fanno conoscere l' ente, non differiscono che per la loro diversa realità. Ora, parrebbe a questo contrario il vedere che nei diversi gruppi di effetti sensibili, rispondenti alla stessa specie, si dà qualche varietà, oltre la realità diversa, senza che perciò si muti la specie astratta: così una pera può variare di grandezza, di colore, ecc., dalle altre pere e da sè stessa considerata in tempi diversi, e tuttavia tutte si conoscono colla stessa specie astratta di pera. Al che si risponde che il gruppo degli effetti sensibili rappresentanti un solo ente deve prendersi nella sua totalità, e però se la stessa pera ha diversi aspetti percepita in diversi tempi, questi aspetti od effetti sensibili, benchè successivi, appartengono allo stesso gruppo; e così dicasi delle varietà, che si trovano nelle varie pere individuali. Quale è dunque il principio che moltiplica gli individui? - La loro diversa realità . Quale è il principio che moltiplica gli enti? - Come l' ente finito è costituito da quell' unità che giace nel gruppo dei suoi effetti sensibili, per la quale unità questi sono appunto così aggruppati che si dimostrano tutti effetti di uno stesso agente, la quale unità rispetto al corpo trovasi nell' identità di spazio, rispetto all' anima nell' identità di sentimento, ecc.; così la moltiplicità degli enti è data nel sentimento che si ha dei medesimi, quando in questo sentimento si sente un principio o cagione unica di certo numero di effetti sensibili, e si sente che a quel principio o cagione non si possono in nessuna maniera attribuire altri effetti sensibili, spettanti ad altro principio o cagione unica, che pur si sente. Noi chiameremo fondamento sensibile dell' ente questo principio o cagione di un dato gruppo di effetti, e diremo che gli enti si moltiplicano come si moltiplicano i loro fondamenti sensibili. Quale è il principio che moltiplica le specie piene? - Nelle specie manca la realità dell' ente, e però manca quella moltiplicità che nasce dalla diversa realità. Il diverso fondamento realmente sensibile moltiplica gli enti; ma se questa moltiplicazione è per via di realità, in tal caso a più fondamenti sensibili, diversi per la sola loro realità diversa, corrisponde una specie sola. Ora i fondamenti sensibili sono dati dal sentimento vestiti del gruppo dei loro effetti; e ai sentimenti sensibili così vestiti risponde la specie piena. Accade però che tutti gli effetti sensibili, che si attribuiscono allo stesso fondamento, non possono essere contemporanei, l' uno escludendo l' altro; per esempio, se un corpo è rosso, non può essere giallo; la specie piena poi, fa conoscere allo spirito nostro il fondamento sensibile vestito di tutti i suoi effetti sensibili, contemporanei o compossibili; ed è perciò che le specie piene si moltiplicano, perchè lo stesso fondamento sensibile si veste di vari effetti sensibili. Quale è il principio che moltiplica le specie astratte? - Le specie astratte fanno conoscere il solo fondamento sensibile dell' ente; ond' esse sono diverse, quando fanno conoscere fondamenti che sono diversi, prescindendosi dalla loro realità, come pure dal considerare gli effetti accidentali sensibili. La diversità dunque delle specie procede dalla relazione ontologica, che ha l' essere reale coll' ideale; i quali due modi di essere hanno tale relazione fra loro, che non è determinata da altro principio superiore se non dall' ordine intrinseco dello stesso essere. Noi abbiamo posto a principio della moltiplicazione degli enti il loro diverso fondamento realmente sensibile; ma lo spirito umano colla sua facoltà del fingere suppone di tali fondamenti anche quando non sono, e così crea a sè stesso gli esseri mentali, le diverse maniere dei quali appartiene al dialettico il classificare diligentissimamente. Talora lo spirito fa ciò col prendere qualche accidente, qualche effetto sensibile, e considerarlo come fosse il fondamento sensibile di un ente; il che gli è facile a fare, specialmente quando gli effetti sensibili sono così ordinati fra loro che l' uno è condizione precedente dell' altro. Poniamo che cangi in un ente il colore, che è un mero effetto sensibile; in tal caso egli predicherà del colore la grandezza, la forma, il movimento, ecc., considerando il colore come un ente, subbietto di tutte queste qualità. In simil guisa egli cangia in ente ogni astratto, le sue specie possono moltiplicarsi senza che si moltiplichi l' ente a cui si riferiscono, in virtù del potere che ha di restringere lo sguardo della sua mente e di concentrare la sua attenzione. Ma una delle creazioni o finzioni della mente umana più degne di riscuotere l' attenzione del filosofo perchè così spontanea all' umana natura, così necessaria, e però comune al genere umano, si è il concetto di materia. A questa, termine del principio sensitivo, è così essenziale la relazione con questo, che, privatane, non si può più concepire tale qual' è; pure lo spirito la disunisce, e così disunita la considera arbitrariamente come un ente per sè. Ora la materia disgiunta dal sentimento non ha più concetto di ente, ma di un rudimento di ente, di ente in via, senz' avere ancor tocco il suo essere compiuto. Si può adunque domandare se questo concetto di materia sia una specie piena o una specie astratta, o che sia. Ed è evidente che non può essere una specie piena, perchè si prescinde dai suoi effetti sensibili; neppure una specie astratta, che si riferisce anch' essa ad un fondamento sensibile. Non si può adunque classificare un tale concetto se non nella classe dei generi (ideali), i quali sono idee che non rappresentano l' ente, ma qualche cosa dell' ente. Onde la parola materia non significa alcuna specie di enti, ma ciò di cui molte specie di enti si compongono, ed ella ha due aspetti: 1 o si considera la materia, di cui gli enti corporei sono composti, in relazione alla forma, e in tale aspetto ella è cosa al tutto passiva o ricettiva della forma, e pel sintesismo non è senza questa; 2 o la si considera in relazione al concetto nostro, in quell' atto nel quale questo concetto si forma, e in tal caso ella significa ciò che con altro vocabolo noi abbiamo chiamato il sensifero . Che se noi ora vogliamo definire il sensifero, ossia la materia sotto questo aspetto, secondo la dottrina precedente circa l' origine della moltiplicità degli enti, diremo così: al fondamento sensibile risponde nell' ordine ideale la specie astratta, e quando a più fondamenti sensibili rispondono più specie astratte, allora si dice che quei fondamenti sensibili differiscono fra loro di specie e non d' individuo meramente. Ora, se io prendo più fondamenti sensibili di diversa specie, e ne formo un astratto prescindendo dalle loro differenze specifiche, io ho formato il genere di quei fondamenti; e questo genere è appunto il concetto della materia sensifera. Di che si scorge che il concetto della materia è generico (ideale). Ma poichè il fondamento sensibile generico, dal quale per astrazione è stata tolta la specie determinata dal gruppo degli effetti sensibili, è un fondamento sensibile informe, indi apparisce: Che la specie astratta fa conoscere la forma degli enti (1), pigliando la parola forma nel senso antico per ciò che fa essere l' ente quello che è. Che il concetto di materia esclude quello di forma, e però di specie. Ma qui nasce la questione se nella specie astratta o nella specie piena sia compreso l' individuo. Noi abbiamo di sopra dedotto la moltiplicità degli individui dalla realità. Ma altro è che nella specie non si comprenda la moltiplicità degli individui (individui reali), ed altro è che non si comprenda l' individuo (individuo specifico). Diciamo adunque che nella specie, o piena od astratta, non si contiene la moltiplicità degli individui; sicchè colui che avesse sola la specie nella sua mente, non potrebbe mai conoscere il numero degli individui reali di quella specie (almeno parlando delle specie degli esseri contingenti a noi conosciuti), ma nello stesso tempo diciamo che nella specie si contiene l' individuo specifico , cioè ogni specie fa conoscere l' ente individuo, la cui realizzazione può ripetersi più volte senza cangiamento alcuno nella specie. Infatti la forma degli enti, la loro forma compiuta, altro non è che la loro individualità quale nella specie si conosce, e però si dice individualità specifica . Quindi la distinzione fra il concetto di natura e il concetto d' individuo : quella ha due sensi, indicando tanto l' ente informe, per esempio la materia, quanto l' ente formato, e in questo secondo caso risponde alla specie astratta, esprime l' individuo come si trova in questa, non la moltiplicità degli individui reali; onde si applica a ciascun individuo, non a tutti. Così si dirà « la natura umana sussiste in più individui », il che non vuol già dire che sia divisa in più individui, ma che in ciascuno sussiste tutta la natura umana, e chi dicesse che la natura umana è divisa in più individui, parlerebbe impropriamente. La forma degli enti adunque costituisce la loro individualità specifica, ossia ideale; e se si scompone l' individuo, per astrazione in tal caso si distingue la natura e l' individualità, prendendo la natura come l' ente informe, e l' individualità come la sua forma, il suo compimento, l' atto ultimo che lo perfeziona e specifica (1). Le nature dunque, che non hanno individualità, sono informi, non sono enti compiuti; l' individualità è dunque un carattere essenziale dell' ente. Laonde la materia è un ente informe, e in questo senso non7ente; onde se si interpreta il placito di quegli antichi che dicevano prodursi le cose dal non7ente [...OMISSIS...] , come detto delle cose materiali e della causa materiale, non è senza verità. Ma questo ente informe, che non è compiuto ente, si può informare ed individualizzare? La scuola di Aristotele ha detto di sì, ed anzi tutta la dottrina delle forme aristoteliche è tratta dalle forme, di cui si considerò vestita la materia. E sia pure; non vogliamo opporci a questa dottrina, ma vogliamo spiegarla in modo ragionevole. Vogliamo cercare che cosa vi sia di cognizione soggettiva in queste forme concepite dalla mente umana, cioè che cosa vi ponga il soggetto stesso razionale quando ne acquista i concetti, e che cosa vi sia in esse di cognizione assoluta . Riprendiamo il concetto esposto della materia: la materia si concepisce come il « concetto generico dei vari fondamenti sensibili ». Dunque la materia non si conosce che da ciò che ci ha dato il senso, su cui fece il suo lavoro l' astrazione della mente. Ma tutto ciò che presenta il senso alla mente è il termine di lui, e trattandosi, come nel caso nostro, del senso animale, questo presenta alla mente una forza (sensifera) che si spande nell' estensione. L' estensione poi, ora la presenta non figurata, com' è nel sentimento fondamentale e nei sensorii speciali, presa nella sua totalità; ora la presenta figurata, come sono le parti dell' estensione presentata da certi sensorii, dal tatto, dalla vista, ecc.. Nessuno dice che l' estensione non figurata, presentata dal sentimento fondamentale o dai sensorii speciali, sia individuata; tale estensione somministra solo il concetto della natura o dello spazio indefinito . Ma le parti figurate dal termine dei sensorii, queste si dicono individuate, ed è ad esse che dobbiamo il concetto dei corpi speciali. Noi abbiamo veduto infatti che i corpi speciali si unificano mediante il loro fondamento sensibile, che è una parte determinata dello spazio, nel quale si hanno certe sensazioni, che per l' unità appunto di quello spazio diventano a noi rappresentatrici dello stesso corpo, dello stesso spazio. Dicemmo ancora che i fondamenti sensibili vestiti dei loro gruppi di sensazioni sono più, quando la specie astratta con cui si conoscono è una sola; nel qual caso la loro moltiplicazione si fa nell' ordine della realità e non in quello dell' idealità. Così gli individui della specie umana sono molti, e l' uomo7concetto è uno solo; quegli individui si conoscono esser più, non pel concetto di uomo che è uno solo, ma pei diversi fondamenti sensibili reali, i quali sono più; è adunque coll' aiuto del senso (potenza che comunica coll' essere reale) che si conosce la loro pluralità. Trattandosi ora di enti materiali, la loro sussistenza, ossia realità, è materiale. In ogni fondamento sensibile si percepisce adunque una materia (forza diffusa nell' estensione), ed è il gruppo delle sensazioni che la veste, che a noi la determina, e ci fa conoscere ch' ella è una e non un' altra. Ma questo gruppo di sensazioni per opera dell' astrazione si può sciogliere, separarne alcune, ritenerne presenti allo spirito alcune altre. Ora in ognuno di questi gruppi di sensazioni vi è: 1 forza sensifera, 2 estensione figurata, 3 sensazioni di diverso tocco o dello stesso tocco, ma di diversa qualità. Noi possiamo dividere, colla virtù dell' astrazione, questi tre elementi costituenti un corpo in tutte le guise, e formarci così tanti concetti generici ideali. Infatti: Noi possiamo restringere la nostra attenzione alla sola forza sensifera, e in tal caso abbiamo il concetto della materia informe . Possiamo restringere la nostra attenzione all' estensione, e abbiamo il concetto dei corpi matematici . Possiamo restringere la nostra attenzione alle sensazioni di tocco diverso o ad un genere di esse, e abbiamo il concetto dell' accidente o di un genere di accidenti. Possiamo restringere la nostra attenzione a due di quegli elementi, alla forza ed all' estensione, ed abbiamo il concetto di corpo (in genere). Possiamo restringere la nostra attenzione all' estensione figurata, al tocco delle sensazioni, e abbiamo il concetto di accidenti figurati, ossia limitati da una certa estensione. Finalmente possiamo restringere la nostra attenzione alla forza e alle sensazioni di diversa qualità, riferibili ad un altro fondamento sensibile, e abbiamo il concetto delle diverse guise di materia, per esempio, acqua, aria, fuoco, legno, ecc.. Tutti questi concetti sono generici e non specifici; e perciò non fanno conoscere l' individuo, perocchè niuno di essi fa conoscere la forma compiuta. Il primo esclude qualunque forma, gli altri pongono delle forme imperfette, che sono parti della forma. Dove si vede che vi sono dei generi che fanno conoscere la materia, altri una parte della forma, ma non raggiungono perciò l' individuo. Ora, posciachè da una parte il concetto di materia esclude l' individuo, e perciò non ha limite (giacchè è la forma quella che limita le cose limitabili); e d' altra parte la sussistenza delle cose materiali è materiale, quindi s' intende come la materia (secondo il concetto esposto) non si possa moltiplicare, ma bensì dividere in parti, rimanendo sotto tutte le forme lo stesso concetto di materia, perocchè se si moltiplicasse, non sarebbe più materia, ricevendo limitazioni. Quindi la moltiplicazione degli individui viene dalla forma, in quanto questa li fa sussistenti; viene dalla realità della forma, e non dalla materia, come credevano gli antichi (1). Ciò che si dice della materia del tutto informe, si deve dire altresì dei generi di materia, che è il sesto dei concetti sopra enumerati; perocchè non è che l' acqua in più gocce si moltiplichi, essendo in ciascuna tutta la sostanza dell' acqua espressa colla parola acqua; ma bensì si divide in parti, giacchè quella parte d' acqua che è in una goccia, non è nell' altra. Onde avviene della materia, o del tutto uniforme o formata solo genericamente, il contrario di quello che avviene dell' anima, che si può moltiplicare e non dividere . La forma dunque dei corpi, la forma compiuta a cui risponde la specie, è formata da tutto il gruppo di quelle sensazioni rappresentative, che si riferiscono allo stesso fondamento sensibile, e però allo stesso ente; e questa forma individua il corpo. Ma questa individuazione è ella perfetta? V' è in un corpo un assoluto individuo? O pensiamo noi l' individuo nel corpo con una cognizione soggettiva, per quella legge ontologica che ci obbliga a dare a tutte le cose che noi pensiamo la forma di ente, e perciò l' individualità, senza la quale non può esser l' ente? Ecco la questione che ci proponevamo. Noi l' abbiamo toccata altrove, e abbiamo detto che i corpi prendono la loro vera individualità dallo spirito a cui sono termine, ma non l' hanno in sè stessi, perchè per sè stessi, divisi dallo spirito, non sono enti compiuti, e meritano quindi l' appellazione di non enti; appellazione che li distingue tuttavia dal nulla (1). Non sussistono così staccati dal loro principio, e però sono qualche cosa dell' ente, che risponde ad un concetto astratto della mente; quando adunque si considerano i corpi come individui, ciò fa lo spirito per la legge della sintesi soggettiva . Dei corpi poi, uniti allo spirito, si può parlare in due modi: o secondo quello che noi li conosciamo per l' esperienza dei sensi, ed è questa la cognizione a cui rispondono tutti i vocaboli inventati ad esprimere le cose corporee; o secondo alcuni ragionamenti, che per lo meno hanno valore congetturale, nei quali si considerano come effetti d' un agente semplice straniero all' uomo, che dicesi principio corporeo; e sotto questo aspetto non vi è linguaggio da applicar loro con proprietà. Ad ogni modo, se è vero che questo principio corporeo agisce nel nostro spirito, e produce in esso l' effetto del fondamento sensibile e delle sensazioni di cui si veste, i corpi ricevono un' altra individualità, mutuata da questa loro causa prossima; e ciò che si potrebbe dire di questa specie d' individualità è al tutto simile a ciò che si può dire di quella individualità, che essi hanno come termini del nostro spirito. Parliamo dunque di quest' ultima. Una tale individualità, che attribuiamo ai corpi, è di due maniere, perocchè: 1 o si considerano gli elementi corporei, che noi supponiamo estesi e continui; 2 ovvero i corpi composti da questi elementi. Gli elementi corporei non hanno altra individualità che quella che viene loro: 1 dalla continuità dell' esteso che occupano; 2 dalla diversità sensibile dell' esteso da loro occupato. Ora l' individualità, che ha per fondamento il continuo, non è vera individualità, perchè non dà all' ente propria unità, giacchè anche nel continuo qualunque spazio assegnabile, essendo fuori degli altri spazi, non forma con essi un solo e medesimo essere. Quindi apparisce che il continuo non ha quella qualunque unità, che può avere solo dal principio senziente a cui è tutto presente, e che d' altra parte così appunto lo costituisce. E` dunque una sintesi soggettiva del principio razionale l' attribuire agli elementi quella individualità, che è propria solo del principio senziente . Quanto poi ai corpi composti, o sono inorganici od organati. Gli inorganici sono ancor meno degli elementi suscettibili di unità e d' individualità; ma il principio razionale gliela attribuisce, per la stessa legge ontologica secondo cui deve operare per poter pensare le cose, e per la legge psicologica della sintesi soggettiva. A tale uopo nondimeno egli è aiutato dalla composizione delle forze attrattive, che appartiene alla costituzione del mondo esterno, per la quale ogni corpo, avendo un centro di gravità, pare che abbia un' unica forza, che lo determina in una direzione o posizione. Ma poichè la sola forza o causa di moto non costituisce l' ente ed è un' astrazione, perciò quell' individualità, che si può dare ad un corpo per la concentrazione delle sue forze, non è più che un' individualità astratta e non specifica. Si troverà un miglior fondamento all' individualità dei corpi nella loro organizzazione? Rispondiamo che, o questa organizzazione si considera come effetto di forze brute, insensitive, ed in tal caso la sua unità è ancora un' astrazione; l' individualità che ne risulta è individualità astratta, e attribuita dal principio razionale al corpo nel concepirlo per la legge della sintesi soggettiva. Se poi si pone che l' organizzazione sia formata e dominata da un principio sensitivo, in tal caso si trova in questo principio sensitivo, nella sua perfetta unità e semplicità il vero fondamento dell' individuo; ma l' individuo allora non è più il corpo, ma è il composto di principio (senziente) e di termine (sentito); perocchè questo composto è veramente uno ed indivisibile. Dalle cose dette si deduce una regola per conoscere quale sia l' idea specifica, poichè risulta che è quella idea, la quale fa conoscere un ente, e un ente individuato. Acciocchè poi faccia conoscere un ente, è necessario che faccia conoscere il fondamento sensibile dell' ente, o qualche cosa che faccia l' ufficio di quello, l' ufficio di soggetto, di causa prossima, in una parola di punto d' unione di quel gruppo di qualità che lo determinano; le quali o vestono l' ente, e se ne ha l' idea specifica piena, o si astraggono ritenendo la sola relazione che ha il fondamento dell' ente con esse, e se ne ha l' idea specifica astratta. Noi abbiamo poi descritta un' altra sintesi, che fa il principio razionale guidato da quei diversi sentimenti del principio senziente, in cui si rifondono e risolvono più sensazioni diverse, rappresentanti diversi enti; per esempio, varie sensazioni recano all' animo il sentimento della gioia o della tristezza, ecc., i quali sentimenti divengono quasi il nastro, che lega insieme nel pensiero le azioni di enti diversissimi, ed è un altro fonte dei generi che si compone lo spirito umano. Ancora, lo spirito umano quando è pervenuto al suo operare libero, fa sintesi di ogni maniera, legando insieme arbitrariamente qualsivoglia complesso di cose, e considerandolo come unità; il che gli giova mirabilmente ad abbreviare i suoi ragionamenti, come si vede nell' algebra, per esempio nel calcolo delle funzioni analitiche, dove una funzione di una o più lettere rappresenta sotto l' aspetto di una cosa sola tutte le infinite maniere, onde quella lettera e quelle lettere possono essere legate seco stesse o con altre quantità; e le lettere medesime sono già una sintesi arbitraria di quante unità si voglia, e connesse insieme come si voglia, secondo il bisogno del calcolo. A fare le quali sintesi, secondo l' arbitrio, il principio razionale fa uso dei segni; giacchè uno di essi può rappresentare molte e varie cose, secondo ciò che l' uomo stesso ha stabilito e seco medesimo convenuto. Quindi le idee complesse, una sola delle quali può far conoscere qualsivoglia gruppo di altre idee; l' ultima delle quali è l' idea del tutto . Ma l' idea del tutto non è arbitraria, ma ha il suo fondamento in parte nell' unità dell' essere universale, fuori del quale non è cosa alcuna, come osservava Parmenide (1). Non si può dire che egualmente si fondi nell' organismo dell' universo, perocchè l' uomo potrebbe pensare al tutto, anche se l' universo non fosse organato od assembrato, com' è, quasi in un solo grande essere. D' altra parte l' universo propriamente non è il tutto assoluto, ma solo il tutto relativo . Le idee dunque degli enti, siano specifiche sieno generiche, si vanno formando dall' uomo secondo quel modo limitato, nel quale egli con essi comunica pel sentimento; e in questo lavoro l' uomo è limitato da certe leggi, parte cosmologiche, venienti a lui dal termine del suo sentimento, parte psicologiche, venienti dall' anima che si lascia volgere, secondo la sua natura, a rispondere a quei termini che gli sono presentati. I termini poi del sentimento non porgono al senso gli enti, ma dei segni che li rappresentano al principio razionale, cioè delle azioni ed effetti, che ricevono l' indole e il carattere loro dalla natura dello stesso recipiente, cioè dall' anima, che ne è la vera causa efficiente, quando gli agenti da lei diversi non sono che cause eccitatrici . Non è dunque l' uomo col sentimento naturale in comunicazione diretta cogli enti in sè, coi quali non comunica che per via d' intelletto. Dovendo dunque l' intendimento conoscere gli enti (poichè l' ente è l' oggetto suo proprio) dai segni loro rappresentativi, egli non può andar più là nella cognizione di essi di quello che tali segni lo possono menare; è dunque limitato nel suo conoscere a cagione della materia limitata che gli è data, su cui esercitare le operazioni razionali. Il che però non toglie che egli non possa acquistare molte cognizioni intorno agli enti di un' assoluta verità (1). Di qui si vede quanto vana sia quella filosofia che asserisce (dico asserisce, perchè non adduce prova alcuna di sue sentenze) che « l' ordine della cognizione dell' uomo risponde accuratamente all' ordine degli enti »; il che è nulla meno che trasformare l' uomo in Dio. Noi non ci indugeremo a confutare un paradosso contraddetto da tutte le più sane scuole filosofiche. Passeremo piuttosto a indicare la legge dell' analogia soggettiva . La quale è una nuova limitazione, che si aggiunge all' umano conoscimento. Perocchè, se la stessa cognizione di quelle cose, di cui l' uomo ha la percezione sensibile, tiene tanto di limitato e di soggettivo, quanto sarà più accorciato il passo all' intendimento, quand' egli toglie ad argomentare e ragionare di ciò, di cui nulla gli accenna il sentimento, niuna percezione gliene porge? L' analogia ha luogo, appunto, circa quegli enti coi quali il sentimento non comunica immediatamente, e dei quali perciò l' uomo non riceve azione, modificazione, effetto alcuno. Di tali enti che cosa può l' uomo conoscere? Noi dividemmo tutte le cognizioni umane in due grandi classi, che chiamammo di intuizione e di predicazione . Quanto all' intuizione pura e sola, ella non ci fa conoscere che l' essere in universale. La predicazione poi suol cominciare dalla percezione sensibile dell' ente sussistente. Avendo questa, noi conosciamo la sua forma nella specie, cioè nell' essere universale limitato dall' effetto sensibile che a lui si rapporta, e la sua sussistenza nell' affermazione . In appresso analizziamo la forma e la materia, ne conosciamo gli astratti e le parti. Appresso ancora sintesizziamo; e in fine, confrontando più esseri, ne rileviamo le relazioni di vario genere. Ora, se non ci è data la percezione, ci manca il fondamento di tutto questo lavoro. Che cosa può tener luogo di questo fondamento? Dei vocaboli o altri segni, che non hanno alcuna virtù rappresentativa dell' ente di cui si tratta; delle relazioni ontologiche degli enti percepiti coll' ente non percepito, la cui notizia s' indaga. Ora questi enti, che non cadono nella percezione umana, sono di due maniere: 1 altri non cadono nella percezione umana per accidente, come se un uomo fosse tenuto all' oscuro tutta la vita sua, sicchè non avesse mai veduto luce e colori, ovvero fosse nato cieco; 2 altri non cadono nella percezione umana, perchè alieni e lontani dagli umani sensorii o dall' umano sentimento naturale, quali sono gli spiriti puri. Rispetto alla prima classe di questi oggetti, non hanno luogo le relazioni ontologiche se non mediante i vocaboli, perchè essendo essi esseri contingenti, che l' intuito dell' essere in universale e necessario non può rivelare, non rimane altro mezzo di cognizione che i segni non rappresentativi . Tali sono i vocaboli, di cui si compone il discorso di colui che ragiona di colori ad un cieco, i quali non rappresentano a lui i colori per modo veruno. Che cosa dunque dicono al suo intendimento? Quello solamente a lui fanno intendere dei colori che questi hanno di comune coi suoni, e con altri sentimenti o enti sensibili dal cieco percepiti. Ma questo elemento comune è così poco che non costituisce una similitudine, ma una analogia . Che cosa è dunque l' analogia? che sfera di cognizione comprende? - L' analogia non è fondata nel sentimento, ma nella proporzione . Infatti fra gli enti specificamente diversi vi sono sovente proporzioni eguali; il grande, il piccolo, il semplice, il molteplice, e la maggiore o minore moltiplicità o numerosità, ecc., costituiscono delle proprietà che riguardano gli enti, non in quanto sono percepiti e sentiti, ma in quanto sono enti o di un dato genere di enti, per esempio, del genere dei contingenti; e questi caratteri, o note generiche ed ontologiche, non stabiliscono una similitudine fra gli enti, ma appunto quello che si dice analogia . I segni adunque non7rappresentativi danno di tali enti una cognizione analogica, per la quale l' uomo contemporaneamente acquista la cognizione della sussistenza di essi; non acquista la cognizione della loro forma positiva, ma in luogo di questa, di alcune determinazioni, sufficienti per non confondere l' ente con altri, che si possono dire una forma analogica vicaria della positiva. Il somigliante dicasi degli angeli, che sono pure esseri contingenti; se non che di questi, essendo enti completi e non accidenti come i colori, si possono raccogliere altresì gli effetti; ma non gli effetti immediati e rappresentativi, come sono quelli che fanno sentire l' immediata azione dell' ente nel sentimento, la quale azione a noi lo rappresenta; ma gli effetti mediati ed esterni, dai quali argomentiamo la sussistenza, e alcune doti o potenze. Ora poi tali effetti si sogliono riferire a potenze simili a quelle di cui abbiamo positiva cognizione, salvo a concepirle di maggior efficacia, se gli effetti, non differendo di specie, differiscono di ampiezza da quelli che osserviamo avvenire nella natura. Non potremmo però assicurarci dell' esattezza di questa similitudine, giacchè noi sappiamo che talora vi sono di quelle cause, dette dagli antichi equivoche, le quali non serbano coll' effetto somiglianza se non virtuale ed eminente. In tal caso il concetto di tali cause o potenze non potrebbe essere, per noi, se non analogo alle cause o potenze conosciute positivamente. Ma per ciò che riguarda la cognizione dell' essere assoluto ed infinito, cioè di Dio, essa ci può venir da tre fonti: Dalla rivelazione; e questa, ove prescindiamo dall' interno lume di grazia, non ci dà che una cognizione analoga, perchè il mezzo onde ci viene comunicata è quello dei vocaboli, cioè di segni non7rappresentativi. Dagli effetti, cioè dalla creazione, ecc.; e questi ancora non ci danno che una cognizione analoga, non vedendo noi il modo dell' operare, e solo sapendo per argomentazione ontologica che qui la causa è equivoca al suo effetto, e sopra eminente. Dal ragionamento ontologico; e questo ci dà ancora delle cognizioni analogiche di Dio; ma nel tempo stesso che ci dimostra che tali cognizioni sono meramente analogiche, e però del tutto insufficienti a farci conoscere l' Essere supremo positivamente, ci dimostra di più che, come degli enti da noi conosciuti la cognizione positiva che possiamo avere è quella per la quale: 1 conosciamo l' essenza per via di specie; 2 e conosciamo la sussistenza per via di sentimento e di affermazione; Iddio all' opposto non è conoscibile positivamente nè nell' uno, nè nell' altro modo in separato; ma vi deve essere un terzo modo di visione o apprensione intellettiva, della quale non ci è dato esempio in natura, il quale è di sì fatta indole che nell' idea stessa percepiamo la sussistenza. E` dunque da distinguersi due operazioni, che fa la nostra mente rispetto all' Essere supremo; il formarsene una cognizione analogica, e il conoscere che ella è inadeguata e imperfetta; il che è il più alto e vero conoscimento che si possa avere di Dio naturalmente. Ma dichiariamo meglio questa cognizione analogica . Primieramente è da stabilire che Iddio non è intuìto dall' uomo per natura. Chi dice altramente, cade in un errore opposto alla rivelazione, la quale dice di Dio, « quem nullus hominum vidit, sed nec videre potest (1), » ed alla scienza teologica, che insegna noi non sapere di Dio ciò che egli è, ma solo che egli è, e quindi neppure sapere che egli è senza indurlo per dimostrazione (2); opposto altresì al comune senso e alla filosofia, la quale trova bensì necessario a spiegare le cognizioni umane che l' uomo conosca che « cosa sia essere », e però che abbia l' intùito dell' « essere », ma non più, non l' intùito del Primo Essere. Onde il sommo filosofo e teologo d' Italia scrive; [...OMISSIS...] , e riconosce che la virtù o potenza intellettiva non sarebbe, se non avesse in sè una cotal similitudine di Dio (4), che non è Dio, ma bensì l' essere in universale, che acconciamente si può dire simile a Dio, non come due enti reali sono simili, ma come sono simili l' ente reale e la sua essenza ideale che lo fa conoscere; perocchè la realizzazione dell' essenza può dirsi simile alla sua essenza, ma più propriamente direbbesi che l' essenza ideale è la similitudine dell' ente realizzato, onde per quella e in quella questo si conosce (5). Escluso adunque l' errore che l' oggetto dell' intùito naturale sia Dio, rimane a vedere quali possono essere le cognizioni, che noi ci procacciamo naturalmente di questo essere superiore alla natura. L' essere in universale, in quanto è intuìto dall' anima, niente ci fa conoscere di reale, di maniera che con esso solo neppure sapremmo che una realità esistesse. Di più, essendo egli lume semplicissimo ed uniforme, niente in lui si distingue, neppure le idee elementari; giacchè tutte affatto le idee, eccetto quella dell' essere, si riducono sempre a rapporti che le cose reali hanno coll' essere ideale, e a rapporti di rapporti, e ad astratti di tali rapporti, trovati per via di sguardi diversi dello spirito. Conseguentemente anche i primi principŒ del ragionamento, che sono idee applicate, non sono dall' uomo posseduti per natura, ma formati col riferire gli enti reali all' essere in universale. Quindi è che le somme idee ed i sommi principŒ stessi tengono di quella limitazione che hanno gli enti reali, onde sono originariamente cavati pel lavoro del nostro spirito; e gli enti reali sono quelli che noi percepiamo col sentimento, e prima di tutto gli enti corporei. Il solo essere in universale non ha limitazione alcuna, ed è quello che dà all' uomo la facoltà di conoscere le limitazioni delle sue stesse idee, e di non cadere nell' errore di credere illimitato ed assoluto quel sapere che è limitato e relativo; il che assicura all' uomo il possesso della verità. Pigliamo ad esempio alcune delle idee più generali, che si convertono poscia in principŒ direttivi del ragionamento. Essenza e sussistenza . - Le cose tutte che cadono nella nostra percezione, essendo contingenti, non hanno la loro sussistenza nella loro essenza, e perciò si possono pensare e tuttavia non sussistere. Quindi accade che ogniqualvolta noi pensiamo l' essenza, ne pronunciamo il vocabolo, non intendiamo d' inchiudervi la sussistenza, ma poniamo quella senza di questa. Noi non abbiamo altro concetto dell' essenza di una cosa che questo, e però non abbiamo altro linguaggio. Quando adunque pensiamo a Dio, che non cade nella nostra percezione, noi gli applichiamo il concetto così limitato dell' essenza, ed il concetto pure così limitato della sussistenza, e ragioniamo di lui secondo l' analogia di tali entità conosciute. Non avendo dunque un vocabolo che esprima l' identità dell' essenza e della sussistenza, il quale solo sarebbe proprio ad esprimere l' Ente supremo, noi siamo costretti ad applicargliene due imperfetti, ed in tal caso dobbiamo parlare dell' essenza divina e della sussistenza divina in separato, come fossero due cose; nè possiamo attribuire senza errore all' essenza divina quello che spetta alla sussistenza, nè viceversa, benchè in Dio siano una cosa sola. Quindi, osservano sapientemente i teologi, si può bensì dire con verità che « Iddio (sussistenza, sussistente persona) genera Dio (un' altra sussistente persona) », ma non che « la deità (l' essenza) genera la deità (un' altra essenza) ». Questo secondo detto verrebbe a porre più Dei, laddove il primo non pone che più persone, perchè la parola sostantiva Dio, presa per sussistenza, riceve il valore di persona. Vero è che poscia il ragionamento ontologico (quello che si fa raffrontando all' ente in universale i ragionamenti da noi fatti coll' aiuto delle idee derivate) corregge il nostro limitato pensare, e dimostra imperfetto il nostro linguaggio; ma esso non ha niente a sostituire; ci protegge dunque dall' errore, ma non ci somministra perciò altre idee ed altri vocaboli accomodati alla divinità, coi quali potessimo ragionare di essa accuratamente; onde noi rimaniamo sempre nella necessità di prendere questa via tortuosa: 1 di ragionare di Dio colle idee imperfette ed analogiche cavate dalle contingenti nature, le sole che abbiamo; 2 di riconoscere poscia che questo nostro discorso è imperfetto, limitato, inadeguato, senza poterlo tuttavia mutare in un altro perfetto, illimitato, adeguato al grande argomento (1). Essenza generica, essenza specifica astratta, essenza specifica piena (formata, individuata). - In Dio non cadono queste distinzioni, ma le idee colle quali noi ragioniamo (e non ne abbiamo altre) appartengono sempre all' uno od all' altro di quei tre modi. I vocaboli pure con cui ragioniamo, segnano quei tre modi di idee. Dunque, anche ragionando di Dio non possiamo a meno che usare di tali vocaboli e di tali idee, al tutto inadeguate e discordi dall' essere divino. Sapienza, bontà, potenza, ecc., sono idee generiche esprimenti le perfezioni astratte degli enti; deità è idea specifica astratta; Dio come nome comune è essenza specifica, piena, individuata; preso come nome proprio è sussistente persona. Ora con queste idee l' uomo ragiona dell' Essere supremo, e applica a lui i vocaboli che le esprimono. Ma in Dio propriamente non vi è nè alcuna essenza generica, nè essenza specifica o astratta o piena; egli è un essere sussistente, semplicissimo, senza divisione di sorte. Questa divisione nondimeno ve la poniamo noi, applicando a lui quelle idee cavate dalla percezione degli enti contingenti, nei quali cadono tali distinzioni reali, che quelle idee distinte e separate l' una dall' altra fanno conoscere. Non avendo noi quaggiù altro mezzo di conoscere che l' uso di quelle idee, siamo costretti di tentare con esse di conoscere anche Dio, e in parte lo veniamo a conoscere veramente; perchè sopraggiunge il ragionamento ontologico, il quale ci dice: 1 che ciascuna di quelle perfezioni che sono separate fuori di Dio, in Dio sono lo stesso Dio (1); 2 che la deità, che noi concepiamo come una forma astratta, in Dio è lo stesso Dio sussistente (2); 3 che finalmente Dio, che suol prendersi da noi per un nome comune, onde viene applicato dagli uomini a più esseri benchè falsamente, non esprime una specie, ma sì bene un vero essere sussistente. Ma il ragionamento che ci dice che così deve essere rispetto all' Essere supremo, non ci spiega però come ciò sia, vale a dire non ci mostra nessuna perfezione sussistente, nessuna specie astratta sussistente, nessuna specie piena sussistente; onde ci dice quello che Iddio non è (non essendo nulla di diviso in genere, specie e sussistenza), ma non ci dice già quello che è: « una sussistenza, che nella sua semplicità racchiude ciò che ha la specie ed il genere »; non ci mostra, non ci fa percepire, pensare una tale sussistenza, più che la definizione del colore lo faccia pensare al cieco; ci mostra i termini, ma non il loro nesso, nel quale consiste l' essere divino. Questi sono principŒ comuni presso i teologi ed i filosofi più famosi; e come sono immutabili, così provano che è contrario alla fede cattolica, non meno che al filosofico ragionamento quel sistema, il quale insegna: Che l' ordine delle nostre concezioni è perfettamente eguale all' ordine delle cose; il che non si avvera per le cose divine, e per tutte quelle di cui non abbiamo percezione. Che Iddio sia l' oggetto del naturale intùito della mente umana, nel qual caso la mente umana potrebbe avere concezioni adeguate all' Essere supremo. Questi due principŒ sono due errori gravissimi in sè, gravissimi nelle loro conseguenze, l' una delle quali è il panteismo. Concludiamo: Intorno a Dio ed alle cose che non cadono nella nostra percezione noi siamo obbligati, per legge soggettiva del principio nostro razionale, a ragionare secondo l' analogia delle cose da noi percepite. Questo ragionare ci conduce ad una scienza negativa e limitata, ma verace, non falsa. Per arrivare a questa scienza, l' unica che di tali cose possiamo avere, dobbiamo pigliare le nostre idee, mezzo del nostro conoscere, tali quali sono, senza confonderle od alterarle ad arbitrio; così pure dobbiamo usare i vocaboli in corso per quel che suonano, secondo l' importante documento delle scuole che: [...OMISSIS...] . Finalmente il ragionamento ontologico è quello che ci avvisa della limitazione e imperfezione di quella nostra scienza, e così ci protegge dall' errore; perocchè non erra colui che, avendo una cognizione limitata e imperfetta, sa ch' ella è tale, e non la piglia per cognizione positiva e perfetta. Ed è solo questo che riesce perfettamente conforme alla verità assoluta, sicchè l' ordine degli enti risponde a ciò che quest' ultimo ragionamento pone nella mente nostra; ma egli è poco, abbastanza tuttavia, di nuovo lo dirò, per evitare l' errore, abbastanza perchè possiamo usare delle altre cognizioni nostre imperfette a nostro prò, senza alcuno inganno. Come noi abbiamo ridotte le leggi cosmologiche, cioè quelle che impone la natura e l' ordine del mondo al principio razionale, a due, cioè a quella della mozione e a quella dell' armonia, così parimente possiamo ridurre a due le leggi psicologiche corrispondenti alle medesime. Perocchè noi dicemmo che nell' operare del principio razionale parte influisce il termine eccitatore, parte la propria attività del principio eccitato. Onde in quanto questo principio, ricevuta la mozione, vi aggiunge del suo, egli opera secondo la legge della spontaneità; in quanto, ricevuti gli elementi armonici dal mondo, egli contribuisce di nuovo qualche cosa del suo vigore a rendere il proprio operare armonico e a goderne, in tanto manifesta una legge di armonia in sè medesimo, che compie ed informa l' armonia del mondo; e questa nominiamo psichica affine di distinguerla da quella quasi materia armonica, che riceve dal diverso da sè. Della legge adunque della spontaneità dovendo noi ragionare, non ci fermeremo a descriverne la natura, il che facemmo altrove (1); bensì toccheremo di quei caratteri ed accidenti più speciali e più sfuggenti all' osservazione, che ella manifesta negli atti suoi. Dei quali accidenti i più importanti a considerarsi sono questi due, che la spontaneità opera talora nell' uomo in occulto, cioè senza che egli ne abbia consapevolezza, e che il termine della sua attenzione razionale è quel solo di cui l' uomo s' interessi, e di cui facilmente si renda consapevole. Con questo ragionamento noi completeremo ciò che abbiamo detto innanzi della coscienza. Ivi vedemmo che il solo essere ideale, intuìto dalla mente, non dà all' uomo coscienza di sè, e che alla formazione di lei si esige uno stimolo o termine reale (1). Questa è la prima condizione, ma non è sola. Ne abbiamo aggiunta un' altra, avvertendo che alla formazione di lei è uopo che il principio umano attiri l' attenzione razionale su di sè, per qualche bisogno che ne esperimenti, il quale bisogno è « l' istinto di compire un' azione incominciata ». Nè si può dire che l' uomo dovrebbe tosto essere mosso a formarsi la coscienza di sè medesimo, perchè gli è cosa piacevole; giacchè la privazione di un piacere naturale non è ancora un bisogno, nè il piacere diviene bisogno fino a tanto che non se ne ha esperienza. Continuando, noi dunque osserveremo: Che la coscienza non appartiene alla scienza d' intuizione , ma a quella di predicazione . Che l' attività razionale ha due gradi; pel primo l' uomo gode della verità (quando è privo di coscienza), pel secondo l' uomo gode del possesso della verità (quando ha la coscienza di possederla). Quello che si dice del godere si deve dire del sapere; pel primo grado l' uomo conosce la verità, pel secondo l' uomo conosce di conoscere la verità (ne ha la coscienza); quel che si dice della verità si deve dire altresì di ogni bene e di ogni male: pel primo gode il bene e soffre il male, pel secondo gode del godimento del proprio bene, soffre della sofferenza del proprio male. Questi due gradi costituiscono due stati diversissimi dell' uomo, e non poco difficili a distinguersi; il filosofo è l' uomo della riflessione e della coscienza, onde facilmente si ferma a questa, e disconosce ciò che è nel sentimento anteriore e che non passa nella sua coscienza. Consegue che nell' uomo vi sono due principŒ di azione; coll' uno di essi egli tende ad unirsi al suo termine e a godere di lui; coll' altro tende a conoscere ed a godere dell' unione col suo termine, ossia ad avere la coscienza del suo proprio godimento. Il primo di questi due principŒ di azione e gradi di attività costituisce la vita diretta dell' uomo; il secondo costituisce la vita di riflessione . L' uomo che vive la vita di riflessione, costituito nel secondo grado di attività, operante col secondo dei suoi principŒ attivi, è immedesimato con questo principio, perocchè « l' uomo è attualmente il principio che opera ». Quando opera col primo principio, l' uomo è attualmente il principio diretto; quando opera col secondo principio, l' uomo è attualmente il principio riflesso; perchè l' uomo operante è sempre il principio (1). Se dunque l' uomo nelle operazioni della vita di riflessione è il principio riflesso, qual meraviglia che l' uomo neghi il suo stato anteriore, e creda che tutto ciò che è in lui sia fornito di coscienza? Certo il principio riflesso non può sapere quello stato dell' uomo su cui non cadde riflessione; nega dunque quanto non entra nella sua sfera, quanto non è riflesso. E` l' uomo, in quanto è principio riflesso, che parla di un linguaggio compiuto, è quest' uomo che tratta coi suoi simili; la vita sociale è, nella massima sua parte, vita di riflessione. Di qui apparisce che, tolta dal mondo questa maniera di vita, gli uomini rimarrebbero dissociati, l' umano commercio sarebbe impossibile; quindi l' eccellenza di questa vita sopra la vita diretta . E pure non si deve già credere che il bene della vita riflessa sia più eccellente del bene della vita diretta. Il bene della vita diretta è bene fondamentale, è il bene stesso; la vita riflessa non è che un altro modo di godere di quel bene, che la vita diretta somministra. La vita riflessa dunque è più elevata, più luminosa, più attraente; ma non più nobile, non più preziosa della vita primitiva e diretta. D' altra parte non si deve credere che la vita riflessa si estenda sempre, o a tutti i beni (dei mali dicasi lo stesso, in senso contrario) della vita diretta. Mentre l' uomo vive della vita riflessa e sociale, egli fa moltissime azioni appartenenti unicamente alla vita diretta, di cui egli non è conscio, di cui non parla; esse incominciano in lui, e si svolgono e si compiono in un profondo silenzio; eppure sono d' immensa importanza alla sussistenza e felicità umana. Operano dunque i due principŒ attivi in presenza l' uno dell' altro, ora l' uomo è l' uno, ora l' uomo è l' altro; ma il primo opera quasi direi taciturno e nell' ombra, il secondo è loquace e si diporta per un campo aperto e luminoso. Colla quale dottrina, e con essa sola, si spiegano molti fatti umani; uno di questi è il piacere del sonno. E` indubitato che l' uomo, dopo essere stato lungamente in veglia o stancatosi con fatiche, sente il bisogno del sonno e prova un diletto grandissimo nell' abbandonarvisi. Ho trovato degli uomini che anteponevano il piacere di un placido sonno alle più vive gioie della vita. Ora che cosa è il sonno se non una funzione animale, in cui l' uomo perde la consapevolezza di sè medesimo, almeno in gran parte, e l' operare con libera riflessione? Eppure l' uomo trova diletto e nel passaggio dalla veglia al sonno, nel quale passaggio va perdendo la coscienza, e nel sonno stesso, durante il quale la coscienza è perduta. Perocchè non si può certo dire che il diletto del sonno consista nel prevedere il vantaggio che dal sonno si trarrà, quando anzi il piacere del sonno consiste nel perdere ogni previsione, la quale finchè dura nell' animo, l' uomo non dorme. Nè si può dire che il diletto si provi al sentirsi, dopo riscossi dal sonno, rifocillate le forze animali; perocchè il dilettevole stato, che segue al sonno, è un piacere appartenente alla veglia, e non è il piacere del sonno che già è passato. Quando dunque l' uomo appetisce di perdere la coscienza di sè stesso, passando dallo stato di veglia a quello di sonno, allora il piacere della vita diretta prevale al piacere della vita di riflessione, e l' uomo desidera che cessi per alcun tempo questa seconda vita per godere più pienamente della prima. Sicchè vi è un cotale equilibrio fra le due vite, un bilanciarsi del piacere e del bisogno dell' una col piacere e col bisogno dell' altra; ed ora prevale quello dell' una nell' uomo, ora quello dell' altra; di che avviene che le due vite si alternino incessantemente, che si alterni incessantemente la veglia ed il sonno. E qui viene spontanea la domanda: qual uomo è che appetisce il passaggio dalla veglia al sonno e lo stato stesso di sonno? è quell' uomo che consiste attualmente nel principio riflesso, o quell' uomo che consiste attualmente nel principio diretto? - Per accorgersi che l' uomo appetente il sonno è il principio diretto e non il riflesso, basta fare un esperimento. Nell' atto di addormentarsi l' uomo pensi a ciò che sta per avvenire in sè, pensi alla cessazione del suo pensiero riflesso, alla cessazione di quello stesso pensiero con cui sta osservando con quali passi il sonno s' inoltri; egli ne sentirà un cotal senso d' orrore. Io ho fatto più volte questa prova, e parevami sempre di paventare l' avvicinarsi del sonno come l' avvicinarsi di una specie di morte. Questo orrore era il principio riflesso che lo sentiva, prevedendo l' annientamento della sua attività; il piacere adunque del sonno non appartiene al principio riflesso, ma al principio diretto: quello ne ha ribrezzo, questo ne gode. Il che prova che l' uomo, che vive la vita riflessa, non esce perciò interamente dalla diretta; ma gode parte dell' una, parte dell' altra, benchè ne goda con attualità diverse, l' una incognita all' altra. La vita diretta e la vita di riflessione sono due attualità, che si svolgono dall' essenza dell' anima razionale; esse appartengono all' ordine degli atti secondi, non costituiscono l' atto primo, l' essenza, la virtù radicale dell' anima. Ora l' anima, essendo un ente limitato, ha una virtù radicale limitata, limitata dico, non perchè, accrescendosi i suoi termini, ella non possa crescere indefinitamente, poichè quanto a questo, che è la sua ricettività, è illimitata; ma limitata quanto al grado d' intensità, col quale ella può aderire e stringersi ai termini che le sono dati. Quindi la sua virtù, esaurendosi in una attualità, si diminuisce ad un' altra. E così potrebbe l' attività radicale dell' anima essere totalmente esaurita nell' attualità della vita diretta da riuscire nulla alla vita di riflessione; nel qual caso cesserebbe la coscienza, appunto perchè cesserebbe l' atto della riflessione. Che anzi non solo la riflessione può rimanere impedita e soppressa dall' attualità sopragrande della vita diretta, ma ben anche per un solo atto di questa vita; il che espresse Dante in quei versi: [...OMISSIS...] . E il filosofo poeta osserva che non pure nell' atto stesso, quando l' attività dell' anima è assorbita in qualche suo termine, cessa la possibilità della riflessione e della coscienza; ma anche, passato quell' assorbimento, non ne rimane memoria, perocchè la memoria attuale è un atto di riflessione sul passato; e però se nell' attualità dell' atto non vi fu riflessione, neppure passato l' atto, vi può più essere, se non forse oscura pei vestigi di quell' atto rimasti nell' anima abitualmente; onde dice: [...OMISSIS...] . Ma nella vita presente la virtù radicale e totale dell' anima, limitata com' è, quando si esaurisce in un' attualità, ivi non resta esaurita se non per breve tempo; onde stanca dell' intensità di questo suo atto, che pur le è sommamente piacevole, ritorna spontanea, aiutata però dagli stimoli corporei, alla vita di riflessione; quindi anche in questo fatto vi è una cotale alternativa fra la vita diretta e la riflessa. Di più, quella virtù radicale non si esaurisce talora in un atto solo, ma in due, in tre, in più, in un complesso di atti. Ora gli atti in cui si esaurisce, sieno molti o pochi, quando quella virtù è esaurita, già più non gliene resta da impiegare in atti di nuova riflessione; e così accade che la riflessione si rimanga limitata entro una certa sfera, lasciata libera dall' attualità della vita diretta. E qui di nuovo ci piace osservare che, essendo la spontanea azione dell' anima più che altro quella che dirige la proporzione fra il dominio della vita diretta nell' uomo e il dominio della vita di riflessione, forza è ammettere che l' uomo goda sì dell' una che dell' altra, come dicevamo innanzi, e che egli preferisca talora il diletto che trova nella diretta a quello che trova nella vita di riflessione, bramando che sia soppressa questa per dar luogo a quella; perocchè la spontaneità segue sempre il maggior diletto. L' esempio, che noi abbiamo dato a provar ciò, fu quello dell' appetito del sonno, fenomeno che appartiene alla vita animale e alla percezione razionale fondamentale; ma chi non vede che potremmo addurre egualmente degli esempi tratti dall' attività puramente razionale? E chi non conosce il fatto dell' estasi? Chi non sa che questo grado d' intensa contemplazione e d' amore compiuto è ciò che vi può essere di più dilettevole per l' uomo, essendo anzi l' estasi il grado eccedente della dilettazione? Eppure l' estasi arreca necessariamente la soppressione degli atti riflessi e della coscienza. E tuttavia l' uomo non può anelare a cosa di maggiore sua soddisfazione che a cotal sonno dell' intelletto e dello spirito assorto nell' oggetto dell' estatica contemplazione, e così rapito a sè stesso, quasi in una piena oblivione, in una cotal deliziosissima morte di vita vitale pienissima. Tanto è vero che i diletti della vita di riflessione non sono i massimi, e che l' uomo nella vita presente può godere assai più del bene7oggetto che della consapevolezza di tal godimento; può anteporre di godere maggior copia di quello anche col sacrificio dell' averne coscienza. Finalmente è da osservare che l' adulto, che non può vivere interamente d' una vita diretta, siccome accade al bambino non ancora venuto all' uso della riflessione, neppure può vivere esclusivamente della vita di riflessione per molto tempo, nè tampoco per breve. Questo s' intenderà, qualora si consideri che l' atto della riflessione dicesi riflesso per rispetto al suo oggetto; vale a dire l' atto è riflesso, se il suo oggetto è cosa già innanzi pensata e non puramente sentita; quindi riflesso non si dice rispetto a sè stesso, quasi sia tale rispetto a sè. L' atto riflesso non è oggetto di sè, ma si esige un altro atto di riflessione superiore, acciocchè egli divenga oggetto. Ora, posciachè la serie delle riflessioni non può essere che limitata, quindi accade che l' ultima riflessione non ha una riflessione sopra di sè che la conosca; e così restasi incognita, senza coscienza, e però appartenente alla vita diretta. Onde nella sola riflessione non può mai esaurirsi l' attualità della vita umana; ma conviene che rimanga qualche cosa nell' uomo, su cui l' uomo non ha riflettuto, perciò incognita all' uomo stesso. Ora è da osservare questo fatto importantissimo alla spiegazione dei fenomeni della vita di riflessione, che questa facoltà non suole fermarsi che all' ultimo anello di una operazione razionale qualsiasi, nel quale termina l' attenzione, s' accumula questa virtù psicologica come nel fine che cerca e brama di conseguire. Di qui accade che gli anelli precedenti, sui quali l' operazione della mente trascorre leggermente senza fermarsi, non attirano, nè fermano l' attenzione riflessa; e così rimangono occulti all' uomo stesso che li fa, e per rendersene conto gli è mestieri di adoperarvi l' attenzione libera, colla quale bramando conoscere come proceda l' operazione dello spirito in tutti i suoi passi, egli fa che tutti divengano termini finali di lei. L' uomo volgare e comune, all' opposto, va innanzi come il viaggiatore, che tutto occupato del luogo dove deve pervenire, non bada alla strada che percorre. Il quale fatto spiega primieramente il ragionamento occulto, che spesso fa la mente umana tra sè, senza saperlo. E così i volgari pervengono a conclusioni finissime e che suppongono un lungo ragionamento, il quale essi fanno certamente e con prestezza somma, ma di cui non saprebbero rendere conto alcuno nè a sè stessi, nè ad altri, anzi non sanno di farlo, non ne hanno la minima consapevolezza. Tutta l' attenzione loro riposa nella conclusione, di cui solo lor cale, e chi volesse farli tornare sui loro passi intellettuali, essi l' avrebbero siccome uno scherzo, una scempiaggine, riderebbero di loro che si perdono in tali oziose ricerche. Può dirsi di più con tutta verità che se si considerano con attenzione filosofica i discorsi famigliari e sociali dei volgari, essi non esprimono forse la millesima, per non dire la milionesima parte di ciò che passa loro contemporaneamente per mente; perocchè tutto ciò che dicono gli uomini fra loro sono conclusioni pensate, ed ogni vocabolo esprime un pensiero, che costò molti pensieri precedenti coi quali ad esso pervennero, e pur tali di cui non tengono nè attenzione, nè memoria. Quante volte un vetturale, appena vi vede, offrendosi a servirvi dell' opera sua, vi dà dell' eccellenza o del monsignore, benchè non vi abbia mai conosciuto! Eppure quel titolo di eccellenza o di monsignore uscitogli così pronto sulle labbra, nella mente sua fu indubitatamente il risultato di questo lungo raziocinio percorso in un attimo, ed alla insaputa di lui che lo fece, e cioè: Dimostrandosi stima agli uomini e facendo lor credere di riputarli un gran che, si rendono benevoli. Resi benevoli, facilmente s' acconciano a servirsi dell' opera nostra. Se costui si serve dell' opera mia, io guadagno la mia giornata, che è quello che mi bisogna. Il titolo di eccellenza o di monsignore, che lusinga l' amor proprio, è un mezzo di mostrargli stima ed accaparrarmi la benevolenza. Dunque questo titolo mi è buon mezzo al guadagno che intendo fare. Dunque io l' adopererò con costui, che mi si fa innanzi la prima volta, sia poi egli qual voglia essere, che a me non cale. Conviene nondimeno osservare che il raziocinio, col quale gli uomini nel vivere comune e sociale ratto pervengono a quelle conclusioni, che loro importa conoscere e comunicare ai loro simili, non procede sempre nella loro mente così disteso che mantenga tutte le proposizioni o gli anelli mediati distinti fra loro; anzi la mente trova delle scorciatoie e dei compendi suoi propri, come appunto fa l' aritmetico, che per venire a capo di un' operazione inventa regole compendiose, che con un solo o con pochi passi lo conducono a trovare ciò che vuole, dove altrimenti non perverrebbe che con lungo viaggio. Nei villani, che conteggiano in sulle dita, più volte si osserva l' uso di questo ingegno. La qual maniera compendiosa di ragionare si può chiamare raziocinio sintetico; ed è un modo usato tutto dì dagli uomini nelle cose della vita. Noi toccammo altrove di quelle regole medie, che sogliono condurre i giudizi ordinari degli uomini (1). Ora queste sono appunto quelle che accorciano i raziocini e li rendono più pronti; perocchè, formate coteste regole, l' uomo le applica siccome verità già trovate e stabilite una volta per sempre, senza più darsi pensiero di loro dimostrazione, senza tornare più addietro a quella serie di raziocini che gliele ha prodotte; la funzione della fede subentra alla funzione del raziocinio. Rechiamo qualche esempio volgare. Gli stimatori della foglia dei gelsi, con un' occhiata all' albero, tosto vi dicono quanti sacchi o pesi esso ne porti; e non errano, o di una differenza minima. Come ciò? come rilevare così prontamente e sicuramente la quantità di quella foglia ad occhio, senza bilancia? Certo, se essi pigliassero a loro regola l' unità, non ne verrebbero a capo sì presto, ancorchè nella loro mente fosse ben impresso il volume, che risponde ad una unità di peso o di sacco di foglia. Non prendono dunque l' unità a regola, ma nella loro mente hanno segnati altri volumi; per esempio, essi hanno segnato qual sia il volume rispondente a dieci, a venti, a cinquanta, a cento pesi o sacchi, ecc.; onde essi applicano prontamente all' albero quella fra tali misure fantastiche che gli conviene, e trovano, coll' una o coll' altra, l' equazione che loro abbisogna, così determinandone la quantità. Lo stesso accade ad ognuno che faccia professione di misurare coll' occhio le quantità: l' architetto potrà misurare collo sguardo quanti piedi tragga la facciata d' una casa, senza sbagliar forse d' uno; il misuratore di vino saprà dire quante staia contenga una botte al primo vederla, e così di ogni altra cosa. Ma è certo, tuttavia, che questi uomini abili a misurare coll' occhio le quantità delle cose, non saprebbero spiegare a sè stessi il fatto, nè dire come fanno a venirne a capo, di quali regole o misure si giovano, perchè tutte quelle diverse misure che tengono improntate nella loro immaginazione non sono quello che cercano; sono mezzi al fine, e questo solo è l' ultimo anello in cui la loro attenzione finisce e riposa, e vuol sapere con riflessione e coscienza; del resto non cura. Per altro è da osservarsi che quelle regole medie che compendiano i ragionamenti, se non si ricevono per altrui autorità, debbono cavarsi dall' esperienza o da altri raziocini precedenti. Ed è appunto la maggiore o minore attitudine a formarsi molte di queste regole medie, pronte ai bisogni e sicure, quella che fa sì che alcuni uomini si dimostrino più sagaci, ed altri meno. E qui conviene osservare come bene spesso accada che quegli uomini, che meglio sembrano ragionare in teoria, non sempre nella pratica della vita sanno trovare gli espedienti più opportuni al fine, e il loro consiglio, che è pure ragionatissimo, riesce a male in opera; laddove altri, che non sanno a pezza rendere così chiare ragioni, siccome i primi, di loro sentenze, colgono così aggiustato che pare abbiano un cotal senso apposito, nel quale immediatamente scorgano quel che si convenga meglio di fare nelle circostanze. Il medico dotto non è sempre il più felice curatore degli ammalati; l' avvocato eloquente e sottile perde non di rado la causa del suo cliente, trattata con tutto lo sfoggio della scienza; lo stesso teologo, che consumò la sua vita nell' insegnamento della morale, vien meno alcuna volta alla cura delle malattie spirituali delle anime. Quanti, che sembravano eccellenti teorici in economia, gettarono il loro avere in imprudenti speculazioni, quando altri che parevano nei loro parlari e modi cortissimi d' intelligenza, accumularono ingenti ricchezze! Ma il senso squisito della prudenza, di cui parliamo, si dimostra poi ammirabile in alcuni nei quali meno si crederebbe, trattandosi di faccende, negozi, governi sociali. Il carattere del pensiero degli uomini teoretici e splendidi ragionatori è quello di procedere per raziocinio analitico; il carattere del pensiero degli uomini prudenti e sagaci operatori è quello di procedere per raziocinio sintetico . Il raziocinio analitico ha questo di proprio: si studia di non omettere nulla, vuole aver coscienza di ogni passo del suo ragionare, vuole persuadersi che niuna parte dell' oggetto, che prende ad analizzare, è omessa. Ma per la conclusione di un negozio, per la scelta di un consiglio, per l' invenzione di un espediente, molte di queste parti, che egli considera ed analizza attentamente, sono del tutto inutili, sono fuori del caso, perchè ciò che si cerca non è il sapere di quali parti sia composto un oggetto che si presenta alla mente, ma di sapere che cosa si debba fare hic et nunc . Quindi l' analitico ragionatore si perde e travia sovente in cose aliene dal vero scopo; e questa moltiplicità di cose che volge nella mente lo aggrava, e gli rende più difficile la soluzione del problema; arrischia ancora di omettere, nella farragine delle cose che egli considera, alcune di quelle circostanze date dal fatto, che sono necessarie ad averne una utile conclusione. Per tutte queste cause gl' incontra di riuscire ad un risultamento, o imperfetto o insufficiente al bisogno, peccante di difetto o di superfluo, benchè sappia rendere uno splendido conto di tutta la serie dei suoi pensieri. All' incontro l' uomo prudente va per via più compendiosa al suo intento, per quella del raziocinio sintetico; egli non raffronta parte con parte, ma piuttosto misura e paragona il tutto col tutto. Sta appunto qui l' artificio secreto della sua prudenza: di separare quel tutto, su cui poi si deve decidere, da ogni altra cosa impertinente, e a quel tutto così bene separato e distinto applicare quella regola media che ben gli si acconcia, nè più nè meno. Laonde la prudenza e la sagacità operativa, di cui parliamo, consiste in due abilità: 1 in quella di formarsi molte di quelle regole medie, le quali si possono applicare alla contingenza della vita e dei governi; 2 in quella di rilevare a colpo d' occhio intellettivo il nodo dell' affare, il gruppo preciso delle contingenti circostanze. Perocchè, conosciuto questo gruppo di circostanze annodate insieme, gli è poi facile trovare nell' arsenale, dirò così, della sua mente sperimentata e sagace, quella formola appunto, quella regola che le misura immediatamente, e ne somministra il retto giudizio e la prudente deliberazione a pigliarsi. Per questo nei vecchi, nei quali pare meno vigoroso il raziocinio analitico, da essi trascurato siccome meno utile o necessario, e compendiato mano mano in regole sintetiche, la prudenza suole sempre, supposte le altre cose eguali, apparire maggiore che nei giovani. Ebbero più tempo di raccogliere dall' esperienza regole medie, e di addestrare la loro attenzione a prendere colla mente il tutto della questione, separando circostanze accessorie ed inutili che talora la infrascano; il qual tutto essi possono facilmente sottomettere alle regole che gli convengono. Così rimane sempre vero che nelle menti dei prudenti e dei pratici moltissimo si fa con raziocinio occulto ed abbreviato, di cui essi non hanno coscienza; onde si suol dire comunemente che essi piuttosto con un senso pratico che colla mente deliberano: chè il raziocinio sintetico assomiglia veramente al senso, per la prontezza, la sicurezza dell' operare, e l' oscurità della via che tiene per riuscire alle sue ultime conclusioni. Dalla legge poi, che « la riflessione cade sull' ultimo anello dell' operazione razionale e non sui precedenti », seguita un' altra conseguenza, ed è che « i principŒ, che suscitano e dirigono le nostre operazioni razionali, rimangono occulti a noi stessi, se non li rendiamo liberamente termini della nostra attenzione ». Perocchè è chiaro che quei principŒ di loro natura non sono l' ultimo anello della catena dell' operazione razionale, quando anzi ne sono il primo. Quindi l' uomo per conoscere sè stesso ha bisogno di ritornare liberamente sopra di sè, ed indagare i segreti del proprio cuore: lavoro ben sovente difficilissimo, ed a compirsi quasi impossibile; onde il gran pregio della sentenza antica: « « conosci te stesso » ». I primi principŒ dell' umano operare sono l' istinto animale, in quanto egli giace nella percezione fondamentale, e l' essere in universale intuìto. L' istinto animale è principio movente, l' idea dell' essere è norma direttiva . L' uomo nello stato suo ordinario opera secondo questi principŒ, senza badare ad essi, nè sapere ond' è mosso o diretto; il che non gli cale, calendogli solo di ottenere lo scopo di sua operazione. Ma l' istinto animale si sviluppa vestendo gli abiti di diverse passioni, e così quasi moltiplicandosi. Il principio razionale, in quanto lo percepisce, l' accompagna in tutto il suo sviluppo. Lo stesso principio però con un altro suo atto, riferendo ogni cosa all' essere, trova ciò che l' essere stesso, quale suprema norma del bene e del male, disapprova, o permette, od approva, o comanda in tali operazioni. Indi il bivio. Il principio razionale si attiene allora a quanto l' essere prescrive, o s' abbandona all' istinto ciecamente o coll' istinto congiura; indi i vizi. Non basta. Il principio razionale classifica in generi i mali ed i beni; si forma così delle regole medie, ciascuna delle quali gli dimostra, gli fa conoscere immediatamente una classe intera di beni o di mali. Egli sceglie fra i generi di bene e i generi di male; e tale scelta importa l' abbracciare che egli fa « alcune di quelle regole medie »come direttive del suo operare, rigettando le altre. Questa scelta fra le regole medie, discernitrice dei beni e dei mali, quando è fatta, è il fondamento dei desideri e delle avversioni generali consentite dall' uomo. Perocchè, come l' uomo nella sua mente ha delle regole generali, così nel suo cuore ha dei desideri generali e delle avversioni generali; coi primi appetisce abitualmente e con suo consenso una classe intera di beni, o da lui riputati tali; colle seconde rifiuta abitualmente e con suo consenso una classe intera di mali, o da lui riputati tali. Così l' animo suo si trova abitualmente determinato verso certe cose in generale, e contro certe altre cose pure in generale, benchè queste determinazioni possano essere ad ogni momento mutate dall' intervento della sua libertà. Tali abiti consentiti, finchè durano nell' uomo, costituiscono altrettanti secreti principŒ di azione, secondo i quali l' uomo posto nelle circostanze si determina prontamente all' atto, quasi con una deliberazione già fatta innanzi (1). Dico che questi principŒ dell' operare umano, questi desideri generali consentiti (e ve ne hanno anche di non consentiti, che più propriamente si direbbero inclinazioni native od acquisite, e ve ne hanno di consentiti imperfettamente con diversi gradi e modi di consenso, e con diverse condizioni tacite) rimangono segreti all' uomo, fino a tanto che l' uomo non li fa oggetto di sue ricerche, e da anelli primi o di mezzo dell' operazione razionale li fa diventare anelli ultimi, sui quali l' attenzione riposi, e gliene sorga la coscienza. Si deve notare altresì che secondo la qualità di questi principŒ e regole abituali, prescelte secretamente a direzione delle proprie operazioni, variano i caratteri morali degli uomini, questi caratteri così diversi, la cui origine profonda è così difficile da investigare al filosofo. Vi sono dunque nell' uomo due maniere di cognizioni : l' una occulta a lui stesso, l' altra palese, luminosa, riflessa . La prima ordinariamente non interessa l' uomo, non gli cale di averne coscienza, ne usa come di mezzo, nè vi si ferma. E` un fatto importantissimo anche questo, che illumina il modo come in un essere essenzialmente ragionevole, quale è l' uomo, possa cadere l' errore; e come possa cadere in lui, essenzialmente morale, il vizio (2). Poichè quel fatto dimostra che dipende da lui stesso il dare interesse ed attenzione a certe cognizioni, e renderle a sè chiare e luminose; come da lui pure dipende il lasciare certe altre sue cognizioni nell' ombra, in una condizione inferiore a quelle che egli si elegge a fine, in cui perciò riposa la sua attività. Qualora dunque si supponga, a ragion d' esempio, che l' uomo, che commette errore, sia quel principio che vive della vita riflessa; qual meraviglia che egli s' inganni o che operi perversamente, se quelle notizie che potrebbero guarentirlo dall' errore, quelle regole che potrebbero proteggerlo dal vizio, non sono addotte alla luce della vita riflessa, ma lasciate quasi sepolte nella silenziosa notte della vita diretta? qual meraviglia che il principio riflesso erri e travii, se per questo principio non esiste altra cognizione che quella che gli è occasione di errore, e favorisce il vizio? E qui mi conviene far menzione d' un fatto che ho più volte sperimentato in me stesso, e che altri avranno pure sperimentato, se si sono abituati a considerare ciò che passa nel loro spirito. Questo è quel lento lavoro che fa la mente da sè stessa, pel quale le notizie e dottrine depositate nel tesoro della memoria, senza che noi vi badiamo, vanno bel bello disponendosi col tempo ed ordinandosi quasi ai loro luoghi. Quante volte non è avvenuto a quelli che si danno agli studi e specialmente alle speculazioni filosofiche, di meditare assai intorno a qualche argomento, e poi ristarsene affaticati e non soddisfatti dell' esito della meditazione? Ed ecco passato uno o più giorni, senza avere più dato a quella materia deliberata attenzione, la mente si è tutta bene aggiustata da sè stessa, e le idee appariscono ordinate sì fattamente che, svanite le difficoltà, la soluzione dei proposti problemi si fa incontro tutta spontanea e luminosa! E` vero che questo deve poter avvenire in parte anche perchè quando si medita, l' immaginazione opera e si stanca, e confonde la purità del ragionare coll' intramettere importuni e instabili fantasmi; onde, sopravvenuta la quiete, rimane netto il lavoro della severa ragione. A questo si deve attribuire anche il fatto della memoria, che una cosa studiata la sera prima di coricarsi e non appresa, si trova fresca la mattina nella mente; calmata e confortata l' immaginazione col sonno, ella rese fedele le impressioni stampatevi la sera innanzi, quando non era atta a servire la reminiscenza per stanchezza o turbamento. Del resto suole essere buona regola insegnata dai prudenti il lasciare che stanzino e maturino qualche tempo in mente le deliberazioni, le quali si vanno da sè migliorando, senza espressamente pensarci; onde il partito che si prese un tratto, anche dopo qualche tempo che non ci si pensa, riesce migliore, ha più probabilità di riuscire, non solo perchè di nuovo si esamina, ma ben anche perchè da sè si matura; operazione occulta della vita intellettiva diretta, priva di coscienza. Del rimanente, acciocchè questo lavoro continui, è uopo che vi sia la molla segreta del movimento nell' impegno e nel desiderio abituale di trovare il vero cercato, sia nello studioso che si propose la soluzione di qualche questione, sia nel prudente a cui sta abitualmente a cuore l' affare di cui delibera. Un altro lavoro mentale si opera nella mente senza riflessione, nè coscienza; il quale in parte si confonde col primo. Vi sono certi concetti, certi pensieri che per così dire si attraggono, manifestano affinità tra loro, si associano variamente (1). Ora questa affinità e questa associazione si viene compiendo nell' intendimento dell' uomo a sua insaputa; ed ecco per quali modi. Primieramente, il pensare umano trova un legame che naturalmente lo riduce ad unità nell' idea dell' essere, principio supremo di tutte le cognizioni. Questo essere sopreminente è il rettore occulto dell' umana mente, la quale essendo sempre a lui rivolta, in lui per una cotale operazione abituale vede molte convenienze fra cose conosciute, senza badarci o badandoci leggerissimamente. Questo lavoro adunque è un ritorno continuo che fa il pensiero dalla moltiplicità all' unità dell' essere. Di poi è da considerarsi che i pensieri diversi della mente umana producono nell' uomo, che è per essenza sentimento, un effetto sensibile. Ora avviene che pensieri per sè stessi diversi talora muovano un sensibile effetto, uno speciale sentimento della stessa natura; e poichè i sentimenti facilmente diventano principŒ istintivi di operazione, però quei sentimenti identici o simili dispongono l' uomo egualmente verso quella maniera di pensieri che ne sono le cause. Questo fatto viene poi aiutato dall' essersi già nell' uomo formati quegli affetti e desideri generali, che descrivemmo più sopra; i quali assomigliano ad altrettante corde musicali, che rispondono ugual tono, sia che le tocchi e pizzichi una penna di corvo o una zeppa di acciaio, od altro checchè possa essere. Dietro la guida dunque di tali affetti eccitati da diversi concetti o pensieri, l' attenzione della mente e l' attività pensante si dirige spontaneamente, e lavora sovente all' insaputa dell' uomo, che su questo fatto, che in sè si compie, non punto riflette. Gli affetti generali nell' animo umano adoperano adunque a lor prò e dirigono i pensieri, associandoli in gruppi, e chiamandoli anche da tempi lontani; onde l' uomo verrà oggi ad un pensiero o ad una determinazione, che ha stretta affinità con un pensiero o con una deliberazione di un anno fa, di cui non conservava più ricordanza; eppure quel pensiero, avuto e dimenticato da tanto tempo, è cagione del pensiero presente; perchè egli lasciò l' animo così disposto ed affezionato da dover essere proclive al pensiero presente, a cui venne tostochè gliene fu data una minima occasione. Ma quello che è più notabile si è che questi affetti abituali e generali, che si appoggiano alle regole medie di cui abbiamo detto, talora crescono da sè stessi, siccome germe che si muove sotterra, ad alto grado d' intensità, e si rinforza graduatamente la persuasione che hanno per loro base; e tuttavia restano occulti nell' animo, se l' attenzione riflessa non è punta da qualche stimolo che la rivolga ad essi; nel qual caso talora scoppiano luminosi e fin anche fragorosi; e questa è forse la cagione segreta del subito manifestarsi degli eroi, posti in circostanze consonanti colla loro disposizione interna ed occulta (1); è anche la cagione delle più tempestose rivoluzioni politiche. Il che spiega molti altri fatti dell' umanità. Perchè un poeta o uno scrittore leva grido straordinario in un tempo, in una nazione, se non perchè egli si fa interprete fedele ed ingegnoso di quei sentimenti e di quelle grandi persuasioni, che ognuno aveva in sè stesso senza saperlo, senza averne mai trovata l' espressione, perchè non vi aveva mai piegata sopra la riflessione? Onde al comparire di colui che sa eloquentemente condurre l' attenzione e la riflessione di tutti su quelle persuasioni secrete, ma potenti; che sa inventare formole acconce a dar loro un' esistenza riflessa e splendida, a farle valere per cose nobili e belle; tutti giubilano e applaudono quasi a tesoro scoperto, che possedevano essi stessi ignorandolo, e ne sono grati al genio di quel primo, che seppe dire ciò che tutti avrebbero voluto dire, se avessero saputo, e gli acconsentono e gli aderiscono. E perchè si manifesta un così subito furore nelle sedizioni, in una plebe che pareva il dì innanzi riposata e tranquilla? Era tranquilla in apparenza, perchè non sapeva gli affetti che premeva in sè medesima; era tranquilla, perchè viveva d' una vita di riflessione, e il fermento della passione covava all' incontro nel profondo della vita diretta, non si era ancora travasato nella riflessa; era tranquillo l' uomo operante come principio riflesso, perchè l' uomo come principio diretto, il quale era ardente, non è quello che si manifesta al di fuori, ma quello che prepara la mina al di dentro. Vero è che nelle sedizioni, a trasnaturare gli uomini, giova anche un altro principio: il sentire ognuno la forza di tutti, il credersi potente ciascuno della forza della massa di cui è parte, il vigore che cresce alle persuasioni dall' unanimità d' una moltitudine adunata; il che tutto insieme produce entusiasmo, orgoglio, eccitamento alla prepotenza ed all' abuso della forza. Ma questa sola causa non basterebbe, se non ci fossero negli animi delle interne ed occulte disposizioni uniformi, preparate di lunga mano innanzi, delle opinioni, delle affezioni generali, che in tutti armoneggiano e cospirano a produrre quello scoppio, che per la sua subitezza e grandiosità rapisce a sè la ragione e la conturba, e così si volge facilmente in vertigine, in furore crudele. Se questa circostanza manca, la sedizione non ha luogo, il popolo si disperde prima di adunarsi, o dopo essersi adunato per curiosità. Quanto poi alle rivoluzioni nazionali, la sola ragione della loro riuscita è la disposizione segreta delle menti e degli animi delle masse; la quale se vi è, al primo inalberarsi d' una bandiera si rivela il pensiero di tutti. E come niuna rivoluzione ottiene lo scopo per cui è mossa, senza tale disposizione secreta precedentemente accumulata negli animi, così tutte le rivoluzioni, che a nulla riuscirono a malgrado del valore anche eroico e del sacrifizio più magnanimo di alcuni individui, fallirono unicamente perchè nella vita diretta del popolo, quasi arsenale della forza, la riflessione eccitata non trovò le armi sufficienti a farle riuscire. La legge psicologica che l' attenzione si ferma solamente all' ultimo anello dell' operazione razionale, e che la riflessione non cade se non dove si ferma l' attenzione (benchè non sempre neppur colà), e la coscienza non si acquista di quelle cose dove non cade la riflessione, è oltremodo preziosa a spiegare ancora innumerevoli altri fenomeni misteriosi dello spirito umano. Un esempio importante è quello a cui si lega in parte la celebre controversia del culto delle immagini. E` un fatto non dubbio per ogni buon osservatore che, qualora l' uomo faccia uso di un' immagine, il suo pensiero non si ferma mai all' immagine, ma va all' ente dall' immagine rappresentato. L' immagine non gli serve che di aiuto alla fantasia e di direzione al pensiero, perchè egli se ne possa andare diritto nell' oggetto assente e fissarsi in quello, a cagione della legge cosmologica della mozione che dice: « Il reale, quale termine del principio razionale, è ciò che suscita l' attenzione e la conduce agli atti del conoscere soggettivo ». E veramente chi dirà mai che un' amante, una vergine fidanzata, che si piace cotanto riguardando il ritratto del suo diletto e gli imprime mille baci, abbia lo stesso ritratto per oggetto dell' amor suo, e non piuttosto che intenda ella di rivolgere quegli atti affettuosi alla persona, che il ritratto al vivo le rappresenta? Chi dirà ch' ella sia innamorata di quel pezzo di carta o di tela inanimata, di quel freddo marmo o di quel bronzo, che ricorda le care sembianze? Se fosse così, se il ritratto fosse il vero oggetto dei suoi affetti, a lei basterebbe la presenza del ritratto, non le riuscirebbe noiosa l' assenza dell' amata persona, non l' aspetterebbe con ansia così penosa ed inquieta da contare i lunghi istanti della dolorosa privazione, non la richiamerebbe da lontano paese con tanti sospiri, con tante lagrime; ella nel ritratto avrebbe il suo bene, non vorrebbe di più. Ancora, se il ritratto è l' oggetto dell' amor suo, in tal caso, avendo ella molti ritratti della stessa persona, avrebbe molti oggetti del suo amore. Ma se voi ne la chiedete di ciò, ella se ne adonterebbe, protestandovi che l' oggetto del suo amore è unico, e le parrebbe di essere infedele amica, se lo dividesse con più. E pure accordate che ella disfoga il suo cuore, ora con un ritratto, ora con un altro. Com' è dunque che ella protesta di non avere che un unico amante, e dell' essere unico più se ne piace? Non è chiaro come il sole, che ella non si ferma alle immagini che sono più, ma al vero oggetto da tutte raffigurato? Aggiungete che i diversi ritratti non rassomiglieranno tutti egualmente al suo giovine sposo, e l' uno non rappresenterà che il suo volto, un altro la persona intera; eppure ciascuno di essi suscita a lei nel cuore gli atti del medesimo amore. Anzi questi si accendono in lei non pure alla presenza di un ritratto, ma ancor di una lettera, che bacia egualmente e la si stringe egualmente al seno, di un regaluccio, di un segno qualsiasi di lui, o tale che le rappresenti il solo oggetto degli ardenti suoi voti. E che il ritratto sia mal dipinto e deforme talora non bada, perocchè ad essa basta se con esso può rammentarsi l' oggetto, in cui spera trovare la sua futura felicità. Il che tutto dimostra che sarebbe una pazzia il credere che nel ritratto o nel segno finisse e riposasse il pensiero dell' amorosa fanciulla; che anzi egli ha un termine solo al di là del ritratto, termine che è l' ultimo anello dell' operazione razionale, in cui riposa l' attenzione e la riflessione di lei, laddove il ritratto non è che l' anello di mezzo, su cui il pensiero passa rapidamente senza fermarsi. Conviene nondimeno far qui un' osservazione. Il principio razionale nelle diverse percezioni non fa che svolgere, specificare, attuare la percezione fondamentale . Questa, e di conseguente tutte le percezioni acquistate, hanno un sensibile7corporeo e un intellettivo, dei quali il principio razionale, uniente l' animalità e l' intelletto, fa un termine solo, che è il termine della percezione. Indi, allorquando non si percepisce l' oggetto per sè, ma per via d' immagine e di segno vicario, allora per la stessa legge della percezione il principio razionale suol comporre il termine della percezione: 1 del segno vicario7sensibile invece che dell' azione7sensibile dell' ente; 2 dell' elemento intellettivo; e così individua in qualche modo il segno sensibile coll' ente stesso, che è nel concetto intellettivo. Di che nasce che sebbene l' oggetto intellettivo sia il vero e reale oggetto, tuttavia a lui viene associato intimamente il segno per guisa che egli pare formare una cosa sola con esso; ond' è nel segno che l' intelletto lo vede e lo contempla, in un modo del tutto simile a quello in cui vede l' ente nelle sensazioni. Perocchè, quantunque le sensazioni non siano l' ente pensato dall' intendimento, tuttavia nell' atto della percezione esse sono quelle che vestono l' ente e lo determinano; e cosa simigliante avviene, quando si percepisce un uomo o altro ente per via d' immagine. E però non può farci più meraviglia, conoscendo bene questa teoria, se le nazioni anteriori a Cristo o non illuminate da Cristo, in cui la forza dell' intelletto era debole, potentissima l' immaginazione e la sensualità, e lo sviluppo intellettivo delle quali non s' allontanava molto dalla percezione, accoppiando e confondendo il segno colla cosa segnata, cadessero nell' idolatria; non già adorando le pietre, i sassi e le varie immagini degli animali come tali, ma ad esse congiungendo individuamente certe virtù superiori e divine, che erano il vero oggetto intellettivo a cui si riferiva il loro culto; trasnaturando quindi appresso in altrettante divinità gli esseri naturali ed artificiali, ossia deificando la creatura. Perocchè, se essi non avessero aggiunto col loro pensiero qualche cosa di divino alle statue o ad altri enti materiali, non li avrebbero mai adorati. L' antica idolatria, dunque, consisteva non già nell' adorare unicamente il segno o l' immagine (il che è impossibile all' uomo per la ragione detta, che egli non può fermare l' attenzione in ciò che è anello di mezzo di sua operazione razionale, quale è per sè l' immagine e il segno), ma nel convertire coll' immaginazione ciò che è segno ed immagine in oggetto, associando e individuando colle materiali forme l' oggetto divino per un errore del pensiero; e così adorando quelle nella persuasione che fossero questo o la parte visibile di questo. E a facilitare e compire questo errore degli antichi popoli si aggiungeva il vedere la materia dell' universo piena di forze, le quali non potendo essere lei stessa perchè inerte, dovevano supporre che fossero virtù occulte oltremodo potenti; raziocinio non sbagliato, col quale noi trovammo la necessità di un principio corporeo, benchè gli antichi errassero nel deificarlo. Di qui l' adorazione dei genii, degli angeli, che è quello che dice anche la divina Scrittura, « omnes Dii gentium daemonia ». La Mennais pretendeva a torto di dimostrare che i gentili non fossero veri idolatri, perchè riferivano alla virtù e potenza divina il loro culto, e non lo finivano nelle immagini dei loro idoli. Oltre di che è da distinguersi fra quell' immagine o quel segno, che è destinato a chiamare la nostra attenzione su un oggetto assente, ma sensibile, da noi altre volte percepito, come è il caso della vergine fidanzata, che vagheggia il futuro suo sposo nel ritratto che ella tiene innanzi agli occhi; e quell' immagine o segno, che è destinato a chiamare la nostra attenzione in un oggetto invisibile e spirituale, come sarebbe la divinità. Nel primo caso non vi è alcuna cagione di confondere il segno colla cosa segnata, perchè la cosa segnata, sensibile anch' essa e immediatamente conosciuta, si può immaginarla qual' è in sè stessa, e ben accorgersi quanto ella sia dal segno diversa. E quand' anche non si avesse percepita la cosa identica, ma altri individui della sua specie, sarebbe da dire il medesimo. Così niuno confonderà il ritratto di un uomo coll' uomo, benchè quest' uomo non l' abbia veduto giammai. Ma trattandosi di esseri invisibili, quando un segno sensibile conduce ad essi il nostro pensiero, noi vorremmo pure fissarli in sè; e per fissarli avremmo bisogno di trovare in essi qualche cosa di sensibile per la legge della mozione di sovra esposta, che « il reale, quale termine del principio razionale, è ciò che suscita e trattiene la sua attenzione ». Non potendo adunque (se non con estrema difficoltà e in virtù del libero pensare) affissare l' attenzione nell' invisibile senza dargli qualche sensibile vestimento, accade che l' uomo rozzo attribuisca a lui la forma che vede nel segno, e così il simulacro dell' idolo diviene facilmente la forma attribuita al Dio adorato. Ma quelle nazioni, che ai simulacri degli Dei concedevano forme umane, caddero insieme coll' idolatria nell' antropomorfismo . E considerando che negli antichi popoli l' intendimento operava spontaneo, ed il pensiero libero o non era per ancora sviluppato o assai poco, chiara apparisce la ragione perchè Iddio divietasse agli Ebrei il figurare la divinità con pitture e con statue; nello stato di quelle menti ancora fanciulle dovendo essere facilissimo, per non dire inevitabile, lo sdrucciolare ai due errori, di cui abbiamo indicata la naturale origine, dell' idolatria e dell' antropomorfismo. All' incontro, che il libero pensare possa evitare cotali errori ovvero riconoscerli per errori, il che è tutt' uno, lo dimostra questo fatto: che allorquando in quel memorabile secolo VI avanti Cristo cominciò l' ingegno italiano a filosofare, una delle prime verità, che gli si pararono innanzi, si fu la falsità delle forme umane e dei costumi umani dalle plebi attribuite agli Dei. E questo fu il pensiero di Pitagora e di Senofane (1); del quale ultimo sono a noi pervenuti questi versi: [...OMISSIS...] . L' ordine è posto dalla divina sapienza nel mondo. Ma quell' ordine non è nel mondo e pel mondo isolato dallo spirito; anzi è ordine nello spirito e per lo spirito, nel quale il mondo esteriore riceve quel compimento sostanziale, pel quale da non ente diviene ente. L' ordine adunque nel mondo isolato dallo spirito non è ancora ordine, ma è iniziamento all' ordine, che si trova poi nel mondo esistente nello spirito. Laonde alla legge cosmologica dell' armonia deve seguire la legge psicologica che la compisce; sono due parti della stessa legge, due relazioni reali in cui lo stesso oggetto si considera (2). E fu per questa connessione appartenente al sintesismo della natura che noi, parlando della legge cosmologica dell' armonia, dovemmo entrare in parte nella trattazione del quesito: « che cosa contribuisca l' anima del suo a mettere in essere l' armonia »; ma colà ci limitammo a parlare dell' anima sensitiva, come quella che riguardata in relazione al principio razionale appartiene al mondo, cioè al termine di esso principio razionale, chè il sentimento animale ed il sentito è veramente termine naturale all' umana intelligenza. Ora noi dobbiamo dunque continuarci a vedere che cosa ponga l' anima, in quanto è razionale, nella costituzione dell' armonia; il che compirà in qualche modo la questione propostaci. Senonchè non potremo trattare dell' armonia razionale, senza intramettere altre cose intorno all' armonia animale che vi si mescolano, argomento sempre nuovo d' inesausta ricchezza. E` un fatto che tutto tende ad operare regolarmente, e che il principio razionale si compiace della regolarità. Onde questa legge? Onde questa tendenza? La regolarità può considerarsi nell' operazione che si eseguisce (regolarità soggettiva), e nell' oggetto che si contempla (regolarità oggettiva). Onde nasce la regolarità soggettiva, la tendenza e il piacere di operare con regolarità? Questo piacere e questa tendenza è comune al principio sensitivo ed al principio razionale, anzi è legge generalissima di tutti gli agenti che passano dalla potenza all' atto, e che quindi hanno degli atti transeunti in sè stessi. Quale ne è dunque l' origine? da quali cause procede? Le cause, per le quali ogni agente si piace della regolarità nelle sue operazioni, sono tre, che insieme concorrono a produrre tale effetto: L' ordine naturale col quale ogni agente è costituito. La legge che determina il modo dell' operare spontaneo. L' unità dell' agente. Consideriamo ciascuna a parte. Qualsivoglia ente semplice ha un ordine intrinseco, senza il quale non sarebbe ente. Di più, ogni agente della natura composto di più elementi, dalla sapienza del Creatore è compaginato ed organato con ordine ammirando. Ora, posciachè l' ordine è nella natura dell' agente, esso deve pur essere altresì nelle potenze e negli atti di lui; l' operare adunque di ogni agente conviene che sia naturalmente ordinato. Quindi si deve trarne il concetto della regolarità naturale dell' operare degli enti; cioè quando si propone la questione: « in che consista la regolarità del loro operare », non si può già loro imporre una regolarità arbitraria; ma è mestieri desumere la regolarità loro conveniente dall' ordine in cui l' agente è, secondo natura, costituito. Di che quella regolarità apparente, che la mano dispotica del giardiniere a forza di tagli e di ferite crudeli pone nelle piante dei giardini alla francese, quando egli dà loro forma di piramidi, di colonne, di vasi, di statue, ecc., non è punto regolarità, anzi ella è uno scempio e una distruzione barbarica della loro naturale e verace regolarità. E quel che si dice delle piante si può dire egualmente dell' educazione degli uomini, perocchè anche gli uomini hanno la loro naturale regolarità, la quale si deve proteggere e sviluppare dalla savia educazione e dal buon governo, e non imporne loro una capricciosa, che è come dire, uno snaturarli. Il perchè la regolarità naturale non è di un' unica forma per tutti gli enti: essa varia in ciascuno, siccome varia la loro natura. La spontaneità nell' operare degli enti ha questa legge, che, ricevuto l' impulso, ella lo asseconda e continua il movimento nella via medesima segnata dall' impulso (1). Questa costanza di direzione è naturalmente fonte di regolarità, essendo ella cagione perchè i movimenti non deviino nè a destra, nè a sinistra. Indi è che, se durante il movimento spontaneo avviato ad una direzione un altro impulso è applicato, il quale costringa la spontaneità a interrompere il corso volgendolo altrove, l' agente prova molestia, perchè gli viene impedita di compire quella operazione a cui spontaneamente era già volto. Per la ragione dei contrari, riesce piacevole che le operazioni spontanee non sieno turbate e rotte a mezzo; giace adunque un piacere in quella regolarità di movimento, che stà nella continuazione di lei fino all' ultimo suo naturale riposo. La ragione ond' è che la spontaneità da sè stessa non cangia corso, fu da noi collocata in questo, che la legge d' inerzia si mescola con essa; e l' inerzia consiste nella tendenza al riposo, il contrario della fatica, alla quiete, il contrario del moto. Perocchè niun agente si muove se non affine di pervenire ad uno stato in cui quieto riposi. Per la stessa ragione egli non sorge giammai dal suo riposo se non iscosso da un impulso straniero che lo leva al moto, nel quale, quasi entrato a forza, si continua per trovare in fine un migliore stato di quiete, o certo una condizione di attività uniforme od immanente. Indi la spontaneità non incomincia il movimento, ma lo continua; alla quale legge non ubbidisce solamente l' animalità, ma ogni agente anche razionale, salva la libertà dell' arbitrio. E da essa dipende quella altresì dell' abitudine, che consiste nella maggior facilità che l' agente sensitivo o razionale trova in ripetere le operazioni altre volte compiute che non sia a farne di nuove. Le operazioni da lui fatte non sono cessate del tutto in lui; vi lasciarono qualche traccia, la quale è via segnata all' operazione che si ripete, onde l' istinto di pigliare la via più agevole, trovandone una ben tracciata, non assume la fatica di aprirsene un' altra tutta di nuovo o cercarla quasi a tentone. Che anzi l' operazione intera che apparentemente cessò, rimane leggermente attuata nel principio operante; rimane un disegno di lei, che ha la virtualità dell' operazione; e ad ogni nuovo leggero impulso si cangia in atto. Onde l' operare per abitudine è come un continuare l' operazione precedente, cessata soltanto in parte. Quindi regolarità puramente spontanea e regolarità di abitudine . Ma la spiegazione dell' abitudine non si ha tuttavia piena, se non si ricorre all' unità del soggetto operante. E` in questa unità che si deve collocare l' attenzione più squisita della mente. Noi già vedemmo che mediante questa unità si spiegano ottimamente quei fatti dello spirito, che Aristotele attribuì ad un preteso senso comune. Componendosi l' animalità di un termine esteso e molteplice e di un principio semplice, nel principio semplice giace l' esteso e il molteplice, e ne riceve unità. Ora il principio, essendo presente a tutte ugualmente le parti assegnabili nel continuo suo termine, può operare secondo le leggi della propria spontaneità in tutte o in molte ad un tempo, e produrvi più movimenti contemporanei. I quali movimenti debbono perciò ricevere un doppio ordine, l' uno dall' organizzazione che hanno le parti del termine esteso, l' altro dall' unità del principio che le muove e dalle leggi della spontaneità di lui, il quale, appunto perchè unico, mantiene la stessa legge in tutte quelle parti di esso continuo che egli abbraccia nella sua azione. Posciachè, dunque, sono regolarmente disposte le parti del corpo animale, e posciachè è unico il principio che le muove, debbono necessariamente aversene dei movimenti regolari. Ma non basta; vi è qualche altra cosa che conferisce alla detta regolarità; vi è la legge dell' immaginazione mirabilmente ordinata dal Creatore. Qual' è questa legge? - Eccola: « Nel cervello viene segnato in piccolo il mondo, a quella guisa che il mondo viene pure segnato nel sensorio ottico dalle impressioni luminose; e il mondo segnato nel cervello (sensorio dell' immaginazione) ha una sì fatta corrispondenza col corpo umano che quei vestigi del mondo, che stanno nelle minime areole del cervello, i quali soggettivamente considerati sono le immagini, riescono principŒ e sedi di movimenti opportuni, per sì fatta guisa che il principio sensitivo non ha d' altro bisogno a produrre i movimenti da esso appetiti che di operare in quelle minime parti estreme del cervello, donde i movimenti si propagano alle membra del corpo ». A dir vero non avviene a lui questo propriamente allo stesso modo come accade al pianista che suona, toccando i soli tasti dello strumento, oppure come al capitano di vascello che, seduto nel suo stanzino, con girare un piccolo ordigno muove e governa a sua volontà l' immenso timone della nave; no, queste similitudini che in qualche modo si approssimano, non quadrano intieramente. Perocchè il movimento che produce il sonatore immediatamente nei tasti, e quello che produce il capitano nel giuoco del timone, si propagano alle corde dello strumento ed al timone con una comunicazione di moto al tutto meccanica; laddove il principio sensitivo dall' immagine a lui presente piglia solamente eccitamento e indirizzo a fare quell' atto, che muove addirittura immediatamente le membra del corpo, tutto sensibile al bisogno del suo appetito. A ragion d' esempio, l' animale affamato prova dell' inquietudine, che è principio di movimento verso la soddisfazione dell' appetito. Ma se gli ritorna nella immaginazione quel luogo dove egli ha già sbramata altra volta la fame, e il cibo ivi trovato; l' immagine complessa dello stato suo in quel luogo, e della soddisfazione godutavi, e della strada che vi conduce, quell' immagine, che è un' associazione di più immagini fuse in una sola, in un solo sentimento, è sufficiente a suscitare in lui una quantità di forza motrice, e a determinare accuratamente quella direzione di moto, che lo porta con celerità sul luogo reale rispondente al luogo immaginario, per la corrispondenza delle immagini colle entità reali, cause delle sensazioni. E ciò perchè si tratta di confrontare sensibilmente la sensazione avuta all' immagine, fra le quali cose vi è proporzione. E vi è proporzione, perchè lo spazio, ossia l' estensione illimitata, è presente al sentimento animale e in esso ha esistenza, come abbiamo detto; e i confini, che affigurano il detto spazio, sono egualmente segnati dalla sensazione esterna e dall' immagine, due modi dello stesso sentire. I movimenti dunque del dimenar delle gambe che portano su quel luogo, dove egli si è sbramato altra volta, sono sentimenti attivi che egli fa per condurre la soddisfazione, che ha in immagine, a perfezionarsi colla sensazione : è un passaggio dallo stato di immagine (non soddisfacente), allo stato di sensazione (soddisfacente); ed i moti impressi alle gambe sono una serie di sentimenti attivi che legano quei due stati, cioè di sentimenti che partono dallo stato di soddisfazione immaginata per riuscire allo stato di soddisfazione sentita e pienamente goduta. E quella serie di sentimenti attivi e di movimenti conseguenti, essi stessi sono tracciati nel sensorio, e dietro tali traccie riprodotti. In caso contrario, cioè se non fossero stati prima sperimentati, essi possono nascere siccome altrettanti tentativi in cui vuole svolgersi lo stato molesto dell' inquietudine, fuggendo il quale, l' animale giunge, quasi a tastone, a sgombrarlo da sè e trovare la bramata soddisfazione (1). E qui si consideri che quello che noi abbiamo detto del cervello, che è unicamente « il sensorio dell' immaginazione », non del pensiero, si deve dire di ogni altro sensorio, che abbia ritentiva; perocchè i sentimenti animali non consistono puramente in immagini, ma sono molti e variatissimi (2). Noi però, affine di semplificare il discorso, non parleremo che dei movimenti che incominciano e si dirigono per via d' immagini. Dalla descrizione adunque che abbiamo fatto della maniera, secondo la quale si muove l' animale a recarsi nel luogo dove altre volte satollò il ventre, si può raccogliere: Che l' immaginazione o la ritentiva dello stato soddisfacente, che manca all' animale, è il principio del suo movimento. Che quel movimento è volto a cercare di conseguire lo stato soddisfacente immaginato, cioè di passare dallo stato di soddisfazione immaginata allo stato di soddisfazione sentita e goduta. Che questi due stati sono divisi da una serie più o meno lunga di altri stati, pei quali l' animale deve passare affine di giungere dove appetisce di giungere, allo stato di soddisfazione sentita . Che egli mosso a fare questo passaggio, tenta di percorrere la serie degli stati pei quali, passando dallo stato di soddisfazione immaginata, si conduce finalmente allo stato di soddisfazione sentita . Che gli stati intermedŒ sono quei successivi, in cui l' animale si trova durante i movimenti che egli fa per giungere a soddisfarsi, i movimenti, poniamo, coi quali si pone in via per giungere al luogo del cibo. Che se la serie degli stati intermedi non fu da lui sperimentata, nè per conseguenza segnata nel sensorio encefalico, egli è costretto a cercarla con diversi tentativi, come fa il lupo che, dopo essere qua e là vagato, finalmente si volge a quella direzione dove sente venirgli odore di ovile. Che la serie di quegli stati essendo disposta con successione, la successione stessa, che non sembra atta ad essere segnata nel cervello come successione, rimane però nella virtù del principio sensitivo per la unità e identicità di questo principio, per la quale egli sta presente alla moltiplicità della serie successiva, come è presente alla moltiplicità delle parti assegnabili nell' esteso; e per la legge dell' abitudine egli ha poi virtù di rifare la scala della successione, e ciò con un atto solo principale, estendendo la sua semplice attività di un tratto alla successione intera; al che è da credere che l' aiuti altresì la docilità dell' organismo, nel quale certi movimenti possono essere così congegnati che debbano quasi necessariamente ad altri succedere, e certo deve appunto così accadere in chi sogna di correre o di volare. Ritengasi dunque la distinzione di queste tre parti della catena di operazioni, per la quale procede l' istinto animale: 1 lo stato da cui l' animale parte, che è stato di soddisfazione immaginata, presentita, aspettata; 2 lo stato a cui perviene coi suoi movimenti e sforzi, che è stato di soddisfazione sentita, compiuta, esaurita; 3 gli stati intermedi pei quali l' animale passa affine di trasferirsi dal primo stato al secondo, che sono stati d' inquietudine, di sforzo, di movimento. Ora gli stati intermedi, pei quali l' animale passa affine di compire la soddisfazione iniziata nella fantasia o in generale nel sensorio interno, possono essere più e meno, secondo che lo stato da cui parte è più lontano o più vicino allo stato a cui tende di pervenire. Poniamo il caso che di questi stati intermedi non ce ne fosse nessuno. Allora lo stato di soddisfazione compiuta o accresciuta susseguirebbe prossimo allo stato di soddisfazione immaginata. E questo è appunto quello che avviene nell' animale, quando egli tende ad accrescere una soddisfazione o piacere sensibile, col solo attuare maggiormente i sensorii, per sentire con più di vivezza e di diletto ciò che incomincia leggermente a sentire. Anche rispetto a questo fatto del passaggio immediato da uno stato di soddisfazione incoata ad uno stato di soddisfazione compiuta, noi dobbiamo generalizzare quello che abbiamo detto dell' immaginazione ad ogni specie di sentimenti interni. L' immaginazione non è che una maniera di sentire, è sentire nel cervello, dove si riproducono principalmente le sensazioni ottiche, le quali hanno forma d' immagine; ma molti altri sensorii vi sono; ed ogni sentimento animale, a qualunque sensorio appartenga, è fonte d' istinto. Quindi l' animale, per ogni sensazione dilettevole solamente incoata ch' egli prova, si sforza di compirla quanto può, facendola crescere a quel grado massimo di intensità, oltre il quale la fatica, che deve fare in ciò, limita il suo conato. Qui ritorna ancora la virtù formatrice, per la quale gli elementi vivi si compongono in semi e in animali; e i semi si svolgono pure in animali; e gli animali crescono, si sviluppano, si perfezionano, decadono, muoiono. Ora, posciachè in ogni aggregato messo insieme dalla virtù formatrice vi è un principio unico di azione, e vi è pure una unione ordinata di sentimenti disposti in un termine esteso, s' intenderà facilmente che la virtù formatrice si può considerare sotto due aspetti: 1 da parte del principio unico, in cui sta l' efficienza di lei; 2 da parte del termine sentito con sensazioni connesse armonicamente, in cui sta la norma dirigente il principio nell' operare. Questo termine, considerato come istinto sensuale, si può acconciamente raffigurare siccome quasi uno stampo vivo, operante da sè, ed a questo conviene riserbare la denominazione di forza plastica . Se poi negli animali più perfetti che hanno cervello, questo sensorio dell' immaginazione contribuisca a dare certa conformazione, certi accidenti, certe disposizioni al feto, questa è questione superiore alle nostre cognizioni. Ma crediamo poter dire: 1 che alla formazione e disposizione del feto non contribuisce la sola immaginazione della madre, ma tutto il sentimento materno, e il sentimento annesso agli elementi di cui il feto si compone, e al feto stesso già composto; 2 che l' immaginazione, essendo una parte del sentimento materno, non è inverosimile che possa avere una qualche, più o meno mediata, influenza sul feto, avendola certamente su tutto l' essere animale della madre, che rimane modificata dalle passioni, a cui l' immaginazione dà principio e fomento (1). Ma per compiere questo discorso rimane a ricercare quale sia il principio che muove l' immaginazione. - Perocchè è da considerare che ogni immagine è composta di più parti, di contorni a rette, a curve, di colori con gradazione di tinte, e fino di movimenti diversi che fa l' immagine, come se ella rappresentasse un cavallo che corre; ora quelle parti, quelle tinte, quei movimenti hanno convenienza fra loro, non sono posti a caso; quale è dunque l' egregio pittore che abbia saputo suscitare nel sensorio encefalico tanti minutissimi movimenti, con tanta proporzione fra loro da rendere l' immagine perfetta, neppure uno di più, non uno di meno, che avrebbe guasto ogni cosa? Se ben si considera, questa è un' opera stupenda della natura, perocchè il sensorio per sè stesso è atto a rendere non solo quelle immagini intere, ma le loro parti o anche dei colori che nulla rappresentano. Quale è dunque il principio unico, che lo determina a quel complesso di sensazioni che rendono l' immagine così intera e bellissima, e ciò non già componendola successivamente, non aggiungendo tinta a tinta, e quasi pennellata a pennellata come fa il pittore, ma ponendola in atto, senza pentimenti, a prima giunta, e tutta in un solo istante? Come appunto fa la natura a colorire i fiori e gli insetti, i cui armonici colori sono posti tutti simultaneamente, e la vaga pittura apparisce tutta formata ed intera, senza che una foglia o un' ala rimanga indietro in quel lavoro meno dipinta della foglia o dell' ala sua pari. Per spiegare questo fatto dell' ordine e della regolarità perfetta dell' immagine, che comparisce intera d' un tratto solo, noi ricorriamo a tre principŒ: 1 al principio che l' operatore, la causa efficiente, è semplice, e questo è il principio sensitivo (benchè vi possano concorrere più cause eccitanti), il quale è presente nello stesso tempo a tutta la sensazione primitiva, cui l' immagine riproduce; 2 al principio dell' abitudine, che rende l' atto fatto altre volte più facile a fare, perchè rimangono gli iniziamenti dell' atto primitivo, cioè della sensazione benchè cessata, onde l' anima si determina all' atto altrove sperimentato; 3 ma posciachè le immagini che si hanno nel sogno, o anche in veglia, non sono la riproduzione esatta delle sensazioni avute, perciò è da ricorrersi a un terzo principio; e questo si è che « l' animale fa sempre quello che gli è più facile e più piacevole », e ciò avuto riguardo a tutte le condizioni nelle quali si trova il suo principio sensitivo ed istintivo. Ora, quando il principio sensitivo semplice ed uno si muove a produrre in sè stesso delle immagini, a questo è mosso da una moltitudine di stimoli interni, che sono principalmente gli umori del corpo umano, i quali col muoversi regolarmente o irregolarmente eccitano ai suoi atti il sensorio interno della immaginazione e il principio unico, da cui viene l' azione vitale del sensorio. Questo principio, adunque, si lascia suscitare all' azione dalla concorrenza di quella moltitudine di stimoli, e la sua spontaneità si determina a quella maniera di azione complessa, che fra tutte gli è più facile e più piacevole. Egli non resiste all' eccitamento di alcuno stimolo se non indottovi dall' urgenza di uno stimolo maggiore. Nello stesso tempo la sua unicità e semplicità, aiutata anche dall' abitudine, gli rende necessario e spontaneo il porre un ordine fra tutte le minime immagini o parti d' immagini, che vengono provocate dagli stimoli nel suo sensorio, sì perchè non potrebbe con un atto solo tutte contemporaneamente produrle, se egli non le sintesizzasse ed ordinasse ad unità, e però gli riuscirebbe molestissimo lasciarle sbandate a caso, o sopprimerle col resistere agli stimoli che le eccitano; e sì perchè è a lui più piacevole e dilettevole l' unione armonica di esse. Ma questa unione armonica egli la trova subito, giacchè è determinata dalla sua stessa natura, cioè dalla legge del più facile e del più piacevole. Egli pone dunque della sua attività reggitrice ed ordinatrice in questo fatto, e così ottiene una scena d' immagini, benchè in parte diversificate dalle sensazioni altra volta sperimentate, pure bene ordinate, poniamo, a foggia di storia, e legate insieme. L' attività dominatrice del principio sensitivo sulle immagini che stanno per eccitarsi, qui ha dunque una parte grandissima. L' atto dunque, col quale l' immagine si ripristina, è un atto solo, benchè si estenda a molti movimenti contemporanei nelle varie fibre del cervello che debbono riprodurre l' immagine, e ciò perchè l' anima sensitiva con un atto solo può operare più effetti, a cui ella è contemporaneamente presente nella sua semplicità; sicchè ogni gruppo di effetti diversi è un atto solo diverso. Ella si determina poi a riprodurre più facilmente, almeno in parte, le immagini di cui ebbe le sensazioni, da questo, che la spontaneità ubbidisce all' abitudine, che è quasi una continuazione e un ravvigorimento dell' atto precedente non in tutto cessato. Vi è dunque nell' animale un principio unico, rettore di tutte le sue operazioni istintive, ed è « la tendenza di pervenire a quello stato di soddisfazione che in lui si trova incoato »; il qual principio deve dare una singolare regolarità al suo operare, e contrastare a tutto ciò che è irregolare, cioè opposto a quella regolarità, che consegue alla sua natura molteplice nell' unità. Ora, se si rinviene tanta regolarità nelle operazioni dell' animale, non minore certo ella deve essere in quelle del principio razionale. Ma posciachè il termine del principio razionale è l' oggetto, perciò dobbiamo qui venire a trattare della regolarità oggettiva. Perchè dunque piace alla mente di contemplare ciò che ella trova regolarmente disposto? Se si considera che molte cose disposte con certa regolarità sono più facili a concepirsi ed abbracciarsi col pensiero, e che il più facile è preferito, sempre per la legge di spontaneità che presiede ad ogni agente, si troverà in ciò una prima ragione, che dimostra dover tornare gradito a chi contempla più cose, che esse sieno regolarmente disposte. E veramente essere disposte regolarmente vuol dire essere disposte con ordine, e questo vuol dire essere disposte secondo un' unica regola, nella quale subito si vede dalla mente quale sia, quale debba essere tutta quella disposizione. A ragion d' esempio, poniamo dinanzi allo sguardo della nostra mente una serie di numeri disposti in proporzione aritmetica o in proporzione geometrica; colui che sa il primo numero di questa serie e sa la differenza del primo al secondo, o il quoto del primo diviso pel secondo, non ha bisogno d' altro a conoscere quale sarà la distribuzione di tutti i numeri successivi, e con notizie cotanto semplici egli può descrivere da sè stesso quelle serie, quantunque lunghe si vogliano. Nella regola dunque della distribuzione, che nell' esempio addotto sarebbe la differenza per la serie aritmetica e il quoto per la geometrica, in quell' ultima e semplicissima regola l' intelligenza abbraccia compendiata tutta la moltitudine delle cose, in quanto sono così regolarmente disposte, ed anzi quanta moltitudine le piace d' immaginare egualmente disposta. Quelli che hanno qualche nozione di matematica, conoscono assai bene come le curve si segnano mediante equazioni algebriche, le quali altro non fanno che presentare la regola, secondo la quale sono disposti tutti i punti assegnabili in una curva, cioè con quale ordine quei punti sono determinati ai loro luoghi l' uno relativamente all' altro. E` vero che l' equazione algebrica non presenta all' immaginazione la forma della curva, ma ne dà la chiave all' intelligenza, insegna all' intelligenza a descriverla quando vuole, sia sulla carta, sia nella propria immaginazione; e questa cognizione così abbreviata, semplificata, è sommamente dilettevole alla mente, che arriva con ciò a possedere e sapere assai più di quanto potrebbe ritrarre dalla percezione dei sensi, sempre limitata a un numero di individui. Quindi colla regola intellettiva si conoscono le pluralità delle cose in ispecie, e non in individuo, cognizione che abbraccia immensamente più. La quale è una seconda ragione per cui l' intelligenza ama la regolarità nell' oggetto molteplice contemplato; l' ama non solo perchè coll' intervento di essa pensa la molteplicità in modo più facile, ma ben anche perchè pensa di più, ed oltracciò la pensa in modo da potere riprodurre ella stessa, quanto più le piace, di quelle molteplicità. Vero è che anche una molteplicità irregolare può essere dalla mente cangiata in una specie, contemplandola slegata dalla percezione sensibile; ma questo riesce oltremodo faticoso, massime se la molteplicità irregolare sia numerosa. Oltracciò quella moltiplicità non può essere accresciuta dalla mente se non ha una regola secondo cui accrescerla, come accade nelle serie, ond' ella si rimane sempre limitata. E qui si disvela una terza ragione per la quale al principio razionale è dilettevole la regolarità, ed è che ella lo rende atto ad operare. Allorquando egli è in possesso della regola, che ordina e dispone in un dato modo la molteplicità delle cose, questa regola gli diviene principio e norma di operazione, sì rispetto al ragionare che ad ogni altra maniera di operare . Si ritorni all' immortale invenzione di Cartesio, che ridusse le curve a forme algebriche. L' avere una curva in una formola algebrica altro non è, come vedemmo, che l' avere espressa la regola, secondo la quale sono distribuiti i punti assegnabili in essa. Ora, chi non sa quanto il possesso di queste formule aiutò la scienza a determinare cotante e bellissime proprietà delle curve, che altrimenti sarebbero restate incognite? E come si determinarono queste proprietà dai matematici se non fondando appunto i loro ragionamenti sopra la regola, secondo cui trovarono essere disposti i punti assegnabili nelle varie curve, ed espressero tali disposizioni in formule od equazioni? L' aver conosciuta quella formula che esprime quale sia la regolarità delle curve, fu amplissimo fonte di nuove cognizioni alla mente; il conoscere adunque la regola, secondo la quale è formata la regolarità di una molteplicità di cose, è principio fecondissimo di sempre nuove cognizioni, che stanno tutte virtualmente accolte in quel principio. E si noti che queste cognizioni, che si vanno discoprendo quando si ragiona partendo dalla notizia di quella regola che ordina i rapporti di più cose, non sono solamente diletto alla mente, ma danno applicazioni pratiche; e lo sanno bene coloro, che conoscono quanto la meccanica e l' idrodinamica si sieno vantaggiate in ragione che si scopersero le regole, che esprimono in compendio la regolarità delle diverse linee rette e curve, e dei loro varii sistemi. Onde l' uomo deve amare la regolarità delle cose anche per questo, che nella regolarità, trovatane la regola, egli ha un principio: 1 che gli apre grandissimo campo a procacciarsi nuove cognizioni; 2 gli aggiunge nuove ed incredibili potenze di operare nel mondo esteriore. Si deve anche aggiungere per una quarta e più sottile ragione, che la regolarità delle cose, contemplate dalla mente e raccolte in breve regola, aiuta l' uomo a ordinare anche sè stesso, e quindi a migliorarsi moralmente, amando egli di riprodurre in sè l' ordine che è avvezzo a contemplare colla mente. Il che egli deve fare anche istintivamente, conciossiacchè il principio razionale non manca del suo istinto; e l' ordine delle cognizioni, che sono nella mente umana, è principio istintivo di operazione bene ordinata. Ma la quinta ragione dell' inclinazione del principio razionale alla regolarità è quella che spiega e compie tutte le precedenti; ella viene dal principio di cognizione che « l' oggetto del pensiero è l' ente ». Ora l' ente è uno per sua essenza; onde l' intelligenza s' innalza tanto più alla contemplazione dell' ente, quanto più le riesce di scorgere l' unità nella molteplicità delle cose. Perocchè, che è mai l' unità delle cose molteplici? E` un considerarle nell' essere universale, e a lui riportarle come al loro supremo contenente; onde, essendo bene dell' intelligenza il proprio suo termine, ella aspira a vedere tutte le cose nell' essere universale, dove si trovano unificate. Quindi è principalmente che ella ama assai più una cognizione per principŒ che per conseguenze, perchè i principŒ non solo spaziano infinitamente più alla distesa che non molte e molte conseguenze da loro dedotte, e però hanno più di luce, ma ben anche dentro ai principŒ le conseguenze risplendono unificate. E il conoscere le cose molteplici in quella regola che dà loro una distribuzione regolare, è già conoscerle per principŒ. Vero è che la cognizione delle cose per principŒ, presa da sè sola, è una cotale cognizione iniziale e virtuale; sotto il quale aspetto il conoscere per principŒ è minore cognizione che non sia il conoscere per conseguenze. E come le conseguenze conosciute senza i principŒ non dànno altro che una cognizione percettiva, imperfettissima, perchè oltremodo limitata in quanto all' estensione del lume; così la cognizione dei puri principŒ, senza la distinzione delle conseguenze, è una cognizione astratta, anch' essa imperfetta, non quanto all' estensione del lume, che è infinita, ma quanto alla intensità e per la mancanza di comunicazione colla realtà. Ma quando si conoscono ad un tempo i principŒ e le conseguenze, quando si conoscono queste in quelli, siccome accade nel caso addotto di una moltitudine di cose, nella quale si scorge la regola secondo cui sono distribuite e disposte, allora si ha la cognizione perfetta, che soddisfa a pieno l' intelligenza, e scorge ed aumenta senza fine l' umana attività. Tali sono le ragioni per le quali il principio razionale ama di contemplare le cose regolarmente disposte. Ma ora questa regolarità può essere sommamente variata, può variare all' infinito la regola che la determina; e il classificare coteste diverse regole, dimostrandone le proprietà, sarebbe opera immensa, da tentarsi da colui che volesse comporre un trattato di Callologia . Noi ci contenteremo di distinguerle in due grandi generi: Il genere di quelle regole che distribuiscono gli enti in un ordine esteriore, secondo il luogo (simmetria) ed il numero (proporzione). - Coordinazione . Il genere di quelle regole che distribuiscono gli enti secondo la convenienza fra l' interiore e l' esteriore, il principio ed il termine (organismo), il fine ed il mezzo, i principŒ e le conseguenze, la causa e l' effetto, ecc. - Subordinazione . Il primo genere di regolarità è più facile a conoscersi, perchè apparisce anche nelle cose percepite coi nostri sensi. Il secondo è più difficile; e a cagione di questa maggiore difficoltà appare sovente che non vi sia regolarità colà, dove non si vede il primo genere di essa; eppure ella vi è, anzi più nobile ed eccellente. Ed è per questo difetto che il giardiniere, che dà ad un albero la forma di una croce contro la sua natura, crede di renderlo regolare, perchè lo costringe a ricevere una regolarità di primo genere; quando infatti egli distrugge la regolarità propria della natura di quell' albero, che era regolarità di secondo genere, da quel rozzo giardiniere e dal suo signore ignorata. Ma posciachè giova non poco distinguere accuratamente quale specie e natura di armonia sia quella di che il principio sensitivo è atto a godere, e quale sia quella di cui gode il solo principio razionale, soffermiamoci a considerare un poco una sentenza di Leibnizio, il quale definiva la musica « « una aritmetica dell' anima » ». L' anima sensitiva gode ella veramente dei numeri e delle loro proporzioni? Gode della simmetria delle parti? Gode finalmente dei movimenti proporzionali? Questa questione ha bisogno di più distinzioni e riflessioni. Primieramente è certo che tutto ciò di che gode il principio sensitivo, è soggettivo : sono modificazioni di lui. All' incontro, il principio intellettivo e razionale gode dell' oggetto, gode di ciò che conosce essere nell' oggetto e non essere in sè stesso, gode di un bene che considera fuori di sè ed a sè non riferisce. Tuttavia anche il principio sensitivo ha un termine esteso e molteplice, dove cade simmetria, numero di movimenti, proporzione di numero e proporzione di tempo fra i movimenti. Gode egli di tutte queste cose? Da quel che è detto rimane escluso il godimento oggettivo di queste diverse maniere di ordini, il quale godimento appartiene al solo principio intellettivo e razionale. Che cosa vuol dire rimanere escluso il godimento oggettivo? Vuol dire che non può godere di quella simmetria e di quella proporzione, considerate come qualche cosa di buono e di bello in sè stesse, indipendentemente dal soggetto. Il principio razionale, che considera la simmetria e la proporzione oggettivamente come un bene indipendente da sè, la stima e loda, anche se per accidente gli fosse nocevole; la stima e loda per l' unica ragione dell' eccellenza che egli vede avere in sè medesima; se gli effetti saranno a lui dolorosi, egli porterà di questi un giudizio contrario, li giudicherà mali (e in questi effetti vi è già un disordine); ma al lato di questo giudizio sugli effetti rimarrà intatto il giudizio precedente sulla causa, cioè sulla simmetria e sulla proporzione. Il bello e il buono, che ammira in essa, è immutabile ed eterno come l' essere. Nulla di ciò può fare il principio sensitivo: non può conoscere, nè di conseguente apprezzare la simmetria e la proporzione in sè stessa, ma solamente può sentirne gli effetti e godere di questi, se per lui buoni. Gli effetti della simmetria e della proporzione, che si trova nel termine del sentimento, non sono la stessa simmetria, la stessa proporzione; benchè l' effetto (il sentimento avutone) sia analogo e corrispondente ad essa, e, se si vuole, abbia anche la simmetria e la proporzione in sè stesso. Dunque il principio sensitivo non gode della simmetria e della proporzione, come tali. Ma se il godimento sensibile ha pur esso simmetria e proporzione, dunque gode di queste. No, perocchè quando si gode di una cosa, altro è la cosa di cui si gode, altro è lo stesso godimento. Dire che il godimento gode di sè stesso non è che una logomachia, un rendere doppio quello che è semplice; il godimento non gode di sè, ma l' uomo per esso semplicemente gode. Se dunque nello stesso godimento, contemplato dalla mente, si rileva qualche ordine simile a quello della simmetria e della proporzione, non si dirà perciò che il principio sensitivo goda di queste disposizioni; ma piuttosto che il godimento è una cotal simmetria e proporzione vivente e godente. Perocchè non quelle cose, che hanno simmetria e proporzione, godono di quest' ordine che hanno in sè stesse; ma ne gode colui che, contemplandole, ve lo scorge. Onde se il principio razionale trova simmetria e proporzione nell' intima costituzione del godimento animale, è il principio razionale che gode di quest' ordine, che ha quel godimento; ma il godimento è solo un fatto semplicissimo ignaro di sè, della propria natura. Onde il godimento, costituito dalla simmetria e dalla proporzione del suo termine, è ancora un effetto e non un godimento di queste armoniche disposizioni. Sono dunque questioni assai disparate: Se il principio sensitivo goda della simmetria e della proporzione. Se il principio sensitivo goda per l' effetto che in lui produce la simmetria e la proporzione, che giace nel suo termine. Alla prima si deve rispondere negativamente; e si conferma questa risposta osservando che se il principio sensitivo fosse atto a godere della simmetria e della proporzione, egli dovrebbe godere di ogni simmetria e di ogni proporzione che fosse nel termine suo, come appunto fa il principio razionale, che contempla tali ordini nell' oggetto; laddove è di fatto che il principio sensitivo, che gode in conseguenza di certe simmetrie e di certe proporzioni che prende il suo termine, non gode di altre disposizioni simmetriche o proporzioni, che non gli recano l' effetto piacevole a cui egli tende; non è dunque dell' essenza, della ragione della simmetria, di cui gode, ma dell' effetto che questa talora produce, talora non produce in lui. Ora, l' aver confuse queste due questioni distintissime fu cagione che alcuni uomini di gran mente, fra i quali Platone e Leibnizio, dessero all' anima sensitiva un cotal ragionare occulto e misterioso, la rendessero calcolatrice, perita di aritmetica squisita e di sublime geometria; errori sublimi, a dir il vero, in cui soltanto così rari ingegni potevano cadere, siccome quelli che soli erano arrivati a scorgere le simmetrie e le proporzioni insite al termine sentito; nè tuttavia pervennero a distinguere da esse con pari felicità il sentimento piacevole che ne è l' effetto. Onde attribuirono al sentimento che egli godesse della causa che lo costituisce, quando anzi nè tampoco la conosce; e gode nel termine simmetrico e proporzionale, ma non della simmetria e proporzione di lui. La quale illusione è pure agevole a prendersi dai grandi ingegni, poichè pare che l' anima sensitiva faccia le stesse operazioni che fa l' aritmetico, quando veramente non ne fa nulla. Vogliamo noi che l' anima sensitiva sembri che tiri la somma di due quantità? Immaginiamoci di trascorrere uno stagno in una barchetta, mentre un' altra barchetta ci passa al fianco in direzione contraria. L' occhio nostro, che riguarda la barchetta passante accanto alla nostra, sembra sommare insieme accuratissimamente le celerità delle due barche, perocchè il moto apparente di quella barchetta è d' una celerità precisamente pari alla somma delle due celerità dell' una e dell' altra barchetta. Vogliamo che l' anima sensitiva paia compire una sottrazione? Facciamo che mentre noi trascorriamo quello stagno con lenta barchetta, ce ne passi una appresso nella stessa direzione, con celerità due o tre volte maggiore della nostra; che cosa vedrà l' occhio nostro guardandola? Egli la vedrà andare con una celerità, che sarà precisamente la differenza fra la celerità di quella barca e la celerità della nostra; coglie l' occhio questa differenza con tanta precisione che con più non può qualsivoglia calcolatore. Vogliamo che l' anima sensitiva paia operare una moltiplica, una divisione, e per essere più brevi, vogliamo un fatto nel quale paia che ella faccia tutte e due queste operazioni insieme, e istituisca altresì per venirne a capo una vera proporzione geometrica? Immaginiamo che dalla nostra barchetta, la quale se ne va per lo mezzo dello stagno in linea retta, il nostro sguardo contempli due gioghi di monte, l' uno più lontano al di là dell' altro; con quale celerità di movimento vede egli muoversi quei due gioghi, l' uno incontro all' altro avvicinandosi o l' uno in direzione opposta all' altro allontanandosi? A saperlo dire ci vuole il calcolo, conviene rilevare la distanza dei due gioghi e la distanza del più vicino alla barchetta. Solo il calcolatore vi saprà dire, dunque, che il movimento apparente dei due gioghi risulterà da una equazione esprimente una proporzione geometrica. Ma l' occhio ha bello e sciolto il problema immediatamente, senza prender misure; egli vede appunto il movimento relativo dei due gioghi andare di quella celerità, nè più nè meno, che trova il calcolatore; e con questa differenza che il risultato del geometra può errare, e il risultato veduto dall' occhio in natura non sbaglia giammai. Che è dunque a dirsi? Forse che il senso calcola veramente? Che egli calcola una celerità con sicurezza maggiore che non sa fare la mente dei geometri? Pazza cosa il pensarlo; sarebbe un trasformare il senso in una mente assai più perspicace della mente stessa. E` dunque a dirsi che non è il senso che trova quei risultati, ma la natura che li produce e glieli somministra prodotti; perocchè la natura è così ordinata, come dicevamo, benchè ella non senta, nè conosca il proprio ordine; il moto, che si dà a vedere all' occhio, segue le sue proprie leggi, e gli si dà a vedere secondo che queste leggi prescrivono. Qual meraviglia dunque che il senso abbia per termini suoi tali quantità così disposte, così proporzionate, e che il geometra, volendone conoscere la disposizione e l' ordine, abbisogni di ricorrere a calcoli anche complicatissimi? Ora, se vi è ordine nella materia e nei suoi movimenti, è chiaro che vi deve essere ordine altresì negli organi sensori, che sono di materia composti. E se è cosa certa che il principio sensitivo tende ad avere per suo termine un determinato organismo, ed un organismo gli è più conveniente di un altro, perchè gli è occasione di spiegare maggiore attività sensitiva; qual meraviglia che il principio sensitivo stesso tenda ad avere nei suoi organi sensori certi movimenti anzichè altri, e regolati con certe proporzioni di ampiezza e di tempi? Si consideri altresì che la direzione e la comunicazione del moto riceve forma dalla configurazione e composizione del corpo stesso; per esempio, un corpo di una figura, ricevendo un impulso al moto, fa movimenti diversi secondo che varia il punto e la direzione in cui gli è applicata la forza motrice; e questa stessa forza applicata ad un corpo di altra figura dà un' altra guisa di moto. Avendo adunque gli organi sensori anch' essi una certa configurazione regolare, conveniente al principio sensitivo, i movimenti dei medesimi, se convenienti, debbono partecipare della stessa regolarità, e quindi avere un certo ordine. Ancora, è naturale che uno degli elementi di questo ordine sia la proporzione dei tempi, nei quali vengono fatti i diversi moti, che in essi s' imprimono. Perocchè la comunicazione del moto ubbidisce alla legge del tempo; e lo stesso movimento impresso a due corpi, l' uno dei quali è doppio di massa dell' altro, impiega doppio tempo a percorrere tutto il corpo e comunicarsi a tutte le sue molecole; ond' ecco una proporzione di tempo corrispondente alla proporzione della massa. Se la densità del corpo è eguale ed è doppio il volume, la comunicazione del moto di molecola in molecola andrà in ragione dei volumi. Quello che si dice della comunicazione semplice del moto per via d' impulso, si deve dire egualmente o in modo simile del moto per via di affinità o di attrazione, per via di onde o di vibrazioni, del moto semplice e composto, risultante da una sola forza o da più forze, ecc.. Ora, ammessa la legge che « al principio sensitivo piace di compire i suoi atti, e di non essere guastato nel mezzo di essi, e fatto voltare ad incominciar nuovi atti », è chiaro che i movimenti, che egli cercherà nel suo termine, dovranno avere fra loro una proporzione di tempo, non vorranno riuscire raddossati, intralciati e confusi, ma distinti e ordinati, affinchè colle loro more regolate lascino tempo al principio sensitivo di compiere le sue operazioni, e di spiegare tutte le attualità da lui mosse senza frastornarnelo. Il principio sensitivo non ama dunque questo ordine per sè, ma per avere agio a spiegare l' attività che egli vuol sempre ultimare e svolgere a pieno; gli duole se, intoppandosi, gli rimane impedita. E perchè nella produzione delle sensazioni, per esempio delle ottiche ed acustiche, ad un dato numero e metro di vibrazioni risponde una sensazione semplicissima, poniamo del bianco o del rosso, dell' alamire o del fefautte? Non è questo prova evidente che nel sentimento non entra il numero delle vibrazioni e le loro proporzioni, ma che egli nasce come un effetto unico di questi molteplici movimenti extrasoggettivi? Si dirà: la luce maggiore rende l' occhio insensibile alla luce minore; di due camere egualmente rosse, la prima in cui s' entra sembra più rossa della seconda (1); il passaggio repentino da un grandissimo grado di calore a un grado assai minore dà una sensazione di freddo, e in generale dove vi è maggior passaggio nello stesso tempuscolo fra uno stato ad un altro di eccitamento, si ha più vivezza di sensazione. Pare adunque che la sensazione non si produca in ragione dell' assoluta azione dello stimolo esterno, ma della proporzione fra i varii stimoli che si succedono. - Si risponde che ciò non prova che il sensorio senta la proporzione degli stimoli, ma bensì che l' effetto di questa proporzione in certe circostanze è la sensazione più o meno vivace, appunto perchè il sensorio a compire i suoi atti ha bisogno di essere stimolato non a caso, ma con ordine e proporzione; ond' è che i movimenti troppo violenti e improporzionati possono produrre un sentimento minore, o anche nullo, verso movimenti più leggeri e convenientemente proporzionati. Il solo principio razionale, adunque, è quello che gode della regolarità simmetrica, proporzionale, e in una parola dell' ordine, che è cosa essenzialmente oggettiva; perchè egli solo è quello che ritrova e contempla più o meno distintamente la regola unica e semplice, che determina la regolarità. Il che trae nuova conferma da un' altra osservazione. Una data moltitudine di cose può essere considerata dall' intelligenza con diversi sguardi, e quindi ella può presentare regolarità diverse, simmetrie diverse, senza che la distribuzione reale di quelle cose cangi punto. Se regolarità diverse esistono in una stessa distribuzione di cose, dunque la detta regolarità viene costituita dai diversi sguardi della mente, e non è propria delle cose materialmente prese, nè del senso di esse. E che cosa poi sono questi diversi sguardi della mente? Onde avviene che le cose si trovano distribuite regolarmente in diversi modi? Certamente da questo, che la mente vede che quella distribuzione stessa di cose poteva essere così determinata da regole diverse; sicchè la mente, applicando diverse regole, quasi per altrettante vie, perviene a distribuire quelle cose nello stessissimo ordine. Illustriamo la cosa con un esempio tolto dallo scacchiere. Ognuno sa che lo scacchiere è una superficie quadrata, divisa in sessantaquattro quadrati minori. La distribuzione di questi quadrati è unica e semplicissima. Ma lo sguardo della mente può considerarli in varie maniere collocati ed uniti fra loro, e l' aspetto che essi presentano mirati in un modo è diversissimo dall' aspetto che presentano mirati in un altro modo. Se io considero quei quadrati come uniti insieme pei loro lati, mi esce un disegno diverso da quello che mi esce riguardandoli come uniti pei loro angoli. Io posso anche di alcuni di essi formarmi una figura, la quale, ripetendosi continuamente, mi esaurisca tutto lo scacchiere; ed ho così un disegno nuovo. Pigliamo i movimenti dei diversi pezzi del gioco degli scacchi, e per non essere soverchiamente lunghi, limitiamoci a tre: alla torre, al fante e al cavallo. Il movimento della torre va da un capo all' altro dello scacchiere, percorrendo la fila dei quadrati in quella direzione nella quale sono uniti dai loro lati. Ebbene, se io prendo l' intera fila degli otto quadrati, io posso definire lo scacchiere con questa regola: « lo scacchiere risulta da otto file di quadrati eguali uniti pei loro lati »; ecco una regola che mi determina una distribuzione simmetrica. Prendo i fanti, i quali percorrono le file dei quadrati diagonalmente, nella quale posizione si toccano negli angoli. Queste file di quadrati, toccantisi agli angoli, mi danno di nuovo tutto il medesimo scacchiere, che posso definire: « un quadrato composto di sedici file di scacchi quadrati, uniti diagonalmente ai loro angoli ». E se coll' occhio fisso queste sedici file da cui lo scacchiere risulta, mi pare un disegno totalmente diverso dal primo. Veniamo al passo del cavallo, che percorre sempre tre scacchi, uno dei quali in direzione obliqua. Io posso fissare coll' occhio la figura che risulta da questi tre scacchi, e poi considerare questi tre scacchi ripetuti in modo che mi empiano tutto lo scacchiere, che posso definire: « un quadrato diviso in vent' una figura, ciascuna delle quali ha la forma di due scacchi quadrati diritti ed uno obliquo, più uno scacco quadrato »; e considerando lo scacchiere come un aggregato di tali figure, egli mi sembra di tutt' altro disegno da quello che mi pareva prima. Ecco come lo stesso scacchiere reale, secondo le relazioni diverse delle sue figure, secondo i diversi sguardi della mente, diventi un piano avente diverse simmetrie, appunto perchè quei diversi sguardi della mente vengono a significare diverse regole che usa la mente, quali principŒ determinanti la simmetria, per concepirla nella sua ragione, nella sua regola, com' è consentaneo all' intelligenza. E questo ben dimostra che la regolarità contemplata dalla mente è posta dallo stesso vedere della mente, benchè la mente non potrebbe porla, se nella molteplicità, che forma l' oggetto di sua contemplazione, non ci fossero certe relazioni e corrispondenze coll' ideale, dove stanno le regole delle cose; onde anche qui ricomparisce il sintesismo fra il reale e l' ideale. A questo ancora è da attribuirsi il vedere che i bruti non danno alcun segno di gustare il bello, e neppur l' armonia musicale, benchè si risentano a certa melodia, come accade in alcuni serpenti, i quali non guastano il bello, ma il piacevole sensibile . La molteplicità è contemporanea o successiva . Quindi l' armonia, che in essa si può ravvisare, è pure contemporanea per l' ordine che hanno più cose presenti, come la simmetria di cui abbiamo parlato, l' ordine che hanno le parti al tutto, le sensazioni armoniche, ecc.; ovvero è successiva per l' ordine e la convenienza, che hanno i termini precedenti di una serie di fatti coi susseguenti. Di questa armonia successiva abbiamo già toccato, parlando dell' anima sensitiva e recandone in esempio i colori ed i suoni immaginari, che si succedono spontanei nel sensorio ottico ed acustico; consideriamola ora nello stesso principio razionale, che è tutto l' uomo. Al principio razionale piace l' ordine, dovunque lo contempli, per le cinque ragioni indicate. Il principio razionale può considerare quest' ordine tanto in cosa diversa da sè, quanto nel proprio sentimento. L' ordine, che l' uomo contempla nel proprio sentimento, è ciò che costituisce il bello estetico . Il proprio sentimento è ordinato, quando è piacevole. Quindi il bello estetico è bello e ad un tempo sensibilmente piacevole, laddove il bello, considerato nelle cose fuori del sentimento proprio, è bello senza essere piacevole sensibilmente, senza essere estetico. Il che non s' intenda così, quasi che la vista del bello non piaccia; ma si vuol dire che il piacere del puro bello è tutto intellettivo, onde è propriamente la contemplazione di lui che è piacevole anzichè l' oggetto della contemplazione, il bello stesso. All' incontro, se si parla dell' ordine nel proprio sentimento, oltre il piacere intellettivo della contemplazione vi è di più quel piacere che costituisce la natura del contemplato, perocchè ciò che si contempla è il sentimento piacevole . In questo caso il piacere stesso è la regola per conoscere se il sentimento è bene ordinato; dico il piacere vero, naturale, prevalente. Ora, non avendo gli scrittori intorno al bello fatto queste distinzioni fra il bello in generale e il bello estetico, e fra il bello piacevole e il semplicemente piacevole; hanno quasi sempre confuso il piacevole col bello, e racchiusa negli angusti limiti dell' Estetica la vastissima scienza della Callologia . Ora si rammenti che ogni sensorio animale è così ordinato (parte a cagione delle leggi della materia, di cui è composto, e delle leggi della comunicazione del moto, parte a cagione dell' organismo, parte a cagione delle relazioni della materia e dell' organizzazione coll' attività del principio senziente) che, stimolato che sia, egli è tantosto determinato e mosso ad una data serie di movimenti successivi, e non ad altri; onde se un' altra serie interrompesse quella prima e la perturbasse, riuscirebbe cosa sconveniente alla natura sensitiva, e spiacevole. Di che la spontaneità del principio senziente, tendente sempre allo stato e all' atto di maggior piacere, aiuta e promove la prima serie dei movimenti, e ripugna ad assecondare la seconda serie. Così, se la corda di violino è vellicata, dà delle oscillazioni isocrone, le quali scemano di estensione e di celerità in una proporzione costante. Se dunque quella corda fosse animata, ella stessa fosse un organo sensorio, inclinerebbe a compire tutte quelle sue oscillazioni fino a trovare il riposo, e ripugnerebbe a quelle forze che volessero interrompergliele o alterargliene l' isocronismo, che è l' operare a lei più facile e naturale (1). Ora conviene considerare che, quantunque nell' animale vi sia un solo principio senziente che lo costituisce, tuttavia sono molti i sensorii, e che nell' uomo, il più perfetto fra gli animali, sono moltissimi, altrettanti quanti i suoi organi e apparati sensitivi, altrettanti quante le specie delle sue sensazioni. Ciascuno poi di tali sensorii ha una serie di movimenti successivi a lui connaturale e piacevole, cioè ha una serie di sensazioni, per le quali passa la sensazione prima innanzi di estinguersi interamente. Di più, se gli stimoli esteriori corrispondono a un tale oscillare dell' organo sensorio, sicchè lo aiutino a percorrere quella serie di sensazioni ordinata con fisso metro e a renderle vive, quegli stimoli sono piacevoli, altrimenti sono molesti, fastidiosi, e anche più o men dolorosi. Fra le altre circostanze, le quali entrano a determinare la naturale successione delle sensazioni proprie di un organo sensorio, vi è altresì la noia e la stanchezza, che nasce allorquando le sensazioni non hanno interposte quelle pause, quel riposo dell' organo, che lo rifocilla e rimette in vigore; il qual bisogno di riposo dipende dalla legge stessa che prescrive il metro, determinando le more fra le sensazioni, la durata di queste, l' intensità, ecc.. Ma se i sensorii sono molti, ed ognuno ha il suo proprio metro nella serie delle sensazioni che egli ama, come non accade che i diversi sensorii non vengano in collisione fra loro, quando operano contemporaneamente? - Conviene presupporre, certamente, che l' autore sapientissimo della natura umana li abbia prima di tutto armonizzati insieme per un ammirabile organismo. Oltre di ciò, sopra di tutti ed alla loro testa, per così dire, sta l' unico principio sensitivo, che tutti li domina e accorda insieme, il cui gusto prevalente si è quello che determina il vero piacere che gode l' uomo. Di qui anche l' operare contemporaneo e successivo dei varŒ sensorii riceve una regola suprema, che determina loro il tempo dell' operare, le pause, le proporzioni, le intensità, ecc.. Finalmente nell' uomo, oltre il sentimento animale, vi è il sentimento intellettivo e il sentimento morale; due sentimenti assai elevati, i quali pure hanno una loro naturale armonia nelle loro operazioni e nei loro piaceri. E come il sentimento intellettivo coll' armonia sua propria, che deve prevalere perchè d' un ordine più sublime, modifica nell' uomo l' armonia animale e la raggiunge a sè; così il sentimento morale coll' armonia sua propria modifica e tempera l' armonia animale intellettiva, e la raggiunge e fa servire a sè, riuscendone di tutte insieme una sola armonia, con una sola altissima unità. Laonde nell' uomo sono preordinate e prestabilite le seguenti armonie, che si fondono in una sola: L' armonia degli atti naturalmente successivi dei singoli sensorii. L' armonia dei sensorii fra loro, armonizzati dall' unità del principio sensitivo, onde l' armonia animale. L' armonia animale signoreggiata e informata dal principio intellettivo, onde l' armonia animale7intellettiva. L' armonia animale7intellettiva signoreggiata, informata e compiuta dal principio morale; che è veramente l' armonia intera dell' uomo, armonia umana. Tutto questo complesso di attività armoniche hanno predeterminata dalla natura certa successione di atti fra loro variamente disposti. L' uomo ha l' istinto a questa successione; questo istinto veramente umano non opera sempre con pieno vigore per suo proprio difetto, o per debolezza e vizio dell' uomo; ed allora nascono delle disarmonie nell' uomo. Ma queste disarmonie, che accusano debolezza e vizio nel grande istinto umano, non dimostrano però che egli cessi del tutto dall' operare; egli opera; operano con lui gli istinti armonici parziali; e questo complesso di attività è quello che determina le successive disposizioni, le propensioni e le avversioni, che prende l' uomo nel corso di sua esistenza sopra la terra, che prendono le nazioni nella vita loro ed i secoli nel loro continuo rivolgersi. Dei quali principŒ facciamo qualche applicazione alla spiegazione dei fenomeni. Onde le continue mutazioni della moda? sono esse forse l' effetto del mero arbitrio e del capriccio dei vani, o del calcolo degli speculatori? - Così si crede volgarmente; si attribuisce all' accidente quello la cui causa rimane nascosta, perchè troppo profonda, troppo difficile a rinvenire. Ma se si considera attentamente questo fatto singolare, che si manifesta più o meno nelle nazioni pervenute a certo grado di politezza, si rileverà facilmente essere impossibile che il mero arbitrio di alcuni, che incominciano l' introduzione di una nuova foggia d' abbigliamento e d' ornamento, si faccia ubbidire con tanta docilità alla nazione intera per forma che pare unanime, e senza contrasto verso quella trascinata; e molto meno il gusto di tutti si può conformare e rimutare ogni dì in servigio degli speculatori, i quali non formano il gusto universale, ma speculano anzi sopra di esso. D' altra parte, se si domanda alle persone che diconsi di buon tuono , d' entrambi i sessi, esse vi assicurano che le mode nuove sono proprio le più belle, e che la foggia per qualche tempo usata, prima bellissima, già dispiace poco dopo, annoia, sembra proprio una goffaggine, in modo che è impossibile non credere che ad ogni venire dell' ultima moda non provino veramente un sentimento aggradevole, e non sembri loro in verità sgarbata la precedente. La spiegazione che noi diamo di questo fenomeno frivolo in apparenza, degnissimo in realtà dell' attenzione filosofica, il quale si manifesta più vivamente e più precocemente nelle capitali, per fermo non lo giustifica da quella leggerezza, che egli accusa nei seguaci di una Dea sì volubile ed inesorabile. Anzi convien supporre prima di tutto che là dove incomincia la moda a stabilire il suo regno, siasi sviluppato ed attuato il senso di quel complesso di piaceri sensuali, che la stessa moda sempre variati presenta; complesso risultante da infiniti elementi sottilissimi, quasi essenze eteree, che formano, come direbbe Dante, un incognito indistinto; il qual senso dorme profondamente nella società rozza, o troppo giovane ancora e severa. Dato dunque che questo senso e conseguente istinto siasi desto, attuato, raffinato, non dubitiamo affermare che esso nell' invenzione delle mode che crea ogni giorno, e ogni giorno distrugge, venga determinato dalla legge dell' armonia di successione, per la quale quell' istinto, risultante da innumerabili sentimenti ed istinti speciali, esige propriamente quelle date nuove forme per averne diletto, e non altre; di modo che una legge così ammirabile diriga segretamente la durata più o meno lunga delle usanze e la qualità di esse, e contenga la naturale ragione del perchè dopo un taglio d' abito, a ragion d' esempio, segua quell' altro a preferenza, dopo un colore quell' altro, dopo una forma di addobbamento quell' altra, ecc.; e del perchè piaccia la usanza che succede, e non più quella che prima piaceva. Onde il piacere che si ha di una moda od usanza, non si vuole già attribuire alla forma e qualità di lei isolatamente presa, ma al posto conveniente che ella occupa in tutta la successione dei sentimenti. Di che può essere argomento altresì il vedere che la stessa usanza, che pare sì bella ai nazionali durante il breve tempo del suo imperio, riesca talvolta sgraziatissima a quel forestiero, che di lontana parte giungendo, non ebbe a sofferire l' influenza di tutta la ruota delle usanze, che precedentemente si andò rivolgendo. Una segreta legge, adunque, determina il corso delle usanze e dei frivoli costumi con una cotale fatalità; un' armonia prestabilita dalla natura del sentimento l' una appresso l' altra le produce tutte; e dove questo senso è più delicato e più vivo, come nelle capitali, ivi più prontamente ed esattamente pronuncia ciò che gli conviene, e il pronunciato viene accolto dal pubblico siccome una cotale interpretazione del gusto comune, che rimane così soddisfatto, trovando in esso quello che indistintamente appetiva, senza sapere ben dargli figura ed esistenza. Certo che l' accoglimento, che con ogni docilità si fa universalmente alla nuova foggia, risulta da innumerabili piccoli sentimenti, come dicevamo, appartenenti ai sensorii diversi, a facoltà diverse, ciascuna delle quali ha una successione di atti che preferisce ad ogni altra, perchè ogni facoltà è un sensorio e, come tale considerata, subisce la stessa legge. Il che spiega medesimamente come presso varie nazioni varii il corso delle fogge e delle maniere socievoli; perocchè le circostanze diverse dispongono diversamente il senso della moda, e lo determinano ad un altro corso, fatale egualmente. Ma vi è di più, vi è cosa che ingrandisce il nostro discorso; poichè, qualora bene si consideri, si troverà che la legge di successione armonica, di cui parliamo, ha un dominio estesissimo oltre ogni credere anche in altre cose, a tale che influisce immensamente a determinare le varie consuetudini dei popoli, il corso delle loro opinioni, e fin' anche la serie degli storici eventi. Il gusto delle arti belle e della letteratura mantiene pur esso la legge di armonica successione; perfino le idee perdono ed acquistano del loro splendore in diversi tempi, con leggi segrete, ma impreteribili; e sarebbe stato impossibile, anche per questa cagione, che ai Romani del tempo di Orazio e di Ovidio fosse piaciuto praticare la dura virtù dei Cincinnati, dei Curii e dei Fabrizii; quelli erano divenuti incapaci di averne il sentimento già rimutato, benchè ne restasse loro l' ammirazione altissima nella mente, la quale non si rimuta, perchè contempla l' immutabile vero e l' immutabile bello, che non ha successione, come l' ha il piacevole sensibile. Ed ancora molti altri fatti a questa medesima legge soggiacciono. Perchè a questo o quel tempo si manifestano di repente certi gusti universali in un modo irresistibile? perchè certe opinioni, certe maniere di operare caratteristiche? - Se alla legge, che guida segretamente tutto l' uomo, dell' armonia di successione si aggiunge quella della spontaneità della vita diretta, quel fenomeno rimarrà pienamente spiegato: il salto apparente scomparirà, perocchè quel salto non è che la manifestazione improvvisa, nella riflessione e nella coscienza, del lavoro che si operava prima dentro agli uomini, senza riflessione e senza coscienza. - A noi basta avere accennato questo argomento, vasto campo alla meditazione. I filosofi che verranno dopo di noi, ed avranno più di noi agio e valore, potranno forse utilmente coltivarlo. I cenni che abbiamo dati nel libro precedente, intorno alle leggi dalle quali è guidato il principio razionale nel suo operare, potrebbero bastare all' intento, col quale abbiamo preso a scrivere quest' opera. Ma la parte animale, di cui l' umana intelligenza è circondata, quasi fasce che tutta l' avvolgono e la restringono, ond' essa, libera per propria essenza (chè ogni intelletto risiede nell' infinito), meraviglia di sè, vedendosi circoscritta e rattenuta nel proprio volo da un materiale e bruto elemento, questa parte animale, dico, è così misteriosa, così profonda ad investigare, così molteplice, anzi inesausta, che non possiamo a meno di tornarci sopra qui in sulla fine, studiandoci di aggiungere qualche chiarezza maggiore, se ci vien fatto, e qualche nuovo svolgimento delle cose dette di lei; senza di che non parrebbe forse al lettore di avere ancor in mano nè tampoco i primi fili della grande accia. E poichè l' animalità, come ogni altro ente finito, ha due parti, la passiva, cioè formata di sentimenti, e l' attiva formata di istinti (1), noi lasciando quella da parte, di cui abbiamo sufficientemente ragionato, ci continuiamo nel discorso di questa, tracciando più alla distesa le leggi, che presiedono all' attività istintiva dell' animale. Questa attività fu da noi partita in due grandi istinti, che abbiamo denominati istinto vitale ed istinto sensuale (2); investighiamo adunque, più accuratamente che per noi si possa, la legge dell' uno e dell' altro istinto, e i modi di operazione che conseguono all' efficacia di quelle leggi. L' ente è il contrario del nulla; perciò il concetto di ente involge il concetto di un atto, e l' atto con cui un ente è, è il contrario dell' atto con cui un ente si annulla. Se dunque un ente è, conviene supporre che egli abbia un atto che lo pone, ripugnante all' annullamento; questa è la virtù che ha l' ente di conservarsi. Il primo atto, con cui l' ente è posto, ripugnante necessariamente alla distruzione, ha per termine la forma dell' ente stesso. Perchè poi un atto finisca in una forma, un altro atto in un' altra forma (onde la diversità degli enti), la filosofia non può trovarne ragione altrove che nell' atto libero del Creatore. Che se l' atto col quale l' ente è posto, è quello con cui è posta la propria forma dell' ente, conseguita che la tendenza di questo atto debba essere volta a porre la forma dell' ente nel modo il più perfetto; poichè quanto più incompletamente fosse posta la forma, tanto meno l' ente esisterebbe e più egli si approssimerebbe al nulla, dal quale l' atto, come dicevamo, necessariamente ripugna. Dunque la ragione, per la quale l' atto non pone la forma dell' ente compiutamente, non può venire dallo stesso atto col quale sussiste, ma unicamente da qualche causa straniera al medesimo, che lo impedisce di conseguire semplicemente e compiutamente la sua forma, a cui tende. Applichiamo questi principŒ ontologici e cosmologici all' ente animale. L' atto, con cui l' ente animale è posto, pel quale è posta la sua forma, è quello che abbiamo chiamato istinto vitale ; la forma poi dell' animale è il sentimento fondamentale, determinazione e compimento di quell' atto medesimo. Dunque vi sarà la seguente legge: Legge dell' istinto vitale « L' istinto vitale tende a porre in essere il maggior possibile sentimento fondamentale ». Non si deve già credere che quell' istinto , a cui noi attribuiamo la produzione del sentimento fondamentale, esista prima di averlo prodotto. No, se non vi fosse sentimento, non vi sarebbe attività vitale. Ma dato un sentimento fondamentale, nel seno di questo si distingue coll' opera della mente quella attività che lo pone e mette in essere, dal sentimento posto, quasi due elementi, l' uno attivo e l' altro passivo, che costituiscono un medesimo e indivisibile sentimento; e questa è distinzione reale. Quindi le funzioni dell' istinto vitale sono necessariamente le seguenti: - I Funzione . - Quella di conservare il sentimento fondamentale producendolo di continuo - Funzione animatrice e conservatrice . - L' animale, mediante questa funzione, che è quella per la quale è, resiste alla distruzione, ripugna a disciogliersi, è in un continuo conato di mantenersi. Ciò che si oppone a questo conato, senza al tutto vincerlo, fa nascere una modificazione ingrata nel sentimento, che si chiama dolore . II Funzione . - Quella di attivare il sentimento fondamentale in modo che esso abbia la maggior possibile estensione continua. - Funzione diffonditrice o aggregatrice , la quale si manifesta colla nutrizione, ecc.. - III Funzione . - Quella di assettare e comporre il sentimento fondamentale in modo che abbia il maggior grado d' intensità, ossia di eccitamento stabile - Funzione eccitatrice e accumulatrice del sentimento. IV Funzione . - Quella che nasce in conseguenza delle tre prime, cioè di agire sul termine corporeo, e quindi di dare alla materia l' organizzazione animale - Funzione organizzatrice . Nasce questa funzione in conseguenza delle tre prime; poichè essendo il corpo, come abbiamo veduto, il termine del sentimento animale, se questo sentimento colla sua naturale attività tende a conservarsi, a dilatarsi, a rendersi più intenso, conseguentemente agisce sul corpo extrasoggettivo, e produce nella materia di questo degli intestini e spesso impercepibili movimenti, che lo disciolgono e lo ricompongono, recandone gli elementi e le molecole in questi spazi che il sentimento vuole occupare pel suo istinto, che è quello di divenire maggiore, di porsi in uno stato il più pieno e completo. Ora la funzione organizzatrice, non essendo che le stesse tre funzioni primitive in quanto si considerano rispetto agli effetti che esse producono nel corpo e nella materia del corpo, consegue necessariamente che la funzione organizzatrice si debba distinguere in tre momenti, che sono: Primo momento della funzione organizzatrice . - Quello che consiste in un' azione, che l' istinto vitale esercita sul corpo suo termine, colla quale lo costituisce costantemente termine del sentimento fondamentale, e però lo ritiene acciocchè non si divida dal sentimento - Resistenza alla morte, rattenenza (1). Secondo momento della funzione organizzatrice . - Quello che consiste nel rapire entro l' ambito del proprio sentimento le particelle straniere (2), a tal fine riducendole, assimilandole al resto del corpo, atteggiandole e componendole fra loro come debbono essere all' uopo - Assimilazione e riproducibilità delle parti viventi (3). Terzo momento della funzione organizzatrice . - Quello che consiste nella spontaneità motrice7vitale , cioè in quella virtù per la quale il sentimento fondamentale, tendendo a conservare l' eccitazione e ad essere via più eccitato per salire al suo massimo grado d' intensità, aiuta e continua i movimenti eccitati nel suo termine dagli stimoli esteriori, acciocchè, perpetuandosi o aumentandosi il moto, si perpetui o si aumenti l' eccitazione a sè conveniente. La prima funzione, che pone e riproduce di continuo il sentimento fondamentale, non ha tanto di forza da poter ritenere il corpo che è suo termine, ed impedire che su di lui non operi un principio estraneo, che tende a sottrarlo alla sua attività. Questa inefficacia della prima funzione animatrice e conservatrice è degna di osservazione. Ella presta il fondamento alla distinzione da noi fatta tra corpo e materia . Chiamammo corpo e materia un medesimo ente; ma lo chiamammo corpo, in quanto esso è dominato dal sentimento che lo rende suo termine; e lo chiamammo materia, in quanto egli si sottrae all' efficacia del sentimento e si lascia muovere da forze straniere, raccolte da noi sotto il nome generale di sensifero . Ove non è punto assurdo il concepire diversi gradi nella potenza colla quale il principio senziente, come istinto vitale, domina sul suo termine, il massimo dei quali gradi sarebbe quello per cui egli disponesse del corpo, sottraendolo all' azione di tutte le altre forze sensifere, o rendendo nulla una tale azione. E qui avverta il lettore che noi non intendiamo di entrare nella questione delle cause, per le quali viene limitato il dominio del principio vitale sul proprio termine, o la potenza che ha di ampliare il proprio termine; cioè non intendiamo affermare che la virtù del principio vitale sia per sè stessa limitata, ovvero che questa virtù sia piuttosto per sè illimitata e indefinita, ma riceva poscia una limitazione dalle condizioni a cui è legata, le quali le impediscano di spiegarsi quanto essa potrebbe, sicchè da queste e non da sè direttamente dipenda il suo svolgersi e dispiegarsi più o meno, e così il manifestare un maggiore o minore imperio sul termine. Della quale questione abbiamo toccato altrove. La funzione diffonditrice e la funzione eccitatrice possono venire in collisione, qualora il sentimento non si possa diffondere se non a spese dell' accumulamento e dell' eccitamento. In tal caso l' una coll' altra s' impediscono; ma quantunque sia difficile lo stabilire le leggi precise che presiedono ad una tale collisione, tuttavia pare che si ravvisino ben chiare queste due: I - Essendo il massimo eccitamento naturale del sentimento il migliore stato, lo stato naturale di un sentimento fondamentale, perciò in ragione dell' attività della funzione eccitatrice cresce anche l' attività della funzione diffonditrice; e viceversa, diminuisce. II - Se la funzione eccitatrice è debole o i diversi eccitamenti stabili non armonizzano più fra loro, l' uno non influendo più utilmente sull' altro, allora la funzione diffonditrice o non è abbastanza subordinata alla funzione eccitatrice, o non è da questa armonicamente diretta. Quindi vi è sconcerto nell' animale e tendenza a dividersi una parte del continuo sentito dal suo tutto. Quanto ai due ultimi momenti della funzione organizzatrice, il terzo serve al secondo, perchè, fra gli altri effetti che produce, mantiene le particelle così sollevate che non possano indurire, e per tal guisa ottiene che se ne acceleri il vortice che trita, assimila ed espelle, favorendo l' assorbimento e producendo le secrezioni e le escrezioni (1). E quando dico che mantiene le particelle sollevate, non intendo già che le divida per modo che ne tolga il contatto; ma intendo che diminuisce e tempera la gravitazione delle une sopra le altre, e le volge ed atteggia in modo che il contatto si faccia in meno punti di esse, il che influisce a rotondarle; intendo pure che tiene aperti convenientemente i pori e i meati, ecc.. L' istinto sensuale non è che un' azione continuata dell' istinto vitale, e propriamente della terza funzione di questo, che chiamammo eccitatrice . Il primo principio motore è il medesimo, è l' atto che pone la forma dell' animale; ma il principio motore prossimo nell' istinto sensuale è il sentimento già posto in essere, dal quale nasce nuova attività. L' istinto sensuale, adunque, si può definire « quel movimento dell' istinto vitale che lo porta a far sì che, prodotto un sentimento, questo divenga il più intenso e completo possibile mediante eccitamenti opportuni ». Ma posciachè questi eccitamenti possono essere stabili, cioè ripetuti continuamente mediante una legge fissa (come accade nel sentimento fondamentale di eccitamento), e possono essere passeggieri ed accidentali, che modificano per breve tempo il sentimento fondamentale; perciò a quella funzione, che tende a conservare o riprodurre l' eccitamento stabile, si lascia il nome d' istinto vitale, e si denomina istinto sensuale quella funzione, che tende a procacciare al sentimento stabile degli eccitamenti passeggieri e parziali, onde nascono le sensioni e le passioni. La quale distinzione riesce comoda alla scienza ed è importante; poichè l' eccitamento stabile è quello che caratterizza, come dicevamo, il sentimento fondamentale, e però entra siccome elemento a costituire la base della classificazione filosofica degli animali, cessando la determinata forma dell' animale al cessare dello stabile e caratteristico suo eccitamento. Premesse le quali osservazioni, diciamo che la legge dell' istinto sensuale è la seguente: Legge dell' istinto sensuale « L' istinto sensuale tende a far sì che le sensazioni parziali e passeggiere, le quali si suscitano nel sentimento fondamentale, in quanto sono piacevoli, divengano massime mediante stimoli ed eccitamenti passeggieri ». Di conseguente nell' istinto sensuale si distinguono le seguenti funzioni: I Funzione . - Quella della spontaneità sensuale, per la quale ogniqualvolta uno stimolo esteriore viene applicato ad un animale in modo da eccitare il sentimento ad un suo atto secondo più perfetto, cioè alla sensazione piacevole, il principio sensitivo asseconda quello stimolo colla sua attività spontanea, e si accresce e prolunga l' effetto della gradevole sensazione (attività dell' anima concorrente in tutte le sensazioni). II Funzione . - Quella della propensione sensuale, per la quale il principio sensitivo si attua e dispone ai suoi atti secondi gradevoli, mediante la forza sintetica animale (1), che, data un' eccitazione (sensazione gradevole), lo inclina verso un' altra, presentita da lui quale completamento della prima. III Funzione . - Quella dell' avversione sensuale, che è il movimento contrario della propensione, e nasce mediante la forza sintetica7animale, che, data una propulsione (sensazione sgradevole), disagia il principio sensitivo e gli dà un' attitudine ritrosa al completamento presentito della detta propulsione. IV Funzione . - Quella della contro7spontaneità sensuale, mediante la quale ogniqualvolta uno stimolo esteriore viene applicato all' animale in modo da propulsare il sentimento, che è quanto dire da produrre una sensazione dolorosa, il principio sensuale lotta contro la forza dello stimolo, cercando di ritenere in tutta la sua pienezza il sentimento fondamentale, con esso insieme le particelle a cui aderisce, e che si vogliono o dividere da lui o sconcertare. V Funzione . - Quella della spontaneità7motrice sensuale, che è conseguenza delle quattro prime. Perocchè ai quattro indicati atteggiamenti e movimenti del sentimento corrisponde un' azione nel corpo animato e nella materia del medesimo, secondo il principio posto, che « a tutte le modificazioni del sentimento rispondono dei fenomeni extrasoggettivi ». E però quest' ultima funzione, considerata nei suoi effetti, ha sei momenti, i quali sono: Primo momento della spontaneità motrice sensuale . - Esso si manifesta negli atteggiamenti, movimenti (piccoli e grandi), che si producono nel corpo animale extrasoggettivo da tutta quella passione complessiva, che si può unire sotto il nome di mobilità concupiscibile . Secondo momento . - Esso si manifesta in quegli atteggiamenti e movimenti (piccoli e grandi), che il corpo extrasoggettivo dell' animale riceve dall' attività che egli pone nelle sue attuali sensazioni e passioni piacevoli, la quale attività si potrebbe chiamare mobilità voluttuosa . Terzo momento . - Esso si manifesta in quegli atteggiamenti e impedimenti di moti, che il corpo extrasoggettivo dell' animale riceve da quella passione complessiva che resiste ad un eccitamento spiacevole, nè si lascia agevolmente muovere, e che si può unire sotto il nome di mobilità ritrosa . Quarto momento . - Esso si manifesta negli atteggiamenti e movimenti (piccoli e grandi), che si producono nel corpo animale extrasoggettivo da quella passione complessiva che, presentendo lo spiacevole esito di una specie di movimenti, si sforza di determinare movimenti contrarii, e che si può chiamare mobilità avversiva . Quinto momento . - Esso si manifesta in quegli atteggiamenti e movimenti (piccoli e grandi), che il corpo extrasoggettivo dell' animale riceve dallo sforzo, che fa il principio sensitivo di mantenersi nella sua intensità e nel suo movimento contro le forze esteriori contrarie che glielo impediscono, il quale sforzo si potrebbe chiamare mobilità irosa . Sesto momento . - Esso si manifesta in quegli atteggiamenti e movimenti (piccoli e grandi), che il corpo extrasoggettivo animale riceve dalla mobilità simpatica, che è quella che ubbidisce all' immaginazione ed al pensiero, onde all' immaginazione di cose tristi nascono nel corpo movimenti deprimenti le forze, e il contrario all' immaginazione di cose liete. E questo è uno dei fonti, da cui procedono le forze perturbatrici della natura (1). Tutti questi sei momenti riguardano effetti, che si manifestano all' osservazione esterna ed extrasoggettiva in conseguenza del sentimento che diversamente si atteggia, e che si considera come la causa soggettiva di essi. E queste sei classi di effetti si riducono sempre a movimenti, giacchè i movimenti sono i fenomeni extrasoggettivi, corrispondenti nell' animale ad altrettanti sentimenti, che sono i fenomeni soggettivi a quelli paralleli. Ora, raccogliendo tutte le funzioni ed operazioni dei due istinti, gioverà porle qui sott' occhio dei lettori nella qui unita tavola. L' istinto sensuale, non cercando altro effetto colla sua attività che quello di godere l' eccitazione passeggera del sentimento, esso, mediante l' ultima sua funzione della spontaneità motrice7sensuale, produce sovente tali movimenti nel corpo e nella materia di esso che si oppongono a quelli che tende a produrvi la funzione organizzatrice dell' istinto vitale . Di che la spontaneità motrice7sensuale diviene bene spesso un principio disorganizzatore, che lotta coll' organizzatore. Quindi si scorge un altro fonte delle forze perturbatrici della natura animale (1). La quale perturbazione non di meno si renderebbe impossibile, qualora il corpo fosse pienamente dominato dall' istinto vitale; il che abbiamo detto non involgere contraddizione; e qui aggiungiamo che un tale dominio appartiene all' ideale della vita animale, cioè sarebbe il maximum della vita. Che se l' istinto vitale ricevesse di più un tal vigore da ritenere a sè le molecole corporee, senza che da niuna causa le potessero essere sottratte, o se fosse almeno così protetto che di fatto niuna forza straniera gliele sottraesse, non si potrebbe più dar lotta fra l' istinto vitale ed il sensuale; ed ancora ne seguirebbe l' immortalità. Ora poi giova qui volgere uno sguardo ai concetti di Brown. Quale relazione ha l' eccitabilità browniana colle diverse attività da noi attribuite alla vita? - Allorquando si considera che Brown trasse il concetto dell' eccitabilità dagli effetti che gli stimoli producono sul corpo vivente, effetti che sono agli occhi suoi il senso, il moto muscolare, l' attività pensante e gli affetti dell' animo, deve fare la più grande meraviglia com' egli abbia potuto sostenere che la proprietà dell' eccitabilità sia una ed indivisibile in tutta la macchina animale, sicchè ella non possa diversificare che di quantità nelle diverse parti di lei. Non è a pieno dimostrato che gli stimoli non mettono in essere il fenomeno della sensazione (stando alla coscienza, solo testimonio autorevole di questo fatto) in tutte le parti del corpo nostro vivente? E quanto al pensiero, non è assurdo l' attribuirlo ad un organo, ad una macchina vivente qualsiasi? Si confondono adunque insieme dal medico scozzese tre distintissime classi di effetti: 1 il movimento, fenomeno extra7soggettivo, che si manifesta non pure nei muscoli, ma in ciascuno dei quattro tessuti, nel cellulare come nel vascolare, nel muscolare come nel nerveo; 2 il sentimento animale, fenomeno soggettivo, che non si riconosce per niuna osservazione extra7soggettiva, ma per la sola deposizione della coscienza; 3 il pensiero, fenomeno soggettivo7oggettivo, che si toglie del pari affatto all' osservazione extra7soggettiva, e che si rivela per sè stesso immediatamente ponendo la coscienza. Quanto agli affetti, questi sono una sequela, parte del sentimento animale e parte del pensiero; sicchè vanno suddivisi e collocati nelle due ultime classi. Come dunque raccogliere in una sola proprietà effetti di essenza così disparata, e anzi aventi fra loro la più grande opposizione? Se dunque si vuole intendere per eccitabilità una proprietà unica, di cui gode più o meno ogni parte del corpo vivente, conviene restringerne il significato, riducendo una tale eccitabilità alla proprietà, che ha il corpo animale di muoversi con un dato moto suo proprio sotto gli stimoli; alla quale proprietà si potrebbe dare il nome di contra7distensione . Quanto poi alla sensione, si dovrebbe riconoscere come effetto meramente concomitante al movimento contrattile7distensivo, effetto che non segue sempre quel movimento, ma solo quando si produce in un certo modo e in certe determinate parti del corpo animale, che perciò si dicono sensitive. Finalmente il pensiero, lungi dall' appartenere a qualche parte del corpo, è anzi un fatto, che a niun organo corporale aderisce, e solo che si consideri, vedesi al tutto immune da corporea concrezione, e meno ancora simile al movimento di quello che sia il peso al colore. Che se il pensiero si suscita in occasione che il movimento contrattile7distensivo, prodotto non in tutte, ma in certe determinate parti del corpo, e non in tutti i modi, ma in certi determinati, pone in essere la sensione; non è per questo che esso sia qualche cosa di simile o di analogo alla controdistensione. Esso non è neppure a questa concomitante; è bensì di solito concomitante alla sensione, e ciò perchè questa presta la materia del pensare ed eccita l' anima sensitiva, che è anche ad un tempo razionale, a fare le operazioni sue proprie in quella maniera che altrove abbiamo spiegato (1). Rimane dunque che la eccitabilità browniana non possa essere altro che la proprietà della contro7distensione, giacchè in questo solo caso ella è una proprietà omogenea, ed eguale di specie per tutte egualmente le parti del corpo animato (1). Ora, determinato così il senso ragionevole della eccitabilità, che noi d' ora in avanti chiameremo extra7soggettiva per distinguerla dall' eccitabilità del sentimento, potremo rispondere alla domanda che ci facevamo: « quale relazione abbia l' eccitabilità browniana, ossia extrasoggettiva, colle diverse attività da noi attribuite al principio vitale ». E primieramente è chiaro: 1 che l' eccitabilità extra7soggettiva non abbraccia tutte le proprietà e attività del corpo vivente; 2 che ella si deve riscontrare entro la sfera di quelle due funzioni, che abbiamo denominate funzione organizzatrice e funzione della spontaneità motrice sensuale; 3 che in queste due funzioni si contiene tuttavia più che nella sola eccitabilità extra7soggettiva. E veramente, nella funzione organizzatrice cadono tre momenti, a cui demmo i nomi di rattenenza, riproducibilità e spontaneità motrice vitale . Ora la rattenenza è cosa al tutto diversa dalla eccitabilità, poichè quella non si riferisce agli stimoli esterni siccome questa, non essendo che lo sforzo che fa il principio vitale di conservare lo stato di vita alle molecole, che si trovano già vive, rattenendole acciocchè non escano dalla sfera della sua azione. La riproducibilità esige bensì della materia stimolante che deve venire assimilata al corpo vivente, ma l' effetto della forza riproduttiva non è solamente il movimento contrattile7distensivo, nel che solo consiste l' eccitabilità extrasoggettiva, ma è di più l' assimilazione della materia stimolante, la quale, cessando di essere stimolo, si cangia in parte del corpo vivente (2), e così diviene ella stessa eccitabile. Rimane la spontaneità motrice vitale . Questa ha bisogno certamente di stimoli continui, ma essa non produce solamente la controdistensione, ma produce di più la diminuzione della reciproca coerenza delle molecole e degli elementi di cui il corpo vivo si contesse, affine di facilitare quegli interiori movimenti che innalzano il grado del sentimento. Sicchè la spontaneità7motrice vitale cagiona un doppio effetto: 1 fa perdere alle molecole e agli elementi che le compongono, quella reciproca coerenza che avrebbero, se le attrazioni fisiche e affinità chimiche potessero operare liberamente, e impedisce ben anche, io credo, che vengano fra loro a troppi punti di contatto; tutto ciò, quanto è necessario a facilitare i movimenti eccitatori del sentimento fondamentale; questo effetto è al tutto diverso dall' eccitamento extrasoggettivo; 2 asseconda, aumenta e cresce i movimenti eccitatori del sentimento. Questo secondo effetto è solo quello che appartiene all' eccitamento extrasoggettivo, ma con una limitazione, che noi esporremo più sotto. Veniamo ora ai momenti dell' altra funzione, da noi chiamata spontaneità motrice sensuale . Ne distinguemmo sei, denominandoli: mobilità concupiscibile, voluttuosa, ritrosa, avversiva, irosa e simpatica . Ora tutte queste specie di movimenti animali noi crediamo che si possano probabilmente ridurre, quanto alla loro forma, alla contro7distensione, e che perciò possano riferirsi in qualche modo alla eccitabilità di Brown; ma anche qui con una limitazione. Questa limitazione è simile a quella che testè indicavamo, parlando del secondo effetto della spontaneità motrice vitale; e dobbiamo esporla. Quando si ammette la sola eccitabilità extrasoggettiva per unica proprietà del corpo vivente, deve seguirne che il suo effetto, cioè l' eccitamento, sia in ragione degli stimoli primitivi, a tal che cessando questi, cessi anche quello. Quindi non ha più luogo la spontaneità motrice, divisa da noi nei due rami di vitale e di sensuale, cioè a dire non ha più luogo quell' aumento e continuazione di moto, che persevera nel corpo vivo anche cessando gli stimoli primitivi. Ma se all' opposto si ammette che la sensitività è una potenza che produce effetti extra7soggettivi, essenzialmente distinta dall' eccitabilità e a questa precedente, allora s' intende come, cessati gli stimoli esteriori, possano continuare i movimenti nel corpo umano e succedersi con leggi determinate; avendosi un principio a cui attribuirsi convenientemente tali movimenti spontanei. Ora sono pur questi innegabili; e i medici italiani, che hanno meditato sulla teoria browniana e sperato di perfezionarla, li hanno riconosciuti quando hanno dato il nome di diatesi a quella condizione morbosa che non si tiene in proporzione degli stimoli esterni, e che indipendentemente da essi percorre certo stadio con successivi processi morbosi. Se dunque si considera la spontaneità motrice, tanto vitale che sensuale, come potenze che dagli stimoli esterni vengono suscitate e poste in un certo grado di orgasmo, si può acconciamente, sotto questo aspetto, attribuir loro la proprietà browniana dell' eccitabilità extrasoggettiva. Ma se si considera, poi, che la loro attività così suscitata si mantiene qualche tempo da sè stessa, rimossi gli stimoli primitivi, e si spiega in reciproche azioni, che vanno producendo una serie di stati ed affezioni del corpo umano, nella quale il precedente stato è cagione del susseguente; in tal caso nella spontaneità motrice si deve riconoscere un' attività maggiore e grandemente diversa dall' eccitabilità extrasoggettiva. Se si considera, di più, che la spontaneità motrice vitale differisce di grado nei diversi organi del corpo umano, e che la spontaneità motrice sensuale è anch' essa variamente distribuita e, come a noi sembra probabile, non conserva l' unità del suo principio, come diremo in appresso; ci si renderà chiaro il fatto delle località morbose, illustrato dal Professor Fanzago e da altri illustri medici, il quale non può spiegarsi colla sola eccitabilità universale di Brown; come pure riceveranno luce le malattie chiamate dai medici irritative . Dalle quali cose tutte apparisce che il sentimento non deve già considerarsi quale semplice effetto dell' eccitabilità e degli stimoli, come lo considerò Brown; anzi deve in lui riporsi la vera causa della stessa eccitabilità extra7soggettiva, che agli occhi nostri non può essere altro che un effetto, prodotto nel corpo, dell' attività annessa al sentimento. La serie adunque delle cause e degli effetti in tutti i fenomeni animali, divisi in due grandi classi, soggettivi ed extrasoggettivi, va disposta in quest' ordine: I - Sentimento fondamentale (soggettivo), avente la tensione o il conato che abbiamo altra volta descritto. II - Movimento (extra7soggettivo) delle parti sensibili del corpo umano, eccitate dagli stimoli esterni convenienti, e nel modo conveniente acciocchè nasca l' eccitazione del sentimento fondamentale. III - Sensioni (soggettive), ossia modificazioni del sentimento fondamentale, suscitate in esso dalla eccitazione. IV - Conati e movimenti conseguenti alle sensioni (extra7soggettivi), da noi raccolti sotto le due attività denominate funzione organizzatrice e spontaneità motrice7sensuale . Dalle quali serie apparisce che i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi si alternano; e che tutta l' attività muove dal principio soggettivo, che produce fenomeni soggettivi, a cui succede una classe di fenomeni extra7soggettivi; ed a questa un' altra classe di fenomeni soggettivi; ed a questa un' altra di fenomeni extra7soggettivi, ecc.. Secondo la nostra teoria dell' istinto animale vi sono dunque quasi due sfere di fenomeni: la sfera dei fenomeni soggettivi e la sfera dei fenomeni extra7soggettivi; in altre parole, la sfera dei sentimenti e la sfera dei movimenti esterni. La prima sfera provoca la seconda; i movimenti vengono prodotti dai sentimenti; nei sentimenti sta la causa, tutta soggettiva, nei movimenti sta l' effetto, tutto extra7soggettivo (1). Il corpo è una sostanza, ma in quanto è termine del principio sensitivo, in tanto è occasione dei fenomeni soggettivi, cioè dei sentimenti. In quanto poi è sensifero, cioè forza straniera immutante il termine del sentimento, in tanto è occasione dei fenomeni extra7soggettivi, cioè dei movimenti e loro conati. Essendo dunque una la sostanza del corpo, non vi è ripugnanza a concepire che l' anima, che ha efficacia sul corpo soggettivo in quanto è termine del suo sentimento, produca per un conseguente necessario nel corpo i fenomeni extra7soggettivi; perchè il corpo soggettivo ed extra7soggettivo è il medesimo, quanto alla sostanza. Così l' influsso dell' anima sul corpo, la virtù che ha uno spirito semplice di mettere in movimento un corpo, perde molto del mistero in che si avvolgeva. Poichè non si può trovare alcuna difficoltà nel concetto di un' anima, che sia attiva nel proprio sentimento e che non esce da questo; chè il sentimento è cosa incorporea e semplice anch' esso. Ora, noi non diamo all' anima altra virtù che quella che si spiega entro i limiti del proprio sentimento; la quale virtù non gliela possiamo negare, poichè la continua esperienza ci attesta che l' anima colla propria energia modifica il proprio sentimento. E questo sentimento noi l' abbiamo sottomesso all' analisi, ed abbiamo trovato che è il talamo, in cui si congiunge l' esteso col semplice. Ma di più abbiamo scoperto che questo esteso, che costituisce il termine necessario del sentimento, è egli stesso una sostanza, la quale non ha soltanto la condizione di termine del sentimento, ma è operativa al suo modo anche fuori del sentimento, dove comparisce siccome forza straniera al sentimento e immutante il termine di lui, onde acquista le due appellazioni di materia e di corpo. Di che appare oggimai la cagione manifesta perchè ai fenomeni soggettivi rispondano altrettanti fenomeni extra7soggettivi, e viceversa; e quindi perchè l' anima senza uscire dal proprio sentimento, operando unicamente sopra il termine di esso, possa determinare un corpo a cangiar di luogo, e in una parola a muoversi. Ed è da notarsi che questa maniera colla quale l' anima muove il corpo, è una maniera di suscitare il movimento interamente diversa dall' impulso e da ogni altra comunicazione meccanica del moto; e la diversità è immensa, si potrebbe dire, infinita; perocchè, per restringere il discorso nostro, vi sono almeno queste due differenze: I - Che la comunicazione meccanica è limitata a comunicare quella quantità di moto che già esiste, e non più; laddove l' anima produce, e per così dire crea il moto, nè si può assegnarvi una quantità, essendo il moto altrettanto, quanta è l' attività dell' anima sul proprio sentimento, che può essere ad ogni istante accresciuta o diminuita. II - Che la comunicazione meccanica è limitata a comunicare il moto successivamente, trapassando questa da una molecola all' altra di un corpo che viene impulso o attirato, con diversità di tempo, e quindi con oscillamento delle parti, rottura talora della coesione fra esse, cessazione della continuità di comunicazione, quando per esempio la coesione è poca, come nei fluidi, o viene tolta dalla violenza che strazia il corpo, ecc.; laddove l' impressione del moto veniente dall' anima, in quanto si restringe all' esteso, termine del sentimento, è simultanea in tutto quell' esteso in cui ella intende operare; quindi le parti di questo esteso non ne vengono punto disgregate e sconnesse, e possono essere mosse come all' anima piace, ed egualmente se trattasi di fluido o di solido (forme extra7soggettive del termine), e di più senza che si possa segnare un preciso limite alla quantità del moto che si sta imprimendo. Le quali cose chi considera attentamente, s' accorgerà che l' aver trovato questa maniera tutta diversa dalla meccanica, colla quale l' anima suscita e crea il moto nel termine del proprio sentimento, e quindi altresì nel corpo extra7soggettivo, è oltremodo preziosa alla spiegazione dei fenomeni. Poichè qualunque altra maniera conosciuta fin qui di comunicare il movimento, è al tutto insufficiente a spiegare in che modo l' anima, per istinto o per volontà, possa muovere le membra del proprio corpo. Si considerino i pesi che porta un facchino, o gli sforzi che fa un atleta; come i muscoli vengono potentemente contratti o distesi da rendere obbedienti le ossa, e coll' aiuto di queste premere, spingere, stringere, attirare, lanciare, vincere insomma enormi resistenze? La volontà, dicono i fisiologi, inizia i suoi movimenti nel cervello; ma può essere forse il cervello, sostanza così molle, un punto fermo da appoggiare, direi quasi, la leva, un punto di resistenza onde originare meccanicamente quella superba potenza che si manifesta nelle gambe e nelle braccia, ecc.? Se l' anima imprime il movimento alla sostanza encefalica, e se è questa la quantità di movimento che deve venirsi comunicando pei nervi ai muscoli, pei muscoli alle giunture, successivamente, come accade nella comunicazione del moto meccanico; si avrà mai l' effetto desiderato? Nella sostanza molle del cervello non può eccitarsi che una minima quantità di moto, meccanicamente incomunicabile alle parti più resistenti, e il fenomeno da spiegare ci presenta in quella vece una quantità di moto ragguardevolissima. Se quella minima quantità di moto, che si suppone nella sostanza tenerissima del cervello, fosse quella stessa di cui partecipano i nervi ed i muscoli che sostengono grandi fatiche, quella piccola quantità si sarebbe dovuta accrescere per via; ma in qualunque comunicazione meccanica, all' incontro, ella si sarebbe dovuta anzi diminuire per le resistenze e spegnere del tutto. Non vi è dunque speranza di spiegare colle leggi meccaniche quel movimento, che l' anima imprime alle membra del corpo. Cessa all' incontro ogni difficoltà, abbracciando la espressa teoria. Poichè in questa l' anima esercita quell' efficacia, che ella possiede, nell' esteso che è termine del suo sentimento, e ciò simultaneamente, in tutte le parti di lui in che ella agisce, e questa azione più o meno efficace senza determinata misura; e la modificazione prodotta non ha bisogno che sia tutta nella stessa direzione, o in linea retta, ecc.; ma può avere quella forma, e per così dire quello stampo che all' anima piace, e variare a talento; onde nell' ordine extra7soggettivo possono comparire tutti quei movimenti molteplici, vari, potenti, circolari, ecc., che fanno bisogno, e che si manifestano in fatto quando l' uomo muove il proprio corpo a suoi diversi intendimenti, come attesta la comune esperienza. Si ricorse alle forze attrattive, alla elettricità, al magnetismo, ecc.. Ma i movimenti istintivi o volontari delle varie membra del corpo non obbediscono punto alle leggi secondo le quali si muovono questi agenti abbandonati a sè stessi. Che se si vuole che tali agenti sieno in potere dell' anima che li renda suoi ministri, non ripugna a pensare che anche di questi l' anima si possa in parte servire; ma primieramente non di questi soli. E in ogni caso le difficoltà così si moltiplicherebbero invece che diminuirsi, rimanendo le due questioni: 1 come l' anima possa far sentire il suo potere motore e dominatore a questi agenti; 2 come questi agenti possano comunicare alle membra il potere dell' anima, che può volere e disvolere, e imperare da un momento all' altro i moti più complicati e più contrari. Per non dire che nella prima di queste due questioni converrebbe ancora ricorrere all' efficacia, che ha l' anima entro la sfera dell' ordine soggettivo, dalla quale non esce. Ora i fenomeni elettrici, magnetici, ecc., appartengono unicamente all' ordine extra7soggettivo. La questione adunque si rimarrebbe quella di prima, nè riceverebbe soluzione se non ricorrendo alla teoria da noi proposta. Le leggi dell' attività animale manifestano i loro effetti in certi corpi, i quali si dicono viventi. Quei corpi, che non presentano i fenomeni prodotti dall' attività animale, si suppongono inanimati e si dicono materia bruta. La materia bruta manifesta anch' essa certe leggi nel suo operare. E queste leggi, e i fenomeni nei quali esse appariscono, danno un' apparente opposizione coi fenomeni, che presenta l' operare dell' animalità; le forze, di cui si mostra dotato il corpo vivo, e quelle della materia bruta sembrano bene spesso lottare fra loro. L' opposizione fra le leggi dell' attività animale e quelle dell' attività materiale è ella vera o solo apparente? esiste realmente una lotta? trattasi di una lotta tra forze di diverso genere o dello stesso? - Non possiamo trapassare queste questioni importantissime, senza proporre almeno delle congetture. Incominciamo dalla legge dell' inerzia. Riflettiamo in prima che tutti gli esseri contingenti, e non la sola materia, ubbidiscono ad una legge d' inerzia; ma la loro inerzia differisce di grado. Questa inerzia universale si fonda nella potenzialità che hanno tutti gli esseri finiti, nessuno dei quali è atto puro, proprietà del solo essere necessario. Poichè, essendo gli enti finiti altrettante potenze, essi non hanno in sè la ragione piena dei loro atti secondi, e però non possono passare dalla potenza all' atto, se non dati certi stimoli, certe condizioni (1). Ora vediamo come nasca la lotta apparente pei gradi di maggiore inerzia, che ha la forza bruta a confronto del corpo animato. Il corpo bruto non passa dalla quiete al moto, se non gli viene applicata una forza a lui straniera, la quale invadendolo e non più abbandonandolo, lo fa continuare a muoversi nella stessa direzione, fino a tanto che una forza contraria pure straniera non distrugga l' effetto della prima. Ma l' attività animale fa qualche cosa di più relativamente al moto che produce nei corpi, come si può rilevare considerando le due sue funzioni, chiamate da noi organizzatrice e della spontaneità motrice sensuale . Infatti un corpo bruto, ove sia mosso, continua a muoversi in linea retta; all' incontro la funzione organizzatrice, tendente a mettere in essere il sentimento fondamentale nel suo maggior grado possibile d' intensità, tende a dare alle particelle corporee quegli atteggiamenti e quegli intimi movimenti, che rispondono allo stato migliore di detto sentimento; i quali non possono essere in linea retta, perchè le dette particelle si disgregherebbero disciogliendosi lo stesso sentimento. Quindi l' apparente lotta tra la forza d' inerzia della materia bruta e l' attività vitale, per le direzioni contrarie che prescrivono ai movimenti dei corpi (2). Il somigliante conviene dire della spontaneità sensuale, che è quella funzione per la quale il principio senziente seconda colla sua attività tutti quei movimenti, che gli procurano una sensazione gradevole. Poichè in questo fatto è sempre bisogno che gli stimoli stranieri incomincino il movimento nelle fibre destinate alle sensazioni, e solo allora l' istinto sensuale vi pone la sua attività, secondando quel movimento e facendolo continuare alquanto più che non farebbe, se fosse mosso solamente dalle forze della materia bruta. Ed in ciò si scorge di nuovo una cotale opposizione e lotta fra i movimenti che fa il corpo, ubbidendo alle forze materiali, e i movimenti che riceve dalla spontaneità motrice sensuale, la quale tende a rendere più viva e prolungata la gradevole sensazione, e ad accrescere tutti i movimenti a questo effetto confacenti, elidendo i contrari. Sotto la parola attrazione comprendo sì l' attrazione astronomica che la coesione e l' affinità chimica. Io suppongo che la legge, che fa crescere l' attrazione in ragione diretta della massa e indiretta del quadrato delle distanze, abbia pieno vigore anche nell' attrazione molecolare ed elementare (1). Suppongo che i risultati contrari che alle minime distanze sembrano aversi, dipendano dall' imperfezione del calcolo, nascenti da questo che, trattandosi di corpi collocati a immense distanze come sono gli astri, si può senza errore notabile supporre che tutte le particelle, di cui sono composti, sieno attratte egualmente; e su questo postulato si calcola il centro di gravità dell' astro, quantunque le particelle di cui l' astro si compone, sieno nel fatto più o meno attratte secondo la loro collocazione, riuscendo alcune più vicine al corpo attraente, altre più lontane. Ora la differenza, come dicemmo, è trascurabile in corpi così lontani (2). Ma ella non è già più trascurabile, quando si tratta di minime distanze, nelle quali la differenza di distanza, anche menomissima, basta a crescere immensamente l' attrazione. Poichè se le due particelle fossero al contatto (1), e ciascuna, poniamo di forma sferica, avesse il diametro di un millesimo di milionesimo di linea, le faccie che si toccano delle due particelle dovrebbero essere attirate immensamente più che non i dossi opposti delle medesime particelle, sicchè i centri di gravità non si potrebbero collocare nel centro delle sfere, ma assai più vicini fra loro. Intanto è certo che fra i movimenti animali e quelli dell' attrazione vi è un' apparente lotta. Ecco dei fatti: La lotta apparente, che deve sostenere l' istinto vitale, è dunque di due maniere, l' una colla legge d' inerzia della materia, l' altra colla legge di attrazione. La legge d' inerzia costituisce l' ordine meccanico, la legge di attrazione l' ordine fisico e chimico . Nell' ordine meccanico il contrasto e l' opposizione fra la materia e le forze vitali giace in questo, che le particelle componenti il corpo animale, le quali, quando ubbidissero alle sole leggi meccaniche, dovrebbero tenere una certa via di moto e in fine, attesi gli urti che incontrano, acquetarsi; invece sotto l' influenza dell' attività vitale tengono una via di moto diversa, e il moto stesso si continua. Nell' ordine fisico e chimico il contrasto giace in questo, che, mentre le particelle se ubbidissero alle sole attrazioni e affinità fisiche e chimiche dovrebbero rinserrarsi strettamente fra loro e produrre certe composizioni e dissoluzioni, come avviene nei cadaveri; influite dalle attività vitali, rimangono impedite queste composizioni e dissoluzioni, conservandosi in quella vece e risarcendosi il misto dei tessuti organici. Ora, a fine di procedere con passo sicuro, è uopo che mettiamo bene in chiaro lo stato della questione: « se la lotta apparente fra il principio vitale e le forze straniere ammetta conciliazione »; al qual fine dobbiamo spiegare di quale conciliazione si parli. Perocchè questa parola riceve diversi significati: si può intendere di una conciliazione di fatto, di una armonia prestabilita dalla mano del Creatore, e si può intendere di una conciliazione teoretica, quale sarebbe se si provasse che non esistono due principŒ lottanti, ma un solo principio operante, il quale solo a cagione di alcune circostanze accidentali produca, agendo tuttavia colla stessa legge, effetti apparentemente diversi ed anche realmente opposti così da tendere a distruggersi reciprocamente. La conciliazione intesa nel primo significato è manifestamente possibile; ma ella non è conciliazione appartenente alla natura stessa delle cose; suppone anzi l' esistenza nella natura di più forze operanti con leggi diverse, e però sempre atte a venire fra loro in collisione; se non che assistite di continuo da un terzo agente, da un mediatore che le governa, le infrena ed accorda, non possono mai venire a darsi alcuna battaglia, per puro accidente che da loro non dipende. La possibilità di questo armonico concerto non può essere argomento di disputa, nè tampoco è la questione che agitano i filosofi della natura. La questione, su cui questi disputano, riguarda dunque la conciliazione presa nel secondo significato. Non trattasi di sapere se di fatto vi sia pace fra le forze della natura; che anzi non si nega, nè può negarsi che si manifesti un continuo contrasto; ma si vuole investigare se questo contrasto accada per esservi nella natura più agenti specificamente diversi, i quali, ubbidendo a leggi diverse, sieno atti a battagliare fra di loro; oppure se si possano spiegare i contrari effetti, riducendoli tutti ad un principio unico operante con un' unica legge, ma variamente determinato da circostanze straniere, che gli fanno mutar corso e parere contrario a sè medesimo. Questo è lo stato della questione, in cui noi dobbiamo ora metterci. I filosofi della natura, che ne hanno trattato, non conobbero la essenziale differenza tra le due lotte che abbiamo descritte; essi affrontarono la questione tutta intiera senza prima sottometterla all' analisi e però pronunciarono sentenze assolute, o negando la possibilità della conciliazione o affermandola. Noi crediamo che anche qui la verità stia nel mezzo, cioè che una parte di quella lotta rimanga inconciliabile, un' altra conciliabile; la lotta che ha il principio vitale colle forze meccaniche non ammette la cercata conciliazione, quella all' incontro che egli ha colle forze attrattive non punto l' esclude. Gli antichi non hanno mai dubitato della realità della lotta, che apparisce fra lo spirito e la materia, nè mai cadde loro in pensiero che gli effetti, che manifestamente si contrariano, potessero ridursi alla stessa causa. Questa è la sentenza, che prima si presenta allo spirito. L' osservazione infatti presenta tre classi di fenomeni sommamente distinti fra loro e di opposti caratteri forniti: 1 la classe dei fenomeni puramente materiali e meccanici; 2 quella dei fenomeni fisici, chimici, e in una parola fenomeni di attrazione; 3 quella dei fenomeni animali. Quindi il comune discorso degli uomini deduceva che alle tre classi così ben distinte di effetti dovessero corrispondere altrettante cause o forze di distinta natura, che ne spiegassero l' esistenza, cioè forze meccaniche, attrattive ed animali, ciascuna operante con legge diversa; di che la possibilità inevitabile della lotta. Il ragionamento dei precedenti si erigeva sull' osservazione; ad alcuni moderni pareva ripugnante che nella natura vi fosse una lotta reale e necessaria, e si lasciarono altresì invaghire dalla bellezza ed eleganza, che loro pareva dovesse avere una spiegazione dei fenomeni naturali semplicissima, in cui tutti si riducessero ad unità, ad una sola causa. Questa vaghezza tutta ideale travolse non pochi nel materialismo, lusingandosi, vanamente a dir vero, di poter trovare nelle sole forze meccaniche la causa di tutti affatto i fenomeni, non eccettuati quelli del sentimento e del pensiero. Altri tentarono altre vie per arrivare allo stesso intento, ma sempre in sulle ali dell' immaginazione. Laonde quanti fin qui desiderarono di trovare che la lotta del principio vitale colla natura fosse soltanto apparente, quasi un solo e identico agente che rappresentasse più personaggi ad un tempo, ebbero la sventura di uscire affatto dal sano metodo filosofico, e però non poterono mettere un passo innanzi sicuro. La media sentenza da noi accennata, che ci pare vera, discende quale naturale corollario dalle cose ragionate più sopra intorno all' inerzia della materia. Ivi noi vedemmo che tutti gli effetti meccanici della comunicazione e conservazione del moto non possono appartenere alla materia, ma sì a quel principio occulto che la mette in essere, e che abbiamo chiamato principio corporeo . Vedemmo, ancora, che tutti gli effetti attribuiti all' attrazione non possono appartenere neppur essi alla materia in cui appariscono, ma bensì al principio sensitivo con essa congiunto. Quindi stabilimmo che tutti i movimenti, a cui la materia soggiace, si debbono ridurre a due cause spirituali, cioè al principio corporeo ed al principio sensitivo . Se dunque vi sono due cause di moto specificamente diverse, le quali, perchè sono due, ubbidiscono a leggi diverse, è dunque vano il tentativo di levare ogni possibilità di lotta nella natura, e di richiamare tutti i movimenti ad una sola legge e la loro origine ad una sola causa. Ma posciachè i movimenti, in quanto ubbidiscono alle leggi meccaniche, debbono attribuirsi al principio corporeo, e in quanto ubbidiscono alle leggi attrattive, debbono attribuirsi al principio sensitivo; perciò è giocoforza conchiudere che la lotta fra l' istinto vitale colle forze meccaniche è reale, e non può torsene via la possibilità; all' incontro la lotta del medesimo istinto colle forze attrattive è apparente, cioè sono effetti dello stesso principio reciprocamente contrari a cagione delle diverse porzioni di materia che investe e delle diverse condizioni in cui esso si trova, il quale, seguendo una sola legge, produce tuttavia gli uni e gli altri. Le ragioni, che ci condussero ad ammettere l' animazione dei primi elementi della materia, furono già da noi esposte. Ora a noi pare che questa sola causa sia a pieno sufficiente a spiegare tutti i fenomeni delle diverse attrazioni. Una delle maggiori difficoltà, che può rendere questa opinione inverosimile a una gran parte degli uomini, si è il non vedersi a primo aspetto ragione, perchè, se gli elementi sono animati, non ne segua la conseguenza che ogni corpo porga i fenomeni propri degli animali. Ma chi si farà a considerare la legge secondo cui opera l' istinto vitale, scorgerà facilmente che, anche posta l' animazione degli elementi, l' apparizione di fenomeni animali è al tutto impossibile, se non è data al corpo una congrua organizzazione. E nel vero è chiaro che l' aumento di moto, che noi abbiamo attribuito alla spontaneità motrice sì vitale che sensuale, e che è uno dei principali fenomeni animali, non potrebbe mai aver luogo in un corpo inorganico. Perocchè questa spontaneità ha bisogno di continui stimoli, i quali non possono aversi costanti se non in una macchina così artificiosamente congegnata che lo stesso movimento riproduca sempre nuovi stimoli, cagione di nuovo moto. Per spiegare questo pensiero io ricorrerò ai corpi animali più perfetti, nei quali è assai più facile l' osservare quel moto perpetuo di cui parliamo, in cui gli stimoli generano moto, e il moto genera nuovi stimoli, e così via. Rammentiamo la connessione ed azione reciproca dei tre visceri principali della macchina umana, il polmone, il cuore e il cervello. I movimenti di ciascuno sono o producono altrettanti stimoli ed eccitamenti agli altri due. Il polmone pei suoi movimenti, ricevendo una porzione d' aria vitale coll' inspirazione e mandandone fuori una di acido carbonico coll' espirazione, colorisce il sangue in rosso, che è il principale stimolo del cuore e del cervello, al quale è spinto dai movimenti del cuore. I movimenti del cuore adunque sono quelli che, spingendo il sangue rosso al cervello ed ai nervi, li scuote e li eccita. Annerandosi poi questo sangue di nuovo nel suo corso, e dal ventricolo destro del cuore essendo rimesso nelle arterie e vene del polmone, viene rifornita a questo organo sempre nuova materia atta alla sua operazione, che è quella di produrre l' ossigenazione di esso sangue nero. Finalmente, i movimenti del cervello ed il suo eccitamento sono la cagione dei movimenti meccanici del polmone stesso, i quali cessando, cesserebbe quella sua operazione chimica che, arrossando il sangue, lo rende stimolo ed eccitatore potentissimo del cuore, del cervello e di tutti i nervi. I tre principali visceri, adunque, sono collegati così mirabilmente tra loro che i movimenti di ciascheduno contribuiscono ai movimenti degli altri due, di maniera che il movimento non comincia propriamente in nessuno, giacchè il polmone non si muove senza che il cervello lo muova, nè il cervello può muoversi senza che sia eccitato e stimolato dal sangue rosso, nè il sangue rosso può eccitare il cervello se il cuore non ve lo spinge; nè il cuore può spingervelo senza riceverlo già arrossato dal polmone e mosso per guisa (1) da dover essere stimolo al cuore stesso, e produrvi la contradistensione necessaria a sospingere il sangue per mezzo delle arterie al cervello (2). Laonde niuno dei tre movimenti può cominciare da sè solo; nuova prova che l' animale non si forma a parte a parte, ma che ne è dato in natura, o certo che se ne forma lo stampo con un' unica azione di un unico principio, che in uno esteso molteplice termina la sua operazione; nuova prova altresì che la natura soggiace dappertutto alla legge ontologica del sintesismo. L' organizzazione, adunque, è necessaria acciocchè si manifestino i fenomeni animali condizionati all' eccitamento continuo, il quale esige che « continuamente sieno applicati nuovi stimoli alle parti, che debbono conservarsi in moto ». L' esempio dato (e la fisiologia n' è piena) prova ad evidenza che solo una data organizzazione rende possibile il rinnovamento continuo degli stimoli, che applicati agli organi sensitivi vi producano i movimenti idonei a mettere eccitazione nel sentimento, onde sorgono le sensioni ed i movimenti spontanei. E si noti che il fatto, che descriviamo, non è solamente moto meccanico, ma è moto meccanico eccitato da azioni chimiche e fisiche, e soprattutto dalla spontaneità motrice del sentimento. Poichè, ond' è mai che il cervello produca gli alterni movimenti del polmone? Non già dalla semplice impulsione meccanica del sangue, che inaffia il cervello, nè dall' azione chimica, che può esercitare su di esso il sangue rosso; tutto ciò potrebbe avvenire in un cadavere, senza che per questo il polmone si restringesse e si dilatasse; è dunque dalla vita; cioè il sentimento interno che si atteggia ed assetta spontaneamente in ogni istante a quella guisa che gli è meno scomodo e più comodo, è appunto lui che, coll' atteggiarsi ed assettarsi così, determina gli alterni movimenti dell' organo della respirazione. Infatti non respirando, il vivente si sente male, il suo sentimento soffre; cerca dunque di evitare questo disagio, e a tal fine promuove i movimenti che lo sollevano da quella molestia, rimettendolo nello stato naturale a lui gradevole. Questa legge dell' istinto sensuale, che « il sentimento si assetta da sè stesso nel meno disaggradevole o più gradevol modo che egli possa », spiega tutti i moti involontari dell' animale, tutti quei moti che, secondo la maniera di parlare di Bichat, appartengono alla vita organica. Da un altro esempio caviamo nuovo lume, cioè dai movimenti reciproci del polmone e del diaframma. Ecco qua come ciascuno di questi due organi ha la sua posizione naturale, secondo le leggi del meccanismo col quale sono fabbricati; ma queste posizioni in cui si rimarrebbero, se le sole leggi meccaniche determinassero la loro giacitura, divengono scomode al sentimento; quindi l' attività di questo, tendente a comporsi ed ammodarsi nella guisa meno ingrata e più grata che gli riesca, rimuove alternativamente l' uno e l' altro organo dalla sua posizione, i quali così diventano reciprocamente motori l' uno dell' altro; e la massima parte del tempo si stanno fuori del posto, che le forze meccaniche loro assegnerebbero, per tenere il posto, che loro assegna il bisogno del sentimento; il quale posto è mutabile ad ogni piccolo tempo, ragione dell' incessante cangiamento di luogo a cui dolcemente si trovano stimolati. Rimossa adunque la difficoltà, che nasce dall' assenza dei fenomeni animali nei corpi inorganici, dimostrato che questi non possono apparire, appunto perchè a quei corpi manca l' organizzazione opportuna, non rimane più tale ostacolo ad ammettersi la sentenza dell' animazione dei primi elementi. D' altra parte quell' animazione è la maniera di tutte più semplice a spiegare quanti sono i fenomeni attrattivi, come quella sola che porge una causa di moto conosciuta e non chimerica, come sarebbero tutte quelle che si volessero ipoteticamente supporre. E non solo il principio vitale è certa cagione di moto, come ce ne assicurano l' esperienza e la coscienza, ma egli è indubitatamente cagione anche di moto attrattivo, come apparisce dalle diverse funzioni dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, da noi enumerate. Solamente che, dove manca l' organizzazione, egli non può produrre movimenti continui nè complicati; onde ivi si deve tutto ridurre a semplici attrazioni in linea retta, essendo impossibili i moti circolari ed altri che risultano da una composizione di moti semplici innumerevoli, esigenti stimoli ripetuti per continua riproduzione. Quindi ancora si scorge come gli effetti, che il principio vitale produce nei corpi inorganici, e quelli che produce nei corpi opportunamente organati, debbano essere assai diversi e sembrare diretti da altra legge, e però dipendere da un' altra causa, benchè non sia. Nè tuttavia questo sarebbe sufficiente a spiegare come possano venire fra essi in collisione. Ora questo rimane spiegato, tostochè si considera la dottrina dell' individuazione del sentimento. Perocchè noi vedemmo: I - che se un continuo sentito si parte in più continui, si moltiplicano i principŒ sensitivi, nei quali stanno le attività animali; II - e così pure questi principŒ sensitivi si individuano secondo i centri di maggiore eccitamento. Il principio sensitivo, adunque, non è più uno solo, ma ne compariscono più, ciascuno con istinto vitale suo proprio, ciascuno dotato di attività distinta, qual maggiore, qual minore. I principŒ sensitivi adunque, che sono annessi alla materia inorganica, non sono gli stessi di quelli annessi ad un organismo; nè hanno le stesse attività, nè sono atti a produrre gli stessi effetti. Costituito poi un principio sensitivo colla sua individuazione, egli non opera che per sè, non tende che a conquistare, ad aumentare il suo dominio approfittandosi di ogni occasione, e in questo dominio vuol essere solo; indi la lotta. Questa si agita fra diversi principŒ sensitivi variamente individuati. Laonde questa lotta non si combatte solo fra le forze animali e le attrattive, ma ben anche fra le forze di un animale e quelle di un altro, come si vede non solo nel fatto di quei viventi, che s' introducono negli altrui corpi, e li ammalano o anche uccidono ma altresì nel fatto palese della guerra, che tutti gli esseri della natura irrazionale si fanno, implacabile, mortale. Ma se questa teoria è vera, il principio vitale d' un organismo dovrebbe riuscire più potente delle forze puramente attrattive (fisiche e chimiche), i cui principŒ vitali avrebbero un dominio meno esteso, e con nullo o minore eccitamento. E l' esperienza che dimostra così appunto accadere, diviene una novella prova della indicata teoria. Infatti, in ogni animale le forze sue proprie, cioè quelle che vengono riconosciute da tutti per forze animali, sono le dominatrici, anzi nel dominio che esercitano sulle forze chimiche e fisiche vinte da quelle, elise, modificate, fatte servire, consiste propriamente il loro carattere essenziale, nè l' animale può vivere se non a questa condizione. Infatti, cessata l' azione della vita animale, appariscono nei cadaveri incontanente le dissoluzioni e composizioni chimiche. Dunque le molecole, di cui consta il corpo vivo, giacciono in situazione e condizione diversa, hanno movimenti diversi da quelli che avrebbero, se alle sole leggi chimiche ubbidissero. Le forze della vita, dunque, contrastano alle forze chimiche e ne impediscono l' effetto; dal qual fatto Brown induceva la vita consistere in uno stato forzato e violento, senza accorgersi che le forze chimiche sono fuori della vita dell' animale dominatore, e che l' attività vitale, che ne impedisce l' effetto extrasoggettivo, lungi d' essere forzata nella sua azione, ha in questa azione medesima il suo stato naturale e spontaneo; che quindi lo stato forzato è soltanto lo stato morboso o disagiato di essa vita, nel quale essa non giunge a dominare compiutamente i fenomeni chimici. Questo dominio, adunque, è lo stato naturale e normale della vita animale, e solo quando questo dominio è impedito, comincia alla vita uno stato forzato non naturale. Ora, come avviene che la forza vitale impedisca l' effetto delle forze chimiche, e faccia che gli elementi della materia ubbidiscano ad altre leggi? - Sempre mediante le due funzioni da noi distinte come cause dei fenomeni extrasoggettivi, la funzione organizzatrice e la funzione della spontaneità motrice sensuale. Nella prima si notarono tre momenti, quello della rattenenza, per la quale la funzione organizzatrice tiene le molecole viventi nella sfera della vita; quello dell' assimilazione, per la quale essa compone dai primi elementi le molecole in quella forma, mistura e situazione reciproca, che debbono avere per vivere della vita dell' individuo dominante; quello della spontaneità motrice7vitale, per la quale agevola il movimento intestino delle molecole e degli organi stessi, che esse compongono. Il primo di questi tre momenti della funzione organizzatrice non produce movimento, ma si sforza d' impedirlo: è quel conato dell' istinto vitale che tende ad impedire i movimenti degli elementi, delle molecole e degli organi contrari alla vita. Il secondo ed il terzo momento producono quei moti che desidera e che appetisce l' istinto; ma il primo che abbiamo chiamato assimilazione, è la causa dei movimenti, che vengono prodotti in elementi non ancora animati della vita individua dell' animale operante, e tendono a scomporre e comporre, configurare, scegliere, mescere e combinare, acciocchè si formino le molecole atte a vivere della vita del tutto, e a questo nei loro propri luoghi s' innestino; il secondo poi è la causa dei movimenti vitali delle molecole già vive, ossia del misto vivente, le quali vengono mosse, acciocchè il sentimento fondamentale in esse si perpetui, e nel tutto rimanga eccitato a quel modo come egli appetisce di essere. Ora, se si pone attenzione a questi due momenti della funzione organizzatrice, s' intenderà agevolmente che, ammesso il principio che « il sentimento si atteggia a quel modo che gli dice bene, e questo atteggiarsi del sentimento trae seco i descritti movimenti extrasoggettivi perchè il sentimento è inerente agli elementi, e quindi le mutazioni sue portano dei moti corrispondenti in questi, che sono suo termine necessario », gli effetti delle forze chimiche debbono rimanere sospesi ed apparire effetti da quelli diversi. Per semplificare il discorso restringiamoci a considerare la spontaneità motrice vitale, che è quella funzione per la quale l' istinto vitale tende a mantenere o produrre un incessante movimento intestino, necessaria condizione del sentimento eccitato fondamentale. E` chiaro che se le molecole debbono tenersi in un movimento intestino, se l' attività del sentimento deve concorrere a facilitare e aiutare un tale movimento, questa dovrà esercitare una tale azione sulle molecole, che procuri loro tale una reciproca posizione che esse si tocchino nel minor numero di punti; giacchè solo in questa maniera si facilita ed aiuta quel movimento, pel quale le une si soffregano contro le altre, senza attaccarvisi immobilmente. Il che spiega in modo facile perchè le molecole componenti l' animale presentino piuttosto forma globolosa che l' angolata. Avendo così meno punti di contatto fra loro godono di una maggiore mobilità, e possono strisciare l' una sull' altra del continuo, toccandosi in qualunque parte senza nè staccarsi, nè indurare; quindi i globoli, che si osservano col microscopio nei vari liquidi animali e specialmente nel sangue. La formazione di queste molecole sferiche si deve attribuire principalmente a quel momento della funzione organizzatrice, che abbiamo chiamata assimilazione . L' istinto vitale raccozza gli elementi in quelle piccole sfere, appunto perchè il sentimento ama quella forma e la aiuta, poichè con essa sola consegue l' eccitamento che lo perfeziona (1). E non è difficile tampoco intendere per qual meccanismo quelle molecole si ritondino. Supposto che la tendenza, che ha il sentimento fondamentale ad essere eccitato, aiuti e faciliti i movimenti delle molecole organiche di prima formazione, l' una al contatto dell' altra, acciocchè nasca il soffregamento in tutte le direzioni, ne deve nascere il moto rotatorio, pel quale si smussano gli angoli, e si vanno le molecole conseguentemente ritondando. Il che mi pare così probabile da poter anzi vedere nella stessa forma sferica delle molecole la prova dei movimenti intestini, coi quali l' una molecola si strofina in sull' altre da tutte le parti (2). La forma rotonda delle molecole rende altresì facile spiegazione del come si vada organizzando il sistema vascolare; giacchè è indubitato, dopo le osservazioni di tanti insigni fisiologi, che i vasi si originano dagli spazietti vuoti, che lasciano tra loro le molecole. Ora, data la rotondità delle molecole, è chiaro che esse lasciano, quando si trovano al contatto, un interstizio maggiore fra loro che non farebbero molecole di altra forma, non potendosi quelle piccole sfere toccare che in un solo punto. Se si suppongono adunque altre molecole sferiche di una piccolezza assai minore, le quali, trascorrendo fra i detti interstizi, li sforzino e li rallarghino nello stesso tempo che molte di esse, trattenute negli spazi maggiori, si consolidano e rendono il canale più regolare e seguìto; sarà facile cosa l' intendere la formazione, come dicevamo, degli innumerevoli vasi, che percorrono il corpo animale, o piuttosto lo tessono e formano. E` ancora manifesto come le piccole sfere, aggruppate insieme, lascino maggior comodità ad altre particelle d' intromettersi fra loro staccandole alquanto, come deve avvenire quando una particella straniera viene assimilata e il sentimento si accomuna. Le particelle del corpo animale tendono a conservare il contatto fra loro, per quel momento della funzione organizzatrice che abbiamo chiamato rattenenza . Ma la straniera, che si mette in mezzo per forza, vincendo la loro rattenenza, riceve in virtù di questa stessa rattenenza la continuità del sentimento, e divenuta media fra esse (quando sia minima ed omogenea come deve essere) non produce già l' effetto che i sentimenti delle molecole divise a forza rimangano discontinui; anzi ella stessa col suo sentimento piacevolmente li continua. Ora poi, che in ogni parte dell' animale avvengano intestini movimenti è pure un fatto, nell' ammettere il quale sono d' accordo tutti i fisiologi. Il Cuvier descrive la vita come un vortice continuo, che rapisce nel suo movimento sempre nuove particelle, ed altre ne espelle. Le forze vitali, adunque, sono più potenti di quelle che si dicono fisiche e chimiche; sono nate a dominar queste. E così deve essere, se è vero che le forze vitali sono quelle di un sentimento individuato in un organismo opportuno, quando le fisiche e le chimiche sono le forze istintive di sentimenti privi di organismo, ed annessi ad atomi o molecole non formanti fra loro unità. Il sentimento e l' istinto conseguente deve certo riuscire meno vigoroso in questi corpi non ancora organati che in quelli bene organati. Ma qui si presenta la questione: « come si può determinare la quantità di forza di un istinto animale ». La quale questione ne abbraccia più altre. Cominciamo intanto a restringerla al sentimento fondamentale di eccitamento. Noi domandiamo perchè in una data organizzazione l' eccitamento mantenga naturalmente certa misura e quantità massima. Non abbiamo noi detto sembrare inesauribile l' attività dell' atto vivificatore? (1). Qual' è dunque la legge, che limita la quantità dell' eccitamento nel sentimento fondamentale di un dato animale, e la determina? A ragione d' esempio, se la reciproca azione del polmone, del cuore e del cervello procede dall' attività animale, perchè questa azione non è maggiore? Perchè la circolazione non si fa più celeremente? Il sentimento fondamentale risulta dall' esteso sentito e dall' eccitamento. Vediamo come sorga l' eccitamento. Il sentimento diffuso nell' estensione è opera dell' istinto vitale. Ma l' eccitamento suppone un primo stimolo dato dalla natura. Applicato all' organizzazione opportuna, quello stimolo vi suscita sensazione, la quale è ancora opera dell' istinto vitale, poichè non è che modificazione del sentimento da lui prodotto (2). Questa prima sensazione muove l' istinto sensuale, il quale continua il movimento incoato dallo stimolo sensifero, e volgendosi in circolo quel movimento, perpetua l' eccitazione del sentimento fondamentale. La questione, adunque, si riduce a sapere perchè l' istinto sensuale operi con un certo grado di attività, che limita e determina la quantità dell' eccitamento proprio del sentimento fondamentale di un dato vivente. Ora, la legge che determina il grado di attività dell' istinto sensuale (3), applicata alla nostra questione, riceve la forma seguente: « L' istinto sensuale opera con una quantità di azione proporzionata al sentimento onde muove, e continuata fino che ella riesce piacevole ». Dalla qual legge deriva: Che l' attività dell' istinto sensuale è limitata dalla quantità del sentimento, e però dello stimolo primitivo, che ha suscitato il sentimento. Dal piacere che l' animale trova nell' azione dell' istinto. Ma che cosa determina il piacere, che l' animale trova nell' azione dell' istinto? Non altro che l' organizzazione più o meno mobile, più o meno atta a riprodurre stimoli novelli e sensazioni novelle, che rimettono l' istinto sensuale in attività. L' istinto sensuale non può muovere che il corpo vivo, cioè l' organismo vivente; questa è sua limitazione assoluta. Se l' istinto sensuale trova resistenza nel corpo, egli cesserà di operare, tostochè la fatica diventa a lui più molesta che il piacere annesso alla sua azione. E l' esperienza dimostra che egli trova sempre qualche resistenza, benchè scelga i moti più facili. Quindi, acciocchè la sua azione non cessi, è d' uopo che prima ch' egli finisca di operare, prima che finisca di essere piacevole, egli medesimo col suo operare metta in essere altri stimoli, che rigenerino la sua propria attività. Se gli stimoli riprodotti sono meno efficaci dei precedenti, l' attività del principio sensuale va decrescendo; e se questo decrescere è continuo, egli perviene alla piena quiete, con che cessa spontaneamente la vita dell' animale. Che se per difetto di organizzazione e per alterazione del misto organico nasce il fenomeno del dolore appartenente all' istinto vitale, in tal caso l' istinto sensuale dal dolore riceve una nuova attività, diretta in senso contrario, tendente cioè non più a continuare e crescere il piacere, ma a scemare o a togliere il dolore. E questa attività segue le stesse leggi dell' attività prodotta dal piacere, e però ella è tanta, quanto è il dolore, e quanta deve essere acciocchè con essa il dolore non si accresca, ma scemi. Che se i movimenti prodotti da lei non scemassero più il dolore, ma l' accrescessero, da quell' istante l' attività sensuale cesserebbe, e succederebbe la quiete che al dolore si abbandona; l' animale cade allora nello spossamento, nell' abbattimento; le forze medicinali della natura si tacciono, lasciano il corso alle forze perturbatrici, che giungono facilmente a distruggere l' organismo e cagionare la morte. Esposte così le leggi dell' animalità, noi dobbiamo dimostrare: 1 che esse sono necessarie alla spiegazione dei fenomeni animali; 2 che esse sono a ciò sufficienti. Incominciamo dalla proposizione fondamentale dell' esposta teoria, la quale si è che « i fenomeni animali non possono ricevere spiegazione, se non a condizione che si trovi un unico principio dal quale dipendano, e questo principio sia sensitivo ». Diciamo che, quand' anche si riuscisse a spiegare i fenomeni singolarmente presi ricorrendo a principŒ diversi, con ciò rimarrebbe sempre inesplicato il loro complesso armonico, la loro mirabile unità, che non può trovare ragione sufficiente se non in un principio unico, e questo altresì sensitivo. Deve qui dunque chiamare la nostra attenzione quel consenso ammirabile fra i diversi organi viventi, che fu proclamato così solennemente dalla più remota antichità. Ella è celeberrima la sentenza di Ippocrate: [...OMISSIS...] che viene a dire: « un unico concorso, un' unica cospirazione, consenzienti tutte le cose ». Non si è ommesso certamente di tentare tutte le vie per dare una spiegazione di un fatto così solenne. Si è ricorso al mirabile congegnamento della macchina dell' animale, alla origine comune di certe parti del corpo, alla vicinanza di altre (1), alla comunicazione dei vasi, alla continuazione delle fibre e delle membrane, ecc. (2). E certo non si può dubitare essere necessario che il corpo vivente sia conformato col più mirabile meccanismo, acciocchè i fenomeni della simpatia fra le varie membra possano aver luogo. Noi parlammo già innanzi del bisogno dell' organizzazione in generale, acciocchè i fenomeni della vita si manifestino. Ma dopo di questo, nel solo meccanismo non si potè mai trovare in alcun modo una piena e sufficiente cagione della detta simpatia, perocchè in niun meccanismo vi è l' unità della causa, che si richiede a produrla. Se si trattasse unicamente di spiegare l' armonia dei movimenti extra7soggettivi, che si rispondono nelle diverse parti di cui si compone la macchina del corpo animale, potrebbe forse parere che non si richiedesse nulla di più a venirne a capo, fuorchè il supporre un cotal divino meccanismo ingegnosissimo. Ma la simpatia e consonanza, che si manifesta nel corpo umano, non è solamente extra7soggettiva; ella è ancora principalmente soggettiva nel sentimento, anzi è sempre (chi ben considera) una corrispondenza di moti esterni e di sentimenti, cioè di fenomeni extra7soggettivi e di fenomeni soggettivi, comunicazione avente tali leggi che dimostrano un principio unico, privo di parti e sensitivo. Veramente io stimo di più che, quand' anche si considerassero i soli movimenti armonici, che avvengono contemporaneamente nei diversi organi della macchina del corpo animale, giammai non si potrebbero spiegare colle sole leggi meccaniche della comunicazione del moto; le quali non producono che movimenti successivi, quando le affezioni del corpo umano sono bene spesso permanenti e contemporanee, ed armoniche; quelli muovono gli organi della macchina, non li modificano, non li perfezionano, non li formano, come pur accade dei movimenti animali, che influiscono sulla macchina stessa in modo che il conformarla piuttosto in un modo che in un altro è il loro proprio effetto. Di più, nei moti della macchina umana, come osservò il Cheyne, vi è continua perdita di forza per la confricazione e per l' attrito delle parti, onde è bisogno che un principio inesausto di forza, estraneo al meccanismo, continuamente supplisca a quella deficienza (3). Finalmente non si può dissimulare l' efficacia della dimostrazione di Clark sull' impossibilità di avere un moto continuo con forze puramente meccaniche; la quale dimostrazione si appoggia a questa tesi, che « «un tal moto continuo supporrebbe un peso più grave di sè stesso, o una forza elastica più elastica di sè stessa » », il che è contraddizione; donde Guglielmo di Porterfield conchiude che i continui movimenti dell' animale suppongono un principio al tutto ipermeccanico (1). Rimane dunque sempre a ricercare quale sia quell' unica forza che, applicata al corpo organizzato, vi produca quei tanti così complicati, così incessanti fenomeni della simpatia e sinergia fra tutte le parti del corpo medesimo. Anche i medici moderni già vanno accorgendosi e confessando che conviene ricorrere ad un principio unico per spiegare quel fatto stupendo. [...OMISSIS...] . Quanto poi agli antichi, non pregiudicati dalle asserzioni materialistiche e gratuite di alcuni sofisti che ad una forza primitiva e unica, diversa affatto da ogni altra, si dovesse ricorrere affine di spiegare le operazioni del corpo animale, l' ebbero sempre scorto i filosofi ed i medici più insigni. Il padre della medicina ricorre ad una forza originaria data a principio, per spiegare come le diverse parti del corpo si alimentino, e la chiama « «ex arches dynamis», facultas quae ab initio adest (1), » e soggiunge che « il principio di tutte le cose è uno, e il fine di tutte le cose è uno, e il fine è il medesimo che il principio »(2). Ma il concetto che di questa forza si vennero facendo nei diversi tempi gli studiosi della natura, riuscì bene spesso imperfetto. Si vide che ella non cadeva sotto i sensi, e che tampoco non cadevano sotto i sensi i primi movimenti da lei prodotti, i quali iniziavano i moti sensibili (3); ma ciò che non si vide forse mai chiaramente e pienamente si fu come il movimento ed il sentimento sono fenomeni essenzialmente diversi (4) ed opposti fra loro, e quello che è più, non essere già il movimento il primo e il sentimento il secondo, quasi che questo sia generato da quello; ma esser vero anzi tutto l' opposto, precedere cioè il sentimento, e questo avere attività di produrre il movimento animale (1), che si presenta nel corpo all' osservazione extra7soggettiva. E veramente è un fatto innegabile, deposto dalla nostra coscienza, che noi possiamo muovere il corpo nostro; e quando dico noi, dico un sentimento sostanziale, come fu dichiarato; è un fatto innegabile che non sorge in noi un nuovo sentimento, senza che succedano nel corpo nuovi movimenti corrispondenti, come vedesi nelle passioni: a ragion d' esempio, la passione della paura determina il sangue a ricorrere dall' estremità al cuore, ecc.. Che dunque i sentimenti, gli istinti conseguenti, e le emozioni che appartengono anch' esse ai sentimenti razionali, producano dei movimenti nel corpo umano è un fatto certo; questo ha, quando si muove il ragionamento da fatti certi, una solida base e consistenza. All' incontro i filosofi, lasciando da parte un punto così luminoso e innegabile, accertatoci dalla coscienza, si occuparono per lo più del solo fenomeno della sensazione accidentale e transitiva. Ed avendo osservato che questa non viene mai promossa se non a condizione di un movimento impresso nelle fibre nervose, conchiusero precipitosamente che quel movimento delle fibre sia il primo fenomeno, a cui il sentimento, come effetto a causa, sussegue. Non riflettono costoro che la fibra non darebbe la sensazione, se essa stessa prima non avesse il senso, sicchè quei movimenti in una fibra morta e insensitiva nulla producono; nè considerano la natura della sensazione, che non può essere altro che modificazione ed eccitazione di un sentimento precedente. Insomma non giungono ad afferrare la grande verità di un sentimento fondamentale, avente a termine un esteso corporeo, e necessitato a modificarsi ed eccitarsi mediante i movimenti in questo suo termine provocati; di che la vera causa efficiente della sensazione non sono i movimenti, ma sì quel sentimento precedente, che si modifica ad un tempo stesso che il suo corpo extra7soggettivo è mosso, perchè a questo corpo aderente, e, per meglio dire, perchè il corpo continuo nel sentimento stesso sussiste. Un' altra cagione dell' illusione, a cui soggiacquero i filosofi in così importante argomento, fu questa. Vi sono dei corpi extra7soggettivi nei movimenti dei quali niuna sensazione ci si presenta, chè nè la nostra coscienza ce l' attesta, nè l' analogia la congettura, non potendosi osservare in quei corpi movimenti extra7soggettivi simili a quelli che nel nostro corpo sappiamo per interna consapevolezza essere effetti del sentimento. Quindi conchiudono che niun sentimento in essi esiste, e che i movimenti apparenti vengono da un quid incognito, da una forza insensata. S' immaginò dunque, che esista una forza bruta, cioè una causa di meri movimenti locali, senza che ella sia congiunta ad un sentimento, o ad un sentimento si riferisca. Non si esaminò punto se questa ipotesi involga qualche cosa di strano ed anzi di assurdo, quasicchè potesse esservi un ente con esistenza meramente relativa ad un altro che lo osserva, non congiunto ad alcun principio interno . Si mediti pure quanto si voglia per trovare che cosa propriamente sia un principio interno, non si troverà mai altro che possa essere così chiamato in senso vero e rigoroso se non soggetto sensitivo o risultativo . Perocchè, quantunque noi possiamo considerare un corpo dentro ad un altro, e però un corpo contenuto, che chiamiamo interno relativamente a quello che lo contiene, che chiamiamo esterno; tuttavia dello stesso corpo contenuto altra nozione non possiamo avere che di un ente esterno, cioè cadente sotto l' osservazione extra7soggettiva. Tutte le notizie sperimentali, che abbiamo dei corpi, accuratamente considerate si riducono a notizie di superficie, perocchè il dividere un corpo non è altro che discoprire nuove superfici; sempre però superfici, sicchè non si è mai trovato nulla in un corpo di veramente interno; questo interno non fu mai veduto; solo l' immaginazione umana suppose qualche substratum, che si deruba continuamente ai sensi e si nasconde più addentro, qualche cosa che è per sè interno nei corpi. Ma data anche la possibilità di questo quid interno, che formi l' essenza dei corpi e che si chiamò forza bruta , esso, quando si consideri diviso da ogni altro principio (dal principio corporeo) (1) e per sè essente, non sarà mai altro che una mera ipotesi, un ente affermato gratuitamente, non più. Non è dunque provata l' esistenza di mere forze motrici; e perciò quando tali entità astratte, simili alle qualità occulte dei Peripatetici, si assumono per ispiegare i movimenti del corpo animale, altro non si fa che ricorrere ad una causa per lo meno incerta ed affatto ignota; che non rende punto impossibile la sentenza contraria, la quale asserisce che un principio sensitivo e vivente sia cagione anche di quei movimenti che noi vediamo nascere in corpi, nei quali i fenomeni analoghi a quelli del sentimento nostro non ci si manifestano. La differenza fra queste due sentenze sta qui, che noi sappiamo di certo esistere nel sentimento un' attività locomotiva; e però in questa sentenza si ricorre, per spiegare i fenomeni, ad una causa, di cui è provata l' esistenza, là dove per nessun argomento si può provare che esista veramente una causa atta a produrre il movimento locale, e priva al tutto di ogni sentimento, e che sia da sè sola un ente. Questa ipotesi è dunque viziata da molte parti, e se non altro in questo, che manca della principale condizione di cui un' ipotesi deve essere fornita, cioè che « sia provata l' esistenza della causa, che si assume ipoteticamente a spiegare una data classe di fatti ». A malgrado di tutto ciò, si scorge nella Fisiologia un progresso evidente verso la verità; ed è già un buon passo l' essersi accorti i fisiologi che a spiegare i fenomeni animali, e massimamente quelli delle simpatie, conviene ricorrere ad un principio unico . Il che ora anche in Francia si confessa. L' errore di Bichat, che distingueva la vita animale e la vita organica (1), dando a ciascuna le due proprietà della sensitività e della contrattilità, e quindi distinguendo simpatie di sensibilità e di contrattilità animale e simpatie di sensibilità e di contrattilità organica, si riconosce nella sua stessa patria; si confessa che egli divideva con abuso di astrazione quello che nella natura è uno e semplice. [...OMISSIS...] (2). Si va dunque finalmente d' accordo, tanto in Italia quanto in Francia, nel riconoscere un principio unico, a cui si riferiscano i fenomeni animali e nominatamente le simpatie. Nondimeno ancora non si vide, diremo di nuovo, la fondamentale classificazione dei fenomeni animali in extrasoggettivi e soggettivi . Movendo noi dunque da una causa, di cui è provata l' esistenza ed altresì la sufficienza a produrre il moto, cioè da un principio sensitivo, prendiamo ad applicarla alla spiegazione del complesso armonico dei fenomeni animali; e se ella sola si parrà sufficiente anche a questo, non sarà egli inutile immaginarne qualche altra occulta? E quanto più, se la causa occulta che si propone rimane inetta a spiegare i fenomeni, quando la causa certa e palese risulta a ciò pienamente idonea? Cominciamo dunque dal fenomeno delle simpatie, e prima di tutto determiniamo in quale ampio significato ci sembra di dovere noi prendere questa parola. I fisiologi moderni negano il nome di simpatia ad un' affezione, che si suscita in una parte del corpo umano, in conseguenza di un' irritazione o affezione di un altro organo, qualora fra i due organi vi sia un legame conosciuto. Il signor Roux, della scuola di Bichat, sostiene che un fenomeno non è simpatico, se non quando esso non si può spiegare mediante l' uno dei tre eccitatori delle proprietà vitali, il cervello che trasmette l' eccitamento pei nervi, l' azione dei corpi esterni e le sostanze liquide proprie del corpo animale. Ma la definizione della simpatia, ristretta in tali confini, soggiace a due incomodi: I - Ella è una definizione, che piuttosto si fonda nella ignoranza che nella natura della cosa; e però quello che di presente si chiama simpatia, cesserebbe di essere tale, tostochè i progressi della scienza facessero conoscere fra gli organi simpatici delle comunicazioni sino ad ora sconosciute. II - E` anche una definizione, che riposa sopra un supposto erroneo, qual' è quello che ci siano tali comunicazioni materiali fra gli organi che bastino esse sole a spiegare le affezioni, che si comunicano anche nell' ordine del sentimento; quando niuna comunicazione materiale, niuna continuità o contiguità di parti, niun movimento di fibre, niuna diramazione di vasi può produrre effetti sensibili, ma soli movimenti, ove non si supponga un sentimento precedente e un principio senziente, diverso affatto dall' esteso corporeo. Di più, nello stesso ordine dei movimenti la sola comunicazione materiale degli organi non somministra spiegazione di certi movimenti, che eccedono la quantità delle forze materiali e che si sottraggono alle leggi del moto suscitato; ond' è giocoforza ricorrere ad un principio di moto diverso da quello delle dette forze materiali; ed un tale principio o è l' attività stessa del sentimento, come noi crediamo, ovvero è un ente supposto gratuitamente dalla fantasia, la quale dà corpo ad una astrazione, come vogliono gli avversari, ma sempre alieno dalla comunicazione materiale fra le parti della macchina umana (1). Noi dunque preferiamo di prendere la parola simpatia nel più esteso significato, per indicare « il consenso vitale, che hanno fra loro le diverse parti di un corpo vivente »; ed alla simpatia presa in questo largo significato noi vogliamo ora applicare la teoria del principio sensitivo siccome causa del moto, da noi precedentemente esposta, cioè vogliamo dimostrare che solo con questa causa si possono spiegare i fenomeni della simpatia, i quali non sono nè meccanici, nè fisici, nè chimici, ma propriamente vitali e animali; benchè presuppongano e preesigano un meccanismo, una organizzazione, delle comunicazioni di filamenti, delle contiguità e continuità, dei tessuti, dei vasi, ecc. per loro condizione preparatoria, acciocchè si possano manifestare ed essere. Nell' uomo oltre il principio sensitivo vi è l' intellettivo, che influisce sul sensitivo, lo domina, lo muove all' azione, lo trattiene dall' operare e ne modifica l' azione senza che per tutto ciò ne cangi la natura, ovvero distrugga le leggi del sentimento animale. Il principio intellettivo poi non opera cosa alcuna nel corpo umano se non col mezzo del principio sensitivo. Di questo solo dunque vogliamo noi parlare, lasciando affatto da parte l' attività intellettuale. E vogliamo prima anche osservare essere un metodo erroneo quello che ragiona delle operazioni animali, in modo da supporre che il principio sensitivo operi con un fine conosciuto . Non si può disconoscere che gli animisti abbiano abusato delle cause finali, pretendendo che il principio operatore dei fenomeni animali conoscesse il fine, pel quale egli operava. Questo errore conseguitava all' altro, che confondeva il principio intellettivo col sensitivo; e racchiudeva di più un terzo errore. Poichè la stessa attività del principio intellettivo nell' uomo non sempre opera per un fine conosciuto e distinto dall' opera stessa, anzi molte volte opera anch' egli come sia un istinto, per una legge di natura, per quella legge che presiede al nesso dinamico, che passa fra il principio intellettivo ed il corpo. L' osservammo già: una notizia funesta improvvisa cagiona degli sconcerti nell' animalità; il principio intellettivo, che accolse quella notizia, non vuole punto quegli sconcerti, nè nessun fine lo muove a produrli; eppure li produce involontariamente, cioè per necessità di natura. Il principio intellettivo, adunque, influisce sul corpo con un fine, solo allorquando il movimento che vi produce è un oggetto della sua attenzione e da lui voluto, ed allora il fine non riguarda necessariamente il buono stato del corpo, anzi sovente tutt' altro; siccome accade nei suicidi, o in quelli che mortificano il corpo per averlo ubbidiente agli intendimenti più elevati della morale virtù. Molto meno il principio dell' attività animale può operare con un fine da lui conosciuto (benchè le sue operazioni sieno ordinate ed ottengano un fine inteso dal Creatore); egli opera con leggi spontanee, necessarie, non libere, le quali tutte dipendono da questa formula: « Il sentimento tende a conservarsi e ad accrescersi »; cioè egli si atteggia e si pone in quel modo che gli è più piacevole, il quale gli è più naturale, perchè nell' atto di sentire consiste la sua natura, ed evita quel modo che gli è doloroso, cioè contrario al suo atto naturale. Avendo noi riposta l' essenza dell' animale nel sentimento (1), forza è che noi non riconosciamo altro carattere certo e proprio dei moti animali se non questo « che si abbia prova d' un qualche sentimento concomitante il moto ». Non basta adunque per noi un organismo, cioè una macchina ingegnosamente congegnata, nè dei movimenti organici per ammettere l' esistenza della vita, ossia del principio vitale, se quei movimenti organici non sieno tali che suppongono l' esistenza di qualche sentimento. Qualora dunque si applichino degli agenti materiali ad un corpo animale, il movimento, che vi producono, comincia ad essere azione animale, solo allorquando incomincia la sensazione; sicchè quantunque prima della sensazione vi avessero stimoli e movimenti, tuttavia questi non apparterrebbero all' animale fino che l' animale non cominciasse a far uso dell' attività sua propria; la quale è l' attività di sentire. Chè di tutti i movimenti veramente animali il principio sta nel solo sentimento. Ad illustrare il qual principio ci valgono le due proposizioni seguenti. Talora il sentimento, dal quale parte l' azione o la passione animale, è una sensazione esterna. - Se si punge o batte una bestia, essa fugge. L' attività, che spiega nel suo moto, incomincia evidentemente dalla sensazione del dolore. Questa sensazione del dolore, associata coll' immaginazione di uno stato libero dal dolore e dei movimenti che a tale stato conducono, sono i tre elementi che la forza unitiva congiunge in uno, e determinano l' azione di quel moto. Questa fuga è un atto dell' istinto sensuale (1), appartenente alla mobilità avversiva . E` da notarsi che ogniqualvolta l' azione o funzione animale non viene determinata da una sola sensazione, ma da un associamento di più sensazioni, di immaginazioni, ecc., l' istinto simula la volontà; perchè i movimenti, che ne conseguono, non sono esattamente proporzionati alle singole sensazioni, ma all' impressione totale; e quindi essi sembrano avere dell' arbitrario, benchè non sia così. La sensazione del dolore determina l' animale non solo ai movimenti grandi come sono gli accennati, ma ben anche ai movimenti minimi, come sono quelli con cui si operano le secrezioni. - I dolori, che provano i bambini nel travaglio della dentizione, cagionano loro rilascimento di corpo, vomiti, tossi, ecc.; qui il principio animale addolorato produce manifestamente quei piccoli moti intestini, che danno luogo a così fatti fenomeni. Talora il sentimento, dal quale incomincia l' azione o la passione animale, è una sensazione delle pareti interne del corpo animale. - Il titillamento dell' ugula produce il vomito. Questa sensazione non si associa con alcuna immaginazione, ma, continuandosi il movimento che in essa s' inizia per la spontaneità animale , rovescia lo stomaco. In queste maniere di movimenti il carattere istintivo è più evidente, per la ragione detta che il movimento non è eccitato che dalla sola sensazione iniziante un moto, che spontaneamente si continua e si complica. Lo stesso si può dire del titillamento delle nari, a cui sussegue lo starnuto, movimento ancora più complicato; lo stesso del sentimento della nausea, pel quale gli emetici mettono in movimento i nervi e i muscoli dello stomaco; lo stesso delle fecce e dei drastici, che irritano gli intestini e provocano l' evacuazione. In tutti questi casi è evidente che il sentimento molesto, che si manifesta nelle pareti interiori del corpo, è il principio dell' attività animale; questa si suscita ed agisce fortemente, perchè prova una molestia; il principio sensitivo si ribella alla molestia che prova, trae in azione più organi per liberarsene; l' istinto sensuale anche qui opera colla sua mobilità avversiva, sottraendosi alla sensazione dolorosa, e rendendosi più che può da essa indipendente. E da tali suoi sforzi consegue un effetto, che è certamente dovuto al sapientissimo congegnamento della macchina animale, fatta dal Creatore, cioè l' espulsione del corpo estraneo o dello stimolo che cagiona quella molestia. Perocchè, si noti bene, ciò a cui tende il principio sensitivo è unicamente di liberarsi dalla molestia che egli prova; la sua azione e il termine della medesima non eccede l' ordine soggettivo; al quale tengono dietro i movimenti relativi nel corpo animato. Ora l' espulsione del corpo estraneo conseguita siccome una conseguenza fisica di tali sforzi, senza che a ciò, propriamente parlando, egli intenda (1). E questa osservazione è molto importante, come si vedrà nella spiegazione di altri fenomeni. Talora il sentimento, col quale incomincia la funzione animale, appartiene all' immaginazione. - Alla presenza d' un cibo appetitoso è provocata una secrezione abbondante di saliva; qui è l' immaginazione del sapore, che muove quell' attività istintiva, perocchè in tutte le sensazioni l' anima concorre colla sua attività (1). In questo fatto si vede che il principio sensitivo, determinato dall' immaginazione che è un senso interno, opera sul sistema ganglionare, il quale presiede ai fenomeni secretori, esalanti e infiammatorii. E` l' istinto sensuale, che opera colla sua mobilità concupiscibile . La secrezione della saliva, in conseguenza della vista di un cibo appetitoso, è un chiarissimo esempio dei minimi movimenti, che il principio sensitivo è atto a produrre mediante la mobilità concupiscibile . Innumerabili sono gli esempi simili, che provano questo potere del sentimento sui minimi movimenti del corpo, che io chiamerei assai volentieri collo Stahl movimenti tonici . La vista di una cosa schifa provoca il vomito nelle persone delicate, come sono le donne specialmente in certi momenti, e toglie loro l' appetito. E` avvenuto che la sola vista d' un medicamento già preso più volte, e con danno della salute, abbia incontanente recato dolori al ventre, e, quasi l' ammalato l' avesse già preso, prodottegli scariche abbondanti (2). Ecco l' immaginazione, che muove simpaticamente il ventricolo e gli intestini (mobilità simpatica ritrosa). Ma lo stesso principio, lo stesso istinto sensuale, principalmente per la mobilità concupiscibile, è quello che muove l' animale affamato a fare tutti i movimenti necessari per procacciarsi il cibo, e in generale per soddisfare a tutti i bisogni che si fanno sentire nell' animalità, compreso quello della propagazione. E` sempre un atteggiarsi, è un muoversi in conseguenza del sentimento, di una molestia o di un incipiente piacere, che vuol essere perfezionato, sia che a tal fine coi movimenti esterni egli ne cerchi i mezzi (mobilità concupiscibile), sia che, trovato il fonte stesso del piacere, colla sua attività lo perfezioni e vi s' immerga fino a sentirsene pienamente soddisfatto (mobilità voluttuosa). Siccome i movimenti piccoli, secretori, tonici, dimostrano il potere del principio sensitivo sul sistema nervoso ganglionare, così i movimenti grandi dimostrano il potere del principio sensitivo, che opera sul sistema nervoso cerebro7spinale. Conviene ciò nulla ostante avvertire che non manca mai intieramente l' azione del sistema cerebro7spinale, anche quando il principio sensitivo opera movendo il sistema ganglionare. Fin qui abbiamo veduto il potere motore del principio sensitivo, supponendo che questo potere operi in conseguenza di sentimenti figurati, quali sono le sensazioni esterne e le immagini. Abbiamo veduto anche in parte il suo potere motore operante in conseguenza di sentimenti poco o nulla figurati, come sono le sensazioni provocate nelle superfici delle pareti interne del corpo, o in conseguenza d' immaginazioni associate ai sentimenti esteriori. I sentimenti non figurati, privi di un confine preciso e di un' apparente località rispettiva, sfuggono più facilmente all' osservazione ed alla coscienza; e quando il principio sensitivo si muove suscitato da essi, pare che il suo movimento sia estraneo al sentimento; il che tuttavia, se si osserva bene, non è certamente. Continuiamoci adunque a recare altri fatti, che richiamino l' attenzione sull' attività che ha il sentimento di trarre dietro a sè movimenti piccoli e grandi, e conseguentemente variatissime modificazioni nel corpo animale. Talora quel sentimento, col quale cominciano i movimenti e le funzioni del corpo, consiste in certe sensioni d' interna molestia, che si diffonde a gran parte o a tutto il corpo animale; alle quali sensioni diffuse l' animale colla sua attività sensuale tenta sostituire sensioni egualmente diffuse, ma grate, mediante i movimenti e le funzioni che vengono da lui esercitate. - L' animale è indotto a respirare, per la molestia che proverebbe non respirando, e pel piacere che prova nella respirazione. Questa funzione importantissima della vita animale ha una principalissima influenza nel mantenere l' eccitamento continuo del sentimento fondamentale. Qui l' istinto vitale colla sua funzione eccitatrice è manifestamente la prima causa dei movimenti del polmone, del cuore e di tutti gli organi piccoli e grandi, che concorrono alla circolazione. L' operazione del parto è l' effetto della molestia che prova il feto già maturo nelle angustie dell' alvo materno, e della molestia che prova la madre stessa dagli sforzi di quello, e che contribuiscono a mandarlo in luce (1). Tutte le funzioni vitali sono determinate dal dolore e dal piacere, cioè dalla necessità di fare quelle operazioni per evitare la molestia che ne risentirebbe la natura non facendole; e pel piacere della vita che sente facendole. Che cosa è, a cagion d' esempio, il motivo che induce l' animale a mangiare se non la molestia della fame, che tende a rimuovere da sè, e il diletto che prova nutrendosi? Il quale diletto non si ferma al solo gusto, ma più ancora soddisfa al senso alimentare (1). Lo stesso si dirà della funzione generativa e di ogni altra del corpo umano. Conviene ricorrere al senso per spiegare le funzioni animali, e quindi al principio sensitivo . E` ben da osservarsi che ogni funzione del corpo animale suppone: 1 un principio sensitivo, che la muova e diriga; 2 e questo principio, semplice. E` un' illusione assai comune il credere che allorquando si veggono avvenire alcune azioni complicate nell' animale, cospiranti ad un effetto utile allo stesso animale, sieno sufficientemente spiegate pur coll' applicarvi il nome di funzione . Una parola di più o di meno non fa la scienza. Se dunque noi consideriamo senza prevenzioni una funzione animale qualsiasi, noi dovremo ravvisare in essa una manifestissima prova dell' unità e della semplicità di un principio sensitivo, che ne è la causa e il regolatore. E di vero, tutte le funzioni animali si riducono in due classi: I - Quelle che hanno per iscopo ed effetto il sentimento fondamentale, le quali appartengono all' istinto vitale. II - Quelle che danno per iscopo ed effetto la sensione attuale, le quali appartengono all' istinto sensuale . Il sentimento fondamentale risulta dai due elementi, del continuo sentito e dell' eccitamento circolare perpetuo. Quindi le funzioni dell' istinto vitale si possono partire così: Classi di funzioni dell' istinto vitale I Classe - Funzioni che hanno per loro termine e scopo il continuo, cioè: 1) tendenti a far sì che il continuo sentito non si diminuisca; 2) tendenti a fare che il continuo sentito si accresca. II Classe - Funzioni che hanno per loro scopo l' eccitamento, tendenti a fare: 1) che l' eccitamento non si diminuisca; 2) che l' eccitamento si accresca; 3) che l' eccitamento non si perturbi e si disordini; 4) che l' eccitamento perturbato e disordinato si riordini. Enumerare le classi delle funzioni dell' istinto sensuale, secondo i loro prossimi effetti e scopi, ci condurrebbe troppo a lungo, perchè dovremmo classificare tutte le maniere di sensioni speciali, di cui è suscettivo il sentimento, e descrivere le azioni istintive che ne conseguono, alle quali dovremmo assegnare quattro o più intenti, cioè: 1 conservare viva la sensione; 2 accrescerla; 3 lottare contro le forze perturbanti l' eccitamento; 4 diminuire il dolore che viene da quella lotta; 5 lottare contro le difficoltà, che a tutti questi intenti si oppongono (mediante l' avversione irosa). E dopo di ciò dovremmo aggiungere la funzione tendente ad armonizzare insieme le sensioni, cavandone uno stato di soddisfazione e di quiete, rimovendo lo stato non soddisfacente ed inquieto. Il qual cenno tuttavia ci sembra sufficiente a dimostrare che ogni funzione ha per suo intento un sentimento da conservare o da migliorare, e che quindi la sua causa non può essere che una attività sensitiva. La natura poi di ognuna di codeste funzioni richiede la semplicità di questa causa. Perocchè ogni funzione è composta di più movimenti simultanei e successivi, tutti cospiranti ad ottenere uno scopo unico; se la causa che li produce tutti non fosse unica e perfettamente semplice, essi non potrebbero essere condotti all' unità, a cui pure sono sempre volti, senza eccezione di sorte. Si aggiunge che la funzione, benchè così molteplice nelle parti corporee che vi s' impiegano, nei movimenti diversi che ciascuna di esse fa, nei momenti in cui li fa, tuttavia si compie per modo che si sente in essa un atto solo; l' animale, in quanto al suo sentimento, non intende fare che una sola cosa, una sola azione, sente di operare con un' attività sola, non ha bisogno per eseguirla che di un solo atto imperativo. Questo, che è ciò che viene attestato all' uomo dalla sua consapevolezza, è anche ciò che esprime il linguaggio, perocchè alla nutrizione, alla respirazione, alla generazione si dà un solo vocabolo; e fa bisogno di riflessioni faticose e proprie solo della scienza, per giungere a spezzare e ad analizzare tali funzioni, distinguendone le parti e gli atti singoli, che entrano a formarle. Il comune degli uomini non le conosce che nel loro tutto, nella loro unità; con questa unità cadono nella sua coscienza; laboriosamente e per isforzo di osservazioni e di meditazioni egli le conosce poi in quelle parti, che sono parti unicamente perchè egli le distingue e così le crea, ma che non esistono separate in natura, non esistono nel sentimento e nell' attività istintiva. Ogni funzione animale, adunque, è una compiuta dimostrazione della semplicità dell' anima sensitiva. Che se si rifletta, di più, che l' animale non opera mai in altro modo che per via di funzioni, cioè di tali gruppi di atti e di movimenti che tendono ad un solo scopo (1), si dovrà conchiudere a ragione che tutto ciò che fa l' animale, niente eccettuato, prova la semplicità del suo principio. Che, dunque, nel sentimento sia contenuta un' attività istintiva locomotrice è un fatto indubitabile; ed è da simili fatti bene accertati che si deve muovere alla spiegazione dei fenomeni. E` del pari certo che questa attività motrice, nascosta nel sentimento, è valevole a spiegare tutti i movimenti animali, tutte le funzioni del corpo umano; e quindi l' introdurre un' altra causa è superfluità, è arbitrio, ed ella poi non sarebbe mai altro che un quid incognito: la quale maniera di procedere è contraria ai più solenni principŒ logici e cosmologici, quali sono quelli della ragione sufficiente e della parsimonia della natura . Taluno opporrà che non sempre, non in ogni azione della sua animalità l' uomo ha coscienza che un sentimento ne sia il principio. A cui noi facciamo due risposte. La prima, che in uno stesso corpo animale possono esservi più sentimenti sensitivi parziali, e quindi più principŒ sensitivi, i quali non sieno che debolmente connessi col principio sensitivo supremo, che è quello che costituisce propriamente l' animale. Ora, non essendo tali principii parziali in istretta connessione col principio supremo, e poco da questo dominati e governati, rimangono poco sensibili all' animale tutte le sensioni, che a quei principŒ speciali immediatamente appartengono; e quindi sembra che anche i diversi sistemi ed organi principali del corpo umano godano d' una vita speciale loro propria, non però così speciale che sia intieramente separata e divisa dalla vita e dal sentimento universale. Quanto meno poi tali sensioni sono subordinate a quel principio senziente, che costituisce l' individuo animale, tanto più si sottraggono alla coscienza intellettiva. La seconda risposta si è che l' obbiezione si fonda in gran parte sopra una falsa supposizione. Di vero, molti confondono la coscienza col sentimento, riguardano quella come un elemento di questo. A costoro è necessario usare tanta meditazione, quanta loro basti a convincersi che coscienza e sentimento sono cose diversissime, la prima appartenente all' ordine intellettivo, e il secondo all' ordine animale. Ora, chi sa bene separare l' elemento intellettivo, onde viene la coscienza, dal sentimento animale, tosto si persuade che possono essere in noi dei sentimenti di cui non siamo conscii, ed anzi che ve ne sono di questi senza numero, cioè tutti quelli a cui non riflettiamo, da cui non è attirata la nostra attenzione intellettiva. Vedrà ben anche che a noi non è egualmente facile di renderci conscii di ogni nostro sentimento, ma di alcuni ci possiamo formare la coscienza senza difficoltà, altri con somma difficoltà possiamo trovarli in noi stessi, dopo averli lungamente cercati nella più profonda quiete del meditare. E tuttavia di quelli stessi, di cui possiamo avere coscienza, non l' abbiamo se non a condizione di formarcela; benchè ci paia di averla abitualmente per la grande prontezza con cui noi ce la formiamo. E non ce la formiamo senza avere una ragione che a ciò ci muove. Per esempio, se trovandoci noi a stretto colloquio con taluno, interrompendo il discorso gli domandiamo subitamente se egli ha coscienza d' aver sulla mano una mosca, egli dirà di sì, ma non perchè l' avesse prima della nostra domanda, quando stava assorto a parlare d' altro, ma perchè mosso dalla nostra interrogazione diede all' istante stesso la sua attenzione all' animaluccio, che gli correva sulla mano. Bastò dunque che noi riscotessimo la sua attenzione, bastò che egli volesse, e la coscienza fu. L' uomo non riflette come questa sua coscienza incominci, e crede di averla sempre avuta, non di aversela pur allora formata. Ora è facile acquistare la coscienza dei sentimenti nuovi, attuali e vivaci; all' incontro è difficile acquistarla dei sentimenti vecchi, abituali e tenui. Eppure dei piccolissimi sentimenti, numerosissimi ed effusi, hanno virtù di trarre in azione i più grandi muscoli. E che cosa è la noia, a ragion d' esempio, se non una fusione di molti piccolissimi sentimenti, di ciascuno dei quali non abbiamo per lo più coscienza? Eppure non è ella che provoca lo sbadiglio, funzione dove tanti muscoli sono tratti in moto, e principalmente il diaframma? Che cosa è il solletico se non anch' esso una funzione di minimi sentimenti, quanti sono i minimi filamenti nervosi pressochè infiniti, che terminano nella cute, di ciascun dei quali non abbiamo coscienza, e però non sapremmo distinguere l' uno dall' altro? E tuttavia quali terribili effetti non produce il solletico, la cui irritazione muove i muscoli dello stomaco al vomito, agisce sul cervello e cagiona movimenti convulsivi, giunge al cuore e lo paralizza, onde la sincope e fin anche la morte? Quante volte non accade che siamo senza coscienza dello stato della nostra pelle rilasciata e traspirante, e rimaniamo pure senza coscienza dell' impressione dell' aria, che la raffredda e costipa, a cui conseguita poscia un turbamento universale dell' economia del corpo, ne rimangono affette specialmente le membrane mucose, e succede l' infiammazione della pleura, o del polmone, o dello stomaco, o degli intestini, o della vescica? Quelle prime sensazioni cutanee sono sfuggite alla nostra coscienza, perchè erano piccolissime, benchè molte ed estese, e noi non vi demmo attenzione. Eppure da quelle sensazioni si deve ripetere gli effetti morbosi, che ne sono conseguitati (1). Nei morbi, dove non si manifestano dolori acuti, si suol credere che non vi siano sensazioni dolorose, perchè si restringe questa espressione a significare sensazioni locali e vive. L' ammalato stesso, se s' interroga, dice di non sentire alcun dolore. Ma il vero si è che non vi è malattia di sorta, senza che l' ammalato soffra dei sentimenti molesti, ne abbia o non ne abbia coscienza. Se un ammalato avesse tutti i sentimenti perfettamente eguali a quelli di un sano, non sarebbe ammalato; un certo malessere, una certa svogliatezza, una inappetenza, un indebolimento muscolare, calore, freddo e infinite altre sensazioni diffuse, universali, risultanti da un infinito numero di piccole sensazioni minori, provano che l' affezione della sensitività non manca mai in nessuna malattia. Quindi se si considera l' attività sensitiva come causa delle simpatie patologiche, si ricorre ad una causa la cui esistenza è dimostrata, e non già ad un essere supposto meramente dall' immaginazione, come è la vitalità di alcuni scrittori, che, senza essere ella stessa sentimento, si suppone causa ad un tempo del sentimento e del movimento. Tutti i fenomeni delle simpatie morbose confermano che queste si debbono attribuire al principio sensitivo, come a loro vera causa. Broussais, e i suoi discepoli Caignon e Guémont, che hanno esteso in parte le sue lezioni sulle infiammazioni, stabiliscono: Che le simpatie morbose si manifestano con maggior forza e prontezza negli individui più sensitivi, e meno negli apatici. E` chiaro per questo stesso che le persone dotate di grande sensitività soggiacciono più facilmente all' ipocondria. Che le funzioni animali si alterano maggiormente, se gli organi affetti sono dotati di più nervi, e però più sensitivi. Che qualora l' irritazione o l' infiammazione si rende dolorosa, le simpatie spiegano maggiore attività. Tutto ciò prova che le alterazioni morbose simpatiche procedono in giusto rapporto coll' affezione del principio sensitivo, e che perciò questa ne è la vera causa. Se i medici non sono ancora pervenuti a cogliere una tale dottrina, essi nondimeno sono già sulla via di pervenirvi, e ogni giorno vi si avvicinano. Barthez considera le simpatie come effetti del principio vitale nei diversi organi del corpo vivente; e lo deduce appunto dal vedere che esse si manifestano in organi anche lontani, senza che possano essere spiegate per una comunicazione meccanica fra essi, la quale non esiste, nè possano essere attribuite al caso come quelle che seguono leggi fisse. Non mancava dunque a Barthez che un passo; gli mancava solo di trovare che il principio vitale è di natura essenzialmente sensitivo, e che la sua energia motrice non è cosa diversa dalla sensitività, non è che una continuazione dell' energia sentimentale. I medici posteriori si sono messi quasi d' accordo nel considerare il sistema nervoso come l' istrumento generale di tutte le simpatie fisiologiche e patologiche, naturali e artificiali, che si manifestano nel corpo vivente. Brachet nella sua bella opera premiata, Sulle funzioni del sistema nervoso ganglionare (1.26), rispondendo a quelli che vorrebbero attribuire le simpatie al sistema cellulare, perchè sparso in tutto il corpo, dice: [...OMISSIS...] . Quindi egli divide le simpatie in cerebrali, ganglionari e miste . E qui osserverò essere un errore il credere che il sistema ganglionare sia scevro al tutto di sentimento, quando egli è anzi propriamente l' organo delle passioni. Noi abbiamo distinto i sentimenti in figurati e non figurati; queste due classi rispondono ai due sistemi nervosi: il cerebrale è l' organo dei sentimenti figurati, e il ganglionare quello dei sentimenti non figurati; il sentimento non manca mai. Di più, il sistema ganglionare comunica col sistema cerebro7spinale; le due serie di ganglii laterali alla colonna vertebrale comunicano spesso e direttamente coi nervi cerebrali e rachidei; ed i ganglii centrali anastomizzano con un paio di nervi cerebrali, cioè col nervo pneumogastrico, e sono poi in continua comunicazione coi ganglii laterali, per mezzo dei quali comunicano di nuovo col sistema cerebrale. Quindi il sistema cerebro7spinale non si può credere mai interamente straniero alle impressioni ricevute dal sistema ganglionare. E così forse non esiste una sensitività veramente ganglionare; onde la classificazione delle simpatie, fatta da Brachet, si dovrebbe probabilmente restringere a due soli membri, cioè alle simpatie cerebrali e miste, suddividendo poi questa seconda classe (2). A conferma delle quali osservazioni sull' intervento del sistema cerebrale in tutte le simpatie, giova l' opinione di Barbier e di altri fisiologisti sulla maniera di operare dei rimedi. Essi sostengono che è sempre nell' apparato cerebrale che si deve cercare il secreto della trasmissione della potenza medicatrice, di cui sono dotate varie sostanze, massime parlando di quelle che, non operando coll' intermezzo della circolazione, manifestano più prontamente le simpatie, agendo immediatamente sull' organo gastrico (1). Ritenuto dunque che nella serie dei fenomeni animali che si succedono nelle simpatie, primo di tutti e causa degli altri è il sentimento, molti fatti ricevono spiegazione convenientissima; e questa è ella stessa una riprova della nostra proposizione. Cominciamo dalle simpatie, che si manifestano fra gli organi locati simmetricamente alle due metà verticali del corpo umano, come gli occhi, gli orecchi, le nari, le mani, le reni, ecc.. E` notorio che le affezioni dell' uno di questi organi si accomunano all' altro; per esempio, se l' uno dei nervi ottici è affetto, l' altro contrae sovente la stessa affezione; la storia dell' amaurosi ed altre specie di cecità lo comprovano. L' osservazione, che noi vogliamo fatta su di ciò, è la seguente: Quantunque ciascuno degli organi dei sensi simmetrici, stimolato separatamente in modo conveniente, rechi all' anima la sensazione, l' anima tuttavia non ammette che una sensazione sola, quando sono stimolati tutti e due contemporaneamente. Questo fatto ci fornì una prova della semplicità dell' anima (2) e della sua distinzione da ogni organo corporale, sicchè la molteplicità degli organi, collocati in diverse parti dello spazio, non produce molteplicità in lei, perchè è immune dallo spazio; in altre parole, la diversità delle sensazioni nell' anima non è fondata nella diversità degli spazi occupati dagli organi sensorii, ma solo in differenze sensili, ossia appartenenti all' essenza delle sensazioni stesse, le quali non hanno a far nulla colle differenze degli spazi. Ora, se è vero che l' attività motrice animale sia inerente al sentimento, come noi sosteniamo, dove vi è una sola sensazione, ivi dovrà esservi una sola attività motrice. E questo accade appunto nel caso nostro. Come i due occhi non danno ordinariamente all' anima che una sola sensazione visiva, così l' anima agisce su entrambi questi organi con un atto solo, e vi produce i medesimi effetti. Per questo i movimenti degli occhi sono naturalmente associati, il che si può chiamare una simpatia fisiologica; per questo ancora l' affezione morbosa di un occhio bene spesso è risentita dall' altro, il che si può chiamare una simpatia patologica . Un discorso simile può applicarsi a tutte le parti doppie e simmetriche del corpo umano (1); le quali divengono altrettante prove della semplicità del principio sensitivo. Si opporrà che se la cosa fosse così, le simpatie morbose fra gli organi simmetrici del corpo umano non dovrebbero mancar mai, e pure talora non si avverano. Rispondo, venir meno la forza di questa obbiezione, tostochè si consideri che gli organi simmetrici non danno all' anima nè sempre, nè necessariamente, una sola sensazione; si avvera solo allorquando le azioni sensibili degli organi simmetrici sieno perfettamente eguali, a tal che esse non differiscano se non per lo spazio diverso in cui sono collocati gli organi, pei quali spazi diversi avviene che le azioni sieno due di numero, benchè identiche di forma. In questo solo caso il sentimento, che ne prova l' anima, è unico, a cagione che la differenza degli spazi occupati dai sensorii non si riporta all' anima, ma solo lo spazio delle singolari sensazioni; e questa unicità è fondata nella natura del principio sensitivo, e non in qualche abitudine da lui acquisita. Ma si avvera sempre la condizione che l' azione sensibile dei due organi sia identica di forma, e non differisca che di numero? No certamente. Ora, da che dipende che ciò avvenga più o meno spesso? Dall' anima stessa in grandissima parte, la quale tende ad avere un sentimento solo dai due organi, chè due sentimenti la confonderebbero nel suo operare, operando essa alla guida dei sentimenti. Per questo ella muove gli occhi di perfetto accordo, giacchè se ella volgesse l' uno da una parte e l' altro dall' altra in modo da vedere doppi gli oggetti, gliene sorgerebbe una molesta contraddizione e lotta colle sensazioni del tatto, il quale le porge oggetti semplici, e così nè saprebbe più a cui credere, nè saprebbe come muovere le sue membra in relazione cogli oggetti esterni, dei quali ella abbisogna. Giovandole dunque sommamente pei bisogni e necessità della vita che i sensorii doppi operino con tale uniformità da suscitare in essa un' unica sensazione, ella colla spontaneità sua li dirige a tale intento, e la sua attività motrice dei medesimi acquista tale un' abitudine di così adoperarli che la loro azione uniforme sembra poi naturale anzichè abituale . Infatti può ben venire all' uomo il capriccio di fare il contrario, può sforzarsi per voglia di esperimento a vincere l' abitudine ed anche riuscire a divergere le pupille, ma questo non accade mai nelle bestie, chè il principio sensitivo non ammette tali capricci e fa sempre ciò che gli conviene. L' azione dunque simultanea e uniforme degli organi simmetrici è dovuta all' abitudine; ma è dovuto alla natura che, data questa azione simultanea e simmetrica, sorga nell' anima un unico sentimento. Se dunque la simpatia degli organi simmetrici conviene riferirla all' abito, che ha contratto il principio sensitivo di dirigere in questo modo la propria sensitività ed attività conseguente, non fa più meraviglia che ella ammetta alcuna eccezione; il che s' intende maggiormente, ove si rifletta che l' abito stesso non agisce se non avverate certe condizioni, date certe opportunità. L' abito suol essere una facoltà di operare così precisa e determinata che la minima differenza nelle circostanze arresta la sua operazione, come si scorge nell' abito della memoria, il quale aiuta l' uomo a recitare un discorso, ed una sola parola sbagliata o intramessa è bastevole a fargliene perdere il filo. La legge della simpatia fra gli organi simmetrici, nascente dall' unicità del sentimento che essi producono, e dalla unicità dell' attività sensitiva che da quel sentimento procede, si estende a molte altre classi di simpatie, che da quella legge ricevono luminosa spiegazione. Primieramente rimangono spiegate le simpatie tra quegli organi, che hanno somiglianza di struttura. Infatti, conosciuta la legge accennata, che « se l' affezione sensibile dei due organi è eguale perfettamente di forma, il sentimento che corrisponde ad essa affezione è unico, perchè la differenza di spazio e di località degli organi stessi non è riportata nel sentimento, e perciò le affezioni degli organi eguali in esso sentimento si compenetrano e si unificano », conosciuta questa legge, si hanno tosto due altre leggi conseguenti a lei, ed importantissime, le quali sono: Che prima della sensazione essendovi sempre il sentimento fondamentale, ogniqualvolta vi saranno due o più organi sensibili di costruzione perfettamente eguale, il sentimento fondamentale rispondente ai medesimi non sarà doppio o molteplice, ma unico, come se non esistesse che un organo solo sensibile; ora, dire sentimento fondamentale unico è quanto dire istinto, ossia attività fondamentale unica. Che se in due o più organi di struttura eguale si eccita un' affezione disuguale, a queste affezioni disuguali risponderanno altrettante sensioni o modificazioni del sentimento fondamentale; ma se all' incontro l' affezione negli organi di struttura eguale è anch' essa eguale, sarà unica la sensione corrispondente, si avrà un' unica modificazione del sentimento fondamentale. Ora, questa eguaglianza di affezione sensibile si avvera spesso negli organi di struttura uniforme. I fisiologi e i patologi osservano che le simpatie fra gli organi uniformi non si manifestano se non a condizione che le prime loro affezioni, le affezioni dalle quali la simpatia viene suscitata, sieno eguali. [...OMISSIS...] . E reca in prova il metodo di cura che usava Lieberkünn a sanare il polmone dell' idrope, il quale determinava, per mezzo dei pediluvii, l' acqua infiltrata nelle cellule del polmone a recarsi nelle estremità inferiori, e guariva poi l' edema delle gambe facendo uso di rimedi fortificanti. Continuiamoci alla spiegazione di altri fenomeni. Se un tessuto è perfettamente eguale, deve rispondere ad esso un sentimento fondamentale unico, e ad un unico sentimento una unica azione animale. Dunque l' atto dell' istinto vitale, che agisce in tutta l' estensione di un tessuto eguale, sarà il medesimo. Quindi fra i tessuti eguali del corpo umano dovranno manifestarsi necessariamente simpatie, giacchè l' affezione, che si produce in una parte di tale tessuto, modifica quella attività unica che dà la vita a tutto intero il tessuto, abbracci questo un solo luogo del corpo umano o si ripeta in molti. Ed ecco spiegata quella legge patologica, che fu reputata una delle più belle scoperte di Broussais, la quale si è che « quando una irritazione dura lungamente in un organo, i tessuti analoghi a quello dell' organo sofferente si vanno poco a poco disponendo a contrarre le stesse affezioni ». Così accade che le infiammazioni croniche della pleura si propaghino facilmente al peritoneo; quelle della membrana mucosa dello stomaco e degli intestini si propaghino alla membrana che veste l' interno dell' apparato polmonare; l' affezione di una parte del sistema fibroso nel reumatismo e nella gotta sia seguita dall' infiammazione successiva di tutte le altre; le infiammazioni dei ganglii linfatici di una parte del corpo si comunichino spesso a tutto il loro sistema. E qui si consideri la differenza che vi è tra due tessuti eguali e due organi eguali, ma di varie parti e di vari tessuti composti, come sarebbero i due occhi. Questi organi complicati ed artificiosi ammettono più varietà d' affezioni; i tessuti eguali ne ammettono meno; quindi di lor natura i due tessuti più facilmente si trovano all' unissono che non i due organi. E poichè ogni affezione sensibile diversa suscita una diversa attività del principio sensitivo, quindi il sentimento fondamentale di due organi, che riceve modificazioni più varie, agisce anche più variamente che non faccia il sentimento fondamentale di tessuti eguali. Ancora, acciocchè vi sia simpatia fra due organi si richiede che la loro affezione primitiva sia eguale, condizione che nei tessuti si avvera più facilmente, essendovi meno cagioni che rendano disuguali le affezioni loro primitive, onde infine emana ogni attività. Insomma, qualora il sentimento fondamentale, comune ai due organi o ai tessuti eguali, viene modificato in quelle parti appunto rispetto alle quali egli è unico, la simpatia incontanente si manifesta. Applichiamo la stessa dottrina alle funzioni. Che cosa è che muove l' animale ad esercitare una funzione, a cui concorrono, simultaneamente o successivamente, molti organi e molti movimenti diversi? Un unico sentimento. Dall' unità del sentimento nasce l' unità della funzione; l' unità del sentimento è quella che fa giocare più organi armoniosamente, a tal che i loro movimenti cospirino a produrre ciò che il sentimento animale ricerca, la sua conservazione e la sua perfezione. Qual altro sentimento se non quello della molestia e dell' affanno che si prova alla mancanza del respiro, e del piacere annesso alla respirazione, fa sì che l' animale respiri? e che per ottenere questo unico effetto egli tragga in movimento, con somma armonia e con metro opportuno, non solo l' apparato polmonare, ma il cervello ed il cuore? Onde mai l' animale è mosso ad adoperare sì opportunamente tutte le parti alla lor volta dell' apparato digestivo, con tutti i vasi inservienti alla nutrizione, se non dal sentimento incomodo della fame e dal sentimento piacevole dell' alimento? (1). L' unicità dello scopo dirige in tutte le funzioni più complicate del corpo umano i molteplici movimenti delle molteplici parti, che concorrono ad eseguirle, e questo unico scopo è tutto sentimentale; è sempre un sentimento agente quel che fa tutto. Ora, dove vi è un sentimento unico, vi è anche un' unica azione, benchè in diverse parti si manifesti. Non è dunque meraviglia se fra queste diverse parti si scorgano simpatie non meno fisiologiche che patologiche; giacchè se l' azione unica viene modificata ed affetta, forza è che se ne veggano ad un tempo gli effetti in tutte quelle parti in cui ella si espande; benchè queste diverse parti la ricevano diversamente, sia perchè diversamente viene loro impressa, come esige l' armonia delle loro operazioni, sia perchè esse sono diversamente costrutte e diversamente disposte. E quest' ultima osservazione è importante, perchè conduce a stabilire potersi manifestare in diversi organi affezioni diverse, che meritano tuttavia l' appellazione di simpatiche, appunto perchè procedenti da una medesima azione del principio sensitivo. Ma oltre queste simpatie, che si presentano ad osservare nei vari organi concorrenti ad una stessa funzione, ve ne sono delle altre fra più funzioni eguali, cioè a dire fra organi destinati a funzioni numericamente diverse, ma della stessa natura. Così Barthez osserva che gli organi dotati della facoltà di operare secrezioni di umori analoghi mostrano avere fra sè una speciale simpatia: tali sarebbero l' utero, le glandule mammillari, la laringe, ecc.. Certo, a spiegare il perchè, eccitata un' infiammazione in un organo, ne succeda un' altra in un organo lontano senza lesione delle parti intermedie, non può bastare la comunicazione dei vasi sanguigni, giacchè in tal caso l' infiammazione dovrebbe propagarsi, senza interruzione, lungo i vasi. E` dunque mestieri ricorrere alle leggi dell' unico principio vitale7sensitivo, che dirige tutta l' economia, e però molto opportuna cade la legge, di cui parliamo, che « dove la funzione di due organi è simile in modo da risponderne nell' anima un medesimo sentimento, anche l' attività dell' anima si manifesta eguale in due o più luoghi ». E` da considerarsi accuratissimamente che ogni funzione, come dicevamo di sopra, si esercita per un' attività dell' anima, messa in un unico sentimento di molestia e di piacere. Dunque se le due funzioni, che in parti diverse si compiono, sono eguali di natura e solo differiscono per lo spazio diverso in cui si esercitano, il sentimento, ond' esse partono, dovrà essere unico, postochè l' osservazione dimostra che nel sentimento animale non si riportano le differenze di mero spazio che abbiano gli organi, le funzioni ed affezioni, ma si riportano solo le differenze che rendono diverse di natura le funzioni e le affezioni. Esponemmo la lotta fra l' istinto vitale e la materia bruta; vi è lotta anche fra l' istinto vitale e l' istinto sensuale? L' affermarlo parrebbe consentaneo all' aver noi dedotte le forze medicatrici della natura dall' istinto vitale, e le forze perturbatrici dall' istinto sensuale (1). E che vi sia apparenza di lotta l' osservazione l' attesta senza alcuno equivoco. Ma questa lotta è ella forse non più che apparente? Come fu tentata la conciliazione fra le forze brute e l' istinto vitale, non si potrebbe forse tentare anche quella dei due istinti? Se pare strano che nella natura si dia una lotta radicale, non vi è qualche cosa di più strano ancora nel concetto di due istinti esistenti nello stesso animale, che combattono insieme, di due istinti che non son altro se non attività del medesimo principio semplicissimo? Questa questione riesce a quella degli errori della natura , dei quali lo Stahl scrisse una celebre dissertazione, intendendo la parola natura nel senso d' Ippocrate, sulle vestigia del quale Galeno la definì [...OMISSIS...] (2) [...OMISSIS...] la quale definizione, nella sostanza, è la definizione della parola nel senso proprio e comune, che il popolo le attribuisce. Ora, il parlare di questa questione importante cade opportuno in questo luogo, dove trattiamo delle simpatie da spiegarsi colla semplicità del principio sensitivo e colle leggi naturali del suo operare. E` dunque vero che la natura erri, e che da questi errori nascano i morbi del corpo umano? E se vogliamo così esprimerci, gli errori della natura saranno spiegati col solo attribuirli, come facevano gli animisti, alla precipitazione dell' anima esacerbata, alla diffidenza dell' anima atterrita, alla incostanza dell' anima da patemi agitata? (1). Rimarrebbe in tal caso a spiegarsi questa stessa precipitazione, diffidenza ed incostanza, poichè tali difetti non possono costituire la natura di nessuna cosa; eppure le operazioni dell' anima sono determinate dalla sua natura. Noi diremo piuttosto che la natura opera secondo leggi infallibili e necessarie, che ella non aberra giammai da esse, che quelli che noi chiamiamo difetti o errori della natura non sono tali in sè, ma secondo certe relazioni da noi contemplate, che ci generano le opinioni; e che insomma l' operare della natura è il medesimo, sì quando noi giudichiamo che ella operi rettamente, e sì quando, in virtù delle nostre opinioni, noi le attribuiamo degli errori. Investighiamo, dunque, la ragione degli errori apparenti della natura animale e della lotta, pure apparente, che talvolta insorge fra due istinti, il vitale ed il sensuale. Da ciò che diremo apparirà che l' istinto vitale, fonte delle leggi medicatrici della natura, è talora limitato nella sua tendenza benefica dalle forze brute; e che l' istinto sensuale all' incontro perturba e disordina direttamente la natura animale, senza aberrare tuttavia punto nè poco dalle sue leggi. Nella distinzione tra i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi si trova onde spiegare in qual modo l' istinto sensuale disordini la natura animale, senza aberrare dalle proprie leggi, che egualmente mantiene in ogni sua operazione. Abbiamo veduto che quelle due serie parallele di fenomeni non hanno somiglianza fra loro. Quindi l' uomo non potrebbe col suo pensiero dedurre a priori gli uni dagli altri; l' anima poi non è che sentimento, e niente cade nella sua coscienza, che prima non cada nel suo sentimento. Dato dunque che l' anima, esperta di un fenomeno soggettivo, non avesse avuto mai esperienza del fenomeno extra7soggettivo corrispondente, ella ignorerebbe affatto questo secondo, nè potrebbe conoscerlo per quantunque riflettesse sul primo, anzi non potrebbe neppure sospettarne l' esistenza. Conséguita che la cognizione, che noi abbiamo del rapporto che hanno fra loro le due serie di fenomeni indicate, si acquista colla sola esperienza; e che se noi al presente dal fenomeno soggettivo possiamo passare col pensiero al fenomeno extrasoggettivo, è perchè l' esperienza ci ha mostrato tante volte quella coesistenza. Ammaestrati così, noi giudichiamo dell' esistenza del fenomeno extra7soggettivo da quella del soggettivo con somma prontezza, per l' abitudine di formare tali giudizi. Il che si renderà più chiaro da un esempio. E` cosa notoria che colui, al quale fu amputata una gamba, soffre dei dolori al luogo della gamba che non ha più. S' inganna riferendo questi dolori a quel luogo; ma onde gli viene così erroneo giudizio? Certo dalla prontezza colla quale la mente dal fenomeno soggettivo del dolore argomenta abitualmente al fenomeno extra7soggettivo della località della gamba. Che se egli non avesse mai precedentemente veduta, nè toccata la sua gamba, nè mossa, non avrebbe saputo di avere la gamba; nè n' avrebbe conosciuta la forma esterna, nè la località in relazione alle altre parti del corpo, benchè ne avrebbe avuto il sentimento fondamentale, scevro delle forme relative allo spazio misurato, che si estende oltre il suo corpo. Questa località, che involge relazione collo spazio esterno misurato, gli si rese nota coll' esperienza esterna od extrasoggettiva, esperienza totalmente diversa e dissomigliante da quella soggettiva del dolore, che egli è consapevole di patire. Ma cadendogli da una parte sotto gli occhi e sotto il tatto la sua gamba, che così divenne a lui fenomeno extrasoggettivo, e d' altra parte sentendo il dolore, fenomeno soggettivo, egli potè più volte nella sua vita confrontare insieme questi due fenomeni e riconoscere che il dolore soggettivo cadeva in quella località extra7soggettiva; la quale osservazione non avrebbe potuto mai fare, se in tutto il corso di sua vita non avesse avuto che un solo dei due fenomeni, cioè o il solo dolore o la sola percezione extrasoggettiva della gamba. Avendo dunque avuto i due fenomeni, e conosciuto che l' uno rispondeva alla località dell' altro, egli ne formò un giudizio abituale e si persuase che l' uno non potesse star senza l' altro; quindi, anche dopo amputata la gamba, riferisce il dolore a quella località extrasoggettiva, che rimane nella sua immaginazione. Il fenomeno extrasoggettivo adunque, che accompagna il fenomeno soggettivo, non è compreso nel primo, nè è della natura del primo, ne è un effetto adeguato al primo. Ora, quale è l' azione propria dell' istinto sensuale? Questa azione sta racchiusa nel solo fenomeno soggettivo. L' abbiamo detto, l' attività del sentimento consiste unicamente nel potere di atteggiarsi e di adagiarsi nel modo a sè più naturale; e, consistendo la sua natura nel piacere, il modo a sè più naturale è il modo più piacevole, più comodo, più facile, men faticoso, men doloroso, tutti epiteti che vengono sempre a dire un modo che più tien del piacevole. Ciò posto, l' istinto sensuale non intende a produrre fenomeni extrasoggettivi, che sono fuori della sua sfera; ma pure questi seguono quelli come una necessaria appendice. Quale dunque è il legame dei fenomeni extrasoggettivi coi soggettivi rispetto al buono stato dell' animale? I fenomeni extra7soggettivi hanno un tal legame e corrispondenza coi fenomeni soggettivi che di via ordinaria, quando succedono a questi, giovano al buono stato dell' animale e contribuiscono a conservarlo e migliorarlo. Ma una così felice corrispondenza patisce eccezioni procedenti da certi limiti della natura animale; quindi più volte accade che i fenomeni extrasoggettivi, conseguenti ai soggettivi, riescano all' animale pregiudicevoli più o meno, ed anche mortali. L' istinto sensuale adunque non erra mai, se si considera la sua azione quale è entro la propria sfera; mantiene sempre la sua propria legge di dare al sentimento l' atteggiamento e l' azione più piacevole fra tutte che gli sono possibili, cioè che il sentimento stesso può avere (1). Ma egli non può impedire che ne succedano poi i fenomeni extrasoggettivi corrispondenti a quella sua azione, sieno essi utili o sieno dannosi; poichè tali effetti non entrano nella sua sfera d' azione. Quindi è che, allorquando il sentimento viene eccitato da qualche stimolo piacevole o doloroso, l' istinto sensuale che tosto si muove (benchè si muova sempre colla stessa legge), determini dei movimenti talora utili all' animalità, talora dannosi. Quando tali movimenti sono utili, si suol dire che la natura opera con sapienza; quando sono disutili, si suol dire che ella prende errore. A ragion d' esempio, una onesta e moderata gioia conferisce alla buona salute, aumenta le forze dell' istinto vitale, aiuta l' energia delle funzioni; una gioia eccessiva cagiona l' apoplessia, come anni sono avvenne nella mia patria, che quando fu vinto il partito di rifondere le campane di San Marco, un cittadino zelantissimo ne morì apopletico del contento (1). L' istinto sensuale diede morte all' onest' uomo; il sentimento gaudioso, acceso nella sua parte razionale, fu stimolo al suo sentimento ed all' istinto che ne procedette, il quale occasionò con veemenza tali movimenti nella macchina extrasoggettiva da accelerare il corso del sangue, spingendolo fino a schizzare dai vasi e diffondersi così in qualche parte del cervello (2). L' istinto sensuale non intende a questo effetto, che a lui è straniero; ed avvenne pel nesso sostanziale, che il moto extrasoggettivo tiene col sentimento soggettivo. L' anima umana non è ella fatta per la felicità? Non è ella fatta per la gioia? Quanto si aumenta il grado del suo godimento, non pare che altrettanto si accresca la perfezione del suo stato? Come dunque può darsi un grado di gioia e perciò di perfezione, che il corpo animale non possa sopportare, e a cui consegua la distruzione dell' uomo? Non si oppone un tale disordine al concetto della natura umana perfetta? O conviene dire che il corpo non è proporzionato alle funzioni naturali dell' anima, non è strumento a lei conveniente, quando le impedisce l' altezza e la vivezza del suo godimento; ovvero è da concedere che vi è un difetto nell' anima stessa, troppo precipitosa e veemente nell' operare, sicchè per cupidità di smoderato godere uccida quel composto di cui ella è la parte principale. Nell' uno e nell' altro caso si scorge che la natura umana è al presente difettosa; nè così potrebbe mai essere stata creata da Dio, le cui opere sono perfette. Insomma qui vi è una delle molte prove dell' originale decadimento, che non privò soltanto l' uomo della grazia divina, ma nella stessa natura mise quel disordine, che per tutto si manifesta (3). Rimettiamoci sul nostro cammino. Se qualche piccolo corpo eterogeneo entra nella trachea, è incontanente provocata la tosse. Lo scopo della natura è manifesto; ella vuol cacciarne quel corpicciolo eterogeneo e nocivo. Ma si distingua lo scopo della natura, quale opera della sapienza creatrice, dallo scopo dell' istinto sensuale, che mette in movimento i muscoli e così produce quella espirazione violenta, sonora, frequente, che si chiama tosse. La sapienza del Creatore ha certo precedentemente accordata l' azione dell' istinto sensuale coi movimenti muscolari, che servono ad esportare i corpicciuoli, che invadono il canale della trachea ed il polmone. Ma l' istinto sensuale non ha un tale scopo, che è fuori della sua azione; egli opera unicamente per liberarsi dalla molestia sensibile, per sottrarsi alla sensazione incomoda, per ammodarsi, come dicevamo, a suo agio. L' effetto del cacciamento del corpo eterogeneo viene di conseguente, e solo per la circostanza che l' organismo determina questo effetto. Quindi la tosse nasce anche senza la presenza del corpo, o dopo che il corpo è rimosso o quando non si può rimuovere. Di vero, data qualsiasi irritazione alla trachea, dato un umore corrodente che si porti su lei o sul polmone, o dato che s' infiammi quella membrana, la tosse ha luogo egualmente senza la presenza di alcun corpo straniero. E in tali casi, lungi che la tosse giovi allo scopo di espellere la causa dell' incomoda sensazione, ella anzi l' accresce, producendo alla parte irritata maggior concorso di umori e di sangue, aumentando talvolta l' infiammazione fino alla rottura dei vasi ed alla tisi. Direbbesi un errore della natura; ma l' istinto sensuale non ha fatto che ubbidire alla sua immutabile legge, per la quale in conseguenza dello stimolo tenta di operare nel modo a lui più confacente. Medesimamente, se la trachea è tocca da un corpo che si ritira subito, la tosse avviene, benchè non vi sia più la presenza del corpo. L' istinto dunque, che produce la tosse, non tende propriamente all' effetto extra7soggettivo di cacciare il corpo; ma il corpo ne è cacciato, se egli vi è tale da poter essere cacciato, come un effetto conseguente all' operare dell' istinto. Certi odori disgustosi producono il vomito (1); lo stesso può fare un sapore; lo stesso il titillamento dell' ugola. Distinguasi anche qui l' opera dell' istinto sensuale dall' effetto conseguente al rovesciamento del ventricolo. Questo effetto è certo preordinato dalla sapienza del Creatore, ed è principalmente quello di liberare il ventricolo dalle materie indigeste e nocive, che l' aggravano. Fu quella sapienza che collocò l' organo dell' odorato e del gusto, i nervi ed i muscoli opportuni in tali situazioni e connessioni reciproche che ne dovesse avvenire che, ogniqualvolta lo stomaco è aggravato, agendo l' istinto sensuale, venissero i muscoli dell' addome ed il diaframma a contraddistendersi, obbligando le savorre a riascendere nell' esofago, nella faringe e nella bocca. Ma i detti odori e sapori nauseosi, e il detto solleticamento dell' ugola rovesciano egualmente lo stomaco, quando è vuoto; non ha bisogno nessuno di vomitare, e il vomito gli nuoce. Sembra allora di nuovo che la natura s' inganni; ma il fatto si è che tutti questi effetti avvengono, per così dire, all' insaputa dell' istinto sensuale, il quale, racchiuso nella sfera soggettiva sentimentale, vi mantiene le sue leggi, e quei movimenti e fenomeni extra7soggettivi sono un conseguente del suo operare, a cui l' istinto non perviene. Ora consideriamo in che precisamente consista il preteso errore della natura. Se qualche umore irrita il polmone, i bronchi, o la trachea, da nascerne la tosse, l' errore non istà nel supporre la presenza d' un corpo estraneo, ma nell' operare in modo come se questo potesse esserne cacciato colla violenza di quella espirazione; poichè in qualsivoglia irritazione, infiammazione o sensazione molesta vi è sempre veramente un corpo inopportuno, fuor di luogo (1), il quale agisce nel nostro sentimento, vi è una forza extrasoggettiva inesistente nel sentimento soggettivo. Ma quella forza straniera venuta nel nostro sentimento non è tutto il corpo esterno, tutta intera l' attualità di lui, ma una porzione. Se questa porzione di forza, entrata nel nostro sentimento soggettivo, è a lui molesta, nasce il dolore e lo sforzo di espellerla. Quindi lo sforzo dell' istinto sensuale tende veramente a cacciare la forza estranea, entrata inopportunamente nella sfera del sentimento, non tende a cacciare il corpo estraneo, che è troppo più. In questo senso si può dire che l' istinto sensuale reagisce contro una forza extra7soggettiva. Tuttavia i movimenti che egli produce, e che sono i mezzi disposti dalla natura acciocchè egli possa liberarsi dal nemico, non sono nella sua sfera, e però non possono essere da lui misurati, nè egli può presentirne l' utilità o il danno, che possono arrecare all' organizzazione. Che se dai movimenti grandi e muscolari, occasionati dall' istinto sensuale, noi vogliamo passare ai movimenti piccoli e tonici, specialmente dei vasi, intenderemo come il detto istinto ora li provochi con utilità, ora con danno. Che la natura tenda a liberarsi dai mali con dei movimenti opportuni fu osservato in tutti i tempi, e lo stesso Ippocrate scriveva: [...OMISSIS...] ; e Galeno con una frase fors' anche troppo estesa aggiunge che [...OMISSIS...] ; e ancora che [...OMISSIS...] . Questo dominio del principio animale a beneficio dell' animalità fu detto dallo Stahl «autokratia» naturae; sulla quale scrisse una dissertazione, che si può anche oggidì leggere e con sommo frutto meditare. Ma per ridurre questa sublime sentenza entro i suoi giusti limiti, non conviene dimenticare quei mali che l' azione del principio sensuale, benchè in sè stesso tendente sempre al bene e obbediente alle sue leggi, trae dietro di sè indirettamente. Le cose da osservarsi in questo fatto sono innumerevoli, eccedono il nostro sapere; e gli stessi medici più celebrati sembrano ancor lontani dall' avere adeguata colle loro, per altro commendabilissime ricerche, l' immensa natura. Restringendo dunque noi il discorso a poco, moveremo da un punto di fatto certo, e sarà quello che abbiamo toccato di sopra, che qualora in una parte del corpo sia data un' irritazione molesta, l' istinto sensuale si pone in movimento, si dimena, per così dire, e si dibatte. L' irritazione, secondo noi, è sempre accompagnata da sentimenti più o meno vivi, più o meno distinti, quantunque non sia egualmente facile acquistare la coscienza di tutti, perchè o tenui o indistinti, o sì eccessivi che tolgono l' attenzione della mente. Tali sentimenti sono locali, e noi ne vedremo poco appresso la ragione. Ci basta qui avvertire che questa località, secondo l' intenzione della natura creatrice, era necessaria a dirigere la virtù istintiva dell' animale tendente a propulsare l' irritazione. Che se talora avviene che l' irritazione di una parte sviluppi un dolore più intenso in un' altra, e la maggiore attività dell' istinto si diriga forse verso la parte addolorata, quasi illudendosi; è da vedere anche qui se questo sia un vero errore, a cui soggiace l' istinto sensuale, o se l' azione sua, benchè diretta al luogo del dolore simpatico, ivi non finisca, ma si rifletta alla vera sede della primitiva irritazione. Il che potranno decidere i medici osservatori. Intanto facciamoci gran caso di questo fatto innegabile, che l' istinto sensuale dirige, generalmente parlando, la sua forza insorta al luogo irritato, sollecito di cacciar via lo stimolo irritante. Ma quale è la forma, che prende questa azione propulsatrice? Una tal forma dipende tutta dall' organizzazione, cioè dagli organi che l' istinto deve mettere in movimento per propellere lo stimolo e liberarsi dall' incomoda irritazione. Infatti, se egli non avesse organi, mancherebbero i subbietti del movimento. Avendo egli organi, è chiaro che il movimento riceve qualità e forma da questi. Se l' organo è continuo, si continuerà il moto; se è contiguo, parteciperà di qualche scotimento. Un moto comunicato ad un corpo rotondo è diverso da quello comunicato ad un corpo prolungato. Ma ciò non basta. E` la mistura dell' organo, è la sua mobilità vitale che modifica principalmente i movimenti intestini in esso espressi. Finalmente le forze meccaniche, fisiche e chimiche, in quanto mantengono qualche azione indipendente dal sentimento dell' animale, possono opporre resistenza al pieno effetto dell' istinto. Vi sarà dunque differenza fra i movimenti dei nervi secondochè i loro fascicoli saranno più o meno voluminosi, le fibre più o meno sottili, forniti o privi di gangli, annodati in plessi o disgiunti; e parimenti secondochè comunicheranno ad un numero minore o maggiore di muscoli a muscoli di grandi dimensioni ovvero a fibre muscolari assai minute, ecc.. A ragion d' esempio, se l' irritazione è negli intestini, l' azione dell' istinto sensuale trae seco l' effetto del movimento peristaltico, volto a liberarsi dalle feccie irritanti, e a tal uopo chiama in aiuto lo stesso diaframma, muscolo grande e forte, i cui movimenti sono necessari a vincere la resistenza dello sfintere. All' incontro, l' irritazione sia quella prodotta da un freddo sulla cute. L' istinto sensuale suscita tosto dei movimenti diretti a cacciare lo stimolo. Ma la cute e le membrane sottocutanee non hanno grandi muscoli da mettere in movimento, e però i movimenti prodotti dalla sua azione sono molti e minimi, e hanno sede principalmente nei minimi vasi, da cui la cute e le parti adiacenti sono per ogni verso, a guisa di minutissima rete, percorse. E` manifesto che l' istinto sensuale esercita in tal caso la sua facoltà motrice per mezzo del sistema gangliare, dal quale dipende l' organo cutaneo. In tutte queste azioni dell' istinto sensuale egli non ha mai altro scopo prossimo che di liberarsi dall' irritazione, in quanto ella si trova nel sentimento; ma a questi suoi sforzi tien dietro un altro effetto, legato ad essi dalla sapienza creatrice; effetto fuori del sentimento e dell' istinto, a cui l' istinto non tende, perchè non lo sente, e questo è il movimento considerato nelle sue condizioni extra7soggettive, il quale ha un fine benefico nella mente creatrice, quello di respingere i corpi stranieri, che guastano l' organizzazione. Ora questo benefico effetto non sempre si ottiene per varie cagioni, indipendenti dalle leggi dell' istinto sensuale, che pur sono sempre fedelmente osservate. E questo è ciò che si chiama poi errore della natura medica. Che dunque l' intenzione della sapienza creatrice, nel legare i detti movimenti extra7soggettivi all' attività dell' istinto sensuale, sia benefica, sia quella di dare al corpo animale un modo di respingere da sè gli agenti nocevoli, si raccoglie anche da ciò, che non solo i grandi movimenti muscolari che producono la tosse, il vomito, ecc., tendono a cacciare la causa dell' irritazione, ma anche i movimenti minimi tendono al fine stesso col promuovere le escrezioni. Nel qual fatto è pure ammirabile la sapienza della natura nell' aver fabbricati i vasi di una sostanza forte ad un tempo e sommamente elastica. Poichè da questa mirabile elasticità in prima dipende la direzione più o meno accelerata degli umori; chè, giusta le leggi idrodinamiche, ivi si deve accelerare il corso del fluido dove il canale si restringe, e rallentare ove si dilata, acciocchè per ogni sezione nello stesso tempo passi la stessa quantità di fluido; e per le stesse leggi è altresì manifesto che, qualora un vaso si può nelle diverse sue parti variamente restringere ed allargare, può essere ad un tempo determinata la direzione del fluido. Ora è indubitato che l' istinto sensuale ha questo dominio sui vasi, come si scorge dall' afflusso degli umori ad una parte ferita, e dall' effetto delle passioni, che accelerano o ritardano il corso del sangue, lo restringono verso il cuore, e lo dilatano fino a inturgidirne i vasi capillari della superficie. Ed è questo potere appunto dell' istinto sensuale che lo rende la causa di tutte le escrezioni, come pure delle secrezioni, sia il corpo in istato di sanità o in quello di malattia. L' importanza di questa riflessione diviene somma, se si considera che tutte le malattie che ammettono guarigione, guariscono, io mi credo, con opportune escrezioni. Non voglio già dire che le escrezioni sieno la prima causa della guarigione; ella sia pure nei solidi, l' irritazione di questi sia pure la prima causa dei malori; ciò non ostante parmi che non esprima tutta la verità neppure quello che si dice da alcuni ai dì nostri, essere le escrezioni opportune meramente l' effetto della guarigione. Perocchè è certo che fino a tanto che tali escrezioni salutifere non sono compite, il buono stato della salute non è per anco restituito; la guarigione ancora non esiste, e però non possono esistere gli effetti, se pur non si voglia sostenere che gli effetti precedano la causa. Gli stessi autori perspicacissimi della moderna dottrina medica, ai quali pare aver riconosciuto nei solidi la prima causa delle malattie, non hanno però negato che, qualora i solidi irritati ricevano analoghi movimenti (i quali noi facciamo dipendere dall' istinto sensuale), gli umori alterano il loro corso, modificano la loro crasi, diventano irritanti essi stessi, e sono bene spesso cagioni della diatesi flogistica. Infatti quando i medici moderni, che hanno ridotto il maggior numero delle malattie all' infiammazione, ricorrono sì sovente all' emissione del sangue, che cosa fanno essi se non appigliarsi come a mezzo di guarigione ad una escrezione, dirò così artificiale? (2). Certo, essi non medicano con ciò direttamente il solido, ma scemano l' umore che considerano come irritante, come la principale causa, se non la prima, come la causa della diatesi se non dell' originale eccitamento. Si può dunque dire, in generale, che l' istinto sensuale eccitato da una irritazione locale produca un movimento vascolare extra7soggettivo, il cui effetto benefico è quello di rimuovere mediante le escrezioni la causa della medesima irritazione, e perciò che generalmente le malattie colle escrezioni guariscono. E` singolare a vedere come, quando un sistema è invalso per opera di grandi uomini, subito una frotta di uomini minori, per timore vanitoso di parere arretrati, lo spingono all' esagerazione, sbandeggiando fino i vocaboli più innocenti usati dai precedenti maestri. Così oggidì si sentono con uno sdegno ridicolo rifiutare da molti le voci di emuntorii e colatoi del corpo umano, divenute indegnissime di essere proferite per l' abbominevole macchia ricevuta dalle bocche degli umoristi, i quali non le hanno per avventura inventate, ma frequentemente adoperate. E la natura seguita tuttavia, anche in presenza degli sdegnosi e schifiltosi scrittori, ad avere i suoi emuntorii ed i suoi colatoi, nè le mancheranno giammai fino a tanto che il corpo umano si abbia la cute, le reni, gli intestini, le nari, il polmone, e tutti insomma gli organi escretorii che ai secretorii rispondono; dei quali gli uni e gli altri son tanti che non vi è parte del corpo umano, che non ne sia provveduta. Con questi emuntorii e colatoi, che noi non arrossiamo punto a nominare così, ella conserva il suo buono stato. Perocchè, essendo l' animale « un sentimento fondamentale eccitato », e il sentimento fondamentale eccitato producendo mediante il continuo eccitamento innumerevoli movimenti, spostamenti, sospingimenti di parti nella macchina organata, forza è che molte di queste parti, ridotte a stato di liquido più o meno sottile, si separino da essa, lascino di vivere della sua vita, acquistino una condizione straniera ed irritativa; e quindi debbano essere cacciate via, acciocchè non l' offendano. Ma se il corpo continuamente perdesse delle sue parti senza acquistarne, si ridurrebbe al niente, e prima ancora ad uno stato d' inettitudine alla vita animale. Quindi il bisogno di reintegrare le sue perdite, sia colle molecole che egli trae dal fluido atmosferico, sia con quelle che trae dagli alimenti; molecole, che egli poi lavora, compone, segrega, assimila ed organizza secondo il bisogno. Ora, fino a tanto che il corpo è sano e l' istinto vitale non ha ricevuto di quelle irritazioni, che sono atte a debilitarlo o a vincerlo, l' istinto sensuale, autore dell' eccitamento fondamentale, genera nella macchina i movimenti normali, nei quali le secrezioni e le escrezioni si compiono in un modo normale. Non così quando l' irritazione è nocevole, onde hanno luogo i processi morbosi . Ma il difficile sta nel discernere quando e perchè l' irritazione sia tanto nocevole che determini l' istinto sensuale ad occasionare quella serie di movimenti, che processo morboso si chiama. Ora, posciachè l' irritazione dell' istinto sensuale, secondo noi, non è infine che un sentimento doloroso, e il sentimento è l' opera dell' istinto vitale, è necessario nelle leggi di questo istinto, nei suoi fatti generali e costanti, di spingere la nostra inquisizione. L' istinto vitale anima il corpo; animarlo e renderlo sentito è per noi il medesimo. Ma il sentimento prodotto dall' istinto vitale è perfetto o imperfetto. E` perfetto, quando l' istinto vitale non ha a sostenere lotta faticosa con forze straniere. E` imperfetto, quando egli ha a sostenere una faticosa lotta con quelle. Dico una lotta faticosa, perocchè si devono distinguere due maniere di lotta, l' una non richiedente alcuna fatica spiacevole, sicchè appena si può chiamare lotta; l' altra richiedente una fatica spiacevole, ossia dolorosa. Quando la macchina è perfettamente organata, il principio che l' anima, lungi dal provare alcun travaglio nell' operare l' animazione anzi gode, poichè niun ente fa fatica ad essere. Onde se si vuol pure applicare il vocabolo di lotta a ciò che nasce nella effettuazione della vita, conviene dichiararne il senso, che allora non è altro che quello di dominio, che esercita il principio vitale sulla sostanza che egli fa sua, rendendola termine del suo sentimento; questa sostanza (ed è la corporea) riceve il dominio e rimane modificata, l' anima gode della sua dominazione, ed è il piacere della vita. Solo è da notarsi che tale perfezione di vita, oltre alla perfetta organizzazione del corpo, involge la necessità di opportuni stimoli esteriori, l' aria, la luce, ecc.; e che un corpo in istato di perfetta organizzazione e tale che non metta impedimento alcuno alla vita, e abbia il consenso di tutti gli stimoli esterni a lui confacenti, non si trova forse mai nella condizione presente del genere umano, benchè si possa concepire. Che se, oltre concepire questo stato perfetto del corpo in un dato istante, noi vogliamo ancora concepirne la durata, dovremmo supporre: 1 che niuna potenza straniera alteri la perfetta organizzazione; 2 che sieno somministrati al corpo di continuo quegli stimoli opportuni al perfetto corso delle funzioni animali. Senza continuità di parti non esiste l' unità del sentito, e questa unità è data dal di fuori; e senza moto intestino perpetuo la vita non si manifesta con effetti extra7soggettivi; e questo moto continuo è pure condizionato all' organizzazione data da causa straniera, e senza l' armonia di tali movimenti dominati da un centro di sentimento, non può individuarsi l' animale; e questa centralità di sentimento, e quindi di movimento, dipende di nuovo in gran parte dall' organizzazione. Ma supposti questi dati esterni, i movimenti extra7soggettivi dipendono pure dall' attività soggettiva. Qual' è dunque la legge di questa e la cagione del suo operare? Il sentimento tende ad estendersi, ad eccitarsi e ad individualizzarsi . Certo, se egli non fosse con tutte le sue condizioni, non potrebbe nè porsi, nè eccitarsi, nè individualizzarsi. Ma egli è dato e posto in natura dal Creatore. Dato dunque un sentimento esteso, eccitato ed individualizzato, l' attività sua si spiega incessantemente nel conservare queste tre sue prerogative e nell' accrescerle; nel conservare il sentito in tutta la sua estensione e nel dilatarla; nel conservare l' eccitamento e aumentarlo in proporzione dello stimolo; nel conservare altresì l' armonia e l' unità del sentimento, in ragione dell' armonia e dell' unità degli stimoli. Vediamo quale parte abbia in ciò l' istinto vitale, e quale l' istinto sensuale. L' istinto vitale produce il sentimento fondamentale, quando trova il corpo acconciamente organizzato, e le parti di lui rende sentite. Queste parti debbono essere molecole organizzate con attitudine a ricevere la vita propria dell' animale. Se una forza straniera tende a sottrarre e discontinuare le parti sentite, l' istinto vitale fa loro forza per ritenerle; e se altre molecole opportunamente organate vengono accostate e continuate alle sentite, egli fa forza per invaderle e rapirle nello stesso sentimento; e questi e simiglianti sono diversi atti e momenti della funzione organizzatrice . Ma se l' istinto vitale, dopo essere stato stimolato dal contatto della materia a queste funzioni, viene contrastato in esse e impedito di compirle, egli si appena e si addolora, chè il contrasto e il combattimento nel sentimento, il contrasto colla naturale propensione del sentimento, è pena e dolore. Qui però conviene distinguere dal dolore la cessazione del sentimento (individuale). Quando alcune parti del continuo animato si sottraggono all' azione dell' istinto vitale, dividendosi e disorganizzandosi, cessa in esse il sentimento, di cui precedentemente erano termine, e quindi cessa ogni dolore. Così nelle parti, che escono per mezzo degli organi escretorii dal corpo umano, come pure nella cancrena, cessa ogni senso doloroso. Il dolore dunque è la lotta fra l' istinto vitale e la materia, ossia la forza straniera; ma quando la materia si è sottratta alle forze dell' istinto vitale e ha riportato su di lui intera vittoria, allora non vi è più lotta, nè dolore. All' incontro, quando l' istinto vitale trova la materia così disposta che non pone resistenza alla sua operazione, oppure quando egli consegue piena vittoria sopra di lei, rendendola a pieno termine della sua azione, allora è messo in essere il sentimento, la cui natura è piacere. Ma effettuato il sentimento (piacere per essenza), possono poi darsi movimenti nella materia, che ne costituisce il termine; e questi di due maniere. Alcuni nè discontinuano la materia vivente, nè fanno forza per discontinuarla e sottrarla all' azione del principio vitale; e però lungi dal distruggere il sentimento, lo eccitano e l' aumentano; ed essendo questo per essenza piacere, aumentano il piacere. Tali sono tutte le sensioni, che sorgono nel corpo animale secondo la natura. Altri movimenti fanno forza alla materia, sospingendola a discontinuarsi e disorganarsi, ed allora fino a tanto che non si è discontinuata e disorganata, si ha quella lotta che si chiama dolore (1). Ora, data la sensione piacevole e dato il dolore, l' istinto sensuale tosto si pone in azione per secondare la prima e sottrarsi al secondo. Questa azione dell' istinto sensuale trae dietro a sè altri movimenti della materia animata, di nuovo utili o dannosi alla costituzione dell' animale, conformi o difformi al suo fondamentale eccitamento. In questi movimenti conseguenti all' azione dell' istinto sensuale si deve distinguere: La quantità d' impulso che riceve l' istinto sensuale, e perciò la quantità della sua azione radicale. Questa non oltrepassa il grado limitato dalla quantità della sensione o del dolore, che l' accagiona. La sensione e il dolore può essere: 1) più o meno molteplice; cioè possono essere varie sensioni contemporanee e varii dolori in diverse parti del corpo; quindi varie azioni contemporanee dell' istinto sensuale; 2) più o meno esteso; quindi l' istinto sensuale può cominciare ad agire e produrre movimenti in una estensione maggiore o minore del corpo umano; 3) più o meno intenso; quindi l' azione radicale dell' istinto sensuale può essere più o meno violenta e precipitosa. La quantità della continuazione dell' azione dell' istinto sensuale . L' istinto sensuale, dopo ricevuto l' impulso dalla sensione piacevole o dal dolore, non opera se non a condizione e in quel tanto che egli trovi piacevole il suo operare, o meno dispiacevole del non operare. Quindi, allorquando l' operare gli riesca più spiacevole che il contrario, egli cessa da ogni azione, e la diminuisce a proporzione che il suo operare è meno piacevole. Il che spiega in parte l' attività della natura animale, quando si trova in certe condizioni morbose. Il vantaggio o il danno dell' animalità, che succede all' azione dell' istinto sensuale. Se l' azione dell' istinto sensuale trae seco dei movimenti nell' organismo, questi movimenti arrecano modificazioni nell' animale, non meno relative all' istinto vitale che allo stesso istinto sensuale, perocchè: Quanto all' istinto vitale, i movimenti cagionati dall' istinto sensuale nell' organismo o misto vivente, possono: 1) essere di quelli che aiutano l' istinto vitale a compire meglio la sua operazione, aiutando la continuazione e opportuna organizzazione delle molecole; 2) possono essere di quelli che danno alle molecole un contrario impulso, e quindi che producono o accrescono la lotta fra l' istinto vitale e la materia bruta, e generano o accrescono il dolore; 3) possono essere di quelli che sottraggono addirittura la materia bruta all' azione del principio vitale, la discontinuano e la disorganizzano, e quindi adducano la sua morte. Quanto all' istinto sensuale, i detti movimenti, suscitando sensioni piacevoli o dolorose, generano nuovi stimoli ed impulsi all' attività dello stesso istinto sensuale, il quale così moltiplica le sue azioni e le riproduce. Data adunque una prima sensione o un primo dolore, deve succedersi nel corpo umano una serie più o meno lunga di movimenti, i quali si alternano coi sentimenti piacevoli e dolorosi. E questa serie o vicenda di sentimenti soggettivi e di movimenti extrasoggettivi può essere o giovevole o pregiudiziale allo stato dell' animale. Esempio di una serie giovevole allo stato dell' animale si è quella per la quale l' animale si sviluppa dal germe e cresce fino alla sua perfetta maturità. Questo sviluppo è una perpetua vicenda: 1) di sensioni cagionate dagli stimoli esterni all' animale, eccitanti, secondo natura, l' istinto vitale; 2) di movimenti istintivi, prodotti dall' istinto sensuale ricevente l' impulso dalle dette sensioni; 3) di nuove sensioni che l' istinto vitale mette in essere, incitato dagli accennati movimenti; 4) di nuovi movimenti prodotti dall' istinto sensuale incitato dalle seconde sensioni. E questo circolo di movimenti e di sensioni , di sensioni e di movimenti, si perpetua in tutta la vita animale. In essa si alterna perpetuamente l' azione dell' istinto vitale e l' azione dell' istinto sensuale. L' istinto vitale, generando la sensione, dà impulso all' istinto sensuale, e l' istinto sensuale, generando il movimento, dà la materia all' azione dell' istinto vitale. In capo a questa continua vicenda stanno quegli stimoli esteriori che hanno prodotto i primi movimenti, e somministrata la materia alle prime sensioni dell' istinto vitale. Ma gli stimoli esteriori suppongono già l' animale formato, almeno nel suo primo rudimento; suppongono l' istinto vitale già in atto nel primo sentito, nel primo sentimento di cui egli è l' attività. Altro esempio della serie giovevole si ha negli stessi processi morbosi, quando questi processi riconducono l' animale ammalato allo stato di salute. Ogni processo morboso s' inizia con uno stimolo esterno, il quale modificando l' istinto vitale, e traendolo in lotta colla materia bruta tendente a sottrarsi al suo influsso, cagiona lo stato doloroso e penoso. Questi sentimenti dolorosi, traendo in giuoco l' istinto sensuale, gli fanno riprodurre altri movimenti, i quali prestano materia all' istinto vitale che produce le seconde sensioni; e queste, impellendo di nuovo l' istinto sensuale, lo provocano a cagionare nuovi movimenti, e così ha luogo il circolo perpetuo, più o meno lungo, delle sensioni e dei movimenti, che si dice processo morboso . Un esempio della serie e vicenda dei movimenti e delle sensioni, che riesce a pregiudizio dell' animale, lo possiamo vedere nell' invecchiare che egli fa insensibilmente fino alla sua distruzione. Quella stessa legge di vicissitudine che dal primo germe ha sviluppato l' animale a piena maturità, quella stessa da questa maturità lo conduce gradatamente al discioglimento. Del pari si scorge un circolo funesto di movimenti e di sensioni in quei processi morbosi, che hanno un esito mortale. Diamo ora uno sguardo all' arte ippocratica, dai professori della quale tante cose apprendemmo fin qui. I sistemi di medicina finora comparsi ebbero forse tutti qualche idea luminosa; l' errore si riduce ad una parte dimenticata della verità. Vi furono medici, che sembrano aver dato un' esclusiva attenzione a quella classe di processi morbosi, pei quali la natura riconduce l' animale allo stato di salute. Questi celebrarono e magnificarono l' «autokratia» della natura. Il pensiero era luminosissimo. Che certi fenomeni morbosi tendano al ristabilimento della salute, che certe emorragie, certe diarree, certe febbri sieno altrettanti sforzi della natura ammalata, che da sè stessa va risanandosi per quei passi stessi che sembrano morbiferi e sono salutiferi, è cosa innegabile; e questo fatto è quello che reputa a suo grande onore la celebre scuola di Montpellier; sono quelle idee di Van Helmont e di Stahl, che il Pinnel chiama sane e feconde (1). Ma non conviene dimenticare l' altro fatto, cioè esservi altresì un' altra serie di movimenti e di sensioni, che si volgono in circolo, e riescono a deterioramento, e in fine a distruzione dell' animale; che vi sono dei processi morbosi, i quali, conducendo l' animale di stato in stato, finiscono coll' arrecargli la morte. Quei medici, che sono stati altamente colpiti da quest' altro fatto, non posero un' eguale attenzione al primo, e mentre gli uni volevano tutto lasciar fare alla natura, gli altri tutto volevano che facesse l' arte. Nel sistema di Stahl la tendenza della natura allo stato di salute è spiegata; ma rimangono senza spiegazione soddisfacente gli errori della natura. Nel sistema degli avversari sono riconosciuti, se non ispiegati, gli errori della natura, ma rimane disconosciuta, e però priva di spiegazione, la sua tendenza riparatrice e sanatrice. Vi è un' unica legge naturale, diciamo noi, che dà ragione non meno degli andamenti salutiferi della natura animale che degli andamenti mortiferi; l' istinto vitale e l' istinto sensuale, alternandosi nell' operare, e l' uno modificando incessantemente l' altro, sono le cause di entrambi; essi andrebbero sempre di loro natura verso il bene, se non dipendessero da stimoli stranieri e materiali; e sono questi stimoli che li alterano, li perturbano, e scompigliano la loro naturale armonia. Quindi la causa di tutte le malattie si può ridurre ad una sola, cioè all' irritazione, presa questa parola in un senso assai esteso. Per irritazione, in questo significato, intendo l' effetto di una forza straniera al sentimento ed all' istinto animale, che operando su di questo ne altera la condizione normale, e così occasiona nei suoi due modi di operare, il vitale e il sensuale, un' alterna azione in sè stessa morbosa, e nel suo esito conducente o alla salute, liberandosi dall' irritazione, od alla morte. Il primo effetto dello stimolo straniero, e dell' irritazione che produce, cade nell' istinto vitale, il quale invece di produrre il sentimento normale a cui tende, per sè piacevole, contrariato, produce un sentimento anormale doloroso o molesto. Il secondo effetto cade nell' istinto sensuale, il quale sollevato dal sentimento anormale, accresce e varia la quantità di moto esistente nel corpo, e quindi con questi moti accresciuti e variati, anormali anch' essi, viene data materia a nuove sensioni anormali, che producono nuovi movimenti. Quando adunque questo corso di alterne azioni è incominciato, egli può prendere due qualità: Può cessare col cessar dello stimolo, e questo avviene ogniqualvolta lo stimolo non altera la materia dell' istinto vitale, ma solamente dà a questo un' attività ed eccitamento maggiore; ovvero quando la altera sì, ma in modo che le sensioni, che egli produce, altro non fanno che indurre l' istinto sensuale a cagionare tali movimenti che hanno per effetto il rimettere la cosa in pristino, restituendo all' istinto vitale quella materia che gli è opportuna, e che dallo stimolo aveva ricevuto qualche alterazione. Egli può continuarsi anche cessando lo stimolo, e ciò avviene indubitatamente, se i movimenti dell' istinto sensuale, che succedono alle sensioni dolorose dell' istinto vitale, lungi dal restituire tosto e ricomporre a questo la sua materia alterata, non fanno altro che alterarla maggiormente suscitando nuovi stimoli; perocchè le parti e molecole stesse del corpo vivente, spostate o mosse con certo impeto, diventano nuovo stimolo, stimolo veramente straniero, perchè materiale, che contrasta coll' istinto vitale. In tal caso il corso delle alterazioni e delle vicende interne dell' animale si continua indipendentemente dallo stimolo primitivo; perchè le modificazioni dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale riproducono ad ogni loro operazione una nuova schiera di stimoli irritanti, e succede quella condizione morbosa che dai moderni fu denominata diatesi . Queste due qualità del corso alternato delle sensioni e dei movimenti, della prima delle quali uno dei principali caratteri è la breve durata, della seconda una durata più lunga, furono assai bene osservate dai medici recenti, ma con una veduta quasi esclusiva al fatto dell' infiammazione; e prego il lettore di permettere che gliene metta sott' occhio la descrizione, che ne fa l' illustre Tommasini, la quale mi dà occasione di aggiungere qualche non inutile osservazione. Questo è il corso di breve durata; ora passa il Professore a descrivere quello, che noi chiamiamo corso di lunga durata di sensioni e di movimenti alterni. In questi luoghi del chiarissimo Tommasini, che descrivono fatti verissimi, debbo dire che io non saprei considerare altramente che come sommamente inesatta quella espressione di eccesso di stimolo, la quale rammenta le angustie del sistema browniano, onde si deve trarre del tutto la medicina, prima di mettersi sulla via regia dei suoi progressi. Invece di eccesso di stimolo pare che si dovrebbe dire inopportunità di stimolo; giacchè le malattie che conseguono allo stimolo, per confessione dello stesso Tommasini, non sono proporzionate alla grandezza ed intensità dello stimolo. Dunque cagione vera dei morbi non è l' eccesso, ma l' inopportunità dello stimolo; di modo che uno stimolo per piccolo che possa essere, se è inopportuno in certe date condizioni dell' animalità, cioè se egli irrita e disordina le funzioni dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, per ciò solo è già eccessivo, poichè tutto ciò che è male, è anche troppo. Il determinare poi l' inopportunità dello stimolo deve essere ampio campo alla medicale sapienza, dipendendo quella da innumerevoli cause, dall' atmosfera, dai temperamenti, dallo stato speciale in cui si trova l' animale, e in esso quel corso alterno che mai non cessa di sensioni e di movimenti, ecc.. La quale avvertenza non è del tutto sfuggita all' acume dell' illustre Tommasini, ma legato egli al sistema, che faceva dipendere tutte le malattie da stimolo eccedente o scarso, non seppe forse cavare tutto il profitto che avrebbe potuto dalle proprie osservazioni. Le quali osservazioni giustissime provano quello che noi dicevamo; provano che non è l' eccesso dello stimolo che cagiona il corso necessario dell' infiammazione, poichè con uno stimolo anche maggiore ella non nasce. Dunque è l' inopportunità . Ma quando lo stimolo è inopportuno? Ecco il grande problema; non si tratta più di misurare semplicemente la quantità dello stimolo, ma di tener conto di tutte quelle innumerabili circostanze, la cui mistura, per dir così, lo rende opportuno ovvero importuno. Questo ci conduce al metodo antico, al senno ippocratico. E primieramente è cosa indubitata che lo stato di sanità è condizionato all' azione continua di stimoli, quali sono l' aria, la luce, il cibo, e quelli che si suscitano dall' esercizio, e quelli che si riproducono dai continui moti intestini, che nel misto vivente si perpetuano. Questi sono certamente stimoli opportuni. E possono anche tali stimoli aumentare e diminuire fino a un certo termine, senza che perciò escano dalla sfera dell' opportunità. Un uomo sano si può astenere dal vino, può berne in poca quantità, ed anche in dose generosa, senza alcun pregiudizio di sua salute. Può mangiare più o meno, può esercitare le sue forze fisiche, intellettuali e morali più o meno, e la salute non ne riceve detrimento. Il corso delle funzioni animali cangia sì, ma non rimane alterato; la vicenda alterna delle sensioni e dei movimenti intestini può dunque essere resa più o meno celere, più o meno vigorosa senza alcuna morbosa affezione. Ed era necessario che la sapienza creatrice avesse conceduto all' animalità questa attitudine di adattarsi ad una grande varietà di stimoli naturali e ad una misura variabile di essi, giacchè senza di questo essa non avrebbe potuto conservarsi; ogni minima alterazione di atmosfera, ogni varietà di cibo, ogni accrescimento o diminuzione d' esercizio avrebbe dato principio ad un corso di fenomeni morbosi. Ma quanto si estende questa sfera di stimoli opportuni? dove si può trovare il principio, che determini il carattere degli stimoli inopportuni? La sfera degli stimoli opportuni si estende indubbiamente più o meno, secondo la sanità e la robustezza del corpo, e quella sua speciale condizione che questo riceve in gran parte dall' abitudine. Quindi si scorge il corpo umano resistere ai diversi climi del globo, e adattarsi alle diverse temperature; e nello stesso clima variare grandemente la docilità e sofferenza agli stimoli dei diversi individui, e laddove sembra che ad uno niente pregiudichi nè alterazione d' atmosfera, nè gravità di fatiche, nè varietà di cibi, un altro soggiace ad affezioni morbose per ogni più lieve cagione. Conviene dunque trovare il carattere dell' irritazione o alterazione morbosa nella condizione stessa del corpo animale; conviene trovare questo carattere nella vicissitudine delle sensioni e dei movimenti intestini, di cui abbiamo più sopra descritte le leggi; solamente in queste leggi giace la ragione, perchè quella vicissitudine in istato normale, benchè eccitata da certi stimoli esterni, non si perturbi, e perchè ella s' irriti ed alteri eccitata dagli stimoli stessi; ancora perchè, data un' irritazione, o succeda il corso morboso delle sensioni e dei movimenti sì breve che tosto finisce poco dopo la sottrazione degli stimoli; o sì lungo che anche sottratti gli stimoli si continua per lungo tempo, percorre più stadii, presenta varie scene di fenomeni, e termina colla restituzione della sanità o colla morte. Poichè, si noti bene, il detto corso quando è incominciato, non cessa mai subito all' istante stesso della sottrazione degli stimoli, che vi hanno dato incominciamento; ma la differenza dei due corsi non istà fra il subito e il lungo tempo, ma fra il breve e il lungo tempo. Non dipendendo dunque il corso morboso da eccesso di stimolo, ma da stimolo inopportuno alla condizione in cui si trova l' interna vicenda delle sensioni e dei movimenti intestini, apparisce, secondo che sembra a noi, la vera ragione per la quale i medici, legati al sistema dell' eccedenza e del difetto dello stimolo, non sappiano giammai determinare a qual grado e misura ne incominci l' eccedenza o il difetto; e se si provino a farlo, si abbattino di continuo a fatti ribelli refrattari al loro sistema. Laonde il Tommasini confessa di non poter determinare il limite, ove l' eccitamento comincia ad essere flogistico. Ora, nell' impossibilità in cui si vede il celebre uomo di determinare questi limiti, egli ricorre ad asserire che il grado maggiore e minore di stimolo e di eccitamento si deve considerare come relativo all' individuale tolleranza . Ma l' ubbriachezza di un uomo venuto per essa in delirio e minacciato di paralisi, è tal fenomeno che assai bene dimostra essere stata vinta dallo stimolo la individuale tolleranza; eppure il corso di quel morbo finisce in breve, rigettato che sia o digerito il vino; quando la più leggiera flogosi si continua a lungo con quel corso, che il Tommasini giustamente chiama necessario . Può dunque lo stimolo essere eccessivo anche relativamente all' individuale tolleranza, e non produrre la flogosi, e uno stimolo minore sullo stesso individuo produrla. A questo punto l' uomo illustre, stretto dall' evidenza dei fatti, già rasenta il vero soggiungendo: Non dunque all' eccesso dello stimolo, o al suo difetto, conviene ricorrere per spiegare il corso dell' infiammazione e di ogni altro processo morboso; ma sì alle leggi dell' alterna azione dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, delle sensioni e dei movimenti organici, che costituiscono una vicenda con corso fisso e necessario, per servirmi dell' espressione del Tommasini; vicenda che pur si compie nello stato dell' uomo sano, come in quello dell' uomo infermo, sempre colle identiche leggi; onde la patologia si riduce e continua alla fisiologia, scorgendosi che le leggi, che presiedono all' operare della macchina vivente in istato morboso, sono quelle stesse che presiedono all' operare di lei in istato di sanità, e che i fenomeni variano solo perchè varia lo stato dei due istinti che li producono, il loro reciproco rapporto, e la qualità relativa degli stimoli esteriori che li traggono in movimento. Il Tommasini riconobbe che la generazione, lo sviluppo e la riproduzione delle parti sono operazioni interne dell' animale, le quali, data la conveniente spinta degli agenti esteriori, procedono indipendentemente da questi, in virtù, diciamo noi, della spontaneità animale, che nei due istinti mentovati si manifesta, l' uno dei quali dà la leva all' altro reciprocamente; egli rammenta le osservazioni di Harvey sull' utero gravido, su centinaia di uova, dalle quali osservazioni risulta che i passi, che fa questo corpo vivente in un vivente, dai primi momenti della concezione sino al suo maggiore sviluppo, sono simili a quelli dell' infiammazione; reca la sentenza di Onofrio Schassi, secondo il quale la membrana dell' utero, detta decidua dall' Hunter, non è che il prodotto di una specie d' infiammazione naturale; ricorda competere alla infiammazione l' attività riproduttrice; per l' infiammazione riempirsi le cavità lasciate dalle piaghe e dai tagli, generarsi nuove fibre, riprodursi pezzi interi di carne, la parte rigenerata acquistare talora un volume morboso straordinario; essere stato osservato da Mascagni, Hunter, Rezia, Testa, Potolongo e Moore, che i vasi sanguigni, i linfatici, le cellulari, le cartilagini, le ossa sotto l' energia dell' infiammazione si sviluppano, si estendono, crescono di mole, anzi formarsi, come organiche produzioni, alcune tele cellulari nella pneumonite, che Maincourt distinse dalle false membrane, e tra esse ramificarsi propaggini di rossi vasellini, secondo il Cruikshank aumentarsi fin anche i filamenti nervosi. Esatte sono le espressioni che usa l' uomo insigne, quando dice che nei processi morbosi la natura « aberra dalle leggi alla salute prefisse », ovvero chiama le produzioni, che ne derivano, « vegetazione d' ignota stampa »; ma ricade nel sistema invalso e troppo angusto, quando tutto ciò attribuisce all' eccesso dello stimolo, al soperchio dell' eccitamento. Che nella generazione, nella riproduzione normale delle parti tagliate, nel processo per cui dall' infanzia alla virilità vanno raffermandosi le parti molli, si scorga un aumento di eccitamento e di vita, questo s' intende; ma in tutto ciò non vi è eccesso. All' incontro non vi è eccesso propriamente, ma irregolarità e anormalità delle operazioni animali quando, [...OMISSIS...] . Se un mesenterio, un omento, o un vaso per lenta flogosi vegetando, giungono a tale incremento che riesce funesto e mortale per meccaniche compressioni, tutto ciò deve ascriversi all' attività animale, che dirige ed accumula i suoi prodotti in un luogo (e di questa legge di località parleremo poco appresso), non propriamente all' eccesso dell' eccitamento; conciossiacchè una stessa e anche maggiore quantità di eccitamento, data all' animale in altre circostanze, lungi dall' essergli così dannosa, gli potrebbe essere utile. Altro è dunque eccesso di stimolo, altro inopportunità; altro aumento di azione vitale, altro azione vitale aberrata dalle leggi della sanità. Questo non si può chiamare eccesso di eccitamento, per dirlo di nuovo, se non nel senso che tutto ciò che aberra e che nuoce è sempre eccessivo; e in tal caso la parola eccesso sarebbe usata in un altro significato non proprio, nel quale significato ogni causa della malattia sarebbe un eccesso; la parola eccesso conviene dunque evitarsi. Per dimostrare maggiormente quanta differenza corra fra eccesso di stimolo e inopportunità di stimolo, faremo notare al lettore che la prima espressione involge il concetto che il corso fisiologico o patologico dipenda dal soggiacere l' animale ad una passione; laddove la seconda involge il concetto che il detto corso dipenda da un' azione dell' animale stesso. Anche qui il Tommasini si vede lottare manifestamente fra il sistema, di cui si è preoccupato, e i fatti che gli cadono sott' occhio. Uno dei quali fatti è la condizione che lascia dopo di sè nel corpo l' infiammazione, la quale si risveglia con maggiore facilità dove fu un' altra volta e per più leggeri motivi; di che il professore è costretto a conchiudere, che l' infiammazione infrange [...OMISSIS...] . Nella nostra maniera di concepire il corso morboso, le leggi dell' abitudine non sono menomamente infrante appunto perchè quel corso non prende la legge dall' impressione passiva ed eccedente dello stimolo, ma anzi dall' attività del doppio istinto animale. E noi abbiamo già distinte due maniere di abitudine, l' una passiva e l' altra attiva, e abbiamo osservato che l' abitudine passiva diminuisce l' intensione e la vivezza della nuova impressione; ma l' abitudine attiva accresce l' azione, rendendola più facile, più perfetta, più intensa. Così di due persone umane e benefiche, quella che è giovane prova più vivo il sentimento passivo della compassione, ma la più vecchia con minor sentimento è più operativa dell' altra nel sovvenire ai sofferenti (1). Se dunque il processo infiammatorio dimostra non soggiacere alla legge dell' abitudine passiva, come lo stesso Tommasini confessa, ed ubbidisce a quella dell' abitudine attiva, si scorge in questo stesso la prova che ella non è determinata dalla quantità dello stimolo e dell' eccitamento che passivamente riceve, ma dal gioco delle forze interne, il quale viene perturbato dallo stimolo, piccolo o grande che sia, e però dall' inopportunità di lui rispettivamente allo stato e condizione di esse forze. La passività, da cui Brown fece dipendere la vita, fu tanta che egli ne trasse il suo celebre canone, esaurirsi l' eccitabilità della fibra per l' azione degli stimoli. « I fatti confutarono questa teoria, e in Italia il Racchetti giunse a sostenere direttamente il contrario, sostenendo l' eccitabilità della fibra accrescersi sempre per l' azione degli stimoli ». Il Tommasini volle tenersi in una via media, negando la generalità della sentenza del Racchetti per ragioni [...OMISSIS...] . Ma egli non s' avvide che oltre le leggi dell' abitudine passiva vi sono, come dicevamo, quelle, contrarie alle prime, dell' abitudine attiva, e che a queste è conforme il procedere della natura animale. Conviene dunque recare l' attenzione assai più sulle leggi dell' attività animale che su quelle della passività; ed allora si potrà uscire del tutto dalle angustie del sistema browniano. Grande impedimento a questo si fu la guerra indiscreta e cieca mossa agli animisti; si ebbe paura di giungere fino all' anima, e parve più prudente consiglio il trattenersi alle condizioni della fibra. Quindi il Tommasini, parlando della conseguenza che lascia dopo di sè nel corpo l' infiammazione, la facilità cioè di nuovamente infiammarsi, dice quella essere necessariamente [...OMISSIS...] . Ma sino che si parla di fibra e di eccitabilità inerente alla fibra, non si considera il fenomeno che dal lato passivo; laddove la vera ragione che lo illustra non si trova che considerandolo dal suo lato attivo; cioè in relazione a quel principio che avviva e muove la fibra stessa, e che avendola per termine della sua azione, egli ne rimane eccitato, se quella viene stimolata; in virtù del quale eccitamento, secondo la legge più sopra toccata della spontaneità, scotendo la fibra, la fa parere ella stessa eccitabile. Ora niun dubbio che il principio animale, l' anima, soggiaccia alla legge dell' abitudine attiva, che è quella di eseguire con meno di fatica, e più di facilità e con maggiore piacere, quella specie di operazione che ella ha già eseguita più volte. E qui si osservi ancora come la legge dell' abitudine passiva e quella dell' abitudine attiva, sebbene opposte, si diano la mano, per modo che nella legge dell' abitudine passiva si trova in gran parte la ragione della legge dell' abitudine attiva. E di vero, presupposto che « la quantità di azione dell' istinto sensuale sia in ragione dei minori ostacoli, che egli trova nel suo operare, e della maggiore facilità e del maggior diletto », è chiaro che la legge dell' abitudine passiva che dice « le sensioni moleste diminuire la loro vivacità colla loro ripetizione e continuazione », è quella che spiega perchè un agente, ripetendo le sue azioni, diventi sempre più attivo e inclinato a porle; diventa più attivo, perchè scema la vivezza degli incomodi della fatica, della difficoltà che egli provava al principio; il che è tanto più vero che trattasi di un operare morboso e incomodo, traente seco necessariamente non poca molestia. Così le leggi delle due abitudini, lungi dall' essere in contraddizione, si spiegano reciprocamente. Nè si creda una contraddizione il dire che l' istinto sensuale trova incomodi e molestie nel suo operare, e il dire ancora che la quantità dell' operazione di lui va in ragione del diletto che egli ne prova; perchè gli incomodi, le molestie, le difficoltà possono mescolarsi e si mescolano effettivamente col piacere, dipendendo poi dalla prevalenza di questo o del suo contrario, l' essere un' operazione piacevole o dolorosa; e perchè non si deve fare il confronto tra l' operazione e la non operazione, ma tra l' operazione e lo stato in cui l' animale si troverebbe non operando. E potrebbe essere benissimo che l' operazione avesse più del molesto e del doloroso che del piacevole, in sè stessa considerata; ma in pari tempo potrebbe essere tale che l' istinto sensuale spontaneamente l' assecondasse e continuasse, giacchè non assecondandola e continuandola, egli ne avrebbe uno stato più molesto e più doloroso ancora che dandole corso. Il che conviene con ciò che precedentemente dicemmo: « la quantità dell' azione dell' istinto sensuale non istare solo in ragione del grado di piacere che egli prova nell' agire, ma in ragione composta di questo grado di piacere, e della spinta ricevuta a principio dalla sensazione ». La sensione dà il primo incitamento all' istinto sensuale, che non può cansarlo, e il grado di questo incitamento è quello che determina il maximum dell' azione ceteris paribus ; ma ricevuta tale impulsione, l' azione dell' istinto sensuale, dopo il suo primo moto, è diminuita dagli ostacoli che incontra per via, cioè dalla difficoltà, fatica e molestia che prova. Quindi il primo movimento impresso dalla sensione, se è violento, può dar cagione a gravi e inevitabili disordini nella organizzazione. A ragion d' esempio, è impossibile impedire che una detonazione violenta in certi individui sensibili produca una oppressione alla regione epigastrica, e fin anche la lipotimia, la sincope ed altri effetti funesti; effetti tutti operati dalla spontaneità dell' istinto sensuale, a cui non è dato resistere al primo incitamento della sensazione così improvvisa e fragorosa. Dicendo non gli è dato resistere, intendo che la fatica e la molestia del resistere sarebbe tanta, che egli preferisce lasciare il corso a quei movimenti iniziati dalla sensazione, benchè funesti. Il digrignare dei denti, prodotto dalla sensazione che arreca una lima che scorre sopra una sega, o altri suoni laceranti gli orecchi, non è certo un sentimento grato; ma non si può evitare; la spontaneità dell' istinto sensuale non l' evita, perchè l' impulso della sensazione è sì forte che a fermare l' oscillazione, che ne riceve la corda del timpano sicchè ella non si propaghi al nervo della mascella inferiore, costerebbe un grado di fatica e di pena sì grande, che assai minore è quella di lasciar libera la spontaneità istintiva, che propaga quel movimento. La facilità dunque, colla quale si riproducono le infiammazioni, assai agevolmente si spiega ricorrendo alla legge dell' abitudine attiva, a cui ubbidisce il principio animale. Ma si dovrà dunque escludere dalle cagioni di questo fatto il cambiamento organico della fibra, nella quale l' infiammazione si ripete? No certo; e sia pure che l' organica disposizione della fibra, dopo l' infiammazione, si rimanga modificata. Ma ci sembra una proposizione troppo ardita, e fin' ora non dimostrata, quella che [...OMISSIS...] . L' attribuire il grado ed il modo dell' eccitabilità esclusivamente all' organizzazione della fibra, è dottrina gratuita e al tutto improbabile. Anzi i fatti psicologici smentiscono nell' uomo un sistema così angusto che non riconosce altra cagione delle modificazioni che presenta l' eccitabilità, se non la pura organizzazione della fibra; i fatti dico delle passioni razionali. E chi può negare: I - Che le passioni razionali sieno uno stimolo eccitatore dei nervi e delle fibre? La gioia, la collera, il terrore, l' amore possono sospendere ed accrescere l' azione del cuore, e Bichat curò un uomo che, per cagione d' una paura, provò incontanente forte costringimento alla regione dell' epigastro, poco appresso gli si sparse sul volto una tinta giallastra, la sera ebbe le membra inferiori tumefatte. Si vide, e non di rado, ad un eccesso di collera succedere infiammazioni cutanee e mucose, nevralgie, ed altri sintomi morbosi. Chi può negare ancora: II - Che le passioni soggiacciono alla legge dell' abitudine attiva, diventandone più frequenti e violenti gli accessi, quanto più l' uomo le ha liberamente secondate? Ciò posto, supponiamo un poco che l' organizzazione della fibra rimanesse senza alterazione, ma che l' abitudine propria della passione desse all' anima razionale una grande suscettività, poniamo quella suscettività che un uomo potente ed abitualmente superbo acquista ad ogni menomo affronto, ad ogni aspra parola, ad ogni contraddizione ai suoi cenni, quella che acquista un uomo lussurioso alla vista di ogni oggetto atto a pascere la sua passione, quella d' un educato ai timori, avvezzo a temer di tutto, ecc.; non è vero che la sua fibra, sebbene non cangiata nella sua organizzazione, sembrerà più eccitabile, perchè più eccitabile, più attivo, più pronto si è reso coll' abitudine il principio animale che la muove, che la nutre, che le dà quel guizzo che alla passione sua è consentaneo? Se si scorge dunque nella fibra vivente maggiore mobilità dopo essere soggiaciuta a certo stimolo, non si può da questo senza più inferire che la mutazione sia inerente alla sua organizzazione, non se ne può conchiudere, dico, che questa organizzazione, che si pretende incontanente modificata, sia l' unica cagione della accresciuta eccitabilità; anzi pare che una buona parte, per lo meno, di questa nuova condizione apparente della fibra si debba ripetere dalla nuova condizione in cui è venuto, per l' abitudine attiva, il principio animale, che informa la fibra, l' avviva, l' agita; il qual principio certamente si modifica talora con indipendenza dalla fibra stessa, per cagioni intellettuali e morali. E noi non dubitiamo di applicare un simile ragionamento a quello che avviene negli animali bruti, quantunque il loro corpo non riceva stimolo dalle notizie intellettive e dalle disposizioni morali, di cui sono privi. Certo è ch' essi hanno un principio animale soggiacente alla legge dell' abitudine attiva con indipendenza dall' organizzazione, e certo è che l' istinto animale soggiace alla legge dell' abitudine attiva, indipendentemente dall' organizzazione. Onde, se non da questo, dipendono certi spiacevoli istintivi movimenti, che non di rado si vedono fare in società a certe persone, dei quali vorrebbero, se potessero, guardarsi, e non possono? Onde, se non dalla forza dell' abitudine attiva, il vizio di quel signore a me ben noto, che ad ogni due o tre parole ripete colle labbra il movimento del pippare, e, se se n' astiene per alcun poco con violenza, dà poscia due o tre pippate in fretta, quasi per rifarsi del perduto? Niuna alterazione sembra dover essere nata nella condizione organica delle sue fibre; ma sì l' abito gl' impone oggimai la necessità di fare quei movimenti, pei quali sembra che la fibra sia divenuta più irritabile, più mobile. Ella è una convulsione delle labbra, si dice; ed appunto il rendersi le convulsioni frequenti in un individuo deve attribuirsi in gran parte alla forza dell' abitudine attiva . All' attività del principio animale si deve parimenti riputare la ragione, perchè le convulsioni si propaghino per modo d' imitazione; non è l' immutata organizzazione della fibra che in tal caso la renda più contrattile, ma sì il principio attivo dell' animale che opera per imitazione della fibra stessa, la quale perciò più contrattile si dimostra. E qui si rinviene un altro argomento atto a provare non doversi ripetere dalla sola variata organizzazione della fibra la diversa misura d' irritabilità e mobilità, che ella dimostra; ma piuttosto dalla diversa condizione dello stesso principio attivo animale, che, indipendentemente dalla fibra, si modifica, e che muove e modifica poi egli stesso la fibra, che rispetto a lui è passiva. Infatti, quanto non è efficace anche negli animali l' istinto d' imitare? Il quale al principio sensitivo anzichè alla materialità ed alle organiche condizioni della fibra, si deve indubitatamente attribuire; e se si vuole, usando un' altra maniera di dire, attribuire tali fenomeni alle condizioni dinamiche della fibra medesima, potrà passare, purchè queste condizioni dinamiche non si facciano dipendere dalla sola organizzazione, ma si riconosca la forza, «dynamis», risiedente nel principio animale. Tanto è lungi che l' operare dell' animale per abitudine, per imitazione, per immaginazione, e in diversi altri modi provenienti dalla sua sensitività e dalla forza unitiva, dipendano dalla sola organizzazione, che anzi questa è puramente passiva, e però ella stessa dipende, e viene modificata da cotali diverse maniere del suo operare. E nondimeno tutto ciò non toglie che anche l' organizzazione alterata della fibra abbia la sua buona parte nei fenomeni del corpo sano e ammalato, purchè non la si creda la causa attiva di essi, purchè con essa sola niuno si consigli di spiegarli. Infatti la vita animale risulta da diverse reciproche azioni dell' anima nel corpo, e del corpo nell' anima (1). Quindi è che ogni azione del principio vitale deve influire sullo stato del corpo, ed ogni alterazione del corpo cagionare un' alterazione corrispondente nello stato del principio vitale. Se dunque viene a cangiarsi l' organizzazione del corpo, anche il principio vitale e la sua attività rimane modificata. Ma viceversa, se l' attività del principio vitale soffre qualche cangiamento, se questa attività agisce con quella specie di atti, a cui rispondono dei movimenti intestini nei tessuti del corpo, l' intima organizzazione di questi deve riceverne alcuna mutazione. Ciò dimostra che la condizione organica della fibra è assai, ma non tutto; l' essere ella organata piuttosto in un modo che nell' altro, la deve rendere più o meno impressionabile, le deve dare una passività maggiore o minore; ma niente le varrebbe esser divenuta così mobile, se il principio movente, cagione del moto, non agisce in lei; la sua eccitabilità dunque è una relazione passiva verso il principio movente, e non più. Ora come può variare in essa questa mobilità passiva, così il principio attivo motore soggiace pure a cangiamento nella sua relazione attiva, crescono o diminuiscono in esso i gradi di attività, si facilitano o si difficultano i suoi atti, ecc.. Il fenomeno dunque della maggiore impressionabilità od eccitabilità della fibra dipende da due cagioni, e non da una sola, e dalla cresciuta mobilità passiva di lei inerente all' organizzazione, e dalla cresciuta mobilità attiva del principio animale. Si vedrà poi quanto sia grande la parte che tiene l' organizzazione nella spiegazione dei fenomeni fisiologici e patologici (benchè non si debba attribuire ad essa sola il grado di eccitabilità apparente nel corpo umano), considerando che il sentimento fondamentale di continuità è al tutto dipendente dall' organizzazione, e da questa dipende in gran parte il sentimento fondamentale di eccitamento . Di più l' istinto sensuale produce dei minimi movimenti, i quali non possono a meno di recare qualche mutazione nella tessitura e nello stato organico dei corpi; e questi minimi movimenti sono quelli che vengono operati per mezzo del sistema nervoso ganglionare. Laonde con buon senno scrive il Tommasini: [...OMISSIS...] . Perocchè a noi anzi è indubitato che da nessuna morbosa alterazione il corpo umano ritorni allo stato organico identico col precedente, giacchè gli infiniti movimenti intestini, le molecole perdute ed acquistate, è impossibile che si compensino così giustamente da restituire il corpo in tutto e per tutto misto ed organato, come egli era prima. E crediamo che si possa di più a sicurtà asserire non esservi un solo momento nella vita, in cui la mistura e la tessitura delle parti sia in tutto e per tutto eguale a quella del momento precedente. Ma l' errore sistematico del grand' uomo è quello di pretendere che l' eccitabilità delle parti e la suscettività di rispondere agli stimoli dipenda unicamente dalla condizione organica della fibra, e dalla quantità di quelli si possa argomentare il grado di mutazione in questa. L' importanza della materia ci consiglia a procurare di recarvi qualche maggior luce collo specificare le condizioni diverse, che può ricevere lo stato del corpo animale dall' alterna azione dei due istinti; il che faremo nei capi seguenti. Dalle cose dette risulta: Che dal primo istante in cui l' uomo è posto, fino all' istante in cui l' uomo muore, vi è un corso non interrotto di azioni alterne dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, il quale noi chiameremo di qui innanzi corso zoetico . Che le leggi che l' uno e l' altro istinto segue nella sua azione, sono sempre le medesime, nè possono mai cangiare essenzialmente. Che dalle azioni alterne dei due istinti dipende egualmente lo stato di sanità e lo stato di malattia, come pure l' incremento e il decremento dell' animale. Che lo stato di malattia e i processi morbosi non sono altro che una parte del corso delle azioni alterne, di cui parliamo, non interrompono questo corso, ma lo continuano, sicchè i fenomeni morbosi non differiscono essenzialmente dai fisiologici. Dalle quali cose consegue che, quantunque le leggi, secondo le quali operano incessantemente i due istinti, sieno immutabili e necessarie, tuttavia il corso alterno delle sensioni e dei movimenti riesce così diverso che varia di tipo in ogni animale di specie diversa; e nella stessa specie non si può in alcuna maniera credere che s' incontrino due individui, nei quali quel corso proceda uniforme, anzi neppure nello stesso individuo è uniforme mai a sè stesso nei varii istanti della vita. Le varietà del detto corso zoetico negli uomini devono dunque riuscire assai maggiori che non quelle delle fisonomie; conciossiachè, essendo egli disposto in una serie d' innumerevoli anelli di azioni reciproche, basta il più piccolo cangiamento in un anello di essa acciocchè tutto affatto il corso si muti, si apra una nuova via, per la quale egli discorra divergendo dalla prima. Noi per brevità di discorso chiameremo anelli del corso zoetico una coppia di azioni, l' una dell' istinto vitale, l' altra del sensuale. Ma se le leggi dei due istinti sono immutabili, ond' è che il corso zoetico piglia tante diverse direzioni, sicchè in ciascun uomo, in ciascun animale cangia andamento? L' abbiamo veduto; se vogliamo retrocedere fino alle prime cause, che incamminano il corso zoetico piuttosto in un modo che in un altro, o che, incamminato, lo fanno divergere dalla prima direzione, dovremmo riferirci a cagioni estranee all' animale, la principale delle quali è la materia. Questa ora somministra ubbidiente il suo termine all' istinto vitale; ora combatte con esso, e lo costringe a dolorosa lotta; ora lo blandisce con opportuno stimolo, eccitandolo a piacevole sentimento; ora gli sfugge di mano, vincendo la sua rattenenza, e sottraendosi alla sua azione. Tutte queste diverse azioni ed attitudini, che prende la materia verso l' istinto vitale, lo costringono a produrre sentimenti diversi, i quali determinano un corso zoetico diverso. Ma noi dicevamo che la materia bruta è la cagione principale, che dà una piuttosto che un' altra direzione al corso zoetico, non che ella è l' unica. Usavamo questo riserbo di parlare, perchè un' altra causa estranea al concetto dell' animale e influente sul corso zoetico si è l' intelligenza, che nell' uomo è intimamente associata all' animalità. Se dunque consideriamo l' animalità nell' uomo, il corso zoetico riceve gli impulsi, che lo dirigono per una via anzichè per un' altra, o che lo fanno divergere dalla prima, da due cagioni: da un agente inferiore, ed è la materia, e da un agente superiore all' animalità, ed è l' intelligenza. La materia dunque e l' intelligenza sono le due cagioni, che nell' animalità umana determinano la direzione del corso zoetico, di maniera che quando questo corso è da quelle determinato, se si supponga ch' esse non cagionino più alcun' altra irritazione, il detto corso segue fatalmente per la sua via necessaria, perchè prescritta dalle leggi dei due istinti, senza declinare nè a destra, nè a sinistra. Ma se l' una delle due cause esteriori mentovate influisce di nuovo sull' animalità, quel corso è costretto a mutare direzione, percorrendo la nuova via con eguale certezza e necessità. Conviene nondimeno osservare che, come la materia determina o fa divergere il corso zoetico, operando nell' istinto vitale, in quanto questo è passivo verso la materia; così l' intelligenza determina o fa divergere il corso zoetico, operando sull' istinto vitale , in quanto questo è attivo verso la materia medesima. E veramente se una infausta notizia cagiona un sentimento di tristezza e di abbattimento, onde nasce questo fenomeno se non da ciò che l' anima intellettiva, addolorata per la fatale notizia, sottrae le forze all' istinto vitale e in parte anche all' istinto sensuale, di che il rallentamento del sangue e gli altri sintomi di debolezza e concidenza? Il grado dunque di attività dell' istinto vitale viene diminuito od accresciuto dall' azione diretta dell' anima intelligente, e così mutato il corso zoetico. Che se noi vogliamo considerare i primi passi dell' istinto sensuale , e cercare come questi vengano determinati, risulta da quanto abbiamo detto che ciò che li determina sono i primi sentimenti , effetti dell' istinto vitale. Quante dunque sono le specie, le forme, i gradi dei primi sentimenti dall' istinto vitale prodotti, altrettante sono le specie, le forme, i gradi dei primi movimenti cagionati nel corpo animale dall' istinto sensuale . Dai primi sentimenti adunque dipende tutto il corso zoetico, e i primi sentimenti dipendono dalle due cause accennate, la materia e l' intelligenza. Enumeriamo i sentimenti primitivi (1) secondo i loro tipi, o specie7piene (2), e vediamo da quali speciali cagioni ciascuno dipenda, e come egli inizii un differente corso zoetico. Il sentimento fondamentale ha per termini la materia continua e il moto; parliamo del sentimento fondamentale, in quanto ha per termine la materia continua. Al sentimento fondamentale di continuità deve essere data una materia avente certe disposizioni, precedenti all' azione dell' istinto vitale. Ma poichè una proposizione così generale non si può provare, non avendosi una materia e un istinto vitale disgiunti, si deve supporre prima di tutto un germe animato, il quale abbia una qualche materia acconcia all' azione animatrice dell' istinto vitale, con organizzazione opportuna al suo ulteriore sviluppo, la quale dicesi tipo primitivo dell' animale, mediante incessanti movimenti cagionati dall' istinto sensuale. Ciò premesso: L' animale non può conservare la vita, se non gli è data a suo alimento una materia avente certe disposizioni, precedenti all' azione dell' istinto animale. Questa proposizione è evidente a tutti quelli che considerano che non tutte le sostanze materiali possono servire di alimento all' animale. E` assolutamente necessario che siano continuamente sostituite molecole di azoto e molecole di ossigeno a quelle che l' animale va perdendo. Magendie, avendo alimentato alcuni cani con sostanze prive di azoto, come sarebbero zucchero, olio, acqua, ecc., in poco tempo morirono atrofici. Se l' ossigeno non nutrisse il sangue, l' animale morrebbe asfissiato. Nè basta ordinariamente che l' ossigeno sia ricevuto per mezzo del polmone mediante la respirazione; egli nutrisce e mantiene l' animale, insinuandosi in esso anche attraverso la cute. Lo stesso Magendie, avendo rivestito tutto il corpo di alcuni conigli e di altri animali, eccetto la faccia, d' un intonaco viscoso formato di una dissoluzione concentrata di gomma, di gelatina o di terebinto, in modo che la pelle non poteva più assorbire i gaz atmosferici, quantunque respirassero liberamente, quegli animali in poco d' ora furono morti asfissiati (1). Magendie d' altra parte ebbe pure dimostrato coll' esperienza che l' epidermide, e in generale tutte le membrane sono permeabili ai gaz (2). Oltre la qualità della materia, che dipende probabilmente dalla sua forma e composizione, è necessario che essa sia posta in continuità del corpo già animato, acciocchè l' istinto vitale possa invaderla. Benchè l' esperienza non dimostri, nè possa dimostrare la necessità di questa continuità, ma solo di una vicinanza, tuttavia a noi pare che la dimostri il ragionamento. Il terzo luogo è necessario, ancora, che quella materia opportuna dall' istinto vitale, mediante il corpo già vivente, venga elaborata, cioè minuzzata, ricomposta, purgata, classificata, distribuita. In quarto luogo che ella riceva dall' anima quell' ultima qualità, che la rende attiva in sull' anima stessa, di cui abbiamo altrove parlato (1). Date queste condizioni, il sentimento fondamentale di continuità si concepisce posto in essere, e conservante sè stesso; perocchè colle tre prime è formata l' organizzazione, e colla quarta l' organizzazione viene dotata di quell' ultimo atto che si dice vita extrasoggettiva, per la quale il corpo alla sua volta si rende attivo verso dell' anima, com' è necessario a spiegare la passività, che si ravvisa nel sentimento. E tutte queste condizioni si trovano nel germe animato, nel quale l' animale incomincia, sol che si annunzino così, riducendole a tre: 1 materia opportuna; 2 continuità; 3 animalizzazione (2). Quest' ultima condizione, quest' ultimo atto della vita extrasoggettiva del corpo, dipende, data l' organizzazione, dall' attività dell' anima sensitiva. E come questa attività può essere modificata dall' influenza del principio intellettivo, così non vi è dubbio che secondo la disposizione del principio intellettivo è modificata in ogni istante la produzione della vita e del sentimento conseguente, a segno che può essere impedito l' effetto vitale e la produzione del sentimento fondamentale; nel qual caso si ha in breve qualche disorganizzazione, e la morte. Il Nicholls narra di una dama inglese, che ai suoi tempi colta in adulterio, ne ebbe tanto dolore e vergogna da prenderle tosto la febbre, e venire in termine di morte. Impetrata dal marito sdegnato promessa di perdono, e tornata nella speranza di potergli tuttavia piacere, si riebbe da quell' estremo pericolo. Ma vedendola guarita, i parenti persuasero il marito che la moglie infedele aveva simulata quella infermità per rapirgli il perdono; ond' egli, partitosi per la campagna, mandò dire alla moglie aver egli fatto abbastanza conservandole la vita, del resto volere il divorzio. La donna infelice, stretta d' ambascia, altro non seppe rispondere se non ch' ella già si moriva, e rallentatolesi gradatamente il polso, sopravvenutale l' oppressione del petto, dopo poche ore cessò di vivere (3). Qual fatto più efficace di questo, e ve ne sono infiniti, a provare che la condizione in cui si trova il principio intellettivo, influisce sull' attività del principio animale, l' accresce, la diminuisce, la lega e la scioglie? Il sentimento fondamentale di continuità differisce dunque negli uomini primieramente per cagione dello stato in cui si trova il principio intellettivo. In secondo luogo egli differisce secondo il grado di continuità, che hanno fra loro le molecole viventi. Sembra probabile che la vita non esiga per sua condizione una continuità così determinata che non possa ammettere modificazione di sorte. Anzi mi pare probabile che vi sieno due limiti della continuità delle molecole, entro i quali si conservi la vita in istato perfetto, dico la mera vita di continuità, che parmi esiga continuità e nulla più. La continuità maggiore o minore dipende dalla forma e dalla grandezza delle molecole, le quali circostanze fanno sì che rimangano fra esse interstizi più o meno numerosi, e maggiori o minori. Ora, quanto il misto è più compatto e le particelle si combaciano in più punti, pare che la vita di continuità dovesse riuscire più fitta e robusta; ma la troppa aderenza delle molecole impedisce il loro movimento, e deve quindi scemare la vita di eccitazione. Ora il sentimento eccitato è troppo più che il sentimento di continuità. L' istinto animale adunque tende da una parte ad accumulare il sentimento, restringendo le molecole, e atteggiandole in modo che si tocchino colle massime superfici; dall' altra tende ad aiutare il loro movimento reciproco ed organico, e quindi a rotondarle e tenere le une dalle altre distanti nel maggior numero di punti possibili, senza che perdano di loro continuità. E` un vero problema di massimi e di minimi, che il principio animale risolve col fatto. Varia, dunque, il sentimento fondamentale di continuità anche secondo la maggiore o minore continuità delle molecole, di cui l' animale risulta. Varia secondo la quantità assoluta della materia suo termine; secondo la quantità di questa è più o meno esteso. Che se un corpo vivente perde un certo numero di molecole, questa perdita suol cagionare due effetti: 1 diminuire l' estensione del sentimento fondamentale di continuità; 2 modificare più o meno il sentimento fondamentale di eccitazione. Il primo effetto è perdita di qualche parte del sentimento di continuità. Si osservi la differenza fra questa perdita e la modificazione che soffre il sentimento di eccitazione. Questo suppone molecole, che mutino di posto senza abbandonare la loro continuità. Quando questo spostamento si diffonde in un dato organo, comunicante col centro fisico dell' animale, con certe leggi, nascono sensioni speciali, e la facoltà di esse si può chiamare sensitività speciale o di eccitamento speciale . Tale è la sensitività dei due ordini di nervi. Le altre parti del corpo, incapaci di quei grandi e speciali movimenti eccitatori, non hanno che la sensitività fondamentale di continuità, la quale si modifica senza eccitare la nostra attenzione, coll' addensarsi, col diradarsi, coll' ammettere nuove molecole, col dimetterle, ecc.. In questo senso tutte le parti del corpo si possono dire sensitive; ma non alla maniera dei nervi, la cui sensitività è eccitabile e speciale (1). Finalmente il sentimento fondamentale di continuità varia secondo che la materia è più o meno predisposta a ricevere l' azione dell' istinto vitale, e con essa la vita. Descrivere ed enumerare queste predisposizioni è cosa di gran lunga superiore al mio limitato sapere. Nè anche saprei dire, se non in parte, le vere cause, che danno alla materia quelle predisposizioni necessarie alla vita. Solo dalle cose dette apparisce che la materia, che si aggiunge ad un corpo vivo, per essere avvivata della stessa vita, deve avere certe qualità o forme, onde le si attribuiscono certi nomi, come di azoto, di ossigeno, ecc.. Apparisce, ancora, che deve essere elaborata dal corpo vivente al quale si accosta; elaborazione che riesce più o meno perfetta, secondo che è più o meno perfetta la macchina vivente che la elabora, e il principio che muove tutta quella macchina. Ma qualunque sieno coteste cause, che danno alla materia disposizioni preparatorie alla vita, certo è che anche in queste predisposizioni vi sono dei gradi, vi sono dei limiti di maggiore o minore predisposizione, entro i quali ha luogo la vita. Il sapere poi se le predisposizioni della materia possano alquanto variare, senza che venga meno la perfezione della vita, sicchè nella stessa perfezione della vita vi siano dei gradi, o delle forme diverse ed equivalenti, questo è assai più difficile a verificare. E per perfezione della vita intendo quel compiuto trionfo dell' istinto vitale sulla materia, pel quale non rimane più alcuna lotta fra i due elementi, ma il primo dominatore con atto assoluto nell' altro riposa. Certo non è impossibile a concepire che l' istinto vitale invada pienamente la materia, o che la invada con maggiore o minore forza. Il fatto dell' influenza del principio intellettivo sul crescere e sullo scemare le forze del principio animale, dimostra che la potenza di quest' ultimo varia di grado. Niente ancora vieta che secondo la disposizione della materia l' istinto vitale vi produca diversi effetti, ad alcuna parte non dia che la vita di continuità, ad un' altra anche quella di eccitamento, ecc.. Ma il determinare questi vari gradi, ella è una ricerca ancora intentata. Ora, ogni varietà del sentimento fondamentale di continuità è un elemento di variazione per l' istinto sensuale, che ne riceve un' attitudine diversa. Ma qual è l' effetto di questa attitudine? L' istinto sensuale primieramente tende a mantenere il sentimento. Tuttavia questo effetto, in quanto si oppone alle forze che lo vorrebbero distruggere o diminuire, si può attribuire anche all' istinto vitale; chè questo è il punto nel quale i due istinti convengono; perocchè se l' istinto vitale è quello che produce il sentimento, egli deve essere altresì quello che lo conserva; chè il conservarlo è un continuare a produrlo; coll' atto stesso con cui si produce, ei si conserva. D' altra parte, se l' istinto sensuale è quello che opera in conseguenza di un sentimento, al fine di continuarlo e di accrescerlo, questa attività stessa, che vuole continuare ed accrescere il sentimento, deve tendere prima di tutto a conservarlo. Il vero si è che i due istinti sono un' attività sola, e noi li riuniamo entrambi sotto la denominazione d' istinto animale . Ma perchè gli effetti si partono in due classi, diamo alla stessa attività due denominazioni, secondo che la consideriamo siccome causa di una classe di effetti o di un' altra. Queste classi si distinguono così, che gli effetti appartenenti alla seconda susseguono a quelli appartenenti alla prima; di modo che l' attività medesima non produce questi ultimi nel suo primo momento, ma nel secondo; non quando incomincia ad operare, ma quando continua l' operazione; è l' attività stessa, ma pervenuta ad un secondo grado di sviluppo. E poichè i secondi effetti non possono cominciare se non là dove finiscono i primi, quindi vi è un punto comune alle due maniere di operazione, nel quale finendo la prima, incomincia la seconda. Così avviene che la conservazione di un sentimento ha i caratteri dell' una e dell' altra classe di effetti, perchè la durata d' un sentimento involge da una parte il concetto di produzione, e dall' altra quello di continuazione . E` dunque un effetto che si riferisce ad entrambi gli istinti, che radicalmente sono un' unica attività. Se si considera dunque la conservazione di un sentimento come effetto dell' istinto sensuale, quella varierà: 1 di forza, secondo che l' efficacia dell' istinto vitale è maggiore o minore; 2 di estensione, secondo la quantità della materia; 3 di consistenza, secondo la continuità o spessezza della stessa materia; 4 d' indole e di qualità, secondo che la materia è organata in un modo o nell' altro, e secondo che le sue qualità preparatorie alla vita hanno maggiore o minore perfezione. Finalmente, se si suppone che alcune particelle, non al tutto prive delle predisposizioni necessarie alla vita, sieno in lotta coll' istinto vitale, e producano lo stato del dolore o della molestia (il quale pure varia secondo la natura e il grado dell' indisposizione di dette particelle, la loro qualità, il loro collocamento, ecc.); le varietà delle forze dell' istinto vitale imprimono uno stampo diverso all' attività dell' istinto sensuale. In generale conviene avvertire che il sentimento fondamentale di continuità non è idoneo a muovere all' atto suo l' istinto sensuale, ma solamente ad atteggiarlo in un modo piuttosto che in un altro, a costituirlo e determinarlo come una potenza. Perocchè a muovere l' istinto sensuale all' atto si richiedono sempre dei sentimenti eccitati, passeggeri di lor natura. E` dunque a parlarsi del sentimento di eccitazione, affine di spiegare come l' istinto sensuale si levi al suo atto. Cominciamo dal supporre un gruppo di particelle viventi al contatto fra loro. Tostochè uno stimolo qualunque sposti quelle particelle dalla loro reciproca posizione, senza che questo spostamento tolga la loro continuità, noi diciamo che si modifica ed eccita il sentimento in quel gruppo racchiuso, e nascono sensioni. Queste sensioni ammettono infinite varietà: celerità, frequenza di moto, numero di particelle, pressione reciproca, forza del principio vitale più o meno accentrato (1), ecc., sono altrettanti elementi variabili, che devono cangiare l' indole, il grado, il numero delle sensioni, ed appartiene ai progressi della scienza il determinare, fin dove è possibile, tutte queste differenze sensibili, di cui è suscettivo un vivente. Ma per sentimento fondamentale d' eccitazione non s' intende già un complesso di sensioni quale si vogliano, ma solo quel complesso di eccitamenti e di sensioni, che per l' unità della sua armonia è unificato in un sentimento individuo, che conserva lo stesso tipo, il quale tipo è il fondamento della specie dell' animale stesso. Onde si vede che anche nel sentimento fondamentale d' eccitazione si suppongono stimoli naturali, che si riproducono con legge costante, ma che tengono delle varietà nei vari individui della stessa specie. I quali stimoli sono stranieri all' animale, che è sentimento, ed appartengono al sensifero. Il loro effetto è il movimento extrasoggettivo, a cui s' accompagna la sensione, ossia il complesso armonico di sensioni continuamente riprodotte, che costituiscono il sentimento fondamentale d' eccitazione. E queste sensioni sono quelle che danno prima di tutte le altre la leva all' istinto sensuale, il quale viene al suo primo atto, che è quello di assecondare le dette sensioni, e così aiutare i movimenti che le producono a continuarsi ed a ripetersi (1). Cerchiamo dunque prima di tutto il concetto, che è uopo formarsi degli stimoli . Lo stimolo, ossia la potenza stimolante, deriva dalle forze materiali, meccaniche, fisiche, chimiche, ecc., da tutte le forze straniere, in una parola, alla forza vitale dell' animale individuo. Esse agiscono in opposizione a questa forza vitale, e l' opposizione si manifesta più apparente nel solido vivente, quando gli vengono applicate forze materiali o qualsiasi altra forza straniera, in modo da produrre nell' interno di lui qualche movimento. Ogni movimento, prodotto nell' interno del solido vivente, si può considerare come effetto di uno stimolo. Nell' uomo questi si dividono in due grandi classi: le forze intellettuali, in quanto influiscono sulla forza vitale, e le forze materiali. Restringendoci a considerare le varietà degli stimoli materiali, se ne possono in prima distinguere due grandi classi. I Classe. - Le sostanze materiali componenti lo stesso corpo vivente. II Classe. - Le sostanze materiali non componenti il corpo vivente. Le sostanze materiali componenti il corpo vivente si dividono in fluidi e solidi: i primi hanno l' ufficio principalmente di stimoli, i secondi di stimolati. Giovanni Rasori non considera tutti i fluidi del corpo vivente come stimoli, ma accordando la facoltà stimolatrice soprattutto al sangue, riguarda la bile, i succhi gastrici e intestinali, e i principŒ pinguedinosi, che penetrano in tutte le viscere e sino alle minime fibre, come sostanze controstimolanti . Ma nel senso in cui noi prendiamo la parola stimolo, non si può ammettere l' esistenza di sostanze materiali veramente controstimolanti in senso positivo, ma soltanto in senso negativo, atte cioè ad impedire l' applicazione o l' azione degli stimoli, ovvero a distruggere quel moto che produce uno stimolo, mediante un moto contrario; non atte ad abbassare direttamente la forza vitale, a meno che non sieno disorganizzatrici. Di maniera che a noi par meglio di non considerare come controstimolo se non: 1 tutto ciò che disorganizza la macchina; 2 le sensioni e affezioni, che, per mezzo dell' istinto sensuale, diminuiscono direttamente la forza dell' istinto vitale. Consideriamo dunque quelle sostanze materiali, che, applicate al corpo vivente, producono un allentamento e una diminuzione dei movimenti vitali, come controstimolanti indiretti. Ora, se « lo stimolo è tutto ciò che produce un movimento interno nel solido vivente, il concetto di stimolo si riduce sempre ad una causa di moto nell' interno del solido vivente », e perciò non si dà azione stimolante senza moto. Supponendo poi il moto prodotto da cause materiali, queste potranno agire in modo chimico, fisico e meccanico. Uno stesso agente può operare nella macchina umana in tutti e tre questi modi. Ma è da osservarsi che l' agente opera in modo chimico principalmente sui fluidi del corpo vivente; sui solidi poi l' agente esterno opera assai più in modo fisico e meccanico. L' aria opera in modo chimico sul sangue; in modo fisico col suo peso su tutto il corpo; in modo meccanico col suo impulso e movimento. La spinta, che il sangue rosso dà al cervello e a tutti i nervi, è un modo meccanico di operare. Ma egli agisce oltrecciò in un modo che non può dirsi meramente chimico, ma deve dirsi chimico7vitale, avvivando e nutrendo tutti i tessuti; perocchè sono le sue forze chimiche, associate alle forze vitali, che producono questi ultimi effetti (1). Quantunque i solidi non sieno per sè stessi stimoli, ma stimolati, tuttavia essi producono degli stimoli colle secrezioni dei fluidi, e col movimento e la direzione che loro dànno. Con essi determinano il sangue ad accorrere alla parte ferita, crescendo ivi in questo modo l' azione stimolante. Di più, essendo i solidi quelli che lavorano e segregano i fluidi, l' azione normale o anormale dei solidi altera in bene o in male la natura dei fluidi. Se per lo spasmo dei solidi, a ragion d' esempio, il sangue viene accelerato più del dovere e riscaldato, egli s' infiamma, la fibrina tende a dividersi dal siero e dal grumo, onde, estraendosi dalle vene, manifestasi la cotenna. La disposizione acquistata in tal caso dalla fibrina a separarsi dagli altri due elementi tende alla disorganizzazione; qui vi è una manifesta lotta col principio vitale, che ha già perduto alquanto del suo dominio sulle forze materiali. L' eccitamento è una condizione dell' animale, purchè egli sia tale: 1 che non tenda a togliere la continuità delle parti; 2 che tenda a perpetuarsi; 3 non tenda a togliere all' animale l' unità e l' individualità. Quindi all' animale deve piacere d' essere stimolato, anzi gli è necessario; è necessario che sia applicato all' animale continuamente un certo sistema di stimoli. In secondo luogo vedesi che non ogni eccitamento, ma solo un dato eccitamento è confacente; non tutti gli stimoli, ma solo alcuni sono opportuni all' animale. Gli stimoli inopportuni di conseguente sono: Quelli che tendono a distruggere la continuità delle parti. Quelli che impediscono la continuazione dell' eccitamento, o alterando l' organizzazione, o turbando l' applicazione e l' azione degli stimoli opportuni, o provocando dei movimenti opposti a quelli che provocano gli stimoli opportuni. Quelli che tendono a distruggere l' unità e l' individualità dell' eccitamento. Di che si conferma che non è la quantità dello stimolo che lo rende pernicioso, ma l' inopportunità; quantunque sia vero che anche la quantità, se eccede certi confini, renda lo stimolo inopportuno. Come la materia componente il corpo vivo si può considerare sotto l' aspetto di agente, che stimola lo stesso corpo vivo, o ridotta a stato di fluido, o smossa dal suo luogo, così si può considerare sotto l' aspetto di agente stimolante qualunque materia estranea al corpo umano, che, applicata al medesimo in qualsivoglia maniera, produca nel solido un intestino movimento; ed anche la materia estranea al corpo umano in virtù delle sue forze chimiche, o pel suo movimento meccanico, o per la condizione speciale della parte del corpo a cui viene applicata, o per altra circostanza, può rendersi stimolo opportuno, ovvero stimolo inopportuno. L' inopportunità dello stimolo non consiste dunque nell' essere la materia stimolante estranea al corpo, ma nel produrre sul corpo un' azione disarmonica a quella delle forze vitali, cioè contraria ad alcuna delle tre condizioni dell' animale, la continuità delle parti, l' eccitamento perpetuo e l' individualità. La materia esterna è solida o fluida. La materia solida, se non passa a stato di fluido, applicata al corpo umano meccanicamente, non fa per lo più che produrre alcuni movimenti nelle parti del medesimo. Ma la materia fluida, o che si rende tale applicata al contatto del corpo umano, può essere rapita nel vortice della vita; il principio vitale tenta alcuna volta d' invaderla continuando in essa il sentimento; così può diventare nutrimento dello stesso corpo. Ma fra l' essere una tale materia del tutto estranea al corpo e l' essergli assimilata, vi è un tempo e uno stato medio, nel quale si assolve l' operazione della nutrizione, presa questa parola in senso latissimo. Anche la nutrizione dunque si fa per via di stimoli; il corpo che deve passare in nutrimento, applicato al corpo vivente, lo stimola; in virtù di questo stimolo il corpo vivo s' appropria la materia nutritiva; la segrega, la distribuisce, e, se ella è solida, la trita e discioglie in liquido per potersene così nutrire; e tutti questi movimenti sono eccitamenti a lui gradevoli. Ma se la materia non è disposta come dev' essere, nasce la lotta fra le forze chimiche e meccaniche di questa materia e le forze vitali dell' animale, che non possono invaderla e dominarla: onde il dolore, la molestia, i funesti effetti, in una parola, che prova la macchina vivente. Di più, se la materia esercita una forza chimica sul corpo vivo contraria e prevalente alla sua forza vitale, di maniera che gli tolga l' organizzazione e l' atteggiamento proprio della vita, in tal caso ella distrugge l' animale, sottraendogli la materia. Tale è l' effetto dei veleni e dei potenti dissolventi, come il fuoco, ecc.. Allorquando uno stimolo applicato ad un gruppo di molecole viventi, spostandole senza spingerle fuori della sfera di continuità, suscita le sensioni, l' istinto sensuale comincia ad agire con un effetto suo proprio, e non più comune all' istinto vitale. Allora l' azione dell' istinto sensuale, intesa ad aiutare la produzione della sensione piacevole, asseconda di conseguente i moti incominciati dalla forza dello stimolo esterno, che aumentano il grado del piacere; li asseconda e li conduce assai più in là che la forza dello stimolo non farebbe, e li continua spontaneamente anche cessato il detto stimolo. Anzi, se ella non trovasse opposizione, se forze contrarie non l' affaticassero e non venissero scemando continuamente la quantità del moto, niuna ragione vi sarebbe per credere che il movimento incominciato cessasse mai più; sicchè si può dire a buona ragione che l' istinto sensuale, considerato in sè stesso, a differenza di tutte le forze brute, è causa di moto perpetuo. Se dunque il moto dell' istinto sensuale va a cessare, ne sono causa gli ostacoli che egli trova per via, venienti principalmente dall' inerzia e dagli attriti della materia, come pure dall' opposta tendenza dell' istinto a conservare il sentimento di continuità e di coesione. E quindi, acciocchè il movimento primitivo e naturale si continui, è necessario che gli stimoli si riproducano; e la natura l' ottiene parte con tener pronti nuovi stimoli esterni, parte coll' organizzazione, oltre ogni dire ingegnosa, del corpo vivente, la quale fa sì che le stesse parti vive, che sono mosse dall' istinto sensuale affine di prolungare ed accrescere la sensione e l' eccitamento, divengano esse stesse stimolanti col loro moto, ovvero generatrici, motrici e direttrici di fluidi stimolanti, e così producenti nuove sensioni, le quali rinnovano l' attività dell' istinto sensuale affievolita dalle difficoltà. Le parti vive del corpo diventano stimoli di altre parti vive, perchè la vita non toglie loro la forza sensifera. Ma acciocchè si ottenga la continuazione dei moti prodotti dall' istinto sensuale, e per essi la riproduzione degli stimoli e delle sensioni conseguenti, forz' è che si mantenga una somma regolarità e proporzione fra le sensioni del primo anello del corso zoetico e quelle del secondo e dei successivi, e così pure fra i movimenti del primo anello e gli altri che vengono appresso, in modo che non intervenga alcun salto, e tutto succeda per via di circolo con legge di regolatissima successione. Ed acciocchè questo si compia, è necessario che l' organizzazione di quel gruppo di molecole, che dicemmo corpo vivente, sia così artificiosa che gli stimoli riprodotti dall' istinto sensuale e somministrati altresì dalla natura esteriore, riescano sempre dello stesso genere e d' una attività costante, od ordinata a progressione. Allora si manifesta nel gruppo delle particelle viventi quel fenomeno, che corso zoetico abbiamo appellato. Il quale fenomeno caratteristico dell' animale, nel sistema che vuole viventi tutti gli elementi dei corpi, diventa la differenza specifica fra i corpi che si sogliono chiamare bruti e gli animali; colla quale differenza si può perfezionare la definizione dell' animale. Poichè, avendolo noi definito « « un essere individuo materialmente sensitivo e istintivo »(1) »; ora, aggiungendo quella differenza che lo separa dai corpi che bruti si dicono, si riduce quella definizione così: « un essere individuo materialmente sensitivo e istintivo, nel quale la sensitività eccitata riproduce con legge fissa un' alterna vicenda di stimoli, di sensioni e di movimenti ». E in quanto quest' alterna vicenda è abituale e normale, cioè quale è richiesta dal buono stato dell' animalità, in tanto le sensioni innumerevoli, che ella contiene e riproduce, appartenenti ad un solo principio sensitivo, costituiscono il sentimento fondamentale d' eccitazione, di cui gli uomini non si sogliono formare che una coscienza assai oscura (2). Ora, le prime sensioni sono effetti dell' istinto vitale e degli stimoli esteriori ed interiori, applicati dalla natura al sentimento fondamentale di continuità; questi stimoli, e i movimenti che producono, non appartengono all' istinto sensuale, il quale comincia ad operare in quelle prime sensioni che egli cerca di aiutare, e ne consegue la continuazione dei moti eccitatori. Si deve considerare dunque come primo anello del corso zoetico quello che si compone: 1 delle prime sensioni; 2 dei movimenti continuati o prodotti dall' istinto sensuale in conseguenza di esse (1). I movimenti , cagioni delle dette sensioni, variano per molte cagioni, le quali si riducono forse alle tre classi seguenti: Tutte le differenze, che abbiamo notate nel sentimento fondamentale di continuità, influiscono sui movimenti che producono il sentimento fondamentale d' eccitazione, e producono in esso altrettante varietà corrispondenti. Molte sono le specie d' organizzazione, atte a dar luogo ad un sentimento fondamentale d' eccitazione perpetuo, in modo che il principio animale perseveri entro il circolo sopradescritto di sensioni, movimenti e stimoli, senza lotta o dolore; e queste specie di organizzazione, e questi corsi zoetici organicamente diversi, costituiscono, noi dicevamo, i tipi dei diversi animali, cominciando dai zoofiti infino all' uomo. Nell' animale dello stesso tipo, anche supponendolo in istato di piena salute, il sistema fondamentale di movimenti eccitatori è variabile, secondo la qualità dei tessuti più o meno fitti, più o meno sviluppati, più o meno individuati, ecc., soprattutto nell' uomo, secondo la forza maggiore o minore dell' istinto vitale; e queste varietà accidentali dello stesso tipo costituiscono le varie indoli , che in una stessa specie di animali si manifestano, i vari temperamenti , i vari gradi di robustezza , le varie suscettibilità , ecc.. Ogni sistema fondamentale di tali movimenti è base d' un diverso corso zoetico, il quale differisce nelle diverse specie d' animali, e negli individui della stessa specie. Il corso zoetico, dunque, viene suscitato da stimoli, applicati dal di fuori ad un corpo vivente della vita di continuità. Dico stimoli applicati dal di fuori , perchè conviene distinguere gli stimoli estranei, che il vivente riceve e non produce a sè stesso, da quelli che egli stesso si produce internamente colla propria azione. I primi sono l' aria, l' acqua, il caldo, il freddo, i cibi, i corpi tutti stranieri, che applicati alla macchina animata vi cagionano qualche effetto, o salutare o pernicioso, come pure il principio intellettivo. A concepirne l' immensa varietà conviene fare diverse supposizioni; eccone alcune: Prima supposizione. - Che gli stimoli stranieri applicati da principio al corpo non si rinnovassero. In tal caso il corso zoetico finirebbe in breve tempo colla morte. Seconda supposizione. - Che gli stimoli stranieri si rinnovassero costantemente i medesimi, sì per la qualità che per la quantità, cioè si riapplicasse al corpo la stessa aria, lo stesso calore, la stessa luce, lo stesso nutrimento, ecc.. In questo caso il corso zoetico recherebbe l' animale per una successione di stati migliori o peggiori, la cui varietà in meglio od in peggio dipenderebbe dall' azione delle sue forze interne, determinate da quell' unica maniera, e quantità e qualità di stimoli, che gli sarebbero applicati. Per altro pare evidente che il corso zoetico a queste condizioni non potrebbe tirare avanti gran fatto, giacchè la costituzione dell' animale esige stimoli diversi, massime in quantità; l' adulto, a ragion d' esempio, ha bisogno di più cibo del bambino, ecc.. Terza supposizione. - Che l' applicazione dei medesimi stimoli si facesse o continua, o periodica; che variasse, in una parola, il tempo in cui si applicano tali stimoli, variasse il tempo in tutte le possibili maniere. E` chiaro che ogni varietà di tempo nell' applicazione dei medesimi stimoli cangia il corso zoetico, determina un nuovo corso. Quarta supposizione. - Che gli stimoli esterni che si rinnovano, cangiassero di quantità solamente. Quinta supposizione. - Che cangiassero nella quantità e nel tempo in cui si rinnovano, o continuano, o si tolgono. Sesta supposizione. - Che cangiassero di qualità solamente. Settima supposizione. - Che cangiassero di qualità e di tempo. Ottava supposizione. - Che cangiassero di quantità e di qualità. Nona supposizione. - Che cangiassero di quantità, di qualità e di tempo. Tutte queste supposizioni racchiudono innumerevoli determinazioni diverse del corso zoetico. Or bene, tutte queste mutazioni di stimoli esterni è appunto ciò che ha luogo nel fatto; di che conseguita che non si danno neppure due istanti della vita, nei quali gli stimoli esterni, applicati alla macchina vivente, non cangino in mille guise, nella qualità, nel tempo e nel modo, onde vengono a lei applicati, ecc.. Laonde il corso zoetico devia dalla sua direzione ogni istante della vita, e per più cause associate, una sola delle quali basta a farnelo deviare; ma tutte queste nuove direzioni che continuamente egli prende, non sono necessariamente morbose. Il che conferma che vi sono innumerevoli direzioni e cangiamenti del corso zoetico, che si contengono entro i limiti d' uno stato di buona salute; e che la salute dell' animale non è determinata da una sola linea, ma, per così dire, ella ha un territorio dove spaziare, uscendo dal quale l' animale entra nello stato morboso, o anche solamente in quello di decadimento, quando piaccia distinguere il morbo dal deperimento insensibile (1). Come si possono distinguere gli stimoli negli esterni e negli interni, prodotti dall' azione del vivente, così si possono distinguere i movimenti eccitativi della sensione prodotti dagli stimoli esterni primitivi, e quelli prodotti dagli stimoli secondi ed interni. Chiamo stimoli primitivi quelli che sono dati all' animale, e non prodotti da lui stesso; e stimoli secondi quelli che l' animale produce a sè stesso, in conseguenza delle alterne azioni di esso corso. Sì i movimenti primitivi come i movimenti secondi possono suddividersi in tre classi, considerandoli in relazione agli effetti che producono nei tre elementi, da cui l' animale risulta: 1) la continuità delle parti; 2) l' eccitamento; 3) l' individuazione dell' eccitamento. Di più i movimenti possono essere utili o dannosi a ciascuno di questi elementi (1), onde si avranno sei classi di movimenti eccitatori per ciascheduno dei due generi, cioè: 1) Movimenti utili alla continuità opportuna. 2) Movimenti dannosi alla continuità opportuna. 3) Movimenti utili all' eccitamento. 4) Movimenti dannosi all' eccitamento. 5) Movimenti utili all' individuazione. 6) Movimenti dannosi all' individuazione. E` chiaro che queste sei varietà si possono ritrovare tanto nei movimenti primitivi prodotti dagli stimoli esterni, quanto nei movimenti secondi prodotti dagli stimoli interni. Considerata la varietà degli stimoli e dei movimenti , veniamo alle sensioni , che si dividono anch' esse nei due generi delle primitive e delle seconde. Le primitive sono cagionate dai movimenti prodotti dagli stimoli primitivi, e costituiscono, in quanto sono naturali e tipiche, il sentimento fondamentale d' eccitazione; le seconde appartengono a tutti gli anelli successivi del corso medesimo. Come l' ente animale ha, quasi direi, due faccie corrispondenti, l' una soggettiva costituita dai sentimenti, l' altra extrasoggettiva costituita dai movimenti, così la classificazione dei movimenti si ripete nelle sensioni; anzi la classificazione delle sensioni e quella dei movimenti vanno di pari passo, e l' una può servire reciprocamente di fondamento all' altra. E` dunque necessario anche rispetto alle sensioni di osservare, in generale, esservi sensioni utili o dannose al sentimento di continuità, al sentimento eccitato, all' individuazione del sentimento. Questa classificazione si ravvisa non meno nel genere delle sensioni primitive, che nell' altro delle sensioni seconde. Le sensioni primitive danno la leva all' istinto sensuale, che per esse si mette in movimento. Richiamiamo brevemente le leggi, che noi abbiamo più sopra assegnate all' operare di questo istinto. Data una sensione, l' istinto sensuale tosto si pone in azione, e produce dei movimenti, che aiutano ad accrescere il piacere o a diminuire il dolore. L' istinto sensuale nell' uno e nell' altro caso viene in aiuto dell' istinto vitale, il quale produce il piacere, e lotta colla potenza nemica che glielo impedisce. La quantità della tendenza o dell' attività, colla quale insorge l' istinto sensuale, è pari all' intensità, e in generale alla quantità del sentimento eccitato. Il sentimento eccitato riesce più o meno vivo, secondo che è più o meno forte l' istinto vitale. Ma la maggiore o minore fortezza di questo dipende dalle cause accennate, e nell' uomo particolarmente dalle affezioni del principio intellettivo. Vedemmo che un gran timore razionale produce la paura, passione animale che debilita le forze dell' istinto vitale. Il grado di queste forze dipende ancora immediatamente dalle affezioni animali. La paura, la tristezza, ecc., in quanto sono affezioni animali, possono essere l' effetto di movimenti suscitati dall' azione dell' istinto sensuale; questo dunque di nuovo influisce immensamente a ingagliardire o debilitare l' istinto vitale, sicchè i due istinti influiscono l' uno sull' altro reciprocamente. Ma, qualunque sieno le cause che rendono l' istinto vitale più forte o più debole, certo è che in ragione della sua gagliardia anche le sensioni, che egli produce sotto gli stessi stimoli, sono più o meno forti, e quindi più o meno attive a sollevare l' istinto sensuale alla sua azione. Di qui nello stato di sanità i temperamenti flosci, snervati, linfatici, ed i temperamenti robusti. Di qui ancora la divisione delle malattie in acute e croniche ; quando le sensioni fondamentali sono ottuse e lenta tutta la sensitività, allora l' istinto sensuale, non potendo agire con attività nè a salvezza, nè a rovina della macchina, è inetto a produrre i movimenti salutari, che determinano le secrezioni e le escrezioni, le quali sarebbero necessarie o a dominare la potenza nemica, o ad espellerla: tale è la condizione del cronicismo. L' operazione dell' istinto sensuale suol cominciare con un senso d' inquietudine, perchè i movimenti che egli produce, non essendo compresi nel sentimento, nel primo istante egli non sa quali siano quelli che accrescono lo stato di piacere e diminuiscono lo stato di dolore, e però incerto tenta tutti gli aditi fino che si determina per una qualche direzione. Durante quest' incertezza, premendo da ogni lato l' attività sensuale, se ne ha quella inquietudine, che indica un bisogno di operare senza venirne tosto a capo. L' istinto sensuale conserva sempre, fra tutti gli stati a lui possibili, quello che gli è più piacevole. Quindi se l' operare gli costa tanta fatica o molestia, che il non operare gli riesca uno stato meno molesto, egli cessa da ogni sua operazione; dalla quale condizione procedono molte e importantissime conseguenze, alcune delle quali sono: Che quanto è maggiore l' impulso, cioè l' intensità della sensazione, tanto gli è più difficile il non operare, e l' operare costituisce per lui uno stato più piacevole o meno faticoso, meno molesto che lo starsi inerte, supponendo le altre circostanze eguali. Che l' intensità della sensazione venendo diminuita dall' abitudine passiva , questa diminuisce l' impeto dell' istinto sensuale, mentre l' abitudine attiva gli facilita il movimento, e così l' accresce. Che la forza, colla quale agisce l' istinto sensuale, non dipendendo dalla sola intensità della sensione, ma dal grado relativo di piacere che trova nell' operare, il suo sforzo di operare può diminuirsi per altre cagioni, cioè per tutte quelle che gli rendono meno piacevole e più faticoso l' agire; il che spiega in parte la capacità morbosa , ossia la tolleranza dei rimedi in dosi non tollerabili dall' animale in istato di sanità. Che la quantità del movimento , che l' istinto sensuale effettivamente produce, dipende in gran parte dall' organizzazione, la quale o vi mette ostacolo ed elide le sue forze, o si presta alla propagazione del moto, attesa la disposizione, e la forma mobile, e il grado di vita delle molecole. Che allorquando l' organizzazione sconcertata pone l' istinto sensuale in sì misera condizione, che egli non può fare movimento di sorta, senza che questo gli riesca più doloroso e molesto che il cessare intieramente da ogni azione, esso cessa di fatto dall' operare; il che è quanto dire l' animale muore d' una cotal morte quasi spontanea. L' organizzazione in questo caso non è così estesa che non si potesse prestare a ricevere il senso, ma l' istinto sensuale non si applica più a produrre in essa i movimenti eccitatori, necessari alla conservazione dell' organizzazione medesima, la quale ben tosto si guasta per modo da rendersi inetta alla vita eccitata, individuale. Si possono quindi concepire quattro principŒ di morte: 1 Il principio razionale, che colto da somma affezione sottrae tutte le forze all' istinto vitale, onde, quantunque nel primo istante non vi sia disorganizzazione, tuttavia questa succede tantosto. 2 La materia, che per violenza straniera si disorganizza, e così si sottrae all' azione dell' istinto vitale. 3 L' istinto sensuale che, prescegliendo di astenersi da ogni azione perchè gli riesce più molesta dell' inazione, cessa dal produrre quei movimenti, che sono necessari al mantenimento dell' organizzazione medesima. 4 L' istinto sensuale, che produce qualche movimento così precipitoso che rompe l' organizzazione. Allorquando mancano le cagioni per le quali l' istinto sensuale si rifiuta a produrre i movimenti, questi si aumentano o diminuiscono secondo che sono maggiori o minori le sensioni, e si aumentano o diminuiscono in tutta la macchina, o assai più in certe località secondo che le sensioni sono locali, e l' istinto sensuale trova che l' una o l' altra cosa più si confà a quello che egli cerca, lo stato piacevole. Dal che dipendono le infiammazioni locali ed altri fenomeni, su cui torneremo là dove prenderemo a considerare il terzo elemento del sentimento fondamentale, l' unità e l' armonia. Torniamo ora alla distinzione fra le sensioni primitive e le sensioni seconde . Noi abbiamo riposto il carattere delle sensioni primitive in questo, che l' istinto vitale, che le produce, non è ancora modificato dall' azione e dai prodotti dell' istinto sensuale; quindi quelle sensioni sono l' effetto dell' attività vitale nel suo stato nativo. E veramente l' istinto sensuale suscitato dalle sensioni primitive produce colla sua azione quasi delle nuove potenze, cioè l' abitudine , la ritentiva , l' affezione , il presentimento , ossia aspettazione animale, che è un' affezione risultante da più sentimenti successivi uniti in virtù della forza sintetica, come abbiamo dichiarato nell' Antropologia ; le quali tutte sono altrettante attività acquisite, e propriamente modificazioni e accrescimenti delle facoltà originali dell' animale. Le sensioni primitive , adunque, sono quelle che vengono prodotte da movimenti eccitatori primitivi , cioè da movimenti non prodotti da sensioni anteriori, ma da stimoli esterni e dai connaturali stimoli interni. Altro carattere delle sensioni primitive si è l' esser quelle singolari : l' effetto di più sensioni primitive contemporanee, che si fondono in una sola affezione , è già un prodotto delle sensioni primitive, e non primitivo. Nè le sensioni primitive si devono confondere colle mutazioni, che possono nascere nel sentimento fondamentale di continuità; chè quelle appartengono al sentimento eccitato. Il sentimento fondamentale di continuità può modificarsi, o perchè s' accostino nuove molecole all' esteso sentito, o perchè se ne distacchino. Nell' accostarsi di nuove molecole possono concepirsi i seguenti casi: Che le dette molecole abbiano già l' organizzazione simile a quella del corpo vivente, a cui s' uniscono. Questo sarebbe il caso della trasfusione del sangue da un individuo in un altro, della ristorazione del naso perduto, o del ricoprimento che si fa nelle amputazioni del moncone cogli integumenti, del rimarginamento delle ferite, ecc.. In tutti questi accostamenti di molecole si deve prescindere dal considerare le sensioni dolorose o piacevoli concomitanti, prodotte dai movimenti eccitatori, e si deve solamente considerare l' operazione dell' istinto vitale, che continua il sentimento individuato alle nuove particelle; questa operazione sola è quella che appartiene alla classe d' alterazione primitiva del sentimento fondamentale di continuità, di cui noi parliamo. L' operazione, che rende continuo il sentimento alle molecole accostate e già ben disposte, si concepisce come spontanea all' istinto vitale. Ma poichè l' accostamento non può esser fatto sempre in modo perfetto (chè è impossibile, a ragion d' esempio, che nel rimettimento del naso risponda la parte, che si attacca, a quella a cui viene attaccata, così appunto da combaciare vaso a vaso, filamento a filamento, ecc.), quindi interviene per accidente un lavoro complicato dell' istinto vitale, che compisce ciò che manca al perfetto combaciamento e continuità delle parti. Supposto questo caso come possibile, l' aggiunta delle molecole egualmente organizzate sarà utile o dannosa al corso zoetico, secondo che quelle molecole sono soverchie al bisogno della macchina, o riparatrici di molecole mancanti. Il soverchio, poniamo la soverchia abbondanza di sangue, altererebbe il corso zoetico in più modi; ma queste alterazioni non riguardano la continuità, ma l' eccitamento impedito o promosso con eccesso, e l' unità animale. Che le molecole sieno organizzate a sufficienza per fare che l' istinto vitale vi aggiunga colla sua attività quell' ultima modificazione, che è loro necessaria ad entrare nella vita dell' individuo; come accade di tutte le materie alimentari, che si digeriscono. La funzione della nutrizione è un corso di azioni successive dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, che fornisce un elemento al corso zoetico. Quando gli organi sono in istato normale e gli alimenti adattati, tutte queste serie di azioni dei due istinti sono naturali e piacevoli. Ma se vi è difetto negli organi, o nella qualità o nella quantità della materia, se vi sono degli stimoli inopportuni , ritrosi a lasciarsi dominare dall' istinto vitale, onde occasionino la lotta del dolore ed i conseguenti movimenti, ecc., tutto ciò altera il sentimento fondamentale d' eccitamento. Nutrito poi il corpo, è cangiato il sentimento fondamentale di continuità . Il qual cangiamento si riduce all' essersi aggiunte al continuo vivente alcune molecole. La quale aggiunta è di nuovo utile o dannosa al corso zoetico, secondochè le molecole aggiunte o sono riparatrici di quelle che contribuivano alla perfezione naturale della macchina, o riescono soprabbondanti rispettivamente alla loro ripartizione, a ragion d' esempio, se un genere di fluido ecceda in quantità, o un solido si sviluppi soverchiamente in proporzione degli altri, le quali due cagioni sogliono allentare l' organizzazione, e quindi l' ardire dei movimenti zoetici. Medesimamente, se la nutrizione riesce imperfetta, le secrezioni non ricevono pienamente la qualità che le rende atte alla vita. I due precedenti effetti sconcertano l' eccitamento e l' unità animale. Il terzo solo è un male inerente all' elemento della continuità, perchè le molecole inserite nel corpo non vi sono a pieno dominate dall' istinto vitale, e così divengono stimoli inopportuni . Che si tratti d' una materia solida, non convertibile in fluido dalle forze vitali; nel qual caso non si assimila al corpo vivente. Questa suol alterare il corso zoetico, pel movimento che produce nel corpo col suo impulso meccanico. Che si tratti d' una materia, le cui forze chimiche agiscano sul corpo vivente con potenza maggiore di quella del principio vitale, e tendano a disorganizzarlo, sottraendolo all' influenza di questo. Più facilmente che sui solidi si vede questo avvenire sui fluidi del corpo, ed è il caso dei veleni che scompongono il sangue, ecc. (1). Questo agente sulle forze materiali del corpo vivo, il quale tende a dare alle molecole un' organizzazione, una posizione, un' attitudine diversa da quella che esige l' animale, e che si affatica di dar loro l' istinto vitale, ha per effetto la distruzione dell' organizzazione vitale; non può essere impedito dall' addurre la disorganizzazione dal solo istinto vitale , ma può esser vinto talora dall' istinto sensuale , che viene in soccorso del vitale. E questo è il caso delle febbri, che nascono dai miasmi, del vaiuolo, e di tutte le malattie, che accusano una materia morbosa, introdottasi comecchè sia nel corpo umano; la qual materia dopo un certo tratto di tempo cessa dall' esercitarvi un' azione nocevole, sia perchè ella venga dalle stesse azioni concitate dell' istinto sensuale escreta dal corpo, o negli esantemi, o in altra guisa, sia perchè ella venga dalle stesse azioni concitate elaborata, ricomposta, e resa atta a ricevere il dominio della vita. Ella può essere ancora neutralizzata dall' azione di altra materia, introdotta insieme con essa nel corpo, come accade nell' uso dei controveleni, per esempio, dell' ammoniaca contro il veleno della vipera. Nei quali casi il corso zoetico riceve grandi alterazioni; ma durante il combattimento non è l' alterazione portata al sentimento fondamentale di continuità quella che lo muta così, ma quei cangiamenti del corso zoetico avvengono per l' alterazione che riceve il sentimento fondamentale d' eccitamento, e per le sensioni parziali. Se poi si considera il caso in cui le molecole del corpo vivente si dividano da lui, questo può farsi: 1 per le varie escrezioni; 2 pel violento distacco d' una parte. E l' uno e l' altro caso modificano il corso zoetico. Molte escrezioni sono naturali, ed effetto inevitabile dei movimenti appartenenti allo stesso corso zoetico, nè sono sensioni dolorose, scemano solamente il sentimento fondamentale di continuità. Ma quando non sieno riparate, il sentimento fondamentale di continuità non può scemare, senza che scemi anche quello d' eccitamento, poichè le molecole perdute lasciano nel corpo una diminuzione di stimoli, e se la perdita è eccessiva, anche una alterazione nell' organismo dei solidi, che li debilita. I fluidi, se soverchiamente diminuiscono, non possono più stimolare il solido colla stessa efficacia ai movimenti, coi quali si compiono le funzioni. I solidi, oltre non essere più sufficientemente stimolati ed eccitati, deperiscono per mancanza di nutrizione, impiccioliscono, si disseccano; si altera in una parola quell' organismo, che è necessario a compiere perfettamente le funzioni medesime. Quindi niente vieta che tutte le escrezioni e le sottrazioni del corpo si dicano controstimolanti, purchè di questi controstimolanti niuno si faccia un concetto fantastico, quasi d' una potenza positiva opposta a quella dello stimolo. Anche la perdita di un membro, diminuendo il sentimento fondamentale di continuità, modifica il corso zoetico; ma questa modificazione, assai più che a diminuzione dell' esteso sentito, deve attribuirsi all' imperfezione rimasta nell' organismo, a danno del sentimento fondamentale d' eccitamento. Premesse le quali cose, veniamo a considerare la varietà delle sensioni primitive, il cui complesso, nella sua parte costante e tipica, costituisce, come abbiamo detto, il sentimento fondamentale d' eccitamento. Queste sensioni variano: Per la varia azione del principio intellettivo, che opera sulla parte animale per via d' affetto e di volontà. - E` l' affetto principalmente quello che altera il sentimento fondamentale d' eccitamento. Tutti gli affetti razionali, che hanno per oggetto il bene, accrescono il sentimento fondamentale d' eccitamento, e quelli che hanno per oggetto il male, lo diminuiscono. Chi volesse entrare nella ricerca più particolareggiata di questa influenza degli affetti razionali sull' animalità, dovrebbe prima determinare la diversa indole d' eccitamento, che produce l' affetto razionale, che abbia per oggetto un bene o un male fisico; poi quell' affetto, che abbia per oggetto un bene o un male intellettuale (scienza); e finalmente quello, che abbia per oggetto un bene od un male morale. Dopo questa differenza categorica converrebbe distinguere le diverse maniere di affetti razionali, che possono aver luogo circa lo stesso oggetto categorico, e trovare quale maniera d' eccitamento venga prodotta da ciascheduna. Di più si dovrebbero classificare gli oggetti buoni o malvagi contenuti in ciascuna categoria, riconoscere e caratterizzare la proprietà eccitante e deprimente di ciascuna classe. Ma noi, lasciando altrui queste ricerche, osserveremo solamente che gli affetti razionali riguardanti il bene si possono chiamare stimolanti , e gli affetti razionali riguardanti il male si possono chiamare controstimolanti , se pur si vuole lasciare a questa parola il significato d' una cagione, atta a diminuire direttamente l' attività del principio vitale. Per la varia organizzazione. - Dipendendo l' eccitamento del sentimento fondamentale dai movimenti abituali intestini del corpo, la diversa direzione, celerità, moltitudine di movimenti, ecc., che loro presta l' organizzazione, influisce a cangiare le sensioni corrispondenti, e con esse tutto il corso zoetico. A ragion d' esempio, i nutrienti cangiano il corso zoetico anche modificando l' organizzazione. Si debbono considerare in due tempi: durante l' opera dell' alimentazione, e allora essi sono stimoli esterni, opportuni, naturali, piacevoli; e nel tempo in cui sono già assimilati al corpo umano e avvivati, ed allora parte cangiati in fluido sono diventati stimoli interni, parte divenuti solidi, costituiscono quella parte di organismo, su cui opera principalmente lo stimolo. Per la varia qualità e quantità degli stimoli. - Accrescendosi gli stimoli interiori ed esteriori, il sistema delle sensioni e dei movimenti conseguenti deve alterarsi. Dico deve alterarsi, non dico accrescersi. Perchè, quantunque sia vero in generale che col crescere dello stimolo fino ad un certo grado, crescono i movimenti e le sensioni, tuttavia, oltrepassato quel grado, lo stimolo soverchio intorpidisce e istupidisce la parte che resta inattiva; nuova ragione d' attendere a studiare l' opportunità dello stimolo, non la mera quantità. E io credo che sia per questo che così spesso i sintomi ingannano quel medico, che l' interpreta con soverchia confidenza, o isolatamente, o giusta le povere regole del sistema della quantità. Quante volte la prostrazione delle forze e l' abbassamento dei polsi sembrano indicar debolezza, e forse è segno di soverchio stimolo, che impedisce l' azione vitale, o la restringe al centro! Il quale effetto della stupidità della fibra, prodotta da soverchio stimolo, parmi un fatto dei più importanti per l' arte medica, se si considerano gli effetti, che nel corso zoetico possono conseguitarne. Poichè, se i movimenti accelerati nell' interno del corpo umano producono maggiori stimoli, e se questi movimenti rallentano, quando gli organi istupiditi da stimolo soverchio sono inetti ad una maggior azione, avremmo contemporaneamente due cause operanti in senso opposto: avremmo un eccesso di stimolo, che intorpidisce gli organi, e in conseguenza di questo torpore una diminuzione di stimolo riprodotto, quasi che la natura cerchi così di restituire l' equilibrio. Rimarrà dunque a vedere se nella somma degli stimoli accresciuti e diminuiti vi sia aumento complessivo o diminuzione, cioè se gli stimoli interni possano essere diminuiti dall' inazione degli organi più che non sieno accresciuti gli stimoli esterni, il cui eccesso ha prodotto quel torpore. In questo caso l' effetto totale di sostanze realmente stimolanti potrebbe riuscire ad una diminuzione di stimolo; osservazione che dimostra la difficoltà di determinare quale sia la vera natura ed efficacia dei rimedi. Vedo, a ragion d' esempio, che la digitale diminuisce l' azione del cuore e dei vasi, rallenta la circolazione, dispone al sonno; ma chi mi sa dire se l' effetto di questo vegetale sia prodotto dall' esser egli veramente, come dicono, un controstimolante, e non piuttosto uno stimolante eccessivo? Se si considera che quando il ventricolo è irritato, lo stesso rimedio produce effetti contrari, accelera il polso, aumenta le secrezioni, cagiona vertigini o gravezza di capo, non si potrebbe dubitare che, trovando egli maggior forza vitale che gli resiste, e quindi non potendo più produrre l' effetto dello stupore, manifesti allora la sua vera proprietà stimolante? Ed anche se, data ad alte dosi, la digitale mostra di essere stimolante, è forse che allora ella stessa produca quell' esaltamento, quell' irritazione che resiste, e quindi esclude lo stupore? Checchessia di questi dubbi, pare però certo il fatto generale, che un forte stimolo istupidisce, scema i movimenti vitali, e questi movimenti scemati scemano alla lor volta la riproduzione o l' azione degli stimoli interni; e però rimarrà sempre argomento importante alla meditazione dei dotti medici quel calcolo, che accennavamo, sull' effetto ultimo e complessivo di quelle due serie di stimoli eccedenti e declinanti; rimarrà degno nei casi speciali d' investigarsi il rapporto, secondo cui crescendo la prima serie, può diminuire la seconda; nè sarà una cosa assurda il concepire la possibilità, che con un rimedio stimolante di sua natura si ottenga il risultamento d' una diminuzione effettiva di stimolo; e tutto questo dimostrerà che il vedersi diminuito l' eccitamento in un infermo in conseguenza di un rimedio, non è ancora infallibile prova a conchiudere che quel rimedio sia di natura piuttosto controstimolante o deprimente, che stimolante, come pur facilmente si conchiude da chi non riflette alla serie complicata di cause e di effetti, che nel corso zoetico s' intrecciano e reciprocamente si modificano (1). Dalle quali cose si raccoglie: Che il sentimento fondamentale d' eccitamento può essere normale e piacevole, anormale e doloroso. Che lo stesso sentimento, normale ovvero anormale, può essere maggiore o minore, secondochè l' eccitazione è maggiore o minore. Che non è la maggiore o minore eccitazione quella che pone l' animale nello stato di salute o di malattia; ma questi due stati sono costituiti dalla normalità o anormalità dell' eccitamento. Che anzi quanto è maggiore l' eccitamento, purchè normale, tanto è maggiore la prosperità dell' animale. Che la misura massima dell' eccitamento dipende nell' uomo da tre cagioni; cioè dallo stato dell' animo, ossia dall' azione del principio razionale ; dall' organizzazione normale o anormale, più sviluppata o meno, più robusta o meno robusta; e dalla quantità maggiore o minore degli stimoli esterni e degli stimoli interni . Che ogni modificazione che nasca in alcuna di queste tre cause, ella cangia totalmente il corso zoetico in bene od in male. Se l' eccitamento oltrepassa la sua misura massima, egli diventa inopportuno , e la misura massima è relativa alle tre condizioni accennate. Tuttavia, che la quantità dell' eccitamento non possa costituire il carattere della malattia, vedesi anche da questo, che negli uomini più robusti le malattie diventano più violente, e nei deboli, di temperamento floscio e linfatico, prendono un carattere più mite e benigno. E tuttavia chi dirà che lo stato di robustezza non sia migliore dello stato di debolezza? Ma essendo il primo di questi due stati formato da azioni vitali più forti ed eccitate, se l' eccitamento esce dalla sua forma normale, il corso zoetico, che ritiene lo stesso impeto, precipita a maggiore rovina. Quindi la robustezza e l' eccitamento maggiore, cosa pregevole in istato di sanità, diventa funesto in quello di malattia, a segno che i medici talora lo confondono colla malattia stessa. Ed è facile il confonderlo, perchè quel corso normale, che è più attivo, produce anche stimoli maggiori; quindi nelle malattie, da cui vengono presi i robusti, vi è quasi sempre anche eccesso d' eccitamento. D' altra parte non isbagliano in tal caso i medici, se tentano di sottrarre alla macchina le sue stesse forze naturali e convenienti, acciocchè traviate, siccome sono, non servano ad accrescere la malattia. Il Rasori riconosce nelle febbri epidemiche, nel vaiuolo, ecc., una materia morbosa irritante, ricevuta nel corpo umano, e consigliando la cura deprimente, la vuol moderata, perchè, dice, [...OMISSIS...] ; parole che non so, a dir vero, quanto sieno coerenti al sistema dell' illustre autore, che, in tutte le malattie per soverchio eccitamento, concepisce la cura sanatrice siccome una semplice diminuzione d' eccitamento soverchio, e non ammette differenza essenziale fra i diversi controstimolanti; di che dovrebbe venirne che la stessa presenza della materia morbosa stimolante si potesse rendere innocua direttamente, con una dose di controstimolanti, che ne pareggiasse in senso contrario l' effetto. Ma il fatto si è che la cura depressiva, che si scorge così utile nelle cure di tali morbi, altro non sembra ottenere, e lo si confessa, che una minor veemenza nelle operazioni del corso zoetico; veemenza, in cui non consiste l' essenza del morbo, la quale sì bene consiste nell' anormalità o disordine degli alterni movimenti, che diviene più rovinoso partecipando di quella naturale gagliardia, con cui si compiono i movimenti e le sensioni vitali. Dalle sensioni passiamo ora a considerare la stessa facoltà di sentire, e notiamone le varietà in relazione al corso zoetico, che ne rimane determinato. Il sentimento fondamentale è un atto, il primo atto del sentimento; sotto questo aspetto egli non è una semplice facoltà . Se si volesse concepire una facoltà anteriore al sentimento fondamentale, la facoltà di questo sentimento altro non sarebbe che un ente di ragione, una finzione della mente nostra, perchè dinnanzi a un primo atto non esiste nulla nel soggetto, neppure una facoltà presa in senso attivo; dinnanzi al sentimento fondamentale non esiste neppure l' animale. Che se per facoltà del sentimento fondamentale s' intendesse l' attività che lo produce, l' istinto vitale in tal caso non avrebbe una facoltà anteriore a lui, ma in lui stesso si considererebbe la forza che lo costituisce, la sostanza dell' anima. Per facoltà di sentire nulla di questo noi intendiamo, ma soltanto la potenza attiva di sentire in altro modo da quello del sentimento fondamentale. Per sensione intendiamo una specie di modificazione del sentimento fondamentale, non ogni specie. Le modificazioni del sentimento di continuità non sono sensioni; l' uomo, per quanta attenzione vi ponga, difficilmente giunge ad osservarle, a formarsene coscienza. Neppure l' aumento o la diminuzione della forza dell' istinto vitale è sensione, nè si raggiunge dal pensiero dell' uomo, che ne rimane inconsapevole. Le sensioni appartengono insomma al sentimento eccitato ; sono le modificazioni di questo (1). La sensitività prende diverse forme speciali; ammette diversi gradi di ciascuna forma, e tutto ciò varia la condizione dell' animale, l' andamento del corso zoetico. Da che dunque dipendono le varie forme specifiche e i vari gradi della sensitività animale? Volendo trovare di queste mirabili varietà di specie e di grado la ragione ultima, che è veramente formale , si dovrebbe ricorrere col pensiero alla natura intima del sentimento fondamentale, modificazione del quale è la sensione. Poichè la ragione delle modificazioni, di cui è suscettibile un soggetto, non può essere che nella natura di lui medesimo; chè modificazioni di un soggetto vuol dire il soggetto stesso esistente in altri modi, e conservante in tutti la propria identità. A chi domanda ulteriormente perchè un soggetto possa esistere in diversi modi, altra ragione non si può dare se non che tale è la sua natura. Se noi conoscessimo positivamente la natura di un soggetto, potremmo conoscere altresì a priori tutte le modificazioni di cui è suscettivo, cioè dedurle dal solo concetto della sua natura. Ma la natura del sentimento fondamentale non è a noi nota in sè stessa, come si scorge considerando che il sentimento fondamentale di continuità sfugge alla nostra attenzione intellettiva. Ora l' eccitamento non è che un atto del sentimento di continuità. Sottratto dunque alla nostra coscienza il sentimento fondamentale di continuità, si rimane incognita anche la natura del sentimento d' eccitazione, e noi non possiamo che dedurre i suoi modi, forme e gradi cioè, a posteriori, dall' esperienza delle sensioni, che sono atte a cadere nella nostra coscienza. Ma che tutte quelle diverse forme di sentire dipendano dall' intima natura del principio sensitivo, che è la sostanza dell' anima, noi siamo costretti ad affermarlo anche dalla meditazione dei fatti. Poichè è un fatto che lo stesso identico sentimento ha più modi di essere; è un altro fatto che questi modi si cangiano, senza che egli perda la sua identità; è un terzo fatto che ciò che si chiama sensione non è che un modo del sentimento; un quarto fatto che nel sentire vi è un elemento di passività, della quale il soggetto è il principio sensitivo; un quinto fatto che vi è pure un elemento di attività, di cui il soggetto è pure lo stesso principio sensitivo. Dunque le varie forme di sentire dipendono dalla speciale natura della passività e della attività di esso principio. Ora, un principio contiene in sè virtualmente tutti gli atti e tutti i modi, di cui egli è suscettivo; dunque nel principio sensitivo si contengono virtualmente tutte le diverse forme di sensioni, le quali non sono create di nuovo quando cadono nella nostra coscienza, ma si estrinsecano, da implicite diventano esplicite; il sentimento non cangia l' essere, ma il modo dell' essere. Rimane a vedere quali sieno le occasioni o le condizioni, date le quali, la sensione si esplica. Il fatto, che dobbiamo aver presente, ridotto ad una formola generale, è questo: « il sentimento si atteggia nel modo più piacevole che gli sia possibile ». Ma che cosa è mai che mette un limite alla possibilità di atteggiarsi in varie guise? Dobbiamo sempre rispondere come per innanzi, la propria natura del sentimento fondamentale. A priori, non abbiamo a dire di più; solo ci resta il poter ricorrere all' esperienza per conoscere in qualche modo questo limite, per sapere altresì quale sia, date certe condizioni, l' atteggiamento più piacevole che può prendere il sentimento. E posciachè l' esperienza ci attesta che la natura del principio sensitivo racchiude un elemento di passività in rispetto ad un ente extrasoggettivo, s' intende che questo ente extrasoggettivo e la sua maniera di operare deve essere una delle condizioni, da cui dipende lo stato più piacevole dell' animale, di modo che il sentimento deve trovare più piacevole l' atteggiarsi in un modo anzichè in un altro, quando l' ente extrasoggettivo opera su di lui piuttosto in un modo che in un altro. Quindi niente ripugna che le diverse forme della sensitività dipendano dalla diversa organizzazione degli organi, di maniera che la ragione perchè l' occhio è suscettivo delle sensioni colorate, l' orecchio delle sensioni sonore, le nari delle sensioni odorose, il gusto delle saporose, lo stomaco, gli intestini, ecc., di sensioni di lor propria forma, altra non sia che la diversa azione del corpo sul principio sensitivo, dipendente dalla diversa organizzazione dell' organo stesso, benchè il principio sensitivo abbia il medesimo atto, quanto è da sè sotto ogni organizzazione. Questo può essere confermato anche coll' osservazione che fanno i fisiologi, che ogni nervo stimolato non dà altra sensione che la sua propria: così il nervo olfattorio non dà luogo ad altra sensione che a quella degli odori, l' ottico non ad altra che a quella dei colori, ecc.; quindi se il principio senziente è eccitato dai movimenti convenienti del nervo olfattorio, egli sente odori grati; se poi quei movimenti attentano a turbare l' eccitamento naturale, nasce la lotta che si manifesta cogli odori spiacevoli (1). Quanto al senso ottico, lo spiacevole suo proprio sta nell' oscuramento della vista, o nell' essere offesa da soverchia luce. Non è dunque a dubitarsi che, trovandosi dovecchessia i nervi opportuni, lo spirito dovecchessia sentirebbe; che egli potrebbe vedere col piede, se nel piede vi fosse un nervo organato siccome l' ottico, o udire colla mano, se nella mano vi fosse il nervo acustico, ecc.; che potrebbe vedere anche in cento parti del corpo, come si finse Argo, se cento occhi fossero nel corpo umano, e così si dica d' ogni altra sensione, la quale è in un luogo piuttosto che in un altro, in un solo piuttosto che in molti, non per alcuna diversità della sensitività o facoltà del principio senziente, ma per la diversità dell' organizzazione, che obbliga la sensitività a determinarsi in un modo piuttosto che in un altro, riuscendole più piacevole così in quelle circostanze. Mancando poi un organo a quella guisa costrutto, cessa la forma relativa di sensione (1). Il Morgagni, il Fatner, il Loder e il Valentin raccontano che in uomini, i quali non avevano mai sentito odore, trovarono mancare i nervi olfattori. Ora poi è certo che ogni forma speciale della sensitività ha virtù di mutare la serie delle azioni vitali, di cui si compone il corso zoetico, rispondendo ad ogni specie di sensione una specie determinata di movimenti promossi dall' istinto sensuale. Passando ora noi ai diversi gradi della sensitività, la ragione di questa diversità si riduce: 1 ad una particolare disposizione del principio senziente; 2 ad una particolare disposizione della materia animata, che lo determina ad un atteggiamento piuttosto che ad un altro. E quanto a questa particolare disposizione della materia, l' esperienza insegna che in certi corpi vi è una tessitura più fina, e delle membra più sottilmente organate; e gli individui, le cui carni e i cui organi sono più finamente tessuti, dimostrano possedere una sensitività più delicata, più pronta, più vivace, più potente. Quanto poi all' azione maggiore o minore del principio sensitivo, questo opera con più o meno di forza, per le diverse cagioni che abbiamo accennate. L' istinto vitale s' avvilisce, quando l' animo è occupato dal dolore, s' incoraggia, quando l' animo è diffuso nella gioia. Se il principio intellettuale è rapito nella contemplazione d' un oggetto, l' animalità smette una parte della sua operosità, perchè, essendo unico il soggetto e d' una quantità limitata di forza, non può usarne una porzione considerevole nelle operazioni intellettive, senza sottrarla alle operazioni animali. Ond' è, che se l' uomo a ventre pieno si applica a qualche serio studio, gli si rompe la digestione, e indi tutti gli incomodi dei letterati. Ma a rendere maggiore o minore la sensitività contribuisce massimamente l' istinto sensuale, che ha sì grande influenza sul vitale, dal quale reciprocamente riceve influenza. La sensitività è resa maggiore dall' istinto sensuale: 1 per la forza dell' abitudine attiva; 2 per la ritentiva dei piaceri goduti, nella quale sono accumulati i movimenti piacevoli altra volta esperimentati; e perciò questa ritentiva ha più di forza a muovere l' istinto sensuale che non abbia un piacere nuovo attuale; dove si vede perchè il piacere immaginato spesso eserciti una maggior forza sull' uomo che il piacere reale. Dallo stesso principio si trae la spiegazione di molti fenomeni edonici. Per quale ragione la maggiore intensità del piacere aspettato si prova nel momento d' incontrarlo, cioè in quel momento in cui nasce la mutazione, non quando ella è già nata? In gran parte da questo, che il piacere sta unito col movimento, e però nell' atto del movimento il piacere è più che mai attuato; al qual movimento succede gradatamente la quiete. Ma ciò non basta a spiegare quella intensità di diletto maggiore, che giace nel primo atto, in cui si entra in possesso del piacere desiderato. Essa dipende dall' aspettazione immaginaria, che nasce dalla ritentiva di tanti momenti piacevoli altre volte provati, la quale mette l' istinto sensuale in uno straordinario orgasmo, in una penosa inquietudine, in una impazienza che gli si ripeta quel piacere, che nell' apprensiva è divenuto il cumulo di tutti i piaceri anteriori. Onde nel primo affronto del piacere l' istinto sensuale, già mosso violentemente dall' accennata ritentiva, trova il diletto maggiore, non solamente per la maggior sua avidità, ma per quella soddisfazione altresì che gli succede, ed è il riposo della sua fremente cupidigia; riposo ottenuto in quell' istante, in cui vede a sè libero ed aperto il piacere concupito. Onde, placata l' ira di quell' appetito colla soddisfazione, rimane il solo piacere reale assai minore di quel che pareva alle brame, e perciò meno atto a muovere l' istinto vitale. Quindi ancora si spiega quell' altro fenomeno, che così acconciamente viene espresso nei sacri libri: [...OMISSIS...] ; come pure quello indicato dal volgare proverbio, che « la privazione genera l' appetito ». Ciò che è proibito o è difficile a conseguirsi, od è lungamente desiderato, rende l' istinto sensuale irrequieto, più attivo, e quasi in continue vibrazioni. E ancora il piacere, di cui l' occasione si porge inaspettata ed è preso alla sfuggiasca, perchè stringe il tempo, e pel timore che sfugga il prezioso istante, riesce più vivo, intenso, con un carattere nuovo e suo proprio; chè l' istinto sensuale più inquieto e sollecito provoca nelle fibre nervose guizzi e movimenti più celeri e violenti, dalla maggiore rapidità dei quali si deve soprattutto desumere l' intensità della sensazione. Così si osserva che l' uomo rotto ai piaceri tiene quasi inarcato abitualmente l' istinto sensuale in aspettazione della loro ripetizione, e gli stessi nervi protesi inverso a tutti gli stimoli, e quasi guizzanti e oscillanti, cioè preludenti e inizianti le sensazioni desiderate ed aspettate. Ed è tuttavia vero che la condizione fisica di cotesti nervi li dimostra più ottusi che non sieno nell' uomo sobrio, sì perchè i nervi sempre tesi non sono suscettivi di grandi movimenti, i quali importano successione di rallentamento e di tensione, e sì perchè manca ognor più la novità del piacere. Ma se diminuisce il piacere reale nello schiavo delle passioni voluttuose, ne aumenta l' avidità angosciosa dell' animo. La quale non ha fine (2), e dà senza posa la leva all' istinto sensuale; ma rimane sempre vero che lo stato dell' istinto sensuale nel voluttuoso ha maggiore mobilità e attività, che rende più attivo e pronto l' istinto vitale a produrre le piacevoli sensioni. Per la riproduzione, che l' istinto sensuale fa di abbondanti stimoli interni; di che è ragione la maggiore intensità delle sensioni, e le stesse cause che rendono più potente l' istinto vitale. Quindi: Quanto è maggiore il sentimento fondamentale d' eccitazione, tanto è maggiore, ceteris paribus , la sensitività. Dico ceteris paribus, perchè potrebbe anche esservi una resistenza maggiore agli stimoli esterni, posta dalla fibra compatta e robusta; ma se lo stimolo vince questa resistenza, deve nascerne una sensione maggiore di quella prodotta in un corpo di fibra più molle da uno stimolo proporzionatamente eguale. Se in qualche parte determinata del corpo l' istinto sensuale accumula quantità maggiore di stimoli, o prende una propensione ad accumularli, cresce la sensitività a quel luogo relativa (1). Così si può spiegare come coll' uso frequente i nostri sensorii si rendono più acuti e sottili, perchè l' incisore di gemme, a cagion d' esempio, affini la vista coll' adoperarla. Pare che la facoltà sensoria dell' occhio s' accresca non solo per la protensione delle estremità nervose, che vanno a cercare lo stimolo e gli presentano le loro papille più nude, ma ben anche pel maggiore afflusso del sangue, che stimolando avviva e rende più sensoria la parte. Infatti se l' occhio s' adopera oltre a un giusto termine, ne nasce l' infiammazione; il che dimostra il concorso degli umori. Del qual concorso è nuova prova questo, che le parti del corpo più si adoperano, e più anche s' ingrossano e si sviluppano, ivi concorrendo maggior nutrimento. Che se gli stimoli, che l' istinto sensuale adduce alle speciali parti del corpo umano, pel loro impeto, pel loro eccesso e per l' alterazione della loro crasi, impigliano l' organizzazione e tendono a distruggerla, allora nasce quella lotta, che rende la parte dolente. Il sentimento fondamentale della parte così afflitta non suol essere d' un dolore vivo, se l' incaglio del processo organico e gli intestini disordinati movimenti non oltrepassano un certo termine; e tuttavia la sensitività dolorosa è grande, bastando picciol tocco a cagionare vivo dolore. E questo è il caso dell' infiammazione, che aumenta la parte di volume, il che dimostra afflusso di umori; l' arrossa, il che dimostra afflusso di sangue; la rende dolente al tatto, se l' infiammazione è poca, dolente anche senza esser tocca, se l' infiammazione è molta; il che dimostra la lotta, che dicevamo, fra l' istinto vitale e la materia ivi mal disposta al suo uopo. E che la materia ivi sia mal disposta, apparisce dalla tendenza di ogni infiammazione a disorganizzare la parte infiammata. Anche l' ingorgo dei vasellini e il rallentamento del moto degli umori prova il medesimo. Il sangue sembra cacciato negli ultimi capillari venosi dal movimento maggiore del cuore e delle arterie; e i capillari venosi, che non lo possono smaltire, debbono venire così sfiancati fino a stravasarne o rompersi (1); i sottilissimi nervicciuoli debbono essere da ogni parte impulsi ed irritati; il sangue stesso accalorito dall' orgasmo delle arterie, e quasi stagnante, tende a disorganizzarsi, cioè a lasciar separare da sè la fibrina, che inclina a consolidarsi ed organarsi da sè in nuovi tessuti ed organi, mentre il grumo ed il siero inclinano ad alterarsi in pus. Brachet racconta che nel 1.11, tornandosi all' ospizio di Bicˆtre, l' infermiere della sala di chirurgia venne a lui, facendogli ammirare l' immenso accrescimento di vista che s' era trovato quella mattina; vedeva i più piccoli oggetti a smisurata distanza, nè si lagnava d' alcun male. Cinque ore appresso gli si manifestò un leggiero dolore di capo; dopo poche ore lo colse un' apoplessia fulminante, di cui morì la notte; un deposito di materie gli fu trovato nel talamo ottico destro, il quale aveva infiammata e irritata la parte dell' encefalo, che è sede della visione. Questo grande aumento di sensitività visiva provenne dunque dagli stimoli accresciuti sull' organo della visione, e probabilmente altresì dalla mobilità maggiore, che ne acquistò un tale organo. Un sacerdote venne da me, narrandomi che gli sembrava d' esser divenuto un altro uomo per la perspicacia della mente acquistata, la prontezza del pensiero, i sensi stessi resi in insolito modo più acuti, e chiamavasi beato di quel suo nuovo stato. Io lo consigliai subito a farsi fare qualche generosa emissione di sangue; egli differì alcuni giorni, e cadde in pazzia. L' istinto sensuale cresce la sensitività ancora, rendendo più mobile la fibra sensoria. Onde questa mobilità maggiore? Certo, un organismo più perfetto, una sottigliezza maggiore di tessuti, ecc., debbono renderla più mobile. Ma le fibre egualmente organizzate devono rendersi più mobili altresì e pronte a dare la sensazione, soggiacendo, come dicevamo, ad una copia maggiore di stimoli interni e continui; a quella guisa che un corpo quinci e quindi egualmente premuto si muove più facilmente ad ogni aumento di pressione da uno dei lati, o come si muove una bilancia, tostochè un peso anche minimo le tolga il perfetto equilibrio. Oltracciò l' istinto animale si sta più avvisato, più all' erta, più pronto all' operare, quando si sente scosso da tutte le parti, o in bene o in male; allora le fibre conservano quel continuo oscillamento, che equivale ad una quantità di sensioni incipienti, tutte in tendenza di spiegarsi e sfogarsi. La qual cagione, unita alla precedente, sembra che possa rendere buona ragione di molti fenomeni, procedenti dai diversi gradi e dalle variazioni della sensitività, sì rispetto alle sensioni piacevoli che alle spiacevoli; a ragion d' esempio, sembra rendere ragione del perchè varii così la sensitività speciale del gusto, divenendo ora più acuto, ora più ottuso nelle diverse affezioni infiammatorie dello stomaco. Quando l' affezione agisce sui nervi pneumogastrici, come pure quando agisce sul sistema nervo7ganglionare, l' organo del gusto riceve una nuova condizione, sia perchè in qualche parte si altera la sua intima organizzazione, sia perchè gli vengono applicati nuovi stimoli interni con disordine, sia perchè è reso più mobile ed oscillante. Le modificazioni, a cui soggiace l' organo del gusto dalle affezioni uterine, sono pure ammirabili, o che si considerino i capricciosi gusti delle fanciulle che si avvicinano all' epoca della pubertà, o di quelle il cui scolo periodico è difficile, o che soffrono altri incomodi, o che si considerino quelli delle donne incinte. La ragione della maggiore attività della fantasia nel sonno e nel sonnambolismo, si deve ripetere dalle stesse cagioni. Finalmente il grado di sensitività dipende assaissimo dal prestarsi più o meno, o non prestarsi al tutto l' istinto animale colla sua attività a produrre la sensione, o quegli spontanei movimenti, che alla produzione della sensione sono necessari. L' istinto vitale non si presta alla produzione della sensione, se non tanto, quanto il non prestarsi gli riesce più molesto. La stessa legge mantiene l' istinto sensuale rispetto ai movimenti; non si presta a produrli, se non quanto il farlo gli riesce più piacevole che l' astenersene. E` quello che ho detto del fenomeno singolare della capacità morbosa. E` noto come Giovanni Rasori amministrasse uno scrupolo di tartaro stibiato alla volta, una dramma e più dramme nel corso di ventiquattr' ore, e fino più oncie nel corso d' una malattia, senza che s' eccitasse il vomito, o poco e di rado, nè si accrescesse o poco il secesso, senza che comparissero sudori maggiori che non comportasse l' indole o l' epoca della malattia. Simili arditi esperimenti egli fece con tutte le preparazioni antimoniali, gli emetici, il nitro, i purganti anche più drastici. Dove sembra incontrarsi una contraddizione; perocchè questa capacità morbosa non si manifesta che in quelle malattie, che chiamano steniche, perchè caratterizzate da eccesso di stimolo. Ma se in queste malattie vi è un maggiore eccitamento, perchè dunque si mostrano quasi insensibili e resistenti all' azione di sì forti rimedi? A me pare che per ispiegare questo fatto si deva ricorrere alla indicata legge: « non prestarsi l' istinto animale (vitale o sensuale) ad operare in conseguenza degli stimoli, se non in quel tanto che il prestarsegli è più piacevole, o meno spiacevole del non prestarsi »; di che si trae essere un errore il credere che « la quantità d' azione dell' istinto animale cresca e diminuisca in ragione semplice e diretta della quantità degli stimoli ». Conviene distinguersi: 1 la quantità degli stimoli; 2 la quantità dell' eccitamento appartenente al sentimento fondamentale; 3 la quantità d' azione dell' istinto animale, sia vitale o sia sensuale. Ora ciò che noi dicevamo si è che la quantità di azione dell' istinto animale non va in ragione della quantità degli stimoli, ma procede a tenore della legge indicata, regolatrice della sua attività . Dopo ciò si possono fare delle altre domande importantissime, le quali sono: « Se l' eccitamento tenga esatta proporzione agli stimoli »; e io penso ancora di no, per la stessa ragione. « Se la quantità d' azione dell' istinto, in quanto produce la sensione o il moto animale, tenga esatta ragione colla quantità dell' eccitamento appartenente al sentimento fondamentale »; e di nuovo sembrami dover rispondere negativamente; perocchè niente ripugna che l' animalità trovi piacevole di lasciarsi eccitare, o men penoso almeno dello sforzo di sottrarsi allo stimolo; e poi quando trattasi di passare all' azione dell' istinto, che produce la sensione o il moto, trovi più piacevole o meno molesto il resistere, e il non prestarsi a produrlo. « Se in ragione esatta della quantità d' azione dell' istinto vitale, o che è il medesimo, in ragione della quantità di sensione o sensioni da lui prodotte, sia la quantità d' azione dell' istinto sensuale, o che è il medesimo, la quantità del moto da lui prodotto ». E di nuovo deve dirsi non essere, per una consimile ragione, quantunque resti vero che la sensione sia il principio d' un movimento animale conseguente (1). Ritornando dunque al principio generale, ripetiamo che « il maggiore o minore grado di sensitività dipende principalmente dalle leggi dell' attività dell' istinto animale », e che i fenomeni della sensitività non si possono spiegare misurando solo gli stimoli e le forze esteriori, che agiscono sul principio sensitivo, quasichè questo fosse unicamente passivo, e non anche attivo, e non fosse dotato di proprie sue leggi determinatrici del suo operare. Più si medita questa verità, più la si vede al fondo di tutti i fenomeni animali: Perchè una sensazione più forte toglie quella che è meno forte, come, a ragion d' esempio, lo splendere del sole impedisce la visione delle stelle? Certo si deve attribuire in parte all' azione meccanico7animale, che, facendo oscillare tutte le fibrille egualmente del nervo ottico, suscita una sensione uniforme, nella quale si fonde la sensione parziale delle stelle. Ma questo non ispiega a pieno come la luce delle stelle, che continua a ferire certe fibrille della retina, non vi cagioni più alcuna sensazione, perchè la trova scossa dalla maggiore azione del sole. Pare dunque che si deva piuttosto dire che le fibrille percosse dalla luce del sole non ricevono più il movimento del debole raggio della stella, perchè l' attività sensitiva è occupata a preferenza a secondare l' azione dello stimolo maggiore; benchè a produrre quel fenomeno concorrano più cause, e fra le altre la legge meccanica, che un moto maggiore resiste ad una forza assai debole tendente a modificarlo; chè dove vi è più quantità di moto, ivi vi è più di forza resistente a cangiare direzione o metro. Perchè le forze dell' istinto vitale resistono alle forze chimiche, fisiche e meccaniche, tendenti a disciogliere la macchina complicatissima e corruttibilissima del corpo umano? Per la stessa attività intrinseca all' anima. Per questo l' istinto animale raffrena l' azione dei succhi gastrici, adoperandoli a disciogliere gli alimenti, e impedendo probabilmente che la loro azione dissolvente nuoccia al ventricolo. All' incontro pare indubitato che nel cadavere si trovi alcune volte il ventricolo digerito tosto dopo la morte, per l' azione dei detti succhi, a cui non osta più l' attività del principio vitale (1). E qui mi conceda il lettore che a conchiusione delle cose dette, e quasi a riposo, manifesti un voto, che qualche sapiente medico prendesse a porre insieme una nuova teoria dell' arte di esperimentare in medicina . Se pur è vero quello che a me ne pare, dopo le riflessioni precedenti, devono parere insufficienti i trattati fin qui pubblicati sopra sì importante argomento. L' arte di esperimentare è la parte principalissima della logica medica , e da quell' arte dipende il vero progresso della medicina, la quale, senza di lei, non può che perdersi irrimediabilmente, e rovesciarsi da una teoria gratuita e crudele in un' altra pure gratuita, e forse più crudele ancora. Quali osservazioni crediamo noi che dovesse tenere innanzi agli occhi quell' uomo dotto, che togliesse la fatica di sì nobil lavoro? Prima e preliminare cura vorremmo che fosse quella di togliere l' apparente discordia delle opinioni, levando gli equivoci del parlare. Contendono i dotti con gran danno dell' arte, quando, senza darsi cura d' intendersi, gittano tanto tempo e tante parole a contrariarsi. A ragion d' esempio, se le due sette di empirici e di razionali si definiscano in un modo ragionevole, verranno tosto ad un facile accordo. Poniamo queste definizioni: Medici empirici sono quelli che pretendono doversi applicare i rimedi unicamente sulla regola dei casi simili considerati fenomenalmente. Medici razionali quelli che pretendono non doversi applicare i rimedi secondo la regola dei casi simili considerati fenomenalmente, ma considerati nelle loro cagioni efficienti interne, le quali non cadono sotto l' esperienza, ma s' argomentano tuttavia da dati esperimentali. Da tali definizioni si trae questa conseguenza: Gli empirici non escludono il ragionamento, di che a torto si accusano, ma lo restringono a determinare i casi simili per via dei fenomeni che cadono sotto l' esperienza. I razionali non escludono l' esperienza, di che pure a torto si accusano, ma vogliono che l' esperienza si adoperi a rilevare, per via di ragionamento, la costituzione intima del morbo di cui si tratta, e quindi le sue cause interiori che ne producono esternamente i sintomi. Così definite le due sette, e purgate dall' accusa ingiusta che reciprocamente s' appongono, il torto di ciascheduna, se pur v' è, riesce assai minore, e sono già con questo solo avvicinate. E a buon conto i medici idioti non saranno più confusi cogli empirici ; chè l' empirico non è necessariamente idiota; quando anzi per eseguire ciò ch' egli si propone, « di medicare secondo i casi simili fenomenalmente considerati », gli è mestieri d' una scienza immensa, di uno studio inesauribile. E di vero, è ella forse leggiera cosa lo stabilire quali sieno i casi veramente simili fenomenalmente considerati? è ella una breve fatica il raccogliere tutti i fenomeni morbosi, e il classificarli secondo la loro maggiore o minore similitudine? richiede poca sagacità il distinguere quelli che sono simili nell' essenza specifica, e quelli che non sono simili se non in accessori ed accidenti, lo stabilire la somma importanza che ha un dato rapporto di somiglianza, e la poca importanza d' un altro? il cogliere la gradazione delle somiglianze e della loro importanza per caratterizzare una malattia? Non si richiede a tentare su questa base una classificazione dei morbi, infinita perspicacia e perseveranza d' osservazione? E poi rimane a classificare alla stessa maniera il corso e l' esito diverso delle malattie nei climi, temperamenti ed altre circostanze diverse; e poi in questo metodo è uopo argomentare continuamente a iuvantibus et a laedentibus , per ritrovare la corrispondente efficacia dei rimedi, e le dosi e la maniera di amministrarli. Si separino dunque gli idioti dai veri empirici, e tosto i medici s' intenderanno fra loro più facilmente. Dopo queste separazioni, a che si ridurrà il difetto delle due sette indicate? Non più al mancare l' una di scienza, e l' altra soprabbondare; ma forse a una restrizione arbitraria, che ciascuna di esse pone al suo metodo. Tutto allora dovrebbe tendere a mostrare a ciascuna di esse, come ella gratuitamente si limita e si rende più difficile lo scopo che vuole ottenere, qual è quello di giungere alla vera scienza medica. Così s' avranno dei medici non empirici, non razionali, ma ragionevoli. I quali: 1 raccoglieranno e mediteranno tutti i fenomeni, come si propongono di fare gli empirici, classificandoli secondo le loro caratteristiche somiglianze; 2 non ricuseranno d' investigare la condizione morbosa interna col ragionamento, come si propongono di fare i razionali, a condizione che le induzioni sieno rigorosamente logiche. La questione non verserà più dunque sul metodo, il quale diverrà unico e completo, ma sull' esatta applicazione del medesimo. Non si dirà più: i casi simili non valgono nulla; ma si dirà: questi casi non sono simili, o non hanno una similitudine caratteristica, essenziale, specifica, ma solo accidentale. Non si dirà più: la causa interna della malattia è inutile a ricercarsi; ma si dirà: l' induzione, colla quale voi stabilite questa causa interna, non regge alla logica, od ha solo tanti gradi di probabilità, e perciò dovete mettervi in guardia, calcolando anche i gradi di probabilità che stanno contro la verità di quella causa. Queste questioni non sono più vaghe; qui si sta rigorosamente sul terreno della scienza; il progresso dell' arte è allora assicurato. Il nuovo Trattato dell' esperienza in medicina dovrebbe dunque: Determinare quali sieno i dati che l' esperienza sensibile somministra, indicare i modi di esperimentare per rinvenirli, e i modi di classificarli. Determinare quali sieno le regole per cavarne induzioni logiche, e la forza di conchiudere che ha ciascuna di esse, e classificare le induzioni medesime. In queste due parti del trattato si fanno avanti le difficoltà che s' incontrano, tanto ad istituire le esperienze, quanto a dedurne giuste illazioni; e quindi si dovrebbero mettere sott' occhio le illusioni, gli errori, i falsi ragionamenti, nei quali l' esperimentatore ed il ragionatore può trasviare. A quest' ultimo intento il sapiente scrittore da noi desiderato dovrebbe mostrare quanto sia complicata la macchina umana, e quanti sieno i principŒ attivi e le sublimi leggi che la modificano, e come reciprocamente attive le mutazioni che ne avvengono, e quanto pochi, comparativamente, i dati di fatto che l' esperienza ci somministra. Se il problema così detto dei tre corpi riesce tanto difficile a risolversi in astronomia, perchè trattasi d' azione reciproca, benchè uniforme, del sole, della terra e della luna; che sarà dove i corpi influenti gli uni su gli altri sono innumerevoli, e di continuo si mutano, e varie le forze, i movimenti complicati e sempre reciprocamente influenti, come accade nel corpo umano? Questa esposizione condurrebbe a provare, che « il pretendere di conoscere per diretta esperienza o per induzione tutti i fatti interni, da cui risulta lo stato sanitario d' un corpo vivo, e di pronosticarne l' esito, e di modificarlo salutarmente coll' applicazione dei rimedi, non è cosa da pigliarsi a gabbo, anzi superiore alle forze umane ». Lo studioso dunque dell' arte medica si può prefiggere due scopi: l' uno di rilevare questo stato positivo del corpo, mediante la cognizione degli elementi da cui esso è costituito, cosa arduissima; l' altro di appigliarsi a regole induttive, complesse, volte a conoscere l' efficacia salutare o nocevole dei rimedi applicati ad uno stato del corpo, che si conosce imperfettamente, cosa congetturale. Questi due grandi scopi caratterizzano due scuole mediche, distinguono la medicina analitica dalla medicina sintetica . Ecco il significato che noi attribuiamo a queste due denominazioni. L' arte medica è una: è l' arte di guarire le malattie. La scienza è la teoria di quest' arte. Ma il medico, che brama di ottenere il fine dell' arte, si può mettere in una delle due vie. Può persuadersi di riuscire a conoscere il modo di guarire le malattie, studiando che cosa esse siano in sè stesse, da quali forze e mutazioni interne risultino; e questa noi chiamiamo medicina analitica, perchè si propone di studiare le malattie nei loro interni elementi e di coglierle all' origine, investigandone il complesso delle forze, dei movimenti e loro effetti da cui risultano; il che è un andare prima per via d' analisi, affine di sintesizzare poi nelle induzioni conseguenti. Può anche persuadersi di riuscire a conoscere il modo di guarire le malattie, studiando gli indizi , che ne dimostrano il progresso verso il meglio o verso il peggio, senza darsi poi gran cura di sapere positivamente come ciò avvenga; e questa noi chiamiamo medicina sintetica, come quella che si propone di conoscere l' effetto complessivo dei rimedi; benchè, partendo da questa cognizione, lo stesso medico possa in appresso analizzare il detto effetto complessivo, e giovarsi di esso a conoscere gli elementi interni onde risulta. E l' uno e l' altro metodo può certamente condurre verso il fine, ma è mestieri unirli insieme, facendoli cospirare all' unico intento loro comune; condizione indispensabile ad ogni modo si è che i fatti osservati sieno certi e precisi, le illazioni rigorose: l' una e l' altra cosa difficilissima. Del rimanente è chiaro che la medicina analitica prende una via più lunga, e più difficile a condursi per illazioni logiche al suo fine; il che dovrebbe risultare pienamente dal trattato dell' esperienza da noi desiderato. Vi si dovrebbe dimostrare questa somma difficoltà da più lati, e principalmente da questi due: La complicatezza del corso zoetico e la sua perpetuità in anelli sempre nuovi, ciascun dei quali malagevole a riconoscere. Gli agenti che possono modificare il corso zoetico (1). Dell' uno e dell' altro fonte di difficoltà diamo qualche cenno, che chiarisca il nostro concetto. La smisurata difficoltà del proposto si conosce osservando che: Pochi sono comparativamente i dati di fatto , che l' esperienza ci può somministrare. Innumerevoli le cose che il medico dovrebbe indurne, per conoscere veramente la condizione dell' ammalato. Il medico cioè dovrebbe conoscere: 1) A quale anello sia pervenuto il corso zoetico. E un anello di questo corso, da quante cause mai non risulta, ciascuna sì difficile a ben rilevarsi! In prima ogni anello è composto dei due elementi, il sensibile ed il mobile . L' elemento sensibile è un complesso di innumerevoli sentimenti, dei quali solo pochi cadono distintamente nella coscienza, e molti si fondono in un sentimento, che costituisce appunto lo stato sensibile dell' animale. L' elemento mobile del pari risulta da innumerevoli moti intestini, e dalla loro reciproca azione e fusione. Di più, tanto nell' elemento sensibile, quanto nell' elemento mobile d' un dato anello sarebbe uopo notarsi l' ordine dei movimenti contemporanei, chè i diversi sistemi del corpo umano operano reciprocamente l' uno sull' altro e con successione, sicchè i movimenti contemporanei, che si fanno nel corpo, altri sono gli estremi d' una serie più lunga, altri d' una serie più breve dei movimenti precedenti; i movimenti muscolari, per esempio, non sono l' effetto dei movimenti nervosi contemporanei, ma dei movimenti nervosi appartenenti all' anello precedente. 2) Si dovrebbero oltracciò conoscere gli anelli precedenti all' anello di cui si trattava, o almeno lo stato dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, stato dipendente: a ) dalle forze e stimoli materiali che agiscono sull' organizzazione, poniamo la materia morbosa introdotta nel corpo umano, ecc.; b ) dalla condizione dell' organizzazione, già più o meno sconcertata; c ) dalle altre innumerevoli cagioni, che pongono l' istinto animale in un grado di maggiore o minore eccitamento, e in una maggiore o minore attitudine di operare, secondo la legge preaccennata della preferenza che l' istinto dà all' operare o al non operare, e all' operare più o meno. 3) Ancora si dovrebbero conoscere gli anelli susseguenti del corso zoetico, che sono impossibili a prevedersi con sicurezza, per gli stimoli accidentali che sopravvengono o si sottraggono; o almeno si dovrebbero conoscere le leggi che determinano la specialità di quel corso zoetico, di cui si tratta; la quale di nuovo non cade sotto l' esperienza, ma ha bisogno di argomentarsi dai pochi dati dell' esperienza. Certo, il calcolo delle azioni reciproche delle varie forze, ciascun atto delle quali ha una sua intensità e una sua misura, vince l' umana intelligenza. 4) Finalmente si dovrebbe prevedere l' azione dei rimedi. Ora come dedurla da così difficili congetture? Si può dunque conchiudere, senza temerità, essere impossibile stabilire l' arte di medicare unicamente sulle cause interne dei morbi direttamente conosciute, o indirettamente argomentate dai dati di fatto, che somministra l' osservazione del corpo umano. Si conferma vieppiù questa difficoltà di conoscere compiutamente lo stato interno dell' animale ammalato, considerando come tutte le regole induttive volte a questo fine sono fallaci. Esaminiamone alcune: I sintomi . - Qui è da rammentare quel tanto che fu detto contro la medicina sintomatica . Certo è che i medici che sono partiti dal principio di Brown, e sono quasi tutti i moderni, cioè dal principio che lo stato sanitario del corpo umano dipenda unicamente da un eccesso o da un difetto, o da un equilibrio di stimolo, confessano essere i sintomi al tutto fallaci, quando si voglia da essi indurre la condizione stenica o astenica del corpo (1). Che anzi le medesime malattie, con tutti i sintomi che le caratterizzano, sono da essi attribuite ora all' eccesso, ed ora al difetto di stimolo. Sicchè vi sono, a ragion d' esempio, secondo essi, delle idropi per eccesso di stimolo, ma ve ne sono anche di quelle cagionate da difetto di stimolo, e così si dica di un gran numero d' altre malattie. Onde neppure la specie della malattia indica con sicurezza la sua causa e natura interna (2). La regola a iuvantibus et laedentibus è certamente preziosa, se si adopera a conoscere l' efficacia dei rimedi. Ma se si pretende di adoperarla a rilevare le cagioni interne del morbo, l' intima condizione morbosa, ella si trova pure fallace. Io sono persuaso che due rimedi opposti, l' uno stimolante, l' altro controstimolante, possano produrre, in certi casi, per le complicazioni interne, il medesimo effetto. Ho già osservato che se lo stimolo è soverchio, istupidisce la fibra e diminuisce la sua quantità d' azione, e, diminuita questa, sono diminuiti i movimenti e gli stimoli interni che ella produce. L' effetto dunque dipende dalla proporzione fra l' aumento dello stimolo esterno, o dirò così terapeutico, e la diminuzione dello stimolo interno, fisiologico e patologico. Se questa diminuzione è maggiore che quell' accrescimento, l' effetto totale sarà una diminuzione di stimolo; quindi il rimedio applicato sembrerà controstimolante, quando egli sarà stimolante. La complicazione della macchina umana è tale che, assai più spesso che non si creda, s' avverano in lei questi due effetti contrari di accrescimento e di diminuzione parziale di stimolo, risultando poi l' effetto totale dall' eccedere l' accrescimento o la diminuzione. Allorquando qualche rallentamento del sangue venoso provoca lo sbadiglio, vi è diminuzione di stimolo; e pure a questa diminuzione succede spontaneo uno sforzo, che fa l' animale per inspirare una copia maggiore d' aria atmosferica, e questo sforzo, questa copia maggiore d' aria è accrescimento di stimolo. Lo stesso dicasi di tutte quelle cagioni, che rendono l' anelito più frequente e la respirazione più profonda per difetto di stimolo. O sia diminuita la quantità dell' aria atta alla respirazione, o sia diminuito il sangue, o un soverchio calore e celerità nel corso consumi più di sangue rosso, o l' uomo senta, come nei momenti prossimi alla morte, sfuggirsi la vita; in tutti questi casi alla diminuzione dello stimolo s' associa o sussegue prossimamente un aumento di stimolo, provocato da quella stessa diminuzione. Qui è l' istinto sensuale che accresce la sua azione, tentando di riprodurre gli stimoli che gli vengono sottratti; prova evidente che un tale istinto non opera solo in virtù e in ragione della quantità degli stimoli materiali, interni ed esterni, ma con altre leggi sue proprie; non è solo passivo, ma ben anche attivo. In niuna delle malattie, benchè si guariscano con una cura stimolante, la debolezza è tale che non vi sia contemporaneamente un aumento di stimolo parziale, il quale talora inganna i medici, giudicandole infiammatorie o steniche. Basta solamente leggere le due serie di storie, che il Rasori aggiunse in fine alla sua Teoria della Flogosi, l' una di malattie credute infiammatorie, e condotte colla cura antiflogistica ad estrema gravità, guarite poi colla cura stimolante (1); l' altra di malattie credute pure infiammatorie, finite colla morte, non mostrando il cadavere segno d' infiammazione, per convincersi che un aumento parziale di stimoli occorre in ogni malattia, senza che da questo si possa sicuramente inferire ch' essa sia stenica. Dappertutto dove si manifesta acceleramento di polso e aumento di calore, v' è stimolo parzialmente accresciuto; chè, non fosse altro, il solo moto, il solo calore aumentato è già stimolo e produttore di stimoli interni. Dappertutto dove è dolore v' è indubitatamente stimolo parziale accresciuto, chè il dolore è stimolo e produttore di stimoli, mediante l' azione eccitata dell' istinto animale. Dappertutto dove si scorge aumento di secrezioni ed escrezioni vi è stimolo parziale, chè le secrezioni cresciute dimostrano maggiore attività degli organi secretorii ed escretorii, e questa attività suppone maggiore eccitamento e stimolo. Anche dove le secrezioni ed escrezioni sono minori del bisogno può esservi aumento di stimolo, come nel caso in cui lo stimolo soverchio impedisca l' azione degli organi, quasi istupidendoli. Molto più ogni secrezione ed escrezione anormale e disordinata può dimostrare aumento di stimolo parziale, benchè accompagnata da contemporanea diminuzione di stimolo pure parziale. Le convulsioni dei muscoli, l' assopimento, il letargo, il delirio dimostrano un aumento parziale di stimoli eccitatori dei nervi e del cervello. Insomma vi sono assai pochi sintomi morbosi, nei quali non si ravvisi un aumento parziale di stimolo e di eccitamento. Di più, gli stessi sintomi che più indicherebbero debolezza, possono essere un effetto indiretto, se si vuole così chiamarlo, di aumento parziale o totale di stimolo e d' eccitamento; ovvero possono essere accompagnati da sintomi dimostranti parziale o totale debolezza, e diminuzione di stimolo. Nelle infiammazioni stesse i medici non sono ancora d' accordo nel decidere se il labirinto dei vasellini ingorgati si trovi in istato di debolezza o in istato di soverchia energia. Il Rasori confessa esservi una specie di debolezza nel viluppo capillare venoso, sede dell' infiammazione, benchè dichiari che non si tratti qui di quella debolezza, che deve determinare il metodo curativo (1). Questa distinzione, per dirlo qui di passaggio, già dimostra da sè il bisogno di distingure più accuratamente che non sia stato fatto, quale sia precisamente la debolezza di cui parlano i medici, che vogliono ridurre tutta la medicina alla quantità soverchia o mancante degli stimoli; giacchè essi stessi confessano che ogni debolezza osservabile nel corpo umano si adatta al loro sistema. Ad ogni modo conviene intanto ammettere che nel viluppo capillare infiammato vi è una qualche specie di debolezza. Or questo è un confessare che anche nella stessa parte del corpo umano può trovarsi contemporaneamente un elemento di debolezza ed un elemento di forza, o per dir meglio, una causa debilitante ed una eccitante. Non v' è alcun dubbio che l' afflusso del sangue alla parte infiammata è un aumento di stimolo, che viene ad essa applicato, benchè non possa certo essere la prima causa del morbo. Che se pur non si vuol riconoscere nei vasellini ingorgati di sangue altra cagione di debolezza che l' azione meccanica del sangue stesso, che vi si introduce con forza e li distende soverchiamente, sia per un poco. Ma rimarrà vero che uno stesso agente, il sangue, opera nella stessa parte in due modi, coll' uno dei quali la affatica, la sfianca, l' addebilita; coll' altro, stimolando, l' eccita e rinforza. Dunque lo stato della parte deve venir determinato non dal solo elemento che l' addebilita, nè dal solo elemento che la rinforza, ma dal calcolo dei due effetti opposti, contemporanei e misti. Ma è dimostrato che la debolezza dei vasellini ingorgati dipenda unicamente dall' azione meccanica del fluido, che impetuosamente è sospinto in essi? Non so se vi siano prove concludenti. Oggidì sembra ridotto a certezza che la circolazione non dipenda dalla sola forza del cuore (1), ma i vasi abbiano una controdistensione loro propria. E quantunque il sistema venoso appaia rispettivamente passivo, e l' arterioso rispettivamente attivo, tuttavia le tuniche delle vene non si possono spogliare affatto d' ogni virtù elastica e controdistensiva (2); altrimenti non potrebbero rispondere agli stimoli meglio d' una sostanza inanimata. Posta dunque un' attività vitale tanto nelle vene, quanto nelle arterie, benchè in queste maggiore, e in quelle minore; chi mai può sostenere esser cosa impossibile che quella stessa causa morbosa, qualunque sia, che accresce l' azione del cuore e delle arterie, non sia altresì quella che produca in sulle vene capillari il contrario effetto, rendendole meno resistenti, più cedevoli e dilatabili all' afflusso del sangue? In questo caso la vera cagione, tanto dell' attività maggiore presa dal cuore e dalle arterie, quanto della debolezza relativa dei capillari venosi, dovrebbe attribuirsi all' azione modificata dell' istinto animale, accresciuta nelle arterie, diminuita nelle vene. E non pare tampoco improbabile che il sistema venoso e il sistema arterioso abbiano fra loro un cotale antagonismo, essendo questo secondo sistema ordinato a spingere il sangue dal centro alla periferia, quel primo a ricondurlo dalla periferia al centro. Così già si volle notare un antagonismo fra i vasi capillari bianchi e i vasi capillari rossi, benchè non intendo come il signor Festler possa attribuire ai capillari bianchi una forza contrattiva maggiore che non ai vasi rossi, e a questi una maggiore forza espansiva che a quelli, quando anzi parrebbe il contrario (1); giacchè la contrazione suppone maggiore azione vitale, la quale prevale certamente nei vasi rossi, quando l' espansione non è sempre effetto della sola vitalità, ma ben anche della debolezza e passività; onde è manifesto, a ragion d' esempio, che le vene reagiscono meno al fluido che ricevono, che non le arterie, le quali lo sospingono aiutate dalla loro forza controdistensiva. Ora sarebbe forse impossibile che la stessa debolezza cresciuta, per qualsivoglia cagione, nel sistema venoso, la stessa maggior cedevolezza delle parti dei vasi venosi dovesse avere per effetto una maggiore attività nel sistema arterioso? In questo caso la debolezza sopravvenuta nella forza vitale delle vene sarebbe una cagione dello stato morboso, di cui si tratta, precedente a quella dell' eccitamento arterioso, sicchè questo diverrebbe rispettivamente effetto, anzichè causa. E che la cosa possa esser così me lo persuade il considerare che, supposta una dilatazione maggiore delle vene, una minore resistenza al corso del sangue, esse dovrebbero recare al cuore copia maggiore di questo fluido, e quindi accrescere in lui lo stimolo e l' attività, colla quale egli lo respinge per le arterie in tutto il corpo, che altrimenti ne andrebbe difettando. E supponendosi che il calibro delle arterie non si accrescesse punto nella stessa proporzione, in cui si accresce quello delle vene (perocchè le arterie dotate di maggior vita resistono maggiormente all' impulso materiale, ed al sangue considerato come stimolo, si contraggono), ne verrebbe che nelle arterie si dovesse necessariamente accrescere la velocità della circolazione, acciocchè potesse passare per esse una porzione di sangue eguale a quella che passa per le vene, condizione necessaria del circolo. Di più, essendo l' albero venoso assai più capace dell' albero arterioso, quand' anche i vasi di entrambi gli alberi si dilatassero in misura eguale, ancora dovrebbe avvenire un acceleramento di sangue nelle arterie acciocchè queste potessero dare sfogo a tutta la quantità di sangue, che le vene porterebbero al cuore, senza che questo vi si arrestasse. Ora poi qual è la cagione che fa sì che il sangue non si arresti nel suo corso? La vera e prima cagione, come abbiamo già accennato, è l' istinto animale, quell' istinto che, sentendo una molestia, si adopera a cansarla da sè, quell' istinto che per dare una spinta maggiore al sangue sa formare lo sbadiglio, che produce l' anelito e l' asma, che nelle varie condizioni d' aria atmosferica sa muovere i polmoni, accelerando o ritardando la respirazione, secondo che sente che gli vien bene il renderla ora più ampia e profonda, ora più lunga, ora più breve e frequente, ora più viva, ora meno, ora più facile, ora più pesante. Si dovrebbe dunque ricorrere all' attività vitale, come a prima cagione dell' acceleramento del sangue e del maggior afflusso nelle vene, attività che viene suscitata dalla debolezza e rilassatezza incolta a queste; sicchè tutta la questione si ridurrebbe a cercare la prima causa di questa rilassatezza morbosa delle vene; la quale indubitatamente si dovrà rinvenire in una qualsivoglia irritazione offensiva dell' istinto vitale, per la quale questo è obbligato ad entrare in quella lotta contro la cagione irritante, che abbiamo descritta. Non è qui necessario, nè cade a proposito del nostro intento, il porci nell' investigazione di questa causa, molteplice certamente. Ma piuttosto, ritornando al fenomeno dell' infiammazione, pare che questo ritrarrebbe dalle cose dette qualche maggiore dichiarazione. Perocchè il maggior afflusso di sangue nei capillari venosi, l' accresciuto movimento nelle arterie, cause entrambe atte, insieme con altre molte, a sviluppare una maggior copia di calore, e dare al sangue una tendenza a dissolversi nei suoi tre principŒ di siero, cruore e fibrina, sembrano bastare a spiegare come nel viluppo capillare venoso debba nascere ingorgamento, e quasi stagnamento sanguigno, con gonfiezza, calore, e tendenza alla suppurazione; massime là dove i capillari, il cui calibro è assai irregolare, sono d' una grossezza accidentale maggiore; circostanza, che il Rasori crede atta a spiegare la località dell' infiammazione (1), e dove, dirò io, per le cagioni che poi accenneremo, i detti capillari acquistano una spossatezza ed un rilassamento maggiore, quand' anche ne sieno più grossi di lor natura, diventando tali per la morbosa loro dilatazione. Ora, a che tutto questo nostro ragionamento? Unicamente a dimostrare che dove si scorge soverchio stimolo, ivi contemporaneamente può darsi soverchia debolezza; sicchè accresciuta azione vitale e diminuita azione vitale stanno insieme; e l' una è occasione dell' altra; il che io credo legge universale di tutte le malattie, come dirò appresso. E qui troppo più innanzi potremmo spingere la descrizione dei fenomeni di debolezza nello stesso stato d' infiammazione. Perocchè, se ciò che abbiamo detto ci fece trovare della debolezza nella stessa località infiammata, e alla prostrazione di forza, a cui son venute le vene, abbiamo attribuito la cagione o l' occasione dell' accresciuto stimolo; quanto più ci sarebbe facile osservare una debolezza coesistente all' infiammazione, considerando tutto il complesso dei fenomeni d' un corpo, che soffre per qualche locale infiammazione? Io sono appieno convinto degli argomenti di tanti illustri medici, che censurarono Brown perchè voleva curare molte infiammazioni, dette da lui asteniche, cogli stimolanti; ma, accordando questo errore nel metodo curativo, non mi ritengo per questo obbligato a concludere che nelle infiammazioni altro non si debba scorgere che eccesso di stimolo. Gli stessi medici, che ho citati, sono obbligati a distinguere due maniere di debolezza, cioè la patologica e la fisiologica , come essi le chiamano; ed accordano l' esistenza di questa seconda colla presenza d' una soverchia robustezza patologica . Ora questo è già un accordarci quello che noi vogliamo, esservi cioè forza e debolezza ad un tempo nel corpo umano e nella stessa malattia. Se poi le denominazioni di fisiologica e di patologica sieno esatte, e vengano con tutta chiarezza definite, questo è appunto ciò, su cui cade il mio dubbio. Se io considero come i nostri medici vennero a formarsi il concetto di quella che chiamiamo debolezza patologica, m' accorgo che la raccolsero dall' azione dei rimedi, ma tosto mi si presentano su di ciò più cose a riflettere. Il determinare se un rimedio sia stimolante o controstimolante, o si vuol desumere dall' effetto che egli fa sul corpo sano, e in tal caso l' illazione dal corpo sano all' ammalato va soggetta a gravi eccezioni; o si vuol desumere dall' effetto che fa sul corpo ammalato, e questa via suppone che si conosca avanti se lo stato morboso è stenico o astenico, come essi lo chiamano; e però facilmente si entra in un circolo vizioso, volendosi definire la stenia o astenia morbosa dalla proprietà stimolante o controstimolante dei rimedi, e in pari tempo desumere questa proprietà dei rimedi dallo stato stenico o astenico, alla cui guarigione conferiscono. Indi è da ripetersi in gran parte, a mio parere, la diversità d' opinione tuttavia esistente sulla efficacia dei rimedi. Ma ciò che più m' importa qui di osservare (perchè non cerco che d' indicare qual debba essere la sana logica da applicarsi all' esperienza in medicina) si è: Che l' effetto dei rimedi può benissimo servire di guida sicura per la medicina sintetica , cioè per quella che si contenta di rilevare l' efficacia utile o dannosa dei vari rimedi sulle malattie, determinate mediante tutti i sintomi e fenomeni apparenti e i caratteri certi; ma non vedo come esso possa condurre, almeno per induzioni certe, a stabilire le cause interne delle malattie, e le modificazioni in più o in meno dell' azione vitale in tante sue diverse, complicate, e talora opposte ed antagonistiche operazioni; ed anzi a me pare che il volere appunto dall' effetto dei rimedi dedurre immediatamente l' etiologia morbosa, e poi su questa unicamente fondare le regole da seguirsi nell' uso di quelli, sia un metodo che assai facilmente conduce la scienza entro le angustie di un sistema. Le quali riflessioni si oppongono tuttavia, meno di quel che paia, al metodo curativo degli illustri fondatori di quella che fu denominata, non so se a ragione o a torto, nuova dottrina medica italiana , la quale ad ogni modo, per tante verità che contiene, è bella gloria italiana. Io credo, a ragion d' esempio, che sia una verità acquistata alla scienza quanto insegnò il Tommasini, con altri, che il processo infiammatorio è unico , e che [...OMISSIS...] . Il che sufficientemente si dimostra solo considerandosi l' ingorgo sanguigno, chè il sangue, che ivi si rallenta, è come tagliato fuori dall' universale circolazione, non segue più il torrente, e il movimento che ritiene è divenuto suo proprio; nè per ciò perde la vita, se non allora che perviene alla suppurazione. Prima che si dissolva e muoia, egli vegeta dunque in un modo indipendente, e non più armonico colla vegetazione universale del corpo (2). Ora qui si presentano alcuni quesiti: Deve sempre il medico dirigere i suoi sforzi a far cessare l' infiammazione locale, dove sia palese o si sospetti esistere, trascurando affatto la condizione universale del corpo? Prima di tutto si osservi che un tal quesito appartiene alla medicina sintetica , e non all' analitica . Esso non tende per sè a spiegare ed analizzare lo sconcerto dinamico7organico del processo infiammatorio e le sue cause; ma, qualunque sia questo sconcerto, qualunque sia il complesso degli elementi interni e delle cause materiali e formali dell' infiammazione, tende a scoprire se convenga meglio, per ricondurre il corpo alla sanità, combattere l' infiammazione locale, trascurando il rimanente, ovvero bisogni calcolare anche la condizione universale del corpo. Ora, sebbene noi parliamo della medicina analitica, tuttavia facciamo sul detto quesito qualche riflessione. Il processo infiammatorio per sè conduce alla suppurazione, e però se egli è esteso o affetta, direttamente o indirettamente, qualche organo necessario alla vita, conduce alla morte. La somma importanza dunque d' impedire che questo processo, che sembra [...OMISSIS...] , pervenga ad un esito sì funesto, consiglia in molti casi dimenticare ogni altra considerazione; chè è uopo vincere il nemico maggiore prima del minore. Ma vi è altra via d' impedire l' esito fatale d' una infiammazione, estesa o grave, fuor di quella di sottrarre le forze al processo infiammatorio? Sono ben lontano dal saper fare una risposta adeguata ad una tale domanda; ma voglio osservare che neppur essa appartiene per sè alla medicina analitica , ma alla sintetica ; perocchè si cerca quel che si deve fare per la salute, non si cerca per quali molli interne e dinamiche, organiche, meccaniche, la restituzione della salute in quel caso si produca. Di poi, sia pure che l' andamento dell' infiammazione non si possa troncare, come si dice, con alcun mezzo antiflogistico o d' altra maniera. L' illazione che, dunque, non vi può essere altra via che quella di sottrarre ad essa le forze con cui opera, affine di renderla meno dannosa, sarebbe ancora lontana dall' avere tutto il logico rigore che si desidera. Ad ogni modo questa sottrazione di forze sarà un ottimo espediente per isgagliardire il nemico e renderlo meno rovinoso. Fin qui va appunto la medicina sintetica. Ma la medicina analitica non si ferma qui; vuol cavarne illazioni sulla natura intima del morbo; e niente di meglio, qualora lo faccia secondo il dettame d' una logica irrepugnabile. Ma questo è il difficile. L' illazione, che si pretende dedurre dal fatto che, sottraendo le forze al processo infiammatorio, questo si rende più benigno e incapace di addurre l' esito fatale che altrimenti minaccia, si è che dunque l' infiammazione è malattia consistente in eccesso di stimolo e di robustezza. Ma questo, o non aggiunge nulla alla conclusione precedente della medicina sintetica, « che si cura l' infiammazione felicemente col sottrarle quelle forze, onde procede nel suo corso »; ovvero è un' illazione illogica e falsa. O non aggiunge nulla, dicevo, se pel carattere di eccessiva robustezza, dato alla malattia, altro non s' intende che tale malattia si guarisce coi debilitanti. O è illazione illogica e falsa, se pel carattere di eccessiva robustezza s' intende descrivere proprio la natura del morbo, giacchè il corpo animale può essere debolissimo ed oltremodo estenuato, e tuttavia infiammato; onde se per robustezza s' intendesse ciò che tutti gli uomini intendono, già non sarebbe più vero che l' ammalato, in cui vi è infiammazione, sia robusto e di eccedente vitalità. Affine dunque di salvare i medici analitici da questo assurdo, che non possono voler dire, perchè hanno sotto gli occhi gli infermi, che mostrano loro il contrario, è uopo applicare al loro detto un significato diverso da quel che suonano le parole. Ricorre qui la distinzione, toccata di sopra, fra la robustezza patologica e la robustezza fisiologica . A primo aspetto ella sembra una di quelle tante distinzioni, che ingombrano e aggravano inutilmente le scienze, facilissime ad evitarsi coll' uso d' un linguaggio proprio, siccome l' intende il popolo, unico maestro e legislatore delle lingue. Ma pure quella distinzione è reale, fondata in natura, se si attende alla descrizione e definizione che se ne dà. Come dunque si definisce cotesta robustezza o debolezza patologica , che pare dover essere qualche cosa di diverso da quella che il volgo intende colle parole appunto di robustezza e di debolezza? Il Rasori ce la descrive come una robustezza o debolezza [...OMISSIS...] . Ottimamente; ma in tal caso la definizione non esce dai confini della medicina sintetica ; con essa non si dice già che vi sia veramente stato di debolezza o di robustezza nel corpo, il che sarebbe l' illazione avventata della medicina analitica , ma si dice solamente che vi è un nemico, a cui giova diminuire le forze. Ora, chi mai non sapeva che le forze del nemico sono sempre troppe? Non bastava dire che dove vi è un nemico attivo, che non si può d' un tratto spegnere, conviene cercare almeno di svigorirlo? Questo è logico, evidente. Ma questo non si fa perchè vi siano nel corpo umano troppe forze, ma perchè vi sono in esso forze nemiche. Non si può dunque conchiudere che il male stia in un soverchio di robustezza e di forza, ma nell' anormalità di questa; la quale, fosse anche pochissima, è sempre soverchia, chè lo dirò ancora, tutto ciò che è anormale, è soverchio. Tanto è vero che, non essendo punto dimostrato, come abbiamo notato di sopra, che l' infiammazione nasca da una assolutamente soverchia attività del cuore e delle arterie, anzichè da una attività soverchia relativamente al rilasciamento delle vene capillari, di maniera che la debolezza cresciuta in queste, può aver determinato quella, e non viceversa; non essendo, come dicevo, ciò dimostrato, rimane ancora possibile a concepirsi un' altra via conducente a vincere l' infiammazione, quella di restituire al viluppo capillare venoso una forza sufficiente a far sì che il sangue ingorgato rientri nell' universale circolazione, e non produca un processo di propria vegetazione. Io non voglio qui ricorrere agli effetti del freddo applicato ad una parte infiammata, nè discendere ad altri particolari; ma, dico, nelle generali, che altro è che questa via non siavi, altro che sia impossibile rinvenirsi. Suppongasi impossibile; l' impossibilità dovrà provarsi per tutt' altri argomenti da quelli che si volessero derivare dallo stato di eccesso di stimolo; chè questo stesso eccesso di stimolo parziale cesserebbe, tostochè il rallentamento del sangue ingorgato nei capillari fosse ricacciato per le sue vie naturali, mediante il detto accrescimento di vigoria, nei vasi rispettivamente rilassati. Si replicherà: « l' espressione di debolezza o robustezza patologica è nondimeno propria, perchè indica almeno quell' elemento che il medico deve solo curare, e che perciò forma la base della malattia corrispettivamente al metodo curativo ». Se fosse vero che vi fosse un elemento, a cui il medico dovesse restringere le sue vedute, e solamente in ordine ad esso determinare il medicamento, e se i medicamenti si dovessero unicamente partire in due classi, chiamate l' una dei rinforzanti e l' altra dei debilitanti; in tal caso l' espressione di debolezza o robustezza patologica acquisterebbe certo la dote della precisione, quantunque non acquisterebbe ancora quella della proprietà , perchè non indicherebbe ciò che suona debolezza o robustezza. Ma è forse vero che le vedute del medico si debbono restringere a così poco? E` vero, a ragion d' esempio, che egli deve al tutto trascurare quella che chiamano debolezza o robustezza fisiologica ? Che anzi, se la parola patologica equivale a morbosa, o almeno relativa alla malattia, come non meriterà il nome di patologica quella debolezza e spossatezza, che accompagna i mali infiammatorii, quando specialmente il processo flogistico affligge ed abbatte il sistema nervoso? Non è questa spossatezza effetto della stessa malattia? Non sono frequentissimi, e confessati da tutti, i casi, in cui tutto il corpo è ridotto alla maggior possibile estenuazione, e magrezza, e pallore, e concidenza, e tuttavia una parte affetta d' infiammazione vegeta più rigogliosa e rubiconda che mai, appunto perchè, quasi tagliata fuori dall' unità dell' animale, ha preso a fare a parte da sè sola certe funzioni della vita? (1). Ora, se debolezza patologica indica debolezza morbosa , quale debolezza più morbosa di quella che giunge a svigorire e sottigliare il corpo fino alla morte? Ma non si deve badare a questa debolezza nella scelta della cura. - Ritorno a dire, essere innegabile l' importanza di combattere il processo infiammatorio, minacciante dissoluzione e rovina; essere certo che a ciò conferisce il diminuire le forze al nemico; ma dovendo riconoscersi nel processo infiammatorio debolezza e robustezza contemporanee, e queste relative e non assolute, non si può decidere tutto a priori che non vi sia nessun' altra via conducente a ristabilire l' equilibrio fra la debolezza relativamente soverchia, poniamo delle vene, e la robustezza pure relativamente soverchia, delle arterie. Ad ogni modo riesce del tutto falso anche nel sistema moderno, di cui parliamo, che nello stesso tempo che si fa uso d' un metodo antiflogistico, non si debba almeno colla coda dell' occhio riguardare allo stato di debolezza universale del corpo. Nè il Rasori, nè il Tommasini spingono le cose a tanto eccesso. Nello stesso tempo che essi predicano il metodo antiflogistico, riconoscono che non è [...OMISSIS...] . Laonde, benchè classifichino anche la febbre nervosa continua fra le malattie infiammatorie, tuttavia riconoscono che conviene andar moderati assai nell' uso dei controstimolanti. [...OMISSIS...] Il che dimostra a sufficienza: Che non si può perdere di vista dal medico intieramente e in ogni caso la debolezza universale del corpo, e che perciò anche questa deve poter chiamarsi patologica , se per patologica s' intende quella, che deve dirigere il medico ad applicare i rimedi. Che se si vuol cogliere il concetto intimo direttivo della nuova medicina si troverà che questa non ammette un nemico solo nel corpo ammalato, cioè o solo debolezza, o solo robustezza (benchè sembra talora che l' insegni espressamente); ma vuole che si vinca dei due nemici il più forte o minaccioso; e questo è l' infiammazione il più delle volte; perciò in questa si vuol portata l' attenzione di preferenza. Che se poi l' addebilitamento universale divenisse minaccioso anch' esso egualmente o più, a questo pure si deve riguardare. Finalmente che le parole debolezza, robustezza , ecc., appartengono alla medicina analitica , e se ne può abusare facilissimamente, o usarle senza alcun vero profitto dell' arte; le parole all' incontro infiammazione, flogosi, rimedii antiflogistici , ecc., appartengono alla medicina sintetica , e l' uso di esse è sicuro e necessario; perocchè queste parole non ambiscono di descrivere le cause interne del morbo, o di ridurre il morbo ad una sola e semplice causa; ma si contentano di appellare il morbo quale si può conoscere dai suoi fenomeni, e i rimedi pure, quali appariscono dai loro effetti corrispettivamente ai mali così conosciuti e descritti. Da tutto ciò si deve conchiudere che anche la regola a juvantibus et laedentibus è eccellente, quando si usa a cavarne le induzioni proprie della medicina sintetica ; ma riesce difficilissimo, per non dire impossibile, il cavare da essa con sicurezza quelle induzioni, di cui va in cerca la medicina analitica . E noi potremmo istituire una simigliante critica sopra altre regole mediche celebratissime, e dimostrare in simil guisa quanto difficilmente esse si possano adoperare a costituire la medicina analitica . Ma stimiamo meglio venir dimostrando da un altro lato la stessa difficoltà di cavare con sicura logica quelle induzioni , a cui la medicina analitica aspira, non mai per iscoraggiare i cultori di questa, ma per cautelarli contro al rischio di deviare nei loro ragionamenti dal logico rigore, e così nulla ritrarne fuor che errori ed equivoci. Vi è un sillogismo della medicina sintetica , e vi è un sillogismo della medicina analitica . Il sillogismo della medicina sintetica è questo: I fenomeni (soggettivi ed extrasoggettivi), che noi conosciamo di questo morbo, sono tali e tali. Ma in uno stato di fenomeni eguali giovò il tal metodo curativo, e nocque il tal altro. Dunque è d' attenersi a quel metodo, evitando questo. Il sillogismo della medicina analitica è questo: Le cause interne e formali costituenti il presente morbo sono queste e queste. Il tal metodo curativo diminuisce o distrugge queste cause. Dunque il tal metodo è opportuno alla cura del presente morbo. Diciamo che in questo sillogismo della medicina analitica ogni proposizione è più difficile ad accertarsi, che la proposizione corrispondente del sillogismo della medicina sintetica. La prima proposizione del sillogismo della medicina sintetica non è che l' osservazione dei fenomeni. La prima proposizione del sillogismo della medicina analitica è già ella stessa un' illazione logica da fenomeni, che si suppongono precedentemente rilevati e raccolti; chè le cause interne e formali della malattia non si possono indurre che raziocinando dai fenomeni, sola cosa che conosciamo direttamente per via di percezione. Ora, dedurre col raziocinio le cause interne e formali del morbo dai fenomeni che esso presenta all' osservazione, è già questo solo un lavoro d' immensa difficoltà ed incertezza, evitato dalla medicina sintetica; e la difficoltà in gran parte, di cui abbiamo parlato, nasce principalmente dalla complicatezza del corso zoetico, di cui prima di tutto converrebbe conoscere a pieno la teoria; e poscia dedurne le deviazioni anormali e i loro caratteri, e finalmente poterne rilevare la realizzazione nel fatto concreto dell' ammalato che si cura. La seconda proposizione del sillogismo della medicina sintetica risulta ancora da accurate osservazioni. La seconda proposizione del sillogismo della medicina analitica è una illazione, di nuovo cavata coll' opera del raziocinio dalle osservazioni precedentemente supposte. Anche qui tutta la fatica del raccogliere, accertare e classificare le osservazioni è comune alle due forme di medicina; ma all' analitica soprastà oltre a ciò un fardello infinitamente più pesante, quello di determinare l' azione dei rimedi non già in relazione immediata al morbo, ma in relazione alle cause interne e formali di esso; di determinare il metodo curativo, non già notando se con esso un infermo si approssima allo stato di sanità o più se ne allontana, ma se l' azione interna di esso metodo restituisca le cause supposte della sanità, e tolga le morbose, o faccia il contrario. Qui giace una difficoltà smisurata, che in un Trattato dell' esperienza in medicina dovrebbe svolgersi minutamente e positivamente in tutte le sue parti, e che noi non possiamo considerare, a piccol saggio di ciò che brameremmo fatto da altri, se non da qualche lato parziale. Diciamo, adunque, che ogni effetto che s' ottenga nel corpo umano non si deve considerare come un prodotto di un solo agente, ma concorrono a produrlo sempre due cause, l' agente e il reagente . L' azione qui s' accompagna di continuo colla reazione , e lo stato del corpo, che ne consegue, non è che il risultamento di questa azione e reazione concomitante. Ora se l' azione è correlativa all' attività dell' agente, la reazione è correlativa all' attività (1) del paziente. Quindi il vero effetto d' uno stesso agente varia e talora riesce opposto, qualora lo stato del reagente cangi, e pigli un' attitudine opposta. Di che consegue che non si può predire il vero effetto, che porterà un rimedio applicato al corpo umano, volendolo dedurre dalle cause, se non si conosce a pieno lo stato del corpo umano, a cui si applica; il qual corpo umano è appunto nel caso nostro l' ente che deve reagire. Questo principio innegabile è conosciuto ed ammesso. Se non che, quegli stessi che ne riconobbero l' importanza massima che egli ha in sè stesso, non ebbero poi sempre la logica necessaria da saper procedere con lentezza bastevole nelle deduzioni che vollero cavarne. Chi lo conobbe meglio, a ragion d' esempio, dell' illustre Rasori, che tanto illustrò il fatto della capacità morbosa , fino quasi ad elevarla al grado di suprema regola in medicina? Ma è ben altro conoscere un vero nella sua vuota generalità, e altro saperlo ravvisare in atto, in concreto. Non si abbandonò egli forse di soverchio alla fiducia di conoscere senza molta difficoltà lo stato intero e l' etiologia dei morbi, contentandosi di due semplici parole, quali sono in fine quelle di soverchio stimolo e difetto di stimolo? Chi diede più importanza allo stesso principio di Hahnemann, che si consigliò di voler conoscere prima di tutto l' effetto dei rimedi sul corpo sano? Ma con qual precipizio non ne tirò poi la conseguenza generale, che l' agente nel corpo ammalato avrebbe prodotto sempre l' effetto appunto contrario, fondando, sopra un' illazione sì avventurata, impossibile a provarsi per la sua stessa vastità ed ambiguità, tutta quanta la medicina? Ciò che non si conobbe adunque da questi medici si fu la somma difficoltà di cavare delle illazioni logiche da quel principio. E veramente, chi pretende di valutare l' effetto dei rimedi amministrati al malato, calcolando lo stato del corpo reagente e l' efficacia del rimedio agente, in prima si presenta la difficoltà di conoscere appunto lo stato del corpo che deve reagire; e qui tornano in campo la complicazione e le leggi arcane del corso zoetico, e delle molle e forze ad ogni ora mutabili, che lo producono. Di poi viene la difficoltà di conoscere l' agente e la sua efficacia, la quale è certo costante per sè sola, ma non per questo è meno difficile a rilevarsi in correlazione all' effetto. Ecco alcune circostanze delle molte, che dovrebbero essere discusse nel Trattato dell' esperienza . Quando l' agente è complesso, cioè risultante da più elementi e forze diverse, e così pure quando il reagente è complesso, risultante anch' esso da più elementi suscettibili di passioni e reazioni diverse, allora diviene cosa difficilissima, e spesso fallacissima presagirne il vero effetto; il quale può accadere contrario, nonchè diverso da quel che si presagisce, o da quel che indicherebbe il solo agente per sè considerato. Esempi. - Complessità del reagente. - Il freddo abbassa il fluido contenuto nel termometro. Eppure attuffandosi il termometro nell' acqua fredda, al primo istante s' innalza il detto fluido, e tuffandosi nell' acqua bollente si abbassa. Onde questo contrario effetto difficile a prevedersi, se l' esperienza non lo dimostrasse? Di qui certamente, che il paziente e reagente, cioè il termometro contenente il liquore, non è semplice, ma composto di due parti, che sono: 1 il tubo; 2 il liquore. Ora avviene che allargandosi il tubo, debba discendere il liquore, restringendosi il tubo, debba salire. L' azione dunque del freddo e del caldo nel primo istante si comunica al tubo, e non penetra al liquore se non dopo qualche momento. Indi il fenomeno che dicevamo. Si noti la specie d' opposizione, che somiglia a un antagonismo senza esserlo, fra il tubo e il liquore contenuto nel tubo; scaldandosi l' uno e l' altro, il tubo allargandosi fa scendere il liquore, e il liquore in pari tempo diradandosi vuole ascendere. Dei due effetti contrari, quello che prevale suol pigliarsi per l' effetto dell' agente, e pure non è; anzi è solo la differenza fra due effetti opposti, prodotti dallo stesso agente. Il fuoco dilata; e perchè dunque restringe una palla di molle creta? Perchè la palla di creta è composta d' argilla e d' acqua; dilatando l' acqua in vapore, lascia restringersi fra loro le parti argillose, che non hanno più impedimento ad attrarsi. Complessità dell' agente. - L' agente è complesso, se risulta da sostanze di proprietà diverse, e quindi può dare un effetto inaspettato. L' agente può essere semplice quanto alla natura della sostanza, ma la stessa sostanza può agire con forze diverse. A chi domandasse quale sia l' azione dell' aria sul fuoco, che converrebbe rispondere? E` evidente che l' aria sul fuoco produce effetti contrari, secondochè opera con forze chimiche oppure con forze meccaniche . Se opera con forze chimiche lo alimenta, somministrandogli idrogeno e ossigeno; all' incontro se opera con forze meccaniche, siccome accade in una impetuosa colonna d' aria, lo spegne. S' ingannerebbe dunque colui, che considerasse nell' aria una sola di queste due maniere di forze, e decidesse che l' aria fa sempre sul fuoco il medesimo effetto. Il freddo restringe i corpi, sottraendo loro il calorico, che tiene le loro molecole ad una certa distanza. Or bene, l' acqua che si va restringendo a mano a mano che cresce il grado del freddo, tutto ad un tratto si dilata nell' atto del congelarsi. Lo stesso accade al zolfo, al ferro, ad altri metalli, che si dilatano, passando dallo stato di liquido a quello di solido per raffreddamento. Ora: 1 quasi tutto ciò che il medico adopera per influire sul corpo umano è complesso, sì per la pluralità delle sostanze, di cui è composto, sì per la diversità delle forze meccaniche e chimiche, colle quali agisce; 2 molto più lo stesso corpo umano vivente, che è quello che deve reagire, è oltremodo complesso, non solo per le varie sostanze di cui si compone, ma per le proprietà e forze meccaniche, fisiche, chimiche e vitali, che in esso agiscono simultaneamente e spesso in un senso opposto, e non solo con diversità di effetto, ma fin anche con vero antagonismo. Il Trattato dell' esperienza , da noi desiderato, dovrebbe discendere al particolare, e mettere in aperto tutte le diverse classi d' illusioni, in cui si può dare in conseguenza della molteplicità di sostanza e di forza degli agenti (rimedi, metodo curativo) e del reagente (corpo umano). E questo non basta ancora; dato pure che fosse semplice la sostanza e la forza, sì dell' agente che del reagente, se ne può avere tuttavia ora un effetto, ora un altro diverso, ed ora uno del tutto opposto solo che cangino le circostanze, gli accidenti, nei quali l' agente ed il reagente si trovano. Un cenno anche di ciò. Forze vitali. - Queste producono un effetto diverso, come vedemmo, secondo la condizione della materia in cui agiscono, dell' organizzazione, ecc.. Producono un effetto diverso, secondo che la loro azione si considera come modificatrice piuttosto delle forze meccaniche che delle chimiche, ecc., o viceversa. Producono un effetto diverso, secondo che la loro spontaneità è più o meno suscitata, più o meno disposta ad operare. Forze chimiche. - Ogni sostanza chimica agisce in modo diverso, secondo che deve agire in un' altra sostanza, colla quale ha una data affinità o ripugnanza. Agisce in modo diverso, secondo la proporzione delle due o più sostanze che si mescolano insieme; secondo il modo col quale si mescolano, il tempo, la vicinanza, le forme, e secondo tutti quegli accidenti, che i chimici notano con diligenza. Agisce in modo diverso, secondo che è sostanza elementare, o sostanza composta di più elementi, la sostanziale unione dei quali dà ad esse novelle proprietà. Forze meccaniche. - Il tempo, la celerità, le leggi della comunicazione del moto, la forma, il contrasto delle forze, ecc., sono circostanze che producono effetti opposti e contrari. Un po' d' aria apre un uscio; una palla da fucile lo fora senza aprirlo. La forza è maggiore nella palla, eppure non produce l' effetto dell' aria, perchè la celerità della palla è tanta che non lascia tempo al movimento da comunicarsi a tutto l' uscio; ma, prima che nasca la comunicazione, produce l' effetto di staccare quel pezzuolo ch' ella preme con tanto impeto, dalla coesione che lo tiene unito col rimanente della tavola. Dovrebbero in una parola enumerarsi tutti gli elementi, che possono mutare l' effetto degli esperimenti, e anche renderlo contrario; cavando in fine per corollario la soluzione ben determinata dei seguenti problemi: « Quali illazioni logiche si possono cavare, con rigorosa certezza, da un effetto ottenuto da un esperimento, e quali non si possano ». « Quanto di probabilità può avere un' illazione, che si può cavare dall' effetto d' un esperimento, quando non può aversi la certezza ». La medicina sintetica dunque è soccorsa da quelle regole medie complesse, che vedemmo costituire la mirabile sagacità degli uomini prudenti quelle regole, che accorciano il cammino alla soluzione dei più ardui e complicati problemi. E questa è anche la via tenuta dai più celebri medici di tutti i tempi, da quelli che al letto dell' ammalato mostrarono sagacità e sicurezza in debellare i morbi. L' abbandonare queste regole complessive, per applicarsi ad analizzare gli elementi primitivi costituenti le cause dei morbi e della loro cura, diede spesso all' arte medica il tracollo, e crudelissimi patimenti e morti alla sofferente umanità. Ma se attenendosi a quelle regole, senza mai abbandonarle, si verrà di mano in mano discendendo a più particolari cognizioni, l' andamento sarà sicuro, e il progresso lodevole. Così la medicina sintetica , che non deve essere abbandonata mai, discenderà cautamente ad illazioni analitiche; l' unica maniera possibile di raggiungere e conciliare insieme l' una e l' altra medicina. Per quanto io credo, la medicina analitica non può aspirare ad essere sola, ella deve nascere dalla sintetica; sarà il difficile, il laborioso, e il non mai compiuto parto di questa. Tale è il destino dell' arte salutare. Torniamo al nostro assunto, dal quale ci allontanò una digressione, che non ci pentiamo d' avere intromessa, come quella che ci spiana il resto del cammino nell' argomento che trattavamo. Noi volevamo dimostrare l' incredibile varietà e molteplicità delle vie, per le quali scorre il corso zoetico, e la sua estrema mobilità alle cagioni anche minime, che lo fanno deviare dalla sua direzione. A tal uopo noi abbiamo esposte le varietà primitive del sentimento fondamentale di continuità, e dell' istinto vitale che lo produce, le varietà degli stimoli primitivi e naturali, e delle sensioni che ne sorgono, e del medesimo istinto vitale, che mette in essere il sentimento fondamentale d' eccitazione, siccome pure la varietà della sensitività , cioè della facoltà che ha il sentimento fondamentale d' eccitazione di modificarsi sotto nuovi stimoli accidentali, e dar luogo a sensioni parziali, anch' esse accidentali. Le sensioni, che insorgono come conseguenza di stimoli primitivi dati dalla natura e non prodotti dall' istinto stesso animale, furono da noi dette primitive ; quelle poi che vengono prodotte in conseguenza di stimoli generati dall' azione dell' istinto, furono dette seconde . Di queste e delle loro varietà noi dobbiamo ancora parlare. A formarsi chiaro il concetto di queste sensioni seconde, e a vedere quanto esse influiscano sul corso zoetico, è uopo chiamare all' attenzione la dottrina della forza sintetica dell' animale, che noi abbiamo data nell' Antropologia . Appunto questa forza fa sì che le sensioni seconde, le quali succedono alle prime, suscitino nel corpo umano nuove attività e come nuove potenze, immutanti il corso zoetico, giacchè ogni associazione di sensioni figurate o non figurate, d' immagini, di sentimenti attivi o passivi (1), suscitati o risuscitati, intellettivi o corporei, producono nell' animalità un nuovo stato, nuove attività, nuovi movimenti. Le sensioni associate poi si fondono in quella che abbiamo chiamata affezione , e che è un sentimento universale medio fra le sensioni e le passioni . Infatti, come l' affezione è un effetto prodotto nella condizione sensuale di tutto l' animale dalle sensioni speciali contemporanee, così le passioni sono un effetto di quell' affezione, onde prende la spinta a muoverle l' istinto sensuale. L' istinto sensuale mosso dall' affezione determina le passioni animali, sempre e poi sempre secondo quella legge, che « il sentimento prende l' atteggiamento, che gli è più comodo e naturale ». Se nella tristezza vedesi l' istinto sensuale abbandonato all' inattività, egli prende questo modo, perchè a fare il contrario gli costa troppo; se nella gioia egli è tutto attivo, è perchè gli accomoda meglio quest' attività. Talora gli è meno gravoso il patire in quiete, e allora s' adagia in essa, come in un modo di essere a lui più comodo ed opportuno. S' adagia talora in uno stato di quiete, per ricevere più a pieno la gradita sensazione. Talora è irrequieto e attivo, per cercarla o cercarne l' occasione. L' ira è attiva; l' istinto sensuale nell' ira gode di quell' atteggiamento, che consiste in quell' attività veemente, bellicosa, che sorge quando un' altra attività precedente incontrò un ostacolo a pienamente spiegarsi e soddisfarsi. Ma l' ira, come qualunque altra passione, se diviene eccessiva, è uno stimolo troppo forte, e allora fa l' effetto degli stimoli eccessivi, istupidisce. Il qual fatto prova appunto che le sensioni hanno natura di stimoli, e che è il principio sensitivo quello che determina la legge degli stimoli, non è lo stimolo materialmente preso, giacchè gli stimoli materiali e gli stimoli spirituali, come sono le passioni, ubbidiscono alla stessa legge d' istupidire, se oltrepassano un certo grado di forza. La forza dell' abitudine , a cui soggiace l' istinto sensuale ed anche il vitale, in quanto produce il sentimento fondamentale d' eccitazione e le prime sensioni, ha un' influenza immensa sulla condizione sanitaria del corpo. Perchè avviene, a ragion d' esempio, che gli abitatori delle montagne, o dei luoghi ove l' aria è asciutta ed ossigenata, paghino il tributo all' aria più o meno stimolante di altre regioni, ove sono paludi, risaie o altre cause di miasmi, o anche semplicemente all' aria umida e più grossa, e che in appresso, dopo essere soggiaciuti a febbri, infiammazioni, ecc., vengano assuefacendosi alla nuova atmosfera? E` troppo manifesto che ciò procede dall' abitudine, e pare che la cosa possa seguire a questo modo. L' abitudine dell' istinto animale può diminuire od accrescere l' effetto degli stimoli esteriori, secondochè egli sottrae ad essi od aumenta la propria cooperazione, e più o meno cospira con essi alla produzione dei movimenti e delle sensioni provocate. L' istinto animale è dunque quell' arbitro, quel regolatore, che equilibra od accorda la tensione e l' attività della fibra nervosa cogli stimoli maggiori o minori dell' atmosfera, nel modo il più vantaggioso. Ma quando questo equilibrio ed accordo è già una volta bene stabilito in armonia d' una data atmosfera, e la fibra nervosa s' è mantenuta lungamente in quella tempera e grado e metro d' attività, che ben conveniva alla quantità e qualità degli stimoli, che porgeva alla cute un dato clima; allora quel dato grado e quella data tensione della fibra si conservano, e continuano abitualmente per qualche tempo anche sotto il nuovo clima; e quindi avvengono le malattie. Poichè se l' atmosfera, in cui prima l' animale si ritrovava, era poco stimolante, la vitalità suppliva ella stessa colla sua azione al poco eccitamento esteriore; ma questa azione diviene soverchia in un' altra atmosfera assai stimolante, e l' effetto eccessivo si manifesta coll' infiammazione. Di più, quando il corpo umano ebbe presa l' abitudine di vivere soggiacendo a pochi stimoli, tutto il corso zoetico nelle sue sensioni e nei suoi movimenti si conforma convenientemente con armonia di moti e di funzioni. Ma se gli stimoli esteriori vengono subitamente accresciuti o diminuiti, il cangiamento non può succedere ad un tempo in tutti i moti e le funzioni, che costituiscono il corso zoetico; ma dapprima in quella parte, a cui gli stimoli sono applicati, e, parlandosi di atmosfera, alla pelle, al polmone, al sangue; onde a principio deve succedere uno squilibrio fra l' attività, in cui si mettono certe parti del corpo, e quella di certe altre, che non risentono immediatamente l' azione dei nuovi stimoli; e un tale squilibrio di attività fra parti e parti, fra vasi e vasi, fra porzioni di vasi ed altre porzioni, sono cause, come già vedemmo, di malattie, di quasi tutte le malattie. Con un ragionamento simile si può spiegare la nostalgia, in quanto ha di fisico, le malattie, a cui soggiace il corpo per le mutazioni atmosferiche anche nello stesso clima, ecc.. E quindi converrebbe classificare diligentemente gli stimoli, e investigare se e quando, mutandosi le condizioni dell' atmosfera, o accadendo altri accidenti, una classe di stimoli esterni venga ad accrescersi, un' altra a diminuirsi; il che di nuovo potrebbe recare squilibrio e sconcerto, e spiegare la diversità dei morbi che si manifestano. Gli stimoli accrescono l' attività nell' animale, ma alcune volte in pari tempo la perturbano. Questo ci richiama a parlare delle diverse maniere di debolezza e di robustezza, che nell' animale si manifestano, e a cercare se la debolezza e la robustezza patologica può tenersi come ben fondata. Vi è primieramente una debolezza nell' istinto vitale, ed un' altra nell' istinto sensuale. Consideriamo la debolezza nell' istinto vitale, prescindendo, per un poco, dall' influenza che può esercitare su di lui l' istinto sensuale. Due sono gli effetti primitivi dell' istinto vitale: 1 produce il sentimento fondamentale di continuità, rispetto al quale egli viene indebolito dall' opposizione della materia o forza straniera; 2 produce le sensioni, quelle che costituiscono il sentimento fondamentale d' eccitazione, ed anche le accidentali, che sono provocate da stimoli esterni accidentali; e in quanto a questo effetto vien egli indebolito dalla scarsezza e inopportunità degli stimoli. L' istinto vitale, mettendo in atto il sentimento fondamentale, specialmente quello d' eccitazione, dà luogo altresì alla sequela di alcuni fenomeni extrasoggettivi, come sarebbe del tono della fibra viva, la tensione dei nervi ed incessanti movimenti intestini. La debolezza di lui si manifesta anche nella scarsezza di tali fenomeni. Diamone alcune prove di fatto. Legandosi i vasi, e impedendosi che il sangue rosso inaffii qualche parte del corpo, questa diventa floscia, insensata, si paralizza. La legatura dei nervi reca effetti somiglianti. E poichè tali effetti si diffondono secondo la sfera d' azione dell' attività vitale, che è diversa dall' organizzazione materiale ed extrasoggettiva, quindi si hanno gli effetti simpatici in parti prive di una prossima connessione organica col nervo legato. Molinelli e Brunn, avendo legati i nervi pneumogastrici di alcuni cani, n' ebbero per effetto la dilatazione della membrana pupillare, l' occhio divenuto secco e torbido, diminuito di volume, l' iride abbrunita, la figura della pupilla alterata. E` dunque evidente che l' attività dell' istinto vitale, avvivando il corpo, obbliga le sue particelle extrasoggettive a comporsi in un dato modo, a prendere e tenere una data proporzione reciproca, a certe azioni e moti intestini, i quali sono tutti effetti extrasoggettivi. Non si dimentichi che la descritta debolezza del principio vitale nel produrre i due effetti indicati, e la lotta che per ciò deve talora sostenere, suppone un animale già esistente; di che nasce la conseguenza che la disposizione imperfetta della materia e l' inopportunità degli stimoli non può essere mai universale, ma deve sempre appartenere a qualche località determinata, o che questa abbracci un luogo solo o più, sia più o meno estesa. La ragione di che si è che il principio animale non esisterebbe come individuo agente, se non avesse almeno qualche parte di materia in suo pieno dominio, e alcuni stimoli opportuni, che dessero luogo al sentimento fondamentale d' eccitazione necessario all' esistenza dell' animale. Ora poi s' aggiunga anche la considerazione dell' influenza, che sostiene l' istinto vitale dall' istinto sensuale e dal principio intellettivo. Può benissimo essere indebolito da quella influenza, ma l' effetto di tale influenza si manifesta anch' esso con un cert' ordine, relativo alle diverse parti del corpo, e per conseguente non è senza qualche località, secondo l' organo della passione animale che fu suscitata. A ragion d' esempio, l' ira, la vendetta, e tutte le passioni che partecipano della tristezza, affezionano di preferenza il fegato; l' itterizia è spesso cagionata da cause morali. Se la passione ha un' origine intellettiva, il primo organo interessato deve essere l' organo dell' immaginazione, il cervello; ma le immagini che trascinano il pensiero, ed il sentimento intellettuale che ad esse si attiene, operano sul principio animale, e questo poi, come istinto sensuale, provoca, accresce, diminuisce, altera l' azione del fegato (1). La debolezza dell' istinto vitale, che procede dalla sua relazione colla materia, nasce anche qualora il corpo perda insensibilmente delle molecole, come per traspirazione, ecc., senza che vengano ripristinate per altre vie naturali, come per alimento, ecc.. Allora il sentimento di continuità va scemando, ma non succede turbazione, ma solo diminuzione del sentimento di continuità e d' eccitamento; e lo stato di debolezza conseguente non si può dire morboso fino a che, oltrepassando un certo grado, non muti di condizione, o almeno non si può dire debolezza diatesica , giacchè non produce processi morbosi indipendenti. Che se la perdita naturale di molecole vive continua senza riparazione, va scemando l' attività dell' istinto vitale, e quindi si rallentano tutte le funzioni. Quando poi questo rallentamento è giunto a un certo grado, la scarsa materia, di cui il vivo è composto, riducesi a tale che non è più dominata sufficientemente dall' istinto vitale, e quindi le forze materiali entrano con esso in lotta, incominciando tosto lo stato morboso o diatesico, che in questa lotta consiste. Ma se dal corpo vivente si stacca una parte in modo non naturale, ma violento, conviene distinguere due effetti di questa separazione: quello che nasce nel sentimento di continuità, il quale si discontinua e resta diminuito delle parti staccate, il che non è ancora condizione morbosa; e quello che nasce nel sentimento d' eccitamento, cioè il dolore e i successivi processi e movimenti intestini, e questa è condizione morbosa. Se la ferita non divide dal corpo alcuna parte, non vi è diminuzione di parti (prescindendo dalla perdita del sangue, ecc.), ma solo eccitamento e processo conseguente, che finisce o col rammarginamento, o in altro modo. Il dolore, cagionato dalla ferita, procede da due cagioni: 1 dall' inegualità del taglio, il quale non recide la parte così di netto che non lasci alcune particelle nè appieno divise, nè appieno unite, sicchè l' istinto vitale combatte con esse per rattenerle, mentre esse hanno perduta quella conveniente posizione e conformazione, che è necessaria al pieno dominio della vita; 2 dal perdere che fa l' organizzazione di quella perfetta configurazione, che rispondeva all' atteggiamento preso prima dal sentimento; onde questo si trova costretto ad atteggiarsi diversamente, e si sforza di farlo; dal che dipende la tendenza che dimostra a rammarginare la ferita, se gli vien fatto di configurare l' organismo al suo bisogno, o di disciogliersi e abbandonare quell' organismo, se non gli vien fatto. E il dolore prodotto da queste cagioni, e anche il solo sforzo che fa il sentimento all' uno di questi due intenti, è la causa del processo morboso, che finisce o colla sanità o colla morte. Una lotta si manifesta altresì, ogni qual volta qualche agente straniero giunga a sottrarre qualche porzione della materia vivente dal pieno dominio della vita, senza però che ella resti del tutto spoglia di vita. Determinato così il concetto dello stato morboso, noi possiamo distinguere tre maniere di robustezza e di debolezza, la fisiologica e la patologica , che si suddivide in patologica semplice e in diatesica . Le quali denominazioni non pretendiamo che sieno le più proprie ed acconcie, e potranno benissimo essere mutate in altre migliori dai dotti; ma ci si permetta di adoperarle intanto a significare, comecchessia, i nostri concetti. Chiameremo, dunque, robustezza o debolezza fisiologica quella del principio della vita nell' esercizio della sua dominazione sulla materia, quando questa dominazione è perfetta, pacifica, senza irritazione, senz' alcuna lotta. Il sentimento, in cui questa dominazione consiste, è per essenza piacevole. Chiameremo patologica quella robustezza o debolezza che manifesta il principio vitale, quando non domina pienamente, in modo da produrre il conveniente e soddisfacente piacere della vita d' eccitamento. Se manca qualche cosa all' integrità dell' organizzazione, come nello stato di fame e di estenuazione, vi è certamente uno stato che s' allontana dalla piena sanità; ma considerato questo stato da sè solo, benchè si possa dire, in qualche modo, patologico o morboso, non si può dire ancora diatesico, perchè non manifesta a chiari segni la lotta, ma solamente l' inazione dell' istinto vitale. Accordo che questa inazione trarrà dietro a sè una lotta, almeno se giunge a certo grado, come fu detto innanzi, ma resta sempre separato il concetto della lotta , a cui appartiene lo stato diatesico, dal concetto della semplice inazione . Sicchè quando queste due cose si trovano insieme, meritano ancora d' essere l' una dall' altra colla mente distinte. Come dunque definiremo e descriveremo quella robustezza e quella debolezza patologica, che diciamo diatesica? Noi la ravvisiamo in una robustezza o debolezza bellicosa, che dimostra nei suoi atti il principio della vita. Perocchè nella lotta indicata, il principio della vita, ora combatte con forza ed impeto, ora debolmente più che non gli sarebbe mestieri. Il che richiede qualche dichiarazione. Primieramente noi crediamo doversi distinguere la causa efficiente prossima della malattia dall' essenza di essa. Riconosciamo che la causa efficiente della malattia possa consistere talora in un' azione troppo veemente, talora in un' azione troppo allentata del principio vitale. Dico azione veemente e azione allentata piuttosto di dire robustezza o debolezza , poichè queste ultime parole meglio si applicano a significare uno stato che non sia un atto; e la causa prossima efficiente della malattia, in quanto appartiene al principio vitale, non può essere che un atto che produce poi, insieme ad altre cause, lo stato morboso. A ragion d' esempio, la gioia improvvisa d' un lieto avvenimento può aumentare momentaneamente l' azione del principio vitale, a segno da spingere il sangue con impeto maggiore di quello che possano sostenere le pareti dei vasi, e far succedere un' apoplessia. La tristezza può cagionare la morte in un modo opposto, diminuendo al principio vitale talmente la sua azione da rallentare la circolazione, e così, accumulandosi il sangue nei grossi vasi, illanguidire siffattamente tutte le funzioni vitali, sino a venirne la morte quasi spontanea, «abiastos». Ma questa esaltazione o questa depressione di forza, con cui agisce il principio vitale, non è la malattia, benchè ne sia la prossima causa efficiente; distinzione, che si deve fare accuratamente, se si brama giungere ad una teoria chiara dei morbi. La semplice diminuzione o il semplice aumento di forza nell' azione del principio vitale non costituisce dunque la malattia, ma può esserne la causa; e lo è di fatto, ogni qualvolta quell' azione diminuita o quell' azione accresciuta rechi qualche alterazione nell' organismo, o nella materia organata e vivente; per la quale alterazione il principio vitale sia contrariato nel pieno suo dominio sulla materia vivente, sicchè questa tenda a sottrarsi da lui, e così incominci la lotta che dicevamo. Secondo questo concetto della malattia è uopo conchiudere che in tutte le malattie, niuna eccettuata, v' è una debolezza, la quale è il fondo della malattia stessa; e questa debolezza fondamentale consiste nel dominio diminuito del principio vitale sulla materia. Laonde se talora il principio vitale, durante lo stato di malattia, fa sfoggio di forze straordinarie, non si deve conchiuderne che egli sia più forte, ma solo che egli sia più irritato, se ci si concede di così parlare, a quel modo appunto che un principe, il quale tiene in così perfetta soggezione i suoi sudditi che questi non possono muovergli alcuna ribellione, è più forte di quell' altro, a cui i sudditi ribellati dànno battaglia con dubbia sorte, benchè questo secondo spieghi maggiori forze militari, e faccia più prodezze del primo. La violenza dunque, con cui opera il principio vitale durante lo stato morboso, a vero dire, non è segno di robustezza, ma più veramente di debolezza, d' un impero pericolante. Onde, cessata la lotta, colla vittoria cessa altresì lo sfoggio delle forze bellicose, ed apparisce la debolezza nel principio vincitore; ed è perciò che tutti i convalescenti sono deboli; manifesta prova, per quello che pare a noi, che il principio vitale in istato di malattia è sempre più debole che in istato di sanità, benchè non paia, perchè in guerra; siccome accade anche che un uomo debole, se una grande ira lo coglie, spiega più forza d' un altro veramente forte, tranquillo e quieto. Vi è dunque in qualsivoglia malattia debolezza e forza. Vi è una debolezza fondamentale, relativa alle forze materiali insorgenti contro al dominio della vita. Vi è una forza bellicosa, che il principio della vita trae in palese, affine di conservare il suo impero minacciato, e riacquistarne la pienezza. Questa forza bellicosa è quella che trasse principalmente l' attenzione delle moderne scuole di medicina, e che produsse le dottrine dello stimolo e del controstimolo. Facciamovi sopra qualche osservazione. L' azione dell' istinto animale non esce dalla sfera del sentimento ma i diversi suoi atteggiamenti tirano dietro a sè i movimenti extrasoggettivi. Questi movimenti nella materia influiscono a provocare nuove azioni e nuovi atteggiamenti del sentimento medesimo, perchè la stessa materia, che da una parte è fuori del sentimento, dall' altra è animata e sentita. Di qui deducevamo che l' azione del sentimento, e restringendo il nostro discorso, l' azione bellicosa del sentimento può produrre nella materia organata modificazioni salutari o perniciose; e benchè il sentimento nel suo operare sia cieco rispetto all' utilità o al danno di questi effetti extrasoggettivi, influenti poi nella condizione soggettiva, tuttavia la Provvidenza ebbe prestabilita un' ammirabile armonia, per la quale spesso, se non sempre, i movimenti prodotti dovessero riuscire utili all' animale. A ragion d' esempio, la parte infiammata, dolente, o estremamente sensibile ricusa qualunque stimolo; ora l' istinto sensuale produce quei movimenti che può e l' organismo gli consente, per ricacciare ogni materia toccante la parte ammalata, o altra con quella legata. Nell' encefalite, nell' idro7encefalite, nelle apoplessie, ecc., i vomiti sono frequenti; i nervi dello stomaco ricusano gli stimoli, ecc.. L' istinto sensuale non cerca che a sottrarsi dall' ingrata e dolorosa sensazione, o dalla fatica molesta ai nervi, che dolenti vogliono riposo; ma è provvidenziale, che i movimenti che fa a tal fine sieno così concertati dalla natura da addurre l' effetto, che la materia stimolante ed extrasoggettiva venga espulsa (1). Gli sforzi bellicosi, adunque, del principio vitale, benchè sempre tendano, come in loro fine immediato e soggettivo, a perfezionare lo stato del sentimento , tuttavia non sempre sono utili alla salute; chè questa dipende in gran parte dalla condizione della materia extrasoggettiva; e quegli sforzi, benchè abbiano sempre uno scopo salutare immediato entro il soggetto, traggono seco dei movimenti extrasoggettivi (costituenti in parte i processi morbosi), per quel misterioso vincolo che l' ordine soggettivo ha coll' ordine extrasoggettivo; i quali non sempre riducono a migliore stato e disposizione la materia organata, ma talora la sconcertano ed indispongono maggiormente; di che essa, vie più sconcertata e più indisposta, determina l' anormalità del corso zoetico, che si rende finalmente esiziale. Posto dunque che la malattia sia avvenuta mediante una irritazione , presa questa parola in un senso generale per indicare « un conato della materia a sottrarsi dal dominio della vita », qualunque sia la causa che abbia prodotto questo sconcerto, e posto che il principio vitale insorga per ristabilire il suo dominio, possono accadere tre accidenti: Che il principio vitale non riesca a ristabilire il suo dominio pacifico, unicamente perchè agisce troppo debolmente, sicchè col solo aggiungergli delle forze, riuscirebbe l' effetto (debolezza soverchia universale dell' azione bellicosa senza sproporzione). Che il principio vitale non riesca a ristabilire il suo dominio pacifico, perchè operando con troppo impeto, produce movimenti violenti nella materia, sconcerti extrasoggettivi, che deteriorano lo stato della materia rispetto alla vita, anzi la rendono più ritrosa a ricevere il dominio (robustezza soverchia universale dell' azione bellicosa senza sproporzione). Che il principio vitale non riesca a ristabilire il suo dominio pacifico, perchè opera con azione disuguale e sproporzionata, cioè in certi luoghi o parti del corpo soverchia, e in altri luoghi, relativamente, troppo debole (soverchia robustezza e soverchia debolezza contemporanea del principio bellicoso, parziale e locale). Questi tre accidenti a prima giunta si presentano al pensiero; ma i due primi sono essi veramente possibili? Non parmi; non credo almeno, come ho detto prima d' ora, che costituiscano una diatesi morbosa , benchè ne possano essere cagione. Infatti, dato che, per qualsivoglia causa, il principio vitale sia universalmente indebolito, se si astrae dagli effetti che questa debolezza può produrre, altro non si ravvisa che una vita poco attiva e non più; il che per sè non è condizione morbosa; e se questa debolezza e inattività è cagionata da una irritazione o condizione morbosa precedente, in questo caso la condizione morbosa non è la debolezza, ma precede a questa siccome causa, e va fornendo il suo corso, senz' avere a fronte chi fortemente glielo contrasti. Che se non si tratta di debolezza dell' azione bellicosa, ma di debolezza dell' azione vitale in generale, questa potrà essere cagione della malattia, senza essere la malattia, allorquando il rallentamento delle funzioni della vita cagioni qualche sconcerto, pienezza o congestione di umori, ecc. (1), e allorquando ebbero luogo solo questi effetti, incomincia lo stato morboso e la lotta; ma questi effetti sono tutti locali, e perciò appartengono al terzo degli annoverati accidenti. Lo stesso dicasi della robustezza universale dell' azione bellicosa. Per sè non è la malattia; ma se la veemenza dell' azione bellicosa, o anche la forte azione della vitalità universale eccitata, produce qualche sconcerto nella materia, come rottura di vasi, o altro, in tal caso la malattia incomincia con questi effetti, i quali sono locali e parziali. E si consideri che ogni irritazione, che determina l' azione bellicosa, è sempre locale. Ora dove si trova località, ivi è successione di azioni e di movimenti, che da una si estendono ad altre parti, secondo l' organizzazione della materia e l' atteggiamento del sentimento. Così se una ferita al cerebro determina un' epatite, è evidente che questo effetto succede al primo, ed è un male locale che succede ad un altro pure locale; e ciò in conseguenza dell' azione bellicosa del principio della vita, sollevata dalla prima irritazione locata nel cerebro. Quindi nella condizione morbosa la lotta non abbraccia mai egualmente e contemporaneamente tutte le parti del corpo, ma è determinata ad alcune, ed una succede all' altra; il che fa sì che in ogni condizione morbosa si verifica il terzo accidente, pel quale « il principio vitale opera con azione disuguale e sproporzionata, di modo che in certi luoghi del corpo è maggiore che in altri ». Ristretto in tal maniera il concetto della malattia, e distinta l' igiene, a cui appartiene di conservare e rinforzare la sanità, dall' arte di guarire, conviene porre l' occhio alla località, dove incomincia l' azione bellicosa, e a tutte le altre località alle quali ella estende i suoi effetti, considerando: Che l' azione bellicosa di sua natura affatica e spossa il principio vitale; e quindi spesso avviene che col diminuirla, lungi dal diminuire le forze dell' ammalato, anzi si conservano, come si conservano le forze di colui, a cui cessano le fatiche e gli sforzi. Che l' azione bellicosa, esaurendo le forze del principio vitale, produce il contrapposto di un' apparente robustezza in quelle parti dove l' azione bellicosa si spiega, e d' una manifesta debolezza ed estenuazione in tutte le altre. Così accade nelle infiammazioni locali, che dimagrano ed estenuano il corpo, mentre nella parte infiammata si osserva grande azione, che non è punto robustezza, ma azione bellicosa e sforzo eccedente. Che l' azione bellicosa, nascendo da una primitiva irritazione, o non genera ella stessa altre modificazioni irritatrici della materia, e in tal caso cessa ogniqualvolta si può far cessare l' irritazione primitiva (malattie d' irritazione); o genera nuove modificazioni irritatrici, e per restituire la sanità conviene modificare la stessa azione bellicosa (malattie di diatesi). Talora l' azione bellicosa locale produce modificazioni irritatrici della materia, perchè i movimenti suscitati nelle parti o particelle sono tali, che non possono essere dominati e regolati dalla forza del principio vitale; e in tal caso v' è eccedenza rispettiva d' azione bellicosa locale, unita a debolezza rispettiva di vitalità universale; e fu probabilmente questo caso che indusse i medici a stabilire quella classe di malattie, che essi chiamarono di diatesi stenica . Se l' azione bellicosa locale è più debole dell' irritazione che la cagiona, ella permette a questa di prevalere, e la materia mal disposta si sottrae sempre più al dominio della vita; fu probabilmente questo caso che indusse i medici a stabilire quella classe di malattie, che essi chiamarono di diatesi astenica . Certo è che qualora la vitalità è più robusta, è altresì maggiore l' azione bellicosa. Onde accade che ogniqualvolta si crede utile diminuire l' azione bellicosa locale, si ricorre a quegli espedienti che sembrano diminuire la forza della vitalità; e qualora si crede utile d' accrescere l' azione bellicosa, pare che s' ottenga coll' accrescere la forza del principio vitale. Ma non è dimostrato che sia questa l' unica via di diminuire e di accrescere l' azione bellicosa; non è dimostrato che l' unica via sia quella di diminuire o di accrescere la robustezza del principio vitale. Resta dunque a cercarsi: Se forse l' azione bellicosa, producente una diatesi stenica, non si possa ricondurre sulla retta via coll' apporre ai suoi guasti una resistenza, accrescendo la forza della vitalità universale. Ovvero, posto che coll' accrescere la forza di questa vitalità universale, si abbia uno scapito e un vantaggio, lo scapito d' accrescere la forza bellicosa che mena guasto, e il vantaggio d' accrescere il potere universale della macchina che resiste a quel guasto, resta a cercare se non si possa mai avverare che questo vantaggio prevalga a quello scapito, e nel caso che qualche volta si possa, quando e come si possa. Se l' azione bellicosa, producente una diatesi astenica, si possa emendare unicamente coll' accrescere la vitalità universale, o coll' eccitare localmente un' altra irritazione e sollevare una nuova forza bellicosa (1); e in questo caso quali sono le cagioni perchè l' azione bellicosa non risponda vivamente allo stimolo, e si sta come avvilita, determinando i rapporti di queste cagioni diverse coi rimedi. Le quali sono tutte ricerche appartenenti alla medicina analitica. Torniamo ora sui nostri passi. Noi abbiamo manifestata l' opinione che il fondo di ogni malattia si riduca ad una debolezza dell' istinto animale. Crediamo importante non abbandonare questo argomento senza aggiungervi qualche altra riflessione, riassumendo e annoverando con maggiore chiarezza le cause che debilitano il detto istinto, e gli tolgono o diminuiscono il dominio su quell' esteso materiale, in cui termina il sentimento che costituisce l' animale. Primieramente rammentiamo che l' istinto animale per sè è inesauribile; i suoi limiti nascono unicamente dall' esser egli condizionato al sentito, suo termine. Il sentito si può concepire crescente di estensione senza confini; non v' è ragione di negare che il principio senziente possa invadere anche tutto l' universo, qualora fosse data la continuità necessaria delle parti; anzi egli tende in effetto ad estendersi ed a continuarsi ogniqualvolta al continuo, suo termine, s' aggiunga qualche altra parte di materia. Di che, se un corpo straniero tende a dividere il corpo vivo, l' istinto fa resistenza. In secondo luogo l' istinto animale ha la tendenza all' eccitamento, anche questa illimitata. Laonde colla sua attività egli asseconda e promove tutti i movimenti che vengono iniziati nel continuo, secondo le leggi prestabilite, che abbiamo indicate. In terzo luogo l' istinto animale tende a individualizzarsi, che è la via d' innalzare sè stesso alla maggior possibile potenza, e d' avere eccitamenti più forti e perpetui. Fa questo la stessa tendenza all' eccitamento, combinata colle forme degli elementi e delle molecole materiali; chè se in un continuo composto di elementi di forme immutabili si suppone una virtù, che assecondi ogni moto che in essi nasce, ritenuto sempre dentro la loro continuità, deve necessariamente venirsi formando una organizzazione sempre più conveniente a far sì che vi sia maggiore quantità e frequenza di moto, e che questo si perpetui; il quale moto non può essere nè massimo, nè perpetuo, se non è armonico, cioè se i moti parziali non hanno unità (1). Il sentimento dunque si atteggia necessariamente ad unità, come il modo a lui più naturale e più soddisfacente. Se dunque si considera l' istinto animale in sè stesso, non si trova alcuna causa che spieghi la sua debolezza e il suo malo stato; per sè tende necessariamente al bene, ed è capace di tutto. Ma la causa si trova bensì nella sua condizione, e in certe forze a lui superiori, che esercitano sopra di lui un' influenza. La condizione dell' animale, cioè il termine corporeo, deve avere tre accidenti: continuità, eccitamento, organizzazione. La continuità può essere divisa, non tolta affatto, perchè il corpo è essenzialmente continuo. L' eccitamento può essere tolto affatto, e in tal caso l' istinto vitale non produce più che il sentimento di continuità, non può più manifestare alcuna di quelle forze, che compiscono le funzioni animali; così cessa l' animale per semplice debolezza ed estenuazione. Può essere disciolta l' organizzazione , e in tal caso di nuovo l' animale non è più, egli ha perduta la sua individualità (1). Ma se l' eccitazione o l' organizzazione non è tolta repentinamente da qualche forza maggiore, ma solo è minacciata da una forza straniera, allora l' istinto animale entra con essa nella lotta sopra descritta. Oltracciò, nell' uomo il principio senziente soggiace all' azione del principio intelligente, col quale pure può lottare, o certo riceverne forza maggiore o debolezza. Indi è che i tipi primitivi di tutti i mali, a cui può soggiacere l' animalità nell' uomo, si riducono a due: 1) debolezza semplice del principio senziente; 2) attentato all' armonia dell' eccitamento. In quest' ultimo caso accadono tre accidenti: L' istinto animale nella lotta è più debole, e allora si avvilisce; la disarmonia dell' eccitamento si effettua e diviene maggiore fino a dissiparsi, rompendosi l' unità e l' individualità, onde la morte. L' istinto è più forte, e giunge a dominare la forza nemica, o ad espellerla, onde la sanità. L' istinto, benchè più forte, produce nondimeno, colla sua azione violenta, nuovi sconcerti nell' extrasoggettivo, e si crea così da sè stesso un nemico, che diviene più forte di lui, una nuova malattia con cui lottare; e qui si rinnova uno dei tre indicati accidenti. Consistendo adunque tutti i mali dell' animalità in debolezza del principio senziente, e in disarmonia dell' eccitamento sensibile, diciamo qualche cosa sull' uno e sull' altro tipo. Le cagioni proprie della debolezza del principio senziente nell' uomo, che vengono tutte dai due principŒ stranieri, coi quali è connesso (l' intelligenza e la materia), si riducono alle seguenti: Quando l' intelligenza fa conoscere all' uomo la propria impotenza in confronto alla difficoltà d' uno scopo ardentemente desiderato, si manifesta una diminuzione di forza anche nel principio animale; e ciò perchè il principio intellettivo e sensitivo s' identificano nell' uomo, onde la debolezza dell' uno è partecipata dall' altro. Diminuzione di coscienza di proprie forze è diminuzione di forze. Così, se l' intelligenza apprende un male imminente o già accaduto, si manifestano le passioni della paura, della sollecitudine, della tristezza, dell' ansietà, ecc. (1). All' opposto, qualora l' intelligenza apprende un bene imminente o già accaduto, si manifestano le passioni della speranza, della gioia, ecc.. E` un fatto che queste passioni non rimangono nella sfera dell' intelligenza, ma si diffondono a quella dell' animalità. Tutte le passioni tristi appariscono allorquando la circolazione e le altre funzioni animali si rallentano. Ora il rallentamento delle passioni animali è l' effetto manifesto della debolezza del principio motore, che è l' istinto sensuale. Dunque questo partecipa dell' affezione del principio intellettivo e della sua debolezza, che consiste nella scemata coscienza delle proprie forze, nella diminuzione del sentimento intellettivo; chè coscienza fa sentimento, e sentimento fa forza. E qui si noti che quando la cagione per la quale si debilita l' istinto animale, è una passione dell' intelligenza, l' indebolimento non è dapprima disarmonico, nè parziale, ma si rende tale nei suoi effetti successivi; chè l' intelligenza opera immediatamente nel principio senziente, che presiede, in vario modo però, a tutte le parti e funzioni del corpo animato. La seconda cagione, che scema l' attività del principio senziente, nasce dalla lotta morbosa; quando l' istinto sente d' avere contro di sè una forza maggiore, allora egli si scoraggia. E questo accade per l' unione del sentimento soggettivo colla percezione dell' extrasoggettivo avversario. Quando la forza dell' extrasoggettivo, percepita insieme col sentimento della forza propria, si fondono per la forza sintetica in un' affezione sola, allora si appalesano tali effetti di smarrimento. Se l' istinto animale sente dover combattere con un avversario forte, tanto meno opera, quanto più vi prova di fatica, fino a cessare del tutto dall' operare. Accade talora che quando l' istinto è valido e sicuro, ed opera energicamente, se d' improvviso gli si para innanzi un ostacolo, lo combatte con tanta forza, di cui ha contratta l' abitudine, che produce sconcerti nell' extrasoggettivo. Che se gli ostacoli sono molti e perseveranti, vanno un po' alla volta diminuendo e fiaccando l' ardore dell' istinto, e così togliendogli le forze, come si vede nel cronicismo, a cui passano talora le malattie più violenti. La terza cagione, che debilita l' azione dell' istinto animale, è la diminuzione degli stimoli interni. Questi possono diminuirsi in conseguenza d' una debolezza precedente dello stesso istinto, chè indebolito questo, si rallentano tutti i movimenti della macchina, e diminuzione di moto è diminuzione di stimolo. Ma si possono diminuire gli stimoli interni anche col diminuirsi degli umori, massime del sangue, il principale di essi, e in generale con una perdita di sostanza. La fame provoca idee tristi, scolora l' immaginazione, scoraggia, il languore si propaga a tutte le membra. Possono diminuirsi altresì per qualche ostacolo meccanico, che impedisca i movimenti della macchina vivente, come avviene nella ossificazione dei vasi, o che impacci la loro libera comunicazione, o ne scemi la celerità, come nelle ostruzioni, per esempio, se la mucosità spalma o ingombra le cellule aeree del polmone, come in sulla fine delle polmoniti, sicchè il sangue, non potendo compire l' ematosi, ritorni al cuore, quasi come ne è venuto, venoso e inattivo, o se si lega un nervo, ecc.. L' azione dell' istinto animale s' addebilita in quarto luogo diminuendosi gli stimoli esterni, cibi, bevande, aria atmosferica, ecc.. Viceversa s' accresce l' attività vitale per aumento dei medesimi, e s' accresce in diverso modo, secondo la qualità degli stimoli e la località a cui vengono applicati. L' ossido di carbone, recato ai polmoni mediante la respirazione, produce una speciale ilarità, l' inspirazione dell' etere solforico stupidezza dei sensorii, ecc.. E la stupidità della fibra, prodotta dall' eccesso di stimolo, è appunto la quinta cagione della debolezza dell' istinto animale nel suo operare. Per intendere di quale stupidità noi parliamo, conviene riflettere che lo stimolo non porta eccitamento, se non in quanto produce i movimenti intestini delle molecole animate. Se dunque i movimenti provocati sono contrari fra loro, sicchè l' uno elida l' altro, come accade sotto stimolo eccessivo, quei movimenti, facendosi minori ed opposti alla spontaneità animale, danno alla fibra una cotale stupidità non rispondente allo stimolo. Finalmente, se per qualsivoglia cagione accade che l' azione dell' istinto si concentri e quasi esaurisca in qualche parte del corpo, o in qualche sua speciale funzione od operazione, manifestasi altrettanta debolezza in altre parti, funzioni ed operazioni; il che accade però con grandi differenze e per vari modi, che è necessario distinguere. Generalmente parlando, è noto che la parte del corpo umano che più s' adopera, più si sviluppa, s' ingrandisce e fortifica. I muscoli dei contadini, dei facchini e d' altre persone addette ai mestieri faticosi, riescono di gran lunga più voluminosi e risentiti che non quelli di persone conducenti vita comoda e delicata. La stessa massa del cervello sembra accrescersi negli uomini dati agli studi. Fu detto che la grossezza maggiore, che aveva il cranio degli antichi germani, si dovesse attribuire ai pesi che usavano di portare sul capo. Una delle principali ragioni, per le quali l' istinto animale accumulando in modo straordinario la sua attività in qualche luogo speciale del corpo, la sottrae ad altri, si è quella della lotta morbosa. Quindi in tutte le malattie, le quali sembrano aver sempre, od acquistare in progresso, una località, scorgesi squilibrio di forza, troppa robustezza e troppa debolezza ad un tempo, attività soverchia in una parte, e inattività nelle altre. Venendo applicati al corpo animale stimoli esterni che producano piacere, e così accrescano l' eccitamento, la spontaneità animale accumula ivi la sua attività, per accogliere la maggior quantità possibile di quel piacere. Questa accresciuta attività nervosa in quella parte, vi determina poi anche maggior concorso di fluidi. Che se questo concorso è eccessivo, o se accade che i fluidi vadano a perdersi, può venirne gran danno al corpo; e questo è un caso di quella disarmonia eccezionale, che noi abbiamo indicata fra i fenomeni soggettivi e gli extrasoggettivi. Che se gli stimoli esterni applicati al corpo sono molesti, l' istinto animale ivi si attua per liberarsene. Ma questo attuarsi in quel luogo, vi produce medesimamente concorso di fluidi o stimoli interni, sicchè avviene che talora nello stesso tempo che l' istinto s' adopera a cacciare il soverchio e disordinato stimolo, che è stato applicato alla parte dal di fuori, egli stesso vi accumuli in quella vece altri stimoli interni. E questi recano sovente più danno al corpo che non farebbe l' azione degli stessi stimoli esterni, che egli s' affatica a cacciare; per esempio, mentre l' istinto cogli sforzi della tosse tenta liberarsi dell' irritazione che sente al polmone, nei bronchi, o alla trachea, egli stesso accumula in queste parti tanto di sangue che vi determina, o aumenta l' infiammazione, o anche produce rottura di vasi, onde la malattia termina coll' esito il più sinistro. E` specialmente la direzione e il concorso dei fluidi che produce la robustezza e la debolezza comparativa, di cui parliamo. L' attività dunque dell' istinto animale si può concentrare in una località, e mostrarvisi più o meno attiva per più ragioni; distinguiamole: I Causa, intellettuale . - Nell' estasi, ed in altre grandi azioni ed affezioni intellettuali, talora si toglie solamente all' uomo la coscienza delle sensioni; tal' altra sembra che restino veramente impedite le sensioni stesse, e sottratta al sensorio la sua mobilità. L' attività allora si esaurisce piuttosto fuori del corpo che in qualche parte di questo; benchè il cervello, che aiuta l' intelletto somministrandogli i segni delle immagini, che fissano la sua attenzione, ne rimanga anch' esso quasi sempre interessato. II Causa, sensoria . - Una specie di sensioni assai vive impediscono altre sensioni meno vive, benchè appartenenti ad altri organi sensorii. Nel sonno l' attività sembra concentrata nel cervello, nella facoltà interna di sentire; quindi sottratta agli stimoli dei sensi esteriori; forse anche in questo caso l' attività sensoria, cresciuta nell' organo della fantasia, si deve ripetere dall' afflusso degli umori in quella direzione. Venendo ferito qualche ramo facciale o frontale del quinto paio, se n' ha la cecità, che dura più o meno a lungo (1), senza alcuna lesione del nervo ottico. Dove sembra che il cervello sospenda la sua influenza sul nervo della visione, perchè scosso, e nella dolorosa lotta occupato, non gli rimanga più di virtù da collocare nell' operazione visiva; se pur non si deve piuttosto attribuire il fenomeno all' essere i movimenti cerebrali, cagionati dalla ferita o percossa, quelli che perturbano i movimenti sensorii; e stando così, è ad ogni modo da notarsi che quei movimenti non sono al tutto meccanici, ma animali; e però tali che impiegano parte dell' attività del principio della vita. Può essere anche che quella ferita, ed altre, che istupidiscono qualche organo sensorio, producano questo effetto per qualche alterazione da essi cagionata nella direzione dei fluidi, che inaffiar devono gli organi della sensazione. III Causa: concorso dei fluidi . - Ed è appunto il concorso dei fluidi (i quali sono i principali stimoli interni) che noi dobbiamo più attentamente considerare. E` principio indubitato che « in quella località dove l' azione vitale è comparativamente maggiore, ivi concorrono i fluidi in maggior copia »(2). Diciamo comparativamente , poichè è da aver mai sempre presente che non è un assoluto grado di forza quello che costituisce uno stato morboso, ma un grado relativo, uno squilibrio della forza vitale, che si altera soverchiamente in una parte comparativamente ad un' altra, la quale presenta i sintomi di rispettiva debolezza. Poniamo che il freddo sia un debilitante, e che quando è moderato, produca l' effetto di rintonare la fibra per via indiretta, sottraendo ad essa un soverchio stimolo che la istupidisce, od anche restringendola, ove sia di soverchio dilatata. Se dunque il freddo è debilitante, dove egli s' applica, ivi l' azione vitale diminuisce. Ora questo può spiegare perchè, venendo esposta la pelle al contatto di corpi assai freddi, ovvero passando noi leggermente vestiti da una temperatura calda ad una fredda, ne riportiamo varie infiammazioni delle membrane mucose, della pleura, del polmone, degli intestini, dello stomaco, o della vescica. Diminuita l' attività vitale ai vasi capillari della pelle, riesce comparativamente accresciuta l' attività dei vasi interni delle dette membrane; debbono dunque i fluidi affluire dall' esterno all' interno (1), ed ivi ingorgarsi, stagnarsi, fors' anche dai capillari venosi passare il sangue premuto a stravenare nei linfatici, che coi venosi probabilmente si abboccano (2). Il sudore si promuove coi bagni o bibite calde, si sopprime coi bagni o bibite fredde per una simile ragione, cioè perchè in tal modo col caldo si rendono più attivi i vasi alle superfici interne od esterne, e col freddo si rendono gli stessi vasi comparativamente meno attivi, e quindi si cangia la direzione dei fluidi. La ragione poi, perchè la bibita calda eccita il sudore alla superficie cutanea, sembra dovesse essere quella legge di simpatia, di cui abbiamo parlato, per la quale il principio senziente mette in giuoco contemporaneamente gli organi simili. Il ghiaccio si adopera utilmente a frenare le emorragie ostinate. Questo effetto pare doversi attribuire a due cagioni, cioè: 1 all' azione fisiologica, per la quale indebolendosi comparativamente le estremità dei vasi, si determina il fluido a prendere la direzione contraria, a retrocedere; 2 all' azione chimica, restringente le estremità dei vasi, il che impedisce l' afflusso. Lo spavento determina l' uscita di orine abbondanti, chiare e inodore; perchè scemando l' attività interna, e comparativamente accrescendola verso la periferia, accelera i fluidi nella direzione dall' interno all' esterno del corpo. All' incontro le irritazioni dei visceri sopprimono le secrezioni (1). Tutte le infiammazioni vive d' un organo contenuto nelle tre cavità splancniche, sospendono ed alterano il corso delle secrezioni; essendovi molta attività vitale al centro e debolezza relativa verso la periferia, il corso dei fluidi non si può fare egualmente bene verso di questa. E` la stessa ragione, per la quale il cibo vi provoca in bocca l' afflusso della saliva, per la quale un po' d' aceto applicato sulla congiuntiva o sulla pituitaria adduce le lacrime. La ferita d' un intestino arresta la digestione, come la gastrite può impedire la deglutizione (2). Bichat osservò che nel tempo che gli alimenti dimorano nello stomaco, è scarso lo scolo della bile, e che si accresce poi quando passano nel duodeno, per guisa che allora se ne trova in copia negli intestini, sempre per la stessa ragione, che finchè lo stomaco è stimolato dalla presenza dei cibi, l' attività vitale ivi è maggiore, onde attira i fluidi, anzichè lasciarli scorrere altrove. Così è un vero indubitato che lo stimolo accrescente attività nella parte esterna dei condotti secretori ed escretori, è uno dei mezzi principali, di cui si serve la natura per determinare le secrezioni e le escrezioni. Secondo Broussais con altri medici moderni, quelle grandi evacuazioni, che si dicono crisi , altro non sono che l' effetto della cessazione dell' irritamento dei visceri. Perchè questa irritazione sopprimeva le naturali secrezioni? Perchè essa aumentava l' attività vitale all' interno, e comparativamente la rendeva debole verso la periferia; indi era impedita la direzione degli umori al di fuori. Quantunque il ristabilimento delle funzioni degli organi secretori sia, quando succede naturalmente, l' effetto della cessazione della causa della malattia, non è però che molte volte le dette evacuazioni, prodotte artificialmente, non diventino un mezzo al ristabilimento della salute. Un sudore abbondante, provocato con bibite o bagni vaporosi generali o parziali, dissipa cefaliti ostinate; vescicatoi, caustici, rubefacenti producono il medesimo effetto per una causa simile. Questi sono altrettanti mezzi, coi quali si accresce l' azione del principio senziente alla cute, e quindi si diminuisce comparativamente nelle parti interne; con che si provoca la direzione dei fluidi dal di dentro al di fuori, e così si diminuiscono gli stimoli interni, che pel loro soverchio cagionano dolore. Conviene per altro riflettere che, quando è accresciuta l' attività vitale in una parte del corpo umano a cagione d' una irritazione o d' altro, quell' attività può comunicarsi ad altre parti, sia perchè la materia irritante muti di luogo, sia per una cotale irradiazione dell' attività stessa a parti organicamente continue, sia finalmente per una vera simpatia (1). Nel qual caso anche la parte che partecipa dell' attività cresciuta, diventa, comparativamente alle altre parti che non ne partecipano, più attiva. Di più, alcune parti divenute meno attive, occasionano l' attività comparativamente maggiore di altre. Allorquando per cagione di qualche infiammazione si gonfiano le glandole linfatiche, quando, per esempio, a cagione d' un panariccio intumidiscono le glandole sotto l' ascella, pare che ciò avvenga, perchè l' infiammazione, rendendo comparativamente meno attive altre parti, queste non attraggono più a sè, e conducono gli umori segregati dalle glandole; indi l' ingorgo e la tumefazione di queste. La tisi andata innanzi, indebolendo le parti circostanti o simpatiche col polmone, rende comparativamente più attive le parti dei vasi più lontane dal centro; indi il calore accresciuto alle palme delle mani ed alle piante dei piedi, le rose alle guance, il rosso vivo alla radice della lingua, i sudori abbondanti e colliquativi, le diarree, le gonfiezze edematose alle estremità (2). E` appunto questo accrescimento e diminuzione comparativa d' attività, questa serie di effetti che diventano cause alla loro volta, che complica immensamente la scienza medica, e rende oltremodo difficile a seguitarsi nelle sue variazioni il corso zoetico. Se si considerano quelle febbri che cominciano con una sensazione di freddo, a cui succede un forte calore, sembra che durante il freddo vi sia un riflusso del sangue dalla periferia al centro, e durante il calore un afflusso dal centro alla periferia. Ora, considerando che il sangue viene ricondotto al cuore per la via dell' albero venoso, e diffuso alle estremità per la via dell' albero arterioso, parrebbe doversene inferire che l' albero venoso acquisti un soverchio di forza, comparativamente all' albero arterioso; l' albero arterioso un soverchio di debolezza, comparativamente al venoso; nel qual caso, venendo il sangue portato al cuore con più impeto e celerità, sarebbe dalla reazione di questo e dei vasi arteriosi stimolati soverchiamente, riportato poi con pari impeto alla periferia. Solamente che si dovrebbe supporre l' eccedenza di forza nell' albero venoso consistere in uno stato di tensione o azione maggiore dei vasi; là dove la reazione del cuore e delle arterie non essere accresciuta per uno stato di loro propria tensione e forza maggiore, ma pel maggiore stimolo da cui vengono incitati, per la maggior copia e celerità del sangue, lasciando anche da parte la crasi del medesimo, che pare dover influire piuttosto nelle febbri continue che nelle intermittenti (1). Ma se questa ipotesi può aver luogo, quale può essere la causa di questo squilibrio d' attività fra l' albero arterioso ed il venoso? Ecco la questione complicata oltremodo. Se in una data località s' accumula il sangue per un' azione comparativamente in essa accresciuta, questo sangue ivi accumulato, e quasi stagnante, può e deve subire diverse alterazioni nei suoi principŒ, come lo dimostra il caso dell' infiammazione; e questa alterazione può essere comunicata alla massa del sangue, ed indi nascere la febbre, effetto così d' una irritazione od infiammazione locale (2). E` cosa indubitata che la stessa legge dei vasi, dirigenti i fluidi al luogo dove l' attività vitale è comparativamente maggiore, dipende principalmente dalla condizione dei nervi sensorŒ. Ciò è manifesto dalle osservazioni seguenti: Quando l' irritazione si fa dolorosa, ella produce simpaticamente maggiori effetti. Più gli organi infiammati sono dotati di nervi, e più anche è dolorosa la loro infiammazione, e di conseguente più alterate riescono le funzioni animali. Le simpatie hanno luogo con più di forza e di prontezza nelle persone più sensitive. Ma si deve osservare che nel sistema vascolare e nel sistema nervoso la propagazione e il concentramento dell' attività vitale tiene una legge opposta; nel sistema vascolare si concentra mediante il concorso degli umori in quel punto, dove qualche causa l' ebbe accresciuta; nel sistema nervoso, all' incontro, si propaga a seconda delle sue diramazioni, partendo dal punto dove prima è stata accresciuta, ed osservando sempre le leggi sue proprie. Quindi la gastrite, per esempio, è accompagnata da dolore di capo per la comunicazione nervosa. Per altro, che l' infiammazione, la quale accresce indubitatamente l' attività vascolare nel luogo infiammato, produca una comparativa debolezza in altri luoghi, si vede pel dimagramento che succede, ond' è impedita la nutrizione. Durante la digestione, alla prima eccitazione del cuore e di tutte le funzioni succede uno stato di debolezza degli organi, i sensi esterni e i muscoli perdono una parte della loro attività, si fa sentire qualche brivido di freddo; il che dimostra che il sangue non fluisce più colla stessa abbondanza ed impeto di prima alle estremità. Ma in questo caso il lavoro prevalente dello stomaco, che converte gli alimenti in chimo, non è uno squilibrio morboso, ma un' ondulazione di forza fisiologica, chè quell' aumento di attività del ventricolo va cessando, di mano in mano che compie la sua funzione e distribuisce l' alimento alle membra, restituendo ed accrescendo ordinatamente le loro forze; il che è un fatto tutto conforme alla spontaneità dell' istinto animale. Ma un fatto consimile è quello dell' irritazione o dell' infiammazione morbosa; se non che questa, contrariando la spontaneità dell' istinto animale, ne solleva l' attività bellicosa, e invece d' aver per successo la nutrizione delle parti, lascia in queste dei danni, fra i quali quello appunto d' impedire la loro nutrizione, rattenendo il corso dei fluidi, che dovrebbero diffondersi ad alimentarle. Ecco alcuni fatti dei molti. L' infiammazione dei reni trae seco talora l' atrofia delle glandole testicolari. Nella colica dei pittori è singolar cosa vedere come dimagrano i muscoli situati tra il pollice e l' indice. Negli ascessi, che occupano le tuniche degli intestini tenui, si incavano gli occhi, e diminuisce oltremodo la pinguedine, che deve sostenere l' occhio. In tutte le infiammazioni croniche che finiscono colla morte, il dimagramento si rende estremo ed universale in tutto il corpo, la parte infiammata continua a vegetare finchè si forma la cancrena. Insomma io credo così importante il noto principio, che i fluidi accorrono là dove è accresciuta comparativamente l' attività vitale, che sembrami poter dare egli solo all' osservatore indizio a conoscere la diramazione dei vasi, che s' intrecciano nel corpo umano, e, quasi voleva dire, lo costituiscono. IV Causa: eccitamento dei nervi del senso e del moto . - Abbiam detto che l' attività del principio senziente si concentra là, dove è più viva la sensazione . Consideriamo ora l' accentramento dell' attività, anche per cagione del fenomeno extrasoggettivo che accompagna il senso, cioè per cagione del movimento dei nervi. Questo movimento si propaga dal punto dove il nervo è stato scosso in tutte le direzioni, non già per una mera comunicazione di moto meccanico, ma per una comunicazione meccanico7fisiologica. E` nondimeno certo che l' attività del principio animale s' affatica, se i nervi sensorii o motori sono scossi soverchiamente, e quindi lascia altre parti deboli, come pure lascia uno stato di spossatezza dopo movimenti violenti, come accade nelle convulsioni. E` del pari certo: Che talora il sistema nervoso esercita delle funzioni, nelle quali una sola parte è interessata, e allora le altre restano come insensitive. Così accade nelle contensioni di spirito, nelle quali è interessato il solo cervello, organo della fantasia, onde la sensitività della cute sembra annientata; il che accade altresì in certe affezioni morbose, a tale che questa appena dà segno di senso. Che se il medesimo sistema nervoso non esercita una di queste funzioni, talora al contrario s' accresce la sensitività della pelle oltre misura, per le ragioni dette parlando delle malattie del cervello, come vedesi nei maniaci, negli ipocondriaci, nei melanconici, nelle femmine isteriche. I fluidi del corpo umano sono gli stimoli interni , i nervi sono gli stimolati. I nervi stimolati, colla loro azione più o meno prolungata, ed anche simpaticamente diffusa, dànno attività ai vasi in cui s' addentrano, e i fluidi vi accorrono sottraendosi ad altre parti (1), le quali restano comparativamente più deboli, e più deboli restano conseguentemente anche i nervi, che vanno ad esse. Ci rimane in fine a parlare delle località, di cui abbiamo fatto cenno qua e là sol di passaggio. All' intendimento nostro non appartiene farne un trattato, il che sarebbe troppo superiore alle nostre cognizioni. Ci proponiamo unicamente di tentare qualche soluzione di questo problema: « perchè il principio animale, essendo semplice ed uno, tuttavia manifesta diversi effetti della sua azione, piuttosto in certi luoghi che in altri del corpo vivente ». La teoria delle località ha dei principŒ generali, delle leggi, le quali si applicano egualmente al corpo sano e al corpo ammalato, o che si consideri il corpo abbandonato a sè stesso, e percorrente i successivi stadŒ del corso zoetico, non alterato da stimoli artificiali, o che si vogliano determinare gli effetti di questi stimoli, applicati ad arbitrio al corpo sano od infermo. Noi dunque esporremo prima le leggi generali delle località , che chiameremo fisiologiche , facendone poi qualche applicazione al corpo infermo, e deducendo alcune leggi patologiche ; e finalmente aggiungeremo qualche applicazione agli effetti di quegli stimoli artificiali, che si applicano al corpo infermo per restituirlo a stato di sanità, toccando così alcune leggi terapeutiche . Le leggi fisiologiche, ossia generali delle località, sogliono desumersi dai sei elementi, che costituiscono l' animale. I tre soggettivi di essi: 1 il sentimento continuo; 2 il sentimento eccitato; 3 il sentimento individuato. I tre elementi extrasoggettivi corrispondenti: 1 la materia continua; 2 i movimenti intestini di essa; 3 la costante armonia dei detti movimenti, a cui è condizione l' organizzazione. Il principio animale è la parte attiva del sentimento continuo, eccitato e individuato; ma il suo operare è condizionato al suo termine, cioè al corpo. Se consideriamo la sola continuità del sentimento, senza eccitazione o stimoli esterni, avremo un sentimento fondamentale di continuità uniforme, senza distinzione di luoghi o di parti, e perciò senza figura. In questo sentimento lo spazio misurato, l' estensione extrasoggettiva ancora non esiste; non esiste ancora l' animale, ma solo un suo elemento, l' animato. Coll' eccitamento cominciano a sorgere nel sentimento le località, i limiti figurati; l' eccitamento poi non è armonico ed individuato senza l' organizzazione del corpo, termine del sentimento. Quindi la prima causa, per la quale le località si manifestano nel sentimento, è un principio extrasoggettivo, cioè la parte extrasoggettiva dell' organizzazione, e lo stimolo ad essa applicato. Poichè tutte le parti dell' organizzazione non sono egualmente sentite, nè egualmente sensorie, è conseguente che cada in esse una disuguaglianza di azione vitale, cagione di località. Gli stimoli che si applicano all' organizzazione e promovono l' attività dell' istinto, non si applicano a tutte le parti egualmente dell' organizzazione, ma ad alcune determinate; e quindi un' altra cagione di località. Dal che procedono queste conseguenze: Il principio senziente ha una cotale sfera limitata dall' estensione del sentito; ma questa sfera non è ella stessa sentita, ossia determinata nel sentimento fino che il sentimento è uniforme, di continuità. L' azione, che esercita il principio senziente, è proporzionata al sentito. Se dunque nella sfera del sentito varia la qualità del sentimento e i gradi di sua intensità, proporzionatamente varia ancora di qualità e di quantità l' azione del senziente nei diversi punti della sfera sentita. Vi è allora varietà di sentimenti e d' istinti, ma non si sentono ancora i confini, e perciò le figure extrasoggettive di quei diversi sentimenti. Quando dei corpi stranieri agiscono alle superfici del corpo sentito, incominciano le sensioni superficiali, per le quali il principio sente i confini e le figure della sfera del proprio sentito, e ad un tempo dei corpi esteriori. Il principio senziente, ricevendo il primo impulso e la prima determinazione sua dagli stimoli, continua i movimenti iniziati colla propria spontaneità, le leggi della quale furono da noi indicate, e si possono ricapitolare così: 1) L' azione spontanea del senziente, ossia dell' istinto, è tanta, quanto più egli trova di facilità e di diletto nell' operare che nel non operare. Questa legge determina la quantità dell' azione . 2) Il modo dell' azione consiste nel volgere tutta la quantità d' azione, di cui fa uso, a perfezionare lo stato dell' animalità nei suoi tre elementi, cioè ad estendere la sfera del sentito, ad accrescere l' eccitamento, e a mantenere l' armonia e l' unità nel sentimento medesimo, e per conseguente l' organizzazione. 3) Questa tendenza della spontaneità del principio senziente a volgere la propria azione a perfezionare l' animale nei suoi tre elementi (sentito esteso, eccitato, armonico), può essere contrariata dal principio extrasoggettivo; nel qual caso nasce l' irritazione, causa delle malattie, che è la stessa forza della spontaneità, che si volge a combattere ciò che nuoce all' animalità per la stessa ragione, che ella tende essenzialmente a perfezionarlo. Quando la spontaneità dell' attività senziente vuole ottenere l' effetto d' accrescere il sentimento, o di ributtare da sè ciò che vi si oppone, allora ella mette in giuoco tutti quegli organi, e fa tutti quei movimenti, che a tal fine la possono condurre. Ma l' effetto, che ella vuole ottenere, talora è locale; e per ottenerlo ella deve dar moto ad organi e parti, che occupano altre località. Queste diverse parti, occupanti luoghi diversi da quello a cui si riferisce, come a proprio scopo, l' attività animale, sono la sede appunto delle simpatie. Ma incontra che, essendo il principio senziente sempre in attività, come esige la conservazione e il perfezionamento dell' animalità, gli avvenga di contrarre anche delle abitudini, si assuefaccia a muovere contemporaneamente certi organi per ottenere un dato effetto, di cui ha di frequente bisogno. Se poi gli accade di appetire un effetto, il cui ottenimento ha bisogno del moto d' alcuno di quegli organi, che egli è avvezzo di muovere insieme, allora non solo egli muove l' organo necessario all' effetto, ma gli altri ancora, che egli è avvezzo di muovere insieme, e ciò per abitudine. Il che nasce, perchè l' atto del principio senziente è semplice, movendo egli più organi, per dirlo colla frase scolastica, per modum unius ; l' atto poi con cui muove ad un tempo quel numero d' organi è diverso da quello, col quale ne moverebbe uno solo; ora ogni atto diverso il principio senziente deve imparare a farlo coll' esperienza; onde gli può riuscire più facile e piacevole tentare l' effetto coll' atto che muove più organi, alcuni dei quali inutilmente, che non coll' atto che ne muoverebbe uno solo, quello che fosse necessario. Il che certamente accade, se questo non l' ha imparato a fare e il primo sì, o se questo sappia farlo meno facilmente del primo. Come il sentimento continuo, il sentimento eccitato e il sentimento armonico ed uno, sono i tre modi generali del sentimento, e tutte le varietà appartengono all' uno o all' altro di essi, così anche le attività del sentimento si riducono a tre principali, corrispondenti a quei modi. Il sentimento eccitato ha già in sè il sentimento continuo, di cui è una esaltazione; il sentimento armonico ed uno ha in sè il sentimento continuo ed il sentimento eccitato, non essendo che la perfezione di quest' ultimo. L' anima intellettiva non si può unire che al sentimento armonico ed uno, e per mezzo di questo al sentimento eccitato, per mezzo poi del sentimento eccitato al sentimento continuo. Quindi nell' uomo vi sono tutti e tre questi sentimenti, ma il solo oggetto della coscienza è il sentimento armonico ed uno, fondamento dell' individualità animale. A noi pare che, meditando le relazioni di questi tre modi di sentimenti, si possa spiegare la località delle sensioni. Io provo in una mano una sensione piacevole o dolorosa; il movimento, a cui aderisce questa sensione locale, non è quello che si limita ai nervi della mano, dove la sensione ha luogo, ma appartiene principalmente al cervello, dove se niun movimento avesse luogo, niuna sensione proverebbe la mano. Perchè la sensione nella mano ha ella bisogno dei movimenti del cervello, che punto nè poco si sentono? Questa domanda contiene due questioni: perchè non posso io avere la sensione in una mia mano punta da un ago, se il movimento nervoso non si prolunga fino al cervello; e perchè, e come io sento il dolore della puntura nella mano, e non nel cervello o lungo il braccio, dove si continua il movimento delle fibre; che è la questione della località. Alla prima abbiamo risposto altrove, e qui ci basterà osservare che se il movimento nervoso venisse interrotto per modo che non giungesse al cervello, egli perderebbe l' armonia e l' unità con tutto intero il sentimento animale, allo stesso modo come se si dividesse il braccio dal corpo; e noi abbiamo detto che l' anima intellettiva non si può unire che al sentimento uno ed armonico, e però senza di questo non può avere coscienza d' alcun sentimento. La seconda questione poi, quella della località del sentimento, esige più estesa dichiarazione. La località comincia a sentirsi, quando noi percepiamo il corpo come uno spazio solido, limitato, figurato. Ma noi non percepiamo il nostro corpo limitato e figurato se non mediante l' esperienza extrasoggettiva, per la quale percepiamo le superfici del medesimo. In altre parole, il sentito non dà figura, nè luogo, nè parti al corpo nostro; ma solo il percepito, cioè quella forza extrasoggettiva, che fa sentire la sua azione nel sentito. Questa esperienza extrasoggettiva ci rappresenta il corpo in modo meramente fenomenale, il corpo che chiamammo corpo anatomico , e che è cosa assai diversa dal corpo reale , che immediatamente si sente (il sentito); ed anzi ha con questo delle disarmonie ed apparenti contraddizioni (1). Le località dunque appartengono al corpo percepito in modo extrasoggettivo e fenomenale. Ma dopo che noi abbiamo percepito in tal modo le località nel corpo extrasoggettivo, le applichiamo al corpo soggettivo; noi teniamo per regola dei nostri pensieri e delle nostre azioni quello, benchè fenomenale, e non questo, benchè reale. Come dunque riferiamo noi le sensioni soggettive alle località extrasoggettive? Il corpo locale e anatomico è il corpo a quel modo che lo vediamo, lo tocchiamo, lo assaporiamo, ecc.; è il composto di tutte queste nostre sensioni. Queste sensioni unite insieme ci danno la figura del corpo; e la figura di esso e delle sue parti (2) è quella che ci costituisce l' immagine del corpo; e l' immagine del corpo diventa la materia dell' idea volgare e comune del corpo, dietro la quale comunemente gli uomini ragionano ed operano; le località si riferiscono a questa figura immaginaria, che è una parte della sensione molteplice dell' universo esteriore. Le località dunque si riferiscono a questo corpo percepito così nelle nostre sensioni, e contemplato nelle nostre immagini; le parti di esso sono disegni, che si formano nella nostra sensitività esterna; è questa che concorre a formarle per noi, per la nostra cognizione. Dopo che le parti sono formate e disegnate mediante la nostra sensitività extrasoggettiva e superficiale, noi possiamo riferire e collocare in esse anche le nostre sensioni interne, non superficiali, e prive di una figura discernibile. Quando noi diciamo di sentire dolore in un piede, che altro facciamo con ciò, se non collocare il dolore in quella parte che si chiama piede , rappresentata a noi dalla percezione extrasoggettiva, e chiusa da superfici da noi percepite, che gli danno la forma? Il collocare adunque una sensione interna in qualche parte del corpo nostro, non è altro che percepire il rapporto, che ha la sensitività soggettiva e non figurata colla sensitività extrasoggettiva e figurata. Se la sensitività extrasoggettiva e figurata non mi avesse disegnato la forma del piede, io non potrei collocare in esso un dolore che sentissi; non saprei dire, nè pensare cos' è il piede che mi duole; questa parola piede non sarebbe inventata, nè la mia mente avrebbe ancora il concetto che quella parola significa, e che le vien dato dalla sensitività esterna. Ma perchè sentendo un dolore interno, io lo colloco verso la parte destra del piede, piuttosto che verso la sinistra? Certo io fo questo giudizio mediante il paragone con altre sensioni interne ricevute nel piede, perocchè avendo io già i confini del piede, che me ne disegnano la figura solida, e avendo così concepito questo solido, se nel solido stesso concepisco più sensioni, non è meraviglia ch' io possa riconoscere una di esse esser più vicina ad una data estremità del piede che l' altra, bastando a ciò che io confronti le diverse sensioni cogli estremi del piede, e fra esse. Quante più sensioni interne io intendo possibili prima di quella che mi segna l' estremità, tanto più giudico lontana dall' estremità una data sensione. Per altro questi giudizi sulle località delle sensazioni interne sono incerti, senza precisione, e spessissimo fallaci. La località adunque delle sensioni interne non è che un rapporto fra esse e le sensioni superficiali. Ma come si spiegano le sensioni extrasoggettive e superficiali? Che la sensione si estenda in superficie, questo è una conseguenza della maniera colla quale noi abbiamo detto prodursi l' eccitamento. Questo sorge quando le molecole animali si soffregano insieme; ora questo soffregamento non è che delle superfici, attesa l' impenetrabilità dei corpi. Se le piccole superfici delle molecole, dove nasce l' eccitamento, ne costituiscono una grande colla loro iustaposizione, in tal caso si ha una sensazione superficiale grande, più o meno distinta, come accade alle pareti esterne ed interne del corpo. Ma se l' eccitamento nasce in un gruppo di molecole, le cui piccole superfici non si continuino in modo da formare una superficie unica, e le dette molecole si soffreghino tra loro da tutte le loro faccie, allora nasce una sensazione confusa, in cui non si discerne una figura determinata, come accade in tanti sentimenti interni. Quindi in niuno dei sentimenti eccitati si sente precisamente e distintamente un vero solido, perchè l' interno delle molecole non è sentito che col sentimento di continuità; il che spiega perchè i dolori e piaceri sensibili, che avvengono all' interno del corpo, rimangano sempre, in quanto alla loro continuità, estensione e figura, senza alcuna precisione e distinzione. Rimane dunque solo a cercare come le superfici sensibili, a noi appartenenti, vengano da noi collocate in uno spazio solido, unite per modo da riuscirne una superficie sola, circondante un solido con tutte le sinuosità e prominenze, onde entra ed esce il corpo umano. Per spiegare questo, prima di tutto è da concedere che lo spazio immisurato sia dato dalla natura all' anima sensitiva, senza di che non si può spiegare nè questo, nè tanti altri fatti e leggi della natura (1). Di poi si rammemori che se l' uomo immobile fosse toccato in modo eguale da tutti i punti del suo corpo contemporaneamente, egli non percepirebbe ancora il suo corpo come uno spazio solido, nè distinguerebbe quando la sensazione superficiale s' incurva, quando rientra concava, e quando riesce fuori convessa. In una parola, senza il movimento attivo l' uomo non può percepire il solido; chè la solidità non cade nel sentimento, se non in quanto cade nel sentimento il movimento attivo (2). Il movimento dunque delle superfici sentite, questo movimento sentito anch' egli, gli stadi che egli percorre e che segnano il tempo e comparativamente le velocità, tutto questo fa sì che l' uomo collochi le proprie sensioni superficiali in luoghi determinati dello spazio solido, e così giunga a comporsi la percezione del proprio corpo, come di un solido perfettamente figurato. Nel tempo stesso che l' uomo fa questa operazione, colla quale produce a sè stesso la percezione solida e figurata del proprio corpo, egli va misurando altresì lo spazio dell' universo, e acquista la percezione dei solidi figurati, che in essa si trovano; tutto ciò mediante il movimento sensibile. Supposti adunque questi prodotti della sensitività esterna, possiamo far dare innanzi un passo alla soluzione delle località. Perocchè dato, come supponevamo, che ci venga punta una mano, la sensazione di questa puntura isolata, e per sè sola considerata, non ha località di sorte, ella non è più nel cervello che nella mano, che non esisterebbe per noi. Solo allorquando abbiamo percepito il corpo nostro come un solido rivestito di superfici sentite, noi collochiamo la puntura nella mano, nell' estremità della fibra nervosa, ed egli pare che la cosa accada così: abbiamo percepita la spina che ci punse, abbiamo osservato che, infiggendosi la spina nella mano, nasce il dolore; estratta la spina, il dolore diminuisce notevolmente, s' accresce toccandosi la ferita, e cessa col medicarla. Uniamo dunque il dolore colla causa che l' ha prodotto, e che lo rimuove. Ma la causa che l' ha prodotto, come pure quella che lo toglie, sono percepite da noi coll' esperienza extrasoggettiva, e quindi hanno località determinate dalla stessa sensitività extrasoggettiva. Perciò anche al dolore, fenomeno soggettivo, assegniamo il luogo stesso, gli assegniamo il luogo della sua causa extrasoggettiva. E questo ci è facile a farlo, perchè il dolore non avendo per sè località alcuna, non ricusa qualunque gli si dia: egli non esiste, come dicevamo, più nella mano che nel cervello, perchè mano e cervello sono parole esprimenti solidi extrasoggettivi. Ma lo spirito umano non ha nessuna ragione di unire al dolore la località extrasoggettiva del cervello, perchè il cervello non produce il dolore come forza straniera, a cui solo spetta la località, ma con un movimento organico soggettivo, dove località non apparisce. All' incontro egli ha buona e naturale ragione di associare il dolore colla causa extrasoggettiva e straniera; e questa, avendo località, aggiunge la località della medesima allo stesso dolore. Non è dunque, propriamente parlando, il dolore che s' aggiunge alla località, ma è piuttosto la località che s' aggiunge al dolore, e di sè lo veste, per così dire. Quindi avviene che in ragione che noi abbiamo una percezione più distinta di quella parte del corpo nostro, a cui è applicata la causa della sensione, anche a questa attribuiamo una località più distinta; e viceversa, la sensione rimane priva di località, quanto meno possiamo percepire la località della sua causa straniera o stimolante, cioè la parte del corpo a cui ella viene applicata. Ed è per questo che le sensazioni dell' occhio noi non le collochiamo distintamente nella retina, perchè non abbiamo della retina una percezione extrasoggettiva tanto distinta, quanto quella della cute, non potendo noi toccare la retina stessa e distinguerne al tutto le parti, come pure non potendo toccare la luce, che è lo stimolo straniero, e distinguerne le parti. La sensione quindi dell' occhio ci rimane come in aria, cioè non collocata distintamente in una parte del corpo nostro, fino a che col tatto noi le diamo un luogo; ma questo luogo non glielo diamo nel corpo nostro, ma là dove è la causa sensifera della sensazione del tatto, cioè nei corpi che noi tocchiamo. Medesimamente, alle immagini noi non assegniamo per loro luogo il cervello, perchè dell' interno cervello e delle sue parti non abbiamo la percezione extrasoggettiva, e non possiamo percepire extrasoggettivamente la causa interna, che lo muove e che produce l' immagine; la qual causa è organica, ma non sensifera. Le immagini dunque ci restano come campate in aria, o, per dir meglio, esse sono per noi come altrettanti corpi esterni. Sono sensioni, che collochiamo là dove le abbiamo prima collocate, quando avemmo le sensioni loro corrispondenti mediante la sensitività esterna. Rimane la questione della causa extrasoggettiva del dolore. Perchè il movimento vitale organico non presenta nessuna figura nel sentimento, e all' opposto la forza sensifera straniera segna nel sentimento una figura, e quindi fa nascere la località? Molti si sono studiati di descrivere il fenomeno extrasoggettivo del movimento sensorio. A me pare probabile congettura la seguente: il movimento sensorio esige molecole organate in un dato modo, di un certo numero e qualità di elementi. Queste molecole costituiscono un continuo, fluido o consistente non cerco (1). Gli elementi di esse sono mobilissimi, e così accordati che dividendosene alcuni da una molecola entrino a comporre la seguente, la quale lascia in libertà altrettanti elementi, i quali anch' essi alla loro volta si compongono con quelli della susseguente, che pure allo stesso modo si scompone; e così le scomposizioni e le composizioni si continuano in tutto il nervo fino al cervello, dove gli ultimi elementi che rimangono liberi, non trovando altre molecole con cui comporsi, ritornano ad abbracciarsi colla molecola a cui appartenevano, e succede in direzione opposta la stessa serie di composizioni e scomposizioni, rimettendosi il nervo nello stato di prima. Supposto questo giuoco chimico7organico7animale, se ne avrebbero i seguenti risultati: Il fenomeno della sensione avrebbe luogo quando la scomposizione percorse tutto l' organo sensorio. La sensione cesserebbe tostochè è finita la ricomposizione delle molecole. Rimanendo scomposte le prime molecole più a lungo di tutte le altre, vi sarebbe un' analogia fra il fenomeno extrasoggettivo e la sensione, per la quale questa più facilmente potrebbe attribuirsi ad una località; tanto più che tutte le molecole intermedie, scomponendosi e componendosi con celerità e continuità di parti, potrebbero conservare sempre la loro posizione, continuità e figura, giacchè di tanto entrerebbe in esse un elemento, di quanto ne uscirebbe un altro. Il fenomeno extrasoggettivo sarebbe così uno scuotimento dell' organo sensorio intero; condizione, come sembra, necessaria all' individuazione del sentimento, senza la quale non può l' uomo esserne consapevole. Come quando la scomposizione delle molecole sensorie comincia all' estremità esteriore per mezzo di qualche stimolo, rimangono per qualche tempo scomposte le molecole esterne, e si ha la sensione; così se la scomposizione comincia dal centro, cioè dal cervello, per virtù dell' istinto animale, la scomposizione dura qualche tempo nelle particelle dell' estremità interna, e si ha l' immagine; la quale, propriamente parlando, è illocale, perchè l' interno del cervello non si presta all' esperienza extrasoggettiva, che possiamo fare, quanto alle estremità esterne superficiali del corpo. Nel luogo, dove è applicato lo stimolo sensifero e incomincia la scomposzione, vi è violenza, perchè la prima scomposizione non accade per la spontaneità dell' istinto, ma per la forza esteriore; all' opposto le composizioni e scomposizioni successive seguirebbero senza violenza alcuna per la spontaneità dell' istinto; onde solo al cominciamento deve sentirsi la violenza, e non più nei movimenti successivi, benchè necessari a rendere individuale la sensione della violenza. Questa ipotesi dello spostamento intestino degli elementi della molecola sensoria senza che ella si disorganizzi, spiegherebbe dunque il perchè dove viene applicato lo stimolo, ivi esista propriamente la sensione; benchè questo ivi non diventi perciò solo una località, con relazione alle altre parti del corpo, se anche queste non le percepiamo allo stesso modo, e paragoniamo l' ivi di quelle coll' ivi di queste. Lo stato di spostamento, dunque, degli elementi delle molecole sensorie è ciò che dà alla sensione quanto le bisogna per essere poi riferita ad un luogo nell' esteso extrasoggettivo; e ciò perchè le molecole stesse sensorie, il nervo, il cervello, di cui parliamo, appartengono alla sfera dell' extrasoggettivo; onde quando diciamo che gli elementi delle molecole restano spostati, per esempio, all' estremità di un nervo, altro non diciamo se non che restano spostati e sentiti a quel luogo extrasoggettivo, che chiamiamo estremità nervosa. Ma che vuol dire molecole sensorie nel caso nostro? perchè fa bisogno che le molecole di tutta l' estensione del nervo, e quelle ultime del cervello ricevano il descritto moto e cangiamento di elementi? Abbiamo detto che la risposta conviene cercarsi nell' individualità dell' animale; l' animale non può sentire che ciò che entra nella sua individualità. Questa individualità, nell' ordine soggettivo, esige un sentimento unico, sede di tutti gli altri. Questo unico sentimento viene a dire un unico principio senziente e un solo sentito. Il sentito, in quanto è sentito7continuo, è unico, se non ha interruzioni; ma in quanto è sentito7eccitato è uopo che abbia un' unità armonica di movimenti, che virtualmente contenga tutte le sensioni accidentali, in modo che sia sempre lo stesso sentimento nei suoi diversi modi. Ora a questo fenomeno soggettivo d' un sentimento armonico d' eccitazione, nella sfera extrasoggettiva risponde l' organizzazione del cervello colle sue diramazioni nervose. Come abbiamo detto, la cagione di questa corrispondenza è irreperibile da noi, chè tutto ciò che percepiamo extrasoggettivamente è un mero fenomeno, oltre il quale non possiamo andare. Rimane dunque solo a constatare e descrivere il fatto dell' organizzazione come rispondente alla sensitività individuale, che nell' animale perfetto, e certamente poi nell' uomo, si osserva; il che è ufficio ampio e sottilissimo dei fisiologi. E quantunque la consapevolezza della propria individualità nasca nell' uomo dal principio intellettivo, tuttavia anche il bruto è individuo, consistendo la individuazione di lui in questo, che le sensioni abbiano lo stesso principio senziente; ossia l' attività, che in ogni sensione opera a produrla, sia la medesima (1); poichè, ciò a cui non si estende questa attività, è già fuori dell' individuo. Ma a questo principio senziente attivo risponde di fatto nella sfera dell' extrasoggettivo un' armonia di movimenti, e un cotal centro di essi, come già dicemmo altrove. Riassumendo dunque: Nè il sentimento fondamentale, nè le sensioni hanno località. Tra le percezioni della forza straniera (dei corpi esterni) ve n' ha una classe di superficiali , percezioni d' uno spazio superficiale. Questi spazi superficiali non hanno località, se si considerano in relazione col principio senziente; non si può dire che sieno nè dentro, nè fuori di lui, nè lontani, nè vicini, ecc., perchè egli non ha luogo affatto, e quindi niuna relazione locale con lui si può pensare. Ma questi spazi si uniscono e si continuano fra loro, ed allora essi acquistano una località rispettiva , cioè uno di essi, o una parte di essi, è di qua, o di là, ecc., d' un altro continuato con esso, o con una sua parte. Quando s' aggiunge il movimento attivo dalla parte dell' uomo, allora queste superfici pure, movendosi in tutti i sensi, prestano all' uomo il sentimento d' uno spazio solido determinato. La continuità delle superfici da tutti i lati e il movimento fanno sì che l' uomo percepisca il proprio corpo, i corpi esteriori e lo spazio con misura; e quindi che: 1) le parti del proprio corpo vengano ad avere un posto, una località rispetto al corpo divenuto un' estensione solida; 2) che al tempo stesso quell' estensione solida acquisti una località rispetto a tutti i corpi circostanti, e 3) ad ogni punto immaginato nello spazio. Così è creato nell' umano sentimento il corpo solido, i luoghi e gli spazi esterni; allora ogni sensione soggettiva si colloca in uno di quei luoghi determinati nell' estensione extrasoggettiva, e ciò si fa col percepire extrasoggettivamente la causa esterna e violenta della sensione. Questa causa, essendo un sensifero, un corpo straniero, e venendo collocato, quando produce con violenza la sensione, in un punto del corpo nostro extrasoggettivo, noi collochiamo la sensione lì appunto, dove abbiamo percepita quella causa. Quindi, quando ciò non si avvera, quando non percepiamo extrasoggettivamente la causa della sensione, o il luogo, dove ella si applica (nè coll' immaginazione possiamo supplirvi), non sappiamo più collocare al posto della causa la detta sensione, come accade nelle sensioni visive, o nelle interne, le immagini. Percepire la causa della sensione (il corpo esterno che stimola il senso) è percepire il luogo dove la causa viene applicata. Se noi cerchiamo qualche legge generale che determini questo luogo, troviamo che esso è determinato dalle due estremità nervose, l' esterna e l' interna nel cervello; e ciò probabilmente perchè nel movimento sensorio quelle estremità soffrono violenza, onde si alterano fisiologicamente nella composizione delle loro molecole sensorie; quando le molecole intermedie, benchè nasca un tramutamento di elementi, conservano intatta la loro composizione elementare, e il tramutamento è spontaneo e non violento (1). Troviamo ancora che la centralità del cervello risponde alla condizione dell' individuazione del sentimento, contribuendo essenzialmente all' unità armonica del sentimento fondamentale d' eccitazione; perocchè in tutte le sensioni il principio attivo senziente deve essere il medesimo. Pare dunque che al principio senziente, della cui attività sono modi le sensioni, rispondano nell' ordine extrasoggettivo i moti cerebrali, cioè che allora egli intervenga a sentire la sua attività, quando i detti moti sensori s' avverano. Ma questi stessi moti , in quanto hanno natura di moti, non cadono nella sensazione soggettiva , chè questa non ha proprio luogo, nè proprio spazio; e quando quelli si potessero osservare, l' osservazione darebbe un extrasoggettivo, e non più. La spiegazione data fin qui delle località è tratta dalla natura dell' animale; perciò ella conviene tanto alle località che si manifestano nel corpo umano in istato di salute, quanto a quelle che si manifestano nel corpo umano in istato di malattia. Venendo ora a dire qualche cosa di speciale circa le località patologiche, non abbiamo che ad accennare alcuni accidenti, i quali, determinando in modi diversi l' attività del principio senziente, le fanno comparire piuttosto in una parte che in un' altra del corpo extrasoggettivo. Mettiamoci innanzi il corpo, quale se l' ha formato l' uomo coll' uso dei suoi sensi esteriori, quale tutti noi adulti l' abbiamo presente, a cui prestiamo cieca fede, e su cui si fondano tutti i ragionamenti comuni intorno al corpo. Il primo fenomeno che ci si presenta occasionato, per esempio, da una contusione nel braccio, si è quello d' un dolore, che invece di farsi sentire alla sola estremità esterna, dove fu applicata la causa violenta, si propaga lungo tutto il nervo. - Convien dire che lo spostamento degli elementi componenti le molecole sensorie, di cui il nervo risulta, non sia in tal caso violento solamente al luogo dove fu applicato lo stimolo, unendo poi il movimento sensorio spontaneo, ma che la violenza stessa si sia propagata, e la scomposizione e ricomposizione non avvenga regolarmente. Altro fenomeno morboso è la durata del dolore in un luogo. - Convien dire in tal caso che la scomposizione delle molecole si ripeta continuamente con un movimento disordinato, oscillatorio, e più o meno frequente. Nei dolori vivi si sentono pulsazioni dolorose somiglianti a quelle del polso, e forse sono le dette oscillazioni violente dei movimenti elementari, che si descrivono nello stesso sentimento; a tener viva la quale oscillazione deve certamente concorrere il frequente battito del sangue, il che più manifesto apparisce nei dolori acuti di testa, che vanno a colpi frequenti, e che sembrano spezzarla. I dolori si trasportano da un luogo all' altro non solo successivamente, come avviene propagandosi l' infiammazione, ma ancora per salto. - Qualora un dolore si manifesta in un luogo per cagione di ferita, d' infiammazione od altro, concorre a produrlo in quel luogo tutta l' attività del principio senziente, che lotta nel modo che abbiamo indicato. Ma questa attività universale del principio senziente, sollevata alla guerra e producente il primo dolore locale, opera variamente in tutto il corpo, e lo altera. Ora questa azione in tutto il corpo, e le alterazioni che vi produce, sono determinate, in quanto al modo ed agli effetti, dall' organizzazione, che risponde all' unità armonica del sentimento, e prima dall' organizzazione nervosa, poi dall' organizzazione vascolare, e dalla qualità e quantità dei fluidi, e finalmente dalle leggi delle simpatie. A ragion d' esempio, un forte dolore accelererà il corso del sangue e produrrà la febbre, o anche infiammerà il sangue, alterandone la composizione. Acciocchè si manifesti un dolore in un dato luogo del corpo, in conseguenza d' un altro dolore precedente in altro luogo, basta che per l' azione universale del principio senziente vengano in quel luogo eccitati violentemente i nervi, sicchè ne segua lo spostamento di elementi con tendenza d' uscire dalla loro sfera. Cosa è il pizzicore che si sente al naso, quando si patisce di vermi? Non altro se non che un cotal movimento nel sistema nervoso, che si propaga dagli intestini al cervello, e dal cervello al naso, ma in modo che in quest' ultima estremità nasce appunto quello spostamento sensorio degli elementi, dato il quale ha luogo, secondo l' ipotesi da noi proposta, la sensazione. Dato dolore in un luogo, egli sorge in molti altri luoghi. - La spiegazione è simile a quella del fenomeno precedente. Un' affezione universale produce un dolore locale. - Succede anche questo pel medesimo giuoco. Sensione di dolore per un male, che è in altra parte, dove non cagiona dolore avvertibile. - Baglivi fa la storia della malattia d' una donna, che soffriva acuti dolori in un rene; nella sezione del cadavere si trovò sano il rene, dove accusava il dolore, mentre l' altro conteneva un calcolo. Il principio animale operava in entrambi per quella legge, secondo la quale nelle parti doppie simmetriche vi è una passione e un' azione unica. Pure nel rene, dove stava il calcolo, non si manifestava la sensione in modo avvertibile, forse perchè ivi non si operava lo spostamento degli elementi, venendo impedito dalla stessa condizione morbosa, dalla presenza del calcolo, che tratteneva l' oscillazione elementare, mentre nell' altro rene sano avveniva. Alterazione della sensitività, del gusto, del tatto, ecc.. - Questa suppone, nell' ipotesi che noi facciamo, una diversa composizione delle molecole sensorie. Se il senso rimane alterato di qualità, sicchè il sapore d' una sostanza, a ragion d' esempio, sembri un altro sapore, è probabile che gli elementi abbiano presa un' attitudine a spostarsi nella molecola sensoria, in modo diverso dall' ordinario. Se l' alterazione è solo nel grado della sensitività, senza che la sensione varii di qualità, il fenomeno può dipendere dalla mobilità dei detti elementi, come pure dal trovarsi i nervi meno protetti contro lo stimolo. Si sono vedute femmine non poter toccare una stoffa di velluto, senza cadere in isvenimento; talmente la sensazione della cute della mano eccitava il principio sensitivo, e questo operava in tutto il sistema nervoso e sul vascolare (1). Il sistema ganglionare divenuto atto a dare sensioni osservabili. - Di questo fenomeno è a dire il somigliante che del precedente. Sia alterazione nella composizione elementare, sia mobilità maggiore e maggiore comunicazione col sistema cerebrale e col vascolare; il sistema ganglionare si rende atto ad ammettere lo spostamento sensorio degli elementi, o acquista lo stimolo opportuno, che non aveva prima. Fin qui della località delle sensioni. Parliamo ora della località dei movimenti e fenomeni morbosi, che ne conseguono. Le località di questi movimenti e fenomeni morbosi ricevono la stessa spiegazione di quella delle sensioni, perocchè movimenti precedono e movimenti susseguono alle sensioni; sicchè movimenti e sensioni sono legati egualmente alle località. Ora tutti i fenomeni morbosi sono accompagnati o costituiti da movimenti. Egli sembra che le febbri d' ogni genere si possano riportare ad una di queste due cause, o ad un' affezione del sistema nervoso, o ad un' affezione del sistema vascolare (1), l' uno dei quali non manca però mai di sconcertare più o meno l' altro. La località è determinata dallo stimolo primitivo violento, e quindi appresso dalle simpatie , che ricevono varie modificazioni dalle accidentali varietà dei tessuti organici e dell' intero organismo. Talora l' organo, che soffre simpaticamente, rimane gravemente ammalato, quando il primo, irritato, soffrì leggermente. Così il freddo, operando esternamente sui tegumenti, cagiona infiammazioni al petto, agli intestini, alla vescica, ecc.. Rimarrebbe a parlare delle località terapeutiche, cioè dell' applicazione e dell' azione delle sostanze terapeutiche in determinate parti del corpo, e dei loro effetti in certe altre, o rispetto alla condizione universale; ma la loro spiegazione dipende dagli stessi principŒ. E` degno d' osservazione che le medicine rare volte si applicano alla parte ammalata; per lo più si affidano alle membrane mucose gastriche. Quindi le località, a cui trasmettono l' effetto della loro azione, sono determinate in gran parte dalle simpatie e da quelle cause accennate di sopra, che alle simpatie danno questa o quella direzione speciale e locale, principalmente poi dalle diramazioni nervose e vascolari, e dalle leggi con cui operano questi sistemi (1). E qui basti. Chè questo libro delle leggi dell' animalità, dove si disse tanto poco d' un subbietto senza confini, sarà parso lungo a quanti, cercando nella Psicologia esclusivamente la dottrina dell' anima intellettiva, non intendono che ella è condizionata alla dottrina del principio sensitivo. Il qual vero si tentò da noi di porre in evidenza, e tuttavia non ci confidiamo d' averne persuaso ogni fatta di persone. I medici, non senza qualche ragione, ci garriranno: come avete voi messo la falce nella messe altrui? Di che v' è occorso di dire molte cose inesatte, molte erronee. - Non ho che ad impetrare la loro indulgenza; emendare l' inesatto, cancellare il falso, mi sarà gratissimo; potrebbe essere che avanzasse ancora qualche cosa di buono; i più dotti, sempre più indulgenti, forse lo raccoglieranno. Dirò a tutti i professori dell' arte salutare, siccome pure a tutti gli studiosi di Psicologia, quale fu il mio intendimento. Nei moderni tempi gli scienziati hanno diviso l' uomo in due, alcuni tolsero a parlare dello spirito, altri del corpo; a ciascuna delle due parti parve possedere tutta la scienza, e contese coll' altra, e la dispettò, e il dispetto, tenendo luogo di ragione, divise maggiormente le due fazioni. Che ne fu? Invece di avere una scienza sola dell' uomo, se ne ebbero due, contenziose, contradittorie, inimicissime. L' una, e la meno rea, fece dell' uomo un cotal angelo tutto spirituale, che per un cotal miracolo moveva un corpo; all' altra metà restò la materia, la quale anch' essa, per un miracolo molto maggiore, s' animava da sè stessa, e sapeva fare tutto ciò che fa lo spirito. A noi parve desiderabile che cessassero cotali dissidi, e l' uomo riacquistasse nella scienza l' unità che ha nella natura, toltagli dagli imperfetti e fallaci metodi di studiarlo, seguitando i quali, quelli che da due secoli filosofarono intorno all' uomo, nè poterono mettersi in accordo, nè giungere al bramato conoscimento dell' essere umano; chè nè l' uomo dei medici, nè quello di alcuni psicologi è veramente l' uomo. L' intendimento dell' opera presente non ci sembra aver bisogno di maggiore dichiarazione; e speriamo che pure quei savi, che professano l' arte salutare, non lo vorranno biasimare, scuseranno ciò che vi è di imperito nel nostro audace tentativo, pregiando la bontà del fine; s' accorgeranno che colle scorse da noi date nella scienza da essi valorosamente coltivata, abbiamo voluto (non diciamo di essere riusciti) restituirle quell' onore, di cui fu spoglia da tanto tempo, che da lei dipendesse la scienza dell' anima, ed anzi ne fosse gran parte; sicchè d' ora in avanti non si possa più riprendere nè il psicologo, che s' addentra in alcune fisiologiche dottrine, nè il fisiologo o il medico, che ragiona dell' anima, quasi movessero i passi nell' altrui campo. L' uomo è uno; le due scienze sono una; la loro conciliazione ed unione prepara la perfezione dell' unica vera scienza dell' uomo. Le cose toccate in quest' opera, principalmente nell' ultimo libro, e attenenti alla medicina, mi acquisteranno forse riprensione e biasimo da una maniera di persone più gravi ancora. Convengono ad un sacerdote gli studi laicali? Come perdersi in scienze tanto aliene dalle sacre dottrine? Come scendere ad investigazioni sì basse e palustri inverso alle vette altissime dei monti santi? - Avrei a rispondere assai più cose che non possano capire in queste estreme pagine, le quali debbono chiudere l' opera, e non aprirla a nuova materia di ragionare. Ma potrebbe bastare anche ciò che pur ora dicevo, aver bisogno la scienza dello spirito di molte dottrine riguardanti l' animalità, senza le quali quella si rimarrebbe imperfetta; più imperfetta ancora si rimarrebbe la scienza dell' animalità, segregata da quella dello spirito, chè rimarrebbesi materiale, e il guardarla dall' ignominioso materialismo non deve essere desiderabile, anzi propria sollecitudine dei teologi cristiani? Pure quand' anche non vi fosse la necessità, che è pur così manifesta, di aggiungere lo spirito all' argilla effigiata dei fisiologi e dei medici moderni, non mi pentirei d' avere indicato, o almeno d' aver voluto indicare, ove la medicina moderna nella cura dei morbi vada traviando: quali errori sistematici la danneggino sì fattamente da farle perdere il fine di guarire le infermità, o almeno di alleggerirle ai mortali. Perocchè non la sola verità, ma con essa la carità è principale ufficio del sacerdote cattolico, ed ella è voce oggimai universale e da niun savio, benchè professore dell' arte medica, contrastata, che quest' arte sia ridotta a pessima condizione; anzi i medici più valenti dell' età nostra sono quelli appunto che ne mandano più lamenti, e i soli mediocri la difendono. Chi può numerare le migliaia d' uccisi da quell' ostinazione di restringere l' arte salutare a non dover far altro che misurare la quantità dello stimolo, e trovare se ecceda ovvero difetti, trascurando così di tener conto di tutte le innumerevoli circostanze, che rendono uno stimolo opportuno ovvero inopportuno? Perocchè si riduce forse a questo la principale differenza, che allontana cotanto la nuova medicina dall' antica. L' arte nuova vanta grandissima semplicità, si fa una sola questione: se ecceda o difetti lo stimolo; qui finisce per non pochi la medica sapienza. L' antica incominciava: « l' arte è lunga, la vita breve, il tempo precipitoso, l' esperimento arrischiato, difficile il giudizio »; tanti erano gli accidenti, così variabili, così fuggevoli, così complicati, che ella stimava dover sagacemente osservare, giustamente calcolare, prima di concludere quale fosse la cura più opportuna d' una malattia. Che ora esca una voce dal tempio, e s' unisca a tante altre per domandare la riforma, la restaurazione di un' arte, che, in fiore, salva molte vite in pericolo, decaduta, ne trae molte ella stessa in pericolo, molte ne perde, non deve parere indecoroso, nè maraviglioso a chi sa il cristiano sacerdozio essere istituito ad alleggerire all' umanità tutti i mali, procurarle, accrescerle tutti i beni. A chi poi lo ignora, e però stupisce e si scandalizza che noi ci avvolgiamo in medici studi all' intento di ravviarli, con isforzi maggiori forse del potere, su quel diritto cammino, da cui tanto s' allontanarono, diremo così: niente c' importerebbe sapere di medicina, non vorremmo consacrarle alcuna parte del breve nostro tempo, se non fosse stato Uno, che avesse pronunciata questa parola: « amatevi l' un l' altro »; quell' Uno, che solo fra quanti hanno loquela, sa chiaramente parlare nel fondo del cuore. Niuna maraviglia che dopo quella solenne ed efficace parola i sacerdoti cattolici scrivano anche di medicina; quella parola fece fare agli uomini troppe altre cose maggiori, e molti non si ricusarono di parere e d' essere trattati da pazzi, per non disubbidire a quell' accento divino. Giudicateci tali; quella parola ci necessita ad accettare il vostro giudizio in pace. Ma ora, per conchiudere finalmente il lungo nostro lavoro, e in qualche modo ricapitolarlo, la natura dell' anima semplicissima, e l' indefinitamente molteplice sviluppo della sua meravigliosa attività diedero argomento alla prima ed alla seconda parte dell' opera. Vedemmo nella prima parte come l' anima sia una in ciascun uomo, com' ella sia il principio semplice di tutte le operazioni umane, come sia sostanza e in pari tempo principio d' un sentimento, come questo principio sentimentale e sostanziale sia intellettivo, come questo principio intellettivo abbia un' immediata e immanente percezione d' un corpo vivente, come, mediante questa percezione immanente, egli si compenetri col principio sensitivo, e ne risulti un solo principio intellettivo e sensitivo, avente un doppio termine d' azione, l' inteso, essere ideale, e il sentito, corpo soggettivo; e quindi acquisti condizione di principio razionale , nel quale è messo in essere l' uomo. Questo principio razionale percepisce sè stesso nell' essere ideale, e così acquista la coscienza, e, reso consapevole, si esprime col vocabolo IO . La percezione di sè è il principio della Psicologia , e perciò questa appartiene alle scienze di percezione ; ella si rinviene e si svolge coll' osservazione interiore di ciò che si contiene, permane, e cangia nello stesso IO , e dell' ordine in cui stanno fra di loro gli elementi che lo costituiscono. Niuna concrezione di materia entra nell' anima umana, e però è spirituale; il suo termine primordiale è l' essere, di natura eterna ed infinita; quindi, sebbene ella possa perdere il termine corporeo, con che dicesi che l' uomo muore, perchè se ne separano quelle due parti ond' egli risulta, tuttavia l' anima stessa intellettiva è immortale, ed ha un' ordinazione all' ente infinito. Con questo lieto risultato chiudemmo la prima parte della Psicologia . Aprimmo la seconda coll' indagare in che modo quelle tante attività dell' anima, che nelle sue passioni ed azioni si manifestano, giacciano da principio tutte contenute, e quasi dormienti, nella semplicissima essenza, e come si sveglino poscia, e da lei si distinguano: ricerca che ci obbligò d' entrare in alcune questioni ontologiche, le quali si sarebbero da noi potute non poco abbreviare, se ad una scienza ontologica già formata avessimo potuto riportarci. Ma l' Ontologia è per anco quella scienza, che di tutte rimane più imperfetta, come di tutte è più ricca. Trovammo dunque nella semplicità dell' anima una molteplicità, organata ed armonica, quasi a lei aderente; ma che non penetra in essa per modo da discioglierne l' unità e la perfetta semplicità. Vedemmo che l' anima, unico principio, si pone in atto mediante una pluralità di termini, che la attuano diversamente, senza perciò moltiplicarla, anzi rimanendo ella identica in tutti i diversi suoi atti, quasi vertice o centro di più angoli; e quindi trovammo la via d' accordare la molteplicità delle attitudini colla semplicità del principio; dalla considerazione poi di quei diversi termini deducemmo, ordinate e classificate le molteplici attività, potenze e facoltà umane. Ma tutte queste attività conservano nel loro operare delle leggi costanti e meravigliose, e per entro a questa nuova investigazione, quasi in non mediocre pelago, non dubitammo di sospingere pure la nostra navicella. Volendo noi dunque svolgere e descrivere le leggi, secondo cui operano costantemente le umane potenze, anche qui, innanzi d' ogni altra cosa, cercammo di tutte quelle leggi la prima ragione ed origine nell' essenza dell' anima, d' onde di mano in mano le facemmo poscia tutte uscire. L' ultimo libro finalmente, che tratta delle leggi dell' animalità, noi l' aggiungemmo come appendice, chè quelle non sono propriamente leggi dell' attività umana, ma leggi, a cui questa è quasi di continuo condizionata e mirabilmente connessa. Ora poi qual' è l' ultimo intento, quale il desiderabile effetto di così varie e di così sublimi attività, di cui fu ornata dal Creatore l' anima umana? Quale è il naturale voto di lei? Che destino le fu assegnato da Colui che le diede l' essere? In sapere questo solo sta veramente il frutto maturo della dottrina intorno all' anima, il quale non fu ancora da noi raccolto. I nostri lunghi ragionamenti ci avranno dunque condotti alla porta del giardino, senza potervi entrare? E fino sotto alla bella pianta, senza che ci sia dato di spiccare la rubiconda e saporosa poma che vi dipende, per cibare la quale prendemmo il faticoso viaggio? - Non si deve pretendere che una scienza bene ordinata mostri il suo utile risultamento, prima ch' ella sia pervenuta alla fine; nè veramente nella dottrina delle attività e leggi, colle quali l' anima si sviluppa ed opera, finisce la Psicologia ; fino dal cominciamento, noi avvisammo che la cosa di tutte importantissima e nobilissima, che le rimane ad investigare, è la destinazione stessa dell' anima. Perchè dunque fermar qui il passo? Perchè chiudere questa opera, senza toccare il suo termine, al quale sempre riguardando, si fece tanto cammino? - Il lettore, crediamo noi, non ne andrà scontento, ove egli consideri che, quantunque a diverse scritture noi abbiamo posto titolo diverso, e ciascuna dimostri un cominciamento ed una fine, tuttavia elle non sono più che parti, ovvero brani di una sola e medesima scienza, niuno dei quali è compiuto in sè medesimo; chè una è la Filosofia , una la scienza; onde il ripartirla in più libri e ordinarla sotto diverse intitolazioni si fa per alleggerimento di fatica agli studianti, i quali di un' opera lunghissima e pressochè interminabile potrebbero pigliare sgomento o fastidio. Al che riflettendo, neanche la presente trattazione psicologica parrà imperfetta e tronca a chi la voglia raggiungere colla Teosofia e coll' Antropologia soprannaturale , trattati che, a Dio piacendo, e favorendoci il tempo, comunicheremo al pubblico, il primo dei quali è via al secondo, dove dei destini dell' anima umana ci converrà distesamente ragionare. Toccammo già del perchè abbiamo creduto conveniente ed anzi necessaria questa dilazione. L' anima umana è un' intelligenza; ciò vuol dire, ha tal natura che l' oggetto per essenza, l' essere eterno, di continuo le si manifesta, ed indi ella trae l' atto dell' esser suo. Questa altissima relazione essenziale, che da parte dell' eterno oggetto dicesi manifestazione , da parte del soggetto intuizione , crea l' anima, che è il soggetto intuente. Affissata nell' essere eterno e divino, ivi ella tiene la sua naturale sede; ella è nell' essere; dove si vede qual parte di vero contenga la sentenza di Nicolò Malebranche, che Iddio è come « il luogo delle intelligenze ». Nulla mancherebbe alla piena verità di questa sentenza, se l' illustre filosofo che la proferì, avesse saputo accuratamente distinguere il concetto di Dio e il concetto di ciò che è divino. Dimorando dunque l' anima intellettiva nell' essere divino e sempiterno, quasi ivi innaturata, non mai confusa, è manifesto che da quell' essere, onde si origina ed ha l' essenza e l' esistenza, e onde non si può partire intieramente giammai, che, se indi si dipartisse, s' annienterebbe, ella deve ritrarre altresì ogni suo perfezionamento ed ogni suo compimento. Tanto più che ella, essenzialmente intelligente, non è congiunta, nè comunica immediatamente con alcun' altra cosa; comunica con tutte soltanto per mezzo dell' essere, a cui è affissa, pel quale conosce; chè gli enti sconosciuti non sono alla intelligenza. Ed intelligenza è l' umana persona; sicchè l' essere sempiterno, che naturalmente la illumina, è per esso lei quel mediatore che alle cose tutte la congiunge, e le cose a lei; e però l' anima intellettiva, siccome ogni altra intelligenza, in questo essere manifesto e manifestante ha tutto quello che ha, da questo tutto riceve, questo le dà tutte le altre cose. Il che rende manifesto come l' anima non sia il bene di sè medesima, anzi il suo bene sia un diverso da sè, chè dimora nell' eterno oggetto, nell' essere infinito, nel lume, che la fa essere anch' essa lume, e le dà tutto ciò che ella può ricevere, le acquista tutto ciò che ella può acquistare. Ragionare dunque convenientemente e, in qualche modo, pienamente della perfezione e della destinazione dell' anima non si può, senza uscire da lei; conviene che il discorso si spinga con ardire a più sublime argomento, che s' innalzi fino alla divinità; conviene che abbandoni per qualche tempo l' anima, e dopo investigate le cose divine e Dio stesso, quanto all' uomo è conceduto, a lei faccia ritorno. Come l' anima dall' essere eterno, nel cui seno ella dimora perpetuamente, può derivare a sè la propria perfezione? E può ella indi derivarla da sè medesima? Da parte del medesimo essere si esige forse qualche nuova meravigliosa, misteriosa operazione? Tutte ricerche, che trapassano il breve confine della semplice Psicologia. Il che dimostra a sufficienza che questa, siccome tutte le altre scienze umane, per sè sola è imperfetta, nè si può perfezionare, se non oltrepassa i confini della propria limitata sfera, e non si continua con altre scienze maggiori di lei, che, lasciandosi addietro l' universo creato, ne trovano il Creatore, il quale come dello stesso universo è il principio e la causa, così ne è anche il fine, la ragione, il perfezionamento, l' eterna sublimissima destinazione. Per questo noi giudicammo del tutto necessario riserbarci a parlare intorno ai destini dell' anima umana nell' Antropologia soprannaturale, la quale deve tener luogo dell' ultima parte, e del glorioso fastigio della Psicologia. Essendomi io, o Giuseppe dolcissimo, fino dai primi miei anni, come è conveniente che ogni uomo faccia, dato discepolo alla verità in primo, e poi al senso comune degli uomini (tutti rispettandoli io siccome esseri dotati del divino lume dell' intelligenza), procurai di raccogliere le loro sentenze, quando o ce le tramandarono se passati, o ce le esposero se presenti, sopra quegli argomenti che più importano al retto pensare ed al ben vivere, sollecito d' intendere, quanto per me si potesse, il fondo dei loro pensamenti, anzi che di fermarmi alla corteccia delle parole, di cui li rivestirono. E così io trovai, non senza soddisfazione dell' animo mio, che essi furono più consenzienti fra loro nell' opinare intorno alle cose sostanziali e necessarie, di quello che ne pare nel primo aspetto, ed anche più talvolta che non credessero per avventura essi medesimi. Onde, sapendo quanto studio tu ponga nella filosofia, e quanto altamente apprezzi quelle parole degne di un oracolo, «gnothi seauton», io ti mando qui brevemente esposte le principali opinioni dei filosofi e degli stessi popoli sulla natura dell' anima, accompagnate da qualche mia osservazione benevola ai loro autori, e conciliatrice; persuaso che tu accoglierai questo tenue lavoro, siccome segno del mio affetto, e fors' anche esso ti potrà prestare qualche utilità nell' istituzione dei giovanetti, che dànno opera alle filosofiche scienze, nella quale tu assiduamente ti occupi; o, se in questo io m' inganno, atteso che la tua erudizione non abbisogna di straniero soccorso, esso mi procaccerà almeno da te qualche ricambio, che gioverà a me stesso. Io dunque narrerò i pensamenti e le opinioni principali sulla natura dell' anima umana, tenendomi, quasi a filo conduttore, a quel principio degli Eclettici, che « « tutti gli errori degli uomini hanno un cotal lato vero e un cotal lato falso, e che come il lato vero ha per causa l' aver essi osservato qualche cosa della natura, così il lato falso ha per causa l' avere ommesso di osservare qualche altra cosa », » subentrando in mezzo la prontissima fantasia a supplire alla manchevole osservazione, sì fattamente che, in generale parlando, riesce vero ciò che vi è negli umani pensieri di positivo, e riesce falso ciò che vi è di negativo, di esclusivo, e di arbitrario. Il qual principio, dove si applichi a comporre un sistema filosofico, siccome fuori di luogo (e questa importuna applicazione è l' errore degli Eclettici), riesce sterile e illogico, perchè nelle dottrine non può discernere il vero dal falso colui che già prima non possiede il vero, qual tipo al cui riscontro il falso si riconosce; ma esso diviene ottimo, applicato alla storia dei placiti filosofici, la quale non può essere convenevolmente trattata, se non dopo che la filosofia stessa sia trovata e sufficientemente stabilita; chè solamente con questa si può giudicarli equamente, ed anche ridurli a qualche concordia, da variatissime e discrepantissime sentenze cavando un solo tutto, legato in meravigliosa unità. Ma poichè le opinioni antiche sono quelle che io voglio principalmente riferire, descrivendole più da filosofo che da storico, perciò mi si conviene avvertir prima d' ogni altra cosa, che le antichissime a noi non pervennero se non in minuti frammenti, quasi logore e scarse rovine di venerandi edifizi, e che la lingua antica in cui sono espresse, siccome assai sintetica (conciossiachè la facoltà dell' analisi non si svolse che pel corso dei secoli), dovette esprimere i concetti indistinti, come essi erano nelle menti, ed anzi più; di che sembra che voglia esserci conceduto dagli uomini discreti l' interpretarli per modo da cavarne un senso ragionevole, benchè assai spesso lo faremo più per modo di congettura che di fermo pronunciato. Ora, prima di tutto, ecco ond' io crederei poter dedurre un principio, il quale mi guidasse a classificare le diverse sentenze, che gli antichi seguitarono intorno alla natura dell' anima umana. Quasi anelli d' una catena le cose dell' universo sono annodate insieme, sicchè il primo anello è la materia; il secondo l' anima sensitiva, che la sente e percepisce; il terzo l' anima intellettiva, che percepisce il sentimento; il quarto l' essere, che risplende nell' anima intellettiva e le giova di mezzo universale a conoscere; il quinto è Dio, che è lo stesso essere assoluto, prima e suprema origine di tutte le cose precedenti. In questa ammirabile catena, che tiene sospeso al cielo tutto l' universo, sta come anello medio l' anima intellettiva, la quale si trova legata ai due primi pel senso, e si trova legata ai due secondi per l' idea e per l' influenza dell' Ente sussistente, dove l' idea ha la sua propria sede e sempiterno domicilio. Ora quegli uomini, che incominciarono a domandare a sè stessi « che cosa sia l' anima », volsero certamente la loro attenzione e la loro curiosità all' anima intellettiva; perocchè l' uomo che toglie a riflettere su di sè, non può partire che dall' Io (1), e nell' Io è già contenuta l' anima intellettiva. Ma quell' anima, essendo inanellata, come dicevamo, da una parte colla materia e col senso, dall' altra coll' idea e con Dio; nè potendosi ella distinguere, se non da una mente già addestrata all' attenzione ed all' osservazione analitica, la quale mancava ai primi pensatori, nè si educa che col tempo; doveva necessariamente avvenire che il concetto di lei si confondesse nelle loro menti coll' una o coll' altra di quelle quattro cose, che non sono lei, ma sono legate intimamente con lei. Quindi dovettero uscirne, e ne uscirono veramente, quattro classi di sistemi erronei, i quali riferirono la natura dell' anima, ora alla materia, ora al senso, ora all' idea, ed ora a Dio stesso. Come poi si potrà sciogliere e sceverare dentro a cotali sistemi erronei quella parte che sta in essi di verità? Questo da noi si potrà ottenere, considerando che gli autori di quei sistemi osservarono bene quelle cose che sono legate coll' anima, e in quell' osservazione si trova la verità; ma poscia tralasciarono di osservare che quelle cose, da essi osservate, non erano l' anima che intendevano definire, e in questa disattenzione sorse la falsità. L' aver essi adunque tralasciato di osservare le differenze, che separano dall' anima le cose che sono all' anima congiunte, ecco il fonte di tutti i loro errori. Questo è il solito procedimento della mente umana, che prima apprende le cose tutte insieme, e poi le distingue. Il movimento libero dell' intendimento umano cominciò nell' Asia minore, nella stirpe jonia; il primo oggetto che s' offerse a quella speculazione si fu la natura materiale. E così doveva essere, perocchè la prima operazione naturale della ragione si è la percezione dei corpi; dunque l' oggetto di questa, il corpo, doveva essere altresì trasportato il primo nella sfera della riflessione filosofica. L' impulso e l' occasione d' un tale movimento venne dalla corruzione delle verità tradizionali intorno a Dio massimamente, le quali degenerarono nei miti e nell' idolatria. Perduta la scorta sicura della primitiva rivelazione, l' uomo fra le genti sentì il bisogno di cercarne un' altra, e sperò di trovarla nel libero esercizio del proprio pensiero, e così da discepolo stato fino allora, tolse a divenire maestro di sè stesso (1). L' Oriente, vicino al fonte della primitiva sapienza, e massimamente l' ebraica nazione, in cui quella si mantenne intemerata, e a cui furono consegnati in deposito i positivi oracoli della Divinità, non ne sentì egualmente il bisogno; perciò ivi, possedendosi il vero, non nacque, o almeno non nacque con istrepito e baldanza, la filosofia, nè si ridusse a scienza rigorosa la Dialettica, che ne è il foriere e lo strumento. Al confine occidentale dell' Asia l' eco della tradizione divenuto evanescente e confuso, l' individuo umano si trovò vacillante nei passi suoi, per l' incertezza e in parte altresì per l' assurdità della dottrina sociale; rientrò dunque in sè per sorreggersi; e permettendo un tanto male, disponeva nel suo alto consiglio la Provvidenza che fosse creata la scienza. Ma colui che primo sorse a filosofare, e quelli che gli vennero appresso, non potevano importare ad un tempo tutto ciò che conoscevano direttamente e popolarmente nell' ordine della scienza, nel campo dell' individuale riflessione; la prima cosa adunque, che importarono in essa, e che sottomisero alla meditazione, furono i corpi. Così ebbe origine la dottrina degli elementi (1). Talete (a. 600 av. G. C.) e Ferecide posero il principio di ogni cosa nell' acqua. Ippone di Reggio ripose la sostanza dell' anima nell' umore genitale, che perciò faceva vivente (2). I quali filosofi trovarono indubitatamente questo principio nella tradizione, la quale narrava come tutta la materia a principio fosse creata in istato liquido, e dal liquido uscissero tutte le cose. Suida, Eustazio ed altri attestano che Ferecide potè avere in mano certi libri arcani dei Fenici. Hernius provò che questi libri erano i libri di Mosè (3). Talete, appartenente ad una famiglia fenicia, e però di nazione contermina all' ebraica, si deve esser confermato in questa sentenza dall' aver veduto che tutte le generazioni cominciano dal liquido, e che il nutrimento stesso deve rendersi liquido, acciocchè sia rifuso nel corpo vivente, e ne acquisti la medesima vita. Così congettura Aristotele sull' opinione di Talete: [...OMISSIS...] . Al che aggiunge il conforto di tradizioni più antiche. [...OMISSIS...] (1). Ora, che Talete ricevesse dalla sacra tradizione il suo principio dell' acqua come origine delle cose, pare confermarsi dall' osservare che egli aggiungeva all' acqua lo spirito, «nus», qual principio motore (2), il quale spirito è pure indicato nell' antichissimo dei libri, come quello che ferebatur super aquas . Al che consuona anche la tradizione profana, riferita da Probo con queste parole: [...OMISSIS...] . Quanto poi ad Ippone, Aristotele lo colloca tra i filosofi rozzi. [...OMISSIS...] . Aristotele dice che nei versi orfici si legge che l' uomo trae l' anima dall' universo colla respirazione (2). Di poi Anassimandro, contemporaneo di Talete, Anassimene (a. 557 av. G. C.), Anassagora (a. 440 av. G. C.) (3), Archelao (a. 460 av. G. C.) (4), e Diogene Apolloniate (a. 460 av. G. C.) (5), riposero pure, in un modo o nell' altro, la natura dell' anima nell' aria, cioè ancora in un fluido, onde non si allontanarono gran fatto dai precedenti. Varrone fra i Romani, seguendo quell' antica sentenza, definì l' anima così: [...OMISSIS...] . La qual sentenza fu suggerita ai filosofi evidentemente dall' osservare il fatto della respirazione. Si legge in Cicerone: [...OMISSIS...] . E lo dice pure Lattanzio: [...OMISSIS...] . Ma Aristotele dà altra ragione di questa sentenza: l' aver voluto pigliare quei filosofi a sostanza dell' anima la sostanza più mobile e più sottile (9), affine di spiegare l' anima per via della sua qualità di essere mobilissima; la quale a me sembra anzi una spiegazione sistematica che vera, secondo il vezzo di Aristotele, ovvero una ragione trovata posteriormente alla vera. Secondo Pitagora [...OMISSIS...] . Tuttavia sembra indubitato che Pitagora distinguesse da questa l' anima intellettiva, di cui troppo più altamente sentiva, come diremo a suo luogo. Eraclito di Efeso pose a principio delle cose il fuoco (2). Democrito ridusse l' anima ad atomi rotondi di fuoco (3). Così pure Leucippo (4), Zenone e gli Stoici, suoi discepoli, seguirono la stessa dottrina (5). Ad Ipparco è attribuita da Macrobio la stessa sentenza (6). Questa sentenza nacque al vedere i grandi effetti del calore, specialmente vaporoso, conosciuti anche dagli antichi, e dell' elettricità in tutta la natura, e singolarmente dall' osservazione di quel calore, che si sviluppa nell' animale colla respirazione. Quanto lungamente i medici ponessero nel calore il principio vitale dell' animale, ho accennato altrove (7). Aristotele, di cui conviene alquanto diffidare, perchè inclina a ridurre a certe determinate classi gli antichi sistemi, e sembra talora interpretarli in modo da forzarli ad entrare nelle classi prestabilite, pretende spiegare l' opinione che poneva la natura dell' anima nel fuoco, per la mobilità e sottigliezza di questo. Egli riduce tutti gli antichi sistemi intorno all' anima a tre generi: a quelli che definiscono l' anima per mezzo del moto ; a quelli che la definiscono per mezzo del senso ; a quelli che la definiscono per qualche cosa d' incorporeo (1). L' opinione adunque del fuoco la ripete da un tentativo di spiegare il movimento spontaneo. [...OMISSIS...] . Ma altrove Aristotele medesimo fa venire questa sentenza dall' opinione popolare espressa nella lingua. [...OMISSIS...] . E tuttavia non è certo che questi antichi ponessero l' anima interamente materiale, quando anzi piuttosto spiritualizzavano gli elementi, e specialmente il fuoco, o in luogo dell' anima pura (di cui non avevano ancora l' idea netta) parlavano dell' animato . A me pare probabile che il crudo materialismo si debba attribuire a tempi più bassi e di corruzione, come al tempo di Stratone ed ai posteriori (4). Aristotele asserisce che i filosofi dissero essere anima ognuno degli elementi fuori che la terra, la quale niuno disse essere anima, se non quelli che composero l' anima da tutti insieme gli elementi (1). Il qual luogo, se non è stato interpolato, rende sospetto il verso attribuito da più autori antichi (2) a Senofane: [...OMISSIS...] . E non di meno Macrobio attesta che Senofane faceva l' anima « ex terra et aqua (4) », e il suo discepolo Parmenide « ex terra et igne (5) ». Forse Macrobio dice dell' anima quello che tali filosofi avevano detto dell' uomo. Mi fa congetturare la cosa dover essere così dal vedere che Diogene Laerzio narra che Zenone di Elea, discepolo di Parmenide, fa uscire l' uomo dalla terra, e dichiara l' anima un miscuglio di elementi, cioè di freddo e di caldo, di secco e di umido, così armonico però, che nessuno di essi tiene sugli altri il predominio (6). Il fare risultare l' anima non da un solo elemento materiale, ma da tutti insieme, e il porre in essi l' ordine e l' armonia, è già un passo di più che fa la riflessione. Ella ha già conosciuto che niun elemento materiale da sè solo può spiegare le operazioni dell' anima (7); e ricorrendo all' armonia, si cominciava ad aggiungere al concetto dell' anima l' unità, e qualche cosa di spirituale, perocchè l' armonia suppone un ente semplice, che in sè contenga il molteplice. Fra quelli che così opinarono, celebre fu Dicearco, di cui Plutarco scrive: [...OMISSIS...] . Aristosseno musico pose pure l' anima in una armonia; ma pare che la sua non fosse l' armonia degli elementi, ma degli organi e dei sensi. Onde Cicerone così descrive la sentenza di questo filosofo: [...OMISSIS...] . Ora, posciachè era ancor troppo difficile il concepire questo nobilissimo vero, che l' armonia non poteasi avere che in un principio semplice e spirituale, quelli che nell' armonia riposero la natura dell' anima, senza intendere quale dovesse essere la sede dell' armonia, finirono col dichiararla un niente. Il che ci dice appunto Cicerone, parlando di Dicearco: [...OMISSIS...] . Nella quale dottrina si sente tutto l' impaccio di chi erra, poichè si pone una forza equabilmente diffusa in tutti i corpi viventi, da essi inseparabile - che corrisponderebbe da qualche lato all' anima elementare e senziente lo spazio, di cui parlammo nella Psicologia - e un temperamento di tali corpi, cioè un' organizzazione, onde l' anima organica, che si dissipa coll' organismo; e tuttavia si dice che l' anima sia niente. Pare adunque volesse dire che l' anima non era niente, separata dal corpo; il che era tuttavia un travedere come l' anima sensitiva, o principio senziente, non poteva sussistere senza il sentito, non sollevandosi il pensatore fino alla natura dell' anima intellettiva, nè intendendosi per anco che il senziente (l' anima) non era il sentito (corpo). Di Aristosseno, Lattanzio afferma il medesimo. [...OMISSIS...] : quasichè la musica fosse senziente e non sentita; e per essere sentita non avesse bisogno degli orecchi e delle anime altrui che la sentano! Finalmente si passò all' opinione che l' anima consistesse in qualche sostanza, composta bensì di elementi, ma di una determinata maniera. E qui cade il sistema di quelli che la riposero nel sangue, fra i quali Crizia (2). Quanto poi ad Empedocle, noi ne parleremo in appresso. E cade pure il sistema di quelli, di cui parla Cicerone così: [...OMISSIS...] . Alla quale è prossima la sentenza dei moderni materialisti, che la confondono col cervello o col sistema nervoso; ed anche in più la dividono, secondo le parti di questo. Quando da prima s' intese che i soli elementi materiali non bastavano a spiegare le operazioni dell' anima, allora s' aggiunse loro qualche altro principio; ma non si abbandonarono perciò tantosto gli elementi. Era il medesimo che pervenire a qualche cosa di spirituale; ma l' intendere che questo principio doveva essere spirituale, appunto perciò che non apparteneva agli elementi materiali, non fu agevole passo, nè si fece d' un tratto. Con questo principio nuovo che si aggiunse, si pervenne al senso. Plutarco espone così la sentenza di Epicuro (n. 337, m. 270 av. G. C.): [...OMISSIS...] . Stobeo aggiunge la spiegazione di questa sentenza di Epicuro così: [...OMISSIS...] . Epicuro adunque conobbe che non si poteva spiegare il senso coi soli elementi materiali o colle loro qualità, e ricorse ad un altro principio, che disse innominato, appunto perchè diverso dagli elementi conosciuti e nominati; ma non si elevò all' intelligenza, nè s' avvide che questo quarto principio sensitivo doveva essere immateriale (3). Egli poi lo congiunse all' organizzazione per guisa che, disciolta questa, si dissipava (4); il che era un travedere la natura dell' anima sensitiva. Gli Stoici, secondo Plutarco, posero nel senso la parte principale dell' anima (5); il senso poi l' attribuivano a un cotale spirito simile a quello di Aristotele, della natura del calore (6). Dalla parte principale poi dell' anima derivavano tutte le altre, e così la costituivano (7). Ora, come dopo la dottrina degli atomi venne quella della loro armonia, professata da Dicearco e da Aristosseno, così dopo la dottrina che poneva l' essenza dell' anima nei sensi, venne quella dell' armonia dei sensi. Plutarco dice che il medico Asclepiade definiva l' anima [...OMISSIS...] il che veramente era un porre ancor meno di quello che aveva posto Epicuro, perocchè questi, ponendo un principio sensitivo, aveva abbracciato tutto il sentimento animale, là dove Asclepiade riduceva l' anima alle cinque maniere esterne e comuni di sentire, senza accorgersi che l' animalità ne ha molte altre. Pervenuta la meditazione filosofica a riflettere sulla natura del sentire, e conosciuto che questa operazione non si poteva in alcun modo spiegare mediante i soli elementi materiali, rimaneva che i pensatori facessero entrare nella sfera del pensiero riflesso e scientifico anche l' operazione dell' intelligenza, ove potevano finalmente rinvenire la natura dell' anima intellettiva. Ma è più difficile fissare la riflessione sul soggetto intelligente, che non sia trapassare di un salto all' oggetto, e in questo esclusivamente collocarla; perocchè l' oggetto è quello in cui il pensiero finisce; e la via percorsa dal pensiero, e il pensiero medesimo non diviene oggetto, se non per una operazione riflessa posteriore. Quindi si scorge ragione manifesta perchè niuno forse degli antichi giunse a distinguere e separare del tutto il soggetto dall' oggetto, cioè l' anima dall' idea ; e tutti i più illustri, usciti dalla materialità dei primi, e sollevati eziandio sopra il senso, precipitarono il loro volo nella idea, senza fermarsi pure all' intelligenza, che pensa l' idea; cioè a dire riposero l' intelligenza e l' anima intellettiva nelle idee. PITAGORA. - Fra questi mi sembra poter annoverare prima degli altri Pitagora, di cui riferisce Plutarco che [...OMISSIS...] . Ora i numeri non sono che idee astratte; se dunque la mente è un numero, essa mente, ossia l' anima intellettiva, è confusa colle idee che illuminano l' anima, il soggetto coll' oggetto. Ma questo concetto dei numeri pitagorici venne esposto diversamente dagli antichi, appunto perchè essendo esso un' astrazione, lasciava un immenso campo ai discepoli di determinarla in varie guise; ed era pur necessario che nell' uno o nell' altro modo la determinassero, acciocchè ne riuscisse un qualche ente. Aristotele, che si mostra incerto del significato che debba dare al numero di Pitagora, toglie a confutare questa sentenza presa in tre sensi; cioè come se s' intendesse di puri numeri, e come se s' intendesse di piccoli corpicciuoli, e finalmente come se s' intendesse di punti matematici (2). Fa meraviglia come egli neppure accenni che i numeri di Pitagora sieno idee; eppure lo dissero alcuni altri antichi; nè tampoco accenni che sieno « astratti delle entità, presi a base del ragionamento, che si voleva intorno a queste istituire »; la quale io stimo che sia la più naturale, e la vera spiegazione dei numeri di Pitagora. Dichiarerò meglio la cosa con un paragone. A quel modo che il matematico, volendo dare la teoria della quantità continua dei corpi, si forma colla mente dei corpi astratti, ritenendo la sola estensione e le figure, e rigettando il rimanente, e poscia su questi corpi ipotetici, o per dir meglio, su questi corpi7postulati ragiona ed edifica la sua teoria; così Pitagora, o chiunque parlò prima dei numeri al modo dei Pitagorici, volendo dare la teoria degli enti, si formò degli enti astratti, ritenendo di tutto ciò che negli enti si trova il solo numero, e quindi traendo la teoria degli enti da questo solo, che essi sono numeri. Ciò che mi convince questa dover essere la vera interpretazione dei numeri pitagorici, si è l' osservare quanta nei filosofi italici era la potenza dell' astrazione, e con quale veemenza l' istinto filosofico, che tende all' universale, li sospingeva verso l' astrarre come in una regione del tutto spirituale, dove, inesperti ancora e invaghiti della novità della scoperta di un mondo così puro da condizioni di materia e di tempo, si persuadevano dover racchiudersi l' intera sapienza. Basta considerare in qual modo Senofane si portò addirittura col suo pensiero alla questione sull' unità delle cose ; e come mediante Parmenide e Zenone il grande problema filosofico di quel tempo divenisse ben presto il più elevato per astrazione, di quanti se ne possano immaginare, cioè « se le cose tutte sieno uno o più ». La questione agitata fra i patrocinatori dell' unità e quelli della pluralità, non è, a ben giudicare, altra cosa che la questione dei numeri. Certo non vi era bisogno di aggiungere alcuna cosa all' unità ed alla pluralità; perocchè si parlava di questi due astratti, senza aggiunta di cosa alcuna. Onde tutte le interpretazioni dei numeri pitagorici, le quali aggiungono ai numeri qualche cosa per determinarli, ci sembrano posteriori al Samese filosofo, non sono più questioni di teoria (la quale sola si cercava al tempo dei primi Italici), ma di applicazione della teoria dei numeri . Di vero, la dottrina intorno ai numeri doveva essere, siccome una teoria purissima, applicabile poscia a tutti gli enti; ella era la matematica pura dell' ontologia, una cotal lingua universale. Indi le diverse forme che prese quella teoria, quando ella si venne applicando agli enti. Invece adunque di mantenere la teoria e l' applicazione distinte come due parti dell' ontologia, si confusero insieme, o piuttosto si perdette di vista la teoria pura. La teoria pura ontologica dei numeri, quale sembrano averla posta i primi filosofi italiani, non riguardava adunque più l' anima che gli altri enti; ma sì ad ogni maniera di esseri poteva e doveva applicarsi. E posciachè i numeri sono ciò che di più astratto si può considerare negli enti, perciò li dicevano le prime cose, come attesta Aristotele, e gli elementi dei numeri gli elementi altresì di tutti gli enti, [...OMISSIS...] . Laonde questa teoria dei numeri s' applicava all' estensione, e ne uscivano i principŒ della Matematica pitagorica. S' applicava ai corpi, e ne usciva la Fisica pitagorica, e segnatamente la dottrina degli indivisibili (2). S' applicava a Dio, e ne usciva la Teologia pitagorica. Finalmente s' applicava all' anima e ne usciva la Psicologia pitagorica. Ora le questioni intorno all' anima, nell' applicazione che ad essa si faceva della dottrina dei numeri, dovevano essere, se non erriamo, queste: 1) Nell' anima vi è l' unità? 2) vi è la dualità? o la trinità, o la quaternità ecc.? cioè, vi è cosa che sia rigorosamente una? o cosa che sia due, tre, quattro, ecc.? Delle quali questioni la risoluzione pitagorica si era che nell' anima vi era l' uno, il due, il tre, il quattro, e non più. Dove nell' anima si diceva trovarsi l' unità? Nella mente. [...OMISSIS...] . Poichè dunque la mente considera molti individui con una sola e medesima idea specifica, e molte specie con una e medesima idea generica, si dava alla mente l' unità. Ma troppo più a ragione le compete l' unità, perchè ella abbraccia tutti i generi di cose con una sola idea dell' essere in universale, nella quale sono ridotti a perfetta unità non solo i reali molteplici, ma ben anche tutti affatto gli ideali determinati, o sieno specifici, o sieno generici. Ed a me pare che questa idea doveva essere appunto il Dio di Pitagora, cui questo filosofo definiva il numero dei numeri, [...OMISSIS...] , come Platone lo chiamò poscia ente degli enti, [...OMISSIS...] . Ma l' errore, che adesso notiamo, si è d' aver confuso la mente coll' idea, o certo d' aver parlato sovente in modo che veniva con essa a confondersi; e quindi di non avere ben distinta la natura soggettiva dell' una colla natura oggettiva dell' altra. Nondimeno pare che prima di Socrate e di Platone, i Pitagorici, che avevano certamente conosciuta l' unità della mente, non avessero pronunciato espressamente, o almeno con costanza, che la ragione di quella unità si doveva rinvenire nella natura delle idee; poichè Aristotele dice che fu Platone che aggiunse ai numeri le idee, togliendole dal modo di disputare di Socrate (1), se pure non è anzi a dire che Platone altro non facesse che introdurre un linguaggio più filosofico circa la natura delle idee, e desse a questa dottrina una maggiore importanza. Ora, dove nell' anima si trovava il due? I Pitagorici dicevano nella scienza . La scienza è oggetto; e vedesi l' errore e la confusione indicata in fare che la scienza, in cui riponevano il due, corrisponda alla mente, in cui riponevano l' uno, quando avrebbero dovuto farla corrispondere all' idea; alla mente poi dovevano far corrispondere la ragione (il ragionamento). Che cosa poi intendessero per scienza, non è così facile il determinare; ma probabilmente qualunque proposizione o giudizio spettante alle idee astratte, e perciò necessario; poichè a pronunciare un tal giudizio si richiedono almeno due termini, il soggetto ed il predicato. Dove poi trovavano nell' anima il tre? Nell' opinione riguardante le cose contingenti, e però in quei giudizi, nei quali la convenienza del predicato e del soggetto non è necessaria ed evidente, come non suol essere nei giudizi sintetici (2). Non potendosi adunque in questa maniera di giudizi unire un predicato con un soggetto, senza avere una ragione straniera che a ciò determini la mente, oltre il predicato ed il soggetto, forza è che intervenga un terzo elemento per opinare; quindi davano il tre all' opinione. Finalmente i Pitagorici trovavano il numero quattro nel senso, cioè nei giudizi intorno alle cose sensibili; e ciò, mi pare, perchè il senso non è una ragione sufficiente di applicare un predicato ad un soggetto, se egli stesso non sia prima percepito dall' intelletto; e quindi il giudizio, anche più semplice che si possa fare in conseguenza del senso, esige per lo meno quattro elementi. Prendiamo ad esempio il giudizio seguente: « questo rosso è un ente ». Noi possiamo distinguervi: 1) la sensazione del rosso; 2) l' apprensione intellettiva di essa; 3) la necessità che dove è la sensazione del rosso, vi sia un ente operante; 4) la affermazione. Platone fa venire l' opinione dal senso, e la scienza dalla mente, e così riduce il quattro al due. Come poi l' anima nel sistema pitagorico sia un numero che si muove, apparisce dal considerare che i quattro numeri, che si notano nell' anima, derivano l' uno dall' altro: il quattro dal tre, giacchè il giudizio sulle cose sensibili suppone dinanzi a sè la facoltà dei giudizi sintetici; il tre dal due, giacchè la facoltà dei giudizi sintetici suppone dinanzi a sè la facoltà dei giudizi analitici; il due dall' uno, giacchè ogni giudizio suppone primieramente l' idea. Laonde Plutarco così riassume il sistema di Pitagora: [...OMISSIS...] . Empedocle (43. 7 37. a. C.). - Ma da Pitagora passiamo ai Pitagorici, e scegliamo fra essi Empedocle. Noi siamo di opinione che gli elementi, di cui Empedocle voleva composta l' anima, fossero le idee degli elementi, e non gli elementi materiali; o almeno è certo che così alcuni suoi discepoli lo intesero (2). Secondo questa opinione il filosofo Agrigentino verrebbe in gran parte purgato dal goffissimo errore del materialismo; anzi l' errore opposto gli si potrebbe imputare, di cangiare la natura dell' anima intellettiva nella natura delle idee stesse, il che è un deificarla, dappoichè la natura dell' idea tiene del divino. Noi esporremo qui estesamente le ragioni che ci addussero a questa persuasione. La prima si è che, trattandosi d' interpretare la mente di un filosofo, di cui ci rimangono solo pochi frammenti, vuol tenersi gran conto della tradizione filosofica, e non considerarlo isolato, siccome tutto avesse inventato da sè, senza scuola precedente. Tanto più convien fare questa considerazione, quando il filosofo visse in una età nella quale fioriva lo studio della filosofia, come si fu quella di Empedocle, al cui tempo i filosofi ionii, e più ancora quelli di Samo, di Colofone e di Elea erano celeberrimi, e le loro speculazioni meravigliavano per altezza gli ingegni. Ora sembra possibile che, dopo che le questioni più elevate si erano già cotanto discusse, Empedocle cadesse in un così rozzo e plebeo errore da fare l' anima intellettiva composta di materiali elementi, ignorando o cancellando tutto quanto era stato detto prima di lui di più sublime in questo argomento? Di poi, il materialismo riflesso e professato in modo aperto e sguaiato, non appartiene al periodo, in cui la filosofia si stava formando, ma, chi ben guarda, solamente al periodo della sua corruzione, allorchè il sofisma e la dissoluzione dei costumi cominciò a traboccare. Le prime filosofie avevano certo nel loro seno un materialismo, ma loro proprio e speciale, veniente da mancanza di riflessione, mescolato collo spiritualismo; perocchè la divisione fra lo spirito e la materia non s' era per ancora ben colta dalla mente, la quale nè affermava lo spirito, nè la materia, ma parlava di entrambi come di una cosa sola. S' aggiunga doversi la critica appoggiare a notizie certe per argomentare le incerte. Ora niuna più certa di quella che Empedocle professava il pitagoreismo, il perchè egli apparteneva alla scuola d' Italia. Ora è possibile che un pitagorico, e, se si vuole, un pitagorista (1), non avesse altra dottrina da metter fuori intorno all' anima, che quella di farla constare di elementi al tutto materiali? Oltracciò il filosofo nostro non fu mai dall' antichità collocato nel novero dei filosofi materialisti, chiamati plebei da Cicerone, ma sì introdotto nella compagnia di Pitagora, di Parmenide, di Anassagora, di Platone e d' altri tali. Aristotele pone questa differenza fra Empedocle da una parte, e i Pitagorici e Platone dall' altra, che questi posero l' uno e l' ente nella sola essenza delle cose (2), quando Empedocle soppose all' unità l' amicizia. Aristotele, proposte varie questioni, soggiunge: [...OMISSIS...] . E poco appresso ripete la medesima cosa, ma dubbiosamente, come se la sentenza che Empedocle supponesse l' amicizia all' uno e all' ente, fosse piuttosto congetturata da lui che da quel filosofo espressa (1). Come dunque Platone e i Pitagorici spiegarono i numeri di Pitagora, riducendoli alle essenze ed alle idee, così Empedocle avrebbe determinato l' uno astratto coll' amicizia, ritenendo il fondo della dottrina italica e a suo modo svolgendola. Ora, perchè poi l' Agrigentino compose l' anima di tutti gli elementi? Per spiegare la cognizione di tutte le cose, di cui l' anima è suscettibile, movendo dal principio che « « il simile si conosce col simile » ». Ebbene, onde tolse egli una tale sentenza? Dalla scuola di Pitagora, da questa scuola eminentemente spirituale, la quale professava appunto tale dottrina; dunque egli va inteso secondo la maniera di pensare di questa scuola. Calcidio dice espressamente: [...OMISSIS...] : non è dunque una sentenza trovata da Empedocle, ma da lui seguita. E ancora: [...OMISSIS...] . L' anima dunque ha in sè la similitudine degli elementi, non gli elementi stessi materiali; il che consuona col sentire della scuola pitagorica e dell' eleatica, nella quale fu istituito Empedocle. Empedocle riconosce Iddio qual pura mente, priva di ogni concrezione corporea; e ci rimangono ancora di lui alcuni versi, nei quali dopo aver egli detto che Iddio è insensibile e s' insinua nei petti umani per l' amplissima via della fede, «megiste peithus», e che è privo di membra corporee, conchiude: [...OMISSIS...] i quali versi rammentano, come già fu osservato, versi simili di Senofane (2), e mostrano siccome la dottrina empedoclea si continuasse a quella dei filosofi precedenti. Sesto, mettendo Empedocle coi filosofi italici, attesta che ammetteva uno spirito, «en pneuma», comunicante con tutta la natura, e ad ogni cosa dispensante la vita (3); il che troppo bene conferma che egli non era un puro materialista, e che non poteva fare le anime nostre di elementi materiali, quando noi stessi voleva che fossimo animati da quell' anima spirituale, che pervadeva tutto il mondo, e che era soltanto mente: [...OMISSIS...] (4). E non dichiara forse le anime umane di divina stirpe dal cielo discese in terra come in un esilio, in un antro, «phygades teothen», avvolte in corporea veste, «sarcon chitoni», costrette a trasmigrare da una in altra forma corporea per lo spazio di trenta mila anni «tris myrias horas», fin che sieno purgate? Dove le tracce della tradizione dell' antica colpa, e della pitagorica metempsicosi, sono manifeste. Come dunque, quando questo autore dice poeticamente che le anime umane sono composte di tutti gli elementi, si potrà intendere che egli le voglia concretare di tutti i generi di materia? Si consideri di più, che Empedocle diceva sovente i suoi elementi essere Dei; il che poscia da Platone e dai Platonici fu detto appunto delle idee. Aristotele afferma che, secondo Empedocle, gli elementi sono per natura anteriori agli Dei, «ta physei protera tu theu», certo perchè gli Dei stessi si facevano di questi composti; quantunque soggiunga che anche gli elementi sieno [...OMISSIS...] , onde si ravvisano più generazioni di Dei o di demoni, ammessi da Empedocle, fra i quali poneva le stesse anime umane. Il che è a pieno consonante colle dottrine dei Platonici, che di ogni idea fanno un Dio, e pure delle idee compongono gli animi umani. Quindi Empedocle, cangiati gli elementi in persone, loro dava i nomi della divinità (2); il che era uno stabilire colla scienza la superstizione e l' idolatria, imitando in ciò i filosofi più antichi, fra i quali Ferecide, che inscrisse quel libro, che compose sugli elementi e sulla loro commistione, «theokrasia». Perocchè questi savi nè poterono colla loro mente sollevarsi alla chiara cognizione di Dio, nè avevano cuore abbastanza saldo da combattere l' errore comune e grossolano della idolatria, in cui erano essi stessi educati. Alla nostra sentenza ancora viene non leggiero rinforzo da un luogo di Aristotele, dove questo filosofo dichiara espressamente la dottrina di Empedocle intorno alla formazione dell' anima umana essere simile a quella di Platone (3); il qual luogo è il seguente: [...OMISSIS...] . Ora, tra i filosofi che posero mente non al moto, ma alla virtù di sentire e di conoscere, nomina Empedocle e Platone; i quali conseguentemente la fecero composta di elementi atti a conoscere altri elementi, cioè di idee, come indubitatamente fece Platone. Seguita dunque così: [...OMISSIS...] Su di che ci si presentano a fare diverse importanti considerazioni. Primieramente è indubitato che Platone non fece l' anima intellettiva, ossia la mente, di elementi materiali, ma piuttosto la compose di idee; che anzi nel « Timeo » fa il corpo risultare di quegli elementi; e il corpo per Platone (come prima per Empedocle) è una cotal prigione dell' anima, di cui turba i regolari movimenti. Laonde dice, che [...OMISSIS...] ; e così spiega l' ignoranza, in cui l' uomo nasce, e gli irrazionali moti dei bambini, non giunti all' età della riflessione. Di poi è da considerarsi che se, al dir di Aristotele, i due filosofi nominati, che componevano l' anima degli elementi, facevano questo, movendo dal principio che « « ogni cosa si conosce colla sua simile » »; dunque gli elementi erano simili a questi, non erano adunque questi stessi; e ben si sa che per il simile Platone intende l' idea. Dunque trattavasi di elementi ideali, nei quali solo veramente risiede la similitudine delle cose, con cui l' anima conosce (3). Di poi, che cosa è la prima lunghezza, la prima larghezza, la prima altezza, secondo Platone? Non altro che la lunghezza, la larghezza e l' altezza esemplare ed essenziale, cioè l' idea, causa, secondo lui, delle cose reali. Così pure l' idea di uno è il principio esemplare dell' animale; perocchè Platone la stessa essenza, che era nell' idea, pretendeva che fosse altresì nelle cose; il che, piuttosto che materializzare le idee, era uno spiritualizzare le cose. Ma mi sembra esser prezzo dell' opera l' esporre qui più estesamente la dottrina di Platone intorno alla doppia specie di elementi, i reali e gli ideali ; investigando poscia se i frammenti e le testimonianze, venute fino a noi intorno alla dottrina di Empedocle, ci dicano nulla di somigliante. Due dei più grandi uomini, di cui s' onora l' Italia, Parmenide e Zenone suo discepolo, avevano troppo bene veduto e dimostrato che non si può spiegare l' esistenza dell' universo materiale, senza ricorrere a qualche principio spirituale, che gli desse la consistenza e l' unità. Potenti dialettici entrambi (e fu il secondo che della Dialettica fece una scienza), non si contentarono di pronunciare alcune sentenze solenni ma staccate, all' uso orientale, e intrapresero a dare una logica dimostrazione della loro tesi. A tal fine fissarono la loro attenzione sulla natura del continuo corporeo, e così argomentarono: ogni parte assegnabile in un continuo corporeo non abbraccia più di sè stessa, tutto il resto è fuori di lei. Ma le parti assegnabili in un continuo non hanno fine; dunque le parti continue, che si possono assegnare, non cessano mai di escludere da sè una porzione dell' esteso. Se ciascuna parte non cessa di escludere da sè ciò che non è dessa, dunque ella stessa non si trova giammai; se non si trova giammai, non esiste. Se non esistono i primi continui, nessun continuo può esistere. Ma la natura del corpo sta nel continuo; dunque per sè solo il corpo non esiste. Ma se voi aggiungete un soggetto semplice (una mente secondo il concetto di questi filosofi), che possa ad un tempo stesso abbracciare tutto il continuo con un atto solo, e non per parti, allora il continuo sta, egli esiste come un semplice, non in virtù della semplicità del soggetto, ma in relazione essenziale col soggetto. Nella mente dunque (che era per essi il detto soggetto) sta il fondamento del corpo, ossia la mente è condizione necessaria all' esistenza del corpo. La quale argomentazione è ineluttabile, essendo evidente che il continuo non si può ridurre a punti matematici; nè tampoco si può ridurre a punti matematici il corpo; perocchè in tal caso, o questi punti non agirebbero che in sè stessi, e quindi colla loro aggregazione non produrrebbero mai nulla di sensibile; ovvero avrebbero una sfera d' azione continua intorno a sè, ed allora il continuo si supporrebbe di nuovo esistente (1). Ma che cosa è il continuo nella mente? In quanto è un continuo possibile, esso è un' idea; ma in quanto lo spirito afferma il continuo, esso è il continuo realizzato nel senso e nella materia, ma sempre considerato dalla mente e in relazione colla mente (2). L' essenza dunque del continuo, che nell' idea si contempla, è quell' unità che fa essere l' universo materiale, il quale è un esteso continuo variamente modificato e modificabile. L' argomento, che traevano Parmenide e Zenone dalla natura del continuo per dimostrare che avanti a tutti i fenomeni del mondo doveva esistere qualche cosa di eterno, che desse loro esistenza e consistenza, fu forse il maggior lume che mai rischiarasse la mente di Platone. Dal principio, posto da quei due sommi filosofi italiani, egli trasse indubitatamente tutto il fondo della sua dottrina. Ma, siccome accade agli uomini grandi, egli si appropriò per modo la dottrina di Elea che parve nella sua bocca originale. La necessità di un' eterna unità, arguita da Parmenide e da Zenone considerando la natura dello spazio, fu da Platone dedotta, con un ragionamento simile, anche dalla considerazione del tempo e delle mutazioni, che in esso nascono, alle cose materiali e sensibili. Come dunque abbiamo fatto dell' argomentazione degli antichi savi di Elea, la quale noi abbiamo ridotta ad una forma breve e, per quanto a noi pare, efficacissima, così vogliamo qui fare altresì dell' argomento di Platone; pigliamo il fondo del pensiero, e diamogli tutto il nerbo di cui esso è suscettibile. L' argomento di Parmenide e di Zenone traeva la sua forza da questo principio, che « « la sostanza corporea (prescindendo dalla mente) non è che una relazione di più sostanze juxta7positae ; che dunque la sostanza, se vi è, deve trovarsi negli elementi, cioè nei primi estesi; ma questi non si trovano; e al di là dei minimi estesi non si concepiscono che dei punti matematici, i quali non sono sostanze estese; perciò le sostanze estese, cioè i corpi, non esistono senza l' unità della mente » ». Ora Platone argomenta così appunto dalla mutabilità delle cose nel tempo: « « Se una cosa fosse solamente in un punto matematico di tempo , ella non sarebbe, perchè un punto matematico non ha durata alcuna; ella dunque durerebbe niente; e ciò che non ha alcuna durata, non è affatto » ». Il che si prova anche così: « Poniamo che una cosa durasse un istante matematico e non più. Ora in quale istante ella cesserebbe di essere? Nell' istante medesimo in cui è, no; perchè in tal caso sarebbe e non sarebbe allo stesso tempo, ossia l' istante, in cui fu messa in essere, sarebbe l' istante, in cui ella fu annullata, il che è contraddizione. Dunque in un altro istante susseguente. Ma se l' istante, in cui viene distrutta, deve distinguersi da quello in cui ella esiste, già fra l' uno e l' altro istante vi deve essere un tempo di mezzo, nel quale ella è durata. Dunque ciò che dura un solo istante è assurdo, perchè ripugna al pensiero ». Or bene, se noi consideriamo l' universo materiale, senza aggiungervi niente affatto che venga dalla mente nostra, esso ci si cangia appunto in un assurdo. Poichè niuno dirà che un tale universo esista nel passato o nel futuro, esso non può esistere che nel presente. Ma in quale presente? Per quanto la durata presente s' impicciolisca, ella non si trova mai; e se si trovasse dopo un infinito numero di divisioni, si ridurrebbe ad un punto matematico di tempo; tale è tutta l' esistenza del mondo materiale lasciato solo, separato da ogni mente, perocchè ogni tratto di tempo è fuori dell' altro, e viene dall' altro escluso. Ma la durata di un istante non è durata; e l' ente, che si suppone durar solo un istante, non dura nulla; perciò è cosa assurda, come si dimostrò. Dunque il solo universo materiale, senza la mente che ne contempli l' identità in certo tempo (passato e futuro), abbracciandolo tutto con un atto semplicissimo, non esiste. Così Platone stabilisce la necessità delle idee come cause delle cose. La sua maniera di esprimersi è certamente diversa da quella che noi usammo; ma il fondo del pensiero non cangia. Egli si trattiene ad osservare la mutabilità continua delle cose; io ho spinta questa mutabilità all' estremo, mostrando che l' esistenza delle cose materiali è così fluente che non ha durata alcuna, nello stesso tempo che qualche durata è pur necessaria alla sua esistenza. Veniamo ora ad applicare questa dottrina agli elementi di cui si compone, secondo gli antichi, il mondo materiale. Platone dice che la terra si scioglie in acqua, l' acqua in aria, l' aria in fuoco, il più sottile degli elementi, dove già si scorge un' analogia colla dottrina di Empedocle, che asseriva il medesimo; il fuoco faceva principio degli altri tre (1). Ora, partendo da questa continua rimutabilità degli elementi, ne trae che conviene necessariamente ricorrere ad un soggetto stabile di tutte queste mutazioni. Ora, ciò che serve di soggetto a quei modi sempre mutabili è la stessa sostanza che diviene ora fuoco, ora aere, ora acqua, ora terra; ma questa sostanza, o materia prima, o soggetto di tutte le qualità, è qualche cosa d' invisibile, e solo dalla mente concepibile, secondo Platone. Egli stabilisce tre generi: l' uno ciò che si genera, l' altro ciò in cui si genera, il terzo ciò alla cui similitudine si genera. A quest' ultimo dà il nome di padre, al secondo quello di madre, al primo quello di prole. La materia in cui tutto si genera, ossia il soggetto di tutte le mutazioni, è dunque la madre, e di essa dice: [...OMISSIS...] . Dove il grand' uomo viene a insegnare che la sostanza o materia che forma il soggetto delle modificazioni sensibili, è dalla mente supposta e non data dal senso; nè andrebbe lontano dal vero chi in questa prima materia intelligibile, che si trasforma in tutte le cose, vedesse l' essere in universale, giacchè questo solo ha i caratteri assegnati da Platone a tale specie invisibile, suscettiva di tutte le forme «pandeches», non determinata a forma alcuna, «amorphon». E quantunque nella natura debba rispondere a questa specie una realità, tuttavia il concetto di questa realità sarebbe assurdo, se la mente unendovi l' idea non vi desse consistenza; perchè la mente sola, come dicevamo, può abbracciare la durata, condizione dell' esistenza; la quale durata continua è nella mente e partecipata alle cose reali solo dalla mente; onde della sua materia intelligibile dice Platone: «mete ex hon tauta gegonen». Indi trae Platone che gli elementi materiali non sono i veri elementi, ma cotali simulacri dei veri elementi. Ma discendendo col discorso da quella specie intelligibile informe, che, come dicevamo, non può essere che l' ente, somministrato dalla mente, e quasi aggiunto nella percezione alle cose sensibili e transeunti, viene a parlare di altre specie meno indeterminate, cioè del fuoco, come quello che è il primo degli elementi, e poi degli altri elementi ancora; e si propone la questione « « se vi sia un fuoco, separato dalla materia, permanente in sè stesso, e così degli altri elementi »; » e prova che vi debbono essere le essenze intelligibili di tali cose, a cui compete propriamente i nomi di fuoco, aere e gli altri, assai meglio che a tali cose materiali. Di che conchiude: [...OMISSIS...] ; la quale specie così egregiamente descritta è l' idea, o per dir meglio l' essenza della cosa intuita dalla mente, verso alla quale la cosa reale scade; onde il filosofo soggiunge: [...OMISSIS...] . Questa è l' indole, secondo Platone, degli elementi materiali, le cui essenze sono intelligibili, e sono i veri elementi, il vero fuoco, il vero aere, la vera acqua, la vera terra, di cui i primi non sono che somiglianze sfuggevoli. Di tali essenze intelligibili adunque si compone l' anima intellettiva, secondo Platone. Ora, se vero è quel che dice Aristotele, che Empedocle compone l' anima intellettiva dei quattro elementi simigliantemente a Platone, non conviene dire che anche il filosofo di Agrigento distingueva degli elementi intelligibili, ossia specie ed esemplari degli elementi reali? Il che a noi pare che cessi d' essere congettura per divenire certezza, quando si considera un altro luogo di Aristotele, in cui questi chiaramente afferma che Empedocle ripose l' essenza delle cose nelle idee. Il qual luogo è in sulla fine del primo dei Metafisici, e suona così: [...OMISSIS...] Che se ci rivolgiamo ad interpreti più recenti della mente di Empedocle, noi troviamo che Filopono intese gli elementi di Empedocle per le loro nozioni o idee; il che gli pareva evidente scrivendo: [...OMISSIS...] . Ma passiamo alla dottrina dell' amicizia o concordia empedoclea, dalla quale riceverà nuovo rincalzo la nostra interpretazione degli elementi, di cui egli componeva l' anima. Empedocle, dunque, oltre i quattro elementi ammetteva due principŒ che egli chiamò la concordia, «philia», e la discordia, «neikos». Ora, secondo gli scrittori posteriori ad Aristotele, e secondo Aristotele stesso, come abbiamo veduto dai luoghi arrecati (2), la concordia dell' Agrigentino risponde all' unità di Pitagora e di Parmenide, e la discordia alla pluralità. Il che, se ben si considera, riesce a dire che in questi due elementi empedoclei si disegnano i due mondi, l' intelligibile ed essenziale, nel quale sono gli elementi ideali, e il sensibile e simigliante, composto degli elementi reali; massimamente che, oltre essere stato Empedocle pitagorico, fu anche discepolo, come da Alcimada si riferisce, dello stesso Parmenide (3). E qui udiamo come Siriano, commentatore di Aristotele, difenda Empedocle dall' accusa di contraddirsi, che gli appone lo Stagirita, non troppo equo con quanti lo precedettero. [...OMISSIS...] Le quali parole, consentanee all' età ed all' educazione di Empedocle, ristorano a pieno questo nobile lume dell' italica scuola del torto, che gli è fatto da tanti, col supporlo sì goffo e zotico intelletto da voler composta l' anima umana di materiali elementi (2). E un altro commentatore di Aristotele, Giovanni Filopono, dice lo stesso, attribuendo ad Empedocle che egli lodi la concordia, siccome causa del mondo intelligibile e divino, e biasimi la discordia, siccome quella che disgrega il divino (3); e trova pure che Aristotele non fa buona e giusta ragione all' Agrigentino. Aggiunge che i due principŒ dell' amicizia e della discordia si conoscono colla ragione piuttosto che col senso, e sono sembrati ad Empedocle «asomatoi physeis» (4). Clemente Alessandrino poi, ed altri, ci conservarono un verso di Empedocle, che si riferisce alla sua «philia», dichiarandola oggetto del solo intelletto: [...OMISSIS...] . Riesce nondimeno ad alcuni inesplicabile come Empedocle, pel quale la concordia ha ufficio di unire, dica che ella sia quasi materia . Aristotele e Temistio credono di trovarlo qui in contraddizione seco medesimo, non sapendo spiegare come la stessa «philia» possa ora esser causa motrice e unitrice, ora poi causa materiale delle cose (2). Ma se noi moviamo da questo principio, che per amicizia Empedocle intendeva l' uno , come espressamente dicono Plotino (3) e molti altri antichi (4), e come è consentaneo alla scuola che professava, l' apparente contraddizione svanisce. Poichè, che cosa è l' uno? - L' ente in universale - Che cosa è l' ente in universale? - L' essenza dell' ente intuita nell' idea, l' ente ideale, l' ente intelligibile. Or bene, quell' ente fa appunto rispetto a noi i due uffizi: 1) di virtù unitrice e congregatrice delle cose materiali, perocchè vedemmo cogli argomenti di Parmenide e di Platone, che l' universo materiale svanirebbe, se la mente non gli aggiungesse l' ente , che alle cose continuamente divisibili e fluenti dà stabilità ed unità; onde gli antichi chiamano anche l' amicizia di Empedocle «tautopoios henopoios» (5); 2) di materia intelligibile , appunto perchè ciò che s' intende in tutte le cose è l' ente variamente terminato e realizzato; e la sola realità dell' ente non darebbe alcun oggetto alla mente, la quale niente potrebbe con esso solo nè concepire, nè affermare. Ond' è che la materia, intesa dalla mente in tutte le cose reali, è sempre l' ente. Questo si doveva intendere propriamente dell' uno primo, del Dio pitagorico, che secondo noi è l' idea dell' essere, chiamato anche numero dei numeri, fonte degli altri numeri, rappresentante le specie e i generi delle cose. Ora, poichè ciascun genere e ciascuna specie ha l' unità, secondo i Pitagorici, perchè quei concetti unificano gli individui, perciò Aristotele dice che Pitagora ed Alcmeone, suo discepolo, sembrano riporre i numeri nel genere della materia (1). E giacchè Aristotele mette insieme con Empedocle Platone, non sarà fuori di luogo l' accennare l' opinione del Serrano intorno alla materia intelligibile di Platone. Il quale nell' argomento al « Timeo » così dice, secondo il volgarizzamento di Dardi Bembo: [...OMISSIS...] . E` dunque un cavillare quel di Aristotele, dove dice che il movente e la materia sono concetti diversi, onde rimanga a dire ad Empedocle sotto qual concetto la sua amicizia sia amicizia, se sotto il concetto di movente (cioè congregante, unificante) o sotto il concetto di materia (2); perocchè come si distingue l' uno per essenza e l' uno per partecipazione, così si può distinguere l' amicizia per essenza e l' amicizia per partecipazione . Ora l' ente, l' uno, l' amicizia di Empedocle per essenza, è materia di tutti gli oggetti intesi ; e in quanto è partecipata, ella è causa unitrice, che della pluralità indefinita delle cose soggette allo spazio e al tempo, fa riuscire un solo ente fisso, oggetto dell' intelletto. Giustamente adunque l' amicizia di Empedocle è amicizia sotto tutti e due i concetti di uniente e di materia (intelligibile), benchè questi concetti in apparenza diversifichino tanto fra loro. Con che rimangono pure spiegati quei luoghi degli autori, nei quali l' amicizia e l' uno di Empedocle sembrano due cose e non una sola; perocchè ben osservando quei luoghi, si scorge che tutti si riferiscono alla produzione dell' unità nelle cose contingenti; onde il dire che l' amicizia produce l' uno in tutte le cose, come dice Simplicio, [...OMISSIS...] , altro non vuol dire se non che l' uno per essenza produce l' uno per partecipazione, ossia l' amicizia per essenza produce l' amicizia per partecipazione (2). Quindi ancora l' amicizia empedoclea da Filopono e da Temistio viene paragonata al concetto, ossia alla notizia delle cose: [...OMISSIS...] ; perocchè quell' amicizia non è finalmente se non l' unità dell' ente intelligibile e il suo intrinseco ordine. Onde anche in un luogo di Stobeo, dove crediamo esporsi l' opinione di Empedocle, benchè sembri perito il suo nome con alcuni altri vocaboli, si legge la discordia e la lite essere non altro che specie; [...OMISSIS...] . L' uno pitagorico (5) fu denominato da quei filosofi in varie maniere (6): e fu detto Dio, Apollo, materia, caos (7). L' amicizia di Empedocle ebbe simili denominazioni: i due primi nomi dimostrano che trattasi di cosa spirituale e intellettuale, e non materiale; come a lei appartenga l' appellazione di materia, l' abbiamo pure accennato; rimane che vediamo a qual titolo possa ella essere detta anche caos. Ora, se si considera che l' uno è l' ente in universale, e che a questo può competere la denominazione di materia prima intelligibile, già s' intenderà con questo solo come gli si possa dare l' appellazione di caos (intelligibile), in quanto che nell' essere in universale non vi è nessun ente distinto e particolare. Qui si scorge ancora quanto sia mal fondata quella censura di Aristotele, colla quale pretende di cogliere Empedocle in contraddizione, perchè talora dice la lite principio di distruzione, talora poi le fa produrre le cose materiali. Giacchè, se la lite di Empedocle si trasporta nel mondo intelligibile, ella diviene quella facoltà, per la quale l' intendimento distingue le cose nell' unità dell' ente (1), e però quella che dà l' origine nella mente agli esseri singolari e finiti (2); dalla mente poi del primo facitore escono le cose reali, posciachè Iddio opera colla virtù della mente (3). Svaniscono del pari le obbiezioni, che trae Aristotele contro il sistema di Empedocle da questo, che [...OMISSIS...] (4). Al che Empedocle poteva rispondere che anche gli elementi ideali si compongono come i reali, e perciò coi composti di quelli si conoscono i composti di questi. Quanto poi a quello che dice Simplicio ed altri, che Empedocle riduca i suoi elementi a due, e infine ad uno solo, chiamato la necessità, o la monade della necessità, non ripugna, poichè l' essere in universale, che è l' uno, è anche il principio della necessità, giacchè impone la condizione per la quale ciò che è, è ente. Simplicio poi considera l' amicizia piuttosto distinta da quella monade, secondo un rispetto diverso da cui si guarda, che assolutamente, in quanto cioè l' amicizia esprime l' uno nelle più cose (1). Onde in altri Scrittori invece di «monas tes anankes» si dice «hule tes anankes». Il perchè, siccome per Empedocle talora viene tutto dall' uno, talora poi dall' amicizia, che è l' uno applicato al più, così talora in capo ai suoi principŒ ed elementi viene posta la necessità come cagione di essi, chè l' essere intelligibile, da cui tutto viene, è necessario, e impone a tutte le cose le necessarie sue leggi (2). Ma se l' uno (l' ente) è il principio supremo di Empedocle, al quale egli impone il nome di amicizia quando lo considera nella pluralità, e se all' amicizia contrappone la lite, ossia il non7uno (il non7ente), per limitare l' uno e distinguere in esso il più; come poi da questi due principŒ escono i quattro elementi? qual è il nesso che li lega con quelli? Primieramente è da considerare che Empedocle, con Eraclito e con molti altri antichi, riduce i quattro elementi ad uno solo, cioè al fuoco, come al più sottile e al più semplice. La quale sentenza, che si può dir comune agli antichi filosofi e inserita nello stesso « Timeo » di Platone, fu esposta da Lucrezio in questi versi: [...OMISSIS...] Dove il fuoco, di cui si formano gli altri elementi (2), si fa venire dal cielo; il che sembra alludere al mondo intelligibile, onde li fa venire appunto Platone (3). Ma Aristotele muove una difficoltà, che, per quanto solida possa parere, vale tuttavia a farci conoscere come Empedocle trasportasse il suo pensiero al mondo intelligibile, e non poco da lui prendesse Platone. Dice Aristotele che la teoria di Empedocle non spiega la generazione. Perocchè, che afferma Empedocle? che il composto si fa per via di ragione . Questa sentenza contiene l' antica dottrina di Parmenide in quello che aveva di vero, ed era quanto dire che « l' unità è quella che fa che un essere si dica composto, e l' unità è posta dalla mente ». Ma Aristotele dice che conviene assegnare una causa reale, e non meramente ideale, a spiegare come le cose si compongano e generino. Ed aveva ragione; ma non era men vero e assai più profondo il pensiero di Empedocle, che è la mente quella che fa sì che il composto sia un ente (4). Tutti gli elementi adunque si riducono al fuoco; ma come il fuoco si raggiunge ai due principŒ dell' amicizia e della lite ? Dimostra lo Sturzio che per Empedocle l' uno, il caos, la materia, il fuoco sono pressochè sinonimi (5); onde in alcuni luoghi di Aristotele si legge che Empedocle negava [...OMISSIS...] . Ora noi abbiamo veduto che l' amicizia è un vocabolo, onde Empedocle esprimeva l' uno dei Pitagorici. E oltre ciò sappiamo che i Pitagorici chiamavano il loro uno fuoco, o che prendessero il fuoco quale simbolo, o che lo considerassero come principio della vita e sostanza divina (2), come io credo. Se dunque l' amicizia di Empedocle è l' unità intelligibile, convien dire che egli ammettesse anche un fuoco intelligibile, come fa Platone nel « Timeo , » un fuoco essenziale (essenza ideale), verso al quale il materiale non è che un cotal simulacro, non ha l' essenza di fuoco (3), ma la qualità ignea quasi forma accidentale (4). E così infatti ci attesta uno scrittore antico, dicendo espressamente che egli faceva principio del tutto l' amicizia e la lite, ma della monade il fuoco mentale, [...OMISSIS...] , chiamandolo Dio, come si chiamava con questo nome dai Pitagorici e dai Platonici tutto ciò che appartiene alle idee. Ora poi, se si riconosce ammesso da Empedocle che gli elementi sieno intelligibili, idee, e, come tali, vere essenze; e sieno altresì materiali, e, come tali, non essenze, ma partecipanti le essenze, al modo che fa Platone; tosto si conciliano le apparenti contraddizioni, che presentano gli antichi, i quali ora ci fanno gli elementi di Empedocle eterni, semplici, eguali, immutabili, incorruttibili, ora tutto il contrario. E` vero che Empedocle componeva anche il senso di elementi (1), ma ciò egli faceva, o perchè niuno degli antichi distinse accuratamente il senso dall' intelligenza (2); ovvero lo faceva alla guisa di Platone, che distingueva nell' anima la parte sensitiva, ed a questa attribuiva gli elementi reali quasi sua veste, e la parte intelligente, che dalle idee faceva risultare (3). Ma perchè meglio si veda quanto Empedocle si avvicini a Platone, e l' abbia preceduto nella dottrina delle idee, torniamo al mondo intelligibile . Appresso gli antichi scrittori si hanno due serie di testimonianze, opposte in apparenza; una serie pone come indubitato che Empedocle faceva il mondo uno; un' altra serie afferma che due erano i mondi di Empedocle. Ora la conciliazione è per noi agevole; poichè se si considera che l' ente è identico sotto le due forme d' idealità e di realità, convien dire che il mondo è uno e il medesimo. Ma se si considerano le due forme, l' ideale e la reale, in cui è questo unico mondo, niente vieta che si pongano due mondi, come fa appunto Platone, l' uno intelligibile, ossia ideale, e l' altro sensibile, ossia reale. Federico Sturzio scrive: [...OMISSIS...] . Ma in appresso appone ad errore dei nuovi Platonici l' attribuire ad Empedocle il mondo intelligibile: [...OMISSIS...] . Ed è dello stesso sentimento il Karsten. La quale interpretazione tuttavia mi sembra più da erudito che da filosofo; perocchè gli eruditi recenti, fatti accorti come gli Eclettici Alessandrini vanno accaloriti per tirare al loro sistema tutta l' antichità (e indubitatamente ora supposero libri inscrivendoli del nome di antichi filosofi, ora compendiarono, raffazzonarono, infarcirono di loro glossemi gli autentici, sempre poi interpretarono i precedenti sistemi sullo stampo del loro), divenendo oltremodo diffidenti, spinsero la critica fino a renderla strumento di scetticismo. Ma a temperare questo estremo, a cui reca facilmente la critica dei particolari, noi crediamo che convenga associare questa colla critica dei generali, cioè coll' unità delle scuole e delle tradizioni, coll' analogia delle sentenze, e con tutte le circostanze dei tempi e delle menti. Ora una critica, che non dimentica queste vedute più ampie, ci assicura: I) Primieramente, che la scuola alessandrina non avrebbe potuto tirare a sè l' autorità degli antichi, nè attribuire loro nuovi libri, se negli scritti originali e nelle memorie rimaste non avessero trovato qualche addentellato a cui continuare l' edifizio, qualche vera traccia del loro proprio sistema. II) Che l' antichità presenta due grandi scuole, l' una delle quali ha per suo carattere il raziocinio individuale , che si personifica in Talete, e l' altra ha per suo carattere l' autorità tradizionale, che si personifica in Pitagora (1), e si continua in Platone, alla quale appartengono gli Alessandrini, che per ciò inclinano tanto a trovare negli antichi l' autorità che confermi i loro detti. Ora, tenendosi conto di questa indole storica e tradizionale della scuola platonica, è da credere che realmente ella raccogliesse le dottrine tradizionali, e non le inventasse di pianta. III) Di più consta per indubitabili documenti che il fondamento della dottrina platonica, il quale consiste nella contemplazione dell' essere ideale e delle sue divine proprietà, risale alla più remota antichità, ed oso dire alle prime tradizioni del genere umano. Tutto l' Oriente se ne mostra pieno. Secondo Mosè, ogni cosa si crea pel Verbo divino: l' Achmoth, cioè la sapienza esemplare dell' Universo (2), è primogenita avanti a tutte le creature non solo nei libri sacri, tanto anteriori alla scuola italica, ma ben anche nelle leggi indiane di Manu (3), sotto il nome di Mahat o di Bouddhi. Dalle scuole ebraiche ai piedi di Gamaliele, e non già dagli Alessandrini, S. Paolo imparò che Iddio « « dalle cose invisibili fece le visibili »; » nella quale sentenza sta tutto il buono del platonismo. Ora questa dottrina, che è pure la dottrina platonica del mondo invisibile e intelligibile, non poteva andar perduta nel genere umano, anzi si recò da per tutto colle colonie, si conservò nelle religioni e nelle mitologie (4); non poteva massimamente andar perduta pei filosofi della scuola italica, a cui appartiene certamente Platone; uomini tanto avidi di sapere, tanto solleciti di raccogliere le antiche dottrine, viaggiatori per l' Oriente, e di essi non pochi conoscenti per indubitato dei libri sacri, siccome dicemmo di Ferecide, e come più ampiamente è mostrato nelle opere dell' Huezio. Ora fra i miei voti uno è questo, che si scrivesse con diligenza una Storia del platonismo avanti Platone . IV) Oltracciò, se Empedocle udì Parmenide e Anassagora (5), celebre per aver separata la mente da ogni materiale concrezione, è possibile che egli sia stato poi interamente all' oscuro della dottrina delle essenze? Nè tuttavia pretendo che egli abbia chiaramente posta quella dottrina; mi basta che la ponesse in un modo oscuro, forse senza uscire intieramente da quella forma universale, sotto cui l' aveva annunziata Parmenide. Poichè è da distinguersi nella dottrina di Elea la prima questione fondamentale delle altre spettanti all' applicazione. Quando quei filosofi venivano alle questioni accessorie di applicazione, non dissento che sdrucciolassero nell' una o nell' altra fossa, tra cui movevano i piedi, del materialismo e dell' idealismo. Perocchè la scuola di Elea propose la questione dialetticamente, nella sua massima astrattezza e universalità: « Se fosse ben detto che tutte le cose siano uno, o se si dovesse piuttosto dire che le cose sono più ». Pigliandosi la parola uno nella sua incondizionata universalità, non si cercava in questa prima questione « se questo uno fosse poi spirituale o materiale, se fosse reale o ideale », tali furono le questioni posteriori e di applicazione. Nella questione prima, adunque, si voleva sapere soltanto se si diceva cosa vera, e se si parlava con proprietà, dicendosi che « tutte le cose fossero uno », senza cercare più in là; era la sola essenza dell' unità, che si voleva verificare nelle cose, astraendosi da ogni altra qualità o proprietà, che aver potesse la unità. Della quale questione per venire a capo, considerarono principalmente la variabilità delle forme che presentano i corpi, e conchiusero che sotto di esse doveva essere la sostanza, soggetto immutabile e permanente di tutte quelle forme, la quale fosse uno in tutte le forme: dunque il tutto era uno. Ma venne tosto appresso l' altra questione di applicazione: che cosa fosse poi cotesto uno. E allora alcuni si rappresentarono questo soggetto, che soggiace uno e immutabile a tutte le forme, siccome una cotal materia prima non informata, e però atta a ricevere ogni forma; ma ben presto, o gli stessi od altri, cominciarono a intendere che questa materia senza forma non poteva sussistere, benchè potesse essere concepita dalla mente astraente; e perciò la dissero insensibile, incorporea, solo intelligibile; e così vennero nell' idealismo platonico. Era veramente difficile trovare il vero in argomento così sottile; era difficile intendere che ricorreva qui quella legge di sintesismo, che in tutta la natura si dimostra, per la quale la materia è realmente distinta dalle forme, e tuttavia non può sussistere se non unita con quelle; difficile altresì era ad afferrare che la stessa materia o sostanza opera comecchessia in noi, per quella forza con cui immuta il corpo nostro, e si fa termine della nostra percezione sensitiva. Finalmente difficile tornava ancora l' accorgersi che non la sola sostanza materiale, ma egualmente o viemeglio le varie forme dei corpi avevano un corrispondente nell' ideale immutabile ed eterno. Le quali cose non le vide sempre con piena distinzione neppure Platone, il quale nel Timeo fa passaggio dalla sostanza di una cosa all' idea, senza avvedersi che lo stesso passaggio si potrebbe fare egualmente movendo dall' accidente; perocchè - dopo aver distinto fra la cera e le varie impronte di cui ella si può successivamente effigiare, osserva che alla domanda che sia quella cosa effigiata, non si risponde che sia una delle figure passeggere, ma si deve rispondere che sia cera, e la figura non è il quid della cosa, ma il quale - passa ad applicare il ragionamento agli elementi e fermasi al fuoco, siccome di tutti il più sottile, onde gli altri hanno origine, e distingue due fuochi, l' uno essenziale ed intelligibile, a cui spetta la quiddità del fuoco, l' altro sensibile, a cui spetta solo la qualità di fuoco. La qual distinzione è manifestamente quella che separa l' ideale ed il reale (salvo che invece di qualità doveva dire modo categorico di essere ; il che non potè dire a cagione di povertà di lingua filosofica); distinzione, che egli confonde così con quella che separa la sostanza dall' accidente, mentre sì l' accidente come la sostanza può ben essere ideale e reale. Ma la ragione, onde si sdrucciola dalla prima distinzione della sostanza e dell' accidente alla seconda dell' ideale e del reale, si è perchè la sostanza viene separata dagli accidenti per opera della mente, senza che manchi perciò nella cosa reale il quid che risponde a tale idea, e perchè la sostanza appare immutabile e simile in questa proprietà sua all' idea del pari immutabile. Onde due cose, perchè l' una e l' altra permanente ed entrambe oggetto della mente, la sostanza reale e l' ideale, furono confuse in una sola, nell' essenza ideale . Vi fu un' altra cagione ancora più efficace a travolgere le menti a questa confusione, la quale si è che la sola mente aggiunge l' ente alle cose conosciute; e fino a tanto che ella non ce l' ha aggiunto, conosciute non sono; e l' ente aggiunto dalla mente risponde alla sostanza, in quanto questa è l' atto, nel quale e pel quale gli accidenti sono. Quindi era agevolissimo il passare a riguardar la sostanza come meramente intelligibile, come essenza ideale; ciò che si fa anche dai moderni filosofi della Germania. Ma chi sottilmente osserva, vedrà che altro è la sostanza reale, altro l' ente che vi aggiunge la mente, pel quale la sostanza stessa diviene conoscibile, divenendo ente, il che è quanto dire oggetto dell' affermazione. Ora, tutte queste questioni al tempo di Empedocle erano ancora avviluppate, e neppur da Platone (1), nè dai Platonici poterono a pieno disvilupparsi; ma tuttavia si agitavano, e la verità si vedeva ora da un lato ora dall' altro, e si pronunciavano altresì, non senza contraddizioni, ambiguità e troppo parziali vedute. Ma tutto ciò nondimeno persuade che Empedocle non fosse punto straniero alla teoria del mondo intelligibile ed ideale. V) E veramente se si esaminano le sue indubitate sentenze, sarà difficile conciliarle colla supposizione che l' uno di Empedocle non fosse più che la materia prima, materiale, separata dalle sue forme; poichè: 1) Non si vede come a questa potesse competere il nome di mondo, sì perchè la materia senza alcuna forma non può esistere, e se ha una forma, non è più immutabile; sì perchè la parola «kosmos» indica un mondo formato ed ornato, e non una materia informe; onde meglio converrebbe la parola «sphairos» a indicare la materia, la materia non materiale, ma intelligibile. 2) Di più, il mondo eterno e immutabile di Empedocle è di fuoco, come quello di Eraclito (1); dunque non è informe. Di più, lungi da esser materia inattiva, che diventa tutto ciò che si vuole, è anzi causa attiva, «aition poietikon», come dice Teofrasto (2), e come si raccoglie dallo stesso Aristotele, appresso il quale esso fa tutto, ed è chiamato sempre «theos»; nè sembra possibile che sia applicato il nome di Dio alla materia bruta ed informe, giacchè tutta l' antichità ripose le cose divine nelle idee. 3) Quando si volesse chiamare mondo la materia informe, materiale, sarebbe pure un mondo meno perfetto che il mondo già vestito di forme ed ornato. All' incontro il mondo intelligibile e divino di Empedocle è dichiarato più eccellente del mondo sensibile; e lo stesso Sturzio, che rigetta l' interpretazione che noi diamo al mondo intelligibile di Empedocle, si mostra nondimeno inclinato ad accordare che fosse da lui chiamato «sphairos», ed altre cose intorno a lui attribuite ad Empedocle da Proclo e da altri Platonici (1). Ora, a questo mondo fu imposto simbolicamente il nome di «sphairos», e datogli una forma sferica per indicare la sua eccellenza sopra il mondo sensibile, al quale veniva attribuita da Empedocle la forma di elissi. Perchè poi gli antichi attribuissero alla figura sferica la perfezione fra le figure, e quindi si considerasse la sfera come il simbolo della perfezione, lo dice Platone (2); ed è perchè si era conosciuto che la sferica era la figura della maggior capacità, e quella che conteneva tutte le altre figure, cominciando dalle triangolari fino a quelle che fossero terminate da poligoni di un numero di lati indefinitamente grande. Quindi la sfera è simbolo acconcissimo a rappresentare l' essere ideale ; perocchè, come quella contiene dentro di sè virtualmente tutte le altre figure ed eccede da tutte, così l' essere ideale contiene l' essenza di tutti gli enti determinati e finiti, ed eccede ancora. D' altra parte se Empedocle dava al suo «sphairos» la forma della maggior perfezione, non poteva dunque essere una materia che dal non avere alcuna forma ricevesse imperfezione, come accade della materia reale. 4) S' aggiunga che lo sfero di Empedocle era formato dall' amicizia, causa di ogni bene secondo quel filosofo; onde non può esser la materia reale informe, la quale non ha ancora ordine, nè organizzazione, nè armonia. 5) Plutarco, ed altri antichi, ci dicono che Empedocle come ammetteva due mondi, così ammetteva due soli, l' uno dei quali si chiama «archetupon», e anche «pyr on» (1), che è quanto dire fuoco7ente, fuoco per essenza, e l' altro si chiama «phainomenon» (2). Ciò posto, il sole non può essere la materia prima eguale ed informe, perchè egli è un ente organizzato e informato, e, secondo le idee degli antichi, perfetto; dunque il primo di questi soli non si può intendere del caos materiale, o della materia prima reale. Di più la parola archetipo indica manifestamente l' idea prima del sole, secondo l' uso che di questa parola si fece da tutta l' antichità. Anche il dirsi fuoco7ente dimostra il medesimo, significando ciò che è intelligibile e non sensibile. Vero è che si dice che il sole archetipo è in un altro emisfero del mondo, e che il sole visibile è quasi un riflesso di quello; ma questa maniera di parlare non si deve ella attribuire alla lingua poetica usata dall' Agrigentino? Sembra dunque che per quest' altro emisfero, dove sta il vero sole archetipo, si debba intendere la sfera del fuoco celeste ed essenziale, vivente, intelligente; la quale s' immaginava come una zona sferica la più lontana dalla terra; sicchè per emisfero non è da intendersi la sfera tagliata orizzontalmente, ma a zone sferiche l' una dentro l' altra (3). 6) Finalmente dagli stessi frammenti, che ci rimangono, si raccoglie che Empedocle ammetteva un «kosmos noetos», tipo dell' altro «kosmos aisthetos», il che definisce affatto la questione (4). VI) Ammonio (4) e Tzetzes (6) ci conservarono quei versi, che citammo di sopra, nei quali Iddio viene definito « mente sacra, ineffabile, che abbraccia tutto il mondo colla sua provvidenza ». Ora, se la mente divina conosce tutto, ben conviene ch' ella abbia in sè le similitudini di tutte le cose, secondo il principio del nostro filosofo, che non si conosce il simile se non pel simile. Non sembra dunque consentaneo che nella mente suprema l' Agrigentino riponesse l' archetipo, ossia l' ideale del mondo? VII) Pare anche indubitato che Empedocle, come tutti gli antichi filosofi, trasmutasse in anime, in Dei, in Geni e Demoni le idee, come pure i sentimenti, le virtù, i vizi. Di che lo stesso Sturzio (1) paragona ai Sefiri cabalistici i Demoni di Empedocle. Ora se la cosa è così, quanto non è coerente che gli elementi, di cui l' Agrigentino componeva l' anima, e ciascuno dei quali era un Dio, e pei quali l' anima era intelligente, perchè simili agli elementi di cui constava l' universo, fossero pure idee? VIII) Di più, se Empedocle avesse composto l' anima di elementi materiali, non ci sarebbe stato bisogno di spiegare com' ella si unisca al corpo, poichè sarebbe stata corpo ella stessa. All' incontro, noi sappiamo da Plutarco e da altri antichi che Empedocle diceva l' anima di divina origine, e l' unirsi al corpo era per lei come un essere mandata in esilio, lungi dagli Dei, che è pure il pensiero di Platone. Voleva anche che fosse immortale e punita secondo le sue colpe nel fuoco (2). Dove lo stesso Bruckero (3) riconosce che queste dottrine empedoclee, le quali tengono della scuola pitagorica, ripugnano all' anima formata di elementi materiali; onde congettura che Empedocle avesse posto due anime, l' una divina, intelligente, nata dall' anima del mondo, e l' altra sensitiva, compaginata di elementi. Lo Sturzio pretende che una tale congettura sia arbitraria, senza vestigio nei monumenti antichi, e perciò la esclude (4), ma senza sostituirne una migliore. Ora, quantunque Empedocle non abbia forse distinto accuratamente il senso dalla ragione, dando egli l' uno e l' altra fino alle piante (5), tuttavia non si può negare che egli ricusi nei suoi frammenti la testimonianza dei sensi a trovare la verità filosofica, e voglia che ogni cosa si consideri colla mente (1), con un parlare simile del tutto a quello che abbiamo nei versi di Parmenide (2). Di più non è improbabile, anzi consentaneo, l' ammettere ciò che vuole Sesto Empirico, che egli distinguesse la ragione stessa dell' uomo in ragione umana e ragione divina ; la prima ragionante delle cose sensibili, la seconda delle intelligibili (3). Ora, se si ammette la sentenza nostra, che gli elementi, di cui Empedocle componeva l' anima, fossero elementi ideali , le similitudini degli elementi reali, ogni cosa si riduce in accordo nel sistema dell' Agrigentino, venendo da quegli elementi composta la ragione divina, a cui si riduce la natura dell' anima intelligente ed immortale. E qui ponendo modo a questa discussione, stimiamo bene di conchiuderla colle assennate parole del sig. Cousin: [...OMISSIS...] . LEUCIPPO, DEMOCRITO, EPICURO. - Questi filosofi materializzarono l' antico sistema dell' ente semplice, onde tutto si faceva provenire, supponendogli la materia. I sistemi precedenti avevano confuso l' oggetto col soggetto, e dichiarata l' anima come risultante dagli enti (ideali), che ella intuiva. Ma questi enti, che pei precedenti filosofi erano astratti e perciò idee, veri oggetti, avendoli essi cangiati in enti materiali, perdettero propriamente la condizione di oggetti, e ricevettero la natura di entità extra7soggettive. Quindi, a parlare esattamente, il loro errore intorno alla natura dell' anima giace nella « confusione del soggetto (anima) coll' extra7soggettivo (materia) », a differenza dei sistemi idealistici, il cui errore giace nella « confusione del soggetto (anima) coll' oggetto (enti ideali) ». A questa corruzione dell' antica scuola può avere influito, fra le altre ragioni, anche la lingua imperfetta e volgare, di cui si dovettero servire necessariamente i primi che tolsero a filosofare. Noi abbiamo veduto che Empedocle chiamava elementi gli elementi ideali, e li riduceva tutti al fuoco; e che poi faceva il fuoco essenziale sinonimo di amicizia, di ente, di sfero, di Dio supremo, sia perchè la vita si manifesta col calore, sia perchè il fuoco è un cotal simbolo della luce intellettuale, sia per una reale confusione, che nasceva nel suo intendimento, fra le proprietà del fuoco e quelle del supremo essere, che vive per propria essenza. Da questo Dio egli faceva venire le anime umane. Il che non era alieno da quanto aveva insegnato Pitagora, del quale, come abbiamo veduto, Diogene Laerzio ci assicura che faceva dell' anima una emanazione del fuoco centrale. Parmenide del pari la dichiarava di natura ignea (1), benchè questa sentenza per fermo appartiene all' opinione e non alla verità, secondo la distinzione di questo filosofo. Quindi Leucippo, uditore di Parmenide, la ridusse pure al fuoco; e Democrito la definì [...OMISSIS...] , dove si scorgono confuse le cose, che l' anima percepisce, coll' anima stessa, l' oggetto col soggetto. Eraclito tutto dal fuoco derivava, e, secondo Stobeo, voleva l' anima essere di luce, «photos». Onde dagli Atomisti, corruttori dell' antica filosofia, si ritenne presso che la maniera di parlare degli antichi, e si trasmutò in pari tempo la dottrina. E quando si considera che Possidonio (3) fa venire la dottrina degli atomi dalla Fenicia, dichiarandone autore l' antichissimo Mosco, e che dalla Fenicia avevano pur tratto le loro dottrine Ferecide e Talete, si rende vie più verosimile che il sistema atomistico dei greci non sia punto altro che la corruzione di un sistema più antico, immune dall' espresso materialismo. Non voglio già asserire con ciò che i Fenici e gli Ebrei, loro contermini, possedessero in quell' antichissimo tempo la dottrina platonica delle idee, in quella forma esplicita ed analitica in cui la insegnò Platone; questo sarebbe troppo. Ma io credo che essi parlassero degli enti, senza definire precisamente se l' oggetto del loro discorso fosse l' idea o l' ente reale; parlavano dell' ente, come si presentava alla loro intelligenza, senza farne ancora un' analisi accurata. Così appunto, a mio vedere, ne parlò Parmenide, senza discendere alla precisa distinzione fra il mondo ideale e il mondo reale dell' essere. Ora gli atomi, così considerati, altro non sono che indivisibili ; i quali nei tempi posteriori da alcuni si definirono idee, da altri si definirono realità corporee. Indi la divisione nelle due grandi scuole, fra le quali si divise l' antichità. Ma gli uni e gli altri confusero l' anima umana col loro termine. Quelli che determinarono l' ente, su cui si speculava, facendolo ideale, confusero il soggetto (l' anima) coll' oggetto, perchè l' essere, in quanto è ideale, è oggetto; quelli che lo determinarono facendolo reale e corporeo, confusero il soggetto coll' extra7soggetto, perchè il reale non è propriamente oggetto, ma semplicemente un' entità extrasoggettiva. Dovendo tuttavia questi ultimi spiegare in qualche modo la cognizione che ha l' anima umana delle cose, ricorsero alle immagini: ma facendo queste stesse della natura dell' anima, le confusero coll' anima stessa. Tennemann espone brevemente il sistema degli idoli di Democrito in questo modo: [...OMISSIS...] . Tuttavia neppure questo pensiero a lui esclusivamente apparteneva. Platone nel Menone ci attesta che lo stesso Empedocle faceva che dai corpi esteriori si movessero certe emanazioni, chiamate «aporroiai», ovvero «aporroai», quasi immaginuzze, le quali, entrando pei pori degli occhi, producessero la visione: che anzi Plutarco attribuisce questa dottrina alla stessa scuola pitagorica (3). Questo fu poscia il sistema di Epicuro. Dove si vede che la dottrina di tali filosofi intorno all' anima, contenendo errori diversi, può appartenere a diverse classi di sistemi erronei. Ma veniamo al sistema di Platone. PLATONE. - Aristotele nell' opera sull' anima, dopo riferito in qual maniera tutta materiale Democrito voleva che l' anima movesse il corpo, cioè come un corpo muove un altro corpo, gli aggiunge nello stesso errore Platone per le cose che questi dice nel « Timeo »; il che a me pare non altro che una delle solite calunnie, colle quali lo Stagirita suol deprimere il suo maestro, cogliendolo alle parole, e interpretando a rigore ciò che egli dice con istile allegorico, o in altro modo figurato. Che Platone non abbia sempre accuratamente distinto le idee dall' anima intellettiva, ma voluto che l' anima si componesse della similitudine di tutte le cose, questo mi sembra indubitato. E` un' eredità ricevuta dai filosofi, che lo precedettero. Il seme di questo errore è già in Parmenide, che aveva detto: [...OMISSIS...] . La dottrina di Empedocle era questa, come abbiamo visto, ed ella stava dinanzi alla mente di Platone. Nulla di meno Platone distinse qualche volta la mente dalle idee assai chiaramente. Così, nel « Primo Alcibiade », Socrate fa osservare che la ragione è lo strumento, ossia il mezzo, con cui egli ragionava, e non è lo stesso Socrate, ossia la stessa anima di Socrate ragionante. Al qual detto se fosse stato coerente, sarebbe pervenuto a trovare la propria natura dell' anima umana. Ma il nesso delle idee con noi è così intimo, che talvolta accade a Platone quello che ai suoi predecessori, di fare di due entità sì distinte una cosa medesima, cioè l' anima; e di ciò stesso potrebbe forse purgarsi, come diremo appresso, ma non dell' averne parlato in modo alquanto oscuro ed equivoco. Nel « Timeo » Platone comincia a descrivere la formazione dell' anima del mondo, dicendo che Iddio la compose di tre nature, cioè: 1) dell' essenza indivisibile, che è sempre la stessa; 2) dell' essenza divisibile, che è quella che poi si divide pei corpi, ed è quanto dire della materia prima, onde dovevano essere tratti i corpi, la quale è perpetuamente un' altra; 3) di una specie di essenza media, che tiene delle due prime. Delle quali tre cose commiste Iddio fece una sola e medesima cosa, cioè l' anima, che doveva poscia animare l' universo corporeo, congiungendo i due opposti, ciò che è sempre il medesimo e ciò che è sempre un altro, con potenza e con una cotal violenza, «bia». Se Platone avesse collocato l' essenza dell' anima in quel principio medio, che lega l' identico ed il diverso, non sarebbe andato lungi dal vero, poichè l' avrebbe collocata nel principio razionale, che fa appunto questo ufficio di legare insieme i due estremi del reale corporeo e dell' ideale. Ma facendo che l' identico stesso (l' essere ideale) fosse parte dell' anima, era un confonderla colle idee o cose divine, e così divinizzarla; come il volere che una sua parte fosse il diverso, cioè la materia corporea, era un confonderla coi corpi, e così materializzarla. Quindi Aristotele, cogliendo il sistema platonico intorno all' anima da quest' ultimo lato debole, cioè dall' averle dato un elemento che è sempre diverso, prima lo mise insieme con quello di Empedocle materialmente interpretato, e disse che faceva l' anima composta dei quattro elementi; poscia tolse altresì a farne un fascio con quello di Democrito, il che ha l' aria più di una satira che di una seria e grave censura. Ora, quanto al rimprovero che Platone componesse l' anima dei quattro elementi materiali, basterebbe a purgarlo questo luogo: [...OMISSIS...] . Ma poichè Platone fa che Iddio traesse l' anima in parte anche da quella natura che nei corpi si divide, «tes au peri ta somata gignomenes meristes», dobbiamo vedere se questa natura divisibile, di cui l' anima partecipa, sieno forse i quattro elementi materiali. Ora noi troveremo non essere punto così la cosa. Ma considerando ciò che egli ne dice nel Timeo, ci riuscirà indubitato che per lui questa natura era lo spazio, e il rilevar questo ci riuscirà non poco utile, e ridonderà in lode non piccola di quel grande uomo, il quale si dovette accorgere di quello che noi crediamo di avere dimostrato, essere cioè lo spazio un termine costante e naturale dell' anima umana (2). Egli dichiara che questa natura è « « il ricettacolo della generazione di tutti i corpi » »; il che conviene ottimamente allo spazio; poscia continua: [...OMISSIS...] . Ora qui, togliendo a dichiarare questa terza entità, necessaria a spiegare la costituzione del mondo, incomincia dal dimostrare che i quattro elementi si cangiano l' uno nell' altro, e però niuno di essi è per essenza o fuoco, o aria, o acqua, o terra; perchè se fossero tali per essenza, non si cangerebbero. Deve dunque esservi un quid sostanziale, che non sia niuno di essi, ma che possa diventare e fuoco, ed acqua, e gli altri elementi; e quel quid, non avendo alcuna forma determinata e visibile, non può essere, Platone così conchiude, che un' essenza intelligibile. [...OMISSIS...] . Dove alcuni credettero che così Platone descrivesse la materia prima; ma certamente non è, a meno che per materia prima non s' intenda l' intelligibile, ciò che è sempre identico (l' essenza sostanziale, confusa da Platone colla sostanza reale ); il cui opposto è ciò che è sempre da sè diverso, a cui passa il filosofo soggiungendo immantinente: [...OMISSIS...] . Fino a qui noi abbiamo descritti da Platone l' identico e il diverso, la sostanza (ideale e reale confuse insieme da lui) e i corpi formati (colle loro forme specifiche e individuali). Ora la natura, che Platone pone anteriore all' esistenza dei corpi, come un costitutivo dell' anima, non è nè l' identico, nè il diverso, nè le idee, nè il corpo ; che cosa è dunque? Lo spazio, noi dicevamo. Anzi è Platone stesso che lo dice espressamente nel periodo che seguita: [...OMISSIS...] . Egli dice con somma acutezza e proprietà che lo spazio « « senza senso di toccamento si tocca, opinabile in una cotal maniera adulterina » ». Dice « in una maniera adulterina », perchè l' opinione viene, secondo Platone, dai sensi (ella risponde alla nostra cognizione soggettiva ), ma lo spazio pure non si vede come cada sotto ai sensi; neppur si vede come si possa percepire coi corpi, giacchè esso non è corpo (1). D' altra parte essendo lo spazio, cioè l' estensione, il fondamento di ogni continuo anche corporeo, e il continuo non potendosi trovare semplice, quindi rimane che lo spazio debba appartenere alla forma dell' anima sensitiva, la qual forma è il sentito. Onde Platone dice, benchè oscuramente, qualche cosa di simile a ciò che propose Kant, quando questi chiamò lo spazio forma del senso esterno. Ma noi abbiamo veduto in che consisteva l' errore di Kant, cioè nel fare dello spazio una forma soggettiva, anzichè un termine del sentimento fondamentale (forma extra7soggettiva). Avendo dunque l' uomo, come essere sensitivo, la forma dello spazio a sè connaturale nel modo detto, accade che gli sia difficile a pensare cose immuni da spazio, perchè non può arrivare a ciò, se non adoperando il solo intelletto, senza che vi si associ menomamente la sua sensitività animale; il che gli riesce oltremodo malagevole, perchè di natura e d' abitudine suol fare il contrario. Onde egregiamente, e con una eleganza filosofica meravigliosa, secondo il suo solito, Platone soggiunge così: [...OMISSIS...] . Quella porzione dell' anima adunque, che non è identica, e nella quale come in una cotal matrice si fa tutto ciò che è un soggetto alla generazione, si è lo spazio , il quale è quindi a Platone come una cotal forma dell' anima sensitiva. Dunque nella composizione dell' anima platonica non entra corpo alcuno, nè elementi materiali, che questo filosofo replicatamente dice essere corpi, e perciò prodotti da Dio posteriormente all' anima (3). Ma veniamo all' altra censura, che fa Aristotele alla teoria dell' anima di Platone, tratta dal moto che questi le accorda. Convien dunque sapere che, movendo Platone dal principio dei Pitagorici, che « ogni simile si conosce pel simile », dall' aver egli composta l' anima di ciò che è essenzialmente identico, e di ciò che è essenzialmente diverso, e d' una media sostanza, che abbraccia in sè le due prime, tolse a spiegare come essa conosca le cose opposte, cioè sì quelle che sono per essenza le medesime, e sì quelle la cui natura consiste nel divenire continuamente altre da quel che sono; ella conosce le une e le altre in sè stessa, perchè ella ha la natura di entrambe (1). Ma poichè espresse questo pensiero, cioè che ella conosce tali cose, dicendo che le conosce col « rivolgersi in sè stessa », quasi a similitudine dei pianeti che ruotano sul proprio asse, «aute te anakyklumene pros hauten», Aristotele lo incolpò di spiegare i movimenti dell' anima alla guisa di Democrito, ricorrendo a un moto eguale a quello dei corpi da luogo a luogo, e così prese a tassarlo di errore. Veramente era questo un captare in verbo, era un cavillare; giacchè niuno meglio di Platone riconosceva la spiritualità dell' anima intelligente, che la faceva prodotta da Dio in tempo in cui non esistevano ancora i corpi, benchè la sua parte inferiore, cioè la sensitiva, voglia egli che sia fatta di quella natura divisibile circa i corpi, cioè di spazio. Ma neppure allo spazio attribuisce Platone veramente moto locale, somigliante a quello dei corpi, e però svanisce del tutto la censura aristotelica. Rimane dunque a vedere soltanto, se noi abbiamo fondamento di attribuire a Platone l' errore di confondere l' essenza dell' anima coi suoi termini. Intanto è indubitato che alcune espressioni platoniche contengono questo errore, come sono tutte quelle dove egli dice espressamente che l' anima risulta da tre nature. A ragion d' esempio, di Dio dice: [...OMISSIS...] . Vero è che gli uomini grandi, come Platone, non vogliono essere costanti nei loro errori. Però vi sono dei luoghi, in cui egli mostra di accorgersi che l' anima doveva propriamente dimorare in quell' essenza media, la quale da una parte tocca il mondo ideale, e dall' altra attinge lo spazio ed appresso il corpo, senza che questi suoi termini sieno essa stessa, ma sue condizioni essenziali, ond' ella non è senza di essi per la legge del sintesismo, di che facilissimamente con essa si confondono. Oltre al luogo citato del « Primo Alcibiade », il « Timeo » stesso ce ne somministra alcuni, dove la perspicacia del grand' uomo rasenta il vero. Nel luogo ultimamente addotto la sola media parte dell' anima è chiamata «usia» (1), benchè altrove chiami con questo nome anche le due parti estreme. La media viene detta partecipe delle due estreme, dimostrando con ciò che è dessa quella che costituisce l' unità dell' anima, e quella sola che, unendo nella sua unità l' identico e il diverso, può conoscere l' uno e l' altro (2). Ora quella che conosce l' uno e l' altro è l' anima; dunque, secondo Platone, l' essenza dell' anima non può essere collocata nelle parti estreme, nè propriamente in tutte e tre le parti, ma solo nella media, benchè questa sia legata con quelle estreme, non parti, ma propriamente termini, che non appartengono alla sua sostanza, ma ne sono condizioni; pure si dice che le appartengono solo perchè la media da esse riceve la condizione e l' atto di sua natura. Quindi quella che agisce in Platone è continuamente la media; ed io intendo che questa sia pure quella, che talora chiamasi da Platone ragione, in quanto ella è partecipe di ciò che è sempre eguale a sè stesso. Onde egli dice che la ragione, cioè questa sostanza dell' anima, partecipe dell' identico e del diverso, in quanto all' identico è unita, percependo il sensibile, cioè il diverso, si forma delle opinioni e delle persuasioni ferme e vere, «doxai kai pisteis gignontai bebaioi kai aletheis»; quando poi si volge a ciò che è razionale, cioè all' identico, allora si arricchisce di scienza, che ha per dote la necessità, «nus episteme te ex anankes apoteleitai» (3): i quali due modi di conoscere rispondono perfettamente alla ragione umana, «logos anthropinos», ed alla ragione divina, «logos theios», di Empedocle. Nel qual passo del « Timeo » più altre cose sono degne di osservazione. I) E primieramente merita che si osservi come Platone non attribuisca punto al sensibile cognizione di sorta, ma sì attribuisca alla ragione la cognizione anche del sensibile; nel che egli vide sagacemente quello che non videro i moderni filosofi tedeschi, che, dividendo la cognizione in empirica e razionale, attribuiscono la prima ai sensi, i quali cognizione alcuna non possono dare; e ciò perchè non si sono potuti giammai purgare affatto dal sensismo, ricevuto dal secolo alla lor propria insaputa, nè hanno potuto digerire il veleno, nè tampoco con quei potenti drastici, che sembrano essere le loro speculazioni trascendentali. II) In secondo luogo, quantunque Platone faccia l' anima composta anche di ciò che è sempre diverso da quello ch' era prima, acciocchè ella possa conoscerlo, giusta il principio che « il simile si conosce col simile », tuttavia egli non reputava bastevole che l' anima fosse sensibile per conoscere il sensibile, ma oltracciò richiedeva che avesse la ragione, che è il principio formale della cognizione dello stesso sensibile, e quella che contiene il simile ideale ; mentre il senso non contiene il simile, ma l' azione delle cose corporee. III) La differenza, che Platone assegna tra l' opinione o la fede e la scienza necessaria, non istà in questo, come alcuni credono, che la prima sia cognizione falsa od illusoria, e la seconda soltanto vera: che anzi alla prima, se rettamente è posta, egli attribuisce «doxai kai pisteis bebaioi kai aletheis». Onde questa eccellente distinzione risponde a quella che noi facciamo fra la cognizione relativa o soggettiva e la cognizione assoluta ; delle quali la prima ha per materia il sentimento mutabile, e la seconda un oggetto immutabile, benchè la cognizione stessa sì di quello che di questo sia immutabile. IV) Finalmente vuolsi osservato come Platone dica l' anima possedere il necessario e la scienza, allorquando la ragione si volge a considerare il razionale, «to logistikon»; dove si vede che il grande uomo non si era sollevato a conoscere che vi doveva essere una realtà, che tenesse la medesima necessità e immutabilità del razionale o ideale; e questo è il seme, già da noi additato, di tutti gli errori del sistema platonico, degenerante in un razionalismo, e ogni cosa promettente all' uomo dal freddo cielo delle idee. Nel libro IV della « Repubblica » Platone non parla delle tre parti dell' anima, ma insegna che « « nell' anima dell' uomo vi sono due cotali entità, l' una migliore e l' altra inferiore; e quando ciò che è migliore per natura domina su di ciò che è inferiore, allora si dice che altri è più possente di sè stesso, e così dicendo si loda; quando poi, a cagione della rea educazione o di qualche consuetudine, ciò che è migliore, essendo da meno, viene superato dalla moltitudine di ciò che è inferiore, di questo altri si vitupera come di cosa obbrobriosa; e si dice che egli è più debole di sè stesso » ». Nel qual luogo scompaiono, come dicevo, i due termini estremi dell' anima in quanto sono da essa diversi, e resta la sola parte media, che è veramente l' anima, la quale riceve da entrambi: e ciò che riceve da quello che ha natura immutabile è l' entità sua migliore, ciò che riceve da quello che ha per natura l' esser sempre diverso, è l' entità sua inferiore. Abbiamo veduto Aristotele rampognare Empedocle perchè, facendo egli che l' anima si componga dei quattro elementi e dei due principii, acciocchè, avendo ella in sè il simile delle varie cose, possa conoscerle, non provvide poi a fare che ella potesse conoscere altresì i composti, e le passioni ed azioni dei composti; i quali non potevano essere tutti nell' anima. Questa difficoltà Aristotele probabilmente l' aveva bevuta alla scuola di Platone. Infatti questi aggiunse ciò che mancava alla spiegazione empedoclea dell' umana cognizione. In primo luogo quello che rimaneva incerto od equivoco nelle sentenze di un filosofo, che aveva scritto in poesia, fu da Platone dichiarato; di poi quello che mancava fu aggiunto. In Platone rimane dichiarato come si dovesse intendere che « il simile si conosce pel simile », perocchè questo principio ha due sensi: il primo, che le cose si conoscono per le idee, che ne sono come le similitudini (1); il secondo, che chi conosce una data natura deve esperimentarla, riceverla o averla in qualche modo in sè stesso, nel proprio sentimento, senza di che gli manca la materia della cognizione, non ne può avere che un' idea vuota e generale. Entrambi questi due sensi sono veri. Il simile fa conoscere il simile, è principio vero sì applicato alla forma, e sì alla materia della cognizione. E quantunque questa illustrazione non si trovi con parole espresse in Platone, tuttavia si può raccogliere dai suoi detti, osservando che egli attribuisce alla ragione la formale cognizione anche dei sensibili, e che tuttavia egli esige l' anima sensibile come condizione, senza cui ella non potrebbe conoscerli. Quanto poi a ciò che mancava in Empedocle e che aggiunse Platone, sì fu l' aver questi veduto una verità bellissima e fecondissima, ed è che nell' anima umana vi sono ingenite le leggi dell' ordine e dell' armonia, e tali leggi che fanno eco a quelle dell' universo, onde avviene che ella possa intendere l' armonia di questo. Nè solo vi è l' armonia di distribuzione, ma quella altresì che nei movimenti ordinati e rispondentisi è contenuta, della quale un' espressione è la danza. Ed è indubutabile che l' anima non potrebbe sentire ciò che vi è di bello e di armonico nell' universo e nell' opera dell' arte, se ella stessa non ne avesse in sè il fondamento. Che anzi non si dà armonia meramente oggettiva, ma ogni armonia consiste in un rapporto dell' oggetto col soggetto, e nel soggetto dimora. E se a Dio piacerà che noi pubblichiamo quella parte dell' Agatologia, che intitolammo Callologia, di cui l' Estetica non è di nuovo che una parte, noi vedremo come la costituzione mirabile e profonda della sensibilità dell' anima sia il principio supremo di quest' ultima scienza, o parte di scienza (1). Platone adunque diede il movimento all' anima del mondo - a cui somiglianza egli fa poi l' anima umana - e anzi la fece moventesi da sè stessa, « «auto heauto kinun» (2) », e fece i suoi movimenti regolati dai tempi, e armonici, assomigliandoli in tutto a quelli dei corpi celesti. Disse che ella movevasi come due circoli l' uno dentro l' altro, che ruotano di continuo: l' esteriore e maggiore composto di ciò che è sempre identico ed immutabile, l' interiore di ciò che è sempre diverso da sè; e questo circolo interiore fu poi da lui diviso in altrettante orbite, quante sono quelle dei pianeti, che quell' anima doveva animare. Ed è pur da notarsi come Platone metta ciò che è sempre diverso da sè, la materia prima, dentro a ciò che è identico, e quindi dica aver poi Iddio entro l' anima fatti i corpi (3), ed ella in mezzo di sè (dove sono i corpi) stendesi via oltre i cieli, e li circonda ed avvolge (4). Onde, avendo egli descritta l' anima in continua rivoluzione intorno a sè medesima e di varie quasi sfere composta, Aristotele fu pronto ad assalirlo come d' assurdità, e, pigliando tutto materialmente, non gli fu difficile confutare una tale dottrina. Ma pigliandosi ragionevolmente quanto dice Platone, con quello stile animato e poetico di cui si compiace, si troverà aver quell' uomo grande veduto anche in ciò dei veri ammirabili. Perocchè noi interpretiamo così la sua descrizione dell' anima del mondo, e i circoli di cui la vien componendo, e gli armonici movimenti che egli le presta. I) L' esteso non può esistere che nel semplice, e quindi il corpo nell' anima; noi l' abbiamo provato. Ora questo è ciò che dice Platone, benchè l' apparenza sensibile mentisca il contrario. E in vero, cadendo il contenuto, cioè l' esteso corporeo, sotto i sensi esteriori, e non il contenente, cioè l' anima, sembra che questa si stia nascosta, quasi coperta da quello; ma pure, secondo la ragione delle cose, è il contrario. II) Quindi l' estensione si può considerare sotto due rispetti, o in sè stessa, o nel suo rapporto col principio senziente, appartenente all' anima. L' estensione in sè stessa è estesa per essenza, e possono essere segnati in lei parti, limiti, mutamenti di parti e di limiti, e movimenti. Ma il rapporto, che ha l' estensione col principio senziente, non è esteso, poichè è un mero rapporto di sensilità (1); onde in quanto l' estensione è forma del sentito, ella non è estesa, perchè è semplice il principio in cui si trova, nel qual principio anche ella nasce. Quindi si possono distinguere due estensioni, l' una extra7soggettiva e l' altra soggettiva. La estensione soggettiva è in un modo inesteso nell' anima, in quanto è sensitiva; e però, se s' intende in questo modo la dottrina platonica, niente vi è di assurdo che Platone dia all' anima del mondo l' estensione, e distingua in essa più circoli, il tutto rispondente alla forma dell' universo materiale che deve animare, e che è suo termine. Poichè così appunto avviene nell' anima umana, in quanto ella avviva il corpo, avendo certo in sè l' estensione dello stesso corpo, ma in un modo semplice, com' è detto; giacchè il sentire, a ragion d' esempio, in due pollici di corpo senso di dolore o di piacere è diverso dall' avere la sensazione in un pollice solo; poichè il termine della sensazione (il sentito) è più esteso nell' un caso che nell' altro, e quindi la sensazione stessa si dice più estesa. Ora, avendo l' animale quello che noi chiamammo sentimento fondamentale, il quale a tutto il corpo sensibile si estende, ed allo spazio illimitato altresì, convien dire che all' estensione extra7soggettiva risponda nell' anima una pari estensione soggettiva; ossia, il che è più esatto e conforme alla maniera onde s' esprime Platone, che alla estensione soggettiva che è nell' anima, risponda l' estensione extra7soggettiva, che è nel corpo percepito dai sensori esterni, e che questa si percepisca per quella a cui si commisura; poichè anzi questa esiste per quella, secondo il principio nostro che « l' esteso continuo esiste pel semplice, in cui dimora ». Se dunque si considera tutto l' universo al modo di Platone come un solo animale, conviene dire che nell' anima di quell' animale risponda un' estensione corporea pari, e così conformata, come è appunto l' estensione extra7soggettiva, che hanno i corpi, di cui si compone l' universo corporeo, diviso in circoli e sfere; e così appunto Platone descrive distinta l' estensione dell' anima. III) Ora, di ciò medesimamente consegue che, non essendo il moto altro che un cangiamento dei luoghi che i corpi occupano nell' estensione, debba esservi nell' anima un moto soggettivo, rispondente al moto extra7soggettivo proprio dei corpi; altrimenti questo movimento dei corpi non potrebbe in alcun modo essere percepito dall' anima; anzi neppure esisterebbe, perocchè il movimento è una mutazione nel continuo, e il continuo è formato dal semplice, dove solo può esistere. A torto, dunque, Aristotele tolse a censurare il suo maestro d' aver dato il moto all' anima. E pare che egli non abbia saputo distinguere l' estensione e il moto soggettivo proprio dell' anima, dalla estensione e moto extra7soggettivo proprio del corpo; e che Platone desse quell' estensione e quel moto all' anima del mondo, e non questo. Infatti nel « Fedro » distingue il moto proprio del corpo e il moto proprio dell' anima; e dalla natura del moto dell' anima ne deduce la sua immortalità, perocchè, egli dice, l' anima ha il moto interno, che è come sua natura, là dove il corpo lo riceve da fuori. Onde, se il moto è nella stessa natura dell' anima, questa natura deve essere sempre in moto, e quindi sempre viva, poichè ciò che si muove da sè è cosa viva (1). Di che si vede, e che Platone attribuisce all' anima la cagione, ossia il principio del propro moto (2), e che il proprio suo moto, secondo questo filosofo, è interamente diverso dal moto del corpo; giacchè questo moto extra7soggettivo, di cui il corpo è il subbietto, non può essere mai una natura, ma un accidente estrinseco; quello poi è natura, e ogni natura è stabile e ferma. IV) Ora, con questo moto interno dell' anima del mondo Platone spiega tutti i movimenti che accadono nell' universo, dove il grand' uomo dimostra d' aver veduto quel principio, che da tutta l' antichità fu consentito, e di cui noi ci siamo giovati in quest' opera: « il movimento dei corpi supporre un principio incorporeo, sensitivo o intellettivo ». Infatti le forze brute dei moderni, ammesse come una confessione d' ignoranza, possono passare; ma asserite siccome vere forze brute, cioè escludenti la sensitività, altro non sono che una produzione dell' immaginazione, sono l' ignoranza degenerata in temerità, che, abbigliata alla scientifica, pronuncia assurdi. Aristotele confuta con ragione la maniera onde Democrito e Filippo il Comico volevano che l' anima movesse il corpo; quelli pensavano che essa lo movesse come un corpo muove l' altro, e recavano in esempio la Venere fatta di legno da Dedalo, la quale movevasi per un cotal gioco d' argento vivo, che il fabbricatore vi aveva saputo congegnar dentro. Oppone Aristotele, che se con ciò si spiegherebbe il moto, non si spiegherebbe poi la quiete, cioè non si spiegherebbe perchè l' animale si rimettesse in quiete, e poi ritornasse a muoversi; al che è pur mestieri supporre che « « l' anima non muova così l' animale, ma per una cotale elezione ed intellezione »(1) »: dove ricomparisce il sensismo aristotelico, accordandosi l' elezione e l' intellezione all' animale. Ora, benchè egli metta insieme con quei due filosofi materialisti Platone, non osa però fare a questo la stessa obbiezione. Infatti Platone non fa che l' anima comunichi il movimento al corpo, come fa un corpo ad un altro, a cui lo comunica, rimanendone esso di tanto spogliato; non dà all' anima il moto solamente, ma di più le dà il principio del moto, «kineseos archen» e quindi la sorgente perenne di sempre nuovo moto. E come ogni potenza passa all' atto secondo certe sue leggi, così anche il principio, ossia la potenza del moto, passa all' atto giusta le leggi proprie, che hanno il loro fondamento pel moto sensibile nel corpo dall' anima informato, e pel moto intelligibile nell' essere universale, da cui è informata l' anima umana, ai quali due termini si riducono le due estreme parti assegnate all' anima da Platone. Quanto poi alla fatica, che si prende Aristotele di dimostrare che l' anima intellettiva non può avere grandezza corporea, e che « l' intellezione è piuttosto simile alla quiete e a un cotale stato che al movimento », ciò è verissimo, se è detto ad esclusione delle parti e del moto materiale; ma non tiene, se si parla di parti e di moti sensibili quanto all' anima sensitiva, e di parti e di moti ideali quanto all' anima intellettiva. Perocchè le stesse parti e gli stessi movimenti sono in un dato modo nella materia (con relazioni di parti e di luoghi), e in un altro modo nell' anima sensitiva (con relazione di sensilità), e in un terzo modo nell' anima intellettiva (con relazione di entità), come abbiamo dichiarato a suo luogo (2). I filosofi precedenti, che riposero l' essenza dell' anima nelle idee, la deificarono, perchè gli antichi non erano giunti a distinguere fra Dio e l' idea. Avendo questa caratteri divini, e avendola confusa coll' anima, ne veniva la spontanea conseguenza che le anime fossero altrettante deità. Perciò questi filosofi appartengono tanto alla terza classe di sistemi erronei intorno alla natura dell' anima, quanto a questa quarta. L' errore originario di un così fatto sistema giace nella confusione fra l' oggetto dell' intelligenza, l' ente intelligibile, coll' intelligenza o mente che lo intuisce. Questo è il soggettivismo, cioè quel sistema che dichiara l' oggetto pensato modificazione del pensiero; è l' errore di Galluppi, l' errore più comune dei nostri tempi, anzi universale, il tristo legato del sensismo. Vero è che i soggettivisti che riducono l' oggetto, l' idea, la verità, ad essere un elemento accidentale o sostanziale dell' anima, non deducono tutti egualmente le conseguenze spaventevoli, che esso racchiude nel suo seno; molti non le vedono per mancanza di penetrazione sufficiente; altri, atterriti dalle conseguenze, si fermano a mezzo la via, o mediante cavillazioni inconseguenti si sforzano di declinarle; ma avendo il protestantesimo tolto a filosofare, egli senz' alcuna tema le dedusse tutte fino all' ultima in Germania; scomparve la religione, rimase il razionalismo. Il soggettivismo dei Platonici alessandrini intorno all' anima intellettiva è a sufficienza delineato in questo brano di Porfirio: [...OMISSIS...] . Prova poi che la mente è il medesimo delle cose percepite, da questo, che ella le considera in sè stessa, a differenza del senso e dell' immaginazione: [...OMISSIS...] Noi non vogliamo osservato in questa dottrina se non la confusione fra la mente e le cose dalla mente concepite. Vogliamo posta attenzione alla ragione, che si adduce, per conchiudere che le cose dalla mente concepite e la mente sono il medesimo. Tutta la ragione di una tesi così opposta al senso comune, cioè che la mente sia le cose percepite, si riduce a questa: « Le cose percepite dal senso sono esterne, dunque non sono il senso; le cose percepite dalla mente sono interne, dunque sono la mente, dunque ella le percepisce considerando sè stessa, e se cessa dal considerare le sue funzioni, niente affatto intende ». Ma chiunque fa uso di una tranquilla osservazione interna per rilevare accuratamente il fatto, trova che questa ragione è affatto insussistente e vana. E di vero: I) Dall' essere l' oggetto della mente interno non ne viene affatto che egli sia la mente. Acciocchè si potesse così conchiudere, converrebbe aver provato che non vi sia nulla d' interno, eccetto la mente; converrebbe aver provato che sia assurdo che una cosa incorporea inesista in un' altra pure incorporea; il che non si prova, nè si può provare. II) La parola interno applicata all' oggetto della mente è male usata, perchè significa una relazione locale di corpo a corpo; là dove l' oggetto della mente non è, propriamente parlando, nè fuori nè dentro di alcun corpo, non occupando alcun luogo nello spazio, e perciò essendo privo al tutto di relazioni locali. III) Se per interno s' intende unito colla mente, in tal caso si accorda che gli oggetti intuiti o percepiti dalla mente sieno, al loro modo, uniti colla mente; ma l' essere uniti colla mente esprime un concetto al tutto diverso da quello di essere confusi e identificati con essa. IV) Di più, se per cosa interna s' intende cosa unita, in tal caso non è vero che il termine del senso sia esterno, perocchè il termine del senso non può essere sentito o percepito, se non è unito col principio senziente; che anzi il termine del senso è così unito al principio senziente, che il senziente, sentendo o percependo, non fa un atto pel quale lo distingua da sè, non sentendo o percependo altro che il proprio termine, e sè stesso nel termine formante un unico sentimento; all' incontro l' oggetto della mente è unito alla mente, in modo che la mente non può intuirlo o percepirlo se non come oggetto, non solo distinto da sè, ma opposto a sè soggetto. L' illusione che fa credere che il senso percepisca gli oggetti da sè distinti o, come dicono i nostri filosofi, esterni, nasce da questo: 1) Che i corpi diversi dal nostro sono esterni al nostro; ora si confondono gli organi sensori, che appartengono al nostro corpo, col principio senziente che è l' anima. E poichè i detti corpi sono esterni ai nostri organi sensori, quelli si dicono esterni al principio senziente, che non è corpo. Dove non si riflette: a ) che prima di sentire i corpi esterni sentiamo col sentimento soggettivo e fondamentale il nostro proprio corpo, termine immediato del senso; b ) che i corpi esterni non li sentiamo se non uniti al nostro, per l' azione che esercitano nel nostro; la quale azione ha sua sede nel nostro proprio corpo e non nei corpi esterni, e però è così immediatamente unita al principio senziente, come è unito il nostro proprio corpo soggettivo. 2) Nasce ancora dai fenomeni della vista, pei quali pare che noi percepiamo col senso i corpi lontani; e dai fenomeni del moto attivo, pel quale ci avviciniamo ai corpi lontani. Ora la teoria di questi fenomeni non era ancor trovata al tempo degli Alessandrini. Ma noi abbiamo spiegato tali fenomeni ricorrendo: a ) allo spazio illimitato, termine immediato del sentimento fondamentale, b ) all' associazione delle sensazioni e ai giudizi, che nell' uomo vi si mescolano (1). V) Che se si considera che non solo il senso, ma ancora la mente percepisce i corpi esterni al nostro, l' argomento che si adduce perde fino l' apparenza di verità: poichè è anzi la mente, e la mente sola che possa pensare le cose lontane, mentre il senso non percepisce che quelle che gli sono presenti, e seco unite col rapporto di sensilità. Che se si tratta di esseri puramente ideali e possibili, o spirituali, questi, come dicevamo, non sono in alcun luogo, e però nè esterni, nè interni, nè lontani, nè vicini. VI) Che se il trovarsi l' oggetto unito, o per dir meglio presente alla mente, non involge nessuna logica necessità che il soggetto, cioè la mente, debba identificarsi coll' oggetto, e che quindi ella sia il proprio oggetto; che cosa si dovrà fare, secondo il buon metodo di filosofare, per verificare se ha luogo questa identificazione sì o no? Nient' altro se non vedere coll' accurata osservazione come il fatto avvenga, e verificato bene il fatto, non volerlo distruggere col raziocinio, secondo il logico assioma che contra factum non datur argumentum . Il fatto dunque da verificarsi è questo: « se la mente quando pensa una montagna, una pianta, un bruto, ecc., reale o possibile, creda ella di pensare sè stessa, e conseguentemente se ella creda di essere quella montagna, quella pianta, quel bruto, ecc., reale o possibile, che pensa ». Non vi è nessuno fuori degli ospizi dei mentecatti, che a questa domanda non risponda negativamente. I soli filosofi sono quelli che, volendo fare da maestri alla mente umana (forse per averne essi un' altra diversa dall' umana), dicono o vengono a dire così: « Non possiamo negare che la mente quando pensa la montagna, la pianta, il bruto reale o possibile, creda di pensare cose diverse da sè, e di tutt' altra natura; ma ella s' inganna, non pensa mai se non sè stessa, non pensa che le proprie modificazioni, le proprie funzioni ». Ebbene, signori filosofi, ascoltatemi un poco: se la mente che crede di pensare la montagna, la pianta, il bruto, ecc., e non sè stessa, pensa tuttavia sè stessa, come voi dite, almeno dovete concedere che non sa di pensare sè stessa, appunto perchè crede di pensare tutt' altro, cose grandemente da sè diverse. - Non può negarsi. - Dunque pensa sè stessa senza saperlo. - Così è. - Il pensiero di sè stessa è dunque un pensiero, che non ha coscienza di sè. - Appunto. - All' incontro ella sa di pensare, ha coscienza di pensare cose al tutto diverse da sè, sia poi che s' inganni o no in questa scienza o coscienza che ha del suo pensiero. - Certo. - Ora, si può sapere, aver coscienza di pensare una cosa senza pensarla? Per esempio, se voi sapete, ossia avete coscienza di pensare il diavolo, è possibile che voi crediate o sappiate, o abbiate coscienza di pensare propriamente il diavolo, senza che abbiate nessuna idea del diavolo? - Davvero no. - Oppure che crediate di affermare il diavolo, e vi persuadiate che il diavolo è un essere reale, senza che facciate veruna affermazione? - No, di nuovo. - Dunque se la mente vostra crede, sa, è conscia di concepire e di pensare il diavolo, pensa veramente il diavolo, e lo pensa come cosa diversa da sè. Che se voi, a malgrado di ciò, volete persuadere a voi stesso che quando pensate veramente il diavolo come cosa da voi diversa, v' ingannate del tutto, ma pensate unicamente voi stesso, deh badate che con ciò non fate altro se non limarvi il cervello per persuadere a voi stesso che voi siete il diavolo, o secondo un' altra delle vostre scuole, che « il diavolo è una modificazione o una funzione dell' anima vostra ». E` dunque più chiaro del sole che il preteso argomento dei soggettivisti, che confonde gli oggetti dell' intelligenza colla stessa intelligenza, è un ridicolo paralogismo, un sofisma temerario, con cui quei filosofi tolgono ad impugnare i fatti più manifesti della natura, a distruggere la coscienza del genere umano, e con un preteso ragionamento della mente a distruggere l' autorità del ragionamento e le testimonianze della coscienza intellettiva, che di ogni ragionamento è la base. Eppure questo errore è il perpetuo labirinto della filosofia; e mi fa uscire di me stesso dallo stupore, pensando che io non conosco scrittore anteriore al 1.27, che, entrato in questo argomento, abbia saputo pienamente spacciarsene e rompere questa tela di ragno. Ora, io qui ho creduto di stendermi a ripetere ciò che ho detto tante volte altrove (1), mosso dal dolore che mi preme, al vedere che il soggettivismo, che nell' accennato sofisma tiene le radici, è ancora universale anche nella nostra Italia; e indi i tanti funesti e mostruosi errori, che deformano e infamano la filosofia; errori oggimai svolti e dedotti logicamente fino alle ultime loro propaggini, come dicevamo. L' ultimo di questi errori, il più maturo frutto del soggettivismo, già l' accennammo, è la deificazione dell' anima, l' antropolatria, il panteismo psicologico. Facciamo in breve la storia di questo obbrobrio, di cui va svergognata la scienza, o piuttosto l' ignoranza orgogliosa e luciferina; e dei gradi pei quali ella discese giù in codesta sede dei demoni, ove ora si giace e si tormenta. L' errore originale e primitivo, onde vennero tutti gli altri, è l' accennato: l' abuso di questi vocaboli interno ed esterno, fuori e dentro, trasportati dai corpi all' anima; e quindi il principio che « l' anima nulla può conoscere fuori di sè stessa ». Vediamo come serpeggiò questo errore ed avvelenò la filosofia, la quale non può essere sanata fino che non si purghi affatto e digerisca il potente veleno, che le strazia mortalmente i visceri. BERKELEY. - Egli aveva detto che la nostra cognizione dei corpi si riduce alle sensazioni, che le sensazioni non sono che modificazioni dell' anima; che dunque i corpi non sono che modificazioni dell' anima stessa: Idealismo estetico . - Gli errori di questo ragionamento sono: 1) Il sensismo, errore che abolisce il pensiero. Infatti se si ammette il pensiero, cioè se si ammette che il corpo si percepisca dall' intelligenza come un ente da noi distinto, qualunque cosa sieno le sensazioni, rimane sempre vero che il concetto di un corpo è tutt' altro dal concetto delle modificazioni dell' anima; e però non si può confondere l' oggetto di quel concetto, che tutto il modo esprime colla parola corpo, col concetto delle modificazioni dell' anima propria. 2) La dottrina del sentimento imperfetta e mozza; poichè il sensismo lokiano, seguito da Berkeley, conosce le sole sensazioni acquisite, con cui si percepiscono i corpi extra7soggettivi, ed ignora il sentimento fondamentale, con cui si percepisce il corpo soggettivo. Di più, in quel sistema non si distingue fra il principio senziente e semplice, e il termine del sentimento esteso; e quindi non si può conoscere la dualità, che è essenziale ad ogni sentimento corporeo. Se si fosse conosciuta questa dualità, e che l' anima non è che il principio senziente, non si sarebbero già definite le sensazioni mere modificazioni dell' anima; anzi si avrebbe riconosciuto che in ogni sentimento corporeo, in ogni sensazione vi è una sostanza diversa dall' anima stessa, che agisce a suo modo nell' anima. Ma non distinguendosi il termine dell' anima dall' anima, si ridusse quello a questa; e si confuse e identificò il termine col principio, dicendo che quello era una mera modificazione di questo. HUME. - Ammesso il sensismo lokiano, cioè ammesso che le idee si riducono alle sensazioni ed ai sentimenti soggettivi, e ammesso che le sensazioni sono mere modificazioni dell' anima, Hume ne dedusse conseguentemente che anche le idee e i principŒ della ragione, che nelle idee si contengono, non sono che modificazioni dell' anima, e quindi che non hanno forza di provare l' esistenza di alcuna cosa fuori dell' anima, nè quella dei corpi, nè quella di Dio, ecc.: Idealismo razionale . - Gli errori generatori di questo sistema sono i medesimi, ma già producono una conseguenza di più; chè di vero Berkeley, fermandosi ai corpi, ed ammettendo l' esistenza di Dio e degli spiriti, era inconseguente. Ora, nell' essere Hume meglio conseguente all' errore, egli dovette impugnare un' altra verità, cioè « la differenza e l' opposizione che passa fra l' oggetto della mente e la mente che lo intuisce »; dovette chiudere gli occhi a questa patentissima verità di fatto, che « quando la mente pensa un oggetto possibile, per esempio una torre possibile a costruirsi, ella non pensa sè stessa, nè pensa una sua modificazione; anzi pensa cosa di natura diversa ed opposta alla natura propria ed alla natura delle proprie modificazioni; e questo oggetto, a cui ella pensa, non è tuttavia un nulla, perchè il nulla non è una torre possibile ». REID. - Atterrito da conseguenze così assurde e funeste, Reid volle tornare al senso comune, riconoscendo pienamente che gli uomini quando pensano i corpi, o le idee ed i principŒ del ragionare, non credono di pensare a sè stessi o alle proprie modificazioni, nè per vero ci pensano. Ma non sapendo come rispondere direttamente al paralogismo che serviva di base a tali errori, cioè che « l' anima non può uscire di sè, e perciò non può pensare che sè stessa, e quanto accade in sè stessa », invece di sciogliere il nodo, lo tagliò, dicendo che « « l' anima veramente percepisce e pensa cose da sè diverse, ma lo fa mediante certe leggi primitive e istintive della propria natura » »: Soggettivismo realistico . - Questa dottrina ammetteva il fatto, attestato dal senso comune, che l' anima pensa cose diverse da sè; ma non soddisfaceva, perchè non rispondeva al sofisma fondamentale opposto, anzi lo confermava. E nel vero: 1) Le leggi soggettive e istintive, che introduceva, erano introdotte ad arbitrio, non avevano alcuna prova. 2) Quelle leggi e quegli istinti, che si voleva movessero la natura umana a pensare cose esterne, essendo diversi dalla ragione, erano ciechi, e non potevano porgere la dimostrazione della propria veracità ed autorità di testimoniare cose diverse dall' anima; indi la loro testimonianza poteva essere illusoria; anzi doveva esser tale, dal momento che l' uomo si sottraeva alla guida della ragione per affidarsi ad un' altra guida, che si dichiarava non essere la ragione. 3) Finalmente, se l' uomo pensava le cose diverse da sè per leggi istintive della propria natura, queste stesse cose dovevano essere considerate come produzioni della natura umana; gli oggetti dunque del pensiero venivano dall' uomo, nè l' uomo poteva più assicurarsi che gli fossero dati altronde da percepire. KANT. - Queste osservazioni non isfuggite a Kant, gli fecero concepire il suo sistema. Egli ammise le leggi e gli istinti soggettivi di Reid, e ritenne la dottrina di Berkeley e di Hume, prendendo quelle leggi a spiegazione di questa. Disse non potersi negare che l' anima non possa uscire di sè, dunque conoscere tutto in sè stessa; ma non potersi neppur negare che il senso comune ammetta che l' uomo conosca cose diverse da sè; dunque tale credenza dover essere un necessario effetto delle leggi soggettive indicate da Reid, senza che queste avessero alcuna efficacia a provare la verace esistenza di cose diverse dall' anima. Credette dunque che altro non rimanesse a fare alla filosofia, per condursi alla perfezione sulla via in cui erasi incamminata, se non di determinare quali sieno queste leggi soggettive, desumendole dall' accurata enumerazione ed analisi degli oggetti, che per esse l' uomo ammetteva. Così nacque la dottrina delle forme kantiane, degli schemi e delle antinomie: Criticismo (idealismo razionale ridotto in sistema ). - Gli errori, che partorirono il criticismo, sono i precedenti, non saputi dal filosofo confutare, bensì saputi con ingegno non comune sistematizzare. I quali errori ingrandiscono nelle sue mani appunto perchè ridotti in un corpo, di cui tutti gli organi sono divisati. Kant solamente aggiunse che il non potersi coll' umana intelligenza dimostrare l' esistenza di alcun ente diverso da essa, non toglie che non ve ne possano essere; non se ne poteva dimostrare l' esistenza, nè negare. REINHOLD. - Come Reid aveva tentato in Inghilterra di rimuovere dalla filosofia le funeste conseguenze dei sistemi di Berkeley e di Hume, senza poter disciogliere il sofisma che loro serviva di fondamento, così Reinhold tolse a fare in Germania rispetto alle orribili conseguenze del criticismo. Egli dunque incominciò, al pari dello Scozzese, ad accordare imprudentemente a Kant le fatali sue premesse. Poi ragionò press' a poco così: « Il subbietto rappresenta a sè stesso gli oggetti. Ora data questa innegabile facoltà della rappresentazione, vediamo coll' analisi ciò che essa racchiude. La facoltà rappresentativa suppone tre concetti: 1) il soggetto rappresentante; 2) l' oggetto rappresentato; 3) la stessa rappresentazione. Tutto ciò mi attesta la coscienza di me stesso. Se dunque esiste la rappresentazione, il che non si nega, deve esistere anche l' oggetto rappresentato ed il soggetto rappresentante come sue condizioni »: Sistema della rappresentazione . - Ma era facile rispondere, ammesso e non impugnato l' errore primitivo e originale, che tutte queste distinzioni erano fenomeniche, prodotte dalle leggi a cui ubbidisce il soggetto nel suo operare. Il che Reinhold medesimo poscia riconobbe; riconobbe che il suo ragionamento, acciocchè avesse forza, presupponeva la verità di quell' oggetto che si trattava di dimostrare. Laonde disperato della ragione, la abbandonò, sperando di trovare una guida migliore nella fede di Jacobi, che somiglia a quella degli Scozzesi. Gli errori generatori del sistema di Reinhold sono dunque i precedenti, a cui s' aggiunse uno suo proprio; non perchè non lo professassero anche quelli che lo precedettero, ma perchè sopra di esso Reinhold fondò il suo sistema. Questo errore si è il credere che l' intelligenza percepisca gli oggetti unicamente per via di rappresentazione, intesa per un ritratto di essi. Se ciò fosse, non si potrebbe declinare il soggettivismo e lo scetticismo, perocchè niuna rappresentazione può da sè stessa far conoscere gli oggetti, se non si sa che ella li rappresenta, e che ella li rappresenta fedelmente. Ora, questo non si può sapere, se non confrontando la rappresentazione cogli oggetti rappresentati; al che fare conviene conoscerli, mentre si tratta di spiegare appunto come si conoscono; ovvero venendone assicurati da qualche testimonianza infallibile, e quindi supponendo l' esistenza di un infallibile testimonio diverso dall' anima, quando si tratta pure di cercare come si possa conoscere qualche cosa, che sia veramente diverso dall' anima. Il vero si è che gli oggetti sono presenti immediatamente all' intelligenza, sieno essi ideali o reali (sentiti), perocchè l' ente è il proprio ed immediato termine dell' anima intellettiva (1). FICHTE. - Riuscito male il tentativo di Reinhold, come era riuscito male il tentativo di Reid, il soggettivismo senza intoppi seguì il fatale suo corso. Fichte, ammettendo come i precedenti, per argomento efficacissimo il sofisma originale e primitivo, che l' anima non possa conoscere che sè stessa, scartò la possibilità lasciata sussistere da Kant di enti distinti dall' anima, che era veramente un' inconseguenza; giacchè se tutte le cose concepite dall' uomo sono un risultato delle forme soggettive, nessun' altra ne può rimanere, perchè l' intelligenza umana s' estende in qualche modo a tutto, al finito non meno che all' infinito. Compose adunque un sistema del più coerente soggettivismo. Riassumiamo ciò che s' era fatto sino a lui. Si era incominciato a cercare come l' uomo conosce le cose diverse da sè. La filosofia aveva ereditato dai maggiori uno speciosissimo pregiudizio, che l' uomo le conosce per via di rappresentazione. Gli idealisti inglesi avevano dimostrato che ciò era impossibile, e però conchiusero che l' uomo nulla conosce di diverso da sè; dal nulla conoscere passarono, per logica conseguenza, a negare l' esistenza di tali cose. Gli Scozzesi avevano detto che questo è un paradosso impossibile a sostenersi, perchè va direttamente contro all' autorità di tutto il genere umano. Kant diede ragione agli Scozzesi con un cotale scherno [schema] suo proprio, dicendo che non si potevano negare gli enti diversi dall' anima, ma d' altra parte essi non potevano essere che produzioni dell' anima. Gli istinti conoscitivi degli Scozzesi Kant li tramutò in istinti produttivi; nè Reinhold aveva saputo opporre che sforzi di buona volontà alla critica della ragione pura. Kant s' era occupato a distinguere, classificare e descrivere accuratamente tutti gli istinti, o leggi soggettive, o forme, come egli le chiama, dello spirito; colle quali lo spirito compone a sè stesso le proprie cognizioni, i propri oggetti. Non restava che a distinguere, classificare e descrivere gli oggetti stessi sommari, che lo spirito colla portentosa attività che gli si attribuì (del tutto per altro gratuitamente) produceva a sè stesso; e l' opera fu assunta a farsi da Fichte. Kant descrisse e anatomizzò la potenza, che ha lo spirito di produrre a sè stesso gli oggetti; Fichte considerò l' atto di questa potenza, e gli oggetti stessi già prodotti da esso. L' Io, che Kant aveva posto come il vincolo di tutte le rappresentazioni, e che Reinhold aveva fatto sinonimo di coscienza, divenne per Fichte l' atto primo di tutto lo scibile e di tutte le cose. Questo era un passo immenso che dava il soggettivismo verso il suo ultimo sviluppo; con un tal passo si rivelava già la faccia dell' abisso, in cui un tale sistema conduceva necessariamente i suoi seguaci. Perocchè se l' Io è l' atto primo di tutto lo scibile e di tutte le cose, egli è il Creatore, è Dio. Eppure questo passo, a cui il soggettivismo fu spinto dalla logica imperterrita di Fichte, non si poteva evitare dopo i precedenti. Vediamo come questo filosofo dell' alta Lusazia movesse il suo nuovo creatore alla grande opera della produzione dello scibile e dell' universo. Egli cominciò dal dire che l' Io pone sè stesso ; questo è il primo atto. Se questa proposizione l' Io pone sè stesso fosse usata a significare unicamente il primo atto immanente dell' Io, non si potrebbe riprendere; perocchè ogni cosa in quanto fa l' atto con cui è, pone in qualche modo sè stessa, potendosi considerare il passaggio dal non essere all' essere come una cotal via, per la quale viene a naturarsi la cosa: via che è percorsa senza successione di tempo con atto unico, ma tale in cui si possono colla mente discernere più gradi ab imperfecto ad perfectum, siccome solevano concepire il moto all' esistenza gli Scolastici stessi. Ma non così spiega Fichte il suo detto, ma vuole che l' Io ponga sè stesso pronunciando questa proposizione: « Io sono Io ». La qual maniera di spiegare come l' Io ponga sè stesso, è manifestamente assurda: 1) Perocchè quando il principio intelligente ha pronunciato il solo monosillabo Io, indubitatamente esiste, senza bisogno che egli aggiunga: sono Io . Onde con quella proposizione l' Io porrebbe un Io che già è posto; ella dunque esprime l' atto, con cui l' Io riflette sopra sè stesso, e non l' atto con cui l' Io esiste. Da questo primo errore procede che in tali sistemi la coscienza, opera della riflessione, accompagna sempre l' Io: il che è evidentemente falso, perocchè l' Io non ha sempre attuale coscienza di sè stesso. 2) Ho detto che il principio intelligente, quando ha pronunciato questo monosillabo Io, senza più, non può non esistere. Ma non basta. Potrebbe l' Io pronunciare sè stesso, cioè fare un atto, se non esistesse già precedentemente? Niuno fa atti prima di esistere. Dunque il pronunciare Io suppone l' esistenza anteriore dell' Io. L' Io dunque non pone sè stesso nel senso di Fichte. La ragione, per la quale questo filosofo ruppe in tali assurdi colla prima parola della sua filosofia, si fu che egli prese l' Io bello e formato, qual' è nel sentimento d' un uomo adulto, non ne analizzò il concetto, e non s' accorse che questo concetto era un elaborato della riflessione, e che non conteneva solamente l' anima umana, ma l' anima già svolta e pervenuta alla coscienza di sè; quando anteriormente a quest' anima, conscia di sè, vi è pure la stessa anima, che per essenza sua è principio ed individuo razionale, come noi abbiamo mostrato nella « Psicologia ». Ed è costante, che una delle cose più difficili a cogliere, per coloro che prendono a filosofare, è quello stato dell' uomo che precede la coscienza; eppure in questo stato è da cercarsi la natura umana, giacchè la coscienza non è naturale all' uomo, ma acquisita. Intanto coll' atto col quale l' Io pronuncia Io sono Io, secondo Fichte, l' Io ha posto il primo dei suoi oggetti, cioè sè stesso . Il vero però si è che l' Io con questo atto non ha posto sè stesso, ma solo si è conosciuto riflessamente, e che perciò la propria esistenza non dipende dall' atto con cui l' anima si conosce, perchè anzi questa cognizione suppone dinanzi a sè l' anima, oggetto della cognizione. Vediamo come Fichte fa che l' Io produca il secondo dei suoi oggetti sommari. L' Io fa un altro atto, con cui dice: Io non sono il Non7Io . Ottimamente: distingue sè stesso da tutto ciò che non è lui. Ma questo atto non è ancora che un atto di conoscimento, non produce cosa alcuna, anzi è un atto che distingue due cose, l' Io e il Non7Io; le quali non potrebbe distinguere, se già non fossero. La cognizione suppone dinanzi a sè l' esistenza (possibile o reale) della cosa conosciuta. Eppure questa evidentissima verità è quella che sfugge al filosofo pregiudicato; e suppone di nuovo gratuitamente che il conoscere e il distinguere sia il produrre. Il secondo oggetto adunque prodotto dall' Io, nella supposizione di questo filosofo, è tutto ciò che non è l' Io, e che sotto la parola negativa Non7Io acconciamente si comprende. Veniamo alla produzione del terzo oggetto. L' Io fa un terzo atto pronunciando: l' Io e il Non7Io sono nell' Io . Se fosse vero che l' Io non è altro che la produzione dell' atto con cui si conosce l' Io, e se fosse vero che il Non7Io non è del pari altro che la produzione dell' atto con cui si conosce il Non7Io, in tal caso sarebbe vero che l' Io e il Non7Io, ridotti ad essere due atti conoscitivi, sono nell' Io. Ma se è vero che niuno può conoscere e pronunciare sè stesso esistente, se prima non esiste indipendentemente da tale atto; e se è vero del pari che il Non7Io non si può conoscere o pronunciare esistente, se allo stesso modo prima non esiste; è altresì evidentemente vero che l' Io e il Non7Io non sono nell' Io. Ma nell' Io solamente sono gli atti con cui tali enti si percepiscono, i quali atti sono accidenti dell' Io; e in un altro modo sono nell' Io anche i concetti di quegli enti, non come accidenti dell' Io, ma da lui distinti per natura, come suoi oggetti. Ricorre adunque in Fichte una continua confusione fra la cognizione e l' esistenza delle cose, sempre l' antico errore di Parmenide: «to gar auto noein esti te kai einai». - Ci si dirà: « Per voi non esiste se non ciò che conoscete ». - Sia pure: ma se io conosco una cosa, io so in pari tempo che la cosa esiste indipendentemente dall' atto con cui la conosco; perocchè il concetto di conoscere involge necessariamente il concetto di una entità conoscibile, logicamente anteriore a quell' atto. Onde io non posso conoscere una cosa, se non a condizione che conosca altresì ch' ella è indipendente dal mio conoscere; altrimenti io direi una proposizione contradittoria, dicendo che conosco una cosa che non esiste se non in virtù dell' atto col quale la conosco, e però posteriormente a quest' atto (nell' ordine logico). O conviene negare il principio di contraddizione e d' identità, su cui si fonda lo stesso sistema di Fichte, o confessare che al conoscere dell' uomo precede logicamente l' esistenza della cosa conoscibile, e che perciò il conoscere umano e l' esistere non si identificano, anzi si distinguono per modo che senza tale distinzione il conoscere non è più possibile. Ma acciocchè si veda meglio quanti paralogismi involga questo sistema, riprendiamo ciò che io ho fin di troppo conceduto. Ho conceduto che se l' Io e il Non7Io altro non sono che atti di conoscere e concetti conosciuti, questi si possono trovare insieme nell' Io, come pretende Fichte. Ma io ho conceduto questo ad abundandum . A giusta ragione non dovevo concederlo. Avverto adunque che il filosofo nostro in quella sua proposizione muta il significato del vocabolo Io, perocchè dicendo che l' Io e il Non7Io sono nell' Io, egli prende l' Io e il Non7Io contenuti come due concetti formati dall' atto del conoscere; ma egli prende all' opposto l' Io contenente non già come concetto prodotto, ma nel senso volgare, come un ente reale, una intelligenza, in cui sono i concetti. Senza di ciò la proposizione non ha senso alcuno; perocchè se anche per l' Io contenente s' intende il mero concetto dell' Io, è assurdo che nel concetto dell' Io sia il concetto dell' Io, perchè non sono due cose, ma una medesima; ed è ancora più assurdo che nel concetto dell' Io sia il concetto del Non7Io, perocchè l' un concetto esclude l' altro per la stessa loro enunciazione. Onde il filosofo mescola e confonde l' Io, da lui prodotto per via di speculazione, coll' Io reale, nel quale solo dimora la cognizione di sè stesso. Ma l' ammettere un Io reale, anteriore all' Io concetto e riflesso, è la distruzione del sistema che si vuole stabilire, il quale si propone di ridurre ogni cosa ad idee o concetti. Mediante tale confusione adunque di significati attribuiti al vocabolo Io, conchiude che l' Io fa un' equazione col Non7Io, in quanto che si trovano nel medesimo Io, di cui sono egualmente produzioni, e però si radicano e immergono nello stesso atto primitivo dell' Io. Così gli oggetti supremi dello scibile e dell' universo sono tre: l' Io che pone sè stesso, l' Io che pone il Non7Io, l' Io che fa un' equazione tra l' Io e il Non7Io. Ma: In questi tre oggetti il valore della parola Io cangia sempre, come dicevamo, perocchè l' Io producente non può essere l' Io prodotto, giacchè producente e prodotto sono concetti opposti; l' Io, nel quale l' Io e il Non7Io fanno equazione, non può essere lo stesso Io che costituisce un termine dell' equazione, perocchè ciò che contiene i due termini non può essere uno dei due termini. Se l' Io produce il Non7Io, dunque produce ciò che non è Io, produce un' entità diversa da sè; egli dunque od esce colla sua attività da sè stesso, ovvero, senza uscire da sè stesso, produce un' entità che non è lui stesso. Il che è ben evidente, poichè l' Io e il Non7Io sono opposti; e non possono dichiararsi la cosa identica senza pugnare col principio di contraddizione, giacchè il sì e il no non si potrà mai dire che significhino lo stesso. Che se l' Io produce un' entità diversa da sè, dunque il celebre sofisma, su cui si regge tutto l' idealismo trascendentale, se ne è ito a terra, rimanendo conceduto che l' Io può uscire da sè stesso cogli atti suoi, può creare qualche cosa di diverso da sè e di opposto a sè, qualunque cosa poi ella sia (1). Vera equazione fra l' Io e il Non7Io non si potrà far mai, se non si mutano i significati di tali espressioni, perchè i contrari, dei quali l' uno esclude l' altro, non possono fare mai equazione fra loro, presi nello stesso senso. Potrà esservi paragone, non equazione. Quindi Fichte abusa della parola equazione. Se si vuol vedere questo abuso, si consideri che egli spiega la sua pretesa equazione, dicendo che l' Io contrappone all' Io divisibile un Non7Io, pure divisibile. Ma il contrapporre una cosa all' altra non è fare un' equazione, anzi è negare l' equazione. Egli soggiunge che quell' equazione contiene queste due proposizioni: 1) L' Io pone il Non7Io come limitato dall' Io; 2) L' Io pone sè stesso come limitato dal Non7Io . Ma in queste proposizioni niuna cosa fa equazione coll' altra, perocchè il limitare che l' una fa l' altra non è fare equazione coll' altra. Si abusa dunque di questa parola equazione. Oltre di che, l' Io limitante non è preso nello stesso senso dell' Io limitato, l' Io divisibile non è preso nello stesso senso dell' Io indiviso. Si gioca adunque colle diverse riflessioni, che il principio intelligente fa sopra sè stesso e sopra le cose diverse da sè, e invece di considerare ogni riflessione come un diverso atto del medesimo, si vuole che ognuna di essa produca un Io diverso, che coll' Io precedente abbia i rapporti di limitante, di limitato, di contenente, di contenuto, di producente, di prodotto, con misero gioco d' ingegno degno dei sofisti greci; ma inevitabile, quando non si conosca che l' ente intelligente precede la coscienza che si forma di sè, e quando si muova dall' errore che l' ente intelligente risulti dall' atto stesso con cui egli acquista coscienza di sè; la quale coscienza potendosi replicare secondo i numeri delle riflessioni, accade che gli Io stessi si vadano così replicando, e si possano così prendere ora pel medesimo Io, ed ora per diversi Io, secondo il bisogno dell' impresa che si tolse di paralogizzare. Tutto questo sistema poi manca di ragione sufficiente. Niente si può rispondere con esso a queste interrogazioni: Qual ragione vi è perchè l' Io ponga sè stesso, anzichè non si ponga? Che cosa lo muove a porsi? E a porsi in un tempo piuttosto che in un altro? Giacchè la coscienza di ogni uomo ha pur cominciato in un dato tempo. Qual ragione vi è perchè il numero degli Io che si pongono sia piuttosto uno che l' altro? Giacchè il numero degli Io è pur finito, e potrebbe essere accresciuto, e viene accresciuto ogni giorno col nascere di nuovi uomini. Ovvero dovete sostenere che non esiste che il vostro Io (il che sarebbe coerente all' escludere tutto ciò che è fuori di lui), nel qual caso voi comporreste la filosofia per voi solo. Qual ragione muove l' Io a porre il Non7Io piuttosto che a non lo porre? La parola Non7Io esprime il mondo e le cose tutte diverse dall' Io in un modo negativo, come osservammo, cioè dichiarando che esse non sono Io, ma non dicendo che cosa sono. Ora non ogni Io pone (per continuare colla stessa frase) un Non7Io eguale; imperocchè certi uomini conoscono del mondo e delle cose da sè diverse più, ed altri meno; e quindi l' Io dei primi pone non Non7Io diverso (più o meno abbondante) che non fa l' Io dei secondi. Qual ragione sufficiente assegnate voi perchè un Io debba porre un Non7Io determinato in un modo piuttosto che in un altro? Qual ragione vi è perchè l' Io voglia limitare sè stesso producendo il Non7Io? Qual ragione assegnate voi perchè l' Io voglia dividere sè stesso in due, nell' Io e nel Non7Io, come voi dite? Nel sistema di Fichte non si rende, e non si può rendere alcuna ragione sufficiente di tutti gli atti che si fanno fare all' Io. E dove ci fosse una tale ragione, che determina l' Io a tutti gli atti che gli si fanno fare, ella dovrebbe essere diversa dall' Io, e superiore all' Io, al quale verrebbe imposta; e così ella annullerebbe il sistema, perocchè tutto il sistema consiste nell' abolire ogni cosa fuori dell' Io. E` dunque, questo di Fichte, un sistema senza ragione, sistema del caso cieco; lungi dunque di spiegare la scienza, anzi si pone che il mondo esista ed operi senza causa; l' intelligenza così è soppressa, non rimane che il più capriccioso, il più assurdo fatalismo. E` conseguente, che tutti i primi principŒ del ragionamento rimangano in questo sistema violati e distrutti. Se si trattasse solamente di distruggerli, altro non se n' avrebbe che la distruzione e l' impossibilità del sapere. Ma in quella vece s' invocano i principŒ del ragionamento, acciocchè aiutino a comporre un sistema che affatto li viola, li abolisce. Infatti: Il principio di cognizione dice: « l' ente è oggetto del conoscere »; e questo sistema dice: « il conoscere produce l' ente », che è un principio affatto opposto; oltre di che suppone che il conoscere preceda l' esistere. Il principio di contraddizione dice: « fra l' affermare e il negare non si dà eguaglianza », e questo sistema dice: « l' Io che è affermazione, e il Non7Io che è negazione, fanno fra di loro un' equazione ». Ma le contraddizioni in tal sistema sono più che le parole. Mi restringerò ad accennarne una nuova. « L' Io pone il Non7Io ». Ora che cosa è il Non7Io? Tutto ciò che non è l' Io: il mondo e Dio. Ma nel mondo vi sono degli altri Io (1). Ora questi Io pongono sè stessi. Ma poichè rispetto all' altro Io, sono Non7Io, dunque sono posti due volte. Anzi ogni Io è posto tante volte quanti sono gli Io esistenti, perocchè ciascun Io pone sè stesso e pone tutti gli altri, compresi nel Non7Io. Ora, o colle parole « porre l' Io e porre il Non7Io »si vuole intendere meramente conoscere, e in tal caso il sistema si discioglie e svanisce, perchè suppone avanti del conoscere stesso l' oggetto; o si vuol dire fare esistere , e in tal caso gli Io si moltiplicano all' infinito, perocchè ogni Io, ponendo tutti gli Io che esistono, li produce; onde il numero degli Io si moltiplica per sè stesso; e questo numero di Io, elevato alla seconda potenza, di nuovo si moltiplica per la ragione stessa; onde l' aumento degli Io in questo sistema verrebbe espresso da una serie infinita, che, fatto il numero primitivo degli Io .uguale . .x ., si potrebbe esprimere così: .x ., .x . 2, .x . 4, .x . ., .x . 16, ecc., all' infinito; nella qual serie, non trovandosi mai l' ultimo termine, il numero degli Io esistenti non sarebbe assegnabile, anzi non potrebbe venire giammai all' esistenza neppure un solo Io, giacchè il primo implica tutta la serie. La quale è patentissima matematica dimostrazione, che nel sistema di Fichte diviene impossibile ed assurda ogni qualunque esistenza e conoscenza. Il filosofo nostro dirà forse che non esiste se non il solo suo Io, e che egli scrisse la sua filosofia per sè solo, come un ragno che fa la sua tela dove non sono mosche; ma primieramente in questo caso egli sarebbe condannato a porre un Non7Io del tutto inanimato, un Universo abitato da lui solo, e quindi a vivere eternamente fra esseri bruti; e tuttavia gli resterebbe a render ragione a sè stesso del perchè il suo Io non potrebbe porre alcun altro Io, compreso nel Non7Io, giacchè gliene potrebbe pure venire qualche vaghezza per uscire una volta dalla sua sterile solitudine, e rendersi prolifico di qualche suo simile! E quanta ragione poi non avrebbe di conservare sè stesso acciocchè non perisca con esso tutto il mondo! In secondo luogo poi, essendo indubitato che il suo Io pone nel Non7Io molti altri Io diversi da sè, converrebbe che il suo porre non significasse più produrre un ente reale, ma produrre delle illusioni, e in tal caso lui stesso sarebbe un' illusione perchè posto da sè stesso. Ma se tutto fosse illusione, non vi sarebbe più illusione, chè la parola illusione ha un significato relativo alla realità ; e ad ogni modo sarebbero sempre tanto veri gli Io, che egli pone nel Non7Io, quanto è vero lui medesimo che si pone allo stesso modo. Il principio di sostanza è tolto via, giacchè facendosi in questo sistema che il conoscere riflesso, che è un accidente dell' intelletto umano, sia lo stesso che l' essere, è tolta affatto la distinzione della sostanza e dell' accidente; si fa che l' accidente sussista per sè stesso. Il principio di causa è del pari abolito, perchè non si dà causa, la quale possa operare senza una ragione sufficiente; e noi vedemmo che l' Io opera in questo sistema senza una ragione che ne lo determini, e che spieghi il suo atto. Il principio del fare dell' ente dice così: « Ogni ente cogli atti suoi naturali tende a conservarsi, ingrandirsi, perfezionarsi ». Quindi per l' opposto: « Nessun ente limita sè stesso, nessun ente divide sè stesso, ecc. »; ma di queste passioni dell' ente si deve rinvenire una causa straniera alla sua naturale attività. Ora l' Io di Fichte, l' unico ente che esista, limita e divide sè stesso, contrappone a sè un ostacolo, che poi cerca di vincere e superare. E` violato dunque il principio ontologico del fare dell' ente; e tutto ciò senza darne ragione alcuna, per via di mero asserto dogmatico del filosofo nostro. Ma tolti via tutti i principŒ logici ed ontologici del ragionamento, niuno ha più diritto di ragionare, deve tacere; niuno ha diritto di pensare, deve vegetare; perchè nè parlare, nè pensar può, senza riabilitare prima i principŒ stessi, che disabilitò e distrusse. Il nostro filosofo adunque dice ancora troppo, dice di più che non abbia diritto di dire, allorquando esprime il risultamento del suo sistema con queste parole che lo annientano: « Non v' è nulla di esistente nè in me, nè fuori di me, ma solamente una variazione continua. Non v' è alcun essere. L' unica cosa che esiste sono le immagini; io stesso sono una di queste immagini, anzi io non sono questo, ma solamente un' immagine confusa d' immagini. Ogni realità si converte in un sogno meraviglioso, ed il pensiero è il sogno di quel sogno ». Fichte non ha diritto di dire pur questo, senza cadere in una nuova contraddizione. Il sistema del soggettivismo, così sviluppato, comparve prima che in ogni altro luogo in Oriente; e i filosofi indiani, che lo professarono, pervennero alla stessa conclusione di Fichte. V' è una setta di Buddhisti, che altro non ammette che il sentimento interno, l' esistenza eterna di lui, del manas intelligente, il quale ha la coscienza delle cose; e sostengono che tutto il resto è vuoto, cioè nulla, nè v' è possibilità di provare colla ragione che esista. Non ammettono che l' Io, onde fanno uscire il Non7Io come una mera illusione. « Non v' è cosa che esista realmente », dice un Buddhista. I Fo (cioè i sapienti pervenuti a ridurre tutte le cose ad essere altrettante produzioni vane dell' intelletto) « « non distinguono i mondi dal loro proprio intendimento. Tutto ciò che è nei mondi è lo stesso intendimento di Fo, cioè non vi è altra cosa che Fo (la natura intellettiva) »(1) ». [...OMISSIS...] . Infine tutte le cose si dichiarano sogni di Fo, cioè dell' intelligenza. SCHELLING. - Come i precedenti, Schelling ritenne l' errore che confonde le idee, e generalmente gli oggetti dello spirito, collo spirito. E poichè gli oggetti dello spirito sono infiniti (poichè da parte del suo oggetto lo spirito non è limitato), si occupò ad unificare questi oggetti, riducendoli ad un solo infinito. Confuso con questo infinito lo spirito che lo conosce, riuscì al sistema dell' identità assoluta, rimanendo lo spirito identificato coll' oggetto suo infinito, che tutti gli oggetti determinati comprende. Schelling adunque fu colpito da ciò che aveva detto Fichte, che « l' Io e il Non7Io formavano un' equazione »; e il sistema dell' identità assoluta si può dire infatti che non sia altro che uno sviluppo e un perfezionamento di questa proposizione del suo predecessore. Ma si consideri il filo di tutto il ragionamento, e ne apparirà l' inevitabile incoerenza. La ragione, per la quale si confuse lo spirito conoscente cogli oggetti conosciuti, si fu quel pregiudizio, di cui abbiamo parlato, che « lo spirito nulla può conoscere fuori di sè stesso »; del qual pregiudizio la filosofia tedesca dopo che le entrò nei visceri, peggiore d' ogni tenia, non potè mai liberarsi. Ora Fichte, lungi d' esser coerente a questo erroneo principio, che aveva preso per fondamento di tutto il suo ragionare, se ne dipartì senza accorgersene, perchè è cosa impossibile rimanere a lungo coerente ad un primo errore. Ecco come nacque l' incoerenza di Fichte. Fichte aveva confuso lo spirito coll' Io; e posciachè l' Io è uno spirito che ha coscienza di sè e si pronuncia, perciò aveva confuso lo spirito colla coscienza; nella coscienza stessa di sè aveva riposto la natura dello spirito, e quindi trovata quell' assurda e contradittoria sentenza, che « l' Io pone sè stesso ». Ma poichè lo spirito, oltre conoscere sè stesso, conosce anche tante altre cose, affine di spiegare questo fatto, Fichte aveva aggiunto che « l' Io pone anche il Non7Io ». Atteso poi che l' Io nulla può conoscere fuori di sè stesso, Fichte conchiuse che « fra l' Io e il Non7Io vi è equazione », riducendo così questo a quello. Ma era una conclusione assurda ed evidentemente contradittoria; perocchè il Non7Io è la negazione dell' Io; e però il Non7Io, qualunque cosa sia, non sarà mai lo stesso Io. Ma non sarà neppure una modificazione dell' Io, perocchè l' Io, essendo la coscienza di sè, non potrebbe non essere conscio della propria modificazione, se tale fosse il Non7Io. All' incontro l' Io è conscio che il Non7Io è una negazione di sè, qualche cosa che gli si oppone, e opponendoglisi, lo limita; lo limita in questo senso appunto che gli fa conoscere di non essere tutto, ma che oltre a sè, vi è qualche cosa che non è sè . Qualunque cosa sia dunque il Non7Io, e da qualunque parte tragga la sua esistenza, certo è che egli non è l' Io, nè una modificazione dell' Io, e però che non è eguale all' Io. Essendo dunque assurdo il fare una equazione fra l' Io e il Non7Io, avrebbe Fichte dovuto accorgersi dell' erroneità del principio, che « l' Io nulla possa conoscere fuori di sè stesso »; perocchè ogni principio, che conduce all' assurdo, è erroneo. Nè meglio può Fichte evitare l' assurdo, dicendo che il Non7Io altro non è che un' apparenza, ma che in verità è lo stesso Io. Perocchè in prima ciò si dovrebbe provare con qualche solido argomento, e non asserire nudamente. Di poi, diamo che sia un' apparenza; quest' apparenza rimane sempre che non sia l' Io, nè si possa come tale ridurre all' Io. In terzo luogo, se si distingue l' apparenza dalla sostanza, in tal caso si domanda se l' Io stesso è apparenza o sostanza. L' Io è la coscienza, ed è pure la coscienza quella che attesta che il Non7Io non è l' Io. La stessa testimonianza è quella che fa conoscere l' Io, e che fa conoscere il Non7Io; se ciò che attesta la coscienza è un' apparenza, anche l' Io è un' apparenza non meno che il Non7Io, ed è quello che in ultimo confessa lo stesso Fichte. Nè poteva altro, giacchè lo stesso Io è quello che pone sè stesso, e che pone il Non7Io. Se trattasi dunque di due apparenze, non v' è più luogo a distinguere nel Non7Io la sostanza dall' apparenza; e però nemmanco ad affermare che il Non7Io rispetto alla sostanza fa un' equazione coll' Io, e rispetto all' apparenza si divide dall' Io. Dunque o sono due sostanze, o due apparenze. E nell' uno e nell' altro caso il Non7Io è opposto, e non mai identificabile collo stesso Io. Ebbene, il Non7Io ha egli coscienza di sè? Non può essere, poichè egli è opposto all' Io, e l' Io è la coscienza. Il dire dunque Non7Io è lo stesso che dire Non7Coscienza. Dunque va a terra il principio di Fichte che lo spirito, essenzialmente coscienza, cioè Io, sia lo stesso Non7Io; dunque vi è qualche cosa che non è la coscienza. Ma il fondamento del sistema stava tutto nel ridurre ogni cosa alla coscienza; dunque il fondamento del sistema va a distruggersi nello svolgimento del sistema medesimo. Schelling, senz' accorgersi punto nè poco che l' introdurre qualche cosa che non fosse la coscienza distruggeva il fondamento d' una tale filosofia, ammise l' Io e il Non7Io, cioè la Coscienza e la Non7Coscienza; e pretese di trovare un movimento, che cangiasse la Non7Coscienza in Coscienza, e la Coscienza in Non7Coscienza. A questo fine egli doveva immaginare (perchè trattasi d' immaginare) un terzo principio, il quale divenisse ora consapevole, ora inconsapevole. Ma questo assunto, gratuito come i precedenti, era un uscire affatto dai primi ragionamenti, coi quali s' era pervenuto a stabilire l' Io e il Non7Io di Fichte, e però si abbracciava un sistema, cominciando dall' annichilirlo del tutto. Schelling, adunque, riceve da Fichte la proposizione che l' Io produca il Non7Io, cioè che il Consapevole (lo Spirito) produca l' Inconsapevole (la Natura); e con ciò viene ad accettare per buoni i principŒ sui quali Fichte basava questa conclusione. Ma di poi aggiunge la proposizione che « il Non7Io produce l' Io », perchè il Non7Io (la Natura) vuole conseguire la coscienza di sè; e con questa aggiunta distrugge e rinnega tutti i principŒ, coi quali fu stabilita la prima proposizione. La ripugnanza dunque e l' intima contraddizione non può essere più manifesta. La dottrina, che svolge la prima proposizione, fu nominata da Schelling Idealismo trascendentale ; la dottrina, che svolge la seconda proposizione, fu nominata Filosofia della Natura . La prima muove dal principio che l' Io nulla conosce fuori di sè; di che ne viene che tutto ciò che si conosce si debba ridurre all' Io; la seconda muove dal principio opposto e contradittorio al primo, cioè che si conosce e vi è qualche cosa che non è l' Io, ma che tende incessantemente a diventare Io, e perciò che è falso il principio posto da prima. La scissura e la lotta fra queste due parti del sistema del filosofo leonbergese non può essere più mortale. Schelling dunque riconosce che la coscienza non è essenziale all' ente, e che questo può averla e non averla; e in ciò poniamo che abbia ragione. Ma in tal caso manca il fondamento del ragionamento, col quale si faceva che l' Io, dopo aver posto sè stesso, ponesse anche un Non7Io eguale a lui; e quindi è sovvertita la base dell' identità assoluta . Se non è assurdo che fuori della coscienza esista qualche cosa, come mai si potrà identificare questo qualche cosa, estraneo alla coscienza, colla coscienza? Non potendosi più ricorrere alla speciosa ragione, che « tutto deve contenersi nella coscienza », e volendosi pure fare una identità del consapevole e dell' inconsapevole, si dovrà ricorrere ad una serie di asserzioni fondate in aria, destituite di ogni prova. Laonde Schelling, che fa in prima uscir fuori l' inconsapevole dal consapevole, come Fichte che fa uscire il Non7Io dall' Io, e poi fa uscire il consapevole dall' inconsapevole, ciò che non fa Fichte e che ripugna alla dottrina di Fichte, come spiega egli la natura bruta, priva di sensazione e d' intelligenza? Egli la considera come l' atto di un Io supremo, del quale suo atto l' Io non abbia alcuna coscienza. Come spiega la sensazione, che riconosce essere priva di coscienza? Egli la fa del pari scaturire dall' Io supremo, al quale nell' atto del sentire vien meno la coscienza di sè stesso. Come spiega il bello estetico? E` per lui l' Io supremo, che nell' artista, perdendo la coscienza di sè, ritiene la coscienza solo delle opere belle prodotte e individuate. Ma quale ragione sufficiente adduce di questo perdersi o di questo limitarsi della coscienza dell' Io? Niuna affatto; nè egli rende alcun perchè dei tempi, in cui questa coscienza ora si oscuri, ora s' illumini. Di più, come prova egli che questi atti, questi prodotti (perocchè confonde gli atti coi prodotti loro), benchè inconsapevoli, debbano uscire dall' Io, che è la coscienza stessa? La ragione non è altra che quella di Fichte, essere impossibile che l' Io intenda qualche cosa fuori di sè stesso, venendo ad argomentare o piuttosto a paralogizzare così: « L' Io non può intendere nulla fuori di sè. Ciò che intende adunque deve essere prodotto da lui stesso »; quasichè fosse lo stesso l' intendere una cosa in sè e il produrre una cosa diversa da sè. Quando anzi, se fosse vero che l' io non potesse intendere niuna cosa se non in sè stesso, si dovrebbe concludere che dunque egli non può produrre niuna cosa che fosse fuori di sè, qual' è il Non7Io, giacchè produrre e intendere si assumono come sinonimi. Ma si ammetta il paralogismo. Noi abbiamo un Non7Io prodotto dall' Io, un inconsapevole prodotto dal consapevole. Continua Schelling l' opera così avviata del suo predecessore, e dice: Questo Non7Io ha un conato ad acquistare la coscienza di sè, perchè è prodotto dall' Io, e perciò lo ha nelle viscere latente. Quale prova di sì grave affermazione? Nulla. Quale ragione sufficiente determina il Non7Io a costituirsi in un Io? Nulla di nuovo. Quale ragione che determini i tempi, in cui il Non7Io è privo di coscienza, e quelli in cui egli la acquista? Nulla per la terza volta. Passi. Ma rimane a domandarsi se l' Io può essere latente, se un Io latente non è una contraddizione in termini, perocchè viene a dire una coscienza senza coscienza. La coscienza, che non è coscienza, è il nulla . Già qui si scorge l' origine del nullismo di Hegel. Ma egli è ancor meno del nulla, perchè è una contraddizione, un assurdo; e il nulla non è un assurdo. Onde si vede che il nullismo dovette condurre Hegel all' assurdismo (parola così bella appunto, come il sistema che esprime), cioè a sostenere che la scienza si fonda sulla contraddizione, che è il principio di quella filosofia. Ridurre adunque ciò che è assenzialmente consapevole, come è l' Io, e ciò che è inconsapevole ad un principio unico, che ora acquista la coscienza ed ora la perde, è impossibile. In primo luogo tutti questi infiniti trasmutamenti del consapevole nell' inconsapevole, e viceversa, non hanno alcuna ragione, come dicevamo. In secondo luogo, o il principio unico può perdere la coscienza, e in tal caso, non avendo la coscienza per sua propria essenza, egli non è infinito, mancandogli il maggiore dei pregi; o il principio unico non può perdere la coscienza di sè, ma solo dei suoi atti e delle sue produzioni, e in tal caso ritorna la dualità, che si vuole ridurre invano all' unità ed alla identità assoluta. Un tale sistema, adunque, può parere meraviglioso come parto di una immaginazione confusa, ottenebratrice della mente, non mai come produzione di ragione filosofica e sapiente. Due sono adunque le parti della filosofia di Schelling. Il sistema di Fichte, che trae dall' Io il Non7Io, ne è la prima; la seconda propria di lui, è il Non7Io tendente ad acquistare la coscienza e ridiventare Io. Abbiamo esaminato i principŒ di natura psicologica, su cui si fonda la prima, e li abbiamo trovati insussistenti. La seconda muove da principŒ di natura ontologica, e sono tali che cozzano coi precedenti. Ora, su questi ultimi, che appartengono esclusivamente a Schelling, è uopo che ci tratteniamo ancora qualche istante. Essi sono attinti al fonte dei Platonici alessandrini, e tutti si riducono alla confusione dell' idea, oggetto, coll' intelligente, soggetto; ma l' esposizione loro ha qualche cosa di originale. Ecco come ella si conduce nel dialogo, che Schelling intitolò « Giordano Bruno ». Quivi si toglie prima a provare che il produttore delle opere artistiche è un' eterna nozione, confondendosi così la causa esemplare di tali opere colla causa efficiente. Rechiamone un brano. In tal modo pretende Schelling aver dimostrato che la nozione dell' individuo sia il produttore stesso delle opere estetiche. Venuto a questo, soggiunge che la nozione dell' individuo è eterna, e che è lo stesso eterno; di che ne trae che lo stesso eterno è il produttore di quelle opere. Ma questa eterna nozione dell' individuo, la quale è il produttore, poco appresso (non curante mai della coerenza del discorso) la chiama emanazione dell' eterno, rassomigliante a quello da cui emana. E poi asserisce immediatamente, senza trovar necessario di aggiungervi la minima prova, che Iddio « « dà alle idee delle cose, che sono in lui, una propria indipendente vita, in quanto permette loro di esistere come anime dei singoli corpi ». » E quindi deduce che « « ogni opera, la quale è il prodotto dell' eterna nozione dell' individuo, ha una doppia vita, cioè una vita indipendente in sè stessa, ed un' altra vita nel produttore ». » Così crede il nostro filosofo aver dimostrato: 1) che le anime sono le idee divine, in quanto Iddio loro permette di esistere come anime dei singoli corpi; 2) che s' identificano con Dio, così come s' identificano coi loro corpi; 3) che queste nozioni, cangiate dal filosofo in anime, sono il produttore delle opere estetiche; 4) che queste opere estetiche hanno vita, anzi una doppia vita, una in sè stesse e un' altra nel produttore. Ad ogni uomo che abbia non già una grande penetrazione, ma solamente un minimo che di logica in capo, deve fare stupore come proposizioni di tal natura si pronuncino così leggermente, quasi non avessero bisogno di dimostrazione la più rigorosa. Ma tale è l' indole della filosofia germanica, di cui si fa tanto strepito. Lasciando noi da parte questo strepito, perchè guai a quelli che, volendo filosofare, si lasciano assordare gli orecchi dallo strepito che leva la moltitudine dei filosofanti, non dubitiamo affermare: 1) che si vede, a dir vero, negli ingegni germanici una grande tendenza al ragionamento deduttivo e conseguenziale; 2) ma che si vede in pari tempo che non ne hanno l' arte, dimostrandosi assai meschini di logica: e ciò perchè la civiltà germanica, essendo recente e fatta a mano ed in fretta, non ebbe ancora il tempo di esercitarsi abbastanza nel discorso dialettico. I filosofi di quella nazione mancano in prima di analisi, e perciò confondono facilmente l' una coll' altra le idee. Mancano poi di dimostrazione, e perciò si contentano di affermare proposizioni sopra proposizioni, l' una più strana dell' altra, senza fermarsi mai a considerare seriamente il valore delle prove. A conferma di che, facciamo alcune osservazioni sul brano citato del Bruno di Federico Schelling. Si dice che il finito è perfetto, quando è annodato coll' infinito, e che non può essere annodato coll' infinito, se non è previamente uno coll' infinito. Ma se il finito è previamente uno coll' infinito, non ha più bisogno di essere annodato con esso lui, perocchè ciò che è uno con un altro, è già annodato o piuttosto immedesimato con esso. Che cosa vuol dire adunque questo previamente ? Egli non ha senso. Di poi l' espressione essere uno coll' infinito è ambigua, e perciò deve essere chiarita coll' analisi dei suoi diversi significati; il che dimentica di fare il nostro filosofo. Se l' esser uno vuol dire l' essere identificato, in tal caso non è più annodato ; perocchè ciò che è identico non si dice essere annodato con sè stesso, ma essere sè stesso; nè ha bisogno d' un mediatore, che lo annodi seco stesso. Dall' aver detto che il finito non può essere annodato coll' infinito, se non per mezzo dell' infinito e dell' eterno stesso, conclude che dunque un' opera, che rappresenti la più alta bellezza, non può essere prodotta che dall' eterno. Nella qual conclusione si racchiude più che nelle premesse; perocchè nelle premesse si distingueva: 1) un' opera finita; 2) l' annodamento di quest' opera coll' infinito, fatto dall' infinito stesso. La conclusione doveva essere che l' infinito contribuisce a produrre l' opera, che rappresenta la più alta bellezza, in quanto che annoda l' opera finita con sè stesso, ma non che produce l' opera stessa. Manca ancora l' analisi dell' annodamento, che si suppone fra l' opera finita e l' infinito, perchè questo annodamento può essere di più maniere; a parlar chiaro e senza equivoco conveniva dire in che precisamente si faccia consistere tale annodamento dell' opera finita coll' infinito; il che si preterisce. Di poi si prosegue a dire che l' eterno produce l' opera, che rappresenta la più alta bellezza, non considerato assolutamente, ma in quanto si riferisce immediatamente all' individuo produttore. Ma se il produttore è lo stesso eterno, come ora viene in campo un individuo produttore diverso dall' eterno, un individuo produttore a cui l' eterno solo si riferisce? Questa è contraddizione. Toglie quindi a spiegare in che consista questa relazione, per la quale l' eterno si riferisce all' individuo produttore; e per ispiegarla parte da questo principio, che « tutte le cose sono in Dio soltanto per le loro eterne nozioni ». Ma questo è falso, giacchè le cose sono in Dio anche come nella loro causa efficiente, non meramente come nella loro causa esemplare . Perchè si ammette dunque una proposizione, opposta alla dottrina di tutti i teologi e di tutti i filosofi, senza alcuna prova? Dall' erroneo principio che « « tutte le cose sono in Dio soltanto per le loro eterne nozioni » »deduce che « « Iddio si riferisce al produttore individuo per l' eterna nozione dell' individuo » ». Ma Iddio non si riferisce al produttore individuo solo per l' eterna nozione dell' individuo, ma ben anche perchè egli realizza colla sua onnipotenza la essenza dell' individuo, che è in quella nozione, e così lo fa esistere, lo crea. Soggiunge queste altre parole, quasi cosa che venga al tutto da sè, che nessuno possa negare, di cui nessuno possa domandare ragionevolmente dimostrazione di sorte: « la quale (nozione) è in Dio identificata coll' anima, precisamente come questa è col corpo ». All' opposto, il senso comune di tutti gli uomini distinguerà sempre, e in Dio e nell' umana mente: 1) la nozione dell' individuo dall' anima; 2) e l' anima dal corpo. La differenza fra la nozione dell' individuo e l' anima è infinita; perocchè quella è eterna, e questa è contingente; dunque non si identificano. La differenza fra l' anima e il corpo è di sostanza a sostanza; e due sostanze, delle quali l' una è termine dell' altra, non si possono identificare, benchè si possano unire a formare un solo individuo. Al nostro filosofo, adunque, non solamente vien meno la logica, di cui mostra non fare alcun caso, ma anche il senso comune, a cui crede di poter contrariare così leggermente e gratuitamente. Dopo avere asserito con tanta temerità che la nozione dell' individuo produttore s' identifica coll' anima, e che l' anima s' identifica col corpo, conchiude che questa nozione, che s' identifica pure coll' eterno, è il produttore stesso dell' opera, che rappresenta la più alta bellezza. Dopo aver dunque distinto nel discorso: 1) il finito e l' infinito; 2) la nozione del produttore e il produttore; egli confonde tutte queste cose insieme, senza darsi alcuna briga di spiegarci sotto quale aspetto sono distinte, e sotto quale s' identificano; come nasca la loro separazione e la loro identificazione; quale sia la ragione sufficiente di tali trasformazioni; in che modo e in che senso la parola identificazione di più cose in una non involga assurdo, come pare che l' involga. Di tutto ciò il nostro ragionatore si tiene affatto disobbligato. Se il filosofo nostro dicesse che « la nozione dell' opera bella, il tipo eterno », è quello che la produce, sarebbe in qualche modo tollerabile, non rimanendo a spiegare in tale sentenza se non in che senso si dica che la produca, cioè meramente come causa esemplare. Ma no, egli presenta ai suoi ammirati discepoli qualche cosa di più strano da credere sulla sua parola. Non trattasi della nozione o tipo dell' opera, ma della nozione dell' individuo produttore. Ora, se la nozione dell' individuo produttore è il produttore stesso, quella nozione non potrà produrre altro se non l' individuo produttore che ella rappresenta, non potrà produrre altro che sè stessa. Un assurdo dunque si raddossa sopra l' altro. E poichè quella nozione è l' anima, perciò l' anima non potrà produrre (se fosse una nozione producente) che sè stessa!! Niente dunque rimane spiegato con un tal modo di filosofare. Che poi le nozioni eterne, che trovansi in Dio, sieno anime, questo è conseguente alle premesse del nostro filosofo. Ma il vero si è che le nozioni e le idee sono bensì intuite dalle anime intelligenti, ma non che sieno le stesse anime intuenti, essendovi fra l' intuente e l' intuìto essenziale ed insuperabile differenza. Voi poi credereste con tutte le scuole che le nozioni eterne fossero sempre in Dio. Il nostro filosofo però dice che emanano da Dio; lo dice, e tuttavia le dice eterne, nè dice che perciò escano da Dio. Nè di tutte queste affermazioni contradittorie vi dà prova di sorte alcuna. Egli vi domanda ciechissima fede alle sue parole. Neppur crediate che le nozioni eterne di Dio sieno anime per sè stesse; no, elle sono anime, perchè Iddio permette loro di esistere come anime dei singoli corpi. Come poi tali nozioni possano aver desiderio di essere anime, come questo possa esser loro permesso da Dio, come, ottenuto questo permesso, possano acquistare l' esistenza di anime; queste sono tutte cose, che il nostro filosofo rimette a concepire e spiegare alla discrezione dei suoi benigni lettori, non credendosi obbligato d' incomodarsi a dircelo. Finalmente che cosa sarà l' opera di questo produttore, che ora è l' eterno, ora la nozione dell' individuo, ora l' individuo, ora l' anima? L' opera sarà qualche cosa di vivente, anzi una cosa che vivrà di due vite, l' una in sè, l' altra nel suo produttore, col quale pure così s' immedesima. Che cosa è vita? Come si può vivere di due vite? Come un' opera finita d' un individuo produttore può essere cosa viva? Come s' immedesima col suo produttore? Altri enimmi, con cui il nostro filosofo esercita la fede dei suoi discepoli. Tale è la logica costante della serie dei filosofi tedeschi, incominciata con Kant; nè ella è finita; ci resta a parlare dell' ultimo anello, di Hegel. HEGEL. - I filosofi tedeschi mossero la filosofia dall' Io, ma senza analizzarlo, perchè l' analisi, come abbiamo osservato, è pressochè loro sconosciuta. L' Io sottomesso all' analisi risulta: 1) da un sentimento fondamentale; 2) da un' intuizione dell' oggetto; 3) da una o più riflessioni, che quel sentimento intelligente fa sopra di sè, onde anche pronuncia sè stesso dicendo Io . L' Io dunque involge l' opera della riflessione e la coscienza, che ha l' anima di sè stessa. I nostri filosofi tedeschi fondarono il loro sistema sopra l' uno o l' altro di quei tre elementi, senza abbracciarli tutti, e senza nè tampoco distinguerli. Fichte, ponendo attenzione più al terzo elemento che ai due primi, parlò dell' Io dandogli la natura di riflessione, e però lo fece essenzialmente consapevole. Schelling si appigliò al primo di quei tre elementi, e immaginò un Io sentimento, che ora è consapevole, ora inconsapevole, senz' accorgersi punto che un mero sentimento non è mai un Io, perocchè ad un Io è essenziale la coscienza, che appartiene all' intelligenza. L' attenzione di Hegel, che trascurò l' analisi dell' Io, come i suoi antecessori, cadde sul secondo elemento, e il suo Io primitivo non fu sentimento, non fu riflessione o coscienza, ma fu ciò che sta in mezzo a questi due estremi, semplice cognizione . Ma mancando sempre l' analisi, confuse anch' egli, come i precedenti, il conoscente coll' oggetto cognito, e concluse che l' oggetto cognito era il conoscente. Di più, l' oggetto cognito è duplice, sussistenza e idea . Per difetto d' analisi dichiarò che ogni oggetto cognito è idea. Quindi se ne ebbe che l' idea era ad un tempo il soggetto conoscente, l' oggetto ideale intuìto, e l' oggetto reale percepito. Così Hegel ridusse ogni categoria di cose alla mera Idea. E l' Idea, divenuta ogni cosa, era necessariamente Dio, il Dio7tutto. Non era questo certamente un fare andare molto innanzi la filosofia dei suoi predecessori, perocchè essi erano in sostanza pervenuti alla stessa conclusione. Ma si erano poco occupati a dimostrare come l' Io si trasformasse in tutte le cose, e producesse tutte le opposizioni, che si possono pensare dall' umana mente. A questo lavoro s' accinse Hegel. L' Io di Hegel essendo dunque l' Idea, egli si occupò a descrivere come questa si trasformava nelle diverse categorie delle cose, dispensandosi sempre, secondo il metodo invalso, dal dimostrare. Asserì dunque che la Ragione, ossia l' Idea (perocchè è continua la confusione fra il soggetto, che intuisce e fa uso dell' idea, e l' idea intuìta e di cui si fa uso), ha nel suo essere tre momenti; ond' ella è: 1) Idea in sè e per sè, pura Idea logica; 2) Idea nel suo essere trasformato, Natura, Non7Io di Fichte; 3) Idea che ritorna in sè dal suo essere trasformato, Spirito, Anima. Quindi la divisione della Filosofia in tre parti: « Logica, Filosofia della Natura, Filosofia dello Spirito ». Prendendo a considerare il secondo dei tre momenti dell' Idea hegeliana, in qual maniera l' Idea si trasforma nella Natura? Questo è ciò che il filosofo non spiega; ma il solo supporlo involge assurdo sopra assurdo. L' Idea altro non è che l' oggetto intuìto dallo spirito, l' essenza delle cose; per esempio, l' idea dell' uomo è l' essenza dell' uomo, non è nè questo nè quell' uomo, ma il mero tipo dell' uomo, l' uomo possibile. Lo stesso si dica di ogni altra idea. Ora se noi diamo all' Idea un' azione qualunque per modo che la rendiamo un agente, noi le aggiungiamo una cosa straniera. Non abbiamo più la sola idea della cosa, ma abbiamo un agente associato coll' immaginazione nostra all' idea. L' Idea non ha altro ufficio che di farci conoscere le cose; le cose poi reali e sussistenti sono quelle che operano. Questi due concetti, il tipo manifestativo delle cose reali e le cose reali operanti, sono categoricamente diversi: quello, cioè l' idea, può stare innanzi alla nostra mente senza di queste, siccome accade quando pensiamo ad una cosa meramente possibile e non realizzata. Dunque il pretendere che l' Idea operi e si trasformi in altro, è mutar natura all' Idea; è abusare di questa parola; è sostituire all' Idea una natura reale e sussistente, capace di operazione, è ricadere nella dualità che si vuole sopprimere (1). Ogni Idea qualunque è immutabile ed eterna. La più leggera osservazione interna ce ne convince (1). Dunque l' Idea non può patire alcuna passione, nè essere il soggetto di alcuna trasformazione. Se l' Idea si potesse trasformare nella Natura, ella annienterebbe sè stessa, perdendo ciò che essenzialmente la costituisce, che è di esser lume alla mente. Ora niun essere può annientare sè stesso. E se anche potesse, annientato che fosse, non potrebbe ricrearsi e divenire un' altra natura, perocchè il nulla non può diventar nulla. Passiamo a considerare l' Idea nel terzo momento di Hegel. Questa dallo stato di Natura bruta ritorna a sè, e così nasce lo Spirito. Ma un tale ritorno supporrebbe che la Natura fosse l' Idea, la quale non si fosse annientata, ma conservando un quid identico potesse ancora operare. Ora questo è impossibile per l' osservazione fatta di sopra. Dunque, quand' anche l' Idea avesse cessato di essere Idea e fosse divenuta Natura, questa non potrebbe più tornare ad essere Idea per la ragione stessa, che in tal passaggio prima dovrebbe annullare sè stessa, ed annullata che fosse, non potrebbe più divenire cosa alcuna. Noi dicevamo che le trasformazioni non si possono nè spiegare, nè concepire, se non rimane un quid identico che sia il subbietto della trasformazione. Ora Hegel non si dà cura di indicare punto nè poco questo quid, che rimane immutato nelle trasformazioni che egli suppone. L' Idea è semplicissima, e però non può avere due elementi, l' uno mutabile e l' altro identico; quindi non può essere soggetto di alcuna trasformazione, ma è immutabile, come abbiamo detto alla osservazione II. In qual maniera si può concepire che la Natura bruta ritorni all' Idea? O come ritornando all' Idea può divenire Spirito? Questi sono misteri, di cui il filosofo nostro non adduce nessuna ragione sufficiente, anzi nessuna ragione, che faccia concepire la cosa come possibile. L' Idea non può mai divenire Spirito, perchè lo Spirito è l' intuente, e l' idea è intuìta dallo Spirito; onde hanno opposizione di natura fra loro. Neppure è possibile ricorrere ad un terzo termine, che unisca in sè questi opposti, Spirito intuente e Idea, perchè in tal caso non si partirebbe già più dall' Idea, come fa Hegel, ma da qualche cosa di superiore all' Idea stessa; e l' Idea rimarrebbe nella condizione dei termini opposti. Oltre di che, questo termine superiore incontrerebbe le stesse difficoltà ad esplicarsi e a trasformarsi, e la difficoltà sarebbe arretrata d' un passo, non tolta. Il perchè non dandosi Hegel alcuna sollecitudine di queste immense difficoltà, e procedendo sempre per la via dell' affermazione gratuita, tutta la sua dottrina si riduce a descrivere storicamente le trasformazioni dell' idea in tutte le cose le più opposte fra loro, e nello stesso nulla, sicchè quella sua Idea in luogo d' essere immutabile non istà mai in riposo. Certo che la descrizione di queste trasformazioni nel senso di Hegel sono altrettante operazioni mentali; perocchè rimane sempre l' erronea base, posta da Fichte, che « il conoscente niente conosce fuori di sè stesso, e però tutto ciò che conosce deve necessariamente essere cose che nascono in lui », riducendosi ogni realità a produzione della mente, e, come confessava lo stesso Fichte, ad apparenze ed a sogni, e sogni di sogni (quasichè il sogno potesse sognare). Posto dunque che la virtù trasformatrice di Hegel sia il pensiero, egli comincia dal porre che il pensiero possa concepire l' ente così astratto che da lui si tolgano in prima tutte le determinazioni, e poi si tolga via lui stesso, e così sia pari al nulla. Di che conchiude che questo ente così astratto fa un' equazione col nulla, e lo chiama ente7nulla. Ma: 1) E` falso che si possa astrarre l' ente dall' ente; l' astrazione non va tanto avanti; ella non giunge che a levare dall' ente le sue determinazioni, rimanendo l' ente indeterminato. Il togliere poi via l' ente stesso indeterminato non è un atto di astrazione, ma è una negazione assoluta, colla quale si abolisce l' oggetto del pensiero, e se rimane solo il frutto di tale negazione, si abolisce con esso il pensiero. La negazione poi dell' ente, che dà il nulla, non lascia più alcun ente, con cui il nulla possa mettersi in equazione. 2) Di poi, se il pensiero fa queste operazioni di astrarre e di negare l' ente, il pensiero stesso e le sue operazioni si scorgono diverse dall' pensato. Dunque egli, soggetto pensante, non si può mai confondere con questo, che è assenzialmente oggetto pensato; nella negazione adunque rimane ancora il negante, benchè incognito a sè stesso. 3) Se l' oggetto pensato non è il pensante, dunque il pensante pensa cosa diversa da sè, e non è più vero il principio posto, che non possa pensare nulla fuori di sè. D' altra parte è il pensiero stesso, a cui il filosofo si appella, che ci dice: 1) Che egli può bensì astrarre, negare, passare da un oggetto all' altro, ma non mai trasformare gli oggetti stessi l' uno nell' altro. 2) Che oltre gli oggetti propri del pensiero, le idee, vi sono altre entità che non sono idee, ma sentimenti e forze agenti nel sentimento, sulle quali il pensiero puro non ha alcuna virtù di operare trasmutazioni. Onde se si deve credere al pensiero umano, questo dichiara di non aver punto nè poco la virtù trasformatrice, che il nostro filosofo gli attribuisce. E quand' anche il pensiero avesse questa virtù, converrebbe assegnare qualche ragione sufficiente, per la quale rimanesse spiegato perchè egli ora adoperi tale virtù, ora non l' adoperi, ora l' adoperi in un modo, ora nell' altro. Parve che Hegel, a differenza dei suoi predecessori e maestri, sentisse in qualche maniera il bisogno di porgere questa ragione. A tal fine egli disse che il supremo principio della filosofia è il diventare, nel quale atto il nulla e l' essere si congiungono quasi ai loro confini; perocchè non richiedendosi ragione del primo principio, gli parve così di potersi schermire dal rendere alcuna ragione del diventare medesimo. Ma dei primi principŒ non v' è obbligo di dar ragione, se sono evidenti; ma v' è ben obbligo di giustificarli, se evidenti non sono, come è certamente il diventare di Hegel; e tanto più che questo diventare ha in ogni caso modi, e leggi, e tempi, di cui conviene assegnare qualche ragione che li determini. Che più? Lo stesso diventare di Hegel è un manifesto assurdo, giacchè suppone che qualche cosa diventi senza causa. Perocchè se assurdo non è che un essere, che prima non esisteva, cominci ad esistere quando sia posta una causa che lo crei, oltremodo è assurdo che cominci ad esistere da sè, senza che alcuna causa preceda, nè efficiente, nè materiale, come è assurdo pure che si annichili. Che se questa causa esiste, già non è più il diventare il principio dell' Ontologia, ma la causa prima che spiega lo stesso diventare, e lo rende concepibile all' intelletto; e di questa perciò è da parlare, ricorrendovi come a sufficiente ragione di tutti gli atti che conseguono, e delle loro circostanze (1). Tuttavia non si può negare che, commesso il primo errore, tutti gli altri sono in qualche modo conseguenti, inevitabili; perocchè la serie delle proposizioni erronee si può esporre così: 1) Il pensiero non può conoscere nulla fuori di sè (errore fondamentale, idealismo trascendentale, soggettivismo). 2) Dunque fuori del pensiero non v' è nulla. 3) Dunque ciò che si crede che esista fuori del pensiero, non è che una produzione del pensiero stesso, che produce il Non7Io, negando sè stesso. 4) Dunque le stesse idee sono produzioni del pensiero. 5) Ma il pensiero stesso, riflettendo che egli non può conoscere nulla fuori di sè, fa rientrare in sè il mondo reale e le idee, dopo averle prodotte come un diverso da sè, riconoscendo che quelle cose sono sè stesso, seco s' identificano. 6) Il pensiero poi può astrarre e negare, e così può annullare ciò che ha creato. 7) Di più, il pensiero può astrarre e non pensare sè stesso, perdere la coscienza, e quindi può annullarsi (2). Il pensiero stesso adunque (che abbraccia il tutto nel suo seno) ora è l' ente, ed ora il nulla. Così l' ente e il nulla si identificano. .) Ora, poichè l' infimo grado in cui possa essere il pensiero è questo annullamento di sè, e da questo nulla può sorgere a tutti gli altri gradi, perciò dal gran nulla escono fuori, come da un cotale oscuro abisso, tutte le cose. - Sistema del Nullismo. 9) Il pensiero ha dunque due termini: il nulla e il più alto grado di sua attività . La filosofia non può spiegare le cose, se non congiunge questi due termini; ella si deve dunque fermare a quel punto, nel quale il nulla diviene ente; e questo è il diventare di Hegel. 10) Ma la maggiore attività, a cui possa giungere il pensiero, è quella in cui egli acquista la coscienza di sè. Il pensiero consapevole adunque, come l' ultimo sviluppo dell' ente, è ciò che questi panteisti psicologici chiamano Dio. Ecco una serie di assurdi, procedenti con qualche logica connessione dal primo assurdo. Enumerare le produzioni fisiche, morali, sociali, ecc., del pensiero, e considerarle tutte come identificate al pensiero, è ciò in cui più ampiamente si stendono le opere di Hegel. Dobbiamo ancora ripetere ciò che abbiamo detto parlando di Schelling: questa filosofia non è che la riproduzione della filosofia indiana, e specialmente di alcune scuole del Buddhismo. [...OMISSIS...] Il principio di questi sistemi indiani è al tutto psicologico, quello stesso che forma la prima proposizione delle dieci da noi annoverate. Ecco due tesi, che si trovano in alcuni Sutras, citati da Burnouf: Non è mestieri il dire come un tale sistema sia empio; ma l' empietà, che esso racchiude, da niuno più che dai discepoli di Hegel fu nudamente proclamata e professata. « La stessa idea di Dio - dicono essi - non ha alcuna realità, perchè ella non riflette sopra sè stessa (2); quindi è gioco forza che la teologia si perda nell' Antropolatria, e che la religione disparisca nella speculazione ». La deificazione, il culto di latria reso all' uomo, come al solo Iddio: ecco l' assunto di questi deliranti, ecco il frutto maturo del soggettivismo; ci pensino bene i nostri italiani religiosi soggettivisti. Fra questi poniamo Aristotele; ma conviene fare sul suo sistema molte osservazioni. Primieramente è egli al tutto immune dall' errore, che noi attribuimmo a Platone, di confondere l' anima coll' idea, il soggetto coll' oggetto che la illustra? Questo sistema ha due faccie: è idealismo trascendentale, in quanto si ritengono le attribuzioni divine delle idee e le si attribuiscono all' anima, che con esse si confonde; ed è soggettivismo, in quanto si ritengono le doti dell' anima e le si attribuiscono alle idee, che con essa si confondono. In Platone questo sistema mostra la prima faccia; in Aristotele la seconda. Per fermo, è sentenza aristotelica che « « l' anima diventa in qualche modo tutte le cose » », e che « « intellectus est ea quae intelliguntur » (1) ». Di ciò abbiamo parlato nel « Rinnovamento » (2). Ella è tuttavia cosa grandemente diversa il confondere l' anima colle idee, attribuendo a quella la natura di queste, e il confondere le idee coll' anima, attribuendo a quelle la natura di questa, come noi crediamo che faccia Aristotele. In questo caso, benchè Aristotele ponga la natura dell' anima nel soggetto, e in ciò non erri, tuttavia cade in un errore assai maggiore di quello di Platone, perchè ignobilita le idee, traendole dal cielo in terra. Ma è prezzo dell' opera, che noi esaminiamo con più d' attenzione la sentenza aristotelica. Al vedere la franchezza, colla quale Aristotele parla censurando tutti i suoi antecessori, noi saremmo inclinati a credere che egli dovesse essere molto sicuro del fatto suo, e venuto in possesso d' una scienza ben definita. Pure a questa congettura fanno immensa opposizione le sue opere, nello stato in cui esse a noi pervennero. Durante il dominio della Scolastica, quando pareva una cotale empietà filosofica il dubitare che « il maestro di color che sanno »fosse caduto in contraddizione seco medesimo, lo spirito umano, preoccupato, non poteva portare un equo giudizio dell' aristotelica dottrina; una critica imparziale delle sue opere era impossibile. Questo freno d' indebita autorità posto agli ingegni provocò, secondo il solito, la reazione violenta da parte di quelli, a cui divenne alla fine insofferibile, i quali lo ruppero bruscamente come fa l' irato. Al giogo ingiusto dell' autorità filosofica, che vincola l' ingegno, essendo dunque succeduta l' ira, che lo acceca, ebbe luogo un' età, che neppur essa fu atta a giudicare equamente dell' aristotelica filosofia. Ben sarebbe desiderabile che nel tempo nostro, in cui sembrano sedati cotesti sdegni e resa impossibile quella autorevole prevenzione, si occupassero finalmente i dotti a darci una notizia veramente critica della dottrina, che nei libri a noi pervenuti dallo Stagirita si contiene, la quale ancora ci manca. Quanto a me, io non dubito che le ingiurie fatte a quei libri dalle vicende straordinarie, a cui essi soggiacquero, e dall' invida età, sieno maggiori di quel che si credano. Ma non importando investigare che pensasse veramente Aristotele, il che ci è affatto impossibile, bensì solamente ciò che contengono di presente i libri che portano il suo nome, io mi sento sgomentato a dover dire che essi presentano agli occhi miei brandelli di dottrine le più contrarie, un tessuto, o piuttosto un cucito, di tutti i sistemi filosofici che precedettero, dilacerati e rubacchiati ad un tempo. Mi conferma in questa opinione il vedere che Aristotele fu inteso dai suoi interpreti nelle guise più disparate, e gli furono attribuiti i sistemi più opposti. Alcuni lo vollero materialista, altri sensista, altri poi tolsero seriamente a conciliarlo con Platone fino a pretendere che egli differisca dal suo maestro di sole parole (1). A malgrado di ciò, mi sembra di poter asserire che il sistema aristotelico circa la natura dell' anima appartenga alla numerosa classe dei soggettivisti; e a ciò sono condotto dalle seguenti considerazioni. La definizione, che egli dà dell' anima, noi l' abbiamo riferita altrove [...OMISSIS...] . Ora, benchè molto sia stato disputato sul valore della parola entelechia, tuttavia la sua origine (da «en» e «telos») dichiara abbastanza che ella significa il finimento, l' atto che rende compiuto, la perfezione, ecc. (4). Quindi è indubitato che Aristotele concepì l' anima come un atto del corpo, col quale il corpo si perfeziona. E dice un corpo che ha la vita virtualmente, il che è più che potenzialmente; perocchè la mera potenza potrebbe pigliarsi per una capacità, o ricettività, o potenza passiva; ma la parola greca «dynamei» significa di più, esprimendo una potenza producente, ossia atta a passare all' atto, come sarebbe la forza rispetto al moto. Intende poi per un corpo, che ha virtualmente la vita, [...OMISSIS...] . Ora, in che ripone questa perfezione del corpo, che si chiama anima? In una forma o specie. E come definisce la forma o specie? Per contrapposizione alla materia, in questo modo: [...OMISSIS...] . L' anima dunque è ciò che si trova in un corpo e che fa sì che quel corpo sia un qualche cosa determinato, pel quale gli si dà il nome, nel caso nostro, che sia un animale. Non è dunque un atto accidentale del corpo (3), ma è un atto specifico, pel quale il corpo riceve un nuovo nome sostantivo. Quindi ripone l' anima fra le sostanze; perocchè egli distingue tre maniere di sostanze: la materia, la forma, e il composto (4); ma con più proprietà l' anima aristotelica si dovrebbe chiamare forma sostanziale (5). E veramente, in tutte le sostanze composte di forma e di materia non si vede come la forma, in quanto è forma, stia da sè, separata dalla materia; e per stare da sè deve esser qualche altra cosa oltre mera forma, onde non può essere sostanza, la quale sta da sè. Che anzi se si considerano i corpi, da cui furono tratte le parole di materia e di forma, e se si definisce la sostanza « ciò che in un ente esiste per sè », definizione che implica la relazione della sostanza coll' accidente, che esiste per quel primo (il che è quanto dire: la sostanza è l' atto pel quale sussiste l' essenza); in tal caso la condizione di sostanza appartiene piuttosto alla materia che alla forma; perocchè questa essendo come l' atto, quella è come il subbietto di questa (6). Quindi nel sistema aristotelico è impossibile concepire l' anima separata dal corpo, come l' atto è impossibile considerarsi senza il suo subbietto, di cui è atto. Niuna meraviglia, adunque, che Aristotele si trovi incerto e impacciato, quando applica la sua dottrina all' anima intellettiva; perocchè i filosofi, che lo avevano preceduto, avevano già dimostrato che le operazioni della pura intelligenza si fanno senza strumento di organo corporale; nè questo egli poteva negare, nè disconoscere la conseguenza, cioè che l' anima, in quanto è intelligente, non è atto di corpo, e poteva quindi sussistere senza corpo. Onde, dopo aver detto che l' anima non si può separare dal corpo, come l' immagine impressa sulla cera non si può separare dalla cera, quando poi viene all' intelletto, parla quasi incerto così: [...OMISSIS...] (1). Nel qual luogo è da considerarsi che il filosofo non disse addirittura che l' intelletto sia separabile dal corpo, ma disse separabile a quel modo che l' eterno è separabile dal corruttibile. A intendere adunque la mente di Aristotele conviene indagare che cosa egli intenda per eterno e per corruttibile, e in che modo, secondo lui, queste due cose sieno separabili. Se non si indaga questo prima di tutto, egli parrà cadere poche linee appresso in contraddizione. Infatti, se l' intelletto è separabile, perchè non è atto di corpo o di organo corporeo, dunque l' anima intellettiva non deve essere forma di corpo, perchè la forma o specie del corpo viene definita « l' atto e la perfezione del corpo stesso ». Tuttavia tosto appresso Aristotele dice che l' anima, anche in quanto pensa, è la specie, ossia forma del corpo: [...OMISSIS...] . Nega dunque all' anima intellettiva l' esser subbietto e materia, il che attribuisce al corpo; e le concede solo l' essere specie, forma, intenzione, atto, perfezione del corpo. Nè si può dubitare che qui si parli dell' intelletto, perocchè nel terzo libro definisce l' intelletto espressamente così: [...OMISSIS...] . S' aggiunge che nel libro secondo « Degli Analitici Posteriori » parla delle facoltà conoscitive degli animali imperfetti (attribuendo erroneamente anche ad essi una maniera di conoscere), e quindi passando agli animali perfetti, cioè agli uomini, viene a parlare dell' intelletto. Onde l' anima intellettiva è considerata come forma negli animali perfetti, di un grado più elevata di quella che è l' anima dei bruti, ma dello stesso genere. Che cosa dunque Aristotele intende per ciò che è eterno? Che cosa intende col dire che l' eterno si separa dal corruttibile? In primo luogo si avverta che Aristotele nega le idee e forme separate di Platone, che quindi non riconosce altre forme che quelle che sono nei particolari; che come non separa la forma dalla materia, così neppure la materia dalla forma, di cui ella è il soggetto. Alle forme particolari attribuisce l' atto, e quindi l' azione e la generazione; ma nega che producano forme, producano composti, appunto perchè la forma è inseparabile dalla materia. Ora la materia è eterna, e però deve avere una forma eterna, cagione di tutte le altre forme. Di più, è proprietà della mente separare la materia dalle forme, e così toglierle alle sue incessanti vicissitudini. La materia, dunque, astratta dalla mente, e parimenti le forme astratte, sono incorruttibili ed eterne rispetto alla mente che le contempla, a quel modo che spiega nei libri « Degli Analitici Posteriori »; quindi ciò che è eterno per Aristotele è la materia e la forma prese in astratto, le quali in realtà non esistono nell' anima, ma nelle cose esteriori. Ma l' anima ha la potenza di riceverle dal di fuori, ed è così che viene la mente dal di fuori, e che è separabile, perchè non è innata se non in potenza; dove si vede che la parola mente o intelletto si confonde colle specie che si acquistano dal di fuori, che è appunto l' errore da noi accennato, di confondere il soggetto coll' oggetto. Adduciamo in prova di ciò qualche luogo del filosofo. E prima di tutti sarà uno notevolissimo dal secondo libro « Della generazione degli animali », dove egli toglie a spiegare la generazione che si fa per via dell' unione dei sessi. Quivi egli distingue l' anima in potenza dall' anima in atto; l' anima non si dice essere generata e veramente esistere, se non è in atto. Ora l' anima vegetativa, sensitiva, e intellettiva, vengono all' atto successivamente, ed escono, quasi a dire, come si traggono l' un dall' altro i diversi tubi di un cannocchiale. Dice dunque che nel seme è uno spirito, e in questo è la natura, cioè il principio vitale etereo ( proportione respondens elemento stellarum ), che è l' anima ancora in potenza. Di quest' anima in potenza, all' atto del concepimento si fa l' anima vegetale, la cui indole consiste nella virtù che ha un corpo organico di ricevere nutrimento, e colla nutrizione, operazione interna, accrescere, e quindi anche poscia decrescere; indi esce dopo qualche tempo dal corpo nutrito un altro suo atto, cioè l' anima sensitiva, e finalmente da questa già maturata, l' intellettiva. [...OMISSIS...] (1). Il seme adunque maschile contiene l' anima in potenza, ma il concepito, che è tosto quando la femmina è fecondata, già contiene l' anima in atto, solo però l' anima vegetale. [...OMISSIS...] . Ora - soggiunge - [...OMISSIS...] . Fa venir fuori l' anima intellettiva allo stesso modo come fa venir fuori la sensitiva, e prima la vegetale dallo stesso corpo seminale, in cui il calore vitale s' acchiude (1), poichè dice: [...OMISSIS...] . La specie dell' uomo, e la specie del cavallo o di ogni altro animale, è trattata ad uno stesso modo; il che mostra abbastanza che Aristotele non conobbe l' altro elemento, che nell' intelligenza racchiudesi. Vuole dunque che il corpo potentia vitam habens, cioè il corpo che ha il calore vitale, quale è il seme e nel calore vitale la natura, ossia il principio vitale, quale è il seme maschile, tostochè si organizza e passa all' atto del nutrirsi, sviluppi l' anima vegetale, e successivamente gli altri due atti del sentire e dell' intendere. [...OMISSIS...] . Ora, dopo aver detto che le tre anime nascono così come tre atti successivi di un corpo, che ha in sè il principio vitale e che si sviluppa, passa a confermare la sua dottrina, provando che niuna delle tre anime può venire dal di fuori del corpo. [...OMISSIS...] . Ora, dopo aver detto tutto questo e fatte le tre anime inseparabili, e anche l' intellettiva fatta uscire dal corpo come le altre, soggiunge: [...OMISSIS...] . Ora alcuni intesero che questa mente , che Aristotele fa venire dal di fuori, sia l' anima intellettiva; ma ciò non può essere il pensiero dello Stagirita, perchè ha fatto già venire tutte e tre le sue anime, o le parti e funzioni dell' anima, dallo stesso corpo che le ha in potenza, la vita del quale si attua successivamente, prima divenendo vegetabile, poscia sensitiva, e finalmente intellettiva. Che anzi immediatamente soggiunge, confermando ciò che aveva detto prima: [...OMISSIS...] . Rimane dunque a cercare che cosa sia questa mente, che viene dal di fuori, benchè l' anima intellettiva stessa sia un atto e una perfezione del corpo. Nè ella può esser altro che una speciale facoltà o qualità, che l' anima intellettiva trae dal di fuori, cioè dalla comunicazione col mondo esteriore. Ora dal mondo esteriore appunto Aristotele vuole che noi caviamo le idee e gli universali; ed è perciò a vedere in che modo egli ne spieghi la produzione in noi; il che egli fa verso la fine del secondo libro, come dicevamo, degli « Analitici Posteriori ». Cerchiamo adunque in questi la spiegazione della sentenza aristotelica. Quivi il filosofo si propone di spiegare come noi abbiamo la cognizione immediata dei principŒ . E dopo aver detto che non può essere innata con noi, perchè ne avremmo coscienza (2), che è la solita ragione dei sensisti, la cui leggerezza fu già da noi dimostrata (3), dice che dunque è uopo che abbiamo qualche potenza di acquistarli. L' ammettere però una potenza di acquistare i principŒ della ragione, non spiega ancora cosa alcuna circa il modo di acquistarli, anzi lascia indecisa la questione assai più profonda: « se vi possa essere una potenza di acquistare i principŒ della ragione, senza che ella stessa abbia qualche principio, o qualche idea, di cui possa far uso ed essere diretta nel suo operare »; il che noi già dimostrammo affatto impossibile (4). Seguita Aristotele dicendo che tutti gli animali hanno questa potenza, perchè tutti hanno il senso; dando così al senso l' officio di formare i principŒ del ragionamento. Ma qual è dunque la differenza fra il sentire e l' intendere ? Questa differenza la riconosce Aristotele, e riprende i primi, che filosofarono, di non averla veduta, confondendo il senso coll' intelligenza. Ma finalmente (come appunto fanno i moderni soggettivisti, che non vogliono essere sensisti, benchè pur lo sieno) la differenza che egli pone, non consiste che in una cotal differenza, che ancora non eccede la sfera della sensitività, perchè colloca l' intendere in una permanenza della cosa sentita. [...OMISSIS...] . Ed ecco chiaramente spiegato come la ragione, ossia la mente, venga dal di fuori ad alcuni animali, quali sono gli uomini. Sono le sensioni eguali e simili, che vengono dal di fuori, che molte lasciano la stessa impressione permanente; e questa impressione unica, che rimane nell' anima da molte sensazioni, è ciò in cui Aristotele vede il nascimento della mente o della ragione, che ha per sua dote l' unità, il contemplare più cose in un solo. Ma altro è che più sensioni lascino nell' anima un' impressione eguale, il che avviene anche nei bruti, in quanto le sensioni sono simili, altro è che l' anima si giovi di quell' unica impressione, che rimane nel senso interno, quasi di tipo a riconoscere tutte le sensioni che ad essa rispondono, e di più tutte le possibili, il che fa solo l' uomo; perocchè solo l' uomo pensa il possibile, e solo il possibile costituisce l' universale, la spiegazione del quale è l' unico nodo della questione. E questo nodo è trasaltato via assai leggermente dal nostro filosofo; anzi egli pur mostra d' ignorare che la natura dell' universale sta tutta nel concetto del possibile, ossia nell' essere puramente ideale. Egli dunque seguita a dichiarare come la sensione si fermi nello spirito, e vi lasci un elemento costante in questo modo: [...OMISSIS...] Noi avvertimmo nell' « Ideologia » che, di tutte le opere di Aristotele, questo è quel luogo in cui il nostro filosofo più s' avvicina alla vera teoria dell' origine delle idee, perchè parla di un universale quiescente nell' anima, e dice che « « l' uno, in quanto è ente, è il principio della scienza » ». Ma conviene confessare che, ogni cosa bene considerata, rimane per lo meno dubbioso se Aristotele esca con ciò dal sensismo. Primieramente quell' universale quiescente è tradotto da Abramo de Balmes e da Giovanni Francesco Burana per « « universale costituito e stabilito nell' anima dalle molte memorie, o reminiscenze precedenti » », di maniera che non sia l' universale nell' anima che dia l' unità alle molte memorie, ma sieno le molte memorie che lascino l' unità, e per essa l' universale, nell' anima; e così pure la intende l' arabo commentatore. Ove è chiaro che il senso può lasciare, dopo le sensazioni, immagini nella fantasia, e più immagini associate fra sè e con novelle sensazioni possono produrre l' istinto di operare in modo che simuli un operare ragionevole, per una cotale aspettazione istintiva di casi simili, come noi abbiamo dichiarato rendendo ragione del perchè nell' operare dei bruti scorgasi ordine, somigliante a quello che si scorge nell' operare dell' uomo (1); ma non sarà mai che con ciò si spieghi un concetto universale, che è quello col quale la mente intuisce l' oggetto nella sua possibilità, mentre il fantasma non esce dalla realità delle cose passate e presenti, e nulla più produce che un' inclinazione e aspettazione di cose simili (senza idea di somiglianza). Quindi i commentatori più penetranti, come l' Aquinate, ritennero l' universale quiescente nell' anima esser cosa nuova, che qui introduce quasi di furto Aristotele, non l' unità dell' effetto fantastico, lasciato nell' anima dalle varie memorie, ossia immagini; ritennero che per quell' universale quiescente Aristotele intendesse veramente un principio esistente nell' anima, pel quale l' esperimento o l' effetto delle memorie, rimasto nell' anima, venga esteso all' avvenire e propriamente ai possibili, rendendosi così universale in atto. E se si considera che Aristotele pone sempre in potenza nell' anima ciò che poscia vi è in atto, non è punto improbabile che per universale quiescente egli intenda l' universale in potenza . Ma rechiamo le stesse parole del Dottore d' Aquino: « Hoc est enim quod dicit, quod sicut ex memoria fit experimentum, ita etiam ex esperimento, AUT ETIAM ULTERIUS, ex universali quiescente in anima »; ecco come l' universale quiescente, secondo S. Tommaso, non è l' effetto dell' esperimento, ma è la causa ulteriore dei concetti universali, che, posto l' esperimento, si formano, « quia scilicet accipitur ac si IN OMNIBUS », cioè in tutti i possibili, « ita sit, sicut est experimentum in quibusdam. Quod quidem universale dicitur esse quiescens in anima, in quantum scilicet consideratur praeter singularia, in quibus est motus; quod etiam dicit esse unum praeter multa, non quidem secundum esse », secondo la sussistenza, « sed secundum considerationem intellectus, secondo l' idea, qui considerat naturam aliquam, puta hominis, non respiciendo ad Socratem et Platonem; quod tamen, etsi secundum considerationem intellectus sit unum praeter multa, tamen secundum esse est in omnibus singularibus unum et idem non quidem numero, quasi sit eadem humanitas numero omnium hominum, sed SECUNDUM RATIONEM SPECIEI », che è di nuovo, secondo l' idea: « ex hoc igitur experimento, ET EX TALI UNIVERSALI PER EXPERIMENTUM ACCEPTO » (qui pare all' opposto che l' universale quiescente sia ancora l' effetto dell' esperimento, se pure questo universale non si debba qui prendere pel concetto universale in atto) « est in anima id, quod est principium artis et scientiae, etc. ». Secondo la quale interpretazione: Molte sensazioni fanno una memoria, molte memorie un esperimento, dall' esperimento e dall' universale quiescente, cioè in potenza, viene l' universale in atto. - Non è mestieri osservare che dalle sensazioni viene il fantasma, ed altresì una cotal ritentiva, un certo vestigio sensibile della sensazione avuta, il quale dirige l' animale a risuscitare il fantasma. Ma la memoria delle sensazioni e del fantasma esige l' intendimento, se per memoria s' intende le idee delle sensazioni avute, che rimangono in noi; si salta dunque dall' ordine del senso a quello dell' intelligenza, senza dare spiegazione di tal passaggio, o piuttosto senza accorgersi del gran salto. Dopo di ciò, il progresso del ragionamento è facile, perchè già l' universale è posto, basta dividerlo, ossia astrarlo. Tuttavia si riconosce che la natura dell' universale si è questa, che l' anima concepisca in tutti i possibili eguali ciò che esperimenta avvenire in alcuni reali; ma di nuovo non si dice come l' anima estenda la sua veduta a tutta la sfera del possibile, la quale sfera eccede infinitamente ogni numero di sensazioni. Si dice ancora che l' universale est unum praeter multa, è uno fuori dei molti. Ora i molti sono reali e singolari; l' anima, che intuisce l' universale, lo considera fuori di essi, non lo trova in essi; quell' universale è uno non secundum esse, cioè secondo il sussistere delle cose, perchè esso è fuori di questa sussistenza, praeter multa, essendo molti gli individui per la sussistenza che ha ciascuno in proprio, ma secundum considerationem intellectus, perchè è l' intelletto quello che vede come ciò che fu esperimentato può replicarsi all' infinito, cioè vede il possibile ; ma rimane sempre a spiegare che cosa sia questo possibile, il quale non si trova negli enti singoli, che agiscono nel senso; e questa è sempre la lacuna, che rimane aperta nel sistema aristotelico; ed è lacuna immensa, perchè taglia fuori tutta la questione. Egli distingue due uni , l' uno che è praeter multa, e questo non è sussistente, nè sensibile, ma solo intuìto dall' intelletto; l' altro, che è l' uno sussistente, secundum esse; e questo, dice, si trova in omnibus singularibus, si trova nei singolari, ma non è uno di numero, bensì uno di specie, unum et idem, non quidem numero, sed secundum rationem speciei . Ma così torna in campo la difficoltà, perchè la ragione della specie non è che cosa intellettuale, e però non può essere nei singolari, nei quali non vi è altro che la sussistenza, la quale è cosa in ciascun singolare separata, onde non fa un uno in più di essi, ma solo nella mente, che considera e paragona più singolari insieme. Il qual paragone non si può fare, se non raffrontando i singolari ad un tipo comune, che è l' idea, ossia la specie; onde l' uno è sempre nell' idea, e suppone l' idea (1). Donde proviene adunque l' idea? Ecco ciò che rimane tuttavia da spiegare; ecco il solito vano; ecco supposto quello che si cerca. E qui si scorge il vero fonte del sensismo di tutti i tempi, ed è il darsi a credere che l' uno sia doppio, cioè che egli esista in più reali, come sono singolari sensibili secundum esse, e che esista nell' intelletto secundum considerationem intellectus . Ma il fatto si è che niente di tutto ciò che è in un individuo reale forma unità con qualche cosa di ciò che è in un altro individuo reale; perocchè ciascun individuo reale è affatto diviso e separato dall' altro; ed essi sono più, senza che in alcun modo nella loro pluralità vi sia unità, eccetto che rispetto all' intelletto, il quale con una sola e medesima idea o specie li conosce. Onde l' uno secundum considerationem intellectus e l' uno secundum rationem speciei, non sono due uni, ma è lo stesso uno, espresso con due frasi che significano in fondo lo stesso. Ma poichè l' uomo parla sempre degli individui reali conosciuti, ed egli crede di parlare degli individui reali semplicemente, quindi egli si dà a credere che l' uno, che trova negli individui7cogniti di cui parla, sussista negli individui reali stessi, mentre non istà che nell' elemento conoscitivo, che egli vi ha aggiunto coll' atto del conoscerli, il quale elemento è l' idea o la specie, con cui li conosce. Illuso adunque Aristotele dall' errore di riporre negli individui stessi reali ciò che non è che negli individui7reali7conosciuti, diede a quelli ciò che è in questi, l' elemento conoscitivo, l' uno proprio della sola idea. E poichè gli individui reali si conoscono soltanto a condizione che sieno percepiti dal senso, quindi giunge a dire che il senso in questo modo fa l' universale, perchè fa la memoria, e questa l' esperimento, che diviene universale, e che perciò non vi è alcuna scienza innata, quasi abito ingenito. Se non che lo si vede titubante, perocchè non osa conchiudere, come dovrebbe stando alle premesse, che non vi sono abiti di scienza innati, ma solo nega gli abiti innati determinati : limitazione che fece affaticare i commentatori a darne chiara spiegazione, e non si poterono mai mettere d' accordo. Rechiamo di nuovo il testo che segue immediatamente al luogo addotto: [...OMISSIS...] . Nel qual passo il sensismo è manifesto; e tuttavia ancora dubbioso e vacillante, poichè si fanno venire dal senso gli universali, ma si dice però che il senso non può produrli in ogni anima, ma soltanto in quella che è atta a patir ciò, anima vero est talis, ut possit pati hoc; e, sebbene la parola patire sia oltremodo sensistica, perchè sembra che il solo senso agisca e che l' anima li riceva dal senso, come la cera riceve l' impressione dal suggello, tuttavia, qualora si confronti questo luogo con altri di Aristotele, in cui egli introduce nell' anima un lume, che chiama lume dell' intelletto agente, si scorge che egli non osa negare che nell' anima vi sia un principio formale degli universali; onde S. Tommaso commenta in questa maniera il passo allegato: [...OMISSIS...] . Laonde, sebbene nel testo di Aristotele non si esiga altro se non che l' anima sia tale ut possit pati hoc, tuttavia S. Tommaso vi aggiunge di più, che sia tale che possit agere hoc ; il che già è un allontanarsi dal sensismo aggiustando il testo nostro con altri testi pur del filosofo. Ora l' intelletto possibile altro non è che l' intelletto in potenza, ossia l' anima intellettiva in potenza; e l' intelletto agente non è che la virtù che ha quell' anima intellettiva in potenza di divenire anima intellettiva in atto, il quale atto le viene dal di fuori, cioè dalle sensazioni. Il dire poi che l' intelletto agente fiat intelligibilia in actu per abstractionem universalium a singularibus, conferma ciò che abbiamo detto circa l' errore, onde provenne come da universale fonte ogni sensismo, il che non è mai abbastanza considerato. Poichè l' uomo che astrae l' universale dal singolare, da quale singolare lo astrae? Certo da quello, che egli ha già concepito nella sua mente; perocchè sopra quei singolari, che egli non ha concepiti, non può esercitare l' operazione dell' astrarre, non avendoli presenti alla mente. Orbene, i singolari già da lui concepiti, onde astrae gli universali, sono forse nè più nè meno i singolari non concepiti? Questo è da vedersi, poichè la mente nel concepirli può avere aggiunto loro qualche cosa, che non hanno nella pura loro realità. E questo, che si doveva diligentemente vedere e cercare, fu dimenticato affatto dal filosofo; nè manco gli venne in mente che si potesse muovere cotal questione; eppure qui sta il tutto, qui sta quello su cui si disputa. Posto adunque lo stato della questione come deve essere posto, è facile a discoprire che i singolari, come sono nella mente, non sono puramente i singolari, come sono nella loro realtà fuori della mente; che anzi, entrando nella mente, hanno ricevuto per prima compagna la sensazione, e per seconda l' idea con cui si concepiscono, nella quale idea sta l' universale. Se noi dunque riassumiamo l' analisi delle cognizioni umane, fatta da Aristotele, e l' ordine in cui egli le distribuisce, troviamo: 1) che le cognizioni più remote dall' origine loro sono le conclusioni ; 2) alle quali debbono precedere nella mente i principŒ da cui provengono, onde nel primo dei « Fisici » dice che gli universali si conoscono avanti i singolari; 3) ma i primi principŒ sono quelli che non hanno mezzo con cui si dimostrino, riconosciuti evidenti tostochè se ne concepiscono i termini, dei quali il predicato è contenuto nella ragione del soggetto (giudizi analitici); 4) la questione adunque dell' origine delle cognizioni si riduce a sapere quali sieno i primi termini che si concepiscono dalla mente umana; perocchè, concepiti questi primi termini, tosto si hanno i primi principŒ, e da questi le conclusioni immediate, che sono principŒ rispetto alle conclusioni più remote. Ora, i termini che prima si conoscono, secondo Aristotele, sono l' ente e l' uno (1), che non differiscono se non secondo il rispetto sotto cui si considerano. Dunque tutta la questione dell' origine delle idee e delle cognizioni umane si riduce, secondo il medesimo Aristotele, alla questione: « Come si conosce l' ente? Come si conosce l' uno nei molti singolari? ». La questione in tal modo è posta ottimamente; ma questo stato della questione non è che il fondo della dottrina aristotelica, poichè in termini espressi non si trova così proposta in niuna parte delle opere dello Stagirita. Rimane dunque a vedere come la sciogliesse, e già l' abbiamo indicato; ma torniamoci sopra. Egli ricorre a due cause, al senso e alla natura speciale dell' anima, che ha la potenza di fermarsi a considerare nel sensibile il comune, il qual comune è l' universale; onde, nel secondo degli « Analitici Posteriori », dice che la cognizione sensibile è anteriore alla cognizione degli universali (1). Ma questo non è ancora, come già osservammo, spiegare l' origine delle cognizioni, poichè non basta il dire che l' anima abbia la potenza di formarsele, il che ognuno sa; conviene mostrare per quali passi questa potenza le vada producendo, e a quali condizioni ella possa produrle. Aristotele tenta anche di farlo. L' anima umana, viene egli a dire, è così disposta, che al ricevimento delle sensazioni ritiene quella parte che esse hanno di comune, il che egli chiama memoria ; paragonando più memorie, ritiene di nuovo quella parte che hanno di comune, il che egli chiama esperienza ; e così per via di astrazione giunge fino agli ultimi astratti ed ai principŒ. Ma lasciando stare che qui non è spiegato come nasca l' idea della sostanza, perchè le sensazioni non contengono la sostanza dell' ente esterno, ciò che vogliamo principalmente osservare si è che tutto questo discorso suppone che nel reale sensibile, o nella sensazione reale, sia già il comune, ossia l' universale ; poichè se non fosse, l' anima non si potrebbe fermare in esso ed astrarlo. All' incontro il vero si è che ogni reale esterno, ed ogni sensazione reale, non esce di sè, è tutta reale e finita; e niente di ciò che è reale è comune con un altro reale, con un' altra sensazione reale; dunque non vi è alcun comune, alcun universale nell' esterno reale, nè tampoco nella sensazione, che esso in noi produce, e che è reale anch' essa. Come adunque Aristotele credette di giungere a trovare il comune, l' universale, l' uno, l' ente nel sentito? Per quella illusione che abbiamo indicata, per la quale egli attribuì al reale puro ciò che appartiene al reale già concepito dalla mente. Per dirlo di nuovo, e non è mai detto abbastanza, il sentito, ossia il reale esterno a noi sensibile, dove vi è il comune, ossia l' universale, è il reale sensibile, tale quale esiste nella nostra mente, che l' ha percepito; poichè egli è l' oggetto, su cui si esercita l' astrazione, e l' astrazione non si esercita se non sull' ente reale sensibile già percepito. Conviene dunque spiegare la percezione, il che noi abbiamo fatto nel « Nuovo Saggio ». Dalla spiegazione ci risultò che la percezione intellettiva è « il reale sentito, in quanto dall' intendimento si vede nell' essere ideale come sua realizzazione ». Ciò posto, è chiaro che il reale sensibile percepito, su cui si esercita l' astrazione, contiene il comune e l' universale da cui si può astrarre, perchè esso non è il solo reale, ma il reale nell' ideale, è un oggetto reale7ideale, particolare7comune, e non reale e particolare solamente. Io dovrei qui venire alla conclusione, riassumendo il modo onde Aristotele intende che la mente, ossia l' intelletto, venga all' anima dal di fuori; ma non posso a meno di far prima l' intramessa di un punto di storia filosofica poco conosciuto; ed è la vera origine della celeberrima questione dei Reali e dei Nominali, e le loro vere sentenze. Esse si rinvengono diligentemente esposte nell' opera di Abelardo sopra Porfirio, poco innanzi da me citata, quale si trova nel Codice Ambrosiano. L' ente7reale7sensibile, percepito dall' intendimento, è l' oggetto, su cui si esercita l' astrazione; coll' astrazione si separa da esso il comune . Nasce tosto la questione, se il comune sia nelle cose o nell' intelletto. Si noti prima che l' uno, o il comune, o l' universale, è pressochè il medesimo; perocchè comune altro non significa se non ciò che è uno in più enti, e universale significa ciò che è uno in tutti gli enti possibili di una classe, o in tutti affatto gli enti. Ciò posto, Aristotele trovava l' uno, come abbiamo veduto, nelle cose reali, unum in multis, e diceva che questo era il principio dell' ente; e trovava pure l' uno nell' intelletto, unum praeter multa, e diceva che questo era il principio della scienza (1). Ora è chiaro che l' unum praeter multa per lui era il comune, astratto e separato dalle cose, l' idea specifica o generica della cosa, la cui sede è certamente l' intendimento, ed è principio della scienza, in quanto la scienza tratta teoreticamente delle cose e per astrazione. E` chiaro ancora che l' unum in multis viene ad essere il comune, riferito dalla mente alle cose singole reali percepite, perocchè il concetto della mente, uno com' è, si unisce e si lega in noi a ciascuna di esse, e in quanto è legato a ciascuna, noi lo chiamammo idea particolare ; e questo è il principio dell' arte, perchè l' arte è un abito di operare con ordine intorno ai particolari reali. Ma l' ordine, con cui opera l' arte, procede dall' averli percepiti colla mente, che li scorge simili o dissimili; infatti il simile è l' idea stessa intuìta in più cose reali, o per dir meglio più cose reali vedute nella stessa idea. Aristotele dunque poteva avere tutta la ragione nel distinguere l' unum in multis e l' unum praeter multa, e nel dire altresì che quello era il medesimo uno (1), se egli avesse inteso con ciò l' uno, cioè il comune nelle percezioni, e l' uno, cioè il comune nell' idea separata dalle percezioni. Ma l' errore suo era sommo e capitale, perchè non prendeva la cosa così, nè si accorgeva che il ragionamento andava bene fino che si parlava dell' ente reale concepito ; ma non andava più bene, tostochè si parlava del puro reale. Quindi egli errava, applicando al reale puro ed alla sensazione, che è anch' essa un singolare reale, ciò che non era vero se non rispetto all' ente reale percepito; e quindi errava altresì, facendo venire dal senso l' universale, il comune, l' uno; medicando poscia alquanto col dare all' anima una potenza di fermarsi al comune, che però riponeva nelle cose. Il quale errore di Aristotele debbo dire che non fu scoperto giammai da veruno, per quanto è a mia cognizione; e perciò la spiegazione degli universali divenne lo scoglio inevitabile della filosofia, e diede origine a perpetue, inconciliabili dispute, che hanno stancati ed allassati inutilmente tutti i secoli precedenti, e disamorati gli uomini della filosofia. Perocchè i primi commentatori ripeterono press' a poco quello stesso che disse Aristotele, ed ora riposero il comune nel reale sensibile, ora nell' intelletto, ora in entrambi, senza molta coerenza, nè sospettar guari la difficoltà. Poscia, meditandosi via più sulla cosa affine di dare un' espressione scientifica e precisa alla dottrina aristotelica, vi furono di quelli che si fermarono all' unum in multis, e dissero che i reali hanno veramente in sè qualche cosa di comune e di uno; onde fecero che l' uno appartenesse all' ordine della realità, e questi furono i Realisti . Ma tantosto si separarono fra di loro. Secondo l' esposizione di Abelardo, al suo tempo essi erano divisi in due fazioni; alcuni, tenendo fermo che il comune deve essere una realità, escludevano affatto da esso ogni elemento intellettuale, e dicevano perciò che il comune, ossia l' uno, che è nelle cose, era la materia, e che il proprio era la forma delle cose (1); sistema assurdissimo, perchè faceva sì che la stessa identica materia ricevesse contemporaneamente tutte le varie forme, in cui si presentano le cose. Così scambiavano la proprietà della materia colla proprietà dell' essere ideale, che veramente identico si attua e realizza in tutte le forme, ripristinando la materia intelligibile di Platone e dei filosofi di lui più antichi. Ma il sistema veniva ad avere due facce, perocchè parlando della materia reale, esso riusciva ad un materialismo assurdo, dove il comunissimo, cioè l' intelligibile, si faceva materiale; parlando poi della materia intelligibile, riusciva ad un idealismo del pari assurdo, dove la materia reale si cangiava in idea. La seconda fazione dei Realisti sosteneva che il comune è nei reali non secondo la materia, ma secondo la convenienza della similitudine. Questi aggiungevano in tal guisa un elemento intellettivo, ma non si accorgevano affatto di aggiungere qualche cosa all' ente reale; non si accorgevano di aggiungervi l' idea, dove solamente sta la loro similitudine, perchè veduti nell' idea dell' essere, ivi si commisurano e paragonano (2); anzi credevano di non aggiungervi se non l' atto, con cui l' intelletto li riguardava, e quindi stimavano che la similitudine, veduta in essi, fosse in essi come reali, e non come percepiti ; il quale era propriamente l' errore di Aristotele (3). Ma come avviene che quando le dottrine non sono chiare e nette, non tutti possono intenderle allo stesso modo, questa seconda fazione si spartiva nuovamente in due scuole; la prima delle quali sosteneva che l' universale, riposto nei singoli reali, risultasse dalla loro collezione, e non si potesse affermare di ciascuno (1); la seconda, che nella natura di ciascun singolo si contenesse (2). E prescindendo dall' errore capitale di sostituire il reale percepito al reale puro, entrambi avevano ragione; perocchè da una parte in ciascun reale percepito, essendovi l' idea in cui si vede, vi è il comune, essendo ogni idea un tipo comune di tutti i possibili, sotto il quale aspetto aveva ragione la seconda scuola. Se poi si considera che, finchè l' intendimento non ha che un solo reale percepito, esso non può accorgersi che vi giaccia il comune, ma se ne accorge tosto che, avendo più reali percepiti, ne fa il confronto, pare che solo nella collezione di più reali, fatta nella mente e dalla mente paragonati, si scorga il comune. La differenza sta dunque fra il comune in sè, che è nei singoli reali percepiti, e il comune conosciuto dall' uomo come comune, il quale non si osserva che nella collezione, nel rapporto di similitudine, che si vede avere ciascuno cogli altri, poichè la similitudine esige più enti fra cui ella passi. Ma posciachè non era conosciuto che l' oggetto reale, in cui si trova il comune, ossia l' universale, è un oggetto misto di reale e d' ideale, essendo un reale concepito; quindi entrambi i sistemi dei Realisti prestavano dei lati deboli, dai quali assaliti facilmente rovinavano. Il che diede luogo al sistema dei Nominali, cadente nell' eccesso opposto, giacchè se i primi si fermavano nel reale, senza accorgersi dell' ideale con esso congiunto nella mente nostra, i secondi neppur essi si accorgevano dell' ideale, ma vedevano che nel mero reale non si poteva trovare l' universale e il comune; e però s' appigliavano a dire che l' universale non era che un nome (1). Abelardo adunque, che ai Nominali appartiene, tolse a rifiutare tutte e due le scuole accennate di Realisti, in questa guisa. Quella di esse che riponeva l' universale in una collezione, esprimeva male il suo pensiero, che era certamente volto a indicare la similitudine, che in più individui si trova; poichè la parola collezione denotava un numero finito di individui reali, laddove il comune si trova in tutti gli individui possibili, i quali sono indefiniti di numero. Onde Abelardo argomentava: [...OMISSIS...] . Gli argomenti erano irrepugnabili. Abbatte pure la seconda scuola di Realisti con queste argomentazioni: [...OMISSIS...] . Abbattuti così i Realisti, Abelardo trae qual necessaria conseguenza il nominalismo: [...OMISSIS...] (2). E anche al nominalismo diede occasione Aristotele coll' avere insegnata piuttosto la dialettica che la logica, e presentate le idee e le argomentazioni vestite di vocaboli, ed esposti i nessi di questi più che di quelle; onde sul vocabolo materiale si pose più attenzione che sul suo significato invisibile e spirituale, in cui principalmente contemplava la mente di Platone. Quindi i predicamenti si chiamarono le cinque voci ; e i filosofi impacciatissimi a spiegare gli universali, sui quali ogni sistema presentava difficoltà insormontabili, finirono coll' appigliarsi del tutto ai vocaboli, come ad una tavola nel naufragio, quelli surrogando agli incomodissimi universali, e così eliminandoli affatto dalla filosofia. Toglie dunque Abelardo a dimostrare che un nome comune, fino che è solo, non presenta alcun oggetto all' intelletto, ma può significarne più d' uno; quando poi è determinato dall' unione con altri vocaboli, allora significa il particolare. Ma quando viene a ricercare quale sia la causa per cui s' impongono nomi comuni alle cose, egli allora è costretto a ritornare alla similitudine dei singolari (1), che gli rimane là dura e salda come uno scoglio, senza alcuna spiegazione (2), perocchè ella è appunto una di quelle cose così facili, così naturali, che si sogliono supporre dai filosofi e trapassare; ed esse intanto nascondono nel proprio seno un sistema intero. Dopo le quali cose è tempo che torniamo a noi, e che riassumiamo: Aristotele pose che l' uno, il comune (pressochè sinonimi) sia nelle cose, unum in multis ; che in quelle anime che sono fatte a ciò, come le umane, quando ricevono per mezzo del senso l' impressione delle cose, allora rimanga in esse il comune insieme col proprio; che le medesime anime, dotate di tale facoltà, fermino, pongano mente a quel comune, astraendo dal proprio, e così formino l' uno astratto , il comune, l' universale, che è nell' anima, unum praeter multa . Questo universale ridotto alle ultime astrazioni è l' intelletto, ossia la mente, la quale viene nell' anima dal di fuori (3). Ma posciachè l' anima non potrebbe acquistare questo intelletto, se non ne avesse la facoltà, dunque, dice Aristotele, l' anima ha l' intelletto in potenza (intelletto possibile); ed acquista poscia dal di fuori l' intelletto in atto, mediante la facoltà di fermarsi al comune ed astrarlo (intelletto agente), ammettendo questo principio, che intellectus in actu est intellectum in actu . Ecco tutta la teoria dell' anima di Aristotele; la quale anima rimane sempre un atto, una perfezione, una entelechia del corpo, dalla quale si divide la mente, quando si perde la cognizione del comune, e si acquista la mente, quando quella cognizione si riceve dai dati del senso; ma l' anima stessa non è dal corpo divisibile. Secondo questa dottrina l' anima non è corpo, ma è bensì atto di corpo, cosa appartenente al corpo, indivisibile dal corpo, esistente tutta in potenza in quello spirito, che afferma Aristotele trovarsi nel seme maschile, dal quale si sviluppa secondo le circostanze, e secondo che il corpo è meglio organato; perocchè lo svilupparsi fino a venirne l' intelligenza e l' intelletto in atto, è anche questo efficienza di un corpo idoneo a ciò, che egli dice più divino . Se egli la chiama forma , non è che dal corpo realmente la distingua; la chiama sostanza , ma per sostanza intende l' ultimo atto perfezionatore di una data materia, a cui non è dato l' esistere da sè, senza la materia di cui ella è la perfezione, ossia l' entelechia (1). L' errore di Aristotele intorno alla natura dell' anima consiste, dunque, nell' « aver fatto venire il comune dalle cose reali (dal senso che le percepisce e dall' anima atta a riceverlo), invece di sollevarsi ad intendere che il comune veniva più d' alto, che esso è essenzialmente idea ; nè può confondersi colla realità, perchè ogni comune infine si riduce nell' essere comunissimo, nell' essere ideale intuìto dall' anima per natura, il quale è forma7oggettiva di essa anima ». Quindi il maestro della scuola terminò la Filosofia naturale nell' anima, dicendo di lei, che [...OMISSIS...] ; laddove l' ultima delle forme che naturalmente si conoscono, conviene cercarla veramente più oltre, perocchè ella è l' essere ideale, per sè oggetto, immensamente all' anima superiore; la quale forma costituisce il nesso naturale dell' uomo col suo divino principio. Così il filosofo, per evitare l' errore di Platone che dava alle idee la sussistenza, rovesciò sgraziatamente nel suo contrario, confondendole colle realità contingenti, colla materia e coll' anima; per timore di non fare il volo d' Icaro, egli andò a nascondersi sotterra, e chiuse a tutti quel varco, pel quale solo l' uomo può salire sicuramente alle regioni dei cieli. Tali sono, o mio Giuseppe le sentenze principali degli antichi intorno alla natura dell' anima. Io procurai di esportele fedelmente, traendole dalle loro stesse parole, o dagli scritti più autorevoli che ce le tramandarono; il che se io abbia conseguito, non bramo altro giudice che te stesso. Nè mi contentai di riferirti i sistemi chiusi nella corteccia antica delle parole, ma tentai d' inciderla e romperla, benchè spesso durissima al taglio, per iscoprirne ed assaggiarne il midollo. Osai anche di porli al cimento; non però a imitazione di quelli che, stando in sullo appuntare sottilmente gli altrui concetti, non ne proferiscono e sostituiscono alcuno loro proprio; perocchè giammai non mi è sembrato convenevole il distruggere senza l' edificare, nè verecondo è l' animo di colui che toglie a correggere, nulla avendo fatto egli medesimo. Laonde coll' esporre alla pubblica censura quattro libri intorno alla natura dell' anima, io sperai avermi acquistato qualche diritto di scrivere questo a te, nel quale le opinioni altrui diligentemente raccolte, alla mia propria si paragonano e si cimentano. Le quali opinioni quante vigilie, quanti sudori, quante meditazioni non costarono ai più alti e nobili ingegni! Eppure cercando tutti la medesima cosa, per molti secoli, non riuscì loro di pervenire ad un accordo, quasi che mentre il vero unisce gli uomini, la scienza li divida. I moderni poi ricaddero sottosopra nelle medesime opinioni, che pure li partirono in vari drappelli; nè io so, per avventura, chi fra di essi abbia prodotto una sentenza, o nuova, o almeno migliore delle accennate. Se non che l' età dei padri nostri, per più di un secolo, depose fino l' animo d' investigare la natura delle cose, dichiarandola impenetrabile e deplorando la improvvida rozzezza degli antichi, che vi si travagliavano intorno; essa più colta, astenendosi dal cercare quella dell' anima, si contentò di descriverne leggermente le sensibili operazioni. Così, se le generose fatiche dell' antica filosofia non sempre e in tutto colsero il vero, rimasero almeno perenne monumento del sommo ardore, onde i primi sapienti tentarono definire la natura, l' indole, la condizione di questo spirito che ci avviva, ci nobilita, e ci innalza fino al soglio di Dio; cui si gloriò d' ignorare tutto quel secolo passato, di filosofi pieno, che docilissimo ed altero ubbidì e servì alla voce di Giovanni Locke e degli altri suoi maestri e duci, i quali si persuasero di rendere facile la sapienza, disaggravandola, quasi nave carica di preziosi tesori in procinto di affondare, da quanto ella recava di difficile, di peregrino, di sublime, gettandone il carico dai secoli accumulato, alle onde gonfie e spumose dei sensi e delle ribollenti passioni. Le quali ricchezze, posciachè alcuni dell' età nostra già procacciano di ripescare, io volli, come ho saputo, farmi loro compagno nella pietosa fatica, come in altri miei libri così in questo. Dove se le suppellettili e gli arnesi, che si traggon fuori e si ricuperano all' attenzione degli uomini, non sono tutti oro schietto - e il saggio, a cui io stesso di mano in mano li posi, chiaramente lo dimostra - tu considera però che nel traffico filosofico non è sola ricchezza la verità discoperta, ma ancora ogni studio ed ogni lavoro della mente per discoprirla; di che le capitali questioni pur solo intavolate, le meditazioni tendenti a scioglierle, gli abbagli stessi procacciano bene, avanzano ed arricchiscono il mercato della filosofia. Ma perchè, tu dirai, l' umana mente traviò cotanto dal vero, che la narrazione dei suoi pensieri pare doversi piuttosto appellare una narrazione dei suoi errori? Non ti riuscirà guari difficile ad intendere questo fatto costante negli annali di tutta la filosofia, se tu consideri che, quantunque la mente dell' uomo coi suoi atti diretti colga il vero - e così vien esso ricevuto e collocato quasi in arca sicura, nel fondo dell' animo - tuttavia alla riflessione, che vuole poscia leggere questo vero, il quale ella ha certamente davanti, sovente traballa la vista, e le avviene di leggere una parola per un' altra dello scritto; il che le incontra sventuratamente per la continua mobilità dell' immaginazione, che la dirige coi suoi fantasmi, seguendo le leggi animali, quando l' immaginazione dovrebbe essere diretta e governata; onde pare che la riflessione non dissomigli le più volte da un padrone cieco, guidato a mano da servo capriccioso e malfido. Così avviene che la riflessione, la quale produce la filosofia, volendo riguardare l' anima per conoscere che cosa ella è, di che natura e condizione, si creda veder l' anima, e veda tutt' altro, cioè ora veda la materia , ora il sentimento corporeo , ora l' idea , ora Iddio ; e così dica a sè stessa che queste cose sono l' anima. Perocchè di questo modo nacquero quelle prime quattro classi di sistemi tutti erronei intorno alla natura dell' anima, che ti ho esposti, i quali si possono chiamare dei materialisti, dei sensisti, dei falsi oggettivisti, e dei teofisti. Il quinto sistema poi, che fu l' aristotelico, evita in parte, come dimostrai, gli errori precedenti, essendosi accorto il suo autore che l' anima non poteva essere alcuna di quelle quattro cose, le quali sono termini del suo operare. Ma là dove Aristotele pose mano a spiegare l' intelletto, cadde egli stesso in un sistema di soggettivismo contrario ai quattro primi, e massimamente contrario a quello dei falsi oggettivisti; poichè, mentre questi volevano innalzare l' anima, dandole le divine qualità delle idee, egli degradò le idee dalla loro condizione altissima, riducendole al grado dell' anima stessa e delle cose soggettive. Che se nol disse espressamente, conseguita nulladimeno dal sistema di quel filosofo, il quale concede senza esitazione l' uno , ossia il comune , alle cose reali e soggettive; onde per Aristotele l' oggettivo, ossia l' ideale, non è più che un' appartenenza dello stesso soggettivo, ossia reale; poichè ogni reale, volendo ragionare dirittamente, al soggetto si riduce. Tu pertanto, confrontando ciò che noi abbiamo esposto circa la natura dell' anima colle altrui opinioni, giudica liberamente, guidato dal tuo proprio senno, se la sentenza nostra sia preferibile alle altrui, e se in questa parte abbiamo in nulla colle nostre meditazioni vantaggiata la filosofia, la quale non si vantaggia, senza prode della sapienza e della religione.

Scritti vari di metodo e pedagogia

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Il mondo all' incontro, o la così detta filosofia, si applaude e trionfa di qualunque pregio e qualità separata vegga risplendere nel suo allievo, e dimenticando di considerare i difetti, di vedere come quelle qualità stieno fra loro disunite ed in combattimento, come, apportando d' un lato alcun bene, accrescano dall' altro molti mali, s' inganna ed illude, e pensa d' essere la generatrice di uomini grandi, mentre n' è la guastatrice, e la produttrice non di giuste forme, ma di mostri. Nel quale fatto, chi sottilmente mira, vedrà che ciò segna grande debilezza d' intendimento e lume d' intelletto falso perchè troppo piccolo, cioè perchè non capace a vedere il tutto della cosa. Simile a questo sarebbe l' errore di quei meccanici i quali occupati in ciascuna ruota, o molla, o anello particolare, non considerassero l' effetto totale della macchina, e venissero in così matto pensiero, che riputassero dover esser tanto più rara macchina quella che costruiscono, quanto le ruote, le molle, gli anelli fossero di più forza e maggiori, senza avere nessun rispetto alla proporzione vicendevole, e a quella mutua azione, che comunicata e unita insieme per un certo temperamento e ordine nel quale ad un tempo tutto si muove, confluisce a quell' effetto unico a cui la macchina è ordinata, e senza cui non varrebbe nulla, ancorchè i suoi ingegni particolari avessero mille pregi in se stessi, e, se vuoi, fossero d' oro e gemmati e grandi a piacimento. E questa fiacchezza di mente, che prostra quello spirito vanaglorioso del mondo vantatore di tanto avvenimento, la quale non giunge giammai a rallargarsi e considerare le cose nel loro totale, ma le considera sempre l' una partita dall' altra, e in questa piccolezza di vedere sempre finisce e si chiude, nasce per fermo (chi considera l' origine della cosa) dal disordine degli affetti. Poichè questo è certo effetto delle affezioni, tirar via tutta la nostra mente dalle altre cose e occuparla solo nell' oggetto del nostro amore o dell' odio: di cui avviene che quegli che ha troppo affetto ad alcuno oggetto particolare si fa cieco a tutti altri non per meno di naturale vigorìa d' intendimento, ma per iscemo di attenzione. Di che agevolmente si spiega come gli stessi angeli perspicacissimi e d' intendimento acutissimi potessero errare a tal segno le ragioni delle proprie forze, che volessero tenerla contro Dio: non già perchè, se avessero voluto posatamente prestare attenzione alle forze divine e alle loro, non n' avessero sentita la improporzione e inteso chiaro quanto l' esito del loro combattimento doveva essere infelice, e però non tentabile: ma fu perchè la passione della propria eccellenza sì fattamente li prese ed accecò che si ristrinsero a contemplare se stessi, e la grandezza di Dio più non misurarono. Ed in questo modo anche l' uomo il più intelligente s' abbaglia ed oscura, e si fa male accorto, stupido, vero ignorante. Di che sta il germe nella stessa limitazione della natura, che si abbandona a se medesima (1); quello cui toccò Paolo in quelle alte parole: « « Quando sarà venuto ciò che è COMPLETO, si manderà fuori ciò che è PARZIALE » » (2). Di questo modo si concilia quella contradizione che appare ne' sofisti di questo e di tutti i secoli, dei quali alcuni mostrano grande vigore d' ingegno, ed insieme appaiono pieni d' ignoranza. Nè con questo vengono per noi condannati gli affetti: ma come abbiamo distinta la scienza di questo mondo e quella di Dio da ciò che quella di questo mondo si limita ed impicciolisce nei particolari, mentre quella di Dio o della Religione mira il complesso delle cose e l' affetto del tutto; così parimenti tengono lo stesso modo gli affetti di que' falsi sapienti e dei veraci. Que' falsi sapienti consumano i loro affetti nelle cose particolari, ristringendo tutta la possa del loro cuore ad alcuni oggetti, e però sconoscendo ed odiando tutti gli altri, e fissi a que' particolari, quasi a caso poscia trapassano e trabalzano, per così dire, sopra altri qui e qua confusamente: laddove gli affetti dei savii veraci, cioè dei cristiani, sono sgradati in bell' ordine sopra le cose tutte, che tutte insieme le considerano, e distribuiti alla misura del loro rispettivo valore, pesando il valore delle cose singole colla ordinazione loro agli scopi generali, e gli scopi generali sottomettendo all' universalissimo, il quale è loro bilancia unica, e però non mai variabile: di che viene la loro costanza e sicurezza d' animo e d' intendimento. Intima è dunque questa relazione della mente e dell' animo, degli affetti e delle cognizioni: e quelli e queste sono soggetti allo stesso ordine, e partecipano delle stesse imperfezioni. Laonde non è maraviglia se i savii della terra sono così parziali negli affetti come nelle cognizioni: negli affetti, abbandonati a se stessi, sono tirati qua e là dagli accidenti, s' avventurano ad ogni lusinga, non temono, non disaminano, correnti al laccio di ogni passione, cui non essi prendono, ma da essa son presi: nelle cognizioni ammettono e rigettano quelle che loro più piacciono ovvero dispiacciono: quelle che più s' accordano co' loro affetti, o che con essi discordano: ed a capriccio contraffanno nelle vane loro imaginazioni la incommutabile verità. I savii cristiani all' opposto reputano, che quanto sta fuori di loro sia fornito di cert' ordine fisso, immutabile, dipendente dalla prima cagione e non dal loro arbitrio: al quale ordine gli uomini sono tenuti di conformare la loro mente, se vogliono partecipare della verità, e di conformare il loro cuore, se vogliono godere della pace. Non è la verità l' opera della umana intelligenza; ma la intelligenza è l' opera della verità (1). Però a qualunque cosa loro si presenti danno quell' affetto, il quale ella merita, considerata nella sua relazione con quel tutto che hanno sempre innanzi agli occhi: però il loro affetto lungi dal turbare il loro intendimento, o dall' affaticarlo, procede con quello a sì bella concordia, che l' affetto stesso al vero intendimento delle cose quasi li manuduce. Ecco dunque in questo ragionamento indicato il supremo principio della buona Educazione cavato dallo spirito di verità proprio del Cristianesimo. Questo principio o scopo ultimo della Educazione viene ad essere il seguente: SI CONDUCA L' UOMO AD ASSIMIGLIARE IL SUO SPIRITO ALL' ORDINE DELLE COSE FUORI DI LUI, E NON SI VOGLIANO CONFORMARE LE COSE FUORI DI LUI ALLE CASUALI AFFEZIONI DELLO SPIRITO SUO. Questo principio è altamente radicato nella natura dello spirito dell' uomo, che io rassomiglierei ad uno specchio atto a ricevere l' imagini delle cose e di tutte ornarsene. Coll' atto del suo intendere egli non dà, ma riceve; egli è interamente passivo rispetto alla verità, come la verità è meramente attiva rispetto a lui: la sua mente non crea qualche cosa, ma più tosto viene in essa qualche cosa creata quand' essa intende: l' azione della prima verità sopra di lui è ciò che forma la sua intelligenza: l' azione degli altri esseri è ciò che produce le sue cognizioni (1). E nel medesimo tempo tal principio si appoggia e fonda in quest' altra verità che le cose fuori dell' uomo, pigliate così in cumulo, com' io ora le piglio, sono più possenti di lui: sicchè egli per necessità dipende da esse, come esse non dipendono da lui. E però quando egli vorrà uniformarsi e accordarsi ad esse, egli troverà pace; ma se egli vorrà pretendere che le cose si adattino e si acconcino alla forma sua, egli come di matta opera e impossibile, ne caverà guerra perpetua e sconfitta, e continuo dolore che il farà misero. Ora qui sta a vedere quale sia l' ordine delle cose fuori di noi per aggiustare a quelle le menti e gli animi, di cui si studia la cultura. E anche in ciò differisce dallo spirito male avveduto del mondo quello del Cristianesimo. Poichè lo spirito del mondo o togliendo dalla natura Dio, o a lui non pensando, o pensando mozzamente a quello che gli convenga, non può concepire la grande unità e semplicità dell' ordine di tutte le cose; ma introduce in esse il disordine e lo scisma. All' incontro i cristiani camminando al giorno della fede vedono colla mente loro tutte le cose composte in un ordine solo risplendente di mille pregi, ma accolti tutti in perfettissima unità, mirando alla quale non è lor conceduto giammai di limitare i pensieri fermandoli dal loro corso in qualche oggetto sparso in sulla via che percorrono, ma sono costretti a portarli d' un tratto quasi con rapidissimo volo all' ultimo anello della catena di tutte le cose, alla ragione ultima, a Dio. In quest' ordine perfettissimo, perchè recato alla perfetta unità, noi consideriamo come essenziale e necessario questo gran principio e fondamento di tutto l' ordine, come quello che lo origina, assegnando a tutte le altre cose il loro posto, la loro forma, il loro inclinamento, e all' incontro consideriamo tutte le altre cose particolari come accidentali all' ordine, cioè come quelle che partecipano bensì l' ordine e in questo modo vengono ordinate, ma che non l' hanno in sè, che non ordinano. Quello che ordina adunque tutte le cose, e perciò anche lo spirito dell' uomo quasi specchio come dicevo delle cose, non può essere altro che il Signore e formatore delle cose tutte; di che nasce un altro principio della buona Educazione, che può esprimersi così: NELLO SPIRITO DELL' UOMO LA COGNIZIONE E L' AMORE DI DIO DEBBE INTRODURSI COME ESSENZIALE E NECESSARIO; LA COGNIZIONE E L' AMORE DELLE ALTRE COSE COME ACCIDENTALE: DIO COME PRINCIPIO ORDINATORE DI TUTTE LE ALTRE COSE, E LE ALTRE COSE COME QUELLE CHE DEBBONO DA LUI RICEVERE LA ORDINAZIONE. Si debbe osservare come questo principio sia generale: egli abbraccia tutte le cose, egli le ordina; e nessuna parte dell' educazione sfugge ad una regola così estesa, ma tutto ciò che può essere argomento d' istruzione riceve da essa il suo vero indirizzamento: e per essa s' impone al savio educatore, che fino da' primissimi avviamenti s' abbia posto innanzi tutta la tavola o il disegno compiuto dell' opera sua, o almeno che come savio navigatore, fino dallo sciogliere, sappia il porto a cui gli bisogna approdare. Di questo stesso principio poi non difficilmente apparisce come quella Religione che il pose sia divina, perciocchè agli uomini tutti divinamente amica e benefica; il contrario di ciò a cui mena lo spirito di coloro, che insozzano fino le parole che usurpano, e che hanno sì vilificate le bellissime voci di filosofo e di filantropo. Poichè in quel principio ponendo come accidentali tutte quelle cose che tutti gli uomini non possono avere e possedere egualmente, come neppur le cognizioni naturali, e ponendo il solo possedimento di Dio essenziale alla umana felicità e perfezione, viene aperto l' adito di questa a tutte le condizioni e maniere di uomini, ciò che tanto bene si conveniva al padre di tutti gli uomini. Si mettano adunque nell' animo degli allievi, come sovranamente benefiche e umane, e apportatrici della amicizia, e rimovitrici delle mondane e filosofiche diseguaglianze, e consigliatrici della umiltà ai più grandi di cotesta terra, quelle parole alte, e divine dell' Evangelio: «PORRO UNUM EST NECESSARIUM » (1). Uno è il necessario: e di quest' uno si può beare e ingrandire il minimo della terra, sì come il massimo, quest' uno è vietato solo all' orgoglioso sofista, perchè quegli che reputa di sapere assai, sia riconosciuto l' unico ignorante, e chi presume essere l' ordinatore delle cose, sia privato ancora della partecipazione dell' ordine. E qui non è ancora il tutto. Il lume della nostra religione si spande vie più largamente nel nostro intelletto. Non si contenta di mostrarci in che ordine noi dobbiamo concepire disposte tutte le cose, se non ci apre altresì il modo nel quale il nostro spirito può aggiustarsi compiutamente all' ordine risplendente nelle medesime. Conoscere Dio qual sommo principio regolatore di tutte le cose, e conoscere che dipendenza abbiano queste dal medesimo, com' egli sia necessario, e tutto il resto opera sua, arbitraria, ed accidentale, come però tutto voglia essere rivolto a lui, e come tutto, quando è congiunto e ordinato a lui, consegua perfezione e ordine, è cosa a cui giunge anche il nostro naturale ragionamento; già mosso e svegliato dai raggi della cristiana Religione. Quello a cui fare non giunge virtù naturale di nostro spirito è a vedere il modo secretissimo, onde può l' uomo venire a cotesta perfezione che abbiamo descritta, in cui domini nel suo intelletto e nel suo amore Dio con quello stesso imperio assoluto e con quella piena supremazia onde domina nella natura. Qui è dove la Religione dischiude il suo grande arcano, apre i suoi tesori reconditi a tutto il senno naturale, e spiega la magnificenza di una sua nuova creazione. Qui primieramente essa narra all' uomo un gran fatto, la caduta morale di tutta la sua specie avvenuta nello stipite. Passa con volto irato a pronunciare una sentenza ineluttabile di morte contro all' uomo il quale ravvolge nella propria rovina tutta la natura; giacchè debb' essere per quella terribil sentenza tolto, distrutto, annullato tutto insieme il grande sistema di cose fondato da Dio nella natura di Adamo, e in tutto quello che era fatto per essa. L' esecuzione della inevitabile sentenza è tuttavia sospesa. Questo breve indugio è ciò che presta luogo ad una tutta nuova ordinazione di cose: la quale lasciando intatto il decreto della distruzione di tutto l' ordine primitivo, e lasciando che la terra si trasporti via come una tenda di pastori, e che i cieli si mutino come un vestimento, consegue però che tutte le cose di quel primo sistema, che dirò il sistema del sensibile, dopo la loro distruzione ritornino alla vita; ma non più come principali parti del nuovo sistema, ma come accessorie, inservienti a questo sistema nuovo infinitamente maggiore del primo. Come nel primo avrebbero dovuto gli uomini partecipare della perfetta natura del comun padre che veniva loro comunicata per mezzo della naturale generazione; così nel nuovo, un uomo che non aveva ricevuto la natura corrotta di Adamo per mezzo della generazione ond' essa si propaga, ma che aveva ricevuto questa natura per mezzo di una nuova formazione, opera immediata dello spirito divino, doveva essere egli nuovo capo e stipite di tutti quegli uomini che verrebbero da lui propaginati per una generazione intatta dalla carne e dal sangue, ma tutta spirituale, opera di quello stesso spirito, che formando il suo corpo nel seno di una figliuola di Adamo, aveva rifabbricata l' umana natura, o più tosto, come ape che trae miele da fiore velenoso, cavatala dalla vecchia, a cui era stato non condonato, ma differito l' eccidio. Questo nuovo Adamo fino dal primo istante di sua esistenza, non fu già abbandonato a se stesso, anzi confirmato in grazia, riempiuto dei tesori della scienza e della sapienza di Dio, congiunto in una persona colla divinità. Per cui potè dire, alludendo al suo nascimento non fatto secondo la legge della umana generazione, ma da una vergine in modo divino, quelle parole preparategli da un profeta: [...OMISSIS...] . E questo nuovo fonte, questo nuovo stipite del genere umano, impervio a' corrompimenti, rafferma la seconda famiglia che da lui si deriva, acciocchè non tema la corruzion della prima. Perciocchè dipendendo tutta la sostanza e la essenza della umana specie dal ceppo, rassicurato questo che non si corrompesse, come avvenne al primo, era rassicurata e saldata tutta la specie: conciossiachè il guasto di qualche fogliuzza, o il taglio di qualche ramoscello non distrugge giammai la pianta, quando rimane pieno di virtù e di vita il pedale. Ora questo secondo ceppo della nuova generazione degli uomini divino ed umano, anzi Dio e Uomo, aveva in sè infinito valore e merito da solvere il debito contratto con Dio dalla prima natura umana, al cui pagamento era stato accordato un respiro, anzi di più aveva merito in sè da compensare a Dio il dono di questa mora conceduta al pagamento; la quale non sarebbe potuta convenire colla giustizia di Dio; quando Dio non avesse scorto di doverne venir compensato, e scorto che ne verrebbe compensato soprabbondantemente. Questo sublime misterio pertanto, disvelamento e confusione della nostra ingenita superbia, ci mostra tutta la famiglia degli uomini considerata da Dio come una cosa sola, e presa, nel consiglio delle sue divine ed eterne ragioni, in solido (3), e questo sì nell' ordine della natura costituito in Adamo, che nell' ordine della grazia fondato in Gesù Cristo, e ci dice con sentenza, ove sta un abisso di lume, che come nell' ordine primitivo noi non potevamo conseguire la perfezione della nostra natura, se non per via della generazione naturale di Adamo, così nell' ordine succeduto a quello noi non possiamo conseguire la perfezione della nostra nuova natura, o sia della grazia, se non in virtù della generazione soprannaturale di Gesù Cristo, nel quale sono state rinnovate tutte le cose. Debbesi adunque nella educazione degli uomini aggiungere, al sopra esposto, questo altro principio, il quale contiene il modo o il mezzo, per cui quanto propone quel primo si consegua, cioè per cui quasi direi cadano sopra il nostro spirito i raggi della verità delle cose, e vi si riflettano; vi si rifletta Dio come ordinatore di tutte le cose, e le cose come ordinate. LA NATURA PRIMITIVA DEGLI UOMINI NON PUO` ESSERE RIPARATA SE NON DOPO LA SUA DISTRUZIONE: E OGNI ASSIMILAMENTO IN NOI DELL' ORDINE DELLE COSE, CIOE` OGNI NOSTRA PERFEZIONE, NON SI PUO` IN NESSUN ALTRO MODO CONSEGUIRE, CHE NELL' ORDINE NUOVO DELLA GRAZIA, CIOE` INCORPORATI A GESU` CRISTO. Per le quali cose s' adagia quaggiù la pietà della Religione sì per l' unico necessario , a tutti aperto, che stabilisce; come per l' unico modo di conseguirlo a tutti egualmente comune, anche spregiati, e li consola; e dice negli orecchi e nel cuore di coloro che non possono ricevere l' Educazione de' palagi e delle reggie, ma quella della stalla e del solco, ch' essi hanno ond' essere sì perfetti uomini, sì felici e, può essere, vie più ancora di tutti i molti invidiati, a cui sono appagate mille curiosità, e data tutta quella erudizione che gli uomini ammirano, e mettono in conto di egregia fortuna. Ma la stessa Religione poscia condiscende ai bisogni ed alle infermità della non adulta e perfetta natura umana. Ella sa bene, che l' uomo in questa vita, dove il considera come sempre fanciullo, non può essere col suo spirito attuato continuamente nel solo Dio, e però tempera il gran precetto di dovere sempre orare e vegliare in sì dolce modo, che non divieti l' uso delle cose umane, degli amminicoli necessari a questa povera vita, nè altresì delle cognizioni intorno alle opere di Dio, quando però queste cose nell' animo dell' uomo tengano continua soggezione e avviamento a quel solo fine di tutte le cose, per quell' unico mezzo. E lo stesso disporle sotto di lui e per lui, c' insegna che è un onorarlo, e adorarlo, e invocarlo. Qui dunque s' intende primieramente esser dalla dottrina della Religione concedute all' uomo tutte le altre parti della Educazione, oltre quella dello spirito, e come necessarie da essa approvate e commendate, ma nel medesimo tempo accortamente indirizzate. Nelle quali parti della vita dell' uomo per questo medesimo apparisce, che la Religione distingue quello che è necessario per l' acconcio mantenimento di questa vita, da quello che non è necessario. Quello che è necessario lo pone come suo naturale precetto considerato qual mezzo bisognevole a quel preclaro fine a cui il Signore ha formata la vita presente, precetto, come si vede, relativo e non assoluto, cioè non venuto da pregio che abbia in sè la vita, ma da pregio di quel fine stesso a cui la vita è volta. In quello che non è necessario la Religione piena di condiscendenza e di dolcezza pone certo spazioso e dilettevole campo alla umana volontà. E dove finisce il precetto ivi comincia il consiglio di quella Religione, che non si riposa se non vede condotti alla piena loro statura i suoi avventurati figliuoli; a ciascuno de' quali torna tanto di consiglio in precetto, quanto di lume spirituale ad esso è largheggiato. Dove s' aprono le bellissime sollecitudini della cristiana Carità. La quale non contenta che l' uomo nel suo spirito accolga l' ordine perfetto delle cose, e nel principio di quest' ordine si rallegri e si beatifichi, il persuade ad adoperarsi ancora perchè tutti gli altri suoi simili vengano a parte della stessa avventura, e anche a loro sia data la perfezione. Così la Religione perfeziona l' uomo coll' empirlo di gioia, di quella gioia che ritrae dal sommo principio dell' ordine: e questa gioia cerca diffondere immensamente, e così produce l' amore. Che se nello stato primitivo della incorrotta natura umana la religiosa benevolenza si sarebbe adagiata più tosto nella compiacenza della comune felicità, e l' occupazione dello spirito nello studio delle cose create sarebbe più veramente rimasto un arbitrario diletto; nella condizione all' incontro in cui si trova l' uomo presentemente, il toglie da ogni ozio, e lo stimola ad una operosa azione non solo in beneficio di se medesimo, ma in beneficio di tutti, coi quali è sortito a comune natura e scopo. L' uso adunque di tutte le cose fuori della divinità, e però le cognizioni di tutte quelle cose, vogliono essere adoperate a condurre la umana gracilità passo passo alla robustezza riposta nella congiunzione con Dio; facendo esse a lui quel servigio che a' fanciulli, i quali non hanno ancora appresa l' arte dello stare ritti in sulla persona e camminare spediti, fanno gli appoggi da' lati e l' assistenza delle guidatrici. Di cui viene un altro principio grande e fondamentale di tutta la umana Educazione, il quale insegna a regolare gli abiti che si vogliono fare apprendere, e le cognizioni che si vogliono dare di tutte le altre cose fuori di Dio, e che suona così: SI DIA LA COGNIZIONE DI TUTTE LE COSE, PERCHE` SIA ADOPERATA TANTO QUANTO ABBISOGNA LA PROPRIA DEBOLEZZA E IMPERFEZIONE PER ANDARSENE A DIO, E QUANTO PUO` GIOVARE ALLA INFERMITA` DEGLI ALTRI, ALLA QUALE VUOLE LA CARITA` CHE SI SOCCORRA (1). Questo principio suppone, come apparisce, che l' uomo quanto viene maggiormente perfezionandosi, cioè sollevandosi a Dio, tanto meno abbia bisogno di sostenere la infermità sua colle cose umane, e questo vero splende manifestamente nella vita de' più perfetti rivolta sempre a segregarsi quanto è loro più possibile da tutte le sensibili cose. Ed ancora questo principio pone come dovere nostro, che non diamo ricreamento e conforto alla nostra umanità dalla vaghezza o coattitudine dei terreni oggetti più di quello che richieda la nostra imperfezione: e non vogliamo impacciarci con essi oltre questa misura sotto il pretesto, che tutto può essere rivolto in bene: mentre il solo uso di quelle cose per la loro naturale acconcezza a dilettarci è un indugio alla rapida corsa verso il fine che ci è proposto. E la dottrina di questo successivo lume crescente nelle menti cristiane, e di questo scemamento della necessità di naturali ricreazioni si comprende in quelle maravigliose parole di Paolo: [...OMISSIS...] (1). Ma nel medesimo tempo, che quel principio nega o limita a noi medesimi l' uso e lo studio delle creature, suscita in noi un infinito ardore, e genera una infinita attività e una infaticabile energia per soccorrere collo studio e colla pratica delle medesime alla infermità maggiore o minore di tutti gli altri. Di che viene la purissima sorgente di quel travaglio, che pone il cristiano nelle cose umane. Questa sorgente non è la vana curiosità degli uomini mondani, o la vana speranza di riposare in quelle cose quasi in veraci beni l' animo loro, che ben sanno non avervi in quelle alcuna cosa che ristori, anzi che non affatichi e prema quello spirito eccelso che vive in cuori divinizzati: questa sorgente è la carità de' nostri simili, sorgente fecondissima di studi e di azioni, e di giammai finiti magnanimi movimenti. Epperò nel suesposto principio è la ragione della sentenza che scriveva Paolo a que' di Filippi: [...OMISSIS...] . Ecco come apre la Religione l' adito alla instituzione de' giovanetti in tutte quelle cose che apprezza il mondo e commenda, e che sono alla vita presente o necessarie od utili. Ma ecco da che diverso lato venga all' inculcamento di questa instituzione in tutte le lodate industrie la Religione, e da che diverso lato venga a questo il mondo. Ecco da che profonda origine la Religione cristiana tragga questa sentenza, che il mondo propone così superficialmente, e o senza ragione, o per la sola ragione del suo ammorbato istinto. Ecco radici profonde e salde che dà essa Religione a tutti i nobili studi e alle lodate occupazioni; mentre il mondo viene a farle crescere senza radici, e senza suolo fermo, per così dire, ove si abbarbichino, e posino: di che a lungo processo di tempo la coltura del mondo debbe quasi incattivire e tralignare in barbarie, e quella radicata nella pietà maturare a più squisito ricolto. E queste cose tutte senza fasto di parole, ma con ogni semplicità, brevità, ed altezza, ci aveva già il Maestro divino insegnate con quell' impareggiabile comandamento: [...OMISSIS...] . Il primo di questi precetti segna l' ordine che debbe tenere lo spirito dell' uomo rispetto al Creatore, il secondo l' ordine che debbe tenere rispetto alle creature; e con ciò è dato regolamento a tutte le cognizioni ed all' uso di tutte le cose. E questa sapienza medesima fu sempre lo spirito della cristiana educazione, cominciando dai primi discepoli fino al presente Sommo Sacerdote della nostra Religione, che pose queste stesse parole in capo a tutto il regolamento degli studi da lui poco fa pubblicato (2). E tutti quelli che hanno carico della educazione dovrebbero imitarlo, e dar questa radice agli studi. Egli dovrebbe essere scritto questo fondamento della umana felicità e sapienza in sull' ingresso di tutte le Università, e di tutti i luoghi dove si alleva la gioventù, se ne fosse degna la leggerezza di cotesto mondo che s' annoia di tutto ciò che gli sia di frequente ripetuto: nè solo il proprio carattere ma il carattere comune degli uomini espresse quell' Ateniese che dannò Aristide coll' ostracismo per la noia d' udirlo sempre appellato giusto. E che questo precetto della carità si debba adempire tenendoci incorporati al nostro mediatore, l' abbiamo da lui medesimo quando ci disse, il precetto della Carità fraterna non esser d' altri, ma proprio suo; e quando il chiamò nuovo , e non più udito al mondo, benchè fosse stato intimato da Mosè: [...OMISSIS...] ; cioè in virtù dello spirito, che secondo la legge della generazione spirituale da me solo viene comunicato. E s' osservi come nel semplicissimo precetto della carità, che forma l' anima, per così dire, di tutto il Cristianesimo, sieno già indicate e comprese tutte le specie di unità di cui debbe esser fornita la perfetta educazione. Perciocchè in quelle semplicissime parole de' precetti della cristiana Carità non è solamente assegnato il fine di tutte le cognizioni, il quale ordina le stesse cognizioni; ma ben anche è richiesto, che quest' ordine morale che ricevono le cognizioni tutte dal supremo fine a cui è necessario che vengono indirizzate, penetri tutto intiero l' uomo; giacchè in quelle parole non s' ingiunge solo di conoscere, nè solo di amare, ma di operare altresì: perchè con tutto il cuore , con tutta l' anima , e con tutte le forze , cioè con tutto l' uomo, e con tutta la vita sua (2) si vuole onorato ed amato Iddio. Da quanto è fin qui detto apparisce in che differisca principalmente lo spirito della educazione antica, il quale veniva dagli ecclesiastici e però procedeva da' sensi della Religione cristiana, dallo spirito della educazione moderna il quale in gran parte trasse dai novatori non solo laici ma irreligiosi. Lo spirito della educazione antica tendeva all' unità degli oggetti, perchè tutto riduceva, come a un solo fine e principio, a Dio: lo spirito della educazione moderna all' opposto tende alla moltiplicità degli oggetti, perchè considerando le cose naturali e sensibili senza riferirle alla loro cagione primitiva, esse si disgregano e spargono fra di loro; e l' essere disordinate è ciò che le moltiplica (1). Lo spirito è semplice e riduce tutte le cose che si considerano in ordine a lui ad unità: la materia è composta, e considerata sola è subbietto di divisione. Nè io sono qui per contendere a cotestoro quel vanto, che fatto da uno di essi, esprime l' intendimento di tutti, cioè che il loro spirito attendendo alle cose materiali, e a queste attaccando l' affetto loro, promuove l' uso di queste cose per il bene della presente vita (2). Pur troppo i figliuoli di questo secolo sono nella generazione loro più prudenti, cioè più sagaci nel ritrovare que' mezzi che possono essere a' loro scopi opportuni, di quello che sieno i figliuoli della luce (3); ma sgraziatamente non vale la loro sagacità, poichè con nessuna sagacità o prudenza si può rinvenire quello che non è nella natura: con nessuna sagacità o prudenza si può rinvenire nelle cose sensibili appagamento. Indarno dunque le passioni più violente diventano ministre di un accorgimento diabolico: indarno il figliuolo delle tenebre schernisce la freddezza, l' inerzia, e il poco spirito dell' uomo fedele al Signore: quegli va finalmente a perdere e questi a vincere: è la bontà stessa della causa che dà a questo secondo un compiuto trionfo, e che dimostra che le forze umane non valgono a mutare la verità o la natura delle cose, e che tutto l' avvedimento, tutta la possibile attività, giunga pur anco al furore, finalmente svanisce, se l' uom non venga aiutato dalla natura della cosa che imprende, cioè da una forza fuori di lui (1). Laonde non ci farà nessuno inganno alla mente il celere promuovimento avvenuto nei tempi recenti di tutte le arti ed industrie meccaniche o materiali, che riguardano gli usi della presente vita. Poichè mentre da una parte mi si dimostrano accresciute quelle cose, dall' altra mi si fanno innanzi gli uomini più irrequieti e infelici (2). Ma omesso ancora questo, ciò che forse mi sarebbe facile di dimostrare fino all' evidenza, non mi sembra in vero spregevole dimanda per l' amico degli uomini quella, se sia più utile sapere molte cose separate, e le une dalle altre sconnesse, ovvero se più giovi saperne meno, ma collegate a perfetto ordine: o, il che torna a un medesimo, se si debbano prezzare più le cognizioni dal loro numero, ovvero dalla scelta e qualità loro (1): e credo che qualunque assennato non dubiterà che il valore della scienza per l' umana felicità sia riposto maggiormente nell' essere cognizioni compiute ed elette, che nell' essere molte. Ciò non ostante concediamo che per quel limite che ha ricevuto dalla propria natura il nostro spirito, quanto più attende ad una cosa, tanto sia minore ad un' altra: concediamo perciò che quegli il quale attenderà maggiormente a porre l' ordine nelle cognizioni sarà più tardo ad accrescerne il numero, e viceversa, chi studia la moltiplicità delle medesime più difficilmente conseguirà l' ordine. Di questo si spiegherà come lo spirito moderno abbia potuto accrescere le arti che risguardano l' universo materiale nel tempo che ha distrutte, imbarbarite, e confuse le scienze che riguardano l' universo spirituale, la Filosofia e la Teologia, lo studio dell' Uomo e di Dio. Nelle quali scienze anche quel poco che ha studiato fu un guasto, perchè v' introdusse dottrine materialistiche, incapaci di levarsi ai concetti dello spirito: e volle portare anche in esse quella divisione del lavoro che frutta mirabilmente in tutte le arti risguardanti la materia per la divisibile natura di questa, ma che è al tutto opposta alle scienze degli spiriti, la cui natura consiste nella semplicità e nella indivisibilità. Tuttavia potrei ancora mostrare, che i maggiori avanzamenti di quest' arti meccaniche non sono già dovuti a coloro che si vanno nella strada opposta alla Religione (1), e potrei mostrare che senza le scienze dello spirito con brevissimo ripiegamento gli uomini verrebbero a struggere quell' arti medesime, di cui si vantano autori per non so quale contrasto delle medesime arti e degli stessi uomini troppo insopportabili a se medesimi. Ma mi contenterò più tosto osservar solamente come lo spirito della pietà, il quale primieramente ingiunge ordine alle cognizioni ponendo il principio di quest' ordine in Dio, viene ben presto a commendarne la moltiplicità, o sia ad eccitare ancora i variati studi delle arti materiali, dando all' uomo per istimolo acutissimo a tali industrie la vicendevole Carità. Ed è solo il difetto nella prima natura umana, se non luce ovunque di questa dolcissima carità tutta la potenza. Ma dove la considereremo in generale com' essa è diffusa ne' membri del regno di Dio, troveremo che non si dà passione alcuna la quale possa essere più veemente, forte, vasta, inflessibile di questa, e che più nella umanità abbia posto di vita e di energia (2). Il perchè se l' uomo da se stesso è così scarso di naturale vigore che espandendolo dirò così in estensione, gli manca poscia da profondare, e ponendosi in molte cose umane è tenuto indietro dallo studio di quell' ordine che a quelle ne viene coll' introdurvi la divinità: supplì a questo la stessa bontà divina, accrescendo con questa novissima e potentissima passione della carità le forze umane, e per essa creando nell' uomo un altro uomo maggiore del primo. E di nuovo, se la Religione incoraggia tutte le scienze e le arti, anche quelle ch' hanno per iscopo gli onesti godimenti di questa terra, non è però ch' ella abbandoni giammai l' unico principio a cui le richiama, e col quale quasi con timone tutte insieme ad un solo termine le governa. Il perchè questa ampiezza e moltitudine di cognizioni dalla Religione promossa e voluta, non si ferma a ragunarle insieme schierandole, quasi direi, l' una appresso l' altra materialmente, e nè pure s' appaga solo di raggiunger ciascuna con quella prima scienza della pietà. Ma lo stesso spirito di ordine e di deduzione dallo spirito della nostra Religione s' insinua e s' innoltra anche nelle scienze inferiori fra di loro, ed insieme le collega e raggiunge quant' è più possibile strettamente; sicchè la vera e cristiana idea di una enciclopedia, se con questo greco nome si voglia chiamato il corso di tutte le cognizioni umane, non sarebbe già limitata ad un semplice rammassamento di esse cognizioni in forma di vocabolario; ma ad una distribuzione e colleganza fra esse, secondo i loro naturali e legittimi vincoli. Questo stesso regolamento ed intrecciamento è desiderato in quella dirò così minore enciclopedia che formar debbe la scienza peculiare di alcun uomo venuto a compita educazione, il disegno della quale conviene all' educatore di avere innanzi agli occhi fino a principio come al dipintore i cartoni del quadro. Si può dire esser questo troppo arduo alla maggior parte degli educatori. Ed io concedo che i più fanno l' opera loro in parti, e senza disegno fisso danno, per così dire, de' tratti e delle pennellate e conducono quasi a caso il lavoro. Ma di qui appunto la principale imperfezione in cui si tiene ancora l' arte dell' educare. E non vedo che possa essere sperato di più se non da rarissimi e mirabili precettori, quando a dilineare il disegno di una tale educazione non concorra l' opera di molti, ed il senno e la mano di chi è incaricato dalla Provvidenza a procacciare il bene della cristiana società. Può essere messo in questione, come fu messo per molti, se l' educazione pubblica si debba anteporre alla privata, o la privata alla pubblica. Tutte due hanno loro vantaggi particolari, nè può l' una all' altra comunicarli. Secondo mio parere queste due dovrebbero cospirare in uno medesimo, non parendomi sufficiente l' una o l' altra sola all' educazione umana nella sua perfezione considerata. Ciascun uomo ha qualche cosa di comune con tutti gli altri uomini, cioè la natura e i fini a cui è destinata questa natura: ha delle altre cose comuni co' suoi connazionali, cioè il carattere nazionale, e i negozii della nazione: ha qualche cosa di comune co' membri della propria famiglia, cioè la schiatta, e dalla schiatta molti nativi impulsi, eredità di tradizioni, e tutto lo stato suo, e gl' interessi della casa. Finalmente qualunque uomo ha qualche cosa di segregato e di proprio, il temperamento, il genio, il fine dell' individuo. Queste quattro qualità e disposizioni dell' uomo hanno dato per mio avviso origine a quattro sistemi di educazione: a cui si possono ridurre tutti gli altri, perchè tutti convengono colle loro intenzioni e scopi nell' uno o nell' altro di que' primi quattro, o medesimamente in più d' uno di quelli. E tali quattro sistemi partiti secondo la parte dell' uomo alla coltura della quale direttamente si rivolgono, sono i seguenti. Alcuni posero per ottima certa educazione che essi chiamarono cosmopolitica , la quale mette per base l' uomo cittadino di tutto il mondo: bella sentenza, se, divisa da tutte l' altre verità, non contenesse l' annullamento di tutti i vincoli naturali colla nazione, colla famiglia, con se stesso; e in questo errore parmi piegare una setta di filosofi nella Germania. Altri furono colpiti vivamente dalla bellezza dell' amor di una patria: ma volendo che questo solo amore fosse coltivato, e facendo sacrificio a questo sì lusinghevole amore d' ogni altro rispetto, perdettero l' uomo quanto a' suoi tre altri legami coll' umanità, colla famiglia, con se medesimo. Questi celebrarono come sola buona una educazione pubblica e nazionale: e a questo error si conduce il difetto delle educazioni de' popoli antichi, principalmente de' Lacedemoni e de' Romani, meno quello di questi che di quelli, perchè più vasta aveano la patria: e a questo vizio medesimo caddero i repubblicani moderni male avveduti imitatori degli antichi, ciechi seguitatori di ciechi. E Danton che nel 1793 diceva « « egli è il tempo di ristabilire questo gran principio, che i fanciulli appartengono alla repubblica avanti di appartenere ai lor genitori » » non solo violava tutte le leggi della natura, ma introduceva la pubblica schiavitù, e dava l' imagine di una società che lungi dal proteggere i diritti della famiglia e dell' individuo, distruggeva quella, opera della natura, coll' impotente arbitrio di una legge umana, e metteva questo ne' ferri, vile istrumento, e più impotente ancora a ottener cosa stabile, sufficiente però a tormentar uomini in nome della società, giusta il capriccio di quelli che casualmente più in essa potessero. Ma vi furono poi alcuni cui lusingò l' aspetto della familiare felicità, e pensarono che dove avessero allevati i giovani buoni massai, e tutti occupati nell' ingrandimento della propria casa, avrebbero toccato l' apice del perfetto educare. Ma quanto è utile cosa la cura domestica, altrettanto è difettoso se il padre di famiglia ignora d' essere fratello a tutti gli altri uomini, di avere interessi comuni col popolo dov' egli vive, e di dovere alcuna cosa a se stesso o anzi in se stesso alla umana dignità. E questa mancanza cominciò ad apparire principalmente quando furono cominciati ad introdursi i feudi, e a moltiplicarsi le case ove fosse parte della suprema autorità: e da questo guasto si vogliono guardare più sottilmente le nazioni governate da una sola famiglia. Finalmente non mancarono di quelli che senza veruno rispetto nè al genere umano, nè alla patria, nè al sangue hanno confinata ogni educazione nell' egoismo, e di questo peccato sono lordi, chi ben li considera, i predicatori della illimitata Libertà ed Uguaglianza, cioè de' predicati diritti dell' individuo verso alla società: e la menzogna di costoro toccando gli estremi, nel mentre che affettano universale amore, sciolgono non solo il legame che lega ciascuno con tutta la comunanza degli uomini, o quello che il sottopone all' autorità della nazione, ma il dolce vincolo ancora che il piega sotto la signoria del genitore, da cui ebbe attinto la cara esistenza. Ed allo stesso balzo rovina ognuno che pose la perfezione dell' umana vita in passeggera voluttà: e fra questi sì Epicuro che Aristippo, sì il salvatico Rousseau che il molle Elvezio: i quali per due opposte vie cozzano e s' infrangono allo scoglio stesso; chè, come suona il proverbio, gli estremi vanno a toccarsi. La Religione cristiana all' opposto, perfetta, ed acconcia a tutta l' umana natura, perchè venuta dall' autore stesso della natura, non dimette nessuna di quelle quattro quasi parti dell' uomo senza il suo proprio e proporzionato coltivamento. Essa nel tempo che intima all' uman genere una legge comune e cattolica, viene dando i suoi particolari insegnamenti al cuore del cittadino, a quello del padre di famiglia, e santificando l' amore di se stesso nol lascia solo e tirannico, ma il conduce a bella fratellanza e concordia cogli altri amori. Su questa sapienza può solo venire perfezionandosi l' arte della umana educazione. Ed ella sarà perfetta, quando digerita in quattro parti (delle quali nessuna venga intralasciata per cieco partito ed esclusivo amore all' una od all' altra di esse), la prima di queste quattro parti sia accomunata a tutto l' uman genere, perchè rivolta ad educare la qualità agli uomini tutti comune: la seconda a perfezionamento e non a distruzione della prima, appaia comune e pubblica della nazione: la terza che è quasi fabbrica rialzata sulle due prime e aggiustata a quelle, formi l' educazione particolare della famiglia; e l' ultima finalmente, che è come gli ornamenti ed i finimenti dell' edificio, e che non potrà dare quasi altri che ciascun uomo a se medesimo, sia quella che renda il maraviglioso lavoro formato sul crescente uomo, simigliante a quell' opera limata di perfetto artefice che può oggimai uscire dall' officina, ed essere posta nel decoroso luogo per cui era stata con tanta industria fusa o scolpita. E ben vedo quanto stiamo lontani dalla perfezione di questo desiderio. Restringendo perciò l' animo nostro a quello che concedono i tempi, si possono quelle quattro parti della completa educazione adunare in due, cioè nella nazionale o pubblica, la quale tenga in sè le due prime, e nella famigliare o privata, che unisca le due seconde. La privata in vero, per quanto è detto, non può nè debbe essere uniforme; e a buon diritto essa vuole aggiustarsi alle circostanze della casa, dell' allievo, ed eziandio del precettore. Poichè io credo esser una trista e irragionevole pretensione quella che gli uomini tutti debbano uscire d' una medesima stampa; ma a cui pur tanto inclinano certi scrittori, e certi Ministri sistematici, nei quali sembra quasi fissa tale opinione, che s' informino gli uomini colle pretelle. E così parimenti nessuno troverà assurdo che v' abbiano diversi ed ottimi precettori, e che ognuno posseda un suo proprio metodo ottimo relativamente a lui che l' adopera. Al quale se tu fai pigliare un metodo non suo, ancorchè in se stesso migliore, non trovi più il metodo ottimo, cessando d' essere tale ove sia usato da quello alla natura ed all' indole del quale esso non è accomodato. Laonde l' educazione famigliare può bensì avere alcuni lineamenti simili, tolti, come abbiamo detto più sopra, da quel primo disegno che ne ha posto l' educazione pubblica, ma non può essere uguale ed uniforme nel compimento privato di quel disegno: allo stesso modo come più quadri disegnati dalla medesima mano, se vengono coloriti da mani diverse, danno sugli stessi contorni molte accidentali varietà. L' educatore privato adunque dovrà bene imbersi dello spirito della educazione pubblica, e quella non distruggere, ma sopra quella edificare con metodi però che sieno i migliori nella sua mano, e i migliori a' bisogni e alla destinazione del suo allievo. Da questo apparisce come la perfetta educazione privata (parlando in genere, cioè del comune delle famiglie) suppone già la perfezion della pubblica, e che mirabile vantaggio e beneficio dieno que' pastori dei popoli alla privata educazione, i quali regolano sapientemente la pubblica, ch' è come l' atrio di tutta intera l' educazione. E ciò tanto è più possibile e da noi sperabile, quanto che questa educazione pubblica può e debbe essere uniforme e con leggi generali stabilita. Ma se cerchiamo da quale difetto si debbe maggiormente guardare la educazione pubblica, non dubito dire ch' egli sia dallo spirito individuale. Lo spirito individuale di necessità deforma e costringe quella educazione che, dovendo essere pubblica, cioè adattata a tutti i sudditi di un principe o membri di una nazione, debbe altresì prescindere da tutto quello ch' è individuale. Il particolare uomo è quasi sempre parziale e incompleto ne' suoi avvisi; egli si è formato un modo peculiare di sentire e di pensare, nè forse veruno si schiva da porre più o meno ne' giudizi qualche cosa del suo, oltre il vero. Laonde non è ragionevole nè umano il persuadersi, che dai giudizi di un solo uomo possa dipendere talora l' educazione d' innumerevoli, e sulla forma accidentale di un solo spirito sieno informati innumerevoli altri spiriti, i quali da natura tengono varietà d' inclinazioni e di doti. E non è questa, generalmente parlando, la ragione per cui tanto si pena a trovare dei buoni testi scolastici che servano a' maestri non meno che a' discepoli per guida delle lezioni? E` egli per amore soverchio di risparmio questa scarsezza de' buoni testi? Non già; mentre con tanta magnificenza sono universalmente nutriti gli studi ne' nostri tempi. E` per mala intenzione de' reggitori? Di ciò non può cadere sospetto nel più disgraziato mortale. Tal difetto è solo, io mi credo, cagionato dall' essere que' testi, nella più parte, opera di qualche persona peculiare, non di molte. Oltre vedere in essi l' impronta del carattere particolare sempre ristretto e scomodo a' più, perchè in contradizione col maggior numero degli umani caratteri, non sarà maraviglia, anzi necessità, che coteste opere formate per la gioventù riescano se vuoi diligentissime sì nella esecuzione, ma povere incredibilmente e streme nel concetto generale e nella stessa sostanza dell' opera. Poichè chi conosce a pieno il modo onde quegli che ha la cura generale di tali cose può scegliere alcun uomo particolare alla composizione d' un testo, vede quant' egli venga in pericolo d' ingannarsi, mentre non potrebbe mai ingannarsi eleggendone molti. Senza noverare tutte le circostanze a cui pende la destinazione di una persona alla composizione d' un simile libro, io mi rimetto alla buona fede di quelli che avvisano la cosa nel fatto; e sono certo che quelli mi confesseranno come, tutto ciò venendo dalle più prossime informazioni e dalla pratica accidentale che una persona più tosto che un' altra tiene con chi nella cosa influisce, la scelta può e debb' essere apposta non al migliore per lo scopo, ma a colui che per gli accidenti migliore apparisce. Laddove scegliendo tal corpo di persone alle quali facciano testimonianza solenne, non già private informazioni di singoli eziandio che di persone poste in dignità, ma le voci di tutta la nazione e le opere loro onde inchiarirono, è cosa impossibile che sul tutto di questo corpo cada l' errore. Sono alcuni che ci oppongono non essere poi necessario a formare una grammatica, od anzi qualunque libro scolastico, ingegno profondo e vasta dottrina. Anzi queste doti essere nocevoli, perchè chi le ha non si suole inclinare ai bisogni dei fanciulli: essere più adattato al componimento d' un libro per la gioventù un ingegno mediocre, più giudizioso che penetrante, più paziente che dotto, più perito nella pratica della pedagogia, che nella teorica: per mancanza appunto di queste qualità patirsi generalmente difetto di testi scolastici facili e acconci alla debilezza dell' intelletto fanciullesco. Io non esaminerò le cagioni di questo universale difetto di testi scolastici e d' altri libri elementari, dei quali nessuna nazione io credo che si possa dir molto ricca, se pur i libri elementari non si contino, ma si pesino. Risponderò più tosto, all' obbiezione proposta, con più ragioni. E primieramente sembrami dover notare un errore dannosissimo e reso al nostro tempo quasi universale, che il più gran pregio di un libro o di un metodo sia la facilità colla quale presenta le dottrine. Questo errore, confesso, è molto seducente; specialmente a uomini di costumi rammolliti ed insofferenti di una seria applicazione. La facilità colla quale si presenta una dottrina sembra altrettanta luce sparsa sulla medesima. E mediante un insegnamento tutto scorrevole e facile avviene che agli uomini, non parlo solo dei giovanetti, sembri di venir diportandosi nel gran campo del sapere senza trovar ai lor passi ostacolo alcuno, e misurandone coll' animo tutta l' ampiezza, anche prenderne la possessione. Perciò una facilità sì fatta lusinga l' amor proprio: conciossiachè occulta tutte le difficoltà e i nodi della dottrina, tanto importuni e molesti a chi ha grande presunzione di se stesso: un sì dolce oblìo, di tutto ciò che può arrestare il volo del pensiero e far dubitare delle proprie forze intellettuali, è pure un caro servigio; simile a quello che rende il vino all' infelice, assopendolo in profonda dimenticanza su tutti i suoi mali, almeno fino alla veglia importuna. Sì soave diletto, sì beata tranquillità letteraria, che certi sapienti si procacciano coll' evitare diligentemente tutte le difficoltà che inquietar li potessero, apportando incertezza sull' opinione della propria penetrazione non usa ad urtare in qualche villana durezza, armoneggia eccellentemente collo spirito di un secolo, in cui si teme tanto di esser turbato, di esser eccitato da quel letargo morale, onde si preferisce l' indifferenza alla verità, e l' epicureismo alla virtù. Tutto si lega; e l' universo morale ha le sue leggi generali quanto il fisico: quella dei nostri costumi sarebbe la legge della facilità, per la quale si rigetta ad un tempo la virtù, perchè non tanto facile quanto si vorrebbe a praticare, e la sapienza perchè non tanto facile quanto si vorrebbe a comprendere. Povera umanità! inorridisce, [...OMISSIS...] al pensiero di ciò, che i nostri rozzi antenati chiamavano col nome di virtù e di sapienza: ma ella si compone appositamente una virtù facile ed una sapienza scorrevole! Quando si ricerca con tanta delicatezza ne' testi scolastici la facilità , che adunque si fa se non un' applicazione dello spirito generale del secolo in cui viviamo? Per altro non cerco di oscurare la questione; anzi di chiarirla. Concedo dunque che la facilità sia un pregio desiderabilissimo, ove ella consista nella espressione, e nella chiarezza assoluta de' pensieri. Ma ciò ch' io avverto si è, che si confonde questa specie di facilità con un' altra che consiste, come dicevo, nell' escludere delle parti rilevanti di verità, come quelle che sembrano troppo gravi, e inducenti a seria meditazione, e nell' evitare tutto ciò che può produrre un picciolo ostacolo, qualche cosa d' insolito e di misterioso, innanzi a cui la mente umana sia costretta di umiliarsi e di deporre la presunzione, o pure di affaticare, e di vincere la rilassatezza, e con ciò conoscere che v' hanno al mondo delle cose delle quali non si può giudicare se non dopo uno studio lento e faticoso. Nè voglio per questo che si aggravino più del necessario le menti de' fanciulli; ma sì, che per soverchia delicatezza e amore di questa seconda specie di facilità, non si privino della verità solida e necessaria. Vi sono delle cose le quali sembra che nulla abbiano di profondo e che la loro natura sia per così dire di essere superficiali: tali sono le cose esterne e materiali, le quali col primo sguardo della mente tutte si assorbono e si comprendono: e perciò lo studio di queste si può fare con celerità dilettevole, giacchè una mente felice in breve tempo ne trascorre molte, e tutte bene le comprende, e le ripone qual ricco tesoro. Tutt' altro è il procedere del pensiero nelle verità morali, perciocchè la natura di queste ha una certa profondità inesauribile che col primo sguardo non si attinge: di che è necessario insistere a lungo sopra ciascuna: e quanto più vi s' insiste e vi si penetra, tanto più vi si sentono e scuoprono cose che da prima non s' erano scorte nè sospettate, e così con lento grado si va ad intendere la natura intima di tali verità, la quale non è mai tanto investigata che non tenga ancora al suo fondo alcun che di secreto e di misterioso, che alla mente meditatrice incute riverenza e virtuosa curiosità. Ma una tale lentezza di meditare è aborrita dall' uomo presuntuoso e dal materiale; perciocchè il primo è costretto di raffrenare i suoi troppo confidenti pensieri; e al secondo, sparso nella superficialità della materia, sembra anzi un gioco d' imaginazione che vera realtà quell' universo morale, la cui natura è tutta interiore, e tanto più reale quanto più occulta ai sensi e manifesta allo spirito. Egli è perciò che tutti i sofisti degli ultimi tempi tanto si affaticarono d' impoverire e distruggere la metafisica, col pretesto ch' ella è composta di questioni troppo difficili, anzi giudicate da essi insolubili, e più ancora (giudicando di ciò che confessano non conoscere) inutili. Sollevarono dunque gli uomini da un' improba fatica? Non fecero che raddoppiarne loro il carico: giacchè non potendo questi prescindere da quelle questioni, col far loro dimenticare tutto ciò che ne avevano meditato le generazioni precedenti, gli obbligarono a tornare a capo col gran lavoro, e ricominciare lo studio dagli elementi. Questo spirito di superficialità col pretesto di facilità fu introdotto pur troppo nelle scuole: che furono ridotte ad occuparsi quasi interamente di oggetti materiali e a sorvolare sulle cose morali colla stessa leggerezza, onde si può fare con quelle. E non è a dire quanto tale superficialità sia nociuta alla Religione; e sembra assai probabile che il popolo cristiano del secolo illuminato, se udisse recitare dal pergamo un' omelia di Agostino o di Cipriano, dimanderebbe: Che argomento tratta o che religione insegna quest' oratore? Il principio adunque della facilità, in questo senso intesa, non può esser quello che regola la formazione de' testi scolastici; poichè volendo secondo questo principio tor via tutto ciò che torna oscuro alla mente del giovanetto, bisognerebbe torre tutto ciò che ha relazione colla dottrina della religione ed anche colla dottrina morale: poichè tutto ciò è difficile necessariamente, ed ha in sè dell' oscurità non solo per un giovanetto, ma per un adulto ancora e per un sapiente. Dio non ha educato il genere umano al sublime suo fine col tor via dalle sue istruzioni tutto che fosse difficile, oscuro, e misterioso, anzi col comunicargli tutto ciò, perchè fosse perpetua ed inesausta materia di sua meditazione. Non pensò Gesù, quando ammaestrava i suoi uditori, a rimuovere da' suoi discorsi quel difficile che consisteva nel sublime della verità, anzi tutti i suoi discorsi quanto semplici nella espressione, tanto li disse sublimi e profondi nella materia; perciocchè se l' uomo nello studio delle cose fisiche va dai particolari a' generali, nello studio all' incontro delle cose morali e metafisiche viene dai generali a' particolari: si sviluppano queste dottrine nella sua mente, come si sviluppa dal suo picciolo germe la pianta, la quale tutta intiera, benchè raggruppata e ravvolta, in quello si conteneva. Si spandano adunque negli animi e nelle menti de' fanciulli delle grandi verità, eziandio che tosto non le comprendano, perciocchè sono come sementi, che si sviluppano nel corso di loro vita; sono verità, che quantunque oscure diventano poi feconde madri di luce; che si fanno alimento alla intelligenza per la stessa loro oscurità, la quale viene cangiandosi in luce più pura, quanto più a lungo sono state soggetto di meditazione. Or poi, premesse queste cose sul principio della facilità, io tengo come cosa chiara ed aperta, che dovendosi fare scelta d' alcuna persona, a cui commettere la composizione di qualche libro scolastico, non si debba tenere ad unica regola la vicinanza di questa persona alla mente ed all' indole de' fanciulli. Che se così fosse, il miglior compositore de' libri de' fanciulli sarebbe un fanciullo. Se dunque non basta questa qualità di sapere impicciolirsi alle menti fanciullesche, è da vedere che cosa si richieda sopra ciò a formare un buon libro per i fanciulli. Ora io dico che a questo conviene bensì l' impicciolirsi, ma che dopo ciò debba essere tanto più acconcio compositore quell' uomo che è più grande. Imperciocchè da prima i piccioli uomini sono i più pregni di pregiudizi, e stanno fissi a certe loro abitudini e foggie di pensare loro proprie e quasi ammanierate: per cui quanto l' uomo sarà più ristretto nel suo pensare, tanto più rovineremo in quello sconcio che di sopra fu tocco, di voler conformare uomini da natura variatissimi non alla foggia che più loro conviene, o per dir meglio a quella quasi larga e vantaggiata forma del vero, ma tutti ad un misero e rannicchiato modello, arbitrario ed accidentale. Di poi non si creda così legger cosa possedere le chiavi del cuore umano, il quale è precipuamente da allevare nella gioventù, ed al quale tutti gl' ingegni dell' educazione sono da volgere: poichè quantunque nei fanciulli questo cuore sia tenero e semplice, è tuttavia cuore umano, e tiene i germi di tutte le umane inclinazioni, ed ha le sue molteplici pieghe e sinuosità, ed aditi riposti, e viste variatissime; e dentro alle regioni di simil cuore non può mettersi sicuramente se non quell' uomo, il quale sappia di molto filosofare, ed abbia di molto osservato sopra se stesso e altrui, e colla perspicacità della mente rilevate le molle delle nostre operazioni. Dal che quanto si trovi star lungi un mediocre uomo, ancorchè molto presumente di se stesso, o molto bene altrui veduto per dolcezza di parole e di atti, si fa manifesto da quelle sottili osservazioni fatte sulla gioventù da uomini sagacissimi, le quali quanto utili e necessarie, appariscono altrettanto lontane dalla mediocrità degl' ingegni. Ma che a comporre un libro da usare in tutte le scuole di uno Stato si esigano molti lumi e consumato senno, oltre le ragioni dette, si prova anche dalla natura di tutti i compendii o breviarii delle scienze. Poichè quegli che intende ben addentro che cosa si richieda a dettare un ottimo compendio di scienza, confessa che questo appare bensì cosa breve nella mole e leggiera nella semplicità dello stile, ma che suppone studio assai profondo della scienza stessa: dalla quale bisogna spremere il puro succo, e cogliere, quasi direi, ciò che ha di più spirituale; e perciò è necessario conoscerla molto, e saperla rivolgere, e maneggiare, e atteggiare da tutti i lati, come cosa in tutto propria. E questo sentimento comune a' veraci dotti è però tale, cui non s' arriva a capire giammai dai ristretti uomini di cui parliamo, i quali si tengono gran maestri di compendii, e sorridono di chi ci trova tai nodi. Ma la ragione principale della necessità di molto senno nella composizione dei libri scolastici non fu ancora da me toccata. Tale necessità consegue naturalmente al sistema cristiano della educazione di sopra esposto: quando la leggerezza e la facilità nel proporre libri per la gioventù è conseguente al sistema contrario. Questo sistema, mi si lasci dire, falso filosofico, oltre trascorrere su tutte le cose con grande agilità per la naturale presunzione che alleggerisce le menti, considera tutti gli oggetti della educazione squarciati e smembrati, e senza la naturale soggezione dell' uno all' altro: il sistema cristiano all' opposto li vuol collegati ed uniti. Perciò il primo toglie la dignità sua a ciascuno di quegli oggetti, e, staccandoli dal suo gran tutto, li presenta come cosa da poco e di facile riuscimento. Il sistema cristiano all' incontro, volendo che ciascun oggetto appaia membro del gran corpo di cognizioni a cui appartiene, suggerisce ai pastori dei popoli di far lavorare anche qualunque picciolo membro di questo corpo scientifico da tali e tante persone che sieno atte ad avere sempre presente il tutto, e sappiano perfezionare ogni parte sopra un disegno generale. Ed allorchè qualunque membro, ancorchè per se stesso picciolo, si considera in questo raggiungimento col suo tutto, egli acquista una cotale grandezza e dignità, a cui non rifugge certo di piegarsi anche l' uomo sommo e dottissimo. Ma senza questo incitamento, come pretendere che le grandi menti s' abbassino agli studi giovanili? E con che profitto si daranno a ciò? E con che speranza? Nè gli studi privati di un sapiente otterrebbero, come ho notato, di supplire al bisogno di una nazione, nè la concordia di molti sapienti a questo fine è possibile senza che quegli, a cui spetta la direzione de' pubblici studi, li chiami e raguni insieme. E di vero se un sapiente lavorasse da se stesso, e non chiamato, al bene della pubblica educazione, nè avrebbe ove raggiungere il suo lavoro al sistema generale, nè saprebbe aspettarsi alcun frutto dalle sue fatiche, o frutto lievissimo (1). Ma formato il collegio di quelli che la voce di tutta la nazione proclama dotti insieme e pii, come potrebb' essere che questo collegio non si ponesse con tutte le forze a corrispondere all' onorata sua destinazione? Non è proprio de' grandi, il concedo, seguire le cose picciole: ma la formazione de' testi scolastici non sarebbe più cosa picciola, quando tutti i testi insieme formassero questo gran tutto che ragioniamo, e quando la fatica avesse a scopo non il privato e momentaneo giovamento, ma il giovamento dello Stato, dal quale ogni cuore virtuoso è toccato, e più è toccato quello de' grandi. E se la pubblica munificenza sparge tesori nella educazione, quale ricchezza più utilmente sparsa che in rimunerare questi dotti insieme adunati alla formazione del piano della educazione nazionale, e dei testi ad essa necessari? Poichè l' aspettazione di un largo e giusto premio alle loro fatiche, sarebbe anch' essa non picciolo eccitamento ad addurre la mente di questi savi alla nobile occupazione: specialmente se il premio fosse grande sì, ma commensurato meno al tempo speso, che all' opera conseguita. Chè molta forza anche sopra l' animo degli uomini dotti ha quel lucro onorato che accresce loro i mezzi e gli agi o della vita, o degli studi. La quale spesa tanto meno dovrebbe rincrescere quant' essa non è continua, anzi cotale che fatta una volta consegue un' opera lodevolissima, e durevole. La quale ancora toglie molti altri dispendii, non gravi a dir vero, ma pel loro numero e per la loro continuità più dannosi a mio credere alla economia, fatte le ragioni compiute. Poichè, donde nasce il bisogno di mutare con frequenza libri, e regolamenti nelle scuole, se non dal concedere troppo agli arbitrii di questa e di quella persona, e però dall' esser le cose abbandonate a' modi di vedere particolari, i quali variano in infinito, e non regolate su quello permanente della comune verità? Nè solo ciò debbe avvenire quando, per avventura, si stia troppo aderenti al voto della persona incaricata di questi affari, che per quanto sia rispettabile è sempre una; ma ben ancora per quel difetto così solito fra gli uomini, che corrono a moltiplicare le disposizioni all' intervenire de' casi particolari senza calcolare l' effetto generale delle medesime, e ciò in dipendenza o dall' essere accaduto forse un solo accidente, e perciò dalla possibilità e non dalla probabilità che si rinnovi; o dalle relazioni degl' inferiori. E oltre essere nobile, utile, dignitoso e per avventura anche economico, questo collegio di uomini che la voce pubblica ha segnati per veri dotti, congiungerebbe un politico vantaggio notabilissimo. Per esso collegio verrebbero i membri che lo compongono interessati con accorgimento e raggiunti alle cose pubbliche, e riceverebbero una buona direzione a comune vantaggio i loro ingegni; perciocchè quando in quest' opera fossero impegnati, col bene di questa fisserebbero le loro idee, altramente vaghe, e talora nocevoli. E quantunque finita la ricevuta incombenza dovessero cessare a questo collegio gli emolumenti, tuttavia potrebbe rimanere una consulta o collegio onorario, il quale si udisse nelle innovazioni che fosser proposte a miglioramento; fissando a' particolari consulti certo premio particolare. Data la formazione di questo piano generale delle scuole, l' occupazione de' naturali officiali dello Stato si ridurrebbe a provvederne l' esecuzione; al che sono acconci i particolari, conciossiachè non si tratta che d' eseguire ciò che fu dai molti concepito. Ma la dignità dell' opera, l' ampio bene da questa aspettato, l' onore e il lucro promesso a questi dotti, non sono i soli eccitamenti onde le grandi menti s' impegnano a pensare a' fanciulli; nel che, impegnate che fossero, riuscirebbero maravigliosamente nell' appareggiarsi a loro, non al modo di quelli che s' abbassano perchè non sanno elevarsi, ma di quelli che s' abbassano per condurre od avvicinare i minori alla propria altezza. La Religione nostra ha un modo di far chinare i sommi uomini a tutte misure, nuovo e suo particolare. Questo inchinamento luce nel fondatore della Religione, il quale essendo veracemente grande, mostrò di fare sue delizie i fanciulletti, e ne lo ingiunse a tutti i discepoli suoi. [...OMISSIS...] Non andò egli in cerca di quell' abbassamento naturale e a dir vero ignobile delle menti mediocri e ristrette; ma egli precettò l' abbassamento nobilissimo, cioè l' abbassamento volontario comune al grande e al picciolo, poichè comune a coloro che hanno carità. Amore è quello che c' impicciolisce utilmente alla misura de' giovanetti, non già nativa imperfezione e imperizia. E qui appare nuova luce, e mirabile, uscir fuori dallo spirito della cristiana Religione. Nel collegio adunque di questi dotti regni questo spirito: vi regni solo ed intero: senza di ciò il piano non sarà mai perfettamente acconcio a' bisogni degli uomini; e più o meno converrà alle loro necessità, secondo che più o meno vi regnerà: nè questo spirito del cristianesimo, che è quello dell' unica vera grandezza, vi potrà tenere intero dominio, se il carico delle elezioni si dia a sole persone secolari, il più delle quali professano il cristianesimo senza averne il pieno studio ed il finito intendimento, e perciò ne sfuggono le più vere conseguenze, e pongono così arbitrario limite nella pratica di esso, che converrebbe a istituzione prodotta dall' arbitrio umano, ma non a religione proclamata dalla parola divina. La proposta però di una dotta assemblea, a cui sia commessa la composizione de' testi per le pubbliche scuole, sarebbe vana se non vi s' aggiungesse una saggia organizzazione. Nella quale la cosa principale si è questa, che tale adunanza abbia un uomo sopra gli altri grande che la presieda e che ne diriga i lavori. Conciossiachè sì come un solo letterato non darà mai alle scuole pubbliche de' testi perfetti, così un' assemblea di letterati non li darà pure giammai, quando un solo dirigendola non dia alla medesima l' unità, e non sappia esserne dirò così l' anima che l' avviva. E veramente il progetto proposto richiede che tutti gli oggetti dell' istruzion giovanile dimostrino un bell' ordine, un legame fra loro, che insomma formino una perfetta unità. Ed a questo ottenere egli è necessario che v' abbia una mente sola che ne concepisca il generale disegno, e ne getti per così dire l' abbozzo. Tale piano debb' essere un' istantanea creazione d' ingegno sublime, d' ingegno che percipiendo e misurando d' un tratto tutti i rispetti, ne sente l' unica e indivisibile armonia che da tutti risponde, e la contempla col pensiero, e l' affissa, e la fura per così dire al secreto suo spirito, e la mette in parole. Così l' opera d' un grande artista se non è creata da un atto semplice della mente, non può attingere quella perfezione che sta in una unità indivisibile, in una unità che tutte le relazioni in sè aduna e comprende. Perciò indarno nell' opera di cui parlo si stancherebbero molti ingegni, se fra essi non ve n' avesse un solo potente, che tutta affissandola e ritraendola con una sola vasta intuizione dalla idea esemplare della sua mente, ne dimostrasse manifesto il modello, che divenisse regola e guida sicura a tutti gli altri che insieme con lui alla stessa impresa sono chiamati cooperatori. Allora dunque tale edificio può riuscire perfetto, quando una gran mente ne pone le basi immutabili e necessarie: ed un' assemblea sopra quelle unanimemente il lavora; quando il maggior numero dei voti di tale adunanza non prevale che sulle parti accessorie e sulla esecuzione dell' opera; e non sull' idea fondamentale, a cui solo qualche rarissimo può sollevarsi; ed è così semplice di sua natura che concepita che sia, il mutare è guastarla. Ma come ritrovare quest' uomo singolare, questo savio che gitti tal fondamento? Non è questo in potere de' governanti; conciossiachè la sola Provvidenza è quella che spedisce alle nazioni ne' momenti di sua clemenza uomini sì preziosi. Egli è perciò dovere di cercare mai sempre quest' uomo eminente fino a tanto che si rinvenga; perciocchè altramente si correrebbe rischio di peccare contro alla divina Provvidenza stessa, la quale potrebbe mandarlo, e per la negligenza degli uomini, egli rimanersi oscuro e disconosciuto; così quella li punirebbe colla privazione del gran bene che loro offeriva, e ch' essi verrebbero indirettamente a ricusare. Fino poi che questi non si ritrova egli è necessario mettere alla direzione della detta assemblea quegli che si reputa fra tutti il migliore, il quale potrà presentare una proposizione alla volta, cominciando dalle più generali, di quelle che servir debbano a direzione nel componimento dell' opera di cui parliamo. Così a ragione d' esempio, la prima proposizione o regola che questi presentar dovrebbe, sarebbe appunto quella che « tutti i testi delle scuole formassero insieme una perfetta unità, sicchè ciascuno riuscisse ad esser parte d' un opera medesima e l' uno congiunto coll' altro si dessero scambievolmente lume e giovamento, facilitando a vicenda l' apprendere al giovanetto ». La seconda proposizione o regola generale per la formazione dell' opera di cui parliamo potrebb' essere appunto quella della triplice unità; cioè dell' unità del fine, a cui tutti i testi debbono armoniosamente tendere, dell' unità del sistema o della catena che debbono mostrare le verità fra di loro, e dell' unità del metodo o delle diverse potenze che si debbono tutte istruire e proporzionatamente perfezionare nell' uomo. E così discusse queste generali proposizioni proseguir dovrebbe a discutere ordinatamente tutte le altre che servissero di direzione all' opera de' testi scolastici; collo stabilimento successivo delle quali regole s' otterrebbe di dare un regolar movimento all' opera a cui molti ingegni concordemente dovessero lavorare. Ma ora è da confessare che il privato istruttore non può avere una educazione pubblica così savia ed intera, come vorrebbe esser questa di cui ho messo innanzi un desiderio, sopra cui rilevare l' edificio della educazione privata; e non essendo posto tal fondamento da' legislatori, egli debbe per quanto è possibile venirlosi formando da se medesimo. Perciò egli non sembrerà al tutto inutile il toccare, come ordinar potrebbe questo lavoro, o quest' opera, dirò quasi, temporanea. E il concetto che n' esporrò, eziandio che imperfetto, sarà nondimeno foggiato sullo spirito di unità a cui conduce, parte con aperto e parte con insensibile impulso, la Religione nostra, che tiene sempre a fisso scopo la perfezione di tutto l' uomo, nel che dimostrasi eretta sopra di una divina «androposofias». Questo adunque mi conduce a considerare sì gli studi primi, come gli ultimi della gioventù, quali anelli d' una catena medesima e parti proporzionate d' un solo tutto, la perfezione dell' uomo. L' uomo nato alla società e vivuto nella società co' suoi simili fin dalla culla, con voce di natura è chiamato a due scopi, o a due operazioni. Primo egli è chiamato a perfezionare la sua natura, a crescere nel corpo e nello spirito, a studiare l' armonico sviluppo di tutte e due queste parti, fino a ch' esso, composto di quelle, sia giunto al suo natural compimento. Sviluppato e cresciuto, egli debbe pensare ad apprendere il modo di occuparsi nel bene pubblico. Ecco i due atti ed intendimenti della educazione: formare l' uomo; e l' uomo formato rivolgere al bene de' più. La prima cosa si ottiene con tutta quella educazione che muove dagli studi primi sino alla fine del Liceo; la seconda cosa è proposta negli studi della Università. Per formare compiutamente l' uomo, primo atto dell' educazione, non si debbe trascurare nulla degli oggetti connessi coll' uomo, e questi sono due principali, Dio, e se stesso, ed in parte anche la Natura. Vale a dire non si debbe trascurare in quella prima opera della educazione tutto ciò che di Dio, di se stesso, e della Natura, giova a lui di sapere, perchè possa essere bastevolmente formato. E per ciò stesso non si vogliono trascurati gli aiuti a queste cognizioni. All' incontro nella educazione data all' uomo per lo migliore della società, secondo atto dell' educazione, quantunque anche a questo giovino varie cognizioni, tuttavia il sostanziale consiste che si approfondi in alcun ramo particolare. Poichè se il bene di noi stessi consiste nell' opera nostra, e perciò se bisogna che rispetto a noi siamo instruiti ed esercitati in tutto che ci risguarda; il bene all' incontro della società non risulta da un solo, ma dall' opera di molti, e perciò non importa che ciascuno sia educato in tutti i ministerii che risguardano la società (ciò che non sarebbe possibile) ma in alcuna professione particolare: bastando che tutti insieme i membri della società, i quali si vogliono considerare come una persona morale, possedano tutte l' arti a lei utili e necessarie, e perciò che rispetto al bene pubblico abbia una educazione compiuta questa morale persona. Laonde se nelle università alcuni studiano di proposito Dio, come quelli che sono educati nella Teologia, altri l' Uomo come quelli che sono applicati alle Leggi, altri la Natura come quelli che sono intesi alle Matematiche e alla Medicina; questa partizione non è punto riprovevole, ma conforme al fine. E tuttavia, perchè ciascuna di queste arti frutti bene ai molti per cui è posta, ella vuole essere innestata sopra l' uomo già ben formato e compiuto per se medesimo. Il che recide un nuovo sofisma di certi cortissimi filosofi, i quali vedendo che quest' arti e scienze utili alla società potevano stare divise, e la formazione all' incontro dell' uomo si stava tutta unita, cominciarono copertamente a vilipendere questa, e spacciandosi unicamente solleciti della filantropia , proclamarono come sole lodevoli quelle scienze che fossero rivolte propriamente al ben pubblico, e in questo modo furono condotti a cadere in tale follezza, che l' uomo dovesse esser posto a far bene altrui quando nol sapeva fare a se stesso, e rovinarono il primo fondamento della educazione, la legge naturale della quale è questa: CHE L' UOMO SI FORMI, E POI SI ADOPERI. In tutti gli studi adunque del giovane fino al compimento della filosofia dovranno concorrere insieme la cognizione di Dio, la cognizione di se stesso, e la cognizione della Natura in quella parte che si avvincola a quelle due prime fondamentali, come pure la notizia dei mezzi all' acquisto delle medesime. Le quali dottrine tutte possono entrare nell' uomo, quasi per diversi aditi, per le diverse sue facoltà. Laonde seguendo i passi della natura bisogna considerare quelle facoltà che si sviluppano prima, quelle che si aprono dopo, e secondo che esse appariscono e quasi naturalmente nell' uomo fioriscono, dare loro coltivamento. Poichè indarno altri si sforza di andare contro alle leggi della natura, la quale non cede a noi, e della temerità nostra, se cozziamo con essa, per molti mali si vendica e ci castiga. Noi adunque seguaci della natura cercheremo prima di coltivare in modo speciale la Memoria, appresso l' Imaginazione, in fine l' Intelletto; poichè in quest' ordine si maturano le nostre facoltà. La Memoria riceverà la sua cultura principalmente negli studi della Grammatica, la Immaginazione in quelli della Rettorica, l' Intelletto nella Filosofia. E` però accuratamente a considerare, che le separate culture della Memoria, della Imaginazione, dell' Intelletto, non sono altro che i mezzi, per cui formiamo il cuore dell' uomo, che è quanto dir tutto l' uomo. Sarà dunque meglio detto che in tutto il curricolo degli studi non ci occupiamo d' altro affare, che di formare il cuore dell' uomo, ma nella Grammatica per mezzo della Memoria, nella Rettorica per mezzo dell' Imaginazione, nella Filosofia per mezzo dell' Intelletto. E venendo a partire più divisatamente la prima parte di questi studi, che nominai Grammatica, per non usare vocaboli insoliti, ma con cui voglio intendere sottosopra tutto ciò che viene compreso nelle scuole elementari, e ancora nelle prime quattro scuole del nostro Ginnasio, questi studi abbracciano due parti: 1 i mezzi all' acquisto delle cognizioni, cioè le lingue, tre delle quali a me paiono necessarie, la italiana, la latina e la greca, consanguinee tra loro e non soverchiamente difficili, se se n' allevia lo studio per questa lor parentela, non messa ancor bastantemente a profitto nell' istruzione; e 2 le stesse cognizioni. Per la lingua italiana facciam pure assai conto di quel sapore sincero e tutto soave che si sente ne' fiorentini scrittori, ed usiamo delle loro grammatiche, conciossiachè è lor nativa tal grazia di favellare, che noi forestieri da Firenze più difficilmente a gran pezza conseguiamo per arte; venendo a loro tal dono non so dir io se più dall' aure soavi de' colli o dall' acque dell' Arno, ma certo da una cotal vaghezza di liberale natura. E mi piacerà che sia fatto uso altresì, per dettare al fanciullo, di qualche raccolta di frasi sì della lingua italiana che della latina, e delle particelle messe insieme dal Tursellino, cioè di que' nessi del discorso che il rendono dolce e di soave andamento pe' naturali tragetti dell' uno nell' altro pensiero. Per la lingua greca, non solo giova quel metodo che vi ha trovato il Daponte, ma ancora è lodevole la breve grammatica che noi usiam nelle scuole. Pel Dizionario poi meriterebbe di essere più conosciuto quello del Nitz che tiene continuo risguardo alle origini delle parole (1), e che mi parrebbe assai comodo anche in Italia, se dalla lingua tedesca ci fosse tradotto. La connessione poi di queste lingue, che sono i mezzi alle cognizioni, colle cognizioni stesse, oltre nascere per quel general vincolo del loro fine che vorrà esser fatto conoscere al giovanetto, si stringerà vie più per tutte quelle sentenze e que' tratti che si fanno tradurre, per esercizio, da una in altra lingua: i quali vogliono esser pensatamente eletti, ed acconciati a tutto il rimanente dello insegnamento, e spiegati al discepolo non pure nelle parole, ma nelle cose ancora. E in quanto alle cose, come abbiamo veduto, a tre soli oggetti tutte si riducono, Dio, l' Uomo, la Natura. In quanto alla cognizione di Dio vorrei che in tutte le scuole fosse letta la Scrittura con apposita distribuzione de' libri e apposite noticciuole ai medesimi; e vedine la distribuzione. Nelle Scuole Elementari poni gli storici: nelle prime quattro scuole del Ginnasio dispiega i morali dell' antico testamento: alla Rettorica dischiudi le poetiche amenità de' Profeti e dei Salmi: apponi alla Filosofia il Vangelo, e nella Università fa studio le Apostoliche Lettere e gli Atti. Vorrei intralasciata la Cantica, l' Apocalisse, e tutti i luoghi, che i Pastori della Chiesa giudicassero da intralasciare. E perchè nelle divine scritture non composte pel solo uso de' fanciulli, ma per la stessa educazione dell' uman genere, la cui vita si protende nel successo de' secoli, non è quell' ordine di dottrina, ove le verità si veggano rannodate e dedotte in un regolare sistema, ma v' è questo sistema qua e là sparso in brani, secondo il beneplacito della sapienza dell' altissimo Educatore, perciò a questa lezione scritturale si unirà altro libro sopra la Religione che la insegni in ordine naturale a' fanciulli, rivolto a loro appianare l' intelligenza della Scrittura. E quest' opera vorrei divisa in sei parti. Nella prima vi si considerasse la Religione come rivelata , cioè fosse un raccolto semplice delle rivelate verità, o un catechismo da essere usato nelle scuole elementari. La seconda parte continuandosi alla prima risguardasse la Religione come giusta , o pure come il fonte della giustizia, scaturendo questo fonte dalla stessa dottrina della fede sposta nella prima parte, e quindi deducendo la morale generale, ed un trattatello proprio pei giovanetti. Nella terza parte poi la nostra Religione apparisse come bella , e servisse all' uso della Rettorica; e queste bellezze della Religione fosser tratte sì dalla profondità de' dogmi, che dalla santità dei morali precetti. Per la Filosofia fosse la parte quarta, e trattasse della Religione come sapiente , e ne sviluppasse il vasto e meraviglioso sistema fondato in soli due uomini Adamo e Gesù Cristo, e rivolto per un mezzo divino a riparare alla corruzione della primitiva natura umana, non già col ristorar quella stessa che volle essere abbandonata alla maledizion ricevuta, ma col fondare sulla sua distruzione una natura nuova vincente la prima per infinito numero di maravigliose magnificenze. Nella Università poi si dovesse far uso della quinta e della sesta parte di quest' opera, cioè i due primi anni della quinta che contemplasse la Religion come vera , presentandola col corredo delle sue prove, non tanto per gli studiosi che nutriti alla fede ne sentono nel fondo della pura coscienza la verità, e splende in loro il lume di Dio, quanto per munirli contro agli sgraziati aggressori di lei: e i due ultimi anni, della sesta che ammira la Religion come utile non solo all' altra vita, ma pur agli usi della presente, dove imprendessero i riguardi dovuti all' autorità ecclesiastica, e in una parola il modo ond' usar bene, secondo la guisa delle lor varie professioni, questa Religione, perchè ella ottenesse il maggior bene nella società e conseguisse a pieno la lode che le dà Paolo: « « La pietà è utile a tutto avendo promessa della vita presente, e della futura » » (1). Il catechismo gioverà che sia il medesimo, o tale che s' accordi a pieno a quello della Diocesi, perchè l' insegnamento delle Scuole e della Chiesa proceda d' un medesimo modo. Ciascuna parte poi di quest' opera abbia riguardo e si rannodi alle parti corrispondenti della Scrittura. Qui forse gioverebbe che non essendo ancora quest' opera compilata indicassi qualche fonte onde cavarne la sostanza. Ma mi smarrisce d' una parte la moltitudine degli scritti in questi argomenti, dall' altra la scarsezza di quelli che al nostro uopo s' acconcino. Ne nominerò tuttavia alcuni, non intendendo di approvare con ciò tutto quello che in sè contengono. Potrebbesi usare in luogo della prima parte il nostro catechismo; e foggiar la seconda sulle « Istruzioni per la gioventù » del sig. Gobinet; la terza sul « Genio del Cristianesimo » del sig. Chateaubriand; la quarta su' « Pensieri » di Pascal; la quinta sull' « Apologia » di M. Tassoni; la sesta sugli scritti di que' due lumi del nostro secolo, il conte De Maistre, ed il sig. Bonald. Ma tali libri, ancorchè eccellenti, a pieno non soddisfaranno per più ragioni, e fra queste perchè non sono composti sopra disegno generale, perchè molte dottrine ch' essi contengono non sono state ancora comprovate bastevolmente, o perfezionate dalla pubblica discussione, e perchè finalmente la posteriore non contiene nè suppone le precedenti, come vorrebbe avvenire nel nostro concetto, acciocchè chi studia, poniamo, la Religione come bella , non rimanga di studiarla insieme come giusta e come rivelata , e chi la studia come sapiente venga insieme a ripetere quanto n' ha imparato delle sue bellezze, de' suoi precetti, e de' suoi dogmi, e dicasi lo stesso dell' altre sue parti. Lo studio dell' uomo si dovrà dare ai giovanetti nella Storia: e così la Storia non sarà una vana curiosità, ma sarà volta al fine di tutta l' educazione, la formazione del cuore umano. Con questo fine e su questo disegno dovranno essere formati i Testi di storia, che vorranno nello stesso tempo concatenarsi con gli altri oggetti. Essi sieno quattro, l' uno sempre continuazione all' altro: il primo contenga un compendio di Storia Universale; il secondo un compendio di Storia particolare della Nazione; il terzo la storia della Provincia; e il quarto la Storia della Letteratura. Il primo di questi potrà giovare per la Grammatica; il secondo e il terzo per la Rettorica; e il quarto per la Filosofia. Nella Storia Universale vi potrebbe avere una parte da principio che contenesse nude le epoche principali di tutta la storia cogli anni e i luoghi; e questa sarebbe quella picciola Storia, Cronologia, e Geografia da usare nelle scuole Elementari. Di poi potrebbero succedere tre altre parti; l' una delle quali contenesse la Storia Universale più polposa della prima, dove con maestrevoli tocchi fossero posti in veduta e lumeggiati i grandi uomini, innalzati i buoni, depressi i pravi, eccitato l' amore alla virtù, commosso l' odio nel vizio; e questa parte suddivisa in due, cioè nei tempi avanti e dopo Cristo, potrebb' essere acconcia alle due prime scuole del Ginnasio. Nell' altra parte, secondo il pensiero di Bossuet, vi vorrei trattata la successione della cristiana Religione cominciata in Adamo sino ai nostri tempi, e mostrato l' ordine stabilito da Dio che tutti gli avvenimenti servano alla gloria della sua Chiesa, e al bene de' suoi eletti (1); e questa che si lega colla prima sia per la terza scuola. Nella terza parte di Storia che serve per la quarta scuola del Ginnasio sieno dipinte le successioni degl' imperii e quasi una istoria delle umane società. Ma nel medesimo tempo che quest' opera debbe essere scritta con semplicità di stile e chiarità di pensieri, come particolarmente addimanda la tenerezza della gioventù, s' avverta che non tiene già lo scopo del Discorso sopra la Storia Universale, il quale è tutto rivolto alla formazione di un protettore della Chiesa e di un principe, ma debbe in quella vece avere a fine la informazione di un cristiano e di un suddito. Questo libro vuol essere dettato non solo con moltissimo senno, ma ben ancora con istile scelto e lingua legittima e tale ch' egli sia in un tempo medesimo sorgente d' istruzione di cose e di parole, e scusi ogni altro libro di lettura nelle grammatiche. Dopo conosciuta in tal modo la Storia Universale e dopo essersi formata quasi una dipintura de' più grandi fatti nella mente, dopo aver imparato altresì il modo di cavarne profitto al miglioramento dell' uomo, potrà il giovane arrivato agli studii della Rettorica posarsi più agiatamente nella Storia della patria e di tutta la monarchia, e in modo particolare di quella provincia e città a cui appartiene. Questa storia che è meno lode sapere che disonore ignorare, avvincola il cuore di molte dolci affezioni, ed il nutre di patrii esempi, i quali suscitano l' emulazione, e l' attitudine stessa ad operare le cose confacenti al ben della patria. Nella Filosofia poi succede la Storia de' progressi dello spirito umano, e tanto maggiormente questa storica narrazione de' pensamenti degli uomini potrà essere utile, quant' ella metterà più in mostra l' incredibile debilezza e fallacia del loro ingegno e il dominio cieco delle passioni, fino nelle menti più perspicaci, che in se stesse, e non nei lumi della divina rivelazione confidarono. E la varietà delle opinioni in tutte parti della filosofia insegnerà alla troppo celere e confidente gioventù la cautela in giudicare, la tardità in condannare, la larghezza in comportare opinioni contrarie alle proprie, e il pericolo dello stringersi soverchiamente ad alcuno degli umani sistemi: dalle quali virtù nasce la urbanità e la dolcezza delle dispute, la facilità della convivenza, e la scoperta stessa della ritrosa verità. E questa storia torrà molto di lusso al Testo che poi si dovrà formare della Filosofia, il quale vorrà esser in tal modo composto che si possa aggiungere e quasi inserire nella storia stessa, giacchè egli debbe insegnare a portar giudizio delle diverse opinioni, e dare in mano il filo per non ismarrire nell' infinito labirinto delle umane disputazioni. La Filosofia e la Storia della filosofia sono indisgiungibili, ed è necessario dirò così che si mescano insieme. Gli errori sono quelli che spingono nella maggior sua luce la verità, la quale annunziata sola e senza la contrapposta falsità non rimane nella mente che fornita d' una sua luce modesta e niente viva e risaltante, giacchè egli è da' confronti che viene scossa e tirata la maggior forza della nostra attenzione. D' altro lato ad una grande ed alta verità la mente non arriva d' un salto; ma l' è necessario a ben conoscerla di fare quella scala medesima che suol fare nel rinvenirla: e quando si sono osservate le gradazioni che ha prese la luce di quella verità nelle menti degli uomini; quando si studiò cioè la storia di quella verità, allora si può fondatamente sperare d' averla concepita e penetrata a sufficienza: altramente ella non sarà ricevuta più addentro che nella memoria, o s' ella verrà mettendosi ancora nell' intelletto ci starà tutta inerte, senza vita, senza moto, e sarà come persona mezzo sconosciuta che in casa si alberghi, delle cui vicende poco si conosce, poco delle circostanze ond' è circondata. Ed io credo esser questa una ragione per cui decadano le più fiorenti scuole della filosofia quando sono già da lungo tempo stabilite; poichè nello stabilirle è l' ingegno quello che si mette in movimento mediante le dispute e le contese; ma quando una questione ha prevalso, allora viene consegnata alle memorie degli uomini come cosa già approvata, e così la vi si alloga come il fabbro ripone nell' armadio un lavorìo già compito, intorno a cui non gli resta più a fare, dov' esso a lungo stanziando irrugginisce e si guasta. Tale è la storia della scolastica: i suoi principii stagnarono per così dire nelle memorie, e tosto imputridirono. La sola Storia può salvare la Filosofia da questo decadimento, se si sa congiungerla alla medesima come ministra fedele: perciocchè essa è quella che fa rivivere gli autori delle grandi verità, che trasporta noi nel mezzo alle loro contese, che mette insomma il nostro ingegno in azione; e che il fa venire alle verità da se stesso, mettendolo su quella via che alle stesse conduce, non già trasportandovelo d' un tratto, e quasi per aria, senza ch' egli tocchi nè veda il sentiero onde altri ci va co' suoi piedi; questo secondo modo non è che insegnamento della memoria, giacchè questa è disposta a ricevere le verità, sebbene non veda per che lato si possa alle stesse venire; l' ingegno all' incontro non vi giunge mai di sì gran salto, ed ha bisogno di andarci, passo passo facendo. Per la qual cosa nè la Storia, nè la Filosofia sola dà una sufficiente istruzione alla studiosa gioventù; ma l' una e l' altra è necessaria; e perchè ottengano il loro fine debbono essere fatte l' una per l' altra. Senza la Filosofia la Storia è cieca, e fassi un noiosissimo andirivieni dello spirito umano, una successione d' opinioni tutte di egual peso, o più tosto di egual leggerezza, senza che vi si distingua giammai per entro la verità dall' errore, e che si possa l' una sentenza all' altra preferir con ragione. Senza la Storia, la Filosofia diventa così secca, così gratuita, così lontana dalle forze di un ingegno ancor nuovo, che non può ch' essere ricevuta sterilmente dalla memoria, e giacere in essa come un penoso ingombro, ovvero come un semenzaio di dubbi, e d' inquietudini interminabili a quello spirito, che cerchi di fecondare da se medesimo quelle verità, alle quali gli uomini non sono mai giunti se non trapassando per le verità intermedie, e spesso per tutto lo smisurato campo degli errori e dei sogni. La Storia dunque si può dire il veicolo della Filosofia, pel quale essa viene ricevuta ne' giovani e non ancora addestrati intelletti; la Filosofia all' incontro può dirsi la luce della Storia, la face che rischiara quelle vie, percorse dallo spirito umano, tortuose, mal tracciate, cupe. La Storia della filosofia poi, oltre esser così intimamente a questa raggiunta, sarà connessa con le parti precedenti di questi libri di storia, e da tutti insieme apparirà la concorrenza della potenza, della scienza e della Religione alla comune felicità. E in tutta questa storia dovrà essere per bel modo inserita la Cronologia e la Geografia antica e moderna, fornendo questi due lumi della storia di loro carte e tavole, nelle quali per amena maniera si faccia viaggiare e trascorrere il giovanetto. Lo studio poi della Natura è doppio, poichè o si considera nelle qualità fisiche, o nelle qualità metafisiche ch' ella porge. Queste seconde sono proprie veramente della Filosofia, e s' immedesimano colle dottrine dello spirito, sia di quel Sommo, autore della natura, sia di qualunque spirito conoscitore della medesima. Però alla Filosofia queste investigazioni sono riserbate. Ma considerando la natura ne' suoi fisici apparimenti, a due classi questi si riducono; poichè o riguardano le quantità delle cose, o le loro qualità. Questo studio della natura perciò potrà essere in due opere digerito. La prima delle quali conterrà le cose matematiche, la seconda le fisiche. La scienza matematica avrà tre parti: l' aritmetica all' uso di tutta la Grammatica, la geometria all' uso della Rettorica, l' algebra all' uso della Filosofia. Certo io credo che non si debba così tosto, come si suole, introdurre i giovani nell' Algebra, ma bensì prima nella Geometria, non operando l' ingegno umano per salto, come per salto non opera nessuna cosa nella natura; ed essendo la Geometria atta al ragionamento, e però acconcia preparazione a filosofare, quando nell' Algebra non abbiamo un ragionamento continuo, ma solamente a principio della operazione, dopo il quale il calcolatore pare abbandonato ad un cieco meccanismo. Conviene che la mente del fanciulletto sia fatta discorrere e ragionare di continuo a quel modo che si fa colle cose della vita, e questo è proprio de' metodi geometrici degli antichi, tanto lodati da quel solido spirito di Newton. Ma riguardo all' Algebra, certo è da sperar grandemente che si possa ridurre tutto il calcolo in un corso più regolare ed ordinato e far che gli Elementi che si danno al tempo della Filosofia si raggiungano meglio a quella scienza del calcolo che forma lo studio della Università. Il che sembra si potrà ottenere allora, che queste scienze, che pur tanto hanno avanzato a' dì nostri, si faranno vie più vicine a toccare la perfezione: giacchè è da confessare che se rapidi furono i loro passi, e grande lo spazio percorso; quella rapidità però fu vinta e smarrita nel campo immenso della natura, e nei profondi misteri della quantità. Ma quando la scienza sarà prossima alla perfezione, si potrà pensare a disporla in un ordine elegante e semplice, giacchè non si può mettere insieme un vago edificio, quando prima non siano preparate a parte a parte tutte le pietre ritagliate, e tutte le sculture, che il debbono comporre e adornare. E allora sarà tolta via quella scienza di mezzo che ora si chiama Introduzione al calcolo, e verrà un corso solo e continuo su principii semplici ed uniformi dal principio sino alla fine; alla qual perfezione il Calcolo delle Funzioni analitiche pare che colla sua purezza e generalità già schiuda la via, o la faccia almen travedere. Di poi l' opera che riguarda la qualità della natura potrà partirsi in due, cioè in una piccola Storia Naturale e nella Fisica; la prima da darsi nella Rettorica a guisa di gradevole intrattenimento, e l' altra nel corso della Filosofia; dovendo essere la prima gradino alla seconda. Anche questi testi tanto saranno migliori quanto avranno maggiore connessione con tutti gli altri delle scuole a cui appartengono, sicchè servano a più scopi ad un tempo. In essi, oltre le cose insegnatevi, fiorisca e splenda la nitidezza della lingua e della elocuzione, e principalmente la Storia Naturale sia un esempio della proprietà delle parole, ed un fonte di diletto alla Imaginazione, che nella Rettorica si coltiva: e tutto poi s' accordi e quasi consuoni alla religiosa bontà. Come poi nella Grammatica oltre lo studio delle cose fu necessario lo studio delle lingue, istrumenti al conseguimento delle cognizioni, così l' uso di queste lingue già apprese è dato nella Rettorica, dove s' appara in che modo quelle acconciamente s' adoperino sì con legata che con soluta orazione a persuadere o convincere, facendo questo studio sugli esempi degl' Italiani, Latini e Greci scrittori, interpetrati co' sussidii della Geografia e della Cronologia date nelle scuole antecedenti e composte non senza questo stesso intendimento, e della Archeologia, di cui in questa occasione si daranno le nozioni necessarie; e tentando la imitazione di que' Maestri di bello scrivere per componimenti italiani, latini e greci con versi e prose. Nel che avrassi cura di non insegnare già tanto il pomposo ed il vano declamare; quanto il parlar giusto, ragionevole, efficace, e a tutti gli usi della vita proporzionato e confacente. E qui non posso tenermi, che io non chiami i precettori ad osservare un vizio dannosissimo che guasta le scuole di umane lettere; vizio che quasi passato per eredità e suggellato dalla lunga consuetudine si fece fors' anche caro altrettanto, quant' egli è deforme e sconvenevole, e voglia il Cielo che non sia di noia l' udir parlare contro lui, come contro cosa antica e reverenda. Ma io parlerò anche col pericolo di tirarmi sopra lo sdegno de' retori, e de' giovani loro ascoltatori. E comincerò osservando come il risorgimento delle lettere dopo i secoli di ferro movesse da una imitazione degli antichi esemplari; nè da altro muover potesse. Ed erano quelli esemplari di altissima eloquenza, e di squisita poesia: ma di qui appunto è che il male di cui parlo trovò dov' entrare nella italiana letteratura, e di questa nell' europea. Allora quegli esemplari di bellezza dovevano commuovere ad ammirazione, e quasi trarre fuori di sè per istupore, dimostrando l' apice dell' arte umana, ed un' estrema coltura dello spirito; perciocchè queste cose venivano dimostrate ad uomini quasi frenetici per bisogno d' intendere e di sentire, ma tanto in giù caduti dall' antica dignità sociale che più al basso scendere non si poteva; a cui perciò non che arridesse speranza di toccar sì alte cime di perfezione per opere d' ingegno e di favella, conveniva muovere i passi a ritornare pur una linea in su dalla valle profonda dell' ignoranza nella quale erano precipitati. Sicchè il parlare di Marco Tullio, ed il cantare di Publio Virgilio non sol parer dovevano cose singolari o stupende, come parranno fino che negli uomini rimarrà fiore di senno e di gentilezza, ma interamente miracolose; giacchè nè sentivano in se medesimi, nè in persona viva vedevano indizio di tanta delicatezza in sentire, di tanta altezza in concepire, di tanta perfezione in esprimersi; e però mancava loro un esempio che rendesse possibile alle loro imaginazioni quello, che vedevano in fatto: per il che dovevano imaginarsi che quelle scritture fossero opere di gente tutta d' altra natura ed indole dalla loro. E questo spiega quella non so quale incredibile riverenza, anzi pure vera superstizione, che al tempo del risorgimento delle lettere universalmente si vide per la sapienza greca e latina, e per la greca e latina letteratura; e il riferir quelle sentenze de' vetusti filosofi talora sì triviali e comuni, come oracoli atti a tagliare pel peso di loro autorità ogni più incerta questione, e ciò senza discernimento d' una all' altra autorità, purchè l' autore della sentenza con nome latino o greco si proferisse, e antichissimo fosse, o paresse: questo spiega quella sozza mistura delle autorità profane colle autorità sacre; quel miscuglio di Aristotile e di Platone con Cristo; e de' libri d' Ipocrate e di Galeno coll' Evangelio: questo spiega il paganesimo mescolato colla religione cristiana: e qui ancora quelle prediche mezzo favolose e mezzo vere, ove all' autorità di Mercurio Trismegisto succede quella di Paolo e di Pietro; quelle sculture in sulle facciate de' templi che ancor vediamo piene di fatti greci e romani alternati cogli ebraici, e le teste degl' imperatori idolatri confuse con quelle dei santi; e sul gusto medesimo le sfingi ed i grifi, e, con peccato minore, tutti gli eroi della seconda età delle favole: spiega finalmente quello stile di pensare e d' esprimersi in cui sono mescolati tanti contrari elementi, inamicabili; quello come Caos intellettuale, di cui pare tipo verissimo la « Divina Commedia », lavoro maraviglioso e fors' unico fra i monumenti dello spirito umano, ma ad un tempo così strano insieme e portentoso. E di questo Caos sono uscite l' arti recenti della bellezza, e specialmente l' arte della parola signora e quasi regina di tutte l' altre. Ma sono esse tratte pienamente da quel confuso miscuglio? è essa divisa pienamente dalle tenebre del paganesimo, la luce cristiana? è separata la verità dall' errore, la superstizione dalla pietà, e dal vizio la virtù? Questo è ciò di cui dubito, e di cui credo aver ragione di dubitare quand' io vedo ancora gli scrittori del paganesimo spiegati nelle pubbliche scuole promiscuamente cogli scrittori cristiani; e interpolati i loro costumi ai nostri; e le loro false virtù senza alcuna maraviglia poste al lato dell' evangeliche se non forse talor preferite. Non paiono ancora care a molti e venerate le inezie della mitologia? quasi che l' umanità che ha rinunziato coll' intelletto al falso culto degli Dei si senta pur dopo tanti secoli vincolata da una antica materiale impressione stampata da' padri e tramandata per generazione ne' figliuoli? No, non si purga mai nell' uomo istantaneamente una macchia impressionata da' secoli, ma con lentezza travasandosi d' uno in altro sangue, si scema e s' illanguidisce fino che forse dopo mille generazioni s' annienta. Saranno essi gli esemplari dei cristiani eroi, gli eccellenti comandanti di Cornelio Nipote? l' amore di una gloria consistente nella prepotenza e nella oppressione: l' amor di una patria producente l' odio degli stranieri; cogl' inimici la vendetta, cogl' impotenti la crudeltà: nelle prosperità la baldanza, nelle calamità la disperazione, il suicidio: son questi i documenti degni di una generazion d' uomini rinnovellata e ricreata nel sangue del Giusto? E pur la narrazione di Cornelio è il primo latte che s' istilla nelle menti dei giovanetti, e gli scritti dell' ambizioso Cicerone susseguono a confortare di precetti quegli esempi: e questa morale del gentilesimo s' ammira e s' encomia in cospetto della cristiana gioventù! Intanto il giovanetto tituba coll' animo diviso fra il precettore quando gl' interpreta i classici antichi, ed il precettore medesimo quando in altr' ora gli spiega co' santi precetti il Catechismo; e nel suo cuore discendono due elementi eterogenei, irreconciliabili, i quali si giacciono in quello non per formare giammai alcuna unità, ma come due germi consegnati ad un terreno ferace perchè si sviluppino al sopravvenire di favorevoli circostanze, ed a vicenda tendano di sottrarsi l' umore e d' isterilirsi. Ed in tal modo alla ventura riman commesso quale de' due germi avrà nella vita occasione di più precoce e più potente sviluppamento, se il germe cristiano, sicchè col vigore delle poste radici vada a vincere la mala semenza che gli cresce da lato; o il germe pagano sicchè strugga e spenga coll' avide e tenaci papille la semenza buona ma troppo tarda a mettere, e debile troppo: o pure lasciandosi tutt' e due in tenue vita, rimangano l' uno dall' altro ammorbati e invaniti. Avevano già i Padri della Chiesa preveduto il danno che ai grandi interessi dell' umanità apportava la gentilesca letteratura; e n' avevano scoperta ed inseguita con eloquenti parole la menzogna che in quella si nascondeva, il fermento della vecchia malizia; intanto che lavoravano d' altra parte a torre all' Egitto le sue ricchezze per arricchirne la casa di Dio; cioè a creare una nuova letteratura tutta innocente, tutta cristiana, nella quale fossero le bellezze dell' antica ripiantate senza il veleno corrompitore: e già l' eloquenza cristiana, già la cristiana poesia porgeva al mondo nuovo diletto, nuova meraviglia, dove tutta miravasi la sublimità del genio umano sollevato insino al cielo, e coronato la fronte di raggi divini. Poichè i Padri avevano ben veduto che senza una letteratura non poteva stare l' umanità; ma questa nasceva come spontanea espressione dell' umanità stessa; e come l' umanità si rinnovellava per l' Evangelio, così doveva per esso rinnovellarsi la letteratura che n' esprimeva la condizione e lo stato. Ma non ebbero tempo i primi Padri di condur l' opera a perfezione, perocchè giunti i Barbari in sul mondo civile spensero ogni lume di lettere, e l' umanità misero in tal condizione ch' ella tanto avesse a pensare alla sua esistenza, che più tempo non le sopravanzasse da pensare ai suoi ornamenti. E volsero dieci secoli prima che l' umanità trovasse questo tempo, quest' ozio, in cui fatta sicura di non perire, si rivolgesse alla gentilezza delle lettere e delle arti; ed allora, come dicevo, prendendo l' uomo la via che prima e più facile trova aperta da pervenire al suo scopo, si diede all' imitazione delle lettere antiche, anzi che alla creazione di nuove lettere; e si converse anzi ai greci ed ai romani che ai cristiani scrittori, sia perchè quella letteratura pareva più formata ed intera che la cristiana, ancor giovane e ne' suoi principii interrotta dalle pubbliche calamità; sia perchè la corruzione del secolo cercasse più terrene e più profane dilettazioni; sia finalmente perchè il genere umano, miseramente immalinconito dalle sventure di tanti secoli, sentisse potentemente il bisogno d' una più indulgente ilarità e gaiezza, che rasserenasse i suoi aggravati e profondamente intenebrati pensieri. Per questo forse dopo avere san Carlo Borromeo cercato di surrogare alla profana letteratura la sacra, e in luogo di Cicerone sostituire nelle sue scuole la spiegazione del Catechismo romano; si consigliò di rimettere nell' insegnamento il classico antico, come necessario a dar lustro alle nuove lettere, come miniera di ricchezze non ancora intieramente scavata ad adornamento della Chiesa; e specialmente come una storia di ciò che fu l' umanità, perchè al suo confronto risplendesse maggiormente ciò che è, per potenza dell' Evangelio. E quest' ultima ragione non cesserà mai di rendere necessario lo studio della letteratura idolatra, finchè l' uomo soggiaccia a quella legge intrinseca a sua natura, per la quale solo mediante i confronti egli può conoscere le misure delle cose. E quindi non si potrà giammai proporre che sieno rimossi i Classici greci e latini dalla cristiana educazione; ma che sieno a' principii cristiani sottomessi, e con questi giudicati, e censurati, e spiegati ai fanciulli; che sia in somma l' istruzione de' Classici antichi accordata coll' istruzione del Catechismo; sicchè tutto formi quella unità che è la gran regola di tutta l' educazione, che la rende forte, che dà all' animo del giovanetto una forma sicura ed unica; e non lascia in esso delle confuse traccie ed incerte, degli elementi discordi, dei semi della morte sparsi a piene mani fra i germi della vita. E perciocchè come dissi la stessa letteratura italiana non è ancora monda al tutto di que' vizi pagani, perchè figliuola di quell' antica falsa e quasi direi lisciardiera, sicchè ritiene alquanto de' modi e costumi sozzi della sua madre; perciò gli scrittori stessi della classica letteratura italiana vanno cautamente letti a' giovani, e come gli antichi debbono essere preparati loro appositamente con iscelta e con corredo di note e d' osservazioni, che chiami e castighi la loro morale ed il loro spirito colla severa legislazione e collo spirito de' cristiani. E di questa necessità i Gesuiti maestri s' erano accorti, i quali ci diedero molti classici latini saviamente acconciati per l' istruzion giovanile; nel che tuttavia rimane ancora un lavoro non sì leggero a condursi alla perfezione desiderata. E più ancora a questo scopo gioveranno le note saviamente poste, che la scelta de' luoghi da spiegarsi alla gioventù raccomandata da Quintiliano. Perciocchè un autore mozzato e tronco, non può giammai essere esempio di perfetta bellezza, e le menti de' giovani non si possono pienamente ammaestrare di tutte le finezze ed i secreti dell' arti, dove non sia scoperta e visibile ai loro occhi tutta intera l' opera dell' eccellente artefice; giacchè solo nel porre il tutto è la perfezione dell' arte; e le altezze maggiori dell' ingegno si discuoprono sentendo il pieno accordo maestrevolmente ritrovato di tante parti. Ma questa piena intelligenza non è però cosa da fanciulli: il perchè sembra da rimettersi questo studio all' Università, accontentandosi di far sentire nelle scuole dell' Umanità a' giovanetti quasi alcuni sorsi di quella bellezza, di che potranno abbeverarsene pienamente venuti ad età più matura, come riposo fra' gravi studi delle scienze sociali. E volendo istituita nell' Università questa pubblica scuola di letteratura, ella verrà ad essere il compimento di una educazion letteraria: giacchè nella Umanità si schiude l' animo del giovanetto, se lo dispone a sentir la bellezza delle lettere, e se lo invoglia delle medesime, porgendogli quel dolce ch' egli può utilmente assaggiare: nella Filosofia dove si fa più maturo per ingegno gli si apre innanzi nella Storia della letteratura, intrecciata a quella dell' altre scienze e specialmente della Filosofia, tutto il campo o il giardino, per dir così, delle lettere; e nella Università finalmente gli si fa conoscere a pieno tutto l' artificio di qualche grand' opera letteraria, leggendola tutta pubblicamente ed interpretandola. E un gentile spirito italiano pur testè desiderava questa cattedra nell' Università, e voleva che si restringesse all' interpretazione di qualche opera nazionale, come ne' secoli precedenti appresso di noi fu in costume, e si lamentava, perchè così bello costume fosse mancato, con queste parole: [...OMISSIS...] . Ma tornando al corso della Filosofia, in esso oltre studiarsi l' Uomo colla Storia della letteratura, si studia colla Psicologia: la Natura oltre studiarsi coll' Algebra e colla Fisica, si medita nell' Ontologia e nella Cosmologia: le quali scienze uniscono in sè, o richiamano allo studio di Dio, che nella Teosofia sarà appositamente, quanto è conceduto allo spirito umano, contemplato. E qui di bel nuovo s' osservi l' unità e quasi direi la società, che la Filosofia debbe stringere con tutti gli altri studi minori non solo, ma ben anche maggiori. La Filosofia debb' avere una tal colleganza colle scienze dell' Università ch' ella sia veramente il loro sostegno, anzi la loro generatrice. Da essa debbono quelle, per così dire, apprendere la favella, giacchè sino che gli scienziati non ricupereranno una scienza e una lingua comune, non s' intenderanno giammai, e le innumerabili opinioni, delle quali un idoneo linguaggio è il solo conciliatore, rimarranno così contrarie in apparenza come non sono talora in realtà, e continueranno a tener gli uomini tanto divisi, tanto inimici fra loro senza cagione. Ma il legame più intimo che abbia la Filosofia colle scienze della Università è quello che la rannoda alla Teologia, nella quale debbe finalmente terminarsi e quasi rifondersi, perchè due scienze separate esser veramente non possono, mentre hanno un medesimo oggetto. Egli è vero che quest' unico oggetto sotto due forme e in due modi si manifesta, cioè col lume della ragione e con quello della rivelazione: ma questi due modi hanno una troppo stretta parentela fra loro perchè non si ravvicinino, giacchè egli sembra che l' uno non possa interamente stare senza dell' altro, e certo nel fatto giammai non istette. Ed a preparare questo desiderabile congiungimento o almeno questa pacificazione fra due scienze che sono fatte l' una per l' altra, sembra che sia tratta in luce la combattuta teoria del senso comune, o della ragione della specie, o dell' autorità, come che la si voglia nominare, toccando la quale un nobile ricercatore dell' antica sapienza scriveva, [...OMISSIS...] . Le quali parole esortano gli uomini alla libera comunione del sapere, a mettere insieme ciò che sa ciascuno, ciò che ciascuno seppe, per farne un pubblico e ben assicurato tesoro; terminando questa molesta proprietà esclusiva d' una scienza individuale, per la quale l' individuo aspira a nulla meno che alla tirannia sulla specie intelligente, e i molti individui disputantisi lo stesso scettro imaginario, alla distruzione fra loro: e le nazioni ed i secoli pugnan pur fra loro in tanto pazza e in tanto feroce battaglia. Perchè in quelle parole non è fatta menzione delle tradizioni de' primi padri, che hanno fecondato lo spirito umano? perchè non è fatta menzione di Dio, e di ciò ch' egli ha detto agli uomini nel primo tempo, onde fu suscitata la prima volta l' umana spontaneità? chi fu la prima cagione di quello spontaneo movimento? Chi offerse un oggetto sublime da contemplare all' intuizione immediata dell' uomo? (1). Egli è rispondendo a queste interrogazioni che si scuopre la via per la quale verrà tempo che il filosofico ed il teologico insegnamento non saranno che due parti d' una medesima scienza, l' una delle quali all' altra si continui, e la filosofia sarà allora l' amica del genere umano, giacchè sarà il risultamento di ciò che prima disse la rivelazione, di che poi s' accorse la spontaneità eccitata, cui fecondò finalmente la riflessione degli individui, sviluppò, schiarì, e in lucido ordine espose. Ma bastino queste poche linee ond' ho procacciato delineare un disegno di pubblica educazione, sopra la quale si potesse appoggiare e rilevar la privata. In questa è necessario preveder colla mente tutte le circostanze dell' allievo, della famiglia onde nacque, delle facoltà dell' ingegno suo, de' suoi sensi o arditi naturalmente e generosi, o placidi e attemperati: e da queste cose quasi recarsi co' suoi intendimenti a indovinare quelle destinazioni alle quali possa essere sortito dalla natura. A tutti adunque que' vari posti ai quali egli fosse sortito, o credere lo si potesse, sarà cura dell' educatore privato d' apparecchiarlo; e così di fornire il suo cuore di tutti quei nervi, e di tutti quegl' istrumenti che gli potessero venire opportuni ne' vari casi occorrenti di questa vita. Poichè se non si debbe formare l' alunno a cose fuori di tutte le possibilità, tuttavia rallargarlo si conviene alle cose massime, che da lui si possa aspettare o la patria o la umanità. Di pervenire dunque a questo non è altra regola ch' io sappia, se non lo sguardo acuto e precorrente del savio precettore, che nello stato dell' animo di lui, e in tutte le circostanze che l' attorniano, intravede i successi avvenire. Ma fermati con questo avvedimento i confini della istruzione, estesi quant' è necessario perchè provvedano al detto fine, ed avvisata la piega da darsi a tutti gli studi, e virtù esteriori, nelle quali fa più bisogno esercitare l' alunno (poichè delle interiori che il formano non si può ometterne alcuna) converrà dopo ciò porre all' opera la mano con quel metodo stesso ch' è già in principio di questa scrittura toccato. Cioè il metodo vorrà essere intero ed uno, come intera ed una volle essere l' istruzione delineata. L' interezza dell' istruzione vedemmo consistere nella concorrenza de' vari oggetti ben avvincolati fra loro ad un solo termine; l' interezza del metodo nella concorrenza di tutte le umane facoltà in ciascun oggetto, sicchè quella cosa che l' intelletto apprende anche il cuore senta, e l' opera manifesti. E a questo fine notammo in principio queste tre parti dell' uomo e quasi organi: l' Intelletto, il Cuore, la Vita: dovendo l' Intelletto trovare il Cuore che gli risponda, e dal Cuore procedere ogni virtù ad abbellire la Vita. E a far ricevere all' Intelletto le cognizioni, principale qualità del precettore è d' avere l' idea maturata e chiara, e le parole agevoli, nette, espressive. Nè tanto vale la chiarezza stessa, quanto la perfezione e interezza dell' idea, se pure può avervi idea non perfetta, degna d' essere appellata chiara. E ciò nonostante havvi una certa affettazion di chiarezza, che io più tosto direi superficialità, della quale chi ne volesse esempio potrebbe trovarlo negli scritti di Loke, e vie più in quelli di Condillac, come pure di tutta la loro scuola, la quale tiene un linguaggio che pare chiarissimo, e che promette di render dotti con lieve fatica, ma che non lascia finalmente nell' animo che una povertà estrema d' idee, con una immensa presunzion di sapere, e con una pure immensa temerità di pronunciare. E ad iscansare questa apparenza di chiarezza assai più nocevole della stessa oscurità, non bisogna sorvolare troppo lievemente in sulle idee principali, ma rivolgerle da tutte bande, fissarle, e precisarle co' loro caratteri, sicchè non si possano scambiare con altre: e avere attenzione, che la parola in progresso di ragionamento non venga insensibilmente a pigliar due sensi, e a generare in questo modo le fallacie. Questa diligenza nell' aggiustare e perfezionare le idee, forma la solidità del pensare e la logica pratica. Giova a questo fine la massima toccata di sopra di non mutare troppi autori, accontentandosi di libare qualche fiore in ciascuno, ma, come faceva il Bossuet col suo reale allievo, trascorrere tutti gli autori interi da capo a piedi, spurgando però innanzi quei luoghi che per mollezza o pravità di massima non sono da leggere a' giovanetti, e poi leggendo ed interpretando tutto il resto ne' vari tempi del curriculo degli studi, divisi come dicevo. Ma perchè le cose buone insegnate piglino stanza nel cuore del giovanetto, due quasi strumenti si vogliono porre in uso; la qualità dello stile nell' insegnarle, e quell' arte di renderle care, che assai procede dalla discrezione delle indoli. Nello stile giova studiare principalmente quattro doti, dalle quali, quasi da quattro corde, svegliare quella soave armonia, onde si muove possentemente il giovanil sentimento: Abbondanza, Amenità, Tranquillità, Tristezza. Coll' Abbondanza si vestono le cose di molti colori, si presentano in molti aspetti, e s' infonde dirò così il modo o l' arte di maneggiare l' idea come più piace, e quindi di andare fino al fondo delle cose. Di questa utilità sono lontanissimi coloro, i quali schiavi del sistema non riconoscono più l' idea stessa s' ella non è collocata in una tale postura; e la credono un' altra allorchè tu gliela presenti in altro modo, e ti spregiano quello stesso concetto, che collocato per filo e per segno dentro a certo loculo da loro fissato ti lodavano a cielo come cosa nuova e profonda. All' incontro ella è nobilissima dote quella di potere padroneggiare l' idea, e volgerla a piacimento: e per questa facilità di riconoscere l' idea stessa da qualunque lato tu gliela volgi, gl' ingegni italiani sono singolari dagli altri, che più desti e più pronti mostrano una non so quale agevolezza mirabile nella varia celerità delle loro menti. E di questa abilità di trovare ed amare egualmente l' idea in qualunque veste, per così dire, s' avvolga, o a qualunque genere d' altre idee s' accompagni e consocii, nasce quella che io chiamo scienza delle convenienze; per cui quasi con tatto finissimo si sente in tutte le cose quello che conviene, e senza chiedere sempre rigorosa dimostrazione, che tanto spesso non si può avere, altri cammina con passo franco e sicuro, ed acquista l' attitudine del reggere una moltitudine conforme alla natura de' più, giacchè i più ubbidiscono anzi alle convenienze sentite, che alle verità ragionate: e perciò s' accontentano ed appagano assai sovente per l' osservanza d' alcune cose minute, pel rispetto d' alcune inclinazioni, d' alcune abitudini, d' alcuni sentimenti, onde risultano i genii delle nazioni, permalosa cosa e irritabile, e nè pur trattabile colla stessa giustizia, ma sì con quella scienza del convenevole, di cui ragioniamo. Molto intesero la convenienza delle cose in antico i Romani: e quando si leggano con questa avvertenza le orazioni di M. Tullio vedrassi che tatto fino della convenienza doveva avere e quest' uomo, e quel Senato. Nè quasi altra maestra può avervi, o v' ebbe (chi bene addentro considera) che facesse a pieno capire nell' animo degli uomini, non il sommo jure , ma anzi quel quasi rallentamento di esso e indolcimento che il compie, e che non è altro che il senso delle cose convenienti, se non l' Abbondanza della facondia. L' Amenità poi dello stile reca una cotale freschezza nelle menti, e aiutando le solleva dalla fatica dell' applicare. In questa Amenità studiavano desiderosamente gli antichi; perciocchè conoscevano che se il loro discorso avessero reso dolce e aggradevole, avrebbero già preparato e guadagnato l' altrui animo al ricevimento delle dottrine. Sono in questo maravigliosi i Greci ed impareggiabili, che tutto rendono grato al pensiero; e basta che noi entriamo ne' gravi argomenti versati co' dialoghi di Platone, perchè ne paia di ritrovarci nella verzura di un prato fioritissimo e dilettosissimo, anzichè in sugli scogli di filosofiche contenzioni. I Latini anch' essi bevvero di quella greca vena di dolce Amenità, ma non poterono deporre al tutto la gravezza del carattere, e quasi il ferreo delle armi debellatrici. Ma i nostri scrittori del Trecento nati fra la mollezza de' più vaghi colli d' Italia, e spiranti le più dolci aure della vita, furono formati da natura a soavità ed amenità di stile impareggiabile, che si sposa forse meglio che ogni altro colla greca spontaneità. Parlava nelle bocche sì de' Greci che di que' buoni antichi Fiorentini la natura quasi ancora nuova ed innocente: e la natura è amena, e spira ameni pensieri e amene parole. Di tutta questa Amenità dello stile che ha le chiavi del cuore, sono lontanissime tutte l' altre nazioni: e quando s' ingegnano d' imitarla, ne fanno il ritratto, ma non ne conseguono giammai la carne e la vita. Ed è lontano di ciò il secolo stesso tutto frettoloso e impaziente e accidioso, perchè crede perdere il tempo se non accresce tesoro alla mente, e non sa ch' è in noi ancora un nobile senso interno da coltivare, e che le sole cognizioni della mente non ci rendono più felici nè migliori senza che questo senso del vero pratico sia bene educato e ben conformato, poichè quelle sono ciò che è molto peso d' oro all' avaro, a cui non è cuore, nè senno d' usarlo. Tra noi però non è ancora spregiata al tutto questa virtù del soave andamento dello stile: e per essa meritò bene della nazione Giuseppe Taverna per le « Letture de' Fanciulli » e per quegli « Idillii », ne' quali con lentezza di dolce parlare, quasi palpeggiando il cuore del fanciulletto, vi induce la virtù. Nè si può dire quanto questa Amenità di favellare, congiunta a certa semplicità, faccia pacato e tranquillo l' animo: terzo ufficio dello stile del precettore, il quale con ciò acquista la terza lode che in esso desideriamo, e che abbiamo denominata Tranquillità. Colla quale benigna disposizione che lo stile trasfonde nell' animo, questo si rende tutto acconcio a investigare posatamente la verità, a riceverla spassionatamente, e vagheggiarla con suo grande agio e diletto. Laddove lo stile rapido e focoso per l' incalzamento e quasi contrasto delle idee porta nell' animo una faticante ansietà, un' inquietudine, ed ancora un cotale offuscamento della mente, che la rende inetta o ad assicurarsi del vero, o a disaminarne le parti, o a guastarne la beltà. Nè io stimo meno una certa non so qual Tristezza, cui renda lo stile, ma non qualunque Tristezza. Perciocchè ve n' ha una perniciosa e nera che porta dolore e inquietudine: ma ve n' ha una altresì spontanea e pura, la quale nasce dalla verità del nostro stato umano, ed è tutta ad esso conforme e decente. Essa toglie quelle lusinghevoli promesse che l' Amenità stessa dello stile presenta all' animo giovanile, tanto credulo alle lusinghe d' una sensibile felicità, che in queste cose mortali gliela fanno aspettare vanamente costante; e nel tempo medesimo che attrista alquanto la natura corporea, solleva immensamente la natura spirituale a migliori e più dignitose speranze: e questa tinta di mestizia accompagna dovechesia il linguaggio della verissima Religione e ne segna quasi il lembo estremo, di cui pur tutto il rimanente aspetto si volge lieto e lucente. E così si compie lo stile che s' insinua nel cuore degli allievi di un precettore non solo ma di un precettore cristiano. In questo stile pertanto debbono essere scritti tutti i testi delle pubbliche scuole, ed egli potrà essere di regola onde scegliere gli antichi autori e trovare il modo di comentarli. E dopo ciò al precettore è necessaria la cognizione delle indoli, onde risulta quella delle ragioni e dei motivi che hanno maggior forza a muovere peculiarmente gli animi de' giovanetti affidatigli. Nel che ognuno sa quello che fu sottilmente scritto per tanti savi, sicchè è vano su di questo più oltre ragionare. Ma la cosa principale è quella di ridurre la vita del giovane in perfetta concordia cogl' insegnamenti. Se volessimo rilevare le contradizioni, che si danno nelle comuni educazioni, troveremmo cose ridevoli e dolorose. Poichè non sono più frequenti le buone massime pronunciate, che frequente non sia per l' opera stessa degli educatori l' esercizio delle cattive (1). E non niego che sia facile al precettore l' intonare meravigliose sentenze agli orecchi dell' allievo, difficile il farle eseguire. Perchè se per intonarle basta a lui il conoscerle, perchè riesca a farle eseguire debbe tenerne egli stesso la pratica, e precedere coll' esempio. Ma quanto è più difficile, e quanto è più trascurata questa seconda parte dell' educazione, che la vita non contradica in nessuna cosa giammai ai precetti, tanto è più rilevante, anzi è come il frutto d' ogni educazione. Ma il precettore perchè ci riesca vuole esser tale, che ne castighi severamente se stesso, e che educhi se stesso insieme col giovane: il che dimanda in lui e tale fortezza di mente da vedere le conseguenze pratiche de' precetti, e tale costanza di animo da non comportare giammai d' incorrere in alcuna contradizione. La vita dunque debbe rendere quell' ordine stesso, e quella unità in tutta la sua disposizione che abbiamo veduto esser necessaria nelle dottrine: la preziosità del tempo chiede che questo si pesi quasi in sulla bilancia dell' orafo, e che di ogni particella se ne approfitti; preceda in tutte l' opere quasi capitana la Religione, e tutta la varietà degli altri studi, e delle altre occupazioni disposte bellamente per la giornata, la seguano come ancelle ubbidienti e fedeli: non sia preterito un dì, nel quale la meditazione delle cose celesti non ricrei lo spirito, e non lo indirizzi al suo fine, e lo spirito indirizzato al suo fine indirizzi tutte l' altre cose, e seco le trasporti a rendere gloria al suo Autore. L' ordine della vita laborioso e pieno, fedelmente custodito per lungo tratto di tempo, ordina altresì tutto l' uomo, l' abitua alla fatica e, quello che è più, non a fatica capricciosa, ma tutta regolata dalla ragione, e questa stessa ordinata fatica reca la sì utile calma e tranquillità dello spirito. Ma per quello che riguarda la pietà mi rimetto a ciò che ho scritto più distesamente nel libro « Della Educazione Cristiana » (1). Adunque lo spirito della nostra Religione vuole che consideriamo l' uomo tutto insieme: vuole che tutto in esso armoniosamente proceda. Debbono armoneggiare le scienze, debbono armoneggiare le facoltà. L' armonia delle scienze è la somma legge nel trattato degli oggetti della educazione: l' armonia delle facoltà è la somma legge nel metodo. Queste leggi pertanto s' abbia in vista la pietà dei Principi cristiani chiamati dalla Religione alla educazione de' loro popoli, ai quali fidatamente indirizzerò queste sacre parole: « « Poichè questa è la sapienza vostra, e l' intendimento in faccia a' popoli; acciocchè udendo tutti quanti questi precetti, dicano: Ecco un Popolo saggio ed intelligente, una gente grande » » (2). Tale è la vera grandezza de' Principi e delle Nazioni. Come la giustizia è il primo e il maggiore tra i doveri dei governi civili, così ella reca loro altresì la massima consistenza ed utilità. La giustizia infatti è quella che solo può procacciare al Governo la pubblica opinione e il rispetto: gli dà una dignità morale che non può dargli la potenza e la forza: lo innalza al dissopra dei partiti, e lo rende atto a reggerli, temperarli e conciliarli. Credo dunque di non ingannarmi dicendo, che qualunque questione politica dev' essere considerata prima di tutto dal lato della giustizia. Oso anche dire di più, che questa via conduce a trovare con facilità delle soluzioni inaspettate, così vantaggiose sotto tutti gli aspetti, che per trovarne di migliori invano si logorerebbe il cervello in calcoli laboriosi l' utilitario più perspicace. E` dunque desiderabile, che anche la questione della libertà dell' insegnamento si esamini spassionatamente sotto questo aspetto principale, specialmente dopo che essa fu riconosciuta e proclamata come un diritto in molte costituzioni politiche. Vero è che non si vide ancora attuata mai, ma non ci vuol molto a scoprirne la ragione. Le leggi fondamentali negli Stati moderni sono quelle che s' eseguiscono meno, perchè l' altre leggi devono eseguirle i popoli, e le leggi fondamentali devono eseguirle i Governi. I popoli sono obbligati all' esecuzione delle leggi comuni da' Governi; i Governi non hanno alcuno al dissopra, che li costringa a dare esecuzione alle leggi costituzionali, di cui anche si usurpano la interpretazione. Ci sarebbe l' opinione pubblica che potrebbe fino a un certo segno moverli a ciò, ma questa va assai lenta a formarsi, e non è mai formata sopra una cosa, di cui niuno ha un' idea chiara. E le cose di cui il pubblico abbia un' idea chiara quante sono? Appena col corso dei secoli una nazione perviene a formarsi un' idea chiara d' alcune poche questioni riguardanti i suoi più immediati interessi: e non si può pretender tanto da nazioni ancor novizie nel regime costituzionale. Fino a tanto dunque, che il popolo non ha inteso con sufficiente chiarezza un qualche articolo dello Statuto, egli soffre in pace, che il Governo lo dimentichi, ovvero accetta facilmente per buone tutte le scuse che gli siano date della dimenticanza, presumendo che il Governo intenda meglio di lui, e che le ragioni barbugliate saranno ottime. Ora la lingua più popolare di tutte è certamente quella della giustizia, e anche per questa cagione crediamo utile di determinare colle norme del diritto la libertà dell' insegnamento; chè la questione così trattata acquisterà qualche grado di maggior distinzione e chiarezza nelle menti dell' universale. E, prima di tutto, che cos' è la libertà? Fino che questa parola rimarrà indefinita, continuerà ad essere il pomo della discordia. E` tempo d' uscire d' ambagi. La libertà è « l' esercizio non impedito dei propri diritti ». I diritti sono anteriori alle leggi civili. Il fondamento della tirannia è la dottrina che insegna il contrario. Le leggi civili possono essere giuste, ovvero ingiuste, e in questo caso, con un' altra parola, sono tiranniche. Se le leggi civili non offendono i diritti, che sono ad esse precedenti, e si limitano a proteggerne l' esercizio, acciocchè da niun ostacolo esso venga impedito, sono giuste, e il popolo che vive sotto queste leggi è libero. Se le leggi civili pretendono di essere superiori a quei diritti che esistono prima di esse, pretendono d' esserne esse le fonti, d' esserne le padrone, sono ingiuste, e il popolo che ha un Governo fondato sopra una tale teoria, dell' onnipotenza della legge civile, è schiavo. Che poi questa teoria sia professata da un monarca o da alcuni maggiorenti, o da due Camere stabilite da una Costituzione, o da un Governo popolare, questo perfettamente è il medesimo: sotto tutte queste forme il Governo è perfettamente il medesimo. Sotto tutte queste forme il Governo è ugualmente una tirannide, quando la massima, su cui esso è fondato e da cui prende la norma di tutto il suo operare, è una massima ingiusta e tirannica, perchè invece di riconoscere e di rispettare i diritti anteriori, e anzi di tutelarli, gli annienta tutti in una volta. Veduto che cosa sia la libertà universale, dobbiamo vedere che cosa sia la libertà dell' insegnamento, e lo vedremo, applicandone quella definizione. La libertà dell' insegnamento è « l' esercizio non impedito del diritto d' insegnare e d' imparare ». Che esista un diritto d' insegnare agli altri, e d' imparare dagli altri, anteriore alla legge civile, quest' è facile a dimostrarsi. L' uomo ha il diritto di adoperare a fini onesti tutte le potenze dategli dal Creatore, purchè il modo con cui le adopera sia inoffensivo a' suoi simili. Infatti il Creatore col fornire l' uomo di varie ed utili potenze dimostrò la sua volontà, che le esercitasse a fini onesti, e coll' esercitarle e svolgerle ne accrescesse il vigore e si procacciasse tutti quei vantaggi e beni che esse sono atte a dargli. Altrimenti il Creatore avrebbe operato senza un fine, avrebbe date inutilmente all' uomo tante nobilissime facoltà. E quanto sia prezioso l' esercizio e l' uso delle proprie potenze, ognuno può intenderlo, quando consideri che è già un bene in se stesso, e che è il mezzo universale con cui s' acquistano tutti quanti gli altri beni. Se dunque l' uomo mette impedimento all' uso inoffensivo ed onesto delle potenze d' un suo simile, viola il naturale diritto e lo viola tanto più gravemente quant' è maggiore l' impedimento ch' egli vi pone. Il che dimostra che c' è effettivamente un diritto alla libertà in generale, cioè: « all' esercizio non impedito delle proprie potenze ». E da questo diritto generale discende quello della libertà dell' insegnamento, poichè uno dei più nobili e santi usi, che si possono fare delle proprie potenze, si è quello d' insegnare altrui cose utili e vere, e d' impararne da tutti. Egli è chiaro, che il diritto d' imparare da tutti è correlativo al diritto d' insegnare: e che offendendosi il primo si offende anche il secondo: perchè colui che impedisce all' uno d' insegnare, impedisce all' altro d' imparare da lui che insegnerebbe, se non ne fosse impedito. E` dunque manifesto che c' è un diritto naturale sacro ed inviolabile alla libertà dell' insegnamento. Questi sono principii semplici e innegabili; ma la questione si complica, e si rende difficile, quando si viene all' applicazione, non tanto per se stessa, quanto a cagione de' sofismi, ne' quali ella fu involta dalle passioni degli uomini prepotenti, ambiziosi, interessati. Noi vogliamo tentare di restituirle, se ci vien fatto, le più semplici forme. I limiti d' un diritto sono quegli estremi, oltre ai quali il diritto cessa di esistere, o, in altre parole, sono le condizioni alle quali esiste il diritto. Queste condizioni devono contenersi in un' esatta definizione del diritto particolare di cui si tratta. Così se noi riprendiamo la definizione data della libertà d' insegnamento « l' esercizio non impedito della propria potenza d' insegnare in modo onesto e inoffensivo »avremo i seguenti limiti essenziali alla detta libertà: 1 Limite . - La mancanza del sapere necessario: poichè, colui che non sa, è privo della potenza dell' insegnamento, che è il fondamento, dirò così, materiale del diritto; 2 Limite . - La mancanza d' onestà dell' insegnamento: non c' è infatti un diritto d' insegnare il male o l' errore; 3 Limite . - La mancanza d' inoffensività nel modo d' insegnare: non c' è un diritto d' insegnare, quando per poter insegnare si dovesse disturbare altri che attualmente insegnano, o si esercitasse qualche violenza per avere dei discepoli, il che sarebbe una lesione del diritto d' imparare. Laonde il diritto di insegnare non esiste se non alle seguenti condizioni; che ci sia: 1 scienza in colui che insegna; 2 onestà in ciò che s' insegna; 3 inoffensività nel modo di insegnare. L' esercizio non impedito del diritto d' insegnare così circoscritto, ecco quello che forma la libertà naturale giuridica dell' insegnamento, anteriore a tutte le leggi civili. Questi sono principii semplici che discendono dal comune diritto di ragione (1): chi può metterli in dubbio? Potranno metterli in dubbio certamente due generi di persone, che sgraziatamente non mancano d' esistere e di agitarsi nella umana società. Il primo genere consta di tutti quelli che non riconoscono l' autorità della morale. Costoro in conseguenza dell' assoluta loro negazione d' ogni morale, non possono ammettere che il naturale diritto d' insegnare abbia per condizione, che ciò che s' insegna sia onesto. Coll' annullar questo limite, essi falsano il concetto della libertà, sì in generale e sì in particolare di quella d' insegnare; e alla libertà vera sostituiscono una libertà bastarda d' insegnare tutto ciò che di erroneo può cadere in un cervello disordinato, e che di perverso può ascendere da un cuore corrotto. Il secondo genere consta di tutti quelli che asseriscono, anche con ostentazione, di ammettere una morale: ma la morale che ammettono è dimezzata, accomodata alle loro passioni, e a' loro interessi, non ricevuta qual è, qual dev' essere, ma fattasi da se medesimi a mano, secondo il lor proprio gusto. Snaturano costoro quel limite morale della libertà d' insegnamento di cui parliamo, e compariscono in sulla scena pubblica anch' essi come partigiani d' una libertà bastarda: non di rado più bastarda ancora di quella de' primi; poichè questi non riconoscendo morale di sorta, vogliono che tutto, e il bene e il male, possa essere insegnato da tutti, laddove i moralisti ad uso dei propri interessi, proclamano molte volte la libertà d' insegnare il male, e impediscono poi ipocritamente la libertà d' insegnare il bene. Da queste due specie di libertà bastarde è da tener conto, per non confondere i nostri pensieri. A queste condizioni il diritto alla libertà dell' insegnamento è universale, cioè hanno diritto d' insegnare ai loro simili tutti indistintamente gli uomini dentro i tre limiti indicati. Ma poichè questi limiti non si verificano sempre, e non si osservano da tutti, o non si possono osservare, perciò il diritto d' insegnamento, che in teoria è universale, nel fatto esiste in diversi gradi nei singoli uomini, o nelle singole società insegnative che essi formano tra loro. Considerato dunque non nella sua possibilità astratta, ma nelle sue varie attuazioni, il diritto d' insegnamento diviene concreto . La rivoluzione francese nello stesso tempo che distrusse molti abusi, ebbe per effetto di recare il dispotismo de' Governi civili al più alto punto, di concentrare in essi tutti i poteri con un' assoluta negazione de' limiti morali, e d' insegnar loro a confiscare con molt' altri diritti naturali anche quello della libertà d' insegnamento. In questo modo i Governi istituiti per la tutela dei diritti di tutti gli uomini, diritti che preesistono per natura e per ragione all' istituzione dei civili Governi, divennero i più tremendi nemici di tali diritti, che a se soli riserbarono, spogliandone le intere nazioni. Questa spogliazione scandalosa ed iniqua, se poteva da principio essere tollerata dai popoli ingannati e sorpresi da promesse mendaci e da frasi sofistiche ed entusiastiche, come quella che « tutti i cittadini nascono figli della patria, e però devono tutti essere educati dalla lor madre », non può durare tuttavia nello stato della presente civiltà. Laonde non pochi degli uomini più illuminati già deferirono alla pubblica opinione un tant' abuso di potere, e ogni dì si rende sempre maggiore il numero di coloro che protestano e domandano con coraggio ai Governi la restituzione di questa preziosa libertà perfidamente da essi usurpata. Questa minorità crescente è destinata senza dubbio a divenire una maggioranza forte, alla quale i Governi civili dovranno, o di buona o di mala grazia, abbandonare quanto tengono al presente di mal acquisto: e il pericolo allora sarà che si spoglino i Governi anche delle loro legittime attribuzioni all' insegnamento. Poichè ogni qualvolta s' ottiene qualche cosa con una lotta accanita di partiti, quand' anco non si tratti d' una lotta violenta e incerta, s' ottiene con eccesso: ed è per questo che la società civile oscilla tra un eccesso e l' altro, perchè i Governi non sanno cedere a tempo quello che è giusto, e con una cieca resistenza producono l' ira che toglie loro anche più del giusto. Mentre dunque c' è tempo si studi il problema del diritto speciale d' insegnamento, e si definisca qual parte di questo diritto appartenga a ciascuna di quelle persone giuridiche che accampano su di esso qualche pretesa. Quando a ciascuna sia lasciato lealmente ciò che le appartiene, s' avrà ottenuta una conciliazione, e per questa parte cesserà la società di essere agitata. Le persone giuridiche, sieno individue o sieno sociali, che pretendono d' avere un qualche diritto di insegnare o d' influire nell' insegnamento, sembra che in Italia almeno possano essere ridotte a sei, quali sono: 1 La Chiesa Cattolica; 2 I dotti; 3 I padri di famiglia; 4 I benefattori che col proprio danaro mantengono le scuole; 5 I Comuni e le provincie; 6 Il Governo. Esaminiamo dunque il diritto speciale che può competere a ciascuna di queste persone giuridiche, secondo i principii di ragione. La Chiesa Cattolica non ha solamente quel diritto alla libertà dell' insegnamento, che può competere a qualunque società onesta in virtù del diritto naturale, del quale solo abbiamo parlato fin qui, ma ella ha oltracciò un diritto d' insegnare agli uomini fondato sopra un titolo più augusto, cioè sopra un decreto di quel Re, davanti al quale tutti i re e tutti i Governi civili e lo stesso mondo, dice la Bibbia, sono un momento della bilancia, o una gocciola di rugiada che cade il mattino sul terreno (1). Gesù Cristo infatti diede agli Apostoli e a' Vescovi loro successori il comando e il diritto d' ammaestrare le nazioni con queste parole: « « Andate, ammaestrate tutte le genti » » (2). E le genti sono composte di Governi e di governati. Laonde la Chiesa Cattolica ha un dovere e un diritto divino d' ammaestrare universalmente tutti, e governati e Governi. La dottrina poi, che la Chiesa ha il dovere e il diritto di comunicare a tutti gli uomini, grandi e piccoli, è quella che le ha confidato il Salvatore, e che essa non può nè perdere nè alterare, avendole egli a questo fine promesso d' esser sempre con essa. [...OMISSIS...] Dal che deriva, che questo diritto soprannaturale d' insegnamento è esclusivo alla Chiesa Cattolica, cioè a quella parte della Chiesa Cattolica, a cui fu da Gesù Cristo affidato, e che si chiama Chiesa docente . Poichè essendo la prima condizione del diritto d' insegnamento, che chi insegna abbia la scienza , quelli soli possono insegnare con autorità nella Chiesa Cattolica, a' quali Gesù Cristo consegnò e guarentì inviolato il deposito della sua dottrina, e questi sono i Vescovi, il primo dei quali è il Romano Pontefice, e tra i sacerdoti, quelli soli, che a esercitare un tale ufficio sono autorizzati e mandati dai Vescovi. Ogni qual volta dunque alcun altro, fuori di questi, pretendesse d' arrogarsi l' autorità d' insegnare la dottrina del Salvatore, o di dare la missione per questo insegnamento, quantunque costui fosse un potente monarca, un governo civile, di qual si voglia forma o costituzione, altro nome non potrebbe ricevere che quello di violatore del diritto divino della Chiesa, d' usurpatore e d' impostore. Vediamo ora quali diritti più speciali circa l' insegnamento appartengano alla Chiesa, in conseguenza del diritto generale che ella ha, il quale, come dicemmo, è nello stesso tempo un dovere d' ammaestrare tutte le genti nella dottrina del Salvatore. La dottrina del Salvatore comprende il dogma, la morale, e tutti i mezzi utili a conseguire l' eterna salute: dottrina che viene tramandata di mano in mano, sia oralmente, sia per mezzo di scritti, i principali dei quali sono quelli che furono dettati da alcuni Santi, che ebbero l' assistenza dello Spirito Santo, e il dono dell' inerranza, riconosciuti per tali dalla Chiesa Cattolica, e raccolti in una Collezione che si dice Bibbia o Sacra Scrittura. Il primo diritto dunque più speciale della Chiesa Cattolica riguardo all' insegnamento è quello di predicare al popolo, e d' insegnare dalle cattedre a persone studiose le scienze dogmatiche e le morali, e i mezzi di conseguire l' eterna salute. La morale naturale è compresa nella morale soprannaturale, come i primi elementi sono contenuti in una scienza compiuta, e però errano coloro, i quali facendo una distinzione tra la morale filosofica e la teologica, quasi fossero due morali totalmente separate, pretendono spogliare la Chiesa Cattolica del magistero della prima, lasciandole solo quello della seconda. Costoro o dimostrano una ignoranza molto grossolana, ovvero sono uomini di mala fede. Da questo primo diritto della Chiesa Cattolica deriva un secondo, ed è quello di vegliare sopra ogni altro insegnamento, e su tutta l' educazione dei fanciulli, e oltracciò su tutti i mezzi coi quali i fedeli comunicano tra loro le dottrine, il principale dei quali è la stampa. Se dunque la Chiesa Cattolica rinviene in tutto ciò qualche cosa che possa essere o contrario alla vera dottrina di cui essa sola conserva intemerato il deposito, o di pregiudizio all' eterna salute dei suoi figliuoli, essa ha il diritto, il dovere e l' autorità d' avvisarli del pericolo, e d' impor loro l' obbligazione di guardarsene, e di punirli altresì colle pene sue proprie se disubbidiscono alle sue materne prescrizioni. Un terzo diritto speciale della Chiesa Cattolica si è quello d' istruire ed educare essa sola i suoi propri ministri, e d' ascrivere al Clero quei fedeli che ne creda degni, e chiamati da Dio al ministero sacerdotale. Dovendo essa tramandare il sacro deposito della salutare dottrina di generazione in generazione sino alla fine del mondo, è chiaro che tocca a lei sola a scegliere le mani fedeli a cui confidarlo, e che ella sola è quella che può farlo passare in altre mani perchè ella sola ha in proprio la scienza di cui si tratta, ed ella sola altresì ha la missione e la facoltà di mandar altri, come questa facoltà l' ebbe pure Gesù Cristo compresa nella sua missione, onde egli disse: « A quel modo che il Padre ha mandato me, così anch' io mando voi »(1), cioè colla facoltà di mandar altri che vi succedano. Finalmente c' è un quarto diritto non meno essenziale alla Chiesa degli altri tre, ed è che ella sola può applicare i suoi ministri all' insegnamento, essendo d' essenza dell' organismo della Chiesa Cattolica, ch' essa sola possa disporre liberamente dei suoi ministri, i quali d' altra parte sono legati ai Vescovi con solenne promessa d' ubbidienza emessa da essi nell' atto di ricevere l' ordinazione. Tali sono i diritti essenziali della Chiesa Cattolica riguardo al pubblico e privato insegnamento: e questi diritti non recano pregiudicio alla libertà dell' insegnamento, anzi ne costituiscono una parte essenziale. Il che si vede tostochè si rammentino le condizioni di questa libertà. La prima di queste si è, che chi insegna abbia la scienza di ciò che insegna. Ora trattandosi della dottrina rivelata, la sola Chiesa, come dicevamo, n' è la depositaria, e però a lei sola s' aspetta d' autorevolmente insegnarla, non rimanendo agli altri fedeli che il dovere di professarla, e la facoltà di propagare intorno a ciò quello che hanno imparato dalla Chiesa, o attinto alle fonti dalla Chiesa approvate senza nulla aggiungere di contrario a quello che insegna la Chiesa stessa. La seconda condizione si è, che ciò che s' insegna non sia erroneo e pernicioso. Se dunque la Chiesa veglia sulla dottrina, e impedisce che s' insegni quello che è contrario alla rivelata verità, ella con ciò non entra nell' altrui diritto d' insegnare, non pregiudica la libertà dell' insegnamento, perchè questa libertà cessa appunto lì dove incomincia la Chiesa a far uso della sua autorità di maestra. Si può aggiungere qui un' osservazione, ed è che la Chiesa, di fatto, lungi dall' offendere la libertà dell' insegnamento, fu quella che ne assunse, sola al mondo, la tutela, proteggendo tutte le opinioni innocue, e interdicendo con molti suoi atti agl' ingegni indiscreti l' arbitrio di condannarle e di vituperarle. Ammesse queste dottrine, che niun cattolico può negare, salva la sua fede, ne vengono queste conseguenze: 1 Tutti coloro, che sotto qualunque pretesto, impedissero alla Chiesa Cattolica l' esercitare questi suoi diritti, sieno essi o persone private o pubbliche, sieno governati o governi, offendono il libero esercizio dei diritti della Chiesa intorno all' insegnamento. E qualora i Governi civili ad un fine così riprovevole, abusando del potere civile che hanno in mano, promulgassero delle leggi, ovvero facessero intervenire la forza, commetterebbero un atto di dispotismo e di tirannide contro la libertà dell' insegnamento consistente, come dicemmo, nel libero esercizio del diritto d' insegnare; 2 Qualora un Governo civile s' arrogasse il diritto d' insegnare la dottrina religiosa, o di pronunciare sentenze in questa materia, sotto qualunque pretesto, o di obbligare i suoi governati a tenere o insegnare piuttosto una dottrina che un' altra, indipendentemente dalla Chiesa Cattolica, o impedisse loro di tenere o di professare quella della Chiesa, esso non solo offenderebbe il libero esercizio d' insegnare proprio della Chiesa, ma di più dispoticamente e tirannicamente si usurperebbe l' altrui diritto all' insegnamento, e sarebbe il nemico di questa libertà; 3 All' incontro, qualora un Governo civile impedisse ai suoi governati d' insegnare dottrine religiose contrarie a quelle della Chiesa Cattolica, non offenderebbe con questo la libertà dell' insegnamento, anzi la proteggerebbe. Poichè la libertà dell' insegnamento è inerente al diritto d' insegnare, e dove non c' è questo diritto, non vi può esser quello che non ne sia impedito l' esercizio, nel che consiste unicamente la vera libertà; 4 Qualora un Governo civile indipendentemente e contro la volontà dei Vescovi eleggesse al pubblico insegnamento dei sacerdoti, lederebbe manifestamente il quarto degl' indicati diritti della Chiesa Cattolica. Su di che dobbiamo fare questa osservazione, che fino a tanto che i Governi civili professano sinceramente e di buona fede il cattolicismo, è naturale che i Vescovi vedano di buon occhio, che egli si prevalga dei sacerdoti per un così utile ufficio, e tali Governi sono sicuri di operare colla tacita annuenza della Chiesa stessa. Ma se viene un tempo, in cui il Governo civile, di mala fede, si faccia il protettore di tutti i preti indisciplinati, scorretti e ribelli ai loro Vescovi: se per un bastardume di liberalismo distribuisca i posti più gelosi e più importanti della pubblica istruzione a' sacerdoti che lungi dal corrispondere ai doveri della loro santa vocazione, conducono una vita secolaresca, abbandonando anche i segni esteriori del loro stato, e vergognandosi delle vesti sacerdotali, o sdegnandole: in questo caso certa cosa è, che i Vescovi sono obbligati di ricordarsi della loro divina autorità sopra i propri ministri, e devono sollecitamente riprendere con più di forza le briglie che si sono forse allentate nelle loro mani in tempi di più fede e di più benevolenza dei Governi verso la Chiesa, protestando da una parte contro l' indegna usurpazione di tali Governi, usando dall' altra tutte le armi spirituali date loro da Cristo contro i sacerdoti ostinati, che loro ricusano la promessa ubbidienza; 5 Ma ancora maggiore si rende l' usurpazione del Governo civile, quand' egli s' arroga oltracciò di decretare indipendentemente da' Vescovi, quai sacerdoti devano attendere all' istruzione religiosa, e alla cura spirituale dei pubblici stabilimenti d' educazione. Questo lede non solo il quarto, ma anche il primo de' diritti speciali riguardanti l' insegnamento che abbiamo indicati. L' essere il Governo quello che contribuisce gli stipendi a' tali direttori spirituali non l' autorizza punto ad usurparsi l' autorità vescovile, alla qual sola appartiene per diritto divino l' istruzione religiosa e la cura delle anime, e ne' collegi e fuori de' collegi. Con questi modi dispotici, dunque, il Governo lede nelle sue parti più vitali la libertà dell' insegnamento, e merita il titolo di Governo al sommo illiberale . Salvi dunque gli accennati diritti della Chiesa intorno alla rivelata dottrina, le altre parti dell' istruzione e dell' educazione, sia pubblica sia privata, non sono punto d' esclusivo diritto del Clero, ma questo rimane rispetto ad esse nel diritto comune del libero insegnamento. E questo diritto comune importa, che come a nessuno può essere conteso l' insegnare, quando si verifichino le tre condizioni avanti indicate, così non possa esser conteso o impedito l' esercizio di un tale diritto nè anco al Clero nè secolare, nè regolare. Contro colui che vi ponesse impedimento, sia egli un privato, o sia un Governo, il Clero non reclamerà come Clero, ma reclameranno i sacerdoti come uomini per l' offesa libertà naturale. Al prudente e conscienzioso discernimento poi di quelli che hanno il diritto di scegliere i maestri, sia per sè, sia per altri (e vedremo in appresso chi siano cotesti) appartiene il conoscere su di chi nelle circostanze particolari giovi meglio che cada la loro scelta, appunto perchè deve esser libero anche il diritto d' imparare, che è correlativo a quello d' insegnare. Solo quelli che sanno possono insegnare agli altri, verificandosi solo in essi la prima condizione del diritto d' insegnare. Infatti il diritto è sempre una facoltà d' operare: dove dunque manca la facoltà fisica, manca il diritto, che è una facoltà morale, che s' innesta sulla facoltà fisica. Perciò lo stesso diritto che abbiamo attribuito alla Chiesa Cattolica, l' abbiamo fondato sulla facoltà che ella sola ha di comunicare la dottrina di Cristo, perchè sola la possiede in proprio. Che dunque i dotti abbiano un naturale diritto d' insegnare, non fa bisogno d' altra prova, essendo questo lo stesso diritto universale di cui abbiamo di sopra dimostrato la esistenza. Da questo diritto generale ne consegue ai dotti un altro speciale, che riguarda il modo dell' insegnamento, il diritto cioè d' insegnare con quel metodo ch' essi credono più opportuno. Infatti il metodo è scienza anch' esso, e a quelli a cui spetta il tutto per giusta conseguenza deve spettare anche la parte. Sarebbe una patente contraddizione concedere ai dotti il libero diritto d' insegnamento, e poi pretendere che essi non possano insegnare, se non con un solo metodo, e questo imposto loro da una mano invisibile, poichè quando il Governo lo impone, non si sa chi lo imponga. Quelli dunque che mettono qualche impedimento all' esercizio del diritto d' insegnare che hanno i dotti, e che s' arrogano l' autorità di stabilire preventivamente un dato metodo, obbligando tutti i dotti della nazione a seguirlo se vogliono insegnare, offendono la libertà dell' insegnamento. Consegue da questo, che i Governi civili, i quali stabiliscono un insegnamento ufficiale, hanno tre doveri da adempire riguardo ai dotti; il primo di non mettere all' esercizio del loro diritto d' insegnare alcun impedimento; il secondo di lasciar loro la libertà di seguire nell' insegnamento quei metodi che credono migliori; il terzo d' eleggere all' insegnamento ufficiale i maestri e istitutori imparzialmente tra i più dotti e degni che possono rinvenire. Diciamo qualche cosa di ciascuno di questi tre doveri che devono adempire i Governi, che vogliono acquistarsi meritamente la lode di liberali in questa materia. Mancano apertamente a questo dovere primieramente quei Governi che si riservano il monopolio dell' insegnamento. Poichè, supponendo anche che tali Governi eleggessero all' insegnamento ufficiale i più dotti, non è presumibile che i dotti nella nazione sieno appunto tanti, quanti i maestri ufficiali, nè più, nè meno, o che, fuori della classe dei maestri ufficiali, tutti gli altri cittadini sieno perfettamente ignoranti. Se dunque questo non si può supporre, rimane, che il Governo col suo monopolio leda il diritto al libero insegnamento di tutti que' dotti, che non si trovano nel novero de' suoi maestri ed istitutori. Il governo civile monopolista dell' insegnamento lede il diritto, di cui trattiamo, tanto se lo fa per via di leggi , quanto se lo fa semplicemente per via di atti arbitrari; perchè facendo servire le stesse leggi alla lesione, invece che alla protezione dei diritti de' cittadini, egli abusa d' una più veneranda autorità, qual è la legislativa; e l' infrazione dei diritti fatta per via di leggi è costante, universale, quanto s' estende la legge sistematica e irreparabile; e finalmente havvi un attentato di trasformare l' infrazione stessa del diritto in diritto, snaturando la natura delle cose, dico in diritto legale, sancito dalla forza pubblica, che in tal caso viene adoperata a sostegno dell' ingiustizia e ad oppressione de' cittadini. In secondo luogo mancano a questo dovere anche quei Governi, che, quantunque non si riservino il monopolio dell' insegnamento, tuttavia impediscono direttamente o indirettamente che i dotti esercitino con libertà il loro natural diritto d' insegnare. A questa specie di Governi, per lo più poco sinceri, appartengono quelli i quali con una cert' aria di libertà onesta ragionano in questo modo: « Noi vogliamo che a tutti sia libero l' insegnare, ma vogliamo che quelli che insegnano pubblicamente ricevano da noi la licenza, e la paghino, e prima di ricevere la licenza dieno delle prove della loro scienza. Le prove poi della scienza tocca a noi Governi lo stabilirle ». E su questo principio tali Governi stabiliscono una serie di prove più o meno difficili, più o meno costose ai candidati, più o meno lucrose al Governo e agli ufficiali del Governo; esaurite le quali, i candidati devono stare alla mercè degli esaminatori ufficiali dai voti dei quali impareranno a conoscere se siano tanto dotti da poter insegnare, o se non abbiano ancora acquistata quella misura di dottrina che ha tassata il Governo, o piuttosto che di volta in volta viene tassata dagli esaminatori, senza la quale misura opinabile e subbiettiva nissuno può insegnare. Se sia vero che questo sistema non mette alcun impedimento al libero esercizio del diritto d' insegnare, non è difficile il vederlo senza molte riflessioni; pure facciamone alcune. Primieramente da noi si concede che il frapporre impedimento d' insegnare a chi non sa, non è ledere la libertà dell' insegnamento come risulta dalle cose precedentemente ragionate: e però, se veramente questo solo facesse un Governo, niuno potrebbe dire, ch' egli perciò offendesse la libertà dell' insegnamento. Ma se il Governo, col pretesto di far questo solo , fa molto più, quel principio vero nol può purgare dalla lesione dei diritti naturali de' cittadini, ch' egli commette di fatto sotto quel pretesto. Ora il Governo può egli esser certo di escludere dall' insegnamento co' suoi provvedimenti i soli ignoranti? Può egli esser certo di non recare ad un tempo impedimento e danno ai dotti? E` egli necessario, per escludere gl' ignoranti dall' insegnamento, che il Governo civile aumenti leggi e disposizioni? Per incominciare da quest' ultima domanda, sembra affatto inutile, che il Governo civile si prenda tante pene, stante che gl' ignoranti o s' escludono da se stessi da un tale ufficio, che non possono compiere, o rimangono esclusi dall' istinto e dall' interesse di quelli, che bramando d' imparare, e avendo il diritto di scegliersi i precettori, non vogliono certo, almeno in generale parlando, sceglierli tra i più ignoranti, ricorrendo a quelli che non possono insegnare loro cosa alcuna. Una libera concorrenza adunque, aiutata da altri mezzi onesti, di cui parleremo a suo luogo, basta ad ottenere, che gl' ignoranti s' astengano dalla presunzione di fare i maestri di quel che non sanno. Si può di poi dubitare grandemente se il Governo possa fare la cerna che si propone de' dotti dagli indotti; se esso abbia qualche mezzo sicuro, col quale gli riesca di dare un taglio così netto fra dotti e ignoranti, che tra quelli che egli dimette come ignoranti, non rimangano alcuni che tali non sono, e tra quelli che egli corona per dotti, non se ne rinvengano dell' altra specie. Il prudente Governo deve conoscere le sue proprie forze e i suoi propri mezzi, e non accingersi a fare l' impossibile. Che se poi si considerano le accennate guarentigie, che per lo più i Governi, di cui parliamo, domandano a quelli, a cui essi si riservano di concedere il permesso d' insegnare, sarà facile il vedere, come le medesime, dalla prima fin all' ultima, violino apertamente il diritto che hanno i dotti al libero insegnamento. Già non è solo un impedimento, ma qualche cosa di più, questo solo che il Governo dica a tutti i dotti della nazione: « Io non riconosco punto il diritto naturale che voi avete all' insegnamento, se non siete dichiarati dotti da me con un brevetto ». Obbligare tutti i dotti della nazione a presentarsi al Governo, cioè a persone, che più fortuitamente che altro lo rappresentano in questa bisogna, per essere da tali persone dichiarati dotti a sufficienza per insegnare, per insegnare dico qualunque cosa, incominciando dall' abbici sino alle scienze più speculative, piuttosto che un impedimento, ha l' aria di un' impertinenza. Il Governo con questa pretesa da una parte obbliga tutti i dotti ad un atto di non piccola umiliazione, dall' altra gli obbliga ad un atto non troppo modesto, obbligandoli a farsi avanti per dirgli: « Eccoci, noi siamo dotti, approvateci ». Questa doppia condizione, che il Governo pone alla libertà dell' insegnamento, la condizione d' un atto umiliante, e in pari tempo la condizione d' un atto manchevole di dignità e di modestia, può considerarsi già come un atto di preventiva ripulsa, che il Governo manda ai veri dotti, ed ai migliori tra i dotti della nazione. Non basta però: i dotti, per ricevere l' approvazione governativa, devono subire esami ed altre prove distribuite in una serie più o meno lunga, quale piace di stabilirla ai Governi civili. Questo nuovo impedimento, posto al libero esercizio del loro diritto, è ancora più gravoso del primo. Con questo il Governo viene a dire a tutti i dotti della nazione: « Voi, che pretendete di esser dotti, e perciò d' avere il diritto d' insegnare, io vi obbligo, prima che possiate esercitare il vostro naturale diritto, a farvi discepoli, e ad essere esaminati come fanciulli ». E da chi esaminati? L' esaminatore, che fa da giudice e da maestro, e l' esaminato che fa da scolare e da giudicato, hanno la natural relazione di superiore e d' inferiore. Conviene dunque, che il Governo faccia l' una di queste due cose, o che stabilisca per esaminatori di tutti i dotti, che possono venire a presentarsi all' esame, persone dottissime, le cime della sapienza nazionale, in paragone alle quali, tutti gli altri possano essere ragionevolmente riguardati come semplici scolaretti, ovvero, non facendo questo, conviene che egli obblighi anche i più dotti a farsi scolari de' meno dotti di essi. La prima di queste due cose è tanto difficile, che non credo ci possa essere Governo tanto povero d' intelligenza d' aver il coraggio d' affermare, che quelli che egli stabilisce esaminatori e giudici in tali esperimenti, sieno i più sapienti tra quanti ci possono essere nella nazione. Quando anco il Governo avesse il buon volere di far una tale scelta ottima, è impossibile che i dotti principali vogliano prestarsi al penoso e ingrato ufficio di esaminatori e di giudici degli altri dotti. Il Governo dunque in questo sistema chiama per la necessità della cosa molti, che sono o possono essere più dotti degli esaminatori ufficiali, a subire l' esame e a ricevere la sentenza da questi men dotti di essi. Ma c' è qui patentemente lesione del diritto del libero insegnamento, anche se si considera solo una cosa, cioè che « il diritto d' insegnare sta in proporzione diretta della dottrina, e in quella vece il Governo fa nascere una condizione di cose, nella quale il diritto d' insegnare si trova in proporzione inversa della dottrina », di maniera che adopra in tali casi la sua autorità a far sì che quelli che ne sanno meno insegnino a quelli che ne sanno di più: il che equivale a un togliere il diritto ai dotti e darlo agli ignoranti. La perdita del tempo, gl' incomodi, le noie degli atti ufficiali, le brighe di molte formalità, sono tutti impedimenti posti da tali Governi alla libertà dell' insegnamento. Vengono in fine le spese: spese di viaggi per trasportarsi nel luogo degli esaminatori e dei giudici, e per ivi dimorare fuor di patria il tempo necessario alle prove prescritte: spese d' esami, spese d' attestati, spese di propine, spese di comparse e di formalità, spese e tasse di brevetti e di patenti d' approvazione: sono tutti impedimenti posti al libero diritto che hanno i dotti d' insegnare. Sembra che si voglia con tutto ciò piuttosto che provare la loro scienza, provare la loro borsa. Intanto è evidente, che per quanta scienza o anche sapienza avesse un cittadino, ogni esercizio del diritto naturale di insegnare gli sarebbe interdetto, quando fosse povero. Concludiamo, che in tali Governi non c' è punto la libertà dell' insegnamento, e l' esercizio del diritto naturale d' insegnare non vi è protetto, nè lasciato intatto; ma in molte maniere dalle leggi o disposizioni governative violato. Tuttavia è necessario intendere anche quelle ragioni, che si adducono a giustificazione di tali arbitrii governativi, da quelli che vi hanno interesse. Dicono che tali prove ed esperimenti non si fanno dai Governi collo scopo di porre impedimento all' insegnamento pubblico dei dotti, ma solo per allontanare dal medesimo gl' ignoranti. A questo è facile rispondere che non basta nel Governo la buona intenzione di non mettere impedimento ai dotti, ma conviene che non ce lo metta di fatto. Che se poi il Governo fa quello che non ha intenzione di fare, lungi che ciò lo scolpi, maggiormente lo incolpa. Poichè qual Governo sarà mai quello che vuol fare una cosa e non sa farla, e fa in quella vece la sua contraria? Dicono, in secondo luogo, che non è a presumersi che i primi dotti dello Stato si diano alla professione del pubblico insegnamento: però essi non riceveranno danno da tali leggi e disposizioni. Ma si risponde, che la legge è fatta per tutti, e che se molti uomini dotti non si danno all' insegnamento, questo nasce appunto a cagione che tali disposizioni umilianti, gravose e pedantesche, lungi d' incoraggiarli a dedicarsi a così utile ufficio, li ripulsano, e li disgustano del medesimo. Essa è forse una delle principali cause, per la quale in detto ufficio si ha a lamentare una moltitudine d' uomini mediocri per non dire inetti. D' altra parte, che il legislatore o il Governo, che assume la tutela del pubblico insegnamento, presuma in massa così male di tutti quelli ai quali soli egli riserva la facoltà d' insegnamento, e che su questa presunzione egli formi i suoi regolamenti e le sue leggi, non è certo cosa onorevole pel corpo insegnante della nazione, nella quale in questo modo il diritto d' insegnare sarebbe riservato dalla legge ai soli mediocri, come i soli, che, a giudizio del Governo stesso, a lui si rivolgono per averne la necessaria approvazione. Un Governo civile obbligando tutti i maestri ed istitutori a seguire un unico metodo da lui stabilito per ogni ramo d' istruzione, non è solo violatore del natural diritto al libero insegnamento che hanno i dotti, ma di più è nemico del progresso , e però quando si voglia chiamarlo col proprio nome (giacchè è necessario opporre nomi veri a nomi usurpati, co' quali si lavora di continuo a pervertire l' opinione pubblica), esso merita a buona ragione i titoli di Governo illiberale e stazionario . E` illiberale, perchè opprime la libertà giuridica dell' insegnamento: è stazionario, perchè inchioda il naturale svolgimento dei metodi, intorno ai quali non si dà più alcun progresso possibile nei metodi, dal momento che il Governo non vuole che si usi altro che il suo. « Eccovi, dice ai dotti, eccovi l' unico, l' immobile, il perfettissimo metodo che voi tutti dovete seguire, se pure vi piace insegnare, e, se non vi piace il mio metodo, v' obbligo a commettere la viltà di sagrificare quello che voi credete essere verità e scienza al mio volere, ovvero vi spoglio del vostro diritto all' insegnamento ». Il Governo che colle sue leggi e co' suoi decreti osa metter fuori una tale e tanta pretesa, l' una delle due, o deve credere, che il suo metodo sia l' estremo parto dell' umano ingegno, dopo il quale esso ingegno sia rimasto spossato ed esaurito, ovvero, se crede che in quanto al metodo ci potrebbe pur essere qualche ulteriore miglioramento, collo stabilire quel punto fisso, al quale devono tutti gl' insegnanti sostare, si dichiara inimico della scienza che sta al di là della meta da lui prestabilita, e però nemico del progresso. I metodi dell' insegnamento non si possono certo perfezionare se non per mezzo di liberi, assidui, e non contrastati esperimenti, che facciano i dotti, delle diverse maniere di comunicare il sapere, che essi concepiscono e che possono concepire essi soli. A ragion d' esempio, supponiamo, che il signor Girard avesse dovuto seguire un metodo determinato impostogli dal Governo civile, che cosa sarebbe divenuto di quest' uomo, e de' lumi ch' egli arrecò nell' arte dell' insegnare? Il povero sig. Girard sarebbe restato un uomo ordinario, uno de' volgari maestri che escono dalla forma stabile del metodo governativo, dalla quale la sapienza del Governo intende che devano uscire tutti uguali, quanti sieno per essere i maestri della nazione, salve però le pulighe, che ci rimangono nel gettarli. Così questo grand' uomo sarebbe stato perduto per la società, e la società avrebbe perduto con esso il frutto di tante sue amorose e ingegnose sollecitudini nella difficile arte dell' istruire e dell' educare. Quanti genii perduti! Quanti germi fertilissimi non si devono lamentare compressi e diseccati nelle nazioni da Governi così illiberali e stazionari! I Governi di questa fatta, che restringono tutto l' insegnamento nelle pastoie d' un solo metodo arbitrario, ch' essi elevano fino alla dignità d' una legge, a cui poi esigono che si presti una superstiziosa venerazione, sembrano al tutto persuasi che uno stesso metodo possa essere buono ugualmente per tutti gl' insegnanti. Ma chi non sa, che l' indole varia degli ingegni e delle naturali abitudini fa sì, che un metodo buono in certe mani, non sia più buono in altre, nelle quali un altro all' incontro sarebbe ottimo? Ora, quando i Governi dànno prova di non sapere nè pur questo, come è poi sperabile ch' essi d' altra parte abbiano la sapienza necessaria per trovare e decretare almeno un metodo ottimo in se stesso, se non ottimo relativamente a tutti i precettori? E qui s' avverta, che collo stabilire che fa il Governo un unico metodo d' insegnamento, egli proscrive spietatamente tutti gli altri. Quelli, a cui il metodo decretato non piacesse, sono irremissibilmente esclusi dall' insegnamento. Quelli che, dopo essere entrati nell' insegnamento, s' allontanassero in qualche parte dal metodo prestabilito, bene o male che il facciano, sono rei davanti il Governo, e per conseguenza sono molestati, rimproverati, puniti dal Governo, o dallo sciame de' suoi impiegati, a cui è commessa la vigilanza sull' esecuzione del metodo prescritto: onde non il bene o il male, il profitto o la mancanza di profitto della scuola, è ciò che si premia o che si punisce; ma la formalità del metodo legale diviene il grand' oggetto della pubblica autorità e de' suoi rigori! Un male ne tira un altro. Sovente nel metodo decretato si nasconde una fonte inesausta di vessazioni e di persecuzioni legali a persone le più benemerite, o che potrebbero rendersi tali: e molti eccellenti ingegni impauriti all' aspetto di questo tormento, o si rappicciniscono e ingretiscono, se sono abbastanza vili d' animo o bisognosi di pane, o s' astengono dall' applicarsi a una carriera resa così miserabile, se hanno l' animo nobile e non gl' incalza il bisogno di vivere. In tal modo il Governo si toglie ogni mezzo per conoscere e incoraggiare il vero merito degli istitutori, e invece di prendere un tono veramente benevolo e rispettoso verso di essi, non gli rimane che il piacere di trattarli come gente meccanica e dispregevole, dopo aver egli stesso contribuito a renderla tale. Cotesti Governi dunque alla ferula, che gli antichi maestri usavano cogli scolari, sostituiscono una ferula più crudele ancora pei maestri medesimi, e il loro liberalismo consiste bene spesso nel proibire severamente la prima, e nel maneggiare la seconda per diritto e per traverso, se non sui corpi, sugli animi e sulla stessa dignità umana. Questo dovere d' ogni Governo che mantiene un insegnamento ufficiale, ha il suo fondamento nella giustizia distributiva . Forse qualche Governo, o qualche governiale per lui, dirà (e non sono certo i soli Governi civili che così sragionano, ma pur anche i governiali): « Io ho il diritto d' eleggere gli istitutori ufficiali: dunque posso eleggere chi voglio, e niuno può lamentarsi ». A tutti quelli che hanno pretese così arroganti in un secolo di civiltà, conviene rispondere: « Voi fondate la vostra illazione sopra un diritto indeterminato di eleggere gli istitutori; ma sappiate che diritti indeterminati non ce ne sono: non c' è mai il diritto se non è definito da certi confini. Non si nega dunque, che voi abbiate il diritto d' eleggere gl' istitutori ufficiali, ma si aggiunge che questo vostro diritto non esiste se non ristretto dentro i limiti della giustizia distributiva: al di là comincia tosto il dispotismo, e la lesione dei diritti altrui ». Infatti il Governo è stabilito per amministrare i diversi rami che gli appartengono in modo da ottenere la migliore amministrazione possibile, e il bene pubblico che può provenirne. E però la nazione governata ha il diritto di pretendere ciò dal suo Governo; e se nol fa, è leso il diritto della nazione. Anche l' insegnamento ufficiale, posto che sia un ramo di Governo, deve essere condotto nel miglior modo possibile. Ma questo dipende dalla più giusta scelta degl' istitutori e maestri; e la miglior scelta è quella de' più dotti e idonei. Dunque quest' è un dovere giuridico del Governo civile. Ammesso questo dovere, resta a cercarsi in che modo il Governo possa adempirlo, come possa riuscire a collocare nell' insegnamento ufficiale i più dotti e idonei; e questo è certamente il punto più difficile, e dove più deve spiccare la sapienza governativa. Ma in generale è necessario d' ammettere le seguenti massime. 1 La maniera, colla quale devono essere eletti gl' istitutori ufficiali, non è arbitraria di maniera, che il Governo creda d' aver compìto il suo dovere eleggendoli in qualunque sia guisa, come se si trattasse d' un padrone che prende a suoi servitori quelli che vuole; 2 Le prove legali usate fin qui per riconoscere la scienza dei candidati, prove che arrecano umiliazioni, molestie e spese ai candidati, non conducono a trovare i migliori, ma piuttosto servono ad allontanarli dall' insegnamento, per le ragioni indicate di sopra; 3 I Governi devono stabilire de' metodi i più semplici possibili, co' quali pervengano a conoscere preventivamente quali siano i più dotti e degni d' essere eletti a maestri e istitutori invitando e allettando questi a un così nobile e santo ufficio, con modi rispettosi, cortesi, generosi, e non rendendo loro difficile e grave l' assumerlo, sia ponendo loro tra piedi impacci, incomodi e spese; sia ancor più, accogliendo quelli che vogliono darsi alla buon' opera dell' insegnamento con alterezza d' inquisitori e di giudici criminali, e con villana diffidenza; 4 Se il Governo lasciasse veramente libero a tutti l' esercizio del diritto d' insegnare, e tenesse nello stesso tempo un occhio imparziale ed amorevole sopra tante scuole ed istituzioni che nascerebbero da se stesse in tutte le parti della nazione, quando non fossero compresse o isterilite dal dispotismo governativo o dalla presunzione di scienza che hanno i governanti, gli sarebbe facile ritrovare non pochi maestri che, avendo già fatto il loro tirocinio in tali scuole, e date prove della loro probità, scienza ed attitudine all' insegnare, potrebbero essere da esso invitati a prendere un posto nell' insegnamento ufficiale, a ciò traendoli con emolumenti, onorificenze e vantaggi maggiori di quelli che possono avere in istabilimenti o scuole non ufficiali. Il Governo darebbe in tal modo uno stimolo, e questo produrrebbe un movimento in tutti quelli che si sentono chiamati all' ufficio dell' istruzione e dell' educazione, un movimento, dico, verso all' insegnamento ufficiale, un desiderio di distinguersi, per essere poi eletti od onorificamente invitati dal Governo stesso a prendervi parte. L' Inghilterra (di cui non lodiamo ogni cosa, come fanno certi signori entusiastici), l' Inghilterra, dico, con savio accorgimento, lungi dal mostrarsi ostile agli insegnanti, incoraggia gli stessi maestri privati, dando spontaneamente sovvenzioni e premi a' migliori di essi, e particolarmente premia con assegni in danaro coloro, che sotto di sè vengono formando degli assistenti o de' monitori, come colà si chiamano, i quali poi diventano anch' essi, dopo aver imparato coll' esperienza, buoni maestri; 5 Il Governo deve guardarsi dal pericolo che le elezioni e le promozioni de' maestri e degli istitutori ufficiali non siano fatte per via delle consorterie: non ci vogliono nè consorterie metodistiche, nè consorterie universitarie, nè consorterie di maestri, nè altra generazione di consorterie. Se il Governo civile abbandona fiaccamente in mano a certe consorterie le elezioni degli istitutori ufficiali (e si può dire lo stesso degli impiegati d' ogni dicastero) la giustizia distributiva è bell' e sagrificata all' interesse della consorteria stessa. E oltre che l' insegnamento ufficiale si dissecca e isterilisce in un circolo vizioso, è anche questo una fonte inesausta di discordie, di invidie e di partiti accaniti, che rendono il Governo stesso sempre più debole e sempre più odioso. Ma quest' è un pericolo così grave che gioverà ci torniamo anche sopra. I padri di famiglia hanno dalla natura e non dalla legge civile il diritto di scegliere per maestri ed educatori della loro prole quelle persone, nelle quali ripongono maggior confidenza. Questo diritto generale contiene i diritti speciali seguenti: 1 Di far educare i loro figliuoli in patria o fuori, in iscuole ufficiali o non ufficiali, pubbliche o private, come stimano meglio al bene della loro prole; 2 Di stipendiare appositamente quelle persone, nelle quali essi credono di trovare maggior probità, scienza e idoneità; 3 Di associarsi più padri di famiglia insieme istituendo scuole dove mandare in comune i loro figliuoli. Il diritto che hanno i padri di famiglia di far istruire ed educare da chi giudicano meglio la loro prole non è indeterminato, nel qual caso non sarebbe diritto, ma racchiuso entro alcuni limiti, oltre i quali cessa. Primieramente anche i genitori devono rispettare ne' loro figliuoli i diritti connaturali agli uomini tutti, diritti inalienabili ed assoluti. Perciò i padri di famiglia non hanno alcuna facoltà giuridica di dare o di far dare ai propri figliuoli un insegnamento che gli pervertisca, e se un Governo civile prende sotto la sua tutela questi diritti dei figliuoli, senza invadere, con questo pretesto, la sfera dei diritti paterni, egli esercita una legittima autorità, e adempie ad un suo dovere, perchè il Governo è istituito principalmente per tutelare i diritti di tutti. In secondo luogo, il diritto dei genitori è limitato dal diritto che ha la Chiesa Cattolica all' insegnamento. Come non possono i Governi arrogarsi nessuna autorità su questo insegnamento, così neppure i padri di famiglia: ma e padri e Governi devono dipendere con docilità dal magistero stabilito sopra la terra da GESU` CRISTO (1). In terzo luogo, il diritto che hanno i padri di famiglia di scegliere i maestri e gli educatori che credono migliori, non dà loro il diritto di prescrivere alle persone che eleggono o stipendiano a tale ufficio i metodi e le maniere dell' insegnamento: questo deve rimanere in piena libertà de' maestri stessi e degli educatori. E` vero che i padri possono giuridicamente parlando ridurre a convenzione la maniera dell' insegnare, nel qual caso gl' insegnanti coll' accettare una tale convenzione rinuncierebbero al proprio diritto: ma questo sembra inconveniente, generalmente parlando, come segno di sfiducia dato agl' istitutori, e una viltà da parte degl' istitutori stessi, che sono tenuti, senza bisogno di convenzione, di seguire quel metodo che stimano migliore e a non abbandonarlo per motivi di basso interesse. Riguardo, non di meno, alla parte educativa, dovendo essa venir condotta parte dai genitori, i quali non possono mai commetterla totalmente ad altrui mani, e parte dagli educatori, conviene, e che questi deferiscano ragionevolmente a quelli, e che gli uni e gli altri si mettano in pieno accordo e procedano con una perfetta coerenza ed unità. Finalmente il diritto de' genitori non è una facoltà arbitraria e capricciosa ma temperata dalla ragione e dalla morale: è una facoltà di fare del bene ai figliuoli, e non di far loro del male. I Governi monopolisti dell' insegnamento, come pure tutti quelli che concedono una libertà d' insegnamento di solo nome, inceppando in effetto con innumerevoli formalità e pesi l' esercizio del diritto di insegnare, come abbiamo veduto nel capitolo precedente, ledono anche il diritto dei padri di famiglia, a cui impediscono la piena libertà d' esercitarlo. Poichè è chiaro, che questo rimane tanto più vincolato nella scelta delle scuole e dei maestri, quanto più dal Governo si mettono impedimenti alle scuole e all' esercizio della professione di maestro. Vi hanno tra noi dei dottrinari, che riconoscono nei padri il diritto di fare istruire i loro figliuoli da persone di loro fiducia, scelte senza impedimento, ma poi aggiungono: « Ciò non ostante per al presente non conviene lasciare questa libertà ai padri di famiglia, perchè non ne sanno usare, hanno molti pregiudizi imbevuti nel tempo passato. Conviene dunque per ora privarli di quella libertà, fino che sieno formati alle nuove idee della giornata: allora poi gliela concederemo ». Quelli che così ragionano sono falsi liberali , il che è quanto dire non liberali , sono teste inconseguenti, senza principii. Col loro ragionamento distruggono ad un tempo il concetto del diritto e quello della morale: l' utilitarismo solo, sotto la parola d' opportunità , è rimasto nel fondo di questi animi, e fors' anco senza che il sappiano essi medesimi, perchè gli uomini inconseguenti senza saperlo non hanno numero. Infatti, qual principio seguono mai costoro? Nissuno per ripeterlo. Seguono forse il principio della libertà? Come mai, se suppongono che la libertà non sia qualche cosa in natura, ma una cosa che emana da essi, e in quella misura che essi a loro beneplacito concedono agli uomini ed ai cittadini? Come? se credono di poter disporre a loro arbitrio senza scrupolo alcuno della libertà di tutti, ed esser in facoltà di restringerla e di risecarla, e secondo l' opportunità del sistema del partito che seguono ora concederne una parte maggiore, ora una minore, e in tali modi e forme, che venga a favorire soltanto una consorteria, e non tutti quelli che n' hanno dalla natura il diritto? « Noi non vogliamo favorire una consorteria, ci rispondono; ma vogliamo, che prima di tutto i padri stessi acquistino sentimenti liberali, e sieno affezionati per istima di cuore al sistema costituzionale. Allora la libertà d' istruire ed educare i loro figliuoli, lasciata pienamente ai padri di famiglia, sarà opportuna, e noi loro la concederemo ». Ma, cari signori, volete voi da vero che i padri di famiglia acquistino sentimenti liberali? In che dunque fate consistere questi sentimenti liberali, che volete vedere in altrui, se voi stessi siete despoti fino nei più intimi visceri? Non è egli questo stesso un atto di orribile dispotismo il disporre dei diritti naturali dei padri, il vincolarli, l' impedirne l' esercizio, col pretesto, che non sono ancora divenuti come voi liberali? Non volete dunque la libertà, se non a favore di quelli che sono liberali come voi. Poichè chi siete voi, quando escludete tutti i padri di famiglia, se non una consorteria, anche piccola, di dottrinari? E per dottrinari intendo tutti gli uomini inconseguenti del giusto mezzo , e dell' opportunità. Di più considerate, buona gente, quanto il vostro principio di liberalismo, calante e crescente secondo l' opportunità, sia fatto tutto all' uso ed al comodo dei despoti i più sformati. Non istarebbe bene, anche in bocca di qualunque monarca o Governo il più assoluto, questo vostro ragionamento? « Noi riconosciamo pienamente la libertà come un diritto, ma dipendentemente da noi: la concederemo quando, a nostro giudizio (notate bene: a nostro giudizio come appunto dite voi) sarà opportuno il concederla: il popolo non è ancora adesso maturo ». Che cosa è il popolo se non i padri di famiglia? Quando voi dunque, signori dottrinari, negate la libertà naturale ai padri di famiglia, la negate al popolo: dite quello stesso che possono dire, e che dicono effettivamente i più assoluti Governi. Voi dunque avete l' assolutismo nel cuore e nella corata; e potete formolare il vostro liberalismo così: « Noi aspettiamo che i padri di famiglia diventino liberali, e allora diverremo liberali anche noi, cioè non impediremo la loro libertà. Per intanto vogliamo impedire la libertà altrui, contentandoci di riconoscerne il diritto colle parole ». Ecco il vostro liberalismo. Duole solamente di dover osservare che questo stesso ragionamento in bocca d' un Governo assoluto potrebbe essere vero ed onesto, quando esso non può essere tale sul vostro labbro. Il Governo assoluto non ostenta liberalismo, si crede obbligato di fare da tutore di quelli, che, non sapendo ancora usare della propria libertà, questa non varrebbe loro cosa alcuna. Se dunque un tal Governo giudica ed opera di buona fede, potrà ingannarsi, ma non sarà nè inconseguente, nè inonesto. Ma voi! Voi abborrite l' assolutismo, se vi si dà ascolto, voi riconoscete la libertà come un diritto di questo popolo, voi vivete in una nazione nella quale si dice che la libertà è la base del Governo, dove c' è infatti la libertà della stampa, la libertà di fare il male, d' essere empi e scostumati, senza alcun pericolo di perdere con tutto ciò il titolo di onorevoli. E poi avete tanta paura, che i padri di famiglia non siano liberali abbastanza per esercitare il loro diritto naturale di fare istruire ed educare i loro figliuoli da chi vogliono, e supplicate il Governo di circondarli d' impacci e di ritorte, acciocchè non possano esercitare liberamente questo loro diritto? E` questo un essere coerenti ed onesti? Volete dunque fare servi e schiavi tutti i padri di famiglia, per renderli così liberali al modo che siete voi! Il vostro spirito non è punto inclinato al liberalismo: voi evidentemente non tendete ad altro che a fare dei proseliti alla vostra consorteria , e per questo volete disporre voi soli dell' istruzione e dell' educazione, acciocchè questa consorteria, fatta potente, possa regnare con piena libertà; giunti poi all' intento vostro, allora troverete l' opportunità di gridare a tutti i vostri servi: « Non è vero che adesso siete liberi? ». Secondo voi, tutta la questione dipende dall' opportunità . Ma chi è che giudica dell' opportunità? Siamo noi, ci dite. Ma non ci siete altri che voi al mondo? E se altri giudicassero diversamente da voi? Certo che i padri di famiglia di cui voi portate un giudizio così abbietto, e che volete spogliati della libertà dell' istruzione e dell' educazione da darsi a' loro figliuoli, non potrebbero giudicare come voi, perchè giudicherebbero contro se stessi. Voi pretendete di fare la legge, e che essi la subiscano. Se dunque le opinioni intorno all' opportunità vanno divise, quale prevalerà? Voi dite: la nostra. Sia pure, ma dall' istante che vi sono opinioni contro opinioni, e non c' è nessun giudice che possa dirimere la lite, se prevarrà la vostra, prevarrà perchè siete più forti. Se in un altro momento vi trovaste più deboli, prevarrà la contraria opinione, e ancora sarebbe una prevalenza di forza. Voi dunque, lasciando la via del diritto per quella dell' opportunità, riducete la cosa a questo termine, che non sia più la ragione quella che impera nella società, ma la forza. Volendo dunque sostituita al diritto l' opportunità, che cosa fate, se non inaugurare il dominio della forza? E siete liberali? Se liberali vuol dire uomini senza principii giuridici, che vogliono regnare sul popolo in virtù della forza bruta, ogni qualvolta glie ne sia data loro l' opportunità , ve lo concedo. Ma veniamo alle strette, veniamo al fatto positivo. Qual è la ragione intima per la quale giudicate che i padri di famiglia non siano ancora abbastanza liberali per far buon uso del loro diritto naturale, di far istruire ed educare i loro figliuoli da chi loro ben pare? e che si deva perciò impedire la loro libertà, con vincoli posti appositamente per questo dal Governo civile? Ecco la ragione che voi non dissimulate. I padri di famiglia, attesi i sentimenti da cui al presente sono animati, se fossero liberi di scegliere le scuole e i maestri, metterebbero la loro confidenza nel clero regolare e secolare: è dunque opportuno impedirlo, acciocchè l' insegnamento diventi laico: e diverrà tale sicuramente quando noi prendiam tempo per insinuare nella vegnente generazione altri sentimenti. Il liberalismo adunque de' nostri signori si manifesta sempre più: tutto finisce in una intolleranza religiosa, e in un' ostilità al clero. Dico in un' intolleranza religiosa, perchè fino a tanto che ci sarà religione, si porrà sempre dai padri di famiglia una maggior confidenza negli istitutori ed educatori ecclesiastici, che non sia in istitutori laicali: è cosa naturale ed inevitabile, e basta a vederla il senso comune: la speranza di fare che il clero perda la confidenza a segno d' essere posposti, in così moralissimo e religiosissimo ufficio, al laicato, non può fondarsi ragionevolmente, se non sulla speranza di distruggere la religione. Dio mi guardi dall' attribuire questo pensiero agli avversari che abbiamo preso ad impugnare: siamo anzi persuasi che essi ne sono lontanissimi. Ma la conseguenza logica non è meno inevitabile. Qualunque siano i principii politici che prevalgono in una data nazione (purchè per principii politici non s' intenda, con mala fede, principii d' empietà) qualunque sia la forma del Governo, costituzionale o no, se si conserva la religione cattolica nell' animo de' cittadini, il clero sarà sempre il loro confidente, e in generale crederanno, che esso, dedicato come è per vocazione e per ufficio a tutto ciò che è santo, e che è intemerato, presti loro una assai maggiore malleveria per l' istruzione e l' educazione della loro amata prole, che non possano prestarla uomini secolari involti e spesso ingolfati nei pericoli, negli interessi, nelle brighe del mondo, e da queste continuamente divisi e distratti. Non rimane dunque per venire a capo di secolarizzare l' istruzione e l' educazione, se non l' espediente unico di distruggere il Cattolicismo, o di calunniare e di avvilire così fattamente il clero, che diventi l' obbrobrio degli uomini, e l' abbiezione della plebe. Ma poichè è ferma nostra opinione, che non è in potere de' dottrinari, nè di altri di distruggere in Italia la Cattolica Religione, e che la calunnia e la persecuzione non otterrà che l' effetto contrario, quello cioè di purificare, di ringiovanire, d' avvalorare il clero; perciò crediamo del pari, che non verrà mai l' opportunità , che aspettano cotesti signori, di lasciare inviolati i diritti de' padri di famiglia, e di non impedire la loro libertà di esercitarli. E` vano dunque sperare d' ottenere una sincera e piena libertà d' insegnamento da codesti nostri dottrinari dell' opportunità, giacchè l' opportunità loro non può venire: e guai alle nazioni, a cui venisse una tale opportunità! Ma, e la forma costituzionale del Governo non sarebb' ella messa a pericolo, dicono alcuni, se i padri di famiglia potessero far allevare i loro figliuoli da chi loro ben piacesse? Anzi consolidata. La forma costituzionale, se non offende la libertà giuridica di nessuno, se rispetta, se tutela i diritti di tutti, sarà amata da tutti: la cosa è naturale, gli uomini amano il bene che godono, e non il male che soffrono. Ma se voi, miei signori costituzionali, vi servite di questa forma di Governo per non lasciare al popolo altro che una libertà di nome, e una licenza di fatto, se sotto quella forma non rispettate più i diritti altro che secondo l' opportunità; se ad una consorteria accordate la libertà di dominare , parte colla forza, parte colle leggi fatte da essa, parte colla frode e col raggiro, e intanto mettete le manette ai padri di famiglia, e perseguitate quel ceto di cittadini, che è e sarà sempre il più rispettato di tutti i ceti, voglio dire il clero; se in una parola domandate all' ingiustizia e all' empietà la forza per fondare il sistema costituzionale, come è possibile, che voi lo facciate amare, questo sistema, e che lo rendiate desiderato? Non seminate voi stessi, così operando, l' odio e l' avversione del medesimo? E non raccoglierete quello che avrete seminato? Non siete voi che così confermate, moltiplicate, e in qualche modo giustificate i pregiudizi, anche ingiusti, contro la costituzione dello Stato, giacchè gli uomini, non molto atti a distinguere, attribuiranno ad essa quello che dovrebbero imputare forse solo alla vostra imprudenza, per non dire di peggio? Insomma, o credete che la forma costituzionale si deva fare amare e stimare da tutti i cittadini concordi spontaneamente , o la volete impor loro colla forza e col raggiro. Nel primo caso dovete mutare contegno, e cessare dall' opporvi alle libertà giuridiche di tutti. Nel secondo caso, come potrete voi aspirare al titolo di liberali, se non pensate che a imporre colla forza e coll' astuzia le vostre proprie opinioni politiche agli altri cittadini, costringendoli a diventare costituzionali col dichiarare loro che devono deporre le proprie opinioni e prendere le vostre, se vogliono partecipare anch' essi della libertà di cui al presente voi soli vi reputate degni, e v' erigete in giudici di quelli che sono degni? Ma per tornare a quello che dicevamo da principio, tutto il male sta in questo, che a voi, signori nostri, manca ogni principio di morale e di diritto. Voi l' avete in bocca il diritto, ma mostrate di credere che esso sia fatto a modo di calzetta, che ora si fa larga ed ora stretta. Poichè se « la libertà non è altro che il libero esercizio del proprio diritto », o convien negare che il diritto sia qualche cosa di sacro e d' inviolabile, o convien ammettere che anche inviolabile e sacra sia la libertà naturale e giuridica, di cui parliamo. Ma mettersi al disopra del diritto stesso, e credere di poterlo un dì restringere e l' altro dì allargare, non è questo uno scambiare il diritto coll' utilità e di più con un' utilità fallace? Il principio di quelli che usano la parola diritto nel suo vero significato, e non si servono di essa per coprire onestamente l' utilitarismo, è questo: « Il diritto è inviolabile, sempre, da tutti ». Il vostro principio è quest' altro: « Il diritto va rispettato secondo l' opportunità ». Merita forse questo neppure il nome di principio? Se è un principio, è il principio del dispotismo il più selvaggio, come dicevamo. Il Governo che si attribuisce di potere rispettare i diritti dei cittadini solamente secondo l' opportunità , può commettere qualunque concussione, oppressione, atto di barbarie secondo l' opportunità . Non c' è dunque qui il giusto mezzo: o il rispetto del diritto deve essere anteposto all' opportunità, o l' opportunità anteposta al rispetto del diritto. Nel primo caso non potete senza contraddizione riconoscere la libertà dei padri di famiglia come un diritto, e poi impedirne loro l' esercizio, consultando l' opportunità (già s' intende l' opportunità che risulta dal vostro particolare giudizio che imponete per legge a tutti). Nel secondo caso confessate che il dispotismo è quello che veramente volete salvo, e che gli avete mutato nome chiamandolo libertà, costituzione e simili. Un lamento universale di tutti gli uomini probi e onesti accusa il nostro secolo d' uno spirito di materialismo (1), che guasta profondamente le parti più vitali dell' individuo e della società. E veramente, benchè il materialismo dal secolo scorso in qua sembri aver perduto nell' ordine speculativo, s' è diffuso però immensamente nell' ordine pratico, ed è penetrato in tutte le relazioni della vita. Per questa via si è messa nelle menti la persuasione, che chi paga un altro uomo per qualche ufficio, acquisti una illimitata autorità su di lui e sull' ufficio, qualunque sia, che viene affidato alle sue mani contro uno stipendio assegnatogli. Col qual principio gli uomini che ricevono uno stipendio grande o piccolo, diventano veri servi. Il che è cosa tanto più sconvenevole, quant' è più nobile e liberale l' ufficio che sostengono. E pochi sono gli uffici più nobili e più liberali di quello di maestri e d' istitutori della gioventù. E` dunque a stabilirsi prima di tutto questo principio, che i maestri e gli educatori non devono esser trattati come servi , da chi dà loro lo stipendio, ma con riverenza e gratitudine pel servizio che rendono alla società. Premesso questo principio generale, è necessario che dividiamo in tre categorie quelli che suppliscono alle spese delle scuole e istituti educativi: poichè altri vi suppliscono per puro spirito di beneficenza; altri per ispirito di speculazione, traendo da tali scuole ed istituti guadagno per sè; altri finalmente suppliscono alle dette spese non del proprio, ma come amministratori del danaro altrui. Di ciascuna di queste tre categorie di persone si può domandare quali diritti loro competano riguardo all' insegnamento. Come abbiamo difeso i diritti che hanno i dotti all' insegnamento, e sostenuto che un Governo liberale dee lasciarne libero l' esercizio, così del pari diciamo, che tutte le anime generose che vogliono far del bene, e, per non uscire dal nostro argomento, vogliono istituire e mantenere del proprio scuole e collegi d' educazione, n' hanno un naturale diritto, e deve esserne lasciata loro la piena libertà d' esercitarlo. Deve loro essere ancora lasciata la libera scelta de' maestri ed istitutori, salvo il dovere morale che loro sempre rimane d' eleggerli con saviezza. Ma questo diritto ha egli de' limiti? Ripetiamo che nessun diritto ne è senza. Quali dunque sono? Non si dà diritto d' insegnare se non entro i tre limiti generali, indicati a principio, cioè che chi insegna abbia scienza , insegni cose oneste , e in un modo inoffensivo . Questi benefattori dunque sono obbligati di scegliere i maestri e gl' istitutori tra persone che abbiano il diritto naturale d' insegnare, cioè tra persone dotte e fornite di quella moralità che si richiede a insegnare cose oneste, e in un modo inoffensivo. I diritti dunque de' benefattori devono essere conciliati con quelli della Chiesa Cattolica e de' dotti e in tal modo quelli riescono temperati da questi. Abbiamo anche veduto, che è un diritto de' dotti lo stabilire i metodi dell' insegnamento. Non devono dunque i benefattori imporre a loro arbitrio il metodo che seguir devono i maestri nelle scuole; ma su questo punto dee valer anche pei benefattori quello che abbiamo detto parlando de' padri di famiglia. A certuni la libertà, che noi desideriamo, sembrerà soverchia. Ma quelli che così la pensassero, sospendano la loro sentenza, fino che abbiano inteso l' intero nostro pensiero: dopo aver letti questi nostri cenni fino alla fine considerino l' intero del sistema, e la relazione delle diverse sue parti. Avendo noi diviso l' influenza sull' insegnamento tra sei persone giuridiche, assegnando a ciascuna la sua porzione, egli è evidente, che intendiamo che coesistano tali diritti tutti insieme, e questa coesistenza simultanea è appunto quella, che per la stessa natura della cosa li modera reciprocamente e naturalmente nel loro esercizio, e gli armoneggia insieme. E per fare un cenno di questa specie di naturale limitazione anticipiamo qui qualche osservazione di quel più che diremo poi parlando de' diritti del Governo civile. Il Governo civile ha anch' egli de' diritti, che si riferiscono alcuni direttamente, altri indirettamente all' insegnamento, e anch' esso dee avere la piena libertà d' esercitarli, perchè la libertà è da per tutto dov' è il diritto, non essendo ella altro che « l' esercizio non impedito del diritto ». Facciamo dunque cenno di due soli de' diritti del Governo, riservandoci a parlar degli altri a suo luogo, e subito apparirà quanto essi, esercitati sapientemente, limitino nel fatto e legittimamente la facoltà che abbiamo data ai dotti, ai padri di famiglia e ai benefattori d' insegnare o d' istituire scuole e stabilimenti educativi. Uno di questi diritti del Governo, date certe condizioni, è quello d' istituire un insegnamento ufficiale. Ora l' insegnamento ufficiale limita di fatto e legittimamente gli altri insegnamenti in due modi; il primo colla concorrenza, per la quale si limitano i diritti delle varie persone reciprocamente, e al Governo non mancano i mezzi di rendere, se egli è savio, l' insegnamento ufficiale migliore degli altri. A cui s' aggiunge, che quando gli alunni delle altre scuole vogliono passare alle scuole ufficiali, il Governo ha il diritto, non già d' imporre loro condizioni arbitrarie, ma sì d' avere da essi una prova, che li dimostri istruiti al pari degli altri alunni dell' insegnamento ufficiale, di cui aspirano ad essere condiscepoli; cioè di far subire ad essi, prima d' ammetterli, un esame che a dimostrare ciò sia sufficiente: il che dee eccitare i presidenti dell' altre scuole ad emulare l' eccellenza dell' insegnamento ufficiale. Il secondo diritto del Governo è di non ammettere negli impieghi, se non quelli che abbiano le cognizioni necessarie alla carriera in cui vogliono entrare. Questo non dà mica al Governo il diritto di escludere dagli impieghi a priori e in universale tutti quelli che non sono stati istruiti nelle sue scuole, e nè pure di sottomettere gli altri ad esami arbitrari e indeterminati, ma sì bene ad esami sufficienti per riconoscere con pratica certezza se gli aspiranti, in qualunque luogo e modo sieno stati ammaestrati, abbiano le cognizioni richieste a quella carriera di pubblici impieghi. Certo, che per fare tutto questo, senz' arbitrio, il Governo deve definire avanti con precisione la sfera e la natura di queste cognizioni, ed esigerle egualmente da quelli che escono dalle scuole ufficiali e dalle altre: ma entro questa sfera l' esame dovrà essere egualmente rigoroso e concludente per tutti. A noi sembra che questi soli due mezzi legittimi, per tacere degli altri, potrebbero avere grande efficacia ad impedire che sorgessero scuole e stabilimenti d' educazione troppo imperfetti, a malgrado che niuna legge li proibisca. Poste dunque queste provvidenze governative, non vedo che difficoltà ci possa essere a lasciare interamente libera la beneficenza. Che male ne seguirà, se ognuno che voglia col proprio danaro far del bene, istituisca scuole e stabilimenti educativi a suo piacimento e senza formalità burocratiche? Egli è chiaro, che se quelle e questi non saranno tali che istruiscano i giovanetti tanto da renderli capaci di sostenere l' esame richiesto, sia per passare nelle scuole ufficiali, sia per essere introdotti ne' pubblici affari, assai pochi vorranno mandare a quelle scuole i loro figliuoli. Non intendiamo punto di dire che anche quelli che dal mantenimento di scuole e collegi traggono guadagno, non possano unire a questo fine, d' un onesto guadagno, un sentimento di beneficenza. Ma il nostro discorso essendo rivolto a dichiarare come un savio Governo civile possa fondare i suoi regolamenti esterni intorno all' insegnamento sui diritti naturali, non possiamo tener conto di quelle disposizioni interne dell' animo che non sono punto manifestate con un segno e una prova esteriore. Convien dunque che distinguiamo la classe de' benefattori da quella degli speculatori colla prova di fatto che ce ne danno; e così alla classe de' benefattori si dovranno ascriver quelli che non ritraggono guadagno per sè dalle scuole o istituti, che mantengono in tutto o in parte del proprio, e alla classe degli speculatori quelli che ne traggono a se stessi guadagno. Quando dunque sia dimostrato, che le scuole non danno compenso alcuno al benefattore che le mantiene del proprio, o se da esse si trae qualche cosa, questo non agguaglia la spesa necessaria a mantenerle, e non fa che diminuire la spesa del contribuente, ma non toglierla del tutto, allora colui che le mantiene va ascritto tra i benefattori; quando poi il reddito, che rendono le scuole istituite da qualche persona o società eccede la spesa necessaria, e l' eccedente va a profitto dell' imprenditore di esse, costui deve computarsi tra gli speculatori. Per speculatori dunque intendo solo quegl' individui o persone morali che, mettendosi all' impresa d' una scuola o d' un collegio, ne conducono l' amministrazione a conto proprio, e a tal fine stipendiano maestri e istitutori, e fanno l' altre spese occorrenti, esigendo da' discepoli, o da' convittori, una retribuzione o pensione, calcolata a intento di cavarne guadagno per se stessi. Non si comprendono in questa classe i maestri o istitutori che ricevono stipendio, ma si comprende in essa anche un maestro, se a suo nome e per conto suo facesse andare l' economia d' uno stabilimento di scuole. Del pari non si comprendono quegli stabilimenti che, essendo fondazioni benefiche (sotto il qual nome intendo uno stabilimento o collegio, che stia da sè con esistenza perpetua), hanno un' amministrazione propria, e gli avanzi che vi si facessero, restassero a vantaggio e incremento dell' opera, o della fondazione stessa. Veduto quali siano gli speculatori, diciamo, che questi, come tali , non hanno diritto alcuno naturale sull' insegnamento, o ad influire in esso: non hanno nè il titolo della dottrina, nè il titolo della paternità, nè il titolo della beneficenza. Il titolo della dottrina vale per insegnare: il titolo della paternità vale per la scelta de' maestri e degli istitutori dei propri figliuoli: il titolo della beneficenza vale per istituire scuole e collegi. Il titolo della speculazione non vale per nulla di tutto questo, e però ad essi non compete nessun diritto naturale all' insegnamento, nè ad influire in esso. Ridotta così la questione, è chiaro, che essa già non appartiene più a quella della libertà dell' insegnamento, ma rimane una questione riguardante le industrie, che può essere esaminata sotto il lato morale, sotto il politico e sotto l' economico o finanziario. E` chiaro in secondo luogo per giusta conseguenza, che, qualora anche il Governo civile il giudicasse opportuno (ecco dove può, e dove deve entrare l' opportunità), egli potrebbe proibire affatto tutte queste speculazioni, senza offendere il principio della libertà dello insegnamento. In terzo luogo è certo ancora, che molte ragioni militano per la proibizione assoluta di questo genere d' industrie, benchè non ci dissimuliamo la difficoltà di determinare il modo con cui si potrebbero sopprimere. E` infatti evidente, che c' è qualche cosa di sconveniente e di repugnante nel far servire l' istruzione e l' educazione della gioventù ad una speculazione economica, nella quale ciò che ha una natura così nobile e santa, com' è la comunicazione della scienza e della virtù agli uomini, diviene un semplice mezzo ad un fine materiale. Che anzi l' opera d' istruire e di allevare i giovanetti è per se stessa d' indole tutta caritativa, e solamente allora ella conserva la sua dignità e procede col decoro e coll' onore dovutole quando è affidata a persone virtuose che l' assumono per impulso di carità, e co' più elevati e generosi sentimenti. Queste, e queste sole, danno nel loro carattere morale, provato col fatto del disinteresse, una guarentigia certa alla società, che l' opera virtuosa deva ben riuscire. A che può guidare di sua natura il fine dell' interesse temporale, se non a ritrarre il maggior guadagno possibile dalla speculazione? Perciò lo speculatore (presciendendo da una virtù personale straordinaria) farà talora delle cose buone, talora delle cose cattive, secondo che gli suggerirà la politica dell' opportunità: egli vorrà piacere troppe volte più ancora ai tristi che ai buoni, cioè ogniqualvolta da quegli spererà un guadagno maggiore e un maggior incremento della sua industria: sceglierà quelle dottrine, quelle massime educative, che più secondino all' andazzo de' tempi, e vorrà maestri e istitutori conformi a questo suo bisogno. Così gli stabilimenti insegnativi ed educativi non avranno per fondamento nessun principio fermo e inconcusso di verità, di giustizia, di dovere e di diritto, se non per un accidente delle circostanze. Aggiungete a questo, che l' interesse consiglia gli speculatori a dare un' importanza esagerata a tutte quelle superficialità, e mostre esteriori, che fanno stupire la moltitudine dell' abilità e del sapere dei giovanetti: l' educazione così si rende apparente e ciarlatanesca, e manca di solidità: l' uomo così non si forma, ma piuttosto si disforma e corrompe: s' avranno dunque giovanetti pieni di vanità, con un sapere indigesto e ciarliero, senza un vero carattere morale, non utile a se stessi, non alla patria. Tali stabilimenti di speculazione vivendo necessariamente della pubblica opinione, è naturale, che l' imprenditore per procacciarsela, sia inclinato ad adoperare tutte quelle arti che gliela possono accaparrare. E non mancano certamente i mezzi onesti e disonesti, non manca la stampa, non mancano i giornali, non mancheranno dunque gli elogi ampollosi e mendicati. Così sorge una celebrità fattizia, frutto d' innumerevoli menzogne, bassezze, adulazioni, camarille e collusioni. E tra questi mezzi non è l' ultimo certamente quello di denigrare abilmente, o di ribassare, la fama degli altri stabilimenti simili, e non tanto i confratelli di speculazione che si rispettano, perchè hanno causa comune, quanto gl' istituti fondati sulla beneficenza e sul diritto. All' incontro tutte le istituzioni benefiche in mano d' amministratori fiduciosi o legali, e molto più gli uomini generosi che non hanno in mira alcun guadagno, devono sostenere con tali speculatori una lotta troppo ineguale. Essi non saprebbero abbassarsi ad adoperare arti maligne ed astute, e non trovano punto in sè a gran pezza quella attività smaniosa che tutto tenta e tutto sommove per dare ai propri stabilimenti una fama: il solo fine del bene della gioventù raccoglie tutto il loro pensiero e le loro facoltà. Anzi i benefici e i virtuosi non sanno neppure difendersi dagl' ingiusti attacchi che loro possono venir fatti, o quand' anche lo sapessero è loro infinitamente molesto il discendere a tali zuffe indecorose, che non possono riguardare solamente le cose, ma prendono necessariamente un' indole personale. Proibendo dunque la speculazione sull' educazione e sull' istruzione della gioventù, il Governo civile tutelerebbe il diritto degli uomini benefici, e quello de' padri di famiglia, togliendo da' loro occhi una seduzione funesta o molesta. Sono lontanissimo, lo ripeto, dal voler dire, o dal credere, che tutti gli speculatori facciano uso delle arti sopra accennate: convengo anzi che ce ne possono essere di buoni. Ma il Governo, lo ripeto, non può fondare le sue leggi sulle eccezioni o su quello che può avvenire, ma su quello che è conforme alla natura delle cose, ed è verisimile che avvenga. Pure, si dirà, che anche le industrie devono lasciarsi libere. Ma, anche quando sieno tali che invece di vantaggio rechino generalmente pregiudizio alla società? Specialmente nell' ordine più elevato, qual è quello della dottrina, della morale, della religione? Che se il Governo civile trova difficile o inopportuno venire al taglio di cui abbiamo parlato fin qui, reputo che egli debba esigere da tali speculatori valide guarentigie del buon andamento dello stabilimento, e che questo non sia punto nuocere alla libertà dell' insegnamento, poichè altro è speculazione , come dicevamo, ed altro è insegnamento . Ci vogliono delle guarentigie, acciocchè questo non sia sacrificato a quella, essendo flagrante il pericolo. Ma queste guarentigie sono difficili a determinarsi; e tutte sarebbero inutili, se non ci fosse in primo luogo una moralità e religiosità non comune nello speculatore. Ma questa da una parte è quasi impossibile accertarsi con prove esterne o legali, dall' altra è inquisizione delicata, odiosa e molesta. Che se il governo si riserberà la facoltà di concedere la licenza di aprire tali stabilimenti solo a persone distinte per conosciuta probità e religione, c' entrerà l' arbitrio, e si griderà all' ingiustizia. Se poi la concederà a tutti quelli contro i quali non ci sia un carico di notoria immoralità o un delitto, si ricadrà negli inconvenienti che abbiamo sopra notati. La concederà dunque a condizione che lo stabilimento non abbia mai per capo lo stesso imprenditore economico, ma un' altra persona nominata liberamente dal Governo stesso, a cui sia affidata intieramente la direzione dello stabilimento per tutto ciò che riguarda l' istruzione o l' educazione? Forse questo sarebbe l' espediente più sicuro. Ovvero il Governo, oltre prestabilire certe norme generali per tali stabilimenti, ricorrerà a visite, inquisizioni e cose simili? Ma torneremo in tal caso alle infinite e moleste indagini, alle pedanterie, alle formalità burocratiche. C' è dunque tanta difficoltà a impedire gl' inconvenienti, che possono trar seco con tutta probabilità le imprese di speculazione economica sull' educazione della gioventù, che mi sembra questa una nuova prova di quello che dicevamo essere desiderabile che cessino affatto. Questi altro diritto non hanno che quello d' amministrare coscienziosamente l' avere altrui. Essi non possono amministrare le sostanze temporali destinate a beneficenza, come se ne fossero padroni. Anzi quelli che sono chiamati a goderne il beneficio, devono esserne considerati come i veri proprietari: ed è conveniente che gli amministratori diano loro guarentigie sufficienti della loro amministrazione e dispensazione. Come la nazione ha diritto di pretendere che le siano date sufficienti guarentigie dell' amministrazione governativa, così la provincia ha lo stesso diritto verso l' amministrazione provinciale, e il Comune verso la comunale, e il popolo, a cui favore cade o cader può la beneficenza, può richiederne dalle congregazioni di carità, e da ogni amministrazione di fondi destinati a beneficenza. S' aggiunge che anche tutti quelli, i cui diritti sono implicati in tali amministrazioni, e possono da esse essere violati, hanno giusta ragione di richiedere, per quello che riguarda l' insegnamento, delle guarentigie sufficienti. Dalle leggi d' un savio e giusto Governo, intorno all' istruzione ed all' educazione, dovrebbero risultare in un modo diretto o indiretto tutte queste diverse guarentigie. Ma il punto più importante e delicato riguarda la nomina dei maestri. Su questo punto devono esser date guarentigie: 1 Alla Chiesa pel suo diritto all' insegnamento coll' educazione cristiana; 2 Ai dotti pel diritto di preferenza in ragione della dottrina, probità e idoneità; 3 Ai padri di famiglia la cui figliolanza è chiamata a godere il beneficio di tali istituti. Per arrivare a questo, io credo, che il metodo da tenersi nell' elezione de' maestri e degl' istitutori in tali stabilimenti, qualora non sia determinato dalla volontà espressa del fondatore e benefattore, converrebbe che fosse sapientemente prefinito, evitando i due scogli egualmente pericolosi dell' influenza in tali elezioni degli amministratori economici, e dell' influenza d' un corpo di persone immutabili. Converrebbe dunque secondo noi: 1 Che quelli a cui è commessa l' amministrazione dei beni dello stabilimento, non avessero alcuna parte nella nomina o scelta de' maestri e istitutori; 2 Che la detta scelta dipendesse bensì dal giudizio di un certo numero di persone dotte e probe, ma non sempre dalle stesse, ma variate di volta in volta, o per via di sorte, o in altro modo senza regola fissa, come si dirà in appresso, e che dovesse avvenire l' elezione in tal modo, che nella buona riuscita fosse impegnato il loro onore. Noi abbiamo posta in questo modo la questione perchè si pone così comunemente; l' abbiamo posta così per avere l' occasione di osservare, che, così posta, involge un equivoco. Infatti, che cosa s' intende per Comune? Non altro che quel gruppo di persone che lo rappresenta, e come suo rappresentante lo governa. Che cosa s' intende per Provincia? Non altro che quel gruppo di persone che la rappresenta, e come suo rappresentante tratta i suoi interessi. Ma non è da farsi illusione. Altro è il governo comunale, ed altro il Comune, altro il Consiglio provinciale e altro la Provincia. La questione dunque si riduce a quest' altra: « Qual è il diritto circa l' istruzione e l' educazione che compete a que' gruppi di persone, che sono designati a rappresentare i Comuni e le Provincie? ». Questa distinzione è necessaria, perchè la rappresentanza può essere illusoria o effettiva. E` una ricerca di alta politica quella del modo, nel quale si possono avere rappresentanze politiche effettive e non di puro nome, e finora non fu sciolto il problema, almeno nella pratica. La nostra opinione si è, che sono effettive le sole rappresentanze reali, e che sono illusorie le rappresentanze meramente personali. In altre parole: sono effettive quelle rappresentanze che rappresentano gli interessi, e non sono tali quelle che rappresentano le persone. Se mi si domandasse oltracciò, quando ci sia questa rappresentazione degli interessi in quel gruppo di persone che presiedono alla società, e la governano, e quando non ci sia, risponderei: « C' è la rappresentanza degli interessi quando quel gruppo di persone che rappresenta la società, abbia in sè compendiati gli interessi di tutti; di maniera, che, se prendono una deliberazione, la quale sia vantaggiosa agl' interessi del gruppo de' rappresentanti, ella debba di necessità riuscire vantaggiosa anche agl' interessi complessivi di tutta la società rappresentata, e se prendono una risoluzione che sia nocevole agli interessi complessivi della società rappresentata, questa deliberazione di necessità riesca proporzionatamente nocevole agli stessi interessi del gruppo dei rappresentanti che la prendono ». Allorquando può aver luogo il contrario, cioè allorquando quelle disposizioni che giovano ai rappresentanti possono esser nocive ai rappresentati, e quelle disposizioni che sono nocive ai rappresentanti, possono essere vantaggiose ai rappresentati, allora essi non rappresentano gl' interessi di tutti, ma rappresentano le nude persone. Ora questa rappresentazione vera, lo ripeto, non è stata ancora mai trovata in pratica, ed è riserbato il trovarla, e il ridurla all' atto, agli ulteriori progressi della società umana. Noi dunque tratteremo la nostra questione partendo dal principio che finora nè l' amministrazione de' Comuni, nè quella delle Provincie, nè quella dello Stato è veramente rappresentativa, benchè ne abbia il nome, e dietro questo nome si teorizzi, e dietro queste teorie si operi: di che poi avviene che l' effetto non corrisponda alla aspettazione. Crediamo doversi distinguere la rappresentanza comunale dalla rappresentanza provinciale come istituzioni di natura grandemente diverse. Il Comune è una vera società di persone, che convivono intimamente unite sul medesimo suolo, e in una continua relazione tra loro: è dunque naturale e necessario, che essa abbia un capo e un Consiglio sul luogo, che la rappresenti e la governi. Tale fu il primo Governo di diritto sociale, il nucleo di tutti i Governi di questa classe. Non si può dire lo stesso della Provincia. Che tutti i Comuni d' una nazione abbiano un vincolo, che siano associati, e che questa associazione di Comuni abbia un capo supremo e un governo, questo pure s' intende utile e necessario a costituire una nazione. Ma da per tutto, dove c' è un sovrano e un Governo generale di diritto sociale, c' è anche o ci deve essere quell' associazione dei Comuni, e non si vede necessario, che sieno costituiti de' corpi intermedi aventi un' autorità di diverso genere e in parte indipendente dal Governo generale. Si dee concepire dunque il Consiglio provinciale come un semplice organo e un aiuto del Governo generale per provvedere agl' interessi speciali delle Provincie, senza che abbia in diritto altra autorità che consultiva, e questo per non scindere l' unità del governo dello Stato e indebolirlo. Tale mi sembra che debba essere ed anche che in fatto sia il concetto del Consiglio Provinciale. Consideriamo dunque a parte il diritto dell' autorità comunale e il diritto del Consiglio provinciale. Ogni governo sociale, grande o piccolo, non è istituito se non per supplire a ciò che non possono fare e non fanno le famiglie e gl' individui, che compongono la società a cui presiede. Non ha dunque nè il diritto nè l' ufficio d' impedire l' attività dei governati, ma di supplire a quello a cui essa non può giungere e di regolarla affinchè non nascano collisioni e danni. Deriva da ciò che i Governi devono lasciare illesi e proteggere tutti que' diritti che sono per loro natura anteriori ad essi. L' autorità comunale dunque, qualunque diritto possa avere, diritto dico derivante dal suo concetto, circa l' insegnamento e l' educazione, deve come lo stesso Governo generale rispettare e lasciar intatti: 1 Il diritto della Chiesa Cattolica; 2 Il diritto de' dotti; 3 Il diritto de' padri di famiglia; 4 Il diritto de' benefattori e di tutte le istituzioni benefiche, che dopo la morte de' benefattori acquistarono un' esistenza per sè. Quel diritto, che l' autorità comunale può esercitare circa l' insegnamento e l' educazione, qualunque sia, è posteriore a tutti questi quattro generi di diritti: ella non deve esser ostile ai medesimi, anzi deve considerarli tutti come preziosa ricchezza del Comune stesso a cui presiede. A malgrado però che i diritti di quelle quattro persone giuridiche sieno mantenuti illesi e liberi, può avvenire che non sia ancora supplito ai bisogni del Comune stesso circa l' istruzione e l' educazione. L' autorità comunale dunque non può intervenire in quelle scuole e istituzioni d' educazione che già esistono nel Comune, e che non sono di sua fondazione, le quali devono rimanere perfettamente libere; ma se queste non bastano, ella ha il diritto di aggiungere altre scuole e collegi, quanti se ne richiedono a supplire al detto bisogno della popolazione comunale. E questo diritto esso lo ha come rappresentante de' padri di famiglia. Che se la rappresentazione fosse vera ed effettiva questo diritto non avrebbe altri limiti che i sopraccennati, e il governo generale dovrebbe lasciarlo integro e liberissimo. Ma che non ci abbia ancora nei Comuni un' autorità che si possa dire veramente rappresentativa degli interessi complessivi del Comune, i Governi stessi, dico anche i costituzionali, se ne mostrano persuasi, poichè sentono la necessità di tutelare il Comune contro l' autorità comunale. A ragione d' esempio essi mettono un limite alle spese comunali, essi si riservano l' approvazione delle spese che l' autorità comunale decreta. Non è egli evidente, che quest' atto di autorità tutoria sarebbe superfluo, quando quel corpo di persone che decreta tali spese rappresentassero fedelmente tutti gl' interessi del Comune? In tal caso sarebbe lo stesso come se gli stessi proprietari tutti insieme lo decretassero. Quando ciò fosse, la spesa non potrebbe mai eccedere, poichè se ci possono essere tra i proprietari alcuni prodighi non può esser mai prodigo tutto il corpo dei proprietari, chè l' attacco ai propri interessi è assai più comune tra gli uomini, che non sia la noncuranza de' medesimi. La necessità dunque che l' autorità tutoria del Governo eserciti una continua vigilanza sull' economia del Comune è una prova evidente, che l' autorità comunale non è organizzata in modo da rappresentare e compendiare in se stessa gl' interessi di tutti. Quelli che si lasciano prendere alle parole e alle forme, credono che quando si può dire: « Qui c' è un corpo di rappresentanti »non ci sia da cercar altro, non importi più esaminare come questo corpo sia composto, se esso sia un corpo di rappresentanti nominali, o reali ed effettivi. In conseguenza di questo equivoco, essi bramerebbero sciogliere subito i Comuni, e non solo i Comuni ma anche le Provincie, da ogni autorità tutoria del Governo generale. Io credo che l' intervento di questa si potrà diminuire di mano in mano che si perfezionerà la maniera di organizzare l' autorità comunale, rendendola una rappresentazione che s' approssimi sempre più a rappresentare veramente tutti gl' interessi. Credo che un uomo assennato direbbe al Governo che si mette per questa via: « Sciogliete pure l' autorità comunale da' vincoli superflui, ma vi resti bene in mente, che altro è questa autorità, ed altro i Comuni stessi, e per isciogliere dalla tutela quell' autorità, non crediate di rendere libero il Comune: anzi se non procedete con prudenza, potrebbe avvenire, che con questa vostra apparente liberalità il Comune stesso, contro la vostra intenzione, si trovasse sottoposto a una servitù maggiore ». Noi non siamo punto gli amici della centralizzazione, ma non bramiamo neppure che il Governo si disciolga in tante repubblichette del medio evo. Il Governo centrale deve essere forte, e in pari tempo tutti i governati devono godere della maggiore libertà. Saper distinguere ciò che appartiene alla forza del Governo, e non alla libertà de' governati, e ciò che appartiene alla libertà dei governati, e non alla forza del Governo: nulla cedere di questa, e nulla usurpare di quella: ecco una delle parti principali e delle più difficili della sapienza politica. Da questo il lettore intende, che, quantunque noi concediamo alle autorità comunali d' istituire scuole e collegi entro i limiti, che abbiamo indicati, non crediamo però che esse debbano andarsene sciolte da ogni tutela e riscontro del Governo centrale. E questa tutela è più necessaria ne' Comuni piccoli, che ne' grandi, poichè ne' primi per la scarsezza di persone istruite e capaci cade l' autorità più facilmente in mani inette, e bene spesso è il caso; o di un piccolo partito, quello da cui dipende l' elezione dei rappresentanti, se così si vogliono chiamare, del Comune. Vediamo dunque una disposizione utile, che il Governo obblighi i Comuni, che vogliono istituire scuole, a istituire prima quelle che sono più necessarie al Comune stesso, e solamente dopo di queste le altre meno necessarie. Crediamo ancora che il Governo non debba abbandonare totalmente l' elezione di tali maestri all' autorità comunale, ma debba obbligarla a quelle condizioni e a quel metodo d' elezione, che ne guarentisca la scelta migliore. Queste condizioni e questo metodo, secondo noi, dovrebbe essere fisso, e non mutabile, come sono mutabili le amministrazioni comunali. Se all' arbitrio di queste ne fosse abbandonata la scelta, verrebbero soventi volte eletti da un' amministrazione de' maestri, che sarebbero stati rifiutati dall' amministrazione precedente, o che si vorrebbero esclusi dall' amministrazione seguente. D' altra parte l' abilità de' maestri e de' professori non può essere, universalmente parlando, valutata con giudizio proprio dalle persone, che costituiscono le amministrazioni comunali: queste devono informarsi da altre: non giova dunque lasciare, che l' elezione dei maestri dipenda da informazioni e raccomandazioni casuali: convien meglio che sia tracciata una via sicura, acciocchè il Comune abbia delle guarentigie d' una buona scelta contro l' autorità comunale. Finalmente crediamo che debbano esser messi de' limiti all' autorità comunale, sia che si tratti di licenziare i maestri già eletti a tali scuole, sia per rispetto all' ingerenza che la detta autorità possa prendere nell' andamento delle scuole. Il Governo deve proteggere i maestri legittimamente eletti, e non permettere che vengano licenziati da un momento all' altro e senza giusti motivi: dee proteggere la loro libertà nell' uso de' metodi, e nella condotta delle scuole, e non abbandonarli alla mercè d' opinioni accidentali, che possono esser capricci, puntigli, personali antipatie, o goffaggini. Altrimenti l' ufficio di maestro e d' istitutore sarebbe avvilito, e prenderebbe l' aspetto d' una ignobile servitù (1). Abbiamo già detto qual concetto noi ci facciamo del Consiglio provinciale: è un corpo di persone, che danno informazioni e consigli al Governo, e discutono e porgono petizioni a favore della provincia che rappresenta. Non crediamo dunque che gli possa competere, in virtù del concetto della società civile, nessuna facoltà decretoria: e che il Governo centrale non potrebbe cedergliene una parte, senza grave detrimento della sua propria perfezione, essendo la forza legittima del Governo centrale il primo elemento della forza della nazione. E appunto perchè tale è l' indole del Consiglio provinciale, avviene che questo non sia permanente, ma una semplice consulta che s' unisce a certi tempi secondo il bisogno. Noi crediamo dunque conseguentemente, che ad esso, come tale, non ispetti nessun diritto nè d' istituire scuole o stabilimenti, nè di averne la direzione o sopraintendenza, ma soltanto quello di proporre al Governo quanto possa esser necessario ed utile alla provincia stessa intorno all' insegnamento. Col nome di scuole provinciali dunque, se così piace chiamarle, altro non si può intendere, secondo noi, se non quelle scuole o quei collegi ufficiali che il Governo giudica opportuno di istituire in ogni provincia. Siamo pervenuti alla parte più difficile e più controversa di questa trattazione: la parte che dee prendere il Governo civile nello insegnamento. Egli è chiaro che la questione riceve una soluzione diversa, secondo che si parte da un concetto diverso dello Stato. Infatti lo Stato si può concepire e fu concepito in tre diverse maniere: o come una signoria , o come una tutela , o come un' amministrazione sociale . Si può concepire come una signoria , tanto se si suppone che il signore che vi presiede sia una sola persona individuale, quanto se si suppone che il signore sia una persona collettiva: per concepirlo in questo modo basta attribuire al Governo i diritti che ha un signore sopra i suoi servi. Si può concepire lo Stato come una tutela , e del pari la persona, che n' è investita, può essere tanto un individuo, quanto una collezione d' individui; e per concepirlo in questo modo basta attribuire al Governo i diritti che le leggi attribuiscono a un tutore di pupilli. Finalmente si può concepire lo Stato come una Società , la quale abbia un' amministrazione o governo proprio e veramente sociale . Tra gli Stati, che ci furono al mondo, e che ci sono anche al presente, non mancarono e non mancano di quelli che furono e sono ordinati con norme derivanti da ciascuno di questi tre principii o concetti fondamentali. Ma egli è chiaro che i primi due concetti non costituiscono popoli liberi: solamente quando uno Stato sia ordinato secondo il terzo concetto, la nazione gode della libertà politica. Noi dunque, abbandonando i due primi concetti, intendiamo di ricercare soltanto « qual diritto d' influire nell' insegnamento abbia il Governo d' uno Stato che sia fondato sul principio della libertà ». Ristretta così la questione, resta a vedere (e questo è il più importante) come s' intenda la libertà. Poichè secondo le diverse opinioni che gli uomini si formano di questa libertà, portano anche diversi giudizi, così in questa questione dell' insegnamento come in tutte le altre. Ora noi abbiamo dichiarato fino al principio che per libertà non intendiamo altro che « il libero esercizio dei diritti di tutti », e che ogni altra libertà erroneamente si chiama con questo nome, e acciocchè non nascano equivoci, dee chiamarsi licenza . Se dunque il Governo civile vuole essere un Governo liberale, e si crede obbligato di governare secondo il principio della libertà, è manifestamente necessario ch' egli consideri i diritti di tutti i governati come anteriori a' suoi propri, e che la sua azione non usurpi su di quelli cosa alcuna, ma li seguiti. Riguardo dunque a quello che un Governo di tal natura può fare circa l' insegnamento, si divide da se stessa la questione in due sezioni. Poichè si può domandare: « qual contegno il Governo civile debba tenere circa ai diritti di quelli che hanno qualche ragione d' influire nell' insegnamento »; e « che cosa possa fare di più il Governo civile circa l' insegnamento, dopo aver usato il dovuto riguardo ai diritti de' governati ». Un Governo civile che abbia per suo principio la libertà, ha tre doveri verso i diritti di tutti: 1 Di non offenderli, o diminuirli, nè per mezzo di leggi, nè in altro modo; 2 Di tutelarli; 3 Di proteggerli e aiutarne l' esercizio. Oltre di questi ha un quarto dovere, quello della tolleranza entro una certa sfera d' azione. Avendo noi dunque distinte cinque persone giuridiche aventi ragione d' influire nell' insegnamento, cioè la Chiesa Cattolica, i dotti, i padri di famiglia, i benefattori e i Comuni, vediamo come il Governo civile debba esercitare i doveri di lasciare illesi, e di tutelare e di proteggere i diritti di ciascuna di esse, riservandosi solamente la maniera di regolarli, acciocchè possano coesistere, ed essere simultaneamente esercitati, senza collisioni reciprocamente dannose. Questo che è il più luminoso e il più assoluto di tutti i diritti, è anche quello che oggidì, e in certi Stati di nuovo pelo, suscita le più calde opposizioni e le più calde difese. E deve esser così, perchè in opera di religione l' indifferenza esterna e affettata è molta, ma l' indifferenza interna non ci può essere: chi non l' ama, l' odia cordialmente. [...OMISSIS...] Tosto dunque che noi abbiamo parlato de' diritti, che ha la Chiesa Cattolica all' insegnamento, s' intese il rumore di chi acerbamente se ne doleva, e quel dolore si versò in menzogne e in villanie. Convien dunque, che noi vi ritorniamo sopra per l' importanza dell' argomento, e però ci rifaremo a dire ancora qualche cosa in difesa de' diritti della Chiesa Cattolica, poi parleremo dei doveri del Governo civile verso i medesimi, e in fine parleremo della tolleranza che può praticare relativamente all' insegnamento non cattolico. Abbiamo dunque detto, che alla Chiesa Cattolica, cioè al Papa ed agli altri Vescovi, appartiene il diritto d' insegnare autorevolmente la dottrina del Salvatore che comprende il domma, la morale e tutti i mezzi utili all' eterna salute, e che « « non rimane agli altri fedeli se non il dovere di professarla, e la facoltà di propagare intorno a ciò quello che hanno imparato dalla Chiesa , o attinto alle fonti dalla Chiesa approvate, senza nulla aggiungere di contrario a quello che insegna la Chiesa stessa » ». Questa dottrina cristiana cattolica fece venire i brividi a un articolista d' un giornale che esce in Piemonte, e che ha per iscopo di illuminare la nazione sulle vere teorie dell' insegnamento, e per troppa voglia di comunicare anche a' suoi lettori l' orrore, da cui si sentia scosse tutte le fibre, l' articolista falsificò quello che noi avevamo detto: « « Ogni laico, per cristiano e pio che egli sia (così egli espose il nostro concetto), insegnando qualche cosa della religione, sarà violatore del diritto divino, usurpatore, impostore » ». Ma un laico che sia cristiano e pio, non assume mai d' insegnare la religione autorevolmente: intende soltanto di propagare la dottrina che egli professa, e ha imparato dalla Chiesa, senza nulla aggiungere del suo di contrario alla medesima. E questa è appunto la facoltà che noi abbiamo lasciata anche ai laici. Senza dunque trattenerci a rispondere all' autore di quell' articolo, noi ci limitammo a circonvenirlo di falsità nel riprodurre la nostra dottrina. Pure, a una smentita di questa sorte, la faccia dell' articolista non si mutò, e anzi con un secondo articolo, invece di rettificare le sue falsificazioni le confermò, e di più, essendo egli anonimo, ci rimproverò di « « lavorare all' ombra del mistero e dell' impunità » » (1). Si direbbe a tanta minaccia, che sotto la larva si copre uno avvezzo a maneggiare la ferula. E` dunque necessario che rintuzziamo, non dico le villanie personali, ma gli errori insinuati nel pubblico con tanta pervicacia. Dice dunque l' articolista (2), che la nostra teoria della libertà dell' insegnamento « « finisce col ridurre il diritto ad un uomo solo in terra » ». Noi abbiamo distinto la dottrina religiosa dalle altre scienze: abbiamo detto che le altre scienze hanno diritto d' insegnarle liberamente tutti quelli che le sanno, i quali, per brevità di locuzione abbiamo raccolti sotto la denominazione di dotti: questo non è ridurre il diritto ad un uomo solo. Abbiamo detto in secondo luogo, che la sola Chiesa Cattolica « « firmamento e colonna della verità » » ha ricevuto da Gesù Cristo il diritto d' insegnarla autorevolmente , di maniera che nessun fedele ha diritto d' insegnare il contrario. Ora se la Chiesa Cattolica è composta d' un uomo solo, in tal caso sarà vero che questa dottrina (e non ogni dottrina) dovrà essere insegnata da un uomo solo: ma se il Papa e i Vescovi non sono un uomo solo, in tal caso l' articolista avrà dedotta una falsa conseguenza. Di poi è pur singolare quest' importanza che l' articolista attribuisce all' essere piuttosto molti che un solo quelli che insegnano, quasichè dal numero dipendesse la verità e la bontà della dottrina. Noi abbiamo riconosciuto i diritti d' insegnare una dottrina qualunque in tutti quelli che la possedono; ma crediamo che un solo che insegni quello che sa, valga meglio d' una moltitudine che insegna quello che ignora. Pure s' intende, che trattandosi d' investigazioni e di dottrine umane, le quali vanno in maggior parte per l' incerto e pel congetturale, sia desiderabile che molti abbiano il diritto di metter fuori le proprie opinioni: i maestri umani sono tutti piuttosto discepoli che maestri: nello stesso tempo che insegnano qualche cosa che credono essere verità, può sopraggiungere ad ogni istante un altro che gli convinca d' errore, ovvero aggiunga al loro insegnamento qualche parte essenziale dai primi ignorata. Ma il nostro discorso è tutt' altro, perchè riguarda la sola verità religiosa. Ed è a proposito di questa, che l' articolista si spaventa al pensiero che si riduca « « il diritto d' insegnare ad un uomo solo in terra » ». Il suo è certamente un timor panico, a cui noi non avevamo dato occasione. Ma ora gli daremo forse occasione di un timor vero: ascoltateci. Sì, un uomo solo appunto ha il diritto d' insegnare la religiosa dottrina; e quest' uomo è quegli che ha potuto dire, e che ha detto infatti: « « Un solo è il vostro Maestro » » (1). Ecco ridotto da Gesù Cristo il diritto d' insegnare le verità che riguardano l' eterna salute ad un uomo solo. Non siamo da tanto da riformar noi questa dottrina, nè siamo disposti per piacere al nostro articolista da rinunziarvi. Quest' unico Maestro del mondo è stato egli che ha mandato il Papa e i Vescovi a ripetere la sua dottrina per tutti i secoli e a tutti gli uomini divisi in re e ministri, in governanti e governati, e non a inventarne una nuova. Argomentammo dunque non esserci bisogno, e non essere neppur possibile, che il diritto sia conceduto ad altri. E perchè? Perchè se altri, qualunque fossero, volessero insegnare un' altra dottrina loro propria, non avremmo de' maestri, ma solamente de' ciechi, che condurrebbero altri ciechi nella fossa. Come dunque sarebbe ridicolo il concedere al cieco il diritto di vedere quello che non può vedere, così è del pari ridicolo il concedere il diritto d' insegnare le verità religiose, col giudizio proprio, ad uomini che non hanno ricevuto la missione e la scienza dal maestro, e che non possono dire che spropositi, se non ripetono la scienza del maestro. E questo maestro non ha avuto nemmanco difficoltà a dire a un uomo solo queste parole: « « E tu una volta convertito, conferma i tuoi fratelli » » (2). Così ha dato ad un uomo solo, cioè al Romano Pontefice, il diritto supremo di confermare i suoi fratelli nella fede, che è quanto dire nella scienza della salute. Ma non così la intende il nostro articolista [...OMISSIS...] . Parlate del diritto di natura, quando si tratta d' una dottrina che riguarda l' eterna salute degli uomini? E` forse pel diritto di natura che si consegue l' eterna salute, o per la grazia del Redentore? Capisco, voi vi formate un paradiso col diritto di natura, che stia da una parte del Cielo, e che abbia a suo fianco il paradiso della grazia: e v' adirate, perchè noi ne ammettiamo un solo, e diciamo, che c' è una dottrina sola religiosa, come non c' è che un solo paradiso, e un solo maestro di questa dottrina di grazia, e i banditori della medesima sono quelli, che il maestro ha destinati. « « Con questo, voi gridate, si calpesta ogni diritto di natura che è pur essa una rivelazione della volontà di Dio » ». Ma noi ignoriamo perfettamente questo vostro diritto di natura in virtù del quale si possa insegnare una dottrina religiosa contraria a quella insegnata da Gesù Cristo e dalla Chiesa, e che questo diritto di natura sia anche esso una rivelazione della volontà di Dio. Se fosse vero quanto voi asserite converrebbe dire, che le volontà di Dio sieno due, contraddittorie l' una all' altra; converrebbe dire, che la volontà di Dio sia in contraddizione colla volontà di Gesù Cristo. Aggiunge l' articolista, che « « così non sarebbe salvata l' umanità » ». Colla sola dottrina e grazia di Gesù Cristo non sarebbe salvata l' umanità! ma col suo diritto naturale , che concede a tutti d' insegnare una dottrina, che mette l' umanità sopra una strada contraria a quella mostrata da Gesù Cristo, con questo, si sarebbe salvata l' umanità! Noi credevamo, e crediamo ancora, per la grazia di Dio, che l' umanità non abbia che un Salvatore solo, e che questo sia Gesù Cristo. Ma ora un giornale, che rappresenta, in qualche modo, l' insegnamento in Piemonte, insegna per lo contrario « « così non sarebbe salvata l' umanità »! ». E come poi sarebbe salvata, se non è salvata per l' insegnamento e per la grazia di Cristo? Sarebbe salvata coll' attribuire a tutti il diritto d' insegnare l' opposto di quanto insegnò Cristo, e di quanto insegna la Chiesa, e ciò perchè altramente « « sarebbe un calpestare ogni diritto di natura che è pur essa una rivelazione della volontà di Dio » ». Ogni diritto di natura dunque si riduce a poter insegnare una dottrina contraria alla cristiana cattolica, e così è bell' è salvata l' umanità [...OMISSIS...] . Dal che si arguisce che negare il diritto d' insegnare una dottrina contraria a quella di Cristo è negare la terra all' albero dell' umanità, e però è un ucciderla, se la si lascia colla sola dottrina religiosa del divino Maestro! Ci sono dunque degli uomini, a cui sembra che si tolga loro la terra sotto i piedi, se si manifesta un desiderio che sieno chiuse le scuole dell' empietà; anzi ancor meno, perchè noi non abbiamo detto nemmeno tanto: abbiamo solo detto, che la Chiesa ha in proprio il diritto d' insegnare autorevolmente la dottrina che riguarda l' eterna salute, perchè è la sola che la possiede e n' ha missione, e non abbiamo aggiunto una sola parola su di quello che può riguardare un insegnamento di fatto e di tolleranza. Pure all' articolista che dice, che coll' attribuire alla sola Chiesa l' insegnamento di ciò che riguarda l' eterna salute, « « non ne sarebbe salvata l' umanità » », noi siamo anche disposti a rispondere che ha ragione. Sì, è vero, non sarebbe salvata l' umanità , ma sapete quale umanità non sarebbe salvata? L' umanità guasta e peccatrice. V' ha una scuola, che è tutto zelo e fuoco per difendere i diritti di questa umanità. Quest' umanità del peccato è appunto quell' albero che si vuole sviluppare, e a cui si teme che manchi sotto la terra. L' umanità quale l' ha fatta il peccato, l' umanità superba, carnale, ribelle al Creatore, perduta: ecco l' albero di questi maestri, che tentano d' impossessarsi dell' insegnamento. Cristo è certamente venuto a perdere quest' umanità perduta, salvando l' umanità stessa col perderla: è venuto a creare colla sua grazia un' umanità nuova e a distruggere la vecchia. [...OMISSIS...] Ha dunque ragione in questo senso l' articolista, lo ripetiamo: colla grazia e colla dottrina di Gesù Cristo si stabilisce la teocrazia, e « « così l' umanità non ne sarebbe salvata » », ma distrutta; se non che a questa distruzione, secondo S. Paolo, succede la vera salute: [...OMISSIS...] . Ecco l' albero nuovo dell' umanità che prospera e fruttifica da diecinove secoli, e a cui non manca nè la terra, nè il cielo. Ma non è questo l' albero dell' articolista e della sua scuola; egli vuol coltivare quello che è venuto a sterpare e diradicare Gesù Cristo, per sè, e per mezzo degli operai da lui mandati nella sua vigna. C' è dunque una umanità vecchia, figlia della corruzione, e c' è una umanità nuova, rigenerata dalla grazia di Gesù Cristo; e queste due umanità non possono certamente stare assieme, ma s' odiano a morte e perpetuamente si combattono, poichè ciascuna di esse vuol prevalere sull' altra, e vanta i suoi diritti. Per questo ha detto Gesù Cristo: « « Non sono venuto a portare la pace, ma la spada » » (1). Alcuni dunque prendono partito per la prima e ne vantano il diritto di natura, cioè della natura corrotta: alcuni altri prendono partito per la seconda, e credono che sotto l' ali della grazia si possa riparare dalla perdizione la natura stessa. Ed ecco la ragione delle nostre dispute, della discordanza d' opinione tra la scuola dell' articolista e la nostra. Del resto, chi sarà di noi due il retrivo, chi il progressista? L' avvocato dell' umanità vecchia e fradicia, o l' avvocato dell' umanità nuova, rinnovellata da Gesù Cristo? A quale apparterrà il vero progresso? L' albero dell' umanità vecchia fu già sviluppato a pieno senza contrasto pel corso di quattro mila anni, prima che discendesse dal Cielo il padrone del campo colla scure nelle mani, quando le foglie e le frutta di quell' albero aveano ammorbata tutta la terra. Ora non è oggimai più quella stagione, ma il tempo è venuto in cui si dee sviluppare l' albero nuovo, il quale non invecchia giammai, e non inverminirà come l' antico. Alla coltura di questa pianta gloriosa sono chiamati tutti quelli che vogliono fare il bene: tutte le nazioni della terra si ricovreranno sotto la sua ombra, e vivranno de' suoi frutti di vita. Alcuni pochi riguardano indietro alla pianta antica, e sperano di farne rinverdire le secche radici: vana ed insensata speranza! L' articolista chiama il suo sensato lettore a stupirsi insieme con lui del dare che noi facciamo alla Chiesa Cattolica il diritto all' insegnamento « « non già solo per la religione, sono sue parole, ma eziandio per la morale che è pure la scienza di tutti i diritti e di tutti i doveri » ». Di maniera che pare che egli sarebbe disposto di concedere alla religione la scienza d' alcuni doveri, e d' alcuni diritti, ma accordarle la scienza di tutti!? Oh, questo merita l' abbominio o le risa del suo sensato lettore! Gesù Cristo dunque si sarà limitato a insegnare a' suoi discepoli un solo bocconcello della morale, e per l' altra parte avrà detto agli uomini: « « Fate quel che volete, che non m' importa che adempiate tutti i vostri doveri, mi basta che ne osserviate alcuni, e ordino alla mia Chiesa d' ammaestrarvi solo a mezzo, e di non correggervi o castigarvi quando non trasgredite quei doveri morali, a cui io mi sono limitato » ». Questa è nuova! Pretendere in fatti che Gesù Cristo si sia contentato d' insegnare una sola parte della morale, e non tutta, è una di quelle foggie d' empietà, che solo ne' nostri tempi si sono udite, nelle quali non si sa decidere se la sciocchezza sia minore o maggiore dell' empietà stessa, e che pure, a quanto pare, si vogliono infiltrare nello spirito dell' insegnamento, e a questo par che tendano gli sforzi di certi antesignani del medesimo. A malgrado però di costoro, Gesù Cristo promise e diede alla sua Chiesa lo spirito di verità, che « « insegna ogni verità » » (1) non l' una o l' altra verità morale, ma ogni verità, tutta la verità . Di più le diede la facoltà di sciogliere e di legare, non limitata a nessun genere speciale di peccati. [...OMISSIS...] Non può esser più chiaro: questo potere dunque si estende a tutta la morale. Che se deve la Chiesa giudicare dell' infrazione delle leggi quant' elle mai possono essere, a lei dunque è commessa « « la scienza di tutti i doveri e di tutti i diritti » », e non già d' una parte. [...OMISSIS...] Infatti la morale è una cosa indivisibile, o tutta, o nulla. La compiutezza è il carattere che distingue la vera morale dalla falsa, la pretesa morale del mondo dalla morale di Gesù Cristo. Gli uomini del mondo pretendono di avere il titolo di uomini morali a buon mercato, e perciò si fabbricano delle morali, che contengono soltanto alcuni doveri, e quando osservano questi, allora, alzando la testa vi dicono: « Noi siamo uomini morali, uomini probi, uomini onesti ». E` ben naturale, che costoro vogliono essere maestri di morale: guai ad essi se dovessero essere giudicati con un' altra morale non fatta apposta da essi medesimi! E per maggior comodità essi non hanno una sola morale, ma ne hanno molte, ciascuna delle quali si ritiene qualche brandello della morale intera, ma unito insieme con altre cosarelle, che non sono morali. Qual meraviglia dunque che poi dicano superbamente alla Chiesa Cattolica: « E che? Voi pretendete d' essere la sola maestra della morale? Voi che avete un' unica morale, quando noi ne abbiamo molte? Voi che non conoscete tanti e tanti di quei diritti e di quei doveri che noi soli abbiamo inventato e inventiamo ogni giorno, in virtù di quella libertà di pensare, che produce frutti sempre nuovi di libertà d' oprare! Certi doveri della vostra morale gli abbiamo cancellati, e però non sono più doveri. Siamo dunque anche noi maestri di morale. E però è conseguente che ci sieno di quelli che si adirino all' intendere che nessuno abbia il diritto d' insegnare una dottrina morale contraria alla morale della Chiesa Cattolica. Il combattimento non è più tra l' articolista e noi, ma tra le morali fatte a brani, e la morale intera: tra lo spirito d' una morale cenciosa, qual è la mondana, e lo spirito della morale regalmente vestita di Gesù Cristo. Tutti questi principii, di cui si fa banditore il nostro articolista, principii quanto perniciosi, altrettanto privi di coerenza e di scientifico valore, sono un regalo, che ora, nella sua età decrepita e semimorta, fa il protestantismo alla povera Italia, che raccoglie le ciarpe vecchie come roba nuovissima, e pur troppo è nel Piemonte ch' egli fonda le sue vane ed illusorie speranze (1). Se la povera Italia sapesse fare la debita stima de' suoi grandi uomini ascoltandoli, non si lascierebbe a tali ciance ingannare, e non più leggiera e scema, ma seria e signora diverrebbe. Già il protestante Sismondi esprimeva il pensiero, che il nostro articolista ora ricopia, cioè che la morale sia una scienza, di cui tutti possono fare i maestri, e non la sola Chiesa Cattolica. [...OMISSIS...] Ma già da più anni questo autore protestante ha trovato in Italia un uomo che gli rispose con evidenza di ragione, e questi fu un laico, che lo stesso articolista nomina bensì con onore, ma di cui non segue i principii, uno di quei laici che si gloriano d' essere i discepoli della Chiesa Cattolica e perciò ne sanno tanto più de' maestri del mondo. L' articolista infatti asserisce che « « Se un Manzoni avesse voluto insegnare un po' di religione e di morale, secondo noi, sarebbe stato violatore del diritto della Chiesa » » (2). Perciò noi rimanderemo l' articolista a leggere Alessandro Manzoni ed è negli scritti di Alessandro Manzoni che egli troverà quello stesso, che ora, detto da noi, gli fa tanto afa. E` Alessandro Manzoni quegli che gl' insegnerà, come nessun laico possieda l' autorità, e anzi non abbia neppure la possibilità di fare il maestro in opera di morale, indipendentemente dalla Chiesa, non essendoci, nè potendoci essere un' altra morale, nè una completa morale fuori di quella che con autorità sua propria insegna la medesima Chiesa di Cristo. Poichè Alessandro Manzoni è appunto quel laico che, rispondendo al protestantismo, il quale, per organo de' suoi scrittori, censura la Chiesa per essersi insignorita della morale, scrive: [...OMISSIS...] . E con somma nettezza questo grand' uomo espose lo stato della questione su questo punto, che s' agita tra i protestanti e i razionalisti da una parte, e i cattolici dall' altra scrivendo così: [...OMISSIS...] . Voi signor articolista, che difendete, a favore d' Alessandro Manzoni, il diritto d' insegnare la morale, indipendentemente dal magistero della Chiesa, considerate bene tutte queste parole, che sono sue, e vedete che cosa egli stesso vi risponda: vedete a quali condizioni egli conceda ai preti e ai semplici fedeli la facoltà d' insegnare la morale. Concede ai preti d' insegnarla con autorità condizionata e sottomessa , quando n' abbiano avuto dalla Chiesa l' incarico ossia la missione, che è quello che abbiamo detto noi, e per cui menate scalpore: concede ai laici d' insegnarla senza autorità, quando abbiano l' intenzione sincera di non dipartirsi dall' insegnamenti della Chiesa , che è l' altro punto della nostra tesi, che vi eccitò lo sdegno. Che mai vi giova dunque l' aver profanato il nome, col citarlo sì fuor di proposito, di quell' Alessandro Manzoni, che così patentemente vi condanna? Avvertite ancora, che quella morale, di cui Alessandro Manzoni, con tutti gli altri cattolici, attribuisce il magisterio alla sola Chiesa, scrivendo contro i protestanti, è appunto quella che voi definite « « la scienza di tutti i diritti e di tutti i doveri » », immaginandovi forse che per esser ella la scienza di tutti i diritti e di tutti i doveri, per questo tutti gli uomini dovessero avere il diritto e la facoltà d' insegnarla. Anzi da questo appunto dovevate inferire il contrario: e sotto questo aspetto d' una scienza completa e totale, di tutti i diritti e di tutti i doveri, prova Alessandro Manzoni ch' essa non può appartenere in proprio, se non alla sola Chiesa Cattolica. Poichè una verità o l' altra di morale non è la morale; e se è una verità, è già nella morale della Chiesa Cattolica contenuta, come il meno nel più. Il che con quanta profondità ed evidenza di ragioni, con quanta nobiltà di sentimenti non prova ampiamente il grand' uomo! Duolmi di non potere qui trascrivere tutto intero il terzo capitolo delle « Osservazioni sulla morale cattolica » (1), e di vedermi incapace a scegliere tra tante bellezze, ciascuna delle quali pare che meriterebbe la preferenza. Quivi, ognuno che voglia ricorrervi, troverà a pien dimostrato, che la così detta morale filosofica, supponendola anche priva d' errori, altro non è che una porzione della morale della Chiesa Cattolica, e, come egli la definisce, « « la collezione ordinata, ma implicitamente subordinata d' alcune verità morali » », quando la morale di cui ha il magistero la Chiesa, è « « la scienza perfetta e assoluta, che ne comprende l' ordine intero » »; quivi rinverrà messa a nudo, con sommo acume e vastità di vedute l' imperfezione, l' insufficienza, l' incertezza, l' impotenza della morale naturale. E con quanto nerbo poi non accenna egli le contraddizioni e gli errori, e fino i destini dei diversi sistemi di morale umana, opera di quegli uomini che hanno voluto farsene maestri indipendentemente dalla Chiesa, o di quelli che non poterono giovarsi del beneficio della Chiesa per essere vivuti in tempi, ne' quali non era ancora stata fondata la Chiesa. Che per riguardo alle altre dottrine, nelle quali ci manca la scienza perfetta, si riconosca in tutti il diritto di andarne in cerca, acciocchè trovandone tutti un qualche granello concorrano ad aumentare quanto se ne possiede, questo s' intende, specialmente che gli errori, nelle scienze profane, non sono così perniciosi. Ma che, possedendosi già per un dono speciale di Dio compiuta e perfetta, ed anzi elevata ad una dignità soprannaturale, quella scienza morale, che è all' uomo assolutamente necessaria e nella quale l' errare è un perdersi, si voglia nondimeno riconoscere un diritto d' inventarne e insegnarne un' altra, la quale non potrebbe essere, se non erronea, quando non sia nella prima compresa, questo non saprei come chiamarlo se non una stoltezza. Conchiudiamo con le parole del Manzoni citato dal nostro articolista. [...OMISSIS...] I diritti della Chiesa Cattolica, tra quali quello dell' insegnamento, sono assoluti, perchè dati da Gesù Cristo, da una potestà cioè che è superiore ad ogni altra. Tutte le potestà della terra hanno dunque un assoluto dovere di rispettarli. In questi Stati poi, ne' quali la costituzione politica dichiara che « « la Religione Cattolica è la sola Religione dello Stato » », il Governo, anche in virtù della legge fondamentale, per la quale esiste, e da cui ripete l' autorità, deve riconoscere l' esistenza dei diritti della Chiesa Cattolica in tutta la sua estensione. Se infatti riconoscendo una parte di essi, ne disconosce e nega un' altra parte, cade in contraddizione con se stesso e in aperta lotta colla costituzione dello Stato. E qui non si dà una via di mezzo: o conviene riconoscere la Chiesa e la Religione Cattolica tutta intera, quale la ha istituita Gesù Cristo, o facendovi qualche eccezione, la si offende e nega tutta, perchè si nega l' assoluta autorità divina di Gesù Cristo. Sotto l' assolutismo si è inventato, dagli adulatori del potere, un gius canonico bastardo, il quale non mirava ad altro che a contraffare e corrompere il gius canonico vero, coll' intento di trasportare una parte dell' autorità della Chiesa nel Governo civile. La Chiesa, che piena di moderazione, cede molte volte nel fatto per evitare mali maggiori alle anime de' fedeli, non può rinunziare in massima alcuna parte de' suoi diritti divini: quest' è l' origine della vera lotta tra il potere civile e l' ecclesiastico, poichè ogni altra lotta fuori di questa non è una lotta seria, può essere un dissidio, un disparere momentaneo, ma non una lotta. Nessuna infatti delle grandi lotte tra la Chiesa e lo Stato ebbe mai altra cagione: da una parte l' usurpatore, dall' altra il difensore dei diritti usurpati. La lotta si combatteva tra la forza fisica dello Stato e la forza morale della Chiesa. La Chiesa contrapponeva armi spirituali, le quali certamente aveano e doveano avere virtù di muovere delle forze fisiche, come lo spirito muove la materia: l' assolutismo combatteva colla forza bruta e coll' astuzia. In ognuna di queste grandi lotte la Chiesa parve sempre perdente, perchè la violenza produce un pronto e doloroso effetto sopra il debole e l' inerme, ma infine del conto la Chiesa lacerata trionfò sempre in questo senso, ch' ella non cedette mai nella massima per questi diciotto secoli alcuno dei suoi diritti; e ciò per la semplice ragione che non può cederli senza distruggersi, e non può distruggersi perchè Gesù Cristo le ha promesso una eterna esistenza. Ma la forza bruta che crede di poter tutto, si sdegna tanto più ed entra in terribili convulsioni vedendo di non poter mai vincere l' inerme. Questo stato di cose, questa irritazione crescente co' secoli è l' eredità che l' assolutismo lasciò al costituzionalismo de' nostri tempi; l' eredità che questo incautamente raccolse senza il beneficio dell' inventario ed aggravò di nuovi debiti. Non può dunque eccitare meraviglia quell' astio profondo, quel livore che imprudentemente manifestano contro la Chiesa Cattolica e i suoi diritti alcuni falsi costituzionali, poichè sono i successori legittimi degli assolutisti, salvo che l' assolutismo precedente riteneva ancora certe forme di buona creanza, quando l' assolutismo de' falsi liberali è ineducato e villano. Mentre lo spirito d' una savia Costituzione dovrebbe condurre a una moderazione e conciliazione delle opinioni di tutti i cittadini, e degli opposti partiti, costoro l' applicano a inacerbire e a tormentare le piaghe antiche e sanguinose, e aprire così il varco a nuove discordie. Ne' due articoli precedenti abbiamo indicato un esempio parlante di ciò che diciamo: noi abbiamo difeso la libertà de' dotti, de' padri di famiglia, de' benefattori: noi abbiamo riservati i diritti della Chiesa, e la libertà che deve avere nell' esercitarli. L' articolista, a cui abbiamo in essi risposto, dopo aver falsificati i nostri concetti, continuando a falsificarli dice, che tutta questa libertà, che noi concediamo alle nominate persone giuridiche, è nulla, e ci colloca tra « « coloro che una cosa sola al mondo ritengono per funesta e maledetta, l' umana libertà » » (1). E questo perchè? Per l' unica ragione che vogliamo anche conservato il diritto che la Chiesa Cattolica ha ricevuto da Gesù Cristo all' insegnamento. Il difendere questo diritto della Chiesa è lo stesso che ritenere per funesta e maledetta l' umana libertà. Eccovi uno di quelli che ripongono l' umana libertà tutta quant' è nel distruggere i diritti della Chiesa Cattolica. Quelli che insorgono contro questi diritti, ecco gli amici dell' umana libertà. Tutto il resto è indifferente. Pur troppo questo strano principio, che non è un principio, ma un impeto di stolta passione, è quello che giace nel fondo di tante discussioni giornalistiche, che muove tante penne e tante lingue. Questo è il maggior pericolo a cui possa soggiacere la Costituzione d' uno Stato: qualunque Governo eccitato, premuto, spinto da tali oratori a commettere sempre nuovi atti di dispotismo e d' ostilità contro la Chiesa, qualora non sappia, innalzandosi al disopra di essi col suo pensiero, opporre una invincibile fermezza, altro non farebbe che preparare indubitatamente la rovina dello Stato e di quella forma di Costituzione che è incaricato di conservare. Gli adulatori gli fanno credere, come l' hanno fatto sempre credere ai Governi assoluti che hanno tolto a lottare colla Chiesa, che le sue forze sieno maggiori di quel che sono, e perciò egli si avventura temerariamente in quelle lotte, dalle quali i popoli escono spossati e corrotti, e i Governi screditati e odiati. La rovina non è certamente immediata, sopravverrà per cagioni o interne od esterne che sembreranno accidentali; ma ella non può fallire quando il tempo e l' ora sia suonata. Il citato articolista asserisce che l' idea cardinale della nostra teoria si riduce a volere che lo Stato dia guarentigia alla Chiesa nel punto dell' insegnamento, e non la Chiesa allo Stato (1). Benchè non sia questo il nostro concetto, tuttavia potremo rispondergli, che le guarentigie deve darle il forte al debole, e che è ridicolo pretendere che il debole debba dare guarentigie al forte. Sarebbe come se il leone domandasse guarentigia all' agnello. Le guarentigie dunque lo Stato le ha già, e le deve avere nella sua forza, ed è contro questa forza che tutti i cittadini, e per sè e per la loro religione, dimandano guarentigie, è contro questa forza che si domandano le Costituzioni, acciocchè non rimanga disordinata questa forza, e quasi come un astro uscito dalla sua orbita non perturbi l' ordine della giustizia. Le guarentigie dunque che si domandano non sono fisiche, ma morali, le quali devono temperare e regolare il potere fisico del Governo. E se egli riconosce pienamente e sinceramente i diritti della Chiesa, questa è una guarentigia morale non solo data alla Chiesa, ma data a tutti i cittadini e ai loro diritti, data allo Stato medesimo, e dirò di più, è una guarentigia che il Governo dà a se medesimo. Poichè se il Governo è saggio temerà assai più se stesso che non la Chiesa inerme, la quale gli oppone una forza morale a maggior utilità e a maggior dignità di lui medesimo, che la Chiesa non vuole già il decadimento dello Stato, ma ne vuole la perfezione. Ed oltre di ciò quant' altre guarentigie morali non dà la Chiesa in virtù della sua propria costituzione al Governo civile in questa materia dell' insegnamento? Il suo insegnamento non è ignoto, non incerto, non vacillante, non è una dottrina, di cui si vada in cerca, che si inventi alla giornata, che si muti come le opinioni degli uomini, incominciando dai cagnotti dei Governi fino ai più serii filosofi. Ella è una dottrina che si conosce e si sperimenta pel corso di dicianove secoli, che si è predicata e si predica dall' alto dei tetti a tutte le nazioni del mondo: che sta scritta in migliaia di libri a tutti aperti, che niun Governo può ignorare, che niun privato può accrescere, o diminuire, o alterare, senz' essere condannato dalla Chiesa medesima: è una dottrina che ha salvata la società umana quando si discioglieva, che ha incivilito il mondo, che ha ricostruito ella stessa colle sue mani e perfezionato quei Governi che ora inorgogliti la disprezzano e la conculcano. Contro questa dottrina si osa ora dai saputelli di certi giornali, organi d' un liberalismo servile, domandare guarentigie a favore dei Governi, quasi che non fosse ella stessa questa dottrina insegnata da Dio medesimo la più ferma e la più splendida guarentigia non solo data ai Governi, ma al genere umano, se pur si deve chiamare una guarentigia quella verità e santità di dottrina che è la stessa salute. E da chi si può domandar guarentigie contro questa dottrina, o a favore di qual altra dottrina? Da quelli certamente che fanno consistere tutta la libertà umana nel potere liberamente imbestialire contro la dottrina salutare del Redentore, e chiamano inimici della libertà umana quelli che la diffondono. A favore dunque e a nome dell' errore e della morte si domandano guarentigie contro la verità e la vita. Come se altri domandasse delle guarentigie alla sanità a nome e a favore del colèra. Può forse il Governo civile dare alla Chiesa per riguardo al pubblico insegnamento una guarentigia simile a quella che la Chiesa offre a lui nella sua stessa dottrina? Qual è dunque la dottrina del Governo civile? Niuno lo sa: niuno sa qual dottrina egli farà insegnare: non esiste un corpo di dottrina che possa dirsi: « Questa è la dottrina del Governo ». E se niuno ancora sa o può sapere qual dottrina il Governo civile farà insegnare oggi; si saprà forse qual dottrina farà insegnare domani? Lo stesso Governo è il primo ad ignorarlo. Mutabile come è il Governo, egli non può avere, neppure se lo volesse, una dottrina stabile e consistente sulla quale si possa far conto. Il Governo può designare le scienze in generale col loro nome, può dire: « Queste e queste scienze s' insegneranno », ma non può mica determinare con precisione quali dottrine, quali opinioni, quai sistemi s' insegnino in ciascuna scienza: tutto è mutabile, dipende dai professori, dalle circostanze, dai tempi, dai partiti stessi, che nei Governi casualmente, e temporaneamente prevalgono. Non sarà dunque cosa ragionevole e desiderabile che il Governo, che per sua natura non ha dottrina definita, e la dee prendere alla giornata, dia alla Chiesa Cattolica (se pur non è il suo nemico) una qualche guarentigia almeno col riconoscere pienamente il sacrosanto diritto del libero insegnamento, che essa ha ricevuto da Gesù Cristo? Ma il nostro articolista ha egli neppure la facoltà di parlarci di guarentigie reciproche della Chiesa e dello Stato? Egli, che fa consistere la rovina di tutta la libertà umana nella difesa che noi facciamo del diritto che ha la Chiesa Cattolica all' insegnamento; e la conservazione della libertà umana, per lo contrario, nel poter straziare e distruggere i diritti divini di questa Chiesa; come potrà senza contraddirsi proporre che la Chiesa e lo Stato si guarentiscano reciprocamente i propri diritti? Dove se ne andrebbe allora la sua libertà umana, secondo il suo concetto? Ma si lasci per un poco da parte la Chiesa. Il sistema costituzionale riposa tutto su quest' unico principio generale, che « il potere nelle mani di chi lo tiene, potendosi convertire ugualmente a vantaggio e a danno de' cittadini, è necessario che questi abbiano delle guarentigie contro l' abuso ». Dall' intima natura dunque di questo sistema di governo nasce la necessità delle guarentigie da prestarsi dal potere alla nazione. Ora le nazioni cattoliche considerano la sanità della dottrina religiosa e morale come la più preziosa delle loro ricchezze, e la causa principale della loro civiltà e del loro progresso. Ma in qual maniera potrà il potere dare qualche guarentigia su questo punto, il più importante di tutti, a un popolo cattolico? Dirà egli forse semplicemente: « Fidatevi di me? »Sarebbe lo stesso che ricusarsi di dargli guarentigia alcuna, lo stesso che rinnegare il sistema costituzionale, e rimettersi di colpo nel sistema dell' assolutismo. Un popolo cattolico dirà ancora ad un tale governo: « E chi siete voi, che io mi debba fidare di voi? siete un' idea astratta, di cui non so che farne, siete un gruppo di persone, rimutabile di giorno in giorno, che non possono pensar tutte al medesimo modo. E qualunque possiate essere, ditemi prima di tutto se voi siete il giudice e il maestro della dottrina dommatica e morale. O mi rispondete di sì, e in tal caso voi non professate la religione cattolica, che insegna, come suo domma, non appartenere ai Governi civili il giudizio e il magistero della fede cattolica. Pretendete dunque di essere giudice e maestro d' una dottrina religiosa che non professate e non conoscete. E volete che io, nazione cattolica, mi fidi di voi? Ovvero confesserete di non essere giudice e maestro della cattolica dottrina. In questo caso, se voi, o Governo, non siete giudice e maestro, dovete dunque subire il giudizio di quella potestà, che ha ricevuto la giurisdizione religiosa da Gesù Cristo, e comportarvi come suddito e da discepolo della medesima. Per altro nessun Governo di popoli cristiani osò mai di asserire d' essere il giudice e il maestro della cristiana religione, conscio che se lo dicesse non sarebbe creduto, e si renderebbe ridicolo in faccia ai popoli: non osa dirlo neppure lo Czar della Russia, neppure la Regina o il Parlamento d' Inghilterra. I Governi usurparono bensì di fatto non rare volte quest' ufficio di giudice in cose dommatiche: promulgarono anche in tali materie placiti e sentenze, fecero insegnare dottrine anticattoliche: pure niun di essi osò mai dichiarare apertamente d' averne la potestà, la quale supporrebbe nientemeno che l' infallibilità. Operano dunque cotesti Governi contro la propria coscienza; sanno nel fondo del loro cuore d' essere usurpatori d' una potestà che loro non ispetta; ma hanno la forza in mano e la forza bruta è superba; la forza bruta non intende ragione e fa quello che le attalenta. Ecco la necessità delle guarentigie. E` dunque ragionevole, che il popolo cattolico ne domandi al potere civile in tanto pericolo. Ma quali possono essere queste guarentigie? Per quanto si cerchi, non se ne trova alcun' altra, se non che il Governo « riconosca, lasci libero, protegga il diritto, che ha la Chiesa Cattolica, come maestra e giudice della dottrina dommatica e morale dell' insegnamento ». Questa guarentigia non è dunque data solamente alla Chiesa, ma è data ai popoli, ed è una conseguenza legittima e necessaria del sistema costituzionale che tutto si fonda sul principio generale delle guarentigie. Certamente col primo articolo dello Statuto Sardo si voleva dare al popolo piemontese la guarentigia, di cui parliamo. Ma in tutti quelli organismi politici, ne' quali non si trova nessun' autorità indipendente incaricata di conservare la Costituzione e di interpretarla, un articolo così breve e sugoso rimarrebbe una guarentigia illusoria e cartacea, qualora la disposizione che contiene non venisse trasfusa e applicata nelle altre leggi dello Stato, e che la rendano viva ed efficace nella pratica. Per riguardo dunque all' insegnamento, a quale condizione si potrà dire, che il popolo abbia dal Governo una vera guarentigia, che sarà insegnata nelle pubbliche scuole una dottrina sana e veramente cattolica? Non basta certo a mettere in atto questa guarentigia, che il Governo dica semplicemente: « La dottrina, che io fo insegnare, è perfettamente cattolica »; ma conviene che egli soffra che sia giudicata per tale dal giudice competente e dal legittimo maestro della medesima: in una parola, è necessario che nelle sue leggi e nelle sue ordinanze riconosca esplicitamente il giudice e il maestro costituito da Gesù Cristo entro la sfera della religione da lui fondata. Ma quand' è che un Governo civile riconoscerà veramente questo giudice e questo maestro? Solamente allora che egli riconosce l' ordine gerarchico della potestà istituita da Gesù Cristo nella sua Chiesa; quell' ordine gerarchico, che la « Rivista delle Università e dei Collegi » con parola insolente e con ispirito protestantico chiama « teocrazia gerarchica » (1). Non è un riconoscerlo l' ammettere la massima generale, e poi declinare dalle conseguenze. Non basta dire in astratto, che c' è un tribunale e un magistero istituito da Gesù Cristo; bisogna di più confessare, ch' esso risiede nell' Episcopato, del quale è capo il Sommo Pontefice. Se questo lealmente si confessa, se a questa confessione sono coerenti le leggi riguardanti l' insegnamento, quali conseguenze se ne avranno? Certamente le seguenti. Si riconoscerà l' Episcopato come il Corpo insegnante dello Stato in opera di religione: non solo il Corpo insegnante ufficiale e legale, ma oltre di ciò anche un Corpo insegnante indipendente, poichè queste due qualità non si contraddicono. Ogni insegnamento riguardante il domma e la morale cattolica discenderà come da sua legittima fonte da questo gran corpo, e a questo gran corpo ritornerà ogni insegnamento in questa materia per via della debita subordinazione. Il Governo non farà che mettersi a lato di questo Corpo augusto, come un protettore e come il rappresentante legittimo del Corpo dei fedeli, che al fianco de' suoi pastori gli aiuta in ogni maniera, affinchè possano meglio adempire il divino, benefico e paterno loro ministero. Si riconoscerà in questo Corpo insegnante il diritto di visitare liberamente le scuole ufficiali, per conoscere le dottrine che vi s' insegnano, e trovatene di quelle che divergono dalla dottrina cattolica, di riferirne al Governo stesso, acciocchè sia tolto un sì grave inconveniente, nasca egli da libri che si adoperano nelle scuole, o dalle lezioni vocali di maestri o irreligiosi, o troppo imperiti in opera di religione. Il Governo civile d' una nazione, nella quale la religione cattolica è l' unica religione dello Stato, è obbligato a far questo lealmente; e a fare che le leggi, i decreti, le circolari, i provvedimenti d' ogni sorta siano in perfetta armonia con questi principii. Il Governo d' una nazione, nella quale non ci fosse una religione dello Stato, ma diversi o tutti i culti fossero ammessi ugualmente, sarebbe ancora obbligato a fare altrettanto relativamente alle comunità dei cattolici. Un Governo leale , che adempisse con onoratezza questi suoi doveri, torrebbe di mezzo qualunque discordia tra lo Stato e la Chiesa su questo punto dell' insegnamento; l' Episcopato, il resto del Clero, i fedeli si troverebbero indissolubilmente uniti col Governo; la forza morale della Chiesa diverrebbe una alleata utilissima al consolidamento delle libere istituzioni consacrate dalla religione. Ma tra le tenebre viene l' uomo inimico, e soprasemina la zizzania. Il genio del male favella parole ingannevoli negli orecchi di quelli che siedono al timone degli Stati. Egli dice loro: « Guardatevi dal clero, perchè il clero è un partito politico ». Quando dice questo, il genio del male mente al suo solito. Il clero non è un partito politico; ma egli ne prende le apparenze, tostochè il Governo gli niega i suoi essenziali diritti. Uomini di Stato, se voi trattate il clero gelosamente come se fosse un partito politico, lo rendete tale voi stessi (1). Se all' incontro voi lo trattate lealmente , come clero, qual è per la sua situazione, non mostrate di averlo in conto di un partito, il clero sarà sempre clero, e non mai un partito: non sarà altro che quell' istituzione religiosa che ha fatto Gesù Cristo; istituzione aliena dalla politica fin che questa si limita ai negozi temporali e suoi proprii, è tuttavia istituzione che renderà ai Governi indirettamente de' continui e inapprezzabili vantaggi; poichè il clero col suo proprio santo ministero ammollisce e toglie l' asprezza di tutti i conflitti, concilia rispetto alle leggi, cementa gli animi de' cittadini, e, unendo questi, fortifica la nazione, e aggiunge così una secreta consistenza e stabilità ai Governi senza mostrarlo pure in apparenza. Dice loro ancora: « Se voi riconoscete lealmente i diritti del clero cattolico, e lo proteggete nell' esercizio dei medesimi, il clero diverrà potente e vi leverà di mano le redini ». Il genio del male mente di nuovo, per gettare la discordia e la divisione tra il potere civile ed il clero, ispirando a quello una vana gelosia di questo. Questa paura del Governo da una parte è una viltà, è un' inconsapevolezza delle proprie forze: dall' altra non nasce, se non in quei Governi che covano de' progetti sinistri alla religione ed alla morale. Questi temono che la Chiesa e il clero colla sua influenza ne impediscano loro l' esecuzione. I Governi, all' incontro, leali, che altro non bramano che il bene, che hanno per norma delle loro azioni de' principii di morale, di giustizia e di religione, e che non intendono di sacrificare questi sommi beni dell' umanità agl' interessi temporali mal calcolati (perchè l' utilitarismo calcola sempre male); questi Governi vedono di buon occhio l' influenza che esercita il clero sui fedeli entro la sfera della religione e della morale, e la considerano come vantaggiosissima: non pensano neppure alla possibilità ch' essa possa venire in collisione coll' autorità del Governo, perchè il Governo non vuole offendere la Chiesa, ma proteggerla, non vuol pubblicare delle leggi empie e contrarie ai suoi dommi, o alla sua morale, ma savie e religiose; non vuole impedire l' Episcopato nell' esercizio del suo sacro ministero, e così non gli viene l' occasione di vessarlo, di perseguitarlo e sbandeggiarlo; non vuole spogliare la Chiesa de' suoi beni temporali, ma lasciare a ciascuno il suo; insomma non è mosso da alcuno spirito ostile, tendente a sovvertire la pubblica morale, a promuovere l' opinione antireligiosa, e ad abolire ne' popoli quel sentimento di rispetto verso le cose sacre, senza il quale lo stesso ordine pubblico si sovverte, e a conservarlo è poi uopo accampare una forza fisica spaventevole, d' infinito aggravio ad una nazione, armando la metà de' cittadini contro l' altra metà. La Chiesa adunque e il clero, per la stessa natura dell' istituzione, si trovano in un perfetto accordo co' buoni Governi: per la stessa cagione i cattivi Governi considerano l' una e l' altro come loro nemici, e par loro di fare altrettante prodezze quante volte possono cagionarle qualche molestia o qualche danno. Degli scrittori ostili alla Chiesa, specialmente storici, come il Giannone, il Botta, il Colletta ed altri tali, hanno celebrato colle lodi più esagerate alcuni principi e ministri, che hanno rotto molte lancie contro la Chiesa, e così hanno contribuito non poco a diffondere il pregiudizio che in queste braverie consista la gloria del regnare. La vanità di altri principi e quella di altri ministri si è gonfiata, sperando di poter ottenere a buon mercato di simili elogi, non già colla prudenza governativa o col valor militare, ma con fare i prepotenti a man salva contro persone inermi, e quindi lo spirito irreligioso ed antiecclesiastico passò per una eccellente massima di governo. L' infamia duratura aspetta questi miserabili amici d' una gloria passaggiera. Ma il genio del male bisbiglia ancora una parola più seducente negli orecchi de' governanti: « Temete, dice loro, il potere della Santa Sede, e per velare il vostro astio, con un' accorta parola chiamatela una Corte straniera , la cui influenza è nocevole all' indipendenza dello Stato ». Niente di meglio che l' indipendenza dello Stato; qual buon cittadino vorrebbe sacrificarla? o chi v' ha mai detto di sottomettere il vostro Stato a quello di Roma? La Chiesa non vi comanda questo; piuttosto vi fa ella stessa un dovere di conservare l' indipendenza dello Stato, che v' è affidato da governare, da qualunque altro Stato temporale. Ma avvi buona fede in voi, quando fate le viste di confondere due cose, che voi stesso sapete che sono distinte ed immensamente separate l' una dall' altra? E chi è che non sappia, che altro è lo Stato temporale di Roma, e altro la Santa Sede Apostolica? Se dunque avete da fare, a ragion d' esempio, un trattato di commercio collo Stato Romano, cercate pure senza riguardo i vostri interessi, come fareste con qualunque altro Stato temporale, e farete benissimo a farlo. Ma quando si tratta della Santa Sede, del Papa, come Papa, egli è il supremo di tutti i cristiani cattolici, e siete perciò obbligati a riconoscerlo per tale, se pur non siete protestanti, o se non volete che i cattolici siano protestanti, il che sarebbe una contraddizione. Non potete mica dire, che il Papa come Papa sia un principe straniero, perchè Papa non vuol dire principe temporale, ma vuol dire Vicario di Gesù Cristo su tutta la terra. Onde il Papa, che vive su questo globo, è sempre nel suo Stato. Trattasi d' uno Stato spirituale e non d' uno Stato temporale: la sua autorità limita bensì il vostro potere: ma solo nelle cose religiose e morali. Dirò meglio, essa non limita il vostro potere, ma limita salutarmente il vostro arbitrio, poichè nessun Governo può avere in nessun caso autorità sulla fede religiosa, e se egli ci vuol mettere la mano, fa un atto di arbitrio e non d' autorità; la sola superbia è quella che non soffre siano messi limiti a' suoi arbitrii. Quando dunque il Papa vi dice sull' autorità ricevuta da Gesù Cristo: « Questa cosa è illecita secondo la legge di Gesù Cristo »; allora voi non potete più dire ad una nazione cattolica, che ella sia una cosa lecita, perchè ha parlato il giudice competente, e non dovete vessare i cittadini costringendoli a credere piuttosto a voi, che al Papa loro unico superiore: non esiste nessuna potestà, nè legislativa, nè ministeriale nello Stato, che possa far questo. In tal modo si fa chiaro, che non è possibile alcuna seria collisione colla Santa Sede, se i Governi sono leali, e non confondono a bella posta le idee. La scusa dunque di non voler dipendere da un principe straniero svanisce da se stessa, si svela da sè come un miserabile sofisma, con cui i falsi politici vogliono ingannare e confondere l' opinione popolare. Per riassumere dunque in poche parole quello che dicevamo, il segno sicuro, al quale si può conoscere, se un Governo civile dice la verità quando afferma di voler conservato il cattolicismo, e quando dice di più, di considerare la religione cattolica come religione dello Stato, si riduce a vedere, se egli rispetti e riconosca nel fatto la gerarchia della Chiesa Cattolica, quale l' ha istituita Gesù Cristo. Il Governo che opera in modo da mostrare di non riconoscere questa autorità gerarchica, non è cattolico, ma è protestante. 1 Importanza per la società umana . Che l' uomo semplice e primitivo non ha bisogno della filosofia, bastandogli avere opinioni e sano criterio naturale. Ma sollevandosi, per uno sviluppo spontaneo, alla sfera di riflessioni più elevate: 1 diviene difficile il ragionare e facile l' errore; 2 quindi la seduzione delle passioni, che vogliono essere giustificate, travia l' umana mente. - Fino che la mente è traviata e protettrice de' vizii, l' animo non può guarire. - Allora è necessario applicare, a sanare il malore dell' umanità, il farmaco d' una scienza più alta, esposta con precisione, provata con rigore. - Alternativa d' una corruzione e d' una risanazione, d' una sofistica che tien dietro alla corruzione, e d' una scienza sempre più profonda che fa rinsavire le menti illuse. L' ultima vicenda si fa di quella sofistica che pone in dubbio e nega gli ultimi principii delle cose. Tale è questa del nostro tempo. - Tutto si è negato, tutto posto in dubbio (Descrizione dello stato delle menti del secolo passato, e in parte del presente, ecc.). - A questa malattia non può rimediare che la filosofia, cioè la scienza dei principii, delle ragioni ultime . Questo è quello che poco si conobbe; finora si credette che la filosofia non fosse che speculazione dissociata dalle conseguenze pratiche. - All' incontro tutti i mali dei nostri tempi vengono dalle erronee dottrine filosofiche, cioè da quella sofistica che risponde alla filosofia , come contraria a contraria, ecc.. - Sono da toccare principalmente i mali della Germania e le minacciose conseguenze, ecc.. Quindi altri errori d' alcuni i quali credono che basti una filosofia superficiale, e che non sia necessario entrare ne' visceri delle principali questioni. 2 Importanza per le scienze . S' aggiunge che le scienze tutte hanno una tendenza di costituirsi in forma rigorosa. A questo presta mano la filosofia, la quale se non è formata, e se ad essa si lascia sostituire la sofistica, accade che il veleno sia portato in tutte le scienze, ecc.. 3 Importanza per la religione . La religione stessa ogni dì ne abbisogna (Avversari - Teologi cattolici). Che la religione Cattolica abbisogni oggidì di una sana e potente filosofia si scorge osservando la sua condizione, sì relativamente a' suoi nemici che la odiano, sì relativamente a' fedeli che la venerano ed amano. Rispetto a' suoi nemici basta considerare che tutte le eresie del Settentrione vanno a finire convertendosi nel razionalismo , che è quanto dire in un sistema di filosofia, con cui si combatte la religione positiva. - Di più, tutti gli assalti dati alla religione dagl' increduli nel secolo scorso e che continuano tuttavia, non le si danno con altr' arme che con quelle di una falsa filosofia. - Conviene adunque combattere ad armi pari per giovare a' traviati, i quali non ammettono altri argomenti. Dunque è necessaria una filosofia, ecc.. Che se si volge lo sguardo all' interno della Chiesa, noi vediamo da una parte il popolo, a cui già si propagano ogni dì più i lumi, e le cui facoltà si sviluppano a gran passi: egli domanda quindi dalla religione un nutrimento accomodato a' suoi bisogni; al quale scopo sommamente giova che la filosofia rechi anche nella religione il suo metodo logico, che concateni le verità rivelate in modo che le une colle altre si sostengano reciprocamente e che renda più possente quella facoltà della ragion teologica che conduce il fedele a penetrare sempre più addentro nelle verità religiose. Che se da un' altra parte consideriamo lo stato scientifico della teologia, noi sentiamo un lamento universale a cagione del metodo che ancor manca in una scienza così sublime, e del vestito ancor rozzo in che ella si mostra; il che la rende disamorata, ecc.. - Ora a questo mancamento la sola filosofia può rimediare. - San Tommaso così la ristorò sulla fine del medio evo, ecc.. Introduzione cavata dai sentimenti che debbono nascere in un giovane professore chiamato alla cattedra di filosofia normale. - Difficoltà e gravità dell' incarico. Per vincere queste difficoltà la prima cosa è d' intendere bene quale sia lo scopo che la Sovrana provvidenza si prefigge di ottenere con questa cattedra, quale sia l' ufficio dell' istitutore, quanta la sfera del suo insegnamento, quali le viste che egli deve conseguentemente proporsi. Qui non trattasi d' insegnare la filosofia ai giovanetti, che la prima volta sentono le lezioni di questa scienza. - Differenza fra l' insegnamento elementare , e l' insegnamento normale: difficoltà di quello, difficoltà di questo. Nell' insegnamento elementare trattasi di infondere nelle menti le prime nozioni filosofiche, e nell' insegnamento normale di sviluppare queste nozioni entrando nelle questioni più elevate. - Nell' insegnamento elementare è indispensabile di dare qualche peso all' autorità del precettore, perchè, ecc.; nell' insegnamento normale l' autorità del precettore dee essere del tutto esclusa, altro non dee prevalere che la forza del ragionamento. - Sì, io non posso, non debbo, non voglio pretendere che voi prestiate alcuna fede alla mia parola, dovete voi stessi ragionare meco - noi dobbiamo studiare insieme - conforto ed aiuto che deve venire da ciò. Insomma non trattasi propriamente di ammaestrare, ma di far sì che gli uditori si ammaestrino da se medesimi: non trattasi di insegnare le verità, ma di condurre gli uditori a trovarle queste verità da se stessi - Scorsa sul metodo socratico, col quale sono scritti i libri di Platone - eccellenza ed opportunità di questo metodo pel caso nostro. Conclusione, che l' unica via, per la quale si crede di poter condurre al suo scopo l' insegnamento normale, si è quella di « prendere per argomento del medesimo l' esposizione del metodo filosofico e le sue applicazioni a' diversi sistemi ». Non è che con questo noi vogliamo escludere i sistemi: l' uno di essi deve esser vero: noi vogliamo pervenirci per una via irrecusabile, quella d' una logica rigorosa. - Di più, ognuno dei più celebri sistemi ha qualche cosa di buono, noi non vogliamo ricusarne la parte buona. - Relazione dell' Eclettismo colla via che noi ci proponiamo di seguitare nelle nostre lezioni (sincretismo). Nesso colla lezione precedente; noi resteremo tanto più contenti dell' argomento stabilito, quanto più considereremo l' importanza di un buon metodo di filosofare. Necessità e importanza del metodo, delle definizioni generali di esso. - Il metodo è la via , ecc.. - Il metodo è lo stromento, ecc.. Qui si cominci a fare la storia del Metodo. Il vero metodo indigeno all' Italia. - Carattere dell' ingegno italiano, fatto pel metodo - Galileo. Il carattere dell' ingegno italiano consiste nella chiarezza: l' Italiano, se non vede chiaro, non s' appaga. - Quindi è inclinato e si compiace: 1 del raziocinio matematico , e 2 del raziocinio sperimentale . - Questi furono accoppiati eminentemente in Galileo (Converrebbe ricorrere alle sue opere, e cavarne di que' canoni sì lucidi di pensare che egli sparge da per tutto. Sarebbe bene, per andar breve, che leggesse qualcheduno de' principali elogi fatti al Galileo, per es. quello del Frizi; ovvero almeno prendesse l' operetta che ha per titolo: « Il Galileo proposto per guida alla gioventù studiosa », di Monsignor Colangelo, Napoli). L' ingegno inglese è simile, ma s' innalza meno aperto alla natura spirituale. In Bacone vi ha lo stesso intento che in Galileo, ma Bacone è legato dagl' idoli dell' immaginazione , dai quali è sciolto il Galileo. Oltre di che: 1 non mette le mani nella scienza, onde non è matematico, nè fisico; 2 quindi i suoi precetti hanno spesso del vago , dovendo supplire coll' immaginazione filosofica alla pratica che gli manca. Conviene attingere qualche esempio dalle sue opere, p. es. la sua classificazione degli esperimenti assai mal fatta, e fatta più a tastone che a vista chiara. - Ora il metodo dee sempre cominciare a formarsi coll' esercitare l' ingegno nelle ragioni matematiche e negli esperimenti fisici, perchè in questi esercizi gli errori si trovano, e questi servono a vedere dove si è messo il piede in fallo. Le disposizioni degli scienziati che impedirono di propagarsi il buon metodo furono: 1 La riverenza superstiziosa ad Aristotele . Esempi di opposizioni ch' ebbe da ciò il Galilei si possono vedere nella « Storia del progresso », ecc., del Powel, stampata a Torino [...OMISSIS...] ; 2 La pigrizia degl' ingegni , abituati a tutto decidere per autorità; fomentata specialmente dallo studio delle leggi umane, dell' antichità classica, ecc.; e 3 La confusione fatta tra l' autorità divina ed umana [...OMISSIS...] ; 4 La superbia de' vecchi dotti , che non vogliono imparare da' giovani. Carattere dell' ingegno inglese. - Bacone. Le scienze fisiche debbono tutti i loro progressi al metodo rigoroso introdotto da que' due sommi uomini [...OMISSIS...] . Le scienze filosofiche debbono il loro poco sviluppo e i loro grandi errori al non essersi applicato ad esse lo stesso metodo. - Scorsa sui sistemi più celebrati. Cagioni perchè alle scienze filosofiche non fu applicato il giusto metodo. - Disposizioni degli scienziati. - Qualità delle scienze filosofiche a cui è più difficile applicare il metodo con rigore. - Imperfezione de' metodi stessi. - Critica di Bacone (mancante di alcuni canoni importanti pel metodo filosofico - De Maistre). Tentativi imperfetti per applicare il buon metodo nelle scienze filosofiche. Italiani - Campanella, Ricotti, Venturi (G. B.), Araldi, Caluso, Beccaria, Verri, Filangeri; Inglesi - Reid; Francesi - Jouffroi; Tedeschi - privi al tutto di metodo, benchè potenti d' ingegno, non poterono che inventare de' sistemi mostruosi. - Gioberti, loro seguace, privo di metodo. Conclusione. - Essere nostro intendimento di ristaurare il metodo filosofico in tutta la sua estensione, e di fedelmente e costantemente seguirlo in tutte le investigazioni filosofiche che noi faremo insieme. Noi sappiamo ora a che dobbiamo tendere, miei signori, ad applicare il vero metodo d' investigazione alle ricerche filosofiche: il che noi faremo esponendo le regole del metodo, e poi applicandole alla soluzione de' principali problemi della filosofia. Ma noi non dobbiamo trascurare quelle quistioni accessorie che deve avere in prima discusse e risolte colui, che intende entrare nel filosofico arringo, che vuol filosofare egli stesso, e che vuol insegnare altrui a filosofare, ecc.. Di queste ne si presentano già qui sul principio due importantissime: quella della libertà del pensare , e quella della libertà dell' insegnamento . Della libertà del pensare - com' ella sia assurda intesa volgarmente - com' ella abbia dell' importanza, se, mutandole la forma, si converta in quest' altra: « Quale autorità può aver l' uomo sopra l' altro uomo d' imporgli una qualche dottrina? ». La si scioglie dimostrando: 1 Che l' uomo non ha alcuna autorità d' imporre una dottrina all' altro uomo per sè, ecc.. 2 Che un' autorità infallibile può, ecc.. - Autorità divina - Autorità della Chiesa (1) - Non si dà mai collisione vera tra essa e la Ragione - collisioni apparenti. - E` lo stesso diritto che ha la verità sull' uomo, venga ella da qualunque fonte all' uomo comunicata. - Non impedisce la vera libertà del filosofare. - Vantaggio, che ritrae dall' autorità la libertà filosofica. 3 Sebbene l' autorità umana non abbia diritto assoluto di imporre una dottrina, tuttavia dee muovere l' attenzione, ed inclinare l' animo. - Ragionevolezza di ciò. 4 Vi hanno delle cose su cui tutti gli uomini convengono - Senso comune, Autorità del genere umano infallibile - perchè - Gli uomini convengono nella logica, e quindi nel metodo, benchè poscia nol seguano - Quindi lo sforzarsi di stabilire il buon metodo e di tenerlo costantemente, ecc. non lede la vera libertà del pensare - Mettere gli uomini sulla via della concordia. Della libertà dell' insegnamento - Conseguenze della dottrina applicata alle intenzioni di un savio governo come protettore degli studi. Dee procurare che tutti conoscano la verità filosofica senza ledere la sana libertà del pensare. - Il miglior segno di essere pervenuti alla verità è quello della concordia spontanea delle opinioni. - Questa non si ottiene coll' imporre una dottrina, ma col propagare il metodo per rinvenirla. - L' autorità che dirige gli studi può esigere che si segua un metodo logico, perchè su questo nel loro fondo vi ha consenso universale - Parlando di metodo filosofico non intendiamo la parte tecnica o materiale del metodo delle singole scienze, ma unicamente la parte logica. - Noi entreremo in questa via - così ci solleveremo sopra tutti i sistemi - l' imparzialità - Vantaggio e gloria che trarrà di ciò il Piemonte, ma quando dico Piemonte non intendo dividerlo dall' Italia. No, l' Italia non è che una sola famiglia, ecc.. - L' italia, patria del vero metodo, chiamata a stabilirlo e mantenerlo nella Filosofia com' ha fatto nelle scienze naturali. - Primato in questo degli Italiani, ecc.. Noi abbiamo veduto l' importanza, la necessità del metodo filosofico: or non conviene che ce la esageriamo. - Una verità esagerata è un errore. - Una delle regole principali che dee dirigere il filosofo, è la moderazione. - La moderazione risulta dal complesso, dalla totalità delle vedute. Sacrificano ad un' idea sola tutte le altre quelli che riducono al metodo tutta la filosofia. - Cousin; passi. - Assurdità di questo sistema (Una via senza un termine a cui conduca, un mezzo senza un fine, un istrumento, ecc.). Origine di questo errore. - Si vide che l' oggetto della filosofia non sono le cose fisiche (percettive), ma, oltre le cose fisiche, nella condizione presente, l' uomo non apprende che le idee, le quali contengono le ragioni delle stesse. Quindi l' inclinazione di restringere la filosofia alle idee. Ora lo studio delle idee non può condurci ad altro che a trovare l' ordine, ossia il concatenamento che hanno fra esse. Ora il concatenamento delle idee è appunto ciò che presenta il metodo di andare dall' una all' altra. Quindi si conchiude che tutto l' oggetto della Filosofia è il metodo. Questo è propriamente il razionalismo filosofico . - Se si penetra nel suo fondo ci si trova la mancanza di fede, dico d' una fede filosofica nella realità di un Dio. Quindi si vuol fare un Dio7idea - Gioberti - Hegel [...OMISSIS...] (1). Affine a questo sistema, ma meno funesta, e in parte vera, è la definizione della logica che alcuni danno, volendo « ch' ella non sia già l' arte che insegna a trovare o dimostrare il vero, ma a ragionar bene , sia poi il vero o il falso a cui conduca ». Nella letteratura e nelle arti si applicò il sistema del razionalismo, mettendovi a principio quel celebre detto di Goethe « l' arte per l' arte ». [...OMISSIS...] Lo scopo della Scuola normale di Filosofia è il metodo: il metodo è l' organo della Filosofia, non è tutta la Filosofia: questa si trova coll' applicazione del metodo alle principali questioni. Quindi già stabilimmo che lo scopo della scuola normale non dee essere il solo metodo, ma il metodo colle sue applicazioni. Ma vi ha egli nessuna norma che ci diriga in queste applicazioni? Ecco l' argomento della presente lezione, che solo può rendere manifesto quale debba essere l' intero scopo dello studio che dobbiamo fare insieme, e solo farci conoscere l' indole e la sfera del filosofico magistero che voi siete chiamati a esercitare. Noi non siamo di quegli che non ammettono nulla di vero e di certo anteriormente alla filosofia: noi ammettiamo delle verità indubitabili, delle certe evidenze comuni a tutti gli uomini, anche a quelli che non pervennero alla riflession filosofica. Queste sono la guida di tutta l' umanità al suo fine , queste debbono essere anche la guida del filosofo. - Convien dunque dirigere la filosofia al fine dell' uomo - la moralità - (Si dimostri che nella moralità propriamente si accoglie il fine dell' uomo, giacchè la felicità non può l' uomo darla a sè stesso, ma aspettarla; quand' egli è moralmente buono). Or noi abbiamo veduto (Lez. I) che la Filosofia è necessaria, è importante appunto perchè viene in soccorso dell' uomo, quando la debolezza della sua mente e del suo cuore dà luogo a sofismi, che vorrebbero rapirgli le verità più salutari ecc.. Queste verità, in fine del conto, hanno valore perchè o contengono il fine morale dell' uomo, o ne sono i prossimi mezzi. Quindi tutta la Filosofia dee volgersi a mantenere contro il sofisma le verità più necessarie all' uomo, acciocchè conseguisca la sua alta destinazione illustrandole ed ordinandole. Ora queste verità, o sono ontologiche cioè quelle che dichiarano come sono gli enti; o deontologiche , che dichiarano come debbano essere e come in ispecie dee esser l' uomo, acciocchè sia retto e in sua natura perfetto. In queste seconde si contiene propriamente il fine dell' uomo, che è la perfezione morale e la conseguente felicità. Ma le cognizioni delle prime ne sono il mezzo prossimo, perocchè la natura dell' anima a ragion d' esempio ne dimostra la dignità, e rende evidente la verità e la necessità della morale. - Se dunque dividiamo la Filosofia in due gran parti, nell' Ontologia e nella Deontologia, noi potremo trovare un segno a cui dirigere le nostre ricerche, e principalmente il magistero filosofico riguardante sì l' Ontologia e sì la Deontologia. Il magistero filosofico nella sfera della Ontologia dee tendere a indurre le menti degli uditori a raggiungere un positivo concetto dello spirito . - Come da questo dipenda tutto il buon esito della scuola. - Difficoltà a fare che questo concetto sia retto , separando lo spirito affatto dalla materia, e sia positivo , non arrestandosi a definizioni negative. Il magistero filosofico nella sfera della Deontologia dee tendere a mettere in onore la virtù, e a farla conoscere come il sommo bene, anzi il solo bene (quello a cui tutti gli altri si riferiscono, o da cui scaturiscono). Introduzione - in cui si dica che dovendo noi 1 esporre il metodo, 2 applicarlo alle diverse scienze filosofiche, s' intende, a fin di maggior chiarezza e brevità, di ridurre il metodo in alcune regole o canoni, ciascuno de' quali darà materia ad una o più lezioni. La prima regola - L' osservazione preceda il ragionamento. Dimostrazione diretta, tratta dalla definizione del ragionamento « un' operazione dello spirito colla quale la mente trova una verità in altre e per mezzo di altre verità ». Il ragionamento adunque suppone delle verità apprese immediatamente, le quali sieno la base del ragionamento stesso. - Le verità che formano la base de' ragionamenti possono essere dedotte da altri ragionamenti, ma finalmente conviene arrestarsi alle primitive se non si vuol perdersi in un progresso all' infinito, il quale è assurdo, ecc.. - Le altre scienze si fermano co' loro ragionamenti a verità mediate; la filosofia muove il suo ragionare dalle verità immediate perchè, ecc.. S' illustra con esempi. Vedi l' « Antropologia », Introduzione, ecc.. - Giustificazione di alcuni detti comuni, come « coecus non judicat de colore », ecc.. Dal trascurarsi questa regola in filosofia procedono innumerevoli errori: perocchè accade che si cominci la filosofia dal ragionare, invece che dall' osservare: ma il ragionare suppone necessariamente una materia su cui rivolgasi: indi è che quelli, i quali procedono con questo metodo, suppongono molte opinioni senza accorgersi di supporle; quando la filosofia non deve supporre cosa alcuna, ma tutto provare, tutto esaminare, sia poi col raziocinio, o colla coscienza, ecc.. Esempi. Obbiezione - E qui alcuni oppongono un loro pregiudizio che è che « tutto si dimostri col raziocinio » - Confutazione diretta di questo errore. - Confutazione delle funeste conseguenze. Questa è una via che conduce necessariamente, 1 In inestricabili labirinti e sottigliezze, perchè a ) Si accumula ragionamenti sopra ragionamenti senza fermarsi giammai, onde i sistemi giganteschi, oscuri, ecc.. b ) Si sottilizza eccessivamente, come accadde nel decadimento della scolastica, onde le inutili e inconcludenti dispute, ecc.. 2 Allo scetticismo. V. « Nuovo Saggio », lez. VI, p. 1. Ciò che dà l' intuizione sono i principii del ragionamento, e principalmente i quattro di cognizione , di contraddizione , di sostanza e di causa . - Esporre brevemente questi principii deducendoli dall' essere ideale , e mostrare che non può venire con essi in contraddizione il reale coll' ideale , perchè quello non è che una realizzazione di questo: dunque nè pure la percezione coll' intuizione. Ogniqualvolta paresse il contrario, vi ha errore. Esempi - Se si percepisce un effetto e non se ne percepisce la causa, non si dovrebbe conchiudere che la causa non esiste, ma si deve conciliare la percezione coll' intuizione mostrandola limitata, e non atta a dare tutto ciò che si vede necessario nell' intuizione. - Se delle esperienze fisiche paressero provare una contraddizione nell' essere, per es., che lo stesso corpo nelle stesse circostanze riscalda e raffredda, deve dirsi che le percezioni sono imperfette ed escludono qualche circostanza. - La percezione adunque deve sempre andar d' accordo coll' intuizione. Il ragionamento del pari deve andar d' accordo con l' una e con l' altra: coll' intuizione, perchè il ragionamento non è che una serie di proposizioni legate, secondo le norme somministrate dall' intuizione dell' idea dell' essere. Quindi, se il ragionamento riuscisse al contrario, egli è erroneo. Esempio. Le antinomie di Kant nella « critica della ragion pura ». - Medesimamente è da dirsi rispetto alla percezione, perchè questa va d' accordo, come si è provato, coll' intuizione che adduce necessità. Sono dunque erronei tutti i ragionamenti che negano la percezione. Esempio: - Idealismo che nega i corpi percepiti come stranieri a noi. - Scettici, che negano la propria esistenza. - Il principio di Cartesio, « Cogito, ergo sum », voleva fondare la filosofia sulla percezione , solida base, ma non sufficiente perchè la filosofia cerca la base ultima, che è l' intuizione. Prima parte, Logica. - Dottrina degli errori che suppongono sempre qualche oscurità e confusione nel nesso delle idee. [...OMISSIS...] Che cosa si fa quando si prende a sciogliere una questione? - Non si fa che studiare le condizioni del problema per rinvenire il rapporto che hanno coll' ultima conclusione che la scioglie: a tal fine è necessario 1 Conoscere tutte le condizioni. - Ma se lo stato della questione non è esposto chiaramente, talora qualcheduna ne rimane taciuta. 2 Conoscerle con verità. - Ma se lo stato della questione non è esposto con chiarezza, si fraintende, non s' intende la condizione per quella che è, ma si crede che sia una condizione diversa da quella che è. 3 Non aggiungere condizioni che la questione non ha. - Ma talora se ne aggiungono appunto perchè non si conosce bene lo stato della questione. 4 Conoscere i nessi delle condizioni fra loro. 5 Non proporre la questione in modo ch' ella già contenga nel suo seno o supponga la soluzione falsa , per es., la questione di D' Alembert « qual sia il punto di comunicazione fra lo spirito ed il mondo esteriore »suppone che fra lo spirito ed il mondo vi abbia una relazione di spazio , il che è falso: quindi la questione stessa è assurda. 6 Non proporre due questioni mescolate invece di una. 7 Non proporre una questione invece di un' altra. Seconda parte, Dialettica. - Lo stato della questione finalmente rimane oscuro e intralciato per difetto del linguaggio - o troppo abbondante - o equivoco - o ambiguo, ecc.. Rispetto alla Lezione XIX si deve parlare: 1 Dell' uso dei sinonimi nel linguaggio filosofico. - Talora i sinonimi esprimono lo stesso concetto principale coll' aiuto di una nuova relazione. - Se dunque, occorrendo più sinonimi, si crede che si segnino più concetti principali, nasce la confusione delle idee, onde innumerevoli errori, per es., l' idea dell' essere viene denominata essere possibile, essere ideale, oggetto, ente universale, o universalissimo, lume, forma della ragione, primo noto, ecc.. Molti rimangono imbarazzati da queste diverse denominazioni per non intendere che tutte esprimono lo stesso concetto principale. 2 Delle definizioni o proposizioni equipollenti. - Qui si può addurre, per es., le diverse definizioni dell' idea, confutando l' obbiezione di quelli che dicono che noi attribuiamo vari e diversissimi significati alla parola idea . Alla lezione XX si può recare in esempio della decimaterza regola, il sistema di quelli che credono avere spiegata l' origine delle idee col dare all' uomo semplicemente una facoltà di conoscere. La facoltà di conoscere esprime un concetto sintetico, il quale fino che non è analizzato non soddisfa alla ricerca filosofica. - Le qualità occulte dei peripatetici peccavano dello stesso vizio. LEZIONE XXI. - In esempio della regola decimaquarta si può addurre la maniera, nella quale si provano i quattro principii del ragionamento. Pigliato come primo noto ed evidente l' essenza dell' essere, l' artifizio della dimostrazione consiste nel pervenire, sostituendo una proposizione all' altra equivalente, a dimostrare che ciascuno di quei principii fa un' equazione col primo noto. LEZIONE XXII. - In esempio della decimaquinta regola si può arrecare la parola reale usata dal Gioberti in due significati, l' uno come opposto di possibile , e l' altro come sinonimo d' entità; onde dice talora il possibile in quanto è reale. Rispetto alla Lezione XXIII le faccio trascrivere qui un articolo che trovo nelle vecchie mie carte sull' argomento. In primo luogo osserverò, che chi parla di una cosa deve almeno sapere fin dal principio darne una qualche definizione, la quale, tuttochè non sia perfetta, deve però potere caratterizzare e contradistinguere la cosa di cui egli parla, sicchè non la si possa scambiare con verun' altra. Altramente, nè egli potrebbe sapere di che parla, nè altri intendere le sue parole. Ora può l' uomo parlare senza sapere di che? O senza che il sappiano quelli che l' ascoltano? Non vedo come ciò possa essere. Concedo bensì che altri può pronunziare dei suoni e non intenderli, dei suoni dico che in bocca di chi gl' intende sarebbero altrettante parole, ma questi suoni proferiti da chi non ne intenda il significato, come da un pappagallo, da un stornello, da un organetto, sono rumori e strepiti non parole, non atti di parlare umano. E se chi parla sa di che parla, e lo sanno e l' intendono quelli che l' ascoltano, conviene adunque dire che una qualche definizione dell' oggetto, intorno a cui si volge il suo ragionamento, egli l' abbia per lo meno in mente, od ancora l' abbia data espressamente, o in ogni caso l' abbia supposta nelle menti dei suoi uditori, abbia supposto cioè, che a quella parola che esprime la materia del discorso, per esempio alla parola virtù , s' egli parla della virtù, essi affiggano di comune consentimento un qualche significato, e quindi l' abbiano definita in qualche modo a se stessi; perciocchè è definire una cosa il pronunciare anche dentro di noi qual sia il significato che noi attribuiamo a quel vocabolo, col quale esprimiamo quella cosa. Laonde, se colui che ragiona, per esempio della virtù, è già in necessità di far una di queste due cose, o di darne la definizione o sottointenderla; il più delle volte, parmi, si converrà assai meglio ch' egli la dica a dirittura espressamente anzi che sottointenderla, perchè così rimuoverà fino dal principio le male interpretazioni dei vocaboli e le inesattezze che ne nascono dei concetti. Se spesso vuol essere utile il far ciò, nei trattati scientifici è al tutto necessario; poichè in essi l' autore toglie a dire per ordine tutto ciò, che si deve sapere intorno alla cosa di cui si tratta; e perciò non si può in somiglianti trattazioni sottointendere cosa alcuna; che il sottointendere non è un dire per ordine, e neppure un dire; ma sibbene egli converrà di cominciare, nell' esporre una scienza, dal dare prima le notizie necessarie all' intelligenza delle altre che poi seguiranno e quindi replicarsi queste di mano in mano: e la prima di tutte, quella di cui tutte l' altre hanno bisogno per essere intese, è appunto una qualche definizione della cosa, giacchè ogni notizia della cosa suppone dinanzi di sè, per essere intesa, che la cosa stessa in qualche modo sia conosciuta. Tuttavia non voglio dire con ciò, che la sentenza di quelli, che negano doversi, o potersi cominciare dalla definizione, sia priva di ogni verità; dico solo che ha bisogno di qualche spiegazione; perchè intesa in un senso essa non si può ammettere. Ecco adunque che cosa io trovo di vero e che di falso in questa sentenza. Una cosa si può definire in più maniere. Si può dar di essa una definizione generale e imperfetta, e delle definizioni più speciali e più finite. Ora, acciocchè gli uomini intendano ciò che si dice quando si parla, è necessario ch' essi abbiano una definizione della cosa, almeno generale, almeno esterna, e tratta da qualche relazione di essa; ma però tale che segni la cosa, e che valga a distinguerla da tutte l' altre, a isolarla per così dire, sicchè essa non si possa più coll' altre avviluppare o tramutare. Se una tale definizione mancasse e non se n' avesse che una vaga ed inetta a caratterizzare la cosa, il ragionare salterebbe necessariamente d' uno in altro argomento quasi a caso, e chi favella si esporrebbe a ricevere quel rimprovero che si suole gittar contro a chi ragiona, come si dice, a vanvera o all' impazzata « voi non sapete quello che vi dite ». Le quali parole non vogliono già significare che l' uomo parli veramente quello che non sa, perocchè questo è impossibile, non è parlare, ma esse vogliono dire che colui si crede ragionare di una cosa e in quella vece ragiona di un' altra, e uscendo, come si suol dire, dal seminato, intramette altre ed altre materie che non hanno alcuna connession nè proposito, ed egli per errore, scambiando l' una cosa coll' altra, crede che lo si abbiano. E qui anzi è uno de' maggiori fonti degli errori, nei quali altri incappa favellando. Per questo difetto appunto, di non aver la cosa ben definita, avviene di trovarsi cangiata in mano la materia, e di dire d' una cosa ciò che non ad essa, ma bensì ad un' altra che ad essa è affine e prossima, e colla quale perciò la si confonde, appartiene. Se la definizione adunque non determina bene la cosa, e se non teniamo questa cosa così ben determinata e contrassegnata innanzi agli occhi in tutto il corso del ragionamento, non possiamo mantenere il filo, nè fare che le parole colpiscano direttamente nel segno, ma elle cadranno or qua or là sparpagliandosi fuori della cosa che si doveva prendere in mira e perderannosi vanamente. Dopo di ciò, sebbene una qualche definizione o espressa o sottintesa sia sempre necessaria dal principio alla fine di un discorso, e questa debba esser vera e propria per fissare la cosa; tuttavia, come dicevo, non è ancora necessario che in sul principio questa definizione sia al tutto perfetta, o che esprima ben distinte tutte le proprietà della cosa; anzi qui appunto io mi faccio con quelli che giudicano questa compiuta definizione potersi solo avere nella fine della scienza come un risultato e quasi direi una ricapitolazione della scienza intera, e non al principio dove non sarebbe intesa per avventura, ma solo dovrebbe esser creduta sull' autorità di chi la presenta; il che non può essere che difettoso; chè veramente, quanto meno in alcun trattato si rende necessaria l' autorità dello scrittore (parlando di scrittori umani), quanto meno lo scrittore esige di fede alla sua parola, tanto più è buono il suo metodo e il suo trattare coi lettori più riverente e più dilicato. Poniamo dunque di dovere scrivere un trattato sull' uomo: non è possibile che il comune degli uomini, a cui si parla, conosca tutte le proprietà intime dell' uomo e le abbia ben distinte, onde una definizione che le contenesse espressamente riuscirebbe al lettore gratuita e per riceverla dovrebbe fare un atto di fede. All' incontro a tutti sarà facile di definirsi l' uomo all' ingrosso, di dare al vocabolo uomo un valore suggerito dal proprio sentimento; ognuno saprà definir l' uomo almeno per un essere simile a se stesso: definizione certamente ancora imperfetta, e dove le proprietà dell' uomo non sono analizzate e scomposte; ma dove però sono tutte espresse e contenute come in germe. Tanto è ciò vero, che gli basterebbe che ciascuno poi meditasse sopra di se stesso, sopra quel sentimento che costituisce a lui la natura umana, perchè egli giungesse con tale osservazione o meditazione a trovare e separare tutti quegli elementi, ond' egli risulta; tutti quei principii che nel sentimento del suo essere stanno uniti insieme in perfetta unità; tutte le proprietà in una parola della natura umana. Trovati poi e a parte a parte osservati questi elementi, principii, e qualità dell' uomo, egli potrà classificarli, ordinarli, gli uni sotto gli altri, congiungerli in somma co' loro nessi naturali, e così rifare e ricomporre quell' uomo che prima si aveva scomposto, così ritornarsi dalle parti al tutto, dalla moltiplicità all' unità dell' essere uomo, il che è quanto dire che potrà, seguendo il filo di quella prima definizione imperfetta, moversi, istituire delle osservazioni e esperienze, che gli dieno tutte quelle cognizioni che aver si potranno dell' oggetto definito. Pretendere all' incontro, che si istituiscano delle osservazioni e esperienze senza una precedente definizione, nè espressa nè sottointesa della cosa che si osserva, è pretendere che non si debba studiare, cioè che non si debba nè sperimentare, nè osservare con arte, ma bensì a caso e senza traccia: il che, a voler parlare propriamente, non è sperimentare nè osservare, parole che suppongono qualche fine e qualche oggetto nell' osservatore e sperimentatore; è solo un prestarsi a ricevere delle impressioni o sensazioni della cosa fortuite, senza che queste possano mai darci un risultato scientifico; poichè elle sono scompagnate da ogni lume di ragione, che le metta a profitto del sapere. Ove dunque si abbia una definizione vera, sebbene imperfetta, la quale serva di filo conduttore nello studio che si fa intorno ad una cosa, per es., intorno all' uomo, allora si può coll' osservazione trarne tutte le altre cognizioni che vengono a costituire la scienza, la scienza di quella cosa, e con questa completarne la definizione. E nel vero, acciocchè la definizione sia compiuta e piena, quanto più esser può, conviene che nasca dalla scienza perfetta, conviene, come dicevo, che riunisca in sè e ricapitoli tutta la scienza stessa. V' hanno adunque due definizioni, tutte due vere e proprie: ma l' una sommamente imperfetta, cioè indistinta, e l' altra sommamente perfetta, cioè a pieno distinta: l' una che si deve sempre supporre fino da principio del ragionamento, e l' altra, che si va col ragionamento stesso lavorando sempre più e perfezionando sino alla fine. Si potrà avere un esempio di questo progresso nella serie delle formule, che io ho usate per esprimere la legge morale (1), la prima delle quali messa in queste parole « segui il lume della ragione », sebben vera e propria, era la più imperfetta di tutte, la quale ricevette però nel progresso un continuo sviluppo e perfezionamento, che la mutò in forme migliori, più distinte, più espresse e luminose. La definizione esprime l' essenza della cosa (1). Questa proposizione è vera secondo me in tutta l' estensione dei termini, purchè si prenda la parola essenza in quel significato che io le attribuisco, e che credo esserle attribuito dal senso comune, cioè per significare ciò che si pensa coll' idea della cosa (2): e non le si dia un senso arbitrario, come fanno a mio credere i filosofi moderni, che intendono per la parola essenza qualche cosa di intimo, di misterioso, d' inesplicabile, che costituisce il fondo delle cose sussistenti. Ora, se la definizione esprime l' essenza della cosa, e la definizione deve sempre venir supposta fino dal principio in ogni trattazione, come un filo conduttore col quale si conduce diritto l' argomento, egli è manifesto, che il principio di ogni scienza è l' essenza di quella cosa sulla quale la trattazione si volge. In questo modo ogni scienza viene ad avere un principio semplice; ed è l' unicità di questo principio che forma l' unicità della scienza: tante debbono essere le scienze quanti i principii, e in quel modo che i principii sono ordinati gli uni sotto gli altri, così le une alle altre debbono essere sotto ordinate le scienze. Ecco quali sono le basi di una giusta partizione delle scienze; ecco la regola secondo la quale si può disporre lo scibile umano nel suo ordine nativo, vero, necessario. Ove le umane cognizioni fossero trattate in quest' ordine, esse riceverebbero una assai maggiore semplicità, verrebbe sgombrata una farragine immensa di ripetizioni, di nessi artificiali e falsi, tornerebbe un aumento mirabile di facilità nell' apprenderle, di luce, di evidenza, ed è questo gran lavoro che resta ancora a fare per intero ai dotti, a por mano al quale è desiderabile che oggimai si rivolgano. Egli è poi, quando un discorso non perde mai di veduta l' essenza della cosa, quando tutto ciò che vi si dica esce da essa essenza, che egli soddisfa appieno: allora la questione è posta bene, è portata al suo termine: nulla resta più ad obiettare, nulla a desiderare. Per questa lezione mi pare che La possa trovare materia abbondante nel « Nuovo Saggio », dove si parla della volontà come causa degli errori; e così pure nei trattati morali, specialmente in quello della « Coscienza » dove si torna sullo stesso argomento. Si può cominciare dallo stabilire che il filosofo deve esser guidato in tutti i suoi passi dall' amore della verità. - Dimostrare quanto facilmente all' amore della verità si associ qualche altra passione, e principalmente l' amore della gloria, il desiderio di inventare cose nuove. Se poi l' animo è dominato da altre passioni, s' aggiunge una segreta tendenza, per la quale l' uomo brama di trovare che sia vero ciò che favorisce le sue passioni e aborrisce di trovare il contrario. - Perciò la regola tanto inculcata dai pittagorici e dai platonici di accostarsi a filosofare coll' anima purgata, dove si può fare un cenno delle purgazioni istituite da questi filosofi, le quali avevano un fondo di verità, benchè anche mescolate di arbitrario e di superstizioso. - Quindi passar a dimostrare che l' animo quand' è purgato, cioè non è mosso da altra passione che dall' amore del vero, procede colle due regole dell' umiltà filosofica e del coraggio. L' umiltà filosofica consiste in una ragionevole diffidenza di se stesso, e in una stima dei filosofi precedenti. - La superbia filosofica all' opposto consiste nella presunzione di sè, e nel disprezzo di quelli che hanno filosofato nei tempi anteriori. - La filosofia non può esser l' opera di un individuo, ma sibbene l' opera lenta e faticosa dei secoli, quindi la ragionevolezza dell' umiltà dell' individuo che non è che un anello quasi infinitesimo della serie dei pensatori. - Storia degli errori, in cui incapparono i più grandi intelletti. - Altra ragione dell' umiltà filosofica, ossia della diffidenza di se stessi. - Vantaggi dell' umiltà filosofica per la scienza e per l' umanità. Ella sola mette a profitto tutta l' eredità delle cognizioni lasciateci dai nostri padri, e lega le diverse generazioni umane fra loro: in bocca dell' umile si sente filosofare l' umanità intera, non l' individuo. Il coraggio filosofico consiste in una moderata e ragionevole confidenza nelle proprie forze, e in una moderata e ragionevole diffidenza dell' altrui autorità umana: consiste ancora nell' intraprendere grandi fatiche per giungere al vero. - Al coraggio filosofico è opposta l' inerzia e la viltà che spegne lo spirito d' investigazione. Esempio del coraggio filosofico sono le varie fatiche fatte dai più grandi filosofi per giungere al vero e fondare le scienze: meditazioni, vigilie, astinenze, viaggi, ecc.. Quelli che hanno una stima superstiziosa verso i filosofi precedenti, non osando sottoporre ad una prudente critica le loro sentenze e giurando in verbo magistri , non possono ragionevolmente essere annoverati fra i filosofi: perchè nè sono in caso di aggiugner nulla alla scienza, nè hanno l' animo pur di tentarlo. Il perfetto filosofo deve unire in sè le due virtù dell' umiltà e del coraggio filosofico, perocchè la prima lo conduce a prendere esatta cognizione di quanto il mondo possiede di scienza prima di lui; la seconda gli mette nell' animo il proponimento di tentare con tutte le sue forze di accrescere alquanto il patrimonio degli avi. La prima produce in lui uno spirito di conciliazione fra le diverse opinioni conciliabili, onde si fa seguace di un giudizioso eclettismo; la seconda produce in lui lo spirito di investigazione che il difende da ogni vizioso sincretismo. Dimostrare che dalle due regole dell' umiltà e del coraggio filosofico nascono due regole più speciali, che sono: 1 non doversi pronunciare un giudizio temerario, che si riduce ad affermar ciò che non si sa; 2 non dover esitare a pronunciare ciò che si sa. Infatti a queste due si riducono le cause prossime degli errori. E quanto alla prima egli è evidente che se non si affermasse mai se non quando si conosce bene la cosa, difficilmente si commetterebbero errori. Ma invece di voler veder la cosa coll' occhio della ragione prima di pronunziare, la si crea coll' occhio della fantasia e si pronunzia quest' idolo invece del vero. - Si illustri la cosa coll' esercizio del metodo che usano i sensisti, dimostrando quanto a torto essi si chiamino la scuola sperimentale. Non si dà esperienza che non abbia queste due parti: la parte del fenomeno sensibile, la parte di ciò che vi aggiunge la ragione. Il fenomeno sensibile non basta a costituire un' esperienza: convien che ciò che vi aggiunge la ragione sia secondo la verità; e questo è appunto quello che manca ai sensisti; poichè dalla sensazione saltano alla cognizione arbitrariamente e fantasticamente: pronunciano, non ciò che dà loro il senso, ma ciò che dà loro la fantasia. Vedono essi forse la cognizione nella sensazione? non la possono vedere perchè non c' è. Dunque pronunziano quello che non vedono, quello che non sanno, il loro giudizio è temerario. Qui si passi a dedurre queste due altre regole che vengono quai corollarii: 1 Il filosofo prima di pronunciare deve rendere un conto esatto a se stesso dei propri ragionamenti per assicurarsi ch' egli sa ciò che pronunzia. 2 Per far questo egli deve ridurre il suo pronunciato a rigorosa dimostrazione, esposto in proposizioni esattamente connesse l' una coll' altra, badando che fra una proposizione e l' altra non resti fuori alcun anello intermedio, giacchè, ove manca l' anello, ivi è un falso arbitrario, ivi si passa da una proposizione all' altra senza ragione, e perciò temerariamente. Obiezione. In tal caso il filosofo potrà pronunziare pochissime sentenze. - Risposta. Sì, ma quelle poche saranno verità: la filosofia si purgherà dagli errori un poco alla volta e acquisterà una solida base - Qui si entra a parlare del sistema degli accademici, i quali dicevano che il filosofo si deve contentar di trovare ciò che è probabile, senza pretendere di giungere alla certezza. Si dimostri che questo sistema non è che un' esagerazione di una verità. L' esagerazione consiste nell' escludere qualunque certezza; ma la verità importantissima consiste nel riconoscere che ben sovente il filosofo particolare deve contentarsi del probabile, quando non arriva a formarsi delle sue opinioni una dimostrazione rigorosa. Si faccia vedere quanto gran campo possa prendere il metodo accademico, e come ciascuno deve usarne secondo che più o meno gli riesce di giungere al vero dimostrato. - Ancora, che un tal metodo è utilissimo per la disputa urbana, nella quale il filosofo deve rispettare l' altrui opinione anche dov' egli crede di possedere la certezza, benchè possa sforzarsi di dimostrarla altrui. Nella storia degli Accademici premessa alle opere di Cicerone in molte edizioni « cum notis variorum » si troverebbe molta materia. La seconda regola è più difficile da svolgersi, poichè converrebbe fare una delicata osservazione sull' esitanza di molti filosofi nel persuadersi della forza di certe dimostrazioni, per es., vi hanno alcuni i quali non trovano mai una prova che per loro sia convincente dell' esistenza di Dio. Questa loro esitanza non nasce già perchè la dimostrazione non abbia in se stessa tutta la forza, ma perchè, dipendendo la persuasione dalla volontà, manca loro il coraggio e la forza di aderire ad essa coll' animo pienamente assenziente. - Altro esempio si può trarre dalla « Teodicea », dove si dimostra che, per quelli che ammettono la esistenza di Dio, deve logicamente cessare ogni dubbio sulla giustizia e bontà, colla quale egli dispone delle cose umane: eppure ciò non si verifica in molti, non perchè manchi la dimostrazione logica, ma perchè non vi danno un pronto assenso, e quindi tengono sospeso il giudizio, mentre dovrebbero darlo. Introduzione . - Tratta dall' importanza della questione - Stato della questione - Ella è una questione di fatto: perciò si debbono applicare le regole di metodo che riguardano la verificazione dei fatti - La prima regola si è, che l' osservazione preceda il ragionamento - A qual classe di fatti appartiene la questione che vogliamo trattare? Due specie di fatti vi sono. I fatti esterni che appartengono all' osservazione esterna; e i fatti interni, che appartengono all' osservazione interna. La questione nostra appartiene all' osservazione interna. Conviene adunque esaminare colla osservazione interna, se il senso conosca qualche cosa. Il conoscere ed il sentire sono fatti interni. Convien dunque riflettere sopra di essi; osservarli attentamente e paragonarli per conoscere se si identificano, o se sono fatti diversi, l' uno de' quali non si possa ridurre all' altro. Già il senso comune coll' applicar loro due vocaboli distinti mostra di distinguerli; ma non adoperiamo l' autorità del senso comune, ma l' osservazione nostra propria. L' osservazione ci dimostra, che la sensazione è sempre particolare. - Si illustri con esempi e si dimostri che è un' illusione il credere che nelle sensazioni vi sia qualche cosa di universale, illusione che nasce all' uomo, perchè egli, avendo dei concetti universali all' atto del sentire, gli unisce alle sensazioni, e se ne compone degli oggetti sensibili, ne' quali vi sono sensazioni e concetti universali; e in questo consiste la sagacità del filosofo nel dividere coll' analisi ciò che ha unito nella sintesi, e nel distinguere quale elemento sia mera sensazione, e quale elemento sia concetto o pensiero, dando il suo ad ogni potenza senza attribuirvi nè più nè meno. - Qui si insisterà dimostrando che il soggetto uomo e la sua attività radicale è una, la quale però muove molte potenze contemporaneamente a produrre un unico risultato per via di sintesi, il quale essendo unico, se non si pone molta attenzione, si attribuisce ad una sola delle potenze che l' hanno prodotto, e così si cade in errore. Ora alla potenza del senso non si dee attribuir che solo ciò che è sensazione e nulla più: e se si trova un altro elemento che non sia sensazione, ma altra cosa per esempio concetto, in tal caso si dee attribuire ad un' altra potenza e non a quella del sentire. Veduto che la sensazione è particolare e non universale, si deve inferirne primieramente che per lo meno vi sono alcune cognizioni che non sono sentite; perocchè vi sono indubitatamente alcune cognizioni universali. Qui si dimostra l' esistenza di queste cognizioni universali confutando i nominali, e specialmente Stewart, che pretendono che l' ufficio degli universali si compia per mezzo di nudi vocaboli [...OMISSIS...] . Stabilito che alcune cognizioni almeno sono universali, discende la conseguenza, che almeno queste non sono sensazioni, e che, se il sentire tuttavia è conoscere, dunque il conoscere non è più una cosa sola, non è una facoltà identica, ma sono facoltà genericamente distinte. In tal caso la parola conoscere attribuita al sentire mancherebbe di significato, e così la pensa infatti Aristotile, il quale dice che la cognizione che si ha per via di sensi non si chiama cognizione se non per una certa similitudine che ha colla cognizione vera (si mostri brevemente quanto sia incomoda e antifilosofica una tal maniera di parlare). Ma stabilito che vi hanno alcune cognizioni almeno, che sono universali, convien vedere quali siano queste cognizioni, e quali siano le cognizioni particolari che ci rimangono, le quali sole, se pure esistono, si possono attribuire ai sensi. Ora primieramente la cognizione dell' essenza delle cose appartiene agli universali, perchè le essenze sono sempre universali. A ragion d' esempio, l' essenza dell' uomo non è ella stessa nessun uomo particolare. Dunque tutte le essenze che si conoscono sono cognizioni che certamente non si possono attribuire ai sensi. Dunque se vi ha una cognizione somministrata dai sensi, mediante questa cognizione non si conoscerà l' essenza di nessuna cosa. Ma una cosa di cui non si conosce l' essenza in nessun modo, non si può neppur affermare, poichè per affermare una cosa conviene in qualche modo conoscere che cosa è, e conoscere che cosa è una cosa, è conoscerne l' essenza. Dunque se egli è vero che i sensi ci somministrano qualche cognizione, questa cognizione è però tale che nè ci fa conoscere che sia una data cosa, nè ci dà la possibilità di affermarla. Avete veduto, miei signori, qual conseguenza legittima da ciò proceda? La conseguenza legittima si è, che i sensi non ci fanno conoscere niente; poichè se ci facessero conoscere qualche cosa, noi sapremmo che cosa ella sia. Ora il sapere che cosa sia, è sapere l' essenza della cosa. Ma siamo convenuti, che i sensi non ci possono far conoscere l' essenza della cosa, perchè l' essenza della cosa è universale e i sensi non danno che particolari. Ancora, se i sensi ci facessero conoscere qualche cosa, noi potremmo affermarla o negarla. Ma noi siamo convenuti, che i sensi non ci danno la possibilità di affermare cosa alcuna e però nè pure di negare. Se dunque i sensi non fanno conoscer niente, convien dire che il senso corporeo nulla conosce. Convien dir ancora, che se si spoglia la cognizione dell' elemento universale, si annulla affatto la cognizione stessa, e perciò se ci rimane qualche cosa, quello che rimane non è più cognizione, poichè non si dà cognizione senza cognito, non è cognizione quella che non ci fa conoscer nulla. Voi mi direte che i sensisti deducono dai sensi le idee. - Qui si dimostri che le idee non sono che le essenze ideali delle cose, e che però se non possono far conoscere le essenze, non fanno conoscere nè pur le idee. L' illusione dei sensisti nasce perchè la sensazione o l' immagine serve all' uomo per dirigere il suo pensiero e per fissarlo: quindi da tali filosofi si crede or che la sensazione sia l' oggetto del pensiero, ora, poco coerenti con se stessi, che sia il pensiero stesso. Ma questo anche esigendo un lungo sviluppo, potrebbe dare argomento ad un' altra lezione. Dimostrare che il senso niente conosce, e però non è una facoltà di conoscere, è confutare il sensismo. Infatti il sensismo non consiste mica in escludere la cognizione, ma in attribuirla ad una facoltà a cui non appartiene. Nei sistemi sensistici adunque si ritiene e talora campeggia il ragionamento: ma questo vi rimane in aria, introdotto arbitrariamente senza congrua spiegazione. Talora accade, che il ragionamento prenda in quei sistemi un amplissimo campo, e che si cangi in idealismo ed in razionalismo. Allora il sensismo vi giace ancora, ma rimane nascosto; e gli autori di quei sistemi ricevono quasi per ingiuria l' appellazione di sensisti. Tanto più conviene svelare quel sensismo che in essi si giace nascosto; e per isvelarlo convien definir bene che cosa sia il sensismo. Definizione. - Tutti quei sistemi che attribuiscono al senso qualche cognizione vanno macchiati di sensismo. Dunque non è sufficiente a purgarli dalla taccia di sensismo il dire che non tutte le cognizioni si traggono dai sensi. E per vedere quali questi sieno, convien stabilire il carattere proprio della cognizione, e poi esaminare se le produzioni, che si attribuiscono da vari filosofi ai sensi, abbiano questo carattere: perchè in tal caso essi fanno che ciò che è cognizione sia prodotto dai sensi. Ora il carattere proprio della cognizione è l' oggettività. Dunque tutti quei sistemi filosofici, i quali distinguono l' atto del sentire dall' oggetto del sentire invece di distinguere il principio dell' atto del sentire dal termine del medesimo atto, peccano di sensismo. - Spiegazione di questa proposizione. Questi sono: 1 Tutti quelli che prendono le sensazioni per altrettante idee, o che prendono le idee per un aggregato di sensazioni. - L' idealismo di Berkeley è un sistema di questo genere. Infatti ne' suoi dialoghi fra Filonous e Filhylas, ne' quali pubblicò il suo sistema, egli altro non fa che partire da questa definizione del corpo: « Il corpo è un aggregato di sensazioni ». - Quindi mostra che le sensazioni sono modificazioni dell' anima, e non cose esteriori, e ne induce che dunque non esistono realmente i corpi, ma solo le idee, prendendo manifestamente la parola idea per un aggregato di sensazioni. 2 Quelli che aggiungono altri fonti soggettivi di cognizioni, ma lasciando però intatta la sentenza che anche le sensazioni sieno o anche costituiscano le idee coi loro aggregati - Così fa la filosofia scozzese. Reid, malcontento di veder ridotti i corpi esterni a puri fenomeni, dichiara di non saper rispondere agli argomenti di Berkeley se non supponendo che nell' uomo, oltre i sensi esterni, vi sia una speciale facoltà o tendenza naturale, che lo obbliga ad ammettere i corpi esterni come reali. Questo dimostra che il filosofo scozzese non giunse a conoscere che l' errore di Berkeley consisteva nel sensismo, e quindi ritenne il sensismo sorreggendolo coll' aiuto di un nuovo istinto di una facoltà soggettiva. 3 Quelli che dichiarano che tutto ciò che viene a priori è soggettivo, e tutto ciò che viene dall' esperienza è oggettivo. Tale è Galuppi, il quale nella Lettera filosofica XIV definisce gli empirici quelli che non ammettono altri elementi nella cognizione che gli oggettivi! - Qui è da farsi la strada, che viene naturalissima, a confutare quanto dice Galuppi nella citata lettera contro il nostro sistema. 4 Quelli che riducono il ragionamento alla stessa forma e natura della sensazione, cioè che prendendo la sensazione per modello, il cui carattere è di essere soggettivo, riducono anche le altre potenze dell' anima ad essere meramente soggettive. Tale è Kant. - Leggasi il primo libro della « Teodicea ». 5 Quelli che credono di poter fare una sola cosa dell' oggettivo e del soggettivo, con che dimostrano di non conoscere la differenza che corre fra il carattere proprio della sensazione che è il soggettivo, e il carattere dell' intelligenza che è l' oggettivo: i quali non si possono guardare dal sensismo appunto perchè non conoscono la differenza immensa che passa fra il sentire e l' intendere. Tale è il sistema di Hegel e di Gioberti. Questi filosofi immaginosi pongono una loro idea (giacchè così chiamano Iddio), la qual sia ad un tempo soggetto ed oggetto, e dalla quale procedano l' intelletto, il senso e la natura, a quel modo come il particolare procede dal generale. 1 In cui si riassumono le regole di metodo che più importano aver presenti nello studio della psicologia, e sono: I La scienza comincia da una definizione volgare (non analizzata), ma giusta, di ciò di cui si vuol trattare; II Le scienze di percezione usano per primo loro istrumento o modo di conoscere l' osservazione; III Le scienze di percezione interna, una delle quali è la psicologia, usano per primo loro istrumento o modo di conoscere l' osservazione interna. 2 Spiegazione e difesa del primo principio. Spiegazione - La definizione volgare (non analizzata) può semplicemente indicare l' oggetto, cioè determinarlo in modo che non si confonda con altri (per via di relazioni, definizioni negative), o anche esprimerne l' essenza positiva . Quando l' oggetto è tale che si può conoscere per via di percezione, allora la definizione volgare da cui deve incominciare la scienza, benchè non analizzata, deve esprimere l' essenza positiva . Difesa - Obbiezione: Non si possono conoscere le essenze delle cose - Risposta tratta dallo stabilire che cosa è l' essenza . - Delle essenze conoscibili e non conoscibili. Le prime solo sono nominabili, ed atte ad essere argomento dell' umano sapere; altre non sono. Varie specie d' essenze conoscibili, Vedi « Nuovo Saggio » (1). 3 Spiegazione e difesa del secondo principio. 4 Spiegazione e difesa del terzo principio. 5 Quarto principio. - Per trovare il vero è necessario osservare ciò che il lavoro della mente aggiunge o toglie all' oggetto. 6 Definizione volgare dell' anima umana, da cui conviene incominciare la Psicologia. « L' anima è il principio del sentire, dell' intendere e dell' operare di quell' essere che pronuncia se stesso col monosillabo Io ». 7 Applicazione del quarto principio alla definizione non analizzata dell' anima. - Si scevera dall' Io ciò che appartiene alla natura dell' anima e ciò che vi aggiunsero le operazioni della mente. . « La psicologia è una scienza di percezione. Il principio della psicologia è la percezione di noi stessi ». 9 L' anima in ciascun uomo è unica. - S' argomenta dalla coscienza dell' Io. 10 Difficoltà. - Questione dell' identità. - L' anima è unica e identica, benchè abbia più facoltà. 11 Continuazione della stessa questione. - L' anima è unica e identica, benchè abbia più atti. - Ogni facoltà è unica, benchè abbia più atti. - Qual sia il principio che moltiplica le facoltà, quale il principio che moltiplica gli atti di una stessa facoltà. 12 Se sia vero, come sostiene Condillac, che le facoltà dell' anima non siano innate, ma acquisite. - Distinzione fra le facoltà e i principii d' operare. 13 Unità dell' anima in generale. - Il principio sensitivo d' operare, se è diviso, forma un' anima a sè. - Unità e identità dell' anima umana, dove i due principii sono uniti (dalla coscienza). 14 Immaterialità dell' anima umana. 15 Spiritualità dell' anima umana (per escludere l' idea ch' ella sia un punto matematico). - Dell' anima noi abbiamo un concetto positivo e non meramente negativo. 16 Immortalità dell' anima umana. 17 Durazione perpetua dell' anima provata da due principii: I L' uno cosmologico « niuna cosa creata può annichilarne un' altra »; II L' altro teologico « Iddio non annulla ciò che una volta ha creato ». 1. Dell' anima sensitiva de' bruti. - S' incomincia l' analisi di quest' anima (principio senziente - termine sentito). 19 Del nesso tra il senziente e il sentito - si combatte il principio ontologico7materialista, che « una sostanza non può inesistere nell' altra ». - Varietà di maniere onde una cosa può inesistere, o esser legata sostanzialmente con un' altra. 20 L' animato non si può produrre - è dato in natura. 21 Continuazione. - Legge ontologica del sintesismo: « una cosa ha la sua esistenza condizionata ad un' altra ». 22 Il principio senziente, che per esistere è condizionato al sentito, da poi che esiste ha un' attività sua propria. - Istinto animale. - Istinto vitale. - Istinto sensuale. 23 Si continua l' analisi dell' anima sensitiva dei bruti (1 sentimento d' estensione; 2 sentimento d' eccitazione; 3 perpetuità dell' eccitazione, ossia organismo). 24 Semplicità dell' anima dei bruti. 25 Principio sensifero. - Sua identità col sentito. - Esistenza del corpo esterno e naturale. - Distinzione di corpo e di materia. 26 Base di una classificazione specifica degli animali - la natura dell' eccitamento fondamentale stabile dipendente dall' organizzazione. 27 Sviluppo dell' animale. - Modificazione accidentale del sentimento d' eccitazione. 2. Malattie dell' animale. - Contrasti che trova il principio istintivo a dar luogo all' eccitamento perpetuo normale. 29 Moltiplicazione dell' animale. - L' animale non può dividersi, ma moltiplicarsi. 30 Generazione spontanea. - Ipotesi della animazione de' primi elementi. 31 Dell' anima umana. - Distinzione dell' anima dallo spirito puro. - L' anima per esser tale dee animare, ossia dar vita a ciò che non l' ha. 32 Delle diverse definizioni della vita. - Vita comunicata. - Vita propria (condizionata all' animato). - Vita del corpo (comunicata). - Vita dell' anima sensitiva (propria). - Vita del principio sensitivo (altra propria, altra comunicata). - Vita dell' anima intellettiva (propria). - Vita soprannaturale dell' anima intellettiva (comunicata). 33 Nesso del principio sensitivo coll' anima intellettiva. - Percezione fondamentale. 34 Spiegazione del modo come l' anima intellettiva influisce sopra il corpo. - Virtù del percipiente sul percepito. 35 L' anima intellettiva informata dall' essere in universale. 36 L' essere in universale si riduce in Dio, come in una sua appartenenza. 37 L' essere in universale è la verità. - Ogni verità si vede dall' uomo nella verità prima ed essenziale. 3. L' uomo dalla verità è scorto al bene assoluto. - Niun altro bene può saziare l' uomo. 39 L' uomo è fatto pel godimento di Dio, a cui è condizione il riconoscerlo per quello che è (Religione). 40 Il pieno possesso di Dio non si ha che nell' ordine soprannaturale, nel quale Iddio si comunica realmente e sostanzialmente all' uomo. Cominciare dallo stabilire per principio che le menti finite, quantunque abbiano per loro oggetto la verità, tuttavia per la limitazione degli atti con cui la conoscono v' intramischiano del soggettivo, e così in qualche modo la spezzano e la limitano: il che però non le conduce necessariamente in errore; perchè hanno sempre la facoltà altresì di depurare le proprie cognizioni da ciò che coll' atto d' apprenderle v' hanno intramischiato di straniero ed eterogeneo. Questo si scorge in tutti gli atti del conoscere umano, quando a parte a parte si considerano fuor che in quell' atto ultimo col quale l' intelletto emenda e compie la deficienza degli atti precedenti, il quale è quello che cerca e perviene all' assoluto. - Hanno bisogno tutti gli atti precedenti di esser in qualche modo emendati, fino che il pensiero è giunto all' assoluta cognizione. Per fare intendere come ciò sia, convien discendere alle speciali funzioni dell' intendimento; e per non andar troppo a lungo limitiamoci all' analisi ed alla sintesi. Analisi . - Dimostrare come l' analisi dello spirito divide le cose che sono in se stesse indivisibili. 1 Divisione dei relativi. - Pensa lo spirito la causa senza badare all' effetto - il contingente senza il necessario - il sentito senza il senziente - l' inteso senza l' intelligente, ecc., e viceversa. Ora egli è chiaro che le une di queste cose nel fatto non istanno senza l' altre; e però conviene, se non si vuol prendere errore, che sopravenga la facoltà del conoscimento assoluto a riunire tali cose considerate in separato, e così emendare la cognizione smembrata, e in quanto smembrata altresì falsa, se non fosse poscia corretta. - Dal non avere i filosofi sempre emendata e completata la cognizione che divide i relativi nacquero molti sistemi falsi come quelli de' sensisti e soggettivisti che credettero di poter cavare l' idea di necessità da quella di contingenza, quando questa suppone quella, e viceversa, ecc.. Gli esempi qui abbondano, con un po' di meditazione. 2 Divisione degli astratti. - Questi sono pensati soli dalla mente e considerati come altrettanti enti. Ma la facoltà emendatrice dimostra che non sono che enti di ragione . - Molti degli Scolastici errarono, perchè convertirono quelli che sono puri enti di ragione in veri enti compiuti, e si perdettero così nelle sottigliezze dialettiche come in un inestricabile labirinto. Sintesi . - La mente colla sintesi unisce tutto ciò che vuole, anche ciò che non è unito in se stesso. Quindi tutti que' sistemi, il cui errore consiste nella confusione di cose affini; e principalmente poi l' errore degli errori, il panteismo, che tutto avvolge e confonde in una sola sostanza. - Ogni qual volta adunque la mente unì per suo comodo, per comodo de' suoi ragionamenti, in una sola concezione o in una sola formola più cose che non sono unite in natura, la facoltà emendatrice dee correggere e disfare questa unione, acciocchè non rimanga l' errore. Questo accade principalmente ogni qual volta si applica lo stesso vocabolo a cose intieramente diverse, unendole in una sola classe, p. es., quando s' applica a Dio ed a Salomone l' appellativo di sapiente; supponendo così che Iddio e questo Re appartenessero alla stessa classe di sapienti. Allora sarebbe irreparabile l' errore, se la facoltà emendatrice con una riflessione più elevata non soccorresse dimostrando che la parola sapiente applicata a Dio ha un altro senso d' allorquando s' applica all' uomo; disfacendo così quella comunità di sapienza che s' era supposta, e secondo la quale si favellava. NB . Allorquando considero l' anima colla coscienza di se stessa ed involgo la coscienza nella stessa essenza dell' anima, allora commetto una di queste sintesi erronee che si vogliono disfare. - Questo per la Lezione VII. In questa lezione si dovrebbe fare una critica delle diverse definizioni dell' anima dimostrando che quelle che si censurano definiscono l' anima da cose estranee ad essa, e confirmando la propria definizione col senso comune dandone una spiegazione conveniente. Prima classe. - Sistemi che confusero l' anima colla materia. Seconda classe. - Sistemi che ridussero l' anima umana ad un soggetto senziente. Terza classe. - Sistemi che riposero la natura dell' anima nelle idee, ossia confusero il soggetto coll' oggetto. Quarta classe. - Sistemi che confusero l' anima umana con Dio. Quinta classe. - Sistemi che la riposero bensì nel soggetto, ma errarono tuttavia nel determinarne la natura. La questione dell' identità, benchè proposta nella lezione precedente, giova che si riproponga in questa; perchè è questione difficilissima ad intenderne bene lo stato [...OMISSIS...] . La questione dell' identità, che si riferisce alla moltiplicità degli atti, si è « come l' anima in quanto fa un dato atto non debba esser diversa dall' anima in quanto fa un altro atto, ma debba essere identica ». Egli pare che l' esser principio d' un atto sia altra cosa che l' esser principio d' un altro; che si debbano moltiplicare i principii e però le anime. Questa difficoltà si dee far sentire collo svolgerla lungamente. La risposta poi sta nel ben separare il principio degli atti dagli atti, il quale come tale non è determinato a nessun atto particolare nè speciale, e mostrare come questi si cangino, mentre quello conserva la sua identità. I principii prossimi degli atti sono le facoltà, e però la questione cade propriamente sull' identità delle singole facoltà. - Il dubbio che nasce, e che si dee levare, si è « se forse ciò che si chiama facoltà sia una collezione di principii e non un unico principio ». Il dubbio nasce perchè sembra che si trovino le facoltà col considerare ciò che hanno di comune più atti: ond' alla causa di ciò che hanno di comune si suppone che presieda una sola facoltà. Ma ciò che diciamo comune è un' astrazione; onde pare che anche le facoltà sieno astrazioni. - Convien provare che la cosa non è così; ma che la facoltà è causa di tutto l' atto, e non dell' elemento comune che in esso si trovi. Le facoltà sono certi principii d' azione che contengono virtualmente una specie astratta di atti , e che gli producono quando ne hanno lo stimolo od eccitamento opportuno. - Si prova che non è assurdo il concetto di tali virtualità, e che è ammesso dal senso comune e dall' osservazione del fatto. La virtualità specifica e semplice è sempre uguale, faccia ella più atti o meno: e qui si dee rinvenire l' identità delle facoltà rispetto alla moltiplicità de' loro atti, che sono aggiunte che vengono fatte alle facoltà, non mutazioni di esse. Conviene avvertire: 1 Che la moltiplicità numerica degli atti ha per ragione la moltiplicità degli stimoli o eccitamenti individuali applicati alle facoltà o potenze che vengono tratte ai loro atti secondi. 2 Che la varietà accidentale degli atti della stessa facoltà ha per ragione le accidentali diversità ne' detti stimoli, o anche le disposizioni abituali delle facoltà stesse. 3 Che la varietà poi delle facoltà ha per sua cagione la diversità specifica delle virtualità che costituiscono le facoltà, ossia anche la diversità specifica degli atti secondi determinati dai loro termini. (E` necessario aver qui a mano la dottrina delle specie e de' generi, quale è data nel « Nuovo Saggio »). Per questa lezione parmi che si possano raccogliere de' pensieri dall' ultimo libro dell' « Antropologia » e specialmente a faccia 494, nella nota, e faccia 519 - 522 dove si distinguono i principii d' operare delle persone. Esporre il sistema condillacchiano sulla genesi delle potenze, e confutarlo con gli indicati cenni, darebbe sufficiente materia alla lezione. Quando non bastasse questa materia, si potrebbe soggiungere alla confutazione di Condillac qualche altra difficoltà che si presenta nell' ammettere le potenze innate. Eccone la principale: « Nello stato primitivo dell' anima, cioè anteriormente ai suoi atti secondi, niuna facoltà s' è ancora manifestata. Le facoltà sono modi diversi dell' operare del medesimo soggetto. Ora fino a tanto che quest' operare non è passato al suo atto, l' attività rimane immersa nell' essenza dell' anima. Essendo questa essenza semplice, non si vede in che modo i modi del suo operare possano essere in essa distinti, e non piuttosto confusi in un' attività sola, principio unico di tutti gli atti futuri ». Si risponde esser vero che l' anima è semplice. Ma, consistendo questa semplicità nel ridursi tutta la sua attività ad un solo soggetto, non è tolta la semplicità di questo dal risultare composto di più atti primi semplici l' uno subordinato all' altro. Ora questo è appunto il caso dell' anima umana. Ella ha due atti primitivi: l' uno superiore, ed è l' atto che la rende intellettiva, l' intuizione dell' essere; l' altro inferiore, ed è l' atto del sentimento fondamentale - corporeo. Ora questi due sono atti distinti per la loro natura, e però sono innati. La distinzione poi delle altre potenze nasce dall' applicarsi questi due primi principii a diversi termini, e in diverso modo; e però possono dirsi prodotte e acquisite le potenze speciali. « Ricordati sovente », dice Giovanni Gersen, « di quel proverbio delle sacre carte: che la vista non si sazia per vedere, nè per sentire s' empie l' udito » (2). In fatti, non già le cose che noi leggiamo ci giovano per se medesime, ma la disposizione dell' animo, che dentro di noi in certo modo le cuoce e muta in nutrimento, è profittevole. Perciò una cotale delicatezza nello scegliere i libri, non accontentarsi di veruno, o volerne di troppi, e sperare di trovare ognora lumi migliori nei recenti, e in quelli che per avventura non si hanno, ma si sentono nominare, appalesa lievità di pensare, o mal uso formato. E' vuol dire, che non si guastano nè intendono bene que' che si leggono, che non si vede l' estensione e l' applicazione delle massime che quelli insegnano. Bisogna persuadersi di questo: a trovare eccellenti precetti, che pure abbraccino i bisogni tutti della vita, non è gran fatto difficile all' età nostra. E non è da gran tempo il Vangelo di GESU` Cristo in mano di tutti? Se non ce ne accontentiamo, manchiamo di riflessione e di vigore nell' intenderlo, amarlo, ed usarlo. Soli i due precetti della carità non contengono tutta la legge? San Giovanni ripeteva sempre quell' amarsi a vicenda (1): ei vedeva la forza e l' ampiezza di tale sentenza. Quelli all' opposto che l' ascoltavano, non penetravano nel midollo; perciò alla ripetizione si annoiarono, e il richiesero di cose nuove. E altrettanto avviene d' ordinario. Si addimandano nuove cose, perchè non si masticano, nè assaporano le vecchie; e perciò di esse non sentesi altro che la nausea della vecchiezza. I Cristiani primitivi non avevano tanti libri come noi, e ne sapevano tuttavia di virtù più che noi. Per nulla dire de' filosofi antichi, molti fondatori di ordini e società religiose non lasciarono regola veruna scritta a' discepoli loro, e si osservò, che la tradizione vocale serba più freschezza e spirito alle dottrine. Nell' Antico Testamento Iddio diede agli Ebrei scritta la legge sulle tavole di pietra; ma in Geremia promise, che il Messia la scriverà nel cuore (2). Quindi GESU` Cristo non lasciò cosa alcuna in iscritto, e fu sollecito in quel cambio di mandare a' suoi Apostoli lo Spirito divino dal cielo. Sentite, a questo proposito de' libri, i sentimenti del gran patriarca San Giovanni Grisostomo: [...OMISSIS...] . Così la sente ancora Sant' Agostino nel libro primo della « Dottrina cristiana », dove mostra, che al perfetto vivente in grazia nè pure le sacre Scritture fanno bisogno, essendo la carità, che non cessa nè pure in cielo, sola necessaria, la quale anche le cose non necessarie fa utili. Ed ella è dunque ben pazza cosa l' insuperbirsi, come fanno i savi del mondo, per molti libri, i quali sono un rimedio alla nostra ignoranza; come è cosa pazza pavoneggiarsi di quelle vesti, che rammentano all' uomo la propria nudità, ed il proprio peccato. Oltrechè, come fanno i buoni, è cosa ben giusta, che almeno di questo secondo rimedio, che il Signore ci dà ne' buoni libri, profittevolmente usiamo, leggendoli con ispirito, con gusto, insomma con quella cristiana carità, che assennatamente riflette, e in tutto si edifica. Sono adunque nello stato nostro utili i libri, se di essi sappiamo nutrire lo spirito. [...OMISSIS...] A questo fine fuggite ne' libri ogni lusso: partiteli tutti in due classi. Gli uni vi formino una piccola libreria, nella quale abbiate il pascolo dell' anima vostra. Degli altri, se qualcheduno fra i migliori vorrete leggere, non sarà male, quando non perdiate mai l' amore ed il gusto a que' primi. Quali poi saranno que' primi? Le divine Scritture, il « Catechismo romano », alcune opere de' Padri, tutti i libri che si adoprano nella Chiesa, e le più sicure memorie de' Santi, specialmente de' primi tempi, come sarebbero gli « Atti sinceri de' Martiri », e i « Costumi dei primitivi Cristiani ». E se volete avere un bel corso di « Vite de' Santi », non saprei suggerirvi opera scritta con maggior saggezza di quella del signor Albano Butler, che dal francese del signor Godescard si rende pur ora italiana (3). Appartiene però ancora a ciascun cristiano in particolare la storia ecclesiastica della sua diocesi, perchè sappia chi ci abbia recato il lume dell' evangelio, per mezzo di quai Santi si sia diffuso, e successivamente mantenuto o aumentato (1). A direzione poi particolare dello spirito le opere di S. Francesco di Sales, il « Combattimento Spirituale » del P. Scupoli, e il libro « Dell' Imitazione » sono i primi. Se pochi altri ne vorrete, vi sovvenga nella elezione di quel ricordo scherzevole che dava un vero saggio (2), cioè che gli autori migliori incominciano da S , volendo dire che sono i Santi. In quanto alla sacra Scrittura, i nostri antichi Cristiani ne erano insaziabili, nè mai i Padri sono tanto eloquenti come allora, quando inculcano la lettura di questa lettera preziosa, dall' Onnipotente scritta agli uomini. Mirabile è l' ardore che avevano d' intenderla a propria e altrui edificazione anche le donne stesse, come veggiamo in Paola, in Eustochio, in Fabiola, delle quali Dame romane parla S. Girolamo. Accuserò io i moderni di non leggere le Scritture? Gli accuserò più tosto di leggerle poco santamente. Le leggono con freddezza, e come qualunque altro libro umano; pare quasi che si leggano per giudicarle, e non per esserne giudicati. Voi leggetele senza posa, e abbiatevi a regola nella lettura quanto v' insegna l' aureo Gersen nel capitolo quinto del libro primo della « Imitazione di Cristo », che altri non può dirne meglio. E` però a distinguere nella santa Scrittura da libro a libro; poichè nè a tutti, nè a tutte le età conviene lo stesso cibo. Così i Cristiani antichi, e gli Ebrei stessi proibivano la lettura di certe parti della « Bibbia » a' giovani. Generalmente attenetevi al Vangelo di GESU` Cristo, e al « Nuovo Testamento » tutto. Questo è il libro soprammodo fatto per noi che viviamo nel tempo della grazia; questo la chiave e il lume di tutte le antiche carte; e questo venìa raccomandato a preferenza degli altri dagli antichi Padri. [...OMISSIS...] Quanto agli antichi libri poi, i « Salmi » e i « Proverbi » sono di somme istruzioni fecondissimi; e lo stesso santo dottore Basilio disse una volta agli abitanti di Cesarea in una sua omelia: [...OMISSIS...] . Onde anche le varie parti della Scrittura a varie maniere di persone sono specialmente accomodate; sebbene diverse parti di lei idonee sieno a ciascuno, sì come i « Salmi » e il « Testamento Nuovo ». Per altro in questo studio vi sarà vantaggiosissimo qualche esperto conduttore. Il Direttore di tutti gli uomini è GESU` Cristo, e tanto è più savio ciascuno, quanto più ode questo Direttore. [...OMISSIS...] Di fatto, certa disposizione sincera del cuore, un vero amore della verità santa, e una vera indifferenza a tutte le altre cose, ci rendono facile udire la voce di questo Direttore, che in mille modi ci parla. Tante volte non si può avere un Sacerdote che ci diriga, fornito delle tre gran doti richieste da S. Francesco di Sales ad un valevole Direttore; cioè della Dottrina, della Prudenza, e della Carità (4); ma GESU` Cristo, che di tutto questo ha la pienezza, non ci manca mai. La principal cosa adunque è di rendere l' animo nostro capace della istruzione. Senza di questo nè pure un uomo fornito di tutte le doti ci potrebbe dirigere. Poichè tutta la virtù sta nell' ubbidire. E chi non ubbidisce al maggiore, come ubbidirà al minore? Da questo però, che non solo ogni perfezione, ma ben anche ogni bontà di vita consiste nell' ubbidire a quanto i superiori c' impongono, dovete conoscere il pregio infinito dell' ubbidienza, e di più, che nella sincera disposizione di ubbidire consiste ogni vantaggio, che un Direttore ci potrebbe apportare. Quando disse il nostro Signore: « Se alcuno vuol venire dopo di me, anneghi se stesso, e prenda la croce sua e mi segua » (1), allora parlò di questa disposizione di animo, per cui siamo sommessi ai nostri superiori; sieno tali o per la natura loro, o per l' offizio, o per la elezione nostra. A Dio e ai pastori da lui stabiliti nella sua Chiesa noi dobbiamo assoggettare la nostra volontà. E perchè non v' ha cosa più eccellente della volontà umana, per questo non v' ha sacrifizio più a Dio gradito nè più a lui dovuto di quello, con cui la volontà nostra a lui si sottomette. Questa è la negazione di noi medesimi come precetto. Se poi eleggiamo qualche persona opportuna, a cui sottometterci in tutte le nostre operazioni, e da cui esser diretti in cambio di dirigerci da noi medesimi; questa è un' ubbidienza di consiglio. Alla quale se ci obblighiamo per voto, entriamo in quella che si dice perfezione religiosa. Della ubbidienza di consiglio tutta è formata la vita di GESU` Cristo. Poichè egli umiliò se stesso fatto ubbidiente sino alla morte, e morte di croce (2). E tant' è vero che ciò consiste nella negazione e rinunzia della propria volontà, che Cristo dicea nell' orto: «. In due cose adunque sta il pregio dell' avere una persona che ci diriga, cioè nel soggettamento elettoci per nostro volere, e nel facilitamento che tiriamo da' suoi consigli a vivere santamente. Per altro S. Francesco di Sales v' insegna ad esercitare l' ubbidienza verso di tutti, e a sentire anche da per tutto la voce del Signore (1). E voi felice se esercitar sapete l' una e l' altra di queste virtù, e felice in particolar modo se sapete rinvenir quel consigliere esperto, quell' amico fedele, quella guida sicura, che fra le migliaia ci avvisano i Santi di ricercare, e che lo Spirito divino chiama « medicina della vita e della immortalità, e tesoro più ricco d' ogni ammasso d' oro e d' argento » (2). L' educazione altrui è un affare gravissimo, se riguarda la religione. Poichè con essa sono affidate alla nostra attenzione le anime, il prezzo delle quali è in qualche modo infinito. Perciò nella cura delle povere ragazze che prendete, viene ad essere a voi dato un tesoro in deposito, che vi dee fare e temere e vigilare a custodirlo fedelmente. Sono oltrecciò queste anime giovani e innocenti, di cui il nostro Signore parlò con sì grande affetto, [...OMISSIS...] . Ecco quanto incarico abbiate! Se per negligenza vostra quest' anime soffrono danno, voi siete entrata mallevadrice. E sapete che cosa dice il divino Spirito a chi ha tolto sopra di sè malleveria di anime? [...OMISSIS...] . Le quali cose voglionsi credere dette non già a sconfortarci di prendere la cura d' altrui; sì bene a confortarci di prenderla con ardore. Perciocchè noi ai soggetti dobbiamo la nostra diligenza, non già la loro guarigione (1). Così Dio diceva ad Ezechiello, a cui era stato commesso l' offizio di ammonire gl' Israeliti: [...OMISSIS...] . Così parimenti il Savio nei « Proverbi » insegna a liberar se medesimo appunto col mezzo di non trascurare attenzione da parte nostra nè fatica, perchè l' amico si debba risentir dal suo sonno. Che anzi Dio, il quale diè precetto a ciascuno del suo fratello, a pigliarci tali cure di carità ci chiama in molti luoghi nelle Scritture. Così prima d' impaurirci dallo scandalezzare i fanciulli colle parole surriferite, ci incoraggia a edificarli, [...OMISSIS...] . Vedete se a tali parole dobbiamo avere fiducia, che ci darà anche forze valevoli a sostenere il carico. Dio medesimo è che prendiamo in cura. E quando mandò Ezechiello agli Israeliti, missione dura e difficile, gli disse ancora così a confortarlo: [...OMISSIS...] . All' opposito, a voi è destinata d' istruire una famigliuola dolce e pieghevole. Fate però cuore. Avrete dal Signore, che v' esorta a prendere il peso, la grazia necessaria a portarlo, e secondo la misura della grazia quella della gloria. Perciocchè in Daniele leggiamo: [...OMISSIS...] . Al nostro tempo (diciamolo senza riguardo) si sogliono prendere comunemente le cose della religione con non so quale indifferenza e lievità di spirito. Perchè Iddio rendette frequenti i misteri suoi, le sue dottrine, gli uffizi della perfezione, per questo con ingratitudine si dimentica il pregio loro, se le riguarda quai volgari cose, e si smarrisce coll' assuefazione la forza dell' impressione, la vivezza del concepire. All' incontro nelle prime età della Chiesa, i Cristiani pieni dello spirito di verità vedean le cose nella loro giusta misura, tutto nella Chiesa trovavano santo, tutto di grandezza immensa, e richiedente una fedeltà e rigore sommo. Se quegli avessero eletto donna, a cui affidare comechessia l' educazione di una parte della greggia di Cristo, dopo delle preghiere a Dio, sarebbero venuti alla scelta cauti e circospetti; avrebbero chiesto de' buoni testimoni di sua vita, dei saggi di specchiata condotta, di conosciuta virtù, di frugalità, di lavoro delle mani, di carità, ritiratezza, orazione, di tutto in somma quello che forma la cristiana vita. Tante diligenze non si usano adesso: ma tanto maggiormente però vi bisogna riflettere e rispondere alla vocazione. Come pensava e diceva S. Paolo della Chiesa di Corinto, voi avete a dire della piccola vostra congregazione: « Io sono gelosa di voi per zelo di Dio. Poichè vi ho sposato a un uomo solo, a Cristo, e con intenzione di presentarvi a lui come pura vergine » (1). Che dunque fare? Apparecchiarvene. Per non rimuovermi dai luoghi sopraccennati della Scrittura, sentite di Ezechiello quando Dio il mandò a riprendere gl' Israeliti: [...OMISSIS...] . Questo è il volume della legge. Iddio l' ha dato anche a voi, e vi comanda mangiarlo. Se ubbidirete, ve ne farà sentir la dolcezza. Ma se nol mangiate, non potrete avere nè adempire missione alcuna non solo determinata e peculiare, ma nè pure ordinaria e generale, di cui qui si parla. D' ora innanzi meditate adunque più addentro nella santa legge. In una parola fate quello che disse GESU` Cristo di se medesimo: « Io santifico me stesso per essi » (1). GESU` Cristo era santissimo, e non bastò. Si rese sacerdote e vittima, il che vale in quel senso santificarsi , cioè « entrare nel Sancta per mezzo del proprio sangue, ritrovata una redenzione eterna » (2); redenzione non già sua, ma nostra. Così compiè tutto quello che poteva fare per le sue pecore. Compitelo dunque anche voi, essendo egli il modello. Voi non siete santa come lui. Avete dunque due maniere di santificarvi per le fanciulle affidatevi. L' una di crescere nella virtù e nella fervidezza dello spirito, l' altra di sofferire tutti i dispiaceri e travagli e anche persecuzioni, che aveste la grazia d' incontrare, offerendovi così in sacrificio tutta insieme con Cristo, « affinchè esse pure sieno santificate nella verità » (3). Sentenza è di S. Agostino, che la obbligazione di esercitare la carità verso altrui è merito d' ottenerla anche verso se stessi (4). Perciò quanto alla prima santificazione voi siete aiutata dall' offizio stesso che avete preso. Fatelo dunque con tutta cura. « Correte in questa e in quella parte, affrettatevi, svegliate quelle vostre amiche ». Senza dubbio avrete da incontrare difficoltà e fatiche; ma « vi siete legata colle parole della vostra bocca ». Se voi non le affronterete con forza « non iscapperete come daino dal laccio, e come uccello dalle mani dell' uccellatore ». Avrete ancora dei gravi dispiaceri, veggendo talvolta il riuscimento cattivo delle vostre fatiche, e l' asprezza del vincere indoli ritrose. Vi sovvenga perciò, che d' altra parte vi sarà aggiunta della fortezza. [...OMISSIS...] Sarannovi fatte ancora delle dicerie, date delle molestie, e supponiamo ancora che veniate perseguitata o per malizia, o per errore. Quanto alla prima cagione, qual conforto non ci dà Cristo quando ci disse: « Il mondo gli ha odiati perchè non sono del mondo, sì come io non sono del mondo? » (6). E a malgrado dell' odio del mondo così aveva detto innanzi GESU` Cristo parlando al padre: « Adesso poi vengo a te: e tali cose dico essendo nel mondo, affinchè abbiano in se stessi compito il mio gaudio » (7), cioè « il gaudio del nostro Signore » (.). Quanto a' buoni, anche Ezechiello preso dallo spirito fu legato dai domestici, credutolo forsennato: ma fu Iddio che dispose così, come gli aveva detto (1); e fu per un fine grande, come sono tutti quelli d' Iddio, cioè di profetare nella figura di quelle catene la schiavitù di Gerusalemme. Tenete fermo, che « Iddio dispone soavemente tutte le cose » (2). Quindi da tutte, qualunque sieno, anzichè venirci dolore, ce ne verrà grande allegrezza, e « il gaudio nostro sarà compito ». E si avverranno queste cose prosperamente in voi, se le domanderete al Signore. Il buon vostro padre non vi può niegar nulla, ma voi siete nel dolce obbligo di domandargliele. [...OMISSIS...] Oltre la continua preghiera, e a tempi stabiliti, raccoglietevi un fascicolo di brevi orazioni da dire spesso per la giornata, adattate all' uopo, e che possano cadere in acconcio alle varie circostanze in cui vi trovate. Eccovene a ragione di esempio alcune tratte dalla Scrittura, e dall' uso della Chiesa: 1 Il segno della croce, che viene dagli Apostoli, e in tutte le cose l' adoperavano i primi Cristiani. Poi queste altre: 2 « Crea, o mio Dio, in me un cuor mondo » (4). 3 « Non rigettarmi dalla tua faccia » (5). 4 « Rendimi la letizia del tuo Salvatore » (6), che è appunto quel gaudio sovraccennato. 5 « Signore, tu aprirai le mie labbra, e la mia bocca annunzierà le tue lodi » (7). 6 « Come tempera il giovinetto le sue inclinazioni? coll' osservare le tue parole » (.). 7 « Benedetto sei, o Signore: insegnami le tue giustificazioni » (9), cioè le sublimi ragioni, con cui si può confondere ogni temeraria censura, che gli empi fanno alla divina provvidenza. . « Togli il velo a' miei occhi, e considererò le meraviglie della tua legge » (1). 9 « L' anima mia al suolo è distesa: dammi vita, secondo la tua parola » (2). 10 « Assonnò vinta dal tedio l' anima mia: colle tue parole dammi vigore » (3). 11 « Dammi intelletto, e studierò e osserverò con tutto il cuor la tua legge » (4). 12 « Togli gli occhi miei da ogni vanità della terra » (5). 13 « A chi mi dileggia dirò, nelle tue parole aver io posta la mia speranza » (6). 14 « Non toglier mai di mia bocca la parola di verità » (7). 15 « Ti ringrazio, o Signore, perchè sono partecipe di tutti quelli che ti temono », per la comunione dei Santi (.). 16 « Insegnami la bontà, la disciplina, e la scienza » (9). 17 « Nel tuo verbo ho riposta la mia speranza » (10). 1. « Se meditato non avessi alla tua legge, nell' afflizione sarei perita » (11). 19 « Configgi col tuo timore le mie carni » (12). 20 « Il Signore si è il mio Pastore: ei mi ha collocata in paschi ubertosi » (13), cioè nella sua Chiesa. 21 « A te il povero si abbandona: tu sarai l' aiuto dell' orfano » (14). E tante altre simiglianti, adoperate da' Santi, come son quelle di S. Filippo Neri; raccomandandovi anche in ciò di non variare sì spesso, ma di dire quella che vi suggerisce lo spirito ne' vari momenti, con tutto il fervore e la simplicità del cuore. La educatrice debbe essere specchio alle sue giovani, come Cristo è a lei: altrimenti edificherebbe con una mano, e distruggerebbe coll' altra. Ascolti ancora l' Apostolo: [...OMISSIS...] . « In tutte l' opere vostre siate precellenti », dice l' « Ecclesiastico » a quelli che presedono a qualche adunanza. Andate innanzi in tutto. Non trasgredite adunque mai nè per freddezza di stagione, nè per noia che v' assalga, nè per piacere, nè per dolore parte veruna della regola prefissavi a principio. Non errate l' ore prescritte. Nè le giovani che educate, nè le femmine cooperatrici s' accorgano mai, s' egli è possibile, che siate stanca o affannata; non fate lamento; porgetevi sempre egualmente ilare con loro, rigorosa con voi, saggia con tutti; che è quella bontà , quella disciplina , quella scienza , che dimandate a Dio nella giaculatoria decimasesta di sopra proposta. Il Savio aduna tutte le lodi di donna perfetta nell' epiteto forte (1). Però se avete affanni e noie (2), cercate il momento di ritirarvi sola, e col Signore sfogatevi pure senza timore, lamentatevi, e ditegli, che siete quella miserabile che sentite d' essere. Egli sì vi risponderà nel fondo del cuore parole divine che vi ritorneranno la serenità, l' alacrità, e più forze che prima: [...OMISSIS...] . Non potendovi ritirare a lungo, vi aiuteranno in ciò le giaculatorie terza, quarta, nona, decima, decimaterza, decimasettima, decimaottava, decimanona, che potete dire col cuore in brevissimo tempo. Costante in questo pensiero, d' essere con voi stessa severa in ogni cosa che appartenga al vostro incarico, porrete peculiare attenzione in alcuni doveri particolari. Secondo mio parere gioverebbe, che a voi stessa riserbaste tutto quello che appartiene all' istruzione di spirito: sopra l' altre cose vigilando, in modo però, che non avvenga nè si faccia cosa senza che voi l' abbiate preveduta e approvata. Gli offizi dell' istruzione spirituale possono ridursi a questi: leggere, insegnare, confutare, consigliare, esortare, riprendere, e castigare . Dal modo di leggere pende buona parte del profitto che si tira dalle letture. Non sarà dunque inutile di farne un piccolo cenno. Nel leggere si vuole accompagnare la lezione in bel modo e spontaneo colla voce e col gesto, sicchè il senso venga, per quanto è possibile, ad apparire e sporgere con quella forza, che egli ha, nè più, nè meno: e tenga la sua propria indole. Se adunque voi leggete loro alcuna cosa da muovere al riso, non le inducete a serietà col portamento: se qualche cosa seria, non apparisca nel modo di esprimerla cosa alcuna da riso. Checchè sia quello si legge, farassi sentire spiccato, battendo le lettere raddoppiate, serbando la puntatura, dando energia al concetto. Onde vedete, che non è al tutto facilissimo uffizio far bene non che l' istruzione, ma nè pure la lezione spirituale. S. Benedetto volle, che chi leggesse nel refettorio si apparecchiasse con una orazione apposita (1); e ciò perchè vedeva da un canto, che il leggitore ha molta parte al profitto degli uditori se con ispirito legge; dall' altro, che leggendo con ispirito da produrre questo profitto, facil cosa è, che sottentri anche in ciò furtivamente qualche poco di vanità. Nella Chiesa, ove tutto è grave, decoroso e perfetto, esemplare sommo della vita regolata, v' ha un Ordine apposito per leggere, cioè il Lettorato, a cui però non è commessa la lettura dell' Epistola, di cui n' ha offizio il Sottodiacono; nè a questo la lettura del Vangelo è affidata, la quale al Diacono si appartiene. Quanto all' istruire , l' « Ecclesiastico » dice: [...OMISSIS...] ; e notate tutte le parole della sentenza. Ma chi crederebbe oggidì, che l' offizio di istruire fosse quello, che a S. Agostino fece versare lagrime, sommamente scontento di se stesso quando ordinato prete se ne provò, per le difficoltà che sentì d' incontrare ad adempierlo quale ei bramava, sì come ne scrisse a Valerio vescovo (3), scongiurandolo di volerlo lasciar alcuni giorni sino alla prossima Pasqua in ritiro per apparecchiarsene colle preghiere e lo studio? E fra l' altre cose dice così: [...OMISSIS...] E fate ragione, se S. Agostino così dicea (1), che dovremo dir noi? Non badate dunque se gli spensierati si prendano come celia cosa tale: non falliremo a stare sempre attaccati a' primi maestri. Rispetto al modo voi dovete impicciolirvi alla misura altrui, e distribuire a tutte secondo lo stomaco, per così esprimermi, di ciascheduna, a cui latte, a cui minuzzoli di pane, a cui cibo più solido. Fate sempre precorrere il pensiero alle parole, parlate a rigore d' espressione, con placidezza, ilarità, e spirito. Frapponete qualche racconto, di cui è avida la tenera età, e qualche piacevolezza, acciocchè con moderato riso si ricreino, e non istanchino di troppo le forze della mente. Fate nel tempo dell' istruzione che abbiano fra mano un lavorìo, perchè difficilmente possono star fermi i fanciulli senza muoversi in qualche modo, e se non assegnate il movimento, movendosi come loro viene voglia, si divagano. Se poi a qualche tratto del vostro discorso, che le colpisce, ristanno dal lavoro, e si mettono in atto di maggior attenzione; lasciate facciano così, che tanto è meglio. Del rimanente in tutto ciò vi rimetto all' aureo opuscolo di S. Agostino, « Del modo di catechizzare gl' idioti », per me reso volgare (2). Sebbene in esso non tutto sia adatto pel caso nostro, essendo diverse le circostanze, tuttavia ne caverete meravigliosa istruzione bene meditandolo. Specialmente apprenderete ivi, con qual gusto si debba porsi ad istruire, e quanto tal gusto giovi a farci uscir l' istruzione spontanea e fervente. Quanto al vostro confutare , non è già un venire a tenzone con perverse opinioni e ostinate: ma tutto l' affare sarà in risolvere qualche difficoltà proposta, o qualche erroruzzo di non perfetta intelligenza. La massima principale che in ciò vi conduca sia questa, di trascegliere fra molte risposte, che talora dar potrete, quella che maggiormente acquieti ed illumini chi propose la difficoltà. Sovente uno schiarimento maggiore delle cose dette, un esempio, un racconto, una parabola, dileguerà dalle menti giovanili ogni difficoltà. Talora sarà meglio eludere la risposta, o pure far loro un argomento appoggiato solo su' lor principii, secondo che la circostanza dimanda. Sì dell' una che dell' altra maniera ce ne diede esempio Cristo stesso. Vedete in S. Matteo, c. XX e XXII, e in S. Giovanni, c. X. Fino a qui de' vostri offizi come maestra. Ora toccheremo alcuna cosa del consigliare , che è, più che altro, uffizio di amica. Avete accolte quelle pargolette; fate altresì di appareggiarvi a loro. Resa quasi una del loro numero, abbiano esse con voi tutta l' amichevole confidenza. Allora s' apriranno con voi de' loro animi, e voi potrete accorrere co' salutari consigli. Potete bensì darne alcuno di moto proprio, senza esserne chiesta; ma sarà più vantaggioso avvezzandole a dimandare. Se il vostro consiglio sarà sì dolce, sì amico e saggio, che esse partano da voi contente, vi torneranno altre volte. E questa è gran via per far del bene. Dite loro di spesso questo detto dello Spirito Santo: [...OMISSIS...] . D' una cosa finalmente vi avverto, che potete benissimo consigliare dove è precetto, ma guardatevi dal precettare là dove è consiglio. In questo anche S. Paolo usava somma avvertenza, come potete vedere nell' Epistola I ai Corinti, c. VII, e nella II, c. VIII. L' esortare ha una gran forza sugli animi. Li fortifica, gl' infiamma, li fa operare. Per questo S. Paolo raccomanda spesso tale offizio a Timoteo e a Tito. Dovete farlo con sommo calore, persuasione e autorità. Quando parla una persona, che mostra di non avere il menomo sentore di dubbio di quanto dice, anzi di essere penetrata di zelo ardente, difficile è che l' uditore possa resistere, in guisa che ei non entri poco o molto nei sensi dell' esortante. L' esortazione però, come dice Paolo, sia sempre congiunta coll' edificazione e colla consolazione (3). Di più, avendo voi a fare con docili fanciulline, non avverrà che offendiate mai il loro amor proprio esortandole a virtuosa condotta. Perciò state sicura, che più che sarete in sull' esortarle, farete più bene. Fatelo dunque spessissimo, anzi continuo. Vengo all' offizio di sorella, che è quello di riprenderle ne' mancamenti. Lo spirito di dolcezza deve brillare in tutto; qui poi come in sua sede. Nè la dolcezza escluderà la forza. Il riprendere debb' essere come il « favo di mele in bocca al leone » (1). Farete la cosa con energia se sarete addolorata del mancamento loro, mettendovi ne' lor piedi. Ecco Ezechiello mandato a rimproverare gli Ebrei: [...OMISSIS...] . Ora saranno ben picciole dispiacenze, ma nulla ostante gioverà che facciate sentire alle fanciulle un dispiacere da vera sorella, non già amaro nè ostinato, ma dolce e facile a rasserenarsi dove ne venga tolto il motivo. Quanto alle regole del correggere, tenete quell' avviso di S. Agostino, di non farlo, trattandosi della privata correzione, a norma solo del male commesso, ma della disposizione dell' animo a cui si fa: a quello stesso modo che non si vuole già mangiare a ragione della bontà del cibo, ma della forza che ha lo stomaco di digerire. Il fine unico debb' essere il vantaggio. Onde si vuol fare in quella maniera che giovi: e parimenti cercare i luoghi, i tempi, e tentare gli aditi più facili de' cuori, e sempre con carità, dolcezza e gaudio della corretta. Per altro è pur malagevole anche questo offizio a farlo bene; e leggete la lettera novantesimaquinta di S. Agostino diretta a Paolino e a Terasia se volete vedere quanto ei per sè n' era turbato. [...OMISSIS...] Quanto al gastigare , è l' uffizio di madre. Anche qui vi bisogna spiare le varie indoli delle giovani, e calcolare il vantaggio che ne prendete. A questa norma attemperate i castighi. Quello però che potete ottenere coll' istruzione, col consiglio, coll' esortazione, colla correzione, non vogliate ottenerlo mai con un castigo: quello che potete avere con una correzione leggiera, non vogliate con una forte. Quello che potete con una occulta, nol vogliate con una pubblica: quello che con una pubblica, non con un castigo; e parimenti quello cui conseguir basta un leggiero o celato castigo, non tentate di averlo con un pubblico e grave. Tutto insomma sia ragionevole, circospetto, richiesto. [...OMISSIS...] Mi restano a dire poche cose sull' altra parte del vostro ministero, che è quella di sopravvegliare agli uffizi, che non prendete a far voi medesima. Questa vigilanza risguarda sì le donne assistenti che le fanciulle. Colle assistenti donne contenetevi sì come consorella affettuosissima. Non ostentare mai superiorità, tenerle in dovere colla voce, ma più coll' esempio, grave ed amabile contegno, parlare che nulla abbia di superfluo e nulla di mancante. Tutto quello che dite tenga in sè o istruzione o sincero amore verso di loro, senza che nè l' una produca noia, nè l' altro mostri affettazione. Se voi condirete con qualche buon sale il vostro discorso, tornerà ancora più caro. Sempre poi sia famigliarissimo, pieno di stima verso di tutte. E` grande e bella ed utilissima cosa mostrare vera stima a tutti. Faceva così s. Paolo coi fedeli. [...OMISSIS...] E non si può credere quanto incoraggi altrui a far bene mostrar di presumere a vantaggio di loro, che opereranno lodevolmente. Colle fanciulle poi a un di presso dovete fare lo stesso. Osservate ogni cosa, rimediate tosto a' piccioli sregolamenti che non si sono potuti evitare colla previdenza, e tutto ciò manco sia fatto con azione diretta e faticosa, di quello che sia con indiretta e soave. La donna forte del Savio regge la casa sua coll' attività, non co' gridori nè colla forza, ed ogni cosa va bellamente. « Ella cinge di fortezza i suoi fianchi e fa robusto il suo braccio » (3); e dopo averla esso Savio lodata per l' opere, che pare ella faccia quasi in silenzio, così dice del suo parlare: « Con saggezza apre ella la bocca sua, e la legge della bontà governa la sua lingua ». Dalla pratica della virtù sembra inferire, che ella abbia appreso a virtuosamente parlare. Così avvierete bene la famiglia, e rassomiglierà ad una macchinetta. Messa in movimento seguirà a rivolgersi portata dal primo moto senza bisogno quasi di altra spinta, ma bensì di molto vigilare a rimovere i filuzzi o sassolini o come che sia i piccioli intoppi d' ogni maniera, che mettendosi fra le ruote la potessero rallentare, o rompere, o fermare. « Il regno de' cieli è somigliante ad un tesoro nascosto in un campo. Scoperto il luogo da alcuno, questi nol dice a veruno; ma se ne va tutto allegro, vende quanto ha, e compera il campo » (1). Or se di qui debbe pigliar regola l' uomo cristiano, forte dubbio s' affronta: Se l' uomo vende tutto per solo il cielo, come vivere? come tener gli amminicoli della vita? come fare alcune azioni di vita civile, mangiare, bere, dormire, camminare, parlare? Pur è così: tutto debb' essere venduto pel tesoro nascosto nel campo. Ma udite bene. Può comperare, anzi è costretto di comperare ancora il campo, ma lo compera a cagion del tesoro, può, cioè, anzi ha l' uomo necessità di fare delle cose, che di loro natura spirituali non sono, ma farle a lui conviene per lo scopo spirituale, che in esse vi mette. Anzi col lume del nostro unico maestro traggo avanti il mio discorso, e vi dico a piena fiducia, che voi dovete non solo cercare in ogni cosa lo spirito, ma la perfezione dello spirito. [...OMISSIS...] Chiudiamo il ragionamento, e diciamo: nessuno dunque entrerà in quel regno celeste, se non vorrà farsi il più picciolo, cercando quella perfetta semplicità, umiltà ed innocenza, di che la natura medesima fa dono ai fanciulli. Egli basta dunque essere cristiani a dover sapere, che il pregio vero di qualunque azione nostra è quello d' essere volta a Dio, e d' essere investita perciò nel celeste tesoro. Vi sia dunque nell' animo fitta questa somma e incommutabile massima della dottrina di nostro Signore, che ad ogni uomo conviene attendere alla sublimità, e alla somiglianza con Dio: non venendo ciò mai in opposizione colle oneste condizioni degli uomini. Non vi vergognate pure di dire con ogni franchezza, che nella educazione delle ragazzine vi proponete di farle sante e perfette quanto è da voi. Ecco l' altezza e la nobiltà del cristiano pensare. Conosciuto ora di che natura sia l' edifizio che prendete ad erigere, delineate il disegno. Abbia quasi due piani: le verità cristiane, e le virtù. Formiamo adunque breve trattato ne' fogli seguenti sì delle verità da insegnare, che delle virtù da infondere. La intelligenza è quel dono magnifico di Dio, che distacca infinitamente l' uomo disopra degli animali tutti, e per cui è fatto ad immagine e similitudine della divinità (1). [...OMISSIS...] Mirate dunque la nobiltà umana! vedete l' altissimo fonte di lei ascendendo in sull' orme di questo gran Dottore nella somiglianza con Dio formata dalla intelligenza da lui a noi comunicata, sopra la quale non v' ha nulla fuori che Dio, e sotto alla quale pure nulla, fuori che cosa infinitamente da lei distante. Quanto dunque è per noi da educare quella illustre facoltà, e la cultura di lei con ogni amore studiare! Dipoi considerando a' disordini e alle sregolatezze umane, facile è avvedersi, che quasi sempre divengono da ignoranza, o ignoranza hanno congiunta. Eh! se gli uomini fossero più dotti, egli sarebbero ancora migliori. La morte stessa di Cristo fu figliata da trista ignoranza, e non sarebbe avvenuta, se « quegli avessero compreso che si facessero » (1). E sembra che basti conoscere Iddio perchè dolcemente spinti veniamo ad amarlo! Di più ancora dicono nella nostra sentenza quelle parole: « La vita eterna non è che conoscere un solo vero Dio, il Padre, e Gesù Cristo mandato al mondo da lui » (2). In queste apparisce come una viva cognizione torni quasi ad una cosa medesima coll' amore, e proprio col godimento di Dio. Qual raccomandazione più grande ad una pia istruzione? Di qui molti Santi, di zelo e d' esperienza pieni, facevano dell' insegnamento tal conto, che desideravano sempre un predicare tutto a famigliare ammaestramento; e ben sapevano quanto indi vantaggio se ne coglieva. Adunque proponete di volerle bene ammaestrate e dotte. Avvi modo, chi sa farlo, che continua sia l' istruzione: preziosa cosa: e solo con essa s' ottiene quanto S. Paolo diceva a' Colossesi: « La parola di Cristo abiti in voi con pienezza » (3). Le cose poi da insegnare loro, quanto allo spirito, si possono, come a me pare, ripartire acconciamente in tre capi: Della vita civile: della Dottrina cristiana, e di un più perfetto insegnamento . [...OMISSIS...] Questo insegnate alle fanciulle vostre. E fate loro intendere come ciò sia: come le nostre azioni, se fatte non sono in nome di Gesù, non abbiano che merito naturale, il quale è nulla per la vita eterna. Mostrate, che un' azione fatta in nome di Gesù Cristo vuol dire fatta per dare piacere a lui, per fare la volontà sua, e quasi per incombenza ricevuta da lui medesimo, fatta ancora insieme con lui o sia rivestiti di lui e spogli d' Adamo, cioè dell' uomo del peccato, e quindi fatta per virtù della grazia sua, fatta in somma rendendo per mezzo di Cristo grazie a colui, che è Dio di Cristo uomo, e che è padre di Cristo Dio, e il quale ci mandò Cristo Dio e Uomo in una congiunto . Dopochè ben a dentro loro avete impressa tale istruzione intorno alla comune vita, esponete, che cosa da essa ne consegua. Primieramente di essa viene, non avere già più per l' uomo cristiano azione veruna onesta in questo mondo, la quale sia veramente bassa e ignobile; anzi essere grandi e nobilissime tutte, perchè tutte possono e debbono essere sante e valgono la vita eterna, e perchè il discepolo di Cristo le fa, come dicemmo, con esso lui insieme. « Dunque non v' abbia alcuna fra voi, soggiungerete, la quale si lamenti della condizione sua, o ricusi di fare alcuno offizio per la ragione che a voi sembri vile, non avendo esso che una viltà apparente, e agli occhi di quelli che della nostra santa legge poco bene si conoscono. Quando GESU` Cristo lavorava in bottega o in casa di Giuseppe, credeva bensì il volgo che egli facesse mestiere plebeo, ma in sostanza faceva allora uffizio infinitamente più illustre innanzi alla verità di Dio di quello che facesse il romano imperatore. Non è vile cosa alcuna, la quale possa essere santa, e la quale non canserebbe di farla GESU` Cristo stesso: è vile, ignobile, e degno di sprezzo il solo fasto del mondo, e qualunque cosa che offenda Dio ». Tali massime riposte nel loro cuore, daranno di bonissimi frutti. Ma di questa generale dottrina conviene, perchè bene l' assaporino, fare loro delle applicazioni a tutte le opere della vita. Di spesso accade, che la virtù e la perfezione ci sia mostrata, ma non ci sia indicata la via d' andarvi. Voi poi dovete anzi prenderle per mano e condurvele. Per esempio, intorno al mangiare ammaestratele del modo come si mangia, unendo insieme col cibo del corpo quello dell' anima. In primo luogo persuadetele, che il mangiare per sè è azione che non aggiunge dignità veruna all' uomo, poichè anche gli animali, direte loro, mangiano come noi. Appresso andate più avanti. Osservate, che il mangiare discuopre la nostra infermità. Tutti i bisogni nostri ci mostrano limitati e miseri. Quando la fame ci avvisa di prender cibo, ci avvisi anche che abbiamo peccato. Perocchè sebbene anche non peccando l' uomo avrebbe mangiato, tuttavia non avrebbe avuto il dolore e la morte che gli viene del non mangiare. Onde siamo fatti schiavi del cibo, perchè l' uomo col cibo tentò schivare di essere servo di Dio. Potete poi sopra ciò aggiungere, che il mangiare a noi sarà non solo di disonore, ma altresì di colpa se non l' useremo secondo suo legittimo fine. Il fine del cibo è di supplire alla nostra necessità. Quanto al diletto del palato fate loro comprendere, che è pure cosa vilissima, e che Iddio ce l' ha dato per confortarci nella miseria che abbiamo di prendere cibo; ma molto più per farci esercitare la virtù di ordinarlo a lui o a lui sacrificarlo: non volendoci sì nell' uno che nell' altro caso dilettare altro che d' Iddio, benchè potessimo dilettarci ancora di qualcos' altro. Quindi venite più in particolare bel bello sponendo i cinque vizi, ne' quali si può cadere mangiando, distinti da S. Gregorio nei Morali: [...OMISSIS...] . I quai modi tutti bello è che illustrati sieno cogli esempi della Scrittura, cui lo stesso Santo ivi appresso somministra. Dopo ciò si possono indicare i modi così generali, come particolari di ripararci da somiglianti vizi. Finalmente mostrerete con bel modo come il nostro Signore apportò veramente a noi, per così dire, la pietra filosofale (spiegando loro che cosa s' intendea per essa) onde possiamo fare oro da tutte cose le più spregiate o indifferenti. Di qui i modi delle virtù intorno al cibo contrari a que' cinque vizi. In fine persuaderete una bella indifferenza per qualunque maniera di cibo, l' amore alla sobrietà, e a quelle virtù. Deplorerete la tristezza umana di servirsi sì poco di quest' arte preziosissima di Cristo. Narrerete che cosa erano le antiche agapi cristiane, e perchè si chiamavano con questo greco nome che significa dilezione . E a modello finalmente proporrete loro GESU` Cristo stesso: quando pregato da' suoi discepoli a prendere un po' di conforto, sebben dopo lungo viaggio, rispose: « Il mio cibo è fare la volontà di colui, che mi ha mandato, e di compiere l' opera sua » (1). E se lo figureranno commensale, e così anche rammenterete que' primi fedeli, i quali « spezzando il pane per le case, prendevano cibo con gaudio e simplicità di cuore, lodando Iddio » (2), e loro mostrerete come questo gaudio e questa simplicità giovi alla stessa salute del corpo assai più che la crapola e l' intemperanza , di cui aprirete gli effetti funesti. Nè tutte queste cose, ed altre simiglianti, che saranno vostro dolce studio, facendo in voi tesoro di esempi, di fatti, di similitudini, e d' ogni lume del discorso, le direte già loro così tutte in una fiata talchè n' abbiano sopraccarico, ma ora l' una or l' altra trarrete fuori a tempo e luogo acconcio. E quando le legherete loro in mente con qualche arguta sentenza, o dove venga bene anche con alcuna puntura contro de' vizi; quando le stempererete loro nell' animo con più distese parole, secondo l' opportunità e la voglia che vedrete in esse di sentirvi parlare. Poichè dovete esser sollecita di prepararle sempre vogliose, e di non parlare loro (almeno a lungo) se non quasi pregata; come ponendo osservazione nel Vangelo si vede che faceva quasi sempre il sommo nostro Maestro. Alla stessa maniera sappiano di tutte le parti della vita. Così otterrete con ogni verità, che « la legge di Dio sia lucerna a' loro piedi » (3); otterrete che di tutto traggano merito, e però la loro vita sia tutta orazione , colla quale impetrino nuove grazie. Sono da meditare singolarmente a quest' uopo le lettere di Paolo e di Pietro che traboccano non solo di concetti sublimi intorno lo stato e la vita cristiana, ma sì ancora d' immagini e di simboli i più vivi ed opportuni a facilitare la intelligenza del cristiano spirito, a distinguerne la bellezza, e a tenere delineati e freschi, dirò così, i precetti nella memoria. Aggiungete lo studio de' libri sapienziali e de' « Salmi », mirabile libro, che giova a tutto, e a cui sì spesso richiama il « Nuovo Testamento ». A maggiore vostra regola ed esempio rechiamo tuttavia un altro saggio di questa familiare istruzione sulle cose della comune vita, ed egli sia intorno al dormire. Puossi cominciare a descriver lo stato dell' uomo preso dal sonno. Egli non fa più uso di ragione, giace inerte, simile ad uomo raggiunto da morte; per cui i poeti sogliono dire il sonno fratello di morte. E` il sonno cosa comune alle bestie. Quindi da non attaccarvi per nulla affetto umano, da prendere per la sola necessità, nè dormire di più del necessario, da che viviamo tanto meno, quanto dormiamo. Allora per tanto che andiamo a riposo, ricordiamoci della morte, effetto della colpa, della quale morte esso è sì viva immagine. Quando poi ci svegliamo è da sovvenirci della futura risurrezione, effetto de' meriti di Cristo. Avanti Cristo ci dovea il sonno sembrare la morte; dopo Cristo la morte a noi dee sembrare un sonno. Per questo Cristo della figliuola di Jairo capo di una sinagoga dicea: « Non è morta la fanciulla, ma dorme » (1); e in mille luoghi colla stessa immagine c' indolcisce il nostro divino Salvatore la morte. Quindi anche presso noi cristiani ne venne il nome greco di cimiteri , che italianamente suona dormitori . Ma guai se mentre Cristo rese a noi un sonno la morte, noi ci rendessimo una morte il sonno, e morte dell' anima! Questo potrebbe avvenire se fossimo dormiglioni usando il sonno a fomentare la nostra pigrizia e poltroneria contro il precetto di Cristo: « Vigilate in ogni tempo facendo orazione » (2). - « Lo spirito veramente è pronto, ma la carne è stanca » (3). E bene, dorma quanto è necessario la carne, ma vegli lo spirito. - Si faccia dall' uom cristiano, come la Sposa de' sacri Cantici, che cantava: « Io dormo, e veglia il mio cuore » (4). E voi insegnerete, che se terranno il loro cuore chiuso nella giornata ad ogni perverso affetto, se prima di coricarsi faranno orazione, se si metteranno dormendo nelle braccia di Cristo, egli che deve essere il loro cuore e il loro spirito farà la scolta sopra di esse contro al nemico, che pure « s' aggira intorno come leone ruggente cercando cui divorare » (5). Direte ancora, che dormendo col corpo vigilavano col cuore que' Profeti e Santi, a cui nel sonno rivelava Iddio le cose future ed i suoi segreti. Che vigilava col cuore il figliuolo d' Iddio alloraquando navigando sul lago di Genesarette, [...OMISSIS...] : loro narrerete finalmente del poco dormire che fa la donna forte ne' « Proverbi » descritta (7), delle vigilie degli antichi cristiani; e come la santa Chiesa nel ripartimento delle ore notturne e diurne dà l' immagine della vita del cristiano, che veglia sempre ed òra, di cui mi verrà in acconcio di parlare altra fiata. E finalmente direte, la quiete del corpo presa nella pace del Signore quaggiù rappresentare ancora quella quiete dell' anima che in cielo si assaggia nel gaudio divino: tal quiete essere veramente santa, veramente una orazione, perchè fatta col fine di ristorare il corpo, e rimetterlo in istato di servire e lodare Iddio attualmente, e perciò merita e impetra; per il che anche sobriamente dormendo puossi conservare il precetto della continua vigilanza e della continua preghiera; che molto pur giova la sobrietà del vitto ad aver men bisogno del dormire, e a dormire più santamente secondo quello di s. Pietro: « Siate sobrii, e vegliate » (1), ed altri sì fatti documenti consegnerete nell' anime loro, che vi somministreranno in copia le sante Scritture, e i Padri e scrittori ecclesiastici. In somma si vestano o spoglino, passeggino o stieno, parlino o tacciano, sieno sole o in altrui compagnia, facciano de' mestieri nobili o de' servili, si divertano, lavorino, studino, qualunque cosa operino nella vita, esse sappiano altresì dalla bocca vostra come convenga operarlo a utilità del loro spirito, come amarlo a fine di questa utilità solamente, e nella memoria arricchita d' una raccolta di sentenze, d' esempi, di fatti da voi uditi spesse volte ripetere con efficacia sopra i loro atti quotidiani, abbiano argomento continuo di meditazione, ed « un' armatura di Dio », per esprimermi con Paolo, « contro alle insidie del diavolo » (2). Così soleano fare i fervorosi cristiani de' primi tempi. [...OMISSIS...] Nel capo precedente ho parlato di quella dottrina, che può essere argomento alle vostre famigliari conversazioni. Oltre a questo poi è bisogno avere delle ore stabilite e conservate diligentemente, nelle quali diate la istruzione ordinata della Dottrina cristiana , o sia il Catechismo . In generale avvertite, che questa dottrina non è punto vostra, ma di Cristo. Appresso considerate come l' uomo peccando era traboccato nell' ignoranza, e perciò nella morte, essendo « la vita eterna il conoscere Iddio » (1); ma che per mezzo del Vangelo « si spoglia quell' uomo vecchio e si veste il nuovo , cioè si veste un uomo che si rinnovella a conoscimento, secondo l' immagine di colui che il creò » (2). E questo conoscimento è solo la salvezza dell' uomo. GESU` Cristo erede dell' eterno regno, ha fatti noi pel Vangelo suoi coeredi. Descrivete questa eredità con acconci argomenti e similitudini, innamorandole del paradiso, svogliandole dell' altre cose, e facendo lor venire il salutare timor dell' inferno. Ora dottrina tale toglie loro le infinite pene, e le rende eternamente ed immensurabilmente felici. In somma pingete la necessità, la bellezza, la perfezione, e la bontà di questa dottrina con ogni colore. E quando vi venga il destro, descrivendo la deformità del mondo prima di Cristo, assomigliatelo ad una notte , nella quale Cristo mandò gli Apostoli suoi a predicare quasi folgori per lo splendore e la celerità dell' opera loro (3): lo riformò e raggiornò « sgombrandovi l' opere delle tenebre, ed apportandovi l' arme della luce » (4); di cui l' una è essa dottrina, di cui ragioniamo: « ragguagliando con mirabilissimo artifizio divino tutti gli uomini in un solo ». Perciocchè dice Paolo a' Colossesi, che nel rinnovellamento dell' uomo « non havvi più Greco, nè Giudeo, circonciso, nè incirconciso, Barbaro, nè Scita, servo, nè libero; ma Cristo è ogni cosa ed è in tutti » (5). Queste sono sublimi cose, e sta in voi abbassarle e porgerle loro quando e come le possano ricevere; non tutte a principio, bensì divise in brani e particelle adattate. Dal conoscere che non è nostra cotesta dottrina, nè tolta dalla terra, ma che essa è di Cristo e dal cielo discesa, ne viene, che dobbiate essere esatta assai nelle parole, ritenendo le sicure della cattolica fede, senza volere dar loro troppo sottili dilucidazioni di propria mente; e in quanto a' precetti morali, non esagerare mai nè in più nè in meno, per non produrre de' falsi giudizi sulla gravità de' peccati; appresso risecare tutto quello che è controverso; non potendo voi asserire di esso con sicurezza che sia di Cristo. [...OMISSIS...] Il quale Spirito Santo, che solo può custodire in noi con ogni sicurezza questo prezioso deposito, e colla vita e collo zelo e col cuore e colla bocca chiamare lo deve il cristiano maestro ad abitare dentro di sè. Dopo aver poi mostrata a queste, che chiamerò figliuoline vostre in Cristo, l' altissima preziosità di quella dottrina, e la bellezza singolarissima, e finalmente la bontà infinita, sono da destare in esse sensi di gratitudine verso un Dio sì buono: buono non solo per aver egli rivelata e portata agli uomini tanta ricchezza, ma sì ancora per aver avuto special cura di esse, senza padre e senza madre com' erano, e raccoltele in luogo dove possano a tutto lor agio e con frequenza sentire e mettere in pratica sì preziose verità, salvandole dall' avversario di tutte l' anime. Indi quella casa ove abitano la farete loro riguardare come casa di Dio, dove egli quasi padre di famiglia apre loro scuola di paterne istruzioni, e facile arringo di sante virtù. E se il « poter udire e custodire la divina parola è più beata cosa che lo stesso esser madre di Dio », come insegnò Gesù (2), e se esse hanno ricevuto questo immenso beneficio d' udirla, si guardino dal non volerla, a malgrado di ciò, custodire: il che sarebbe loro maggiore condanna. Tornate spesso sopra il divino beneficio dell' averle raccolte e provvedute; [...OMISSIS...] . Ora in fine so, che dovrete abbassarvi a quelle menticine tenere ancora, e a cui propriamente è mestieri mollificare e tritare il cibo cominciando da' primissimi rudimenti, e facendo loro apprenderli prima quasi per consuetudine di memoria che non sia per chiara intelligenza: e so altresì che tal cosa riesce faticosa e importuna. Ma l' amore di Cristo rende questo abbassamento lievissimo e dilettosissimo. Oh! non dee per avventura bastare a un cristiano l' esempio del suo Signore, che « s' impicciolì tanto con tutti noi »? [...OMISSIS...] E santo Agostino nell' aureo libro sovraccennato del « Catechizzare i rozzi » di ciò ne conforta meravigliosamente col cap. X. Ma chi ama Cristo, e tien presente il modello, non ha bisogno d' altro conforto. Parrebbe addomandare la natura di questo mio discorso, che vi delineassi la forma e l' ordine delle dottrine, che dovete fare alle fanciulle vostre. Ma poichè il pregio di questa forma e di quest' ordine consiste, come ho accennato, nel non rimuoversi dalle vestigia dei « Santi, a' quali fu data la fede sola una volta » (2): avete già alle mani que' quattro capi, cioè il Simbolo Apostolico , i Sacramenti , il Decalogo , e l' Orazione del Signore , ai quali da' nostri padri fu ridotto il cattolico insegnamento. Questi adunque porgono il filo del ragionare, questi i confini, questi il richiamo e la ricapitolazione di tutte le cose che insegnerete. Perciocchè qualunque cosa insegniate, dovete sempre ritornare a quelli. E quanto allo svolgimento di tali dottrine, siamo provveduti del « Catechismo Romano », opera messa insieme da varii dotti nel secolo XVI per decreto del sacro Concilio di Trento, e approvato da' Sommi Pontefici. Tale opera fatta pe' parrochi, non si può veramente dare in mano di fanciulle. Se dunque chiedete come fare a stemperar loro questo cibo, rispondo doversi premettere innanzi tratto la meditazione della dottrina. Vi bisogna poi conoscere la capacità dell' intelletto delle vostre discepole, l' indole, quai cose influiscano a tenerle più raccolte, quali lor facciano impressione maggiore, come debbano concepirsi le cose, e apparecchiarle acciocchè siano meglio accolte. In somma studiare le varie forme degli animi con diligenza, ciò che insegna anche il Romano Catechismo a' parrochi (1). Appresso raccoglietevi, e invocate il Santo Spirito, purificate l' intenzione, protestate dinanzi a Dio che non volete insegnare errore, e che qualunque v' uscisse di bocca ignorandolo, tale il rigettate, nè all' onor vostro pensare, ma a profitto di chi vi ascolta. Masticando poi fra voi quelle dottrine, anzi pure dirò così ruminandole, le faciliterete, apparecchierete espressioni e parole proprie, naturali ed atte a loro istillarle. Pe' libri avete quelli che il vostro Vescovo approvò nella diocesi, e dà in mano ai catechisti suoi, come anche giovarvi potrete delle dichiarazioni vocali del vostro Parroco, che sarà bene con diligenza seguire. Solo due cose aggiungerò ancora al capitolo. La prima che l' istruzione sì del dogma che della morale sia intessuta colla Storia Sacra, e su questa io direi, usando una similitudine tolta ai lavori donneschi, come su tela distesa si rilevi il dogma e i precetti della vita quasi ricamo. Conciossachè quanto creder si deve consiste principalmente in due uomini, che sono Adamo e Gesù Cristo, e per questa maniera si vede la grande unità e continuità della religione cristiana come in quadro meraviglioso risplendere nella Chiesa di Cristo, da Adamo venuta insino a noi invitta e immacolata. Per questi sacri racconti più salde si figgono nelle menti singolarmente de' fanciulli le rivelate verità, più dolci vanno al cuore, e si fanno non meno regola che pungolo ed eccitamento alle virtuose operazioni. Colla storia si fu che i primi padri mandarono ne' figliuoli il dogma e la morale prima ancora che fosse scritta la legge. Onde il Signore, determinato d' incenerire la Pentapoli, giudicò di fare che Abramo il conoscesse: [...OMISSIS...] . Così ne' « Proverbi » e ne' « Salmi » quanto e come spesso non si raccomandano a' padri questi racconti e queste tradizioni! Quando poi Dio volle che 'l suo popolo avesse legge scritta, che fece egli, se non ordinare a Mosè il « Pentateuco », dove è appunto alla legge la storia congiunta? Su queste vestigie de' primi Santi della Chiesa, anzi di Dio stesso, tanto essendo avvenuto per suo comando, camminarono anco i primi maestri della legge di grazia nelle loro istruzioni, come facile è di vedere sia ne' quattro libri dell' Evangelio, sia negli « Atti Apostolici », nelle « Apostoliche Epistole », ne' « Sermoni » e « Omelie » dei santi Padri, ne' lor « Catechismi », che alcuni n' abbiamo pe' catecumeni, e nelle cinque « Catechesi di S. Cirillo a' battezzati »; singolarmente poi nel libro nominato avanti di sant' Agostino. L' altra cosa è il fine di tutto l' insegnamento, lo spirito e il frutto, a corre il quale volger si dee l' attenzione. [...OMISSIS...] Alla doppia carità adunque, fine e pienezza di tutte le Scritture (2), rivolgete e conducete continuo l' insegnamento. Che è poi questa carità? [...OMISSIS...] Tutto adunque se ne vada a questo, a farle amare la parola d' Iddio, a migliorar la vita, [...OMISSIS...] . L' Apostolo Paolo nel capitolo XII della sua maravigliosa « Lettera a' Romani » insegna anch' egli il gran conto che far si deve della cognizione. Poichè da prima con breve tocco, ma da insigne maestro, effigia la vita cristiana, dicendola un' ostia de' nostri corpi: e dopo distinta co' suoi caratteri di vivente, santa, gradevole a Dio , all' ultimo egli l' appella altresì ragionevole ossequio: riassumendo, io mi credo, e quasi ricapitolando in questa sola nota qualunque cosa, che o di lei disse o dir si potrebbe. Conciossiachè riconosce l' Apostolo nella ragionevolezza quasi un fonte, da cui tutti i pregi a quell' ostia si derivano, come maggiormente apparisce da quanto segue: [...OMISSIS...] . Chi ha dunque rinnovellata colla grazia la propria intelligenza ha riformato se stesso. Nella mente dunque, nel senno della intelligenza sta il vivo fonte della vita cristiana. Ed eccovi, ond' egli è che viene incontanente S. Paolo a dettar regole intorno al sapere: [...OMISSIS...] . Di gran senso è l' uso di quella voce traslata di sobrietà , virtù che regola l' uomo circa gli alimenti. Paragona il sapere all' alimento, e di qui mostrane l' eccellenza. Dacchè sì come l' alimento conserva la vita, la sanità, la robustezza ed ogni pregio al corpo, così simigliantemente fa la dottrina all' anima. Ma nel tempo stesso, che intendo di conciliare a questa parte, in cui tratto dell' istruzione cristiana più sublime, l' animo vostro, mi conviene così guarentir l' opuscolo, e per così dire assieparlo, che non vi entri non pure errore, ma nè anche pericol d' errore, acciocchè voi favorevolmente disposta nè a quello aderiate, nè in questo corriate rischio. Al che opportune mi occorrono le parole di S. Paolo: « non sapere più là, che sia opportuno sapere, ma sapere a sobrietà ». La sobrietà insegna di nutrirsi de' cibi quanto è mestieri al corpo. A ciò ottenere si vuole in prima risguardare alla qualità del cibo, di poi al masticarlo, e finalmente al digerirlo sì, che in succhi salubri si tramuti. Quanto allo sceglierlo ed apparecchiarlo non ogni genere di animali si nutre dello stesso cibo, nè ogni animale lo vuole per egual modo disposto. Perciò nuovamente è da vedere la natura di quello, a cui esso si dà, e s' appresta. Ora la natura delle vostre fanciulle è primieramente di esser cristiane, appresso membri della Chiesa discente, non già della docente, di essere donne a cui si conviene meditare in silenzio sull' esempio di Maria quanto è loro insegnato, di esser fanciulle, e di condizione bassa, persone che faranno forse poi servigio nelle famiglie signorili, o prenderanno il velo in qualche monistero, ovvero farannosi madri di famiglia in povere case. Come a cristiane dite loro che se « avranno fame e sete della scienza della salute, ne saranno altresì satollate » (1). Facciano prima ogni cosa per assaporare quella sapienza, e nutricarsene; di poi non vogliano sapere altro, e principalmente sprezzino tutto quello, che a questo è contrario. Col primo di questi insegnamenti stillate in esse la virtù della docilità , per la quale l' uomo si apre a comprendere quanto di vero, di buono, e di bello vede od ascolta. Col secondo sradicate il pernicioso vizio della curiosità circa quelle cose, che non edificano. Quanto è fuori o della fede, o della carità è bello di ignorare al Cristiano. Così S. Cipriano dicea in certa lettera ad Antoniano: [...OMISSIS...] . E ben vi dico che i primi nostri padri col fresco precetto di Cristo (2) e degli Apostoli (3) non solo poco conto faceano di una dottrina che di Cristo non fosse, nè si curavano punto d' apprenderla, ma fin anzi di non apprenderla si curavano moltissimo, e si sequestravano da quelli, che o insegnavano errori colla bocca, o colla vita li professavano. Vi sia dunque frequente sulle labbra quella sublime preghiera del reale Profeta. « Rivolgi gli occhi miei, perchè non veggano la vanità . » Egli non volea nè pure vederla. Questa è quella grande virtù della Semplicità , che solo tiene fitti gli occhi nel bene, e lo fa senza nè anche dare al male uno sguardo. Come poi non debbono amare di saper nulla di quanto è fuori della fede e della carità, così quello che non intendono di quanto è dentro non deve turbarle. Ma cessando dalla inquieta sollecitudine d' intendere alcuna cosa difficile, con tutta pace la meditino meglio, e, non riuscendo a ottenerne chiara conoscenza, pongan giù l' ardore di saperla con eguale contentezza, facendone sacrifizio a Cristo, a cui ogni ragione si deve sottomettere, anco traendo di là argomento di umiliarglisi dinanzi, e confessare la propria meschinità. [...OMISSIS...] Voi dovete dunque scerre questo cibo come più loro giova. La regola è in S. Paolo subito appresso alle parole allegate. [...OMISSIS...] E in vero se insegnerete loro cosa sopra il lume della loro fede, o non trarranno profitto non capendo l' istruzione nella lor mente, o ricaveranno svantaggio, volendo pure intendersela col lume naturale, e perciò capendola male o angosciandosi per accorgersi di non capirla. Oltracciò segue Paolo a mostrare come ciascun cristiano occupa nella Chiesa posto ed uffizio diverso, essendo i vari membri a varie funzioni destinati. Secondo le funzioni Dio dà la fede, e secondo queste funzioni fa bisogno la dottrina. Or voi sapete chi sieno, di qual tempra, e a che destinate le vostri giovani donzelle. Sapete dunque anche come scerre lo spirituale nudrimento. Ben è vero che non pigliasi talora crudo quel cibo, che cotto e ben condito utilmente si mangia. A voi dunque sta di farne la più acconcia preparazione: ma di ciò è abbastanza. Per quello che fa al masticare, codesto cibo dell' intelletto è come del corporeo. In bocca si fa la prima digestione. Ciò vuol dire, che come vedemmo Ezechiello sentir dolce quel volume anche dopo averlo mangiato (2), quasi la dolcezza sua in bocca gli ritornasse; così avvezzar si debbono le fanciulle a far riflessione a tutto quello che havvi nella sacra dottrina da voi loro spiegata, non sopra svolazzandovi coll' ingegno senza posare in alcun luogo. Rendetele d' uno spirito sodo e riflessivo, non tenue e leggero. « Nella mia meditazione il fuoco si rinfiamma », havvi nella Scrittura (3), e il fuoco vuol dire l' amor di Dio. Nè intendo già, che le costringiate a meditazione lunga e sforzata in ore fisse. Ciò sarebbe loro gravoso, arido, intollerabile, poichè nè per l' età, nè pel sesso hanno bastevol forza di raccorsi e di lavorare colla mente in punti assegnati. La meditazione prescritta dunque sia breve: ma quel ch' io bramo si è un abito di riflettere naturalmente sopra di tutto, e quindi un meditare sempre senza gravezza. Finalmente il cibo vuole esser ben digerito. Questa è la cosa che più rileva. Questo dà la misura vera di esso cibo. Tanto se ne mangi, quanto si ha forza di convertirlo in nutrizione. Or che è questa forza? Quella carità di cui è detto al fine del capitolo precedente. Ella fa, che il cibo che mangiasi non vada a male, ma sia di quello, di cui Cristo dicea: « Procacciatevi non quel cibo che perisce, sì quello che fino alla eterna vita permane » (4). Dico la carità di Dio, e del prossimo. Quanto alla prima Paolo, vaso d' elezione, rapito al terzo cielo, uditore d' arcane parole che uomo non può favellare, diceva ai Corinti: [...OMISSIS...] . Tali cose adunque menino a Cristo, ad esso crocifisso; in esse si pensi a lui. Tutte quelle cose pertanto, nelle quali Cristo non si trova, sono quelle di cui leggesi nell' Ecclesiastico: « Non volere lambiccarti il cervello in cose superflue » (3). Ora tornate a leggere il passo dell' Apostolo, e vedete quale umiltà operi nell' uomo l' amore di Dio, mercè del quale la scienza « non gonfia ma edifica ». Quanto poi all' amor del prossimo dice novellamente il Dottor de' gentili: [...OMISSIS...] . E in questo capo intero vi porge Paolo la scienza come sorgente di tutte le virtù, e tutte le virtù trae fuori quasi a farle corteggio. Quando adunque innanzi ci diede a misura della scienza la fede , parlò di una fede che « opera per mezzo della carità » (5). Ma in questo passo, che ultimamente ho citato del cap. XII della lettera ai Romani, voi scorgerete singolarmente la carità del prossimo nella umiltà riposta, e quindi vedrete come la duplice carità non solo renda operativa la scienza a gloria d' Iddio e a vantaggio dell' uomo, ma contenga altresì l' antidoto contro al veleno, che essa scienza suol mandar fuori occultamente a danno nostro: e quindi come la scienza sceverata da ogni pernicioso elemento, per mezzo di sola la carità torni utilissima. Adunque date alle vostre zitelle tanta scienza e non più quanta vedete che hanno forza da ben digerirla, o sia da cangiarla nel salutevolissimo nudrimento dell' anima. Fermate le regole della moderazione nell' insegnamento, richiedesi, che delle cose stesse da insegnare diciamo alcun poco sopra quelle di stretta necessità; e ciò così in generale, che abbiasi onde assumere, come da serbatoio di varie cose, quanto a' particolari usi viene bisognevole. E per aver un filo, che sicuri ci conduca e ci scorga in tanta ampiezza di dottrina, e diversità di vie, caviamo qualche picciolo brano della « Scrittura », libro a tutti i bisogni, e fontana inesauribile d' acque salutari. E sia il luogo da noi scelto il cominciamento del capo quarto della lettera, che scrisse Paolo dalle carceri romane alla Chiesa di Efeso, capitale dell' Asia Minore, cominciando dal primo fino al sedicesimo versicolo di quel capo. Parmi acconcio questo luogo, come quello, in cui si dà la nozione ben fondata e chiara della Chiesa di Cristo, di cui siamo membri. Ed ho fermamente l' avviso, che il conoscere bene addentro questo nostro stato, sia il nerbo di tutta la cristiana istruzione. Oh! quanto poco si sente la dignità e la vera dolcezza della nostra professione! Noi cristiani siamo di presente come a dire sparpagliati, e gli uni scuciti dagli altri: perciò non sentiamo bastevolmente qual forza ci lega e aduna insieme, e ci dovrebbe formare una cosa sola per lo scambievole amore. Quando i fedeli colà ne' tempi primi e felicissimi erano più pochi e ferventi, in un solido corpo fra di loro si sentivano fortemente compaginati, e raggiunti in un sol corpo, nelle membra armonioso, e avente un capo solo, ed un medesimo spirito! Oh consensione ammirabile che quella era di volontà! oh armonia soave di funzioni! oh carità e pace invidiabile di cuori! A quella prima immagine perciò della Chiesa di GESU` Cristo noi dobbiamo tenere l' occhio ben fermo, e operarla in noi stessi. A questo di certo è necessario richiamare i fedeli, come faceano gli Apostoli e i più grandi padri, a considerare continuo quali essi sieno fatti dalla redenzione di GESU`, e per quale porta entrati in questa santa città o regno di Cristo, o mistico corpo di lui. Porrò adunque da prima le parole dell' Apostolo, e poi verrò estendendo un cotal picciolo commentario di quelle; acciocchè voi vi abbiate un esempio del come possiate bellamente introdurre le vostre discepole alle nobili dottrine della fede, mediante il legger loro e lo spiegare acconciamente, in sulle vestigie dei santi maestri, i luoghi più opportuni delle divine Scritture. Questo studio egli è quasi abbandonato dalle nostre cristiane, ma nei secoli più fioriti le donne fedeli leggevano i divini oracoli colle spiegazioni che ne avean date i Vescovi, i quali soleano pubblicare in libri le spiegazioni dette al popolo acciocchè più largamente giovassero. Or voi perita nella lingua latina e di ogni buona erudizione fornita, egregiamente fate ad imitare le Eustochio e le Paole; e voglia il Cielo che altre ed altre vi vengano dietro; acciocchè il popol santo ritorni, come già fu, illuminato e fervente. Or le parole dell' Apostolo sono le seguenti. [...OMISSIS...] Letto dunque questo brano dell' Apostolo, voi prenderete a dichiararlo. Io raccorrò qui solo alcune delle cose, che potreste opportunamente trar fuori in simiglianti istruzioni, e a distinzione maggiore le compartirò in alcuni articoli. « « Io dunque, che sono ne' ceppi, vi scongiuro nel Signore, che camminiate degnamente in quella vocazione , onde siete stati chiamati ». » Nella parola di vocazione , se bene considerate, si ricapitola in certo modo tutto il mistero dell' umana salute sposto innanzi da Paolo nel capitolo secondo della lettera stessa, a cui qui riferisce. Date le nozioni della Chiesa di Cristo, e dichiarato com' essa cominciasse in Adamo penitente, e seguisse in sino a noi dividendosi a mano a mano in tre gran parti, cioè nella Chiesa Militante, nella Purgante, e nella Trionfante, e qui messo in vista l' ammirabile corpo, che tutte e tre compongono insieme, è a trattenersi precipuamente sulla Militante come il principio, da cui quell' altre due si staccarono, crescendo alla perfetta loro grandezza. Dirassi di questa, che il pregio e la beltà sua non istà tanto nel numero de' suoi membri, quanto nella eccellenza che trae origine da Cristo: e come, sia ella o non sia numerosa, Cristo tuttavia sposo di lei amorosissimo dispone in suo bene, e per suo amore tutte l' altre cose di questo mondo. Appare questa bellissima verità dallo scarso numero de' giusti dalla creazione insino al diluvio, al tempo del quale la sola famiglia di Noè salvata dall' acque formava forse la Chiesa di GESU` Cristo: a' quali giusti però servivano tutti i tristi, esercitando la loro pazienza, e mettendo a tutte prove la loro virtù, che in tal modo cresceva, e più meritava. Appresso tornarono a corrompersi gli uomini insieme con quasi tutta la loro propagazione fino che il Verbo si chiamò Abramo dalla Caldea, e in tutto il mondo, adoratore degli idoli e schiavo de' demoni, scelse quella famiglia a sua Chiesa ed a suo peculiare dominio, e con essa come e' fosse un altro uomo (vedete già fino d' allora immagine del Cristo venturo!) patteggiare, e nominarla la « funicella della sua eredità » (1). A questa generazione singolarmente si fecero vedere i prodigi di sua onnipotenza e misericordia, fur mandati profeti continui, consegnate nelle mani di lei le promesse d' un Redentore. Ma i figliuoli di que' Patriarchi erano anche essi razza umana immalvagita nella radice. Si mostrarono dunque ciechi, ingrati, di dura cervice, di cuori incirconcisi secondo l' espressione della Scrittura, nè si arresero agli infiniti benefizi di Dio, anzi nè i portenti gli scossero se non momentaneamente, e i profeti accolsero con mal piglio, battendoli, lapidandoli, ed uccidendoli; e finalmente lo stesso figliuolo dell' eterno padre, il Redentore del mondo, lo disconobbero, oltraggiarono, e confissero in croce. Quindi il misterio del gran ripudio della Nazione Ebraica, a compimento degli oracoli profetici, e la gran VOCAZIONE delle genti alla salute dell' Evangelio. Ecco di che vocazione parla S. Paolo. « Per la qual cosa », aveva già detto innanzi (2), « ricordevoli siate », o Efesini, « che voi un tempo eravate gentili, e secondo l' origine carnale detti incirconcisi » per contumelia « da quelli che circoncisi s' appellano secondo la carne per la manofatta circoncisione », pegno della predilezione di Dio. « Voi eravate in quel tempo senza Cristo, alieni dal consorzio d' Israello », cioè dalla famiglia prescelta, « e ospiti de' testamenti », perchè solo come ospiti potevate essere ricevuti nella ebraica chiesa essendo il patto di Dio stretto colla stirpe sola d' Abramo, « senza la speranza della promessa del Salvatore », consegnata a' Patriarchi, « e senza Dio in questo mondo », avendone smarrita la traccia. « Ma adesso in Gesù Cristo siete fatti da presso, voi che una volta stavate da lungi, in virtù del sangue di Cristo. Perciocchè egli è nostra pace e unione che delle due cose n' ha fatta una », cioè dei gentili e de' giudei convertiti al Vangelo, « dissolvendo la muraglia di mezzo », la divisione, che fra gli Ebrei eletti da Dio, in peculiar suo popolo, e i Gentili lasciati a se stessi vi aveva, rappresentata dalla parete, che nel tempio di Gerusalemme tenea dal luogo santissimo divisi i laici, e così distruggendo le inimicizie e le divisioni fra gli uomini assunte in quella sua carne , che diede in preda alla morte. Parole di profondi sensi ripiene! Ma con questi sensi soli si può fare acconcia spiegazione di quella vocazione , di cui parla Paolo in questo luogo, mostrandola primieramente infinito beneficio, e doppiamente, se si può dire, gratuito, non essendo noi tutti della nazione eletta, ma delle perdute. « Edificati adunque sopra il fondamento degli Apostoli e dei Profeti, pietra maestra e angolare essendo lo stesso Gesù Cristo » (1), la nostra vocazione è questa, d' innalzarci sopra sì ferma pietra in tempio santo del Signore, e di non infrangerci e spiccarci da questo edificio nobilissimo e divinissimo. Per questo Paolo dopo aver detto, che dobbiamo camminare nella nostra vocazione, la quale ci chiama ad essere tempio vivo d' Iddio, ce ne viene insegnando il modo colle surriferite parole. Colle quali l' Apostolo primieramente esclude da noi la superbia , dacchè com' è scritto ne' Proverbi (2): « fra superbi v' hanno sempre delle altercazioni »; e pone ogni umiltà, cioè sì l' interna come l' esterna. Appresso ne caccia l' ira , di cui si dice ne' Proverbi (3): « L' uomo iracondo provoca risse », e chiama in suo luogo la mansuetudine mitigatrice delle brighe e serbatrice della pace; ancora allontana l' impazienza , che se non si vendica come l' ira, mostra però vista di partire lamentandosi all' altrui vessazioni, ed avvicina la pazienza , che secondo l' Apostolo S. Giacomo « fa l' opera perfetta » (4); per ultimo poi spurga lo « zelo inordinato ». Conciossiachè nè per superbia, nè per ira, nè per impazienza solamente, ma nè anche per inconsiderato fervore e zelo si può romper la pace. Per questo aggiunge: « sopportandovi gli uni gli altri nella carità », attendendo l' ora ed il luogo opportuno da fare avvertito il fratello de' falli; e quanto a certi difettuzzi, di cui non si corregge (perciocchè qual uomo arriva a torseli tutti?), sopportandosi scambievolmente con vera carità ed indulgenza. Tolti via questi quattro vizi, e introdotte le opposte virtù, e tutto ciò coll' occhio rivolto all' unità degli uomini, che ne è il fine, « solleciti », così dice l' Apostolo, « di conservar l' unità dello spirito », sorgerà da ciò quella beata pace, che come dolce legame vincolerà tutti i cuori, e come un legame solo, perciocchè è pace della stessa specie in tutti, cioè in tutti una partecipazione di quella di GESU`, che sorpassa ogni senso. Questo vincolo solo della pace avvera quell' unica vocazione, nella quale siamo chiamati da Dio: sebbene quaggiù di tale pace altro che un cotal saggio non possa esserne fatto quasi a fior di labbra, ed è in cielo che l' uomo se ne pasce a ribocco. Ora questa VOCAZIONE UNICA, questa PACE Cristo addomandò per noi all' eterno Padre [...OMISSIS...] . Per mezzo adunque di queste virtù dall' Apostolo annoverate, e di questa pace, che da esse stilla per così dire qual mele e come olio odoroso dilata per tutto la fragranza sua, è fatta e vien mantenuta la unione delle membra fra loro, e coll' unico spirito che le avviva. Quindi l' Apostolo segue immediatamente a descrivere questa doppia unione colle riferite parole: « Un solo corpo e un solo spirito sì come chiamati siete in una sola speranza della vostra vocazione ». Ma non si possono esercitare rettamente quegli atti di virtù fra le membra, nè si possono ordinare all' abbondanza della vita o sia all' unità dello spirito, se non si conosce in che esse membra fra di loro sono differenti, e in che si convengono. Conciossiachè è proprio delle unità formate di diverse parti, che queste parti abbiano alcune cose comuni fra di loro, e alcune cose proprie. Perciò l' Apostolo trapassa quindi a descrivere ciò che vi ha di comune in questo corpo della Chiesa, e ciò che vi ha di proprio. Quanto a quello che v' ha di comune dice così: Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra di tutti, e fra tutte le cose, e in tutti noi . Di fatti in un corpo, perchè vi sia unità e perfetta armonia, abbisognano tre cose. Primieramente, che egli abbia uno stesso capo; appresso che le membra sieno tutte al capo incorporate; infine poi che le operazioni di questo corpo non si distruggano le une coll' altre, ma anzi sieno indirizzate ad un solo fine , la perfezione del corpo stesso. Ora l' unità del capo viene espressa dall' Apostolo con dire un solo Signore . E questo nostro Signore, come spiega egli stesso nella prima a' Corinti, è GESU` - « E il solo Signor nostro Gesù Cristo » (1) è veramente il capo , come dice di sotto al vers. 15. Veniamo poi a Cristo incorporati e congiunti per l' abito della fede, che è pure unica in tutti, e questo insieme coll' abito delle altre virtù il riceviamo dentro a noi nel cristiano battesimo: pure unico; poichè da un solo istituito, da un solo avvalorato, in nome di un solo Dio conferito. Che se avessimo senza il battesimo la fede, questa, unita che fosse al proposito del battesimo, a Cristo ci incorporerebbe, per dir così, mentalmente, o, a esprimermi meglio, ci farebbe accostare e disporre alla vera incorporazione che pel battesimo si fa. Il battesimo adunque sia reale, o, ne' casi estremi, di desiderio, rigenera l' uomo, e dà a lui la vita spirituale; e di questa vita nuova Paolo diceva a' Galati: « E vivo non già io, ma vive in me Cristo; e la vita che io vivo nella carne, la vivo nella fede del figliuolo di Dio ». Adunque e la fede ed il battesimo sono di necessità per esser l' uomo raggiunto con questo capo. All' adulto la fede prima del battesimo, al bambino il battesimo prima della fede. All' adulto anche l' atto della fede, al bambino l' abito solamente. Senza l' atto della fede l' adulto non trae dal battesimo il vantaggio della salute, perchè non esercita le opere della vita. Per mezzo poi della fede ricevuta dalla grazia del battesimo si principia in noi, come dice S. Tommaso, « la vita eterna » (2), quella vita eterna, che si termina e perfeziona colla gran fruizione di Dio. Tale è la perfezione ultima del mistico corpo, di cui parliamo, tale il fine delle sue operazioni, la terza cosa che a questo corpo dona unità. Quindi Paolo la soggiunge dicendo: « Un solo Dio e padre di tutti, che è sopra tutti, e fra tutte cose, e in tutti noi ». Adombrano chiaramente queste parole la Trinità, perciocchè « essere sopra di tutti » è proprio del Padre, fontale principio delle altre due persone a cui compete stare sopra tutto; « essere fra tutte le cose » è proprio del Figliuolo, cioè della sapienza, che « tocca da un' estremità all' altra con possanza » (3); e « stare in tutti noi » dello Spirito Santo, di cui noi siamo templi (4). E dice innanzi tratto Dio , per indicarci questi fare la nostra beatitudine infinita ed unica, di conserva a cui facciamo cammino seguendo la voce che ne chiama; e appresso padre , per confortarci, avvisandoci, che colui, che acquieta i desiderŒ nostri col beato godere, è quegli stesso che ci ama con paterno affetto, e a sè ci scorge; anzi dice padre di tutti , cioè tanto di Cristo come di noi, tanto del capo come delle membra, acciocchè riconosciamo l' amore, che ci vuole mercè del nostro capo, e i doni che dobbiamo aspettare di ricevere da Cristo unigenito figliuol suo come Dio, e primogenito come uomo. Voi dovete fermarvi assai, secondo l' uopo, su questi tre vincoli della cattolica società, mostrando la infinita nobiltà che le viene dal suo principio, dallo scopo a cui tende, e dalla abbondante vita che ne consegue. Dopo avere l' Apostolo noverate le giunture, che uniscono le membra in un solo tutto, e fatto vedere come questa unità sia stretta ed intima; annovera le proprietà che distinguono i membri l' uno dall' altro. Esse sono formate dalle varietà della grazia; la quale parte, come abbiamo detto, da unico principio, da Cristo, fu il primo passo dentro a noi col Battesimo e colla Fede, e termina coll' unione di Dio in cielo. E` sempre quella stessa grazia; ma formalmente variata nella misura e materialmente anche nelle operazioni che ha per oggetto. Quindi prosegue Paolo: « Ma a ciascheduno di noi è stata data la grazia, secondo la misura della donazione di Cristo ». Mostra qui la varietà delle membra dalla diversa abbondanza di vita che ricevono dal capo. Di qui si vede come giovò di premettere quanto a tutte le membra è comune anche a mettere in chiaro come ciascun membro è diverso. L' Apostolo adunque vuole, che questo modo, onde tutti i membri sono uniti in un corpo col capo, ed onde ciascuno è distinto, ben si consideri. Poichè venendo tutto da Cristo in gratuito dono, nessuno ha ragione nè d' insuperbire se assai possede, nè di lamentare, o invidiare altrui se possede poco; e questa è grande ragione di stare umili, mansueti, pazienti, sopportatori degli altrui difetti, che sono le quattro virtù innanzi proposte. E maggiormente segue a mettere in chiaro i motivi, che le persuadono. Egli soggiunge: « secondo la donazione di Cristo ». E appresso: « Per la qual cosa dice il Salmo (1): Asceso in alto ne menò schiava la schiavitù, distribuì doni agli uomini. Ma che è quell' ascese, se non che prima anche discese alle parti infime della terra? Colui che discese è quegli stesso che ascese sopra di tutti i cieli per empiere tutte le cose ». Colle quali parole recando un testo di Davide, spiega onde traesse Cristo per noi tali doni. A voi è noto, dice l' Apostolo, come non potete essere regalati di doni spirituali se non da Dio. Cristo dunque, che ve li regalò, è Dio. Come adunque se è Dio, Davide dice che ascese? Vuol dire che prima discese, perchè Iddio altrimenti non poteva ascendere. Ma come poteva Iddio discendere? Apparentemente, o a meglio dire, quanto all' esteriore maestà, congiungendo a sè l' uomo intimamente, e così scendendo « per un poco di tempo di sotto agli angeli » (1). Di più, quest' Uomo reso insieme Dio mediante l' unione permanente del Verbo, è propriamente e realmente quegli che s' è umiliato. Competeva, alla sua natura, che per se stessa contiene un bene morale infinito perchè connessa col Verbo, infinita santità, infinita gloria; competeva, dico, non un posto sulla terra, ma nel più alto de' cieli sopra tutti gli angeli. Si può dire adunque che questo Uomo Dio nascendo in terra siasi umiliato infinitamente; ma di più, egli volle tenere quaggiù figura e aspetto presso il mondo « dell' ultimo fra gli uomini » (2). Nè contento d' essere abbassato di sotto a tutti col patibolo della croce, scese nel sepolcro, e fino a' luoghi inferiori; di dove ne cavò l' anime giuste dell' Antico Testamento dentro a quel luogo prigioniere. In questa maniera, dice Davide, secondo la lettera ebraica, « ricevette doni per gli uomini ». Da chi li ricevette? Certo da quello, che è Dio e padre di tutti, e di lui primieramente è Dio come Uomo, e Padre come Dio. Ma Paolo invece di riportare la lettera ebraica tradusse « ha dati doni agli uomini », come hanno varie versioni. E conveniva però meglio all' Apostolo così riferire quel passo notissimo; chè il senso non viene cangiato, ma spiegato all' uopo; mostrando in un solo tratto e la profezia e lo avveramento di quella. Chè di fatti al tempo di Paolo avea già il Verbo distribuiti questi doni ricevuti per gli uomini. Ma come mai bisogno aveva il Verbo di ricevere doni? Avea bisogno: non per sè, che come Dio aveva tutto dal Padre per necessità di natura, e come uomo per necessità di merito o sia di perfezione di volontà mediante l' unione; se pure fra questi doni non si conti l' unione medesima. La necessità di ricevere doni o grazie era per gli uomini, che niente meritavano; e ciò vuol dire di ricevere facoltà di distribuire i doni. Ma come non aveva egli tale facoltà? Egli sarebbe stato contro la giustizia divina il felicitare quell' uomo, che meritava infelicità sempiterna. Era l' uomo inimico di Dio, schiavo del demonio; come dunque regalarlo? Che fece pertanto il Verbo? « Ascese in alto », risponde il Profeta, « menò schiava la schiavitù ». Ci narra il suo trionfo, a detta di Paolo, per farci intendere la sua battaglia. Perciocchè l' Apostolo così argomentò: « Che è quell' ascese, se non che prima discese nelle parti più infime della terra? » Coll' umiliazione adunque Cristo guadagnò il trionfo per se stesso, cioè l' ascensione sopra tutti i cieli, e menò seco schiava la captività. Dove notate, che non dice i captivi , ma la captività; indicando in questo modo, che ancor più fece di quello che abbisognava, e più conquistò di che fosse necessario conquistare in terra. Chè aver menata seco la captività captiva viene a dire, che non solo non vi ha oggimai più alcuno prigione che non possa liberarsi, ma che nè pure vi potrebbe essere. Così quella parola captività indica un valore ed una conquista infinita; poichè per quanti fossero peccati e delitti, poniamo numero infinito, ancora nessun uomo potrebbe di necessità esser prigione, mentre fino la possibilità d' una necessaria prigionia, la prigionia stessa condusse via dal mondo. Ma considerate insieme altra conseguenza che qui se n' esce, cioè che se anche gli uomini tutti si dannassero, ancora Cristo avrebbe menata schiava la captività , vale a dire, avrebbe fatta quell' opera infinita. Poichè dice la captività , non i captivi . Cattività vale lo stesso che esser gli uomini nelle mani del demonio, in modo che non solo alcuno non uscisse, ma nè pure uscirne potesse. Per il che in quello stato di cose non potea Cristo distribuir doni. Cristo poi fece, che tutti si potessero salvare. L' opera dunque di Cristo è infinita, e la salvazione degli uomini particolari è altra opera, che non tocca la infinità di quella prima, e rispetto a quella è come un accidente. Condotta dunque schiava la schiavitù , cioè data all' uomo coll' amicizia dalla parte d' Iddio la possibilità di salvarsi; possiede Cristo la facoltà di distribuire i doni suoi, cioè la salute stessa, in varia abbondanza. Francato dunque da questa schiavitù infernale, da questa necessaria dannazione, per un tratto d' infinito amor gratuito di Cristo, e pel trionfo di lui sopra l' inferno venuto in sua mano il cuore dell' uomo; nel solo arbitrio di Cristo ora è riposto di eleggere uomini a salvamento. Può Cristo distribuire tali doni a sua volontà, avendo fatto per avere questa facoltà quello che fece. E` però certo che egli ne distribuisce in copia secondo il pietoso eterno decreto di suo Padre. Anzi l' Apostolo dice francamente: « Diede doni agli uomini ». O Efesini, voi stessi il vedete continuamente; là dove Davidde nel tempo primo non volle dire di più se non che « ha ricevuto dei doni per gli uomini », o sia il potere di compartirne. Ne compartisce adunque, e ne compartisce secondo la grandezza del suo amor per gli uomini, secondo la bontà e tenerezza del suo cuore. Onde chi potrà diffidare di lui, se ama salvarsi? Peraltro considerate che questi sempre sono doni , cioè non cose dovute; e in primo luogo questi doni sono appunto i meriti. Per questa maniera « empiuto ha egli tutte le cose ». Dagli altissimi cieli fino alle parti più infime della terra ha riempiuto tutto della sua gloria; e ciò quanto al suo trionfo. Quanto poi alla salute umana, si può dire a ragione, che « la terra era inane e vota » (1), ed egli la illuminò, ordinò, abbellì, riempì di se stesso. Trionfò in somma conducendosi seco schiava la schiavitù; e salvò gli uomini distribuendo loro i suoi doni. Questi doni tutti sostanzialmente consistono nell' unica grazia, di cui parla Paolo. Chi n' ha più, chi n' ha meno secondo la misura della donazione di Cristo . Ma oltre distinguersi nella Chiesa cotesti gradi di grazia, che più tosto sono a Dio conosciuti che agli uomini, si distinguono ancora varii uffizi e dignità, a cui questi gradi sono ordinati. Doppiamente poi si ordina la grazia all' uffizio e dignità esteriore, che ciascuno tiene nella Chiesa, vale a dire, o dando ad ogni cristiano la possibilità di occupare acconciamente il suo posto, o largheggiando a lui non solo la possibilità di ciò fare, ma il fare stesso. Quella prima maniera di grazia, che sufficiente si può appellare, Cristo a tutti la dona; perciocchè, come l' Apostolo in altro luogo afferma, « Iddio dà colla tentazione il profitto a poterla sostenere » (2). Ma il fatto stesso dell' opera è tal grazia, che non a tutti è conceduta. Perciò Paolo a' Corinti (3) accenna « diversità di doni, diversità di ministeri, e diversità di operazioni ». Pei doni s' intendono le abilità a trattare bene il proprio ministero; per ministeri gl' incarichi a ciascuno affidati; e per operazioni il buon uso di quei doni, ordinato, mercè l' amore d' Iddio, al giusto eseguimento dei ministeri. Sola quest' ultima grazia, che diremo efficace , giova a santificar se medesimi; l' altre più tosto sono date all' altrui santificazione, e all' adornamento della Chiesa. Come poi per queste diverse misure di efficace grazia l' uomo fassi più o meno grato a Dio, viene composta in tal modo una mirabile ma invisibile gerarchia nella Chiesa, che nella sua miglior parte sta in cielo: così per quelle diverse abilità ed uffizi, che rendono rispettabile l' uomo agli uomini, si crea una gerarchia bellissima e visibile quaggiù in terra. Ora di cotesta visibile gerarchia, Paolo tocca i principali gradi dicendo: « Ed egli stesso altri diede apostoli, altri profeti, altri evangelisti, altri pastori e dottori ». A cui li diede? Agli uomini diede questi doni; e così parlando, mostra quello che testè osservavamo, essere tali ministeri non doni a chi li possiede, ma doni agli altri: vantaggiosi a coloro che da questi traggono la salute. Ora di tai ministeri andando sull' orma dell' Apostolo, si conviene considerare nella Chiesa in terra due ordini di dignità, una passeggiera e l' altra permanente. Quanto all' ordine passeggiero, novera S. Paolo i tre gradi di Apostoli, Profeti e Evangelisti. Tolte queste parole secondo le origini significano mandati, nunziatori del futuro, e nunziatori di buona novella . Ma parlando di una dignità della Chiesa s' intendono i mandati di Dio. [...OMISSIS...] Nella parola mandato poi non si dichiara nè limita autorità: quindi s' intendono sovente con questa voce i mandati per eccellenza, quelli che hanno ricevuta autorità maggiore: fra questi il primo è Cristo. Egli è chiamato nella Scrittura: « colui che dee esser mandato » (1). Nell' Antico Testamento fur mandati a dar la legge gli Angeli, Mosè ed Aronne. Paolo nella sublime lettera agli Ebrei dimostra peculiarmente che Cristo è superiore a que' tre ministri dell' Antico Testamento. Quanto a Mosè ed Aronne (poichè gli angeli non appartengono alla Chiesa che milita in terra), tutti e due erano mandati: « E mandai Mosè ed Aronne » (2). Ma come erano quelli mandati? Questa grande missione od apostolato racchiude tre uffici o dignità, cioè la dignità sacerdotale, la legislativa e la pastorale. Erano sacerdoti, onde nel Salmo XCVIII si dice: « Mosè ed Aronne suoi sacerdoti » (3). E quando Paolo scrivendo agli Ebrei, chiama Cristo « Apostolo e Pontefice della nostra confessione » (4), paragona bensì col titolo di Apostolo Cristo a Mosè, e col titolo di Pontefice ad Aronne, ma ciò è fatto prendendo il nome di Apostolo non in quel senso comune nel quale si dice tale anche Aronne, come vedemmo, ma in un senso di maggior dignità ed eccellenza. Poichè certo è che nel titolo di Apostolo dato a Mosè si comprendeva anche quello di Pontefice: distingue poi a chiarezza maggiore, e per torre ogni dubbio in sulla trascendente dignità di Cristo. Perciocchè recati in mezzo i tre ministri dell' antica legge, cioè gli Angeli, poi Mosè Apostolo, finalmente Aronne Pontefice: primo lo dimostra superiore senza confronto agli Angeli; e sebbene gli Angeli sieno superiori a Mosè, tuttavia lo vuole anche mostrare a Mosè superiore. Segue per ugual ragione a mostrarlo in ultimo anche superiore ad Aronne, sebbene Aronne sia minore di Mosè. Di fatti dice di Mosè, che « era servo fedele in tutta la casa di Dio », dipingendolo il maggiordomo o il fattore in tutta la casa con quel testimonio grandissimo tratto da' « Numeri » (1). In quest' aspetto generale considera adunque Mosè. Laonde quando appresso paragona Cristo ad Aronne, non fa altro che considerare Cristo superiore a lui nel peculiar incarico di Pontefice. Quello poi che Paolo aggiunge « della nostra confessione », a detta di S. Tommaso d' Aquino (2), si può intendere per quel primo sacrifizio spirituale , di cui sopra parlammo. Di fatti Cristo offerse non cose fuori di sè, ma se stesso. Essendo poi solo egli di interminato valore, solo era sacrifizio degno di Dio; là dove non così quello di qualunque altro uomo. Quindi egli abolì il sacerdozio di Aronne: egli sacerdote veramente unico, e sacerdote « in eterno secondo l' ordine di Melchisedecco » (3). Mosè oltre di ciò aveva nelle sua missione e apostolato l' uffizio di Profeta o interprete rispetto a Dio, e di legislatore o luogotenente di Dio rispetto agli uomini, là dove Aronne era solo profeta rispetto a Mosè, e luogotenente di Mosè rispetto agli uomini. Però Iddio, così dice a Mosè nell' « Esodo » (4): [...OMISSIS...] . Ma di Mosè propriamente era la portentosa verga, colla quale fra' miracoli guidava il popolo, altro suo gregge. Ell' era quella stessa verga, di cui qual pastore di vere pecore soleva far uso, e Aronne l' adoperava come ministro suo: mentre a lui solo aveva Iddio comandato di pigliarla in mano (7) per adempire gli ordini suoi. E s' ella dicesi verga d' Iddio sovente nelle « Scritture », è perchè sì Mosè che Aronne altro non erano finalmente che garzoni d' altro pastor maggiore padron della greggia, al quale Davide rivolgeva il discorso dicendo: « Guidasti il tuo popolo come un branco di pecore per le mani di Mosè e di Aronne » (1). E questo egli è pur Cristo che di sè disse: « Io sono il buon Pastore » (2): pastore veramente buono, che fra' pericoli di questa vita ci conduce nella promessa terra del cielo colla verga della grazia, che solo per la sua potenza è detta di ferro ne' « Salmi » (3). Nell' apostolato di Mosè adunque v' avevan i tre uffizi di Sacerdote dei Sacerdoti , di Legislatore e di Pastore . Lo stesso è in Cristo, ma in grado eminente, e in fonte, da cui tali doni agli uomini si derivano. Come Pontefice fu predetto da Mosè colla storia misteriosa di Melchisedecco spiegata divinamente da Paolo nel cap. VII della « Lettera agli Ebrei ». Come Legislatore nel cap. XVII del « Deuteronomio », [...OMISSIS...] . Come Pastore finalmente nei « Numeri » (4): [...OMISSIS...] . Preghiera, che Iddio esaudì per allora col dare Giosuè a capo del popolo, sì nel nome che nell' uffizio bella figura di Cristo. Così ancora quando il Signore mandò Mosè, questi non si acquetava, sebbene udisse: « Io sarò nella tua bocca, e ti insegnerò quello che dovrai dire » (5). Poichè ardendo di desiderio dell' altro Apostolo maggiore di lui, verso il quale egli si conosceva un nulla, importunò Iddio, e disse ancora: « Ti scongiuro: Signore, manda colui che sei per mandare ». Nel qual titolo di mandato , o Apostolo per eccellenza, racchiuse qui Mosè tutti i pregi e gli uffizi di Cristo. Ecco dunque quale è e come eccellente l' Apostolato di Cristo. Ora Cristo, trascelti dodici de' suoi discepoli, comunicò loro sì grande titolo di Apostolo. Dopo risorto poi disse: « Come mandò me il padre, anch' io mando voi » (6). L' Apostolato adunque dei dodici Apostoli è tutto simile a quello di Cristo, è partecipazione di esso, e partecipazione a cui Cristo non pose limiti. Oltre poi a questa generale missione, per cui gli Apostoli divennero luogotenenti di Cristo presso gli uomini, diede loro in particolare i tre uffizi o dignità di sopra annoverate. Primieramente li fece Sacerdoti, cioè partecipi dell' unico suo sacerdozio, conferendo loro la potestà di consecrare il pane ed il vino, obblazione monda, accettevole, degna d' Iddio, infinita: e glielo comandò nell' ultima cena (1): quando avendo per la virtù di sue parole nel proprio corpo e sangue convertito il pane ed il vino, e fra loro diviso, disse quelle memorabili parole: « Fate questo in mia commemorazione ». E poichè non era tale obblazione meramente legale e priva di un suo vigore, ma anzi d' infinita efficacia; per questo a' mandati suoi aggiunse l' altra facoltà divina ignota agli Apostoli dell' antico tempo, [...OMISSIS...] . Ma singolarmente a Pietro commendò tutto il gregge. Poichè a questo, iterata tre volte quella tenera inchiesta: « Se egli lo amava », anche tre volte quasi a premio della sua sincera risposta dissegli, che pascesse il suo gregge: le due prime colle parole: « Pasci i miei agnelli », e la terza (imperciocchè Pietro la terza volta gli si dimostrò ancora più caldo amatore) con quelle: « Pasci le mie pecore »; indicando con ciò che non solo pascer dovea gli agnelli figli alle pecore, cioè la plebe fedele, ma gli altri pastori altresì, che rispetto a Cristo e qui a Pietro ben s' appellano pecore. Dalle quali cose tutte s' intende come Cristo desse agli Apostoli del Nuovo Testamento la maggiore dignità possibile e senza limiti: imperciocchè Cristo non ne pose alcuno, e come nel ministerio così nella gloria simiglianti li descrisse a se medesimo (7). Bensì gli Apostoli stessi, i quali aveano da Cristo la facoltà di mandare, come Cristo l' aveva dal padre suo, perchè spediti al modo di Cristo, posero limiti a' loro successori. I successori degli Apostoli non furono già messi amministratori in tutta la casa di Dio quale fu Cristo come figliuolo, Mosè come servo nell' Antico Testamento, e gli Apostoli nel Nuovo come amici, anzi tenenti le veci e rappresentanti la persona del Figliuolo. Ebbero i successori degli Apostoli una limitazione, avendo essi il solo carico di reggere e ampliare la Chiesa sull' apostolico fondamento, non quello di fondarla, che Cristo avea dato agli Apostoli (1). Or quegli, a cui è commessa totalmente la fabbrica d' una casa, ne forma il disegno come a lui ne sembra, ed è posta nell' arbitrio suo tutta la disposizione dell' edifizio; all' incontro gli altri cooperatori debbono lavorare sul disegno fatto a principio dall' architetto, e debbono accomodarsi tutti alle incombenze particolari loro imposte. Agli Apostoli commesso era di fabbricare tutta la casa della Chiesa novella, avute a ciò le istruzioni da Cristo: in loro perciò era piena l' autorità, e secondo la sapienza che li reggeva disposero fino a principio tutto il disegno; a' successori all' incontro convenne di lavorare in sulle traccie lasciate dagli Apostoli, ed esercitare ciascuno quel peculiare incarico a loro sortito, a cui di muratori, a cui di manovali, a cui d' altro. Vero è che l' unico sapiente architetto fu Cristo (2). Ma come Mosè fece ogni cosa secondo l' esemplare veduto sul monte (3), così gli Apostoli, come dicevamo, facevano tutto secondo quello che avevano veduto in Cristo, e che lo spirito di lui veniva loro suggerendo; nè operavano a capriccio, ma seguendo Cristo fino a morte, come a Pietro era stato prenunziato (4). Gli Apostoli adunque erano limitati, se così dir si potesse, da sola quella sapienza, che in essi albergava. Ma non è questo accurato parlare. Poichè la sapienza che non ha limiti non limita, là dove l' ignoranza che per sè è nulla, ristringe e impicciolisce l' umana volontà. Somma è dunque l' apostolica dignità. L' Apostolo per eccellenza è Cristo, e i dodici per la partecipazione dell' apostolato di Cristo; Mosè e gli altri messi dell' Antico Testamento più tosto rappresentavano questo apostolato, che non sia ne partecipassero, come l' esterna Chiesa loro affidata era, più che la Chiesa stessa, figura della gran Chiesa, benchè lo spirito interno e l' essenza fosse una medesima. Quanto alla dignità di Profeta dicemmo già secondo la greca origine significare predicitore , là dove Evangelista annunziatore di buona novella. Apparisce in ciò, che come quell' uffizio conveniva all' Antico Testamento, quando ancora il mondo non avea la salute, così questo al Nuovo si avviene, in cui è predicato il sanatore dell' umana infermezza, e l' inventore della perduta felicità. E quando nell' Antico Testamento d' un Profeta si legge che evangelizza, si scorga la similitudine cogli Evangelisti del Nuovo. Prima della venuta di Cristo era diviso il mondo fra i Gentili e gli Ebrei. Nelle tenebre, in cui giacevano le genti inquiete, angosciose, infelici, senza Dio in questo mondo , andavano esse in cerca nell' avvenire di un qualche conforto: chè alcuno nel presente non ne vedevano. Così l' uomo, che non può co' beni presenti appagarsi, è sospinto dal desiderio alla speranza e alla espettazion del futuro. Qual maraviglia, considerando questo fatto, se si veggono i gentili così proclivi a dare orecchio agl' indovini di mille maniere, agli oracoli, e a tutta la loro superstizione, che chi ben a dentro la mira, su questa speranza in gran parte si erigeva? Era per tal modo il Messia l' espettazione non solo di que' Santi, che sparsi per le nazioni e istruiti da Dio con peculiar cura sapevano di lui; non solo di quei sapienti, che meditando sopra se stessi ritraevano per ultimo frutto di loro speculazioni la ignoranza umana, e la miseria, e la necessità palmare d' un inviato dal cielo; ma ben anco l' espettazione era delle nazioni in generale, che sordamente angosciate dall' infinito bisogno che l' umana natura v“ta di beni sentiva, senza conoscerlo il desideravano, l' aspettavano. Questa io credo principale origine de' falsi profeti presso agli uomini fuori d' Israello, i quali prima di Cristo sempre avidissimi e frenetici di scoprire il futuro si dimostrarono. Ma presso gli Ebrei la profezía non fu finzione, ma verità, e d' origine divina. Colla segregazione di questo popolo dall' altre nazioni idolatre Iddio radunò la sua Chiesa in un corpo visibile, mentre avanti ell' era dispersa e disgregata pel mondo, e forma non aveva ad occhi umani di peculiar società. Dalla chiamata di questo popolo doppio vantaggio ne scaturì. Si provvide alla dignità del Messia, e alle prove della sua verità, col sequestrare dall' altre quella generazione di cui voleva discendere. Appresso si provvide alla salute del mondo, stabilendo e apparecchiando con divina sapienza un popolo, che dovesse ricevere questo Messia, e con tutto rigore e scrupolo conservar le prove della verità sua, e mostrarle al mondo tutto. In qual maniera adunque preparossi Iddio questo popolo? « Tutte queste cose », dice Paolo, « avvenivano a lui in figura » (1). Aveva anche questo popolo, perchè porzione egli pure di massa corrotta, e quindi del presente scontentissimo, quella curiosità somma delle future cose, per cui alle pagane superstizioni ognora inchinava. Era tale propensione e amor del futuro d' una parte a lui nocevole, perchè facile il rendeva a venire ingannato. Per l' altra gli fu vantaggiosa: poichè vegliando Iddio alla sua custodia, sempre lo sceverò da' Gentili; e quantunque volte peccasse, con acri gastighi ammonendolo, il facea risentire dell' inganno in cui si trovava. La divina sapienza oltre ciò gli mandò dei veri profeti; e così a bene rivolse quella inclinazione medesima, che da lei era non senza sì grande fine predisposta. Oltre di ciò salvandosi ogni uomo per Cristo, il solo nome in terra, sotto cui si fosse posta una speranza di salvamento; qualunque cosa Iddio facesse manifestare a vantaggio dell' uomo, dovea riguardare il Cristo, dovea essere Profezìa. Per questo Paolo: « Tutte le cose a questo popolo accadevano in figura ». E qualunque uomo ottenesse grazia di qualche divina illustrazione ad insegnamento del popolo fu chiamato presso gli Ebrei ora veggente, ed ora profeta (2). Ma fra gli uomini inspirati dell' Antico Testamento, o vero fra i profeti, si possono discernere quelli che danno una dottrina, e quelli che fanno profezie, o spiegano la dottrina, ma non la danno. La dottrina, o sia la Legge nell' antico patto fu data dal solo Mosè come profeta e bocca del Verbo. Nel nuovo, dal Verbo stesso incarnato come Profeta e Sapienza d' Iddio. Mosè avea comandato di non aggiungere nè torre nulla alla legge sua (3). Il perchè nel « Deuteronomio » dà agli Ebrei per indizio di riconoscere il falso profeta del secondo genere: se egli detrarrà alla legge, e così li rimoverà dal loro Iddio (1). Ma quando nel capo XVIII di questo libro stesso prenunzia il grande Profeta simile a lui, e dice espresso: « Lui ascolterai »; allora non dà più agli Ebrei per indizio di riconoscere l' ingannatore il rimuoverli dalle cerimonie legali, l' aggiungere o il detrarre dalla sua legge, il torgli da Dio; ma solo la verificazione delle profezie, di cui egli stesso è autore (2). Cristo era adunque il gran Profeta e Legislatore simile a Mosè, ma da Mosè tanto distinto quanto Dio è dall' uomo. In questo Profeta riposavano e terminavano tutti i doni del Santo Spirito, al dire d' Isaia (3), come i fiumi s' allettano e riposano nel mare onde escono. Cristo dunque sommo de' profeti, Profeta per eccellenza, quegli da cui gli altri profeti furono ispirati; scopo e termine fisso alle loro predizioni; Cristo solo forma la prova della loro verità, perchè in Cristo si videro verificate. Per opposito essi formano la prova della verità di Cristo, non solo perchè ciò che è detto da profeta, cui l' avvenimento confermi le sue profezie, vuole esser vero; ma ancora perchè avendo Cristo profetato pel loro ministerio, la verificazione delle loro profezie prova lucidamente la dote di vero e sommo Profeta in Cristo. Che poi Cristo abbia per mezzo de' profeti parlato, da tutto ciò si argomenta, da cui si fa chiara la sua divinità. Ma veggiamo qual differenza v' abbia tra le dignità di Profeta e di Apostolo. Se Mosè si può dire, secondo il concetto di S. Paolo, l' Apostolo dell' antico patto, ecco come Dio lo distingueva dagli altri profeti (4): « Se saravvi tra voi un profeta del Signore » (sono parole rivolte ad Aronne e Maria, che si ergevano per invidia contro a Mosè), « io gli apparirò in visione, o gli apparirò in sogno. Ma non così al mio servo Mosè, il quale in tutta la mia casa è fedelissimo. Perciocchè io a lui parlo bocca a bocca ». Questa espressione, che sembra significare: con tutta chiarezza, mostra assai acconciamente la viva somiglianza resa da Mosè cogli Apostoli del Testamento nuovo, che dalla propria bocca di Gesù udirono le dottrine. « Ed egli chiaramente e non sotto enimmi o figure vede il Signore ». E nel « Deuteronomio » (5) si rende a Mosè simile encomio. Sembra dunque che l' Apostolato di cui parliamo in questo consista, nell' avere dalla stessa bocca di Dio l' istruzione e l' inviamento. Consonano a ciò le parole, che Cristo ai dodici rivolgeva: « A voi è dato d' intendere il mistero del regno d' Iddio: ma per quelli che sono fuori, tutto si fa per via di parabole » (1). Paolo nella « Epistola a' Galati » volendo dimostrar se stesso Apostolo egualmente ai dodici (2), comincia dicendo, non essere egli « stato eletto » a tal dignità « dagli uomini nè per mezzo d' uomo, ma da Gesù Cristo e da Dio Padre, che risuscitò Gesù Cristo da morte ». E appresso segue: « Or vi fo sapere, o fratelli, come il Vangelo che è stato evangelizzato da me non è cosa umana. Perciocchè non hollo io ricevuto, nè l' ho imparato da uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo »: e ancora conferma il medesimo mostrando, che appena chiamato quale Apostolo delle genti non andossi già egli in Gerusalemme dagli Apostoli a impararlo; ma tostamente in Arabia, indi si tornò a Damasco, e solo trascorsi tre anni fu a Gerusalemme dagli Apostoli a visitar Pietro, col quale rimase quindici giorni, e, fuori di Giacomo, nessuno altro degli Apostoli avea veduto, oltre a Pietro. Di poi si condusse ne' paesi della Siria e della Cilicia, e, quattordici anni passati, fu di nuovo a Gerusalemme per rivelazione a confrontare col collegio apostolico il Vangelo fra le nazioni predicato, non già al fine di verificarlo, ma di autorizzarlo presso gli uditori suoi pel mirabile consenso con quello degli altri (3). Or poi sebbene la profezia, come è detto, propria cosa fosse dell' Antico Testamento; non di meno tal dono apparve anche nel Nuovo. Ciò avviene a edificazione; e non è più però alla Chiesa così sustanziale come era prima di Cristo. Il perchè appresso S. Matteo si legge: « Tutti i profeti e la legge profetarono sino a Giovanni » (4). Onde quando Cristo disse: « Ecco, che io mando a voi profeti e sapienti e scribi » (5), s' intende esser detto alla maniera degli Ebrei, i quali per profeti toglievano qualunque veggente, e per la natura dell' antico patto aveano ragione. Ora Cristo mandò loro gli Apostoli, che erano profeti per eminenza, come Mosè tra' profeti del Testamento Antico; ed occupavano però il posto degli antichi profeti con assai vantaggio. Il perchè Cristo mandò loro non solo profeti, ma più che profeti. Questi ancora della futura gloria e dell' avvenire della Chiesa profetavano, come avevano udito da Cristo, e come lo spirito loro suggeriva. Venne ancora nel Nuovo Testamento un nuovo genere di profezie, cioè lo spirito d' interpretare i profeti antichi. [...OMISSIS...] Quello Spirito Santo adunque che nel patto antico facea predire le cose del Messia, nel nuovo le fa interpretare; e tanto quegli uomini antichi, del cui mezzo si servì, come questi, di cui si serve, non malamente mi pajono chiamati profeti, perchè sì gli uni sì gli altri colle profezie confermano Cristo; i primi proferendole, e dilucidandole i secondi. Ma l' incarico maggiore di questi profeti mandati da Cristo è d' annunziare al mondo quella buona novella, che una volta solo si profetava. Come adunque gli Apostoli occupano, ma con dignità maggiore, il luogo di Mosè; così gli Evangelisti tengono il luogo de' profeti, e profeti si possono chiamare, non differendo nell' oggetto di cui favellano, ma solo nel tempo: mentre annunziano questi venuto colui, che quelli futuro prenunziavano. Sostanzialmente sono persone dallo stesso spirito inviate a ben degli uomini. Che poi non sia delle predizioni sustanzial bisogno nella Chiesa, da questo s' intende, che essendo Cristo il fonte della verità, e la pietra di paragone, a cui di ogni vero si fa il saggio; già non dobbiamo, a provare gl' insegnamenti che dati ci vengono, al futuro ricorrere, ma solo all' esemplare passato appareggiarli. [...OMISSIS...] E per la ragione medesima noi veggiamo in Isaia (3) Iddio argomentare co' Gentili, mostrando loro, come gli Dei non sanno rispondere a loro inchieste, non possono coi predicimenti aprire le grandi mire della provvidenza ne' successi delle nazioni, e profetando un Cristo, a cui que' successi si riferiscono, giustificarla; nè avendo essi Gentili nè i loro Dei cosa alcuna ad opporre con verità in questa disputa, così soggiunge: [...OMISSIS...] . Dice adunque, senza profeti esser le genti, e però vivere tristi senza speranza del futuro, senza Dio in questo mondo. Alla fine promette, che non da' loro Iddii avranno questi profeti sì bisognevoli all' uomo nella condizione di quel tempo, ma che egli sarà il primo , il quale colla possanza sua faralle partecipi di Sionne. Pur non dice loro di dare oggimai un Profeta , bensì un Evangelista: che veniva a dire non dovere esser le genti chiamate a lui nel tempo del predicimento, ma dell' annunzio della buona novella. Dice bensì che tale Evangelista darallo a Gerusalemme; ma prima dice che a Gerusalemme si rivolteranno le genti, anzi si ridurranno intorno tutte a Sionne, monte sopra il quale è « costituito Re Gesù Cristo », come è scritto ne' Salmi, « a predicare il precetto di Dio » (1). Tengono adunque nel nuovo patto gli Evangelisti quel luogo, che i Profeti nell' antico; ma hanno uffizio e più lieto e più splendido. Quest' Evangelista poi, di cui per eccellenza Isaia parla, egli è il Cristo, che insieme è buona novella, e apportatore di lei. Egli è quegli, in bocca di cui disse appresso lo stesso Profeta: « Il Signore mi ha mandato ad evangelizzare a' poveri » (2), passo, cui leggendo Cristo nella Sinagoga di Nazarette, adattò a se medesimo (3). Egli è quegli, di cui in un capitolo antecedente avea detto lo stesso Profeta: [...OMISSIS...] . Dall' altezza dunque di Sion Cristo evangelizza Sionne e Gerusalemme, e mostrando se stesso alle città di Giuda, dice altamente: « Ecco il Dio vostro », nel che la grande e fortunata novella consiste. E l' annunzia con alta e sonante voce, acciocchè possa essere anco lontano inteso, cioè da' Gentili, detti « lontani » da Paolo (5), che nelle città di Giuda sembrano raffigurati, le quali, benchè fuori della città santa, pur l' adito hanno e la vicinanza ad essa per l' unità dello stipite suo che le rende tutte una tribù. Non solo poi fa bisogno che forte e sonante tragga la voce, ma la tragga « nella sua fortezza », cioè da grazia accompagnata; fortezza a' profeti non data mai, perchè non avevano essi schiava condotta la schiavitù degli uomini, e ricevuti dei doni da compartire; ma propria di Cristo, e da lui mandata dietro alla voce di quelli, a cui partecipò l' incarico di evangelizzare. Questa voce simigliante alle trombe che annunziano dopo di sè il venir d' un esercito numeroso, si dice in un Salmo sublime: « Il Signore darà la parola e il comando: evangelizzeranno un esercito numeroso » (1). Evangelisti ancora si chiamano in senso più stretto quei quattro santi uomini destinati a scrivere l' Evangelo, e alcuni altri che in sul principio della Chiesa avevano grande spirito e dono di miracoli, ed erano dagli Apostoli eletti ad evangelizzare con ampia podestà secondo che lo spirito suggeriva; a ragion d' esempio il diacono Filippo, che negli « Atti apostolici » è pure chiamato col nome di Evangelista (2). La ragione, per cui S. Paolo a' Corinti (3) mette gli Apostoli ed i Profeti, e lascia d' annoverare gli Evangelisti, può essere perchè, come dicemmo, gli Evangelisti non erano altro che un supplemento agli Apostoli, che non poteano esser per tutto; a cui provvedere furono eletti anche i diaconi, e però dicendo Apostoli hassi a intendere, co' loro compagni , come sarebbero stati Silla e Barnaba compagni a Paolo. Di fatti proprio era de' Profeti, come spiega Paolo, edificare la Chiesa già credente; là dove era proprio degli Apostoli ed Evangelisti chiamare alla fede, e fondare così la Chiesa (4). Quando Cristo adunque dice agli Ebrei che loro manderà dei Profeti, invece di dire che manderà degli Evangelisti, a loro parla assai dolcemente sì come a suo popolo, e mostra che egli non vuole fondare fra essi Chiesa nuova, nè introdurre nuova religione; ma solo compiere e perfezionare l' antica. Spiegati questi ampi e generali uffizi della Chiesa nascente; ora è a dire di quelli, che essendo istituiti a conservarla e fregiarla vie più di pio decoro, permangono sino alla fine. Questi non sono da Paolo specificati, ma solo tocchi colle parole di pastori e dottori , che esprimono in genere tutto l' ecclesiastico durevole ministero. Per dirne alcun poco è a sapere, come anco l' antico Israele ebbe due tempi o quasi epoche come ebbe il nuovo. Conciossiachè lasciando età più rimota e cominciando da Mosè, d' onde il popolo ebraico ritrae forma di regolata e compiuta società; troviamo, che da quel legislatore e profeta principale fino ad Esdra, cioè pel corso d' anni mille, mandò Iddio i profeti suoi, i quali con istraordinaria missione, colle profezie, e coll' inculcamento della legge reggessero l' Ebraica Chiesa; trapassato il qual tempo, furono solo reggitori ordinari e permanenti. Così nella Chiesa a principio v' ebbero gli Apostoli , i Profeti , e gli Evangelisti; e appresso, cessate queste dignità, rimasero i pastori e dottori . La ragione perchè nell' antica Chiesa fu sì lungo il tempo della missione straordinaria, e sì breve nella nuova, è molteplice. Primieramente essendo oggetto unico dell' istruzione del mondo in tutti i tempi Cristo, questo oggetto allora era futuro, come ora è passato. Non poteva essere dunque senza straordinario dono, che nell' antico tempo di questo oggetto si favellasse, fino che da straordinari mandati non fosse stato predetto tutto ciò, che esser predetto dovea. Ma queste cose a predirsi del Messia ed erano molte, e voleva la dignità di lui che da lunga serie di uomini ispirati fosse descritto; come anche ciò richiedeva la necessità che Cristo avesse prove di molte guise, replicate, evidenti; ciò che dimandava anche il bisogno dell' umana imbecillità, essendo a questa acconcia l' istruzione gradata, e lenta, e quasi a sorsi, sì come di oggetto arduo e spirituale. All' incontro nel Nuovo Testamento Cristo non più si profetizza, ma si narra: e se v' ebbe bisogno a principio di straordinari commissari per fondare la Chiesa tutta spirituale, com' ella è, di GESU` fra uomini che avevano lo spirito affisso alla carne, e quasi da essa assorbito, di straordinario potere appresso non fu bisogno per reggerla. L' essere stata poi fondata con sì rapido e maraviglioso eseguimento, sì come piacque alla virtù divina, per una parte domandò uomini fuori dell' usato sì per autorità e potere, che per doni di spirito, dall' altra abbreviò il tempo di sì fatto bisogno. Ed a quel modo che la lunga missione de' Profeti confirmava meglio la religione, così la religione e la potenza del capo suo meglio appariva quant' era più breve la mission degli Apostoli. Ma aggiugnete ragione di maggior peso. Nell' antico Israello si può dire messo straordinario qualunque uomo, a cui avesse Iddio data podestà soprannaturale; non così nel nuovo. Poichè nel nuovo anche l' ordinaria dignità di soprannatural potere è fornita. Sono ordinari ministri quelli che o con ordine stabilito e continuo si succedono e permangono sinchè dura la Chiesa, o sieno questi messi da Dio, o dalla Chiesa stessa istituiti. De' primi nell' antico Israello erano i Sacerdoti, de' secondi i sapienti e gli scribi che da Esdra cominciarono. Ma nè i sapienti, nè gli scribi faceano nulla sopra natura, nè i Sacerdoti atto facevano, a cui effetto soprannaturale conseguitasse: il perchè i Sacerdoti nostri sopra quelli sommamente s' innalzano per la consecrazione del pane e del vino, e per gli effetti di questo divino sacrifizio, che vengono disponendo a' fedeli con divino potere. Questione è degli eruditi diffinire il tempo a cui si debbano richiamare i Sapienti e gli Scribi . Quanto agli Scribi (non de' profani , ma di quelli che sacri o ecclesiastici si nomano), forse derivano da Mosè stesso nella prima loro origine, come vogliono alcuni (1), e da Esdra furono solo ristorati: e forse diffinirne il tempo dipende dall' idea più o meno larga, che di essi altri si forma. Noi di quelli parliamo, che nella sacra Storia dopo Esdra compariscono. Certo questo uomo illustre dagli Ebrei è detto « Principe dei Dottori della legge », e affermano i Rabbini ch' egli stabilisse in Gerusalemme scuola d' interpreti, acciocchè la legge giammai non dovesse per falsa intelligenza essere contraffatta. Tornano tali Scribi a un medesimo coi Legisperiti, e forse un po' differiscono non nella qualità dell' uffizio, ma nel grado di dignità. I Sapienti riuscivano una cosa medesima co' Farisei ambiziosi di tali titoli, che loro dava il vulgo, benchè appresso vollero piuttosto essere chiamati con più coperto titolo « discepoli de' Sapienti ». Questi molto insistevano sulle tradizioni loro, che premettevano di pregio alla Legge; là dove gli Scribi più tosto attendevano all' interpretazione di essa legge. A questo proposito veggiamo nel capo XI di S. Matteo, che i Farisei apponevano a Cristo il mangiare e 'l conversare co' pubblicani e co' peccatori: cosa disdicevole alle loro consuetudini; là dove gli Scribi gl' imputavano la bestemmia, peccato contro la legge. Erano bensì nel tempo di Cristo e gli uni e gli altri della stessa pece macchiati; rigidi con altrui, larghi con se medesimi; imponitori di importevoli pesi, mentre, come dice il Vangelo, non sollevavano essi di terra una paglia (2). L' uffizio però d' ambidue era buono. Tanto le legittime tradizioni e costumanze, come la scritta dottrina si doveano curare; dicendo Cristo, che questa conveniva serbare, e quelle non trasandare. Paolo poi nella prima a' Corinti (1) nomina una terza maniera di dottori, che sottili indagatori erano dagli Ebrei appellati, e interpretavano la Scrittura con istudiate allegorie, e sottigliezze fredde: e questo modo d' esporla è dannato da Paolo in quella a Timoteo (2) come generatore di quistioni e altercazioni infinite. Per questo Cristo non fe' parola di costoro quando disse: « Ecco io mando a voi profeti e sapienti e scribi » (3). Ma a chi poi Cristo dicea così? Appunto a' Farisei e a' Legisperiti, a que' sapienti e scribi. Ben da ciò si vede quanto questi Savi di Cristo avanzino quelli. Poichè come quegli erano mandati al popolo, e in risguardo ad esso popolo sapienti e scribi s' appellavano; così que' di Cristo fur mandati anche a' sapienti e scribi, e a rispetto di loro altresì si voleano appellare in tal modo. Il vocabolo di dottori poi fu anche appresso gli Ebrei di significato generale; con cui si nomavano tanto i sapienti, che i legisperiti o gli scribi. Quindi Paolo nella prima a' Corinti (4) accenna col solo nome di dottori l' uffizio, che nel luogo che abbiam fra mano dell' « Epistola agli Efesini » indica con due, di pastori e dottori . Con queste due parole adunque esprime ogni governamento della Chiesa: e di più ce ne mostra la natura. Poichè il reggimento ecclesiastico istituito da GESU` è così dolce, come di pastore che corregge il gregge. E` di nulla ha più cura se non ch' ei cresca e prosperi: mai non l' offende, nol castiga mai troppo aspramente: e se travia qualche pecora, e' va con gran destrezza a raggiungerla, pigliarla senza nuocerle, se la reca in ispalla, e torna così al branco. Tutt' altro è questo reggimento che quel de' re della terra, che dominano su' soggetti (5), e che governando civilmente e non spiritualmente, usano ancora la forza meccanica, non quella solo di persuasione e di amore. All' incontro l' unica arma in mano al pastore evangelico, l' unica verga è la voce: con questa apre la verità, con questa svela il falso, con questa lega e condanna. In somma i reggitori ecclesiastici non sono monarchi; sono pastori; non sono re , ma sono maestri degli uomini . Cristo poi, dice il Dottor nostro, li ha spediti « per lo perfezionamento de' Santi ». Ecco il fine di tutte le cose, la santificazion degli uomini. Qual bontà non è ella questa di Dio di avere il tutto fatto pe' suoi eletti? [...OMISSIS...] Ma se tutto ha fatto perchè gli eletti fossero santificati, a qual fine poi quest' opera stessa? Ogni santità degli eletti è di Cristo; da esso la ricevono si può dire a prestito, non a proprio. Tutto adunque tornar debbe a Cristo stesso, perchè tutto è di Cristo: e quando Paolo dice, che avemmo in dono tutte le cose, aggiunge però in Cristo; perchè nessuna cosa può darla così a noi che la tolga a sè, ma se stesso dà a noi, e così ci dà tutto, perchè tutto in sè possede. Cristo veramente è lo stesso « splendore della gloria e la figura della divina sostanza (2): è la virtù e la magnificenza di Dio » (3). Dio adunque è l' ultimo fine di tutte le cose, e tutte cose ha fatto per sè (4). [...OMISSIS...] Cristo adunque è quegli, nel quale Dio vuole essere per noi glorificato. La santità nostra dee fruttare gloria a Cristo qual capo dei fedeli, e la gloria di questo capo gloria a Dio. A Cristo poi si riferiscono quaggiù tutte le cose in due modi, come in due modi è con noi: nel suo corpo reale, cioè nella Eucarestia, e nel suo corpo mistico, cioè ne' fedeli che fanno la Chiesa. Quindi è rivolta tutta la Chiesa col reggimento suo a questi due scopi: a Cristo nel pane e nel vino, e a Cristo in se stessa. Ell' ha perciò due potestà, l' una deputata al primo di questi corpi, l' altra al secondo, la prima costituisce l' Ordine sacro , l' altra la ecclesiastica Giurisdizione . Quanto alla prima dice Paolo: « in opus ministerii », per « l' opera del mistero »; quanto al secondo, « in aedificationem corporis Christi », per « l' edificazione del corpo di Cristo ». L' una di queste potestà Cristo la conferì alla Chiesa quando pochi momenti innanzi la passione sua consecrò, e distribuì il pane, e appresso fatto il simigliante del calice aggiunse: « Fate questo in mia commemorazione » (1). L' altra podestà da Cristo fu promessa prima di sua morte (2), ma conferita agli Apostoli poscia che fu risorto, [...OMISSIS...] . E con grande ragione disse queste parole solo dopo risorto. Poichè a Cristo si debbe conformare in tutto la Chiesa. Cristo ha le primizie in tutto, in tutto la precede; il primo egli de' risorgenti: nella sua risurrezione soltanto risurse la Chiesa a eterna vita. Ei la trasse con sè del sepolcro, risurgendo, e perciò con quest' atto acquistò sopra lei ogni potere. Quindi allora solo convenìa che partecipasse agli Apostoli tal podestà sopra il suo mistico corpo, là dove la podestà sul suo corpo reale andava bene che gliela conferisse quando non era ancor morto, ma morire poteva: non essendo altra cosa la sacra cena che una immolazione del divino agnello. E poichè alla podestà del governar la Chiesa è necessario che sia congiunto divino lume, nell' atto di darla agli Apostoli soggiunse ancora: « Ricevete lo Spirito Santo » (4), e: « Io sono con voi sino alla consumazione del mondo », non muojo più, non m' è tolta più mai quella podestà, che come uomo mi ho guadagnata morendo, perciò nè pure mancherammi giammai la sposa mia, la mia Chiesa, voi miei ministri non avrete a temere nulla in governarla, perchè io v' ho dato questo potere mio indeficiente, questa mia divina autorità e virtù. Per tanto la prima di queste due podestà, che ha l' incarico del ministero , costituisce la natura del Sacerdozio. Sacerdote è quegli, « che offerisce a Dio doni e ostie » (5), e chi avesse la sola facoltà di consecrare sarebbe sacerdote perfetto. Essendo poi l' unico dono, e l' unica ostia accettevole GESU` Cristo, l' unico sacerdozio vero è il suo, tutti gli altri sacerdoti non possono essere mezzani fra Dio e gli uomini. L' altra podestà dell' edificazione del corpo mistico di Cristo è quella, che forma propriamente i Vescovi, questi fur posti « a reggere la Chiesa di Dio » (1), questi sono i pastori e i dottori , questi gli sposi della Chiesa, i compiuti esemplari di GESU` Cristo. Per questo non si può dare Vescovo senza Chiesa, come non si dà sposo senza sposa; poichè Vescovo vuol dire appunto quegli che ha Chiesa, come sposo vuol dire quegli che ha sposa. Ma se il Vescovo presiede al mistico corpo di Cristo, se il capo di questo corpo non è altri che Cristo stesso, se perciò Cristo come uomo è anch' egli membro di questo corpo, quel membro nobilissimo, che agli altri membri dà l' unione in un corpo e la vita: chiaramente apparisce come la Podestà vescovile suppone la sacerdotale, la podestà sul corpo suppone quella sul capo: poichè senza il capo più corpo non vi ha: non si comanda al corpo altro che pel suo capo: a quello solo ubbidisce: non si santifica il corpo altro che col sacrifizio del capo: quello solo è la nobil vittima di salute: non discende nè podestà alcuna nè grazia alle membra se non per la via del capo: da lui hanno tutto, in guisa che in lui spirano, in lui vivono per mirabile modo e nascosto. Onde conviene che solamente il Sacerdote, che ha podestà di sacrificare Cristo, e placare in tal modo Iddio, e che può così agli uomini dar salute, e quasi guadagnarli a somiglianza di Cristo col gran sacrifizio; possa sopra di loro esercitare autorità. Per questo i pastori hanno sempre obbligo di pregare e sacrificare per le pecore. Or questa podestà sopra il corpo reale di Gesù, fonte e radice della episcopale, contiene tutti gli uffizi necessari per sì fatto sacramento. [...OMISSIS...] Tutti questi uffizi sono bisognevoli al sacramento eucaristico, e tutti uniti negli Apostoli gl' istituì Cristo, quando loro diede podestà sopra il suo corpo reale. Perchè poi i fedeli formano il compimento e la pienezza del corpo di Cristo, come le membra quella del capo, o come il vestimento quella del corpo (2): per questo il Vescovo è denominato compimento del Sacerdozio . Ben è vero, che Gesù Cristo è così perfetto in se stesso, che dalle membra nessuna perfezione ritrae, ma loro solo comunica: a differenza della testa nel corpo umano, che senza l' altre membra non vive. Tuttavia avendo voluto congiungere a sè degli altri uomini, in questi estende e dilata la propria santità, loro comunicandola: è sempre quella santità stessa, ma in molti trasfusa in molti risplende. Dai Santi adunque riceve Cristo il compimento da lui voluto e preordinato, non perchè egli perfettissimo non sia, ma per l' opera della sua bontà, per la quale volle patire a redenzione di molti. E come i fedeli da Cristo ogni perfezione ricevano, nulla Cristo dai fedeli, mostrasi nel Vangelo stesso: là dove la Chiesa viene rappresentata, secondo i Padri, nella veste di Cristo, che ricevette in sul Taborre dal corpo, cui vestiva, candidezza di neve (1). Per questa parte adunque Cristo è veramente un corpo in tutte sue parti perfetto, nè la veste aggiunge al corpo veruna cosa, se non un certo fornimento esteriore, che parte alcuna non forma della sustanza del corpo stesso. Ma per tornare alla similitudine delle membra e del capo, in che dunque consiste questa pienezza di podestà vescovile? a che è rivolta questa autorità in sulle membra di Gesù Cristo? Coll' autorità in sul capo, cioè col sacrifizio, unisce e riconcilia l' umanità alla divinità: o almeno pone il fonte e la possibilità di questa riconciliazione. Del resto prosegue Paolo spiegando quel vescovile potere così: [...OMISSIS...] . Adunque lo scopo di quella podestà, che il corpo mistico risguarda di Gesù, si è quello, di fare che le membra non pure sieno unite al capo, ma sieno della proporzione stessa del capo. Molte parti ha un corpo (2). Queste diverse parti sono nella Chiesa di Dio i diversi doni e' diversi ministeri (3): ognuna necessaria, ognuna vantaggiosa all' altre, ognuna nobile perchè cooperante a formare l' armonia del tutto (4). Ma nel corpo non solo ci vogliono membra che lo compongano, ma è conveniente che tengano proporzione al capo: sicchè essendo il capo da adulto, non sieno le gambe o le braccia da fanciullo. Il corpo della Chiesa è perfetto: il suo capo è Cristo compito in tutte le cose. Egli giunse anche coll' età sua al mondo alla compita misura di uomo, perchè nel suo corpo reale avesse esempio il mistico. Poichè adunque questo nostro capo è della grandezza perfetta, così debbono ancor le membra venir crescendo sino che membra si formino di uomo adulto e compito. Questo avviene colla carità, cioè col perfetto eseguimento dei precetti divini, come insegna Paolo nella prima a' Corinti. Poichè nel capo XII descrive le membra di questo corpo, i doni, e i ministeri; e nel seguente parlando delle operazioni, o sia « de' doni spirituali (1), della via più eccellente », della carità, mostra, che doni e ministeri nulla sono senza questa che gli avviva: essi soli formano i membri morti. Ma chi al mondo arriverà a crescere colla carità sino a perfezione? Quella perfezione che fa le membra proporzionate al capo consiste nella mancanza di ogni colpa, quantunque diversi sieno i gradi del merito come diversa è la qualità ed il vigor delle membra. Chi però morisse imperfetto (ma senza colpa grave), chi morisse cioè bensì membro vivo, ma non cresciuto ancor pienamente, non reso pura carità di Dio: e' si purgherebbe nel fuoco fino a che cresciuto al giusto segno cogli altri Santi si unisse alla gloria. Pur troppo solo in cielo il corpo di Cristo è adulto! quaggiù siamo sempre attorniati d' alcuna imperfezione, che sembra quasi necessaria alla fragile umana natura: quaggiù ancora siamo come in quel tempo della gioventù destinato al crescimento di nostra statura. Questo tempo cessa, uscendo noi della Chiesa militante colla morte: que' mancamenti e difetti non gravi in quell' altra vita si purgano col fuoco. [...OMISSIS...] Quando adunque sarà da noi lavata ogni colpa ed imperfezione, e quando cesserà il nostro tempo di crescimento, allora saremo quei membri di giusta misura, quali Iddio ci aveva destinati ab eterno, che bene s' avvengono al capo, non più fanciulli ma interamente formati. Acciocchè ci rendiamo tali, Cristo pose i governatori della Chiesa. Ecco il fine della podestà di giurisdizione: essere fatti membri acconci pel Cielo. Per lo che a quella foggia che il corpo reale di Cristo in questa vita (1) venne crescendo, cresce in questa terra il suo mistico corpo. Qui si rende adulto, quanto può essere uomo perfetto, per la fermezza della medesima fede: in Cielo poi per la cognizione del Verbo , non più per ispecchio o enimma, ma faccia a faccia. Questa fede è quella che ne giova acciocchè « « non più siamo fanciulli vacillanti, e portati qua e là da ogni vento di dottrina pei raggiri degli uomini, per le astuzie onde seduce l' errore; ma seguendo la verità nella carità, andiamo crescendo per ogni parte in lui, che è il capo, cioè Cristo » ». Ecco adunque come crescono le membra: crescono per la fedel carità che ci incorpora in Cristo, e ci fa partecipe del suo già compito accrescimento. Quanto non è a dire di questa carità fondata nella fede, che schermisce il credente dall' errore, il rende adulto, e dopo morte gli mostra svelato lo stesso Dio? « Dal quale capo , prosegue Paolo, tutto il corpo compaginato e commesso per via di tutte le giunture di comunicazione, in virtù della proporzionata operazione sopra di ciascun membro prende l' aumento proprio del corpo per sua perfezione mediante la carità ». Nel che nuovamente si mostra come ogni ingrandimento e nutrimento di questo corpo viene dal capo, cioè Cristo. Le giunture poi, per cui è somministrato quel nutrimento, sono i Sacramenti della Chiesa, veicoli di grazia, li quali mediante la carità comunicano proporzionatamente l' aumento loro alle membra. Dice mediante la carità , perchè senza questa nulla valgono i Sacramenti. Questo è il sommo precetto, il germe degli altri. Chi non ama Gesù è anatema (2): non v' ha per lui giuntura che l' attenga al corpo, dacchè essere non può. Dice proporzionata , non meno cioè alla quantità dell' amore, che alla qualità del membro, poichè ognuno ha d' uopo della grazia per lo stato suo, e questa tanto gli è donata, quanto egli ama. Non è questo il luogo ov' io mi trattenga di più sui Sacramenti: basta qui avere imparato da Paolo come essi sieno le giunture dei membri al capo, i canali di grazia, di vita, e di perfezione. Soggetta a' Vescovi è l' amministrazione de' Sacramenti, perchè ha per fine l' edificazione del corpo mistico di Gesù Cristo: per questo stesso il Vescovo deve necessariamente essere Sacerdote, conciossiachè fra questi Sacramenti v' è quello del corpo e del sangue di Gesù Cristo, opera sacerdotale. Rimane a dire in quest' ultima parte della pratica della virtù. Ella s' esercita verso Dio, verso se medesimi, e verso gli altri. Primamente parleremo de' due primi risguardi, e appresso del terzo. Ogni atto di virtù verso Dio si può agevolmente raccogliere sotto questo solo titolo di Divozione; giacchè tutto si contiene nella dedicazione che si fa di sè a Dio, la quale viene espressa nella origine della parola. Non deve essere parte nell' uomo, che a Dio non sia devota, o dedicata: non tempo, in cui dalla unione con Dio ci possiamo dividere. Questo è il precetto dell' amor divino, questo il fine ed il voto dell' umana natura, che anela alla felicità, all' unione con Dio. Ma questa unione non si può avere compiutamente altrove che in Cielo. Quaggiù l' infermità di nostra natura non ci permette di stare attuati mai sempre in pura contemplazione. La congiunzione dell' anima con questa mole crassa ed inferma di corpo rende quella incapace di perfettissimo contemplare: la carne ne patisce (1), e gli obbietti esterni e corporei la strappano d' ogni parte da tale raccoglimento e meditazione sublime. Gesù però recando la perfezione della Legge e della Vita insegnò, che noi dobbiamo, malgrado di questo, tenere il vivere de' celesti per imagine del viver nostro, se nol possiamo conseguire compiutamente, dobbiamo tuttavia affaticarci per conseguirlo nella parte maggiore che per noi è possibile. « Vegliate », dic' egli con grande animo, « in ogni tempo, orando » (1). « Vegliate ed orate » (2). « Senza intermissione pregate » (3); le quali cose, a dir vero, sono all' uso de' beati del Cielo. Questo precetto della vigilanza cristiana, della continua preghiera, con quello si aduna del camminare alla presenza divina, col quale insegnò Dio ad Abramo a conseguire la perfezione. [...OMISSIS...] In vero colui che riflette Iddio essere in ogni luogo, e astante ad ogni suo atto, questi consapevole ogn' ora di qual compagno egli s' abbia, e di che dignità sia fornito, di che autorità, di che giustizia, di che bontà; non saprebbe peccare giammai. Ed in questa innocenza alla fine ritorna ogni cosa; e in essa si raccoglie veramente la abituale divozione. « Mi basta », diceva il buon S. Filippo a' giovanetti, « che voi non facciate peccati »; avvegnachè chi ha la coscienza monda, tiene altresì un animo sereno, una mente tranquilla, la pace, e Dio con sè. Esigete dunque, e commendate sopra ogni particolare ancorachè virtuosissima pratica questa astinenza da' peccati. Con questa, avendo il cuore puro da strani affetti, e privo dell' inquietudine de' rimorsi, si può volgere anche attualmente con grande soavità sè stessi a Dio, esser frequenti nell' attuale preghiera e continui nell' abituale, cioè nello spirito di preghiera. Chi nello spirito di orazione rimane, rimane in Dio, “ra sempre. A conseguire poi l' abito d' avere sempre il Signore innanzi alla mente, molte meditazioni conducono, e qui ne toccherò alcune. Chi pensa, che tutte cose da lui dipendono, che egli empie il cielo e la terra (5), che si trova tanto dall' empio come dal giusto, così nei sommi come negli infimi luoghi (6), che in somma il tutto ha creato di nulla (7): questi colle cose esteriori avrà ancora presente l' onnipotenza: Dio primo essere, Dio verità e fortezza, umiliatore degli enti tutti, anguste creature sue di sotto alla sua grandezza. Chi medita la sua provvidenza, la quale leggiadramente « scherza nell' orbe dell' universo (.), la quale tocca da una estremità all' altra, e soavemente tutte le cose dispone », sebbene con disegni rimoti dall' umano vedere (1); questi avrà ognor in sugli occhi la sapienza infinita e la bontà: Dio conservatore, e consolatore de' buoni. Chi ravvisa sparsi nelle creature de' pregi, ma imperfetti o limitati, e unisce questi e li perfeziona colla sua mente fino a illimitabile perfezione: costui in tutte le cose visibili trova una scala, che lo solleva al perfettissimo esemplare di tutto, a cui la ragionevol natura aspira e tende (2). Chi non conversa con persona al mondo senza contemplare in essa la divinità, che in quella o colla giustizia o colla misericordia sarà un giorno glorificata: senza compatir per conseguenza i suoi difetti, che Dio permette, senza congratulare a' suoi pregi, che Dio colla sua grazia produce: questi non sarà dalle persone distratto dal suo Signore, ma tratto anzi a star sempre con lui. In tutte le cose dell' universo si può sentire la voce del nostro maestro Gesù. [...OMISSIS...] Quando nella primavera si abbellisce la natura pomposamente, la terra si ricopre di erbe, gli alberi di foglie, scorrono limpide le acque, cantano canori gli uccelli: noi di ragione forniti intendiamo, che anche l' uomo viene invitato dal suo Signore a rinnovellarsi, e unire la più bella sua voce di lode nel concento che fanno al Creatore le inanimate e irragionevoli cose. Quando la state fa biancheggiar le sue messi, e il sole colla nuova sua forza va conducendo tutti i frutti alla loro maturità, e a' corpi stessi degli animali dà uno sviluppo maggiore; pensiamo di maturarci ancor noi per quel tempo in cui l' agricoltore celeste ci spiccherà per riporci nella sua dispensa. E allorchè già viene l' autunno, il tempo delle frutta e della ricolta; veniamo in noi eccitando i santi desiderŒ del nostro fine, e i sospiri verso quel celeste ripostiglio, dove saremo serbati eternamente senza ritrarre giammai macula o corruzione. Finalmente nell' invernale stagione qual meditazione più ovvia che quella della caducità di tutte le cose umane, della instabilità di tutte le umane apparenze, del fine di coloro, i quali a queste s' affidano, e del proporre ed effettuare l' intero distaccamento da tutti i beni momentanei e ingannevoli? Così da per tutto ci parla la sapienza nel succedere delle stesse visibili cose ed esteriori, quando noi l' ascoltiamo, e sappiamo intendere le sue gravi parole. E quanto poi non c' istruisce coll' aspetto del mondo morale, delle passioni, e de' traviamenti degli uomini, colle avventure e cogli accidenti della vita, co' beni, co' mali, cogli avvenimenti a seconda ed a ritroso del cieco nostro ed avventato volere! Quest' è un campo, ove fare voi stessa, e far fare altrui innumerevoli considerazioni, che tutte come tante strade mettono in Dio. Camminerà parimente presente al Signore, chi forma sì fatta consuetudine, per cui ad ogni suo atto consulti ed interroghi l' eterna Verità, e ami di fare il meglio in tutte le cose; non però perdendo il tempo a questionar con se stesso sopra minuzie, quale sia migliore; perchè tal modo molti avviluppa, facendo il peggio, mentre ne indugiano a trovar che cosa sia il meglio. A chi non fa cosa, che prima colla divina legge non l' abbia affrontata , sta Dio presente; e ciò è dovere, non v' ha dubbio, dell' uomo cristiano: costume però tanto difficile da formare quanto è bello e perfetto. Ancora se noi fisseremo il pensiero in quello che dice Giovanni, che tutto nel mondo « è concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne, e superbia della vita » (1); e se persuasi saremo della guerra perpetua che fa il mondo a Cristo, e come queste due parti giammai non si fanno fra sè, nè s' intendono in modo alcuno: terremo allora continuamente vita e contegno di soldati viventi in campo e in guardia dell' inimico. [...OMISSIS...] Gl' inimici nostri sono da fuori, e da dentro. Quelli consistono nella lusinga delle cose fuori di noi, questi siamo noi stessi: quelli si vincono colla mortificazione esteriore, questi colla interiore. Non è forse tanto faticoso vincer quelli; ma superar sè medesimo è la cosa più ardua di tutte: in questa è la sequela di Cristo: « Chi vuol venire dopo di me anneghi sè medesimo, tolga la sua croce e mi segua » (3). Questo annegamento di sè stessi, questa mortificazione interiore, che ne riduce alla bella perfetta conformità del nostro volere col divino senza mai prevenirlo, ma susseguendolo quasi come ombra segue il suo corpo, e come raggio il suo astro: quest' arte sincera della cristiana vita è ciò, in cui si vuole con tutte forze occuparsi. La mortificazione esterna è sola una sussidiaria, una serva di questa. In ciò avete a scorta il gran santo Francesco Salesio. Con ciò conseguite, che se sempre avrete nemici, abbiate altresì sempre vittorie; e se c' insegue dovunque con mille artifizj l' avversario, dovunque ci stia sempre presente con mille ajuti il comune difensore GESU`. Aveano i Cristiani de' primi secoli le recenti imagini di Gesù Cristo ancora vive in sugli occhi. La misteriosa sua vita, il suo divino conversare, la dolorosa morte, la gloriosa risurrezione, le istruzioni de' quaranta giorni erano rimaste vivamente segnate ne' loro animi, e rendevano loro Gesù ognor presente, ognor sui labbri: faceano ch' ei fosse l' oggetto di loro intrattenimenti, la consolazione di loro angustie, il caro argomento de' lor canti, e di tutti i loro trastulli lo scopo ed il condimento. Lo stato miserabile del mondo a que' tempi ingolfato in cieche sozzure di paganesimo faceva risplendere più la bellezza, la luce, la perfezione del nuovo istruttore celeste: le persecuzioni rendeano necessaria una unione più continua e più stretta con quel primo martire compagno ed esempio a' loro dolori, e fonte di loro robustezza: gli Apostoli vicini, che predicavano quel Gesù che veduto avevano e toccato colle loro mani, da cui tanti atti d' amore, tanti saggi della più dolce amicizia aveano divinamente ricevuto, imprimevano altamente in que' bei tempi la presenza del loro Signore in tutte le cose. Erano di Cristo piene le loro prediche, di Cristo piene le loro lettere, di Cristo piene le loro vite. « Innanzi a' cui occhi », scrivea Paolo ai Galati, « fu dipinto Gesù Cristo tra voi crocifisso (1), dipinto » colla mia predicazione, « tra voi crocifisso » nella persecuzione che sofferiste, anzi egli con voi. Oh famigliarità che aveano col nostro Signore! Oh santissima dimestichezza, vera fratellanza con questo amabile Dio, in cui il maestro, il padre, l' amico, tutto trovavano; e fuori di cui cosa alcuna non volevano ritrovare! Adesso Gesù Cristo al più de' Cristiani è lontano: e anche a molti de' buoni si rappresenta più come Dio che come uomo: e sembra che si tema, per dire così, di accostarsegli. Non si discorre di lui con quella frequenza, non con quell' ardore nelle unioni nostre: si ha quasi ribrezzo ad aprirci con ingenuità vicendevolmente, e dire i sensi amorosi, che pur da molti si nutrono di dentro per lui: l' unirsi a caso fuori della chiesa o delle ore stabilite, proporre d' intuonare qualche cantico al nostro Signore, proporre di fare a lui orazioni, e così occupare quel tempo del conversare; parrebbe cosa fuori del costume, e se ne avrebbe ripugnanza, o anche superata e proposta la cosa, verrebbe accettata con freddezza e con titubanza; se pure taluno non si trovasse che ne ridesse. Comunemente i Cristiani nostri hanno, è vero, divozioni particolari, pratiche a' Santi, formole in onore di qualche particolare oggetto religioso. Commendabili sono queste, se dalla Chiesa approvate; ma chi può negare che non per difetto di esse, ma talvolta per imperfezione di chi le usa, molti non sieno trattenuti in queste pie usanze, e quasi tenuti indietro e indugiati dall' adito alla fonte della divozione, alla cognizione e al vagheggiamento immediato di Gesù, al cui onore quelle pratiche pure si riferiscono? Quanto è bello, quant' è utile pensare sempre a Gesù! e sulle vestigie apostoliche lui fissare in tutte le cose! e non solo rammentar che è Dio, il che più tosto ci sbalordisce e ci perde; ma averlo presente qual uomo, qual uno di noi, uno vestito dello stesso corpo: uomo suggetto veramente alle umane infermità, fuor del peccato, che con noi gusta e patisce, ci compassiona, ci conforta, ci allegra, c' incoraggia, ci ajuta, ci riprende, ci minaccia; e in tutto fedele, in tutto amico, presente in tutto, compagno, partecipe. Ah sì! illanguidita è presso a molti la divozione di Gesù! Io vorrei che ogni cosa si facesse per ristorarla e raccenderla dai Cristiani. Alle vostre ragazzine parlate spesso di questo dolce maestro, abbiano nell' orecchio il nome di Gesù, l' abbiano nelle loro occupazioni presente, intervenga egli a tutti i loro divertimenti. Se voi potete far loro prendere quest' abito d' imaginarsi Gesù a loro compagno indivisibile in tutti i luoghi, i momenti, le opere della vita; elle hanno già conseguito egregiamente l' uso della presenza divina, della cristiana vigilanza, della incessante preghiera, del dolce e abituale raccoglimento: questo è il più bel modo di tutti. Giova ancora per rimanere in ispirito d' orazione, come ci è comandato, l' uso ben disposto d' ogni parte di tempo, e la frequenza di brevi orazioni, e di tratti momentanei d' affetto a Dio. Se qualche ritagliuzzo di tempo avanza fra l' una e l' altra delle opere esteriori; non l' ozio, ma la preghiera lo occupi. Le brevi preci, di cui ho toccato anche sopra, tanto usate dagli antichi solitari d' Egitto, come santo Agostino riferisce, sono anche da questo santo Dottore commendate, perchè eccitano viva e spessa attenzione, e non lasciano raffreddare l' affetto, come avviene frequente in orazioni prolungate. Per le quali cose, questa innocenza della vita, questo vegliare sopra se stessi, e camminare in presenza di Dio con annegamento del proprio volere, e conformità al divino; è, non v' ha dubbio, l' apparecchio più eccellente e più bello all' attuale adorazione. Quel Cristiano, che in ispirito d' adorazione si tiene, apre sempre la bocca sua in modo gradito al Signore. Questo insegnava Gesù alla Samaritana quando diceva: « I veri adoratori adoreranno il Padre in ispirito e verità » (1). Sono qui delineate le proprietà tutte del vero adoratore: lo spirito riguarda l' interno affetto, la verità l' esterior forma della preghiera. Se nel discorso, che in suo cuore tiene, l' adoratore di Dio pone cosa, che o disconvenga alla maestà sua, o proporzione non serbi coll' umana bassezza, che non si faccia bene all' infinita misericordia, e alla viva nostra confidenza, ovvero che offenda la giustizia e la fede, o che supponga una credenza vana, e non degna di Dio, la verità vien meno, manca un principal distintivo di vera adorazione. Ma colui che prega Iddio in ispirito , cioè col cuore bene per ogni parte disposto, questi prega in Dio che è spirito, e però anche la forma di sua orazione ne uscirà acconcia e vera. Questo è quello spirito, di cui Cristo disse: « Lo spirito è ciò che vivifica, la carne non giova nulla » (2). Suppone tale spirito intera rinunzia a quello che spirito non è, a quello che non è Dio, perchè ciò nulla giova; ciò è carne, ciò è mondo, ciò è peccato. Di queste cose parlava Paolo a' Romani quando scrivea (3): « « Io vi scongiuro, o fratelli, per la misericordia di Dio, che presentiate i vostri corpi ostia viva, santa, a Dio gradevole » ». L' ostia ed il sacrifizio suppone cosa, che si strugga in onore della divinità. Avanti Cristo s' immolavano corpi di buoi, di pecore, e d' altre bestie. E or l' uomo che cosa sacrifica? Sè stesso. Dovrà dunque struggere quanto in sè v' ha di buono? No: ma quanto v' ha di cattivo, quanto dalla carità viene escluso, il corporeo, il carnale. Le fiamme di questa carità incenerir debbono appunto tutte le altre cose, esse sole ardere. Così l' uomo si purifica, e si rende spirito, e in ispirito prega, e tanto meglio prega, quanto in tal modo è meglio purificato. Tale sacrifizio più vivamente splendeva ne' martiri, che, secondo il letterale incoraggiamento apostolico, offerivano i propri corpi, e con essi ogni mondano possesso. Ma la virtù, l' interiore mortificazione, con cui si rinunzia alle cose nostre, e a noi stessi; e finalmente quell' apparecchio alla morte, per cui in essa non altro veggiamo che lo scioglimento del nostro corpo quale vittima alla giustizia, e tale volonterosamente s' incontri: questo fa, che pur noi, sacrificate le vane cose che ci aderiscono, siamo resi puri, resi spirito, emulatori de' martiri. Non basta dunque il moto de' labbri nella preghiera, e 'l componimento del corpo; non la scelta del luogo, o l' esterno apparato: l' affetto dell' animo si richiede: affetto tanto più puro, quanto è la vita; se pur in sull' atto della preghiera la grazia divina non operi alcuno de' suoi mirabili effetti in chi prega. Iddio non ci ha lasciati però senza guida, anche rispetto alla forma della preghiera: acciocchè come lo spirito ottimo suol produrre ottime forme di preghiera, così da buone forme di preghiera sia eccitato ed aiutato lo spirito, s' egli al tutto non è perfetto. Guida a noi data è la Chiesa; ella c' insegna a pregare con ogni verità . Nella Chiesa ogni Cristiano ha pascolo sì abbondevole, che s' egli a quello si nutre, altro non brama. Perchè dunque o ricercare nuove pratiche divote, o anteporre le private alle pubbliche, se in quelle della Chiesa abbiamo qualunque cosa che a Dio convenga, qualunque che alla propria santificazione confaccia? Non niego libertà al vostro cuore di sfogarsi con quelle orazioni spontanee, che egli vi suggerisce; queste assai volte sono frutti dello spirito di Dio; e però allo spirito, e alla Verità conformi: ma parlo di molte pratiche esteriori particolari. Le quali, se anche rette fossero e vere; saranno sempre false, ove verranno anteposte alle pubbliche, o per quelle queste posposte; essendo sconvolto l' ordine che d' anteporre comanda ciò che ha più pregio. Poichè, lasciate le altre cose, tanto queste più giovano quanto più giova la preghiera di molti sopra quella d' un solo (1). Santa poi oltracciò essendo la Chiesa, chi a questa si unisce nell' orare, santifica la propria orazione: e a' difetti propri riparando colla comune virtù, e col fervore de' molti, fortifica fuormisura l' efficacia della preghiera. Parliamo adunque al Signore colla bocca della Chiesa, e pregheremo secondo la VERITA` . Ma è però vero, che nulla varrebbe usare a pubbliche funzioni, e recitare preci ecclesiastiche, quando la favella del cuore non s' aggiungesse. Poichè si direbbero cose vere e giuste, ma non in modo al tutto giovevole. Si adorerebbe Iddio in verità, ma non in ispirito; si peccherebbe come coloro, a cui fu detto: Questo popolo mi onora colle labbra; ma il loro cuore è lontano da me (1). Riprova molte invenzioni di pietà lo stesso Agostino, [...OMISSIS...] . E chi non sa quanto il moltiplicare fra noi di certe pratiche religiose porse occasione alla malizia o alla grossezza degli eretici di enfiare le gote sclamando, accusando, e calunniando la Chiesa? Per serrare la bocca a' quali, quanto è possibile, comandava Paolo, che « non solo dal male s' astenessero » i fedeli, « ma anche dall' apparenza del male » (3). Nè da ciò s' inferisca, che meriti alcuna disapprovazione la Chiesa o il Sommo Pontefice, il quale, secondo il precetto dell' Apostolo: « Provate tutte le cose, tenete quello che è buono » (4), non rigetta veruna di quelle pratiche inventate dalla cristiana pietà, che dopo esame maturo buone rinvenga, anzi coll' autorità apostolica le commenda quali aiuti ed amminicoli novelli, che il Santo Spirito aggiunge alla pietà illanguidita, e alla carità, pel succedere de' mali tempi infermata. Qui si ragiona soltanto de' trovati dello spirito particolare, e che la Chiesa o tollera se li conosce, o ancora li condannerebbe se li conoscesse; ma veruna approvazione non ebbero. Quelle prime sono venerabili, e se le calunnia l' eretico, è a suo gran danno: queste seconde, sebbene lo spirito spiri ove vuole (1), tuttavia restano incerte al comune de' fedeli, alle altre senza dubbio alcuno da posporsi; e se il buon cristiano le esamina avanti di praticarle, quest' è a sua lode, e a salute. Anzi anche quando la Sede Apostolica approva nuove forme di preghiere, lascia però sempre al retto spirito de' fedeli farne il discreto e ragionevole uso che si conviene, lascia loro di pregiar più quelle, che per antichità, solidità, dignità e istituzione hanno eccellenza maggiore: e tanto è saggia, che mentre ella ama ed impone ad ogni fedele che alle grandi sorgenti s' accosti, non chiude però a nessuno le picciole vene e gli spruzzi d' acque, quando sieno puri e salutari. Non però sono queste necessarie giammai, come il rigagno non è necessario a chi ha il fiume; e pur giovano principalmente a chi non sa, per propria imperfezione, all' abbondanza delle maggiori pienamente abbeverarsi. La Chiesa, come dice Agostino, non è aggravata da importevoli pesi servili, come la Sinagoga da sue cerimonie. Ella è libera: ella signora: pochissimi, manifestissimi sono i suoi sagramenti, cioè le sue funzioni essenziali. Ma che immenso frutto trae quel Cristiano, che pone lo studio suo nello intendere quelle semplici voci della Chiesa, gravi di sensi, e le cerimonie e gli emblemi e le espressioni che variamente li vestono! L' Orazione dominicale, l' angelica Salutazione, il Credo, la Salveregina: ecco pochissime , e manifestissime formole. Che semplicità, che facilità, e brevità! E pure, chi dentro vi penetra, oh in che ampiezza di cose interna la mente e il cuore! Il Sacrifizio della Messa, gli Uffizi pubblici, e i Sacramenti: ecco pochissime, manifestissime e uberrime istituzioni! In queste non che esser vi possa anima tanto arida, che satollar non si debba; ma non ve n' ha alcuna nè pure sì affettuosa e fervente, che sappia tutta abbracciare e pascere la pinguezza degli affetti divini in esse contenuti, e de' modi d' avvicinarsi ed intimarsi per Cristo con Dio. Ma sulle bellissime e semplicissime forme di preghiera, che mette in bocca la Chiesa a' Fedeli, non farò io discorso: solo un cenno farò della orazione del Signore, come eccellentissima di tutte. E questo picciolo cenno torrò da antica e pubblica spiegazione. Essa è conservata nel Sacramentario di Gelasio Papa, pubblicato dall' egregio uomo Cardinal Tommasi nel 16.0, e riprodotto dal Muratori nell' « Antica Liturgia Romana ». Si costumava di leggere tale spiegazione a' Catecumeni sotto la Messa qual Prefazione della dominicale preghiera. Raccomandata è dall' antichità sua, dal libro da cui è tratta, e da' bei sensi di cui è piena. [...OMISSIS...] Parleremo ora de' soli esercizŒ principali della cristiana pietà, cioè, come fu indicato innanzi, del Sacrosanto Sacrifizio; poi degli UffizŒ di Chiesa, e all' ultimo alcun poco de' Sacramenti. [...OMISSIS...] Se si riguarda però alla eccellenza e sublimità di questo divino Sacrifizio, ell' è tale, che nè pure in cielo non si dà alcuno atto di culto più augusto: gareggia per questo la terrestre Gerusalemme colla celeste, nè a' cori degli angeli può increscere di scendere dall' empireo, e assistere in terra al Sacerdote ne' divini misteri occupato, adorando intorno all' ara un' ostia, che l' uomo tratta colle mani sue, e colla sua bocca si mangia e si bee. Ecco fonte copiosa di vive acque! Qui ogni pietà si può dissetare. Ecco pane angelico! Di lui si può nutrire a piena abbondanza qualunque sopraumana divozione. Che manca qui di grande, che manca di santo, di dolce, di benefico, misericordioso, e commovente? che cosa fuori di questo si può cercare o trovare di religioso, di pio, ed utile, e buono, e bello, e ricco ed eccelso, che già in questo eminentemente non sia, dove la sorgente è di ogni santità, grazia, amore, bellezza ed altezza? [...OMISSIS...] Deh come potrà andare in cerca con molto studio e quasi lambiccandosi il cervello di nuove divozioni, di strane forme di culto, colui, il quale sappia d' averne già in questo solo atto, da Gesù instituito, sì abbondevole pascolo, che non solo pel suo povero e angusto cuore, ma per quello di tutti gli angeli del Cielo ne sia trabocchevolmente d' avanzo? Quale adunque sia l' ubertà e la ricchezza delle pochissime e manifestissime pratiche da Gesù Cristo instituite, e per mano de' santi Vescovi della Chiesa successivamente tramandateci, non punto s' intende: ovvero, per meglio dire, essendo queste purissime, divotissime, celesti, in cui s' esercita la Fede, la Speranza si pruova, e lo spirituale Amore, l' amor sceverato da strani affetti, si fa necessario: non vengono penetrate dagli uomini grossi e imperfetti, ed eglino non trovano in esse, come dice il Gersen, o da appagare la curiosità, o da pascere la leggerezza, o da satollare i sensi crassi ed oscuri, che solo cose visibili e corporee appetiscono, e oltre queste niente trovano, niente veggono. Per sì grande infermità, postergate o poco curate o non istimate almeno a giustizia le sante istituzioni di Cristo, si studiò spesso di comporre più materiali invenzioni, in cui essendo alcuna cosa o un nome di santità, credesi d' esercitare il culto divino, e si nutrica invece sua la propria carnalità. Vorrei per tanto richiamare lo spirito di costoro alla santissima e sapientissima intenzione della madre comune, della cattolica Chiesa. La quale sebben condiscenda di richiamare gl' imperfetti cristiani cogli esteriori aiuti alla spiritual divozione: tuttavia e ripruova le divozioni false o indegne della divina Maestà; e regola quelle, le quali, non essendo principali e tali che contengano il fine della divozione, a quelle precipue, che il fine racchiudono di ogni culto, si ordinano e riferiscono. Onde ne' Santi adora essa l' autore della santità; e nelle imagini venera il santo oggetto, che per esse è figurato o dipinto; e nelle reliquie onora quella spoglia, che, sebben di carne, fu già il tempio di Dio, e un giorno, ricomposta a vita, verrà riedificata novellamente in una casa, ove la divina gloria abiterà eterna; ed in tutte le sante cose e le pie memorie esalta e glorifica il Signor de' Signori, il Dominatore de' Dominanti: al quale è dovuto l' onore e la gloria, e da cui non è lecito nè rimuovere una scintilla di amore, nè qualunque particella di culto senza ingiustizia e senza punizione. Chi ama dunque d' essere nella divozione perfetto pensi d' udire bene la Messa, e di gustare degnamente questo divin Sacrifizio. Ogni dì, s' egli se ne dia cura, parragli nuovo; perchè imparerà nuove cose, in frequentandolo, nuovi affetti sentirà; gli parrà ogni dì più dolce, ogni dì conoscerà qual v' abbia distanza fra questa e le altre divozioni serve di questa: compiangerà coloro, che assistono alla Messa indivoti, che l' hanno per cosa triviale; perchè resa frequente dalla profusa generosità del Signore: insomma ogni dì formerà bei desiderŒ di poter penetrar meglio in quest' atto di culto, meglio incorporarsi alla vittima che s' immola, meglio unirsi alla comunion de' Santi, che per mano del Sacerdote fa all' Infinito un dono, niente minore di quello, che a lui conviene: finalmente imparerà sempre più quella verità, che la divozion grata a Dio non è posta in moltitudine o varietà di pratiche, ma nella VERITA` e nello SPIRITO . Nè si deve credere, che colui, che assiste alla Messa non abbia parte nell' atto del Sacerdote. Poichè è così: che Cristo offerto nella Messa offerisce, e sacrificato sacrifica: in persona poi di Cristo il Sacerdote; ma unita in Cristo al Sacerdote la Chiesa tutta, ed ogni fedele, e segnatamente colui che è presente. Per la qual cosa chi ascolta la Messa deve pensare all' atto che fa egli stesso, e non credersi solo testimonio, ma ministro nell' offerire insieme col Sacerdote, e colla Chiesa, e con Cristo; e in questo pensiero udirà ottimamente la Messa: ottimamente, in questo spirito tenendosi, l' udirà anche colui, che non sa accompagnare il Sacerdote nelle diverse orazioni, e viene facendo altre sue preci: come fanno gl' idioti. Sono adunque due cose principali nella Messa, cioè l' Offerimento dell' ostia, che si fa a Dio qual supremo Signore di tutte cose; e la Consecrazione, ovvero immolazione della medesima ostia. Questa è proprio atto del Sacerdote in persona di Cristo; quella di ogni cristiano presente alla Messa. Il che si ricava dalle stesse parole del Sacerdote. Poichè proferendo le parole della consecrazione in singolare come se Cristo solo parlasse, all' incontro offerisce in plurale come si vede nel canone. [...OMISSIS...] Ricorda poi questa offerta fatta in numero plurale quel tempo, nel quale il Diacono distribuiva al popolo il sangue, dopo che il Sacerdote avea dato il corpo. E dicevano quelle parole il Sacerdote ed il diacono insieme (come ancora nella Messa cantata è in uso), affinchè quello che il Sacerdote avea ministro e compagno nella distribuzione, avesse compagno anche nell' offerta. Che se innanzi in offerendo il pane disse in numero singolare, fece egli solo per gli astanti, ed offerì veramente prima per li suoi peccati, e poi per quelli del popolo (1). Queste parole perciò, o questo sentimento almeno, dovrebbe essere proferito ed espresso dagli astanti insieme col Sacerdote. Plurali poi sono altresì le parole che succedono: « « In ispirito d' umiltà ed animo contrito veniamo da te accolti, o Signore, e il Sacrifizio oggi si faccia al cospetto tuo per modo che a te sia gradevole, Signore Iddio » ». Le quali non solo insieme col Diacono, ma con tutti i presenti certamente s' intendono dette. E queste significano, che dopo essere già offerto il pane ed il vino pel sacrifizio, si esibisce e presenta sè medesimi a Dio quai vittime insieme con Cristo. Poichè solo unito a Cristo l' uomo può fare di sè grato dono e grata ostia a Dio. E che ciò sia il senso dell' orazione si ricava dal libro di Daniello; donde sono tratte le parole e il concetto. In esso i tre forti giovani Ebrei salvati in Babilonia da ardente fornace, fra le fiamme, dove di sè facevano offerta, cantavano appunto così: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] E per doppia ragione il Sacerdote chiama quel Sagrifizio suo, e dei presenti. Prima, perchè tutti l' offeriscono; dipoi, perchè si porge in Sagrifizio insieme con Cristo, e il Sacerdote, e gli astanti. L' una e l' altra di queste cose indicate nelle dette orazioni, sono più chiaramente espresse nel Canone, la parte più antica ed augusta della Messa, compilato da parole di Cristo, da tradizioni Apostoliche, e da pie istituzioni di santi Pontefici. Poichè in esso, tolta fuori la consecrazione, tutte le orazioni d' offerta sono plurali. [...OMISSIS...] Nella quale orazione tutti gli astanti offeriscono; e « SagrifizŒ illibati » si dicono non solo il pane e il vino, ma i cuori offerti al Signore. Si dicono illibati ed immacolati , spiega Innocenzio III, perchè ciascuno si deve offerire senza macchia nè di cuor nè di corpo: che il cuore abbisogna purgato da iniquità, ed il corpo da immondezza (1). Onde quest' aggiunto è principalmente posto pel sacrifizio interiore dell' animo. Appresso poi preghiamo il Signore perchè si rammenti dei circostanti tutti, pe' quali offeriamo il Sacrifizio di lode e propiziazione, e nuovamente di quelli, che lo offeriscono. E, fatto ricordo della comunione co' Santi del Cielo, uniti a' quali preghiamo e adoriamo Iddio, stende il Sacerdote le mani sue sopra il calice e sopra il pane, a quella guisa che nell' Antico Testamento esso Sacerdote ponea le mani sulla vittima: volendo con tale rito indicare, come egli stesso ad essa si congiungeva e con essa a Dio dedicavasi ed offerivasi (1). [...OMISSIS...] Ben è pertanto a meditare e pregiare per noi un sì bello offerimento della servitù nostra, e di tutta la cattolica famiglia: essendo questo il Sacrifizio che dà la salvezza: mentre niente ci varrebbe la stessa morte di Cristo, fuori che a condanna, se di quella non partecipassimo bevendo lo stesso calice, tenendo i suoi vestigi, e colla croce in ispalla porgendoci pronti e di dare il sangue per la legge sua e di sacrificare la concupiscenza nostra all' onore della sua legge. Ora anche dopo la consecrazione, favellando del pane e del vino sacrato, pregasi, che con propizio e sereno volto risguardi Iddio su quelle cose divine, e le riceva quasi doni d' Abele, sacrifizŒ d' Abramo, e di Melchisedecco; in quanto che nè pure il sacrifizio di Cristo, non che quegli antichi, ci potrebbe giovare cosa alcuna, se non unissimo il sacrifizio di noi stessi come que' Santi fecero, mercè un cuore spirituale, e conformato in ogni cosa a Cristo. Di questa grazia per la stessa ragione se ne prega già avanti Iddio, là dove dopo nominata l' offerta di nostra servitù, segue così: « La quale obblazione, o Dio, ti preghiamo, che tu ti degni di farla benedetta » (noi stessi così veniam benedetti in essa), « ascritta » (al numero delle cose aggradite: noi veniam con ciò ascritti in Cielo), « rata » (cioè valida ad ottenerci gloria: veniamo con ciò numerati tra i legittimi fratelli di Cristo, per cui patì, fra i molti per cui effuse il sangue), « ragionevole » (vengono in tal modo in noi ordinate le facoltà inferiori sotto all' imperio di ragione), e « accettevole » (per sì fatto modo che non solo qui su l' altare venga il corpo e il sangue di Cristo, ma venga questo) « a noi » (a vantaggio nostro, sicchè a noi incorporato, in noi più non vegga il Padre celeste quanto ha di spiacevole, e di schifoso, ma vegga Cristo, vegga gratissima cosa e accettevolissima) (2). Questi offerimenti di noi, e rinunzie alla vita, e a quanto è nella vita per Cristo, sono ciò che rendono verissimo Sacerdote qualunque cristiano cattolico; come dice Tertulliano (1) in consonanza cogli apostolici insegnamenti. Poichè sacerdote è chi sacrifica a Dio. E sebbene Cristo solo per sua eccellenza sia il Sacerdote eterno giusta l' ordine di Melchisedecco, e solamente immolando sè stesso abbia reso all' Altissimo gradevole Sacrifizio: tuttavia ed ogni Sacerdote, qual ministro di Cristo, in persona sua rinnovella detto sacrifizio della croce; e di più ogni Cristiano con Cristo incorporato pel battesimo, partecipa del sacerdozio suo, in quanto può offerire ed immolar sè stesso colla contrizione, col distaccamento di sè e coll' umiltà. Questa distanza però v' ha fra Cristo, il Sacerdote, e 'l Laico fedele, che Cristo è Sacerdote per sè in eterno; gli altri partecipano del Sacerdozio suo: che il Sacerdote poi ne partecipa sì altamente, che può offerire ed immolare, non che sè stesso, lo stesso Cristo; il Laico all' incontro solamente in tal modo, che non immolare, cioè consacrare, ma può offerire Gesù Cristo, e immolare o sacrificare sè medesimo, struggendo in sè quanto non sia puro amore di Gesù Cristo. Dalla quale unione, come dicea, di noi colla vittima sacrosanta, è il massimo frutto della Messa. [...OMISSIS...] Laonde offerisce il discepolo di Cristo sè stesso in tutto a lui conformato « osservando i precetti suoi, tenendosi nella sua carità » (1): e in questa unione di sacrifizio pregando il Padre, non può non ottenere quanto egli brami, nè altro e' brama se non le cose del suo Signore. Or poi cotesta unione nasce non solo per mezzo del Sacrifizio, con cui noi ci diamo a Dio; ma ben anco per mezzo del sacramento, con cui Dio e Cristo in sue carni ed in suo sangue si dà a noi da mangiare. [...OMISSIS...] E tale comunione di Cristo a noi forma la terza parte principale della Messa. Ell' è così quasi una vicenda di divino amore ineffabile, che dopo avere offerto noi a Dio in sacrifizio Cristo, e con Cristo noi stessi (cose per altro tutte sue), esso Iddio tutte ce le restituisce, e sè stesso a noi si dona in tutto nostro potere e in nostra natura: unendosi con noi sotto specie di cibo, e con noi immedesimandosi: per cui questo convito chiamossi con vera ragione: « Principio in noi della divina sostanza » (3). Oh amore immenso! Oh carità smisurata di Dio! Contraccambio, vicenda, gara di divina benevolenza! nella quale l' uomo, che niente ha, prima si fa comparire ricco d' altrui ricchezza a poter presentare Iddio di tesoro degno di Dio, e poi si ritorna questo tesoro: quasi non perchè Dio benefichi; ma giocando, come a dire, di liberalità, paia regalato e beneficato, e poi ridonando e ribeneficando vinca non per l' eccellenza del dono, ma per l' eccellenza del contraccambio! Il che dee mettere nell' uomo quella confusione, che s' esprime dal Sacerdote, quando, ricevuto il pane, e perduto, e smarrito nella grandezza del divin dono, dimanda al Signore: « « Che ti darò, Signore, per tutte cose che tu m' hai regalate? » » e non sapendo che, soggiunge: « « Riceverò il calice del salutare, e il nome invocherò del Signore » ». Cioè, non darò: che non ho cosa a dare; ma seguirò a ricevere i benefizŒ tuoi; ed essere, come da nuove onde di divina misericordia, nuovamente coperto ed inabissato. Ad un così benedetto convito pertanto, ad una sì divina mensa imbanditaci dal Signore colle sue carni « incontro a quei che ci tribolano », tutti ne invita e ne chiama l' amorosissimo convitatore. [...OMISSIS...] Gli ardentissimi desiderŒ poi di Gesù, che cioè si nudriscano a questa cena e si satollino seco i discepoli suoi, nella santa Chiesa passarono, la quale mai sempre di cotesto angelico cibo mostrossi, a così dire, famelica ed insaziabile. Nominollo spesso le delizie sue, la sua vita, la sua fortezza, il suo tesoro, il misterio della sua pace, il suo regale indumento, la porpora sua nel sangue tinta del suo Signore, il sommo suo bene, l' altissima sua bellezza, le care reliquie di Cristo, di Cristo l' ombra sotto a cui siedono i desiderosi di lui, il principio della sostanza divina nell' uomo, l' ostia della salute del mondo, le divine ricchezze, il singolar sollievo dell' amata nell' assenza dello sposo, il presagio carissimo della divina misericordia e dell' eterna rimunerazione. Basta accostarsi alle memorie de' Santi d' ogni tempo per ammirare e l' avidità incredibile che a questo pane celeste avevano, e le dolcezze che ne sentivano, e le grazie che ne cavavano. Basta ancora leggere le orazioni della Messa pertenenti al comunicare, perchè si comprenda, essere desiderio grandissimo della Chiesa, che gli uditori tutti, se potesse essere, della Messa ogni dì partecipassero col Sacerdote alla sacra mensa, sì come avveniva ne' tempi primitivi a ragione beatissimi: in cui tanto era il fervor de' Cristiani, che potean dire con verità, il corpo ed il sangue di Cristo essere loro cibo cotidiano: e tanta venerazione s' aveva all' ineffabile Sacrifizio, che non si teneva degno di starvi presente chi degno ancora non fosse di comunicare del divino nudrimento. Nel canone IX degli Apostolici si comanda, che tutti i fedeli, i quali, udite le Scritture, non persistono all' orazione, e alla comunione, vengano divisi: e lo stesso si trova in altri documenti dell' antica disciplina. Allo spirito della quale, poichè non possiamo alla lettera, noi ci dobbiamo conformare. Assistere cioè alla Messa così mondi, raccolti, ferventi, da essere degni di comunicare ogni dì; e tanto spesso comunicare, quanto spesso amiamo di ricevere cosa di tutte desiderabilissima, giovevolissima. Intorno alla quale frequenza di comunione cercando S. Bonaventura come ella giovi, assai acconciamente disse, [...OMISSIS...] . In somma tanto è giovevole comunicare, quanto bene noi siamo disposti: come cibo, il quale, ancorachè eccellentissimo, nulla giova; anzi può dar morte a chi ne sopracarichi uno stomaco indisposto e ammalato. E tanto è a dolere in questo fatto dei nostri dì, che manifestando il Concilio di Trento quel voto della Chiesa, che tutti comunicassero coloro che assistono al sacrificio, il santo Sinodo non dice desidera , ma desidererebbe , quasi non osando di formare in tai tempi tal desiderio, di cui pure una volta, vergogna nostra! non si formava nè un desiderio, nè una speranza; ma un precetto, o per lo meno un universale costume. Essendo adunque « le cose sante pe' santi, le cose monde pei mondi » (2); tremenda verità dice Paolo, allorchè risguardo agli indegni parla così: [...OMISSIS...] . Cioè a dire: Ricevendo il corpo santissimo si testifica il sacrifizio. Perchè sebbene sia Cristo intiero sotto ciascuna specie, non potendo oggimai esser diviso quegli che risorto da morte non muore più, ma regna eterno in Cielo a destra del Padre: tuttavia nel pane si considera il solo corpo, nel vino il solo sangue, acciocchè rappresentandosi corpo e sangue divisi, imitino la violenta morte del Signore. Dunque ogni volta che alcuno presume di ricevere il pane eucaristico, riceve Cristo sacrificato, e in suo aiuto invoca ed usa la morte di Cristo. Così la testimonia ed annunzia: ed esprime, che e' la vuole a quel modo, che la volle Cristo in salute propria e del mondo; poichè fa quell' atto che pose Cristo perchè l' uomo se n' applichi il merito. Chi adunque tiene in quest' atto un animo reo ed indegno, simile a Giuda tradisce il Maestro, e più neramente che d' un bacio: il vende agli appetiti suoi, e non per altra ragione il vuol morto: non vuole il sacrifizio che salva, ma il sangue del giusto, che al Cielo grida vendetta. E` reo dunque del corpo e del sangue del Salvatore, abusando di sua morte: e in questo sacrilegio si può dire del Salvatore come i figliuoli di Giacobbe dissero del fratello: « Una pessima fiera lo ha divorato ». Perciò un tal cristiano, non pensando quello che fa, e disconoscendo il cibo che prende, si beve e mangia la sua condanna (2). Non è questo partecipare alla cena divina: conciossiachè (come dicea Paolo di chi mangiava le cose immolate agli idoli) non si può partecipare in un tempo alla mensa del Signore e a quella dei demoni (3). Doppia maniera dunque è di mangiare il corpo di Cristo: altra colla bocca, e altra collo spirito. Può alcuno mangiare il divino corpo colla bocca senza che collo spirito se ne pasca. Non è proprio dire che questi si nutre di Cristo, bensì che trangugia la sua condanna. Non si dice propriamente che partecipa a mensa divina, ma ad una mensa umana, e, rispetto al frutto ch' egli ne porta, diabolica. Ecco l' orazione, con cui nella Messa il Sacerdote, e quelli che con esso comunicano, ringraziano il Signore: [...OMISSIS...] . Col corpo vedemmo e toccammo le specie di Cristo, che è dono temporale: Cristo stesso coll' animo si riceve, e colla mente pura e divota. [...OMISSIS...] Adunque chi crede in lui, e crede, che questo pane sia Cristo a salute nostra sagrificato, e non lo tiene quale altro cibo; chi ne mangia non col corpo ma collo spirito, questi ha vita eterna. Nudrire l' anima nostra di Cristo è essenziale a salute: con questo Cristo tutto promette, senza questo dichiara che non possiamo avere la vita in noi. E questo spiritual nudrimento è pur quello stesso, che nell' altra vita si gusterà; e di cui Cristo disse nell' ultima cena: [...OMISSIS...] Altrove ancora paragona la beatitudine del Cielo ad una cena e ad un convito nuziale (2). Nè il regno di Dio è egli cibo o bevanda corporea, ma spirituale, cioè giustizia e pace e gaudio nello Spirito Santo (3). E` adunque il cibo eucaristico rinovazione, figura e saggio: e segna passate cose, presenti e future. Rammenta e rinnova la passione di Gesù; figura la grazia, e l' autor suo a noi dato a pascere; e presagisce la rimunerazione futura, l' eterna vita. E` poi il cibo vero, e ne ha tutti gli effetti. Mantiene la vita in virtù del sangue di Cristo, accresce e rinforza in virtù della grazia, che in noi aumenta; e soavemente diletta sì per imagine de' celesti diletti come per una parte di quelli che in lui si pregustano. [...OMISSIS...] Al mangiare pertanto che il nostro corpo fa le specie sacramentate, l' anima bene disposta riceve dentro a sè Cristo, e a Cristo s' incorpora. Sebbene niente valga quella corporale nutrizione senza questa spirituale; tuttavia a quella questa è connessa: essendo stato conforme alla sapienza del divino inventore di questo banchetto, che come nell' uomo quanto v' è di essenziale e pregevole è la natura intelligente, ma questa però non è sfornita di veste corporea; così il cibo, che all' anima si presta, di corporea forma sia circondato. Allora però, che s' assiste alla Messa, e non si partecipa del Sacrifizio insieme col Sacerdote, si possono eccitare ciò nulla ostante in noi de' pii desiderŒ ed affetti a quel divino alimento, e alla comunione del Sacerdote unirsi col cuore: il che chiamasi comunicare spiritualmente . E sebbene questo non sia sacramento: può però dare abbondevol frutto di grazia, secondo il merito di quell' atto. Ma perchè impariamo come degnamente ci dobbiamo accostare alla divina mensa; dicendo Paolo, che « ogni uomo provi prima sè stesso » (1); dopo avere osservata quella fervorosa frequenza dell' antica Chiesa al santo Altare, è anche da vedere la riverenza sua, e la severa cura, affinchè nissuno indegno ad esso non si avvicinasse. E` certissimo, a chi ricerca l' antica disciplina, essere stato sempre fermo giudizio della Chiesa, che l' angelico pane non si debba ricevere da quelli, che o conservata non hanno la innocenza del battesimo, o avendola con mortale peccato perduta, non l' abbiano con virtù e col Sacramento di penitenza racquistata. E questo è detto ancora e dichiarato nel Concilio di Trento (2). Ma se osserviamo al modo della penitenza antica; di cui, se mutata è la lettera, non fu nè sarà mai abrogato lo spirito; noi possiamo in quell' augusta severità de' Canoni di penitenza ravvisare assai bene, quanto sia enorme fallo di chi mangia indegno il pane santo, e che mondezza e riverenza da noi esiga l' Altare. Poichè i peccati pubblici, e tal fiata ancora gli occulti, si vedeano espiati con pubblici atti di pentimento, prima che si ammettessero a comunione i peccanti: e molti anni, e talora l' intera vita si separavano dal consorzio de' divini misteri. La quale penitenza andava per certi gradi, secondochè proprio è dell' uomo, che tutto ad un tratto non si converta. Primo era il grado de' piangenti , i quali sulla porta della chiesa, non potendo entrarvi, si buttavano a' piedi del popolo fedele che entrava al Sacrifizio per dimandare co' pianti caritatevole aiuto di sue orazioni. Divenivano poscia ascoltanti: così detti perchè negli ultimi luoghi della chiesa stavano udendo la spiegazione delle sante dottrine. Elli poi se n' uscivano di conserva co' catecumeni. Così stimavasi che avessero poco compreso i doveri contratti nel battesimo quelli che gli aveano infranti, e perciò avessero bisogno di nuova istruzione intorno al vivere de' battezzati. Passavano dopo alcun tempo al grado dei prostrati , i quali entrando in chiesa quando li chiamava il Diacono, si prostravano innanzi al Vescovo, ed ei pregava su loro insieme con tutta l' adunanza fedele; ma prima che cominciassero le preci del Sacrifizio erano licenziati. In ultimo ascendevano al grado de' consistenti , chiamati così perchè a loro era conceduto finalmente assistere a' misteri, ma non ancora però parteciparne. Chi crederebbe oggidì, che a questa esteriore e pubblica penitenza, venuta di tradizione apostolica, si vedessero in quel felice tempo sommessi gli stessi personaggi più illustri, più ricchi e potenti? Fra gli altri ricordo il notissimo fatto dell' imperador Teodosio, non meno cristianissimo che potentissimo; a cui S. Ambrogio in Milano pubblicamente ricusò la comunione, solo pel castigo inconsiderato e troppo universale dato a Tessalonica città ingrata e colpevole di gravi insulti alla imperiale podestà. Il pio imperadore più grande nella umiliazione di sè stesso, che nelle vittorie con cui avea pur allora raffrenati i nemici dell' Impero, fu visto piangere fra i pubblici penitenti. [...OMISSIS...] Molti altri esempŒ simiglianti non mancano di personaggi chiarissimi. E` però a vedere, come questa disciplina nella Chiesa mutasse senza che sofferisse cangiamento il suo spirito. Quello spirito di penitenza è fondato nell' opera stessa di nostra redenzione: nè può mutare. Ei venne da Cristo, che S. Girolamo chiamò il « principe della penitenza, e 'l capo di coloro, che per la penitenza si salvano » (1). Laonde volle mai sempre la Chiesa penitenti, e sempre vi furono. Ma quanta sapienza non si vede nel modo, con cui il Signore provvide la Chiesa sua in ogni tempo di pubblici penitenti? Vi fece comparire ne' secoli primi la penitenza de' Martiri; cessati i Martiri, ecco la Penitenza de' SolitarŒ, i quali ne' deserti d' Asia e di Africa fecero, in mezzo alla pace della Chiesa, fiorire un novello modo di Martiri per austerità e mortificazioni incredibili. In quel tempo di pace ebbero luogo anche nella Chiesa tutti i Canoni di Penitenza, i quali non vennero meno, fino che i barbari, scompigliando ogni cosa, nuove e gravissime tribolazioni alla Chiesa apportarono, e di tribolazione ai Santi. Ma non furono dimenticati o dismessi i Canoni penitenziali senza che il Signore provvedesse a risarcirne la Giustizia sua. Che ne' secoli XII e XIII, cresciuta la durezza del cuor de' laici, e l' ignoranza de' cherici; suscitò degli uomini maravigliosi, un Francesco, un Domenico, un Brunone, un Bernardo, uno Stefano di Grammont, un Norberto, un Alberto, ed altri tai Santi; i quali apersero pubbliche case di penitenza, e trassero un numero grande di uomini a vita mortificata, e a pubblica professione di patimenti e di asprezze. Così in quel freddo tempo riparò la misericordia alla giustizia, facendo istituire innumerevoli monasteri, e fondare severissimi ordini religiosi. E ancora questi durano: e Dio li muta, li riforma, li accresce secondo i bisogni. Quanto alla disciplina poi della comune penitenza, se la Chiesa ne mitigò il rigore, fece con quel senno medesimo con cui un tempo il pose; nè cangiò lo spirito. E non raccomanda essa ancora a' suoi ministri lo studio degli antichi canoni per regolarsi nell' amministrazione della penitenza collo spirito stesso? E vorrebbe pure, che tutti i fedeli ne prendessero notizia, per conoscere l' enormità de' peccati, e la purezza desiderata in comunicando. Sicchè alli buoni nulla è tolto da quella mutazione di disciplina, perchè tengono lo stesso spirito; ma per li cattivi oggidì è rimosso uno scandalo, o pietra d' inciampo, perchè verrebbero da loro trasandate quelle severe ordinazioni per lo poco fervore, e produrrebbero nuove colpe. Perciò, dalla frequenza del comunicare in antico, nessuno pretenda di persuadere il comunicare frequente agli indisposti, e nessuno da quel rigore si creda di potere impaurire e rimovere i disposti. Ciascuno pensi, che non ci è comandata tale frequenza prima che la rettitudine della vita. Vivi in modo di potere comunicare ogni dì; ma in ragione sempre di tuo ben vivere comunica. Dottrina è di S. Francesco di Sales, che a comunicare ogni ottavo giorno convenga non cadere in peccati gravi, nè avere affetto a' leggeri, e sopra ciò grande desiderio del comunicare; ma per comunicare ogni dì bisogni di più avere superata la maggior parte delle cattive inclinazioni, e farlo a consiglio del direttore (1). [...OMISSIS...] Il desiderio poi e la fame di questo divino cibo è altresì requisito necessario di chi se ne pasce. Nulla più abborre che la sazietà. Con queste cose sentirete tutti i Santi a incoraggiarvi allo spesso comunicare. San Filippo col rinfiammare in Roma l' amore alla frequente comunione, e secondo l' esempio suo altri piissimi uomini migliorarono in molte parti i costumi; e per cooperare a detta frequenza, Buonsignore Cacciaguerra, compagno di S. Filippo, scrisse in quel tempo il suo divoto libro della Comunione. [...OMISSIS...] Mi sono allungato parlandovi del Sacramento della Comunione qui, dove il discorso fu della Messa, perchè elle sono cose congiunte. Il comunicare poi alla Messa si fa all' intenzione della Chiesa, che, come fu detto, ordina in plurale le orazioni del Sacerdote, supponendo, che con esso comunichi il popolo: si fa alla natura del Sacrifizio, che dal Sacerdote per sè e pel popolo s' offerisce; onde è ragione che egli e 'l popolo ne partecipino: si fa in fine al vantaggio di chi si comunica, poichè in comunicando alla Messa gode i frutti del Sacramento, e insieme del Sacrifizio, offerendo a Dio la gran vittima di espiazione e di lode, e da Dio avendo un cambio così ineffabile e prezioso. Cantare a Dio lodi, non solo singolarmente, ma in unione di molti, e con vicenda di cori; celebrare con più o meno solennità, ed ancora con musiche, ornamenti, cerimonie le divine perfezioni, e i divini benefizŒ: è cosa conforme non che al dovere, ma ben anco alla inclinazione, ed alla retta natura degli uomini. Per questo l' antichità tutta e tutto il mondo fu sempre pieno di religiosi costumi: sebbene solo nella famiglia de' giusti, special cura del Signore, si trovi il culto puro da superstizione ed empietà, e gradito all' Eterno. Negli uffizŒ della Chiesa alcune cose, come il canto degl' inni, i giorni festivi, le sacre pompe, le orazioni, i sacrifizŒ, non sono nuovi per intero: avvegnachè tutte le genti antiche usavano, sebbene impuramente, tai cose. Si conosce però di qui, come in sostanza queste pratiche si fondano nella ragione delle cose; mentre anche quelli, che abbandonarono il vero Dio e confusero le verità tutte di religione, ebbero però, chiariti da un po' di lume di natura e di ragione che loro rimase, riti somiglianti. Ma quantunque il culto esterno si fondi in natura ed in ragione; tuttavia la Rivelazione sola cel purga, cel nobilita e perfeziona, e cel dichiara rato ed accetto al Signore. Una somiglianza più vicina, nè solo nell' esterno ma nello spirito stesso, hanno i nostri uffizŒ con quei dell' Antico Testamento. Ivi la partizione del dì e della notte all' uso delle preghiere (1). Ivi il salmeggiare, che tutto avemmo da que' Santi antichi (2). Ivi i cantici, e gl' inni (3); ivi le lezioni delle Scritture; ivi le acque lustrali, il balsamo, l' olio, e gli stromenti di musica, e i lumi accesi, e gl' incensieri, e le are, e l' ordine de' Sacerdoti; e assaissime altre cerimonie conformi alle nostre. Le Mosaiche però erano molte pel numero, gravi per rigore, e mere figure di quell' esemplare veduto da Mosè in sul monte; e però, quanto alla lettera loro, convenivano solo a quella Gerusalemme, che è serva, e madre di servi; non alla celeste madre nostra, che è libera (4). E non di meno chi si fa dentro nel loro spirito, come hanno fatto i Santi in tutti i tempi, si udirà agevolmente in que' riti una voce sola, e un solo costume con noi. Perchè sempre uno fu lo spirito di quella adunanza di giusti, che cominciata in Adamo penitente, terminerà col mondo. Fu adunque quando Cristo fondò il nuovo Israello, che dall' antico scelse alcune cose convenienti, e ne fece passare l' uso agli Apostoli: sebbene anche queste le lasciò loro come cose sue, non come cose altrui. Del cantare inni e salmi, dice Agostino (1), abbiamo del Signore stesso o degli Apostoli i documenti, gli esempŒ, i precetti. Sentiamo in fatti, che dopo l' ultima cena, « detto l' Inno, uscirono sul monte Oliveto » (2). E Paolo esorta que' di Efeso ad essere nelle loro adunanze pieni di Spirito Santo. [...OMISSIS...] Questo ancora raccomanda a que' di Colosse (4), e vuole che escano sì fatte lodi del cuore, ed essi sieno portati a quelle da interiore esultanza di santo spirito, da pienezza di pace di Cristo, da abbondanza di sua parola, che schiumi per dire così, e travasi dal petto ricolmo. Ecco in poco quando l' orare e 'l salmeggiare è ben fatto. Scrive ancora a' Corinti (5): « « Qualunque volta vi adunate insieme, ciascuno di voi ha il salmo, la dottrina, la rivelazione, la lingua, l' interpretazione: tutto giovi ad edificare » ». L' egregio Baronio ravvisa in queste parole effigiata la forma dei nostri uffizŒ (6). Poichè ecco quanto abbiamo negli uffizŒ: i salmi; di poi le lezioni , che rispondono alla dottrina; i responsorŒ , che tengono luogo della rivelazione , perchè con questi ci desidera la Chiesa il possesso dei beni celesti, operando ciò, che udimmo prescritto nelle lezioni, od almeno questo è il loro uso solito (7). Invece poi della lingua abbiamo l' Evangelio, per la manifestazione del quale ne' tempi primi era dato il dono delle lingue; e per l' interpretazione del medesimo, che allora si facea da que' fratelli che più sentiano interiore illustrazione e fervore a parlare, or noi abbiamo le Omelie de' Padri, nelle quali l' Evangelio si dichiara. E poichè molti in que' primi tempi di amore infiammati ardevano di manifestare nell' adunanza quanti intorno all' Evangelio sentivano pii sentimenti: per questo Paolo tempera e regola quel fervore, insegnando che lo spirito de' profeti è soggetto a' profeti (1). Non si vede di questo traccia nel Mattutino, ove chi legge le Lezioni dimanda prima benedizione al Superiore, indicando con ciò, che ogni zelo, ed ogni esultanza di spirito se è da Dio, è pure tranquillo, ragionevole, mantenitore dell' ordine, sommesso a' maggiori? Tengono dunque ancora i nostri uffizŒ que' primi delineamenti messi dagli Apostoli; e sopra quelli di mano in mano furono regolate e compite le preci secondo i bisogni: e con leggi e rubriche fu reso costante e uniforme il numero, l' ordine, il modo di esse: e tutto recato a stabilità ed esattezza. Ogni Cristiano venuto nel Tempio alla pubblica orazione forma parte di quella adunanza di Sacerdoti e di popolo fedele che prega ivi raccolta. E` dunque necessario o conveniente, che tal Cristiano sappia che cosa e' preghi cogli altri, e che cosa dica quell' adunanza di cui è membro. La Chiesa oltre di questo è madre al Cristiano: e quante belle cose a lui non dice, quanti bei sensi a lui non esprime ne' sacri templi? Non sono segni di idee solamente le parole: anche gli atteggiamenti della persona indicano gl' interiori sensi. E ancora per mezzo delle cose esterne l' uomo rappresenta e parla: formando di quelle simboli ed imagini di quanto ha nell' animo. Non lascia pertanto la Chiesa di favellare in tutti tre questi modi: e non meno a Dio, supplicandolo, che a' suoi figliuoli insegnandoli e innamorandoli delle cristiane verità. Poichè in essa come in perfetta persona tutto è armonioso e decente, le parole, le cerimonie, gli adornamenti. Con tutto parla. Quanto dicono le parole sue agli orecchi, tanto pongono i suoi riti sotto gli occhi. E sì come grave matrona al decoroso discorso fa convenire decoroso atteggiamento, nè alle gravi parole, e a' nobili cenni discorda l' abito ricco e maestoso, sicchè da tutto quello che è in lei nasca il concetto medesimo di gran donna a chi la sente e vede, e dal parlare, e dall' accennare, e dal vestire: così parimenti è nella Chiesa del Signore, dove le orazioni, i riti, e l' esteriore apparato armoniosamente consuonano, e danno a divedere di che qualità donna ella sia o che risguardiamo il contegno suo in trattando con Dio, o in trattando con noi. Ignominioso è dunque al Cristiano non intendere, quanto può, il linguaggio della madre sua, sì piena di sapienza e di tenerezza: al quale linguaggio ella studia di avvezzare i balbettanti suoi figli, e cui eglino debbono apprendere se vogliono esser di sua famiglia. Impariamo adunque il linguaggio della madre, studiamo di ben penetrare i sensi della pubblica preghiera. Che questa è a Dio carissima: a questa ci giova conformare la privata, che allora è fatta rettamente quando somiglia a quella. Sugli esteriori oggetti adunque della Chiesa, sulle cerimonie, e sulle sue vocali preghiere alcuna cosa dirò: perchè qui non manchi qualche nozione sopra quella triplice lingua, nella quale la Chiesa esprime i suoi alti concetti. Al cominciamento della Cristiana Società ne' tempi Apostolici e' pare, che le chiese fossero le case de' fedeli. Così dalla lettera di Paolo a Filemone veggiamo, che la Chiesa avea luogo nella casa di questo fedele: ivi tenevansi le sacre adunanze. Surte poi le persecuzioni, spesso non poteano avere luoghi costanti, nè agiati. S' adunavano que' pii nelle arenarie, nelle caverne, usavano singolarmente raccogliersi a' sepolcri de' Martiri. Ivi facevano loro Stazioni, ivi ricevevano i Sacramenti. La perfezione poi di que' primi padri nostri li rendeva in vero meno bisognosi di chiese pel culto divino. Essi stessi erano i tempŒ di Dio. E il martire Giustino dimandato dal Prefetto di Roma in che luogo i Cristiani s' adunassero, rispondea: che dovunque pareva meglio erano soliti di congregarsi, perchè l' ineffabile Dio de' Cristiani non è circoscritto, nè ristretto da luogo, ma invisibile essendo riempie il Cielo e la Terra; e dappertutto è adorato dai fedeli (1). Tali congregazioni di tali adoratori formavano le chiese vere, costrutte di vive pietre, opere artifiziose del fabbro divino, e sacrate dall' eterno pontefice: delle quali chiese le materiali non danno che un emblema: ed è per questo, che il Vescovo consacra i templi murati con alcune bellissime e simboliche cerimonie, che alludono ai templi vivi. I luoghi però usati da que' Cristiani per le sacre unioni, o fossero nelle case private, o ne' sotterranei e nelle catacombe, o talora in luoghi spartati ed eretti appositamente; essi veniano disposti in forma di cappelle, o chiesuole semplicissime, di solito rozze, ma piene di decoro e santità. Ivi l' altare, ivi le reliquie de' martiri, ivi delineate e scolpite con rozza opera in sulle pareti e 'n sulle sepulture imagini di sacre verità, storie, simboli, ed iscrizioni, come più suntuosamente si fa nelle nostre. E fu allora quando a Dio piacque di convertire Costantino Imperadore, e dare così pace alla Chiesa per trecento e più anni vessata e sbattuta da' feroci Signori del mondo, che si videro alzarsi al vero Dio templi maestosi; ed i sacri vasi formati di legno divenire d' oro e d' argento: e d' oro risplendere il tetto, le muraglie, i sacri addobbi, le vesti de' Sacerdoti: e statue insigni, e pitture preziose ornar la casa del Signore. Del quale spettacolo niente si potea dare di più commovente e consolante pe' buoni. Poichè dopo tempi tristi e d' ingiustizia verso l' Eterno, apparivano giorni pii, ne' quali in onore al Signore dell' universo si dedicavano le cose da lui create e dagli uomini tenute in pregio, che prima s' usurpavano a fomentar o la umana superbia, o la diabolica superstizione. Di questo tempo per la Chiesa felice in tutto il mondo s' onorò Iddio con gran templi e ricchi; come veggiamo per grazia divina anche a' dì nostri. Osservarono alcuni, come nelle chiese semplicità a decente mondezza unita più eccita divozione sincera: mostrando essa al cuore come il nostro Dio non ama grandezze umane, nè fasto: ma ama interiore affetto, purezza e sincerità di tutto e non maschera; e fino povertà di mondane cose; come povera vita fu quella di Cristo. In questo avvi ad osservare, che l' ornamento della chiesa si considera, o rispetto a Dio, o rispetto all' uomo. Rispetto alla maestà divina nessuno onore è troppo, e sarebbe ragione che tutte le ricchezze del mondo giovassero ad onorarlo. La dignità del tempio viene sostenuta con ciò, che gli uomini reputano dignitoso: quelle ricchezze dunque si mettono in chiesa non già per dare a queste il prezzo che non hanno, ma anzi per farle a quello servire, che di ogni pregio è fornito: apparendo anche in ciò la bontà di quegli uomini pii, che da sè togliendo tali vanità, al Signore ne hanno fatto sacrifizio. Sono perciò le ricchezze delle chiese trofei, che Gesù ha portato sovra il mondo. Così nell' antico patto le egiziane dovizie servirono, per comando del Signore, alla vera religione degli Ebrei. Rispetto all' uomo: quanto egli è più infermo e più soggetto a' sensi, tanto ha maggior bisogno d' essere tratto a Dio per mezzo di esteriori oggetti, quasi per gradi che a Dio l' innalzino. Quindi la pompa della chiesa, la soavità della sacra musica, e delle altre esteriorità ecclesiastiche a quello stato della chiesa più abbisogna e più conviene, nel quale gli uomini sono più raffreddati e aderenti alle mondane cose; come inverso de' primi tempi è a dire de' nostri. Quanto l' uomo è più perfetto più ama la solitudine degli oggetti esteriori, perchè lo tolgono da' penetrali di sua mente, ove si tiene in gioconda pace nascosto: ma se è dissipato, alcuni oggetti esteriori possono dare a lui motivo di raccogliersi. Quindi regola di S. Agostino è questa, che « « allora è buono l' uso delle cose umane, quando negli inferiori oggetti non veniamo intoppati, ma solo dilettati de' superiori » ». Per la quale non meno la semplicità antica si commenda, che la pompa presente si giustifica. Per altro, molto si lagnano i Padri del veder le chiese riccamente apparate di cose umane: nude e sfornite di cose divine, dello spirito e delle virtù de' Cristiani. Quegli ornamenti sono buoni, ma questi migliori; nè quelli sono cari a Dio senza questi. Quando dunque venite in alcun tempio ampio e dovizioso, godete allora della gloria divina fra gli uomini; godete, che il Signore abbia tratte a sè quelle ricchezze del mondo, e fatte servire al culto suo; godete, perchè gli uomini infermi che stimano quelle cose, da quelle vengono bel bello stimando Dio, a cui quelle cose tributano onore. Se poi vi fate dentro alle chiese semplici e povere, come quelle dei Cappuccini, vi tornino a mente i bei tempi primi: e godete in esse il vostro Dio immediatamente senza ingombro o senso di cosa mondana; e tenete egualmente venerabile e ricco quel luogo, dove abita la vera ricchezza, il Signore. Con quegli ornamenti adunque Madre Chiesa v' insegni a levarvi alla divina Maestà: con questa semplice povertà v' insegni a sprezzare la mondana vanità. Sono nelle chiese, oltre agli ornamenti, delle altre cose; e farò qui un piccolo cenno delle principali, notandovi di che cosa possano essere figure o segni. L' altare è la mensa su cui si fa il Sacrifizio. Rappresenta il desco, a cui cenò Cristo quando consecrò prima il pane e il vino. E come quello effigiava la croce, così l' altare nostro è imagine anche della croce, su cui patì. Per questo a' tempi apostolici gli altari erano costrutti di legno. Ancora più propriamente per l' altare si esprime Cristo stesso; avvegnachè, essendo il merito di suo sacrifizio opera del suo spirito, Cristo fu veramente e altare e vittima e sacrificatore. Onde Giovanni dice, che l' altare è Cristo (1). E perchè Cristo nelle antiche carte detto è pietra angolare, fianco dell' edifizio, che unisce le due muraglie del tempio, cioè gli Ebrei e i Gentili (2), e ancora pietra perchè percossa co' patimenti sgorgò acque di salute (3), e pietra perchè ad essa s' infrangono e spezzano quelli che in lei cozzano; già per antica legge gli altari si fanno di marmo, e si sacrano coll' olio, perchè Cristo è l' Unto, di cui era imagine il sasso, su cui Giacobbe sparse l' olio ed eresse a monumento, sopra del quale dormendo, come Cristo in sulla croce, avea veduto la scala degli Angeli, che congiungeva insieme la terra ed il cielo (4). Nell' altare s' inseriscono reliquie di Santi, specialmente martiri, pel consorzio che hanno con Cristo fatti una cosa con lui nel Sacrifizio; e le tre tovaglie benedette dell' altare rappresentano pure le vestimenta di Cristo, che sono i Santi suoi. I candelieri accesi, e il Crocifisso nel mezzo, mostrano i popoli credenti uniti dalle due parti opposte, giudaica e gentile, a quello che elevato in alto trasse a sè ogni cosa. A pie' dell' altare stanno de' gradini, che sono le virtù, per cui si va a Cristo. Prima di ascenderli nella Messa il Sacerdote fa la confessione de' peccati, e recita a vicenda col ministro, e un tempo già con tutto il popolo, l' opportuno Salmo « Giudicatemi Signore » (5), col quale prega, che, abbattuti gli avversarŒ, mandi a lui la sua luce e la sua verità, per essere da queste condotto nel santo suo monte, ne' diletti suoi tabernacoli. [...OMISSIS...] L' uso delle cose necessarie nella Messa e nelle altre funzioni facilmente apparisce. Laonde dirò delle loro mistiche significazioni, essendo queste atte a nudrire divozione, conforme all' intenzione della Chiesa, desiderosa che tutto e in tutti i modi spiri edificazione e pietà. Dunque nel Calice s' imagini di vedere il sepolcro nuovo del Signore; nella Patena la pietra rivoltata sopra la bocca del monumento: il corporale sia la sindone monda, ove Giuseppe d' Arimatea involse il corpo del Signore. Le vesti poi del Sacerdote tutte alludono a vestimenta spirituali. La bianca cotta indica l' innocenza di una vita sacerdotale. L' ammitto è l' elmo della salute, che guarda il capo dall' avversario, e protegge il collo o sia gli organi della voce, onde facile è il peccare. Il camice mostra il vestito tutto mondo della santità; il cingolo in particolare la virtù della purità; il manipolo, drappo con cui una volta s' asciugavano le lagrime, significa la penitenza, che, seminando in pianto, coglie frutti di letizia. La stola, che pendente dal collo s' incrocicchia in sul petto, segna la fortezza, o la veste d' immortalità acquistata per la croce di Cristo, e la pianeta finalmente raffigura il giogo della soave sua legge, cioè la carità, che dal Vescovo nella ordinazione s' appella abito sacerdotale, e nel Vangelo veste nuziale soprapposta alle altre, perchè a tutte dà compimento e perfezione. Nella tonicella poi del Soddiacono è l' imagine delle interiori virtù, come nella dalmatica del Diacono delle esteriori: poichè si spetta a' Diaconi la cura de' poveri, e debbono essere assistiti da' Sottodiaconi, cioè da ministri incorrotti pieni d' interior santità. Il piviale finalmente dimostra la grave e santa conversazione de' superiori ecclesiastici, che abbraccia la carità di Dio e del prossimo. Ora i colori diversi de' sacri indumenti si conformano alle feste, che con essi si celebrano. Il bianco indica letizia, gloria, gaudio; il rosso segna il sangue de' Martiri, e il fuoco del Santo Spirito; il violaceo significa mestizia e passione; il nero morte: il verde poi è un colore medio, che s' usa in alcune Domeniche meno solenni forse qual indice della nostra speranza. Le conche poi dell' acqua benedetta, che anticamente erano certe urne con una fontana posta in mezzo all' atrio delle chiese, ove si lavavano le mani e la faccia i fedeli avanti entrare in chiesa, figurano la lavanda interiore, e lavano da veniali peccati chi n' ha dolore, in virtù di benedizione fatta su quelle acque dal Sacerdote. D' alcune altre cose, che sono in chiesa, cade di toccare nel capo seguente. Dalla meditazione de' riti e delle cerimonie dalla Chiesa usate quali cose e quante non impara il Cristiano! Raccoglie da quelle gli alti sensi di essa Chiesa verso a Dio, ed eccita in sè stesso que' sincerissimi e perfetti atti di culto. Vede ancora in quelle, il che non è a dire quanto sia giovevole, una cotal forma bellissima di cristiano conversare in questo mondo, gastigato alle regole di perfetta vita; mentre, dovunque e' si trovi il Cristiano è nel tempio del Dio suo, e quasi ministro, per dire così, insieme cogli altri fratelli suoi, e con tutte le creature dell' universo, esercita atti di religione. Tuttavia non vengono per avventura sotto questo aspetto bastevolmente considerate le ecclesiastiche cerimonie. E pure verissimo è, che nella Chiesa si ha quel trattare vicendevole, che a Cristiani perfetti conviene: e così perfette essa l' ha poste, perchè convenienza avessero con sè, col carattere de' suoi ministri, e coll' altezza delle cose divine. Or facciamoci addentro alcun poco nel loro spirito. Che diversità fra queste e le cerimonie del mondo! Alcuni distintivi delle cerimonie della Chiesa paragonati a' corrispondenti delle cerimonie del mondo ne mostreranno, quanto le une dalle altre si dispaiano. Il primo carattere delle cerimonie di Chiesa è la SINCERITA`. Essendo santa essa Chiesa, sinceri sono quegli atti con cui la santità appalesa. Oltracciò sono fatti a Dio, col quale non si scherza, poichè vede nell' interiore del cuore. E se nel mondo l' interesse sospinge gli uomini a finzione esterna, qui gli spinge ad esterna sincerità, come la sola che ottenga favore. Perciò le ecclesiastiche cerimonie sono ancora semplici e naturali . Per esempio: levarsi in piedi al Vangelo dopo essere stati seduti all' Epistola, per dimostrare prontezza di sostenerlo e difenderlo quali prodi soldati di Gesù: stare in piedi nella Domenica al recitare delle antifone di Maria, in memoria del Signore risorto; e usare positura ritta ogni qual volta vogliamo significare solennità ed esultanza: genuflettere, a indizio di mestizia e lutto, quasi col lasciare cadere il corpo, dimostrando di confessare la caduta dell' anima, o l' umana abbiezione dinanzi alla Divinità: piegare il capo in segno di riverenza, battersi il petto in atto di pentimento, variare la voce come si fa nella Messa, adoperandola talora alta, talora sommessa, alcuna volta al tutto segreta secondo i misterŒ proferiti, i quali si vogliano fare intendere od a' ministri soltanto, od a tutto il popolo, o vero dall' unico Sacerdote si trattano con Dio in alto raccoglimento, conforme alle intime cose, sacrosante, e misteriose che esprimono (1), ed altrettali atteggiamenti, riti, e cerimonie, i quali, nati, per così dire, insieme colla cosa ch' esprimono, non hanno sforzo veruno nè affettazione, e mostrano in sè medesimi la propria sincerità e verità . Sieno adunque anche gli atti di noi Cristiani, in trattandoci nella vita civile, così semplici, facili, sinceri, acconci, e proprŒ alle opere che trattiamo, e in un tempo così espressivi e decorosi. Tutto altro è il trattare del mondo, simulato, artifizioso, ed insulso. Altro carattere di questo trattare esteriore nella Chiesa è il BELL' ORDINE, la quiete, la placidezza , con cui tutto si move. Ogni cosa è bene disposta e regolata. Sono prescritti a' Sacerdoti i movimenti e gli atti più minuti, perchè ogni picciola sconcezza si fa grave in quel luogo. La distribuzione de' ministri, cominciando dal Pontefice insino a' turiferarŒ, agli ostiarŒ, a' lettori; le incumbenze assegnate a ciascuno, accordo insieme e varietà, ed un succedere di nuovi oggetti bene fra sè congiunti, rende ciò che è santo anche dilettoso e ammirabile a' sensi. Così queste sacre funzioni esprimono il fervore dell' uomo cristiano, che nasce da serena mente, quieta, e tutta pace: edificano colla pietà, non agitano colla passione. Che distanza dal tumulto, dal fracasso, e confuso agitamento delle mondane feste, le quali mescolano o sconvolgono tutto l' esteriore e l' interiore dell' uomo! E se noi mireremo alla gravità ed alla MAESTA` del sacerdotale apparato, principalmente in festa solenne, facilmente diremo, che quel così augusto spettacolo, e quel grave portamento, quegli ampli addobbi de' Sacerdoti e del Tempio ci parlano di Dio; e che mentre glorificano Dio insegnano al Cristiano chi sia lui stesso, che Signore serva, e che servigio sia il suo. Insegnano, che a lui sommamente disconviene in ogni tempo piegarsi alle scurrilità del mondo; ma sempre al grave contegno attenersi e dignitoso. E perchè i mondani uomini sono avvezzi nelle loro smorfie, e in certi loro attucci, colle idee picciolissime che queste cose presentano non sogliono capire le gravi e somme verità, nè prezzare le ecclesiastiche cerimonie: non potendo dilatare il pensare ed il cuore a quelle grandi cose, nè reputarle perciò belle o dilettevoli; ma sì tenerle, come le altre cose di Dio, austere, penose e secche. E loro avviene questo come a colui, che ode dignitosissimo personaggio favellare, ma non intende la lingua in cui favella. Noi all' incontro, che intendiamo e gustiamo questi riti maestosi, veggiamo nel Sacerdote, che ascende l' altare, l' umanità ascendere al « Sancta Sanctorum », a Cristo; quando lo bacia intendiamo ch' ei bacia Cristo, saluto usato anticamente a' re; quando incensa le obblazioni, le reliquie, l' altare, sappiamo che adora con quest' atto in tutte quelle cose Iddio, veggiamo i vortici del profumo odoroso ascendere in alto, e in quelli ci vengono a mente i nostri preghi che ascendono a Dio per Cristo; e per Cristo, giusta la frase scritturale, si odorano dal Padre, essendo Cristo il solo odore in cielo gradito. E così nella pompa de' doppieri e de' torchi accesi e de' candelabri, ove splende il fuoco che Cristo venne a mettere in terra, e nel trono del Pontefice, e nelle schiere de' ministri, e nell' ordine de' Sacerdoti, e nella turba de' cantori, e ne' suoni degli organi, e in tutto il lento e variato procedere della cerimonia ci troviamo agevolmente colla mente in Cielo, nella corte di Dio, nel tempio del sommo Pontefice; d' intorno al quale gli Angeli con divini riti celebrano eterno giorno festivo. Il quarto carattere delle cerimonie ecclesiastiche è quello di RIVERENZA, di cui sono piene verso tutti i membri della Chiesa, cioè i fedeli che a quelle assistono, e di quelle sono gran parte. Ciò pure insegna come dobbiamo portarci a vicenda. San Paolo esortava a prevenirsi scambievolmente in rendersi onore (1). Ora, poichè i ministri sacri in chiesa non trattano solo con Dio, ma ben anco tra sè, e talora col popolo; così come con Dio la maestà e la dignità è richiesta, i Cristiani trattando fra sè hanno legge di scambievole riverenza. Rispetto e riverenza può essere dato tanto dagli inferiori a' superiori, come dai superiori agl' inferiori, e ancora da uguali ad uguali. Questo rispetto di tutti fra tutti nella chiesa apparisce in tanti inchini, che si fanno i sacerdoti e cherici. Verso il superiore il mostrano le benedizioni dimandate prima di leggere, i baci della mano fatti dal ministro, l' essere tutto il coro regolato a suo esempio: poichè nessuno siede prima di lui, nè si alza prima che egli alzato non sia, e in altri simili segni di onore: i preti stessi si stanno in coro regolati secondo la dignità o l' età. Ma se il Cristiano venera nel maggiore l' autorità divina; il maggiore altri non trova nell' inferiore che un fratello suo compartecipe della stessa cristiana adozione. Onde quale umiltà e dolcezza non dimostra il Pontefice stesso in tutta sua pompa in onor degli astanti? Viene alla celebrazione della Messa, e si pone prima di tutto a' piè dell' altare; fa una accusa pubblica de' suoi peccati, e sente rispondere in bocca del popolo: Iddio ti faccia misericordia . Dopo offerito il pane ed il vino e' si volge agli astanti, li chiama fratelli, li prega di orazioni, perchè il Sacrifizio comune sia accettato dal Signore. Dimanda anch' egli ad un Sacerdote la benedizione prima di leggere le lezioni nel Mattutino. E per tutto s' umilia di sotto agli altri, quando prende aspetto d' uomo; benchè in figura di Dio venga nella funzione stessa altamente onorato. Quella cerimonia però, che più al vivo mostra l' onore, di cui fa la Chiesa degni tutti i Cristiani, si è l' incensamento, il quale non pure al celebrante e al clero, ma al popolo stesso viene dato, perchè si tengono tutti pieni di Dio, templi vivi, come essere dovrebbono, del Santo Spirito. Cessiamo forse d' esser tali fuori di chiesa? No. Ecco adunque l' onore, in che reciprocamente, se cristiani siamo, ci dobbiamo tenere. Quanto civile, umano, riverente non è dunque il tratto dell' uom cristiano? quanto lontani ci conviene essere ne' nostri modi dallo sprezzo, dalla non curanza, dalla freddezza verso a nessuno, non che io dica dalla presunzione, dall' alterigia, e dall' insulto, che sono pur le belle costumanze di questo mondo? Ma il carattere precipuo, più soave e più bello delle cerimonie ecclesiastiche si è il quinto, cioè l' essere piene di amore , LA CARITA`. Oh bellissima unità di cuori, che spirano le funzioni di chiesa! che concordia e carità non adorna i sacri riti? Nella Chiesa, tolte di mezzo tutte distinzioni e separazioni mondane, forma un corpo solo nell' unione al comune capo Gesù, il re col suddito più abietto. A vicenda colà si prega e canta. E perchè i due cori in nulla cosa sembrino salmeggiando divisi, nell' antifona, alla fine del salmo, s' uniscono concordi ad esprimere perfetta consensione di anime. Nella Messa poi quai soavi parole non usa il Sacerdote ciascuna volta che parla agli astanti? Quando li saluta si volta ad essi allargando le mani sue in atteggiamento di abbracciare, e loro dice: Sia con voi il Signore. Essi rispondono all' incontro: Sia pure collo spirito tuo. E tale saluto forma preparazione alla preghiera, poichè la preghiera accetta è quando il Signore è con quelli che pregano, ed essi nel Signore sono uniti, per cui al Dominus vobiscum segue l' Oremus , cioè l' invito a pregare insieme. Altra volta esortali ad innalzare gli animi al Cielo, essendo oggimai vicino il Sacrifizio, a rendere grazie, e cantare in una con lui e cogli Angeli: « Santo, Santo, Santo il Signor degli Eserciti », e benedire colui, che già in nome del Signore sen viene. Questo pio consorzio di affetti si va poi accrescendo in perfezionando il Sacrifizio. E quando il Sacerdote divide l' Ostia in due parti, e un frammento ne stacca, e con tre segni di croce lo ripone nel calice, dice allora a tutti: « La Pace del Signore sia sempre con voi ». E già messo nel calice il pezzetto, aggiunge: « Questa meschianza e questa consecrazione del corpo e del sangue del nostro Signore Gesù Cristo torni a noi, che siamo per riceverlo, a vita eterna; così sia ». Colla quale cerimonia rappresentando il ricongiungimento del corpo col sangue di Cristo, cioè la nuova ed eterna vita da lui per la risurrezione racquistata; si prega, che noi, membra sue, parimente partecipiamo di questa immortale vita del glorificato nostro Capo. Nel quale istante il Sacerdote, dimentico quasi che pur siamo in terra, ov' è solo principio d' eterna vita, quasi trasportato in Cielo a quel tempo, in cui l' opera di nostra salute sarà perfetta e compita, prega alla Chiesa di Dio Pace; e pace a tutti i fedeli desidera dal Signore: e bacia l' altare per riceverla da Cristo, che l' altare rappresenta, e abbraccia il Diacono, e a lui la comunica: il Diacono poi al Clero la reca, che tutto pure a vicenda si viene abbracciando, da cui l' abbracciamento un tempo passava anche al popolo: rito pieno di affabilità, e santissima amicizia, dopo il quale non più dovrebbe rimanere alcuno rancore negli animi, non più avvenire una rissa in sulla terra fra' battezzati, e solo Amore regnare, Concordia, Pace di Cristo. Il perchè, se le sacre cerimonie si guardano rispetto all' animo della Chiesa, si trovano pure e sincere , in sè stesse sono belle e ordinate , verso Dio sono gravi e maestose , verso i fedeli sono piene di rispetto e d' amore . Che se, in trattando fra noi nella vita, queste cose serbassimo, noi toccheremmo ogni perfezione di un conversare cristianissimo e amabilissimo. Chi mira all' ordine delle preghiere, che la Chiesa usa, può acconciamente dire colla Cantica, che il Signore ha ordinato in lei la carità (1). Veggiamolo brevemente. La Chiesa, come abbiamo toccato di sopra, regolò fino da tempo antichissimo le sue preghiere nelle diverse ore del giorno e della notte. Partito il dì, e così pure la notte in dodici ore, ad ogni terza ora era l' orazione. Le ore più solenni però del giorno furono Terza, contandosi dallo spuntare del sole, Sesta, Nona, e Vespro o duodecima. Introdotto poi il costume di orare anche al principio del dì e della notte, ne vennero Prima e Compieta . Queste ore sono santificate anche da' fatti della Passione di Cristo. A Prima fu condotto da Pilato: a Terza crocifisso colle lingue de' Giudei, flagellato, coronato di spine: a Sesta inchiodato in croce: spirò a Nona e scese agl' Inferi: a Vespero si depose di croce: e a Compieta fu collocato nel monumento. Col sovvenirsi de' quali fatti può assai agevolmente santificare queste ore anche chi non dice i salmi delle Ore canoniche. Gli OffizŒ divini, come sono al presente, si possono ancora dividere in tre parti: nel Mattutino, col quale principiamo il giorno; nelle Ore diurne, con cui fra il giorno si prega; e nella Compieta, che chiude la giornata. Ognuna di queste parti ha il suo cominciamento opportuno. [...OMISSIS...] Quando cominciamo il giorno, non ancora distratti da occupazioni terrene, nè sbattuti da tentazioni del dì, apriamo più degnamente i labbri a lodare Iddio. Nel giorno, fra tante cure e pericoli, ci bisogna un peculiare sostegno divino ad ogni passo, e questo si chiede colla seconda preghiera. Alla sera, dopo avere passato il giorno tutto negli affari di questa vita, dove è molto difficile non esser qualche volta caduti, che cosa evvi di meglio che a Dio tornare in quella notturna quiete, e pregarlo, come si fa col principio di Compieta, che e' ci voglia ricondurre ad esso e ritenere il suo sdegno. I padri nostri hanno diviso il Salterio di Davidde ne' sette giorni della settimana per modo, che dentro a ciascuna si svolgeva cantando tutto quel libro. Poichè, lasciando essi le voci gentilesche de' giorni, li chiamarono tutti ferie , ossia vacanze: intendendo di mostrare con questo vocabolo, come i Cristiani dovevano vacare sempre dalle terrene cose, e riposarsi in contemplare le divine, e cantarle. Come poi gli Ebrei dal loro Sabbato numeravano i giorni, così i Cristiani dalla Domenica presero a numerare le loro ferie. E come il Venerdì presso gli Ebrei veniva chiamato anche Parasceve, ovvero preparazione al Sabbato, così i Cristiani ritennero all' ultima feria il nome ebraico di Sabbato: volendo mostrare con questo, che la festa degli Ebrei altro non era che uno apparecchio alla cristiana. E sì come alla Domenica, che significa giorno del Signore, celebravano e celebrano il risorgimento, col quale un Cielo nuovo e una Terra nuova apparì, e cantavano in questo giorno il più solenne cantico, quello de' tre fanciulli di Babilonia; così nel Sabbato rammentavano e rammentano la fine del mondo vecchio, e dicevano il Cantico, che Mosè disse moriente. La Feria sesta serbò sempre la grande memoria del sangue del Signore in quel giorno sparso, ed in essa s' intonò il Cantico di Abacucco, dove è accennata la croce. Della quinta è propria prerogativa l' istituzione in essa fatta della Cena eucaristica, e in quella si può ricordare ancora l' istituzione degli altri Sacramenti, dove s' onora il più grande. In fatti, il Cantico Mosaico, composto dopo il passaggio del mare Rosso, che a questo giorno è stabilito, conviene, come diremo più sotto, al battesimo. Negli altri giorni altri argomenti si ricordano e onorano, come la creazione, e il gran decreto della redenzione, l' umana impossibilità a risorgere dal primo peccato, e la morte sua pena; la consolazione del Santo Spirito, e di sua grazia; pe' quali giorni si leggono i Cantici d' Isaia, d' Ezechia, e di Anna. In tali argomenti può pascere santamente il suo spirito, chiunque ne sia informato, ne' diversi giorni della settimana con pia meditazione, e così unirsi alla Chiesa orante, sebbene non reciti il Breviario, e non sappia punto di latino. Gli Ebrei nel primo giorno di ciascun mese celebravano certa festa solenne, chiamata da loro Neomenia , ossia luna nuova . In luogo di questa noi abbiamo fra l' anno sparse le feste della Madonna, rassomigliata dalla Chiesa per la sua spirituale bellezza alla luna. Ogni mese poi, nel primo giorno non impedito da festa maggiore, noi suffraghiamo i defunti. Occorrono oltracciò in ciascun mese alcune feste, delle quali brevemente diremo appresso. Nel tempo, in cui la Chiesa nostra era in sul primo svolgersi, pochi erano ancora i Santi del Nuovo Testamento, e perciò poche le nostre feste. Fra settimana si recitava, come è detto, il Salterio, cioè gli OffizŒ feriali , che sono uffizŒ di penitenza e di apparecchio alla Domenica, grande giorno del Signore. Ma venne di mano in mano la Chiesa arricchendo sempre più di glorie e di eroi, da prima in ispecial modo co' Martiri, e appresso coi Confessorì: e da questi nuovi acquisti ebbe sempre nuove ragioni di allegrezza. Il perchè, festa a festa aggiungendo, e solennità a solennità, è pervenuta Chiesa santa in uno esaltare continuo ogni giorno nuovi trionfi, ogni giorno nuove azioni di grazie, nuove memorie de' suoi prodi. Il quale perenne succedere di fasti gloriosi quale gaudio non dee produrre ne' fedeli, ammirando le inesauribili ricchezze divine ne' Santi suoi, e la inesprimibile varietà e preziosità di abbellimenti, con cui la sposa di Gesù in ciascun giorno quasi a foggie novelle si ammanta! Ogni giorno dunque Chiesa santa esulta; e questo suo esultare crescerà insino alla fine de' secoli. Non dà egli un tanto rallegrare qui in terra imagine del Cielo? In fatti la numerosità delle feste, dice S. Bernardo, spetta ai cittadini e non agli esuli (1). Il perchè v' ebbero de' santi uomini, che, desiderosi più del pianto, proprio di questo pellegrinaggio, che della letizia propria del Cielo, hanno mostrato desiderio, se essere potesse, che minorato fosse il gran numero degli uffizŒ de' Santi, e avessero luogo que' delle ferie. Noi poi e nelle feste de' Santi la magnificenza ammiriamo del regno di Cristo, che ci dà quaggiù un cotale saggio di celeste gloria, ed amiamo lo spirito di que' virtuosi, i quali preferiscono alla consolazione lo squallore ed il pianto, come più proprio a noi, Chiesa che milita in fra cotanti avversarŒ. E` però di grandissimo vantaggio quell' avere ogni giorno sott' occhio novelli esemplari di virtù maravigliose. Che se noi venissimo in tutto il corso dell' anno seguendo dietro le orme sue la Chiesa, oh di quante alte cose meditazione faremmo! Di tutte le verità, le istorie, i motivi, le strade che ne scorgono a Dio. Vi dirò in poco che argomento tolga la santa Chiesa a meditare o celebrare ne' varŒ tempi dell' anno. Apre l' anno Chiesa santa colle quattro Domeniche d' Avvento, colle quali, sì come ne' quattro mill' anni precorsi a Cristo si apparecchiò il mondo a ricevere il grande ospite suo, così la Chiesa noi apparecchia al natale del Signore. Quindi questo divino Sole, che appresso sorge, regola l' anno ecclesiastico, per così esprimermi, come il sole materiale regola l' anno terreno. Qual migliore tempo di questo da meditare la caduta dell' uomo primo, l' impotenza della natura e della legge a rilevarlo, le profezie e promesse di Riparatore, e sopra tutto l' opera della divina incarnazione? Così preparati, ci nasce il Salvatore, viene circonciso, datogli il nome di Gesù, e a' pastori, e a' Magi si palesa: intanto freme la Sinagoga, e la parte delle tenebre si sbrama nel sangue degl' innocenti, mentre se ne fugge in Egitto il cercato Infante. Tali cose nella festa del Natale, della Circoncisione, dell' Epifania e degl' Innocenti si ricordano. Qual pascolo non abbiamo noi nella considerazione dell' umile presepio del Signore, dell' adempimento della Mosaica Legge, della forza del nome di Gesù, dell' annunzio di sua venuta fatto agli Ebrei, della chiamata de' gentili, del malo ricevimento e della riprovazione della nazione santa, colla quale però ci rimane la dolce speranza di riunirci nella fede in fine del mondo, e finalmente della guerra eterna che le tenebre hanno colla luce, il mondo con Gesù Cristo? Nella festa di S. Giuseppe abbiamo sotto gli occhi i doveri di pudico sposo, di vigile padre, e tutta la vita privata del Signore. Nelle sei Domeniche, che seguono dopo l' Epifania, la cecità de' Giudei, e i misteri di predestinazione, e di Grazia. Considerato fino a qui quanto spetta a Cristo e a' doni suoi, succede la considerazione di noi stessi, i danni del peccato d' origine, la moltiplice corruzione del corpo e dell' animo umano, la lotta fra lo spirito e la carne, l' ignoranza, e la necessità della penitenza; le quali cose tutte come apparecchio alla Quaresima cadono nella Settuagesima, Sessagesima, e Quinquagesima, che precedono la Quadragesima. In questa la morte; la natura e i rimedŒ delle tentazioni, il laborioso battesimo, che purga le macchie contratte dell' anima, cioè il Sacramento accompagnato alla virtù della Penitenza: la detestazione della passata vita, la scelta del confessore, la soddisfazione dovuta a Dio, i veri propositi, e i mezzi di non tornare al vomito, sono i frutti di questo sacro tempo. Alla Domenica di Passione incomincia il ricordo delle ultime memorande geste del Salvatore. Che esempio del sommo penitente! l' ubbidienza sua sino alla morte di croce, e tutto lo spettacolo del suo patire cade nella seguente settimana. Poi risorge Cristo dai morti, primizie dei dormienti. Quale mutazione di scena! che frutti consolanti ci promettono le nostre pene offerite al Signore! Abbiamo fatta nel battesimo una prima risurrezione dell' anima morta, nella penitenza una seconda; l' ultima, in cui risorge il corpo, simile a quella di Cristo, compirà la vita nostra in Cielo. Dopo Pasqua ecco il lavacro battesimale, dove s' imbiancano i Catecumeni, ed è la porta degli altri Sacramenti. Il nostro spirito quindi appresso si può nutrire colle verità intorno la Chiesa che milita, purga, e trionfa, facendocene luogo le settimane che seguono alla Pasqua fino all' Ascensione, prima della quale conversò Cristo in terra co' discepoli suoi. La festa di Pentecoste annunzia i doni del Santo Spirito, sublime oggetto a cristiani desiderŒ, pe' quali il Vangelo in tutto il mondo fu scritto in sui cuori degli uomini. Dopo tale solennità adunque il tempo è di pensare all' incremento maraviglioso del Regno di Cristo in terra, al sangue de' martiri, agli scritti dei dottori, alla vita de' confessori suoi, da cui fu fecondato, illuminato, santificato. La Domenica della santissima Trinità, il giorno solenne del Corpusdomini danno grandi cose alla mente. Quest' ultimo ci chiama ancora a riflettere in sulla dignità sacerdotale, e sulla Gerarchia ecclesiastica. Il rimanente dell' anno, che viene dopo la Pentecoste, è acconciamente occupato ne' mezzi, co' quali lo Spirito Santo ci si dona, e nelle opere sue fatte in tutti i tempi. Le Scritture ispirate, le virtù infuse nell' anima della fede, speranza e carità, la preghiera ardente, e in particolare coll' occasione delle feste della Croce, di Maria, degli Angeli e de' Santi abbiamo onde istruirci intorno a' varŒ culti di nostra divozione. Nel giorno, in cui si commemorano li morti nella pace di Dio, occupi il cuore nostro e la nostra mente quella Chiesa purgante. Nelle letture poi de' libri di Giobbe, di Tobia, di Giuditta, di Ester, de' Maccabei, de' Profeti, che fa susseguentemente la Chiesa, impariamo tutte le morali virtù, la pazienza, il savio governo della famiglia, l' eroico e santo coraggio, la prudenza, la fedeltà alla legge santa con iscapito perfin della vita, la provvidenza, con cui il Signore regge la Chiesa sua vigile sopra di lei fino al dì del giudizio, del quale i pubblici uffizŒ trattano nell' ultima Domenica dell' anno ecclesiastico. Non v' ha dunque più bella cosa, che tenere dietro alla Chiesa. Con lei si percorrono nell' anno tutti i dogmi suoi, tutto il sistema di sua fede, tutto il corredo di sue virtù, tutti i mezzi di praticarle, e tutti i frutti ed i premŒ promessi dal Signore. La nostra vita spirituale tiene alcuna similitudine alla corporea, e ci bisogna in quella altrettanto, dirò così, che ci bisogna in questa. Anche in quella dobbiamo primieramente nascere, e a questo Cristo ci ha fornito il Battesimo; dobbiamo crescere, a cui istituì la Confermazione; perchè ci nutriamo, pose l' Eucaristia; ammalandoci dello spirito, ci fornì la Penitenza e l' Estrema Unzione, ordinata la prima a torre il morbo, e la seconda a torre le reliquie del morbo, o la debilezza della convalescenza. E avendo l' uomo nella corporea vita una società, egli la si trova avere anche nella spirituale, e quest' è la Chiesa. Ma perchè alcuno si congiunga a tale società, ha bisogno prima della vita corporea, e poi della spirituale. A questi due fini perciò sono indiritti i Sacramenti del Matrimonio e dell' Ordine. Non è mia intenzione di esporvi qui le dottrine de' Sacramenti, che trovate con ogni facilità in ottimi libri. Farò tuttavia quasi una scorsa in sul Battesimo, col quale in noi s' incomincia la vita eterna, per darvi esempio del modo, con cui giova studiare in questa materia: e a tal fine mi basterà di porgervi quasi un indice di materie, o poco più, per non ingrossare maggiormente il volume senza bisogno. Sarà dunque bello ed utile studio se voi entrerete a conoscere quasi la storia stessa de' Sacramenti, e qui del Battesimo; e cercherete di osservare le figure, e le predizioni sparse nell' Antico Testamento. E` necessario di poi che veggiate ben chiaro la differenza di tutti gli altri battesimi, e di quello stesso di Giovanni da quello di Cristo. Finalmente fermandovi in questo lavacro vivificatore delle anime consiste ogni migliore studio in penetrarne lo spirito, conoscerne gli effetti, e bene intendere quali gravità di promesse in esso per noi si fanno. Queste promesse, da S. Agostino chiamate non pure voto ma il « massimo voto nostro » (1), a' primi Cristiani erano sacri ritegni da peccare, e l' infrangerle si avea, come è, per sommo infortunio (2); riputando dopo il Battesimo più alta la caduta, più difficile il risorgimento, più dura la debita penitenza. Per questo era prolungato il catecumenato: si dava luogo con ciò a' nuovi cristiani di rafforzarsi nella virtù, prima di promettere a Dio vita solennemente cristiana. Dal Battesimo poi scaturisce il sistema tutto di nostra salvezza, il cumulo de' nostri doveri: conosciuto lui, conosciamo lo stato nostro, la nostra nativa infermezza, l' acquisita nostra dignità, alla quale dignità tutte cose sono sommesse e dell' inferno e del mondo. Ma quanto alle promesse, che fanno i Cristiani nel Battesimo, uso antichissimo è, che di tempo in tempo si rinnovino (3). I tempi più accomodati a questo sono: al toccare il libero uso di ragione; e se i giovanetti nol fanno, è peccato degli educatori: il giorno anniversario del battesimo nostro, la festa della dedicazione della Chiesa; essendo quella festa nostra, poichè noi col Battesimo siamo stati fatti le pietre vive del divino tempio (4); e le vigilie della Pasqua e della Pentecoste, nelle quali la Chiesa battezza i catecumeni. Ora a questo proposito parrebbemi assai convenevole e utile una cosa, che qui non voglio preterire. La Chiesa, per ricordare i fatti illustri della bontà divina, che a lei diedero o fondamento o splendore, stabilisce pubbliche feste. Ogni Cristiano ha per simile modo de' fatti privati della divina bontà, i quali all' anima sua peculiarmente apportarono o salute o aumento di grazia. Imiterebbe adunque la Chiesa utilmente il Cristiano, se come la Chiesa celebra i fatti pubblici con pubbliche solennità, così celebrasse egli i privati con solennità private. La principale di tutte essere dovrebbe l' anniversario del suo battesimo. Quanto vantaggioso e bello non sarebbe, come a me ne pare, se i genitori o gl' istruttori facessero celebrare a' loro giovinetti in questo anniversario un domestico giorno festivo da santificare coi santi propositi, colle rinnovate promesse, colla penitenza e col cibo eucaristico, quasi tempo da cui norma prendesse ed esempio l' anno intero, e s' innovasse la vita, aggiungendo anche esteriori segni di letizia, e qualche insolita ma pia ricreazione? Quanto al modo di formare cotesta famigliare solennità, potendo essere vario secondo varietà di circostanze, purchè tutto spiri pietà, compostezza, e santa letizia, non mi fermerò io a descriverlo. Dirò solo, che utile sarebbe ricordarsi in tal giorno i riti, con cui ne venne conferito il Battesimo. Quante belle cose non contengono quelle cerimonie! L' essere lavati nell' acqua in nome della Trinità augustissima dimostra l' effetto primo del Battesimo, lavare il peccato. Ma or che sono queste acque, che hanno tale potestà? che toccano il corpo, e mondano l' anima? [...OMISSIS...] Quelle acque dunque traggono loro potere dal sangue di Gesù. Quando Cristo morì e scese nel sepolcro, morì allora l' uomo vecchio e fu seppellito. Così Paolo. L' uomo vecchio fu insieme con Cristo crocifisso, perchè il corpo del peccato si distrugga, e al peccato non serviamo più mai (2). E questo primo effetto del Battesimo, era specialmente rappresentato dal Battesimo conferito per immersione, mostrando in quello, per così dire, come il figliuolo dell' uom peccatore si sommerga e si seppellisca. L' essere poi tratti da quell' acqua indica la nascita dell' uomo nuovo. [...OMISSIS...] Per questo Cristo dopo risorto comandò agli Apostoli di andare pel mondo battezzando l' uman genere. Prima non era ancora questo uscito con lui dal sepolcro. Poichè insieme con Cristo otteniamo le grazie, e nessuno il previene: essendo egli le primizie in tutto. E poichè nel Battesimo il Santo Spirito dandosi a noi ci applica i meriti di Cristo, gli Apostoli attesero di ricevere lo Spirito stesso prima d' andare battezzando nell' acqua e nello Spirito Santo. Se la Chiesa adunque battezza nelle vigilie di Pasqua e di Pentecoste, insegna con ciò, come il Battesimo ha sua virtù dalla morte e risurrezione di Cristo, e come dal Santo Spirito viene questa virtù a nostra santificazione usata. Ma veggiamo qual sia l' uomo nuovo che surge, morendo il vecchio. Come il vecchio è l' uomo partecipe della malizia, ed erede del peccato d' Adamo; così il nuovo è il consorte della virtù, e dell' eredità di Cristo. Gesù Cristo, assunto sacerdote, fece sè stesso vittima. Frutto del suo sacrifizio fu la corona di re sopra tutte le podestà nemiche. Ogni Cristiano ora è chiamato a parte di suo sacerdozio e di suo regno. Per questo la Chiesa unge in sulla fronte colui che battezza, secondo l' antichissimo uso di ugnere i Re e i Sacerdoti. Avanti il Battesimo poi l' ugne in sul petto e fra le spalle in figura di croce, come s' ungevano gli antichi atleti, in segno di quella pugna, che coll' arma della croce e' vincerà, e per cui sarà coronato: gli dà il lume acceso, additandogli come debba risplendere nel fuoco di carità quale continuo olocausto al Dio suo. La veste bianca, di che il copre, simboleggia risurrezione e gloria, la bellezza e la purità di questo sacerdozio e di questo reame. Quel sacerdozio, che riceviamo, ci dedica al culto divino, imprimendo in noi questo carattere indelebile di essere persone destinate a servire alla divina gloria eternamente: questo reame ci fornisce di sua grazia, con cui superiamo gli avversarŒ santificando e ricevendo gloria noi stessi. Quella destinazione, o carattere, che al culto di Dio ci consacra, nol possiamo perdere più mai: possiamo però perdere la grazia, che ci mette a parte della gloria e della corona. Ogni Cristiano sarà sempre sacerdote, perchè una volta per sempre al culto divino è sacro: ma perderà la corona di re ricevuta nel Battesimo se strenuamente non combatte. Checchè però abbiamo, l' abbiamo in Cristo, cioè come porzione di suo corpo, perchè unico è il sacerdozio, e unico il regno da lui posseduto, di che ci chiama a parte nel possesso. Ciò s' esprime dalla Chiesa con quella cerimonia del mettere che fa il Sacerdote il lembo della stola sua sopra il fanciullo che battezza, volendo mostrare di coprirlo della stessa veste immortale da sacerdote e da re, di cui Cristo è fornito. Stando in questo regio e sacerdotale ammanto la dignità possibile d' uomo, cui non scemano gli esteriori mali, il Signore nel Battesimo non si curò di torci le umane miserie, mentre nulla con ciò ci avrebbe aggiunto o di grandezza o di nobiltà. Considerati i riti sacri, de' quali la Chiesa accompagna il Battesimo, desiderereste voi forse avere a mano qualche cantico od inno, con cui ringraziare nel giorno anniversario del Battesimo nostro il Signore, e lodare le sue misericordie. Questo ce lo indica Paolo. Egli mostra, scrivendo a' Corinti, che tutte cose avvenivano agli Ebrei in figura delle nostre (1). Ora egli vuole, che noi veggiamo viva rappresentazione del Battesimo nel passaggio dell' Eritreo. Nel Battesimo veniamo battezzati in Gesù Cristo; e per li meriti suoi, mentre l' acqua ci lava il corpo, lo Spirito Santo ci lava l' anima. Cristo adunque era in quel passaggio rappresentato da Mosè, l' acqua dal mare, lo Spirito dalla nube. [...OMISSIS...] E quanto acconcio non è il titolo di mare Rosso a quelle acque battesimali, che la fede vede rosseggiare del sangue di Cristo? e che come gran mare recano salute a tutto il popolo eletto in ogni parte della terra? Per quelle acque, in cui si sommerse l' orgoglioso Faraone, trovò scampo il pellegrino Israello, fuggente la schiavitù d' Egitto verso la terra promessa, come uscimmo noi vivi di quelle acque, nelle quali il demonio e il peccato abbiam seppellito. Perciò quale cantico più accomodato da intonare al giorno anniversario del Battesimo nostro di quel Mosaico, che tutto Israello cantò salvato da' nemici e dalle onde in sulla opposta sponda dell' Eritreo, dopo di sè lasciando tanti orgogliosi nemici affogati? Sì, sì; nello anniversario del nostro Battesimo diciamo anche noi uniti collo spirito a tutti i battezzati della terra: [...OMISSIS...] . E a questo luogo in che tenero tratto profetico non entra il vate ispirato, accennando il deserto che loro rimaneva ancora a percorrere, dopo scampati alle acque, prima di toccare la terra santa? Quanto acconcio è a noi, che scampata nel Battesimo la morte, pure militiamo ancora fra mille rischi, e traendoci per lo deserto di questo mondo dobbiamo arrivare alla patria? Ma dopo ciò a Dio si rivolge nuovamente e prosegue: [...OMISSIS...] . Così Mosè dallo scampo di quel primo pericolo vola a chiedere aiuto all' ultimo passo, che metta in terra sicura e felice: così noi pel Battesimo scampati a principio dalle zanne avversarie, prendiamo occasione di quella prima misericordia a chieder l' estrema, per la quale ha suo prezzo la prima. Or se sì alta canzone degnamente canteremo al mondo, potremo cantarla altresì in Cielo, a grato ricordo delle ottenute grazie divine (1). Dopo avere trattata un po' largamente la virtù, che s' esercita verso Dio, origine e fondamento di tutte virtù cristiane, mi resta a fare alcun cenno delle virtù, che si praticano con sè e cogli altri: delle prime toccherò in questo capo, delle seconde nel capo seguente. Ora le virtù rispetto a se stessi mi parve di raccorle sotto il titolo posto qui sopra del Contegno delle vergini , poichè la bella Verginità, precipua di tutte, dietro a se stessa ne conduce quelle altre, quasi sua bella accompagnatura e corteggio. La verginal purezza, dice s. Agostino (2), per questo dalle Scritture è commendata come pregio altissimo, perchè è divota a Dio; dallo spirito ella debbe nascere; da amore dell' amico e sposo suo: e così, quantunque virtù de' corpi, ella s' eleva a grado di virtù spirituale. Il cuore della Vergine vuole essere sgombro da ogni affetto di terra, odiatore di peccato, e a tutte cose indifferente, fuori che a Dio, che tiene in sè stessa. Non parlo solo di quella Verginità consacrata per voto, ma di quella consacrata per affetto, che a tutte le cristiane donzelle vuole essere comune. Si tenga questa origine della verginal ricchezza, e s' intenderanno i bei costumi della vergine cristiana. Sono pertanto consuetudini e virtù di questo stato illustre e nella Chiesa di Dio onorato la modestia negli atti, e la verecondia così cauta e così dignitosa, che non pure in presenza altrui, ma in sua propria sa arrossire e vergognare; la custodia degli occhi, della lingua, delle orecchie, delle mani, di tutti i sensi, suggellati colla croce di Gesù ad ogni impurità. Bell' esempio è la sposa de' Cantici; le mani di cui stillano mirra, liquore che preserva da corruzione; le labbra sono fasciate con nastro vermiglio, segnacolo di verecondia ne' detti; dimostrano mondezza gli occhi suoi di colomba; negli orecchi i pendenti d' oro son contrassegno di purità; e paragonasi il suo naso a' cedri del Libano, legno incorruttibile (3). Ogni licenza appanna la lucidezza di simile gemma, oscura la bellezza di candore vergineo, e fra gli scherzi umani, dove anche non si perda, difficile è, dice il Salesio, che di questo fregio della castità non ne vada l' ineffabile freschezza ed il fiore. Adunque la Vergine ama il ritiro, e pratica la fuga della umana conversazione: ella teme e trepida ad ogni sentore di pericolo, e questo vergineo trepidare produce la Vigilanza . Stassi la vergine, secondo la similitudine del Vangelo, desta, accinta le reni, e in mano tenente la lampada in aspettando lo sposo. Quel cingolo de' lombi indica la Temperanza, che scema al corpo il fomento della concupiscenza; quell' ardente lucerna dimostra la Carità, che accresce allo spirito forze contro alle lusinghe delle sensibili cose. Quanto il Digiuno non gode di stare colla castità quasi padre o nutricatore! Quanto la Mortificazione non le sta assiduamente da presso come sorella prestatrice di sostegno! Non ama la Vergine nè di vedere nè d' esser veduta, non prende piacere di nessuna cosa di terra: l' abbigliamento delle vesti è netto, ma tutto semplice, dimesso, conformato a sincerità, a gravità, a modestia: non conosce amicizie esclusive, e non conosce o le dolci lettere, o i regaluzzi e le smorfie: da tutto staccata, e in tutto grave, ella pienamente adempie l' apostolico precetto « d' usare così del mondo come se non ne usasse » (1). Di piaceri però non è privata; ma essi traggono da più alta fonte; le discendono dal celeste amico. Spesso si troverà in sua stanza occupata nella orazione, spesso in pie letture, spesso nell' altezza del meditare. Imitatrice degli Angeli in terra vivrà col corpo, e in Cielo collo spirito. Guardiana però e quasi sentinella di questo tesoro verginale, perchè o non si perda egli o non invanisca, si è Umiltà che suole sempre essere a lato della cristiana Verginità. [...OMISSIS...] La vergine del Signore sente la propria infermità; sa che quanto possiede è dono: e come quegli, che riceve doni, ha più a piegarsi e confondersi davanti a lui, che li dona, quanto i doni sono più rari; così del dono stesso della purità ha la vergine donde abbassarsi davanti al Dio suo. Ella sa l' esempio di Maria, in cui la Verginità e l' Umiltà così bella gara faceano, che dubbia restava la prova; sa l' esempio del vergine per eccellenza, di Cristo, che chiama tutti a sè perchè tutti da sè imparino la Mansuetudine e l' Umiltà (3). O anima piamente pudica, non se' mandata ad imparare l' umiltà dal peccatore pubblicano: se' mandata a chi è più innocente di te: se' mandata a chi è più santo, a quello, per cui tu se' santa. Ecco il Vergine esempio de' vergini, cui umile rese non l' ingiustizia ma la carità: quella carità, che « non emula, nè si gonfia, nè cerca le cose proprie » (1). Non può aver ribrezzo d' andarsene la santa vergine ad apprendere da questo l' abbassarsi: è scuola conforme alla dignità sua: qui troverà umiliato l' autore della purità, non pel fascio del peccato, ma per lo peso della carità: davanti a lui vedrà sè stessa spoglia di tutto, se a lui renda quanto da lui ebbe, posseditrice solo di un germe doloroso di corruzione; e da lui imparerà a vestire le stesse immondezze de' fratelli suoi, imparerà ad amare ancora la confusione, il vilipendio, l' affliggimento di quella carne, che allora comincia ad esser buona quando comincia ad essere mortificata per la carità o per la fede: perchè allora luce in lei quella Fortezza, che rende la vergine di Cristo inespugnabile a' nemici, e in tutti i combattimenti invitta. Questa verginità illustre, che fiorisce sulla somiglianza di Cristo, consociata alla Umiltà, è quella di cui, al dire de' Padri, si formavano i martiri, e per cui un' Agnese ed altre tali eroine prima, per dir così, d' esser della vita in possesso, attesa la tenera età, ne' tormenti la prodigarono (2). E` dunque la santa verginità da virtù circondata. Ha la temperanza seco, ha l' orazione, ha seco il santo timore, il pio ritiro, l' incorrotto digiuno, ha la nausea delle cose terrene, il gusto delle celesti, è protetta principalmente dall' umiltà, guernita dalla fortezza, esercitata dalla carità. Non si parla di stretta giustizia a chi crederebbe indegno di sè mancare alla misericordia. Ma di questo amore a' prossimi, che si può dire l' arte stessa o la professione della Vergine di Cristo, qui alcun poco è a parlare, soffermandoci principalmente a considerare di questa carità la PRUDENZA: perchè non sia fatua, ma savia quella vergine, che la esercita. Non parlerò pertanto della carità del prossimo distesamente: troppi ne sono e frequenti i trattati. Ognun sa, che il precetto è questo, che Cristo disse il suo (1); ognun sa la sentenza apostolica, che portare i pesi uno dell' altro è adempiere a tutta la legge cristiana (2). Ci sono dati intorno a questo primo comandamento di Cristo gli esempi, i precetti, le promesse. Di lui ridondano le sacre carte, e ad esse principalmente vi mando. Beete pure a quel fonte della carità, empitevi, inebriatevi. Avete Giovanni a maestro, avete Paolo. Il loro stesso modo di scrivere è eccitamento di amore. Io vi farò considerare pertanto sola una cosa, cioè quello di Paolo stesso: che la carità « si fa tutta a tutti »: ch' ella non si spande solo in eroiche azioni e grand' atti; ma ella si gode e s' intertiene ancora in cose più minute e triviali, nelle più inosservate e neglette, ivi talora giace più grande dove meno apparisce, ivi più sicura ove più nascosta. Ella è saggia, e non opera a caso, ella è sinceramente generosa, e non cerca nè i suoi capricci, nè i suoi piaceri. Voi vedete, che con questa magnanima virtù a lato io vi conduco fuori da quello stesso stanzino, dove nel capo anteriore condotta v' avea all' orazione, e vi faccio uscire in mezzo agli uomini, in mezzo alla società. Sì; se la donzella cristiana ama il ritiro, sa però scegliere quello che meno ama a persuasione della carità. Carità non è solo pascere gli affamati, o vestire i nudi: carità è ancora non dispiacere senza bisogno a nessuno. Non permette la Prudenza della carità che alcuno infranga le relazioni dello stato in cui si trova. E` la fanciulla cristiana in numerosa famiglia? Carità è non vivere a capriccio per seguire una perfezione imaginata: la perfezione è nel vivere a seconda degli altri, nel dispiacere a veruno, piacere a tutti. Carità è accomodarsi di buon volere agli usi innocenti, alle costumanze di quelli fra cui si vive, e fino a' loro gusti, se un dovere nol vieta, e prevenirli ancora con amorevole ingegno. Ma s' io meno vita comune mi conviene omettere molta orazione e molta mortificazione. - Orazione più bella e più grata a Dio è, per non dispiacere altrui, diminuir l' orazione. Mortificazione più meritoria è quella della volontà, che nel vivere comune si fa da colei, che amando più la stanza, sceglie prima l' onesta conversazione. Non dico la cerca, ma la sceglie quando a fare questa scelta attenzione di non ispiacere altrui la conduce, e di non ledere dovere di stato in cui è posta, e di non provocare dicerie. Se questi riguardi della civil carità non vi sono, segua la vita amata dal proprio fervore. - Ma nella vita comune mi dissipo lo spirito, trovo scandali ed occasioni di cadute, nè posso giugnere ad emendarmi. - Conosca adunque tale giovane, che questo non è amore di vita più perfetta, il quale l' attrae dall' esercizio d' una virtù più forte, più virile, più meritoria quale è quella della vita comune, ove la carità de' prossimi è in uso continuo, per non esserne capace, ad una vita più parziale e sequestrata. Non è dunque la perfezione che cerca, mentre la impaurisce una virtù più salda e perfetta. Vuol la vita che ha più nome di perfezione, e lascia la pratica della più perfetta virtù. Di poi, se onesta e pia è la casa della cristiana fanciulla, questa fragilità di solito è colpa, che nella solitudine porterà seco; conviene sradicarla, non metterla sana e salva a dormire, perchè ella ben presto si desta. Se poi la famiglia è un po' mondana, o anche libera, allora il riserbo è un dovere. Ma in ogni caso si fortifichi la cristiana donzella: la disposizione dell' animo, non tanto le occasioni al di fuori, nuoce alla vita. Pure, se in questa fortezza tardi procede, che altra regola le si può dare di suo contegno nell' umano consorzio fuor di quella di Cristo: « Se il tuo occhio ti scandalezza cavalti, e gettal via »? (1). Sì bene; le fanciulle si privino di quanto è loro pericolo d' inciampo. Pur se nel viver comune ed onesto la carità le regge, il Signore non le abbandona; mentre anzi ha loro posti i vincoli che altrui le lega, perchè abbiano esse dei doveri da esercitare, dei meriti da ottenere. - Ma io mi sento chiamata a stato religioso. - E bene: se la vocazione è provata, la ascolti e l' abbracci la pia donzella. Non poniamo a lei ostacolo di scegliere uno stato prima che l' altro; ma vogliamo che dello stato, in cui vive, serbi le leggi. La scelta stessa però di stato migliore non può esser da Dio, se in quella o si preterisce qualche dovere della società, o altri debbe patirne. Non trattenga però la pia giovane un terreno e falso dolore, che vegga in altrui, della sua felice elezione; ma bensì un danno vero e grave, che cagionasse il suo divisamento a quelli, co' quali è per naturali legami congiunta. Ma s' ella non è chiamata al chiostro, dimostri al mondo qual sia la conversazione dell' illibato Cristiano. In questo studi come in bel ramo numerosissimo di fronde, le quali colla spessezza emulano la grandezza degli atti della carità più magnifica. Con questo studio della religione sono nobilitate e rese sante le relazioni ed i mutui offizŒ del viver civile. E qui appunto, giacchè spesso da altri si trapassa, a me sarà caro un poco di fermarmi. Veggiamo dunque le regole colle quali la cristiana legge santifica i costumi, e le maniere sociali, e tutto il conversare degli uomini fra di loro. Dico, che gli uffizŒ del vivere civile, suggeriti agli uomini da natura, possono avere due fonti, cioè il piacer proprio, o l' altrui. Piacevole in vero ci è naturalmente la compagnia; essendo noi alla compagnia degli altri formati da natura; piacevoli ancora nell' uso ci si rendono que' bei tratti, e que' gentili portamenti, e tutte quelle leggiadrie, che usate vengono nelle nobili brigate al mondo. Non parlo, come vedete, di nulla che sia peccato in sè medesimo; intendo sempre qui favellare degli atti indifferenti del vivere, e per sè stessi innocenti. Ora conceduto, che questo trattar compagnevole nella pura teoria potesse al Cristiano piacere riferendone a Dio l' uso, asserisco però a tutta fiducia, che quando il civile convivere si tiene mossi da piacere proprio che se ne senta, allora ne debbe essere per lo meno sospetto. Dobbiamo vedere dentro di noi da che ci venga questo piacere; poichè egli può nascere o da certa sensibile amicizia che si eccita in mezzo a questi affabili modi, o da amore proprio lusingato dell' altrui compitezza e buon garbo, o finalmente da quella ambizioncella, per cui si desidera altrui piacere con doti esteriori o di avvenenza di corpo, o di eleganza di vesti, o di vivacità di parlare. Tutte coteste fonti di diletto sono guaste, o poco nette, e per lo meno non eccedono le propensioni naturali. Sì, ve lo concedo: nulla di questo muova il Cristiano a civiltà, egli sia pure morto al mondo, non ami avere piacere, non che di peccato, ma nè pur di quello che superiore a natura non sia, cioè di Dio. Per quanto si possano fare sottili scuse a simili compiacenze, e porre de' limiti, resterà sempre vero, che il cuore di chi le accoglie non è ancora crocifisso bastevolmente con Cristo, morto a se stesso: ei spera ancora qualche cosa dagli uomini: egli in somma è soffermato quaggiù da amore poco puro, non ha cangiate in sè stesso le inclinazioni naturali con quelle di Cristo. Che se io guardo alle conseguenze di questo umano piacere, ond' uomo è tratto ad affabil contegno, al tutto le veggo disopportabili e ree. Voglio adunque che il pio Cristiano non sia mosso a piacevolezza di vivere cogli altri da gusto umano, e suo proprio, da cui sono mossi gli altri; anzi che egli ogni sensibile amore tolga di sè, ogni vezzo dell' amor proprio, ogni gherminella dell' ambizione. Tutto quello che è nel mondo, dice Giovanni (1), è concupiscenza di occhi, concupiscenza di carne, e superbia di vita. Nulla dunque di questo sia fine al Cristiano, nulla ami di quanto è al mondo, e viva nel mondo senza partecipare del mondo. Così in sulla distruzione d' ogni sensibile umano affetto, in sul distacco da quanto è in terra s' innesti appunto in esso la legittima carità. La « carità », il dirò di bel nuovo, « non cerca quello che è suo » (2). E bene: non conversi con altrui il Cristiano per cagione di proprio piacere; conversi per rendere bello ed onesto piacere agli altri. Or quando onesto è questo piacere, quando legittimo? Varie sono le cose, che altrui possono dar piacere; ora egli è bello ed onesto, se apportiamo piacere colla virtù. Così ci insegnò anche Cristo a vivere cari agli altri: « Splenda la luce vostra in faccia agli uomini, sì che essi la veggano, e ne glorifichino il Padre celeste » (3). La virtù ha veramente una così amabile vista, che tutti, purchè la veggano, non possono se non amarla grandemente e ammirarla. Egli è questo quel bello « Amore figliuolo di Sapienza », di cui parlano le « Scritture », più grazioso assai e leggiadro di quello del mondo (4). E tale è l' ornamento, con cui il Cristiano piace al Cristiano. Lo insegnava alle cristiane donne Pietro, loro l' insegnava Paolo. [...OMISSIS...] Dirà taluno per avventura, che questa bellezza interiore dell' anima raccorrà lode e premio da Dio che la vede, giusto e per noi troppo sufficiente estimatore: ma non dagli uomini. Pure e l' animo tutto pudibondo, e che in tutto ama Dio, ben si dimostra al di fuori. Di qui anzi nasca la virtù della cristiana conversazione. E quale amabilissima e santissima virtù? Una virtù, io dico, che tutti, anche i tristi, saranno costretti di commendare: virtù solida, virtù sincera, virtù consentanea a sè medesima, che di sè non fa mostra, ma in sua propria modestia con più dolce lume risplende, virtù che niente esagera, che niente sprezza, che non giudica, che sopporta, che sa rendere ragione di sè, che studia di non uscire in nulla o meno che può dall' umano vivere pel compatimento dei deboli, che s' occupa in favore d' altrui, e negligenta sè stessa con dignità per soddisfare agli altrui desiderŒ, che fa dei servigi a tutti, sobria, grave, parca nelle parole, niente curiosa, ilare, e non rotta al riso, di nulla sollecita fuorchè di fare sempre contenti quelli co' quali vive anche ne' piccioli comodi della vita; virtù umana, dolce, compassionevole, che evita di prestare altrui occasione di scandalo e di dicerie per loro bene e non perchè ella le tema, che porta le altrui debolezze senza stento e con piacere; virtù in somma, che, essendo tutta in Dio fissa e a Dio raggiunta, con divina saviezza vive cogli uomini in sull' esempio dell' amabile conversazione di Gesù, e, mentre è bastevole ad ogni atto di eroica carità, sa raccorre, come ape ingegnosa, anche dalle più minute e giornaliere circostanze della vita, dolci succhi di carità, e formarne mele soavissimo ad altrui e a sè stessa. Oh quanto non torna amica e cara la santità di quel Cristiano, che, con sè stesso rigido, pensa con ogni dolcezza e benignità degli altri! che ignora per fino i difetti loro, di loro virtù si consola ed edifica, da tutti pronto ad apprendere, tutti ascolta, non ammette prevenzione, vede con facilità il vero ovunque ei sia, e pare che nella bocca degli altri con maggior piacere il trovi che nella propria, sagace in prevedere gli altrui incomodi, destro in toglierli, agli infelici s' unisce compiangendo, a' felici congratulando, sostiene talora senza un segno di noia i più noiosi racconti, e le altrui debolezze, gli altrui torti non saprebbero mutare nel suo volto il cortese, usato sorriso! Tutto semplice, grave, sincero, pieno di un franco e nobile tratto, alle leggi attemprato altrove per noi descritte (1); ei rende, un sì vero Cristiano, amabile agli uomini la nostra virtù. E quale atto maggiore di carità? quale più bell' oggetto della Prudenza, della Carità? (2). Onde quest' è ch' io dico: colla propria virtù dovere il Cristiano piacere altrui; non già cogli ornamenti o colle arti del mondo. Poichè allora veracemente giova piacendo. Insisterà alcuno, che se all' interna ornatura non si aggiungerà un poco degli umani vezzi ed ornamento di vestito, non sarà la cristiana donzella piacevole al mondo. Due cose aggiungerò a risposta: la prima, ch' ella non debbe desiderare, come dicea, d' essere piacevole se non per la virtù, e pe' modi di sua carità; e che colei, la quale in tal modo piace a Dio, piace anche a quelli che sono di Dio. A coloro, cui altro non diletta che il puzzo di carne, debbe abborrire ella di piacere. Allora quanto piace a' tristi, tanto spiace a' buoni. Non s' esercita con quelli carità piacendo, ma loro spiacendo; purchè si spiaccia non per altro che per la virtù, cioè pel monile più ricco e più bello di femmina santa. Avvi però nelle maniere sopra descritte della cristiana conversazione assai cose, a dir vero, che anche i mondani debbono amare e lodare, non solo per quello insuperabile segreto testimonio, che forza d' eterna giustizia astringe le anime umane di dare a virtù; ma perchè quella soave carità è anche tutta umana, e appaga molti naturali affetti e desiderŒ, studiando di renderli contenti in tutto quello che può, e stende una sedula ed amorosa cura fino nelle cose più minute, purchè non contrarie a virtù. Tuttavia essendovi tre modi, pe' quali si può dar piacere agli altri uomini, cioè colla virtù, colle cose per sè indifferenti come sono i fregi del vestire, ed ancora co' peccati, co' peccati si piace a' tristi, colla virtù aDio ed a' buoni, colle cose indifferenti poi alle persone naturali o spirituali mezzanamente. Co' peccati grave male è piacere, colle virtù gran bene: nell' uso delle cose indifferenti poi ha luogo una particolare saviezza per la quale nè si usino perchè si amino, nè si usino di più di quello che giovassero ad edificare, quasi funicelle per le quali attenendosi i deboli salgano mano mano a gustare cose migliori. Ma perchè non si erri in sì difficile affare, questa regola è fermamente a tenere, che in queste tali cose che vanamente piacciono si eviti la sconcezza, non si cerchi la raffinatezza . Questa regola tennero i Santi: e piace leggere come quella santa Edwige duchessa di Polonia, che anche a noi appartiene (1), usando veste troppo logora per amore di povertà, e udendo come a una sorella del monastero ove s' era ritirata quella spiacea, incontanente rispose: Se quest' abito vi spiace, son presta a correggermi del mio fallo , e lo mutò volentieri in un migliore. Carità è in vero evitare quello, che agli occhi non solo de' tristi, ma degli uomini naturali è difforme, per non dar luogo senza bisogno a noia, od occasione di mali parlari; come carità è ancora sfuggire quel ricercato e affettato ornamento che i vani vanamente diletta, perchè e col primo modo si toglie un disgusto come suole la carità, e col secondo si toglie un gusto vano come carità ancor più eccellente costuma. In somma in tai cose non si dia occasione nè di spiacere, nè di piacere a veruno: mentre e l' uno e l' altro è un male. Così la Prudenza della carità ricongiunge quanto puote il più insieme gli uomini, e amandoli tutti a tutto ha riguardo, anche alle loro debolezze, cercando nè di offenderle, nè di fomentarle: ad opportuna occasione poi anzi di toglierle.

Sulle categorie e la dialettica

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

E a tutta questa dottrina si riduce la sentenza tanto sagacemente svolta da Platone medesimo nel Parmenide e altrove, e che forma il punto eminente della sua filosofia, dialettica ed ontologica ad un tempo, che l' uno lasciato solo (la pura unità I significato) non poteva esistere, anzi era uguale al nulla, e però il «to hen» e il «ta polla» erano indisgiungibili, e questo in seno di quello essenzialmente contenuto. E vedesi qui stesso l' origine della doppia materia platonica, l' una reale, l' altra ideale. Poichè da Aristotele si rileva che Platone ammetteva una materia chiamata da lui « il grande e il piccolo », che colla partecipazione dell' uno diveniva specie o numeri (1); e Simplicio dice che poneva un indefinito anche negli intelligibili (2). Or abbiam veduto che dall' uno indefinito la mente, secondo Platone, prima trova un' idea, poi due o tre, ed ei vuole che essa non si fermi a sapere soltanto che c' è in esso un numero indefinito d' idee (grande o piccolo), ma che ne rilevi il numero definito fino all' ultimo. Così la mente dall' uno ritrae un numero prima indefinito (grande o piccolo), e poi un numero definito, e questo, partecipando l' unità (senza la quale non sarebbe numero), è la specie (3). Il numero dunque, fino a tanto che è ancora indefinito e sommerso nell' uno primo, è l' indefinito intelligibile, ossia la materia ideale; quello poi che resta, trovate tutte le unità che costituiscono il numero determinato, è la realità pura, ossia la materia reale . Ci sono dunque per Platone tre indefiniti: l' uno indefinito , che è l' uno in quanto ha nel suo seno ogni altro indefinito, e risponde all' «apeiron en dynamei» di Proclo; il numero indefinito , o la materia ideale, che risponde all' «apeiron en poso»; e il quanto indefinito , o la materia reale, che risponde all' «apeiron en peliko». Colla quale distinzione ha una stretta analogia la dottrina di Archita intorno al quanto , che da Filolao (e probabilmente anche da Archita) s' attribuiva, come vedemmo, all' indefinito. Poichè questo pitagorico, di cui Platone comperò a caro prezzo i libri, per testimonianza di Simplicio distingueva il quanto in tre generi: 1 il quanto di tendenza, o di gravità; 2 il quanto di grandezza, o di quantità continua; 3 il quanto di numero, o di quantità discreta (1). Di che si vede ragione, come la scienza del quanto, la matematica (2), penetrasse dentro la metafisica di Platone seguace dei Pitagorici, e fosse cotanto da queste scuole reputata. Ci pare dunque indubitato doversi distinguere l' uno indefinito di Platone dalla materia ideale e dalla materia reale nel suo seno contenuta potenzialmente «en dynamei», e, dipartendoci in questo da Goffredo Stallbaum, crediamo che, quando l' Ateniese filosofo comincia nel Parmenide a rimuovere dall' uno ogni moltiplicità, non parli dell' uno primo indefinito rispetto alla mente nostra e a quel che contiene, ma parli dell' unità astratta (I significato), e voglia dimostrare che così sola e nuda involge contraddizione, di maniera che rimarrebbe nulla. Rimane dunque a cercare che cosa sia la materia ideale secondo Platone. Ora essendo quella in cui si trovano poi i numeri, cioè le specie distinte, ma in cui non ci sono attualmente; convien dire ch' essa sia l' idea senza determinazioni di sorte, e questa risponde appunto a quella che noi chiamiamo « idea dell' essere indeterminato », ossia « essere ideale ». Così Platone avrebbe distinto « l' essere ideale »dall' Uno primo, che l' ha nel suo seno, come ha pure nel suo seno l' indefinita realità, cioè da Dio. Colla dialettica poi, presa nel senso di Platone, si trovano nell' idea universale le specie, ciascuna delle quali è un numero. Ma l' Uno primo è quello dove risiede l' unità come in proprio fonte, cioè l' essenza; e da quest' Uno primo si comunica la forma d' unità alla stessa materia ideale, e alle determinazioni di essa, cioè alle specie, o numeri, che così vengono collegati o contenuti nell' unità, e sono primamente specie, poi forme o essenze delle cose. Nell' Uno primo dunque e massimo si trovano immersi i primi elementi di tutte le cose mondiali, che sono: 1 l' indefinito, il più , grande e piccolo; 2 l' uno. Questi sono i due che nomina Aristotele, da cui dice secondo Platone, non dissomigliantemente dai Pitagorici, farsi le specie e le cose. Già Filolao aveva chiamato il primo «ta polla» e «thateron», e il secondo «to hen» e «tauton», denominazioni così spesso usate da Platone; e aveva detto [...OMISSIS...] . I numeri non informati dall' unità, sono le determinazioni, i determinanti; l' unità, che le lega insieme, è l' essenza, l' ente, «to on», come risulta dal luogo citato d' Aristotele. L' unione dell' essenza colle determinazioni è l' ente definito che ne consegue, chiamato da Platone nel « Filebo » «xymmisgomenon». Ma oltre questo composto, che risponde alla triade, o numero perfetto dei Pitagorici, c' è il quarto principio, la causa dell' unione [...OMISSIS...] , la quale è l' Uno primo, come vedemmo. L' uno dunque per Platone era: 1 uno in sè (l' uno nel II significato, avente un subietto indeterminato, la diade); 2 era uno causa , o potenza d' emanare l' altro (l' uno nel V significato, come principio dei numeri e delle cose); 3 era uno in altro , quando diveniva forma o essenza dei numeri e delle cose, e in quest' ultimo stato l' uno si considerava come fine o finiente (l' uno nel III significato), o come il tutto di ciascun numero o di ciascuna cosa (l' uno nel IV significato, vedi p. 6 7 7). L' uno nel primo e nel secondo di questi significati non distinti dai primi Pitagorici era l' «arithmos artioperissos» (1), benchè quelli negassero all' uno la denominazione di numero il «to proton hen» dei più recenti (2). Ci riserbiamo a mostrare altrove come i Pitagorici traessero i loro due principii, il finiente e l' indefinito , da tradizioni orientali, che ascendono fino ai primi Camiti che introdussero in Babilonia l' adorazione dei due principii, il maschile e il femminile , fondamento del primo ciclo dell' idolatria, culto che non cessò più mai fino che l' idolatria non cessò per la luce cristiana «( Teos., Ontol. categ.; Teos. , vol. IV, n. 102) ». Qui mi basta osservare che la dottrina di quei due principii, e la dottrina dei numeri che vi si riferisce, apparteneva all' Ontologia universale, cioè alla teoria dell' essere senza distinzione delle sue forme o categorie, e però: 1 Non conoscendosi ancora le primitive forme dell' essere, e da queste prescindendosi necessariamente, quella dottrina astratta conveniva ugualmente all' essere nella sua forma ideale, all' essere nella sua forma reale, e all' essere nella sua forma morale. Quindi, applicandosi senza distinzione all' essere sotto l' una o l' altra forma, ne nasceva necessariamente una moltiplicità di sensi apparentemente diversi e contrarii, e non c' era un filo che conducesse alla conciliazione (il quale non poteva essere che la distinzione delle forme primitive): indi la confusione sempre crescente del sistema, e i dissidii dei filosofi, che non potevano intendersi nè tra loro, nè con sè stessi; 2 Rimanendo quei principii nelle astrazioni, erano puramente formali, ed applicabili ugualmente alla dottrina di Dio, dell' Uomo o del Mondo; e quindi non potevano far conoscere il proprio di Dio, e il proprio del Mondo: onde ne nasceva facilmente la confusione della natura dell' uno colla natura dell' altro. Poichè si voleva (il che è proprio necessariamente d' ogni sistema filosofico), che con quei soli principii tutto si spiegasse; onde alla forma delle cognizioni riducevasi violentemente la materia: il che apparisce fino dai Pitagorici primi, che prendevano i numeri per le stesse cose reali (1). Non potevano dunque esser queste le vere categorie , od ultime classi delle entità; poichè i due principii pitagorici ripetendosi in ciascuna delle tre forme dell' essere come vedemmo, supponevano una classificazione anteriore ad essi. Laerzio nomina Clinomaco Furio, appartenente alla scuola di Megara, come il primo che scrivesse dei predicati [...OMISSIS...] , ed Archita poi scrisse il primo delle categorie [...OMISSIS...] . Dexippo Erennio ateniese (3) e Simplicio ne parlano, e quest' ultimo aggiunge, che Archita tarentino, prima d' Aristotele, divise l' ente in dieci generi, nel suo libro « «peri tu pantos» (4) »; ma Temistio attribuisce quest' opera ad un altro Archita posteriore ad Aristotele (5). Avendo pensato Archita, che l' Universo non poteva constare nè di soli finienti, nè di soli indefiniti, ma di composti degli uni e degli altri, onde diceva, che al composto appartiene massimamente l' esser sostanza (1), sentenza che Aristotele ripete come sua propria (2), poteva ridurre in sommi generi gli enti composti, di cui risulta l' Universo, distinguendo in ciascuno di essi i due elementi. Dexippo Erennio (3) osserva che Aristotele, dando il secondo luogo tra le categorie alla quantità , s' allontanava da Archita che poneva in secondo luogo la qualità , il che approva Plotino. In generale i Pitagorici, di mano in mano che applicavano i loro due principii a diversi generi di cose esistenti e in esse le riscontravano, davano loro un altro nome; e così nacquero quelle categorie, o principii, di cui parla Aristotele (4). Questa classificazione aveva il vantaggio d' esser dedotta da un solo principio, di cui mancano le Aristoteliche: che è la censura, che giustamente gli fece il Kant (5). Ma da prima, stabilito che tutti gli enti mondiali abbiano in sè l' opposizione dei due principii, furono nominate alcune di queste coppie come venivano, e senza assegnarne il numero preciso: e questo fece Alcmeone di Crotona, che viveva ai tempi di Pitagora già vecchio (6). Ma i Pitagorici poi ridussero al numero dieci tali coppie, che così da Aristotele s' annoverano: [...OMISSIS...] . A me pare, che niente altro sieno queste dieci coppie di principii se non i due originarii di Pitagora, cioè, il finimento e l' indefinito , applicati a generi di cose i più comuni e facili a presentarsi. Perchè poi si ponessero dieci coppie piuttosto che altro numero, niuna ragione intrinseca si vede nella loro deduzione, ma sembra essersi scelto questo numero per l' opinione che il numero dieci contenesse in sè tutte le cose; onde, come osserva Aristotele stesso, quando la natura non si prestava a numeri prestabiliti dai Pitagorici, essi facevano violenza alla natura, per farla ubbidire al loro sistema numerico (1). La prima coppia adunque, il finimento e l' indefinito , era come il tema di tutta la serie, i due principii universali privi ancora d' ogni applicazione. La prima applicazione si faceva agli elementi dei numeri, come principii di tutte le cose, e se n' aveva il dispari e il pari; l' uno finiente, e l' altro indefinito subietto di divisione (2). Doveva pure l' indeterminato o indefinito presentarsi alla mente in due modi, cioè or nell' uno or nell' altro, senza da principio accorgersi che fossero due. Poichè da una parte un ente qualunque privo di determinazioni è indefinito; e dall' altra le determinazioni stesse, quando rimangono slegate prive d' un subietto, sono anch' esse un indeterminato o un indefinito. Quindi, tanto il concetto d' indeterminato o determinabile, quanto quello di determinante, diveniva duplice, poichè: 1 c' era il concetto di ente indeterminato, a cui corrispondevano le sue determinazioni come determinante; e 2 il concetto di determinazioni slegate prive dell' ente, che costituivano esse pure una pluralità indeterminata, a cui corrispondeva l' ente o l' essenza come determinante e riducente ad unità. Così l' ente e le determinazioni si determinavano reciprocamente. Non mi pare improbabile che, quando i Pitagorici pigliavano l' impari come determinante nella seconda coppia, e il pari come infinito determinabile, nel primo vedessero la determinazione dell' ente, e nel pari l' ente indeterminato, onde il pari pitagorico è chiamato da Aristotele « la diade come uno », perchè in questo pari vedevano l' ente privo di determinazioni. All' incontro, quando nella terza coppia ponevano l' uno come determinante e la pluralità come infinito determinabile, nell' uno concepissero l' ente in quanto determina e unisce la pluralità delle sue determinazioni. Avendo dunque concepito Platone il determinante e l' indefinito determinabile sotto questo secondo aspetto, egli pose l' essenza e l' ente, cioè l' uno come determinante, e la diade, la pluralità, il grande e piccolo, come indefinito determinabile. Dal che risulta, che Platone non avrebbe già scambiata, come dice Aristotele, la diade come uno dei Pitagorici nel « grande e piccolo »; ma si sarebbe appigliato alla terza coppia delle opposizioni pitagoriche anzichè alla seconda. La quarta coppia, « il destro e il sinistro », è un' applicazione de' concetti di finiente e d' indefinito alle relazioni di luogo, e risponde alla settima categoria d' Aristotele ( «keisthai»). Pigliavasi il destro come il lato più nobile o la situazione più perfetta delle cose, e il sinistro il contrario; e riputavasi mancante di determinazione il sinistro, perchè si considera sempre la determinazione come perfezionante; onde le determinazioni che rendevano imperfette le cose, non si consideravano come determinanti, ma come bisognose d' essere determinate. Onde la materia, a ragion d' esempio, sciolta e disordinata consideravasi come informe , benchè informe al tutto non potesse essere; ma andava priva di quella forma e determinazione che doveva avere (1). Nella quinta coppia, « il maschile e il femminile », si vedono applicati i concetti primitivi di determinante e indeterminato alla generazione e ad ogni produzione; e ben dimostrano l' origine antichissima del sistema, essendo i due principii, l' attivo e il passivo, rappresentati nel maschio e nella femmina, i più antichi Iddii dell' umana superstizione. Nella sesta coppia, « il quieto e il mosso », i concetti di finiente e d' indefinito s' applicano a uno de' fenomeni più importanti e universali, qual è quello del moto , preso in senso generalissimo che rappresenta ogni mutazione. Il moto , ossia la mutazione, fin che dura, è indeterminata, moltiplice, variabile: la quiete si prendeva come il termine del moto, quello che determinava il subietto che si move ad una condizione stabile e certa. Da questa coppia di principŒ traggono origine le tante discussioni de' primi filosofi per sapere « se tutto si movea », come pretendeva Eraclito ammettendo solo il principio dell' indeterminato , o « tutto stava », come sostenevano gli Eleati ammettendo il solo principio del determinato , ovvero « se tutto che ci avea nell' universo fosse moto e quiete », come insegnavano i Pitagorici co' loro due principŒ. Alla rettezza e stortezza delle linee si vedono applicati nella settima coppia i concetti di finiente e indefinito, considerandosi la stortura come una mancanza di perfezione, e una moltiplicità indeterminata, essendo una la retta, molte le curve. La curva dunque si considerava come bisognevole di ricevere il finimento della rettitudine. Nell' ottava coppia s' applicano gli stessi concetti alla luce e alla tenebra, presa quella e questa in senso latissimo, e però altresì come indicanti lo scibile e l' ignoranza. La tenebra presenta uno spazio dove niente è determinato o definito: la luce, facendo vedere lo spazio buio, gli dà le forme e lo determina. Questo ci chiama alla mente la specie «eidos, idea» di Platone, il viso di Cicerone. Le specie risultano per Platone dalla materia ideale che venendo determinata presenta alla mente un visibile, un apparente, una specie in somma: così gli enti speciali escono dall' oscurità primitiva dell' indefinito in cui giacciono. Non è che l' idea dell' essere, la materia ideale di Platone, sia tenebra rispetto a sè; ma nasconde ogni ente determinato nel suo seno: e però quest' ente, fino a che non riceve le determinazioni, è come sepolto in fitta notte. Viene la nona coppia, « il male e il bene », quello considerato come indefinito, cioè come una privazione delle determinazioni che dovrebbe avere. Mi sembra Aristotele aver tratto il suo principio della privazione da questo appunto, che i Pitagorici considerarono come privo di determinazioni tutto ciò che era difettoso, come vedemmo anche parlando della quarta e settima coppia. Finalmente nella decima coppia s' applicarono i due principŒ alle figure geometriche, e si considerò il parallelogramma come indefinito, perchè si può estendere da un verso più che dall' altro senza misura determinata, laddove il quadrato ha una proporzione stabile d' uguaglianza tra i suoi lati. Non si deve confondere la questione degli elementi degli enti con quella delle classi degli enti . L' espressione « elementi degli enti », ontologicamente presi, importa che per elemento s' intenda ciò che non è un ente da sè, ma è uno degl' ingredienti di cui qualche ente si costituisce (2). I primi Italici, come risulta dal capo precedente, s' applicarono piuttosto alla questione degli elementi, seguendo l' avviamento degli Ionici, che non a quella della classificazione degli enti. Ed era facile il confonder quella con questa, come le confuse Aristotele stesso, che nelle Categorie, cui chiama anche « generi dell' ente », divide l' ente in sostanza e accidente , i quali son due elementi di cui si compongono o tutti o certo molti degli enti finiti. Nasceva questa confusione dall' ambiguità della espressione « generi degli enti », che sembrava dover significare « delle classi generiche degli enti », e anche « delle qualità universali »che si predicano di molti enti. Ora la qualità universale non è l' ente, ma solo qualche cosa che all' ente appartiene (1). E però Aristotele stesso non ricusa assolutamente di chiamare elemento « « quello che è al sommo grado universale, poichè è uno e semplice in molti, o in tutti, o in moltissimi » ». [...OMISSIS...] . Il qual luogo è consentaneo al suo sistema, che in opposizione a Platone nega l' esistenza delle idee separate dalle cose, e però non possono essere che appartenenze (elementi) delle cose stesse. I quattro principŒ dunque de' Pitagorici e di Platone, che si considerano come classi o sommi generi degli enti, non sono propriamente tali: ma i due primi, la monade e la diade, sono elementi; la triade, cioè il definito, o, come lo chiama Platone, «to xymmisgomenon», è l' ente finito; il quarto principio poi, o la causa, è l' ente infinito. Onde, a propriamente parlare, due sono le supreme classi o categorie platoniche: quella dell' ente finito , che consta de' due accennati elementi; e quella dell' ente infinito che è uno perfettamente. Ma si possono nondimeno chiamare tutt' insieme i quattro cogitabili pitagorici. Di più abbiamo indicato come Platone concepisca quest' ente Uno, causa di ogni ente finito, che è chiamato anche semplicemente l' Uno. Quest' Uno, come abbiamo veduto, ha nel suo seno indivisibilmente uniti i due elementi dell' ente finito, cioè il finimento e l' indefinito (quest' è il grande e piccolo): il primo quand' è uscito è il quale , il secondo è il quanto . Il che rammenta l' ordine delle categorie d' Archita (se si dee credere a Dexippo, Simplicio, e Boezio), che poneva la qualità come la seconda, e la quantità come la terza: ordine, cui Aristotele disse rovesciato, che pose la quantità ( «poson») come la categoria prossima alla sostanza, e appresso ad essa la qualità ( «poion») (1). Ma Plotino preferisce l' ordine d' Archita e di Platone, che è consentaneo al pitagorico. L' inversione per altro che s' attribuisce ad Aristotele, se pur è vera (1), si potrebbe spiegare così, che, dipendendo la qualità dalle forme e dalle idee e la quantità dalla materia, nel sistema Aristotelico, in cui si negano le idee separate dalla materia, esse doveano collocarsi dopo di questa, di cui sono, quasi direbbesi, un atto accidentale, di cui la stessa materia è il subietto. L' Uno dunque causa prima, è l' uno nel secondo significato, a cui si dà un subietto massimo. In questo subietto massimo c' è il bene, che avendo natura diffusiva, fa sì che un tal uno emani i due elementi: 1 il finimento, 2 l' indefinito, e di essi componga gli enti mondiali (2). Il finimento, per Platone, è l' idea specifica , che unita all' indefinito diviene forma: questa forma rispetto alle menti è la specie che rende visibili, cioè intelligibili gli enti: l' indefinito è la materia, cioè quell' elemento che ricevendo la forma diviene un subietto reale, e insieme colla forma costituisce l' ente. Ma l' idea stessa procede dall' Uno supremo per gradi: poichè anch' essa primamente è indefinita e indeterminata, materia ideale (a cui risponde il nostro essere ideale ); e questa materia ideale è una pluralità indefinita e confusa, il numero indeterminato o piuttosto potenziale. Ha bisogno dunque questa materia ideale di essere determinata, ossia di ricevere anch' essa una forma. Ora questa forma è l' uno partecipato dall' Uno supremo. Ma quest' uno partecipato [...OMISSIS...] raccoglie in sè e unifica più o meno di quella pluralità indefinita e confusa che è nella materia ideale, e che anche si chiama « il grande e piccolo », e stringe piuttosto questa parte che quell' altra; onde dall' applicazione varia dell' uno a quella pluralità indefinita, che è nella materia ideale, s' hanno i numeri determinati e le specie , e queste specie così costituite sono anch' esse forme all' ultima materia, cioè alla materia reale. Ora questa materia reale , benchè non abbia più numeri nel suo seno, pure ha una quantità indefinita , e però anche ad essa spetta la denominazione di « grande e piccolo ». Le specie dunque o numeri come forme s' applicano e congiungono a un quanto maggiore o minore della materia reale, e così producono i varŒ enti reali, di cui l' universo si compone [...OMISSIS...] . Questa è una deduzione ontologica degli enti mondiali dalla prima causa, ma è proprio di Platone l' avervi aggiunto la dialettica (1), parte simile, parte dissimile da quella. Poichè anche quello, che in suo essere è già formato e definito, al primo affacciarsi della mente umana si presenta come un uno indefinito, e questo risponde all' indefinito come uno [...OMISSIS...] de' Pitagorici, da distinguersi dall' Uno primo e assoluto, causa di tutto. Circa l' uno indefinito dunque, che si presenta alla mente, la dialettica di Platone fece due cose: 1 Scompose l' uno dall' indefinito e mostrò che a) l' uno separato così da ogn' altra cosa, cioè la pura unità astratta , non potea concepirsi eistente, senza incorrere in quelle contraddizioni che svolge nella prima parte del Parmenide; b) l' indefinito così separato dall' uno rimanea pure per sè inintelligibile, e quindi anche impossibile. 2 Insegnò ad esercitare sovr' esso, cioè sopra l' uno dialettico, l' analisi, e ciò in due modi: a) trovando in esso tutto ciò che ci si potea distinguere; quindi in ogni genere, che è appunto un uno dialetticamente indefinito , tutte le specie, e nelle specie tutte le qualità distinguibili: queste qualità distinguibili informate dall' uno costituivano un numero solo, che era la stessa specie, e perciò diceva che la specie è un numero informato dall' unità; b) e trovando finalmente sotto le specie gl' individui reali, che divisi dalle specie rimanevano indefinibili, niun altro numero potendosi trovare in essi: e quindi ad essi cessava ogni analisi del pensiero, rimanendo così nel fondo della speculazione una materia (realità) oscura, non atta più ad essere intesa, venendo tutta la luce dalle sole specie (1). Dalle quali cose si raccolgono i diversi significati in cui è preso l' uno da Platone, cioè: 1 l' uno puramente mentale , com' unità formale, separata da ogni pluralità, prodotto soltanto dal pensiero astraente; 2 l' uno dialettico , l' uno indefinito (genere più o meno esteso), su cui s' esercita l' analisi dialettica; principio de' numeri o specie , e per mezzo di queste e della materia reale principio degli enti reali definiti; 3 l' uno partecipato dalle specie, costituente le essenze speciali , che sono poi partecipate dagli enti reali (individui); 4 l' uno primo e supremo , causa suprema, Dio. Ora Platone, che alla dialettica riduce tutta la professione del filosofo (2), parla degli enti alternativamente, ora in modo dialettico, ora in modo ontologico, e ciò perchè, come dice Aristotele, [...OMISSIS...] . Il che però non vuol dire che il modo di essere delle cose sia uguale in tutto al modo di concepire della mente umana. E questa è una delle cause dell' oscurità di Platone e di Aristotele stesso, parlando questi filosofi ad esempio di quelli che li precedettero con principŒ così universali e formali, che convenissero ugualmente al concepire e all' essere delle cose; onde, quando applicano al primo lo stesso linguaggio, e poi l' applicano al secondo, esso cangia di significato, e diventa equivoco ed analogico: oltre altre difficoltà e ambiguità che nascono per via. Applicando dunque questa osservazione ai diversi significati ne' quali Platone adopera il vocabolo uno , «hen», consideriamo l' uno dialettico . L' uno dialettico, cioè quello su cui Platone insegna ad esercitarsi l' analisi dialettica, è duplice, com' è duplice la materia: talora prende a subietto dell' analisi l' uno che ha nel suo seno la materia ideale, talora l' uno che ha nel suo seno anche la materia reale e sensibile: indefinita l' una e l' altra: dal primo si traggono le specie o numeri, dal secondo, colla partecipazione di queste, gli enti reali. Quindi l' analisi dialettica finisce in due modi: 1 quando nell' uno dialettico ideale , dopo aver trovate tutte le differenze o specie elementari, finisce nelle ultime unità (specie piene), non restando più in queste ultime unità che la materia ideale vestita d' unità, cioè l' indefinito che rimane in fine indefinibile: 2 quando nell' uno dialettico reale , dopo aver trovate pure le differenze, generi, specie, fino a quella che noi chiamiamo specie piena e che non ammette altre specie inferiori, rimane questa partecipata dalla realità, cioè s' è pervenuto col pensiero agl' individui reali, nei quali non c' è più altro da distinguere, rimanendo così nel fondo alla speculazione la materia pure indefinibile. Comincia dunque la dialettica ad esercitarsi sull' indefinito e finisce pure nell' indefinito. L' indefinito, da cui comincia, è definibile, e quest' è quello che dà occasione al lavoro dialettico; l' indefinito, in cui termina il lavoro dialettico, è l' indefinibile, puramente materia. Ma la materia ideale è fonte di luce intellettiva, la materia reale di tenebre; e questo risponde all' ottava coppia delle categorie pitagoriche, luce, tenebra [...OMISSIS...] . La materia ideale ontologicamente ha in sè tutte le specie o numeri definiti, ma questi per l' uomo rimangono nascosti a principio, cioè quella presentasi all' uomo come indefinita. Quindi c' è bisogno che la mente umana trovi tali specie o numeri. Trovate queste specie , ciascuna delle quali raccoglie in sè un certo numero di qualità e differenze, la riflessione filosofica considera che, se il numero trovato non fosse tenuto insieme dall' unità , quel numero rimarrebbe indefinito, e come tale oscuro; non sarebbe ancora specie , che vuol dire visibile, intelligibile (1). Conchiude dunque che il numero partecipando dell' unità come sua forma diventa specie . La materia reale all' incontro, non avendo in sè alcun numero, ha bisogno di parteciparlo, il che da' Pitagorici dicevasi un' imitazione de' numeri ( «mimesis»), perchè la materia stessa a' numeri si conforma; da Platone poi fu detta partecipazione delle specie (2) ( «methexis»), onde le specie rimanevano distinte dalle cose , come il partecipabile dal partecipante . Non dunque il solo uno , non la sola materia era per Platone il subietto dialettico, chè que' due elementi così staccati rimanevano infecondi; ma sì l' uno , per la mente, indefinito , cioè avente nel suo seno una materia ancora indefinita. Da quest' uno si deducevano dialetticamente degli altri uni simili al primo; per esempio, se era un genere quello su cui s' esercitava la dialettica, si deducevano le specie. E dico uni simili al primo, in quanto che gli uni dedotti contenevano anch' essi i due elementi del primo, cioè si componevano: 1 di materia (essenza indefinita); 2 d' unità che costringeva quella e l' informava. Ma le ultime unità non potendo più produrre di sè altre unità, essendo così il numero esaurito, contenevano soltanto i detti due elementi, che in tutte le unità ricompariscono. Ora l' uno dialettico , cioè quello che il filosofo pigliava a esercitarvi sopra l' analisi, variava, poichè esso non indica un oggetto fisso, ma un genere d' uni dialettici: su qualunque di questi uni che il filosofo potesse prendere a considerare, ei dovea esercitare la dialettica allo stesso modo, colle stesse operazioni. Potea dunque il filosofo prendere un uno dialettico più o men copioso, e trovarci un numero più o men grande: fin qui la dialettica. Vediamo ora dove cominciava l' ontologia, e da quella c' era il passaggio a questa. Quando il filosofo, in vece di prendere un uno qualunque a caso per esercizio dialettico, sceglie, tra questi uni possibili ad analizzare, quello la cui analisi fa conoscere l' intima costituzione dell' essere o dell' ente come tale, allora dalla dialettica stessa egli è introdotto sul territorio dell' ontologia. E, rilevato una volta che la costituzione dell' ente deve essere necessaria, tale cioè che, supposto in essa un qualche cangiamento, l' ente rimarrebbe annullato; è facile altresì conoscere che, trovata una proprietà dell' ente, qualunque questa fosse, essa non si può rimaner sola, ma deve involgere la condizione di tutte l' altre, chè da tutte insieme risulta quella costituzione necessaria dell' ente. Ora la prima proprietà dell' ente e la più semplice e facile a concepirsi dalla mente, è che sia uno . Dalla meditazione dunque del puro uno si potea pervenire ragionando a trovare tutte l' altre proprietà elementari dell' ente, e questo è quello che fa Platone nel « Parmenide » e nel « Sofista » di proposito, e su cui torna spesso negli altri dialoghi. Nella seconda parte del « Parmenide » (1), Platone stabilisce l' ipotesi che l' uno sia; e, dato per vero che sia, arguisce dall' esserci l' uno , che è necessario che ci siano i molti come sua condizione, altramente non sarebbe, contro l' ipotesi assunta che sia. Questa è la prima e fondamentale Antinomìa del sistema di Platone, ed è la terza coppia delle dieci che Aristotele attribuisce ad alcuni Pitagorici, «hen kai plethos». Egli move dal principio, che se l' uno è, dee partecipare dell' essenza , cioè dell' essere: onde già si distinguono colla mente due elementi: 1 l' essere, l' essenza, la materia; 2 l' unità, l' uno. L' uno è il finimento, secondo Platone, l' essenza è l' indefinito: la prima coppia, «peras kai apeiron», delle dieci pitagoriche. Di che conchiude, che quell' uno, poichè ha l' essere, è un ente; e questo ente è un tutto avente due parti elementari, l' uno e l' essere, che diventano due suoi predicati , potendosi predicare di quell' ente tanto l' uno quanto l' essere. E questi sono i due predicati ( «kategoremata») fondamentali di Platone. Qui dunque abbiamo già tre cose distinte colla mente: il tutto, e le due parti «to hen kai to on». Ma, quando la mente considera queste due parti dell' ente uno o dell' uno ente ( «tu henos ontos»), può ella considerarle separatamente senza che, quando pensa l' uno come parte, nol pensi esistente come tale, e quando pensa l' ente pure come parte dell' ente uno, nol pensi uno? Impossibile. Dal che conchiude Platone che l' uno involge in sè una moltitudine infinita ( «apeiron plethos»), poichè, essendo per necessità uno ed ente, cioè avendo due elementi in sè, e ciascuno di questi dovendo anch' essi avere l' unità e l' esistenza come loro elementi, essendo queste condizioni senza le quali non si potrebbero concepire, risulta che col ripetere lo stesso discorso si potrebbero distinguere elementi all' infinito. Di più ne trae la prima Antinomia speciale: cioè nell' uno essente ci sono necessariamente in un modo implicito tutti i numeri pari e dispari, la seconda coppia pitagorica «peritton kai artion». Poichè, dice, se due sono gli elementi dell' uno ente , cioè l' uno e l' ente (e il medesimo convien dirsi di ciascun elemento considerato da sè), dunque c' è nell' uno il due. Ma poichè quegli elementi sono congiunti da un nesso indissolubile, il qual nesso è un terzo elemento, dunque c' è anche il tre. C' è dunque il pari e il dispari [...OMISSIS...] . Di più, nel due c' è due volte l' uno, e nel tre tre volte . Ci sono dunque dentro i concetti di due e di tre , e di due volte e di tre volte . Onde c' è il due replicato, perchè c' è il due , e il concetto della duplicazione dell' uno; e c' è il tre triplicato, perchè c' è il tre, e il concetto della triplicazione dell' uno. Di conseguente c' è anche il concetto di tre esistenti e di duplicazione, e di due esistenti e di triplicazione; e perciò c' è il concetto di tre due volte, e di due volte tre, e però i pari presi un numero pari, e i dispari presi un numero dispari, e i dispari presi un numero pari, e i pari presi un numero dispari: onde non resta escluso nessun numero, ma tutti si trovano nel seno dell' unità esistente (1). Abbiamo veduto e risulta da tutto questo discorso che ciò che Platone chiama « essenza », «usia», è quello che noi chiamiamo « essere ideale », considerata da Platone come la materia universale delle idee di cui l' uno è la forma. Ora da quello che segue s' intende perchè egli dava a questa materia delle idee la denominazione di « grande e piccolo ». Egli ha dimostrato, che l' uno non può esistere come uno puramente, perchè non esisterebbe se non avesse l' essere, cioè l' essenza, che è qualche cosa di diverso dal puro uno: del pari l' essenza non può esistere senz' esser una: di che viene che l' essenza è il principio della moltiplicazione dell' uno, occupando ella, dopo l' uno, il secondo posto, e così meritando il nome di diade. Questo ragionamento, col quale Platone speculando sul puro concetto di uno, e preso per ipotesi che sia, trova per sua condizione prima la diade, e poi la moltiplicazione indefinita per mezzo di questa, merita d' essere da noi attentamente considerato. Dopo aver dunque dimostrato che nell' uno essente si trova logicamente il concetto di tutti i numeri essenti anch' essi, prosegue così: [...OMISSIS...] . Dove si trova la vera spiegazione del perchè Platone chiamava la materia ideale « il grande e piccolo », e mi fa maraviglia che Aristotele non l' accenni, e che un passo sì chiaro sia sfuggito a molti eruditi, che hanno cercato la ragione di quella denominazione (1). Poichè l' essenza, come in appresso dimostra, non potendo stare senza l' uno, e nell' uno essente essendoci i molti, conviene che l' essenza sia tra questi molti, grandi e piccoli, distribuita, e che non possa stare di conseguenza senza il grande e il piccolo. Ed essendo ella stessa quella che mette nell' uno la pluralità, consegue che da lei si deva ripetere il grande e il piccolo, e che con questa denominazione si chiami. Essendo dunque l' essenza distribuita in parti, e non potendo essere ciascuna parte se non sia una, conchiude che « « lo stesso uno, distribuito dall' essenza, sia molti e un' indefinita moltitudine » (2) »; e non solo l' ente uno ( «to on hen»), « « ma lo stesso uno ( «auto to hen») sia molti » », poichè « « nè l' ente può mancare mai all' uno, nè « l' uno all' ente, ma questi due piuttosto in tutto s' adeguano »(3) ». Così si spiega, secondo Platone, l' origine dei numeri dall' uno mediante l' essenza seco indivisibilmente congiunta, cioè mediante l' essere, che pur è diverso dall' uno. Trovata nell' uno essente la moltiplicità, è trovato il concetto di parte , perchè tutti gli elementi, di cui consta l' uno, sono come parti di lui. Di conseguente anche il concetto di tutto , perchè l' uno è il tutto di queste parti. Ora il contenente ( «to periechon») è il termine, il finimento ( «peras») del contenuto (4): dunque l' uno come tutto, e però contenente, è il termine, il finimento del più, perchè lo comprende e lo unifica in sè; il che fa ben intendere in che modo Platone diceva, come ripete Aristotele senza spiegarlo, che l' uno è la forma delle specie e de' numeri. E che l' uno sia tutto e parte, contenente e contenuto è la seconda Antinomìa speciale. Di qui Platone deduce che l' uno essente è determinato e indeterminato ad un tempo sotto diversi aspetti (ed è la terza Antinomìa speciale): poichè è determinato in quanto che il complesso delle parti o elementi che contiene sono raccolti e compresi nell' uno tutto, ed è indeterminato in quanto che la moltitudine che contiene da sè presa è indeterminata. [...OMISSIS...] Dal che si conferma quello che dicevamo, cioè: 1 Che l' uno per Platone è per sè solo un concetto anteriore a quello degli elementi del Mondo; 2 Che esso è anche definiente ( «to perainon»), e perciò fine o termine ( «peras»), in quanto comprende in sè l' altre cose (1 elemento); 3 E` anche molti , e in quant' è molti contiene la moltitudine indefinita, e perciò è «apeiron plethei» (2 elemento); 4 Se questa moltitudine indefinita si considera da sè, facendo astrazione dall' uno che la contiene, essa rimane l' indefinita diade, il grande e il piccolo; 5 Quest' indefinita moltitudine è l' essere che si distribuisce secondo le parti grandi e piccole, più o meno numerose. E` da considerare che questi discorsi sono messi da Platone in bocca a Parmenide, e che uno degli scopi di tutto il dialogo è quello di dimostrare, contro i Megarici, che la dottrina eleatica, esposta che fosse con una logica esatta, riusciva la medesima con quella da lui professata, e che non si poteva intendere altramente, qualora si volesse mantenere la coerenza del raziocinio: altramente diventava assurda e non si potea più sostenere. Partendo dunque dal principio di Parmenide che l' ente sia [...OMISSIS...] , e che sia uno [...OMISSIS...] ; spiega sotto quali diversi aspetti Parmenide potesse ammettere che l' ente uno fosse ad un tempo determinato e indeterminato. Ora, continuandosi a tener dietro al carme « «peri physeos» » e dandogli un' interpretazione ragionevole, Platone non ricusa d' attribuire all' ente uno la figura, giacchè Parmenide nel suo carme lo vuole sferico, della quale sentenza si giova altrove Platone per dimostrare che deve contenere una pluralità (2), attirando anche con questo uncino la sentenza eleatica dell' uno, alla sua dell' Uno molti. Dopo aver dunque provato, che l' uno è un tutto determinato in questo senso, che la moltitudine che contiene, e che è lui stesso, è sempre contenuta dall' uno, nè sta mai da sè sola (se non per un' astrazione della mente), e però è compartita e distribuita in moltissime parti [...OMISSIS...] grandi e piccole, deduce che questo tutto determinato dee avere i suoi estremi, e principio, mezzo, e fine, e il mezzo essendo equidistante dagli estremi, dee essere partecipe di figura, sia poi retta o rotonda o mista (1), dove si può rammentare la decima coppia pitagorica [...OMISSIS...] , e nello stesso tempo la forma sferica data all' ente da Parmenide; Platone abbraccia tutte le figure rammentate dai suoi predecessori, e v' aggiunge non senza significato la mista , che è come mediatrice e vincolo delle due prime. Questa figura, data da Platone all' ente, da alcuni interpreti s' intende detto in senso metaforico a quel modo che i logici danno l' estensione alle idee (2), mossi specialmente dal considerare che Platone vuole che il filosofo rimova nello studio dei numeri e delle figure geometriche ogni materia corporea (3). Il che però non appaga pienamente, chè rimane lo spazio figurabile ammesso da Platone come medio tra le idee ed i corpi. Credo doversi piuttosto considerare, che qui Platone parla dell' uno ente vago e informativo (4); e lo considera sotto i varŒ suoi aspetti, ora in sè, ora come partecipabile delle cose reali. Dicendo dunque, non che l' ente sia figura, ma che sia « partecipe della figura », reputò doversi intendere che l' ente è tale che « può partecipare anche della figura ». E parmi indubitato che Platone tra la materia ideale e la materia corporea ammetteva una terza materia, cioè la matematica , e però un terzo indefinito, che era lo spazio, del quale ricevendo il finimento, venivano le figure geometriche , poichè facendo egli venir tutto da' due elementi, anche le figure geometriche, è conseguente che avessero il loro indefinito e il loro finimento: e anche in questi per la stessa ragione si trovava l' uno finiente, e il più definibile. Essendo dunque l' uno essente necessariamente un tutto con pluralità di parti nel suo seno, e con principio, mezzo e fine, qualora si supponga informativo d' una materia a ciò acconcia cioè spaziosa, era suscettibile di figura, cioè di esistere come figurato: e questo è il nesso che in Platone congiunge la Geometria alla Metafisica (1). Passa a dimostrare un' altra proprietà dell' uno essente, quella ch' egli è in sè, ed è in altro; ed è una quarta Antinomìa speciale. E lo dimostra partendo da due concetti, che convengono all' uno. Poichè l' uno si può prendere 1 come tutto, 2 come le parti unite [...OMISSIS...] . Ora l' uno, preso come il complesso delle parti, e contenuto nell' uno preso come tutto; perchè le parti sono nel tutto: dunque l' uno è in se stesso, l' uno è nell' uno [...OMISSIS...] . Il che s' intende non solo di tutte le parti, ma anche d' un gruppo d' esse, e di ciascuna, perchè ciascuna è un uno contenuto nell' uno tutto . Ma l' uno preso come tutto , non è nell' uno preso come parti unite, dunque l' uno non è nell' uno, dunque è in altro. Questa illazione, che non essendo l' uno tutto contenuto nell' uno parti, dunque deve essere in altro, dimostra che si considerava il dove come una proprietà essenziale dell' ente. Poichè domanda Platone: « « Se non fosse dovechessia, non sarebbe egli nulla? »(3) ». E si fa rispondere: « necessariamente ». Quindi l' origine della categoria aristotelica «to pu». Ristretta questa a significare un luogo nello spazio, non è ontologica se non potenzialmente; non essendo necessario che l' ente sia in un luogo, il che appartiene solo a quegli enti speciali che sono o agiscono di necessità nello spazio. Ma potenzialmente è ontologica in questo senso, che non ripugna all' uno informativo, ch' egli informi una materia estesa o avente coll' estensione una relazione necessaria (1). Ma è da considerarsi di più, che gli antichi, come al moto , così al dove davano un significato più esteso che quello che si restringe allo spazio o a' corpi; onde rimane a cercare che cosa sia quest' altro, in cui dice Platone che dee essere l' uno ente considerato nel suo concetto di tutto (2): e viene in mente di togliere la risposta da quello che dice Dante dell' Empireo: [...OMISSIS...] . E che così l' intenda Platone si ha manifesto dal Timeo, dove Dio è chiamato «o to pan xynistas» (4), come altrove è da lui chiamato mente «nus» (5), e ragione «logos» (6). Onde dice, l' universo reale esser fatto sull' esemplare di quello che nella sola ragione e nella sapienza si contiene, [...OMISSIS...] . E ancora dice, che il Mondo reale fu fatto da Dio come un solo vivente simile al Mondo intelligibile che è pure un solo animale intelligibile, il quale contiene tutti gli altri animali come parti « « secondo l' uno e secondo i generi » » [...OMISSIS...] ; il mondo intelligibile poi, essenza del reale, è contenuto nella mente divina. Onde non rimane a dubitare che il contenente del tutto reale sia il tutto intelligibile, che lo informa e che nella divina mente rimane. Dall' esser poi l' uno sotto il rispetto materiale, cioè delle parti, in se stesso, cioè nell' uno formale; e sotto il rispetto formale, cioè come tutto contenente le parti, in altro, cioè nella mente di Dio: deduce Platone che l' uno essente ha due altre proprietà apparentemente opposte, cioè quella di stare , e quella di moversi (quinta Antinomìa speciale), che risponde alla sesta coppia pitagorica [...OMISSIS...] : dove la quiete e il moto sono concetti presi in senso universalissimo, non nel senso ristretto di moto locale, che è soltanto una specie de' varŒ moti che distinguevano gli antichi. Dice dunque che l' uno sta in quanto è in se stesso, e si move in quanto è in un altro. [...OMISSIS...] . Il che così si può intendere: « Le parti, cioè gli uni inferiori, essendo nell' uno tutto, ricevono da quest' uno tutto la loro stabilità, perchè sono in esso come uno nell' uno; ma l' uno, secondo il concetto di tutto, essendo in altro, cioè nella mente divina, conviene che di continuo si discerna da essa, e perciò da essa emani continuamente come forma, cioè come quell' uno che tutto contiene ed aduna »(uno nel IV significato). Ond' anche deduce che l' uno, rispetto a sè, è il medesimo ed è diverso; e così rispetto all' altre cose, cioè al più, è il medesimo ed è diverso (sesta Antinomìa speciale). Rispetto a sè, lo prova in questo modo. La relazione possibile d' una cosa ad un' altra non può esser che quadruplice: 1 o che sia la medesima; 2 o un' altra; 3 o sua parte; 4 o suo tutto: chè la parte non è nè un medesimo nè un diverso dal tutto, e così il tutto non è nè un medesimo nè un diverso dalla parte. Ora lo stesso uno non è nè parte di se stesso, nè tutto di se stesso, quasi di parti; nè l' uno è altro dall' uno. Dunque egli è il medesimo con se stesso . Ma sotto un altro aspetto è anche diverso da se stesso, cioè sotto l' aspetto di tutto che unisce in se le parti. Poichè come tale abbiam veduto lui non essere nelle parti, cioè nell' uno materiale, ma in altro. Ora quello che esiste in un altro diverso da sè, è uopo che sia un altro diverso da sè [...OMISSIS...] . Il che viene a dire che l' uno tutto, forma delle cose, come essente nella mente divina, è diverso dall' uno stesso emanato da quella mente, e imposto come forma alle cose, ha un altro modo di essere. Onde l' uno non solo è il medesimo a se stesso, ma anche da sè diverso. Rispetto all' altre cose prova del pari che l' uno è il medesimo con esse, e con esse diverso. Poichè quali sono l' altre cose? quelle che non sono uno. Ma l' uno è diverso da ciò che non è uno. Dunque l' uno è un diverso all' altre cose, cioè al non uno. Ma in un altro aspetto l' uno è anche il medesimo coll' altre cose che non sono uno. E lo prova dimostrando: 1 che l' uno non può esser qualche cos' altro dal non uno; 2 che non può esser sua parte; 3 e non può esser suo tutto: di che conchiude che l' uno dee essere il medesimo col non uno . Prova che non è altro dalle due nozioni d' identico e di diverso . Il diverso, dice, non può esistere nell' identico in quant' è identico, nè pure un istante. Ma le cose che sono, sono identiche finchè sono quelle che sono. Dunque in niuna di quelle cose che sono [...OMISSIS...] può esistere l' altro. Dunque l' altro non può esistere nell' uno essente, e però nè pure nel non uno; poichè se in questo ci fosse, già ci sarebbe anche nell' uno, chè il predicato diverso è reciproco (1). Di poi dimostra, che l' uno non può essere parimente una parte del non uno, e nè pure tutto del non uno, perchè in tal caso il non uno parteciperebbe dell' uno (2), e così cesserebbe d' esser non uno, contro l' ipotesi. Dal che conchiude che, se l' uno non ha la relazione di diversità dal non uno, nè quella di parte, nè quella di tutto, per modo che il non uno, restando non uno, sia una sua parte; rimane che l' uno sia il medesimo col non uno . La qual conclusione, benchè sembri strana, consuona però col principio messo da prima, cioè che tutte le parti insieme sia l' uno. Ora le parti in quanto sono moltiplici sono non uno: dunque il non uno è il medesimo uno. Il che è quanto un dire: « la domanda se l' uno sia diverso o identico col non uno, non può farsi, se si supponga che il non uno non esista, sia nulla: voi supponete dunque che il non uno sia qualche cosa: ma non può esser qualche cosa se non per l' uno che non abbandona mai l' esistente. Ora se il non uno esiste e quindi è uno, già si vede che esso è uguale all' uno, perchè altro non può essere che le parti informate dall' uno. Laonde le parti informate dall' uno, e quindi essenti, se si considerano puramente come parti, astraendo dall' uno; ma non negandolo di esse, sono non uno; ma se si considera come il non uno possa esistere, ritornasi col pensiero all' uno, poichè si vede che la condizione della loro esistenza è che sieno uno. Sotto questo aspetto dunque l' uno vedesi uguale a ciò che si dice non uno ». Trae di qui un' altra proprietà dell' uno, e una settima Antinomìa, attesi i varŒ suoi aspetti, cioè ch' egli è simile e dissimile a se stesso; ed è pure simile e dissimile all' altre cose . E primamente prova che l' uno è simile e dissimile all' altre cose che non sono uno, dall' esser ad esse diverso ed identico, nel modo detto di sopra. Essendo altro, ossia diverso dall' altre cose, l' altre cose sono altro, ossia diverse da lui (1). Dunque l' uno e il non uno, essendo reciprocamente altro, hanno questo di simile d' esser altro , perchè l' uno e il non uno partecipano della forma della alterità, ossia della diversità. Qui si vede come ciò che è dissimile, qual è il diverso, diventa simile, mediante una riflessione più elevata della mente, che fa della diversità stessa una forma astratta e perciò unica, applicabile a più subietti, i quali coll' applicazione di quell' unica forma diventano due, cioè diversi e dissimili. Infatti i subietti diversi ed altri l' un dall' altro, non si potrebbero riconoscere tali, se la mente non li considerasse mediante una sola idea; poichè nessun paragone ella può fare, sia per unire, sia per dividere più cose, se non applica loro un' idea comune «( Ideol. , 1.0 7 1.7) ». Il che prova di nuovo, che il più (il quale non si concepisce se non mediante la compresenza di più cose davanti alla mente, e però un certo confronto che le distingue tra loro e non le lasci confondere) (1), non si può intendere se non nell' uno e per l' uno. Ora, poichè fu dimostrato anche che l' uno è identico e diverso da ciò che non è uno, e che ciò che non è uno è del pari identico e diverso da ciò che è uno, sèguita che, se l' uno si considera in quanto è identico al non uno, e il non uno in quanto è diverso dall' uno, non si rassomigliano punto (2); e lo stesso si conchiude, se si considera il non uno in quant' è identico, e l' uno in quant' è diverso (3). Sotto queste considerazioni l' uno e l' altro sono dunque dissimili. E avendo dimostrato prima che l' uno, anche rispetto a sè, è identico e diverso, risulta ch' egli è simile e dissimile rispetto a sè, poichè quelle due proprietà sono contrarie, e però in quanto si paragonano quelle due proprietà si trova dissimile, ma se si considera che l' una è contraria all' altra, si trova simile a se stesso, perchè come identico è diverso dal diverso, e come diverso è diverso dall' identico: dunque ciascuna si paragona all' altra con una idea riflessa superiore che rende simili quelle due proprietà contrarie, appunto per questo che l' una e l' altra ha la forma della contrarietà alla sua opposta. Un' altra proprietà dell' uno essente, che s' inferisce dalle precedenti, si è, che l' uno tocca e non tocca se stesso, tocca e non tocca l' altre cose, ed è una ottava Antinomìa. E anche qui, come abbiamo detto d' altri vocaboli tratti dalle cose corporee, non si deve menomamente pensare che si parli d' un toccamento materiale; ma con questa parola non vuole indicare il filosofo se non la prossimità e l' aderenza d' un uno essente a se stesso e a ciò che non è uno. E dice, che sotto un aspetto e preso in un significato, l' uno essente è aderente all' uno essente, e a ciò che non è l' uno essente, il non uno, il più; e sotto un altro aspetto e in un altro significato, non è aderente. Il che, ragionando dalle cose dette deduce così. Si è veduto, che l' uno preso per tutte le parti è nell' uno preso sotto il concetto di tutto che le raccoglie. Se dunque l' uno preso nel primo senso è nell' uno preso nel secondo, l' uno dunque tocca l' uno, è aderente a se stesso; e lo stesso dicasi se per uno si prenda ciascuna parte, che, come vedemmo, deve partecipare dell' uno. Ma se l' uno in tal modo considerato è in se stesso e tocca se stesso, egli non tocca l' altre cose, appunto perchè si considera come essente in se stesso e non nell' altre cose. Ma abbiamo anche veduto che l' uno sotto l' aspetto di tutto è in altro ( «en hetero») (1): in quanto dunque l' uno è in altro o negli altri, intanto tocca gli altri, loro aderisce. Se quest' altro si deve intendere, come l' abbiamo noi inteso prima, la stessa mente divina, risulta da tutta questa dottrina che gli uni enti reali, sarebbero e toccherebbero l' uno supremo, Dio; e non viceversa. Così la specie non tocca l' ente reale; e questo spiega come le specie si dicono da Platone separate, benchè l' ente reale tocchi la specie di cui è informato e in cui è come in se stesso; e così pure Iddio non tocca la specie, ma la specie tocca Iddio, perchè essa è in lui, come in un altro, essente. Ma quando si dice l' uno e l' altro , quest' altro è relativo all' uno emanato da Dio come elemento ( «peras»), e però s' applica non solo a Dio da cui è emanato, ma anche alla materia ideale o reale ( «apeiron»). Questa, considerata recisa dall' unità ( «dyas»), non partecipa menomamente dell' uno, e però nè pure del numero; e però, fino che si considera in questo stato, non tocca l' uno, nè è da lui toccata, perchè non è ancora da lui informata: e quand' anco la materia si considerasse come uno, rimanendo quest' uno solo, e non potendosi distinguere in essa il due o altro numero definito, non ci sarebbe tatto, perchè questo non ci può essere se non tra due o più cose, tra le quali i toccamenti possibili sono tanti, quante le cose stesse, meno uno: di che apparisce di nuovo che l' uno rimane escluso dal toccamento. Dunque in questo senso nè l' uno tocca l' altre cose, nè l' altre cose toccano l' uno (1). Un' altra proprietà, e una nona Antinomìa dell' uno , conseguente alle trovate fin qui, si è, ch' egli, sotto diversi aspetti, è maggiore, minore ed uguale a se stesso e all' altre cose. La chiave di questa nona Antinomìa si è, che una proprietà può essere assoluta o relativa alla sua contraria. Ora la grandezza e la piccolezza sono proprietà relative, e non c' è una grandezza o una piccolezza assoluta, e perciò l' uno per sè è privo di grandezza e di piccolezza [...OMISSIS...] . Quindi è facile dimostrare, che l' uno e l' altro non possono essere maggiori e minori assolutamente, cioè per le loro proprie essenze [...OMISSIS...] : e in quanto manca loro una piccolezza e una grandezza assoluta, in tanto l' uno può dirsi uguale a se stesso e all' altre cose, cioè nè piccolo, nè grande, non maggiore, nè minore. Ma se si prende la grandezza e la piccolezza per qualità relative, quali sono, in tal caso si può dimandare se nell' uno e nell' altro ci sieno anche, oltre i concetti trovati fin qui, il concetto di questa relazione di grande e di piccolo, di maggiore e di minore. Ora questi concetti appunto ci si trovano. Poichè abbiamo veduto, che tutte le parti insieme sono l' uno (uno materiale), e che quest' uno è contenuto nell' uno come tutto (uno formale). Ora il contenente si concepisce come maggiore del contenuto, e quindi la forma maggiore della realità. Ma anche l' uno come tutto è in un altro (in Dio, Uno supremo) (3). In quanto dunque l' uno tutto è contenuto in quest' altro, egli è minore dell' altro. L' analisi dunque dell' uno dà, ch' egli, secondo diversi aspetti, sia maggiore e minore di se stesso e dell' altro, e sia anche uguale a se stesso ed all' altro. Veduto questo circa la relazione di quantità in generale, Platone applica la dottrina alla quantità discreta, e dice, che se l' uno è uguale, e maggiore, e minore di se stesso e dell' altre cose; dunque deve essere anche più e meno di numero, poichè l' eguale ha un egual numero di misure e di parti, e il maggiore ne ha più, il minore ne ha meno. Dal numero passa al tempo , e dimostra la decima Antinomìa speciale, che cioè l' uno: 1 è più vecchio e più giovane di se stesso, e non è nè più vecchio nè più giovane; 2 è più vecchio e più giovane dell' altre cose, e non è tale; 3 diventa più vecchio e più giovane di se stesso, e non diventa tale; 4 diventa più vecchio e più giovane dell' altre cose, e non diventa tale. Se l' uno è, come vedemmo, gli compete l' essere ( «einai»). Ma essere non è altro che partecipare dell' essenza col tempo presente (1), come pure lo stesso era ( «to en»), e lo stesso sarà ( «to estai») è partecipazione dell' essenza. Ma il tempo fluisce: dunque l' uno essente diventa sempre più vecchio di se stesso, cioè di quel che era. Ma il più vecchio è relativo al più giovane. L' uno essente dunque diventa più vecchio di se stesso, diventando più giovane. Ma l' uno ente che dal passato viene e tocca il presente, in questo momento in cui è presente non diventa già più vecchio e più giovane di se stesso, ma è già tale. Dunque non solo l' uno ente diventa più vecchio e più giovane di se stesso, ma anche è . Ma il presente sta sempre coll' uno, perchè, per quanto questi trascorra, sempre è presente. Dunque sempre e si fa ed è più vecchio e più giovane di se stesso. Ma se poi si considera, che tutto il tempo non ha una durata, nè maggiore, nè minore di quella dell' uno, si vede che l' uno non si fa, e non è, nè più vecchio, nè più giovane di se stesso, perchè ha tant' età appunto, quant' è quella di tutto il tempo, nè più, nè meno. Quest' Antinomìa ha per fondamento l' uno essente considerato nella sua identità , e nelle sue modificazioni . Poichè, in quant' è semplicemente identico, egli ha una durata unica e indivisibile, e però non gli si può applicare una misura d' età. Ma in quanto si modifica, egli identico con una modificazione è anteriore o posteriore, più vecchio o più giovane di se stesso identico, ma con un' altra modificazione. Per ciò che riguarda gli altri, avverte Platone, che qui si parla di altri in plurale, e non di altro in singolare [...OMISSIS...] : il che ben dimostra ch' egli distingueva tra «heteron» e «hetera» (benchè poi non mantenesse sempre questa proprietà di parlare); il che conferma l' opinione da noi più sopra annunziata, che egli distinguesse due altri , quello in cui era contenuto l' uno come tutto, l' idea o forma di tutte le parti, ed era Dio come altro dall' uno emanato; e quello che era contenuto da quest' ultimo, ed erano le parti insieme prese. L' altro dunque preso come le parti insieme, ossia gli altri, dice, sono più che non sia l' uno. Ora in una pluralità il minor numero è anteriore al maggiore, e l' uno è anteriore e perciò più vecchio di tutta la serie: dunque l' uno è più vecchio (almeno secondo la priorità logica) dell' altre cose. Onde conchiude: [...OMISSIS...] : dove si vede che parla dell' « uno indefinito », cioè dell' uno che ha nel suo seno la materia non ancora vestita di numeri ossia di specie, il qual pure lo considera come principio de' numeri di quest' uno uscito il primo nella formazione dell' universo (almeno secondo l' ordine logico) dal seno di Dio: [...OMISSIS...] . Ma se invece di quest' uno materiale, si considera l' uno come tutto, cioè come forma del precedente, l' uno è posteriore all' altre cose, perchè il tutto non c' è, fino che tutte l' altre cose, sino all' ultima, non ci sieno, e però l' altre cose sono anteriori e più vecchie dell' uno, e l' uno più giovane. Ma anche ciascuna parte è una: dunque l' uno nasce ed è coevo alle parti, e perciò, secondo questo aspetto [...OMISSIS...] non è nè più vecchio, nè più giovane dell' altre cose. Dopo avere per questo modo provato che l' uno è più giovane, e più vecchio, e d' uguale età dell' altre cose, passa di più a provare che egli può e non può diventare più giovane e più vecchio delle altre cose. Prova che l' altre cose non possono diventare nè più vecchie, nè più giovani dell' uno di quel che sono (2), osservando che se a cose disuguali s' aggiunge cose uguali, rimangono disuguali come prima, e però passando un egual tempo per le cose e per l' uno, la differenza aritmetica dell' età loro rimane la stessa. Ma se si considera la proporzione geometrica , quando a due tempi disuguali s' aggiugne uno spazio di tempo uguale diminuisce, la ragione nella quale sono differenti; e però pare che si diminuisca l' antichità dell' uno, e rispettivamente la gioventù dell' altro, onde quel che era più giovane comparativamente al più vecchio diventa più vecchio, e quel che era più vecchio comparativamente al più giovane diventa più giovane (1). E poichè l' uno e i molti sono reciprocamente più vecchi, ed anche più giovani, lo stesso discorso vale in entrambi i casi. Ma in quanto sono uguali d' età rimangono uguali coll' aggiungersi una ugual porzione di tempo, sia che si consideri la ragione aritmetica, ossia la ragione geometrica. Avendo dunque detto che il tempo è una proprietà dell' essenza, cioè dell' essere partecipato dall' uno, e che perciò l' uno è e diviene più vecchio e più giovane di se stesso e dell' altre cose, conchiude che l' uno, se è, cioè se ha l' essenza, è partecipe del passato, del presente e del futuro, che era, ed è, e sarà, e diventava, e diventa, e diventerà. Il che fa sì che a lui e di lui possa essere qualche cosa; e che anche questo sia stato, e sia, e sia per essere. E ciò che c' è di lui è la scienza, e l' opinione, e il senso: a lui poi è il nome e il discorso , poichè lo si nomina e se ne discorre. Dove si vede che Platone mette per condizione della scienza, e dell' opinione, e del senso, e dei nomi o segni, e del discorso, il tempo come inerente all' essere. Il che ben dimostra, onde Platone traesse la ragione, o la condizione dei predicabili e dei predicamenti, e di tutto il sapere di predicazione: questa condizione e ragione è per lui il tempo; e però un tal conoscere appartiene alle cose temporanee, e non alle sempiterne, di cui è proprio il sapere per intuizione o il sapere per sè. Poichè, se non ci fosse tempo, cioè il rapporto tra l' identità e la mutazione «( Psicol. , 1139 7 1171) », il conoscere umano non potrebbe essere discorsivo, com' egli è; e non si potrebbe predicare dell' ente cos' alcuna, o cos' alcuna attribuire all' ente; non si potrebbe dunque avere la scienza umana, che in quant' è riflessa e filosofica (la quale propriamente si chiama scienza, «episteme») esige le definizioni; e molto meno si potrebbe opinare; nè il principio sensitivo avere più sensazioni, e immutazioni; e di conseguente non ci sarebbero i nomi e la lingua. Convien dunque dire che, secondo Platone, i predicabili e i predicamenti appartengano al Mondo che ha presente, passato e futuro: all' ente in quanto, ritenendo qualche cosa d' identico, subisce successive mutazioni; e non all' ente in quant' è immutabile e sempiterno. Il che quanto sia vero apparisce dalla Teoria delle Categorie che noi daremo in appresso, dove vedremo che i generi degli enti non possono abbracciar tutto l' ente, ma nel solo ente limitato si trovano. Se noi dunque vogliamo distribuire in una tavola sinottica tutti questi elementi trovati da Platone, coll' analisi nell' uno essente, avremo la seguente distribuzione: Uno essente 1 Uno Essenza, contenente una pluralità indefinita, il grande e il piccolo. 2 Dispari Pari. 3 Parte Tutto. 4 Determinato Indeterminato. 5 In sè In altro. 6 Stante Moventesi. 7 Medesimo Diverso, rispetto a sè e rispetto all' altre cose. . Simile Dissimile, a se stesso e all' altre cose. 9 Toccante Non toccante, se stesso e l' altre cose. 10 Maggiore Minore ed Uguale, a se stesso e all' altre cose: a ) di grandezza, b ) di numero, c ) di età (tempo) (1). Tutte queste cose pertanto distinse Platone dialetticamente analizzando l' uno essente , ma vago e informativo: onde prende ora l' una condizione ora l' altra, anche opposta, secondo la materia che informa: le quali cose si possono considerare come elementi dell' ente, non elementi puramente materiali, ma elementi o costitutivi in un senso estesissimo. Ma sono essi anche generi? E se sono generi degli enti , come sono anche elementi dell' ente? Platone non dubita di chiamarli generi (1) di enti, perchè per ente intende tutto ciò che è, tutto ciò che mostra in sè d' avere una qualche potenza anche minima di patire e d' agire (2). Onde ogni atto o potenza in questo senso è considerato come ente, cioè come essente, benchè non sia un ente compiuto, che stia e si concepisca stare da sè. In questo senso dunque gli elementi sono generi di enti, noi diremmo d' entità. Si comprende dunque, secondo questa maniera di parlare degli antichi, che pigliavano «on» come participio, non solo ciò che esprime il nome sostantivo di ente , ma ciò che la mente anche per via d' astrazione considera a parte del resto, a ragion d' esempio l' accidente (enti mentali), e gli dà un nome suo proprio. Onde per provare che tali cose sono enti, cioè entità, Platone ricorre appunto ai nomi, e dice: [...OMISSIS...] . Di che deduce che tali enti o essenti hanno una comunicazione tra loro, perchè molti si predicano d' un solo; ma questa comunione [...OMISSIS...] è regolata di modo che nè tutti gli enti sono divisi l' uno dall' altro, nè tutti si comunicano alla rinfusa con tutti gli altri (due sistemi filosofici che combatte Platone), ma alcuni si congiungono ed altri no, onde è necessaria un' arte a distinguere quali sì, e quali no. Avendo dunque Platone definito l' ente dall' attività, di maniera che sia tutto ciò che ha attività anche minima [...OMISSIS...] , ne viene che sia proprio dell' ente il moto nel senso estesissimo (l' azione). Ma se fosse tutto moto non sarebbe, onde secondo qualche rispetto, deve convenirgli anche la quiete . Quindi due generi di enti, che si affanno e congiungono all' ente preso secondo il puro concetto di ente, il moto e la quiete. Ma il moto esclude la quiete: dunque questi due generi non comunicano insieme. Se non comunicano, l' uno è identico a se stesso e diverso dall' altro; e se convengono entrambi all' ente, dunque gli conviene anche l' identità e l' alterità, due altri generi. Qui dunque si distinguono cinque generi: l' ente, il moto, la quiete, l' identità e l' alterità, i quali da Plotino (2) e da altri Platonici (3) sono considerati come le cinque Categorie di Platone. Queste però non sono che la sesta e la settima coppia di quelle che enumera nel « Parmenide » (4), quantunque da queste, se rettamente si considera, si possono dedurre tutte le altre: chè già si vede che il moto, cioè l' azione, è necessario di porsi a principio se dall' ente uno si vuol dedurre, coll' operazione della mente, i suoi elementi, giacchè questo stesso d' aver la potenza di distinguersi colla mente dall' ente si concepisce come una cotale loro attività o movimento. Così si moltiplica l' essenza e ne viene il numero, da cui tutto il resto. Platone dunque, distinti nel « Sofista » questi che chiama cinque generi, prova che non possono unirsi a caso tutti con tutti; chè i contraddittorŒ, come il moto e la quiete, l' identità e la diversità, ricusano ogni congiunzione. Ma è ugualmente erroneo il dire che ciascuno si rimanga interamente separato dagli altri; poichè, separato l' ente dagli altri quattro, questi non sono più, e non rimane nè pur il concetto di ente che suppone un' attività e una stabilità, cioè d' esser unito col moto e colla quiete. Oltre di ciò, dice, continuando a confutare questi secondi (i Megarici), che non potrebbe più esserci discorso se non si potesse predicare una cosa d' un' altra; onde, essendo obbligato a far ciò gli avversarŒ, se pur vogliono parlare « « hanno in casa il nemico e l' avversario che dentro si fa sentire » », cioè si contraddicono col pure aprir bocca e pronunciare un giudizio (1). Dove si vede l' origine del concetto di categoria suggerito naturalmente dalla questione de' generi degli enti. Poichè, considerandosi per enti gli elementi che li costituiscono, come fa Platone, e questi riducendosi a generi, conveniva dimandare, se e come questi generi s' uniscano tra di loro: il che era quanto un chiedere « come si possano predicare gli uni degli altri ». Si vede ancora come sull' ali della dialettica egli ascendeva alle dottrine ontologiche (1), nè altre ne può aver l' uomo, se alquanto s' estende il significato di dialettica. Dimostrato dunque con somma sagacità ed evidenza che i cinque concetti sono tutti distinti e l' uno non è l' altro, prova pure che i contraddittorii non hanno comunione insieme, e che però non si possono congiungere il moto e la quiete, l' altro e l' identico; ma che si congiungono quelli che non si contraddicono, onde il moto e la quiete ciascuno partecipa dell' identico e del diverso e tutti quattro partecipano dell' ente, chè altramente non sarebbero nè si potrebbero concepire, e l' ente partecipa di tutti quattro. Poichè distingue tra ciò che è ciascuno, e ciò di cui partecipa: niuno può congiungersi col contrario a ciò che egli è, ma rimanendo ciò che è, può partecipare di ciò che non è lui. Quindi deduce il concetto del non ente: poichè, avendo mostrato che l' ente è un concetto diverso dagli altri quattro del moto, della quiete, dell' identico e del diverso, consegue che questi sieno non ente , cioè entità diverse dall' ente (2). Ma poichè queste quattro cose sono (3), e che se non fossero, non si potrebbero concepire, perciò anche del non ente si predica l' ente. Di che conchiude che [...OMISSIS...] : perchè queste specie che si possano attribuire all' ente, benchè si possano ridurre ad alcuni generi massimi, pure sono innumerevoli. Ma poichè il concetto dell' ente è diverso dagli altri, consegue che quante sono queste cose, altrettante l' ente non sia. E poichè ciascuna dell' altre cose è non ente, l' ente stesso è uno [...OMISSIS...] , e non è l' altre cose numero infinito [...OMISSIS...] . Infatti, spogliato l' ente di tutto ciò che di lui si predica, non rimane più nè attività, nè quiete nel termine dell' atto, nè si può paragonare con se stesso e dirsi identico, nè paragonare co' suoi predicati e dirsi diverso, e però l' unico concetto che rimane è quello dell' uno. E questo concetto dell' uno è quello che prese ad analizzare nel « Parmenide », dimostrando prima che se si lascia così scarno e solitario, non potendosi di lui predicare nè pure l' esistenza, non può stare, non è al tutto (che è la prima delle due fondamentali ipotesi intorno a cui s' aggira la dialettica nel « Parmenide »): se poi si predica di lui l' esistenza (seconda ipotesi) già si considera in relazione con un altro, che è da lui informato o unificato, e che non si concepisce senz' essere unificato, cioè senza che di lui stesso si predichi l' uno, di maniera che l' uno e l' esistenza sono predicati reciproci. Ma, posto ciò, s' ha già l' uno informativo dell' altro; e data questa prima universalissima dualità d' elementi, cercando tutte le passioni che può subire quest' uno informativo senza cessar d' esser tale, se ne traggono tutti que' generi che furono enumerati nel « Parmenide », da' quali innumerevoli altre specie. La dottrina dunque dell' uno e più , ne' due dialoghi del Parmenide e del Sofista, è la medesima. Ma, mentre in quello introducendo a parlare Parmenide stesso vuol dimostrare che dagli stessi principii conceduti dall' Eleate, a filo di logica, si può cavare, contro di lui, che l' uno e l' ente non è il medesimo, e che da questa prima dualità d' elementi procede una pluralità senza limite; nel « Sofista » dichiara espressamente di confutare l' errore di Parmenide, il quale, avendo posto esclusivamente il pensiero alla natura dell' ente e consideratolo come identico all' uno, non badò alla pluralità, innegabile anch' essa perchè contenuta nel seno dell' ente uno. E il primo passo è appunto questo, di dimostrare, che l' uno e l' ente sono due concetti diversi, benchè indissolubilmente legati insieme. Se sono due, l' uno non è l' altro reciprocamente. Se l' uno non è l ente, dunque l' ente è non uno, materia. Se l' uno non è l' ente, dunque l' uno è non ente come forma. Ma, quantunque il fondo della dottrina e l' argomentazione dialettica sia la medesima ne' due dialoghi, tuttavia in questo differiscono: che nel « Parmenide », come conveniva al principale interlocutore, comincia dall' uno puro e ne presenta le passioni; nel « Sofista » comincia dall' ente informato dall' uno (1), e dice che, se si spoglia l' ente di tutti i suoi predicati, rimane il puro uno , quello della prima ipotesi del Parmenide; se poi si considera co' suoi predicati, se ne trovano prima quattro massimi che sono l' attività, la quiete, l' identità, e la diversità. Ciascuno de' quali dà un concetto diverso dall' ente uno, onde sono non ente. Il non ente dunque del Parmenide e quello del Sofista, benchè ricevano la stessa definizione generica, cioè « ciò che non è ente », cangia alquanto di specie: perchè nel « Parmenide » talora il non ente è « tutto ciò che non è ente »anche l' uno; quando nel « Sofista » il non ente è « ciò che non è ente uno », come sono i quattro « predicati massimi, ne' quali non c' entra il predicato dell' uno, perchè rimane unito all' ente contrapposto a que' predicati »(1). Dimostra dunque nel « Sofista » contro « Parmenide » che l' ente uno non esclude la pluralità, cioè l' altro , ossia il non ente. Poichè, dice l' Ospite d' Elea, che ci tiene le prime parti [...OMISSIS...] . E dopo avere illustrata questa tesi con esempi, mostrando che ciò che si dice « non bello », « non grande », « non giusto », non è già nulla, ma bensì tutto quello che è diverso dal bello, dal grande, dal giusto; e così parimente il « non ente », non è nulla, ma tutto ciò che non è il concetto stesso dell' ente: e però che anche il non ente, è in qualche modo, ed è l' essenza dello stesso ente [...OMISSIS...] , ed ha una sua ferma natura [...OMISSIS...] ; dopo tutto ciò, dico, l' Ospite d' Elea soggiunge: [...OMISSIS...] . E Teeteto mostra di non essersene accorto, perchè s' era partito dall' ente uno di Parmenide, e per illazioni d' una logica irrepugnabile s' era pervenuto al non ente, negato da Parmenide, di cui l' Ospite Eleate reca i versi. Quello adunque che aggiunse Platone alla filosofia d' Elea è il non ente e le specie del non ente, come dichiara in appresso (1). Laonde un uno qualunque si può predicare che è, e si può predicare dell' altre cose. In quanto si predica che è, dicesi ente: e quest' è l' ente del Sofista, che risponde alla sostanza o al supposito d' Aristotele. Ma l' altre cose che si predicano di quest' uno ente, paragonate all' ente che s' è già predicato, è non ente, e questo non ente del Sofista risponde all' altre nove categorie aristoteliche che si dicono abbracciare gli accidenti (2). Dalla dialettica dunque, cioè dal considerare come nell' umano discorso si predicano alcune idee di altre, ma non tutte di tutte, e alcune si negano di alcune altre, pervenne Platone a stabilire che il concetto dell' ente, quantunque non potesse sussistere da se solo ma avea bisogno d' altri concetti che lo determinassero, tuttavia si distingueva colla mente dagli altri concetti, e questi non erano lui, onde si potevano dire non enti, in opposizione al concetto puro dell' ente; poichè il dire che sono altri concetti diversi da quello dell' ente, e il dire che sono non enti, è il medesimo. E a quell' analisi Platone pervenne spinto dal bisogno di confutare i sofisti (onde da essi intitolò il dialogo), i quali argomentavano: « Il non ente è nulla e però non si può esprimere con alcuna locuzione: dunque tuttociò che si dice è: si dice sempre il vero, e qualunque discorso si faccia intorno a qualunque cosa non può esser mai falso ». Fu dunque obbligato Platone a investigare la natura del non ente, e mostrare che non era nulla, e si potea pronunciare, e distinguere dall' ente. Ogni qualvolta dunque il discorso dice ente a quello che è, non ente , o viceversa, è fallace e mentitore. Così la sofistica fu recisa fino dalla sua più profonda radice. Ma noi dicevamo che questa investigazione dialettica condusse Platone all' Ontologia, e aggiungiamo ora in più modi. Primo perchè l' Ontologia trattando dell' essere in tutta la sua ampiezza, conviene che lo consideri anche nelle sue relazioni colla mente; ed essendo noi uomini quegli che speculiamo intorno agli enti, anche colla nostra mente umana. Secondo, perchè le idee, essendo sole quelle che somministrano il concetto dell' immutabilità e della eternità dell' essere, sono il fonte della dottrina intorno alla natura di questo: onde avviene che, conosciuta questa stabilità e necessità che nell' essere ideale si riconosce, anche la dialettica, ossia il ragionamento che vi ci ha condotti, trova nell' essere stesso per sè considerato la sua fermezza e immobile consistenza: il che non manca mai di far notare Platone, come là dove, distinto il mondo intelligibile dal reale che lo realizza quasi sua materia, deduce da quello il ragionamento necessario e apodittico, e da questo l' opinione , ossia l' elemento mutabile e materiale del ragionamento medesimo (1); [...OMISSIS...] : come sta l' essere ideale al reale, così sta il discorso assolutamente vero, che si fonda su quella, al discorso opinativo o verisimile, esprimente la persuasione che s' acquista colle percezioni sensibili di questo. In terzo luogo, già vedemmo che l' analisi dialettica dell' uno conduce al concetto di tutto, sia reale sia ideale; e questo alla mente divina, in cui solo può consistere simultaneamente in quella grande unità che gli è necessaria. In quarto luogo finalmente osservammo, che, se in vece di prendere a subietto del lavoro dialettico l' uno segregato da tutto il resto o l' uno informativo di tutto il resto, si prende l' uno anteriore a tutti gli altri contenente tutto da cui tutti gli altri uni procedono, altro non si fa colla dialettica stessa che considerare quello che a Dio convenga e che non gli convenga. Onde, trapassata la stessa Ontologia, siamo pervenuti alla Teosofia. Al che appunto s' appresero i neoplatonici (1). Plotino, che per acutezza e originalità va ad essi anteposto, considera i cinque generi, enumerati da Platone nel « Sofista » e altrove (2), come i sommi; e vuole che siano ad un tempo elementi e generi del mondo intelligibile (1), ma sotto un diverso aspetto: elementi dell' ente, in quanto si trovano e distinguono dall' intelligenza in ogni ente; generi , in quanto si considerano, ognuno da sè, come aventi delle specie subordinate. Il che per intendere come sia, dobbiamo prendere il discorso più da lungi, ed esporre come Plotino escluda, dal novero de' sommi generi, tutti quelli che Aristotele ed altri posero come tali. Egli dunque domanda in prima, se l' uno forse non si potesse computare tra' sommi generi: e lo esclude, percorrendo i suoi significati (2). Il primo significato da Plotino indicato è quello dell' uno puro [...OMISSIS...] , a cui nulla s' aggiunga, nè anima, nè intelletto, nè altro (e quest' è l' uno della prima ipotesi del Parmenide): esso non può esser predicato di nulla, e però non è una qualità generica, un genere. Il secondo significato è l' uno aderente all' ente, «to hen on», l' uno della seconda ipotesi del Parmenide. Ora questo già non è più lo stesso uno logicamente primo [...OMISSIS...] . Di poi l' uno, sia aderente all' ente o no, se si considera nel suo concetto di uno, non può esser genere, perchè il genere riceve in sè differenze, e con esse produce le specie nelle quali egli rimane, perchè rimane nelle specie la qualità generica; all' incontro se l' uno ammettesse differenze, si distruggerebbe, perchè, cessando d' esser uno, diverrebbe molti. I contraddittorii , come dimostrò Platone nel « Sofista », non si possono unire, ma solo i diversi . Ora al puro uno, il due e qualunque pluralità è contraddittoria (3). Il terzo significato dell' uno è che valga il medesimo che ente , nel qual caso, poichè si considera l' ente tra i cinque generi, così anche l' uno. Ma, risponde Plotino, che con ciò non s' avrebbe aggiunto all' ente che un nome di più, e non sarebbe mai l' uno primo e puro, l' uno come semplicemente uno, o l' uno distinto dall' ente coll' intelligenza. Ma non si potrebbe considerare come primo uno quello coll' ente, come ente dicesi da prima quello che è congiunto coll' uno, benchè ci sia un concetto anteriore, quello dell' uno? - Ciò che è superiore all' ente, risponde, non è a dirsi ente; laddove quell' uno che è anteriore all' uno ente, non può dirsi che uno. Onde questo è da prima uno. - Nella quale risposta si vede, che la parola ente è presa nel significato, in cui si prende nel « Sofista », dove si considera l' ente come un genere opposto all' altro genere del non ente (che abbraccia nel suo seno i quattro generi minori), cioè è presa come l' ente diviso colla mente dai suoi termini e dalle sue attribuzioni, e ritenuto il solo preciso concetto d' essente. Poichè, in questo significato di «usia» indefinita qual materia ideale, si può benissimo concepire che ei abbia un concetto anteriore, in via d' astrazione, all' ente, qual è quello dell' uno, appunto perchè concetto più astratto «( Ideol. , 575 7 5.1) » e formale dell' essente o dell' esistenza. Ma l' essere, come atto e non come materia , è anteriore a tutto, ed è forma d' ogni concetto dell' uno stesso: il che non considerarono bastevolmente i Platonici. Stabilisce di poi Plotino il principio, che « « non tutto quello che è comune in molti è genere » » [...OMISSIS...] , ma può esser principio o elemento e non genere; ma solo quello è genere che riceve in sè differenze e ha specie, e si predica delle specie come loro quiddità comune. [...OMISSIS...] L' uno dunque non si predica come quiddità d' alcuna specie, benchè inesista in ciascuna specie e in ciascun individuo, e non produce di sè nè ammette in sè le loro differenze. Un' altra proprietà del genere si è che egli sia ugualmente in tutte le specie. L' uno all' incontro, che s' attribuisce a tutte le cose, non è ugualmente in esse, ma più e meno: dunque non ha la proprietà de' generi. Vero è, che anche l' ente è più e meno, ma l' uno è partecipato variamente anche da quelle cose che sono ente ugualmente (2). Così l' esercito e la casa sono enti ugualmente, dice Plotino, e pure questa ha più unità di quello. Osserva poi, che « « ogni cosa non ha sola la tendenza ad essere, ma ad essere col bene » », ed è tanto più col bene, quanto più ha d' unità: e questo non meno nella natura che nell' arte. Onde conchiude che, tendendo tutte le cose all' uno e a imitare quello che è il medesimo [...OMISSIS...] , tendono al bene, è che l' uno è il bene (3). Cominciando dunque tutte le cose dall' uno, e in esso tendendo come in loro bene (4), l' uno è principio e fine de' generi, ma niuno di essi. Del rimanente qui e da per tutto Plotino confonde manifestamente l' uno, che è un carattere astratto del bene, col bene stesso: e non s' accorge che l' uno puro, senz' esser altro che uno, lungi d' essere il sommo bene è un vòto concetto; come accadde a' moderni, i quali spogliato il pensare d' ogni suo oggetto, credettero d' aver trovato il sommo pensiero «( Ideol. p. 1426 7 2.) ». Nondimeno nell' aver Plotino escluso il bene da' sommi generi, travide una verità. Poichè veramente il bene appartiene alla terza delle supreme forme dell' essere, come vedremo, ed eccede tutti i generi. Escluso dunque l' uno e il bene da' sommi generi, Plotino toglie a dimostrare che nè pure la quantità , la qualità e la relazione si devono computare tra essi. Non la quantità, perchè la prima quantità è il numero , venendo da questo tutte l' altre, e il numero è posteriore logicamente a' cinque generi. Poichè il moto, lo stato, l' identità e la diversità, sono insieme coll' ente come suoi elementi intrinseci, non come accidenti che a lui sopravvengono e lo qualifichino, o lo compiano; ma l' ente non è senza essi, costituendo essi l' ordine intrinseco di lui [...OMISSIS...] . Poichè il moto è lo stesso atto dell' ente, e lo stato non è già una sua passione, e l' essere identico e diverso non sono proprietà posteriori all' ente, perchè l' ente non divenne molti, ma era molti pur coll' esser ente, ond' avea identità e diversità. All' incontro il numero, e ogn' altra quantità che dal numero deriva, e la qualità e la relazione non entrano a costituir l' ente, ma sono posteriori e accidentali al medesimo. Nel che sembra esserci una contraddizione, perchè, se l' uno ente è per sè molti, come non ci sarà il numero? Laonde Platone nella stessa essenza ( «to on») pone latente un numero indefinito. Ma Plotino considera il numero attuale in tutta la sua estensione, onde dice che [...OMISSIS...] . Fa dunque derivare il numero dal moto , come l' unità numerica dallo stato dell' ente; e ne ripone l' essenza in una certa mistione di moto e di stato [...OMISSIS...] . Il che però ci sembra implicato di molti equivoci. Poichè se l' ente è un primo genere; il moto, ossia l' atto, il secondo; lo stato il terzo; l' identità e la diversità il quarto e il quinto: se qui non ci sono tutti i numeri, c' è però fino al numero cinque; e così ci sono abbondantemente gli elementi di tutti gli altri numeri, come anco dimostra Platone nel « Parmenide ». Deve dunque intendersi, ciò che Plotino dice della posteriorità del numero, della proprietà che ha il numero d' accrescersi sempre alla nostra ragione successiva e computatrice; e non d' un numero speciale che è inerente ai sommi generi ed elementi dell' ente. Di poi esclude da' sommi generi la relazione , perchè è posteriore ai termini tra cui passa la relazione: e così pure il dove che importa composizione d' una cosa in un' altra; mentre, dic' egli, [...OMISSIS...] : e perciò esclude il luogo, e il tempo. Il fare poi e il patire sono specie di moto , e così l' avere e l' atteggiarsi inchiudono una duplicità o triplicità, e però non sono primi generi. Ma sarebbe difficile il dire come l' alterità non involga una relazione, se non si restringa il significato di relazione (5). Esclude da' sommi generi di poi la bellezza, distinguendo quattro significati. Poichè, o s' intende la prima bellezza [...OMISSIS...] , e in tal caso è lo stesso uno e lo stesso bene. O s' intende quel bello che rifulge nelle idee, e questo, non essendo in tutte uguale, non può costituire un genere, oltrecchè è posteriore all' ente. O per bello s' intende la stessa essenza , e in tal caso è già computato in questa che è il primo genere (l' ente). O s' intende il bello che affetta noi che lo contempliamo, e in tal caso è movimento e in questo genere contenuto. Riduce pure la scienza al genere del moto; e dice potersi ella ridurre anche a quello dello stato , o ad entrambi: nel qual caso, essendo un misto di due generi, è posteriore. Esclude ancora la mente ( «nus») da' generi, come quella che è lo stesso ente da tutti i generi composta [...OMISSIS...] . E qui si vede come Plotino vuole, che i cinque generi del mondo intelligibile sieno elementi. Sono, dice, elementi della mente, e d' ogni mente [...OMISSIS...] , poichè questa è l' ente intelligente che unisce in sè gli altri quattro generi [...OMISSIS...] . Ma come da questi sommi generi provengono le specie? le specie, dico, dell' ente, del moto, dello stato dell' identità e della diversità? Plotino si sforza di rispondere a questo nel modo seguente. Primieramente, dice, come la scienza è una, e tuttavia ci sono molte scienze, che sono specie e parti di quella; così v' è una mente di cui l' altre sono specie e parti. La scienza una ha in potenza tutte le altre, ed è in potenza tutte le altre [...OMISSIS...] . Così, se facciamo astrazione da tutti gli oggetti speciali della mente, noi avvisiamo al concetto di una mente generica (1), che non ha niun oggetto speciale, ma che gli ha tutti potenzialmente. E` il pensare come pensare del Bardili «( Ideol. 1420 e nota) ». Questa mente non è nessuna mente particolare [...OMISSIS...] . Ma, come le scienze particolari sono qualche cosa in atto proprio della scienza una ed universale, e questa oltrediciò è tutta in potenza; così l' altre menti, che hanno oggetti generici o speciali, sono altrettanti atti della mente una in potenza; poichè, quando questa esce a' suoi atti, diviene quelle senza cessare d' essere ciò che era prima. L' ente dunque è la mente: e, avendo egli il movimento che è il secondo genere, mediante questo produce le specie. Fino dunque che l' ente mente è in potenza, è mente universale, superiore alle menti speciali che si generano per l' atto di quella. [...OMISSIS...] . Esister dunque in sè la gran mente [...OMISSIS...] , ed esistere in sè le singole menti; ma aver queste un' intima congiunzione e derivazione da quella, che le produce col passare a' suoi atti, cioè determinando i suoi oggetti per la virtù che ha insita del movimento. Quindi quella è la causa di queste. Le difficoltà di questo sistema sono manifestamente due: 1 Che quella che si chiama la gran mente e si fa causa dell' altre, essendo generica e in potenza, è più imperfetta d' una mente, che, poste l' altre cose uguali [...OMISSIS...] , fosse in atto; 2 Che non è spiegato come le menti inferiori possano avere un' esistenza a sè, se nascono col solo determinarsi quell' oggetto universale che si dà alla gran mente, dove si suppongono tutte le specie solo virtualmente comprese (1). Viene agli altri generi. Posto che la mente, la quale contiene tutto in potenza, ha il movimento consistente nell' atto del contemplare, ella può passare a tutti gli atti mentali possibili, e così infinite forze si spiegano all' occhio di questa mente: quindi il numero, la stessa infinità e la stessa grandezza [...OMISSIS...] . Questo movimento, che non è il primo essenziale ed elementare all' ente, ma una continuazione posteriore, manifesta già il quale e il quanto come determinazioni che s' aggiungono. Ora in tutti questi atti c' è la quiete e il moto , che così si specificano; ed essendovi il numero e il quanto, ed il quale altresì, c' è di necessità ancora l' identità e la diversità specificata. Dal concorrere in uno poi il quanto e il quale, Plotino fa venire la figura (1), e coll' intervento della diversità , che divide in più il quanto e il quale, le differenti figure e l' altre qualità tutte logicamente posteriori. La mente dunque è l' ente (primo genere) che ha unito a sè gli altri quattro e che abbraccia colla contemplazione tutti gl' intelligibili, tutte le idee, che ne' quattro generi si riducono. Questa è la prima e assoluta mente. Ma osserva Plotino che la mente umana discorre e scopre una cosa dall' altra: quest' è dunque una seconda mente, diversa da quella prima che con un' azione permanente, e senza discorso, ogni cosa abbraccia. Ora è evidente, che « « a quel modo che un acerrimo intendimento ottimamente argomenta, a quel modo appunto sono tutte le cose nelle ragioni antecedenti ad ogni argomentazione »(2) », poichè se così non fossero, non sarebbero vere le cose argomentate. Non si può dunque argomentare, cioè da una verità discoprirne un' altra, se queste verità tutte già non fossero ab eterno prima dell' argomentazione. Di che deduce che la mente umana o la mente ragionante presuppone dinanzi a sè una prima mente, la quale, non discorrendo o argomentando, ha semplicemente tutte le cose presenti, e che da questa la mente deve derivare (3). Ma come proviene questa seconda mente dalla prima? Ecco il gran nodo, il mistero della creazione. Plotino cerca di penetrarlo in questo modo. In quanto la mente, l' ente coi generi, non ha ancora che il primo atto, l' oggetto del quale sono i generi; in tanto è la prima mente (1). Ma in quanto la sua azione, continua e permanente, passa ai generi inferiori e di mano in mano alle specie; quel primo atto si moltiplica, specifica, determina, e dall' esistere nel tutto passa ad esistere nelle parti. Esistere nelle parti forma un altro modo di esistere diverso da quello che consiste nell' esistere nel tutto: e così la mente esistente nelle parti non è più la mente esistente nel tutto, ma è un' altra mente, le menti seconde. Tutte queste menti seconde però sono nella prima: ma, in quanto sono nella prima, concorrono a formarla, in quanto che in essa non avendo l' esistenza propria e separata sono tutte insieme la prima (2). Ma, in quanto sono parti, e come tali aventi un' esistenza propria, non sono la prima, ma altre da quella. Così il primo ente è uno e molti: e allo stesso modo ciascuno dei secondi enti e delle seconde menti (chè sono tra i molti dell' uno primo) è uno e molti. Ma conviene dichiarare in che modo. La prima mente produce le altre coll' azione colla quale determina i generi sommi ad essa essenziali in generi minori e in ispecie. Quella stessa successione dunque, che hanno dialetticamente i generi massimi fino alle ultime più ristrette specie, si vuole che esprima la successiva produzione de' diversi ordini di intelligenze. Questo stesso è il principio da cui si trassero le genealogie degli Eoni de' Gnostici, che sforniti d' ogni vigoroso raziocinio e impostori di professione, ad arbitrio d' una sregolata imaginazione, empirono la filosofia di tanti sogni d' empietà e corruttele. Il qual delirio non potea piacere al forte ingegno del filosofo Licopolitano, che confutò co' suoi scritti alcuni dei loro errori (1). Ma il principio del suo sistema è somigliante: diversa solo la derivazione degli enti dal primo. Poichè, come abbiamo veduto, sopra tutti i generi pone l' uno ( «to hen, to proton»), intorno al quale cade spesso nell' illusione dialettica de' razionalisti, a' quali, osservando essi che aggiungendo all' uno qualche cosa per via di predicazione lo limitano (1), sembra d' aver trovato il sommo, quando coll' astrazione sono giunti a concepire nudamente l' uno; quasi che questa stessa parola potesse indicar altro che il puro vuoto de' concetti, una pura forma mentale senza contenuto. Ma si contraddicono immediatamente appresso, chiamandolo appunto il primo , il sommo , il bene ( «to agathon»), come fa appunto Plotino, quasi che questo non fosse un predicare qualche cosa di quell' Uno, che pure doveva essere puro uno di cui nulla si predicasse (2). Da quest' Uno vien prima la Mente universale; da questa l' Anima universale; da questa le anime speciali; da queste la Natura (il principio animale); da questa la vita che si svolge, o il generato; e prima il Tempo, la Moltitudine, il Luogo ( «o topos»); e infine la Materia, male e caligine. Ma, come dall' Uno viene la Mente universale? Esso non ha nessun' azione, secondo Plotino, il qual teme che dandogli qualche azione già svanirebbe il concetto del puro uno ( «to haplos en») (3), e vi s' introdurrebbe un altro. Quest' uno non può dunque nè fare (4), nè pensare, nè essere (5), chè avrebbe i generi distinti in sè stesso: e il levargli anche l' essere e concepirlo superiore all' essere, è il punto più alto della speculazione (6). Come dunque riesce la mente universale? Plotino risponde per una certa esuberanza , o ridondanza (1), o profluenza [...OMISSIS...] , come il fiume dalla fonte (2), o come la vita, che si espande dal suo principio e quasi dalla radice ai rami d' un grand' albero [...OMISSIS...] , o come un fulgore, una corruscazione [...OMISSIS...] , da per tutto diffusa: similitudini o analogie del tutto insufficienti a dimostrare, come nell' uno non ci sia nè essere, nè azione, e tuttavia produca, e produca cosa che non ha identità con lui. Il fondo del pensiero plotiniano, a cui si riduce pur quello de' neoplatonici, è questo: In ciò che è assolutamente primo, non ci possono essere differenze di sorta, perchè, se ci fossero differenze, quale di esse sarebbe la prima? O questa ci sarebbe, o niuna sarebbe logicamente antecedente all' altra, ma tutte pari. Se una fosse la prima, questa solo sarebbe l' assolutamente primo; se fossero tutte pari, niuna sarebbe la prima: ma nè pure tutte insieme costituirebbero un primo, perchè la moltiplicità è posteriore logicamente all' unità. Ma l' ente e l' essere (chè questi due si prendono spesso da Plotino come sinonimi), l' azione, la quiete, e gli altri generi, costituiscono altrettante differenze tra loro. L' assolutamente primo dunque dee essere anteriore a queste cose, superiore al bello ( «hyperkalon») e a tutte l' altre cose ottime ( «hyper ton ariston»). Ciò che vi ha d' erroneo in questo ragionamento è la sua base male scelta. Poichè questa base è il principio: « la moltiplicità è posteriore logicamente all' unità »; principio vero in sè, ma male scelto, come dicevamo, per farlo servire a base d' una ontologia. Poichè l' ordine logico è un ordine parziale e formale, che non abbraccia tutto l' ordine dell' essere. Laonde si sarebbe dovuto provare che ciò che logicamente è anteriore, fosse anteriore anche nel fatto. Ma questo si suppone senza provarlo. Giace dunque il sistema sopra una base ipotetica, e però in aria. Le contraddizioni, in cui cade Plotino e tutto il neoplatonismo, ben dimostrano che la ragione protestava in essi contro il loro sistema. A ragion d' esempio Plotino non può concepir l' ente , senza concepirlo uno e molti [...OMISSIS...] , di maniera che l' unità e la moltiplicità è contemporanea all' ente. Questo lo conduce a dire, che l' uno non è ente, perchè non ha moltiplicità alcuna, ma è superiore all' ente: poi quando parla dell' ente, mostra di dubitarne, sentendo la necessità di definire che cosa intenda per ente [...OMISSIS...] , e di qual ente parli [...OMISSIS...] , mostrando così che l' ente può prendersi in un' estensione maggiore, dalla quale non si può sottrarre nè pure l' uno, se dev' essere qualche cosa. Ora questo scambio, di ciò che è logico per ciò che è ontologico, vizia tutto il sistema di Plotino e di tutti i neoplatonici. L' egizio nostro filosofo, secondo questa maniera di ragionare è obbligato di fare, che la prima mente, la quale esce dal primo uno come un suo splendore, altro non sia che l' ente coll' unione degli altri quattro generi, e di negare che in esso cadano altre differenze che queste cinque. Poichè introducendosi delle differenze in ciascun genere, di modo che se n' abbiano generi minori e specie, già non è più quel desso ma un altro. Per quanto sia sbagliata questa maniera di ragionare dall' ente logico all' ente subiettivo, essa però non ci obbliga di dare a Plotino la taccia di Panteista. Poichè egli viene a distinguere le diverse generazioni di cose con questo ragionamento: Iddio è quell' uno in cui non cadono differenze; Quando dunque nascono in lui per la sua continua attività i generi, questi non sono lui, perchè non ammettono la sua definizione. Del pari: La prima Mente non è che l' ente contemplante i cinque generi, senza che in ciascun genere cadano differenze; Ma tostochè essa mente per la sua attività quasi lampeggia in ciascun genere differenze, di maniera che quei generi si rompono in generi minori e in ispecie, la mente che contempla questi generi minori e queste specie non è più quella di prima, ma un' altra attività che alla prima si continua. Questa seconda mente non è la prima, ma un' altra, perchè a questa non compete la definizione e però nè manco la natura espressa nella definizione della prima. Laonde, non uscendo nulla dal primo Uno, nè dalla prima Mente, senza che ciò che esce tosto non perda l' identità col fonte da cui è uscito (1); procede che ci intervenga una specie di creazione, e che la prima Mente sia essenzialmente diversa dall' Uno primo, e che la seconda Mente, o Anima universale, sia essenzialmente diversa dalla prima Mente. E lo stesso si può argomentare circa le altre emanazioni. Non crediamo dunque che si possa accusare il sistema Plotiniano di Panteismo (2); ma egli è chiaro che non evita questa colpa, senza incorrere in altre non meno gravi. Poichè primieramente le definizioni del primo Uno e della prima Mente, ecc., sono arbitrarie e insufficienti a esprimere la natura divina e l' altre che si vogliono definire. In secondo luogo il Dio di Plotino, detto ugualmente l' Uno, il Primo, il Bene, è un Dio imperfetto, e non si può descriverlo perfetto se non con un sofisma. Il sofisma è questo: « « L' Uno non appetisce nulla, non conosce nulla: dunque è sufficiente a sè stesso: non gli manca cosa alcuna. All' incontro l' altre cose, la Mente, l' Anima ecc., appetiscono l' Uno, cioè il Bene: e però per sè sono deficienti e non sono prime »(1) ». Il vizio della quale argomentazione sta nel doppio concetto che può avere la frase « esser sufficiente a sè stesso »: perchè questa può intendersi d' una sufficienza reale e piena, e in tal caso non è sufficiente a sè stesso se non quello che è tutto sentimento, tutto intelligenza, tutto essere; e può intendersi d' una sufficienza dialettica e vuota di tutto, in quanto un concetto semplicissimo, privo d' ogni attribuzione, come quello del puro uno, non s' intende come possa aver bisogno d' altro, essendosi recise da lui colla mente tutte le relazioni e congiunzioni con ogni altro concetto (2). Per questa stessa ragione il Dio di Plotino è ridotto ad una vanissima ed astrattissima potenzialità: e però egli, negandogli tutto, lo chiama appunto « la potenza di tutte le cose » [...OMISSIS...] , e l' « indefinito » «aoriston» (2), e non senza contraddirsi vuole che unità così vuota sia causa di tutte le cause (3). In terzo luogo la Mente, che è il secondo principio che viene immediatamente dall' Uno, e che è la causa che fa tutte le cose, il Demiurgo del Timeo (4), è anch' essa potenziale e imperfetta, perchè è l' ente co' quattro generi (5), senza alcun altra distinzione, onde non può contenersi in essa che una cognizione generica, per ciò stesso imperfetta. Ma come fa tutte le cose la Mente? Allo stesso modo come l' Uno fa la Mente. Quando la mente è perfetta, cioè pienamente costituita da' cinque generi [...OMISSIS...] , ella continua a contemplare, e contemplando divide i sommi generi in generi minori e in ispecie. Ora questa virtù cogitativa, che procede alla divisione de' generi primi, non è più la mente; perchè la mente, secondo la definizione, è la virtù contemplatrice de' soli generi: dunque è un altro: quest' altro è l' Anima; l' anima universale, i cui oggetti sono tutti i generi minori e le specie distinte (6). E fin qui, dice Plotino, vanno le cose divine (1): a questi tre principii Uno, Mente ed Anima si riducono: perchè l' Anima è costituita dalle specie, onde al pari della mente la chiama specie (2), quando continuando ad operare ed andando quindi colla sua azione fuori di sè, fuori da quello che la costituisce secondo la definizione; esaurite tutte le idee che sono per sè sempiterne: fa che sussista un altro diverso da sè e dalle idee: quest' altro non può esser più idea, ma la stessa realità del mondo mutabile e al rivolgersi del tempo subordinato: perciò non divino. Si deve osservare che l' operante in tutta questa derivazione è sempre l' Uno: il primo atto del quale lo costituisce; il secondo, eccedendo la sua costituzione e natura, non è più lui ma la Mente; il terzo, cioè quello che esce dalla Mente già costituita, non potendo esser la Mente perchè eccede dalla sua costituzione, è l' Anima; il quarto che esce dall' Anima già costituita, eccedendo dalla natura dell' Anima, non è più cosa che appartenga al mondo ideale, ma è il Mondo reale. Quindi tutte queste cose nel sistema di Plotino sono intimamente connesse e congiunte fisicamente come una continuazione di moto , cioè d' azione. Onde parlando della Mente dice che [...OMISSIS...] , quasi dica, che basta il trovarvi che fa il nostro pensiero una diversità qualunque perchè in quest' ordine di cose si debba considerare come un' altra sostanza o ipostasi. E lo stesso dice dell' Anima rispetto alla Mente (2). Il qual pensiero non si può negare che sia acutissimo, perchè trattandosi di nature pure e semplicissime, che non ammettono nulla d' accidentale, se qualche cosa vi s' aggiunge è perita l' identità, e la cosa aggiunta dee costituire un altro subietto diverso dal primo. Ma per ciò stesso rimane l' imperfezione nel primo, che essendo diverso non può essere perfezionato dal secondo: e questo è uno de' fondamentali errori, che vogliam notato nella dottrina di questo filosofo, essendo al tutto insufficienti quelle molte frasi che spesso adopera per schermirsi da questa terribile difficoltà, che da per tutto il persegue. Continuando dunque noi ad esporre questo ingegnosissimo sistema, per quanto la sua incoerenza il permette, facciamo osservare, che da esso risulta che la Mente sia quasi un' imagine o similitudine del primo Uno, e l' Anima un' imagine o similitudine della Mente; poichè nei generi, che costituiscono la Mente, c' è l' Uno; e nelle specie, che costituiscono l' Anima, sono i generi: onde come in uno specchio l' Uno si riflette nella Mente, e la Mente nell' Anima. L' Uno, tosto che fa un atto diverso dall' Uno, non è più uno, ma è la Mente; e questo primo atto, che è la Mente, è la contemplazione de' generi che distingue in sè. Quest' atto dunque, che è nell' Uno, non è l' Uno, ma già è la Mente. La Mente, trovandosi media tra l' Uno e l' Anima, ha come due atti: col primo riceve ed è l' atto con cui essa è, e coll' altro dà; col primo è generata, coll' altro genera, ed è l' atto con cui, contemplando sè stessa ne' generi che la costituiscono, vede i generi inferiori e le specie. Quest' atto, che è nella Mente, non è la Mente, ma l' Anima. L' Anima, trovandosi pure media tra la Mente e la Natura, ha primieramente due atti: costitutivo di sè l' uno, l' altro comunicativo: il primo veniente dalla Mente, il secondo dall' Anima stessa che contemplando sè stessa, cioè le specie tutte, vede in esse la realità (1). Ma quest' atto che viene dall' Anima ed è in essa, non è più essa, ma è la Natura. Oltrediciò continua la potenza nella Mente, già generata, tanto da affissarsi nell' Uno quanto d' affissarsi in sè stessa; ma nè l' uno nè l' altro atto la fa uscire dal divino: e però, benchè l' affissarsi nell' Uno sia quello che la costituisce nella sua eccellenza, pure anche coll' affissarsi in sè stessa non si deteriora. Del pari l' Anima coll' affissarsi nella Mente è costituita nella sua propria eccellenza, ma dopo d' avere, coll' affissarsi in sè stessa, prodotta la Natura sensibile, può in questa immergersi colla contemplazione: nel qual caso, uscendo dal divino, si deteriora. Tutto dunque si genera per via di contemplazione ( «ek theorias»), e non solo le idee, ma le cose stesse naturali sono teoremi ( «theoremata»), cioè contemplati (2); e la Natura reale operando non fa che contemplare le varie forme di cui si veste e in cui si pone. Come dunque dall' Anima esce la Natura reale? L' Anima, il complesso delle specie, il mondo intelligibile ultimato, ha la virtù di contemplare; contemplando opera; operando produce: dopo dunque che l' Anima è costituita, la sua contemplazione di sè non può più produrre specie: sorge dunque un altro da sè, che è la Natura reale. Non sarà disutile intendere il pensiero di Plotino esposto da Marsiglio: [...OMISSIS...] . La prima Anima dunque è separata dalla materia: ma, come l' intende Marsiglio, contemplando sè stessa in quanto è essenza, comparisce la materia , essendo esaurita tutta la distinzione e la serie delle specie; e in quant' è intelligenza, comparisce la forma incorporea , cioè l' Anima vegetale del Mondo, intelligente anche questa: i quali due principii uniti insieme compongono il Mondo temporaneo. Nella materia finisce l' atto della contemplazione: essa è venuta dall' essenza, ma già non è più essenza (non più ente), perchè l' essenza è sempre una specie o idea. All' incontro l' Anima vegetale del Mondo, che è la prima forma della materia, a questa unita, svolge di sè, contemplando ancora, la natura genitale, e questa la natura sensibile, l' una e l' altra delle quali è come una vita evoluta [...OMISSIS...] , e questa produce le forme ultime puramente corporee (3) sempre per uno svolgimento [...OMISSIS...] . L' anima vegetale dunque contemplando opera come vita genitale e sensibile (onde il tempo), e dominando la materia informe (prodotta insieme con essa dall' Anima prima), le dà e rimuta le forme corporee, onde la moltitudine e il moto locale, e gl' individui viventi ed intelligenti, gli uomini, gli animali, le piante. In questi ultimi prevale più la materia che ne' primi. Ma conviene che più particolarmente noi vediamo in che maniera, secondo Plotino, si originino l' anime umane. Stabilisce in prima questo filosofo, che tanto la Mente quanto l' Anima prima, universale, separata, sia ad un tempo una e molte, come provò Platone che l' ente è uno e molti. [...OMISSIS...] Poichè, componendosi la Mente da' cinque generi, e questi trovandosi in tutte le specie in cui si dividono; per partecipazione in tutte queste si moltiplica la mente, come l' essenza del fuoco che si trova in tutti i fuochi grandi e piccoli, secondo la similitudine che Plotino soggiunge (2). Così l' Anima, che è la contemplazione de' generi minori e delle specie, si moltiplica secondo che gli anelli della gerarchia ideale l' uno dagli altri escono, e tuttavia queste molte anime si riducono ad una sol' anima contemplante. L' ultima di queste produce l' Anima vegetale della Natura. Ora qual è l' Anima umana? Plotino, quasi dubitando, dice: [...OMISSIS...] . Quando dunque nel continuo operare delle cause si giunge all' Anima prima, o Mondo intelligibile, e questa contemplando sè stessa produce la materia e l' Anima vegetale svolgentesi nella vita genitale e sensibile; in questa rimane il mondo intelligibile delle specie, come in queste rimane la Mente o i generi, e in quest' ultima l' Uno o il bene. Ma l' anima vegetale operando nella materia genera e s' individua, e la più eccellente di queste generazioni è quella dell' uomo, in cui è l' Anima umana. Di qui il principio dell' Etica Plotiniana, che consiste nel dovere di contemplare praticamente ciò che è migliore e ottimo. Poichè, se l' Anima umana si compone delle parti accennate, non è difficile l' intendere come, in quant' è in essa l' anima separata, si tenga nel mondo intelligibile; e, in quant' è anima vegetale, sia tratta dalla sua propria natura verso il sensibile e materiale. Ora, come il primo moto all' insù la rivolge verso il bene, così il secondo moto all' ingiù verso il male: e secondo che ella è più forte, o più debole, il che dipende dalla generazione, tende al bene, o si abbandona volontariamente alla materia: col qual sistema di cause naturali tutte così incatenate non si vede come si possa, senza incoerenza, salvare la libertà umana (2). S' avvicina Plotino all' errore de' due principii, ossia cade in un errore affine, quando ripone nella materia lo stesso male per sè «tuto to ontos kakon» (1). Errore veniente dal primo: poichè, come Plotino pose qualche cosa al di sopra dell' essere, cioè l' uno, il Bene; così doveva collocare altresì qualche cosa al disotto dell' essere medesimo, la materia, priva d' ogni unità e d' ogni forma, il Male. Di maniera che fece l' Essere medio tra il Bene e il Male, partecipe dell' uno e dell' altro. Ma come questo era un tentativo intemperante d' ingegno di oltrepassare i limiti dell' essere «( Logic. , n. 11.4) », il che accade a tutti i filosofi unitari; così vien meno a tali speculazioni esorbitanti e la possibilità di concepire ciò che vogliono e d' esprimere i loro pretesi concetti in parole. Onde come, quando Plotino parla dell' Uno, è costretto dall' intrinseca necessità di attribuirgli quell' essere, ossia quell' essenza che pure gli toglie; così cade nella medesima incoerenza parlando della materia, di che in fatto non potrebbe parlare, se non le attribuisse qualche essenza o qualche modo d' essere (2). L' anima poi s' infetta e accoglie il male contemplando la materia (1). Ma questo le accade non per quella contemplazione di sè, per la quale la materia si produce, ma per una contemplazione posteriore; chè l' anima è per sè buona, e il male le accade come accidente. Ma onde questa contemplazione posteriore della tenebrosa materia? Dalla debolezza di quell' anima che ha immediatamente generato la materia, come ultima produzione del tutto. Onde poi questa debolezza? Venuta la catena delle cause all' ultimo anello, e all' infimo prodotto la materia; questa non può più produrre cosa alcuna, perchè in essa è esaurita ogni attività produttrice: non potendo dunque più progredire avanti, la materia tenta di tornare indietro, e d' invadere procacemente quell' anima che l' ha prodotta, e per mezzo di questo ritorno abbracciandosi quasi all' Anima, da questa acquista le forme, e ne nascono le potenze vegetali, generative e sensibili. [...OMISSIS...] . Nel qual luogo Plotino non solo dà l' esistere alla materia, coll' accennata incoerenza, ma anche il conato e l' azione d' introdursi nell' anima, producendo così la generazione , che è il modo col quale l' Anima s' unisce stabilmente alla materia. Quindi, benchè il male venga, secondo Plotino, come ultimo e necessario effetto di quella serie di cause, che incominciano dal Bene, onde non si può dire che ammetta i due principii indipendenti de' Manichei; tuttavia cade in due gravissimi errori: il primo che il male sia qualche cosa di reale, com' è la materia, e che questo reale sia una produzione necessaria e diretta di Dio medesimo. Certo egli suppone, che, col semplice generare la materia, l' Anima non si renda mala; ma ella però genera il suo nemico, il male: che invadendola, e così dando luogo alla generazione, la fa cadere e macchiarsi. Da tutto questo apparisce quali sieno le categorie, secondo Plotino. Egli concepisce le categorie come sommi generi, e nello stesso tempo come principii elementari dell' ente. Al di sopra e al di sotto dell' ente e de' suoi principii categorici, egli pone qualche cosa: cioè al di sopra, il Bene o l' Uno, e al di sotto, il Male o la Materia. Fra questi due estremi, pone due enti medii (1), la Mente e l' Anima; la prima delle quali comunica da una parte immediatamente col Bene, da cui esiste; dall' altra coll' Anima cui produce: la seconda, da una parte comunica immediatamente colla Mente da cui pure esiste; dall' altra col Male, cioè colla Materia, cui produce. I sommi generi o categorie sono nella Mente e la costituiscono; le specie che ne derivano sono nell' Anima e del pari la costituiscono: l' una e l' altra una e molte. I detti generi e ad un tempo principŒ sono cinque: l' ente, il moto, la quiete, la diversità e l' identità, da Platone enumerati già nel Sofista, e altrove. Il difetto delle categorie di Plotino, come pure di tutti i Neoplatonici, si è quello di avere classificato con esse l' ente ideale , e non l' ente in tutta la sua generalità. In fatti i cinque generi da esso enumerati sono generi d' idee e non di cose: essi non possono sussistere in sè gli uni dagli altri separati, onde fu obbligato ad unirli in un ente compiuto, la Mente. Plotino risponde che, in quanto sono uniti insieme e così costituiscono la Mente, sono posteriori, perchè il composto è posteriore al semplice, il più all' uno: e però se si classificano gli enti composti, non si hanno più de' generi sommi, ma de' posteriori. Questo è specioso, ma erroneo, perchè procede dall' errore dell' Unitarismo, che confuteremo dove esporremo la teoria delle categorie e ne' libri ontologici, che verranno appresso. Oltre altri errori indicati nell' esposizione che abbiamo fatta del sistema plotiniano, quello che nasce dalla stessa origine si è che Plotino, al pari degli altri antichi, non raggiunse la distinzione tra l' esistenza obiettiva e l' esistenza subiettiva: onde dall' una passa all' altra senza addarsi dell' abisso che le separa. E non è che egli non ne veda una distinzione di concetto, ma non s' accorge che nelle idee (e dicendosi idee si parla de' possibili intuiti dall' uomo) non compariscono se non dotate di un' esistenza obiettiva senza subiettività alcuna, e in vece d' osservar queste come sono, argomenta come devono essere, salendo colla speculazione alla prima Mente, della quale l' Anima è il verbo [...OMISSIS...] e l' imagine [...OMISSIS...] . Ora la prima Mente è l' unione dei cinque generi, e però è un composto, secondo Plotino, delle cinque prime idee generiche. Ma è costretto tantosto a prendere queste cinque idee generiche come cose reali, cioè a dar loro anche un' esistenza subiettiva, altrimenti si rimarrebbero sterili e prive d' ogni azione. Dice dunque di questa sua Mente, risultante da' cinque generi: [...OMISSIS...] . Sul qual passo sono da osservare più cose: 1 Quando Plotino distinse dall' Uno la Mente e dalla Mente l' Anima, disse che la differenza si riduceva a una pura alterità. Qui all' incontro l' alterità non produce diversa ipostasi, ma una sola Mente: incoerenza, che non si vede come evitarsi; 2 Riconosce Plotino che non ci potrebbe essere intelligenza senza una dualità, cioè un intelligente e un inteso, il che è un vero prezioso. Ma poi non s' accorge dell' assurdo di lasciare il suo Uno (Dio) privo irremediabilmente di intelligenza, a cui si può applicare quello, che egli trova assurdo per la Mente, [...OMISSIS...] ; 3 E` vero, che non si dà intelligenza senza questa dualità d' un intelligente e d' un inteso; ma nelle idee, come sono i generi, questa dualità non si trova. In fatti l' idea, o specifica, o generica, o universale, presenta un inteso, ma quello che la intuisce e la intende è l' uomo reale, il quale non è un' idea. Allo incontro non si può concepire un' idea che intenda sè stessa, senza che cessi d' essere idea e diventi una persona. Se dunque ciò, su cui Plotino specula, sono le idee che hanno un' esistenza puramente obiettiva, con qual diritto o per via di qual ragionamento passa egli a trovare un' esistenza anche subiettiva, che è quanto dire una persona intelligente? Confonde dunque le idee colla Mente che intuisce le idee. Ed essendo le idee molte, da questo trae che la Mente non è solo una, ma anche molte. Ma se si concede che molte menti ci sieno, perchè ci sono molte idee, non rimane per questo provato che la Mente sia una. Che anzi facendo risultare la mente da cinque idee generiche o categorie, non si vede alcuna via di fare che queste cinque formino una sola ipostasi, se non ricorrendo a qualche attività straniera alle cinque idee, che le tenga insieme e le contenga. Dirà Plotino, che questo è l' Uno; ma in tal caso l' esistente subiettivo che intende sarebbe l' Uno, e questo solo sarebbe la Mente, e intenderebbe cinque cose, intese e non anco intelligenti. Ovvero se queste cinque cose intendessero, sarebbero cinque menti, cinque ipostasi, e non una sola. E lo stesso è da dire dell' Anima, che egli fa constare di generi inferiori ai primi, e di specie. Poichè questo ha di proprio ogni subietto di esser uno, e di non poter essere più subietti, nè risultare da più subietti, benchè nello stesso subietto più cose si possano distinguere col pensiero, ma non mai più subietti. Onde, od ogni specie è anche un subietto intelligente, e in tal caso i subietti che si chiamano anime intelligenti non sono una, ma più: o le specie non sono subietti intelligenti, ma solo obietti intesi, ed in questo caso, conviene di nuovo trovare il subietto unico nel primo Uno, e questa sola sarebbe l' ipostasi intelligente, questa sola l' Anima che intenderebbe ugualmente e identica i generi, e ne' generi le specie. Forse Plotino replicherà che, altro essendo l' Uno considerato come puro Uno, altro quell' atto dell' Uno che contempla i generi, altro quello che contempla le specie, questi tre atti fanno che si distingua l' Uno in tre subietti. Ma non ogni alterità, a giudizio di Plotino stesso, costituisce un subietto diverso, altramente i cinque generi, e gli altri minori, e le specie, sarebbero altrettanti subietti diversi. Ora nè i generi, nè le specie, che come obietti sono diversi, hanno subiettività alcuna in sè che gli unisca. Nè si può conoscere che sieno più, se non c' è un subietto unico che ne contenga la loro pluralità, e che sia da questa diverso, nè un subietto può conoscere le specie se non ne' generi: e però il subietto, che conosce queste, deve essere identico a quello che conosce i generi. E, se ci fosse un subietto che conoscesse i soli generi e non le specie, come si troverebbe poi quello, che conoscesse le specie, se le specie stesse, molte come sono, quand' anco fossero subietti, sarebbero molte e non una? e una sola non si potrebbe nè pure conoscere come specie? Che se poi Plotino fosse pervenuto a ridurre le idee ad una sola, al che non giunse, qual poi sarebbe il principio della loro moltiplicazione? Questo non può essere, come noi abbiamo mostrato nella « Ideologia (n. 1449) », che un elemento di diversa natura dalle idee stesse, elemento variabile, a cui la idea si congiunge, cioè la realità; ma in tal caso, questa sta di fronte alle idee da loro originalmente indipendente, e non può venire, come la fa venire Plotino, dalle idee stesse già moltiplicate fino all' ultime loro specie. Onde anche per questa ragione si prova assurdo che la materia , e in universale la realità , dalle idee stesse sia generata; quand' anzi l' idea stessa rimarrebbe sterile, e non si potrebbe moltiplicare senza di questa. Se di più Plotino avesse veduto non solo che c' è un' idea sola anteriore ai generi e alle specie, ma che quest' idea dee avere una subiettiva sussistenza; in tal caso avrebbe dovuto conchiudere, che in un tale essere (al tutto diverso dalle idee che l' uomo intuisce), si trovavano due principii irreducibili: cioè l' intelligibile e il sussistente, e un solo e identico essere in entrambi: e così avrebbe conosciuto che l' essere primo non può essere Uno puro, ma un essere con una doppia forma, e avrebbe scoperte le due prime supreme forme dell' essere, e, come diremo, le due prime categorie. 4 Dalle quali cose si scorge che la maniera di filosofare di Plotino pecca per una gran mancanza di raziocinio dialettico (comune difetto de' nuovi platonici), onde asserisce le cose più gravi, e procede di asserzione in asserzione, senza rendersene esatto conto o darne qualche prova al lettore, contentandosi di leggiere e sottintese analogie per dedurne gravissime e paradossali conseguenze, che avrebbero bisogno di aperti e rigorosissimi raziocinŒ a persuadersi, facendosi altresì caso delle possibili obbiezioni. Questa sicurezza e autorevolezza di procedere, che, tenendo nascosta la catena logica, pretende da' suoi lettori che la indovinino da sè stessi e non ci facciano mai sopra difficoltà, è la stessa che quella che si vede nell' Hegel, e in tutti i filosofi entusiasti e imaginosi, i quali vogliono colla loro oscurità e misticismo imporre al pubblico, e captivarlo al loro carro trionfale; 5 Ma invano: il pensatore trova facilmente che tutti cotesti sistemi e in particolare quello di Plotino sono ipotetici, nè dicono esplicitamente il principio su cui si fondano, ma, senza accorgersene essi medesimi, lo suppongono; onde il principio, la base vera del sistema rimane sempre fuori del sistema; il che toglie loro l' esser sistemi. Così Plotino che descrive l' uscita di tutte le cose dall' Uno, e prima della Mente, poi dell' Anima o Mondo intelligibile, e finalmente del Mondo sensibile, non adduce alcuna ragione sufficiente per la quale i continui prodotti abbiano quel numero preciso d' anelli, e non più nè meno; e perchè l' Anima, a ragion d' esempio, s' esaurisca colle specie ultime, e perchè subito dopo ne esca il Mondo sensibile, e perchè tutto si fermi alla fine nella Materia. Ora qual è questo perchè? Certamente è questo che nella serie delle specie quando il nostro pensiero perviene a quelle che sono pienamente determinate (dette da noi specie piene, «Ideol. , n. 650 »), allora non sono più concepibili altre determinazioni, e quando si perviene alla materia, non si concepisce più nulla dopo di essa. Così appunto Plotino dice che la Mente ha in sè tutte le cose [...OMISSIS...] . Ora, in questo discorso, tutte le cose , [...OMISSIS...] , sono supposte dal sistema, e non ispiegate. Come dite voi che la Mente comprende tutte le cose, se non so ancora che ci sieno le cose, e che cosa importi questo tutte? Voi cominciate dall' abbracciarle tutte in una parola, e non fate difficoltà alcuna ad ammetterle, nè mi dite prima come sieno, o perchè sieno: e quindi la vostra filosofia parte da un tutto supposto. [...OMISSIS...] Ma che cosa è questo « tutto ciò che c' è di enti? » «pan ton onton». Voi non me lo dite: supponete sempre « tutto ciò che c' è di enti », quando sarebbe pur quello, che dovreste spiegare, e supponete di conoscerlo appieno pronunciando la sentenza che « tutto ciò che c' è di enti dee avere la sua operazione ». Appresso ancora viene questa sentenza: [...OMISSIS...] . Qui di nuovo si suppone conosciuto l' essere nel suo ordine intrinseco, e conosciuto tutto l' essere, e da questo presupposto, che è tutto il sistema, si trae il sistema, si decide che l' essere non può per sua natura fermarsi nell' intelligibile, benchè si abbia detto prima che nell' intelligibile c' è già tutto, che è possibile di farsi altro ed altro, che perciò quest' altro si dee fare, che ciò che si fa dee essere sempre un minore, e che essendovi l' anteriore, dee di conseguenza uscirne tutta la serie, fino all' ultimo anello che è la materia; senza mai dire perchè l' essere sia così fatto, e perchè l' ultima dell' essere sia la materia. Tutto il sistema dunque è basato sopra un sott' inteso, cioè sopra la natura dell' essere, che si suppone fatta in una data maniera, senza alcun esplicito esame, nè alcuna prova; e su questa supposizione poi s' argomenta a quello che di necessità deva fare l' essere, acciocchè risponda al sistema del filosofo. E tuttavia, benchè si tragga tutto dalla totalità dell' essere supposta in un modo supposto, si osa dire che c' è qualche cosa al di sopra e al di sotto dell' essere stesso! Ci ha dunque abuso di speculazione per mancanza di vera e compiuta speculazione. Finalmente stimo di non dover preterire del tutto la scuola de' Neo7platonici intorno alle derivazioni e partizioni dell' ente. Ella si può dividere certamente in più sˆtte, delle quali una fu quella de' Gnostici. Come furono divisi i Gnostici in due grandi classi, degli unitari cioè che derivavano ogni cosa da un solo principio, e dei dualisti , che ponevano due principŒ eterni: Iddio e la materia; così si potrebbero classificare anche i filosofi Alessandrini in generale (1). Lasciando noi i dualisti, si può compendiare in questo modo la teoria dei Neo7platonici unitari: « Tutte le cose, superiori ed inferiori, divine ed umane, eterne e temporali, fluiscono da un medesimo principio, e sono tenute insieme da un solo vincolo: le nature vanno compartite in diverse cerchie, secondo i gradi della loro eccellenza: le cerchie si allargano secondo l' imperfezione degli enti che contengono: l' infimo grado è occupato dalla materia ossia dal mondo sensibile: una cerchia più su stanno gli enti forniti di spirito e d' animo, quali sono le forze della natura, le anime, i demoni: superiormente a questi si trovano i generi delle cose intelligibili, ossia le idee: tiene il luogo supremo una tale natura, che abbraccia colla sua virtù, e collega in sè i generi tutti delle cose e le forze diffuse per l' universo. Tutte queste maniere di ente sono così distinte per natura come la mente nostra le concepisce distinte. « Causa di tutta questa piramide o piuttosto cono di enti è quella somma natura, che ne tiene la cima, dalla quale come da fonte emanano le cose riversandosi e cadendo da quello stato puro e divino in condizione più abbietta dalla regione intelligibile nell' umile e terrena feccia quasi sommerse. « Ora quella natura suprema, fonte dell' altre, contiene nel suo seno tutti i contrarii generi delle cose congiunti, avvincolati in uno, e indistinti: e però è uno e molti ad un tempo ( «en polla»), immoto e mobile, principio di natura e tuttavia natura perfetta e completa, dotato di mente e cotale, che in esso si stringono in uno il principio del pensare ( «o nus»), l' azione del pensare ( «noesis»), e il termine od oggetto del pensare ( «noeton»): la chiamano poi perfettamente ente ( «to pantelos on»), e per eccellenza l' intelligibile ( «to noeton»). Laonde, benchè questa natura sia una e tutta, può non di meno dividersi quasi in parti, ma non però separarsi ( «ameristos merizesthai»), ravvisandosi in essa l' ente uno ( «hen on») e i molti ( «plethos»), e il vincolo che lega l' uno co' molti. Così si rinvengono tre cose, i diversi generi, «ta polla», l' uno che li collega, «to on», la punta o supremo fastigio e fonte dell' universo, l' ente per sè, l' ente unico, che unicamente è «to on, monadikos on» »(1). Tutte queste cose i Neoplatonici le dicono più tosto sentenziando che ragionando, e più tosto come effati arcani che come dottrine esplicate. E questo è il carattere di tale scuola, opposto a quello della filosofia di Platone stesso. Perocchè il filosofare di questo grand' uomo è un continuo dialettizzare; quando ciò che si desidera nei libri de' nuovi Platonici è appunto quel far dialettico che analizzando e provando stringe. Quest' è forse difetto generale de' discepoli, i quali da' loro maestri si contentano di t“rre le conclusioni alleggerendosi della fatica de' loro ragionamenti, supponendo quelle provate: e così poscia si ripetono come affermazioni sorrette dall' autorità, non giustificate dalla ragione. Al qual modo di filosofare si diedero specialmente i filosofi Alessandrini pel gusto che trovarono nelle dottrine orientali, le quali non sono ragionate e dialettiche, ma autoritative, brevi e apoftegmatiche. Quindi ne' sistemi de' Neoplatonici manca il nesso delle sentenze, cioè si preteriscono quelle questioni che cercano come una cosa venga dall' altra, e che pur sono quelle sole che potrebbero dare alla dottrina luce e forza a persuadere. Manca dunque in tali sistemi quello appunto che per essi si cerca, e si ha diritto d' avere. A ragion d' esempio, quando i Neoplatonici dicono, avervi una natura suprema, la quale è uno e molti ad un tempo, immota e mobile, principio di natura e tuttavia natura perfetta, e in fine contenente tutti i contrari generi delle cose, avvincolati in uno ed indistinti, credono d' avervi bastevolmente ammaestrati. Ma il fatto sta, che ancor mancano interamente, non sono neppure accennate le questioni vitali che possono contenere qualche verace ammaestramento per noi. Perocchè queste questioni sono, come l' uno possa esser molti? come il mobile possa esser immobile? come ciò che è principio di natura possa esser la stessa natura? come i contrarii generi ed anzi le contraddizioni stesse possano giacere nell' ente medesimo semplicissimo? Queste questioni di somma importanza e difficoltà non si possono ammettere, non si possono evitare da un filosofo, come si eviterebbe da un debitore per via l' incontro di un creditore: ci si affacciano dappertutto importune con quel terribile - Come? in bocca: e se noi facciamo i sordi, o non rispondiamo per villania, restiamo puniti da noi stessi privandoci della sapienza filosofica che cercavamo. Che fanno adunque i Neoplatonici? Confessare aperto di non potersi spacciare da quelle questioni, sarebbe un andare troppo manifestamente contro il loro intento, che è quello di filosofare delle altissime cose. Essi dunque pigliano la via di mezzo, che è bensì più corta, ma non li conduce al termine: nè si propongono quelle questioni direttamente pigliandole a svolgere per disteso, nè le lasciano del tutto insolute; ma le risolvono per incidenza, e come a caso, sempre sentenziando invece che ragionando e deducendo. Trattasi, poniamo il caso, della questione Come l' uno sia i molti? Essi la risolvono dicendovi che « l' Uno scade dal suo « stato puro e divino in una condizione più abbietta », e così credono d' avervi pienamente soddisfatto. Ma chi mai non vede, che la difficoltà non è tolta con ciò, ma mutata in altra, e travasata di alcune parole in altre parole? Perocchè il difficile sta appunto qui nel sapere come l' uno, la natura prima e suprema, possa scadere dall' esser suo, e scadendo dall' esser suo non cessi di essere quello che è; come ella si possa trasformare, e tuttavia rimanere identica; come possa emanare di sè qualche cosa e tuttavia non diminuire; possa o parte di sè stessa o tutta sè stessa scendere a stato inferiore, e tuttavia nulla perdere di sua primitiva eccellenza. Ecco le questioni, che i Neoplatonici non risolvono: è sempre il gran problema dell' Ontologia che si affaccia per tutto, e che s' indura come diamante all' umano ingegno. Ma restringendosi a parlar solo delle categorie de' nuovi Platonici, essi le riducevano a tre, come vedemmo, cioè all' ente per sè, ai molti, e all' uno che legava ed identificava l' ente per sè ed i molti. Ora quel vincolo che lega l' uno e i molti rimane primieramente personaggio incognito, e però rimane incerto se possa fare una categoria da sè, o piuttosto appartenere ad un' altra categoria, per esempio, a quella de' molti: nè si vede qual vincolo possa avervi tra l' uno e i molti: che non sia egli stesso o uno o molti. D' altra parte i Platonici identificano l' uno coll' ente per sè, e così sono astretti a parlare dell' uno in due diversi significati, o come identico all' ente perfetto, o come vincolo dell' ente perfetto e dei molti. In secondo luogo l' uno non può costituire, propriamente parlando, una categoria; conciossiachè niuna cosa può essere se non è una, e però le cose tutte, niuna eccettuata, apparterrebbero alla categoria dell' uno. In terzo luogo i molti neppur essi possono dar nome ad una categoria; poichè o si parla de' molti presi singolarmente, e in tal caso ciascuno individuo è uno e non molti, appartiene alla categoria dell' uno, e non a quella di molti: o i molti s' intendono complessivamente, e in tal caso sono un complesso unico, che per la sua unità appartiene ancora alla categoria dell' uno. Se poi i molti si considerano ad un tempo nell' unico loro complesso e negl' individui che il formano; allora la parola molti non significa che quella relazione di somiglianza che hanno più singoli individui, onde dànno l' idea di numero; e così a questa categoria non apparterrebbero che le relazioni di somiglianza, per le quali si classificano gli enti, le quali relazioni di somiglianza non possono classificare una classe di enti, una categoria, ma piuttosto sono il fondamento di tutte le classi. Se poi per molti s' intende quella moltiplicità che si trova nel medesimo ente; neppur questa può costituire alcuna categoria, almeno se non si determina la natura di questa moltiplicità; e il determinar questa natura è di quelle questioni appunto che si trapassano dai nostri filosofi, quando dovrebbero in esse porre ogni sforzo d' ingegno. E veramente se si parla d' una moltiplicità qualunque, egli è indubitato, che ogni ente ha qualche moltiplicità: e, come la fede pone tre persone nello stesso Dio, così la ragione non può dimostrare in ciò alcun assurdo. Onde per nessun verso l' ente uno e il molti dei Neoplatonici possono pigliarsi per vere categorie. L' affinità e continuità delle sentenze ci persuase che riuscirebbe più naturale e facile la nostra esposizione raggiungendo Plotino a Platone. Ora dobbiamo tornare ad Aristotele, che esige una speciale attenzione. Aristotele è indubitatamente il più grande tra i discepoli di Platone, e se non lo arriva per elevatezza di mente, non gli sta addietro per sottigliezza, ed ha il merito grandissimo di avere ridotta a scienza la sillogistica «( Logic. , n. 26) », e d' averci lasciato de' libri, o de' commentari su tutte quasi le parti della filosofia. Sono ben lontani per lo più cotesti scritti aristotelici d' esser condotti, come si crede da molti, con un ordine rigorosamente scientifico. Anzi essi sottintendono sempre la scuola vocale (2), e per lo più disputano di questioni che dovevano esser vivissime a quel tempo tra i discepoli di Platone: questioni che talora conviene indovinare, per bene intendere a che miri e che voglia dire Aristotele, e in che stia la forza de' suoi ragionamenti. Nondimeno l' estensione e la varietà delle materie toccate nelle diverse opere di Aristotele, e l' aver egli approfittato di tutti i suoi predecessori, massimamente delle dispute che ebbero luogo nella scuola di Platone, ci consigliano ad esporre il suo sistema alquanto più copiosamente che non abbiamo fatto co' precedenti. L' ente può essere considerato in sè stesso, secondo che viene appreso in diversi modi e dalle diverse facoltà dello spirito umano, e secondo che è significato nel linguaggio. Quindi si presenta una triplice partizione dell' ente, verbale, dialettica e fisica . I filosofi precedenti a Platone, come i Pitagorici, privi ancora della dialettica e della logica, o avendola solo com' arte, non come scienza, non poterono accorgersi di questa triplice classificazione, e però le loro categorie altro non furono che certe classi, nelle quali l' ente alla rinfusa si prende ora sotto un aspetto ora sotto un altro. A Socrate e a Platone è dovuta principalmente la Dialettica e Logica riflessa e scientifica. Ma come l' entusiasmo, che suole accompagnare ogni invenzione, esagera ciò che s' inventa, la novità della vista rapendo quasi estatica a sè la mente; non è meraviglia che in Platone la Dialettica e la Logica traessero a sè ed assorbissero tutta la filosofia. Le categorie così divennero una classificazione ristretta agli enti ideali e mentali, e l' ente reale non ebbe in esse l' importanza che gli è dovuta. Quindi non pare del tutto aliena dal vero la critica che Aristotele fa a' filosofi più recenti (e vuol alludere certamente a Platone), là dove osserva, che essi [...OMISSIS...] . Ma seppe poi Aristotele stesso andare immune da una censura, se non uguale, simile a quella che egli fa al suo maestro? Certo, egli pose molta attenzione nella necessità di trovare una causa al moto, che non si poteva trovare nelle pure idee: e quindi, facendo un passo indietro, l' accompagnò agli antichi, che non separavano le idee da' reali, come dice egli stesso (1), e in questi soli vedevano le sostanze. Ma rivolgendosi alla considerazione de' reali, quasi abbandonati da Platone, disconobbe in parte la natura delle idee o specie, che rinchiuse nè reali, benchè finiti; e, rispetto a questo, cadde nell' eccesso contrario a quello che egli attribuisce a Platone. Di poi, riducendo a forme scientifiche la Dialettica del suo maestro, empì la filosofia d' entità di ragione , e a una classificazione di queste si riducono le sue categorie. Come dunque Platone diede un' attenzione troppo esclusiva alle idee , così Aristotele la diede pure troppo esclusiva alle entità mentali: e però nè l' uno nè l' altro uscirono bastevolmente, colla meditazione filosofica, dalla mente umana. La realità dell' ente finito nondimeno prende in Aristotele un posto alquanto più importante che in Platone. Sebbene dunque nè pure in Aristotele sieno tenute costantemente distinte le tre partizioni dell' ente sopraccennate, tuttavia confusamente ci appariscono; e però noi raccoglieremo da' libri di questo filosofo, e distribuiremo a parte, quello che a ciascuna di esse appartiene. Coglieremo quest' occasione altresì per fare su ciascuna di esse delle riflessioni non solo v“lte a distinguere quello che ci sembra inesatto, ma a perfezionare anche quello che ci sembra esatto e vero: il che ci risparmierà il dover ripetere le stesse cose altrove. Quando il linguaggio esprime fedelmente e senza equivoci i pensieri di chi parla, allora la partizione dialettica dell' ente e la partizione logica sono la medesima. Ma quando il linguaggio induce nell' animo altri concetti da quelli che naturalmente e logicamente si dovrebbero avere delle entità che vengono espresse, o connessi altrimenti, allora si manifesta la necessità di far notare nell' uso delle parole tutti que' casi, ne' quali i concetti e i pensieri umani non sono significati dalla lettera; al qual fine Aristotele scrisse i due libri « Dell' Interpretazione ». Egli trattò ancora più ampiamente la parte dialettica nei quattro libri che abbiamo sotto il titolo d' « Analitici », i quali risolvono gli argomenti nelle legittime loro forme sillogistiche, e si dividono in priori e posteriori . Noi non abbiamo bisogno di fare qui l' analisi di tali libri, che non si limitano solamente a dimostrare quando il linguaggio generi nella nostra mente nuove maniere di concepire e di connettere le entità, difformi da' concetti e dalle connessioni naturali; ma svolgono altresì tutte le fallacie delle argomentazioni: su di che questo filosofo ritorna in altri scritti ancora. All' uopo nostro ci limiteremo ad accennare quanto egli tocca in principio all' opera de' « Predicamenti » o Categorie; poichè qui egli incomincia ad avvertire appunto que' principali modi, nei quali il linguaggio devia dal rendere i precisi concetti della mente; onde se non si correggono coll' arte d' interpretarlo, facilmente si pigliano da esso concezioni assurde e nessi inestricabili; il che renderebbe impossibile la soluzione del problema ontologico. Questo esige prima di tutto che si dissolvano gli enti fattizi, di cui la ragione sufficiente sta appunto nella fattura e nella composizione che si genera nella mente a cagione del segno esterno. Osserva dunque Aristotele che le essenze (1), significate da nomi comuni, or sono della stessa, ora di altra natura: i primi nomi li chiama univoci ( «synonyma»), i secondi equivoci ( «omonyma»). Così il nome animale in quant' è comune all' uomo e al bruto è univoco, perchè significa la stessa essenza, l' animalità: ma il nome uomo , in quant' è applicato ad un uomo vero e ad un uomo dipinto, è equivoco, perchè il solo nome è comune, ma i concetti significati sono diversi (1). Dove si vede che l' essere un nome univoco od equivoco non appartiene al nome in se stesso, ma all' applicazione e all' uso che se ne fa. Di che avviene, che lo stesso nome si adoperi ora univocamente , ed ora equivocamente (2). Cadrebbe dunque in errore colui che, dall' unità soltanto del nome che si dà a più essenze, inducesse l' unità dell' essenza o del concetto; come cadrebbe in errore colui che inducesse la pluralità delle essenze o de' concetti da più sinonimi. Una dunque delle prime regole logiche ed ontologiche deve esser quella di ridurre, prima di tutto, il discorso al suo vero significato, di spogliare i concetti e gli enti dalle vestimenta delle parole, figgendo la mente in quelli anzi che in questi ( Logic. , n. 972). Il non aver fatto questo abbastanza, fu sempre la rovina della dialettica, degenerante in sofistica, tostochè essa, invece di attenersi a' concetti, si legò co' denti alle parole, prendendole per altrettanti concetti: e l' uggia che s' era messa di maneggiar quest' arme delle forme verbali non solo in assalire, ma ancora in difendere il vero, scemò forza a' difensori, e l' accrebbe agli assalitori. Nomi equivoci adunque, ovvero omonimi , si dicono quelli che s' accomunano a due essenze o a due concetti diversi. Gli Scolastici osservarono che, tra' nomi comuni a concetti diversi, alcuni sono tali che s' accomunano a concetti che non hanno alcun ordine o rispetto tra loro, altri a concetti che hanno qualche ordine o rispetto tra loro. A' primi lasciarono la denominazione di nomi equivoci , ai secondi diedero la denominazione di nomi analogici . Ma, ogniqualvolta un nome fu trasportato ed esteso dall' uso da un significato ad un altro, i concetti significati da quel nome hanno sempre tra loro qualche ordine o rispetto; e lo stesso esempio che arreca Aristotele de' nomi equivoci, cioè della voce uomo applicato all' uomo vero e all' uomo dipinto, segna due concetti che hanno similitudine nella forma e nel colore, benchè non così nella essenza significata dalla parola uomo . Ciò non può avvenire se non rispetto a que' nomi che casualmente significano cose diverse: per esempio, esse che vale essere ed anche mangiare; jus che vale diritto ed anche brodo , ecc.. Onde i greci filosofi distinsero i nomi equivoci primieramente in due classi, nell' una riponendo quelli che sono tali a casu , nell' altra quelli che sono tali a consilio . E così anco S. Tommaso chiama puramente equivoci quelli che sono tali per caso, e non quelli che sono equivoci per consiglio degl' imponitori (1). Questi ultimi senza distinzione vengono detti analogici dagli Scolastici. I filosofi greci divisero gli equivoci a consilio in tre classi: I Quelli, la cui denominazione comune esprime varie loro relazioni di dipendenza con uno stesso oggetto a cui primieramente spetta il nome [...OMISSIS...] . Così si dirà rodente tanto una sega, quanto un torrente, per la relazione di similitudine che entrambi hanno coll' atto del rodere; II Quelli, la cui relazione comune esprime varie relazioni di ordine ad un fine od effetto [...OMISSIS...] . Così si dirà medicinale tanto una radice, quanto uno stromento, o un esercizio, perchè ciascuna di queste tre cose sono ordinate all' effetto di restituire la sanità; III Quelli, la cui denominazione è comune a ragione della proporzione che hanno tra loro, e questi sono quelli a cui gli antichi riserbarono il nome di analogici (2), come si può vedere presso Ammonio e Simplicio, dove espongono la definizione dei nomi equivoci data da Aristotele (1). Così la denominazione di piede data al piè dell' uomo e al piè del letto, osserva Ammonio, è analogica; perchè il piè del letto sta al letto, come il piè dell' uomo all' uomo, cioè a dire l' uno e l' altro sono nella parte inferiore e servono a sostenerlo (2). Pure il restringere la parola analogia al semplice significato di proporzione, fa sì che rimane imperfetta la classificazione dei nomi equivoci. La primitiva origine di quella parola ha un significato più ampio della latina parola proportio; e se fu ristretto a indicare proporzione, anche in questo vocabolo, come in tanti altri, rimase imperfetta la lingua filosofica. E veramente la proporzione non appartiene che alla quantità, ed è determinata; l' analogia si rinviene anche tra le qualità, e le essenze, e le sostanze stesse, a tale che non si può determinare. E però il parlare dell' analogia, movendo unicamente dalla proporzione che passa tra diverse quantità e ragioni di quantità, fa sì che la parola analogia non convenga più in senso proprio e rigoroso a que' ragionamenti, che trattano delle cose spirituali, e massimamente delle divine, in cui non cade la quantità; ovvero che volendola a ciò usare si trasportino nel discorso ontologico i concetti limitati tolti all' estensione, allo spazio, ed al tempo. Laonde noi crediamo che si deva rendere più esatto e perfetto il linguaggio riguardante la classificazione de' nomi comuni; e che ciò si ottenga classificandoli in questo modo: Classificazione de' nomi comuni . I Classe . - Nomi comuni presi in senso proprio, e significanti un' unica essenza, applicabili a più individui, i nomi univoci (1); II Classe . - Nomi comuni presi in senso proprio, e significanti più essenze per puro accidente, essendo stati imposti ad una essenza senza riguardo all' altra, onde significano ciascuna essenza in senso proprio. Così Tigri significa il fiume, e significa anche animali feroci. Quando si dice Tigri per significare il fiume la parola è usata in senso proprio; quando si dice tigri per significare animali feroci, la si dice pure in senso proprio, senza alcuna considerazione al fiume di questo nome: aequivoci a casu; III Classe . - Nomi comuni imposti a più essenze diverse a bel consiglio, acciocchè col richiamare alla mente una di quelle essenze più note, udendosi il nome imposto all' altra meno nota o men vivamente conosciuta, questa s' intenda meglio per via di quella. Traslati, aequivoci a consilio . Ora quest' ultima classe è quella che importa diligentemente suddividere; e noi crediamo di poterne fare sei generi de' nomi metaforici, metonimici, causali, effettuali, proporzionali ed analogici . Egli è mestieri definire il carattere di tutte queste maniere di nomi traslati. 1 GENERE - Nomi metaforici . - Restringiamo questa denominazione a que' nomi che esprimono una qualche entità sensibile o vivamente conosciuta, e che si trasportano a significare una simile entità in altro subietto, dove la stessa entità trovasi in grado inferiore meno sensibile, affine di render questa più viva ed esagerarla. Così di un uomo sagace si dirà che ha uno sguardo acutissimo, trasportando l' entità dello sguardo acuto proprio dell' occhio corporeo ad una simile qualità che è nell' intendimento; perchè quella qualità, essendo più nota e viva perchè sensibile, aiuta a fare intendere la qualità dell' intendimento non sensibile, e però non vivamente conosciuta. Le metafore sono suggerite all' uomo dalla facoltà d' imaginare, e da quella legge del pensare umano, per la quale l' uomo vuole rendere a se stesso sensibili e vestire d' imagini le idee. I detti nomi applicati a significare sì un' entità in senso proprio e sì una entità in senso metaforico e rappresentativo, diconsi usati equivocamente a bel consiglio. 2 GENERE - Nomi metonimici . - Sotto questa denominazione comprendiamo tutti quelli, co' quali, volendo richiamare alla mente altrui un' entità, invece di indicarla col suo proprio nome, la indichiamo con un altro, che non esprime cosa simile come fa la metafora, ma tale però che per mezzo di essa incontanente soccorre alla mente altrui l' entità che vogliamo esprimere, principalmente coll' aiuto del contesto del discorso. Quindi diciamo or la parte pel tutto, ora una qualità per una sostanza, e viceversa una sostanza per una qualità, ora il contenente pel contenuto, ora un indizio o segno qualunque arbitrario, bastevole, pel contesto del discorso, a risvegliare nella mente ciò che vogliamo. Le metonimie sono suggerite all' uomo dalle facoltà dell' associazione delle idee, e da quella legge per la quale colui che parla è mosso a dire il menomo possibile per ottenere d' essere inteso, il che è anche un fonte dell' eleganza del discorso, e chi ascolta ama quell' eleganza, nè vuole udir tutto espresso, ma trovare qualche cosa da sè, e così non fare meramente il passivo, ma l' attivo. Le metonimie e le metafore s' uniscono talora in una sola parola, a ragion d' esempio il chiamare tigre un uomo crudele involge una metonimia, pigliandosi la tigre per esprimere la sua qualità d' esser crudele, ed una metafora venendo applicata ad uomo. I vocaboli adunque applicati ad un oggetto in senso proprio e ad un altro in senso metonimico, sono una seconda classe di nomi usati equivocamente a bel consiglio. 3 GENERE - Nomi proporzionali . - Questi sono quelli che gli antichi chiamavano analoghi , presa la parola analogia in senso ristretto per proporzione (1); ma poichè la proporzione non è che una speciale convenienza che si trova nelle quantità e ne' numeri, perciò è da separare questa specie di convenienza dalle altre, che verranno appresso; senza di che non si riuscirebbe giammai ad avere un linguaggio preciso applicabile alle cose divine. A ragion d' esempio, il definire gli analoghi per quelle cose che hanno proporzioni simili, e poscia il dire che la scienza si predica di Dio e dell' uomo analogicamente, riesce un favellare inesatto. Perocchè non è mica vero che quella proporzione che ha la scienza dell' uomo all' uomo, l' abbia pure la scienza di Dio a Dio; giacchè la scienza dell' uomo sta all' uomo come un abito al soggetto, quando la scienza di Dio sta a Dio con relazione d' identità. Noi diremo dunque proporzionali i nomi in quanto s' applicano ad oggetti di diversa natura, per cagione della ugual proporzione che ha ad essi ciò che loro s' attribuisce. Così quando diciamo il piè dell' uomo, e il piè dell' albero, o del monte, o del letto; noi abbiamo usato lo stesso nome a indicare più cose aventi la stessa proporzione ai subietti, di cui si dicono. I nomi proporzionali si possono pigliare come una suddivisione di metaforici, ma meglio si distinguono da essi per questo: che i metaforici così si chiamano, perchè sono nomi di cosa più nota e vivamente conosciuta applicati a significar cosa simile, ma men nota; laddove i nomi proporzionali non si fondano nella semplice somiglianza , ma nella somiglianza o uguaglianza di proporzione . 4 GENERE - Nomi effettuali . - Così chiamiamo quelli, che esprimendo il nome d' una causa, si applicano a significare un effetto. Così si dice un « uomo sano », e si dice pure una « cera sana », per dire che quella cera è tale, che apparisce come effetto, e quindi indizio, della salute che gode l' uomo. Questi nomi, appartenenti in senso proprio alla causa, ma applicati a significare l' effetto, sono quegli che gli antichi dicevano equivoci ab uno . I nomi effettuali si possono pigliare come una suddivisione de' metonimici, ma meglio si distinguono per questo, che nella metonimia si pone la causa per indicare l' effetto unicamente come un segno di questo, senza che sia espressa nel vocabolo la relazione. Così quando i latini chiamano Bacco il vino, e Cerere il pane, non esprimono mica con ciò che il vino sia invenzione di Bacco, o le biade di Cerere. Ma dicendo sana la cera d' un uomo, si fa intendere la relazione di questo effetto colla sanità che n' è la causa, e però senza conoscerne la causa non si può intendere il vocabolo; laddove si può sapere che pieno di Bacco, vuol dire pieno di vino, ignorando chi sia stato Bacco, e che abbia fatto, essendo un nome proprio, non avente, come tale, relazione al vino. 5 GENERE - Nomi causali . - I vocaboli acquistano questa appellazione, quando si vuol esprimere la causa, e lo si fa applicandole il nome dell' effetto. Così dicendo sano l' uomo, e sano il cibo o la medicina, il vocabolo sano è usato equivocamente: perchè applicato all' uomo è in senso proprio; e s' applica al cibo, o alla medicina, perchè la medicina o il cibo è cagione della sanità che è nell' uomo. La qual maniera di predicazione equivoca è quella, per la quale i greci filosofi dicevano tali nomi equivoci ad unum . Anche questi si possono pigliare come suddivisione dei metonimici; ma è da fare un' osservazione simile alla precedente, cioè si possono distinguere da' puri metonimici in questo: che, per essere un nome metonimico, basta che esprima la causa per via dell' effetto come un segno o indizio di lei, senza che nell' applicazione del nome sia espressa la relazione dell' effetto alla causa, laddove i nomi causali esprimono questa relazione, nè si possono intendere senza conoscerla. Così dicendosi, che viene punito il delitto , o premiata la virtù, si prende il delitto e la virtù pe' delinquenti o pe' virtuosi, e questa relazione è compresa nel contesto del discorso. 6 GENERE - Nomi analogici o indeterminatamente proporzionali . - Riserbiamo questa denominazione a que' nomi, i quali in senso proprio significano qualche cosa che positivamente conosciamo, e che si trasferiscono a qualche cosa che conosciamo negativamente, a cagione delle relazioni che la cosa cognita ha coll' incognita con una certa proporzione che non si può determinare, o che è del tutto indeterminabile. Così il cieco applica i vocaboli tolti dalle sensazioni dell' udito a favellare de' colori; e il suo discorso ha qualche cosa di vero, riferendosi all' effetto, in qualche modo simile che producono nell' animo umano o d' allegrezza, o di tristezza certi suoni e certi colori. L' analogia dunque si fonda su tutte quelle relazioni che possono cadere ed esser da noi conosciute tra le cose, di cui abbiamo cognizione e percezion positiva, e le cose, di cui non abbiamo che cognizione ideale negativa. Raccogliere tutte queste relazioni accuratamente e classificarle condurrebbe a distinguere le diverse specie di analogia, e di nomi analogici. Ma quello che sommamente importa, e che non vogliamo qui trapassare, si è il distinguere con accuratezza le due principali specie di analogia, di cui favelliamo; perocchè ci bisogna distinguere queste due specie a spianarci il cammino per favellare esattamente delle cose divine. Convien dunque osservare, che, quando noi applichiamo un vocabolo agli oggetti positivamente conosciuti, possiamo con questo vocabolo significare due maniere di cose: 1 possiamo significare tal cosa dell' oggetto conosciuto, la quale non appartiene all' essenza dell' essere stesso assoluto: per es., il colore od altra cosa materiale per nessun modo appartiene a tale essenza; 2 e possiamo significare tal cosa, che per via d' argomentazione intendiamo dover appartenere all' essenza dell' essere assoluto, poichè altramente tal essere ci riuscirebbe manchevole, ma non sappiamo in che modo le appartenga. Così la scienza, la potenza, la bontà, ecc., bene intendiamo, che devono appartenere all' essere assoluto, giacchè un essere che fosse privo di tali pregi sarebbe imperfettissimo, e però non pieno nè assoluto. Ma quantunque tali vocaboli esprimano doti e pregi dell' essere stesso assoluto, tuttavia non ce ne formiamo il concetto positivo, se non in quanto vediamo realizzate quelle doti, pregi, o qualità in esseri limitati, che cadono sotto la nostra percezione, cioè negli uomini. E poichè il positivo della cognizione si trae unicamente dalla percezione, perciò la parte positiva della cognizione che noi aver possiamo della scienza, della potenza, della bontà, ecc., è limitata a quel modo nel quale tali doti sono partecipate dall' ente finito umano, e quindi anche i vocaboli, che le esprimono, non significano quel modo di essere che tali doti hanno nell' essere assoluto, ma quel modo di essere che tali doti tengono nell' uomo, in cui solo si percepiscono. Di che avviene, che così fatti vocaboli, applicati alla Divinità, sono inetti ad esprimerne adeguatamente la natura, appunto perchè i concetti positivi, che significano, sono tratti da cose contingenti e limitate; onde si dice che tali qualità si predicano di Dio analogicamente . Quelle cose adunque che conosciamo positivamente, ma che sono tali che non appartengono alla natura dell' essere assoluto, non si possono predicare di Dio analogicamente, ma solo metaforicamente (1), come accade quando si attribuiscono a Dio il volto, le mani od i piedi. Ma quelle cose che di natura loro s' intende dover appartenere all' essere assoluto, queste si attribuiscono a Dio analogicamente a cagione della limitazione in cui tali cose sono dall' uomo percepite. Si distingua adunque in così fatti pregi la cosa , dal modo della cosa . La cosa, in sè stessa considerata, è assoluta ed infinita; ma il modo, nel quale l' uomo la vede, è limitato e finito: la cosa adunque si predica di Dio veramente; ma il modo, con cui l' uomo la percepisce, si predica di Dio solo analogicamente. E poichè l' uomo non può svestire interamente la cosa dal modo limitato, nel quale la percepisce, senza che gliene venga meno il concetto positivo; perciò si dice in generale, che tali doti e pregi sono predicati di Dio analogicamente. Sei adunque sono le predicazioni traslate: la metaforica, la metonimica, la proporzionale, l' effettuale, la causale e l' analogica. Alcuni latini scrittori della scuola, come dicevamo, compresero tutti questi sei generi, che appartengono all' equivocazione detta a consilio , sotto il titolo di predicazione analogica. All' incontro i commentatori greci d' Aristotele riservarono il titolo di analogici al solo terzo genere di nomi, quello de' proporzionali. Questa discrepanza di linguaggio generò confusione nelle dispute, delle quali le scuole si trovarono infine stanche e svogliate. Classificando accuratamente le diverse specie di predicazione, come abbiam tentato di fare, s' appiana la via necessaria per arrivare ad intenderci. E` ancora da avvertire, che ogni nome ha un primo ed unico significato, cioè significa una sola essenza applicato agli individui della quale esso ha un senso univoco; ed è questo che poi si trasporta a significare altro, e diviene equivoco a consilio, ossia traslato (2). Si dee dunque distinguere l' equivocazione traslata del vocabolo proprio e trasferito ad altro oggetto, dall' equivocazione traslata del vocabolo relativamente a' diversi oggetti, a cui significare fu trasferito. Nel primo caso i due oggetti significati, l' uno in senso proprio, l' altro in senso traslato, hanno un ordine tra loro, come a ragion d' esempio nel vocabolo ente applicato alla sostanza ed all' accidente; nel secondo caso i due oggetti, significati entrambi traslatamente, non hanno un ordine espresso dal vocabolo, ma hanno un ordine ad un terzo oggetto a cui si riferiscono, come il vocabolo ente applicato a più accidenti. Chiameremo i primi equivoci diretti , i secondi equivoci laterali . Negli uni e negli altri si dee distinguere la prima essenza a cui appartiene il vocabolo in senso proprio: ne' primi equivoci diretti si paragona questo significato proprio co' significati traslati; negli equivoci laterali il vocabolo in senso proprio è supposto, e si paragona i diversi traslati tra loro. Benchè questa doppia maniera di equivocazione abbia luogo in tutti i sei generi, tuttavia noi parleremo solo dell' analogia . Il nome della essenza in senso proprio paragonato co' suoi analoghi si può chiamare analogante , e i nomi delle essenze che hanno con essolei analogia, si possono chiamare analogati . Quindi la prima specie degli analoghi abbraccia l' analogante coll' analogato; e questa analogia non corre che tra due soli termini: la seconda specie degli analoghi è quella che abbraccia più analogati, escluso l' analogante; e questi analogati non si restringono a due, ma possono esser più indeterminatamente (3). Si può dire che nelle mani di Aristotele ogni partizione dell' ente sia logica, perchè anche allora che lo considera e parte fisicamente, lo riferisce sempre agli atti e alle forme cogitative. La scienza, a cui Aristotele pose più attenzione, è quella di predicazione; trascurò alquanto quella d' intuizione , di cui s' occupò cotanto Platone. Si può forse dire che di qui provengano le differenze che si osservano tra quelle due filosofie, delle quali differenze parleremo in appresso. Il principio, secondo il quale Aristotele divide costantemente l' ente, è l' analisi della proposizione. Egli aveva acutamente osservato che tutti i verbi, che s' adoperano nelle proposizioni, si possono sempre ridurre al verbo essere, riuscendo al medesimo il dire: « quest' uomo cammina o è camminante », e si dica il medesimo d' ogni altra proposizione (1). Predicandosi dunque sempre l' essere in tutte le proposizioni, credette che queste potessero somministrare ogni partizione dell' essere. Aristotele dunque accintosi all' analisi della proposizione, ossia della predicazione, distinse tre cose: 1 Il modo con cui si predica, ossia la natura del subietto considerato in relazione col predicato; 2 La cosa o entità che si predica; 3 Il valore della copula, che è la predicazione stessa. I Circa il modo con cui si predica, Aristotele distinse l' essere che si predica per accidente , [...OMISSIS...] , dall' essere che si predica per sè , [...OMISSIS...] . Ma queste espressioni non hanno tutta l' esattezza logica: al predicarsi una cosa di un' altra per sè corrisponde il predicarsi una cosa di un' altra per un' altra, cioè per una ragione ad essa straniera; e il predicarsi una cosa di un' altra sostanzialmente o essenzialmente corrisponde al predicarsi accidentalmente (3). A ragion d' esempio dicendosi d' un uomo che è musico, la qualità, benchè accidentale, d' esser musico appartiene all' uomo come uomo, e quindi per sè; all' incontro dicendosi d' un musico che è giusto, la qualità accidentale d' esser giusto non appartiene per sè al musico, cioè al musico in quant' è musico (in senso diviso), ma al musico in quant' è uomo (in senso composto, « Logic. , p. 101 »), e però gli appartiene per un altro, aliena vi . Dicendosi poi « colui che ride è uomo », la qualità d' esser uomo appartiene all' ente che ride, essenzialmente , ma non gli appartiene per sè , ma per un altro, cioè per la connessione che ha il ridere coll' essenza dell' uomo; poichè la ragione fisica per cui ride è l' esser uomo, e non viceversa; se non in una relazione dialettica, in quanto che il concetto del ridere inchiude quello di uomo. Altro è dunque il predicarsi per accidente , altro il predicarsi per altro: il predicarsi per accidente, è quando « il predicato è un accidente del subietto ». Ma questo predicato accidentale può convenire al subietto per sè, e può convenirgli per un altro: gli conviene per sè , se è un accidente di quel subietto preso questo in senso preciso; gli conviene per un altro, se non convenendo al subietto in senso rigoroso e preciso, conviene però a ciò che involge il subietto, per esempio, al subietto in senso composto, come denominazione d' un altro; o al subietto accidentale, come quello che suppone e richiama la sostanza. Del pari, altro è predicarsi essenzialmente ed altro è predicarsi per sè. Si predica essenzialmente, quando il predicato costituisce tutto o parte dell' essenza del subietto; e questo in due modi, poichè: 1 o il subietto è reale, e allora il predicato è un equivalente; 2 o il subietto è dialettico, e allora il predicato non è un equivalente del subietto in senso preciso, ma del subietto in senso composto, nel qual caso può il predicato essere una sostanza o un subietto reale, come: « chi ride è uomo »; e dicesi anche predicarsi sostanzialmente , e risponde alla terza maniera di predicazione accidentale degli Scolastici. Questi quattro modi dunque di predicazione si devono accuratamente distinguere (1). II Ora la predicazione per altro è posteriore alla predicazione per sè: onde, volendosi enumerare i primi generi de' predicati, che così intende Aristotele le Categorie, queste sono da lui chiamate predicamenti per sè. Ma egli confonde manifestamente il predicarsi accidentalmente , e il predicarsi per altro , come dicevamo. Poichè, dopo aver distinti i tre modi di predicazione per accidente [...OMISSIS...] . E a queste otto, nel libro delle categorie, aggiunge le due altre dell' essere situato e dell' avere , con che le categorie diventano dieci, e considera questi dieci predicati per sè, senza congiunzione [...OMISSIS...] . Apparisce dunque dalle stesse parole d' Aristotele: 1 Ch' egli colle dieci categorie intende classificare « le cose che si dicono »( «ta legomena»), come indica anche il nome di categorie o predicazioni. Ma poichè queste possono esser considerate come predicati, e come tali già congiunti con subietto, ( «ta kategorumena»); ovvero considerate sciolte, l' una a parte dall' altra, in quest' ultimo modo considerate, le chiama «kategoriai». 2 Che queste indicano altrettanti modi di essere: onde Aristotele non classifica veramente con esse gli enti, nè i principii degli enti, ma i modi più generici dell' ente (2). 3 Che esse significano i predicati che convengono all' ente per sè , e non per altro; di maniera che l' essenza sostanziale, il quanto, il quale, la relazione, convengono all' ente per la sua propria virtù, e non per una virtù straniera all' ente; il che avverebbe, se il quale si predicasse del quanto o del relativo. Così l' essere un ente grande o piccolo non conviene all' ente per sè, ma all' ente che è quanto è (3). Che dunque i predicabili significhino lo stesso essere in dieci modi diversi, questo s' intende. Ma anche qui Aristotele lascia da parte la cognizione intuitiva dell' essere, e tutto deriva da quella di predicazione . Ora l' essere è prima della predicazione, ed egli si divide indipendentemente da questa. Le dieci Categorie sono dieci idee che s' intuiscono, e intuite si predicano. Quando si predicano, sono già divise. Ma per Aristotele prima sono predicati, e poi astratti, benchè di natura sua dichiari anteriore la specie alla materia. Astratti poi non può ancora Aristotele contemplarli così semplici nella loro oggettività (1): li considera dunque come subietti di cui si predica in diversi modi l' essere. Il riconoscere nondimeno che sono « essere per sè », è lo stesso che confessare che non ricevono l' essere dall' atto della predicazione, e questo assegna loro un luogo elevato simile a quello che avea destinato loro Platone. Se dunque si considerano le Categorie come semplici ed incomplesse, [...OMISSIS...] , altro non presentano che una classificazione, benchè imperfetta, dell' essere ideale. Ma egli vuol considerare sempre gli universali nei singolari , poichè per lui questi soli sussistono: quindi i suoi universali doveano essere di loro natura predicabili , chè solo per via di predicazione le specie s' apprendono congiunte alle cose reali. Pure quest' operazione della mente, che si chiama predicazione , non produce punto le specie o le essenze ideali, ma non fa che usare di queste. Queste dunque sono prima idee o intelligibili, e di poi predicabili. Onde coll' aggiungere la predicazione, altro non si fa che guastare il concetto di esse idee, confondendolo con qualche cosa di soggettivo non appartenente alla natura della medesima. Di più: questa mescolanza dell' operazione soggettiva della predicazione colle idee non è necessaria, nè pure secondo il sistema d' Aristotele; poichè, sebbene egli nega l' esistenza dei generi in sè, ammette però che esistano da sè soli e separati dalla materia nella mente: e questo basta, perchè se ne possa parlare come d' intuiti, senza mescolarvi nulla di soggettivo. III La terza cosa che distinse Aristotele nelle proposizioni, si è il valore della copula, che si riduce sempre al verbo E`. Questo verbo dunque secondo Aristotele: a ) Può significare tanto che ciò che si predica sia in potenza, quanto che ciò che si predica sia in atto. Da questo trae la distinzione dell' essere in potenza e dell' essere in atto: e questa partizione dell' essere l' applica alle Categorie , che è quanto dire a tutti i predicabili. [...OMISSIS...] Con questo riconosce che il possibile e il sussistente è essere egualmente, e, come altrove dice, il medesimo essere; e che le Categorie per conseguente appartengono ugualmente all' ordine delle cose possibili ed ideali, e all' ordine delle cose sussistenti o reali. b) Essere od è , può significare ancora il vero; come non essere o non è il falso: [...OMISSIS...] . L' essere nel significato a ) afferma (o nega) qualche cosa in sè: l' essere nel significato b ) afferma qualche cosa nella mente; poichè il vero e il falso esiste, secondo Aristotele, soltanto nella mente. Col primo di questi due significati del verbo E` si pone qualche cosa in fatto come quando si dice « l' uomo è un animale »; coll' altro non si pone nulla in fatto, ma si esprime solamente che è vero o falso ciò che si afferma, come: « Colui è cieco », che viene a dire esser vero che colui è cieco; benchè col predicare la cecità non si ponga nulla in fatto, anzi si tolga un' entità positiva, qual è il vedere. Quindi la divisione celebre presso gli Scolastici dell' ens extra animam , e dell' ens in anima (3). S. Tommaso dichiara, secondo la mente di Aristotele, questi due significati del verbo E`, così: [...OMISSIS...] . Ma come avvien egli che il verbo E` possa significare la verità della proposizione, a ragione d' esempio, che nella proposizione: « Quest' uomo E` cieco », il verbo E` possa aver forza, come se si dicesse: « E` vero che quest' uomo E` cieco? ». Poichè la proposizione, così ridotta, altro non fa che introdurre due volte il verbo E`, e tutte e due le volte non può significare la verità della proposizione; chè in tal caso, nel risolverne il valore, si dovrebbe formare una proposizione, che andrebbe all' infinito, sostituendo al verbo E` l' equivalente « E` vero », venendosi a dire: « E` vero che E` vero, che E` vero, ecc. »; e senza venir mai all' ultima particola della proposizione « E` cieco ». Dunque in questa ultima particola il verbo E` non significa E` vero; ma significa l' affermazione di un non7ente. Non si può adunque rendere ragione di tali affermazioni, se non si parla della facoltà che ha lo spirito di affermare; e se non si dimostra che l' affermare non è un costituire un oggetto, ma è un disporre il soggetto intelligente in un dato modo verso un oggetto dato dall' intuizione. E questa disposizione e atteggiamento è appunto lo stesso atto dell' affermazione. Di che anche questo è una prova, che la negazione , la quale non pone nessun ente ma lo rimove, esige un atto simile e contiene un simile atteggiamento dell' animo. E veramente non si può affermare o negare senza conoscere l' essenza che si afferma o si nega: ora l' essenza è l' oggetto dato dall' intuizione. Ma affermando o negando un oggetto, o qualche cosa dell' oggetto, l' oggetto si viene a involgere nell' atto affermante o negante dello spirito. Onde, sopravvenendo la riflessione, questa contempla lo stesso oggetto vestito della negazione o dell' affermazione dello spirito; ed allora non è più l' oggetto puro, ma un oggetto che, parte è dato allo spirito indipendentemente dalle operazioni dello spirito, parte è lavorato dallo spirito stesso affermante o negante. Così la cecità è l' oggetto, cioè il vedere (presentato puramente nella sua essenza dall' intuizione) congiunto colla negazione. Tutti gli enti negativi o privativi sono formati in questo modo dallo spirito. Sorge quindi una riflessione d' altro ordine più elevato, la quale, esercitando l' azione sopra l' oggetto così lavorato, separa in essa la stessa affermazione o la stessa negazione, e forma degli astratti enti negativi e privativi; ed allora inventa de' vocaboli che li segnino. Così il vocabolo CECITA` significa l' astratto di un ente negativo. Questi enti negativi concreti ed astratti sono due classi di quegli che si chiamano enti di ragione , od enti razionali . Ora Aristotele non pervenne a conoscere la vera generazione degli enti razionali, nè seppe accuratamente descriverli come gli sarebbe bisognato. A tal fine conveniva che avesse investigato la natura di questa singolare facoltà dell' intendimento umano di vestire gli enti delle sue proprie disposizioni, e di convertire poscia a sè stesso queste disposizioni soggettive in enti, significandoli con parole simili a quelle che usa per significare gli enti veramente oggettivi. Noi crediamo bene di cogliere l' occasione di questa critica, che per noi si fa alla partizione che Aristotele fa dell' ente di ragione, per dare la classificazione degli enti razionali , come prima abbiamo fatto de' nomi che si possono dire enti dialettici . Aristotele conobbe chiaramente quell' ente razionale che nasce dalla negazione e quello che nasce dalla relazione . S. Tommaso accenna queste due fonti degli enti di ragione (1). Egli circa le relazioni osserva, che queste non sono sempre puri enti di ragione, ma talora sono realità (2) inerenti agli enti, come accade quando gli enti inclinano l' uno all' altro, o hanno azione o passione tra loro (3). Quindi è che talora la relazione reale è d' una parte sola, se una parte sola è ordinata all' altra, e all' altra tendente, e dall' altra dipendente, ma non viceversa, rimanendo dall' altra parte una relazione di pura ragione (4). Ma il filosofo delle scuole non considerò abbastanza in questo fatto degli enti di ragione due cose sommamente importanti: La prima , che gli enti di ragione altri sono astratti e puri come dicemmo della cecità; ed altri sono inerenti ai nostri concetti degli enti reali, come l' uomo cieco . Questi secondi sfuggono dall' attenzione filosofica facilmente: onde avviene che si parli di entità reali, come fossero per intiero reali fuori della mente; quando sono pure un composto di entità reali fuori della mente e di entità di ragione lavorate e messe loro intorno quasi come una rete dalle operazioni diverse dall' umana intelligenza, siccome abbiamo veduto essere l' ente espresso dal vocabolo IO «( Psicol. , pag. 61 e seg.) », e siccome vedremo anche in appresso, parlando delle Categorie. La seconda cosa, non osservata abbastanza, si è la differenza che passa tra l' ente ideale e l' ente razionale . L' ente razionale è produzione soggettiva della mente, come abbiamo detto: quando all' opposto l' ente ideale è per sè oggetto , ed è affatto indipendente dalla mente dell' uomo, e distinto da ogni mente, benchè escluda la realità ed abbia per sua natura la proprietà d' insiedere nella mente. La mente poi è un ente reale: e però tra l' ente ideale e l' ente reale passa una relazione essenziale , la quale non è nè pur essa un ente di ragione, non una produzione dell' intelligenza soggettiva, ma una congiunzione effettiva . Ora la mente, o, per dir meglio, il soggetto intelligente, essendo suscettibile di sentimenti, ed essendo egli stesso un sentimento primo e sostanziale, vede il reale, cioè il sentito e percepito sensitivamente, nell' ideale; chè ogni reale sentito segna nell' ideale un suo corrispondente, e così l' ideale si manifesta come tipo delle cose reali. Questa visione del reale nell' ideale è un' operazione della mente, e si scorge: 1 Nella percezione intellettiva, nella quale la mente dell' ideale e del reale fa un ente solo conosciuto; 2 Nell' idea specifica, nella quale si vede il reale nell' idea, ma solo come possibile, e non ancora come sussistente. Ora, quantunque la percezione e l' intuizione dell' idea specifica sieno operazioni della mente; tuttavia non si può dire che gli oggetti proprii di queste operazioni sieno enti di ragione . Poichè nella percezione: 1 c' è l' ente ideale, che è per sè oggettivo; 2 c' è il reale, che non è prodotto dalla mente, ma dato nel sentimento; 3 e c' è l' unione di questi due elementi, che si fa per una operazione della mente, ma per una operazione determinata dal rapporto o nesso essenziale che passa tra l' ideale e il reale, e che la mente non fa che vedere. Vero è che un tale rapporto suppone la mente, ma questa esigenza della mente si riduce a quella che ha l' essere ideale di trovarsi in una mente, e il reale d' essere o ridursi in un sentimento; onde l' esigenza della mente e del suo atto è un' esigenza ontologica, cioè uscente dalla natura stessa e dall' ordine intrinseco dell' ente; e però tale rapporto non è produzione soggettiva della mente umana, ma più tosto è analogo alla creazione, la quale, quantunque si faccia mediante il Verbo divino, tuttavia il prodotto è reale. Quanto poi all' idea specifica , ella non è che l' essere ideale considerato in rapporto con un reale possibile, rappresentato da vestigŒ o immagini del reale; e però si deve dire quello stesso che si disse della percezione. Tuttavia nella percezione e nell' idea specifica c' è di soggettivo l' affermazione o la negazione della realità; ma questo elemento soggettivo non è per sè l' oggetto di tali operazioni, e però non si può dire ente di ragione. Che se si considera l' affermazione stessa e la negazione come operazione del soggetto, in tal caso quelli si conoscono come entità reali, cioè come reali atti del soggetto intelligente, e però ancora non sono enti di ragione. Gli enti adunque che propriamente meritano d' essere appellati razionali , come quelli che si producono dalle operazioni della ragione senza che abbiano una reale esistenza in sè, si dividono primieramente nelle due classi indicate: che alcuni sono meri enti di ragione, quasi finzioni della ragione stessa; altri sono misti, cioè parte sono enti di ragione, e parte sono enti oggettivi, ovvero anche reali. I meri enti di ragione sono prodotti dalle seguenti operazioni della ragione: I Negare ; II Dividere ciò che nell' ente oggettivo o nell' ente reale è unito; III Riferire una cosa ad un' altra, trattandosi di cose non ordinate tra loro per via di nessi reali attivi o passivi; IV Comporre ciò che non è composto in sè stesso; V Analogare; VI Sostanziare ciò che non è sostanza; VII Suppositare . Dal che si vede, che gli enti di ragione appartengono tutti alla scienza di predicazione, e non alla scienza oggettiva. Facciamo un cenno degli enti di ragione che vengono prodotti da ciascuna di quelle operazioni. I Negare - Produce gli enti negativi . - La ragione avendo facoltà di asserire e di predicare, ha quella altresì di negare ciò che ha asserito e predicato, o che potrebbe asserire e predicare. Talora la negazione non è compiuta, e in tal caso si risolve in una limitazione, e si riduce al DIVIDERE. Ma i limiti e le privazioni delle cose, concepiti astrattamente, sono enti negativi con qualche relazione alla cosa limitata. Talora la negazione è completa, ed in tal caso l' ente ch' essa produce è il nulla : il quale pure suole rivestire varie relazioni, quasi termine delle limitazioni da una parte, e termine dell' entità che comincia dall' altra. Questi enti negativi non involgono errore se si prendono per quello che sono; ma la mente erra quando li prende per cose positive che non sono. II Dividere - Elementi formali (2) di un ente . - In un ente semplice ed indivisibile per sè stesso la mente distingue più cose, le quali non si trovano separate in natura, onde la separazione è posta dall' atto della mente. Ma questa separazione mentale è di due specie: a ) Talora i due o più elementi formali, distinti dalla mente in un oggetto, quantunque non separabili, cioè tali che l' uno non può esistere senza l' altro, sono distinti nell' oggetto stesso, di maniera che l' uno non è l' altro, nè entra nell' altro, ma sono legati insieme per una specie di relazione essenziale . Così nel sentimento si distingue il principio ed il termine, il senziente e il sentito, benchè non possano separarsi senza annullarsi, e senza annullare il sentimento che essi costituiscono. In questo caso la distinzione che fa la mente è in sè vera, e a quest' ente di ragione risponde una realità nella natura della cosa. Ma se la mente, oltre giudicarli distinti , trapassa a giudicare che esistano separati , o che l' uno di essi può star senza l' altro; in tal caso, alla prima distinzione che è vera, si aggiunge un giudizio falso, un errore. A questa specie si riducono tutte quelle cose che sintesizzano, come gli organi di un unico organismo, i quali non esistono come tali, che per ragione del tutto, e dal tutto non si possono dividere; l' intelligente e l' inteso, i termini correlativi, le tre forme dell' essere, ecc.. b ) Talora i due o più elementi inseparabili sono bensì distinti nell' oggetto, ma l' uno di essi entra nell' altro, e non viceversa. Così, quando la mente in un individuo da lei percepito distingue ciò che è proprio, ciò che è specifico, e ciò che è generico; allora il concetto di ciò che è specifico contiene in sè virtualmente anche ciò che è proprio, e il concetto di ciò che è generico contiene virtualmente ciò che è specifico; ma non viceversa. All' incontro, se la mente non guarda ciò che questi concetti contengono virtualmente, ma ciò che si trova nella realità propria, nella realità specifica, e nella realità generica; se n' ha il contrario: perocchè in un reale, che ha tutto ciò che gli spetta in proprio, è conseguentemente realizzato anche ciò che esprime la sua specie ed il suo genere; e in quanto si considera realizzato in esso ciò che è specifico, già si contiene realizzato anche ciò che è generico (1). In tutte queste distinzioni che fa l' umana ragione si crea degli enti di ragione, i quali non si dee già credere che sieno chimerici e vani, ed errano quei filosofi, che dicono, parlando anche in questo ambiguamente, che tali idee non hanno alcun valore obiettivo; poichè, se la mente con esse non considera e pensa tutto intiero l' oggetto, lo considera nondimeno e lo pensa ne' suoi formali elementi, realizzabili o realizzati nel tutto. La mente adunque non erra con queste distinzioni logiche; ma incomincia ad errare quand' ella vi sopraggiunge dei giudizi arbitrarii, coi quali si dà a credere, che quelli che non sono che elementi formali dell' oggetto, sieno altrettanti oggetti compiuti. III Riferire - Relazioni razionali . - Di queste abbiamo accennato di sopra. Le relazioni possono essere classificate anch' esse in generi e specie, e questi generi e specie sono come elementi formali delle relazioni medesime. IV Comporre - Unioni razionali . - Queste si fanno per lo più per via di relazione; ma la mente in generale ha la facoltà di considerare qualsivoglia complesso di cose eterogenee come una sola unità . Quindi le idee complesse razionali . V Analogare - Attributi . - Trattandosi di oggetti che la mente conosce solo negativamente, ell' è costretta attribuir loro, per via di certa analogia, le proprietà delle cose ch' ella positivamente conosce, e queste proprietà, in quanto sono predicate analogicamente dell' oggetto ignorato, diconsi attributi . Così il cieco nato dà le proprietà dei suoni ai colori di cui sente ragionare, e dirà il color rosso dover esser simile ad una voce soprana, ed il nero ad una voce bassa. E così pure è che noi parliamo di Dio, trasportando in lui le perfezioni che conosciamo nella natura. Questa maniera di ragionare non induce alcun errore, qualora la mente che l' usa, sappia in pari tempo, che tali sue predicazioni sono meramente analogiche. VI Sostanziare - Esseri immaginarii . - Un' altra classe di enti di ragione sono quelli, che la mente compone di altri enti da lei conosciuti: e a questi appartengono le personificazioni, le mitologie o le favole, e gli enti ipotetici che per qualsivoglia ragione l' uomo introduce nel suo discorso. Questi esseri sono falsi ed erronei, e non hanno valore oggettivo in sè stessi, ma se l' uomo conosce la loro falsità, o ipoteticità, con ciò stesso sfugge all' errore, riconoscendolo. VII Suppositare - Enti suppositati . - Se, colla facoltà di astrarre e di distinguere, la mente umana produce quegli enti di ragione, che abbiamo detti elementi formali , e relazioni , ecc., colla facoltà d' analogare altri enti di ragione che diciamo attributi , e colla facoltà persuasiva ed assertiva gli enti immaginarii ed i negativi , colla intuizione si procaccia le idee; colla facoltà stessa di ragionare produce poi questa settima classe di enti di ragione, che diciamo suppositati , cioè presi per supposti . Ed ecco ond' ella è mossa a costituirli. Prima legge di operare della mente è il principio di cognizione, il quale la obbliga a concepire, tutto ciò che concepisce, come un ente; giacchè quel principio dice: « l' oggetto dell' intelligenza è l' ente ». Ora tale è la natura dell' ente che non si può concepire, se non si concepisce in esso un atto primo. Quindi accade, che anche gli enti di ragione, i quali non hanno la natura d' atti primi, ma o sono semplici elementi di tali atti, o sono atti secondi, o sono negazioni di atti, non si possono concepire dalla mente, se ella non li veste della forma di enti, e perciò di atti primi, senza di che ella non potrebbe pronunciarli così separati e divisi dall' ente. Al che le prestano gran servizio i vocaboli e gli altri segni sensibili: i quali, non rappresentando la cosa segnata nella sua natura, ma solo indicandola, non porgono all' attenzione di chi gli usa la distinzione che passa tra gli enti reali e compiuti, e gli enti di ragione. Onde venendo tutti significati per egual modo, anche gli enti di ragione passano mescolati e indistinti insieme cogli enti compiuti e reali, e sostengono, per così dire, la persona di questi. Nel che la mente non prende errore, se ella non sa qual sia il personaggio che giuocano tali enti in sulla scena del suo pensiero. Posto adunque che la mente è obbligata di considerare gli enti di ragione come enti in sè, niuna meraviglia è, ch' ella li prenda nel ragionamento a suppositi: e questi sono quelli che più sopra abbiamo appellati subietti dialettici . Noi intendiamo sotto l' espressione di partizione fisica tutte quelle distinzioni dell' ente, che non hanno per loro fondamento il linguaggio, nè le operazioni subiettive della mente umana, ma che sono nell' ente stesso, sia reale, sia ideale. La prima divisione, che sotto questo punto di vista si presenta in Aristotele, si è dell' ente singolare e in sè sussistente, e dell' essere universale , che non esiste separato e per sè, ma nelle cose come forma della materia, e nella mente come specie, separate dalla materia corporea, ma non da una sostanziale intuizione. L' ente singolare sussistente è la SOSTANZA, ossia l' ousia prima, [...OMISSIS...] : l' ente universale si riduce da Aristotele, come a sommi generi, alle Categorie. L' ente singolare e sussistente, cioè la sostanza prima, è triplice: 1 l' una sensibile e corruttibile; 2 la seconda sensibile e mobile, ma incorruttibile (gli astri); 3 la terza insensibile, incorruttibile e immobile, il primo motore (2). L' ente universale non è per Aristotele un ente sussistente, ma inseparato dal singolare: tuttavia esso considera le dieci categorie, in cui lo riparte, come i dieci generi supremi dell' ente (3). Conviene dunque che noi esaminiamo diligentemente questa partizione. La dottrina delle Categorie Aristoteliche soggiacque a diverse interpretazioni, ciascuna delle quali potrebbe subire una critica speciale; ma la prima osservazione è questa appunto d' essere da Aristotele esposta in un modo pieno d' incertezze e d' anfibologie, onde le varie interpretazioni. Pure, aderendo alla lettera d' Aristotele, ella apparisce meno imperfetta che pigliandola come fu intesa dagli scoliasti greci, e da' loro discepoli gli Scolastici. Partendo dunque dal principio che Aristotele, colle categorie non volle far altro che classificare i sommi modi dell' ente secando ne' suoi elementi il linguaggio e cercando in questo i più generici e primi predicati dell' ente (1), non farà più meraviglia, che nella tavola delle categorie aristoteliche non si trovi nè l' ente , nè la materia . Nè l' uno nè l' altra poteva trovarci luogo: non l' ente , perchè egli non è un modo, ma quello che di tutti i modi è suscettivo, e quindi di tutti i predicati; non la materia perchè nè pur essa è un modo dell' ente, ma, secondo Aristotele, il substrato ( «hypokeimenon») di tutti, e quella che sostiene tutti i modi. Io non intendo qui ricercare, se la materia e l' ente (privo de' suoi modi) fosse per Aristotele il medesimo: certo è, che Platone stesso prende l' «usia», ovvero l' «on», come l' indeterminato, l' informe, e in una parola la materia; se non che egli distingue, come vedemmo, tre materie, l' ideale , la spaziosa e la corporea , onde i suoi tre sommi generi degli enti. Aristotele dunque dice, che [...OMISSIS...] . Riconosce dunque Aristotele, che la specie e la materia sono di diverso genere tra loro, perchè non si possono condurre a un medesimo, rimanendo sempre distinte. Ma oltre questi due primi generi, distingue quelli che si formano dalle categorie dell' ente [...OMISSIS...] . Ma che sono questi schemi di categorie dell' ente? e che cosa è l' ente di cui sono categorie? E se anche la specie e la materia sono generi, non diventeranno dodici i generi anzichè dieci? Per rispondere a queste domande, conviene osservare che per Aristotele ogni genere è una specie (2), onde nomina spesso anche « « la specie della materia » » (3). Ma la materia stessa non è una specie, ma una natura contrapposta e irreducibile alla specie. Conviene dunque, che anch' egli ammetta due principŒ , che infine, con qualunque nome si chiamino, sono sempre quelli de' pitagorici: l' indeterminato e il determinante. L' indeterminato, cioè la materia, non ha numero, perchè non ha specie, e quando riceve la specie, allora solo si figura e distingue: la specie all' incontro, che è il determinante, ha numero, cioè ci sono diverse specie. Ricercando quali sieno, si viene a scoprire una gerarchia di specie, nella quale si distribuiscono in più e meno estese, e quelle contengono queste. Ma le più estese di tutte non sono contenute in altre d' estensione maggiore, appunto perchè sono le più estese. Rimane dunque a cercare, se le più estese di tutte, irreducibili ad altre, sieno una sola, o più; e questa è la ricerca delle Categorie, come le concepisce Aristotele. Onde « il diverso schema della categoria dell' ente », equivale a dire « la diversa specie che si può predicare dell' ente »: l' ente poi, che è il subietto della predicazione, è la materia di cui, avendo già ricevuto la specie, questa si può predicare (1). Rispose dunque Aristotele, che le specie più estese, e irreducibili, non sono una sola, ma dieci: e così stabili le sue dieci Categorie. Lasciati dunque da parte gli altri significati, in cui si prende la parola genere (2), Aristotele nelle categorie parla di « « quelli che ammettono differenze » ». [...OMISSIS...] Il genere categorico dunque si considera da Aristotele, come materia rispetto alla specie , e subietto delle differenze . Ma il subietto stesso e la materia prendono significati diversi tanto presso Platone, quanto presso il suo discepolo. Onde questi generi, ciascuno de' quali è detto « come materia »( «hos hyle»), si distinguono secondo che « « il subietto primo, ossia la soggiacente materia, è diverso »(4) »: di che deduce, che « la specie e la materia sono generi diversi », perchè, tanto la specie, quanto la materia, sono subietti diversi irreducibili l' un all' altro. Dove la parola « materia »qui ha mutato di significato, cioè ne ha preso uno più ristretto, ha preso il significato di « materia reale ». Checchè dunque dica altrove Aristotele circa la doppia materia ammessa da Platone, cioè l' ideale e la reale, egli cade nella stessa distinzione: poichè, se ogni genere si considera come materia, «hos hyle», e se due generi sono « la specie e la materia », convien dire che ci sia una materia ideale , che costituisce il genere delle specie, e una materia reale , che costituisce un altro genere. E questi sono veramente i sommi generi d' Aristotele del tutto irreducibili. Ma qual genere può costituire la materia reale? Se al genere, secondo lo stesso Aristotele, sono necessarie le differenze [...OMISSIS...] , come la materia, priva delle specie, avrà differenze? In nessun modo, differenze che abbiano un subietto identico; e altramente non sarebbero differenze. Per questo Aristotele, benchè chiami un genere la materia, non l' annovera co' sommi generi, cioè colle Categorie. Il che dimostra, che prenda la parola genere in due sensi diversi. Altro è dunque il genere che si definisce: « quello che è primo come subietto, e non si riduce ad un altro », e questa definizione conviene alla materia, che non si può ridurre alla specie: altro è il genere che si definisce: « il subietto delle differenze », e questa definizione non conviene ala materia (1), ma a quei generi ch' egli chiamò Categorie, poichè questi sono « i primi subietti delle differenze », che uniti a queste costituiscono i generi minori e le specie, e queste sottostanno come loro materia. Le Categorie dunque non appartengono alla materia reale, ma all' ideale, e sono le specie più estese , secondo Aristotele, e però le meno determinate e comprensive. Dal che si deriva primieramente, che Aristotele non ravvisò col suo pensiero la materia ideale in tutta la sua universalità, la quale non è altro che l' essere ideale (1), poichè, se l' avesse bene ravvisata col suo pensiero, egli si sarebbe avveduto ch' ella è una specie più estesa de' suoi dieci generi, e avrebbe ridotto questi a quella come a loro sommo ed unico genere, se così si vuol chiamare, perchè subietto dialettico irreducibile ad alcun altro, e suscettivo di tutte le differenze o determinazioni. Conviene dunque riconoscere che Aristotele ammette primieramente due principii (a cui aggiunge poi per terzo la privazione «he steresis») che non si fanno (2), la materia e la specie , e quest' ultima si parte, come nei sommi suoi generi , nelle Categorie: la prima poi è il principio, da cui vengono, non i generi, ma gl' individui , supposta la forma o specie. Ma risultando dall' unione di questi due principii, materia e specie, la sostanza; rimane a vedere come questa possa tuttavia annoverarsi tra le categorie: a tal fine dobbiamo ritornare alla dottrina aristotelica, che riguarda la sostanza. Primieramente dunque la sostanza è il primo, come dicevamo, della filosofia aristotelica, perchè di tutte le entità sono prime le sostanze, [...OMISSIS...] . E questa sostanza, che costituisce il primo filosofico d' Aristotele, non è l' idea di sostanza (essenza sostanziale), nè pur l' idea piena; ma la stessa sostanza reale. Questo suo concetto il dichiara, tra gli altri luoghi, nel libro delle « Categorie », dove parla della sostanza (4). [...OMISSIS...] Non poteva designarsi in un modo più preciso la sostanza individua e reale; perchè, essendo questa il subietto reale a cui convengono i predicati, è chiaro che dire: o che il subietto è nel subietto, o che il subietto si predica del subietto, altro non sarebbe che una logomachia assurda. Questa sostanza dunque, ovvero «usia» prima , non può essere la sostanza categorica, perchè le « Categorie » sono i sommi predicabili (1). Appresso, di quella sostanza che appartiene alle Categorie, e che è l' idea o specie di sostanza, o l' essenza sostanziale, soggiunge così: [...OMISSIS...] . Non dunque la sostanza reale, ma le specie e i generi della sostanza, dette da noi anche essenze sostanziali, si riducono, come all' idea più generale, alla categoria aristotelica della sostanza; dappoichè la sostanza categorica, come l' altre categorie sono comuni , dicendo Aristotele, che « « fuori della sostanza e dell' altre cose che si predicano, niente v' ha di comune »(3) ». Convien dunque conchiudere, che le Categorie aristoteliche non sono punto una partizione dell' ente in tutta l' estensione della parola, ma una semplice classificazione degli universali, ossia delle idee. Di poi è necessario osservare su questa classificazione quanto segue: 1 Niuna delle dieci categorie esprime puramente l' ente qual è in sè, non involto nelle operazioni della mente; ma tutte significano enti misti d' entità in sè, e d' entità prodotta dalle operazioni della mente. Per convincersene si consideri che i dieci predicamenti, secondo gli Scoliasti, si riducono: 1 alla sostanza, 2 agli accidenti distribuiti in nove classi (1). Ora la sostanza è un vocabolo che nomina l' ente con una relazione agli accidenti che sono in essa; e questa relazione è un ente razionale. Di più la parola sostanza divide l' ente da' suoi accidenti. Ma questa divisione e separazione è l' opera della mente: non trovasi nella natura delle cose, dove, quantunque ci sia distinzione, non vi ha separazione, cioè non c' è sostanza (propriamente detta) divisa dagli accidenti, nè ci hanno accidenti divisi dalla sostanza; ma la sostanza e gli accidenti formano un ente solo perfetto. Nei dieci predicamenti non si parte dunque l' ente puro, qual è in natura, nè l' ente qual è nella mente intuente; ma quell' ente artefatto dalle operazioni della mente stessa, da appendici che spettano alla condizione dell' ente razionale. Insomma sostanza ed accidente si possono dire elementi dell' ente finito, ma non enti compiuti. 2 Dalle Categorie aristoteliche rimane escluso l' ente assoluto . La parola sostanza , involgendo una relazione coll' accidente, non si può in senso proprio applicare che a quell' ente che è suscettivo di accidenti. Ma l' ente assoluto non ha accidenti: dunque il suo essere non si può in senso univoco e proprio chiamare sostanza, ma semplicemente ente . Oltre di ciò l' Ente assoluto, essendo singolare, non si può predicare di cosa alcuna, e però non appartiene al novero delle Categorie; ma è un' ousia prima. 3 Manca ancora nelle Categorie la sussistenza, «ypostasis», e la persona, «prosopon» (1). E qui è da notarsi, che i greci filosofi non isvilupparono mai il concetto di persona; e questo stesso vocabolo, nel senso filosofico, è dovuto ai dottori ecclesiastici, i quali n' abbisognarono per esprimere la sublime dottrina della Trinità, facendo con ciò grandissima giunta alla filosofia. 4 Manca oltreacciò per intero nelle Categorie aristoteliche l' essere morale , che è pure una forma primitiva dell' essere, la quale con niun' altra si può confondere o ridurre a nessun altro genere. 5 La categoria del luogo, «pu», porge due osservazioni a farsi: la prima, che altro è il luogo , altro lo spazio . Il luogo è una determinata parte dello spazio considerata in relazione dei corpi reali o immaginarii, che la occupano. Quindi il luogo non è che una relazione contenuta nella categoria «pros ti», laddove lo spazio è, sotto un certo aspetto, assoluto. Forse i greci non avevano una parola che significasse l' equivalente del nostro spazio puro ed assoluto, perocchè «diastema», non significa spazio, ma intervallo, o spazio limitato. S' avvicina però a significare lo spazio puro la parola «ekteneia», che vale estensione, benchè in greco, se non erro, ha più forza di significare l' atto dello estendersi, che lo spazio esteso; e così pure la parola «syneches», che suona continuo , e fu usata dagli Eleati appunto a significare il continuo esteso dell' universo, e finalmente la parola «chora» che vale recettacolo , e che io credo veramente sia adoperata da Platone per indicare lo spazio, benchè non senza una relazione al corpo in esso contenuto. Ma la ragione principale, per la quale Aristotele introducesse nelle sue Categorie il luogo e non lo spazio, probabilmente si è perchè avendo egli considerato nelle Categorie altrettanti modi di predicare, doveva fermarsi al luogo che si predica de' corpi, anzichè allo spazio illimitato che non si predica de' corpi. E tuttavia tra lo spazio illimitato, e il luogo (spazio relativo), c' è ancora lo spazio limitato occupato da' corpi (spazio limitato), il quale si predica de' corpi. Perchè l' ha dunque omesso il nostro filosofo? Si può rispondere che l' abbia compreso nella categoria della quantità «to poson». 6 Le categorie del luogo ( «pu»), e della situazione ( «keisthai») non sono modi con cui si predica l' ente in universale, ma un ente particolare, cioè l' ente esteso e corporeo. Ora le Categorie, nel senso d' Aristotele, non sembrano descrivere quante maniere si possano predicare le particolari specie di enti, nel qual caso il loro numero dovrebbe crescere pressochè all' infinito; ma sì quante sieno le maniere generalissime di predicare. Ora questo prendere l' ente esteso quasi fosse universale, quasi il luogo e la situazione propria dei corpi fossero predicamenti di ogni ente, dimostra, come la mente del filosofo era legata ai sensi ed agli enti corporei. Onde la sua ontologia riuscì angusta, perchè cavata principalmente dalla considerazione dell' infima specie degli enti, quali sono i corporei, anzichè dalla considerazione dell' ente in se stesso, senza restrinzioni positive ed arbitrarie. 7 Se tutte le Categorie di Aristotele sono enti involti in appendici provenienti dalle operazioni dell' intendimento, alcune sono al tutto enti razionali come la quarta, che è la relazione «pros ti». Vero è, che ci hanno certe relazioni oggettive: ma, oltre che il filosofo qui non le distingue dall' altre giacchè il «pros ti» abbraccia tutte le relazioni senza distinzione, è da considerarsi di più, che le tre ultime categorie ch' egli enumera l' avere , il fare , e il patire ( «echein, poiein, paschein»), sono relazioni reali. Onde da una parte la divisione delle categorie riesce imperfetta, perchè nella quarta «pros ti» già queste tre ultime si contengono; dall' altra, se queste categorie si escludono dalla categoria della relazione, questa non abbraccia quasi più altro che meri enti di ragione. Se non che, volendo enumerare le relazioni reali a parte, ne avrebbe dovuto aggiungere molte che omise, e principalmente il ricevere , che Aristotele confonde bene spesso col patire , ma a torto, perchè il patire involge il concetto d' una modificazione che l' agente produce nel subietto paziente; laddove il ricevere semplicemente non acchiude questo concetto, potendo il ricevente ricevere senz' esserne egli stesso modificato. Che se di più si considera la spiegazione che il nostro stesso filosofo dà delle Categorie, vedesi che egli riduce alla categoria della relazione anche la quantità comparativa, come il maggiore, il doppio ecc., e la posizione. Distingue adunque i varii aspetti, sotto i quali lo spirito considera le stesse cose, e ne forma varie categorie (1). Onde dice che il giacimento e la sessione , e gli altri atteggiamenti , sono ad altro; cioè esprimono relazioni: ma il giacere , lo stare , il sedere , ecc., non sono relazioni, ma sono denominati dalle posizioni rispettive le quali sono relazioni. Il che dimostra che la distinzione delle Categorie è tutta dialettica , come deve essere, perchè tolta dal predicare, sicchè esse si distinguono secondo il senso preciso delle parole, e però secondo le relazioni mentali significate dalle parole, di maniera che la posizione, per es., la giacitura, ecc. appartiene ad una categoria, cioè alla categoria «pros ti», e all' incontro lo stare, il giacere, ecc. appartiene ad un' altra categoria, cioè alla categoria «keisthai». E osserveremo anche qui di passaggio la somma diligenza che è necessario adoperare in tradurre un autore così dialettico, perchè, sostituendo una forma all' altra di dire, perisce spesso il vero sentimento che voleva esprimere il filosofo. La stessa cosa può appartenere a più predicamenti, secondo l' aspetto in cui la si considera e il modo con cui ella verbalmente s' esprime. Prendiamo l' esempio dall' ottava categoria «echein», che da alcuni si traduce impropriamente habitus . Se si considera e si esprime AVERE, l' abito appartiene all' ottavo predicamento «echein»; se l' abito si considera come una relazione a chi lo ha, appartiene al quarto predicamento «pros ti», come si rileva dal capo III del libro « Dei Predicamenti »; se si considera come un abito che affetta e qualifica chi lo ha (il che accade specialmente degli abiti spirituali), appartiene al terzo predicamento «to poion», come pure si dice nel capo 4 del citato libro. Laonde Aristotele nell' opera « Dei Predicamenti » fin da principio definì quali sieno i nomi denominativi, cioè quelli che vengono imposti agli enti da qualche cosa di accidentale, come grammatico da grammatica, e però sono casualmente differenti dai predicamenti, dunque si denominano le cose, e le cose stesse così denominate cangiano talor di predicamenti. Affine adunque d' intendere i predicamenti, giova aggiunger loro il verbo essere che esprima la forma della predicazione, come nella seguente: «e usia» «to poson» «to poion» «pros ti» «pu» «pote» «keisthai» «echein» «poiein» «paschein» Le Categorie dunque d' Aristotele non compartiscono l' ente, ma distinguono i modi di predicare qualche cosa dell' ente, e quindi i concetti diversi, secondo i quali si considerano gli enti. Di più Aristotele distingue il modo di predicare una cosa d' un' altra da ciò che si predica . I modi di predicare li chiama predicamenti o categorie , e ciò di cui in ciascun modo si predica, li chiama predicabili o categoremi. I predicabili, di cui parla ne' libri « De' luoghi » si riducono a quattro: il termine , il proprio , il genere , l' accidente: e sotto il genere comprende la differenza specifica e la specie, che è lo stesso genere coll' aggiunta della differenza. Dice adunque, che in ciascun dei detti modi di predicare si possono predicare quattro cose: il termine , cioè la quiddità della cosa, o il proprio , cioè una tale qualità che sia propria di quella sola cosa di cui si parla, come dell' uomo aver la facoltà d' imparare la grammatica (il che non costituisce l' essenza dell' uomo, ma è sempre unito all' essenza), o il genere colle differenze e le specie, o l' accidente (1). Questi predicabili o ricevono le loro determinazioni da questi quattro predicabili (2). Per esempio, se noi prendiamo il predicamento quale , questo quale si può definire, o esprimendone l' essenza (predicabile «Horos») o esprimendo qualche sua proprietà che non è però la sua essenza, ma conseguente ad essa (predicabile «idion»), si può ancora definire genericamente (predicabile «genos»), si può definire specificamente cioè col genere e colla differenza (predicabile «eidos», e «diafora»), e si può definire indicando solo qualche suo accidente (predicabile «symbebekos»). E così i predicabili si possono applicare alla definizione dei predicamenti . Concludiamo, le Categorie aristoteliche non danno una partizione ontologica dell' ente, ma dialettica; ed anche questa manchevole. Non soddisfanno dunque alle esigenze dell' Ontologia. L' aristotelismo, prevalso nelle scuole, racchiuse gl' ingegni entro il circolo delle partizioni dialettiche, e se alcuno tentò di uscire da quella cerchia, e spaziare negli ordini degli enti, non gli riuscì bene l' audacia, impotente a vincere le difficoltà del cammino scientifico, non tracciato quasi da piede alcuno, e la guerra degli uomini. Onde, quantunque nella storia della Filosofia si trovino molti tentativi dialettici sforzi di classificare più ampiamente che non aveva fatto Aristotele i concetti generali delle cose, componendo arti magne e mnemoniche e lingue universali, da Raimondo Lullo specialmente sino a Leibnizio; tuttavia invano si cercherebbe ne' lavori anteriori al passato secolo qualche veduta nuova ed originale sulla partizione ontologica dell' ente. Conviene dunque discendere fino al Kant, il quale tuttavia dichiara, che il suo scopo nel disegnare le Categorie è quel medesimo ch' ebbe Aristotele (1). E di vero, che anche la partizione del Kant sia dialettica anzichè ontologica , si rileva da questo, ch' egli parte dal principio che « pensare è giudicare », come Aristotele parte dal principio che « i modi del predicare sono i modi dell' essere ». I due filosofi in questo vanno a pieno d' accordo. E che « pensare sia giudicare », noi l' accordiamo (2), perocchè pensare è propriamente usare della facoltà del pensiero. Ora analizzando l' atto del pensiero trovasi che questo suppone una facoltà innata, e che questa suppone l' intuizione primitiva ed immanente dell' essere. Così dal pensare, cioè dal giudicare, il Kant si sarebbe potuto sollevare alla vera teoria dell' umana intelligenza. Ma, invece di ricercare le condizioni del pensiero le vere anticipazioni, egli s' occupò unicamente, come avea pure fatto Aristotele, delle forme del pensiero, e credette avere esaurito il suo argomento, quando le avesse diligentemente classificate e distinte. E come Aristotele prese a classificare gli enti misti di entità a parte sui e di operazioni mentali, senza accorgersi di tale mistura, così pure fece il Kant; ma con questa differenza, che quella parte, che gli enti aristotelici aveano d' attorno pel lavorìo soggettivo della mente, fu presa dallo Stagirita come fosse anch' essa entità vera a parte sui; laddove Kant, eguale ad Aristotele nel tenere le due parti confuse, prese anche la parte, che era vera entità a parte sui , per cosa soggettiva, razionale, dalla mente lavorata e prodotta. Onde il dialettico Kant diede nell' eccesso opposto a quello in cui avea peccato il dialettico Aristotele. Il Kant s' accorse che le cognizioni che cadono nell' umana mente, altre sono necessarie ed universali, altre sono contingenti e particolari. Que' giudizi , che non ponno intendersi se non concependo la necessità e l' universalità, li chiamò a priori , e se non sono dedotti da niun elemento empirico precedente, li disse a priori puri: que' giudizi che si ponno intendere senza ricorrere alla necessità ed universalità, egli li nominò a posteriori . Fin qui niente accade da osservare. Ma quando viene a determinare onde nasca la necessità e l' universalità da una parte, la contingenza e la particolarità dall' altra, allora egli stabilisce un criterio evidentemente erroneo, il quale, come è il fonte del criticismo, così pure è il fonte dell' erroneità di tale sistema. Il principio è questo: [...OMISSIS...] . Egli è pur singolare a vedere con quale leggerezza e sicurtà Kant ammette questo principio. Egli avrebbe dovuto darsi tutta la cura di provarlo con dimostrazione rigorosa, giacchè trattasi del fondamento unico su cui posa tutto l' edificio della sua filosofia. E pure nulla di questo. - Egli lo introduce a principio nel discorso quasi per incidenza (3) come cosa che viene da sè, su cui non si aspetta dal lettore la minima opposizione. [...OMISSIS...] Egli dunque dà per cosa certissima che, se qualche cosa vi ha nelle cognizioni umane che non venga dall' esperienza, debba necessariamente esser prodotta dalla stessa nostra facoltà di conoscere, e che le cognizioni umane non possano avere alcun altro fonte fuori di questi due: 1 i sensi , e 2 la stessa facoltà di conoscere . Tuttavia se egli avesse indagato la natura della facoltà di conoscere, non già dalle supposte produzioni di lei, ma dal rapporto che passa tra lei ed i suoi oggetti necessarii, egli avrebbe trovato ancora il varco d' uscire dal labirinto del soggettivismo. Ma vi si perdette irrimediabilmente, posciachè prese la facoltà di conoscere unicamente come attività del soggetto, o mosse da un principio anticipato, ch' ella producesse a sè stessa tutto ciò che si trova nelle sue cognizioni, e che non viene dato dai sensi. Questo è il pregiudizio della filosofia Kantiana, il postulato arbitrario, il punto in aria a cui il filosofo appoggia la leva per muovere da' suoi cardini il mondo scientifico. Posto che ciò che si trova nelle cognizioni umane travalicante il confine dell' esperienza è una mera produzione della facoltà di conoscere, ne consegue necessariamente, che ad indagare la natura di tale facoltà basti occuparsi in enumerare con accuratezza e classificare queste sue produzioni. Tale adunque fu il campo, in cui si esercitò il filosofo di K”nisberga. Quel pregiudizio fondamentale gli prescriveva il cammino da tenersi nell' investigare la natura dell' intelligenza, e quindi lo impediva d' investigare questa natura per altra via che la segnata da quel pregiudizio stesso. Quindi la natura della facoltà di conoscere rimase incognita a Kant, il quale non fece che ricevere la descrizione di questa facoltà quale gliela dava il mentovato pregiudizio ch' ella fosse la causa producente di ciò che si conosce oltre i limiti dell' esperienza. Egli è ancora singolare a vedere, quanta fiducia dimostri questo filosofo ne' dati dei sensi, e quanto poca, anzi nulla, ei ne conservi pei dati dell' intelligenza. Questo è il costante carattere de' sensisti: ai sensi essi credono ciecamente: le loro deposizioni sono le sole oggettive, come espressamente dice fra noi il Galuppi: l' intelligenza sola non ha alcuna virtù di cogliere dei veri oggetti, ma sol de' fenomeni. Favellando di ciò che l' intelligenza crede conoscere al di là dell' esperienza, ei la rassomiglia alla colomba che sentendo la resistenza dell' aria s' immaginasse di volare più facilmente e liberamente nel vuoto. [...OMISSIS...] Nel qual discorso si ammette come indubitato che il sensibile sia il solo punto d' appoggio che abbiano le ali dell' intelletto, e che senza il sensibile l' intelligenza non trova che campi vuoti. Non sono questi i soliti pregiudizi volgari dei sensisti? i quali non si son saputi svestire nè pure da colui che pretese di darci un sistema di filosofia trascendentale! E veramente, che questo sia pregiudizio, fede cieca e volgare ai sensi, incredulità arbitraria e parimenti cieca alla deposizione dell' intelligenza, si può desumere da questa riflessione: Non meno il senso che l' intelligenza sono potenze dell' uomo; Non meno il senso che l' intelligenza hanno dei loro proprŒ termini, cioè il senso ha i termini sensibili, l' intelligenza i termini intelligibili; Non meno il senso che l' intelligenza ha questa legge che non percepisce il suo termine, se non a condizione che egli sia congiunto colla sua potenza: di maniera che egli è un pregiudizio volgarissimo il credere che il senso percepisca i suoi termini in quanto sono staccati da lui, e in questo senso esterni; onde se per esterni si intende staccati dalla potenza, è falso che il senso percepisca meglio che l' intelligenza un' entità esteriore. Se adunque la condizione delle due potenze in tutte queste condizioni è uguale, perchè mai, se non per un mero arbitrio, si dichiara che il senso ha virtù di percepire veri oggetti, e non così l' intelligenza? Questo è il medesimo che sragionare in questo modo: [...OMISSIS...] . Ma onde si prova la minore di questo sillogismo? Da nessuna parte, per nessuna via. - Essa non è che l' espressione della profonda INCREDULITA` che si è messa negli animi alle cose sopra sensibili; la prova evidente della corruzione e DELLA MATERIALITA` DEL SECOLO. Se invece di asserire ciò che detta l' incredulità preconcepita alle cose spirituali, si volesse veramente ragionare e filosofare, si perverrebbe ad un risultamento assai diverso; cioè si conoscerebbe: 1 Che il senso non attesta nulla per sè solo, e non ha alcuna virtù oggettiva perchè esso ha termini, ma non oggetti: 2 Che è solo l' intelligenza quella che vede i fenomeni e le entità sensibili nel vero oggetto intelligibile, l' ente da lei intuìto fuori di tutti i sensi corporei, e così gli oggettivizza, ossia li conosce come enti, come oggetti distinti dalla facoltà; 3 Che la intelligenza per conseguenza ha un oggetto al tutto superiore al mondo sensibile, e che quello è il solo vero oggetto dal quale viene l' oggettività alle stesse entità sensibili; 4 Che la sola intelligenza perciò ha vera virtù oggettiva, cioè ella sola è la facoltà di farci conoscere con certezza le cose come sono in sè, e distinguere da noi stessi quelle che sono da noi distinte. I sensisti adunque, e Kant con essi, cadono fra l' altre in questa inconseguenza, che prestano tutta fede alla ragione quando ci asserisce qualche cosa intorno agli oggetti sensibili, e le negano fede quando con eguale o ancor maggior asseveranza ella ci asserisce qualche cosa intorno agli oggetti intelligibili; quasi che una stessa facoltà potesse essere ad un tempo e verace e menzognera secondo il bel piacere de' filosofi materiali. Per altro, quello che è ancor più assurdo si è il dilemma Kantiano: che ciò che non viene dall' esperienza debba venire dal soggetto intelligente; e però che non venendo dall' esperienza dei sensi il necessario e l' universale, questo dee venire dal fondo dell' uomo stesso. Questo argomento si potrebbe rovesciare, e riterrebbe lo stesso valore del precedente, dicendo: « Il necessario e l' universale non può venire dal soggetto intelligente, perchè questo non è nè necessario nè universale; dunque deve venire dall' esperienza ». Questo « dunque deve venire dall' esperienza », vale altrettanto del primo « dunque deve venire dal fondo dell' uomo ». L' uno e l' altro nulla provano, anzi sono manifestamente erronei. La radice di questo errore, si è il non distinguersi la facoltà dell' umana intelligenza dagli oggetti dell' intelligenza: quella è contingente e particolare, questi sono necessarii ed universali. Questi dunque non possono venire da quella, perchè l' effetto non può essere maggiore della sua causa (1). Ma datemi un uomo pregiudicato, un uomo che già precedentemente abbia invincibile ripugnanza (benchè non sorretta da ragione alcuna) ad ammettere oggetti intelligibili diversi da' sensibili. Questi che farà? Si getterà ad asserirvi francamente (perchè tali prevenuti asseriscono, non ragionano), che quelle qualità di universalità e di necessità non possono essere che apparenti, il che è quanto dire che si potrebbe pensare che l' ente non fosse ente, o che si potrebbe pensare qualche cosa fuori dell' ente, distruggendo così tutti i principŒ della ragione. Se Kant, o piuttosto il suo secolo e il suo paese non avessero rotto il filo della tradizione filosofica, egli avrebbe potuto imparare da que' pensatori che vissero molti secoli prima, che vi ha ripugnanza intrinseca in fare che « la natura contingente produca il necessario, l' universale, l' eterno », caratteri di cui sono forniti gli esseri ideali, e che, o convien negare i principŒ della ragione, e perciò rinunciare del tutto a filosofare, giacchè in qualsiasi modo si filosofa, si fa sempre usando di que' principii; o convien cercare altronde l' origine degli oggetti ideali, e de' loro eccelsi attributi. Io ho già citato altrove questo passo della sublime operetta che ha per titolo « Itinerario della mente a Dio », che qui riproduco: [...OMISSIS...] . Il quale argomento è così evidente, che nessun sofisma il potrà abbattere giammai. Malebranche ripetè questo argomento, ma avendo confuso l' oggetto eterno , che lo spirito nostro vede, col soggetto eterno (i quali sono una cosa in sè, ma sono due cose rispetto al nostro spirito) preparò la via a' moderni soggettivisti. [...OMISSIS...] Ma il Malebranche altrove sostituisce alle idee la sapienza di Dio; la quale appartiene a Dio, concepito come soggetto. La sapienza divina ha per termine le idee, o piuttosto il Verbo divino; e noi non vediamo mica la sapienza divina naturalmente, ma vediamo le idee nostre, le quali, senza la divisione che hanno nella mente nostra, nel Verbo divino con unità perfettissima si contengono. Onde, quantunque sia vero che noi siamo illuminati dal Verbo, non è però vero che vediamo per natura lo stesso Verbo, o il modo col quale le idee si unificano nel Verbo. Epperò nè pure è vero che vediamo la sostanza divina, o le idee nostre quali sono nella divina sostanza. Conosciuto il vizio radicale della filosofia critica; conosciuto com' ella si eriga sulla fracida base di un pregiudizio materiale e cieco: vano è sperare di trovare in essa una buona Ontologia. Tuttavia vediam brevemente quali sieno le partizioni dell' ente, che questo filosofo ci viene proponendo. L' ente di Kant, parte prodotto, parte dipendente dalle facoltà dell' uomo, dovea partirsi come queste facoltà; le quali egli riduce a tre: Senso, Intelletto, Ragione . L' Estetica trascendentale, cioè la dottrina della sensitività, ci sembra la parte migliore della « Critica della Ragione pura ». Ma ella soggiace tuttavia alle seguenti opposizioni: 1 Kant, seguitando non pochi filosofi che il precedettero (1), considerò lo spazio ed il tempo come fossero cose della stessa condizione: e dichiarò il primo forma della sensitività esterna, e il secondo forma della sensitività interna. Ma il tempo non si riferisce meno agli enti esterni, cioè a quelli che sono nello spazio, che agli enti spirituali, come sarebbe l' anima nostra e le sue modificazioni: dunque se fosse forma della sensitività, egli dovrebbe esserlo non meno dell' esterna che dell' interna. 2 Il tempo non si può pensare se non come una successione di cose almeno possibili; e se non si pensa questa possibilità, non si pensa al tempo: laddove io posso pensare lo spazio, non già senza la possibilità de' corpi, ma bensì senza pensare alla possibilità de' corpi, come un' estensione illimitata vacua del tutto (2). Quindi il concetto del tempo stà essenzialmente nella relazione di più cose che si succedono. All' incontro lo spazio si concepisce immobile, indivisibile, uniforme, senza alcuna necessaria relazione ai corpi. Il tempo adunque come concetto, consistendo in una relazione, esige un oggetto intellettuale; perocchè ogni relazione tra più cose che non agiscano tra loro, appartiene alla mente, appartiene cioè all' ordine che hanno le cose nella mente «(V. Antrop. , p. 276, 277) ». 3 Se poi si cerca in che consista tale relazione, ella si trova nella limitazione e mutabilità delle cose contingenti, riferita dalla mente all' illimitazione, immutabilità, ed eternità dell' ente, col quale conosciamo le cose. Ma questa eternità dell' ente che sta innanzi alle menti, benchè necessaria a concepire il tempo come termine di confronto, tuttavia non è lo stesso tempo. Laonde quel tempo puro di cui parla Kant come necessario a conoscere il tempo empirico, non è il tempo, ma è la stessa eternità dell' ente di cui noi abbiamo l' intuito, alla quale noi confrontiamo le cose variabili, o possibili o reali. Imperocchè veramente noi non potremmo dire che le cose si succedono, non potremmo concepire la successione, se non avessimo prima concepita la non successione, cioè la stabile presenza dell' ente; quel concetto supponendo questo come un suo relativo antecedente. Noi abbiamo già dimostrato nella « Psicologia » che la successione non può essere concepita, se non è tutta simultaneamente presente allo spirito: il concetto dunque della successione dimanda un modo di concepire simultaneo ed immobile, e questo ci viene dalla natura dell' ente intuìto che è fuori dello spazio e del tempo «( Psicol., p. 1179) (1) ». Il tempo astratto dalle cose è un ente di ragione, un vero concetto astratto e composto; ma il tempo affermato nelle cose è un' entità mista consistente in « un rapporto differenziale che hanno le cose contingenti da noi concepite coll' essere immutabile da noi intuìto, il qual rapporto sta nel riconoscere la successione di quelle nella presenzialità di questo ». 4 All' incontro lo spazio ha egli natura di concetto intellettivo? Quei filosofi che l' asseriscono come Kant (1), confondono il concetto dello spazio collo spazio. Che lo spazio abbia un concetto come l' hanno tutti i corpi, ciò è indubitato; ma che lo spazio stesso sia un concetto, questo è falso. 5 Kant dice che [...OMISSIS...] , e con ciò intende provare la necessità dello spazio, e quindi la sua provenienza soggettiva. Ma egli è falso, che non si possa prescindere col pensiero dallo spazio. Quand' io penso ad un' idea, o ad uno spirito, non penso allo spazio. Ora non potrei io limitare il mio pensiero a pensare a tali cose immuni affatto di spazio? E non posso anche concepire la possibilità che Iddio avesse prodotti de' soli spiriti, i quali non pensassero che a cose spirituali, nel qual caso egli non avrebbe creato lo spazio. Niente di ripugnante in ciò. Lo spazio adunque non è necessario, ma contingente, e creato. Che cosa è adunque lo spazio? Egli è un termine del nostro sentimento fondamentale; è una realità: egli appartiene dunque alla potenza della sensitività corporea come un' antecedente e condizion sua necessaria; è una forma, ma forma distinta dalla stessa sensitività, come più a lungo abbiam detto nell' « Antropologia » e nella « Psicologia » «( Antrop. , II; Psic. p. 554 e seg.) ». 6 Finalmente Kant crede che senza spazio e tempo non si possa pensare, non si possa avere alcun oggetto nel pensiero, e che per ciò essi si trovino in tutti i concetti dell' intendimento (1). Ma benchè ad assentire a questa dottrina siano inclinati gli uomini, perchè la loro attenzione è assorbita, quasi direi, dai corpi e dai loro fenomeni; tuttavia non lice ad un filosofo procedere così materialmente da non intendere che la mente pensa alle essenze le quali sono per sè oggetti, e sono tuttavia immuni da ogni spazio e da ogni tempo. Dal quale errore di fatto Kant ritrasse un grande svantaggio nella deduzione delle sue categorie, perocchè egli non pensò a classificare in esse se non gli oggetti che soggiacciono allo spazio e al tempo, come tosto vedremo (1). Veniamo ora alla derivazione de' concetti fondamentali della mente che Kant appella categorie. Kant primieramente confonde i giudizi co' concetti , descrivendo quelli come un' aggregazione di questi. Egli è prezzo dell' opera, che noi qui esaminiamo con qualche diligenza la dottrina Kantiana del giudizio, onde il nostro filosofo deduce tutta quanta la sua teoria filosofica, discoprendo i vizŒ di questa teoria nella loro radice, dopo avere svelati quelli che giaciono ne' preliminari di lei. A tal fine esponiamo la dottrina del giudizio colle parole stesse di Kant. [...OMISSIS...] . Egli prende quindi a classificare queste funzioni dell' unità nel giudizio , e ne fa uscire quattro generi dei giudizŒ, suddiviso ciascuno in tre specie, e così trova dodici classi di giudizŒ, ciascun de' quali somministra un attributo generale; e questi dodici attributi sono i dodici concetti fondamentali , ossia le dodici categorie di Kant. Ora ecco i vizŒ radicali di questo che egli chiama « « filo conduttore per iscoprire i concetti puri dell' intendimento » ». 1 Dicendo Kant che giudicare (sinonimo di pensare) è conoscere per via di concetti, egli omette nella definizione del giudizio quell' elemento che ne costituisce l' essenza, voglio dire la copula. La copula di ogni giudizio, anche del giudizio negativo, si riduce all' affermazione , onde fu detto giustamente che giudicare è affermare . Quindi è del tutto falso, che giudicare sia conoscere per via di concetti: anzi il vero si è che « « giudicare è conoscere per via di affermazione, o, se si vuole un termine più generale, per via di predicazione » ». Nell' atto di affermare o di predicare sta l' essenza del giudizio. Ora il conoscere per via di concetti, e il conoscere per via di affermazione, sono cose distintissime, e costituiscono le due grandi classi del sapere umano che abbracciano « le cognizioni ideali », o, come noi sogliamo anche chiamarle, intuitive, le quali sono quelle che si hanno per via d' idee o di concetti; e « cognizioni di predicazione »; alle quali soltanto appartengono i giudizŒ «( Psicol. , n. 1006 e seg.) ». 2 Non avendo Kant conosciuta la differenza essenziale che passa fra il conoscere per concetto, e il conoscere per affermazione, egli disse che [...OMISSIS...] . Se ogni cognizione umana fosse un conoscere per meri concetti, nulla si conoscerebbe per via di giudizio ossia per via di affermazione. All' incontro Kant dice ancora, che tutto si conosce per via di giudizŒ. Ella è questa in se stessa una patente contraddizione; la quale nasce dalla confusione fatta da questo filosofo tra concetti e giudizŒ; avendo egli nel seno dei concetti introdotti, senz' accorgersi, i giudizŒ. All' incontro concetto e affermazione sono cose affatto distinte: il concetto pone innanzi alla mente l' essenza delle cose racchiusa nel concetto, e questa essenza è data all' uomo, non già formata dall' operazione dello spirito stesso: l' uomo non fa che intuirla tale quale gli è data (1). Erra dunque grandemente Kant sopprimendo una delle due grandi classi del conoscere umano; cioè confondendole in una, ed a quest' una concedendo gli attributi di entrambe. 3 Ma onde una tanta confusione in un pensatore così profondo? - Dal sensismo del suo secolo; ed ecco in che modo ella provenne. I sensisti non arrivano mai e non possono arrivare ad intendere la natura del concetto, perocchè essi non riconoscono altri oggetti che quelli somministrati dall' esperienza dei sensi. Kant professa espressamente questa dottrina, e con essa incomincia la sua « Critica della Ragion Pura », ammettendola come cosa fuori di controversia, e non bisognevole di prova alcuna (2). Or tutto il criticismo non è altro in fine, che lo sviluppo di questa prima proposizione sensistica introdotta senza la menoma prova. Posto adunque che non si abbiano altri oggetti de' sensi, ne seguiva che nè pure fossero possibili de' veri concetti, perocchè concetti senza oggetto alcuno, sono un bel nulla. Per essere coerenti conveniva adunque negare affatto l' esistenza de' concetti, come fecero altri sensisti. Ma fra i sensisti ve n' ebbero alcuni a cui ripugnò di negare affatto i concetti, i quali sono ammessi da tutto il mondo, e la cui esistenza è troppo evidente; e di questi uno fu Kant. Che fecero adunque questi sensisti? Falsarono la definizione de' concetti: ne ritennero il nome, ma ne descrissero la natura tutto in servizio del sensismo da essi professato. Ecco in che modo alcuni pretesero che i concetti non fossero che collezioni d' individui (1). Kant venne allo stesso, ma il disse più oscuramente, usando il suo solito stile. Disse cioè, che i concetti contenevano in sè un moltiplice , una varietà, [...OMISSIS...] cioè tutti gli oggetti a cui si possono riferire; e che era lo spirito quello che esercitando una sua propria funzione (2) dava l' unità a quel vario moltiplice. Egli parla a lungo di questa sintesi che vi fa nascere dall' unità della coscienza del soggetto percipiente; il che se fosse, non si avrebbe che un concetto solo. Perchè il soggetto percipiente è un solo, Egli non considera che avanti il molteplice deve essere il semplice, e che ogni semplice basta a fare che l' intendimento intuisca un concetto. Egli non considera che l' essere ogni concetto generale non vuol dire che egli sia moltiplice, come diremo tantosto; nè s' accorge che l' introdurre una facoltà della rappresentazione è un pregiudicare la questione, perchè si tratta appunto di questo, come sia possibile la rappresentazione; e prima ancora, che cosa sia la rappresentazione, qual sia la natura di questa facoltà supposta di rappresentarsi le cose. 4 Ma per venire a quel che dicevamo, egli è un errore di tutti i sensisti il prendere la generalità propria de' concetti per una loro moltiplicità. Generalità e moltiplicità sono cose non solo diverse, ma opposte. Quello che è moltiplice, non può esser generale in quant' è moltiplice, perocchè la nozione del moltiplice non dà che un aggregato di particolari, a ciascuno de' quali manca la generalità. Il solo semplice può avere la dote della generalità . Per convincersene basta osservare attentamente in che consista la generalità de' concetti, e si vedrà che un concetto benchè generale è semplicissimo. In fatti che cosa vuol dire un concetto generale? Non vuol dire altro se non che con quel concetto si conoscono infiniti individui possibili: per esempio, col concetto uomo io conosco tutti gli uomini possibili in quanto sono uomini. Ma qui si noti: tutti questi che si conoscono, esistono fuori del concetto; ma tutti hanno la stessa relazione col concetto come col loro tipo comune. La pluralità dunque non è nel concetto, ma è negli individui che si conoscono col concetto, e che non sono il concetto. Confondere gl' individui conosciuti col concetto che li fa conoscere, attribuire la pluralità di quelli a questo, che, benchè semplicissimo, li rende noti, è il perpetuo errore de' sensisti, l' errore dominante nel sistema di Kant. La generalità dunque, ovvero universalità del concetto non è alcuna pluralità, ma non altro significa se non che quel concetto ha una relazione identica con molti individui, e questa relazione consiste nell' essere egli la loro comune intelligibilità. Sono adunque affatto erronee le sopradditate parole di Kant: [...OMISSIS...] . E veramente il concetto di corpo non significa mica un metallo, in quanto è metallo, ma significa un metallo in quanto è corpo. Laonde la rappresentazione del metallo come metallo non entra mica nel concetto di corpo. Onde quantunque col concetto, di corpo si possano conoscere tutti i corpi, tuttavia non si possono mica conoscere le loro differenze, nè distinguere un corpo dall' altro: perocchè a qualunque oggetto si riferisca quel concetto, altro mai non dà che una rappresentazione sola, quella di corpo; e se voglio conoscere il metallo o altra specie di corpo ho bisogno di altri concetti. Onde niun concetto fa conoscere altro se non una sola essenza: e se fa conoscere più essenze, non è un concetto solo, ma più concetti composti. Onde il dire che un concetto contiene in sè altre rappresentazioni, è un confondere un concetto con altri concetti che si possono benissimo aggiungere al primo, ma che non sono il primo. Ogni concetto adunque è semplice come tale, ed è universale in questo senso che l' essenza, cui rappresenta, può essere realizzata replicatamente senza fine; e tutte queste realità, in quanto realizzano quest' essenza, con quella sola e semplice essenza possono essere conosciute. 5 Trasportando adunque Kant nei concetti le proprietà dei reali, che coi giudizŒ si conoscono, come la plurità e la varietà, non è maraviglia ch' egli non potesse più distinguere la scienza che si ha per via di concetti, dalla scienza che si ha per via di giudizŒ; e che definisse il pensare, cioè il giudicare, un conoscere per concetti. Non riguardò adunque più il concetto se non come un elemento del giudizio, che però dall' analisi del giudizio si doveva desumere, definendo il concetto unicamente come « l' attributo di un giudizio possibile », e così disconoscendo che il concetto, come tale, ha un valore suo proprio antecedente al giudizio; giacchè il giudizio non è che un' applicazione di esso. A torto adunque egli considerò come « « filo conduttore a discoprire i concetti dall' intendimento la classificazione dei giudizŒ » »; quando anzi la classificazione dei concetti si potrebbe pigliare a filo conduttore per discoprire quali esser possano i giudizŒ. L' aver dunque sommessi i concetti ai giudizŒ, pose Kant sopra una falsa strada, e gli impedì interamente di conoscere la vera natura oggettiva de' concetti, e dell' intuizione che fa di essi la mente. Ma qual fu la classificazione dei giudizŒ di Kant? Fu qual dovea essere, erronea del tutto, dopo che avea attribuito ai concetti le proprietà dei giudizŒ, e a' giudizŒ le proprietà dei concetti, e confusa in una parola l' indole degli uni coll' indole degli altri. Acciocchè le nostre osservazioni riescano più chiare, sommettiamo prima agli occhi del lettore la tavola Kantiana delle diverse maniere di giudizŒ. Ed è la seguente: [...OMISSIS...] 1 Queste quattro grandi classi di giudizŒ ci sono date da Kant sulla sua parola, poichè non fa alcun ragionamento che provi che questa classificazione sia legittima e completa. 2 Che i giudizŒ abbiano qualità , questo è manifesto, ma che i giudizŒ abbiano quantità, relazione e modalità , questo è evidentemente falso. Quando si sono tratte fuori tutte le qualità de' giudizŒ, la loro classificazione è compiuta. Altro è la classificazione de' giudizŒ, altro la classificazione degli oggetti loro. Se noi diremo che i giudizŒ sono affermativi, negativi, limitativi , avremo in qualche modo classificati i giudizŒ; che se vogliamo classificare gli oggetti de' giudizŒ, questi oggetti possono benissimo avere un quanto , un quale , una relazione , ed un modo . Ma ella è regola logica, che « ogni retta classificazione deve avere una base sola »; e quella di Kant varia di base. Perocchè la divisione de' giudizŒ in affermativi, negativi e limitativi ha per base la diversità della copula che costituisce formalmente il giudizio; all' incontro la divisione de' giudizŒ in generali, particolari e singolari, ha per base l' oggetto, ossia la materia del giudizio. Variano adunque le basi della classificazione. D' altra parte, se un giudizio afferma, egli appartiene alla stessa specie, qualunque sia l' oggetto affermato; il contenuto del giudizio non cangia punto la sua specie, e però non può costituire una nuova classe. La quale osservazione non isfuggì interamente alla sagacità di Kant: ma ei pretese giustificarsi dicendo, che non considerava i giudizŒ, come giudizŒ, ma come semplici cognizioni (1). Il che è scusa vana, e di quelle che impacciano il processo del discorso filosofico. Perocchè altro è classificare le cognizioni , altro i giudizŒ: e se voi distinguete quelle da questi, e volete classificar quelle, perchè vi occupate a classificar questi? Si sente da per tutto l' imbarazzo con cui procede Kant, pel principio sistematico di confondere la natura de' concetti colla natura de' giudizŒ. Questa avvertenza cade in acconcio sovente ne' ragionamenti di Kant. 3 Nella tavola di Kant entrano giudizŒ semplici , e giudizŒ composti di più giudizŒ. Così il giudizio problematico « se vi ha una giustizia eterna, il vizioso sarà punito », altro non è che la relazione fra due giudizŒ affermata con un terzo giudizio che si può esprimere così: « l' esserci una giustizia eterna, e l' esser punito il vizioso, sono due concetti conseguenti ». Ma i giudizŒ semplici ed i giudizŒ composti non debbono confondersi insieme, perchè « ella è pure regola logica che deve esser unico l' oggetto che si divide o classifica ». Quindi volendo dividere i giudizŒ in genere, prima di tutto conveniva partirli in I semplici, e II composti; e poscia dare separatamente la sotto7classificazione degli uni e degli altri. 4 Un' altra regola logica, che presiede alla retta classificazione, si è che « un membro della divisione non deve entrare nell' altro ». Ma nella tavola de' giudizŒ data da Kant i giudizŒ categorici ed i giudizŒ assertorii entrano evidentemente ne' giudizŒ affermativi , e così pure i giudizŒ che Kant chiama generali, particolari , e singolari non possono essere che una suddivisione di giudizŒ affermativi. Molt' altre osservazioni si potrebbero fare sulla tavola de' giudizŒ data da Kant, ma per istudio di brevità lasciandole, coglieremo in quella vece l' occasione di porgere qui un' altra tavola della classificazione de' giudizŒ, senza spirito di sistema, dal confronto della quale si potranno facilmente distinguere i varŒ errori della classificazione Kantiana. Come ogni giudizio ha tre parti, il soggetto, la copula e il predicato, così la divisione de' giudizŒ deve esser triplice. [...OMISSIS...] I rapporti d' una classificazione coll' altra non sono difficili a rilevarsi, ma noi gli intralasciamo non iscrivendo noi ora una Logica . Tornando ora dunque a Kant, dalle predette forme de' giudizŒ egli cava i suoi concetti fondamentali, come li chiama, ossia categorie, che ei definisce altrettanti attributi di giudizŒ possibili; le quali categorie sono le dodici seguenti: unità, pluralità, totalità (quantità); realità, negazione, limitazione (qualità); inerenza e sostanza, causalità e dipendenza, comunità ossia reciprocità tra l' agente e il paziente (relazione); possibilità e impossibilità, esistenza e non esistenza, necessità e contingenza (modalità). Noi abbiamo esaminata la classificazione di queste forme in un luogo del « Nuovo Saggio », a cui rimandiamo il lettore (1). Di più dalla critica, che testè abbiamo fatta delle classificazioni de' giudizŒ, risulta quanto esse, come loro legittime figliuole, devano essere manchevoli. Riporteremo adunque soltanto l' avvertenza che quella divisione di forme, secondo lo stesso scopo dell' autore, non è ontologica , ma puramente dialettica, e però ella è tale che non ci può somministrare in modo alcuno la partizione dell' ente o le sue passioni. Il che riceve conferma da questo, che essendoci elle date come altrettanti attributi , ossia predicati de' giudizŒ, esse escludono di considerare il soggetto come soggetto; quando pure il soggetto, se è reale, è la base di ogni entità. Oltre a ciò in esse non apparisce alcun ordine tra le varie classi, nè si trova perchè siano così distribuite. Certo che se si fosse trattato di porgere una tavola di categorie ontologiche , non conveniva cominciare dalla quantità, la quale suppone antecedentemente la sostanza, e una sostanza reale, e di più una sostanza determinata, cioè quella che riceve il più e il meno. S' aggiunge che le forme di Kant non comprendono che concetti ideali, negativi; sicchè il positivo dell' ente, che consiste nella realità del sentimento, non si trova affatto. Perocchè la parola realità , che è la quarta categoria, si è presa in senso improprio, non per accennare la realità che si manifesta nel sentimento, ma per indicare l' affermazione che fa lo spirito pronunciando un giudizio. Ora in una tavola di categorie veramente ontologiche non può mancare il più, qual è il positivo dell' ente, ossia la sua vera realità sentimentale. Ancora, le tre categorie di relazione non esauriscono tutte le forme della relazione. Poichè primieramente mancano tutte le relazioni ideali, come la dipendenza della conseguenza del principio; mancano tutte le relazioni nazionali, come la congiunzione di un predicato ad un soggetto dialettico, la qual congiunzione non si fa per via d' inerenza, come, per es., dicendo « il giudizio è un' operazione della mente », non è mica che l' operazione sia inerente al giudizio, perchè ella è identica col giudizio, il quale è quel luogo logico chiamato «Horos» da Aristotele. Ancora, la nona categoria dimostra il pregiudizio che l' azione e la passione siano reciproche; quando ci sono passioni ed azioni che non finiscono in un solo soggetto (1). Ancora, l' undecima categoria, cioè l' esistenza , è un genere che si suddivide nelle due specie di esistenza necessaria , ed esistenza non necessaria ma contingente: e però le tre ultime categorie non si dividono ex aequo come esigono i logici. Ma sarei infinito se volessi continuarmi in tutti i difetti delle categorie Kantiane; veniamo dunque alle idee della ragione. Come Kant derivò i concetti dell' intelletto da giudizŒ (1), così egli tolse a dedurre le idee trascendentali da raziocinŒ (2). L' unire la varietà dell' intuizione (percezione soggettiva) e farne uscire i concetti, è secondo Kant la funzione dell' intelletto , e chiama questo risultato la sintesi dell' intuizione. Noi abbiamo veduto, che v' ha qui un grande errore in darsi a credere che nel concetto vi abbia l' unificazione di una varietà; anzi niuna varietà cade nel concetto per quantunque generale; ma la varietà e la moltiplicità sta tutta fuori del concetto, cioè nelle relazioni che questo ha coi varŒ oggetti, ch' egli può farci conoscere sotto l' identica ragione. L' unire la varietà de' concetti facendone uscire uno della massima generalità il quale stabilisca la maggiore di un sillogismo, e così si possa ragionare, è la funzione della ragione. Il raziocinio per Kant è « « un giudizio ( conseguenza ) che viene determinato (cioè reso necessario) da un altro giudizio dato più generale ( maggiore ), mediante una condizione ( minore ) » ». Per es., « Caio è mortale »: è un giudizio che viene reso necessario dal più generale « l' uomo è mortale », mediante la condizione che Caio sia uomo. Ma anche la maggiore del sillogismo può essere condizionata, cioè discendere da un' altra proposizione più estesa, mediante una condizione sua propria. Onde non si può giungere ad una cognizione assoluta , se non percorrendo ed abbracciando tutta la serie delle condizioni, trovando così l' incondizionato. Quest' è quello che esige la ragione, nè si può accontentare d' una cognizione condizionata, la quale è nulla senza la sua condizione. Ora questa funzione della ragione , per la quale ella sintetizza i concetti, come l' intelletto sintetizzò le intuizioni della sensitività, conduce a tre oggetti , condizioni ultime del ragionamento. Ma non si creda per questo che Kant attribuisca per ciò alla ragione alcuna virtù di far conoscere questi oggetti veramente, quasi fossero oggetti in sè indipendenti dalla funzione predetta della ragione: nulla di ciò; essi non sono che illusioni . E qual ragione adduce di questa impotenza della ragione? Sempre il primo pregiudizio, la proposizione gratuita, supposta senza prove fino a principio dell' opera, cioè, che la sola sensitività dà all' uomo veramente oggetti. Dunque, allorquando l' intelletto o la ragione presentano oggetti, questi non possono essere altro che illusioni poichè non sono dati dalla sensitività!!! La sensitività ha l' esclusiva virtù di dare oggetti presso questi signori; e se poi cercate il perchè, non ne trovate altro, se non il fatto che la sensitività, colle sue prevalenti impressioni, li fa acciecati e legati al suo carro trionfale. Ma seguiamo la deduzione delle tre idee trascendentali della Ragione Kantiana. La ragione mediante il sillogismo lega i concetti trovando che l' uno è vero perchè contenuto nell' altro dato mediante la condizione ossia il termine medio. Consistendo dunque il raziocinio nella relazione di un giudizio con un altro, converrà ricorrere alla categoria della relazione per classificarli. Questa si divide in tre forme: 1 d' inerenza e sostanza; 2 di causa ed effetto; 3 di reciproca azione. Benchè con qualche stiracchiatura (1) queste tre categorie pretese Kant di dedurle dalle tre classi di giudizŒ categorici, ipotetici , e disgiuntivi , le quali appellazioni segnano di conseguente anche le tre supreme classi di raziocinŒ. Or dunque, ragiona Kant, esigendo la ragione di pervenire alla cognizione incondizionata, dee pervenire a ciò che dia unità a tutta la serie delle condizioni in ciascuna di quelle tre maniere di relazioni. Or quanto alla prima, che è quella d' inerenza e di soggetto, la ragione perviene all' unità assoluta e incondizionata del soggetto pensante , argomento della Psicologia; quanto alla seconda di causa e d' effetto, perviene all' unità assoluta della serie delle condizioni de' fenomeni , argomento della Cosmologia; quanto alla terza di reciproca azione o d' enumerazione de' possibili, perviene all' unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero in generale, argomento della Teologia trascendentale. Quest' è quanto dire che l' idea dell' Anima intelligente, del Mondo, e di Dio, sono condizioni ultime assolute di tutti i raziocinŒ. E questo è vero. Ma ciò che non intende Kant, si è, che queste idee non sono condizioni del pensare, se non dato che realmente vi abbia l' anima, il mondo e Dio; e che non siano mica illusioni trascendentali. Perocchè, se fossero tali, l' anima, il mondo, e Dio, non vi sarebbero veramente; e così non vi sarebbe veramente il pensare, mancando la sua condizione. Ma, che il pensare vi sia, non è negato nè pure da Kant, il quale gli toglie bensì la virtù di provare l' esistenza degli oggetti, ma non quella di essere; onde noi abbiamo stabilito nel « Nuovo Saggio » il principio che: [...OMISSIS...] . Ma Kant, volendo dimostrare che quelle idee, o più veramente giudizŒ , nulla provano sulla reale esistenza dei loro oggetti; prende audacemente a dimostrare, che la ragione ammette tali oggetti non per veri ragionamenti, ma per via di certi paralogismi, o inevitabili sofismi, non già dell' uomo ragionante, ma della ragione stessa; di modo che questa non è solo impotente , ma essenzialmente mendace (2); il che se fosse, la natura stessa della ragione sarebbe cattiva. Il Manicheismo adunque è nel sistema di Kant. Ma egli è pur singolare a vedere come un individuo pretende di convincere di menzogna la ragione stessa degli uomini nella sua propria natura! Perocchè, o quest' uomo in far ciò usa della ragione, e usandone mostra di credere ch' ella è verace, ovvero intende di mentire egli stesso (e, s' egli mente, la ragione è giustificata); ovvero egli si fa un Dio, cioè un Dio falso, che prende a calunniare le opere del Dio vero. La superbia di Satana è dunque ancora nel sistema di Kant. Ma seguiamolo un poco nei suoi deliri. Espone prima il paralogismo , com' ei lo chiama, della ragion pura , cioè il sofisma con cui egli pretende che la ragione inganni l' uomo quando ella gli dice che v' ha un soggetto che pensa. Il preteso paralogismo, secondo lui, è questo: « Ciò che non può essere concepito che come soggetto non esiste che come soggetto, e perciò è sostanza; Ma un essere pensante, considerato semplicemente come tale, non può essere pensato che come soggetto; Dunque egli non esiste che come tale, cioè come sostanza ». Ora il Kant dice che questa conclusione è dedotta per sophisma figurae dictionis . E la prova ch' egli dà del suo asserto, ridotta a poche parole, è la seguente: « La sola intuizione, cioè la sola percezione de' sensi, somministra de' veri oggetti. Quindi la maggiore del sillogismo sarebbe una, se il soggetto concepito come soggetto potesse essere dato dall' intuizione sensitiva. Ma nella minore si parla di un soggetto, che non è dato e non può esser dato dall' intuizione sensitiva, ma è solo considerato per tale dal pensiero e dall' unità della coscienza. E però, non essendo un tal soggetto dato dalla intuizione sensitiva, egli non può essere un oggetto reale; ma solo un' apparenza o illusione trascendentale ». Muove sempre adunque il nostro filosofo dal suo diletto pregiudizio sensistico, che il solo senso somministra veri oggetti, e se ciò gli si accorda, egli ha ragione. Ma poichè per contrario questo sensismo è al tutto erroneo; convien dire che il paralogismo è del filosofo, e non della ragione stessa, con cui il filosofo si compiace di mettersi in lotta. D' altra parte egli ancora ignora, che nel sentimento vi ha sempre qualche cosa di sostanziale, e non dei puri fenomeni; e che questo vale specialmente pel sentimento interno che l' anima ha di sè stessa. Egli non punto osserva che nel sentimento suo proprio l' anima e sente la varietà delle sue modificazioni, e sente sè stessa soggetto unico e identico di esse; e questa parte del sentimento ha tutto ciò che racchiude una definizione legittima, e non già arbitraria, della sostanza «( Psicol. , p. 104) ». Dopo aver dunque Kant preteso di dimostrare, che non già l' umano individuo, ma la stessa ragione umana per sua natura paralogizza quando cerca di stabilire l' unità assoluta, incondizionata del soggetto pensante; egli passa a criticare i passi della ragione , quand' ella giunge all' unità assoluta della serie delle condizioni dei fenomeni , cioè del Mondo. E qui deride e sossanna la ragione umana più atrocemente ancora. Perocchè egli dice che il paralogismo, col quale la ragione stabilisce l' esistenza d' un soggetto pensante, almeno produce un' apparenza in un solo senso, senza che produca in pari tempo un' apparenza contraria. [...OMISSIS...] All' incontro quando la ragione cerca l' unità assoluta delle condizioni de' fenomeni (mondiali), allora ella produce a sè stessa non solo apparenze, ma apparenze contrarie, cioè intrinsecamente si contraddice. Egli stabilisce quattro di queste contraddizioni della ragione circa il mondo, che egli chiama antinomie, ossia conflitto di tesi apparentemente dogmatiche. Kant adunque pretende di cogliere in contraddizione la ragione stessa , e per coglierla con sicurezza, che cosa fa? Le mette egli stesso in bocca le parole che ella deve dire per contraddirsi: la fa parlare come egli vuole. Questa impresa suppone due cose non piccole: 1 La prima che al filosofo sia facile il mettersi in persona della ragione umana, e parlare proprio colla bocca di lei: il filosofo nostro, se è di buona fede, deve essere intimamente persuaso, di conoscere perfettamente ciò che direbbe la ragione in persona, se ella fosse una persona che potesse parlare. 2 La seconda, che al filosofo sia possibile, dopo essersi messo in persona della ragione e stabilito quello che la ragione stessa direbbe se parlasse colla sua bocca, di sollevarsi AL DI SOPRA DELLA RAGIONE, e, chiamatala al suo tribunale, convincerla di aver dette delle contraddizioni. L' alta persuasione che dimostra Kant di sè stesso arriva a tutto ciò, ed ecco adunque, come la ragione umana parla per la bocca di Kant, suo (1) critico e maestro a bacchetta. [...OMISSIS...] A confutare queste pretese contraddizioni della ragione basta solo una parola: la ragione non parla così. Perocchè certo Kant in nessuna maniera può dimostrare direttamente, che così appunto parli la ragione com' egli la fa parlare. Che se egli non ispaccia più l' autorità della ragione stessa , ma discende a provare con suoi propri ragionamenti prima la tesi, e poi l' antitesi, in tal caso non è più la ragione, ma è egli stesso che si contraddice; almeno il certo ed evidente risultato delle antinomie si è questo, che « l' uomo individuo, chiamato Emanuele Kant, non giunse colla forza del suo ingegno a dissipare quelle contraddizioni, sieno poi esse vere od apparenti ». Che dunque le antinomie provino ad evidenza la limitazione dell' ingegno di Kant, questo è indubitato; ma non è egualmente indubitato che provino la limitazione della ragione stessa, come pretende Kant che provino per uno scambietto, e molto meno la sua intrinseca lotta, che la renderebbe positivamente stolta e suicida. Se quelle contraddizioni o antinomie fossero proprie della stessa ragione, (il che veramente asserì Kant ma nol provò, perchè non poteva in modo alcuno provarlo), in tal caso noi non apriremmo bocca, perchè non vorremmo metterci in lotta colla ragione nè pure per difenderla dal suo proprio furore, (il che d' altra parte ci sarebbe impossibile), e ci rassegneremmo ad essere anche noi stolti, avendo una ragione stolta, come gli altri uomini: se pure alla ragione, che si è contraddetta una volta, non fosse piaciuto di contraddire ancora le sue contraddizioni; il che non sarebbe impossibile, giacchè se nell' essenza della ragione umana è la contraddizione; chi mai potrebbe mettere un limite alle sue contraddizioni, che dovrebbero forse essere altrettante quanti i suoi atti? Ma posciachè le contraddizioni o antinomie non della ragione, ma sono di un uomo che si chiama Kant, il quale introdusse sulla scena la ragione personificata facendola parlare, quasi come dei proprii rispettabili personaggi suol fare il burattinaio; noi non temiamo punto di entrare a vedere se sia possibile di uscire dall' intrico, in cui questo uomo si confessò preso quasi fra l' uscio e il muro. Ripigliamo dunque ad una ad una le tesi e le antitesi, e mettiamo a prova il valore degli argomenti coi quali Kant intende provare le une e le altre. La prima tesi si è che « « il mondo abbia cominciato, e che lo spazio sia finito » ». Che il mondo abbia cominciato, si prova da Kant discretamente; e noi l' ammettiamo pel suo e per altri argomenti. Che lo spazio sia finito, Kant lo prova dalla supposizione che egli fa, che lo spazio non sia altro che un aggregato di parti, e che lo spirito acquista il concetto dello spazio con unire successivamente queste parti. Ma noi neghiamo affatto che lo spazio puro abbia parti, diciamo anche ch' egli è per sè semplicissimo e indivisibile, e termine del nostro sentimento fondamentale. Le parti appartengono ai corpi ed alle sensazioni prodotte da corpi, come sono le superficie ed altre astrazioni fatte sui corpi come le linee ed i punti. Onde l' argomento di Kant prova che sia limitato quello spazio che è occupato da corpi, o che è segnato dal nostro spirito per via di solidi, superficie, linee, e punti mobili; e questo spazio appunto perchè è limitato e misurato non può essere infinito. Ma niente vieta, che lo spazio puro come termine di un sentimento fondamentale sia infinito. L' antitesi opposta, si è che « « il mondo non abbia principio, quanto al tempo, nè confine quanto allo spazio » ». E circa i confini dello spazio noi vedemmo che convien distinguere: lo spazio, quale spazio puro, non ha confini come dicemmo, e come dimostrano anche gli argomenti che per provare quest' antitesi adduce Kant; all' incontro lo spazio occupato dai corpi ha confini, come anco provano gli argomenti addotti precedentemente da Kant per provare la tesi. Onde il sofisma kantiano qui si rileva in questo, che ora si parla dello spazio quale i corpi limitati lo somministrano all' osservazione dello spirito nostro, ora si parla dello spazio quale è termine del sentimento fondamentale. Si cangia dunque il soggetto delle due proposizioni opposte, e si vuol far credere che sia il medesimo. A provar poi che il mondo non può aver cominciato, Kant parte da questa proposizione che « « il cominciamento è un' esistenza preceduta da un tempo, in cui la cosa ancor non è » ». Ma questa proposizione è falsa, perocchè il cominciamento d' una cosa può essere preceduto da un tempo, se avanti di essa v' ebbero altre cose; ma se non v' ebbe avanti di lei niuna cosa, come è nel fatto del Mondo, cioè del complesso di tutte le cose contingenti, non vi è tempo innanzi a quel cominciamento, perchè non vi ha successione. Ma Kant dirà, « « che si può immaginare una successione e questa possibile successione è il tempo di cui parla » ». Rispondo, essere vero che a questo tempo o successione immaginaria non si può prescrivere confini determinati; ma questo non fa che un tal tempo possibile sia infinito , ma solamente indefinito , a quel modo appunto che alla quantità possibile della materia corporea, come pure al numero, non si può assegnare un termine, perchè si può sempre immaginare accresciuta, e a qualunque numero si può sempre aggiungere un' unità: il che è quello che S. Tommaso chiama infinito in potenza e non in atto, il quale non è veramente infinito. In secondo luogo, il tempo ossia una successione che si può immaginare come possibile prima del cominciamento del mondo, non appartiene al mondo, al quale appartiene solo il tempo proprio de' reali; e quindi non toglie che il mondo abbia incominciato ad esistere. Il tempo possibile appartiene dunque al mondo delle idee, il quale è nel suo fondo eterno, e non mai cominciato. Quindi il sofisma di Kant consiste anche qui nel mutare il soggetto della proposizione; perocchè con una dice « che è incominciato il tempo reale »; coll' altra, « che non è incominciato il tempo possibile »; le quali proposizioni così spiegate, come debbono essere, cessano di costituire una antinomia. La seconda tesi si è: « « che ogni sostanza composta è composta di semplici, e non esistono che semplici o composti di semplici » ». Primieramente questa tesi è ambigua, e però acconcia al sofista. E` ambigua, perchè la parola semplice ha più significati, e almeno questi due: 1 senza estensione , 2 senza pluralità . Ora, se per semplice s' intende senza pluralità e però si fa equivalere ad uno , egli è chiaro e non bisognevole di prova, che ogni sostanza composta è composta di semplici, perchè questa proposizione è identica a quest' altra « ogni pluralità è composta di unità ». Ma se per semplice s' intende privo di estensione , in tal caso non ogni sostanza composta è composta di semplici, ma di parti estese. Così un corpo è un aggregato di elementi estesi e continui: ma questi elementi, benchè estesi, non sono però composti, nè hanno parti in atto, essendo un puro sbaglio di Kant (comune però ai suoi maestri o condiscepoli, i sensisti) il credere che l' estensione sia un' aggregazione di parti; quando anzi il vero si è, che l' estensione continua, come tale, non ha parti in atto, ed ha solo parti in potenza (le quali non sono parti reali), cioè ha solo parti immaginate dalla mente, la quale può suddividere il continuo indefinitamente, senza che ciò che le rimane cessi mai d' essere continuo, come abbiamo altrove spiegato; onde l' esteso continuo si deve dir semplice, qualora per semplice s' intenda privo di parti e di pluralità. Ma più estesi continui corporei possono, venuti al contatto, comporre un continuo solo, il quale è composto di semplici estesi, benchè senza parti. Queste parti poi del composto non sono determinate dall' estensione, la quale è semplice anche nel composto continuo; ma dalle forze dei singoli estesi, ciascuna delle quali forze, diffondendosi in un piccolo spazio determinato e circoscritto, rimane in qualche modo distinta da tutte le altre. Se poi si parla di semplici volendo significare inestesi, niente ripugna che un inesteso com' è l' anima venga in composizione con un esteso com' è il corpo ed anco con un aggregato d' estesi, com' è il corpo organico composto di molti elementi estesi. Onde questa maniera di composizione risulta da una sostanza semplice (inestesa) con una sostanza non semplice (estesa e composta di estesi). Onde in questo senso è falsa la tesi che non esistano che semplici, e composti di semplici. Finalmente erra di nuovo Kant quando pretende che « « la composizione non è che lo stato esteriore, una mera relazione accidentale delle sostanze » ». Anzi vi ha una composizione sostanziale , ignorata interamente da' sensisti, ma data manifestamente nella natura per modo che « « il composto è sostanzialmente diverso da' suoi componenti » », ossia ha un' altra forma sostanziale «( Psicologia , n. 204, seg.) ». Così il corpo, considerato come semplice materia, e il corpo animato, è sostanzialmente diverso, perchè ha una diversa forma sostanziale. Veniamo ora all' antitesi , la quale si è che « « niuna cosa è composta nel mondo di parti semplici, e nulla esiste di semplice » ». Questa tesi Kant si fa a provarla con due argomenti i più sgangherati. Il primo muove da questa proposizione che « ogni composizione di sostanze non è possibile che nello spazio », la quale è gratuita e falsa. Perocchè l' unione dell' anima col corpo non si fa nello spazio (benchè nello spazio si manifesti); ma si fa nella percezione fondamentale dell' anima, la qual percezione è semplicissima, come abbiamo provato nella « Psicologia », n. 264 seg.. Nè gli basta a condurre a fine la sua prova questo errore, se non vi aggiunge anche quest' altro « « che tutto ciò che occupa uno spazio comprende diversità d' elementi l' uno fuori dell' altro » »: mentre il vero si è che in esteso continuo non vi sono elementi reali ma solo potenziali come abbiamo detto; e però egli non è punto nè poco composto quanto allo spazio. Tutti i fondamenti adunque della sua prima prova vanno in fumo. Il secondo argomento che adduce è questo: « « Il semplice non può essere dato dalla percezione de' sensi; ma la sola percezione sensibile (ch' egli chiama intuizione) dà degli oggetti, e senza questi non ci hanno che idee; dunque noi non possiamo dimostrare che vi abbiano semplici nella natura, ma solo idee di semplici » ». Ognuno vede, che la minore di questo argomento, è il solito pregiudizio sensistico, su cui il Kant fabbrica tutta la sua dottrina. Ciò che abbiamo detto innanzi basta a distruggerla. In secondo luogo egli parla di idee . Ma queste idee son esse semplici o composte? sono nulla o qualche cosa? sono enti corporei nello spazio o enti fuori dello spazio? Questo è ciò che il nostro filosofo stima bene di non dire; ma che il discreto lettore può dire nondimeno a sè, malgrado del suo silenzio. La terza tesi si è che « « la sola causalità secondo le leggi della natura non basta a spiegare i fenomeni, ma vi si esige di più una causalità per libertà » ». L' argomento da lui addotto è efficacissimo a provare questa tesi, il quale consiste in dimostrare che colla sola causalità fisica e non libera si avrebbe un ricorso di cause all' infinito, di cui non si potrebbe aver mai l' ultima, e quindi non si troverebbe mai la spiegazione, ossia la ragione sufficiente de' fenomeni. L' accordiamo completamente. Ma vien l' antitesi negante la libertà; e per istabilirla muove l' argomento da questo principio: « « Ogni cominciamento d' azione suppone uno stato anteriore della causa non ancor operante, onde conchiude che mancherebbe la ragione sufficiente che determinasse la spontaneità della causa ad operare più tosto che a non operare » ». Ma il principio non è applicabile, perchè si può concepire benissimo un' azione che non sia cominciata, e che faccia cominciare l' effetto: sicchè vi abbia il cominciamento nell' effetto e non nell' azione della causa. Così Iddio può e dee aver creato il mondo con un' azione che non ha mai cominciato, con un' azione eterna: e con quest' azione eterna produsse il cominciamento delle cose che sono l' effetto di quella azione. Un secondo errore contiene il ragionamento con cui Kant pretende provare questa sua antitesi, ed è che se vi ha la libertà, questa opererebbe ciecamente , perchè non avrebbe una causa determinante . Qui il filosofo confonde la causa efficiente , colla ragion sufficiente . La libertà non è certamente determinata ad agire dall' azione d' una causa efficiente che la distruggerebbe; ma non opera tuttavia alla cieca , ma sempre col lume di una ragione sufficiente . Ma perchè la ragion sufficiente non opera alla foggia della materia, perciò i sensisti non sanno intendere il modo del suo operare, conciliabilissimo colla libertà. Finalmente noi abbiamo dimostrato ancora, che ogni causa efficiente ha un suo oggetto, e che la libertà ha anch' essa un suo unico oggetto, e quest' oggetto è la scelta tra due volizioni. Onde la libertà è anch' essa una causa efficiente, ma d' indole speciale, perchè ha un oggetto tutto speciale (1). La quarta tesi stabilisce: « « che il mondo si riferisce a un essere assolutamente necessario » ». Ora Kant dice con ragione: « « che ogni condizionato presuppone, rispetto alla sua esistenza, una serie completa di condizioni fino all' incondizionato assoluto, che solo è necessario assolutamente » ». Fin qui siamo, press' a poco, d' accordo. Ma poi soggiunge, che questo assolutamente incondizionato dee essere nel mondo sensibile: e qui comincia il sofisma. Poichè egli muove a ragionare da questo falso principio: « « che il cominciamento d' una successione non può essere determinato se non per via di ciò che precede quanto al tempo » ». Ora questo principio è falso; perocchè il cominciamento d' una successione (nel tempo) può essere anzi determinato da un atto fuori del tempo, e che si fa nell' eternità; come abbiamo detto poco innanzi. Onde non si può trarre in alcun modo la conseguenza che vuol Kant, cioè, che l' assoluto che spiega l' esistenza del mondo appartenga al tempo, e quindi al mondo. L' antitesi poi di questa tesi, secondo il Kant, si è « « che non esiste niun ente assolutamente necessario » ». Questa antitesi viene dedotta dagli errori spacciati precedentemente dal nostro filosofo come verità lampanti. Toglie prima a provare, che l' ente assoluto non può essere nel mondo; perchè in tal caso l' ente assoluto, o sarebbe il primo anello della serie degli avvenimenti successivi, e in tal caso sarebbe senza causa, e non ispiegherebbe il tempo a lui precedente, e la serie degli avvenimenti andrebbe ad un regresso infinito, ed ella non sarebbe necessaria, perchè niuno de' suoi anelli sarebbe necessario. Fin qui il ragionamento corre e vale a distruggere l' errore della tesi, che l' assoluto si contenga nel mondo sensibile. Ma viene poi a provare, che l' ente assoluto non può trovarsi nè pure fuori del mondo: perchè, se la causa del mondo fosse fuori del mondo, per dare a questo il principio essa « « dovrebbe cominciare ad agire, e « la sua causalità così avrebbe luogo nel tempo » ». Quindi questo essere come causa formerebbe parte della serie de' fenomeni successivi del mondo, contro il supposto dalla proposizione. Ma, come abbiamo detto di sopra, si nega al tutto che la causa assoluta comincii ad agire, poichè ella opera con un atto eterno; come si nega al tutto ch' ella, qual causa, abbia luogo nel tempo; perchè il tempo stesso è l' effetto di quella causa; e però ella è affatto immune dal tempo ch' ella produce, producendo il mondo. Tali sono le famose antinomie della Ragion Pura di Kant. Non sono, no, antinomie della ragione; sono proprio antinomie e contraddizioni del sofista che potè sedurre e traviare forse per secoli la Germania. Gli argomenti con cui egli le fortifica non sono nè pure di sua invenzione: sono gli argomenti prodotti e riprodotti dagli empii di tutti i secoli: egli non fece che vestirli d' una misteriosa e solenne oscurità, di un gergo che ebbe un potere magico d' incantare tanti spiriti della sua nazione. Ma io voglio qui notare di più una peculiar lotta che si manifesta nelle varie tendenze di questo sofista speculativamente ATEO, checchè egli si dica, anzi il MAGGIOR ATEO che nel campo della filosofia sia comparso nel secolo XVIII. Egli dunque ha due tendenze: 1 La prima è di sollevar sè stesso sopra la ragione, giudicandola dall' alto del suo tribunale, o più tosto schernendola come una stolta, piena di contraddizioni, e questa tendenza domina in tutta l' opera dal frontispizio « « Critica della Ragione Pura » » fino all' ultima parola. 2 La seconda si è di dimostrare, che l' uomo era chiuso nella sfera della sensitività fisica che sola gli somministra oggetti reali: qui, nel senso fisico, finisce la cognizione umana: di che consegue che negli oggetti de' sensi, nella materia, sia riposto anche il fine dell' uomo. La ragione in fatti, secondo Kant, è una servetta civettella dei sensi: ella non vale se non a farci conoscere viemeglio gli oggetti sensibili, ad unirli, ed a fornirci certe regole utili per dirigere la nostra condotta rispetto a quelli. Ed unicamente per questo fine la ragione ricorre all' idea dell' anima, del mondo e di Dio, siccome a finzioni utili, per concepir meglio gli oggetti dell' esperienza sensibile, e guidarci nel farne uso più utilmente. Kant dichiara assai frequente quest' ultimo fine della sua filosofia speculativa: [...OMISSIS...] . Tali sono le due tendenze della filosofia di Kant, ma Kant, più sagace della sua filosofia, s' accorge che le due tendenze non istanno bene in pace fra loro. Perocchè se la ragione è piena essenzialmente di contraddizioni, se sta del continuo in sul ludificare la mente umana, come potrà essa pur servire all' uomo di guida nell' uso delle cose sensibili? Il filosofo dunque, impegnatosi a mostrare la ragione paralogizzatrice, contraddittoria seco stessa, prestigiatrice rispetto a tutto ciò che eccede la sfera de' sensi corporei, e com' egli dice, l' esperienza; è del pari impegnato a difendere il valore della ragione in tutto ciò che si contiene entro questa sfera del suo uso empirico, ed a sostenere, che gli stessi sofismi della ragione, le stesse illusioni ch' ella ingerisce nell' uomo, sono come a dire pie frodi, cioè hanno un fine utile all' uomo stesso. Allora quando il nostro filosofo è occupato dal pensiero di difendere in questo senso la ragione, egli ragiona così: [...OMISSIS...] . Dunque il paralogismo e le antinomie, che avete prima attribuite alla ragione, non sono proprie della ragione, ma dell' abuso che voi avete fatto di essa: [...OMISSIS...] . E perchè mai? Se l' idea di un essere non ha alcun valore oggettivo, come potete voi dimostrare che la ragione non ci illuda? Vedo bene che voi negate solo che la ragione ci illuda primitivamente , e con questo accordate che ci illude posteriormente. Ma dove fondate voi questa distinzione? Non è ella arbitraria come tutto il resto delle vostre dottrine? [...OMISSIS...] Onde questo ottimo? Forse, anche questa vostra probabilità d' ottimista, potete voi dedurla da altro fonte che da quella ragione stessa, che non ha alcun valore di provare oggettivamente, e tuttavia somministra delle regole suppositorie atte unicamente a compire la sintesi della varietà esperimentale? E in tal caso, che vale questa vostra probabilità? Non è ella una nuova illusione? E con un' illusione volete voi dissipare l' illusione? [...OMISSIS...] . Parole degnissime di tutta la vostra attenzione, o lettori. Deh! con che tuono di severo cipiglio non garrisce qui Kant i sofisti, i quali danno biasimo e mala voce a quella ragione, a cui come ad ammirabile sofisticatrice e lor degnissima madre essi debbono la loro esistenza e la loro coltura! Quale ingratitudine non usano i sofisti colla ragione! E` vero, che la ragione è per sè fonte d' assurdi e di contraddizioni infinite; ma i sofisti, che ne fanno uso, hanno essi il diritto di menar contr' essa tanto schiamazzo? Se ella inganna e delude, ha però un suo secreto fine in far ciò, e dispiega un' azione oltremodo benefica, la quale consiste in conservare appunto al mondo i sofisti, e dar loro quella cultura per la quale conoscendo di essere da essa ingannati, la mordono, senza badare a quel gran secreto ch' ella ha nell' ingannarli, che è di farli esistere!!! Dopo di ciò veniamo all' ultima parte della satira che Kant tanto industriosamente compose della Ragione. La ragione che dialetticizza, come vedemmo, si propone tre scopi: di pervenire all' unità assoluta incondizionata del soggetto pensante , ed ella non ci perviene se non per via di un paralogismo, che le fa credere che esista realmente un' anima pensante; di pervenire all' unità assoluta delle condizioni de' fenomeni mondiali , e a questo non perviene nè manco per via di paralogismi, ma in questa vece cade necessariamente in quattro contraddizioni o antinomie, provando a sè stessa il pro ed il contra della stessa proposizione; di pervenire finalmente all' unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero , e rispetto a questo suo terzo e più sublime scopo ella non è più fortunata che rispetto a' precedenti, perchè cade in una illusione trascendentale che le fa credere che esista un essere intelligente suprema causa di tutte le cose. Ma qui entra Kant a soccorrerla, e come egli la liberò dalle illusioni precedenti, così ora la libera dall' illusione di ammettere l' esistenza di un essere supremo. A tal fine Kant, movendo dal suo solito principio che qualsivoglia ragionamento della ragione non può avere alcun valore oggettivo perchè la sola esperienza de' sensi è atta a somministrare de' reali oggetti, e Iddio non cade sotto i sensi, si fa a dichiarare inefficaci l' uno dopo l' altro tutti gli argomenti coi quali si credette fin qui poter provare l' esistenza di Dio. Così Kant s' applaude d' aver tratto d' inganno la ragione! Ma se Iddio non esiste, o la ragione almeno non può provarne l' esistenza, in che maniera soddisferà alla sua esigenza di ridurre ad unità assoluta la serie delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero? Kant crede che a ciò basti il fingere che vi sia Iddio: quest' idea, chiamata da lui Ideale, secondo Kant può servire di regola alla ragione per riuscire a quella unità. Ma se Iddio è quello che dà unità alle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero, e tuttavia non esiste veramente; dunque nè pure quest' unità sarà verace, ma sarà finta e illusoria. A questa difficoltà Kant in sostanza risponde consigliando la ragione a rinunziare a questa sua esigenza di trovare l' unità assoluta delle condizioni degli oggetti del pensare. Perocchè egli dice, che questo bisogno è più tosto un bisogno pratico che speculativo; e che certo, se si vuol soddisfare ad esso, conviene ammettere l' esistenza di Dio. [...OMISSIS...] Per tal modo da prima era la ragione pura quella che esigeva un' unità assoluta di tutte le condizioni degli oggetti del pensiero: ma, posciachè questa esigenza conduce invittamente all' esistenza di Dio, ora si vuole che questa esigenza sia più tosto un cotal impegno o bisogno pratico, quasichè la ragione speculativa ne possa e ne debba far senza. Perchè dunque tante parole sparse innanzi per dimostrare che la ragione pura ha quella esigenza? Per eludere questa esigenza prima confessata e lungamente stabilita della ragione pura, Kant aggiunge, che, quantunque gli enti limitati non mostrino d' aver in sè stessi le condizioni della loro esistenza, tuttavia non si può dire per questo, che essi sieno condizionati. [...OMISSIS...] Il che è quanto dire, che più tosto che ammettere l' esistenza di Dio, si può ammettere il sistema degli atomi d' Epicuro, il concetto de' quali non li mostra a dir vero necessari, ma tuttavia si potrebbero presentare come necessariamente incondizionati!! Ma dove dunque si troverà questa loro necessità, e incondizionalità, se non si trova nella loro idea? Se l' idea di essi non ce la presenta, conviene dunque che sia fuori di essi, e se è fuori di essi, dunque la necessità e la incondizionalità sta nel concetto d' un altro ente, e non nel concetto delle cose finite. Ritorna dunque il bisogno di un Dio per chi non vuole rinunziare alla ragione. In appresso Kant passa a sostenere, che, quantunque l' idea di Dio non provi l' esistenza di alcun essere realmente esistente, tuttavia è un' idea buona per la pratica. [...OMISSIS...] Ma quali sono i principii del suo giudizio? Sono, che l' esistenza di Dio è una illusione trascendentale. Non conosciamo dunque niente di migliore dell' illusione? Convien dunque lasciarsi illudere per soddisfare al dovere di scegliere? Vi può essere un dovere morale che ci obblighi ad abbandonarci all' illusione? E a mentire a noi stessi pigliando come certe le nostre convinzioni imperfette? Che cosa è quest' addizione pratica che possa aggiunger peso agli argomenti che non han peso, se non l' addizione di una menzogna interiore? Quale filosofia può esser quella, che pone la necessità della menzogna interna come base della morale? Chi ha detto a Kant, che la ragione sia un giudice sommamente equo, se è ingannatrice? E che non le rimanga come giustificarsi se commette il peccato di sottrarsi a' propri inganni? Sebbene adunque in niuna parte della sua filosofia Kant possa fuggire le contraddizioni, tuttavia in niuna parte lotta tanto e combatte seco stesso, quanto dove parla della dimostrazione dell' esistenza di Dio. Perocchè prima confessa, che la ragione la esige per trovare l' unità delle condizioni degli oggetti del pensiero; poscia questa esigenza , ora non c' è più, perchè si possano rappresentare come incondizionati gli stessi enti limitati, come Epicuro faceva de' suoi atomi; ora dice, che questa esigenza non è propriamente una prova dell' esistenza di Dio, ma piuttosto un bisogno, un interesse che conduce ad aggiungere qualche cosa alla speculazione; ora finalmente la ammette di nuovo, ma soggiunge che « « la necessità assoluta dei giudizŒ non è la necessità assoluta delle cose »(1) »: il che è quanto dire, che la necessità assoluta de' giudizi non è necessità assoluta, perchè se un giudizio, col quale afferma l' esistenza di un ente, fosse assolutamente necessario, certo dovrebbe essere assolutamente necessaria l' esistenza dell' ente che con quel giudizio viene affermato; perocchè se questa esistenza potesse mancare, il giudizio che lo pone non sarebbe assolutamente necessario perchè sarebbe falso. Lasciando dunque da parte tutte queste appena credibili aberrazioni del sofista, vediamo come egli espone la necessità del suo Dio, che per lui è un' idea vuota di oggetto reale. Noi crediamo di trattenerci ad esporre questo suo ragionamento, perchè egli contiene non già una dimostrazione dell' esistenza di Dio ma bensì una dimostrazione della necessità dell' essere ideale , lume dell' umana mente; onde pigliandola così ella viene a darci una conferma della nostra teoria dell' essere in universale, mostrando la necessità d' ammetterla come ragione sufficiente di tutti i concetti dell' umana mente. Kant espose il problema della ragione così: « « trovare l' unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti dell' umano pensiero » ». Ma fino da principio egli pregiudicò la soluzione di questo problema collo stabilire gratuitamente che « il solo senso fisico somministra all' uomo oggetti », e tutte le altre facoltà non hanno altra virtù che di lavorare intorno agli oggetti de' sensi, dovendosi considerare come illusioni trascendentali gli oggetti che esse mai presentassero all' uomo. Kant si tolse con ciò di filosofare liberamente, legato alla catena de' suoi sofismi. Egli distinse adunque: 1 Le intuizioni (percezioni) de' sensi; 2 i concetti dell' intelletto; 3 le idee della ragione; 4 l' ideale. Disse dunque: 1 Che i concetti non possono rappresentare un oggetto senza le condizioni della sensitività, mancando loro le condizioni della realità oggettiva e non trovandosi in essi che la semplice forma del pensare (1). 2 Che le idee sono ancora più lontane dalla realità oggettiva; perocchè esse hanno per loro immediato oggetto i concetti, ai quali cercano di dare unità sistematica. 3 Finalmente l' ideale è ancor più lontano dalla verità oggettiva; perocchè per ideale intende un prototipo di perfezione nel quale sono suppositate le idee, consistendo l' ideale d' ogni spezie in un individuo, a cui di tutti gli attributi opposti se ne dà uno, quello che è richiesto a renderlo quanto mai si può concepire più perfetto. [...OMISSIS...] Questo è in sostanza uno degli argomenti da noi usati per provare che tutti i pensieri, tutte le operazioni della mente umana esigono avanti di sè l' intuizione dell' essere universale , perocchè tutti gli altri concetti altro non sono che determinazioni e limitazioni di quest' essere, e l' universale, l' indeterminato, l' illimitato dee precedere agli atti limitanti, determinanti, particolareggianti. Onde Kant qui mostra d' aver approssimata la verità; ma egli determinò male quale fosse l' essere universale che serve di fondamento alle determinazioni delle cose . Egli confonde l' ideale col reale; perocchè: 1 La parola sostrato propriamente appartiene alle sostanze, e non può esser applicato all' essere in universale, che come un certo traslato. 2 Egli parla di determinazione di cose , e non di concetti e di idee; ma egli dovea in ogni caso aggiungere, che si tratta di cose possibili e non reali. Queste cose possibili si distinguono bensì da' concetti astratti , ma finalmente sono anch' esse concetti, perocchè una cosa possibile è un concetto o un' idea. Se Kant avesse parlato con proprietà, non avrebbe avuto dopo da disfare il fatto; perocchè dopo aver parlato qui di cose , toglie in appresso a dimostrare, che queste cose sono oggetti della ragione, che non hanno alcuna realità, e che si prendono come oggetti ideali per un' illusione trascendentale. All' opposto il vero si è, che niun uomo di buon senso prende nè le idee, nè gli ideali, nè le cose possibili per oggetti reali . Ma se la ragione è impotente di somministrare all' uomo oggetti reali per via d' idee e di concetti; ella può però somministrargliene per via di argomentazioni , cioè di giudizŒ incatenati fra loro; la qual maniera di conoscere non appartiene alle idee, a cui solo Kant pone mente. Questo filosofo dunque sbaglia: 1 nel credere che gli uomini diano alle idee ed a' concetti la virtù di porgere oggetti reali , mentre tutto il mondo non dà loro altra virtù ed officio che di porgere oggetti verissimi sì, ma ideali e possibili; 2 nell' affaticarsi a distruggere questo errore comune che non esiste se non nella mente di Kant; 3 nel voler indurre dal valor meramente ideale delle idee e de' concetti, che anche i giudizŒ ed i raziocinŒ sieno limitati ad avere un valore meramente ideale, senza che possano provare l' esistenza d' oggetti reali; 4 e poichè il ragionamento, quando prova l' esistenza di un ente reale che non cade sotto i sensi, vale bensì a provarci la detta esistenza, ma non a farci conoscere la positiva essenza di quest' oggetto; erra Kant di nuovo nel pretendere di dedurre l' impotenza di provarci l' esistenza di un ente, dall' impotenza di farcene conoscere l' essenza (1). 3 Egli dice che il fondamento delle determinazioni dee contenere in qualche modo la provigione della materia , onde possono esser presi tutti i predicati delle cose; ma qui l' uso della parola materia è di nuovo improprio e capzioso, perchè la materia in senso proprio spetta alla realità: all' incontro i predicati appartengono all' ordine delle idee, e però alla forma, trattandosi di cose possibili. Riconosce adunque Kant la necessità di un' idea, fondamento di tutti i concetti determinati; e noi pigliamo in tanto a conto questa concessione. Egli riconosce altresì che quest' idea , cui nomina anche essere primitivo, è semplice. [...OMISSIS...] Or l' aver conosciuto, che il fondamento di ogni determinazione ideale dee essere un' idea primitiva e semplice, avrebbe dovuto guardare Kant dall' errore di esigere per fondamento di detta determinazione anzi un ideale che un' idea . Perocchè l' ideale è un ente particolare perfetto (2); e i predicati di un ente particolare perfetto, benchè concepito come possibile, sono suoi proprii, esclusivamente suoi; onde non si possono prendere da lui senza privarli dell' adesione che hanno con lui, e così renderli prima idee , cioè generali. Onde egli è una manifesta incongruenza riconoscere la necessità di un fondamento delle determinazioni tutte, e voler poi che questo fondamento sia un ideale, cioè un particolare. Perocchè, se questo ente particolare è l' ideale del sapiente, e se voglio determinare un altro essere col predicato della sapienza; io debbo prendere la sapienza in genere, e non mica la sapienza di quell' ideale del sapiente, la quale è unita a lui per modo, che, se da lui la stacco colla mente, non è più sua, ma è la sapienza in generale. Della quale difficoltà lo stesso Kant ebbe sentore; e fu costretto a confessare che la determinazione non potea considerarsi come una CIRCOSCRIZIONE di quell' ideale; ma quindi cadde nell' assurdo che è via al panteismo, cioè che ella fosse uno sviluppo di quest' ideale stesso, quasichè un ideale, se è ideale e però perfetto, si possa concepire come bisognoso o suscettibile di qualche sviluppo (1). Il che però non vedo come s' accordi con quello che egli aveva detto poco innanzi, [...OMISSIS...] . Lasciando però da parte questa contraddizione, Kant aveva riconosciuto che « « il concetto universale d' una realità in generale non può esser diviso a priori , perchè senza l' esperienza non si conoscono specie determinate di realità comprese sotto quel genere » ». La quale riflessione l' avrebbe condotto dirittamente al vero, se l' avesse scorto a conchiudere, che dunque le determinazioni speciali (almeno le determinazioni positive) non poteano esser date dall' idea che serve loro di fondamento, ma dalla sensitività stessa. Con questo sarebbe venuto a conoscere, che il fondamento di tutte le determinazioni non dovea essere un ideale, ma bensì un' idea, e propriamente l' idea dell' essere indeterminato suscettibile per ciò appunto di determinazioni e di limiti. Ma l' impegno del nostro sofista era preso; egli volea convertire forzatamente quest' idea in Dio, per aver poscia il piacere di disfare questo Dio; il che gli dovea esser facile, perocchè è facile a disfare il mal fatto. Concludiamo: la partizione dell' ente tentata da Kant è dialettica come quella di Aristotile, e non ontologica: ella è di più soggettiva, e fatta d' un lavorìo tutt' a filagrana di sofismi. I fonti logici di un sistema così profondamente erroneo furono due: 1 Il sensismo , cioè il pregiudizio che i soli sensi dessero all' uomo degli oggetti reali: onde venne a Kant l' assunto di dover spiegare tutte le operazioni dell' intelligenza umana in modo che ella non dovesse mai dare all' uomo alcun oggetto, e posciachè ella pur ne dà, di spiegar questo fatto come una illusione. Allo svolgimento di tale assunto si riduce tutto l' idealismo trascendentale. 2 L' astrattismo , cioè il falso metodo di racchiudere la filosofia in pure astrazioni, presupponendo che il problema di essa consista nell' isolare da tutto il rimanente l' elemento razionale puro; il che diviene errore e fonte d' errori, tostochè, invece di considerare l' elemento razionale puro come parte di un tutto da cui è indivisibile, si considera come un tutto egli stesso, atto a dare argomento ad una scienza completa, come pare a Kant «( Psicol. , 1 7 5) » (1). Per soddisfare alle esigenze del principio della ragion sufficiente , i filosofi tedeschi lavorarono i loro sistemi da Kant fino a Hegel. Kant imbevuto del sensismo del suo tempo aveva accordato, senza credere necessario di addurne alcuna prova, che la sensitività fisica somministrava all' uomo oggetti reali, ed era essa la sola facoltà che avesse un tal privilegio. Tuttavia distinse la materia dell' oggetto sensibile dalla forma . Questa ei pretese che venisse dallo spirito, il qual vestiva la materia data dalla sensitività, delle due forme dello spazio e del tempo. Ma in quanto alla materia egli la lasciava come un fatto (empirico). Quindi nel sistema Kantiano rimaneva una dualità; perchè la materia sensibile (vera od apparente) non si poteva ridurre allo spirito come a suoncava la ragione sufficiente di questa dualità: e quindi si argomentò di ridurre ogni cosa ad un principio solo, che contenesse la ragione sufficiente di tutto. Questo filosofo tuttavia non osservò (ed è comune questa inavvertenza a tutti i filosofi della Germania) che, quand' anco venisse fatto di ridurre la pluralità all' unità, non è per questo solo soddisfatto all' esigenza del principio della ragion sufficiente, se non si perviene a tale unità, il concetto della quale contenga in sè la ragione di sè stesso. Così appunto quando Kant uscì a dire, che, quantunque la serie degli eventi mondiali non dimostrino in sè stessi la ragione di sè, o, secondo la sua maniera di parlare, non contengano la condizione della propria esistenza, tuttavia non si può per questo dire che essi non sieno incondizionati, perocchè si potrebbero concepire come assolutamente necessari; mostrò assai chiaro di non capire che cosa significhi ragion sufficiente: perocchè, se l' avesse inteso, avrebbe in pari tempo conosciuto, che ciò che non dimostra nel suo concetto la ragione e la condizione della propria esistenza, o del modo di essa, non l' ha. Perocchè avere in sè la ragion sufficiente, significa essere questa contenuta nel concetto della cosa; giacchè se è fuori del concetto delle cose, è fuori della cosa. Quando dunque un ente non ha la ragione sufficiente di sè nel proprio concetto, e conviene però cercarla altrove; il filosofo non può mica appiccicargliela, come dipendesse da lui il dargliela o il togliergliela: nè può neppure asserire la possibilità che esso l' abbia, contro il fatto che attesta non averla. Or tutto lo studio di Fichte si riduce a trovare un ente, a cui si riducano tutti gli enti; e trovato quest' ente dichiararlo arbitrariamente assoluto, quantunque il suo concetto non sia che quello di un ente condizionato , privo della ragion di sè stesso. Al che s' aggiunga un' altra riflessione preliminare. Tutto l' intento de' sistemi tedeschi, come dicemmo, è quello di trovare una ragion sufficiente della pluralità dell' ente. Ora questo intento suppone, che la stella polare, a cui affidano il corso de' loro ragionamenti, è il principio della ragion sufficiente . Ottimamente. Ma questo è un supporre la validità ed efficacia di questo principio; perocchè a tale validità ed efficacia è condizionato il valore di tutti i loro ragionari. Peccano adunque tutte queste filosofie di petizione di principio; perchè suppongono valido a conchiudere il vero un principio della ragione, mentre essi si propongono or di far la critica della ragione stessa, o di svolgere come nascono i principii della ragione, e come collo svolgimento del pensiero la pluralità stessa degli enti si va producendo. Il che dimostra, che evitare il circolo in filosofia non si può ricominciando di botto dall' ontologia , e che convien muovere anzi dall' ideologia , onde provvedersi di que' principii di ragionare che sono poscia gli stromenti co' quali la stessa ontologia si può edificare (1). Intanto, affine di portare un giusto giudizio de' sistemi tedeschi e de' sistemi ontologici in generale, è da fermare questo principio, che « il loro intento si è quello di dare una ragione sufficiente di tutte le maniere di esistenze »(2). Perocchè, conosciuto questo, noi possiamo esigere, che tali filosofi niente avanzino che sia privo di ragione sufficiente; giacchè, se lo facessero, mancherebbero al loro intento, e sarebbero in contraddizione seco stessi. Fichte adunque per trovare la ragione sufficiente della dualità che restava nel sistema di Kant, pretese che tutto quanto cade nel pensiero, e perciò l' uomo, il mondo, e Dio stesso, conveniva ridursi al solo IO. Egli moveva da questo principio: « tutto si deve rinvenire nella coscienza empirica », e biasimava Spinoza unicamente perchè fosse uscito da questo limite, dove l' uomo è racchiuso. [...OMISSIS...] Il principio, che non si deve uscire dalla coscienza empirica, è certamente specioso. Ma in prima quella parola empirica , che vi aggiunsero i tedeschi, è superflua e dannosa; superflua, perocchè empirica vale sperimentale, e la coscienza è sperimentale di sua natura, giacchè ognuno esperimenta ciò di cui è conscio; dannosa, perchè presuppone l' errore che v' abbia una coscienza non sperimentale, quasichè avere coscienza non fosse una vera sperienza. E quest' errore, insieme col vocabolo male appropriato, schizza appunto nelle filosofie tedesche, le quali tutte per poco presuppongono una coscienza diversa dalla sperimentale, che chiamano ora razionale, ora trascendentale, e che non è coscienza, ma piuttosto un cotal essere finto dall' immaginazione. Ora del principio, che non si deve uscire dalla coscienza, abusano gli idealisti; e della distinzione di due coscienze, l' una sperimentale, l' altra trascendentale, abusano quelli che volendo essere idealisti, pure intendono che al di là de' sensi e delle idee l' uomo ammette qualche cosa, e lo vogliono spiegare senza cessare di essere idealisti, tra' quali ultimi è Fichte. Vediamo adunque in che senso possa esser vero il principio, che non si deve uscire dalla coscienza, e quale ne sia l' abuso che ne fanno gl' idealisti trascendentali. Quest' abuso nasce dall' aggiungere a quel principio altri principii arbitrari, per esempio che un ente non possa inesistere in un altro, rimanendo distinto da quello in cui si trova. Questo principio è supposto gratuitamente da tali filosofi, quando, se avessero voluto consultare puramente la coscienza, questa stessa avrebbe loro data la prova della sua erroneità. La coscienza infatti suppone una dualità, il soggetto e l' oggetto, e suppone che l' oggetto sia nel soggetto, non in senso materiale, quasi come le frutta sono in un paniere, ma nel senso intellettivo, che altro non significa che l' oggetto è presente al soggetto e da lui conosciuto. Questo viene accordato anche da Fichte; ma egli coglie da questo appunto cagione d' uscire dalla coscienza, dicendo che questa dualità non si può spiegare, se non supponendo, che innanzi al soggetto ed all' oggetto v' abbia un punto d' indifferenza, dove si trovi la cagione del soggetto e dell' oggetto medesimo, nel quale punto d' indifferenza egli colloca la sua coscienza pura in contraddizione della coscienza empirica. Ma questa coscienza pura non è coscienza, se teniamo fermo quello che lo stesso Fichte ci ha accordato, cioè che la coscienza esiga un soggetto ed un oggetto. E in vero qual coscienza vi può essere, dove manca il principio che sia consapevole, e manca ciò di cui tal principio possa essere consapevole? La coscienza pura adunque supposta da Fichte come un antecedente alla coscienza empirica, non essendo per niun modo coscienza, sarà tutt' altro, se ella esiste; e questo è quanto dire, che il filosofo è uscito dalla sfera della coscienza, in cui si proponeva di rimanere. Nè basta a trattenerlo il puro nome di coscienza attribuito a quel supposto punto d' indifferenza, quando tal nome non gli conviene. La coscienza adunque suppone un soggetto ed un oggetto, ma non in ogni coscienza cade il soggetto, il quale non ha coscienza di sè che per riflessione, come lo stesso Fichte ci accorda, e però ha bisogno di essere oggettivato acciocchè egli diventi oggetto di coscienza. Nella coscienza adunque, propriamente parlando, non cadono che gli oggetti. Ma la coscienza stessa ci dice che un oggetto non è l' altro, nè si può coll' altro confondere od immedesimare. Ora gli oggetti che cadono nella coscienza sono innumerevoli, e tra questi vi è anche il soggetto che allor si rende consapevole di sè stesso, e ben presto si pronuncia col monosillabo IO. Or come la coscienza ci dà la distinzione di tutti i suoi oggetti, così ci dà la distinzione dell' IO da tutti gli altri innumerevoli oggetti che alla coscienza appartengono. La coscienza dell' IO ci dice bensì, che quest' io è il principio consapevole, ma ci dice in pari tempo, ch' egli, principio consapevole, è un solo di tutti gli innumerevoli oggetti della coscienza, ci dice che l' IO ha una relazione con tutti gli oggetti, ma che non ha la loro natura, che anzi la natura degli altri oggetti è essenzialmente e incomunicabilmente distinta dalla natura dell' IO. Così, quando io affermo me stesso da una parte, e dall' altra affermo un cavallo, una stella, o Dio stesso, è la coscienza, che ho di tutte queste cose, che mi fa conoscere la loro differenza, e m' attesta, che l' essenza del cavallo, o dell' astro, o di Dio, è un' essenza diversa di quella del me, affermante tali cose, e che perciò, se voglio ascoltare la coscienza, debbo prendere tutte queste cose per enti diversi. Vero è, che sono sempre io quell' istesso, che le conosco tutte, il che non vuol dir altro, se non che io ho con tutte la relazione di conoscenza. Ma quella coscienza che mi dice ciò, mi dice del pari che questa relazione non consiste in una identità di natura, ma bensì mi dice che quella relazione non potrebbe essere senza che la natura e gli enti fossero diversi. Onde, sebbene sia vero che per ispiegare la coscienza debbo supporre che un solo sia il principio consapevole, e questa unità di principio mi è attestata dalla coscienza; tuttavia tanto è lungi che sia necessario, per ispiegare la coscienza come vuol Fichte, di condurre tutti i diversi enti ad un solo ente, cioè all' IO, che anzi in nessuna maniera la coscienza umana potrebbe essere spiegata, se non si suppone diversità di enti, cioè se non si suppone, che quelli enti, che sono distinti dalla coscienza, siano distinti realmente. Fichte adunque cozza direttamente contro il principio di tutta la sua filosofia, che, come dicevamo, è quello della ragion sufficiente; perocchè, mentre egli crede di trovare la ragion sufficiente della coscienza nel ridurre tutti gli enti che cadono in essa ad un solo, il vero si è che con una tale riduzione, d' altra parte immaginaria e ipotetica, si distrugge bensì la coscienza, ma non la si spiega, essendo condizione indispensabile della coscienza la pluralità dei suoi oggetti, e l' unità solo di quell' oggetto che è anche soggetto. Fichte è infedele al suo principio di non dovere uscire dalla coscienza anche in un altro modo, cioè distinguendo, oltre la coscienza empirica, una coscienza razionale, la quale egli pretende di ritrovare nella coscienza empirica. Ma come ve la trova? Unicamente per questo argomento ch' ella è necessaria per ispiegare la coscienza empirica . E` dunque una argomentazione che adopera Fichte, colla quale argomentazione parte dalla coscienza empirica in virtù del principio della ragione sufficiente, e viene a questa pretesa coscienza razionale . Ma qual è questa nuova coscienza? questa cotale superfetazione della coscienza empirica? E` quel punto d' indifferenza di cui abbiamo parlato dove non v' ha nè oggetto nè soggetto. Ma senza oggetto e senza soggetto vi ha egli coscienza? No certamente; non resta dunque che una chimera; ovvero un' entità a cui non si può applicare il nome di coscienza, perocchè non vi si trova nè chi sia consapevole, nè ciò di cui possa esser consapevole. Con eguale improprietà egli dà il nome di IO a quella inconsapevole coscienza, cioè non coscienza, ch' egli suppone esistere anteriormente alla vera coscienza che è coscienza empirica; dico la coscienza empirica, cioè sperimentale, in tutta l' ampiezza della parola, non limitata alla sola esperienza degli organi sensorii. Onde pone due IO: l' IO assoluto, e l' IO empirico posto dall' Io assoluto. Ma se vi ha un principio che pone l' Io empirico, questo principio non può essere una coscienza, nè cadere nella coscienza; e però non sarà mai, e poi mai un Io; giacchè l' Io è per sua propria essenza una consapevolezza. Qualora adunque noi vorremo riconoscere per buoni gli argomenti di Fichte, questi ci condurranno alla necessità di riconoscere che l' Io, ossia la consapevolezza d' un principio d' azione intellettiva che pronunzia sè stesso, non può spiegarsi se non si ammette qualche cosa che sia anteriore all' Io, ed alla coscienza, e fin qui l' argomento corre. Lo stesso Fichte dice, che prima che noi venissimo al pensiero della riflessione, si erano succedute nel nostro spirito diverse operazioni spirituali, ma noi non ne fummo consapevoli. Solo ritornando lo spirito in sè, egli PONE SE` STESSO come un essere riflettente e pensante, ed allor solo ci rendiamo conscii di noi medesimi. [...OMISSIS...] Ottimamente: ma ciò che si trova d' antecedente alla riflessione non è mica per questo un' altra coscienza, non è un altro Io; ma è semplicemente uno spirito inconsapevole di sè stesso, e che non pronuncia punto sè stesso; perocchè altro è lo spirito intelligente, il quale è dato dalla natura, altro è l' Io , il quale è quello spirito già sviluppato e però artificiato «( Psicol. 67 7 .1) ». Ma da che fu mosso Fichte a dare il nome di Io a ciò che si trova nell' uomo di antecedente alla coscienza, e però di antecedente all' Io, onde cadde nell' assurdo d' ammettere due Io nello stesso soggetto? (1). Da quel principio male applicato che « tutto si deve rinvenire nella coscienza ». Ora la coscienza stessa lo conduceva fuori di sè, dimostrando d' essere fattizia, e d' aver bisogno d' una causa e di un' azione che la ponesse in essere. La verità del principio della ragione sufficiente risplendeva, e l' uomo poteva rendersi anche consapevole di questo splendore, e questo principio movente di tutta la filosofia conduceva a qualche cosa di anteriore alla coscienza. Ma poichè si era messo il chiodo di non doversi uscire da questa; però se ne usciva, e poi per non confessare d' esser uscito si copriva l' incongruenza con parole appiccicate, dando il nome d' Io e di coscienza a ciò che non era nè Io, nè coscienza. Quel principio adunque non è vero, se non inteso così « di dover muovere il ragionamento nostro dalla coscienza », ma non così « di dover fermarsi entro i cancelli della coscienza ». Questa seconda è la parte falsa, la giunta arbitraria de' sensisti e degli idealisti. Ma ond' avviene ciò, che la coscienza stessa conduca l' uomo fuori di sè, e il conduca a conoscere cose che non cadono in essa? Da questo che la coscienza è essenzialmente intellettiva, sorgendo in noi mediante una riflessione del pensiero sopra il soggetto pensante. Ora la natura dell' intelletto è tale, come abbiamo veduto, che mette l' essere intelligente in comunicazione (intellettuale) con cose diverse da sè. Nell' intelligenza vi è l' identità e il diverso, dato in natura; cioè vi è il principio intelligente, il quale è sempre identico a sè stesso in tutte le sue operazioni, e vi è il termine, ossia l' oggetto inteso, il quale è contrapposto al soggetto intelligente; e quest' oggetto inteso può essere qualsivoglia cose al tutto diverse dall' ente intelligente. Così nella natura intima dell' intellezione convien cercare il punto di comunicazione fra l' intelligente e gli enti da lui intesi; i quali hanno un loro modo d' INESISTERE NELL' INTELLIGENTE senza punto confondersi con lui, anzi da lui distinguendosi. Tale è il fatto , contro al quale non vale argomento alcuno, e molto meno l' argomento dell' analogia co' corpi e colla materia. Perocchè la immensa ripugnanza che hanno tutte le specie de' sensisti ad ammettere semplicemente un tal fatto, non procede da altro che da un argomentar che fanno per analogia a quel che vedono avvenir ne' corpi. Il quale argomento si riduce a questo: « un corpo non può inesistere nell' altro, dunque nessun ente può inesistere nell' altro »: dove la conseguenza è troppo più ampia delle premesse, e però vi ha il difetto logico della falsa induzione. Di più l' intelligenza non ha solamente ad oggetti suoi gli enti particolari, ma prima di tutto l' essere in universale , il quale colla sua universalità collega in varŒ modi gli enti tutti fra loro, onde nascono i principŒ del ragionamento , fra' quali uno è quello della ragion sufficiente , che produce nell' uomo il bisogno di filosofare. Or l' uso di questi principŒ, che suppongono il nesso degli enti dato allo spirito umano per natura nel primo suo oggetto, ci conduce da un ente all' altro, e talor anco dall' ente cognito all' incognito. Seguendo dunque il ragionamento là dove egli muove i passi, lo spirito nostro esce dalla coscienza, cioè a dire, non prende la sola coscienza per oggetto del suo pensare, ma altri ed altri oggetti. Fichte fa questo ragionamento: [...OMISSIS...] . Io non so se si possa dare un ragionamento più contraddittorio di questo. Si comincia dal dire che l' Io è una coscienza, e si finisce col provare che deve esistere un Io che non può venire a coscienza! Il ragionamento anzi prova che non v' ha un Io solo, come v' ha una sola coscienza; ma che anteriormente a questa coscienza, e prima che l' uomo pronunci questa parola Io, vi è l' uomo senza coscienza, e che non è propriamente Io in senso diviso, come dicono i logici, ma solo in senso composto (1). La proposizione: « Io so di me solo in quanto io sono, e io sono in quanto io so di me », contiene appunto il sofisma che i logici dicono compositionis et divisionis; perocchè nella proposizione « Io sono in quanto so di me », la parola Io può avere due significati: può significare semplicemente l' uomo (dove l' Io è preso in senso composto), e viene a dire, « quell' uomo che poi pronuncia Io », nel qual senso si chiama un Io l' uomo, non perchè col solo esser l' uomo sia un Io, ma perchè all' essere di quest' uomo s' aggiunse poscia l' Io; e può significare l' uomo avente la coscienza, e pronunciante l' Io (dove l' Io è preso in senso diviso), venendo propriamente a significare non l' uomo, ma la sua coscienza, l' uomo in quant' è consapevole. E` dunque vero che « Io, come coscienza di me, come uomo conscio, sono in quanto so di me »; ma non è mica vero che « Io, come uomo semplicemente, sono in quanto so di me », perchè anzi sono anche senza saper di me, ed ero prima che acquistassi alcuna coscienza, e dicessi Io. Quella proposizione adunque non prova, che l' uomo ponga sè stesso; prova solo, che l' uomo pone l' Io, cioè la coscienza di sè, quando dice me (2). L' Io adunque precisamente non è l' uomo, ma è un accidente dell' uomo, senza il quale sta l' uomo; è una produzione della riflessione, una cognizione acquisita; e non più. Fichte all' incontro confuse questa produzione accidentale colla sostanza dell' uomo, e suppose che l' uomo non fosse prima che ponesse sè stesso; quindi, in luogo di cavarne che l' uomo produce ne' suoi atti la cognizione di sè, ne cavò l' assurdo che produce sè stesso, che è la sua propria causa. La conclusione adunque di Fichte: « « Il mio Io è dunque solo in quanto egli si pone ed in quanto egli è attivo: l' azione è il carattere fondamentale dell' Io » », non hanno valore, se non tradotte in quest' altre: La coscienza di me stesso comincia in me con un atto mio proprio di riflessione, e però l' azione è il suo carattere fondamentale, perchè la riflessione è un' azione. Del resto avrebbe potuto dire di più, che il carattere di ogni ente è un' azione , presa questa parola in senso generalissimo, perchè l' essere stesso è un atto; e quest' atto in qualche modo pone l' essere, potendosi coll' astrazione distinguere in quest' atto il principio ed il termine, col quale la forma è già posta, fatta sussistere. Tale risultato dà l' analisi di ogni ente, e però non è maraviglia che ciò si avveri anche della coscienza, anche dell' uomo anteriore alla coscienza. Ma egli sarebbe pure un grande abuso d' astrazione il prendere il mero principio dell' atto per l' atto stesso, o per un atto compito e che possa stare da sè: valendo qui assai bene l' adagio scolastico, che « in actu actus nondum est actus ». V' ha poi una somma inesattezza di favellare, cagione ed effetto di gravissimi errori, in quelle parole che « « non v' ha coscienza se non si divide in soggetto ed oggetto, in ispirito e natura » ». Primieramente può cadere nella coscienza il solo oggetto, e non il soggetto; cioè io posso esser consapevole di qualche oggetto reale o possibile diverso da me, senz' avere alcuna attuale consapevolezza di me stesso, senza riflettere su di me nè punto nè poco. In secondo luogo, l' oggetto, di cui sono consapevole, potrebbe essere uno spirito, potrei essere io stesso; e in tal caso la natura sensibile (in quant' è contrapposta allo spirito) non cadrebbe punto nella coscienza. Onde la natura, il mondo, non è necessaria a spiegare la esistenza di una coscienza e di un Io. Questa considerazione è importantissima. Perocchè Fichte argomenta appunto così: [...OMISSIS...] . Ora, lasciando ciò che diremo appresso, noi neghiamo che la natura, il mondo, sia condizione senza la quale l' Io non possa avere coscienza; purchè gli sieno dati altri oggetti, poniamo oggetti spirituali, od oggetti anche meramente possibili. Onde il principio della ragion sufficiente non richiede assolutamente l' esistenza del mondo a far che l' Io acquisti coscienza, potendo egli a ciò venire per altre vie. In terzo luogo è del tutto falso, che la coscienza si divida in soggetto ed oggetto. Anzi la coscienza stessa ci attesta, che tanto il soggetto quanto l' oggetto non sono la coscienza, e molto meno due parti in cui ella si divide. In quanto al soggetto la coscienza ci dice, ch' egli è quello che è consapevole, ma non è la stessa coscienza, l' atto della consapevolezza. Il soggetto è il principio di quest' atto riflesso che consapevolezza si chiama, come è il principio di molti altri atti diversi da quello della coscienza. Fra gli atti del soggetto, ed il soggetto stesso, vi ha dunque una distinzione reale: gli atti del soggetto sono accidenti senza i quali il soggetto può essere. Tale è la coscienza; il soggetto può esser senza di essa; ma non può il soggetto essere senza sè stesso: egli è atto primo, di cui gli atti secondi sono derivazioni. Molto meno l' oggetto può essere la coscienza o parte di lei. Anzi è la coscienza stessa che ci attesta, che altro è lei stessa, altro i suoi oggetti; altro l' atto con cui ci rendiamo consapevoli, altro ciò di cui ci rendiamo consapevoli. La coscienza è un nostro atto o abito; ma l' oggetto, di cui ci rendiamo consapevoli, non è mica sempre un nostro atto, o un nostro abito. Se io sono consapevole di pensare una montagna, sono consapevole in pari tempo che la montagna pensata non è mica l' atto del mio pensiero, o la riflessione sullo stesso (la coscienza). Ma, che cosa fanno i sensisti? Dopo aver appellato alla coscienza, rinnegano tutte queste deposizioni della coscienza, e vi dicono che non possono essere vere , ve lo dicono sulla fede della loro parola, ve lo dicono a priori; anzi vi accertano che sono tutte illusioni, e che non esiste altro che la coscienza, e che il soggetto e l' oggetto sono parti di lei: a malgrado che di ciò non siamo consapevoli; anzi a malgrado che siamo consapevoli del contrario: quasi che, se fossero veramente parti della coscienza, la coscienza stessa nol dovesse sapere ed attestare. Dobbiamo dunque concludere esser falso il principio, « che l' azione di porre sè stesso supponga un Io puro ed assoluto »; quest' azione altro non suppone, che uno spirito che afferma sè stesso, ed affermandosi si conosce. Onde, in quant' è conoscente in atto di sè, egli si pone, ma questo è un suo essere accidentale; e però non pone la propria sostanza: ma nella propria sostanza pone un accidente coll' atto del conoscere. Quando poi si è posto e denominato Io , allora questo spirito, che acquistò tale modificazione accidentale e la denominazione d' Io, con un' altra riflessione sopra l' Io , pone di nuovo l' Io; ma il ponente non è un altro spirito, un' altra sostanza; ma lo stesso spirito di prima, identico. Onde, come le riflessioni sono innumerevoli, così le affermazioni di sè; e ogni volta che afferma sè l' uomo afferma un sè identico nella sostanza; ma modificato nella cognizione, perchè l' affermato è uno spirito che acquistò nuova cognizione mediante una nuova riflessione. E` dunque falso che l' Io ponga sè stesso, essendo vero solamente, che lo spirito pone l' Io presso quest' Io come significativo di quella coscienza, che non è l' essere dello spirito, come vuol Fichte, ma è puramente un suo accidente, la cognizione di sè, la quale può essere e non essere senza che lo spirito cessi di essere, benchè questo spirito la formi quando, conoscendo sè stesso, dice Io. E` falso parimente, che si abbiano due Io nello stesso uomo, l' uno ponente e puro, l' altro posto ed empirico. Ed essendo queste due falsità manifeste, qui potremmo chiudere il discorso sul sistema di Amadeo Fichte. Ma giova seguirlo nei suoi traviamenti. [...OMISSIS...] E certo, se qualche cosa potesse essere causa di sè, egli avrebbe in qualche modo in sè la propria ragione sufficiente: ma essendo una proposizione contraddittoria che chi ancora non è si dia l' esistenza, perciò cade tutto quel ragionamento. Que' filosofi nondimeno, che non hanno timore d' involgersi in perpetue contraddizioni, lungi dal trovar strano che un ente che ancor non è dia a sè stesso l' esistenza, o, come essi dicono, si ponga, vanno avanti, anzi più innanzi, e ne deducono che il nulla è cagione del tutto , creando così quel sistema che fu detto del nullismo. Costoro 1 partono sempre dal principio, che l' essere umano consista nell' atto o stato della propria coscienza; indi deducono che l' uomo prima della coscienza, essendo privo di essere, è NULLA. 2 Ma la coscienza è un atto dell' uomo stesso riflettente sul proprio essere dunque il NULLA, cioè quell' uomo che era nulla, ha dato l' essere a sè stesso, e diventò il creatore di sè medesimo. Essi negano adunque di riconoscere alcun essere avanti la coscienza, avanti alla quale pongono solo il nulla: confondendo essi il conoscere coll' essere dell' uomo; per uno strano abuso di astrazione, mediante la quale isolano il pensiero riflesso dall' uomo; e prendono quel pensiero così isolato come fosse tutto l' uomo in corpo ed anima. Il sistema del nullismo hegeliano è natìo dal sistema di Fichte come una naturalissima deduzione, ma egli è pur singolare a vedere la sorte dell' errore. Fichte insegna, che v' ha un Io assoluto che pone l' Io empirico , dove si trovano tutte le cose, il Mondo stesso; così fa dell' Io un essere infinito, Creatore, Dio. Ebbene viene Hegel: e accettando tutto il ragionamento di Fichte, ne conclude, che questo Io assoluto ed infinito è il NULLA; perocchè, se deve porre ogni cosa, anche sè stesso, dunque nell' atto di porsi, nulla è ancor posto, nè pure l' Io che pone; perocchè, se fosse posto, non avrebbe bisogno di porsi. Dunque il Dio di Fichte s' è cangiato d' un tratto logicamente nel NULLA di Hegel. Tanto è vero che le conseguenze di un errore conducono agli errori opposti, e le conseguenze di un assurdo conducono agli assurdi. La grandezza di questa filosofia sta appunto nella mostruosa grandezza degli assurdi, e quel certo attraente che esercitano sugli spiriti dipende dalla « Logica » che incatena l' uno coll' altro gli assurdi più contrari. Perocchè nei loro autori si scorge un gran potere di logica in rendere fecondi tali assurdi, che non si possono ammettere in modo alcuno senza aver prima rinunciato ad ogni logica. Del resto, se si considera che, non solo rispetto allo spirito umano, ma altresì rispetto ad ogni ente contingente, si concepisce la sua sussistenza come un atto avente un principio ed un termine, se si astrae il principio dal termine, questo principio astratto non esiste veramente, appunto perchè è un astratto. Indi prendono appicco i nullisti a dire che è nulla , e che dal nulla venne l' ente; perchè l' ente fu posto veramente in virtù del principio del suo atto. Questo astratto principio risponde in qualche modo alla materia prima degli antichi, che è nulla in atto e tutto in potenza. Ma tutta questa macchina cade a terra dal solo osservare, che il principio dell' atto costituente un essere non esiste punto separato dal suo termine; ma con esso e insieme con esso non è nulla. E` dunque abuso d' astrazione, che diede corpo a tali larve filosofiche. D' altra parte se si vuol riconoscere la ragione sufficiente dell' esistenza del termine nel principio dell' atto della sussistenza; non è già che si possa riconoscere in questo principio la ragione sufficiente di tutto l' ente; perocchè lo stesso principio dell' atto ha bisogno d' un' altra ragione che ne spieghi la sussistenza; perocchè il suo concetto non la contiene; potendo essere e non essere. Applichiamo quest' osservazione all' Io di Fichte che pone sè stesso. Quest' Io altro non è che il principio dell' atto di cui l' Io posto è il termine. Così lo descrive lo stesso Fichte, quando dice, che l' Io puro è superiore all' Io empirico, dove cade la differenza del soggetto e dell' oggetto, perocchè è l' origine di questo, e però lo chiama punto d' indifferenza . [...OMISSIS...] Ebbene, se quest' io è il principio dell' atto, pel quale sussiste l' Io termine di quest' atto; dunque egli si potrà bensì considerare come la ragione sufficiente del suo termine, ma non di tutto quell' ente che si chiama Io, e che come ogni altro si compone di principio e di termine. Rimane adunque a cercare ancora una ragione sufficiente di quel principio dell' atto che fa sussistere l' Io, perocchè quel principio non ha già in sè questa ragione sufficiente; giacchè, se l' avesse in sè, sarebbe racchiusa nel suo concetto. Ma il concetto del principio di quest' atto ci dimostra anzi, che si può egualmente pensare che esista o non esista; e però conviene cercare altrove la ragione sufficiente che spieghi perchè esista più tosto del suo contrario. Il che è quanto dire che il principio della ragione sufficiente dell' esistenza dell' umana coscienza non si può acquetare nell' Io puro ed astratto di Fichte; ma esige un' altra ragione fuori al tutto dell' Io umano, e veramente assoluta, la qual ragione è IDDIO. Ma egli è uopo che noi esaminiamo qui con qualche accuratezza gli argomenti da' quali Fichte fu indotto a credere, che affermare sia un porre, un creare. Questa sentenza già veniva qual conseguenza direttissima del pregiudizio degli idealisti, che niente possa essere fuori della mente dell' uomo. Ma Fichte adduce altre prove, e queste noi dobbiamo porre a disamina. I Argomento di Fichte . - [...OMISSIS...] . Giudizio sul detto argomento . - Esso è difettoso pe' seguenti capi: 1 L' Io non può porsi prima d' esistere: dunque non v' è un Io che ponga sè stesso; 2 la coscienza di sè può aversi senza bisogno che esista il mondo materiale; 3 Quando anco la coscienza non potesse essere senza il mondo, ciò non prova che l' Io ponga il mondo, ma solo che affermi il mondo già per sè esistente; 4 Il NON7IO non è il mondo; perocchè il Non7Io è una semplice negazione, e il mondo è cosa positiva; 5 Il mondo esterno (che il Fichte chiama la NATURA) è limitato; ma non viene da questo la limitazione dell' Io ; perocchè potrebbe esservi uno spirito che conoscesse il limitato, senza che per ciò fosse limitato egli stesso; 6 E` falso anche il principio presupposto da Fichte « che l' azione non si possa concepire senza una resistenza »; così si concepisce la creazione che è la massima azione; 7 Quand' anco l' azione avesse bisogno d' una resistenza per esercitarsi, ciò non proverebbe che questa resistenza la creasse ella a sè stessa; anzi, come cosa a lei opposta, le dee venire altronde. II Altro suo argomento . - Senza ammettere che l' Io ponga il mondo, non si può spiegare l' azione che l' Io esercita sul mondo. [...OMISSIS...] Giudizio sull' argomento . - Esso pecca in molti punti, cioè: 1 Niuno dice che Io sia unicamente un essere passivo, ma passivo in parte e in parte attivo: onde, enumerando gli assurdi che ne verrebbero dal far l' uomo del tutto passivo, il filosofo combatte avversarŒ che non esistono, e non tocca quelli che veramente esistono. 2 L' uomo non preforma, e non precrea il mondo, quando concepisce un ideale, a cui s' ingegna poscia di modificare il mondo. Tanto è lungi che l' uomo possa nulla sulla sostanza del mondo, ch' egli non può levare nè aggiungere al mondo la menoma particella di materia; benchè potrebbe concepirla diminuita od accresciuta, colla sua mente, in un qualunque ideale ch' egli si formasse. Ma l' uomo stesso, fino a che non ha perduto il senno, non potrebbe neppure concepire la menoma speranza di realizzare un ideale, nel quale si dovesse aggiungere al mondo o togliere un atomo. Che anzi il potere dell' uomo è limitatissimo, non solo sulla sostanza materiale, ma ben anche a modificarla; sicchè le modificazioni, che tutto il poter dell' uomo può cagionare sullo stato dell' universo, valgono presso che zero, computato l' universo intiero. Ora questa limitazione del potere dell' uomo sul mondo non trova alcuna ragione sufficiente nel sistema di Fichte; e tanto meno se si suppone che l' Io ponente sia un Io assoluto ed infinito. 3 Fichte trova impossibile che, se l' uomo rispetto al mondo è passivo, diventi poi attivo. Ma, primieramente, in ciò non vi ha la menoma contraddizione, perocchè l' uomo non è mica attivo sul mondo collo stesso atto con cui è passivo. Non si possono negare all' Io moltiplicità di oggetti, di atti, di facoltà, di leggi. Non v' ha dunque contraddizione che secondo gli uni sia passivo, e secondo gli altri attivo. Di poi, qui non si tratta di vedere, che cosa sia possibile, ma quale sia la cosa nel fatto. In terzo luogo, esclude forse il Fichte una limitazione posta all' operare dell' Io? una resistenza, un freno posto alla sua tendenza? Non già; ma, credendo di spiegarla, egli vuole che l' Io stesso produca a sè la resistenza e l' opposizione. Con questo sistema, alla prima difficoltà se n' aggiunge un' altra. Perocchè, se prima era difficile intendere come l' attività dell' Io potesse trovare una resistenza nel mondo, ora rimane questo a spiegarsi; ma s' aggiunge di più la difficoltà molto maggiore come sia possibile che l' Io stesso sia l' autore d' un ente che gli resiste e lo limita. Ricorrerà l' idealista al solito rifugio, che la resistenza è una pura illusione? Non può, perchè ha dedotta la necessità della resistenza come condizione dell' azione e della coscienza che l' Io vuol porre. E quanto poi non è arbitraria e strana quest' appendice, che l' Io, creando a sè la resistenza, cioè il mondo, si riserbò il potere di cangiarlo e di modificarlo! Vi ha forse una ragione sufficiente di ciò? E qual ragione sufficiente può assegnare il filosofo nostro, perchè l' Io si sia riserbato questa quantità determinata di potere, nè più nè meno? e se ne sia riserbata una quantità così piccola, che è nulla verso la potenza con cui il mondo resiste a' suoi disegni? E riserbandosi questo minimo grado di potenza sulla sua creatura, ha dunque rinunziato per sempre ad averne un grado di più? Il creatore potè abdicare così per sempre la sua onnipotenza? Avrà egli creato un complesso di esseri più potenti di lui? Non potrà annullare nè accrescere il numero delle sue creature? Non potrà più riassumere il suo maraviglioso potere? Non solo l' avrà perduto di diritto, ma anche di fatto? L' infinito sarà scaduto ad una condizione inferiore del finito da lui prodotto? E s' ella è così, dove oggimai si trova l' Io assoluto ed infinito? E` perito per sempre, come quegli animali che generando de' loro simili muoiono nell' atto della generazione. Mentre adunque Fichte inventa un sistema per assegnare delle ragioni sufficienti al fatto della coscienza, egli dà per ragioni altri fatti da lui supposti e disdetti dalla coscienza, i quali hanno bisogno assai più de' primi di spiegazione, ed anzi sono del tutto inesplicabili. Ed è poi lepido il modo facilissimo col quale fa comparire l' individuo umano al mondo! [...OMISSIS...] Vi par egli questa filosofia? non è ella una descrizione accurata e filosofica della maniera con cui l' uomo si pone da sè stesso? Ora sentitene la spiegazione: [...OMISSIS...] . Ecco adunque come i filosofi trascendentali descrivono i fatti, ecco come li spiegano. Li descrivono prima come produzioni di un Io precedente senza coscienza di sè, e tuttavia ASSOLUTO e INFINITO. Veramente chi ha coscienza (presso di loro sarebbe l' Io empirico) è qualche cosa di più di quello che non ne ha. Ma il loro assoluto, il loro infinito, il loro DIO, non ha coscienza, sì va travagliandosi per cavarla dalle proprie viscere, benchè il parto riesca sempre imperfetto. Così doveva essere, acciocchè un tal Dio potesse convertirsi nel nulla colla stessa facilità (mi si perdoni il paragone) con cui si rivolta la frittata nella padella. Quando poi vengono alla spiegazione, essi hanno alla mano la ragione sufficiente con ogni facilità, dandovela in questa o consimili parole: « era necessario che così avvenisse: l' Io doveva così operare: ne aveva proprio bisogno per porre sè medesimo: è una legge della sua coscienza »: quasichè, quando il filosofo dichiara una cosa necessaria, ella sia tale anche in fatto. Ma la necessità, dico io, convien provarla, convien trovarla nel concetto della cosa, e non fingerla, o introdurla a capriccio per un cotal puntello al proprio sistema. D' altra parte Fichte dice: « « Tostochè l' Io comparve a sè stesso nel mondo, egli dovette per legge della sua coscienza imaginare i suoi genitori e i suoi antenati » ». Ma datemi un poco la ragione sufficiente: 1 Perchè l' Io sia comparso nel mondo più tosto in un tempo che in un altro? perchè non prima, o non dipoi? 2 Perchè egli abbia creati questi fra' suoi genitori più tosto che altri, cioè genitori di tale età, fattezze, condizioni? perchè non gli si rappresentarono giovani anzi che vecchi, belli anzi che deformi, nobili e ricchi anzi che ignobili e poveri, buoni, anzi che malvagi ecc.? Dove trovate voi la ragione sufficiente di tutto ciò nel vostro sistema? E perchè certi fanciulli nascono orfani di padre, e non compare loro più la madre, morta nel darli alla luce? 3 Perchè l' Io non pone e crea sempre questa stessa linea d' antenati? ma conosce una serie più o meno lunga, e intende finalmente che la serie anche degli antenati incogniti non va più di là d' un certo termine? Nel sistema di Fichte la storia intera dell' umanità è una produzione dell' Io. Ma perchè mai inventò egli la storia in un modo piuttosto che in un altro? Quali ragioni sufficienti saprebbe addurre il nostro filosofo che spiegassero tutti gli accidenti storici che non mostrano alcuna necessità in sè stessi? Vi hanno molti concetti affini, i quali si confondono facilmente: i filosofi tedeschi, che hanno difetto d' analisi, traggono da una continua sostituzione di concetti gli oscuri loro sistemi: ciascuno de' concetti, di cui fanno uso, sarebbe importante e fecondo; ma, scambiati gli uni per gli altri, mescolano insieme la loro fecondità per modo che ne riesca un viluppo sottilissimo e un bastardume d' ogni generazione di piante che senza regola si aggraticciano ed impediscono. Il concetto di un Io assoluto produttore dell' Io empirico, in Fichte non è mai il medesimo; ma ora ei pone quell' assolutità in una cosa ora in un' altra. 1 Abbiamo veduto che l' ebbe posto in questo, che l' Io pone sè stesso. « Ma, non potendo avere tale proposizione alcun senso, s' ella non s' intenda così, che il principio di quell' atto, onde un ente (nel caso nostro l' Io) sussiste, pone il suo termine; questa proposizione nè ci conduce ad un Io, ma ad un principio di atto; nè ci conduce ad un principio necessario, ma contingente, e tale da supporre una ragione sufficiente fuori di sè. 2 Fichte dice ancora, che il carattere della ragione è il semplice porre in sè e per sè; e che in questa operazione si dee ravvisare la sua assolutità. In questo detto di Fichte v' ha della profondità, cioè vi hanno le vestigia di un ingegno che vide un nodo difficile, benchè nol sapesse superare; e già il solo vedere dove giaccia il difficile, suppone un pensare che non si trattiene alla superficie. Spieghiamoci. Il porre di Fichte altro non è che l' affermare . Quando l' uomo afferma, egli sa che una cosa sussiste; prima che l' affermi, egli è per lui come se quella cosa non sussistesse. Ma che cosa è questo affermare? Agli occhi di Fichte fu un porre gli esseri, un crearli; e ciò perchè altramente si sarebbero dovuti ammettere come esistenti esseri fuori della sfera del pensiero; e s' era messo il chiodo (tutto ad arbitrio) che non si dovesse uscire dal pensiero; non si dovesse uscire dalla coscienza: benchè pur si usciva (ed era contraddizione manifesta) col supporre un Io anteriore alla coscienza e causa di questa (1). Intanto però non si considerava, che è la coscienza stessa quella che ci dice che ella non crea le cose, ma non fa che affermarle; e l' analisi dell' affermazione importa il precedente concetto dell' esistenza; non potendosi affermare quella che già non esiste. Considerare adunque l' affermazione come una creazione, è un contraddire ad un tempo alla coscienza, e al concetto di questa operazione dello spirito che affermazione si chiama. Se affermando noi creassimo l' ente affermato, certamente lo sapremmo; noi avremmo il convincimento che l' ente affermato non esiste, se non nel momento dell' affermazione, e che cessando noi d' affermarlo, egli rientrerebbe nel suo nulla. All' incontro, noi, cioè tutti gli uomini, siamo intimamente persuasi, che l' ente non dipende punto dalla nostra affermazione, e che egli ha de' caratteri opposti a questa: per esempio egli ha il carattere di stabilità , quando l' affermazione è transeunte e momentanea; onde nell' effetto vi sarebbe assai più che nella causa: e quindi è impossibile trovare nell' affermazione la ragione sufficiente della sussistenza degli enti. E non di meno l' affermazione , colla quale noi ci persuadiamo della sussistenza degli esseri, è una operazione assai misteriosa; e l' aver veduto ch' ella non è di facile spiegazione, è ciò che ci fa lodare di profondità il pensiero di Fichte. Il misterioso, ch' ella contiene tale operazione, sta in questo, che per essa l' ente non è da noi conosciuto di più: giacchè l' ente si conosce coll' idea, e non con l' affermazione; giacchè quando si dice ente , si dice la sua essenza . E pure l' affermazione non è inutile al conoscer nostro: che cosa dunque conosciamo per essa? Primieramente non si dee mettere a suo conto l' occasione ch' ella ci porge di avere l' idea determinata dall' ente, perchè questa cognizione non ha propriamente la causa formale nell' atto di affermare; ma solo prende da quest' atto l' occasione, mediante il sentimento che serve di termine a cui si riferisce l' essere universale e così lo si limita. Rimane adunque che l' affermazione per sè altro non ci faccia conoscere se non la sussistenza di quell' ente di cui ci occasiona l' idea; idea che ci è data, come da vera causa, dall' intuizione dell' essere, e dal riferirlo che noi facciamo al sentimento. Ma che è la sussistenza dell' ente che non si trova nell' essenza (parlando di contingenti)? Altro non è che l' atto proprio dell' ente stesso, mentre l' essenza non è che l' ente in potenza. Ora quest' atto ha un rapporto reale con noi, o d' identità (se siam noi stessi l' ente di cui si tratta), o d' azione. Questa relazione reale , non essenziale all' ente, anzi contingente, è quello che si afferma. Coll' affermazione adunque, trattandosi di enti contingenti, si conosce non la loro essenza eterna e necessaria, ond' hanno il nome di enti; ma il loro atto contingente, la loro realità: in una parola non ciò che sono di diritto, per così dire, ma ciò che sono di fatto. Quel misterioso adunque, che si trova nella natura dell' affermazione, si riduce tutto al misterioso che si trova nella distinzione fra l' essenza dell' ente contingente e la sua realizzazione , o atto proprio dell' ente stesso. Or, quando noi abbiam detto che l' affermazione nostra non può esser quella che fa sussistere l' ente, perchè noi affermiamo un ente stabile e permanente anche oltre l' atto dell' affermazione; Fichte non ci può mica dire, che quest' è un' illusione trascendentale. Egli è singolare a vedere quanto venga comoda questa scappata a' filosofi della scuola tedesca. Ogni qualvolta vien loro fra i piedi qualche cosa che gl' imbarazza, se ne distrigano con tutta disinvoltura dicendo « quest' è un' illusione trascendentale ». Ma pure Fichte non può dir questo nel caso nostro; ed ecco perchè. Fichte e i fichtiani ragionano così: « Kant ha smembrato il pensiero, come pensiero, in antinomie, categorie ed altro, e in vece di verità ci ha lasciato contraddizioni. Se dunque cotesto smembramento del pensare non conduce che a contraddizioni, sèguita che si debba battere un' altra via per giungere alla verità, cioè la via del semplice affermare. La ragione, questa facoltà spirituale piena d' interna unità, non può condurre a contraddizioni (1). Il pensiero adunque non dee esser una proprietà suprema della ragione, ma solo una proprietà inferiore. Il semplice porre (affermare) in sè e per sè , o l' asserire senza più, è il carattere supremo della ragione, potendosi indi spiegare il pensare con tutte le sue contraddizioni »(2). Fichte adunque: I Confessa che la ragione non può contraddirsi nè illudersi; II Pone l' atto della ragione nel puro affermare . Dunque in questo affermare non può cader inganno. Dunque (per tornare a ciò che poc' anzi, p. 232, dicevamo: non potere Fichte in ciò imputarci di illusione trascendentale) la ragione, quando afferma un ente come cosa stabile e indipendente dalla stessa sua affermazione, non può farci cadere in alcuna illusione trascendentale: dunque ella non crea gli enti, ma li conosce già esistenti: dunque v' ha qualche cosa fuori della ragione umana, e in essa non si può trovar tutto, se ad essa medesima prestasi fede. Nè si può dire che l' affermazione non sia pura quando attesta tutto ciò: perocchè ella lo attesta sempre per tutti gli oggetti affermati, com' è suo proprio intrinseco carattere; senza il quale ella punto non sarebbe. III Ma Fichte poi attribuisce al suo porre in sè e per sè , che è l' azione essenziale della ragione, un altro senso; dal quale prende nuovo argomento per dichiararla assoluta e creatrice delle cose. Egli dice « che ogni tendenza dell' Io va a parare a quel punto, dove esso può sollevarsi dal pensiero e dal mondo ad un essere puro ed assoluto », il che è quanto dire che l' uomo non è pago se non si solleva all' infinito. Di che deduce che l' Io stesso, che ha questa tendenza, è infinito, assoluto. « L' Io si sente assoluto (così ragiona Fichte), e però indipendente dal mondo; egli tenta di strapparsi via dal mondo, e avvicinarsi allo stato assoluto. L' Io assoluto è quella idea che serve di base alle esigenze pratiche dell' Io « di comprendere in sè ogni realità », e di assolvere l' infinità. L' Io tende ad essere realmente assoluto, ma si trova in ogni momento limitato. Questa tendenza unita al sentimento di limitazione è la ruota che muove lo spirito umano, la quale non può fermarsi, ma trae l' uomo da uno stato all' altro; ella è la causa per cui l' uomo abbozza ideali di sè e del mondo, riformando sè e il mondo su di essi. Tendendo l' Io ad una assoluta illimitazione, egli dirige i suoi sforzi a t“r via la tendenza stessa; perocchè là, dove è tendenza, ivi è limitazione. Per questa tendenza di annullare ogni tendenza, mostra il carattere soprasensuale dell' Io: solo a questa condizione l' Io è assoluto. Tutta la moltitudine degl' ideali, tutte le immaginazioni d' una bella fantasia, traggon l' origine da questo carattere assoluto dell' Io. Ma questo carattere non è del tutto reale; esso è per ora un ideale che l' Io ha di sè, e giusta il carattere dell' Io resterà sempre un Ideale. Solo adunque in quanto l' uomo ha in sè l' idea dell' assoluto, e cerca in essa il proprio carattere fondamentale, egli è capace di poesia e di arte. Ma ancor egli sente che l' assoluto, suo carattere, lo muove alla moralità . Poichè l' uomo, ispirato da questa idea di assolutezza, disprezza e deve disprezzare tutti i motivi sensuali delle sue azioni, ed esercitare il dovere solo pel dovere: l' idea dunque del soprasensuale assoluto è il punto, donde parte ogni coscienza, e dove ogni coscienza di nuovo ritorna e si concentra. Qui si rileva l' errore capitale di Fichte e di tutti i filosofi trascendentali della Germania. Essi dicono in sostanza: « l' Io tende ad uscire dai suoi limiti; dunque ha un ideale di sè, un' idea dell' illimitato ed assoluto essere. Ma l' idea è un Io: dunque vi ha un Io7idea illimitato ed assoluto ». L' errore sta sempre nel confondere l' idea coll' Io, l' oggetto col soggetto. Si accorda che l' Io abbia l' intuizione di un essere illimitato, ideale; ma si nega che quest' essere ideale senza limiti sia lo stesso Io; perchè l' oggetto intuìto, non è il soggetto intuente. Il soggetto intuente, cioè l' Io, è quello che fa l' atto dell' intuire; ma chi mai dirà, che l' idea, che l' oggetto intuìto sia quello che fa quest' atto? Se l' oggetto intuìto è quello che intuisce, egli cessa, in quanto fa quest' atto, di essere oggetto intuìto, perchè l' intuìto e l' intuente sono relazioni che si escludono reciprocamente. Fichte dice, che, se si pone che l' oggetto sia diverso dal soggetto, non si trova più il nesso tra l' uno e l' altro; e che perciò conviene supporre, che il soggetto stesso si trasformi in oggetto, e rappresenti come due personaggi. - Ma questo è un correre a precipizio. Poichè: 1 Se non trovate il nesso che congiunga il soggetto coll' oggetto, in tal caso vi resta a confessare la vostra ignoranza, senza negare quel nesso che è un fatto evidentissimo. Per altro quel nesso si trova nell' atto della cognizione . D' altra parte, niuno può dimostrare alcuna ripugnanza nel concetto di più enti comunicanti insieme secondo la propria natura; 2 Il ripiego di Fichte, invece di sciogliere il nodo, lo taglia, negando che vi abbia un nesso reale, e dichiarandolo arbitrariamente illusorio; 3 Che anzi nè pure è vero che tagli il nodo: perocchè, dopo la spiegazione che pretende darne il nostro filosofo, quel nodo si rimane saldo come prima, anzi più involuto e aggruppato di prima. E veramente la spiegazione di Fichte si riduce a dire, che l' oggetto è solo apparentemente oggetto, ma realmente è anch' egli soggetto. E bene sia così: rimane però che quest' oggetto, in quanto è apparente, il che è un dire, in quant' è oggetto, non sia il soggetto. Vi ha dunque un nesso tra il soggetto reale e l' oggetto apparente, che rimane intieramente a spiegare, e che non si spiega già col distruggere l' oggetto facendolo rientrare nel soggetto. Sono adunque questioni che si confondono malamente insieme queste: Qual è la natura dell' oggetto? E` ella reale od apparente? Come può darsi un nesso tra l' oggetto (reale od apparente) e il soggetto? - Nè la soluzione dell' una è la soluzione dell' altra. Or non vale il dire, che, producendo il soggetto a sè stesso l' oggetto, produce anche il nesso che lega seco quell' oggetto. Perocchè con ciò altro non si farebbe, che di nuovo confondere due questioni differenti, cioè: a) Qual sia l' origine, la causa di quel nesso? b) Qual sia la natura di quel nesso? E` ella ripugnante questa natura o no? Da qualunque causa sia stato prodotto quel nesso, egli esiste: sia egli apparente o reale, esiste tuttavia. Ciò che si dee spiegare non è già la sua causa occulta; ma la sua natura manifesta , che sta nel fatto lampante della umana cognizione. Se l' Io occultamente produsse l' oggetto, questa produzione occulta non è il nesso che si vuole spiegare, perchè questo nesso è palese; e quella produzione perciò è esclusa dal nesso, e a lui anteriore. Se dunque Fichte immaginò quella produzione occulta come un' ipotesi atta a spiegare un tal nesso, dall' istante che è provato che quella ipotesi (d' altra parte mostruosa) non vale a spiegarlo, ella cade, e con essa tutto il sistema. L' errore fondamentale adunque di Fichte, come di tutta la scuola a cui appartiene, è di non poter intendere l' esistenza di un oggetto distinto essenzialmente dallo spirito che lo intuisce: e dal non poterlo intendere, argomentare che dunque l' oggetto dee incorporarsi occultamente col soggetto; imponendo così alla natura quelle leggi, che loro detta il non sapere. Dopo la pubblicazione del « Nuovo Saggio » e di altri miei lavori, ne' quali tolsi a dimostrare 1 che l' oggetto non si confonde col soggetto, e che questo fatto ideologico della distinzione dell' oggetto dal soggetto toglie via lo scetticismo, inevitabile a' sensisti e soggettivisti, i quali li confondono; 2 che l' oggetto per essenza s' intuisce dall' uomo per natura, ed è l' essere in universale: uno scrittore italiano affermò con forza il principio, che l' oggetto , distinto dallo spirito che l' intuisce, doveva essere la base del sapere e della certezza, e di questo ci congratuliamo; ma, nello stesso tempo che in questo vero egli conviene meco, stimò bene di farmi il viso dell' armi, e darsi la pena di scrivere diversi volumi per dimostrare, che io sono al tutto psicologista, ed egli solo è il vero ontologista. Perocchè egli scrive: [...OMISSIS...] . Questo scrittore credette di raggiustare il mio sistema col dire, che l' oggetto dell' intuizione che ha l' uomo per natura non è l' idea dell' ente, ossia l' ente ideale; ma che è l' ente reale , che contiene in sè ogni realità: perocchè, egli dice, l' ente ideale e comunissimo, se non è anche reale, s' immedesima col soggetto uomo (1). Così egli viene ad accordare di necessità a Fichte e agl' idealisti della Germania (che per altro si mostra persuaso di combattere vittoriosamente), che l' oggetto ideale , la pura idea , s' immedesima collo spirito; e però in questa parte diviene con essi idealista trascendentale. Dall' altra parte egli ammette coi sensisti, che il solo reale sia veramente oggetto, e con ciò pecca manifestamente di sensismo. Ben è vero che il reale può essere conosciuto e però può diventare oggetto della mente (il che noi diciamo oggettivare ), ma non è già vero, che sia conosciuto per sè stesso senza l' idea. Onde non essendo conosciuto per sè stesso, non è per sè oggetto della conoscenza. Laddove l' idea è conosciuta per sè, giacchè idea importa cosa intuìta, onde ella è per sè stessa oggetto, ed è quella che unendosi al reale lo rende conoscibile. Il vero oggetto adunque è l' idea; e questa poi partecipa l' oggettività al reale, a cui ella si unisce nella cognizione. Il supporre adunque che l' oggetto primo della mente sia il reale , è una eredità del sensismo. Essendo adunque dinanzi alla mente umana l' essere in universale , e mediante quest' essere illimitato giungendo l' uomo a conoscere la perfezione degli esseri, ed a produrre a sè stesso gl' ideali delle loro perfezioni; certo, dee suscitarsi in esso il desiderio di rendersi perfetto, e di toglier da sè, per quanto gli è possibile, i limiti: il che egli poscia giugne ad intendere che non può conseguire se non mediante l' unione coll' essere supremo ed infinito, dove, cessati tutti i limiti, è la pienezza dell' Essere realizzata: in una parola mediante l' unione con Dio. Ma egli non arriva mai naturalmente a concepire il desiderio, come suppone Fichte, di rendere Dio sè stesso; il qual desiderio mostruosissimo altro non sarebbe, che la massima inversione e perversione della propria natura, la massima immoralità e insieme la massima stoltezza. Lungi adunque d' avere Fichte osservata la natura umana, com' egli si proponeva, e conoscerne gl' interessi recessi; egli non pervenne punto a conoscerla, e confuse l' ultimo decadimento di essa, qual è l' orgoglio di divenire una Divinità, col supremo innalzamento a cui aspira, qual è la massima sommissione e umiliazione alla Divinità: perocchè l' ideale dell' uomo, l' uomo perfettissimo, è l' uomo che riconosce sè stesso nulla dinanzi al tutto che è Dio, onde sente d' avere ogni cosa ricevuto. Quanto è adunque illegittimo interprete del voto della natura umana quel filosofo, il quale prende per ideale dell' uomo l' angelo ribelle! Fichte distingue il suo sistema da quello degli Stoici così: [...OMISSIS...] . Colle quali parole voleva dire, che la coscienza essendo limitata, e non potendo mai pervenire a levare da sè tutti i limiti, essa coscienza, che è l' Io empirico, non può esser Dio, ma solo tende a rendersi uguale a Dio. Ma che cosa è questo Dio di Fichte? E` l' idea infinita dell' Io; quello che chiama Io puro, e che pone l' Io empirico: ponendo questo Dio non si esce dall' Io umano. E` un Dio ideale che continuamente tende a realizzare sè stesso, ed è impotente a segno che non arriva mai: onde stabilisce questo filosofo una perfettibilità eterna dell' uomo; e nello sforzo continuo di giugnere alla perfezione, senza mai pervenirvi intieramente, egli pone l' umana destinazione . Qui si vede comparire in altra forma il sistema della speranza sempre ingannevole di Foscolo (1). Ora egli è falso, per dirlo di nuovo, che l' uomo tenda a divenire un Dio realizzato; come è falso che l' ideale dell' uomo sia quello di un Io senza limitazioni di sorte alcuna; giacchè, togliendo all' Io tutte le limitazioni, egli perderebbe affatto la propria identità, e diverrebbe un altro essere: nè egli è possibile che l' Io desideri di perdere l' identità sua propria; quando anzi è vero che ogni essere intelligente brama bensì di perfezionarsi nella sua natura, ma non brama cangiar natura; la cui brama avrebbe d' altra parte per oggetto un assurdo. Dall' esame de' principii accennati di Fichte vedesi che la filosofia da lui proposta manca di solidi fondamenti. Vedesi del pari che questo filosofo, volendo stabilire un essere assoluto che contenesse la ragione di tutte le cose, e d' altra parte non volendo uscire dell' uomo, pel pregiudizio sensistico ed idealistico; ricorse ad un Io, che non può essere in alcun modo assoluto, infinito, ragione delle cose, Iddio. E veramente: I Quest' Io puro di Fichte non ha coscienza, appartenendo la coscienza all' Io empirico. Ma un assoluto, e un Dio senza coscienza, non può essere un assoluto, e un Dio; ma piuttosto uno stipite. II L' Io puro di Fichte non può esser libero , perchè la vera libertà è una dote propria della volontà , e la volontà non esiste se non qual conseguente de' beni conosciuti. Ma l' Io puro non conosce come tale cosa alcuna, e perciò egli opera del tutto alla cieca, e necessariamente. Abusa dunque il filosofo nostro, seguìto in questo da Schelling e dagli altri trascendentali, quando pretende che l' Io sia sommamente libero appunto perchè pone sè stesso. Schelling così esprime questo pensiero: [...OMISSIS...] . 1 Ora, se l' Io si conosce perchè si determina, dunque innanzi a tale determinazione non vi ha cognizione, e però nè pur volontà, e meno libertà (se per libertà s' intende una dote della volontà). La libertà dunque di cui parla qui Schelling è una cieca necessità. 2 Si dice che la determinazione che prende l' Io non ha fondamento ulteriore: ma le determinazioni che non abbiano per loro fondamento una ragione , sono cieche: la volontà stessa di Dio dee essere sempre guidata da un lume intellettivo: onde non è già un pregio, ma un difetto l' attribuire ad un ente il determinarsi senza cognizione e senza ragione; 3 Il dire che non ci possiamo innalzare al di sopra di quest' azione, è un parlare così improprio, che assai più vero sarebbe dire il contrario, cioè che non ci possiamo abbassare al di sotto di quest' azione. Che se egli sembra che l' astrazione non possa andare più là nell' operazione descritta da Schelling (benchè nè pur questo sia vero); in tal caso è da osservare che l' astrazione non ci conduce mica sempre ad esseri più nobili e perfetti, ma piuttosto ad esseri più imperfetti. 4 I nostri idealisti affermano che « isolandosi da ogni oggetto lo spirito non trova più che sè stesso »: ma essi non riflettono che cosa si esige acciocchè lo spirito possa trovar sè stesso, perchè non analizzano questa operazione. Lo spirito non trova sè stesso se non percipendosi. Ma non si può percepire, se non si afferma come un ente; e non può affermarsi come ente, se non sa che cosa sia ente . Ora sapere che cosa sia ente, è lo stesso che avere l' idea dell' ente. Lo spirito adunque non può trovar sè stesso, se non ha presente l' ente come suo oggetto. E veramente lo spirito è un soggetto, e non comincia a divenire oggetto a sè stesso, se non si contempla nell' essere , e così si oggettivizza, partecipando dell' oggettività essenziale dell' essere stesso. L' immaginarsi adunque che lo spirito possa percepir sè stesso, o sia trovarsi, astraendo da tutti gli oggetti, è un errore proveniente da difetto di scienza ideologica; lo spirito non può percepire e trovar nulla, se non col mezzo dell' idea dell' ente, che è l' oggetto per essenza: tolta via la quale idea lo spirito è nelle tenebre; non conosce più nulla, nè sè stesso nè l' altre cose. Anzi lo spirito così accecato cessa d' essere spirito intelligente; molto meno può essere qualche cosa di assoluto. Egli è poi strano che i filosofi tedeschi diano il potere all' astrazione di trovare o di creare l' assoluto , quando l' astrazione niente trova nè crea; ma solo separa; e si esercita sopra un oggetto già percepito. Che cosa può fare dunque l' astrazione rispetto allo spirito? Separarlo dagli oggetti reali che non sono lui stesso. Che ci rimane allora? Lo spirito solo; quello spirito che si aveva anco innanzi: con ciò non si è innalzato sopra il finito, ma s' è spogliato di tutte le sue cognizioni; e però non resta punto migliorato, anzi deteriorato all' ultimo grado. Perciò noi dicevamo, che questa astrazione non innalza lo spirito, ma lo abbassa tanto che non si può di più. 5 Vero è, che con ciò si vuol pervenire all' atto primo dello spirito. Ottimamente, ma quest' atto primo, col quale lo spirito esiste, nol fa certo volontariamente, perchè non conosce ancor nulla, non potendo conoscere nè operare prima di esistere; il perchè quest' atto non si può chiamare volere , se non abusando de' termini della scienza. Nè pure lo spirito si determina ad esistere da sè stesso, perchè non può determinarsi se prima non esiste. Quindi egli è necessario che un altro essere lo determini ad esistere, e quest' essere è DIO. Conviene adunque ricorrere ad un essere che stà al di fuori dell' IO umano per rinvenire la ragione sufficiente di questo, e sono al tutto inutili gli sforzi de' trascendentali (1) per racchiudere l' uomo in sè stesso. L' illusione di questi filosofi consiste nel confondere: a ) La prima condizione del conoscere umano col primo oggetto della conoscenza. La prima condizione del conoscere è che esista lo spirito; ma non ne vien mica per questo, che l' atto con cui esiste lo spirito sia il primo oggetto della conoscenza. L' uomo ha un primo oggetto della conoscenza (l' essere), per mezzo del quale conosce la condizione del suo atto di conoscere , e distingue tanto bene quest' atto dall' oggetto , che quello lo ravvisa contingente, e questo necessario. L' atto del conoscere, nè pure l' atto dell' esser umano, non è assoluto; ma l' assoluto conviene cercarlo nel primo oggetto del conoscere compiuto e realizzato. b ) Essi confondono ancora ciò che è il primo nell' essere dell' uomo con ciò che è assoluto , ragionando in sostanza così: « L' atto dell' esistere umano è il primo di tutti gli atti che fa l' uomo. Ma fuori dell' uomo non v' ha nulla, pel pregiudizio sensistico. Dunque quell' atto deve essere la ragione di tutte le cose, l' assoluto ». Ma la minore del sillogismo è falsa. E se fosse vera, sarebbe ancor falsa la conseguenza, giacchè non se ne potrebbe cavar altro, se non che la ragione sufficiente, l' assoluto, manca del tutto, riuscendone quest' argomento: « L' atto dell' esistere umano è il primo degli atti umani. Ma non vi ha nulla fuori dell' uomo, e l' atto dell' esistere umano è di fatto contingente. Dunque manca l' assoluto, la ragion sufficiente degli atti umani ». A cui si deve far susseguire quest' altra proposizione: « Ora la ragion sufficiente ci dee essere: dunque è falso quest' argomento ». 6 Uno spirito che opera ciecamente, non può avere alcuna regola sua propria, perchè la regola non è tale se non si conosce, e lo spirito di Fichte e di Schelling si suppone aver annientati tutti gli oggetti del suo conoscere. E noi potremmo recare più innanzi questa enumerazione di assurdi, se fosse prezzo dell' opera. III L' assoluto di Fichte e de' filosofi che sono andati sulla sua via è un assoluto in potenza; perchè è un Io che ha bisogno di porre sè stesso, e che quando si pone diventa empirico. Ma ciò che è in potenza è ciò che vi ha di più imperfetto, e somiglia alla materia prima, che rappresenta il più basso grado dell' essere. Se non che gli antichi intendevano, che quello che non ha già in sè stesso l' atto dell' esistere, dee riceverlo da altro; e però niuno mai sognò che la materia prima dèsse a sè stessa la forma. Ma ben sognarono questo assurdo i trascendentali della Germania, i quali, ad un principio che non è ancor posto, accordarono la virtù creatrice. IV L' assoluto di Fichte, a cui si attribuisce il poter creatore, è impotente , perchè si sforza di porre sè stesso in un modo incondizionato, e non vi perviene giammai. Ma l' assoluto essere esclude il difetto dell' impotenza. V L' assoluto di Fichte è perfettibile , senza che giammai possa raggiungere la sua propria perfezione ponendosi compiutamente: ma un ente che è, e rimane sempre imperfetto e limitato, non può essere assoluto. Non v' ha dunque un Io umano che sia un ente assoluto . Ora la ragione sufficiente di tutte le cose non si può ritrovare se non in un ente da ogni parte assoluto. Dunque la filosofia trascendentale, che ha preso l' assunto di trovare una ragione sufficiente di tutte le passioni e i modi dell' ente, ha pienamente fallito al suo scopo; ella ha dichiarato assoluto quello che non è, nè può diventarlo per l' affermazione di un filosofo: ella s' è chiusa nell' uomo, cioè nel contingente, e per quantunque astrazioni ci abbia fatto sopra, per quanto l' abbia distillato nelle vane storte della sua imaginativa, non n' ha cavato altro che contingente. Per quantunque Fichte abbia tolto a filosofare, prevenuto dal pregiudizio degli idealisti « che l' uomo non può conoscer nulla, se non ciò che ha in sè, e che tutto ciò che l' uomo ha in sè è parte dell' uomo »; per quantunque la sua nobile intelligenza si fosse resa schiava di un principio sì gratuito e sì falso, e strascinando sì pesante catena non potesse correre nè camminare liberamente; per quantunque si sforzasse di far apparire più ampio che non fosse il breve spazio della prigione dove s' era chiuso da sè stesso, col far per essa mille giri e rigiri circolari: egli era impossibile che finalmente non ci sentisse l' angustia del luogo, e non gli venisse voglia di atterrare le mura della povera natura umana, o di farvi un buco almeno per ispiarvi fuori e godervi la bellezza dell' immenso campo del cielo. Egli era stato costretto a stabilire un Io che non aveva più niente dell' Io umano, e di dare a quest' Io le prerogative opposte a quelle dell' uomo; e tuttavia il pregiudizio, che serviva di base e di tema a tutta la sua filosofia, lo costringeva ad affermare che quest' Io era l' uomo, o parte dell' uomo; quasichè coll' affermarlo potesse un filosofo far che fosse quel che non è. Era stato spinto fino ad affermare, che quel suo Io « non era già l' Io individuale proprio di questa o di quella persona, ma un Io elevato sopra ogni individualità, sopra ogni soggettività ed oggettività: un Io comune a tutte le idee razionali; non già l' Io di Kant, ma l' Io di tutte le possibili intelligenze ». Confessava egli bensì che non se ne potea provare direttamente l' esistenza, e che tutta la dimostrazione indiretta che se ne potea dare stava in questo che « quell' Io DOVEA esser presupposto, perchè altramente non si poteva spiegare la coscienza ». Onde, mentre l' Io evidentemente esprime un individuo che pronunzia sè stesso, Fichte era costretto, per non abbandonare il sistema, a dire che il suo Io non era individuo, togliendogli così ciò che forma l' essenza dell' Io. Quando un uomo di mente è pervenuto a sì sformati paradossi, e a contraddizioni sì intrinseche e manifeste, per quantunque sia dominato da pregiudizŒ bevuti da' suoi maestri, se di gran mente è fornito, non può a meno di ridestarsi; ed è vicino a mutar sistema. Infatti, che mai si esigeva acciocchè Fichte il mutasse? Nulla più che di cambiare una parola. Egli era già in fatti uscito dall' uomo, perchè l' Io a cui ricorreva per ispiegare l' esistenza dell' uomo, niente aveva più di ciò che costituisce l' uomo: ed aveva ciò che non potea aver l' uomo, come la necessità e gli altri attributi divini. Bastava dunque, che mutasse nome a quest' Io, e non chiamandolo più uomo confessasse che era Dio; e gli togliesse d' attorno quelle imperfezioni, e per così dire quelle immondezze che gli erano restate appiccicate nel parto impuro e laborioso pel quale si era fatto nascere dai visceri della natura umana. Così fece Fichte, e nella sua nuova opera intitolata « Sistematica » (1), alla parola Io sostituì finalmente la parola Dio . Se questo filosofo avesse potuto vivere una vita due volte più lunga, io credo, che, come rinvenne da questo error capitale, così egli sarebbe rinvenuto dagli altri; perocchè quando un ingegno comincia a volgersi verso la verità, egli va innanzi per quella via e non è più pago se non la fornisce. Ammise adunque il nostro filosofo Dio, non più come un' astrazione, un' idea morta, ma come un essere vivente. Col suo essere è dato tutto l' essere, ed ogni altro essere possibile. Ma come nascon da Dio le cose? Ecco lo scoglio perpetuo di que' filosofi che hanno voluto vedere il fondo di tanto secreto. Fichte adunque pose Iddio , e una estrinsecazione di Dio . L' essere di Dio avente quasi due facce: la faccia interna, accessibile solo al pensiero; e la faccia esterna che viene anche chiamata dal filosofo « « l' essere di Dio fuori del suo essere » ». Questo essere di Dio fuori del suo essere è anche detto il sapere di Dio, e appellato lo schema , equivalente nel linguaggio di Fichte ad imagine . Questo solo schema di Dio può essere fuori di Dio, non propriamente come un effetto, ma come conseguenza immediata del suo essere: quindi è lo spirito umano ed il mondo. In una parola tutto quello che nel primo suo sistema Fichte aveva detto dell' Io puro, nel secondo lo dice di Dio; il che dimostra aver compreso il nostro filosofo, che non si potea ridurre l' Io empirico all' Io puro senza fargli perdere la sua identità, senza cessare di essere Io. Ma rimase infitto anche nel secondo sistema l' errore di fare che il mondo fosse qualche cosa della divina natura. Rixner nel suo « Manuale della Storia della Filosofia » espone così questa specie di emanazione o di panteismo a cui s' abbattè Fichte quando riconobbe l' insufficienza del suo primo sistema. [...OMISSIS...] Si asserisce, che la vita divina diventa vita che si sviluppa nel tempo: ma che cosa vuol dire questo diventa? Chi la fa diventare? Può egli l' essere divino diventare qualche altra cosa? può limitarsi senza cessare di esser divino? o può egli cessare? o può essere ad un tempo limitato ed illimitato? Che se la vita divina diventa il genere umano ed il mondo, dov' è la ragion sufficiente che spieghi perchè diventi questo mondo più tosto che un altro, con questo numero determinato di enti, e di modificazioni nè una di più, nè una di meno? E come questa vita divina estrinsecata e divenuta umanità ha perduto la coscienza di essere vita di Dio? Simili domande si potrebbero fare ad ogni parola del nostro filosofo. Egli investiga una filosofia che contenga la ragione sufficiente di tutto; e, in vece di ragioni sufficienti, afferma nuovi fatti, i quali esigono assai più perchè si possano credere una ragione sufficiente, ed in quella vece son tali che al tutto la escludono, son tali che mostrano di non poterla in alcun modo avere. Dalle cose dette apparisce, che questo filosofo riduce tutte le manifestazioni dell' ente a due supreme entità: I L' Io puro nel suo primo sistema; nel suo secondo sistema Iddio . II L' Io empirico nel suo primo sistema; nel suo secondo sistema l' Umanità . L' Io empirico , ossia l' umanità , viene suddivisa in a ) Io , e b ) Non7Io - Spirito e Natura. All' Io empirico non disdice il nostro filosofo tutte le forme di Kant, come nè pure il paralogismo , le antinomie , e l' ideale che Kant attribuisce alla ragione. Nel sistema di Fichte adunque è ritenuto il sistema kantiano, ma come occupante un posto inferiore. Fichte fece al Kantismo quasi direi la sommità di cui credeva privo l' edificio del suo maestro, e così gli parve d' averlo ultimato. Or noi non ci tratterremo a dimostrare l' enormità di queste cotali categorie fichtiane, rimanendo già provato quanto esse sieno erronee ed insufficienti dalle cose qui sopra ragionate. Il paralogismo adunque che serve di base al primo sistema di Fichte si può esprimere così: « Vi dee essere una ragione sufficiente di tutte le cose che sono od appariscono: ma, l' uomo non potendo uscire da sè stesso, le cose che gli appariscono debbono essere elemento che costituiscono la sua stessa natura, e che in lui si vanno svolgendo; dunque anche la ragione sufficiente di tutte le cose SI DEVE TROVARE nell' uomo, nel fondo della sua natura ». Quanto la minore di questo sillogismo sia gratuita ed erronea noi l' abbiamo veduto. Ma, dato ch' ella fosse anco vera, avrebb' ella la conseguenza un valore? Non avrebbe altro valore che quello che può avere un membro d' una antinomia. Perocchè si potrebbe contrapporci un altro sillogismo, in questa forma: « Di tutto quello che è nell' uomo si dee avere una ragione sufficiente; ma nell' uomo questa ragione non vi è, perchè tutta la natura umana è contingente: dunque la ragione sufficiente di tutte le cose NON SI PUO` TROVARE nell' uomo ». Or quando s' incontra un' apparente antinomia, l' uno de' due membri opposti deve esser falso; e fino che non si è provato falso l' uno di essi, entrambi restano dubbiosi. In ogni modo adunque il primo sistema di Fichte manca di una solida base. Oltre di che, dopo aver Fichte concluso che la ragione sufficiente di tutte le cose si deve trovare nell' uomo, quando si pose all' opera per indicare in quale elemento dell' umana natura consistesse questa ragione sufficiente, immaginò quello che egli chiama l' Io puro , il quale nè si conosce per veruna esperienza, nè cade in modo alcuno nella coscienza dell' uomo. Egli adunque con ciò: 1 Era uscito dalla sfera dell' esperienza, e aveva stabilito un principio a priori , non più distinguendo coordinatamente le due Ragioni, come avea fatto Kant, la teoretica e la pratica , ma dando alla ragione pratica il principato e facendola madre della ragione teoretica; cosa d' altra parte assurda, perchè la stessa esistenza della ragione pratica non si potrebbe conoscere se la ragione teoretica non la dimostrasse. Così Fichte o doveva credere alla ragione teoretica di tutti gli uomini, e in tal caso il suo sistema veniva da essa necessitato; o doveva consentire a Kant che ogni ragionamento a priori non fa conoscere oggetti nuovi se non illusoriamente, e in tal caso il suo Io puro , che non si potea afferrare coll' esperienza, diveniva anch' esso un' illusione trascendentale; 2 Era uscito dalla sfera dell' Io umano , perocchè la parola Io esprime un ente consapevole che pronuncia sè stesso, e quest' Io che pronuncia sè stesso, e che è l' umano, non sa nulla del compagno che gli si vuol dare, ma sa che egli non è questo. E questa seconda ragione essendo balenata finalmente agli occhi di Fichte, a cui anco doleva di vedersi considerato in Germania come un ateo, il condusse, come dicemmo, a sostituire Iddio al suo Io puro, dove aveva collocato l' assoluto. E questo fu l' addentellato a cui raggiunse Schelling la sua fabbrica. Ma accettando il Dio di Fichte, ricusò d' accettare la connessione che Fichte avea stabilito fra questo Dio e l' altre cose, la quale consisteva in dichiarare l' uomo nulla più che un cotale schema ideale di Dio. Fichte s' atteneva ancora con forza al principio dell' idealismo trascendentale che tutto l' essere si riduca al sapere, e che il sapere sia il solo generatore delle cose. Quindi l' uomo era per Fichte l' unica espressione e rivelazione del sapere divino, e la natura era ancora una cotal produzione apparente dell' uomo, che l' uomo opponeva a sè stesso, per poter pugnare con essa, e pugnando perfezionarsi. Ma in questo modo, secondo Schelling, non si rinveniva una sufficiente ragione dell' uomo e della natura; perchè non appariva come Iddio avesse potuto produrre una sua immagine che non avesse la natura di lui, e un mondo che fosse morto e non vivo e divino. La separazione dunque del mondo da Dio rimaneva così senza spiegazione. D' altra parte il Dio di Fichte era fuori della coscienza umana, e non si poteva intuire. Secondo Schelling adunque, per ispiegare le cose che sono ed appariscono, conveniva trovare un sistema nel quale si potesse « « appercepire il divino come l' unico vero reale, e appercepire l' unico vero reale come l' unico vero divino »(1) ». Quindi nacque quel sistema che fu intitolato dall' identità assoluta . La maniera dunque di ragionare di Schelling si riduce al seguente paralogismo: « Non si vede una via di spiegare come l' uomo e la natura (il mondo) sieno enti distinti dall' Essere Supremo. « Ma se si negasse questa distinzione, e si dicesse che tutte le cose s' indentificano in Dio, la filosofia sarebbe liberata dalla molestia d' una tale questione. « Conviene adunque stabilire un sistema d' identità assoluta , per mezzo del quale tutte le cose contingenti vengano identificate con Dio ». Ognuno sente quanto vi ha d' arbitrario e di falso in tale argomentazione. La filosofia dell' identità assoluta trae la sua origine dall' ignoranza, e dal pudore che sentono i filosofi a risolversi di confessarla. Ma l' ignoranza non è la miglior base che si possa dare ad un sistema. L' ufficio della filosofia è quello di sciogliere le questioni: ella manca al suo ufficio qualora, non sapendole risolvere, inventa un sistema apposta per escluderle, o per dir meglio inventa un sistema che prende per suo fondamento la supposizione che quelle difficoltà non esistano. Tale è il fatto di Schelling. Se si considera il lavoro di Schelling come una continuazione logica (1) di quella de' suoi predecessori (Kant e Fichte), si trova che egli aggiunse all' eredità da essi ricevuta (e per avventura senza benefizio d' inventario) quella parte che denominò « Filosofia della natura ». Ma egli pretese di più, che la filosofia della natura e la filosofia trascendentale , che fu la detta eredità, avessero il medesimo oggetto, cioè Dio con due diverse manifestazioni, che sono natura e spirito, essere e sapere . Già in queste due parole essere e sapere ravvisasi un mancamento, perchè sapere non è che l' atto di un essere, e però egli è appartenenza del soggetto. All' incontro sotto la categoria del sapere Schelling introduce le idee , come le idee fossero sapere, mentre esse altro non sono che mezzi ed oggetti del sapere. La confusione adunque del soggetto coll' oggetto ravvisasi per tutto negli scritti di Schelling come in quelli de' suoi maestri. Ma poniamo a dirittura sott' occhio al lettore in piccol quadro il disegno della Schellinghiana filosofia (a cui però l' autore stesso più tardi dovea aver rinunziato). Questo è il seguente: [...OMISSIS...] Questo disegno ha la più perfetta regolarità; è compassato a meraviglia. Ma per ciò appunto dee dar sospetto: chè difficilmente l' immensità dell' essere lasciasi misurare da poche menate del compasso dell' uomo. Conviene adunque riflettere sopra un sistema così delineato, e in parte colorito altresì dall' autore, quanto segue: I Mettendo da una parte la natura, l' universo reale , dall' altra l' universo ideale , non apparisce qual sia il nesso tra i due universi. Il nesso è formato dall' ente intellettivo , il quale appartiene all' universo reale, ma attigne le idee, o piuttosto le idee a lui si comunicano; e in questa comunicazione e congiunzione non istà già l' identificazione del reale coll' ideale , che sempre rimangon distinti; ma bensì l' unità de' due estremi, e dimostra come sieno intimamente congiunti senza confondersi. II L' universo è limitato: a ) nel numero e nella grandezza de' corpi; b ) nel numero e nelle doti degli enti intellettivi; c ) nella quantità di potenza e d' azione attuale di tali enti. Niuna ripugnanza vi ha a concepire che i corpi e gli esseri esistenti, invece d' esser quel numero che sono, fossero uno di più o uno di meno: niuna ripugnanza che le doti, la potenza e l' azione complessiva fosse maggiore o minore di quello che è. Convien dunque assegnare una ragione sufficiente di queste limitazioni. Ma se l' Universo s' identifica con Dio, questa ragione manca; perchè il concetto di Dio svanisce ogni qualvolta si pone in esso limitazione o potenza passiva. Iddio è così illimitato che è un assurdo pure il pensiero di dargli la facoltà di limitare sè stesso. Poichè il limitarsi per Iddio è il medesimo che per un altro essere l' annichilarsi. Questo è quello che prova la Teologia con evidenza. Vero è che Schelling dice che questi limiti sono apparenti; ma a ) Primieramente quando fossero anche apparenti, rimane sempre a dare una ragione sufficiente del perchè Iddio abbia bisogno o voglia di porre a sè stesso delle limitazioni apparenti; b ) Se le limitazioni di Dio sono apparenti, esse debbono apparire a qualche essere, perchè se non apparissero a qualche essere non sarebbero apparenti. Ma questo essere non può esser Dio stesso, perchè Iddio non può far apparire sè limitato a sè illimitato, troppo bene conoscendosi egli per prendersi in fallo. Esiste adunque un altro essere, oltre Iddio, a cui appariscono le limitazioni che Iddio pone a sè stesso. Ora quest' essere non può essere apparente, perchè sarebbe un discorso assurdo il dire che limitazioni apparenti appariscano ad un essere apparente. Di più, quest' essere non essendo Dio, ed essendo reale, egli è un essere limitato non apparente, ma reale. Non si possono adunque escludere gli enti realmente limitati; e non si può ridurre l' ente alle due categorie di Assoluto e di limitazioni apparenti; c ) Finalmente l' uomo, se sa qualche cosa di vero, sa certamente di non essere apparente, ma reale. Infatti, come si può accertarsi della realità se non mediante il sentimento e la ragione? Se niun sentimento vi avesse, niuna realità sarebbe concepibile. Se la ragione giunge raziocinando a pensare l' esistenza di un Essere supremo, infinito, assoluto, ella il fa per via d' un ragionamento, che ha materia e forma . Infatti ella non può asserire che esista un ente reale assoluto, se non sa prima che cosa sia un ente reale . Ma ella non potrebbe sapere che cosa sia un ente reale, che cosa sia esistere realmente, se non avesse sperimentata l' esistenza reale in sè stesso. Prendete via dall' uomo tutti affatto i sentimenti, non solo gli animali, ma ben anco gli spirituali, che cosa vi rimane? Non più certo un uomo, ma un stipite insensato. Questo non potrebbe mai sapere che cosa sia esistere, non potrebbe per conseguente ricevere l' idea dell' ente , perchè non può ricevere il lume di questa idea, chi non è un sentimento, che nulla affatto può sentire. E se è necessario, che chi riceve l' idea dell' essere sia un sentimento, è necessario di poi che applichi quest' idea al sentimento, quando ne vuol far uso, e non lasciarla del tutto oziosa e come un geroglifico privo d' interpretazione. Senza il sentimento adunque non vi ha il concetto di un ente reale, il sentimento somministra la materia di un tal concetto, e però la materia del raziocinio che si intuisce sopra di lui. Quando non manchi questa materia, allora si può con un ragionamento trovare l' esistenza di un essere assoluto, a ciò conducendoci la forma del ragionamento , alla qual forma appartiene il principio di assolutità . Se dunque il sentimento stesso si pone essere un' illusione, manca la base di un tale ragionamento, il quale non può più condurci che ad uno assoluto apparente, e non reale. O convien dunque rinunciare alla dottrina dell' assoluto, o conviene ammettere che reale sia il sentimento; perchè niun' altra realità è a noi immediatamente conosciuta fuor di quella che nel sentimento abbiamo, o che mediatamente da questo induciamo. Che se il sentimento , che ha l' uomo individuo, è un ente reale, dunque esistono realmente degli enti limitati , e questi non sono mere apparenze, ossia limitazioni apparenti dell' ente assoluto. III Quando Schelling chiama natura il principio di ogni essere, la denominazione non avrebbe inconveniente, quando egli riserbasse tale parola a indicare la natura divina, e non l' adoperasse poi a significare l' universo qual è, materiale e spirituale, limitato, ch' egli denomina anche «to moron tu theu». IV Quando aggiunge che la natura, separata dalla ragione , non è veramente, egli direbbe vero, se intendesse dire che « senza l' idea le cose nè si possono produrre, nè si possono pensare, e però non sono »: onde non si pensano divise dall' idea ed essenti per sè, se non in virtù d' astrazione solamente. Nè pure avrebbe errato, se raffrontando le cose reali colle loro essenze ideali ne avesse predicata l' identità d' essenza. Ma avrebbe dovuto fermarsi qui. Invece egli non s' è accontato, che, se l' essenza della cosa reale è quella appunto che trovasi nella sua idea, l' essenza ideale non di meno differisce dal suo realizzamento ne' contingenti, e in nessuna maniera v' ha identità fra il reale e la sua essenza ideale. Tutto ciò che v' ha fra queste due cose, si è congiunzione nell' essere intellettivo che percepisce il reale: perocchè nella percezione si unisce individualmente il reale colla sua essenza ideale, e da questa congiunzione nasce l' individuo conosciuto , che non è già puramente la cosa quale si pensa per astrazione fuori della mente e divisa dall' idea. Poteva altresì dire che ciò che esiste veramente è solo l' individuo conosciuto; ma poi analizzando quest' individuo avrebbe trovato che in esso vi ha: 1 un elemento reale; 2 un elemento ideale; e che entrambi questi elementi sono veramente; benchè non sarebbero se non vi avesse una mente (per es., la mente divina) che li concepisce. Il che non è già confondere o immedesimare la mente con essi; ma è unicamente dichiarare una mente , un soggetto intellettivo, qual condizione ontologica della loro esistenza; e così assegnare un nuovo caso di quel sintesismo che da per tutto s' incontra. V Quindi troppo vagamente ed erroneamente Schelling pose l' assoluto nel punto d' indifferenza tra gli opposti . Vagamente, perchè non indica con precisione quanti sieno questi opposti, quando avrebbe dovuto con costanza stabilire per opposti il reale e l' ideale . Erroneamente, perchè, se vi avesse un assoluto che fosse un punto di indifferenza tra il reale e l' ideale , egli non sarebbe nè reale nè ideale, come già osservai parlando di Fichte: e però, lungi da esser perfetto, sarebbe imperfettissimo; lungi da esser Dio, sarebbe la materia prima degli antichi , che svanendo in nulla dà luogo al nullismo cavatone poscia espressamente da Hegel. All' incontro avrebbe dovuto trovare un assoluto nel quale l' ideale e il reale fossero alzati alla maggior potenza, senza mai confondersi se non nell' essere , rimanendo distinti nelle forme o modi. Perciocchè in tal modo l' assoluto, non solo avrebbe avuta tutta la perfezione e la pienezza dell' esistenza, esistendo in tutti i modi; ma avrebbe avuto da una parte l' unità perfetta nell' identità dell' essere, dall' altra un ordine interiore, un organismo idoneo a spiegare come possa essere attivo e fonte di moltiplicità, giacchè nell' assoluto dee trovarsi altresì la massima attività, la massima vita, la cagione intrinseca del movimento. Nel punto d' indifferenza all' incontro non v' ha ragione che spieghi perchè cessi d' essere indifferente, e lasci così la propria natura, e come possa far ciò quando egli è costituito essenzialmente da una piena e semplice indifferenza. Il dire, come fa Schelling, che « « l' assoluta identità pone sè stessa infinitamente come soggetto e come oggetto, perchè senza di ciò non può conoscere sè stessa infinitamente » », lungi dallo spiegar cosa alcuna, complica maggiormente le difficoltà. Perocchè, se l' assoluto, chiamato dal filosofo nostro assoluta identità , consiste nel punto d' indifferenza anteriore all' origine del soggetto e dell' oggetto, come mai quel punto può aver bisogno, per conoscersi, di perdere la sua indifferenza ponendosi come soggetto e come oggetto? Ha dunque bisogno di cessare di essere, per conoscersi? Come punto d' indifferenza è assoluto: e quest' assoluto è così ignorante che non conosce sè stesso? ed ha bisogno di cercarsi fuori di sè, e per trovarsi ha bisogno di porsi colla differenza di oggeta totalità? Fuori della totalità vi è qualche cosa? E si tratta di un fuori , come un corpo è fuori di un altro, o come l' idea è fuori della mente, o come un' idea è fuori di un' altra idea? Perchè dichiarazioni così rilevanti sono omesse da cotesti filosofi? Ad ogni modo, se la totalità è l' assoluto, ciò che riman fuori dell' assoluto non si vede come possa far conoscere l' assoluto a sè stesso. L' assoluto si cercherebbe in tal caso per conoscersi dov' ei non sarebbe più. VI Oltracciò il punto d' indifferenza , anteriore al soggetto e all' oggetto, nel quale Schelling sulle traccie di Fichte collocò l' assoluto, non può avere identità al soggetto ed all' oggetto, perocchè ciò che è essenzialmente indifferente non può identificarsi con ciò che è essenzialmente differente. VII Di più, il punto d' indifferenza non può essere nè concepirsi se non per via d' astrazione che fa la mente. Ma un astratto non può esser mai l' assoluto. Oltre di che questo astratto è piuttosto un astratto falso e chimerico che vero, perchè, tolta via la distinzione dell' oggetto e del soggetto, non rimane propriamente nella mente qualche cosa d' indifferente, ma il nulla; che si considera indifferente in senso al tutto negativo, unicamente perchè il nulla non può aver differenza come non può aver proprietà perchè è nulla. Quindi di nuovo hassi il nullismo. VIII Essendo però impossibile il non vedere che il punto d' indifferenza non può sussistere come tale, Schelling si buttò a dire che « « l' identità assoluta esiste solo come universo »(1) »; quasi che l' universo fosse il modo di esistere di Dio: onde il panteismo di cui fu accusato. Ma se l' identità assoluta esiste solo come universo, l' assoluto non esiste adunque più come punto d' indifferenza . A questo mancamento, credette il filosofo nostro poter soccorrere distinguendo nell' universo la totalità dalle singole parti; e disse che nella totalità vi aveva indifferenza. Ma anche qui si gioca d' astrazioni. Perocchè la totalità dell' universo non è che un essere della mente, la qual considera il complesso degli enti coll' idea astratta di tutto . Acciocchè al tutto , ossia alla totalità , sottostesse un valore reale, converrebbe dimostrare che sussista qualche cosa che di tutte le parti dell' universo forma realmente un ente solo il quale dà a ciascuno tutto ciò che esso ha, e però è identico con ciascuna. E benchè anche questo dica lo Schelling, tuttavia non mostra mica nè qual sia questo ente, nè che sia uno; ma si contenta di appellarlo ora identità assoluta , ora punto d' indifferenza , ora totalità; le quali son parole e non più. Soggiunge che se l' identità assoluta, per sussistere, dee porre sè stessa qual universo, s' incorrono tutte le difficoltà che v' hanno a concepire come un ente dia l' esistenza a sè stesso, le quali abbiamo esposte parlando di Fichte. IX Ma la manchevolezza di questo sistema appare più palese, più che il suo autore, uscendo dall' oscurità e dall' ambiguità de' principii generali, discende ad applicarlo alla spiegazione de' fatti. Come vedemmo egli distingue due universi: quello dell' essere e del sapere (onde le due filosofie della Natura e dell' Idealismo ); che però non sono che due astrazioni, secondo lui stesso, giacchè non esistono in vero se non identificati. Per altro volendo egli spiegare tutti i fatti, avrebbe dovuto incominciare appunto da questo dell' astrazione: definendo prima questa operazione maravigliosa (benchè dalle definizioni mostrano d' abborrire per lo più i filosofi trascendentali come il can rabbioso dall' acqua); e di poi dando ragione di questa potenza capace di dividere un identico universo in due, tanto distinti quant' è la materia bruta dall' idea. X Quando poi egli prende a descrivere i fatti che intende spiegare nell' universo dell' essere, che è ciò che chiama « Filosofia della Natura », non solo non agguaglia la grandezza dell' argomento, ma scade da ogni dignità filosofica. Perocchè sono vere inezie quelle che di frequente egli dice, anzi che dotte sentenze. Non è ella un' antica inezia lo spiegare la rotondità de' corpi celesti perchè la figura sferica è la più perfetta? e il collocare la ragione del rotar de' pianeti intorno al sole nel bisogno che sentono (essendo animati) di unità? Sapete perchè il sole mostra sul suo disco alcune macchie? Il filosofo vi dice seriamente che quelle macchie sono assolutamente necessarie , mostrando esse che il sole è subordinato ad un sistema stellare superiore! Volete sapere la definizione del magnetismo, dell' elettricità e del chimismo? [...OMISSIS...] Quindi le tre dimensioni de' corpi, quindi i tre processi della natura. Le tre potenze della natura sono la gravità , che è potenza di primo grado e produttrice della materia; la luce potenza di secondo grado, onde il moto e la forza; la vita potenza di terzo grado, onde l' organismo e l' uomo stesso. Egli condanna Fichte per aver tratto l' universo dall' Io, e invece fa uscire l' Io dall' universo come un prodotto. Udite con che audacia ed ignoranza favella: [...OMISSIS...] . Sarebbe un perdere il tempo il ripetere tutte le frivolezze di cui questo filosofo empisce il suo libro intitolato: « Idee sulla natura ». XI A tre pure riduce le potenze (1) del mondo ideale che sono: verità, bontà e bellezza . Ora primieramente non s' intende come la bellezza debba essere una potenza più elevata della bontà , quasichè le arti belle, che spettano alla bellezza, sieno qualche cosa di più della moralità e della religione che il nostro filosofo riduce alla bontà. D' altra parte la verità e la bellezza sono oggetti dell' intelligenza che le intuisce e fruisce, quando la bontà è una qualità soggettiva, non essendo che la perfezione del soggetto intellettivo7morale. Onde, se i due primi appartengono al mondo ideale , la bontà appartiene al mondo reale in quanto si perfeziona colla sua adesione all' ideale. Questa confusione tra il mondo reale e l' ideale accade al nostro filosofo pel materialismo di cui va infetta la sua « Filosofia della Natura ». Perocchè la natura fu ridotta da questo filosofo ai soli fenomeni materiali, e non conosce punto che v' ha un reale spirituale , che non appartiene già al mondo delle idee, ma nè pure a quello della materia. All' incontro Schelling considera le anime e gli spiriti come altrettante idee viventi, senza accorgersi che l' idea è essenzialmente oggetto e solo oggetto, e lo spirito è il suo opposto che intuisce l' idea, ma non può essere in alcun modo l' idea. XII A cagione dello stesso errore fondamentale egli disse che lo sviluppo delle potenze reali porge il sistema cosmico dei prodotti necessari della natura, mentre avrebbe dovuto annoverare tra le potenze reali anche le potenze spirituali e libere. All' incontro disse che « « lo sviluppo delle potenze ideali dà la storia dell' umana libertà in tutto il genere umano » »; mentre potenze ideali, nel senso comune della potenza, non ve n' hanno, spettando le potenze a' soggetti reali e non alle idee. Nè alle idee o al loro sviluppo (quantunque le idee non abbiano un loro proprio sviluppo) appartiene la libertà (dell' uomo) che è potenza reale d' un soggetto reale, e non ideale, quale è l' uomo. Onde l' apparente regolarità e simmetria ond' egli compartì le varie parti della sua filosofia ricade troppo a scapito della verità, di che ci dava sospetto pure al primo sguardarla. Questo filosofo adunque, col suo sistema dell' identità assoluta, tolse in fatto le categorie dalla filosofia come inesplicabili; il che in sostanza aveano fatto pure i suoi maestri. Non potendosi però negare che le categorie appariscano, le dovettero ammettere come illusioni trascendentali: ed egli tre ne diede al mondo della natura , cioè la gravità , la luce e la vita; tre al mondo delle idee , nel quale confuse gli spiriti, cioè la verità , la bontà , la bellezza . Ora questa divisione dell' ente è al tutto inetta, e appena degna d' essere confutata. La gravità nè è un ente, nè la proprietà di un ente, ma una semplice legge , cioè un fatto costante. La luce è un corpo di cui non si conosce ancora la natura; e se si piglia come stimolo del sensorio ottico, è una denominazione che può appartenere a qualunque altra causa atta ad eccitare nell' organo della visione i movimenti sensorii. La vita si prende in diversi significati (1). Applicata al corpo, è una sua modificazione che lo rende atto ad esser sentito immediatamente e sensorio: applicata al principio senziente, consiste nel sentimento che lo costituisce. Non v' ha dunque ordine in questa classificazione, nè ella abbraccia nè pure tutto ciò che appartiene alla natura corporea. La verità , la bellezza , non sono che relazioni che hanno le idee cogli spiriti dotati d' intelletto e di sentimento intellettivo; la bontà è la perfezione delli spiriti stessi. Gli spiriti stessi rimangono adunque esclusi da tali categorie. Come Fichte s' era avveduto dell' insufficienza del suo primo sistema, così Schelling si trovò mal pago del suo, e lo abbandonò. Le opinioni filosofiche tuttavia ultimamente manifestate a Berlino dimostrano ch' egli non ha ancor digerito il principio degl' idealisti, che l' intelligenza e il mondo esterno sieno così dissociati che la prima non possa dimostrare l' esistenza del secondo. Quindi divise la Filosofia in negativa , che considerò come un trovato della ragione, e in positiva che attribuì all' esperienza. Or l' attribuire all' esperienza de' sensi una filosofia, quasi potesse avervi una cognizione meramente sensibile senza l' intervento della ragione, è quel peccato di sensismo che guasta tutta la filosofia, e specialmente la germanica «( Psicol. 29 7 33) ». Ma udiamo onde trae la partizione delle due filosofie. Richiamando la distinzione degli Scolastici tra la questione quid est , e la questione quod est , viene a dire tra « qual sia l' essenza d' una cosa », e « se la cosa sussista » «( Sistema filosofico , 1. 7 42) », Schelling attribuisce alla ragione la prima questione, all' esperienza la seconda. Quindi, secondo lui, la Filosofia della ragione, ch' egli chiama negativa, si limita a far conoscere le essenze delle cose, senza poter giammai decidere se niuna cosa realmente sussista. All' incontro la Filosofia dell' esperienza, ch' ei chiama positiva, suppone le cose sussistenti e tratta di esse. La prima dunque non esce dal mondo ideale, dal mondo de' possibili (1); la seconda sola ha per oggetto il mondo reale. La Filosofia negativa adunque di Schelling si riduce ad una Ideologia . Ma impropriamente le attribuisce l' epiteto di negativa , perocchè l' Ideologia non nega, benchè nè meno afferma il reale; ma il reale rimane fuori della sua sfera. Affine che si possa dare il titolo di negativa ad una dottrina, conviene che ella contenga una negazione . Perciò si dicono concetti negativi quelli con che vogliamo far conoscere cosa sussistente per via d' analogia , giacchè l' analogia non ha valore se non unita ad una negazione. Quando il cieco procaccia di distinguere i sette colori di cui vuole parlare, per l' analogia che aver possono co' suoni, egli non può avere un concetto verace se in pari tempo non neghi a sè stesso che i colori sieno i suoni. La necessità dunque d' una negazione a fare che un dato concetto non inganni nella sua applicazione è ciò che induce a dargli l' applicazione di negativo . Ma l' idea non affermando nulla di reale, ma solo facendo conoscere il possibile , è scevra da ogni negazione, nè ha bisogno d' essere rettificata con questa per non riuscire ingannevole. Quindi non le si addice il titolo di negativa, benchè nè pur quello di positiva. Ciò che dice ora Schelling che la Filosofia della ragione non tratta che del solo mondo ideale, ossia di possibili, può pigliarsi altresì come una interpretazione o modificazione del suo precedente sistema dell' identità assoluta . Ma tutto questo sistema diverrebbe con ciò stesso sterile, perchè si acchiuderebbe nel mondo ideale, senza che egli si permetta di spingere un solo passo fuori del possibile: ond' egli non potrebbe dare alcuna ragione sufficiente, nè della coscienza, nè dell' esperienza, nè delle operazioni del pensiero, nè dell' universo materiale; perchè tutte queste cose appartengono al mondo reale. Quindi Schelling tratta ora di tutte queste cose a parte, cioè nella Filosofia positiva , la quale si limita a credere all' esperienza, senza cercare di essa alcun fondamento razionale. Questa via positiva ed empirica è quella che ora preferisce e a cui più si applica. Noi non ci allungheremo dimostrando quanto sia erroneo e dannoso questo divorzio della ragione colla natura, questa bipartizione della scienza, che abbraccia ad un tempo i due errori dell' idealismo e del materialismo; perchè ciò risulta da tutto ciò che abbiamo scritto di filosofia. In quella vece noteremo l' abuso d' astrazione come il fonte principale delle filosofie tedesche, con un esempio tolto dalla Filosofia della ragione di Schelling, com' egli di presente la espone nelle lezioni che dà a Berlino. Se l' uomo coll' astrazione distingue solamente gli elementi che si contengono in una data idea, senza pigliarli per enti che stanno da sè, egli non abusa di tale operazione. Acciocchè adunque non cada abuso in astrarre si richiedono due condizioni: 1 Che l' astrazione distingua i veri elementi che presenta una idea; 2 Che ella non li prenda per altro se non per quello che sono, cioè per elementi, e non per enti ideali stanti da sè. Vi ha dunque abuso: 1 Se si pretende di trovare in un' idea elementi che non sono tali; 2 Se si pretende che quelli che sono meri elementi, sieno enti ideali stanti per sè. Nella filosofia germanica s' incontra l' uno e l' altro abuso. Ma noi vogliamo segnalare il primo, come il più pernicioso e il più sottile a sottrarsi dall' attenzione. Acciocchè ciò che distingue l' astrazione in un' idea sia un elemento della medesima, egli dee essere veramente distinto dagli altri elementi e così distinto dee potersi concepire. Ora accade che i filosofi tedeschi, e specialmente gli Hegeliani, considerano per elemento quello che non è tale perchè non si può idealmente distinguerlo neppure col pensiero dentro l' idea, onde altro non è che un loro creato, una finzione della loro attivissima immaginazione filosofica. L' esempio che addurrò chiarirà meglio la cosa. Esponendo Schelling la sua Filosofia negativa, viene discorrendo così: [...OMISSIS...] . Intanto è un ragionamento evidentemente falso il dire che la ragione essendo potenza anche quel che contiene sarà potenziale. Poichè, se s' intende che la ragione sia in potenza a conoscere e non in atto, in tal caso ella nulla ancora conosce, nulla contiene; e però non si può dire come sarà il suo oggetto. L' oggetto non è fino che non è l' atto che l' intuisce; e l' oggetto proprio dell' atto è l' identico oggetto della potenza: dunque la ragione per essere in potenza, anzi che in atto, non influisce sul suo oggetto, nol costituisce in potenza anzi che in atto. Di poi è una contraddizione il considerare la ragione come una mera potenza senz' atto, e tuttavia definirla « l' infinita potenza di conoscere »; perocchè ciò che è in potenza non è mai infinito; nè ciò che è infinito può essere divenuto tale con un passaggio dallo stato di potenza a quello di atto; ma dee essere in atto fin sul principio. Perocchè dallo stato di potenza allo stato d' infinito atto ci ha una distanza infinita, e una distanza infinita non può essere trascorsa da nessun movimento. In terzo luogo « l' infinita potenza di essere »è un concetto assurdo. Perocchè questa potenza è qualche cosa, o nulla. Se è nulla, non è potenza. Se è qualche cosa, è già essere in atto. Dunque non si può concepire « una pura potenza infinita di essere »; e quand' anco non fosse infinita, la potenza non si può concepire senza un atto. Convien dunque che v' abbia prima un atto, cioè un essere in atto, acciocchè vi abbia la potenza di essere. Ed ecco già qui comincia a manifestarsi l' abuso d' astrazione, di cui parlavamo. Perocchè si pretende la potenza di essere come cosa che possa stare da sè senza atto. Ma, così divisa dall' atto « la potenza di essere », nè pure è un vero astratto, perchè così divisa non si può conoscere. Di più « il poter essere »ha due significati che vogliam distinguere. Perocchè significa tanto un poter essere logicamente considerato, come un poter essere considerato fisicamente. La possibilità logica dell' essere segna l' essenza di un essere che non involge contraddizione. Ma l' essenza , come essenza, non è in potenza ma in atto; e dicesi in potenza solamente considerandosi rispetto alla sua realizzazione non racchiusa nell' essenza. Onde di nuovo l' atto dell' essere non manca. La possibilità fisica importa di più la cognizione d' una causa reale atta a realizzare quest' essenza; e questa causa è di nuovo un essere in atto . Dunque è impossibile, che oggetto della ragione sia unicamente il poter essere; ma anzi convien che sia un atto dell' essere (l' atto dell' essenza, l' idea) nel quale si pensi la possibilità della sua realizzazione, ciò che è il poter essere. Ora tutta la Filosofia di Schelling e di Hegel non è che un edifizio innalzato sul fracido fondamento di questo falso ed assurdo astratto di un « mero poter essere », che si suppone gratuitamente dover precedere all' essere; perchè, illudendosi, si crede di poterlo trovare coll' astrazione antecedente a tutto. Ma l' astrazione, come dicemmo, non dà ciò veramente; ma è l' abuso dell' astrazione, cioè l' immaginazione, quella che non già trova analizzando, ma finge ed inventa così una creatura vuota di verità, aiutandosi a segnarla con vocaboli che altro non danno che un non7senso. Infatti Schelling continua a ragionare su questo falso astratto così: « La potenza adunque di essere è anteriore all' essere. Fino che si considera come potenza anteriore all' essere, ella può passare all' essere e non passare, e perciò è padrona di sè, ha il dominio sull' essere, è libera. Ma quando ella è passata all' essere, e l' essere è posto, ella ha perduto la sua libertà, ed è in potere dell' essere stesso. Or quest' essere privo di padronanza, privo del dominio dell' essere, non è spirito nè concetto; perchè spirito significa padronanza, e signoria dell' essere. Nella natura tutto è già posto, tutto ha la sua forma. Ma è facile di vedere che dee aver preceduto, qual materia , un essere cieco, e indeterminato, ossia infinito ». Così da un falso astratto argomenta ad un altro falso astratto , perviene alla materia prima degli antichi; alla quale, con una contraddizione in cui gli antichi non caddero, dà ad un tempo l' esser cieco all' esser libero; confondendo l' essere indeterminato, che è un' imperfezione, coll' esser libero che è una perfezione; e l' essere indefinito , che è un' imperfezione, coll' essere infinito che è una perfezione. Egli è chiaro che mediante ragionamenti di simil fatta si può pervenire a qualunque mostruoso assurdo; e questo è quello di cui si gloria la filosofia di Hegel, che non è infatti che la raccolta di tutti gli assurdi più ridicoli vestiti del più baldanzoso paludamento filosofico (1). Kant, Fichte, e Schelling ed Hegel non formano che una stessa scuola di sofisti, assai simili a quelli della Grecia, di cui Kant è il fondatore (2). I dati erronei ed arbitrari da cui partono e che noi abbiamo esposti, sono sempre i medesimi; ma ciascuno volendo essere originale ed unico signore del campo, deprime il suo predecessore, appropriandosi le sentenze e disponendole con altra simmetria. La critica che Hegel fa a Kant è quella che gli avea fatto Fichte: l' essersi quel filosofo contentato di chiuder l' uomo nelle forme soggettive e nelle illusioni trascendentali, senza dichiarare impossibile l' esistenza delle cose esterne e di Dio, benchè non accessibile alla ragione, ed aver quindi lasciata nella filosofia una dualità. Fichte, secondo Hegel, non fece altro che unire il desiderio , l' aspirazione istintiva a Dio di Jacobi, colla vuota oggettività del pensiero di Kant. Egli censura il primo, perchè questa unione resta sempre in un dover essere, senza che possa mai passare nel fatto. Infatti « l' Io puro, secondo Fichte, deve sempre porsi in un modo compiuto, assolutamente, travasandosi tutto nell' Io empirico, senza che possa mai venirne a capo, benchè a ciò s' affatichi all' infinito »: onde pone nella perfettibilità indefinita l' umana destinazione. Questo in Fichte rimaneva un mero postulato che doveva essere tolto per arrivare alla verità speculativa. Così in Fichte il pensare , urtando nell' infinito, trovava un limite insuperabile, e non si poteva costituire come assoluto principio della verità. Ora, senza considerare il pensare speculativo come questo assoluto principio di ogni verità, non pervenendosi all' assoluto, si rimane nel relativo: di che Hegel chiama la filosofia fichtiana una mera fenomenologia del pensare. Era in sostanza la critica stessa che gli avea fatta Schelling. Questi filosofi pretendevano di dover pervenire all' assoluto colla pura speculazione, e pretendevano che trovato l' assoluto non solo fossero spiegati tutti i misteri, ma ben anco lo stesso universo che doveva uscire dal pensare come i miti dell' antichità lo fecero uscire dall' uomo. Ma essi non davano però alcuna ragione del perchè la dovesse andar così, nè mostravano le loro credenziali che li dichiarassero atti ad eseguire tale e tanta promessa (che involge in sè stessa più assurdi). Intanto il principio di doversi cavare ogni cosa dal pensiero, era dovuto a Fichte, a cui l' avea suggerito la filosofia di Kant; e Schelling ed Hegel in sostanza non fecero che un tentativo di svolgere quel principio più logicamente, com' essi almeno si diedero a credere. Rixner (1) dice che lo scopo di Hegel non è altro che di formare della dottrina dell' idealità assoluta di Schelling una scienza atta ad essere insegnata metodicamente. Infatti è difficile trovare in Hegel qualche cosa di nuovo, eccetto che parole e cavillazioni a grande stento filate. L' unica cosa forse, in cui si dipartì dal suo maestro, si fu che sostenne non doversi cominciare dall' intuizione dell' assoluto ( Anschaung ) che Schelling poneva, chiamandola una « premessa insussistente »; e mantenne, che il principio del filosofare si dovesse prendere dal puro pensare , dove egli pretende trovare l' identità dell' ideale e del reale, e doversene cavare ogni cosa; il che veramente è conseguente all' errore fondamentale dell' idealismo: e perciò lo semplifica e perfeziona, rendendolo, se mi lice parlar così, un errore assoluto . Hegel adunque pretese di sollevarsi sopra il punto culminante della filosofia di Fichte, l' Io puro , per le ragioni che adduce nella lunga discussione che premette al libro I della sua Logica intorno alla questione [...OMISSIS...] ; le quali parole voglion dire che non si può ridurre ogni cosa all' Io , come voleva Fichte, perchè nel concetto dell' Io s' acchiude la relazione con un oggetto che rimane diverso dall' Io; quando conviene pur cominciare da ciò che non supponga esistere nulla di diverso da sè. Questa critica in sostanza era quella stessa che aveva fatta Schelling al suo maestro, quando aveva biasimato che nel sistema di Fichte il mondo materiale si rimanesse come cosa morta fuori dell' Io puro . Onde pretese di levarsi ad un punto più elevato di Fichte, sostituendo all' Io puro , l' intuizione dell' assoluta identità . Ma Hegel volle mettersi al di sopra di Schelling trovando un altro punto di partenza ancora più eminente, e però rigettò l' intuizione Schellinghiana dell' assoluto, perocchè in questa intuizione dell' assoluto già vi hanno due cose, cioè: 1 intuizione, 2 assoluto; onde Hegel, sostenendo che si dee cominciare dal semplice e trovare poi in esso ogni cosa, fece dell' intuizione e dell' assoluto una cosa stessa, che denominò puro , o vuoto, pensare , che chiamò l' immediato , o la stessa immediatezza . Il perchè disse che [...OMISSIS...] , come accade nell' intuizione a cui si vuol ridurre la riflessione, quasi facendola retrocedere. Così sottilizzando, stabilisce per vero immediato cominciamento del sapere il puro sapere , vuoto d' ogni contenuto, e crede di esser andato con ciò più su di tutti i suoi predecessori, e di quanti hanno prima di lui filosofato. Il perchè, a quella maniera che Schelling alla « Filosofia trascendentale » di Fichte aggiunse una seconda parte intitolandola « Filosofia della natura »; così Hegel alle due dottrine di Schelling ne aggiunse una terza, intitolandola « Logica ». Di che riuscì la dottrina hegeliana tripartita in questo modo: [...OMISSIS...] . Benchè noi non intendiamo qui entrare in un esame circonstanziato del sistema di Hegel, come facemmo di quello de' suoi maestri: parte perchè ciò che abbiam detto a loro riguardo vale in buona parte anche per lui; parte perchè ci bisognerà discuterlo altrove dove favelleremo della dialettica (1); tuttavia qui dobbiamo esporre l' errore fondamentale di tutto il suo sistema, il quale conosciuto, potremo fare giusta stima della partizione hegeliana dell' ente, scopo di questo libro. L' errore fondamentale adunque del nostro filosofo consiste nell' aver confuso il VERBO coll' IDEA, di aver cioè di queste due cose fattane una sola, a cui appartenessero indistintamente gli attributi dell' una e dell' altra. Dichiariamoci. La distinzione importantissima tra il verbo della mente e l' idea fu da noi esposta nel « Nuovo Saggio »: io prego il lettore di averla ben presente (2). Quando io penso l' essenza di un ente, per esempio, l' essenza dell' uomo, che cosa è presente alla mia mente? L' uomo. L' uomo, senza più, presente alla mia mente è l' umana essenza. Quest' essenza, in quanto è intuìta dalla mente, si chiama idea . L' essenza dell' uomo è l' uomo possibile: ma non si dee mica credere che quando la mente intuisce l' essenza dell' uomo, ella vi aggiunga contemporaneamente il concetto di possibilità . No: questo concetto è posteriore; la possibilità, come ho spiegato più volte, è una mera relazione dell' essenza, che è trovata ben presto dalla mente, ma che non è compresa nel primo intuito. Onde si suol dire con verità che l' idea fa conoscere l' uomo possibile , ma a condizione che si intenda così che ella fa conoscere l' uomo, il quale posteriormente si riconosce colla riflessione aver la relazione di possibilità, benchè questa possibilità a principio, come dicevo, non soggiaccia all' intuito. Io non so capire come, essendomi spiegato su ciò tante volte e così chiaramente, tuttavia ancora si continui ad attribuirmi, come fa tra gli altri il signor abate Gioberti, che io ammetto per oggetto dell' intuito il meno possibile (1): ancor peggio poi si fraintende e si altera ciò che io dico quando mi si imputa di ammettere un' idea possibile . Fra le altre male intelligenze e logomachie del sig. abate Gioberti vi ha quella che egli confonde l' attualità colla realità . Egli inveisce contro di me perchè dico che l' idea non è un reale, e argomenta che « l' ideale non può concepirsi senza che abbia qualche realità ». Ma intendiamoci sul valore delle parole. Il suo argomento varrebbe, se per realità s' intendesse attualità , giacchè è certamente giusto questo argomento: « Il possibile non può concepirsi senza qualche attualità ». Ma, lungi che io neghi l' attualità all' essere ideale, dico anzi ch' egli è la prima attualità (2). Infatti, se è l' essenza , dee per conseguenza esser la prima attualità degli enti. All' incontro nego che l' ideale sia reale , perchè la parola reale si adopera appunto a significare un modo d' esistere opposto al modo ideale; onde, chi dicesse che l' ideale fosse reale , confonderebbe due concetti opposti, e direbbe un manifesto assurdo allo stesso modo di colui che dicesse che il nero è bianco, o che l' accidente è sostanza (3). L' idea pura adunque non contiene nulla di reale , venendo escluso il reale dalla stessa parola idea . L' intuizione è l' atto con cui lo spirito contempla l' essenza pura della cosa; ed appunto perchè l' intuizione è l' atto dello spirito, essa è reale; giacchè ogni azione di cosa reale è reale. Ma l' essenza pura è l' oggetto di quest' atto, ed altro non è, se non « l' ente in quanto è conoscibile ». Le espressioni che s' usano: « l' ente ideale è nella mente, l' ente ideale è presente alla mente, ecc. », non si debbono intendere materialmente, quasi che l' ente ideale fosse nella mente come l' acqua è in un vaso, o fosse presente alla mente come un corpo è presente agli occhi per la vicinanza dello spazio; ma esse non valgono che come pure sinonimie di questa espressione propria: « l' ente ideale è conosciuto dalla mente ». Conoscer l' essere ideale, ossia l' essenza mera dell' ente , si esprime colla parola propria intuire . In questa pura cognizione la mente contempla, ma non pronuncia cos' alcuna; perocchè il pronunciare è un atto posteriore a quello dell' intuire ; giacchè non si può pronunciare nulla di ciò che non si ha prima almeno intuìto. Pronunciare qualche cosa dell' ente intuìto, è giudicare, è fare quell' atto che si chiama verbo della mente. Il verbo della mente è dunque quella parola interiore che dice la mente in conseguenza dell' ente intuìto: è dunque una operazione della mente essenzialmente posteriore all' intuizione. Ora, posciachè pronunciare non si può senza pronunciar qualche cosa di qualche cosa: dunque il verbo della mente ha di bisogno di avere nel suo termine una duplicità. L' essenza è semplicissima: l' intuizione adunque dello spirito ha un termine unico dove riposa: il verbo invece, la parola interiore , non potrebbe essere proferito dallo spirito, se non vi avesse un modo di introdurre la pluralità nel termine del suo atto. Questa pluralità può comparire in due modi: 1 Coi sensibili comunicati a noi nel nostro sentimento; 2 Coll' analisi dell' essenza e delle sue relazioni. Ma questo secondo modo ha luogo solo posteriormente al primo: per esempio, quando la mente pronuncia che « l' essenza umana è possibile d' essere realizzata »ha moltiplicato il suo termine coll' analisi dell' essenza umana. Ma si badi. Ella ha trovato una relazione tra l' essenza umana e il concetto della sua realizzazione . V' ha dunque in questo pronunciamento una triplicità: 1 l' essenza; 2 il concetto di realizzazione; 3 la relazione di possibilità, per la quale si giudica che l' essenza possa essere realizzata. Ora, acciocchè lo spirito possa pronunciare questo giudizio, possa dire questa parola, è necessario prima di tutto ch' egli ritrovi la realità, e questa realità non gli è data che nel sentimento. Acciocchè dunque la mente possa venire a dire qualche parola interiore, a pronunciare un giudizio qualsiasi, è condizione necessaria che le sia dato, prima di tutto, il sensibile. Dunque in nessuna maniera è possibile confondere l' intuizione col verbo della mente: quella essendo semplicissima ed una, questo esigendo pluralità acciocchè possa aver luogo. Schelling confuse l' intuizione col verbo della mente, dando all' uomo questo invece di quella. Per accorgersene basta osservare, che l' oggetto dell' intuizione Schellinghiana è l' identità assoluta che egli esprime colla formola A .uguale . A, chiamando l' uno degli A predicato , l' altro soggetto . Dunque quest' oggetto è molteplice. Infatti la cognizione dell' identità non può essere data che per un giudizio. Ma eglino sono veri e innegabili questi fatti: 1 Che nella semplice intuizione d' un' idea, d' un' essenza, non cade nè pluralità, nè giudizio; 2 Che non è punto cosa assurda questa intuizione semplice; 3 Ch' essa nell' ordine logico precede ogni giudizio; 4 Che il giudizio non può essere innato nell' uomo, perchè egli è un' operazione che contiene un movimento, un discorso che trapassa da un' idea in un' altra; e un movimento intellettuale è bensì atto del soggetto esistente, ma non già una disposizione stabile che possa essere innata; 5 Che a spiegare le operazioni dell' umano intendimento basta che si trovi innata nell' uomo l' intuizione semplice e immanente dell' essenza dell' essere senza più. Il solo fatto psicologico ed innegabile, che per l' uomo sono due operazioni distinte l' intuizione dell' essenza e il giudizio , basta a doverci convincere che l' intuizione precede il giudizio; e che quindi l' umano conoscimento non comincia da un verbo , ma da una idea intuìta . Schelling, attribuendo all' uomo un verbo primitivo sotto il nome d' intuizione, invece d' una vera intuizione diede all' uomo quello che è proprio di Dio, nel quale le idee non sono distinte dal suo Verbo pel quale solo tutto conosce, che anzi non sono propriamente idee l' una dall' altra realmente distinte, ma sono relazioni conseguenti al suo Verbo nel modo che altrove abbiamo esposto (1). Ma per l' uomo le idee sono separate dal verbo, e l' una dall' altra è separata e distinta; e però esse precedono logicamente al verbo umano e non al divino. Questo primo errore di Schelling fu il primo passo che lo travolse al panteismo. Ma all' errore di Schelling ne aggiunse Hegel uno assai maggiore. Quegli avea confusa l' intuizione col verbo della mente: errore gravissimo; ma finalmente tanto l' intuizione quanto il verbo sono due operazioni soggettive, cioè dello spirito umano. Hegel non si contentò di ciò: ma confuse l' intuizione ed il verbo colla stessa idea (cioè il soggettivo coll' oggettivo), e attenendosi a questa, volle in essa trovare l' intuizione, il verbo, ogni cosa. Certo che questo medesimo errore non mancava in Schelling, perocchè questi era pervenuto a dire che le idee erano anime , trasnaturando così l' oggetto in soggetto. Ma l' errore in Schelling non era coerente, perchè a principio del suo sistema avea pur parlato d' assoluto e d' intuizione dell' assoluto; il che veniva a distinguere l' atto dello spirito intuente dall' oggetto intuìto: laonde i seguaci di Hegel lodano il loro maestro di una logica rigorosa, e non può negarsi che egli abbia conosciuta l' incoerenza di Schelling, ed abbia procurato di rendere l' errore coerente a sè stesso, per quanto gli fu possibile. Confondere l' idea col verbo, il concetto col giudizio, è lo stesso adunque, che: 1 Confondere quello che è oggetto dell' intuizione coll' operazione soggettiva dello spirito qual è il giudizio: 2 E, stantechè l' operazione dello spirito è reale , perciò è anche un confondere il modo ideale dell' essere col reale. Quindi per Hegel la dialettica è il movimento dello stesso concetto; è lo stesso concetto quel che dialetticizza , non è più lo spirito umano. Al concetto adunque attribuendosi le operazioni dello spirito, non è maraviglia se egli si cangia un poco alla volta in ispirito (1), e si metamorfizzi in ogni cosa che si voglia, diventi Iddio, universo, tutto. Qui sta la somma dell' hegeliana filosofia. Vincenzo Gioberti trasportò in Italia alcuni principii staccati della filosofia di Hegel (e col prenderli così staccati ne deturbò la logica coerenza), nello stesso tempo che molto declama contro questo filosofo. Egli non riconosce l' intuizione della pura idea; anzi pretende che non si possa intuire l' idea se non per via di giudizio, e in questo conviene con Schelling nel confondere l' intuizione col verbo , dando a questo il nome di quella. [...OMISSIS...] . Di poi confonde ancora con Hegel il verbo della mente, cioè il giudizio coll' idea ossia col concetto, scrivendo: [...OMISSIS...] . Così egli confonde il concetto col giudizio , senza accorgersi che la nota caratteristica del giudizio è l' affermazione , e che nell' affermazione il giudizio consiste; e l' affermazione è un' operazione soggettiva dello spirito, laddove il concetto, ossia l' idea, non è una operazione dello spirito, ma è un oggetto, in cui si può ben terminare un' operazione dello spirito (l' intuizione), ma distinguendosi appunto perciò da esso. L' ab. Gioberti confonde adunque al pari di Hegel l' operazione dello spirito (il verbo), che è cosa soggettiva , col concetto che è l' oggetto stesso intuìto. Ora il perdere di vista la differenza essenziale che passa tra il soggetto e l' oggetto , conduce direttamente a confondere l' idea colla cosa , l' ideale col reale; che è appunto l' altro errore cardinale di Hegel, il quale vuol cavare le cose stesse dalla sua idea. Ecco come s' esprime il signor Gioberti: [...OMISSIS...] . Il dire che « « ogni cosa è un concetto » », è proposizione così ardita che nè pur Hegel la direbbe (3). Qui c' è il materialismo: perchè, se i corpi sono cose e se ogni cosa è un concetto, dunque anche i corpi sono concetti. C' è conseguentemente l' idealismo: perocchè le cose sono trasmutate in idee. C' è il soggettivismo e il psicologismo: perchè il primo psicologico non può essere che quel primo che si pensa nell' anima; se dunque il primo psicologico produce tutti i concetti, dunque tutti i concetti sono produzioni dell' anima. C' è il panteismo: perchè, se il primo psicologico (ciò che prima si pensa nell' anima) s' immedesima col primo ontologico, dunque all' anima si riducono tutte le cose. E poichè il primo psicologico immedesimato col primo ontologico diviene il primo filosofico, « che è assoluto, cioè principio del reale e dello scibile », dunque l' anima, fonte de' concetti, unita al primo ontologico, fonte delle cose, è ciò che costituisce il Dio Giobertiano. Confuso il reale e l' ideale in uno, immedesimato il soggetto e l' oggetto, ne dovea venire la dottrina della dialettica Hegeliana. Hegel diede il ragionare all' idea stessa; è l' idea che si muove e che si svolge in giudizŒ ed in raziocinŒ: ma queste non sono più operazioni dell' anima umana. Il che niente ripugna, dopo che nell' idea si trasportarono le qualità del soggetto, e conseguentemente a lei si diede la vita e l' attività dell' anima (il che potrebbe essere a dir vero immaginazione poetica, non mai la verità del fatto). Quindi l' uomo, secondo il Gioberti, non è già quegli che giudica e che ragiona; ma è l' idea che fa tutto questo: e l' uomo è l' uditore passivo di ciò che l' Idea - Dio pronuncia (benchè talora pronuncii a sproposito). Il che non fa maraviglia, dopo avere stabilito il signor Gioberti che l' idea è un giudizio , come vedemmo. [...OMISSIS...] Se l' idea è un entimema, dunque ella non è solamente un giudizio, ma ben anco un raziocinio. Quindi il nostro filosofo attribuisce la voce (una voce razionale ) all' idea, dicendo che l' evidenza [...OMISSIS...] . Ma quello ch' è più singolare (nel che va troppo più avanti di Hegel), non solo il signor Gioberti vuole che l' idea (come fosse un soggetto intelligente e non un oggetto intelligibile) pensi e ragioni, ma ben anco parli con voci umane e sensibili, ed esprimendo sè stessa si faccia attrice del primo linguaggio. Ecco com' egli proponga questa sua quanto nuova altrettanto arbitraria teoria. [...OMISSIS...] S' estende poi a far parlare l' idea, e colla sua ricca immaginazione inventa un dramma in cui ella interloquisce tutto ciò che il filosofo le mette in bocca. A chi piace sollazzarsi, può vedere questo tutto nella lettera VII di quelle scritte al prof. Tarditi (2), della quale rechiamo qui solo il cominciamento: [...OMISSIS...] . Non credo prezzo dell' opera il seguitare più innanzi. Conchiuderemo solo, che in nessuna maniera, nè Hegel, nè altri, può dimostrare che l' idea sia un soggetto che pensa , invece d' essere, come è, un puro oggetto che sta innanzi al soggetto che pensa: per nessuna maniera di sottigliezze e di sofismi si può far perdere la sua natura all' idea, o immedesimare il soggetto coll' oggetto, o fare che l' uno si cangi nell' altro. Quindi per la stessa ragione vien meno il ragionare nella bocca di tali filosofi, e sottentra in sua vece un gran salto che dà la fantasia, quand' essi si arrovellano per riuscire a distruggere la differenza fra concetto e giudizio, idea e verbo, sicchè dall' uno possano passare all' altro quasi ad un sinonimo; come pure tra ideale e reale; cosa ed idea; le quali nozioni differiscono tra loro essenzialmente: nè contro le nature delle cose possono menomamente le sottilità de' sofisti, nè le declamazioni de' retori. Avendo dunque Hegel, senza alcuna prova, ma con un puro salto mentale della fantasia (benchè procuri d' asconderlo tra veli d' una nuova ed oscura maniera di parlare e di lunghi cavillosi e stentati periodi, pronunciati con quella sicurezza con cui sogliono insegnare i professori di quella nazione) attribuito all' idea le proprietà del soggetto intelligente; egli la rese non solo illuminante, ma illuminata e pensante e operante e producente, finalmente fonte di tutte le cose e di tutte le apparenze, non adoperando mai, a comporre le une e le altre, altra materia che sè stessa. Laonde egli riduce gli oggetti di tutte le scienze ad un oggetto solo, cioè all' idea ed al suo movimento dialettico, come si può vedere nella sua « Enciclopedia delle scienze filosofiche » (1). La quale Enciclopedia pare che stèsse sotto gli occhi di Vincenzo Gioberti, quando scriveva: [...OMISSIS...] . Riduce dunque Hegel tutte le scienze filosofiche a tre: Alla prima, che chiama Logica , attribuisce per oggetto l' Idea considerata in sè stessa e per sè stessa; Alla seconda, che chiama Filosofia della natura (denominazione tolta da Schelling), attribuisce per oggetto l' Idea nel suo esser altro, cioè in quel suo movimento pel quale si trasmuta in altro, nel mondo; Alla terza, che chiama Filosofia dello spirito (e risponde all' Idealismo trascendentale di Fichte), attribuisce per oggetto l' Idea nel suo ritorno dall' esser altro in sè stessa, cioè considerata in quel suo movimento pel quale, dopo essersi trasmutata nel mondo, col pensiero riduce a sè, riconosce come sua propria creazione e sostanza, il mondo. Ciascuno, che un po' considera questa partizione delle scienze filosofiche, sente il dominio che ha l' immaginazione nelle filosofie tedesche, e n' è prova altresì l' abbondanza delle metafore di cui lussureggia lo stile di que' filosofi. Il vedere l' idea che si muove da sè, e diventa il mondo, e poscia ritorna in sè trasportando seco tutto il mondo ed inabissandolo nel proprio seno, egli è pure uno spettacolo maraviglioso e dilettevolissimo a quelle gigantesche fantasie. Nell' entusiasmo, che destano cotali drammi della tedesca filosofia, a niuno viene in mente il domandare come l' idea, che è immobile, impassibile, puro oggetto dello spirito, possa muoversi, com' ella possa diventare materia; e da materia trasmutarsi nuovamente in spirito. A niuno cade in pensiero di chiedere come una natura possa trasmutarsi in un' altra natura, e in tal natura che ha determinazioni contrarie e ripugnanti a quelle che avea prima. A niuno finalmente sovviene di pregare questi filosofi taumaturghi, degni discendenti di Giacomo Boehme, che vogliano indicare qualche ragione sufficiente de' varii moti e tramutamenti dell' idea, e perchè ella prescelga questi a quelli, che pure sarebbero egualmente concepibili: a ragion d' esempio, perchè divenendo ella il mondo, non diventi un mondo un po' più grande, o un po' più piccolo del presente; perchè, divenendo il genere delle bestie, diventi proprio quel numero di bestie che abita il globo, nè pur una di più o di meno, e perchè le femmine pregne talora si sconciano, e l' Idea non ne patisca, benchè trasformata in esse, o non l' impedisca; e così va discorrendo. Ma poichè la Logica , che tratta dell' essere in sè e per sè, secondo il nostro filosofo è la solida base delle altre due scienze filosofiche che da esse derivano, cerchiamo in essa la partizione dell' essere. Infatti nel primo libro della « Scienza della Logica » di Hegel, verso la fine della discussione che egli fa sulla questione dell' « onde si debba cominciare », noi troviamo questo titolo: « universale partizione dell' Essere ». Dobbiamo dunque fermarci un poco ad esaminarla. Egli propone la tripartizione seguente: [...OMISSIS...] . Ognuno s' accorge che questo stile non è molto chiaro; e che la divisione non è molto regolare. Aggiungiamo poche osservazioni 1 Tutto si riduce all' essere ed alle sue determinazioni . Ma convien porre ogni attenzione a quella che egli dice la terza determinazione dell' essere. Ella contiene l' essere senza determinazioni, il qual precede. Si vuole che sia il cominciamento della scienza: è l' immediato , secondo la solenne denominazione di Hegel. Ma tosto si corre all' astratto, e lo si chiama immediatezza , indeterminazione, anzi indeterminatezza [...OMISSIS...] , senza accorgersi che tali parole non esprimono più l' essere stesso, ma una sua qualità negativa (privazione di mediatità, e di determinazioni). Che se questa qualità negativa si voglia prendere per sè e in sè, non aggiungendola all' essere come a suo subietto, noi già siamo usciti dell' essere, e venuti ad un concetto assurdo, cioè ad un non7concetto, illusi dal suono d' una parola che niente più significa. Il che è la solita pecca della filosofia tedesca. 2 Oltracciò si abusa della parola determinazione applicandola a significare anche l' indeterminazione assoluta dell' essere, quando questa non è determinazione, ma anzi mancanza di determinazione, non7determinazione. Ma, poichè la mente considera la mancanza di determinazione come una variante dello stato dell' essere, perciò la stessa indeterminazione si colloca tra le determinazioni pigliando queste in genere come quelle che producono le varietà dell' essere (1). E anche qui si sostituisce all' entità la vista logica dello spirito, e quella falsa maniera con cui egli classifica ciò che pensa secondo forme vuote che egli stesso impone alle cose in virtù dei segni verbali, rispetto a' quali è alla stessa condizione ciò che è negativo e ciò che è positivo, giacchè il vocabolo, che è positivo, segna anche il negativo. Affine dunque di strigare la verità dalla rete d' innumerevoli enti di ragione e di concetti fattizi e vani, in cui Hegel di continuo l' avvolge, convien incessantemente disfar la rete tessuta laboriosamente da questo filosofo, distinguendo accuratissimamente gli enti di ragione dagli enti in sè , e distinguendo di più, tra gli enti di ragione, quelli che sono concetti da quelli che sono non7concetti, cioè enti supposti, verbali, e nulla affatto esprimenti se non assurdi. 3 Di poi si dice che « la terza determinazione dell' essere cade nella sezione della qualità ». Ma, propriamente parlando, consistendo questa pretesa determinazione nell' indeterminatezza , conviene più veramente dire che è non7qualità. 4 Si dice ancora che questa indeterminatezza è una determinazione delle altre determinazioni dell' essere. Niente affatto: anzi è la loro negazione. 5 Si confonde l' indeterminatezza coll' immediatità dell' essere. Per immediatità s' intende quel primo logico, onde comincia la scienza. Ora questo primo logico, questo immediato, è certamente l' essere puro senza determinazioni; perocchè le determinazioni vengono appresso come qualità d' un subietto. Ma non è mica vero perciò, che il primo logico nient' altro presenti alla mente che l' indeterminazione; e molto meno ch' egli sia l' immediatezza medesima. L' immediatezza, come abbiamo osservato (1), non può stare da sè: essa è un concetto relativo all' immediato , all' ente quasi a suo subietto; l' immediatezza è un astratto, una relazione dell' ente al mediato, cioè del principio alle conseguenze e deduzioni. Onde non può essere il primo logico . Nè pure, come dicevamo, può costituire il primo logico; l' immediato, come immediato, e non più. Questa parola altro non significa che una relazione con ciò che in ordine alla scienza è mediato; e però suppone che vi sia il soggetto di questa relazione, perocchè ogni relazione suppone un ente di cui sia relazione. L' indeterminazione poi, o l' indeterminatezza, non significando altro che mancanza di determinazione, è un concetto che si riferisce del pari ad un soggetto, a cui l' indeterminazione appartenga, ma di più lascia in dubbio se questo subietto sia un puro ente mentale , o un ente in sè . Perocchè altro non esprimendo la parola indeterminazione se non una mancanza, e non ponendo nulla di positivo, ella può essere applicabile ugualmente al nulla , nel qual caso il suo subietto è un ente mentale , perchè infatti nel nulla non si concepisce determinazione alcuna; e può essere applicata all' essere , il quale si può benissimo concepire dalla mente nostra privo di determinazione. Che anzi l' essere, a cui si riferisce la mancanza di determinazioni, è doppio: perocchè, 1 può intendersi l' essere ideale , nel quale si pensa il puro essere con astrazione da ogni determinazione; e 2 può intendersi l' essere assoluto , Dio, non perchè Iddio sia un essere indeterminato nel senso di vago e comune, ma nel senso che niuna determinazione è in lui distinta da lui stesso, o da altra determinazione; onde non può rinvenirsi in lui determinazioni in senso proprio, come distinte dall' essere e tra loro. 6 E qui si discuoprono facilmente tutte le radici degli errori hegeliani. La fallacia con cui questo sofista inganna i suoi discepoli consiste appunto nell' aver preso per primo logico una qualità invece dell' ente, e fatta passare per ente: qualità che si può applicare a più subietti . Ora avendo presa quella qualità, cioè l' indeterminazione e l' immediatezza (che son due cose che egli confonde pure in una) pel primo logico , e avendola fatta passare per lo stesso subietto, a cui ella appartiene, ed essendo questo moltiplice; ne venne ch' egli potè attribuire a quella qualità tutto ciò che si può attribuire ai diversi soggetti. Quello che è singolare si è, ch' egli stesso confessa di dover trattare del suo essere (l' indeterminazione ed immediatezza) nella sezione della qualità, benchè privo di qualità [...OMISSIS...] . Potendosi adunque l' indeterminazione e l' immediatezza attribuire al nulla ed all' essere; egli ebbe bel gioco a prenderlo ora pel nulla ed ora per essere; ed a conchiudere che l' essere è uguale al nulla! Ognuno che abbia letto le opere di Hegel (se ebbe tanta pazienza) ben sa quant' egli si limi il cervello e il faccia limare a' suoi lettori su questa insigne scoperta che l' essere e il nulla fanno una perfetta equazione (1). Di poi, potendosi l' indeterminazione e l' immediatezza attribuire all' essere ideale; ebbe pure buon gioco a farne uscire tutta la logica e la dialettica pura. Finalmente, potendosi (benchè in altro senso) attribuire a Dio stesso, convertì il suo nulla in Dio; e fece travedere, siccome valente giocolatore, i suoi pazienti uditori, dimostrando che Iddio diventava nulla, e il nulla diventava Dio, quasi direi, a volontà del filosofo, che pone quindi IL DIVENTARE a principio della sua dottrina, quasi punto d' unione tra il nulla e Dio! Egli è manifesto qual governo si debba fare, mediante un tale principio, di Dio, dell' uomo, e dell' Universo, che per un cotale movimento dialettico continuamente si permutano. Non si creda però che a tali delirii tengano dietro molti in Germania, anzi sono di pochi. Anche tra gli scrittori tedeschi ve n' hanno assai, che tolsero ad oppugnare il sistema hegeliano. Vendel, che è uno di questi, lo definisce: « « La pazzia ridotta a teoria » » (1). Il buon principe Costantino di L”wenstein, rapito così giovane alle speranze degli amici, giudica di Hegel con molto senno nel suo saggio postumo di una cristiana filosofia (2). Staudenmeier ne pubblicò più recentemente una confutazione. Lo stesso Calybaeus nella sua « Critica di Hegel » dice: [...OMISSIS...] . Così giudicano tutti i cervelli sani di quella nazione; e se non giudicassero così, povera quella nazione! La sarebbe divenuta un manicomio. Il filosofo francese, più che altri mai promosse lo studio della filosofia in Francia, attinse ad un tempo ai Neoplatonici, e ai recenti filosofi tedeschi. Egli si sforzò di ridurre le categorie di Kant alle due leggi di causa e di sostanza, cui restringe poi ad una sola. Per sè, al suo parere, la sostanza è la causa in quanto esiste, e la causa è la sostanza in quanto opera: sicchè sostanza e causa differiscono come due rispetti sotto cui si considera la stessa cosa. Perocchè, dice egli, le idee di tempo e di spazio, di quantità, di qualità, di relazione e di modalità, si riducono alle due idee di ciò che è e di ciò che opera. La quale teoria pecca, perchè si scosta grandemente da ciò che dà l' osservazione della cosa in sè stessa, che è riconosciuta dal signor Cousin per la guida fedele del filosofo. E veramente l' attenta osservazione della cosa ci dimostra che nè l' idea di spazio, nè quella di tempo, si può ridurre menomamente a idee di sostanza e di causa; come nè tampoco vi si possono ridurre le altre quattro idee annoverate. Perocchè la quantità e la qualità non sono sostanze, ma modi di alcune sostanze, non di tutte (la sostanza assoluta, cioè Dio, non avendo nè quantità, nè qualità, a propriamente parlare), la relazione poi altro non essendo che un' idea astratta, la quale abbraccia tutti i rispetti ne' quali la mente contempla le cose, sieno sostanze, o idee, o che altro. La modalità finalmente nel senso kantiano è una cotal relazione delle idee fra di loro, e però non si può ridurre, nè pur essa, alle idee di sostanza o di causa. Il signor Cousin adunque non procede in questo colla maturità d' un filosofo; precipita delle conclusioni senza usare la necessaria pazienza ad osservare accuratamente quali sieno le differenze tra il concetto di sostanza e i concetti delle categorie kantiane, le quali differenze sono immense, e tali che in nessun modo questa si lascia ridurre a quella. In secondo luogo nei concetti di sostanza e di causa non si contengono i concetti dei modi delle sostanze: e però quei due concetti non abbracciano tutto ciò che si può concepire; e però non possono essere vere categorie. Converrebbe aggiungervi la categoria dei modi; dividendosi l' ente in sostanza e modi della sostanza. Ma la divisione non quadrerebbe meglio, perocchè in nessuna di queste due categorie si potrebbe collocare l' Essere Supremo: non nella categoria di sostanza in opposizione a' suoi modi, perocchè la natura divina è superiore alla sostanza, e accuratamente si dee chiamare soprasostanza [...OMISSIS...] , come vedremo: molto meno nelle categorie dei modi in opposizione alla sostanza; perocchè in Dio non v' hanno modi realmente distinti dalla sostanza medesima. In terzo luogo è un errore fondamentale il dire che tra il concetto di sostanza e quello di causa non passa reale differenza. Il quale errore dimostra nuovamente un difetto di accurata osservazione del fatto come stanno queste cose. La quale osservazione ci dà, che la sostanza è il principio, il soggetto, e, se si vuole, anche la causa degli accidenti, ma solo degli accidenti; i quali rimangono in essa, come termini inerenti all' atto suo: laddove il concetto di causa s' estende di più a significare un' energia che produce effetti separati affatto da sè, effetti che nè rimangono in esso, nè sono suoi modi; che non hanno lui per soggetto; e sono o un' altra sostanza o modi d' un' altra sostanza (1). Pretende dunque questo filosofo di ridurre ad unità le categorie di Kant, cioè all' idea di sostanza ch' egli identifica con quella di causa: il che non è veramente uno sciogliere il problema delle categorie, ma un distruggerlo. Conciossiacchè le categorie sono perite quando ad una fosser ridotte; giacchè con quel problema si cerca appunto di classificare le varietà degli enti; e il ridurre queste varietà ad una è un negare ogni varietà, negare il fatto della varietà. Convien dunque dire che non si possono ridurre tutte le categorie alla sostanza, e per lo meno i modi non sono contenuti nell' idea di sostanza, e però debbono formare una classe a parte, come dicevamo. E veramente lo stesso Cousin viene poi a classificare i modi delle sostanze, dove ragiona della sostanza per sè: di Dio. Ma disavvedutamente avviluppandosi in questo ragionamento incappa in più errori. Poichè primieramente suppone che le idee di Dio sieno i modi di Dio, cosa assurdissima: conciossiacchè non v' ha in Dio altre idee realmente distinte che il Verbo divino; e il Verbo è la stessa natura, e, se si vuole usare la parola sostanza , la stessa sostanza divina, che giova meglio dirsi sovrasostanza. Quanto poi al Verbo, qualora piacesse di chiamarlo un modo in cui Dio è, non dovrebbe in ogni caso dirsi che egli è un modo della sostanza divina o sovrasostanza, ma piuttosto ch' egli è un modo dell' essere Divino, un modo in cui l' essere divino E`: il che è pur tutt' altro. Poichè il modo dell' essere non è un accidente, laddove il modo della sostanza è un accidente. Venendo adunque il Cousin a classificare i modi, ossia le idee divine, egli così ragiona: [...OMISSIS...] . Ma, chi esamina con diligenza quel ragionamento, il trova vacillante; perocchè, lungi che i suoi passi sien posti con sicurezza, cioè che sia provato tutto ciò che s' ammette in esso, anzi vi si introducono assai cose di furto affatto gratuite. Lascio l' errore accennato di chiamare le idee modi di Dio, ed osservo: 1 Questa proposizione: « Iddio possiede l' idea dell' unità », ecc., suppone almeno tre cose: a ) il possidente; b ) l' idea dell' unità; c ) e la possessione o il nesso tra il possidente e l' idea. Convien dunque dire in che l' idea posseduta differisca dal possidente, e la possessione dall' uno e dall' altra: perocchè, se queste cose non differiscono in nulla, quella proposizione non avrebbe alcun senso. 2 Se l' idea dell' infinito, e l' idea del finito, e quella della relazione sono tre idee diverse in Dio, dunque vi debbono avere tre atti di possessione; e rimane a stabilire come questi tre atti di possessione differiscano dalle idee di Dio, e da Dio stesso, per la ragione medesima. Se poi differiscono, già i modi di Dio non sono più tre (le tre idee), ma per lo meno sei: perocchè oltre le tre idee vi hanno i tre atti di possessione. 3 Egli è falso che l' idea di unità e l' idea d' infinito sieno la medesima idea, perocchè ogni ente anche finito è necessariamente uno. 4 E` falso ancora, che l' idea di varietà contenga necessariamente l' idea di finitezza e di limitazione. Così le persone divine variano o piuttosto diversano fra loro; ma questa diversità non arreca perciò l' idea di cosa alcuna finita. Solo nelle cose umane la varietà è segno di limitazione, perchè in ogni variazione non si ripete tutto l' ente, che varia; laddove in Dio, in ogni persona si ripete tutta affatto la sostanza divina senza pluralizzarsi . Onde la varietà che è in Dio, non induce niuna cosa che sia finita, niuna idea di limitazione. 5 L' idea di uno e di vario e di relazione sono idee astratte, onde non possono essere in Dio distinte come vengono significate dalle parole, nè l' idea di uno può essere lo stesso che la cognizione che Iddio ha di sè come conoscente, giacchè l' uno può esser applicato a qualsivoglia sostrato; come nè pure l' idea di vario può essere la cognizione che Iddio ha di sè come conoscente e come cognito, perchè la varietà s' applica egualmente a qualsivoglia pluralità. Lo stesso dicasi dell' idea di relazione. Queste idee adunque non possono essere i modi di Dio, nè si possono dedurre sol dicendo che Iddio conosce i suoi modi. 6 Le idee astratte, ossia generiche, suppongono avanti di sè le idee specifiche, ossia meramente universali, come queste suppongono innanzi di sè le percezioni delle cose a cui si riferiscono. Se dunque si pone in Dio l' idea dell' uno come suo modo, forz' è che prima dell' idea astratta e generica dell' uno, vi sia l' idea d' un Dio uno; e innanzi questa, la percezione di sè stesso: e così i modi e le idee di Dio si moltiplicano grandemente sopra il numero tre a cui le restringe con tanto arbitrio il sig. Cousin. Somigliantemente l' idea di varietà non si può ammettere in Dio, se non si suppongono molte altre idee e percezioni a quelle precedenti, di cui quella è un astratto molto elevato. Primieramente l' idea di varietà suppone quella di numero egualmente astratta, ma che contiene meno dell' idea di varietà, perchè il numero suppone più unità non varie, anzi uguali. Di poi, l' idea del numero in genere suppone i numeri in ispecie, cioè il due, il tre, il quattro e così all' infinito. Onde tutte queste idee debbono essere in Dio, perchè supposte dall' idea di varietà, e non contenute in essa, ma sì contenenti l' idea di numero. Di che un' altra difficoltà egualmente insuperabile nel sistema Cousiniano, che queste idee specifiche de' numeri dovrebbero essere attualmente infinite in Dio, se fossero suoi modi distinti, perchè a' numeri non si può assegnare alcun confine. Ora un numero di idee infinite, è contraddizione, supponendosi giunto all' infinito il numero: il quale, se vi fosse giunto, non potrebbe più oltre procedere, contro l' intima natura del numero che esige che si possa sempre aumentare d' una unità. Di più, anche il numero specifico è un' astrazione che suppone le entità da cui si astrae e le percezioni di esse. Se si dovesse dunque dedurre le idee divine come fa il Cousin, converrebbe prima supporre che Iddio percepisse sè stesso; poi, che rifletta su di sè stesso e si percepisca di nuovo in due modi, come percipiente e come cognito; poscia, che da questa doppia percezione riflessa astragga il numero due, e dal due gli altri numeri, e da questi il numero in genere, e quindi l' idea di varietà, il che porrebbe, se non successione in Dio e generazione d' idee, almeno più atti distinti, e quasi facoltà, e però di nuovo una moltitudine infinita di modi: cose tutte ripugnanti e distruggenti il sistema stesso di Cousin che pretende trovare in Dio tre modi, ossia tre idee e non più (1). 7 Le stesse riflessioni si debbono fare rispetto alla terza idea di relazione, pure astratta anch' essa, sicchè ne suppone altre ed altre dinanzi da sè. Onde per ogni verso apparisce quanto vacilli il fondamento della filosofia Cousiniana. E tuttavia il nostro filosofo si compiace assai nell' applicare questo giochetto d' astrazione al mondo quasi rappresentazione di Dio, perchè contenente in esso unità, varietà e relazioni tra l' unità e la varietà. Il concetto potrebbe avere qualche valore, se non fosse adoperato fuori di luogo, e non occorresse, nell' uso ch' egli ne fa, una continua confusione tra l' idea e il reale. L' idea di unità e d' infinito, dice, come è il modo necessario di Dio, così è il modo necessario del mondo. Ma, lasciando che il mondo può esser uno e tuttavia esser finito (e certo egli è finito da molti lati), chi dirà mai che il modo dell' essere del mondo sia un' idea? Un' idea è ella una sostanza sussistente e reale? Quando ciò fosse, l' idea del mondo sarebbe il mondo: di che nulla di più assurdo e contrario al buon senso. Si confonde adunque l' idea di unità coll' ente reale, conosciuto bensì coll' idea, ma sussistente in un modo al tutto diverso dall' idea. Lo stesso si dica delle altre due idee, che non sono certamente il mondo nè modi di esso: perocchè il mondo è un complesso di singoli reali, i quali hanno de' vincoli d' azione e di passioni reali tra loro; e la varietà non esiste propriamente come tale, cioè come idea di varietà nel mondo, ma nella mente: la quale, riferendo il mondo a tale idea, il conosce, nol crea. Lo stesso dicasi della relazione come tale, cioè come astratto della mente: che non è punto il mondo, nè è nel mondo reale, ma nel mondo già dalla mente conosciuto. Cousin applica la sua formula a tutte le scienze: all' astronomia, alla chimica, alla fisiologia vegetabile ed animale, alla geografia, alle scienze che riguardano l' umanità, ecc.; e da per tutto trova senza difficoltà l' uno e il vario, e la relazione fra l' uno e il vario, applicazione sterile di risultamenti: perocchè non solo queste idee astratte si possono riscontrare realizzate negli enti, ma molte altre, ed anzi tutte quelle che noi chiamiamo idee elementari dell' essere (1), e molte volte queste idee elementari presentano una trinità degna di considerazione, ma tutt' altro che unica. Così in ogni ente si può riscontrare realizzate le idee di principio, di mezzo e di fine. Sant' Agostino acutamente osserva che in ogni ente non manca un cotal vestigio di trinità, avendovi l' essere, la specie (o forma) e l' ordine (2): altrove trovò in ogni ente il modo, la specie e l' ordine (3); e S. Tommaso (4) riduce a questi tre il numero, il peso e la misura, secondo cui la Scrittura dice esser fatte tutte le cose (5). Ma la questione, se in tutti gli enti v' abbiano de' vestigi di trinità, è per intero diversa da quella delle categorie; e l' avervi de' vestigi, non è l' avervi in esse la stessa trinità, molto meno è l' avervi nelle cose le tre idee Cousiniane: essendo certo che nelle cose non si hanno idee, se non nel sistema dei Panteisti, come sarebbe nel sistema di Vincenzo Gioberti che dice: « « ogni cosa è un' idea »(6) ». D' altra parte il Cousin, affine di trovare le sue tre idee (che non sono poi tre sole, come dicemmo) in tutte le cose, è obbligato ricorrere a quelle stiracchiature che potrebbero andar bene inserite nelle tavole mnemoniche de' Lullisti, ma che nel secolo nostro non possono far fortuna. Così egli trova nell' attrazione universale l' idea di unità e d' infinito. Per l' unità passi: benchè ivi non vi abbia unità, ma tendenza all' unione della materia senza che mai si unifichi penetrandosi; ma quant' all' idea d' infinito, dove sta ella nell' attrazione, se anzi la materia coll' attrazione tende a restringersi e limitarsi entro una sfera minore? Vuol poi trovare l' idea di varietà e di limitazione nell' espansione della materia. Fatica inutile anche qui, perchè la materia, o che si restringa, o che s' espanda, è sempre varia egualmente ed egualmente finita. Altre molte applicazioni, ch' egli fa delle sue tre idee fondamentali, non sono più felici di questa. Finalmente osserveremo, che l' uno, il vario, ed il loro nesso posto dall' autore dell' eclettismo francese, come le tre idee supreme, a cui tutte le altre si riducono, sono un cotal riflesso dell' eclettismo alessandrino imperfettamente riprodotto.

Teosofia Vol.II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Quest' uso d' adoperare la parola essenza per indicare l' ente sussistente è comune alla filosofia di Platone, e a quella d' Aristotele; e questi lo derivò dalla scola del suo maestro, ma nel suo sistema divenne un imperdonabile abuso, qual non era nel sistema di Platone. Platone s' accorse che le essenze sono immutabili ed estramondiali. Le ridusse, è vero, tutte nell' essenza per sé , che è semplicemente essenza, e non essenza di questo o di quello. Venuto al concetto di questa prima essenza, non potea non accorgersi che la prima essenza s' identifica col suo subietto. Dico, se n' accorse nell' ordine logico, nel quale, se si prende per subietto l' essere , questo si fa identico alla sua essenza [...OMISSIS...] . Ma in quest' ordine logico, quando si prende l' essere come subietto, non si ha per questo un subietto reale, ma un subietto dialettico. Onde le due forme di essere e di essenza si possono permutare a piacere dalla nostra mente. Ma questo non avviene in pari modo dell' essere sussistente, il quale è effettivamente subietto , e però non gli conviene esattamente la parola essenza . Per questo è tollerabile il dire, come Platone, che Dio è l' essenza stessa, invece di dire che l' Essere è Subietto. Ma Aristotele, invece di ridurre le essenze in Dio, le fece rientrare nel mondo, e allora fu altro il linguaggio platonico. Ritenendo egli incautamente l' uso che avea fatto della parola essenza il suo Maestro, pel quale l' essenza era Dio subietto sussistente, estese quella parola a significare tutti i subietti sussistenti nella natura; e cosí depravò e confuse il linguaggio, facendo che una parola la quale non poteva, in qualche modo, convenire se non a Dio solo, a cui l' avea riservata Platone, fosse applicata agli enti finiti, il cui subietto è assolutamente distinto dall' essenza. Conosciuto dunque qual sia l' astratto totale , che è l' ente astratto (lasciando da parte l' individuo vago , che è forma d' astrazione imperfetta la quale si può subordinare allo stesso ente astratto), e conosciuti i tre sommi generi d' astratti parziali, subietto, atto, qualità o essenza terminativa, prima d' investigare le classi minori nelle quali ciascuno di loro si distingue, dobbiamo considerare non già solo ciò che essi ritengono dall' ente, obietto, su cui l' astrazione si esercita, ma ancora ciò che pone in essi la mente coll' atto dell' astrazione; di che ci verrà conosciuta la loro assoluta estensione. Si consideri dunque, che il primo genere è somministrato alla potenza astrattiva dall' ente intero, e gli altri tre dalla costituzione dell' ente, altro il pensiero non mettendovi del suo, fuorché la separazione . Si rammenti dopo ciò, che l' oggetto, come conosciuto, è in balía della facoltà astrattiva. Se non fosse cosí, l' astrazione sarebbe inesplicabile. Se dunque la facoltà astraente divide l' oggetto che nella sua esistenza propria è unito, consegue che ella possa unire altresí le parti divise a quel modo che piú le aggrada. Da questo procede, che i quattro astratti da noi accennati, come sommamente generici, sieno in mano alla mente quali forme mobili applicabili da lei, ad arbitrio, a tutto ciò che cade nel pensiero, e quindi che sieno predicabili universalissimi. Ella dunque può anche dare la forma dell' uno all' altro, e con questa applicazione o congiunzione della forma trasformarli. E in quanto all' ente astratto , non solo può rivestire di questa forma gli altri tre astratti, ma è obbligata a farlo, se vuol concepirli separatamente, poiché nulla può concepire senza che ciò ch' ella concepisce sia concepito come ente, altro non essendo il concepire e l' intendere, che l' apprendere l' ente «( Ideol. , 559, 560) ». Può del pari applicare la forma di atto al subietto. In tal caso il subietto stesso entrerà nel genere degli atti. Può applicare la stessa forma di atto alla qualità od essenza, e anche questa in tal modo entrerà nel genere degli atti. Viceversa, la forma di subietto può essere applicata agli altri due astratti, cioè all' atto, e alla qualità o natura. E questa è l' origine de' subietti dialettici «( Logic. , 419 7 424) ». Finalmente, anche la forma di qualità o essenza si può dalla mente applicare agli altri due generi di astratti. Cosí, se si applica al subietto, questo prende la forma di subiettività , che esprime l' essenza o qualità di subietto; e si applica all' atto, questo prende la forma di attualità , che esprime l' essenza o qualità di atto. Gli astratti primitivi dunque, che servono di tipo agli altri, sono pochi; e supremi sono quelli che hanno l' origine nell' ente stesso in sé, e nella sua costituzione. Ma essendo la mente dotata della facoltà di rivestire gli uni della forma degli altri, da questi diversi rivestimenti i pochi astratti primitivi si moltiplicano, e danno nuove forme di astratti non piú semplici, ma composti. Si domanderà: qual differenza passa tra i quattro astratti massimi, e i predicati, e i predicabili? I predicabili non sono che predicati di predicati «( Logic. , 414 7 416) ». Sono predicati riflessi, che caratterizzano i predicati diretti secondo la loro estensione e la loro comprensione. I predicabili sono dunque predicati astratti da' predicati (1). Ma l' astrazione fatta sui predicati non è un' astrazione fatta sull' ente completo, bensí sopra un solo elemento dell' ente medesimo. In fatti il predicato non esprime che l' essenza terminativa o certamente ciò ch' esso esprime, qualunque cosa sia, lo esprime sotto la forma d' essenza terminativa . Dunque tutti i predicati, e cosí parimente i predicabili, che riducono quelli a sette classi, non sono che una sottodivisione del quarto genere d' astratti, a cui abbiamo imposta la denominazione di qualità, ossia di essenza terminativa. Onde volendosi vedere qual luogo tengano nella tavola degli astratti i predicabili, converrebbe innestarli in essa nel modo seguente: 1) Ente astratto, 2) Subietto, 3) Atto, 4) Essenza Terminativa, la quale, se si divide secondo l' estensione e la comprensione delle idee, ci dà i sette Predicabili: Essenze universalissime, essenza generica, essenza specifica, essenza differenziale, essenza integrale (2), essenza accidentale, essenza reale. Dalle cose dette si raccoglie ancora, che i quattro astratti sono contenenti massimi nell' ordine degli astratti. E veramente, potendo ciascuno di essi venir dalla mente rivestito della forma dell' altro, in virtú di questo travestimento accade, che ciascuno non contiene solamente i generi e le specie d' astratti inferiori a sé, ma contiene anche gli astratti degli altri tre generi con tutte le loro classi inferiori. I quattro sommi generi d' astratti dunque sono contenenti massimi nell' ordine delle astrazioni. Contenenti massimi assolutamente sono le tre forme primitive dell' Essere. Qual' è la relazione tra queste due maniere di contenenti massimi? Primieramente, l' Essere nelle sue tre forme è l' identico ente; e in ciascuna sua forma è contenente massimo assolutamente, per modo che abbraccia ogni entità, e anche reciprocamente se stesso nell' altre due forme. I tre sommi astratti, subietto, atto, ed essenza terminativa sono contenenti massimi delle sole entità astratte, e ciascuno anche degli altri due generi reciprocamente. L' altro sommo astratto, cioè l' ente , non è se non la congiunzione del subietto, dell' atto, e della essenza terminativa nel suo stato d' astrazione, e però è anch' egli contenente massimo delle entità astratte, e de' tre primi astratti, in quanto che la mente può rivestire ogni entità della forma dell' ente. Ma l' ente astratto non contiene anche l' ente sussistente ? Si può dire che lo contenga, secondo il pensare imperfetto della mente umana. Ma è piú vero il contrario: cioè che nell' Ente sussistente è contenuto virtualmente l' ente astratto, e non viceversa. Ma la ragione che fa parere all' uomo il contrario si è questa: che l' ente astratto è concepito dalla mente come oggetto, e l' Ente sussistente soltanto come subietto: ora nella forma oggettiva si contiene veramente la soggettiva. Veniamo ai tre astratti parziali. Nell' Essere sussistente colle tre forme la mente umana concepisce un subietto , un atto , e un' essenza terminativa . La separazione di queste tre cose non c' è nell' essere assoluto, ma la mente ve la pone colla sua facoltà astraente. Ora, con questa separazione la mente ha fatto perdere l' identità al suo oggetto. Egli è chiaro, che la semplice distinzione che la mente fa nell' Essere assoluto dei tre elementi non è quella che ci dia il subietto, l' atto e la forma terminativa d' astrazione massima: ci dà solo il primo subietto, il primo atto, la prima forma terminativa. Non sono dunque le tre forme d' astratti, di cui parlavamo, pure da ogni altra determinazione; ma queste forme si possono cavare con un' altra astrazione, cioè separando nel primo subietto la forma di subietto, da ciò che lo fa il primo tra i subietti; nel primo atto la forma di atto, da ciò che lo fa primo tra gli atti; nella prima forma terminativa la forma d' essenza terminativa, da ciò che la fa la prima tra tali forme. La forma di subietto è la possibilità di un subietto qualunque sussistente; la forma di atto è la possibilità di un atto qualunque sussistente; la forma d' essenza terminativa è la possibilità d' un' essenza terminativa sussistente. Essendo quelle tre forme di astratti tre possibilità, la mente con esse non conosce né un subietto, né un atto, né un' essenza terminativa sussistente. Ma intende, che di tali cose ce ne debbono però essere, perché il possibile non può stare senza il sussistente. Nel concetto dunque di possibilità si racchiude virtualmente il sussistente: in quella si vede la necessità di questo, ancorché questo non si veda attualmente. Questa è una nuova forma della dimostrazione dell' esistenza di Dio a priori. Abbiamo detto che, se la mente umana distingue semplicemente nell' Ente assoluto i tre elementi subietto, atto ed essenza terminativa , questi non sono ancora le tre forme pure degli astratti. Ma è necessario che aggiungiamo una dichiarazione. Cosí avviene come abbiamo detto, quando, tenendo presente l' oggetto, non facciamo che una distinzione in esso, e però intendiamo che si tratta del subietto dell' Essere assoluto, dell' atto dell' Essere assoluto, della essenza terminativa dell' Essere assoluto. Ma se separiamo intieramente il subietto dall' essenza terminativa, noi non sappiamo piú di che sia subietto. Del pari l' atto, separato da questa si rimane pura forma di atto, e noi non possiamo piú sapere qual sia. Ma avviene egli lo stesso dell' essenza terminativa? Questa, che è appunto quella che determina il subietto e l' atto, dev' essere ella stessa determinata, deve dunque ritenere il carattere dell' ente da cui s' estrae. Supposto dunque che l' astrazione di separazione mentale, e non di semplice distinzione, sia esercitata sull' Essere assoluto, l' essenza terminativa del medesimo che ci rimarrà in mano, dovrà essere cosa divina , ed essendo separata dall' atto e dal subietto, ci rimarrà un concetto virtuale di Dio, quasi un Dio in potenza. Esaminiamo dunque, qual sia quest' essenza terminativa nell' Essere assoluto. Noi troviamo ch' essa non è una sola, ma che ci sono tre essenze terminative, cioè tre termini dell' unico subietto e dell' unico atto divino. E queste sono appunto quelle che, non astratte, si chiamano forme primitive dell' Essere, e si trovano poi (unite coll' identico essere) esser tre persone; e che, astratte, costituiscono le tre categorie, cioè la subiettività, l' oggettività, la moralità. Laonde, coll' astrazione teosofica, la mente trova le due prime forme universalissime degli astratti parziali; la terza forma poi, non la trova unica, ma triplice. E per ridurla a una, è necessario aggiungere un altro atto d' astrazione su queste tre, che non è piú astrazione teosofica, ma astrazione comune di quella specie che possiamo chiamare elementare, che è astrazione d' astrazione. Ora, qual cosa le tre categorie hanno di comune, che da esse si possa astrarre? Nulla, fuori del loro inizio, che è l' essere , il quale contiene virtualmente le tre forme. Questa qualità comune dunque delle tre forme, di esser essere, dicesi essenza, che rispetto ad esse è iniziale, ma rispetto al subietto, o all' atto, è terminativa. Possiamo ora delineare la seguente tavola, che rappresenta l' ordine de' primi astratti. TAVOLA DE' PRIMI ASTRATTI Forma dell' astratto totale, Ente. Prima forma degli astratti parziali, subietto puro. Seconda forma degli astratti parziali, atto puro. Terza forma degli astratti parziali, qualità o essenza terminativa: (Essere, nel senso d' essenza); A. Categoria della subiettività; B. Categoria dell' obbiettività; C. Categoria della moralità. Ma qui si affaccia una difficoltà necessaria a discutersi per istabilire chiaramente qual relazione passi tra gli astratti massimi, e le categorie che sono pure contenenti massimi. Le categorie non contengono tutto? Come dunque si fanno esse una parte in questa classificazione, e come rimane fuori di esse il subietto e l' atto, ed esse vengono dopo questi? Rispondiamo che come nell' Essere assoluto si distingue per astrazione l' essere dalle sue forme , cosí in qualunque oggetto della mente si dee distinguere l' entità pensata, che corrisponde al principium quod degli Scolastici, dalla forma nella quale si pensa, che corrisponde al principium quo de' medesimi. Ora la classificazione degli astratti è la classificazione dell' entità pensata, e se in essa s' annoverano anche le forme categoriche, è perché anch' esse si considerano come entità pensate . Che se poi si vuol considerare la forma con cui tutte quelle entità si pensano, ella è sempre la medesima, cioè l' oggettiva che costituisce la seconda categoria. La categoria quindi dell' oggettività, presa come forma con cui si pensa , e non come entità pensata , contiene tutta quella classificazione, e contiene anche se stessa come entità pensata. Laonde, se il pensiero astratto si dovesse rappresentare con una figura, nella quale si vedesse espresso tanto la forma categorica del pensiero quanto le entità astratte in essa contenute, si dovrebbe disegnare la forma categorica dell' oggettività, che contiene in ispecie le entità astratte, colla figura d' un circolo, dentro al quale si trovassero gli astratti distribuiti organicamente come noi abbiamo fatto. Primieramente, il lume della ragione non è un astratto fatto dall' uomo «( Psicol. , 1321) ». In secondo luogo, esso è un contenente massimo, altramente non potrebbe essere un lume atto a far conoscere tutte le cose «( Psicol. , 1376) ». In terzo luogo, è un atto primo «( Psicol. , 1350 7 1356) »; e quest' atto primo è puro atto , senza principio e senza fine, cioè senza subietto e senza essenza terminativa «( Logic. , 354) ». Esso è veduto dall' anima in un modo oggettivo, e per esprimere questo modo con cui è veduto, gli si dà l' appellazione d' essere ideale . Essendo dunque privo di subietto e d' essenza terminativa, ha natura d' astratto, ma non d' astratto che sia fatto dall' uomo, bensí d' astratto che, bell' e formato, è dato all' uomo da Dio. Ora, gli astratti sono le forme intellegibili in balía della mente che può applicarli a tutto ciò che vuole. La sintesi, ossia l' unione del subietto, dell' atto e dell' essenza terminativa, ricostruisce l' ente disciolto coll' astrazione. L' essenza terminativa è quella che determina la natura dell' ente. Se l' essenza terminativa è la subiettività, s' avrà un ente subiettivo; se l' essenza terminativa è l' obiettività, s' avrà un ente oggettivo, quali sono le idee. Se poi l' essenza terminativa sarà ad un tempo la subiettività e l' oggettività, s' avrà un ente subiettivo intelligente; se l' essenza terminativa sarà ad un tempo la subiettività, l' oggettività e la moralità, s' avrà un ente subiettivo intelligente e morale. La mente dunque, possedendo solo quest' astratto, ha in esso il mezzo formale da conoscere tutti gli astratti e tutti gli enti sussistenti, appunto perché ha un contenente massimo. Avendo poi veduto che le somme relazioni nascono dall' essere nelle sue tre forme, le quali prese astrattamente sono le categorie, e che queste, non altrimenti che l' essere e l' ente considerato come essenza terminativa, appartengono alla terza forma d' astratti, ne consegue, che anche le tre somme relazioni appartengono alla terza forma o genere supremo d' astratti parziali, cioè alla essenza terminativa. E in fatti le tre relazioni supreme abbiamo detto essere l' essenza, la verità, la bontà. Ora l' essenza è il quarto genere sommo degli astratti. La verità è una relazione dell' obiettività col subietto intelligente, astrazione fatta da questo subietto, e però a questa appartiene. La bontà è la moralità, astrazione fatta, di nuovo, dal subietto. Il subietto reale è un subietto che esiste in sé, a cui perciò compete la sussistenza; il subietto astratto e il subietto dialettico non esistono che in relazione alla mente, contenuti nel puro oggetto della mente stessa. Perciò il subietto reale non può essere conosciuto come un puro obietto della mente; acciocché il subietto intelligente lo conosca, non basta che riguardi nell' oggetto, ma oltrecciò dee fare un atto d' affermazione, che abbia per termine l' atto con cui il subietto esiste in sé. Il subietto astratto puro differisce poi dal subietto dialettico in questo, che nel subietto astratto puro si contiene virtualmente tutto ciò che può appartenere non solo al subietto dialettico, ma anco al subietto reale. Il subietto astratto puro è dunque un subietto perfetto, ma virtuale. Il subietto dialettico all' incontro non racchiude già, né pure virtualmente, tutte le condizioni d' un subietto perfetto e reale, ma ne esclude alcune. Il subietto dialettico si forma dalla mente, quando questa applica la forma astratta della subiettività a qualche cosa che non è subietto in sé (1). Dalle cose dette risulta, che i sommi generi dei subietti dialettici non possono essere che sei. Poiché questi non sono altro, se non gli astratti che non sieno già da sé subietti, rivestiti dalla mente della forma di subietto. Ora gli astratti massimi, escluso il subietto puro, sono sei, come abbiamo veduto, cioè l' ente, l' atto, l' essenza e le tre categorie. Sei sono di conseguente anche i sommi generi de' subietti dialettici, che servono a tipi di tutti i subietti dialettici. Che se poi si considera, che le tre categorie non differiscono quanto alla forma dialettica da quella dell' essenza terminativa, i sommi generi dei subietti dialettici si devono ridurre a tre, ente, atto ed essenza terminativa presi nel discorso come subietto delle proposizioni. L' ente astratto, come abbiamo detto, può considerarsi come ente per essenza , cioè tale che racchiude tutta la ragione di ente, benché implicitamente; e questo non può esserci dato che dall' astrazione teosofica . E può considerarsi come ente comunissimo che si predica ugualmente d' ogni ente, anche di quelli che non hanno la ragione perfetta di enti; e questo è dato dall' astrazione comune , che in relazione alla prima può dirsi astrazione d' astrazione. Preso l' ente astratto in questo secondo modo, egli non solo s' applica dalla mente a quelli enti che non hanno la piena ragione di enti, come sono tutti i finiti sussistenti, ma ancora a quelli che non sono enti per niun modo, mancando loro ogni ragione di ente, come agli elementi astratti degli enti stessi: e allora questi si dicono enti dialettici. Tutti tre gli elementi dell' ente sono necessari all' ente. Quando dunque l' ente si divide nei tre elementi, questi, cosí separati, non si possono concepire se non supponendoli enti, poiché nulla è concepibile che non sia ente, o non sia rivestito dalla forma dell' ente. Quanti perciò sono gli elementi dell' ente, potendosi tutti rivestire della forma astratta dell' ente, altrettanti sono gli enti dialettici. Come enti dunque, e però come oggetti , appariscono alla mente che li considera a parte, il subietto, l' atto e l' essenza terminativa; e poiché l' essenza terminativa di prima astrazione e d' astrazione teosofica è triplice, cosí anche le tre categorie si concepiscono dalla mente come enti dialettici, ed oggetti. Ora, l' ente puramente dialettico si può anche dire non ente, perché effettivamente egli non è ente, ma sí un elemento dell' ente, a cui la mente ebbe imposta la veste astratta dell' ente. La forma poi dell' ente può essere predicata anche dei negativi, di cui parleremo poscia. Si domanderà perché abbiamo distinti tre soli generi di subietti dialettici (dei positivi), e abbiamo invece distinti sei generi di enti dialettici. La ragione è la seguente. Riguardo ai subietti i generi sono costituiti dalla forma astratta di subietto; onde i generi di tali subietti si devono prendere dal genere di astratti a cui s' applica la forma di subietti, e poiché le tre categorie hanno la stessa forma astratta d' essenza terminativa, perciò esse non costituiscono subietti dialettici separati. Riguardo all' ente all' opposto, esso trova in tutti i sei astratti un elemento identico con se stesso, ma questo varia in tutti i sei astratti, e anche nelle forme categoriche; onde questa differenza, che si replica sei volte, deve costituire sei generi d' enti dialettici. L' atto che possiede la piena ragione di atto è l' atto primo, perché l' atto secondo non è pienamente atto, ma è atto solamente in virtú del primo, onde la natura di atto non l' ha per sé, ma dipendentemente da altro. L' atto che possiede questa piena ragione è quello dell' essere, che è primo. Qualunque cosa dunque si concepisca, si dee concepire come atto di essere, altramente non si concepirebbe, perché il secondo non si può concepire senza il primo. Concependosi dunque sette astratti, cioè l' ente, il subietto, l' atto, l' essenza terminativa e le tre categorie, sette generi d' atti si devono concepire, cioè l' atto puro e l' atto in sei modi parzialmente determinato. Questi sono virtualmente compresi in quello. Ora, essi non sono già semplicemente qualche cosa diversa dall' atto, la quale si rivesta della forma dell' atto, come straniera ad essa, nel qual caso si dovrebbero chiamare atti dialettici; ma sono atti propriamente essi stessi, e però non si debbono dire atti dialettici, bensí atti veri. Ma questi veri atti differiscono dall' atto puro, perché, oltre al concetto di atto, hanno in sé qualche altro concetto che riferito a quello di atto, gli aggiunge qualche determinazione, sebbene, trattandosi di astratti che si prendono singolarmente, niuno lo determini a pieno. Per intendere meglio come la cosa sia, si consideri di novo, che l' atto puro , quale sommo astratto, si può prendere in due modi: 1) o come atto primo che ha la piena ragione di atto; 2) o come atto comune , predicato d' ogni atto anche imperfetto. Se i sei atti si paragonano all' atto primo (essere iniziale), essi non sono che una continuazione del medesimo, e cosí non sono atti, ma sí determinazioni astratte dell' atto primo. Se poi si considerano in relazione all' atto comune , questo si predica ugualmente di tutti, e però si considerano come altrettanti generi d' atti, la cui differenza consiste nell' essere la continuazione dell' atto primo giusta diversi elementi dell' ente. Altro è il concetto della mente, quando questa considera l' atto primo in se stesso, il qual concetto altro non è che l' essere iniziale; ed altro è il concetto, quando ella considera l' atto primo nell' ente . L' atto primo nell' ente è il subietto stesso, è « ciò che nell' ente si ravvisa di primo, contenente, e causa d' unità ». Essendo diversi gli enti, l' atto primo proprio di ciascun ente è diverso, come sono diversi i subietti de' diversi enti. Ora, in tutti gli enti finiti, l' atto primo loro proprio non è l' atto primo astratto: perché questo è l' essere iniziale , e l' essere iniziale è atto primo universale e antecede all' atto primo proprio, che è il subietto ed appartiene alla categoria della subiettività e non è l' essere, ma il reale. Laonde, non solo l' atto come astratto comune , ma anche l' atto primo astratto è universale, e non proprio di alcun ente finito. Ma quest' atto primo astratto è forse proprio dell' ente infinito? Né pure: poiché come atto primo dell' ente infinito non si può considerare se non il subietto infinito . Se però in questo subietto infinito si separa coll' astrazione teosofica il concetto di atto primo dal concetto di subietto , si ha cosí formato l' atto primo astratto , che, come dicevamo, è l' essere iniziale , il quale è un atto subiettivo che si vede però dalla mente nell' oggetto, come l' entità nell' idea. Dopo aver noi parlato dell' ente astratto, del subietto astratto e dell' atto astratto, dobbiamo parlare dell' essenza terminativa. Ora, questa è positiva e negativa. Ma l' essenza negativa non appartiene al genere sommo, come quella che si forma dalla mente posteriormente: tuttavolta allo stesso genere si riduce. Infatti il negativo si riduce al genere del positivo, perché, altro non aggiungendosi che la negazione, conserva il concetto fondamentale del genere. Il negativo non aggiunge altro, fuorché la negazione che fa la mente, e non pone una differenza nel genere. E questo spiega la parola filosofica di riduzione . Quando pertanto un genere conserva il concetto da cui esso è formato, e la mente v' aggiunge qualunque operazione che non restringe punto il genere stesso, allora l' oggetto che risulta da una tale operazione non è un genere novo, ma si riduce nello stesso genere. Parliamo dunque prima delle essenze negative, e poi delle positive, e de' generi subordinati. L' astratto positivo può essere oggetto della semplice facoltà d' intuire, purché l' astratto sia dato alla mente bell' e formato; e quest' è quello che avviene coll' essere puro. Ma qualora l' uomo stesso debba produrre a sé gli astratti, allora non gli basta l' intuire, ma egli deve prodursi l' oggetto, e però l' operazione dell' astrazione o deve essere preceduta dall' affermazione, o deve intervenire questa facoltà dell' affermare nella stessa operazione colla quale si produce l' astratto. L' astratto si riveste sempre della forma dell' ente, e ogni rivestimento di forme astratte implica una specie d' affermazione e di predicazione. Questa è dunque necessaria nella formazione di tutti gli astratti negativi, sí perché nascono dal paragone e dalla sottrazione «( Logic. , 656 7 672) », e sí perché cosa sottratta equivale a dire cosa negata, e sí finalmente perché questa cosa sottratta o negata si dee rivestire della forma dell' ente, acciocché diventi un oggetto della mente. Negare poi ed affermare appartengono alla stessa facoltà, e si raccolgono entrambi nel significato del verbo predicare . L' oggetto negativo dunque si può definire, in quant' è negativo: « una entità che non è », e in quant' è oggetto della cognizione: « un' entità negata ». Ora, « un' entità che non è », non è un' entità, ma nulla. Ma poiché in questa definizione, « un' entità che non è », la parola entità rimane indefinita, ed essa significa qualche cosa dell' ente, perciò può avvenire che « il non essere una data entità »non tolga che fuori di essa entità negata ci sia qualche cosa, a cui quell' entità apparterrebbe se ci fosse. Infatti ci hanno entità appartenenti ad un subietto, il quale rimane ancorché le dette entità non ci sieno, come accade dell' entità accidentali. In tal caso « l' entità che non è »non si può considerare dalla mente in separato dal subietto ma sí in relazione col medesimo, ossia ha la natura di predicato che si nega d' un subietto. Ma poiché le quattro forme astratte sono in balía della mente, che può rivestire di esse tutto ciò che in qualunque modo concepisce, perciò anche il negativo può comparire rivestito di ciascuna di quelle quattro forme, cioè può pensarsi come ente, come subietto, come atto e come essenza terminativa, e può anche essere rivestito della forma affermativa , del quale rivestimento fa grand' uso l' Algebra. Pure abbiamo veduto altra cosa essere che un' entità possa esser rivestita d' una di quelle quattro forme astratte, altra cosa, che ella stessa la abbia in proprio per sua natura. Rimane dunque a cercare quali siano le forme o la forma propria del negativo astratto. Importando ogni negativo conosciuto dalla mente una negazione, cioè essendo « una entità negata », questa non può essere, che un predicabile. Tale è dunque la sua forma propria: « non un predicabile già predicato, che è posteriore, ma un predicabile nel suo senso proprio di esser atto a predicarsi, il che è appunto l' essenza terminativa ». La forma propria dunque de' negativi astratti non è che una, ed è la quarta; onde i negativi non danno una forma astratta di piú, ma sono un genere d' astratti subordinato al quarto dei generi sommi. L' astratto negativo da sé considerato è nulla: rispetto poi alla mente è un negato, cioè il prodotto della negazione. Ma il prodotto della negazione ha sempre la forma d' essenza terminativa che suppone avanti di sé il subietto di cui ella si può negare, e l' atto di questo subietto: non ritiene dunque, che l' ultima parte dell' ente, l' essenza terminativa. Se ora noi vogliamo investigare i generi piú estesi delle essenze negative, converrà che prendiamo la tavola delle essenze positive, e che le applichiamo la negazione. Questa ci dà cinque generi sommi, due appartenenti all' essere, che sono l' entità e l' attualità , e tre appartenenti alle forme dell' essere, che sono la subiettività , l' obiettività e la moralità . Cinque sono dunque del pari i sommi generi delle essenze negative: l' entità negata, l' attualità negata, la subiettività negata, l' obiettività negata, la moralità negata. Ora, poiché ogni essenza affermata o negata si riferisce ad un subietto, a quella maniera che varia il subietto, varia pure il valore della negazione. Cosí, ogni qual volta il subietto di cui si nega è identico alla cosa negata, si ha il concetto del nulla assoluto; hassi sempre il nulla, se si nega l' entità dell' entità, l' attualità dell' attualità, la subiettività della subiettività, ecc.; di maniera che in cinque modi generici si può formare dalla mente il concetto del nulla assoluto. Conviene dunque osservare la relazione tra la natura del subietto di cui si nega, e la natura dell' essenza negata, poiché questa relazione vien variando, e varia con lei anche il prodotto della cosa negata. 1) Se la relazione tra il subietto e l' essenza di lui negata è tale, che la natura di quello escluda quest' essenza, il prodotto prende la forma di limitazione naturale . La limitazione naturale è ciò che un subietto giusta la sua natura non ammette. Ma non sempre quello che si presenta sotto forma di limitazione naturale è vera limitazione . a ) Se la natura dell' essenza che si nega è assolutamente una perfezione, allora c' è una vera limitazione. b ) Se l' essenza che si nega è una quantità della quale il subietto, di cui vien negata, può partecipare piú o meno, senza che perciò si perfezioni la stessa natura del subietto, la negazione dà ancora una limitazione. c ) Se l' essenza che si nega non è assolutamente una perfezione, ma essendo una perfezione relativa ad un altro subietto, non è una perfezione né un aumento pel subietto del quale si nega, anzi per lui sarebbe un' imperfezione; allora la negazione dà un prodotto che ha forma dialettica di limitazione, ma che non è tale, esprimendo in quella vece la rimozione d' una limitazione, e una perfezione del subietto. Cosí, negandosi di Dio le perfezioni limitate delle creature, Egli veramente non si limita, ma in quella vece si dimostra di natura illimitata. Il negare dunque del subietto ciò che è inferiore alla natura del subietto non è un limitarlo, ma un ingrandirlo; benché la forma dialettica sia quella della negazione e della limitazione. d ) E cosí pure, se l' essenza che si nega d' un subietto è negativa, si ha una negazione di negazione, che equivale ad asserire di lui la stessa essenza presa positivamente. E` dunque una limitazione apparente e puramente dialettica. 2) Qualora la relazione tra il subietto della negazione, e l' essenza che di lui si nega sia tale, che questa non venga esclusa dalla natura del subietto, ma non formi la sua essenza specifica, e formi invece qualche suo compimento che, come tale, è richiesto dalla natura del subietto; allora il prodotto della negazione importa privazione . E questa è di piú maniere, le quali si riducono a questi due sommi generi: 1) Privazione d' un' essenza integrale; 2) Privazione d' un' essenza accidentale. Tanto poi l' essenza integrale , quanto l' accidentale , che si nega, può appartenere alla categoria della realità, o a quella dell' obbiettività, o a quella della moralità. Le essenze terminative dunque sono predicabili nel senso proprio di questa parola: non sono ancora predicate d' alcun subietto. Quando poi sono predicate, cangiano forma, cioè prendono quella d' astratti che abbiamo chiamata il comune . Questa forma è posteriore, e però il predicato, in ordine alla sua formazione, è posteriore al predicabile; il predicabile è separato dal subietto e dall' atto del subietto, il predicato è solo distinto . Diciamo qualche cosa di ciascuno dei cinque sommi generi delle essenze terminative. Entità è il nome del predicabile, ente il nome del predicato corrispondente, che è l' entità predicata. Colla predicazione dunque si dà ad un subietto la forma dialettica di ente. Ma la forma dialettica non è sempre la forma propria del subietto stesso; perciò l' ente in sé considerato si distingue dall' ente dialettico . Considerar l' ente in sé, è considerarlo coll' intelligenza necessaria, la quale non ha in sua balía l' oggetto, appunto perché questo è l' ente tal quale è; rivestir l' ente d' una forma dialettica che non gli è propria, è opera dell' intelligenza libera, alla quale spetta l' ente in quant' è da lei riguardato, ed ella come tale può spezzarlo, e prendere questi spezzati come forme da riporre dove vuole, perché sono sue produzioni e stanno in suo pieno dominio. Ora, degli enti dialettici abbiamo già veduto quali sieno le sei prime e supreme classi, a cui si devono aggiungere tutti i negativi che presi insieme costituiscono una settima classe; parliamo dunque dell' entità applicata a quello che è ente in sé considerato. L' ente in sé considerato ha quattro generi che sono: 1) l' ente astratto; 2) l' ente come subietto; 3) l' ente come obietto; 4) l' ente come santo. L' ente è astratto ogni qual volta gli manchi l' esistenza subiettiva; a cui consegue che manchi sempre l' esistenza morale. Quindi tutte le maniere di enti astratti, hanno questo carattere comune, che è la mancanza dell' esistenza subiettiva, e conseguentemente della morale. Differiscono poi secondo il grado dell' astrazione maggiore o minore. La massima astrazione è quando si pensa l' ente, e però si pensa subietto, atto, ed essenza terminativa che sono i suoi elementi, ma questi tre elementi si lasciano nella massima indeterminazione. La minima astrazione è quando si considera l' ente risultante da quei tre elementi determinati fino alla specie piena e pienissima. Quest' ente astratto di minima astrazione è quello che può essere realizzato, perché non gli manca altro che l' esistenza subiettiva. Mediante questa maniera d' astrazione, che, quando è fatta dall' uomo si chiama piú propriamente universalizzazione «( Ideol. , 490 7 504) », Iddio creò il mondo. L' ente non è una essenza terminativa, perché abbraccia tutti tre gli elementi dell' ente; ma egli si riveste dalla mente della forma di essenza terminativa, e cosí diventa l' entità . L' atto astratto non è né pur esso un' essenza terminativa; ma dalla mente è rivestito di questa forma, e diventa l' attualità . Nemmeno il subietto astratto è di sua natura un' essenza terminativa; ma la mente lo riveste della forma terminativa, ond' esso diventa la subiettività . Rimane, dunque, che abbiamo natura d' essenze terminative le sole due dell' obiettività e della moralità . L' atto dunque ha forma propria, e l' attualità è forma sopravvestita, e però quest' ultima parola esprime un concetto posteriore a quello che viene espresso dalla parola atto . L' atto astratto si concepisce come medio tra il subietto e l' essenza terminativa; ma nella sua esistenza reale l' atto non può stare senza il subietto che lo preceda e senza l' essenza in cui termini. Il subietto n' è anzi il principio, e l' essenza qualitativa, il termine. Quindi è che il subietto e del pari l' essenza terminativa non si può pensare senza l' atto. Se leviamo ogni atto scompare anche il subietto e l' essenza qualitativa. Quindi il concetto astratto di subietto è quello d' un atto iniziale, e il concetto astratto dell' essenza qualitativa è quello d' un atto finale. Questi tre atti astratti costituiscono un atto solo nella realità, e quest' atto solo è l' ente in quant' è uno. Quindi procede che non si danno atti dialettici , fuorché i negativi che si concepiscono vestiti della forma dell' ente , e quindi anche dell' atto . In ciò l' atto astratto differisce dall' ente e dal subietto ; poiché si danno de' subietti e degli enti dialettici laddove non si può pensare cosa alcuna di positivo che non sia vero atto, almeno iniziale o finale. Si devono dunque distinguere gli atti in positivi , e in negativi che sono atti dialettici. Di poi i positivi si possono distinguere ne' tre generi d' atti iniziali , d' atti medŒ e d' atti ultimativi . Gli atti iniziali hanno sempre natura di subietto o vero, o dialettico. Gli atti ultimativi hanno natura d' essenza terminativa . Gli atti medŒ hanno la pura e semplice natura di atto . Ora il subietto , fino a che è astratto e separato colla mente dal suo atto e dall' essenza terminativa, non è un subietto compiuto. Qualora dunque si prende un subietto astratto, e di lui si predicano atti reali ed essenze terminative reali, quel subietto astratto diventa un subietto dialettico, e non è piú un vero subietto. Questo appunto è il caso dell' essere , oggetto dell' intuito. Egli è l' atto iniziale di tutti gli enti. Quando si prende per subietto di tutte le idee, egli è loro subietto in sé, quantunque sempre subietto incompleto, perché astratto. Ma quando si prende per subietto di tutti gli enti sussistenti, egli non è piú che un subietto dialettico. Da questa sua relazione colle cose, abbiamo veduto nascere il sistema dell' identità dialettica . Che cosa dunque fa la mente quand' ella considera l' essere iniziale come subietto universale? Ella ha coll' astrazione diviso il subietto intero, il quale è sussistente, e si è riservata il solo iniziamento del detto subietto, cioè l' atto iniziale, e quest' atto iniziale l' ha considerato quasi fosse egli stesso subietto dell' atto medio e dell' atto ultimativo, da lui divisi. Ora, posciaché l' atto assolutamente iniziale è necessariamente il primo concepibile dalla mente, perciò quell' astratto che ha natura di primo concepibile, ella poté assumerlo come subietto universale di tutte le cose. Ma tutto questo rimane nel mondo dell' astrazione, ossia dell' intelligenza libera. Che se la mente volesse trasportare un tale subietto nell' ordine delle realità dichiarandolo sussistente, contraddirebbe a se stessa, perché dichiarerebbe reale quel subietto ch' ella stessa ha tratto dal reale e reso spoglio d' ogni realità; e frutto di cosí grossolana contraddizione sarebbe il panteismo. La mente dunque, che concepisce l' atto iniziale come subietto, può aggiungergli l' atto e l' essenza terminativa, e cosí integrarlo. Se questa essenza terminativa non fa altro che integrare il subietto astratto, riducendolo a subietto completo, dicesi subiettività . In questo modo la subiettività si considera come una forma dell' essere , uno de' suoi tre termini, termini che nell' Essere assoluto s' immedesimano coll' essere, ma che tuttavia l' intelligenza libera, mediante la sua facoltà astrattiva, può dividere, considerando l' essere a parte come atto iniziale, ossia subietto astratto di quelle tre forme. Che cosa vuol dunque dire « predicarsi l' attualità d' un subietto »? Vuol dire attribuirsi ad un subietto il suo atto medio . Ma poiché il subietto, di cui si predica, può variare senza fine, perciò anche l' atto medio , che si predica di lui, acquista diversi valori. Diversi valori ancora acquista l' attualità predicata, secondo l' essenza terminativa diversa che ne determina la qualità. Onde lo stesso atto medio, e la stessa essenza terminativa può comparir vestita della forma dialettica di subietto, il cui atto medio sarà uno degli altri due elementi vestito d' atto medio. Questo sopravvestimento di forme dialettiche è dunque quello che implica e moltiplica all' infinito il numero delle proposizioni, e può facilmente confondere il raziocinio, e dar luogo alla sofistica. Si può cercare finalmente quale sia il nesso dell' atto medio, considerato in se stesso, col subietto e coll' essenza terminativa. Questo nesso è doppio: 1) d' identità; 2) di diversità. Il nesso d' identità interviene allorché, quantunque nell' ordine dell' astrazione si distingua l' atto medio da' due suoi estremi, tuttavia nell' ordine degli oggetti in sé non havvi nulla che ne possa segnare una distinzione. Il nesso di diversità c' è allorquando nell' oggetto in sé esiste qualche cosa che distingue l' atto medio da' suoi estremi. « Ogni qualvolta ciò che si concepisce come atto medio, e come essenza terminativa che lo determina, non è essenziale al subietto, l' atto medio si distingue, in sé considerato, dal medesimo subietto ». « Ogni qual volta, per lo contrario, ciò che si concepisce come atto medio, e come essenza terminativa che lo determina, è essenziale al subietto, non si distingue se non astrattamente dal subietto ». Da questo si scorge che tre sono i casi nei quali non c' è distinzione tra il subietto e l' atto; e sono i seguenti: 1) L' atto dell' essere iniziale è identico coll' essere iniziale preso come subietto. L' essere iniziale è un subietto astratto, spogliato d' ogni essenza terminativa, lasciatogli solo l' atto primo astratto. La distinzione è puramente mentale. Quest' atto poi, che è l' essere stesso, è essenziale, appunto perché è lui stesso. E cosí vedesi che l' atto adegua tutta l' estensione del subietto. 2) L' Essere assoluto, Dio, non ammette nessuna distinzione in sé di subietto e di atto; perché all' Essere assoluto è essenziale l' atto, e questo tanto esteso quanto lo stesso subietto. Se qui si pensa dunque una distinzione, questa non ha fondamento nell' oggetto in sé, ma è l' opera della mente libera che gli applica le due forme concettuali di subietto e di atto. 3) L' atto come subietto non ammette distinzione in sé dal suo atto, perché è l' atto stesso che ne costituisce l' essenza e la forma terminativa adeguata ed identica. E` dunque la mente libera, che applicando piú forme astratte ad un subietto identico e semplicissimo, può moltiplicarlo rispetto a sé, senza che egli perciò sia molteplice in se stesso; il che si dice « distinzione di puro concetto ». Tutte le proposizioni perfettamente identiche si riducono a questo caso. Abbiamo veduto che col pensiero astratto dell' ente, « si pensa l' ente, ma non si pensa qual subietto abbia quest' ente, qual atto, qual essenza terminativa ». Il subietto dunque che si pensa nell' ente astratto è il subietto astratto, non nel senso che sia il primo subietto, ma nel senso che sia subietto comunissimo . L' atto che si pensa nell' ente astratto non è l' atto assolutamente primo, ma l' atto comunissimo . L' essenza terminativa, è l' essenza comunissima , che è un astratto di seconda astrazione. Quindi avviene, che dell' ente astratto si possono predicare le essenze terminative di prima astrazione , che relativamente all' essenza comunissima hanno natura di determinazione. Le essenze terminative di prima astrazione, sono le tre forme categoriche dell' essere, la prima delle quali è la subiettività . Laonde, quantunque la subiettività considerata nell' ente sussistente non abbia altra forma che quella di subietto, tuttavia considerata in relazione coll' ente astratto preso come subietto, si predica di lui dalla mente come essenza terminativa . Che se, invece, noi consideriamo la relazione che essa ha coll' essere iniziale , noi troviamo che col predicare la subiettività dell' essere iniziale non si predica già una determinazione dell' essenza comunissima , ma si predica di questo una delle tre essenze terminative d' immediata astrazione. Cosí, si congiunge un' essenza terminativa all' essere iniziale, che prima non ne aveva nessuna. Prendendo dunque di novo un subietto astratto qual' è l' essere iniziale, la subiettività in relazione al medesimo tiene veramente la forma d' essenza terminativa. La subiettività quindi ha forma d' essenza terminativa solo in relazione con due subietti astratti e dialettici, cioè coll' ente astratto , e coll' essere iniziale . La subiettività poi si può considerare come essenza terminativa, ossia predicabile, di tali subietti in due maniere: cioè o per via d' un giudizio analitico , o per via d' un giudizio sintetico «( Ideol. , 342) ». Il giudizio analitico non aggiunge nulla al subietto della proposizione, ma solo lo spezza e lo spiega. In questo modo, d' ogni entità si può predicare la subiettività. La percezione all' incontro è un giudizio sintetico, che, come abbiam detto, si può anche chiamare giustamente a priori «( Ideol. , 350 n. ; 356 7 360) ». I giudizŒ sintetici sono di tre generi: 1) le percezioni; 2) quelli con cui si trovano le relazioni tra piú subietti; 3) quelli coi quali la mente riveste d' una forma dialettica un oggetto di cui quella forma non è propria. Il predicato che s' aggiunge nei giudizŒ sintetici di primo genere, si toglie dal sentimento reale; il predicato che s' aggiunge nei giudizŒ sintetici di secondo genere si toglie dall' ordine dell' essere che si manifesta alla mente quando ella confronta piú concetti; il predicato che s' aggiunge nei giudizŒ sintetici di terzo genere, è prodotto dalla intelligenza libera. Di qui avviene, che la subiettività non si può predicare dell' ente e dell' essere con un giudizio sintetico , fuorché per via di percezione. Se non che, la percezione è sempre dei reali. Onde la subiettività che si predica dell' essere iniziale e dell' ente astratto con giudizio sintetico è sempre l' essenza terminativa reale . E` facile argomentare, che la subiettività si può intendere in due significati: 1) in un senso comunissimo , che conviene ad ogni proposizione nella quale si predichi la subiettività di qualunque subietto, e con qualunque giudizio, sia analitico o sia sintetico; 2) in un senso meno comune. Di qui i quattro generi sommi della subiettività: 1) La subiettività indeterminata o comunissima. 2) La subiettività formale che è la pura forma di subiettività. 3) La subiettività reale incompleta . 4) La subiettività reale completa . La subiettività indeterminata è quel concetto di subiettività, che si predica di tutto ciò che la mente concepisce come subietto. La subiettività formale è la pura forma di subiettività. Predicare la pura forma di subietto vuol dire « rivestir della forma di subietto un' entità che non è subietto, né ha questa forma ». Questo rivestimento si fa con un giudizio sintetico , perché si unisce una forma dialettica ad un' entità che non la ha. La subiettività, poi, come pura forma di subietto, si predica anche con giudizio analitico: 1) di se stessa (un giudizio identico); 2) del subietto puro, che è ella stessa quand' è stata già predicata e non è piú nella forma di predicabile; 3) di tutto ciò che è stato prima rivestito della forma di subietto col giudizio sintetico. La subiettività reale incompleta è il sentimento animale privo dell' intelligenza, quando si predica dell' essere iniziale, rivestito questo della forma dialettica di subietto. Questa subiettività incompleta si predica, con giudizio sintetico , dell' essere iniziale , ogni qualvolta si pensa un animale irrazionale come un ente e di lui si ragiona; e ogni qualvolta si parla del sentimento animale, astrazion fatta dall' ente; si predica con giudizio analitico , ogni qualvolta si prende per subietto della proposizione l' animale che già col giudizio sintetico s' è formato subietto. La subiettività reale completa è quella che appartiene al subietto compiuto in sé , che è il principio reale intelligente. Con un giudizio sintetico essa vien predicata dell' essere iniziale: con un giudizio analitico si predica dello stesso subietto completo in sé sussistente. Tutto ciò che si pensa ha necessariamente la forma di oggetto. Ma tutto ciò che in qualunque sia modo è, è pensabile. Dunque l' oggettività è una forma universalissima, contenente tutte le cose che in qualunque sia modo sono. Noi abbiamo anche veduto che non si dà subietto completo se non sia intelligente. Se dunque l' intelligenza non esiste senza oggetto, rimane che non ci possa essere un subietto completo se non ci sia un oggetto. Dato quindi, che esista una mente, con ciò è dato che esista un obietto: e dato che esista una mente necessaria, con ciò è dato che esista un obietto necessario. Noi abbiamo pur detto, che nell' oggetto si pensa sempre un' entità . Se dunque c' è l' oggetto, c' è l' entità pensata, e se l' oggetto è necessario, l' entità pensata in esso dev' essere necessaria. Abbiamo detto inoltre che gli oggetti si possono dividere in due generi: 1) gli oggetti astratti, che sono produzione della libera intelligenza ; 2) e gli oggetti compiuti, che sono oggetti dell' intelligenza necessaria . Conviene dunque dire che ci sieno anche due generi corrispondenti di entità: le entità astratte che si pensano negli oggetti astratti, e gli enti compiuti che si pensano negli oggetti compiuti. Egli è poi chiaro che all' esistenza d' una mente non basta che ci sieno oggetti astratti; perocché: 1) se fossero tutti astratti, essendo produzioni libere della mente, starebbe in balía di questa il produrli o il non produrli: onde s' ella non se li producesse, non ci sarebbe piú alcun oggetto, e però non ci sarebbe né pure la mente; 2) se ci fossero solo oggetti liberamente prodotti dalla mente, questa non potrebbe produrli, perché non esisterebbe prima di averli prodotti; 3) la mente produce liberamente a sé degli oggetti coll' operazione dell' astrarre: ma l' astrazione suppone prima di sé un oggetto su cui questa operazione si esercita. All' esistenza dunque della mente è necessaria condizione l' esistenza d' un oggetto compiuto, che contenga un ente compiuto; e trattandosi d' una mente necessaria, uopo è che il suo oggetto sia primo e necessario, e contenga un ente compiuto necessario. Se dunque esiste una mente necessaria, uopo è che ci sia un ente necessario, il quale sia in pari tempo oggetto, e che non si possa fare in esso alcuna distinzione tra la natura di ente e la natura di oggetto, ma sia un ente per sé oggetto . Che se si suppone che la mente di cui si parla sia infinita, l' ente per sé oggetto, in cui termina necessariamente l' atto dell' intelligenza, dovrà essere pure infinito, e però l' ottimo e il massimo ente. E` dunque necessario che in Dio ci sia un ente infinito per sé oggetto, e che questo sia Dio stesso (non potendoci essere altro infinito), il qual ente oggetto, se si considera come affermato dalla divina mente, chiamasi Verbo divino. Questa dimostrazione razionale dell' esistenza del Verbo divino non fu mai trovata dagli antichi, perché le loro menti non erano aiutate, come le nostre, dalla divina rivelazione. Dell' obietto sussistente non si può predicare l' obiettività, che con un giudizio analitico, e identico. Da questo procede che due concetti si devono distinguere dell' oggetto: il concetto dell' oggetto compiuto e sussistente , e il concetto dell' oggetto astratto , dal quale per via d' astrazione si tolse la sussistenza. L' oggetto compiuto e sussistente , è quell' oggetto primo che costituisce la mente divina. L' oggetto astratto dalla sussistenza è rispetto a Dio un oggetto posteriore, ma rispetto all' uomo e l' oggetto primo , la cui entità è l' essere indeterminato , che informa e costituisce la mente umana. La forma terminativa dell' oggettività è questo secondo oggetto astratto nella sua relazione di predicabile , e non ancora predicato. Ora, la mente umana predica l' oggettività di tutte le entità che cader possono nel suo pensiero, sieno astratte, sieno concrete. Queste entità si riducono a quattro generi: 1) l' essere indeterminato; 2) l' essere assoluto; 3) le entità astratte; 4) il reale finito. Dell' essere indeterminato l' oggettività si predica con un giudizio analitico identico: perché l' essere indeterminato è egli stesso oggetto . Nondimeno, distinguendosi l' entità dall' oggetto (nel quale ella si vede), la mente può intendere in quella prescindendo da questo. Per questa maniera d' intenzione mentale accade, che l' essere indeterminato si possa chiamare cogli Scolastici principium quod , o termine dell' intellezione , e la sua oggettività principium quo, , o mezzo di conoscere, o anche idea. E però, parlando a tutto rigore, il lume innato della mente umana non è l' idea , ma l' essere indeterminato . E solo colla riflessione poi trova il filosofo, che quell' essere è oggetto , ossia idea . Questa pertanto, cioè l' oggettività, si predica dell' essere indeterminato, non come cosa da questo divisa, ma come sua forma. Onde il giudizio che si fa con questa predicazione è analitico , benché s' aggiunga qualche cosa alla pura entità dell' essere indeterminato; perché quest' altra cosa che si aggiunge non si trova fuori di lui, ma egli stesso, ben considerato, si vede essere d' una tal forma essenzialmente rivestito. L' Essere assoluto sussiste nelle tre forme, cioè come Subietto, come Oggetto, e come Santo. Quando si parla dell' Essere assoluto Subietto e dell' Essere assoluto Santo, facendo distinzione dall' Essere assoluto Obietto, allora si prendono per obietti della nostra mente, e con una riflessione si può predicare di essi questa obiettività. Ma l' entità qui interviene come mezzo dell' intendere , e non come termine dell' intellezione . Qui si presenta dunque la distinzione tra due maniere di predicare l' oggettività : 1) si può predicarla d' un subietto intendendo d' affermare ch' ella sia una delle sue proprietà, o uno de' suoi elementi; 2) si può predicarla d' un subietto affine di renderlo pensabile, senza intendere ch' ei l' abbia in se stesso. Nella prima maniera si prende l' oggettività come subietto termine ella stessa dell' intellezione: nella seconda maniera si prende l' oggettività come semplice mezzo di conoscere il subietto termine dell' intellezione. Quando pertanto si considerano l' Essere assoluto Subietto e l' Essere assoluto Santo come oggetti intorno ai quali ragiona la mente, non si compone l' oggettività con essi, ma si riconoscono essi nell' oggettività che li contiene, senza che questa sia termine del pensiero. In altre parole l' oggettività è allora forma del pensiero, e non dell' entità pensata. Quando poi si predica l' oggettività dell' Essere assoluto Oggetto, si riconosce l' oggettività nel subietto, come termine dell' intellezione: gli si restituisce quella forma, che, per una astrazione teosofica, è stata tolta da lui: e questo è un giudizio analitico non identico . Quando si predica l' obiettività dell' Obietto assoluto, s' intende predicarla nel primo modo, e però la subiettività acquista, colla congiunzione ad un tale subietto, un valore che non ha come pura forma, perché viene a dire « quell' oggettività che è nel subietto », e questa è assoluta, infinita, prima, essenziale, e non è piú obiettività, né obietto come predicato, distinguibile dal subietto, ma puro obietto sussistente, non predicabile come tale, e non predicato. In quanto alle entità astratte, dell' oggetto astratto , come pure dell' oggettività stessa, l' oggettività pura forma del subietto si predica con giudizio analitico7identico . Dell' altre entità astratte, si predica con giudizio analitico, ma non identico. La maniera colla quale la mente unisce l' oggettività al reale finito è questa. La mente ha l' oggetto, cioè l' essere indeterminato davanti all' intuito, e ha il sentimento e il sentito, cioè il reale . Se questo non è un subietto, come accade della materia corporea, ella gli dà la forma dialettica subiettiva e cosí completa l' ente subiettivo . Ma ciò ella fa nell' obietto, servendosi di questo come di mezzo di conoscere . Con una riflessione posteriore, ella vede che quel subietto reale è oggetto della sua mente, e allora predica di lui questa obiettività. La predicazione dunque dell' obiettività, come pura forma termine dell' intellezione, non si fa del puro reale , ma del reale pensato dalla mente, e rivestito dell' obiettività come forma, mezzo di conoscere . Che se il reale è subietto completo , la forma della subiettività non si distingue da lui, se non per un giudizio analitico posteriore. Ma quel reale che è subietto incompleto s' intende posteriormente a quello che è subietto completo, e se ne produce il concetto, astraendo dal subietto completo l' intelligenza, lasciandogli il principio sensitivo. La moralità è un' essenza terminativa, che non può convenire se non a quell' ente che sia subietto completo, o intelligente. Ma conviene in modo diverso all' Intelligente infinito, e all' intelligente finito. Solo quell' Ente che è per sé Obietto sussistente può essere essenzialmente Santo. Perché, consistendo la Moralità nel pieno ed assoluto riconoscimento dell' essere, conosciuto nell' oggetto, essa risulta da tre elementi: 1) dal subietto intelligente che riconosce l' essere nell' obietto, 2) dall' essere riconosciuto, 3) e dall' oggetto in cui si riconosce. Se dunque il subietto riconoscente non è ad un tempo l' essere o l' oggetto, e non li ha per sé, consegue ch' egli per se stesso non sia né intelligente, né morale. All' incontro l' Ente infinito è egli stesso l' Essere attualissimo ed assoluto, e però è ad un tempo subietto ed oggetto; onde, senza ch' egli esca dalla sua natura, e senza che questa riceva nulla altronde, si trovano i tre elementi della moralità in essa; ed essendo attualissimo, la ricognizione di se stesso essere nell' obietto è pure in sé attualissima. L' Essere infinito dunque dee essere per la sua stessa essenza Santo. In quanto poi l' Essere riconosciuto e infinitamente amato è amato da se stesso subietto che esiste identico nell' obietto, in tanto si concepisce una processione dell' obietto amato dal subietto amante esistente in sé ed esistente identico nell' obietto, la quale nel linguaggio teologico dicesi processione: e comunicando questa, per la sua perfezione, all' oggetto come amato lo stesso subietto, dicesi questo persona, che chiamasi con nome comune Spirito Santo . Questa dimostrazione razionale dell' esistenza dello Spirito Santo non potea esser raggiunta, se non dalla mente umana aiutata che fosse dalla divina rivelazione. Dio dunque è ad un tempo principio e termine del Santo sussistente, cioè subietto ed essere nell' oggetto, e però è anche Santo sussistente, trattandosi di principio e termine attualissimi. L' uomo non è che subietto, e l' essere nell' oggetto non è lui, ma è un altro, che gli è mostrato; e l' essere gli è mostrato solo inizialmente, e non compiutamente: onde anche il subietto è unito a quest' essere iniziale per un atto iniziale che lo costituisce, e del resto trovasi in potenza tanto a conoscere piú addentro l' essere, quanto a riconoscerlo (potenza razionale e morale). Da quest' analisi pertanto si raccoglie, che nel concetto di moralità si presentano sempre all' uomo, secondo la sua natura, due cose distinte: il subietto riconoscente, e l' essere riconosciuto nell' oggetto, come un altro. In Dio, quest' Essere compiuto riconosciuto ed amato è egli stesso subietto compiuto, cioè persona; ma nell' uomo, trattandosi dell' essere iniziale che per astrazione divina è privo di subietto «( Logic. , 334) », quest' essere obietto è impersonale . Nell' uomo dunque comparisce l' essenza terminativa della moralità divisa in due serie: 1) la prima abbraccia essenze morali impersonali , e tali sono gli oggetti in quanto manifestano un' esigenza morale, una morale amabilità, che formolati prendono il nome di leggi morali , e applicati al subietto. di dovere ; 2) la seconda abbraccia essenze morali personali , e queste sono tutti quegli atti ed abiti , pei quali il subietto uomo si conforma alle leggi, adempisce i suoi doveri: i quali atti od abiti perfezionano moralmente il subietto uomo, che diventa morale per partecipazione, e adesione ad un altro. Quando poi, o per divina rivelazione, o per un raziocinio a cui la rivelazione presta l' ali, si arriva a conoscere che l' essere , il quale all' uomo apparisce come impersonale e puro oggetto d' intuizione, sussiste personalmente, allora vedesi che l' essere non è solamente amabile impersonalmente, ma egli stesso è per sua essenza attuale amore; e però quello che è essenza morale impersonale all' uomo, non è in se stesso, ma è un' astrazione divina di una essenza morale personale . Nel libro precedente noi abbiamo dimostrato come l' essere sia uno ne' suoi termini, sí infiniti, che finiti, ed essendo egli uno, come dia loro l' unità. Cosí siamo riusciti a presentare il sistema dell' unità dialettica , e con esso a soddisfare alla prima irresistibile tendenza dell' intelligenza umana, che vuol ridurre tutti i molti a uno. In questo ultimo libro abbiamo preso a dimostrare per opposto, come i tre termini dell' essere sieno nell' essere identico, e gli diano una certa trinità, e come da questi proceda ogni moltiplicità degli enti finiti. Con ciò noi veniamo a presentare il sistema della moltiplicità reale , il quale è destinato a soddisfare alla seconda irresistibile tendenza dell' intelligenza umana, che non si può fermare nel puro uno. Ma di questo alterno o anche contemporaneo movimento del pensiero la mente umana non trova un medesimo risultato; perché il movimento verso l' uno riesce a un uno dialettico puramente, quando il movimento verso i piú trova una moltitudine reale. Questa ha indubbiamente la sua prima sede e la culla in Dio medesimo, sebbene ente unico, e uno, e semplicissimo. Fu già da noi dimostrato, che non si potrebbe concepire e intendere Iddio con un pensiero filosofico, senza renderlo un ente pieno di assurdi, quando si concepisse talmente un ente uno, che non fosse ad un tempo trino ne' suoi modi, e propriamente nelle persone. Questa trinità di persone altresí appare manifestamente necessaria alla mente speculatrice, per ispiegare com' egli potesse esser la causa del mondo. Ci ha dunque una doppia moltiplicità reale : la prima in Dio, ed è quella che non costituisce pluralità di enti, ma di persone; l' altra, che trae la sua origine dalla prima, cioè dalla trinità divina, è nel mondo, la quale è la pluralità di enti relativi. Noi parleremo della pluralità delle persone divine, cercando in esse l' origine prima di tutte le cause . Di poi ragioneremo delle cause in universale: e finalmente della pluralità degli effetti che producono, ai quali appartengono anche gli enti finiti che compongono l' universo. Noi concepiamo in Dio una doppia moltiplicità: una moltiplicità dialettica , che non è in lui, ma è nei nostri concetti che a lui attribuiamo; e una moltiplicità che è in lui indipendentemente al tutto da' nostri concetti, la qual è la trinità delle persone divine . Di queste due maniere di moltiplicità noi dobbiamo parlare ad un tempo. Poiché ci è impossibile ragionar di Dio senza far uso d' una moltiplicità di concetti e di vocaboli, sebbene l' essenze contenute in questi considerate in Dio, diventano una sola essenza, senza piú ritenere la moltiplicità che avevano quando erano considerate solo nei concetti non ancora attribuiti a Dio. E questo ci convien fare necessariamente anche descrivendo l' ordine delle persone divine, che hanno una moltiplicità non puramente nei nostri concetti, ma veramente in Dio. Cerchiamo dunque di dare una nozione delle persone divine, in quella maniera che è a noi possibile. Iddio, dunque, come risulta dalle cose già dette, è Padre, Figliuolo, e Spirito Santo. Ora, l' unica maniera nella quale noi possiamo formarci il concetto di Dio Padre è quella di concepirlo come un atto infinito d' intelligenza, che essendo primissimo ed assoluto, è in pari tempo subietto . Quest' atto infinito d' intelligenza è l' essere puro . Per intendere poi come intelligenza ed essere applicati a Dio esprimano una sola essenza, conviene aver presente, che l' essere da noi intuíto per natura è virtuale. Se noi dunque distinguiamo il concetto dell' essere da quello dell' intelligenza, è solamente perché il nostro concetto dell' essere è imperfetto. Niente osta pertanto ad intendere, che dove vedessimo l' essere nella sua pienissima attuazione, vedremmo la sua natura essere appunto intelligenza. Se noi dunque diamo a Dio questi due concetti di essere e di atto intellettivo , soltanto dialettica è tale dualità. Concependo cosí Dio Padre, intendiamo ch' egli è atto infinito , purissimo, intellettivo. Tuttavia anche questo concetto d' atto non si deve pensare che sia qualche cosa di diverso o di distinto effettivamente dall' essere o dall' intelligenza. Che se noi distinguiamo questi tre concetti, o queste tre essenze, è di nuovo per una concezione imperfetta che abbiamo degli enti finiti, dov' esse si vedono separate, e donde le caviamo per astrazione. In Dio l' atto è un medesimo coll' essere attualissimo, e coll' intelligenza ultimatissima. Abbiamo dunque in Dio Padre il primo atto , e questo è essenziale essere , ed essenziale intelligenza . Quest' atto assoluto d' intelligenza compitissima, che è in pari tempo subietto, ha per obietto sé medesimo, essere assoluto. Ma l' atto intellettivo non sarebbe assoluto e compiutissimo, se non producesse il suo oggetto. Ora il suo oggetto non può esser altro, che se medesimo, essere e subietto assoluto. Dunque egli proferisce l' essere subietto come obietto : e cosí esiste un' altra persona che dalla prima ripete l' origine, avente la stessa essenza della prima, ma in altro modo, cioè in modo obiettivo per sé manifesto, per sé inteso, avente in sé la vita e la subiettività del primo. Oltracciò, se un intelligente che è l' essere intenda se stesso, egli deve necessariamente generare se stesso, perché l' intendere è atto di essere, e tutto ciò che intende deve essere anche come inteso (1). Quest' è l' atto assolutamente primo, principio e causa di tutti gli atti, ed è quella paternità di cui San Paolo disse: [...OMISSIS...] . Questo primo principio dunque contiene in sé virtualmente tutti i generi di principŒ e di cause; e in quant' esso è primo , da esso si derivano realmente nel modo che si dirà; in quant' è poi totale , si possono tutti da esso astrarre per mezzo dell' astrazione teosofica. Ma questo principio non trattiene e ferma il suo atto nell' oggetto generato come persona. Poiché l' atto intellettivo, essenza dell' essere attuale ed assoluto, è infinito e perfetto: e però è intellettivo pratico, volontario, dilettevole, amoroso. Non produce dunque l' oggetto persona come semplicemente intelligibile, ma lo produce insieme come infinitamente amabile ed amato ed amante. Ora il subietto intelligente che è comunicato all' oggetto inteso, e che, in quant' è dato, è in altro modo, cioè nel modo oggettivo, nei due modi, ama l' essere assoluto comune, che è sommamente amabile, con infinito amore; il quale amore non sarebbe infinito, se non lo fosse lo stesso essere e lo stesso subietto, ma in un terzo modo, che è quello d' essere amato per sé in atto; ed essere amato per sé importa essere insieme atto sussistente amoroso; di che necessariamente una terza persona uguale e coeterna alle due prime che con un solo atto di compiacenza la spirano: perché sono un solo essere subietto in due modi, e questo medesimo essere subietto è cosí in un terzo modo o forma, la qual dicesi morale, o santo. In questa maniera, il principio da cui vengono tutti i principŒ e le cause si riduce a perfetta unità. Poiché quell' atto intellettivo efficiente, che è l' Essere assoluto, Dio, è uno, costituente tre persone, che per altro non si distinguono tra loro, se non per le processioni e per le relazioni: e le processioni sono quell' atto stesso. Perocché quest' atto dell' essenza divina assoluta ha un principio e due termini. Laonde se l' atto si consideri come principio in relazione col primo termine , esso è e dicesi Padre, mentre il primo termine dicesi Figlio; se si consideri il secondo termine in relazione collo stesso atto, in quanto è identico nel Padre e nel Figlio, esso dicesi con nome comune e non proprio, ma appropriato, Spirito Santo. Ma se si consideri lo stesso atto senza tener conto delle relazioni, e però astrattamente, allora dicesi essenza divina, che solo mentalmente dalle persone si distingue. In questo discorso facemmo uso di molti concetti, e principalmente di quelli di essere , di atto , d' intellezione , d' intellezione volitiva, ossia volizione , e di produzione . Noi abbiamo preso tutti questi concetti dall' ente finito, dove sono veramente distinti. Cosí abbiamo cavato dal medesimo, per astrazione, concetti affatto diversi, e però essenze diverse. Ma tutte queste essenze astratte sono prive del loro atto ultimo di realizzazione. Quando il loro atto ultimo di realizzazione si cerca in Dio, allora esse perdono la loro moltiplicità. L' atto ultimo di realizzazione per tutte insieme è identico: per modo che cosí realizzate e terminate diventano una sola essenza reale, che noi non vediamo, ma che pure intendiamo dover essere unica. E inferiamo logicamente, che sopra una tale essenza , dove fosse a noi palese, potremmo esercitare una astrazione la quale ci restituirebbe tutti quei concetti distinti. Onde questi concetti e le essenze che per essi si conoscono, si possono da noi denominare altresí astratti teosofici ; e questa stessa denominazione si può dare giustamente a tutti gli attributi ed altri concetti che a Dio si applicano in questo modo. L' essenza divina dunque (benché a noi cognita solo negativamente) ha ragione di tutto , relativamente a tali concetti, che vengono a ricevere la ragione di parti dialettiche formali della medesima. Ma conviene che noi definiamo la differenza dialettica che tali concetti astratti hanno fra loro. Qual' è la differenza dialettica tra il concetto di essere , e il concetto di atto ? Egli è chiaro che non si può pensare l' essere senza atto né l' atto senza essere . Ma l' atto è piú universale e comune, che non sia l' essere ; onde l' atto si può considerar come un concetto elementare dell' essere «( Ideol. , 55.) ». In fatti noi abbiam veduto che ciò che costituisce l' ente finito è puramente il reale , e che questo reale non è l' essere, benché sia un termine dell' essere, che ha bisogno di questo per esser ente. Ora, sebbene l' ente finito non sia l' essere, tuttavia ha un atto suo proprio, di cui l' essere è bensí condizione, ma non essenza propria. L' atto dunque è un concetto comune tanto all' essere, quanto ai termini finiti dell' essere, che per la presenza dell' essere sono enti. Il concetto dunque dell' atto si può raccogliere in questa definizione: « Atto è tutto ciò che esiste , sia come essere, sia come puro termine dell' essere, in quanto esiste, e in qualunque modo esista ». Questa definizione dell' atto si riferisce, come a concetti piú evidenti, ai concetti di esistenza , di essere e di termini puri , ossia finiti, dell' essere . L' essere e i termini finiti dell' essere che si riducono al sentimento finito considerato in relazione coll' essere, sono i due noti per sé «( Antropol. , 10 7 20) ». L' esistenza è astrazione esercitata su questi due primi noti; ed essa in quanto si considera nell' essere è esistenza propria, in quanto si considera ne' termini finiti è esistenza ricevuta dall' essere. Onde l' atto esprime un concetto comune all' essere che è per sé, e ai termini finiti che sono per l' essere. Ma se noi applichiamo il concetto di atto e quello di esistenza all' essere, le due essenze che ci danno questi due concetti diventano la stessa essenza dell' essere . E per vero, non c' è già nell' essere qualche cosa di distinto che sia essere, e qualche cosa di distinto che sia atto, e qualche altra cosa di distinto che sia esistenza o essenza. Questo esser tre significa che possono essere pensate separatamente, ma non toglie che, quando si considerano essenti in una data entità, non si possano riconoscere per una essenza sola indistinta e semplicissima dalla quale per astrazione si può cavarle e distinguerle tutt' e tre. L' atto dunque si trova tanto nell' essere, quanto negli enti finiti che non sono essere; e da questi, che soli cadono sotto la nostra esperienza, noi prima ce ne formiamo il concetto. Perciò questo concetto dell' atto non è perfetto a principio, e nel pensar comune. Poiché quello che prima considera la mente dell' uomo è l' atto transeunte «( Psicol. , 1203 sgg.) ». Solo mediante una riflessione piú elevata e filosofica, perviene poi l' uomo a distinguere gli atti permanenti dagli atti transeunti . Ma poiché il suo primo concetto di atto è quello di atto transeunte , gli riesce poi assai difficile considerare l' atto permanente spoglio al tutto di quei caratteri che all' atto transeunte appartengono. Da questo accade, che l' atto si concepisca volgarmente come un movimento che occupa qualche tempo a compiersi, o che almeno include qualche successione. Questo carattere di formazione successiva , preso come universale ed essenziale ad ogni atto, fu causa che come ontologici si spacciassero certi principŒ, che non sono punto tali. Uno di questi principŒ è il celeberrimo: in actu actus nondum est actus . Questo principio infatti suppone: 1) Che l' atto possa trovarsi in un istante nel quale si comincia a formare, ma non è tutto fatto ancora. 2) Che l' atto non sia atto se non quando ha terminato il suo conato di essere, la sua azione. L' assioma aristotelico dunque, « in actu actus nondum est actus » non è un principio ontologico che esprima una qualche proprietà comune a tutti gli atti: non vale se non per quegli atti transeunti che hanno una continuità fenomenale, e che in fatto sono una serie d' atti minori. Sostituendo il principio veramente ontologico , noi diremo: « L' atto è, o non è », senz' altro di mezzo. Da questo principio: « L' atto è, o non è », si deducono le seguenti proposizioni che dichiarano la natura dell' atto: 1) Se l' atto è, o non è, dunque o egli è l' essere , o dipende dall' essere. 2) Se l' atto è, deve essere con qualche durata immutato, perché altramente non sarebbe. 3) Se l' atto dura immutato, egli dicesi atto permanente o immanente. 4) L' atto transeunte dunque non può essere che un concetto cavato dall' astrazione. 5) Quindi l' azione, con cui l' atto si forma non contiensi nel concetto di esso come distinta dall' atto stesso; ma l' azione con cui si forma è lo stesso atto. Onde nell' atto dell' essere consiste il suo farsi ; identificandosi anche qui in esso i due concetti astratti dell' essere e del farsi «( Logic. , 322) ». Non si possono dunque pensare gli atti transeunti senza pensare gli atti permanenti , perché quelli altro non sono che i punti in cui questi cominciano e finiscono, separati dalla mente per astrazione e considerati come atti da sé dialetticamente. Ma l' inizio e la cessazione non entrano né pure nel concetto puro di atto, poiché ne sono piuttosto i limiti. Laonde l' essenza dell' atto, non racchiudendo i limiti, presenta la permanenza assoluta e immutabile, e perciò eterna: il che dimostra che l' essenza dell' atto è l' essere , che solo esclude i limiti. Se dunque l' atto riceve anche de' limiti, questi non gli vengono dalla sua essenza, cioè dall' essere, ma dai termini finiti dell' essere; e però tutti gli atti limitati sono atti ricevuti da quei termini che, per sé non essendo essere, né pure sono atti. Che dunque il concetto di atto sia piú esteso di quello di essere, ciò non viene dal puro concetto di atto, ma dalle limitazioni che a lui s' aggiungono. La differenza tra il concetto di essere, e il concetto di atto sta ultimamente in questo, che l' essere non può ricevere limiti, e quando si limita, con questo perde il nome di essere ; laddove il concetto di atto riceve dalla nostra mente dei limiti, né per questo cessiamo di chiamarlo atto. L' atto dunque, quale esiste in sé, è sempre permanente: ma o si considera illimitato, e allora è atto puro; o si considera limitato da' limiti di estensione ideale, o di comprensione reale. Essendo limitati gli atti degli enti finiti, avviene che possano essere molti, e legati insieme intimamente. Il maggior legame è quello per cui un atto contiene, e unizza molti atti; l' atto contenente d' un ente reale finito è il suo primo atto, e si denomina subietto . Il subietto, abbiamo detto, è ciò che v' ha di uno, di primo, di contenente nell' ente. E nell' ente infinito non potendoci essere piú atti, forz' è che quest' atto solo, e perciò stesso primo, sia il medesimo che il subietto . Cosí i concetti di subietto e di atto nell' ente infinito esprimono il medesimo, quantunque considerati in se stessi prendansi come due concetti, perché siamo usati a considerare l' atto negli enti finiti, dove non ogni atto è subietto, ma il subietto è il legame di molti altri atti. La mente pone ancora una differenza tra il concetto di essere , e quello di subietto . Ma anche questa differenza nasce dalla limitazione in cui consideriamo l' essere. La virtualità appunto fa sí, che esso non ci appaia come subietto , se non in un modo dialettico. Infatti la parola subietto appartiene all' ente compiuto, e non all' essere in quant' è inizio dell' ente. Ma la limitazione non è mai la cosa limitata. Se dunque noi prendiamo l' essere , lasciando da parte la sua limitazione virtuale, che non è essere, incontanente avremo l' Essere ente compiuto e terminato: e allora lo pensiamo come vero subietto : e questo subietto è il medesimo che atto puro, cioè senza limitazioni. Anche qui dunque la moltiplicità de' concetti non nasce dalle essenze contenute in essi, ma dalle limitazioni entro le quali noi le pensiamo, limitazioni che sono di due specie: 1) limitazioni di virtualità , per la categoria dell' obietto; 2) e vera limitazione del reale, per la categoria del subietto. Per questo nell' Essere infinito, essere, atto, subietto , sono tutt' uno. Ma i due concetti d' atto e di subietto esprimono essenze limitate tanto di limitazione reale , perché li abbiamo cavati dall' astrazione esercitata sull' ente finito, quanto di limitazione virtuale , perché non dicono atto o subietto determinato. Riguardo alla limitazione reale, noi l' abbiam loro tolta d' attorno, e cosí abbiamo trovato che essere infinito, atto e subietto costituiscono un uno identico, e semplicissimo. Ma resta ancora la limitazione virtuale; e questa rimane ugualmente nel preciso concetto di essere infinito , perché con questo solo concetto, che risulta dai due concetti astratti di essere e di infinitezza, non posso capire di che natura sia l' essere infinito . Io argomento dunque cosí: « se è infinito, dev' essere intelligente ». Dunque avrò tre concetti che esprimono l' identica essenza illimitata: « essere infinito intellettivo, atto infinito intellettivo, subietto infinito intellettivo »; dei quali tre potrò prendere l' uno per l' altro, perché tutti significano la medesima essenza. Ma l' argomento stesso che si fa: « se è infinito, dev' essere intelligente », prova che nel concetto dell' infinità dell' essere, dell' atto e del subietto si contiene virtualmente l' intelligenza. Se dunque a questi tre concetti, che esprimono la stessa essenza infinita, noi leviamo la virtualità, avremo, che l' intelligenza esprime un' essenza identica a quella che viene espressa dalle parole essere infinito, atto e subietto infinito: solo che la esprime spiegatamente, quando questi concetti la esprimono virtualmente. L' intelligenza, poi, appartenendo alla forma reale, riceve i limiti di cui questa è suscettiva; ma questi limiti non sono intelligenza, bensí mancanza d' intelligenza. L' intelligenza pretta dunque è senza limiti reali, come senza limiti sono le essenze prette di essere , di subietto , di atto . Perciò le essenze espresse da queste quattro parole, se si considerano prette e senza limiti, sono l' identica essenza. Tra le limitazioni, che riceve l' atto intellettivo quand' è nei reali finiti, c' è quella che lo distingue in intelletto speculativo e pratico. L' intelletto speculativo non penetra e non si appropria tutto il contenuto del suo obietto, ma si ferma alla forma obiettiva. Perciò questo atto intellettivo non è ultimato; e non può bastare a conoscere enti ultimati e completi, come sono quelli che hanno vita intellettiva e amorosa che nel piacere consiste «( Psicol. , 1104) ». Infatti non si può intendere il sentimento, soprattutto il sentimento intellettivo che è l' amore, se non si sperimenta. E l' amore, essendo sentimento intellettivo non si può esperimentare che con un atto intellettivo amoroso. L' atto intellettivo amoroso dunque è un atto intellettivo completo, che si dice anche pratico e volitivo. Esso è un atto solo, ma produce due effetti: perché fa ad un tempo e conoscere e amare; l' uno dei quali non può essere in modo perfetto senza l' altro. Cognizione perfetta di un ente per sé amante ed amabile non ci può essere senza l' amore di quest' ente: né l' amore perfetto di quest' ente ci può essere senza la perfetta cognizione di lui. Affine dunque di non volgersi in circolo, è uopo concepire l' atto come unico, che, in quanto ha un oggetto, dicesi intellettivo , in quanto colla stessa attività s' unisce al contenuto di quest' oggetto e ha per termine tale unione, dicesi volitivo (1). Se dunque noi concepiamo l' essere infinito come atto intellettivo , e questo completo, troviam necessariamente che quest' atto sia anche volitivo ; di maniera che le due parole intellettivo e volitivo indicano bensí lo stesso identico atto, ma con due rispetti diversi, cioè con rispetto a due termini diversi, l' uno de' quali è l' oggetto , l' altro è l' unione di compiacenza . Se poi si prenda l' atto prescindendo dal doppio rispetto che ha al doppio suo termine, o se nell' espressione s' uniscano questi due rispetti, dicendosi intelligenza pratica o amorosa ; in tal caso si esprime l' identico che s' esprimeva co' vocaboli di essere infinito, o di subietto, o di atto infinito. Da tutto questo si vede, che l' essere è vivente e perciò pieno d' azione. Vedesi ancora, che quest' atto è essenzialmente produttivo , perché esso non istà in sé per modo, che non sia in altro; giacché ha due termini uguali a sé, diversi solo per le relazioni d' origine. Ma egli stesso, in quanto origina questi due termini, è subietto nella forma di puro subietto infinito. Laonde quest' atto può dirsi essenzialmente produzione , da producere o condursi avanti; e in questo senso anche il concetto di produzione s' identifica co' quattro primi, se si considera pretto, cioè spoglio di tutte le limitazioni, sieno virtuali, sieno reali. Infatti la produzione del tutto priva di limiti, non può essere che atto infinito il quale rivolgendosi in se stesso si genera come oggetto perfetto e però sussistente, e si esaurisce in amore perfetto e però sussistente. La varietà dunque de' quattro concetti di essere , di atto , di subietto , d' intelligenza volitiva , e di produzione è fondata non in essi stessi, ossia nelle essenze che essi danno a conoscere, ma nelle limitazioni che loro s' aggiungono, sieno queste virtuali o reali. L' identificazione all' incontro di queste essenze in una sola si ottiene collo sceverare da esse tutte le dette limitazioni, e di conseguenza le relazioni coi finiti, considerandole in sé, prette e pure. Allora l' essenza unica che si conosce in essi è ad un tempo ed allo stesso modo essere, atto, subietto, intelligenza volitiva e produzione. Ciò che il pensiero trova difficile nel concetto di causa si è un' antinomia che presenta alla speculazione dialettica. L' antinomia si può esprimere cosí: « L' ente esiste tutto in se stesso, ed è per essenza uno: dunque anche tutta la sua attività, per la quale esiste, si dee conservare entro lui stesso. Il concetto di causa all' incontro suppone, che l' attività dell' ente si riversi fuori di lui: perché l' effetto che la causa produce è un altro, che non ha unità, né identità colla causa. Vi ha dunque antinomia tra il concetto di ente e il concetto di causa. L' ente dunque non può esser causa di un altro ente. Se l' ente non può esser causa, la causa dunque non esiste, il suo concetto è falso, perché non può esistere in sé il non ente ». Per disciogliere questo argomento, conviene disciogliere l' antinomia e conciliare il concetto di ente con quello di causa. A tal fine conviene analizzare e descrivere i concetti affini, e quelli che si devono assumere nel ragionamento. Esaminiamo prima il concetto d' attività . Il concetto d' attività è diverso dal concetto di atto . Quella parola significa l' astratto di attivo : e attivo è un predicato che suppone un subietto . Ma il subietto è un primo atto: dunque atto significa qualche cosa d' anteriore logicamente a ciò che significa attività . Da questo si vede che l' essenza che ci presenta il concetto dell' attività non si può attribuire a Dio colla stessa esattezza, perché contiene in sé essenzialmente il limite di esser qualche cosa di secondo, e non di primo. Nondimeno si applica a Dio anche quel vocabolo nel parlar comune, ma non senza improprietà. L' attività suppone davanti a sé un subietto, a cui si riferisca. Ora, ci sono dei subietti dialettici e dei subietti reali . Per questa finzione dialettica de' subietti, l' attività s' attribuisce col pensiero anche a un subietto che non è essente in se stesso. Il primo e piú universale subietto dialettico è l' essere interminato preso come essenza. Perciò si predica di questa essenza dell' essere dialetticamente ogni attività. Questo subietto dialettico si può considerare o come subietto dell' attività infinita in Dio, o come subietto dell' attività finita nel mondo. Se si considera come subietto dell' attività finita, si trova una distinzione in sé che passa tra l' essere interminato subietto dialettico, e l' attività che in esso si predica (.). Quando noi dunque distinguiamo anche in Dio l' essere iniziale come atto primo o subietto, e a questo attribuiamo un' attività con cui si spiega e si completa ne' tre termini, il subiettivo, l' obiettivo, e il santo; noi introduciamo una distinzione puramente dialettica, che non ha alcuna verità in Dio medesimo. Di piú, il primo di questi tre termini non è in se stesso, ma è solo termine nel modo dialettico di concepirlo. E` necessario quindi emendar colla riflessione superiore quest' altra inesattezza, e riconoscere, che essendo l' essere iniziale un puro astratto non sussistente in sé, l' unico subietto è l' essere sussistente che produce di sé i due termini personali, l' obiettivo e il santo. Rimossa cosí questa doppia inesattezza del modo dialettico di concepire, ne comparisce una terza. Perché noi ancora attribuiamo l' attività di produrre i due termini all' Essere assoluto subietto sussistente e primo atto. Questa distinzione non havvi punto nel fatto. Poiché tutto ciò che possiamo intendere per attività producente è ciò che costituisce essenzialmente questo atto subietto , né piú, né meno; di modo che questo si deve chiamare non altro che essere, subietto, atto producente sempre ab aeterno compiuto, e non già attività di un subietto , come se l' attività e il subietto fossero due cose. Pure, essendo quest' essere atto producente, atto intellettivo infinito, è uopo che abbia un oggetto: e non può avere altro oggetto che se stesso. L' atto intellettivo dunque, che impropriamente si vorrebbe chiamare attività , è anche oggetto, e come oggetto è termine di se stesso, e, a quel modo che abbiamo detto, un' altra persona, nella quale lo stesso atto vitale, oggetto amabilissimo per sé, continua a produrre il secondo termine che è atto oggetto per sé amato : terza persona; relazioni che si trovano cosí nell' atto unico dell' essenza divina, e che distinguono le persone: onde entro all' unico essere apparisce un' essenziale trinità. Dal che si vede, che le persone divine del Figliuolo e dello Spirito Santo non si devono concepire come effetti ; perché l' effetto ha qualche cosa di essere diverso dall' essere della causa, quando le tre persone hanno tutto l' essere identico numericamente, e il solo modo, in cui tutto l' essere identico è, è diverso: e quell' essere è tutto atto primo identico in modo subiettivo, obiettivo e santo. Non potendosi dunque al Figliuolo e allo Spirito Santo rigorosamente applicare il nome di effetti , per la stessa ragione né pure al Padre si può rigorosamente applicare il nome di causa , come né pure al Figliuolo per riguardo allo Spirito Santo. Come nomineremo questa causa? Diremo forse, che l' essenza divina sia questa causa? Ma l' essenza divina separata dalle persone non esiste, onde non le si può attribuire il predicato di causa. Diremo che sia il Padre? Ma dicendo Padre ho già detto anche Figliolo, ho già posto il suo termine: non esiste il Padre avanti e indipendentemente da questo termine: mi manca dunque il subietto a cui io possa attribuire posteriormente l' appellazione di causa: non si trova dunque in Dio una natura che si possa concepire senza i due detti termini, e che perciò si possa chiamar causa di questi. Indi avvenne, che alla maniera di parlare dei padri greci, che dicevano il Padre causa del Figliuolo (1), i Padri latini sapientemente sostituirono una maniera di dire piú esatta, chiamando il Padre principio , e non causa, della Trinità. San Tommaso trova convenientissima la parola principio . Poiché dice: [...OMISSIS...] . Del rimanente, che la parola principio esprima un concetto di maggior estensione della parola causa , o viceversa questo dipende dall' uso. Se si prende dunque la causa per significare « tutto ciò che dà origine », si potrà dire che ci hanno delle cause che sono principŒ , e delle cause che sono cause in senso stretto. Principio è quella causa che non ha un subietto diverso da sé, ma che, in quant' è causa, è anche subietto. Per modo che esso è causa sussistente , ossia gli è cosí essenziale l' esser causa, che questo stesso lo costituisce ente. Causa in senso stretto , cioè in quanto si distingue da principio, è quella nella quale si concepisce l' ente, o il subietto, anche senza pensare ch' egli dia l' origine ad un' altra entità, e posteriormente gli si attribuisce questa potenza o quest' atto di origine di un' altra entità diversa da lui, necessaria a costituire il concetto di lui. La causa principio dunque è ella stessa subietto ; la causa non principio è qualità d' un subietto che si concepisce precedentemente. Finalmente per non lasciar indietro nessun de' concetti affini, richiamiamo alla mente il concetto di potenza che abbiamo definito: « una causa che rimane il subietto del proprio effetto ». Questo concetto è medio tra il concetto di causa in senso stretto e il concetto di principio in senso stretto. Poiché ha questo di comune colla causa in senso stretto, che il subietto esiste anteriormente all' atto con cui produce. Ma ha poi anche qualche cosa di comune col concetto di principio in senso stretto, ed è, che ciò che produce non istà diviso dal producente, il quale rimane suo subietto. La parola attività poi ugualmente conviene tanto al subietto, che è causa in senso stretto, quanto al subietto che è potenza ; non però al subietto principio , se non in modo improprio e dialettico, appunto perché a questo non conviene in senso stretto né la denominazione di causa, né quella di potenza. Fino a qui non siamo ancora pervenuti ad una soluzione dell' antinomia contenuta nel concetto di causa, ma abbiamo fatto de' passi verso essa. E veramente trovammo, che la natura dell' essere non è natura morta, ma vivente, e che racchiude essenzialmente un' infinita azione interna sussistente ed immutabile; che quest' azione è intellettiva e produttiva; che quest' intelligenza infinita vivente, amativa, di necessità è volitiva, sí che intelletto e volontà costituiscono un atto solo, che ha come due gradi, uno dei quali ha un primo termine, l' altro un secondo. Ora, la natura dell' atto volitivo corrisponde all' oggetto. Ma l' oggetto di una intelligenza infinita è tutto l' essere. Di piú l' atto intellettivo volitivo infinito, che è atto primo e subietto di se stesso, è in potere di se stesso, di maniera che è piú vero il dire: « è, perché vuole », che non sarebbe il dire: « vuole, perché è ». In fatti, nell' ordine ontologico, cioè nell' ordine dell' ente in sé la ragione dell' astratto è nel concreto: e il concetto nostro essere è piú astratto del concetto nostro volizione . Conviene dunque meglio l' asserire che la volizione sia lo stesso essere in Dio, anziché l' asserire che l' essere sia la volizione . Se pertanto la volizione stessa sussistente è l' essere divino, convien vedere come si convenga concepire questa volizione, acciocché sia infinita, e d' ogni parte perfetta. Questa volizione non può avere altro per oggetto voluto, se non se stessa che è l' essere infinito: s' intende, che se non volesse questo, null' altro potrebbe volere, e perciò non sarebbe. L' essere dunque vuole se stesso in se stesso oggetto, e cosí è. Perché l' Essere sia, non è necessario che voglia altro. Ma oltre quest' atto assoluto di volere con cui l' Essere vuole tutto se stesso, egli può volere anche l' essere in un modo finito. Questo si deduce dal concetto d' intelligenza, e dal concetto di volizione. Nel concetto d' intelligenza si contiene la possibilità d' intender l' essere tanto senza limiti, quanto co' limiti: nell' uno e nell' altro modo l' essere è per sé oggetto dell' intelligenza. Il somigliante è da dire del concetto di volizione, estendendosi questo concetto a tutti gli oggetti possibili dell' intelligenza. Ma l' intendere e il volere oggetti limitati non è necessario acciocché l' essere sia: rimane quindi che ci sia un atto intellettivo volitivo, non necessario, ma libero, perché non entra necessariamente nel concetto di quell' atto pel quale Iddio è, che è l' atto con cui afferma e vuole se stesso. Ma l' atto con cui l' essere afferma e vuole se stesso (e cosí è) non sarebbe infinito, se non racchiudesse il potere d' intendere, e di volere l' essere ne' suoi modi finiti. Nell' ordine dunque de' concetti precede il concetto di quell' atto intellettivo e volitivo pel quale l' Essere intende e vuole se stesso e cosí è; e in quell' atto si contiene bensí essenzialmente il potere dell' atto con cui intende e vuole l' essere colle limitazioni, ma non si contiene quest' atto stesso, e però il concetto di esso è posteriore : quello è necessario; questo è libero, perché i modi limitati dell' essere non si contengono attualmente nell' essere totale, ma solo virtualmente. Questa virtualità nasce dal concetto di intelligenza libera la quale, oltre lo sguardo con cui oggettivizza tutto l' essere, può limitare questo suo oggetto (forma oggettiva). La limitazione dunque non cade nell' essere stesso sussistente, ma è una produzione della stessa mente che, padrona del proprio atto, vuole oltre il veder tutto l' essere, veder l' essere entro i limiti che liberamente ella vi pone. Nella virtú dunque e nell' atto con cui l' Essere intende e penetra appieno se stesso, si contiene anche la virtú d' intendere, a suo volere, l' essere dentro a limiti volontari dall' Essere liberamente posti. Ma sia dato, che liberamente l' Essere faccia quest' atto d' intelligenza volitiva, col quale egli limita il proprio oggetto. Che cosa ne conseguirà? L' effetto di quest' atto si è di dare al termine reale finito un' esistenza propria, relativa a se stesso; per modo che, quantunque egli non sia a se stesso l' essere, tuttavia abbia e riceva continuamente dalla presenza d' un altro, cioè dell' essere, l' esistenza a sé relativa. Essendo questo subietto, a cui l' esistenza si riferisce, non essere, egli è un ente diverso da quell' ente che è egli stesso essere. E come questo esiste a se stesso per la coscienza che ha di esser l' essere, e quindi di non poter non essere, e però d' esistere assolutamente; cosí l' ente che è non essere esiste a se stesso (supponendo lui dotato di coscienza, e quindi relativamente a lui esistenti gli altri enti inconsapevoli) per la coscienza di non esser l' essere, e quindi di non esistere assolutamente, ma d' esistere solo relativamente all' essere da cui riceve di continuo l' esistenza. L' antinomia che si presenta nel concetto di causa consisteva nella proprietà dell' ente di esser uno, e quindi nel ripugnare ch' egli diventasse due. Ma nella teoria esposta l' ente non esce di sé, e tuttavia produce un altro ente. Il modo consiste in questo, che la denominazione di ente viene cangiata. Perché l' ente che non esce di sé nel caso nostro è l' ente assoluto, e una vera contraddizione ci sarebbe, quando si pretendesse che l' ente assoluto producesse un altro ente assoluto. Ma non c' è più contraddizione a pensare, che, essendo l' ente per sua essenza azione, questa azione abbia un termine tale, che nell' ente che fa l' azione sia assoluto, come è assoluto l' ente, e sia l' ente stesso, come vedremo, e che a un tempo, potendo questo termine anche considerarsi entro a' suoi limiti ne' quali non è piú l' ente assoluto, chiuso entro questi limiti abbia una esistenza relativa a se stesso. Posto dunque, che quell' intelligenza che per sua essenza è l' essere abbia virtú d' intendere e volere un termine finito, questa finitezza è appunto quella che d' un tale termine fa un ente diverso dall' ente infinito, e (posto che sia anche voluto) un ente che ha un' esistenza propria, perché racchiusa entro que' confini di cui Iddio non può essere il subietto. L' atto dunque che si chiude entro tali confini non può esser l' atto che non ha confini. Vedesi pertanto che la proposta antinomia rimane sciolta mediante la dottrina dell' identità e della diversità da noi data avanti. Questa teoria stabiliva che « ogni qual volta l' essenza di un' entità soffre un cambiamento qualunque, non è piú l' essenza di quella entità, ma un' altra ». Se restringiamo questo principio universale agli enti, abbiamo: « ogni qual volta l' essenza d' un ente soffre cangiamento, non è piú quell' ente, ma un altro ». Applicando questo principio al caso nostro: « L' essenza di Dio è l' essere infinito: se dunque ci è dato qualche cosa di finito, questo, qualunque sia non è piú l' ente di prima, ma un altro ente ». Ma l' intelligenza che pensa l' infinito può limitare l' oggetto del suo pensiero, riguardando l' oggetto finito nell' infinito stesso per mezzo di limiti, che ella stessa v' aggiunge liberamente. Fin qui l' operazione della mente non è uscita di se stessa, ma ha pensato la possibilità di un ente finito diverso da se stessa e dal suo oggetto infinito. Ma questa intelligenza è anche volitiva e operativa. Ella può dunque volere ed operare quest' ente o subietto finito. Ora, se lo vuole, è: perché volere è atto di essere. Fa dunque Iddio creante, che è l' essere, una volizione che è atto di essere, e che ha per termine l' ente finito. Quest' atto di essere, fatto da Dio (nel quale è essenzialmente volizione) è il nesso, la comunicazione, il ponte, il tratto d' unione tra Dio creante e la creatura. L' ente finito allora essendo, è in Dio per l' atto dell' essere che è la volizione divina, e come oggetto della mente divina, e come termine finito di essa volizione che lo vuole nell' infinito oggetto in cui lo vede; ma è anche in se stesso dentro la sua limitazione, e in quanto è tale egli ha l' esistenza relativa per la quale non è l' infinito ente, ma un altro. Noi abbiamo descritto Iddio come un solo e semplice atto, il quale è l' essere senza limiti; e quest' atto abbiamo detto essere intellettivo volitivo avente due gradi o termini. Abbiamo detto, che l' ente finito è parimente termine di quest' atto intellettivo volitivo che nel primo suo termine vede l' ente finito. Questa descrizione presenta l' atto creativo come posteriore e diverso dall' atto della processione delle persone, il che farebbe credere che fosse un altro atto, e quindi che Iddio creatore avesse due atti: il primo della processione e costituzione di sé medesimo, nella sua natura propria, uno e trino; il secondo della creazione. Ma questo ripugna alla perfezione della natura divina, la quale esige che in Dio non ci sia un primo e secondo atto, e che ci sia un atto solo e semplicissimo, il quale, se non bastasse a tutto, non sarebbe sufficiente a se stesso, e quindi non sarebbe perfettissimo e infinito. C' è indubbiamente una priorità logica nel concetto dell' atto pel quale Iddio è, e una posteriorità logica nel concetto dell' atto per cui Iddio crea. Questa priorità e posteriorità de' due concetti nasce alla mente da questo, che non si può pensare l' atto creativo che fa Iddio, senza pensare che Dio sia; onde nel concetto dell' atto creativo s' acchiude il concetto dell' esistenza, che è quello stesso della processione delle persone. All' incontro, nel concetto dell' atto pel quale Iddio è, non si racchiude quello dell' atto creativo. Ma la priorità logica non è altro che un ordine che hanno tra loro gli oggetti della mente, cosí che l' uno è inchiuso nell' altro, e quello che è inchiuso e contenuto dicesi posteriore a quello che inchiude e contiene. E però il Verbo divino, come oggetto della mente, ha una priorità logica al mondo che in lui è contenuto nel detto modo. Ma la mente può nondimeno pensare con un atto solo molti oggetti che tra loro hanno la detta priorità logica, e però la priorità e posteriorità logica degli oggetti pensati, che pone tra essi un ordine, non trae seco di necessità né una moltiplicità d' atti della mente, né una priorità e posteriorità di questi atti. Cosí accade, che lo stesso atto col quale la Mente volitiva sempiterna dice se stessa e genera il Verbo sia lo stesso identico atto con cui dice il mondo nel suo Verbo, e con cui lo crea; e che, come con questo identico atto ama se stessa nel suo Verbo con che spira l' eterno e infinito Amore, cosí ami coll' atto stesso e voglia il mondo ordinandolo all' amore e alla beatitudine. Un unico atto dunque è quello che termina nel Verbo, e nello Spirito Santo, e nel mondo. Ma poiché i primi due termini sono infiniti e sono lo stesso atto e subietto essente in altro modo, perciò sono Dio e persone divine: il mondo poi, essendo finito, non può essere Dio, né persona divina. Perciò l' atto divino in quanto si considera come produttivo del mondo non può ricevere il concetto di processione personale. Se or si ponga mente, che l' atto divino è identico in tutte e tre le persone, sarà facile conchiudere, che l' atto divino il quale ha per termine il mondo è atto comune a tutte e tre le persone e all' unica essenza che è uguale e identica in esse. Intendesi da tutto questo, come la divina essenza, senza perdere l' unicità dell' atto ch' essa è, acquista il nome di causa in relazione al mondo ch' ella crea. Onde Dio Padre dicesi principio del Figlio, ma non causa del Figlio in senso stretto. All' incontro, Iddio uno e trino dicesi veramente e in senso stretto causa del mondo. Si domanderà dopo di ciò, se il concetto di attività possa essere applicato a Dio, come Causa del mondo, di modo che si possa chiamare attivo il creatore. Rispondiamo che ciò si può fare mediante un' astrazione. Ma questa maniera di concepire è solamente relativa a noi, appunto, perché dipende da una mera astrazione che spezza l' atto divino in due concetti, e stabilisce una priorità e una posteriorità tra essi. Onde la priorità e la posteriorità sta nei rispetti dello stesso atto, e non in atti diversi. Quando dunque, invece di concepire Iddio come un puro atto, si concepisce come un atto subietto a cui s' attribuisce l' attività creante il mondo, allora s' adopera un parlare improprio, ma adattato al nostro modo di concepire per astrazione. Pertanto abbiamo trovato, che c' è un ente primo nel quale l' essere e il fare s' immedesimano, e questi è Dio. Se dunque l' essere e il fare costituiscono due atti diversi, questa divisione reale comparisce soltanto negli enti finiti, a cagione che i due concetti di essere e di fare ricevano limitazioni e non sono conservati nella loro prima purità: essendo la limitazione il principio generale d' ogni divisione di quelle essenze che per sé sono un' essenza sola. Dopo aver noi trovate due moltiplicità reali, cioè la trinità delle persone divine in Dio, e la qualità dell' Ente assoluto, che è Dio, e dell' ente relativo che è il mondo, e aver conciliata questa moltiplicità reale coll' unità dell' Essere; dopo questo, dico, dobbiam procedere a svolgere il resto della moltiplicità reale che ci apparisce. E questa moltiplicità mondiale risulta parte dal Creatore stesso che ha composto il mondo di piú enti e li conserva, parte dal mondo che ha in sé una catena di cause e di effetti. Conviene dunque, che esaminiamo attentamente il mondo stesso prodotto, e che vediamo ciò ch' esso riceve dalla prima causa, e ciò che opera egli medesimo come contenente delle cause che rispetto a quella prima si dicono cause seconde. A fare ciò è necessario che prima distinguiamo nel mondo stesso quelle che sono cause in senso stretto da quelle che sono principŒ. Secondo i significati piú ristretti, principio si dice: « quel primo atto d' un ente o d' una entità, da cui procede tutto ciò che è nell' ente e nella entità »; causa poi si dice: « un ente o una entità da cui procede un altro ente o un' altra entità che non forma parte dell' ente o dell' entità da cui procede ». Ora, egli è manifesto che nel mondo ci sono dei principŒ e delle cause . Che ci siano de' principŒ, noi l' abbiamo dimostrato coll' analisi nella Psicologia, dove abbiamo a lungo parlato degli enti7principio [...OMISSIS...] . Che ci sieno delle cause , lo provano le azioni vicendevoli che esercitano gli uni sugli altri gli enti mondiali, reciprocamente modificandosi. Noi abbracceremo gli uni e le altre sotto la denominazione generica di cause seconde . Noi non possiamo conoscere le cause e la loro concorrenza a produrre l' effetto, se non esplorando ed analizzando l' effetto stesso. Or dall' esame dell' intima costituzione dell' ente finito, noi abbiamo trovato, ch' egli consta di due elementi di diversa natura: cioè 1) dell' essere (iniziale ed obiettivo); 2) del reale finito, termine improprio dell' essere iniziale. La differenza profonda tra questi due elementi si è: che l' essere è antecedente di concetto al reale finito, e non costituisce il subietto dell' ente finito, mentre l' ente finito subietto è solamente il reale finito. Ma l' unione di questi due elementi è cosí intima, che il reale finito ha di continuo l' esistenza dall' unione coll' altro elemento che non è lui, cioè dall' unione coll' essere ; di maniera che, per un sintesismo, senza l' essere egli non è nulla, ma coll' essere egli è qualche cosa diversa dall' essere: diversità che è quella che passa tra l' assolutezza e la relatività. L' essere è sempre in un modo assoluto, ancorché egli si mostri indeterminato, comune, virtuale: il reale finito è in un modo relativo. Ciò che vi ha di assoluto nell' ente finito, cioè l' essere , non può venire che dalla causa prima, da Dio: e poiché l' ente finito ha l' esistenza continuamente dall' essere , perciò egli stesso tutto intero è un effetto della causa prima, cioè di Dio. Ma il reale finito , posto che esista relativamente, ha per questa sua esistenza un atto primo, e in quest' atto primo ha la qualità di causa , e cosí s' hanno le cause seconde . La causa prima dunque è quella che dà l' essere e con esso l' esistenza del reale relativo. Nell' ordine poi dell' esistenza relativa, il reale esistente produce degli effetti, rispetto ai quali è causa seconda (principio, potenza, causa). L' operare dunque della prima causa è sempre per modo di creazione, e il resto fanno le cause seconde nell' ordine dell' esistenza relativa. L' applicazione del qual principio richiede un discorso non breve. Dopo aver noi veduto come la Mente eterna prima causa possa concepire gli enti finiti, il che abbiamo chiamato tipificazione, dobbiamo vedere com' essi vengono all' esistenza propria e relativa per opera della stessa prima causa, il che diciamo creazione, prima trattando della creazione delle persone finite, poi dell' altre cose impersonali che ad esse si riferiscono. Uopo è dunque richiamarsi alla mente quello che abbiamo detto: che Iddio è l' essere e la natura dell' essere è quella di esser mente, e mente attualissima, cioè pura intellezione. Quest' atto intellettivo, che è l' essere, intende se stesso oggetto essenziale, e in se stesso come unico oggetto gli enti finiti, i quali sono enti completi quando abbiano l' essere personale. Quest' atto intellettivo è perfettissimo, e però l' energia sua è pienissima. Da questo avviene che, intendendo se stesso, il se stesso inteso acquisti una sussistenza propria e personale, che dicesi Verbo. Poiché la cosa che l' intellezione divina vuole intendere è se stessa tutta qual è personalmente esistente, è necessario che la cosa intesa come intesa abbia una esistenza personale pari alla stessa essenza intelligente, e cosí ci sieno due persone aventi l' una e l' altra la stessa intellezione. E lo stesso abbiamo già detto della terza persona, che è la stessa essenza che esiste personalmente come essenza amata, per la perfezione dell' atto dell' amore. L' infinita energia di quest' atto intellettivo lo rende perfettamente vero , perché raggiunge il suo oggetto, che è se stesso, cosí pienamente da produrlo come inteso sussistente, siccome pure lo produce come amato sussistente. [...OMISSIS...] . Pertanto egli è uopo dire una cosa somigliante della creazione degli enti finiti. Poiché s' è visto, che propriamente non ci sono molti oggetti distinti nella mente divina, ma un oggetto solo, e che l' atto creativo della mente è quello che, equivalendo a molti atti, vede quell' unico oggetto come rappresentante di tutto ciò che di finito vuol vedervi. Or questa, che i Teologi chiamano scienza di visione o d' approvazione , è quella colla quale conosce l' ente finito sussistente perfettamente, e il conoscerlo cosí è crearlo. Conviene dunque che la persona conosciuta sia in un modo perfettissimo in Dio, se deve conoscerla perfettamente. In noi, che abbiamo una cognizione imperfetta, non avviene cosí; ma dobbiamo conoscere i sussistenti con due atti. A noi è prima d' uopo l' intuizione della specie, ossia la cognizione dell' ente come possibile, il quale non è ancora ente qual richiede di essere per propria natura, perché all' ente, alla persona, è necessario d' essere in se stessa, acciocché sia persona (2). E dobbiamo aggiungere in appresso un atto d' affermazione , che noi facciamo quando n' abbiamo la percezione sensitiva. Ma la percezione sensitiva non essendo che l' azione d' un altro in noi esercitata, cioè un effetto in noi prodotto, un effetto del quale ci serviamo come di segno per conoscere l' esistenza dell' agente causa d' un tale effetto, è manifesto che la sussistenza della persona non ci è nota qual' è in sé immediatamente, ma per un passaggio che la nostra mente fa dal segno e dall' effetto alla cosa segnata ed alla causa. Questa dunque ci rimane incognita in se stessa, che come tale non è in noi, e coll' affermazione che aggiungiamo alla specie noi altro non facciamo che conoscerne l' esistenza. La natura poi, se si tratta d' una persona, l' argomentiamo trasportando nell' ente, di cui abbiamo conosciuta l' esistenza, la forma della persona nostra, di cui solo abbiamo positiva cognizione. E questo è conoscere imperfettamente: poiché non è già che conosciamo immediatamente la realità dell' altra persona, ma solo pensiamo che deva esser simile alla nostra. Non può esser cosí il conoscere perfettissimo di Dio, il quale dee conoscere anche la realità propria di ciascuna persona e di ciascun ente finito. Onde convien dire, che la realità stessa, che è il punto oscuro della cognizione umana, sia perfettamente conosciuta in Dio. Ma in Dio la realità propria de' finiti si dee conoscere con un atto unico, che è intuitivo, imaginativo, e affermativo ad un tempo; e si dee conoscere sussistente (1). Perocché, all' ente finito è essenziale il sussistere in sé: non può esser quindi conosciuto perfettamente, se non è conosciuto in ciò che appunto lo costituisce perfettamente, che è la sussistenza. O converrebbe dunque negare a Dio la cognizione de' finiti, o dargliela solo imperfettamente, o ammettere che la sua cognizione perfetta degli enti finiti è un atto creativo che rende sussistente il suo obietto, di maniera che la sussistenza in sé degli enti finiti consegue alla perfezione della divina intelligenza. Questa dottrina illustra e determina il significato d' alcune espressioni difficili usate da' filosofi e da' teologi. Dicono, che le cose tutte sono in Dio non solo in quanto a quello che hanno di comune, ma anche in quanto a quello in cui si distinguono le une dalle altre, e che è in Dio anche la loro realità (1). Dicono, che le cose finite sono nella scienza di Dio loro causa (2). Dicono, che c' è un doppio essere degli enti finiti, l' essere naturale e l' essere intelligibile ; e che negli agenti della natura preesiste la forma della cosa da farsi secondo l' esser naturale , in quelli poi che operano per intelletto preesiste la forma della cosa da farsi secondo l' essere intelligibile ; e questo essere intelligibile chiamano similitudine . Volendo noi sottomettere queste diverse espressioni alla critica, e togliendo loro d' attorno quello che possono avere d' equivoco, determinarne il vero significato, primieramente diciamo, che l' essere gli enti finiti in Dio , o nella scienza di Dio , sono espressioni equivalenti, perché in Dio, come dicono, « intelligere est esse (3) ». Se gli enti finiti sono nell' intendere di Dio, ossia in Dio, dunque essi hanno un essere intelligibile , e quest' essere non è diverso da Dio stesso, perché è lo stesso atto divino, che è quanto dire l' essenza divina, poiché in Dio si avvera quello che troppo universalmente fu detto, cioè: che [...OMISSIS...] . Dissi che a questa sentenza si diede troppa estensione, perché s' avvera compiutamente in Dio solo, e negli altri intelletti non s' avvera pienamente. Poiché ciò che v' ha di assolutamente e per sé conoscibile non è che l' essere. Ora, secondo San Tommaso di cui è quella sentenza, l' ente finito non è l' essere, né pure il proprio essere: « nulla forma vel natura creata est suum esse (5) ». Dunque consegue che nessun ente intellettivo che non è l' essere possa intendere cosa alcuna se non uscendo di sé e unendosi all' essere, che è un altro, per la qual congiunzione con un altro egli diviene intelligente. All' incontro Iddio, essendo l' essere stesso, ha l' intelligibile in sé, perché egli stesso è l' essere; e però di lui solo s' avvera pienamente quello che disse Aristotele troppo estesamente, cioè che intelligibile in actu est intellectus in actu . Noi di vero concepiamo l' atto dell' intendere come l' unione dell' intendimento con ciò che s' intende, quasi l' intendere sia l' effetto di questa unione (1). In fatti appresso di noi l' intendimento e l' inteso sono due cose distinte che si considerano anco in separato, e cosí ciascuna di esse in potenza, onde poi rimangono distinte anche quando sieno unite: nella quale unione ciò che sussiste è il solo intelligente in atto come un subietto individualmente unito ad un obietto che non è lui. Ma Iddio è lo stesso intendere attuale (2); è piú che intelligente o che intelligibile: è intelligente in atto ultimato, che noi diciamo per sé inteso . Per questo nell' intendimento della creatura, oltre il subietto intelligente e il reale inteso, c' è di mezzo la specie , che è quella forma obiettiva che attua l' intelligente e che non è l' intelligente, ma è ciò che è per sé intelligibile, cioè l' essere, e però è ciò che il nostro intendimento immediatamente intende (3), e in cui e per cui intende poi i reali con un atto d' altra natura, che è l' affermazione e la predicazione. Iddio invece non ha bisogno d' una specie diversa da sé per intendere, perché è egli stesso intelligibile e inteso per sé, a cagione ch' egli è l' essere stesso: Iddio intende la propria essenza, e con questa, come dicemmo, intende l' altre cose finite. Ma convien che le veda nella propria essenza dove sono virtualmente comprese; se dunque vuol vederle distintamente ed attualmente, il che è in suo potere, conviene che le distingua e attui. Ma posto che le distingua ed attui colla forza del suo atto intellettivo per vederle, esse già esistono in se stesse; il che è quanto dire sono create. Dacché esse non preesistono e però non possono essere conosciute, non possono essere conosciute se non con quest' atto stesso con cui sono create, perché solo create sono distinte dalla divina essenza, e tra loro: e delle cose finite non esistenti non ci può essere in Dio altra conoscenza pratica se non virtuale (1). In Dio dunque non ci sono specie (2), tenendo luogo di specie l' unica essenza divina che è non solo intelligibile, ma il per sé inteso. Pure a Dio si sogliono attribuire idee , intendendo per idea non ciò con cui si conosce, ma la forma separata dalla cosa, la qual forma è ciò che si conosce. San Tommaso infatti cosí definisce le idee: [...OMISSIS...] . Ma, se l' idea è la forma delle altre cose, separata dalle cose esistenti, chi conosce tale forma non conosce ancora le cose nella loro propria sussistenza, ma solo la parte formale delle cose esistenti in sé. Onde le idee, prese in questo senso, non bastano a spiegare la cognizione che Iddio ha delle cose singole esistenti. Né vale il definire l' idea, come fa il Gaetano, « ratio obiectiva rei (4) », perché la ragione obiettiva della cosa non fa ancora conoscere se la cosa sussiste o no. Soggiunge poi San Tommaso, che l' idea serve a due usi, cioè o serve ad esemplare di quella cosa di cui ella è forma, o serve a principio della cognizione della cosa medesima (5). L' idea dunque ella è anche « « principio con cui si conosce » ». Ma il principio con cui si conosce, secondo San Tommaso, è la « specie , » [...OMISSIS...] (6). L' idea dunque è la stessa specie, quando se ne fa uso, come principio della cognizione. Né regge la distinzione che fa il Gaetano tra il principio della cognizione come informante l' intelletto, il che chiama specie , e il principio della cognizione come forma intesa, il che chiama idea (7). Poiché la forma intesa è appunto quella che informa l' intelletto, ed è perciò tanto specie quanto idea . Infatti tale è la natura dell' intelletto, che altra forma non ammette, se non l' obiettiva, benché questa si possa riguardare da noi in due rispetti: come termine interno e forma dell' atto intellettivo, e come principio intellettivo d' un' altra cosa e d' un altro modo di essere. Laonde San Tommaso stesso non si guarda in molti luoghi dall' adoperare specie per idea . E riconosce, che ciò che informa l' intelletto «( principium quo ) » è la prima cosa che l' intelletto intende «( principium quod ) » e che dice « per sé intesa » (1). E` dunque a dire che San Tommaso, quando distingue la specie dall' idea , parla secondo il modo dell' intendere nostro imperfetto: poiché in noi veramente c' è un solo principio con cui intendiamo, e ci sono molte cose intese: essendo il principio con cui intendiamo tutto, l' essere ideale , e le molte cose da noi intese avendo in noi molte forme, si dicono queste idee o specie a cagione che sono distinte in noi per la distinzione reale delle percezioni sensitive, alle quali noi riferiamo l' idea o la specie unica dell' essere; la quale non impropriamente si può dire specie , ove si voglia intendere per questa il principio con cui s' intendono l' altre cose, e idea quando la si considera come l' oggetto per sé inteso. E però quando San Tommaso dice: [...OMISSIS...] , dice certamente una bella verità: ma è da notarsi che sostituisce alle idee le molte cose intese . Ora le molte cose intese da Dio non sono semplicemente molte forme intellettuali, ma sono le cose stesse. Quando dunque il Santo dottore lascia i vocaboli e le forme prestabilite dall' aristotelismo, allor diventa chiaro, e cessa ogni equivoco. Poiché non si limita solamente a dire, che Iddio conosce tutto colla sua essenza come con una specie sola o principium quo , ma dice medesimamente che l' idea in Dio non è altro che la sua stessa essenza come « principium quod ». [...OMISSIS...] (3). Come dunque conosce le molte cose finite ? Risponde San Tommaso: pei diversi rispetti che la sua unica essenza ha alle diverse cose finite. Ma i rispetti diversi tra la essenza divina e le cose finite non ci possono essere, se non ci sono le cose finite che sono un estremo di tale relazione. E le cose finite non ci sono, se Iddio non le produce. Convien dire dunque che è un medesimo atto quello con cui Iddio produce le cose finite e i rispetti di esse alla propria essenza. Non può dunque dividersi in Dio la cognizione attuale e distinta e piena delle cose finite dalla creazione di queste. Onde San Tommaso dice, che il mondo è fatto da Dio per « intellectum agentem (1) ». E da questo viene che i molti rispetti dell' unica essenza divina alle creature, sono essi stessi causati da Dio ab aeterno , secondo che insegna San Tommaso medesimo (2), e costituiscono quella sapienza di cui è scritto: ab initio et ante secula creata sum (2). Le idee dunque sono prodotte ad aeterno ad un tempo colle cose temporanee, e dipendono dalla libera intelligenza divina, come abbiamo già detto (4). Ma questa parola di rispetti produce equivoco, perché riceve un doppio significato. Questi rispetti diversi , come ragioni o idee intese , sono posteriori alla cognizione che ha Dio delle cose distinte, sono rispetti ideali conseguenti e riflessi: non sono dunque necessari acciocché Iddio conosca le molte cose distinte . Come pertanto conosce molte cose distinte? Colle molte idee, dice San Tommaso. Ma come le idee sono molte? Le idee, dice, sono la sua essenza; ma coi diversi rispetti ella acquista la ragione di piú idee, « respectus quibus multiplicantur ideae ». Questi rispetti devono essere anteriori alla cognizione che Dio ha delle cose, perché le costituiscono. Ma anteriormente alle cognizioni che Dio ha delle cose distinte, non ci sono le cose: i rispetti dunque dell' essenza divina, che costituiscono la cognizione delle cose, devono essere quelli stessi con cui le cose vengono all' esistenza. Anteriormente poi all' esistenza delle cose, e della cognizione delle cose, altro non c' è che l' unica essenza intelligibile per sé di Dio, e l' intellezione divina . Nell' essenza divina per sé intelligibile ci sono tutti gli enti finiti, ma solo virtualmente e indistinti. L' atto dell' intellezione divina li rende distinti, e cosí li crea. Resi cosí distinti gli enti e creati, si possono per astrazione cavare i rispetti ideali tra le cose distinte già e create, e la divina essenza. Conviene dunque dire, con piú proprietà, che non c' è niente di ideale in Dio, se non posteriormente o almeno simultaneamente all' intellezione reale, con cui Iddio e distingue ad un tempo e crea le cose finite. Perciò quando si pongono molte idee in Dio, allora si parla al modo umano. Rimosse le idee distinte dalla divina essenza è salva la semplicità perfetta di questa divina essenza (5). Non ci sono dunque, a rigore parlando, piú idee in Dio, prese queste come forme intelligibili delle cose, ossia non ci sono piú oggetti ideali ; anzi non ci sono affatto idee , ma c' è un solo oggetto intelligibile e un solo atto d' intellezione che intende producendo l' inteso; giacché niente può essere pienamente inteso, se l' intelligente coll' atto d' intenderlo non lo produce (1). Ma se dalla divina natura, a parlar con rigore, si devono affatto rimuovere le idee, che a lei s' applicano solo per una maniera di parlare analogico tolto da ciò che accade nella mente umana, che cosa sarà il cognito della mente divina? Sarà lo stesso reale intelligibile , senza nulla di mezzo: ma questo reale non in quanto è puramente in se stesso, che è la sua esistenza relativa, ma in quanto il reale in se stesso esistente è in Dio. Abbiamo distinto il reale che l' uomo conosce, dal reale che conosce Iddio. Fermandoci all' atto della perfetta intellezione, alla illimitazione di questa appartiene, ch' ella non solo intenda l' essere infinito, ma che intenda tutti gli enti finiti in esso compresi per una virtualità d' eminenza . Questo, niuna intelligenza il potrebbe fare in un' idea vota di realità, come nell' idea dell' essere, che è un essere virtuale dove tutto il reale è nascosto, onde da noi si chiama una virtualità di scadenza ; ma ben il può far l' intelligenza quando un oggetto reale a lei sia dato (2). Può dunque l' intelligenza infinita nell' ente finito conoscere e discernere di cognizione tutti gli enti finiti ch' ella voglia, ossia formarsene, come dicevamo, i tipi. Ma dato che Iddio si formi questi tipi attuali, già esistono in se stessi gli enti finiti. Poiché gli enti finiti, e soprattutto gli enti finiti persone, hanno un' esistenza propria e in sé, e senza questa esistenza propria in sé non sono enti finiti. Una qualunque similitudine ideale dell' ente finito non è l' ente finito, e il conoscer quella non è il conoscer questo. Nessuna idea pertanto o similitudine ideale basta a far conoscere l' ente finito nella sua natura compiuta, che importa l' esistenza in sé. Che cosa dunque a ciò si richiede? Si richiede il verbo della mente, come abbiamo dimostrato nell' « Ideologia (531 7 534, 495 n. , .51 n. , 132. n. , 1355). » Ma altro è il verbo della mente umana, altro il Verbo nella mente divina. Il Verbo della mente umana non produce gli enti finiti assolutamente, ma solo li produce relativamente alla mente umana. Anteriormente dunque al verbo della mente umana, gli enti finiti hanno un' esistenza in sé; ma anteriormente al Verbo divino, niun ente finito esiste; perciò col Verbo divino vengono all' esistenza in sé. La stessa mente umana è uno degli enti finiti che esiste in sé, assolutamente parlando; ma col suo verbo, in quanto termina nello stesso soggetto intelligente, esiste relativamente a sé «( Ideol. , 439 7 443; Psicol. , 61 7 .1) »; del pari col suo verbo conosce gli altri enti, in quanto realmente e in sé sussistono: ma come avviene questo verbo? Primieramente è dato all' uomo l' essere ideale. Ma di questo essere non può far uso come di similitudine, finché a lui non sieno dati gli enti finiti. Questi gli sono dati in un sentimento oscuro e inintelligibile, che è quello che costituisce la sua propria natura subiettiva, atto ad essere modificato col ricevere l' azione che gli altri enti finiti esercitano nel medesimo. Dato questo sentimento e le sue modificazioni (né l' uno né le altre essendo essere), nell' idea dell' essere che intuisce egli le apprende, e allora l' essere ideale comincia ad uscire dalla sua virtualità di scadenza. Allora l' uomo pronuncia il proprio sentimento come un ente esistente, e le azioni fatte in quel sentimento come prove di altri enti esistenti che pure pronuncia ed afferma esistenti. Questi pronunciati della propria esistenza e dell' esistenza d' altri enti sono quelli che si dicono verbi della mente: i quali costituiscono la cognizione che ha l' uomo degli enti reali in quanto sono in sé sussistenti (1). Il verbo dunque della mente umana è il sentimento pronunciato come ente in sé , se trattasi del proprio sentimento sostanziale, o è il pronunciamento d' altri enti in sé . Al soggetto umano intelligente, anteriormente ad ogni suo verbo, è dato dunque in separato: 1) l' atto dell' essere senza termine; 2) de' reali finiti. E il verbo umano consiste nel congiungere quello con questi, cioè nel predicare l' atto dell' essere de' reali finiti, e cosí formarli a se stesso e conoscerli come enti in sé essenti perché « l' ente in sé essente è un reale che ha l' atto dell' essere ». Tale non è il Verbo divino. A questo Verbo non precedono come dati né l' essere ideale, né un sentimento reale finito. Convien dunque concepire in altro modo il Verbo divino. Devesi prima concepire la costituzione dell' Essere Dio, e poi la creazione degli enti finiti. Per concepire in qualche modo la costituzione dell' Essere Dio, si dee movere dal concetto dell' Essere per sé inteso. Quest' essere è compiuto e infinito, e però realissimo vivente e sussistente in sé. L' Essere per sé inteso importa un infinito atto d' intelligenza con cui intende pienamente se stesso come vivente e sussistente, atto sempre compiuto ab aeterno . Quest' atto d' intelligenza dunque non può essere che un pronunciato di sé, cioè un Verbo di tale intelligenza. Ma se quest' atto termina in tutto se stesso come sussistente e vivente in sé, è conseguente di logica necessità, che l' inteso sia ad un tempo inteso rispetto al subietto intelligente, e sussistente in sé come inteso . In quanto è puramente inteso, puramente obietto nell' intelligente, è la sapienza essenziale a Dio; ma in quanto sussiste come inteso, è una persona in se stessa, diversa da quella dell' intelligente come intelligente, ed è il Verbo personale di Dio. Cosí Iddio è costituito, lasciando noi di parlare della terza persona. Ma l' intelligente che intende e ha inteso pienamente se stesso, in se stesso inteso ha tutti gli enti finiti in una virtualità d' eminenza, perché ha tutta la realità e la perfezione. Dunque può pronunciare tutti, o quanti vuole, gli enti finiti che sono in lui, e cosí conoscerli perfettamente. Conoscerli perfettamente è conoscerli in tutta la loro natura, parte della quale è la loro reale sussistenza in sé. Se vuole dunque conoscerli pienamente secondo la loro propria natura sussistente in sé, dee pronunciarli e affermarli. Questo pronunciamento li produce come intesi nello stesso intelligente divino rimanendo in esso la cognizione loro come effetto del pronunciamento, ossia ultimazione dell' atto, non diverso dall' atto stesso; ma questi intesi esistono per ciò anche in sé, ché altramente non sarebbero in sé esistenti e sussistenti conosciuti; e quest' è l' atto della creazione per la quale esistono in sé gli enti finiti perché esistono in Dio come perfettamente conosciuti. Ora, questo modo d' esistere in Dio come intesi, come pronunciati in Dio, è quello che San Tommaso chiama l' « essere intelligibile delle creature »; la loro sussistenza poi in se stesse è quello che egli chiama l' essere naturale delle medesime (1). L' atto dunque dell' intellezione divina è sempre il pronunciamento d' un verbo, sia che pronunci se stesso qual è sussistente, sia che pronunci e affermi gli enti finiti in sé contenuti in una virtualità d' eminenza: questo è il solo modo di conoscenza perfetta, e il solo perciò che conviene a Dio. Ma l' atto con cui pronuncia se stesso sussistente, e l' atto con cui pronuncia gli enti finiti, non sono perciò due atti o due verbi; ma è l' unica intellezione divina, è Dio stesso, l' « intelligere subsistens » di San Tommaso (1). Tutto l' ente è pronunciato dal Verbo. - Ma prima di parlare del Verbo in Dio, conviene che consideriamo il Verbo nella mente umana. Il verbo pronuncia sempre la realità subiettiva. Solo è a porre attenzione che la mente umana talora finge che anche ciò che non ha veramente nulla di subiettivo, l' abbia, per bisogno di ragionare e di operare. Conviene dunque distinguere nell' uomo due sorte di verbi: il verbo vero e primo, e il verbo dialettico e posteriore. Lasciando dunque il verbo dialettico, che n' ha solo la veste, consideriamo il verbo vero e primo dell' uomo. Questo c' è, quando l' uomo afferma qualche ente sussistente o reale. Due generi di enti reali egli afferma: gli enti persone , e gli enti impersonali . Il primo degli enti personali che afferma (almeno implicitamente) è se stesso: le altre persone egli afferma, avuta qualche prova della loro sussistenza, in quanto da se stesso prende la loro specie o idea, con cui ne conosce l' essenza. Afferma poi gli enti impersonali, per l' azione che esercitano in lui: e quelli che non esercitano azione sopra di lui, li afferma, avuta qualche prova della loro sussistenza o realità, immaginandoli e pensandoli sopra una specie cavata dalle azioni di quelli che hanno operato su lui. Il verbo dunque piú perfetto e anteriore della mente è quello con cui l' intelligente afferma se stesso; di poi quello con cui afferma ciò che agisce sul suo sentimento. Ora, quest' attività sperimentata di tali enti non è tutta la natura dell' ente stesso subiettivamente sussistente: rimane quindi, anche pronunciato un tal verbo, intieramente oscura ed ignota la natura del subietto operante, ed è la sua virtú attiva, che tien luogo di subietto. Questi enti si chiamano da noi estra7subiettivi, perché del vero subietto nulla sappiamo, e ne conosciamo solo la virtú di modificar noi. Indi accade che il verbo che noi pronunciamo quando affermiamo la sussistenza delle cose impersonali non sia una perfetta similitudine di tali cose come sussistenti. La qual mancanza di similitudine però nasce dall' imperfezione dell' idea, che non esprime la loro natura, ma solo l' effetto della loro azione in noi. Lasciamo dunque da parte anche questa sorta di verbo come imperfetto, giacché noi cerchiamo il concetto d' un verbo perfetto. L' anima umana pronuncia certamente il piú perfetto verbo che ella possa pronunciare, quando afferma se stessa: questa affermazione in qualche modo le è anche essenziale, come persona. Ella ha di sé l' idea piú perfetta, perché ella è essenzialmente sentimento «( Psicol. , .1 7 123) »; e perciò, quando pronuncia quel verbo con cui afferma se stessa, pronuncia cosa che conosce, la pronuncia, dico, come sussistente. Ma poiché questo sentimento sostanziale non è l' essere, ma solo ha l' essere, che è il solo intelligibile per sé, perciò ella non è per sé intesa, e, come dice S. Agostino, non è luce a se stessa; ma s' intende e si pronuncia nell' essere, che a lei si appalesa come puro obietto, e però come un altro diverso da sé subietto. Sono dunque due questioni diverse: « se l' anima intellettiva intenda sempre se stessa », e « se ella sia intelligibile e intesa per se stessa ». Lasciando noi la prima da parte, diciamo, che il sentimento sostanziale che costituisce il subietto7anima non è intelligibile né inteso per se stesso, ma per l' essere e nell' essere che è un altro da lei «( Ideol. , 439 7 442; 9.0 7 9.2) ». L' uomo dunque conosce se stesso nell' essere come un principio vivente sensitivo, e come tale si pronuncia. Un principio vivente sensitivo che si conosce e pronuncia è un compiuto subietto. Si conosce dunque come subietto e però come un ente, senza aver bisogno di supplire dialetticamente il subietto, come è necessitato a fare nella percezione intellettiva de' corpi. Ma nello stesso tempo, intende, che questo subietto che si conosce non è intelligibile per se stesso nella sua sussistenza; e però rimane anche in questo verbo qualche cosa d' oscuro. Poiché dunque il principio subietto sensitivo e intellettivo, preso da sé solo, non è intelligibile, né pure questo verbo umano , che è il piú perfetto di quelli che possa pronunciar l' uomo, è similitudine dell' uomo sussistente; e cosí molto meno gli altri verbi, co' quali l' uomo pronunzia l' altre cose, hanno natura di similitudine , ma l' hanno solo di affermazione . E indi è che nell' uomo si distinguono profondamente i due modi di conoscere: per oggetto, idea, o similitudine; e per affermazione, o pronunciato, o verbo. Ciò che si conosce nel primo modo è l' ente come oggetto, ma senza sussistenza propria. Ciò che si conosce nel secondo modo, è la sussistenza in sé: non però la sussistenza in sé come oggetto, ma puramente come sussistenza in sé non oggetto. Né pure dunque questo verbo, che è il piú perfetto e il piú luminoso di tutti quei verbi che può pronunciar l' uomo, raggiunge la perfezione del Verbo divino (1). Infatti la realità e sussistenza divina è intelligibile per se stessa come realità e come sussistenza, perché, essendo infinita, è l' essere stesso. Quindi non si dà in Dio quella distinzione che si trova nell' uomo tra ciò che è conosciuto come oggetto, e ciò che è conosciuto come sussistente in sé subiettivamente; ma il cognito divino è insieme tanto oggetto, quanto sussistente in sé, perché l' oggetto stesso è sussistente. Di qui procede, che l' oggetto divino sia la prima e perfettissima similitudine . Ma la vera e prima similitudine è la cosa in quant' è oggetto d' una mente. Lo stesso essere divino dunque da sé pronunciato è prima e perfettissima similitudine di se stesso. L' intellezione dunque sussistente, che è Dio, termina in se stesso sussistente come in perfettissima similitudine e immagine di se stesso, che è quanto dire come per sé inteso (1). Ma come l' intendere divino ha sempre natura di pronunciato e di verbo, che è il modo d' intendere perfettissimo, consegue che tutti gli oggetti di questo verbo non sono puri oggetti, ma oggetti sussistenti. Se dunque il pronunciamento divino non si porta solo in se stesso senza limitazioni, ma si porta anco negli enti finiti, virtualmente in sé contenuti, anche questi devono necessariamente sussistere. Ma la sussistenza di questi enti, finiti in se stessi, non è la sussistenza di Dio, in sé, il quale è essenzialmente illimitato. Conviene dunque che tali enti sussistano della loro sussistenza propria, e cosí ci abbiamo degli enti con una sussistenza subiettiva in sé diversa dalla sussistenza di Dio medesimo. Avendo una sussistenza in sé diversa dalla sussistenza di Dio, si dicono esistere fuori di Dio, perché sussistere in sé è un sussistere fuori d' ogni altro subietto: non potendosi mai i subietti confondere. Cosí dunque accade la creazione. Dalle cose dette intorno la virtú e l' efficacia dell' atto intellettivo divino procede, che la prima e universal causa non sia altro che un intelletto, e, per dir meglio, lo stesso intendere sussistente che è Dio. La qual dottrina è di San Tommaso, che ne trae un' altra conseguenza bellissima, della necessità, cioè, che tutte le cose abbiano un essere intelligibile nella divina mente. [...OMISSIS...] . Tutto è dunque fatto dall' intelletto divino, che è essenzialmente volitivo, pratico, operativo, ed è una sola intellezione. L' essenza divina intesa è ad un tempo esemplare di tutti gli enti finiti; ma contenendoli ella solo per una virtualità d' eminenza, c' è bisogno dell' intellezione libera che ne faccia la tipificazione e la creazione con un solo atto. Questa tipificazione non pone nessuna distinzione nella essenza divina intesa, ma rimane atto dell' intelligente; e della distinzione sono subietto unicamente gli enti che risultano in sé esistenti per quest' atto. Procedono quindi queste conseguenze: 1) che l' essenza divina, come per sé intesa , contiene tutte le perfezioni delle cose create unite insieme in una virtualità d' eminenza, senza distinzione alcuna; 2) che l' essenza divina, come intelligente , avendo in sé l' essenza divina come per sé intesa, oggetto perfetto che anche sussiste come subietto personale, pensa quest' oggetto limitandolo: e questo pensiero limitante altro non è che atto dell' intelligenza divina, e non propriamente un oggetto novo, ma l' oggetto primo, cioè l' essenza divina perfetta per sé intesa in relazione coll' atto divino limitante; 3) che quest' oggetto limitato dalla intelligenza divina sono gli enti finiti, i quali devono oggimai sussistere in se stessi atteso che, se non sussistessero con sussistenza propria, quest' oggetto limitato non sarebbe perfettamente pensato, mancandogli l' ultimo atto, che è il subiettivo. L' azione dunque limitante dell' intelligenza divina unita all' intelligenza di se stessa, che è un solo atto coll' intellezione divina, è la potenza creatrice. Non è dunque necessario ammettere piú oggetti in Dio per ispiegare la creazione. E l' ammettere piú oggetti fu l' errore de' Platonici nato da questo, che non distinsero accuratamente le idee dal verbo della mente, e fermandosi nella contemplazione delle idee, e vedendole causa della cognizione che noi abbiamo delle cose immutabili ed eterne, conchiusero che ci doveano essere molti principŒ per sé essenti ab aeterno , per la partecipazione de' quali fossero informate le cose. Questo sistema, che non istimiamo esser quello di Platone, ma de' Platonici, pecca da piú lati: 1) suppone la materia eterna, come quella che non può essere data dalle essenze ideali, che non la contengono; 2) suppone che ci sia qualche cosa di assolutamente inintelligibile, perché ogni cognizione ideale lascia la realità come un incognito, e quindi viene a negare una intellezione perfetta, la quale solo è Dio. Questi filosofi si contentavano dunque di sostantificare degli astratti, parendo loro tanto piú perfette le idee, quanto fossero piú astratte; senza avvedersi che se guadagnavano in estensione, perdevano in comprensione. E cosí dovevano dividere l' essenza eterna, perfettissima e sussistente, in piú principŒ. In questa maniera s' intende come si dica con verità, che tutte le cose sono in Dio, senza perciò cadere nel panteismo. Questo sistema nasce da una maniera di pensare materiale, che non raggiunge la verità dell' esposta teoria. In fatti, che tutte le cose sieno in Dio, è sentenza della cristiana tradizione. San Paolo già disse: [...OMISSIS...] Esse sono in Dio in due modi, cioè: 1) Sono nell' essenza divina intesa e sussistente, cioè nel Verbo per una virtualità di eminenza, e però senza distinzione alcuna; e cosí si dice che sono in Dio come in causa esemplare eminente . 2) Sono nell' essenza divina intelligente e sussistente come ultimazione del suo atto semplicissimo, dal quale risulta a se stesse un' esistenza propria, per la quale esistenza propria e relativa si dicono fuori di Dio. E cosí sono in Dio distinte come in causa efficiente eminente . Di che viene che la loro distinzione non sia in Dio, quasi che egli sia il subietto della loro distinzione, ma la distinzione rimane nell' effetto che sono esse stesse, rimanendo una la causa. Poiché questa causa è quella che, distinguendole e limitandole, le crea. Questi due modi, sono indicati in queste parole di San Tommaso: [...OMISSIS...] . Dove si distingue Iddio che fa, e cosí si considera come causa efficiente del mondo, e il suo Verbo, in cui egli lo fa, e cosí si considera come causa esemplare. L' atto creativo è quindi lo stesso essere, ente perfetto, che è intellezione divina. In quanto adunque l' atto intellettivo è comune alle tre persone, gli enti sono nell' essenza divina, sono la stessa essenza divina attualissima; in quanto l' atto intellettivo è in diverso modo nelle tre persone, gli enti finiti sono pure in diverso modo nelle tre persone, sono esse stesse. Ma essi sono distinti e sussistenti in se stessi, fuori di Dio. Ciò che è in Dio è lo stesso ente finito sussistente come oggetto reale, di cui tutto ciò che è di positivo, è nell' oggetto reale infinito, e ciò che è di negativo, cioè le limitazioni, appartiene, come a causa, all' atto intellettivo infinito; la qual unione individua del positivo e del negativo, dell' atto intellettivo limitante e dell' oggetto reale costituisce l' ente finito nella mente divina e in se stesso. L' ente finito pertanto ha due forme: in quanto è essere oggettivo reale, è in Dio come pienamente cognito; in quanto poi egli è puramente forma reale sussistente in se stesso, è fuori di Dio. Pertanto, ciò che in Dio si concepisce come Esemplare è lo stesso essere oggettivo reale de' sussistenti finiti . Quest' essere è termine dell' atto intellettivo divino. Non è dunque un esemplare come quello dell' artista umano, composto d' idee v“te d' azione, che dirigono bensí la potenza dell' artista, ma non operano esse stesse. L' esemplare divino è lo stesso atto creante, dal quale pende di continuo la sussistenza del Mondo, è questa stessa sussistenza in atto come cognita , e quindi dentro la forma obiettiva. Se l' atto divino non terminasse immediatamente nelle sussistenze create, ma conoscesse queste per via di molte idee mediatrici, non ci sarebbe piú modo di salvare la semplicità divina. Qualora dunque si voglia conservare, parlando di Dio, la parola esemplare , tolta da quello che avviene nell' artefice umano, conviene mutarle il significato; e non c' è altra definizione piú propria che questa data da San Massimo [...OMISSIS...] . In quanto poi alla parola idea , essa si può lasciare senza difficoltà, riservandola, come noi facciamo, a indicare l' oggetto dell' intuizione umana, non reale, ma puro termine dell' umano intelletto. In questo modo ritorniamo a dire: che gli stessi enti creati in sé sussistenti, non in quanto sono sussistenti relativamente a se stessi, ma assolutamente, sono l' immediato termine dell' atto creativo che è intellettivo verbiforme; in quanto termine della detta intellezione, all' intellezione stessa appartengono, come subietti oggetti; in quanto poi sono in se stessi sussistenti, in tanto hanno l' esistenza puramente subiettiva a sé relativa, e però fuori dell' oggetto. I subietti sussistenti dunque esistono in due modi: inchiusi nell' oggetto divino; e rispetto a sé, che è quanto dire fuori di questo oggetto. Come subietti oggetti, si possono dire similitudini perfettissime de' subietti puri. Ora i subietti oggetti non pongono alcuna distinzione in Dio, perché la distinzione è ne' subietti puri; la distinzione è prodotta dall' intellezione divina come da causa limitante e pronunciante, la qual limita e pronuncia i subietti reali in se stessi esistenti, rimanendo unico il pronunciamento, e rimanendo tutta la distinzione nell' effetto. Vedesi che il verbo intellettivo di natura sua è attivo rispetto alla realità pronunciata, e non è come l' idea che fa solamente conoscere i reali contenuti nell' oggetto, e non i reali come subietti sussistenti fuori dell' oggetto, né agisce in essi. Ma acciocché il verbo intellettivo spieghi quest' azione reale, conviene che sia verbo perfetto, qual' è quello che diciamo concreto «symphyes», ossia fatto per concrezione . Perciò noi dicevamo già che, tra tutti i verbi che l' uomo pronuncia, quello con cui pronuncia naturalmente e immediatamente il sentimento proprio, è il solo che abbia somiglianza in qualche modo col divino, benché rimanga ancora lontano dal rappresentarlo perfettamente. La condizione che rende il verbo concreto, e però attivo nel suo termine, si è questa, che « ciò che l' intelletto pronuncia ed afferma sia cosí fattamente congiunto coll' intelletto pronunciante ed affermante ossia emettente il verbo, che formi con esso un medesimo ente ». Questo s' avvera in Dio compiutamente, non solo quando pronuncia se stesso, e cosí genera quello che si dice Verbo divino, ma anche quando pronuncia gli enti finiti e cosí li crea. E ciò, perché, essendo Iddio quell' ente che non è altro che l' essere stesso, e l' essere essendo di natura sua non solo subietto, ma anche obietto, l' obietto pronunciato è sempre essenzialmente se stesso. Onde tutti gli enti finiti pronunciati, in quanto sono pronunciati e però oggetti del pronunciamento, sono lo stesso Dio pronunciante subietto, terminazioni interne del suo atto subiettivo, sono il suo atto terminante. I quali enti, rispetto a sé e, parlando delle persone, rispetto alle loro coscienze, non esistono come oggetti, ma in se stessi come puri subietti, non entrando nella loro coscienza l' obiettività che è il modo che hanno in Dio, la quale obiettività è la terminazione dell' atto sostantivo di Dio stesso. Dimostrato che l' intelletto è di sua natura una causa attiva e veramente efficiente, ritorniamo a dire, che il suo atto, quando termina a molte cose, o a cose aventi una natura diversa dalla sua propria, non partecipa necessariamente della loro moltiplicità, o della loro propria natura. La verità di fatto di questa proposizione si può almeno cominciare a riconoscere, considerando quello che avviene nello stesso intendimento umano. Quando l' uomo pensa un corpo reale, niuno ha mai creduto, eccetto alcuni insensati materialisti, che l' intelletto con ciò divenisse un corpo materiale, d' una data estensione e durezza, o cose simili. Aristotele ricorse alla specie , dicendo che si conosce la pietra per la specie della pietra (1); ma dato che colla specie della pietra si conosca l' essenza conoscibile della pietra, non resta spiegato come se ne conosca la sussistenza , che non è certo data nella sola specie, e a ciò si richiede il verbo, ossia l' affermazione intellettiva. Il qual verbo si riduce nell' uomo ad un semplice atto di assenso, tutto atto subiettivo: è l' atto del subietto che giunge ad un altro reale, e quasi direbbesi, lo tocca senza confondersi con esso. Come accade che avendo per termine della sua azione la pietra stessa, non ne prenda le qualita? Certamente per questo, che egli afferma esistente la natura della pietra nell' oggetto, o essere ideale, in cui la vede, venendogli ivi rappresentata dalla reale sensazione. Questo prova che la pietra, quand' è nell' oggetto, ha un altro modo di essere, diverso da quello che ha in se stessa, e che perciò l' intelletto non ha bisogno di prendere le qualità della pietra sussistente in se stessa, per conoscerla ed affermarla: ma può far tutto questo, senza che egli, o il suo atto perda le qualità sue proprie. Questa natura del verbo è certamente misteriosa, ma è misteriosa solo per l' abitudine che noi abbiamo di volere che tutte le azioni rassomiglino a quelle che noi vediamo esteriormente ne' corpi, e che prendiam per esempio dell' altre tutte, e crediamo di conoscere, quando in verità men dell' altre spirituali da noi sono conosciute. E` dunque da considerarsi la natura del verbo, con cui conosciamo i sussistenti, in se stessa, consultando la nostra consapevolezza, senza volercela spiegare ricorrendo ad esempi stranieri. Diciamo, che il verbo è un atto dello spirito, e però che non può avere altra natura da quella dello spirito, il quale è semplice e uno: deve dunque conservare la sua proprietà di essere spirituale, uno e semplice, qualunque sia la cosa che pronuncia, la quale non può fargli cangiar natura, benché ella sia il termine del suo atto. Questo termine dell' atto del verbo potrà dunque esistere in sé; ma in quanto è preciso termine interno d' un tal atto, è, per cosí dire, l' atto stesso attualissimo, e perciò della stessa natura di quel subietto che pronuncia il verbo. Si consideri che un principio ontologico universale è il seguente: « ogni qualvolta un subietto agendo o patendo conservi la sua identità, la sua azione o la sua passione è della stessa natura del subietto, perché non è altro che lo stesso subietto paziente od agente ». Il verbo dunque è un atto dell' intelletto e quest' atto, colla sua attualità che lo termina, conserva la natura dell' intelletto che è il principio che lo produce, natura semplice ed una. Pertanto, siccome questo termine, in quanto esiste in se stesso e cosí è un altro, può avere anco diversa natura; cosí questo termine può in se stesso esser moltiplice, senza che questa moltiplicità appartenga al termine, come termine attuale proprio del verbo. Scemerà la meraviglia di questo fatto, quando si considererà non solo in astratto, ma anche nelle sue applicazioni, il principio universale ontologico da noi fermato: « Ogni qual volta un subietto agendo o patendo conservi la sua identità, la sua azione e passione (e non solo quella parte di esse in cui cominciano, ma anche quella parte in cui vanno a terminare) conservano la natura e le proprietà essenziali dello stesso subietto ». Questa legge si può applicare a tutti gli enti7principio, che soli possono esser considerati come subietti reali. Conviene dunque dire necessariamente, che tutto ciò che è esteso o moltiplice in se stesso esiste nel principio senziente e nell' intellettivo in un modo inesteso e uno: sia che, per riguardo al principio intellettivo, questo modo inesteso e uno dicasi specie, nel qual caso non c' è che l' essenza; sia che dicasi verbo, nel qual caso c' è la stessa sussistenza: o sia che dicasi specie7verbo, per l' unificazione di tali due termini interni. E in questo modo si deve intendere e spiegare questa proposizione che pone San Tommaso: [...OMISSIS...] Il principio dunque e causa intellettiva ha questa natura singolare, che col suo atto ella stessa diventa oggetto, e se si suppone che quest' atto sia già ultimato, ella stessa è oggetto. Ma noi che conosciamo il solo nostro principio intellettivo, il quale non è perfetto e perciò molto di esso rimane in potenza, noi distinguiamo l' intelletto come in potenza, dall' intelletto come in atto. Per questa distinzione Aristotele disse, certamente con molta perspicacia, che nell' uomo [...OMISSIS...] . Questo secondo intelletto è quella forma oggettiva del subietto umano, per la quale ha la virtú visiva, o intuitiva: forma che, secondo noi, è lo stesso essere ideale. Ma il primo è quello che diventa tutte le cose quando le intende. Ma Aristotele non s' accorse bastevolmente dell' infinita differenza tra l' intelletto considerato in se stesso, nel suo ideale, nella sua perfezione, e l' intelletto imperfetto, che è piuttosto una partecipazione dell' intelletto, che l' intelletto medesimo (4): o s' egli se ne accorse, non analizzò a sufficienza questa differenza. Se l' avesse fatto, avrebbe veduto che nell' uomo l' intelletto non diventa mai col suo atto l' oggetto inteso, ma solo acquista quella attualità che dicesi cognizione . Or, per far ritorno all' oggetto dell' intendimento umano, esso oggetto è un altro e l' intendimento come un altro lo intuisce. Ma non avviene già che quest' altro sia lo stesso atto intuitivo, nel qual caso sarebbe effetto di quest' atto intuitivo: ma avviene solo che l' intuente riceva in sé l' effetto di tale unione intuitiva, il qual effetto non è l' oggetto, ma la cognizione dell' oggetto come un altro. Quello poi che l' intelletto umano vede e conosce nel suo oggetto, cioè nell' essere, sono primieramente i sentimenti reali. E` dunque da considerarsi, che l' intendimento umano nell' essere intuisce i sentimenti, come determinazioni dello stesso essere ideale. Questa maniera in cui sono davanti alla mente i sentimenti ossia le realità finite, è quella che si dice la loro esistenza assoluta , ossia il mondo metafisico . Il conoscerli in questo modo (che è la prima cognizione, fondamento di tutti gli altri modi di conoscere) è un barlume di quell' esistenza che hanno gli enti finiti in Dio. L' uomo vede dunque gli enti relativi in quanto in se stesso sono relativi, in un modo assoluto. Ma in Dio non sono gli enti relativi in quanto sono relativi, ma sono nel suo atto creativo come nella causa assoluta di essi relativi. Conosce dunque l' uomo l' esistenza relativa in un modo assoluto; quando Iddio conosce l' esistenza assoluta dell' esistenza relativa in un modo assoluto. Ora, l' esistenza assoluta dell' esistenza relativa non essendo percepita dall' uomo nella presente vita, accade che la sua cognizione sia manchevole; e ch' egli veda bensí i sentimenti nell' essere, che è il modo assoluto di conoscere, ma non veda la loro esistenza assoluta in Dio, che sola è atta a spiegare come sieno veramente nell' essere. Fino a tanto che l' uomo li intuisce semplicemente nell' essere, non sa ancora se esistano veramente in se stessi, ma solo sa che possono esistere in se stessi. E veduti dall' uomo nell' essere si dicono essenze , ma non sussistenze . Pur quelle essenze sono relative alle sussistenze, perché l' uomo non le vede nell' essere, se non perché le ha sentite sussistenti. Trasportò dunque i suoi sentimenti nell' essere. Ma questi sentimenti reali appartengono al modo d' esistere relativo, quando l' essere stesso appartiene al modo d' esistere assoluto. L' uomo dunque nell' intuizione della specie congiunge insieme il relativo coll' assoluto , e ne fa una sola cosa, cioè una sola specie. Ma il relativo e l' assoluto sono eterogenei; quindi l' impossibilità di vedere la loro congiunzione subiettiva, che è il punto oscuro della cognizione umana. L' uomo dunque non trovando nelle esistenze relative, cioè nei sentimenti, nulla d' intelligibile, che fa? Li veste della forma oggettiva che è assoluta, senza però con questo poterli mutare, e cosí ha delle esistenze relative oggettivate, ossia vestite d' una forma assoluta. Ma poiché esse dentro questa forma non possono portare la loro natura relativa che è la realità sussistente, perciò questa rimane esclusa dalla forma e al di fuori, e non si rimane nella forma assoluta altro che la loro possibilità : onde le vede nella causa in quant' essa è intelligibile, e non nella causa in quanto essa è subietto intelligente e creante. Non essendo conceduto tanto all' umana mente, ella non può vedere nella forma assoluta, cioè nell' essere, altro che i sentimenti come possibili; rimanendo la loro propria esistenza relativa nel senso. Dacché poi questa esistenza relativa e propria non si conosce dall' uomo nell' idea, egli è manifesto che o non la conoscerà punto né poco o dovrà conoscerla con un altro atto, diverso da quello della pura intuizione delle idee. Ma egli è certo che l' uomo conosce in qualche modo anche l' esistenza relativa e propria de' sentimenti, senza di che non ne potrebbe parlare. Con qual atto dunque la conosce? La conosce coll' atto del verbo, che nell' uomo rimane cosí al tutto distinto dall' atto intuitivo dell' idea. Questo verbo umano non è che un assenso, un' affermazione, un' adesione del subietto intelligente, un semplicissimo sí che egli pronuncia, con cui s' acquista la persuasione che ciò che vede assolutamente nell' idea, sussiste in se stesso relativamente «( Lezioni filos. , 33 sgg.) ». Altro è dunque ciò a cui il subietto umano dà l' assenso, altro è l' atto dell' assenso medesimo. Ciò a cui dà il suo assenso coll' affermazione o giudizio, gli è tutto dato antecedentemente nell' idea. L' assenso stesso è puro atto dello spirito che gli dà la persuasione che ciò che vede nell' idea esiste relativamente a se stesso. Questa persuasione è un effetto spirituale che rimane nel subietto intelligente dopo il suo atto d' affermazione. Ma questa modificazione è perfettiva dello stesso subietto intelligente, perché è una nuova attualità subiettiva da lui acquistata, e l' attualità è perfezione. Il verbo umano pertanto è un' attualità e una perfezione dello spirito umano, ma un' attualità che termina in un altro a lui precedente. Di qui potremo ascendere a concepire in qualche modo, che cosa debba essere il Verbo in Dio. Poiché questo Verbo, o pronunciamento di Dio, riterrà le condizioni del verbo, cioè non sarà altro che atto di Dio stesso, e atto sempre compiuto, non atto che si fa e che in parte cessa dopo fatto, come nell' uomo. Di poi, differirà in questo: che quello dell' uomo ha bisogno d' avere anteriormente a sé un oggetto che non è egli stesso, ma un altro: laddove Iddio che pronuncia il Verbo, con questo suo atto terminando nell' essere obiettivo, terminerà in se stesso, nella propria essenza e non in un' altra natura. Pronunciando se stesso totalmente, esiste pronunciato come Verbo divino: pronunciando se stesso parzialmente, fa che esistano gli enti relativi e finiti che non possono esser lui, perché egli è essenzialmente indivisibile e semplice. Il pronunciamento dunque degli enti finiti è in Dio l' esistenza assoluta di questi enti, che non ha nulla della loro imperfezione, e a cui consegue l' esistenza loro relativa in se stessi, come quella che fu pronunciata dall' essere, né può essere pronunciata dall' essere senza che sia prodotta. L' esistenza relativa dunque (gli enti finiti) pronunciata da Dio, in quant' è precisamente pronunciata, ossia, che è lo stesso, in quant' è nel pronunciamento ed è l' attualità di questo pronunciamento si chiama « esistenza assoluta dell' esistenza relativa »ed è ad un tempo similitudine perfetta o esemplare, e causa efficiente degli enti, e non già una pura idea v“ta di realità. Cosí, il termine di questo pronunciamento divino degli enti finiti è logicamente posteriore al pronunciamento di se stesso che è generazione del Verbo, ma questo non importa né una posteriorità cronologica, né una dualità nell' atto divino: perché ab aeterno e con un solo atto Iddio fa l' uno e l' altro, genera e crea. Dico che è logicamente posteriore, perché Iddio deve prima conoscere se stesso che è tutto l' essere, e conosce se stesso pronunciandosi e cosí generando il Verbo. Ma il pronunciato è la persona del Verbo. Avendo dunque Iddio pronunciante in se stesso la cognizione di se stesso pronunciato essere totale, egli pronuncia l' essere parziale limitando l' essere totale, e questa limitazione non passa nel Verbo che non ammette limitazione. Tutta la cognizione poi, sia di se stesso, sia degli enti finiti, in quanto rimane nel pronunciante non è che attualità del Pronunciante stesso, e non è qualche cosa di diverso da lui, come accade nell' uomo che pronuncia le cose in un oggetto, cioè nell' essere, che non è lui stesso, ma un altro. Se dunque quest' attualità in Dio si volesse chiamare specie o specie verbo, conviene dare alla parola specie un tutt' altro significato, perché nell' uomo la specie è cosa diversa dal subietto che l' intuisce e ne pronuncia il contenuto, quando in Dio è il subietto stesso che s' attua o che è attuato. Un' attualità dunque di Dio subietto pronunciante (per sé intelligibile e però obietto) è « l' esistenza assoluta dell' esistenza relativa, ossia degli enti finiti ». E se Iddio non è altro che essere, consegue che anche quest' attualità divina non sia altro che essere; e questo è l' essere iniziale delle creature tutte, le quali non sono il proprio essere, altro non essendo che una forma finita dell' essere, cioè pura realità finita. Pure altro è l' essere delle creature che a noi si manifesta, altro è l' essere assoluto delle creature che è in Dio e che è Dio. L' essere assoluto delle creature non è le creature stesse la cui natura è di essere enti relativi, e non è né pure l' essere che a noi si manifesta nelle creature; ma quest' essere che a noi si manifesta nelle creature, è la loro causa intelligibile, quando l' essere loro assoluto non è solo la loro causa intelligibile, ma la loro causa totale, immediata e assoluta. L' essere delle creature che a noi si manifesta è uno, semplicissimo e comunissimo, da tutte partecipato, ma è da noi conosciuto nella sua sola relazione colle realità create; e però è puramente l' atto comune e unico di tutti gli atti di queste: onde noi lo vediamo separato dal subietto divino di cui in se stesso è attualità. Ora, tostoché quest' attualità divina si separa dal subietto divino, ella rimane un' altra cosa; perché, tostoché si concepisca qualche cosa di separato, è tolta l' identità, secondo la regola da noi data. L' essere dunque delle creature non è Dio, ma si può chiamare divino o appartenenza di Dio, perché è qualche cosa che ci sta presente come un astratto teosofico, effetto della creazione. E` posteriore « all' essere assoluto delle creature quale esiste in Dio »; essendo quest' essere assoluto delle creature in Dio attualità di Dio, laddove l' essere delle creature nelle creature è l' attualità delle creature. Oltre di ciò il verbo che noi pronunciamo quando affermiamo la sussistenza d' un ente creato suppone come logicamente anteriore nella nostra mente la specie, e questa specie è composta: 1) di essere ideale, v“to di ogni realità; 2) e d' una realità pura senz' essere, e perciò non solo relativa, ma anche essente in modo relativo, che può unirsi all' essere ideale e cosí venire oggettivata, ma non immedesimarsi con lui, perché il modo relativo è escluso dal modo assoluto. In Dio all' incontro lo stesso oggetto è attualità del subietto, perché questo e quello è lo stesso essere, e l' oggetto non è già v“to, ma pieno di essere reale, il qual reale, appunto perché è essere, s' immedesima collo stesso essere. Onde non rimane piú distinzione tra l' essere e ciò che si contiene nell' essere, ma tutto è attualità dell' essere sussistente. Il che fa, che il pronunciamento di Dio, sia che generi il Verbo o sia che crei gli enti finiti, non ha punto bisogno di specie distinte dallo stesso verbo, e molto meno di specie nelle quali ci sia la dualità d' un elemento assoluto e d' un altro relativo, ma il pronunciato è puramente un' attualità dello stesso essere intelligibile per se stesso, specie ad un tempo e verbo, oggetto ad un tempo, e pronunciato, specie che è tutta essere reale pronunciato. Questo modo dunque di creare per via di pronunciamento intellettuale esclude ogni moltiplicità in Dio, e altro non ammette che una semplice attualità che appartiene a quell' atto perfettissimo, semplicissimo, ultimatissimo, che è Dio stesso, e che solo si chiama attualità distinta per astrazione che noi ne facciamo. I sistemi erronei ondeggiano tra due sistemi, e a due opposte classi si possono sempre ridurre, come abbiamo veduto nella questione ideologica. Il medesimo si riscontra nell' Ontologia. Alcuni filosofi non si elevano a conoscere la natura e la potestà della mente, nulla trovano in essa di divino. Questi sono i filosofi piccini piccini, i materialisti e i sensisti, che non hanno punto ontologia; ed essi vi rinunziano con grandigia, trattando gli ontologi, da sognatori, se stessi riputando i soli coltivatori del solido sapere: mendica superbia, che dà ancora il tuono a molte società scientifiche d' Europa, nelle quali i pregiudizi materiali si conservano per tradizione, e per un cotal punto d' onore scientifico si custodiscono con gelosia. Altri filosofi videro con istupore che l' intelletto era piú che non si credesse, e potea far le gran cose. Ma essi andarono all' eccesso contrario, poiché all' intelletto umano diedero ciò che non vale che dell' intelletto considerato nel suo assoluto ideale, cioè dell' intelletto divino, niuna cura ponendo a definire que' limiti, ne' quali era racchiuso l' intendimento speciale dell' uomo. Conosciuta che s' abbia cosí la natura della prima ed assoluta Causa, che è quella « d' essere un Intelletto », s' ha in mano un principio fecondissimo di conseguenze, pel quale si possono risolvere le piú difficili questioni dell' Ontologia, e dare anche una dottrina universale intorno la Causa. Conosciuto che la Prima Causa, causa di tutte le cause seconde, è un Intelletto, noi potremo indurre quali sieno le proprietà comuni a tutte le cause. Poiché ogni dottrina che versa intorno gli universali si trova dal pensiero umano per due vie. Prima via. - Il pensiero può formarsi l' idea della cosa, di cui cerca la dottrina, dall' astrazione comune, e avendo quest' idea, può esaminare diligentemente l' essenza che essa contiene e porge ad intuire alla mente, può analizzarla e rinvenire gli elementi di cui si compone, e il vincolo che li unisce, e cosí venirsi formando una dottrina intorno a quella essenza e alle sue proprietà, dottrina che è universale appunto perché ogni essenza contenuta in un' idea è universale. Seconda via. - Il pensiero può ascendere prima di tutto all' Essere assoluto, e conosciuta la natura di questo, nel quale tutte le essenze eminentemente si contengono unite, può considerare come quella essenza, di cui cerca la dottrina, esista in esso, e poi come possa essere partecipata, e cosí indurre, per una astrazione teosofica, le proprietà di tale essenza dalle proprietà ch' essa ha nel primo suo fonte. Tanto la prima, quanto la seconda via conduce il pensiero umano all' acquisto di cognizioni certe. Ciò che rende piú ricco il processo ontologico, quando non si divida dall' ideologico che presuppone, non è solo il trovarsi per esso la soluzione di tutte le difficoltà dalle quali rimangono avvolte le soluzioni ideologiche, ma è sopra tutto un novo elemento che entra nella dottrina. Poiché l' essenza , intorno a cui versa la dottrina che si cerca, non si considera piú solamente isolata, ma nella emanazione dal suo principio. Fino a tanto ch' essa considerasi da sé sola, si ha un' essenza indeterminata; ma considerata nel suo principio, ella si vede determinata, piena di realità, e vivente. Ora alcune di queste proprietà ch' ella ha inesistente nella sua origine, e che le mancano nell' idea astratta, sono di quelle che vengono comunicate quand' essa è partecipata dagli enti relativi; le quali di conseguente possono essere da questi riportate nell' idea, ma tuttavia rimangono inesplicate e come sopraggiunte alla sua essenza astratta. A ragion d' esempio, nell' idea astratta di causa altro non si contiene, se non il concetto d' una entità che ne produce un' altra. Ma per intendere, che un' entità non ne può produrre un' altra se non dove quella sia un ente intellettivo, conviene considerare la causa, non piú astrattamente; ma nella sua reale efficienza, che si riduce alla Causa prima. La prima Causa dunque di tutte le cause è un Intelletto. Ogni entità che è prima nel suo ordine è perfetta ed assoluta, perché quando quella stessa si presenta posteriormente alla mente, altro non significa questa posteriorità se non ch' ella ha ricevuto qualche limitazione: ché se niuna limitazione avesse, sarebbe ancora la prima e perfetta entità. Di qui avviene che, per conoscere l' essenza di quella entità in tutta la sua pienezza, conviene considerarla nel suo primo ed assoluto essere. A conoscere dunque che cosa esiga assolutamente l' essenza della Causa, conviene considerare qual è la Prima Causa, anteriore ad ogni circoscrizione e limitazione: essa è infatti la causa essenziale, ma non astratta e però indeterminata, ma compiuta e sussistente. In questa Causa pertanto troviamo queste tre proprietà: 1) Che essa è un Intelletto, il quale ha virtú di moltiplicare i suoi oggetti. 2) Ch' essa è un Intelletto che è un subietto libero della sua azione. 3) Ch' essa è un Intelletto perfetto che ha virtú, come tale, di dare l' essere subiettivo e relativo a' suoi oggetti, altri e diversi da se stesso, cioè di crearli. Tale è la Causa nella sua essenza compiuta e sussistente. Or se da questa prima Causa noi per astrazione teosofica vogliamo derivare l' idea, ossia l' essenza astratta, come procederemo? Abbiamo già dimostrato che il principio dell' incomunicabilità è l' illimitazione . Se noi ci proponiamo davanti alla mente la prima Causa, e, in quant' è oggetto della mente, le togliamo l' illimitazione, ci rimane il concetto della causa limitata , con tutto ciò che dee avere. Essendo dunque la prima ed essenzial Causa un Intelletto, se noi limitiamo quest' intelletto, in quant' è oggetto della nostra mente, ciò che ci rimane è un intelletto limitato. Questa dunque è la vera e compiuta nozione comune di causa, dedotta per astrazione teosofica. Ora, se non si dà alcuna causa che non sia intellettiva, consegue che la causa deva anche essere un subietto liberamente operante. E veramente un intelletto opera in due modi: poiché o fa un' azione con cui pone se stesso nel suo atto naturale, o fa un' azione che ha oggetti diversi da se stesso già posto e costituito nel suo atto naturale. Per riguardo alla prima di queste due azioni egli è propriamente principio subiettivo , e non ha alcuna ragione di causa . Colla seconda azione egli è causa, perché la causa è « quella attualità, nella quale noi concepiamo un subietto appieno costituito nella sua propria natura, prima di pensare ch' egli dia l' esistenza a qualche altra entità, e al quale posteriormente attribuiamo la potenza o l' atto che è origine d' un' altra entità diversa da lui stesso ». Se dunque un subietto intelligente pensa entità diverse da se stesso, pensa cose non necessarie alla sua sussistenza e alla sua natura. Dunque tali entità possono esser pensate, o non pensate, senza che manchi perciò nulla al subietto che le pensa e che esiste prima e indipendentemente da esse. In tal caso il subietto è libero a pensarle, e a non pensarle. Vi ha dunque una specie di libertà, che è essenziale al concetto della causa, e che consiste in questo, che « l' effetto non sia necessario a costituire la causa come subietto nella sua propria natura, ossia che questo subietto non dipenda dal suo effetto »(1). Laonde il Padre dicesi Principio, non dicesi Causa, della Trinità. Ma il concetto dell' atto creativo del mondo è posteriore, e suppone l' Intelletto creante già costituito pienamente nella sua natura; perciò non è obbligato a creare per costituire se stesso nella propria natura, e in questo senso egli crea liberamente, ed ha la ragione di Causa. Che se si considera attentamente la natura di questa libertà dell' atto creativo, si discopre un' altra sua proprietà. Poiché la natura del subietto è costituita prima che il subietto si concepisca come causa. Questo subietto nella sua natura reale altro non ha dunque che la potenza di creare . Acciocché quindi questa potenza di creare esca al suo atto, è necessario che lo stesso subietto intellettivo ecciti, e per cosí dire mova se stesso ad operare, per una ragione morale. La qual ragione è non l' amore che è termine perfettivo della sua natura, pel quale pone se stesso come Amato sussistente, ma l' amore che porta a se stesso come fine dell' ente finito. Egli dunque, che già è come Amato sussistente, vede che può essere amato anche da enti finiti; e per questo fine move se stesso a crearli. Questi dunque non movono il subietto creante a creare, perché ancora non sono: neppur la loro possibilità lo move, perché anch' essa è posteriore all' atto creativo: lo move il conoscere di poter essere amato dagli enti finiti, ma ciò, finché resta una mera possibilità mentale , non ha alcuna forza attiva, ma solo conoscibile «( Antropol. , 606 sgg.) ». Rimane dunque che il solo subietto reale sia quello che mova la propria potenza al suo atto; e questo muoversi da se stesso senza altra causa è un muoversi spontaneo d' una spontaneità libera e primitiva. La quale spontaneità primitiva dee al tutto distinguersi da quelle spontaneità posteriori che hanno avanti a sé de' moventi reali, e che perciò non possono ricevere nello stesso senso le qualità di libere . Vero è, che la potenza di creare il mondo fu tratta al suo atto ab aeterno dal subietto divino, e che però in Dio non ci fu mai né la cognizione del mondo nel grado imperfetto di pura idea o mera possibilità, né la potenza nella condizione di mera potenza senza il suo atto. Ma la cognizione perfetta, cioè la cognizione verbale, non toglie la cognizione di ciò che si conosce nell' idea, sí la perfeziona; e l' atto della potenza non toglie la potenza, sí la perfeziona. Il che fa pure a noi lecito distinguere il concetto che costituisce la possibilità ideale del mondo, dal verbo divino che produce il mondo stesso nella sua propria esistenza, considerando quello contenuto eminentemente in questo. Onde da una parte dicesi Iddio Onnipotente , e dall' altra dicesi atto purissimo e assoluto , non perché queste due cose sieno separate in Dio, ma perché l' onnipotenza è un concetto virtualmente contenuto nell' atto purissimo e assoluto , dal quale noi possiamo coll' astrazione della mente dividerlo (1). Nell' Essere divino in quanto è relativamente alla mente che lo pensa, e puramente come oggetto di questa, si distinguono due entità diverse, l' una delle quali si dice la sua propria natura , l' altra si dice l' operazione creatrice posteriore e conseguente a questa natura. Ma se si pensa l' Essere divino senza questa relazione ai detti concetti della mente, non si trova piú quella dualità che risulta solo dalla relazione dello stesso identico Essere a que' concetti mentali. Niente dunque vieta, che nell' Essere divino in se stesso sussistente sieno un medesimo atto semplicissimo, quella entità che risponde al concetto della natura divina e quell' entità che risponde al concetto dell' operazione creatrice : sono due ne' concetti, due fuse in uno nel sussistente. Se dunque tale è la Prima Causa, se il concetto della causa in universale hassi col ritenere tutto quello che è nella Causa Prima tranne la sua illimitazione, dalle cose dette si deduce, che il concetto di causa in universale si presenta alla mente in due forme, come causa in potenza , e come causa in atto . E unendo questo risultato a quello che abbiamo avuto prima, la nozione di causa esige: 1) che sia intelligenza; 2) che sia volontà libera, e come tale, potenza ; 3) che questa volontà libera abbia un fine ideale , o puro oggetto; il quale appunto perché ideale, non esiste ancora in se stesso, e perciò non ha nessuna forza con cui, agendo realmente sulla volontà, determinarla e muoverla, ma la volontà determina se stessa all' ottenimento di quel fine spontaneamente da essa amato. Ma qui si presenta la questione metafisica della libera volontà. Poiché sembra che la causa, cioè la volontà libera, passi dalla potenza all' atto senza una ragion sufficiente. Infatti, se essa volontà è disposta ugualmente all' uno e all' altro, ad operare e a non operare, come può eleggere uno a preferenza dell' altro? Qual causa le toglie l' equilibrio? Rispondiamo, che la volontà è bensí una potenza, ma quale? è la potenza d' eleggere «( Antropol. , 636 sgg.) ». Se dunque ella fa un atto, con questo elegge. Ma che cosa la move ad eleggere? Ella ha sempre un conato verso l' elezione, poiché ella stessa è un atto d' amore, per la sua stessa essenza. Dunque basta che si presenti il bene perché lo elegga, cioè perché lo preferisca al suo contrario «( Antropol. , 624 sgg.) ». Ma se le si presentano piú beni che cadono in collisione tra loro, ella elegge il maggiore. Che se i detti beni sono tali che non sieno paragonabili, perché la loro differenza non è quantitativa, ma categorica, come sarebbe il bene relativo all' individuo umano che elegge, bene subiettivo, e il bene assoluto in sé considerato, ossia obiettivo, allora conviene pure eleggere, e per eleggere non basta paragonar la quantità de' due beni, ma conviene paragonar le loro forme categoriche che non hanno nulla di comune: onde alla volontà, che non può non eleggere perché è a ciò per natura attuata, non rimane che fare un atto che tutto viene da lei stessa potenza d' eleggere, il quale appartiene a quella libertà che noi chiamiamo bilaterale «( Antropol. , 564 7 566, 606 sgg.) ». Ma questa libertà bilaterale, in quanto entra come elemento del merito, non si trova in Dio, dove il bene subiettivo e l' obiettivo non possono venire in alcuna collisione, perché non si dà altro bene del subietto che il bene obiettivo ed assoluto infinitamente amato. Non passa mai dunque la causa volontaria e libera al suo atto senza una ragione sufficiente , ma questa, è composta di due parti: a ) una parte è l' atto fondamentale della volontà, continuo conato d' eleggere il bene; b ) un' altra parte è il fine ideale , che le mostra il bene non ancora esistente a cui ella può dare esistenza. Mancando la seconda parte, ella si rimane causa in potenza . Ma poiché questa seconda parte senza la prima non potrebbe determinarla, perciò ella è libera determinandosi da se stessa, quasi direbbesi, col proprio peso, e cosí ad un tempo è compiuta la ragione sufficiente della sua determinazione, ed è resa causa7atto . Consideriamo ora la terza proprietà della Prima Causa: che sia un intelletto che abbia virtú, come tale, di dar l' essere subiettivo e relativo a' suoi oggetti ideali (1), cioè di crearli. Questa proprietà è evidentemente incomunicabile agli enti finiti i quali non sono, ma hanno l' essere, appunto perché ella non è una proprietà limitabile. Le due prime proprietà erano pur limitabili, e però comunicabili; perché « è limitabile tutto ciò nel cui concetto non si comprende l' illimitazione », e questa non si comprende né nel concetto d' intelletto, che è la prima proprietà, né nel concetto di libera volontà, che è la seconda proprietà. Ma l' illimitazione si comprende all' opposto nel concetto d' una potenza di dare altrui pensando l' essere; perché questo intelletto che dà altrui l' essere conviene ch' egli stesso sia l' essere; e l' essere di natura sua è illimitato. Nel concetto dunque universale e comune di Causa conviene esprimere l' effetto in una maniera piú comune. Questa nozione piú comune sarà dunque quella di cosa o di entità; e diremo « esser proprietà della Causa in comune, aver la virtú di produrre qualche cosa o qualche entità, idealmente concepita, diversa da se stessa ». Raccogliendo le tre proprietà della Causa, diciamo che nella perfetta nozione di Causa in universale si comprendono queste tre proprietà: 1) Ch' ella sia un subietto intellettivo. 2) Ch' ella operi liberamente. 3) E che ella abbia virtú di produrre qualche entità diversa da se stessa. La prima Causa dunque è l' Essere, e l' Essere è Intelletto in atto, ossia Intellezione perfetta, e l' intellezione perfetta e sussistente importa una Trinità di persone, che rispondono a tre forme dell' Essere, cioè alla forma subiettiva, alla forma obiettiva e alla forma amativa o morale. Ora l' Essere nella sua forma subiettiva ci presenta la Causa efficiente, è un reale subiettivo che produce un reale subiettivo: l' Essere nella sua forma obiettiva ci presenta la Causa esemplare, tipica, ossia ordinante, da cui l' ordine nelle cause mondiali; l' Essere finalmente nella sua forma amativa ci dà la Causa finale. Questi si prendono volgarmente per tre sommi generi delle cause. Veramente sono i tre modi o forme dell' unica Causa. E infatti, riprendendo la definizione: « la Causa è un' entità che ne produce un' altra diversa da sé, di cui essa non è il subietto, ma è tale che si concepisce come un subietto senza che nel concetto di questa s' acchiuda l' entità prodotta », vediamo che un intelletto non può produrre un' entità diversa da sé, se non ha in sé essenzialmente questa legge, ch' egli operi e produca con una sola operazione , ma che questa operazione abbia contemporaneamente tre modi . Quando da noi e da' filosofi che ci precedettero si distinsero le tre cause efficiente, esemplare e finale, altro non s' è fatto che dividere coll' astrazione i modi coevi d' operare dell' unica causa, dando a ciascun di essi il nome di causa in separato dall' altro. In tutto il creato niente si trova, che non mostri d' esigere una causa trina: niente, vogliam dire, si trova che non mostri nella sua causa la necessità e d' una efficienza reale che ne spieghi la reale sussistenza, e d' una sapienza che ne spieghi l' ordine ammirabile, e di un fine che spieghi come tutto sia subordinato al bene delle creature intelligenti. Ma nello stesso tempo apparisce chiaramente, che niuna di queste tre ragioni o cause sarebbe stata sufficiente, ove avesse operato separata l' una dall' altra. Conveniva, quindi, che quelle tre ragioni o cause fossero congiunte insieme in una sola operazione; altramente non sarebbero potute esser causa del Mondo. Il Mondo dunque mostra in se stesso manifestamente i vestigŒ dell' unità e della trinità insieme della Causa che lo produsse. Cosí, per la necessità di spiegare il mondo come un effetto, la mente trova nel mondo i vestigŒ manifesti dell' unità e della trinità di Dio, e ascende a posteriori a concepire una Causa una e trina nel tempo stesso. Da questo pure si dimostra a posteriori , che una causa perfetta non può esistere, se ella stessa non sia tutt' insieme e efficiente, e tipica, e finale, il che è quanto dire subiettiva, obiettiva e amativa o morale. Si può domandare ciò non ostante, se l' astrazione che fa comparire tre cause sia una pura astrazione arbitraria della mente umana, o abbia anche la sua ragione in qualche vera separazione che ci sia tra quelle. Alla quale domanda convien rispondere in questo modo: o le tre cause si cavano per via d' astrazione teosofica, cioè esercitata sul concetto di Dio, o si cavano per via d' astrazione comune. L' astrazione teosofica, s' esercita sopra una tal Causa, nella quale i tre modi d' operare non hanno da essa né divisione né distinzione alcuna; e però le tre cause astratte non sono che pure astrazioni ipotetiche. L' astrazione comune all' incontro esercitata sugli enti del mondo trova gli effetti de' tre modi d' operare della prima Causa uniti bensí, ma distinti di natura, in maniera che il primo passo dell' astrazione conduce ad ammettere tre cause diverse; e solo posteriormente, colla meditazione filosofica sopra di esse, conchiudesi che non sono tre cause, come appariva, ma devono essere tre modi d' operare d' un' unica causa. Se noi consideriamo Iddio nella sua interna costituzione, troviamo che nell' intellezione sussistente, che è la sua natura, si distingue un principio o atto intellettivo, che continuamente si porta in se stesso come obietto sussistente, e amato in modo che come amato è ancora se stesso sussistente. E qui l' atto di quella intellezione è eternamente compiuto, e come in suo fine eternamente riposa. Ma quest' atto è per se stesso ab aeterno . Non si può dunque dire che in sé sia causa né efficiente, né esemplare, né finale, nel senso della definizione data della causa, « un' entità che ne produce un' altra diversa da sé », perché i due termini non sono produzioni diverse dal principio. Acciocché dunque si trovi la ragione di causa in Dio, conviene, come già dicemmo, considerarlo rispettivamente all' ente finito da lui creato. Ma se nella costituzione interna ed attiva di Dio non si trova il concetto di causa, è però da por mente all' azione che di continuo è in Dio, ossia nell' Essere assoluto, azione che è ab aeterno perfetta. Se consideriamo la vigoría di quest' azione, non troviamo misura che le si possa applicare, ed abbiamo il concetto di vigoría assoluta, e però infinita. Dunque concepiremo l' Essere assoluto come assoluta azione, e per la vigoría assoluta che è in essa, la concepiremo, giustamente, come una forza in atto, sempre tesa a costituirsi in ente compiuto . L' ente dunque, di novo diremo, non è cosa inerte, ma è una forza, o energia sempre in atto «( Psicol. , 1015 sgg.) ». Ma poiché noi uomini concepiamo la forza in atto come qualche cosa di mezzo tra il subietto che la possiede, e il termine a cui la forza posta in atto perviene, cosí la forza si concepisce con astrazione e dal subietto principio e dal termine che essa ottiene, perciò la forza dell' esser che emette di sé i suoi termini, co' quali compie se stesso quale ente, vien da noi concepita come una forza che pone e costituisce l' ente. Questa forza noi chiameremo forza entica , in quanto costituisce l' essenza stessa dell' ente: in quanto poi essa è anche atta a produrre altri enti, la chiameremo entifica . E` dunque essenziale all' ente una forza , la quale tende continuamente, come a suo termine: 1) a fare che esista l' ente stesso; 2) a fare che esista compiuto e perfetto; e quindi, 3) resiste continuamente alla distruzione dell' ente, e 4) resiste continuamente al deterioramento dell' ente. Queste quattro tendenze della forza entica si possono considerare come quattro leggi nascenti dalla natura, ossia dal concetto stesso dell' ente; e tali leggi ontologiche sono d' un grande uso nella scienza. Ma cosí il subietto che si concepisce come agente, essendo l' essere iniziale o virtuale altro non è che un subietto dialettico, non sussistente, ma solo essente alla mente. Colla forza entica cosí concepita si spiega dunque la costituzione dell' ente quale sta davanti alla mente nostra, piú che la costituzione dell' ente in se stesso. Per arrivare a questa, è uopo ascendere con il pensiero a quell' ente che è puro ente, cioè senza limitazione, il quale è Dio. Sebbene in questo ente essenziale uno e trino tutto sia connesso e indivisibile, tuttavia l' astrazione concepisce l' eterna azione intima, e, per un' altra astrazione, nell' eterna azione concepisce un' eterna forza o energia, e questa entica , cioè intrinseca ed essenziale all' ente senza limitazioni, semplice e puro. Si conchiude dunque di novo, che l' ente nella sua purità e semplicità essenziale è forza assoluta e azione assoluta; la qual forza e azione intrinseca all' ente, per distinguerla da ogni altra, dicesi da noi entica . Ma poiché i concetti di forza e di azione sono astratti per modo, che non presentano al pensiero né un principio, né un termine, possiamo ancora domandare donde venga quest' azione, e dove tenda. Se non che, già subito si urta nell' imperfezione del concepire, poiché il venire e il tendere somministra alla mente nostra il concetto di successione, di progresso, di movimento, e perciò di qualche cosa d' imperfetto che tenda ad esser perfetto, secondo la sentenza aristotelica, che « il movimento è l' atto dell' imperfetto ». Tutti questi concetti d' imperfezione devono al tutto rimuoversi dal pensier nostro. Ma ciò è difficile, perché si presenta questa antinomia: « Come si può fare un' azione che è già fatta »? Il farsi attualmente , e l' essere fatta pare una contraddizione. Basta, per intendere l' identificazione di questi due concetti, concepire un farsi non già con successione, e a poco a poco, ma un farsi tutt' insieme ad ogni istante assegnabile. Se in ogni istante assegnabile col pensiero si trova l' atto semplicissimo del farsi, senza successione di sorta, è assolutamente necessario, che il pensarsi quell' atto che si fa, sia il medesimo che il pensarsi quell' atto medesimo che è fatto; perché nello stesso istante che si fa è fatto compiutamente. Quelle due qualità, dunque, che troviamo divise nell' atto transeunte, il farsi e l' esser fatto , si trovano unite nell' atto permanente, senza l' imperfezione della successione e della cessazione che è in quello. Rimossa ogni imperfezione da quest' atto immanente, perfettissimo e compiutissimo, che è l' Essere assoluto, noi, per astrazione, possiamo ancora concepire in esso una continua forza vitale agente, di cui possiamo, sempre per astrazione, cercare il principio ed il termine, benché coevi. E in quanto al principio noi dobbiamo concepirlo come attualmente agente , e come quello che ha sempre compiutamente agito . Se lo consideriamo come puramente agente, noi non abbiamo che un inizio astratto dell' azione dell' essere, ma un inizio reale (non piú l' essere ideale e virtuale). Allora il termine di quest' inizio reale che si distende coll' azione è l' ente uno e trino , che pone continuamente sé medesimo. Ma questo inizio reale non è la prima persona della Trinità, ma sí un inizio reale astratto. Che se poi consideriamo di piú, che quell' agente non è solamente agente, ma è tale che ha sempre compiutamente agito, allora troviamo che è un principio sussistente che, avendo sempre raggiunto il primo e il secondo suo termine, è con essi ab aeterno una perfetta persona già costituita, come sono persone già costituite i due suoi termini. E cosí considerato l' Ente assoluto è ancora un' infinita energia, che non solo di continuo pone, ma di continuo ha posto compiutissimamente se stesso per un atto, che sempre facendosi, sempre è fatto, con identità perfetta del farsi e dell' esser fatto. In tre modi dunque si pensa dalla mente umana il principio dell' attività o attualità entica: 1) Come un inizio ideale , l' essere indeterminato, che emette di sé, davanti alla mente nostra, i suoi termini ; e cosí pone se stesso come ente assoluto esistente in sé. 2) Come inizio reale , cioè inizio dell' azione eterna che pone e costituisce l' ente assoluto. 3) Come principio sussistente che ha continuamente posto i suoi termini, e ha posto continuamente l' ente assoluto uno e trino. In questa natura d' intrinseca energia ed azione dell' ente assoluto, per la quale esso è quello che è, si trova l' origine teosofica delle quattro leggi ontologiche, cioè tali che si riscontrano in tutti gli enti, per le quali leggi entra nell' essenza dell' ente il concetto d' una forza che fa esistere l' ente stesso, e tende a farlo esistere nella maggior sua compiutezza possibile, e resiste alla distruzione e al deterioramento del medesimo. Questa forza entica , che costituisce ogni ente anche finito, è di sommo momento nella scienza, perché ella costituisce il principio supremo, che rende ragione di tutte le azioni e movimenti spontanei negli enti, e di quelle leggi, secondo le quali si move ed opera continuamente la vita. Ma come noi di sopra abbiamo distinto il concetto di principio dal concetto di causa , cosí qui dobbiamo distinguere il concetto di termine dal concetto di fine nel senso di causa finale . E veramente un termine della loro azione entica e di quella che da questa consegue, hanno tutti gli enti in qualunque modo concepibili; ma un fine in senso di causa finale , o, come propone di chiamarla Giuseppe De7Maistre, « intenzionale (1) », averlo non possono se non gli intelligenti nel loro operare (2). E gli intelligenti stessi, in quanto si considera in essi solamente la forza e l' azione entica, non si può dire che operino per un fine come causa finale, ma solo che in loro si distingua un termine di quella forza od azione. Infatti, la forza entica si pensa nell' ente già costituito da essa, e non anteriormente a questo, e però non ha natura di causa, come dicevamo, ma solo di principio. Ma ci ha un' essenzial differenza, tra la forza entica dell' ente infinito, e la forza entica degli enti finiti. La forza entica infinita ha trovato sempre il suo termine infinito ab aeterno , senza successione, il quale termine è l' ente infinito con tutta la sua perfezione. La forza entica finita all' incontro opera anch' essa con tutta sé, ma essendo ella finita pone un ente finito ; e alla perfezione di questo ella tende, ma non sempre la raggiunge. Ella ha dunque per lo piú due gradi e generi di limitazione: 1) La limitazione che le fa porre un ente finito; 2) La limitazione che le impedisce di porre, nello stesso tempo che pone l' ente finito , anche la perfezione propria di quest' ente. La forza entica dunque nell' ente finito pone sempre l' ente, ma non sempre la sua perfezione: ben ella tende sempre a questa, e non è mai ch' ella non sia inarcata, per cosí dire, e tesa a produrla: solo le manca il varco, le manca quel termine che non produce ella stessa, ma le è dato, in cui portandosi, ponga e costituisca la perfezione dell' ente. Quindi apparisce, che dalla natura della forza entica si deduce la spiegazione ontologica di quel modo d' operare, che si dice spontaneità , e che è un atto nascente da una forza che per natura sua lo produce, la quale si trova, come in sua prima sede, nella forza entica che è contenuta nel concetto stesso universale dell' ente. La spontaneità dunque è quel modo d' operare che ha una forza che è per se stessa in atto, ma che talora per cagione esterna rimane impedita di spiegarsi. E piú brevemente: « la spontaneità è il modo d' operare del principio dell' ente », ed è l' opposto dell' operare violento , il quale non nasce dal principio dell' ente, ma da un altro ente, onde non è un semplice operare, ma è un patire. La forza entica dunque pone l' ente o producendolo il suo termine, e quindi avendolo in suo pieno dominio, nel qual caso lo pone perfetto come avviene nell' Ente assoluto; o agendo e unendosi col suo termine, nel qual caso il termine le è dato. E nell' uno e nell' altro caso la sua azione è spontanea, e ne preesiste in essa la causa spiegata in atto, o in potenza attiva che dicesi tendenza . In tutte queste operazioni spontanee si trova sempre un principio ed un termine, ma non si trova ancora un fine , cioè una causa finale. Anche l' atto intellettivo, in quant' è un atto della forza entica, cioè in quanto pone e costituisce l' ente intellettivo, ha questo per termine; ma questo non è un fine ch' egli si proponga d' ottenere, non potendo proporsi un fine, perché non è ancora ente intelligente. Conviene quindi che l' ente intelligente sia pienamente costituito dalla forza entica, acciocché, cosí costituito come subietto per sé, possa proporsi un fine delle ulteriori sue operazioni. Il fine, dunque, preso come causa finale, non è mai l' ente stesso intelligente che lo si proponga come tale, cioè non è la costituzione di esso ente, ma è qualche cosa di diverso dalla costituzione di esso ente intelligente che opera per un fine. Due sono gli enti intelligenti già costituiti: l' assoluto, che è Dio, e gli enti relativi, che sono le persone finite. E` dunque da ricercarsi come Iddio possa proporre un fine al suo operare, e come si possano proporre un fine gli enti intelligenti. In quant' è a Dio, risulta ch' egli non può proporsi un fine, se non per riguardo al suo operare esterno, perocché in quanto alla azione interna che lo costituisce, ha termine, ma non causa finale. Nell' opera della creazione si devono distinguere due cose, gli enti finiti creati e l' atto creativo. Egli è evidente che gli enti finiti e relativi non aggiungono a Dio niuna perfezione. Non hanno alcuna ragione necessaria in sé medesimi; né pur quella di fine. Se dopo di ciò si considera l' atto creativo , non si può negare che questo sia una perfezione di Dio, un' attualità di Dio stesso. Ma esso è una perfezione conseguente alla divina natura e alla bontà essenziale di questa natura. Il mondo dunque esiste perché Dio è buono; ché da lui come buono viene l' atto creativo, che noi chiamammo perciò un' attualità in Dio conseguente alla sua naturale bontà. L' atto intellettivo, con cui Iddio pone se stesso oggetto sussistente e amato sussistente, si fa da Dio necessariamente, spontaneamente, immediatamente, come atto della forza entica infinita, e quindi senza bisogno ch' egli assuma perciò alcuna causa finale, cioè ch' egli si proponga un fine (1); ma l' atto intellettivo con cui Iddio pone e crea il mondo si fa da Dio proponendosi un fine, assumendo una causa finale, perché il mondo non è necessario alla natura di lui, e non è alcuna parte di questa. Egli è chiaro da questo che il mondo, in quanto esiste in sé relativamente separato, o, come si suol dire, fuori di Dio, non può esser voluto per se stesso, perché non si può volere se non il bene; e il mondo non ha alcun bene in se stesso che possa esser appetito da Dio. E` dunque necessario che Iddio voglia il mondo non per se stesso, ma per un fine che si propone; ed è qui, che incomincia a comparire la causa finale. Ma se Iddio non vuole il mondo pel mondo, e deve avere un altro fine acciocché lo voglia, e non ci può essere altro fine che sia bene volibile per Iddio, tranne se stesso: dunque Iddio, che non può creare il mondo se non volendolo, e non può volerlo se non per un fine buono, deve necessariamente creare il mondo non per il mondo, ma per se stesso, cioè se stesso ponendo a fine del mondo. Cosí dunque Iddio diventa causa finale delle creature, ma non causa finale a se stesso, che non ha causa di sorta. Pure è buono a se stesso, ed è buono alle creature, perché è il bene per essenza. Laonde, come abbiamo distinto i due concetti di principio e di causa , e gli altri due che ad essi corrispondono, di termine e di fine ; cosí dobbiamo pure distinguere il bene come bene , che è sempre termine della volontà ma non è fine, e il bene come fine . Iddio è bene a se stesso come termine , non come fine ; ma questo termine che è il bene, è bene alle creature come loro fine . Iddio dunque non poteva creare il mondo come fine del suo atto creativo; perché, se il mondo stesso fosse fine di Dio operante, avendo sempre il fine ragione di bene, il mondo sarebbe stato per Dio un bene, e in tal caso Iddio avrebbe avuto per suo bene qualche cosa fuori di sé, e cosí non sarebbe stato piú perfettissimo e sufficiente a se stesso. Se dunque in Dio stesso doveva essere il fine pel quale Iddio creava il mondo, rimane a vedere come ciò potesse essere, e che cosa potesse in Dio aver ragione di fine, rispetto a questa sua operazione creativa. Ora, in quanto il mondo esiste fuori della divina essenza per l' esistenza sua relativa, non può essere nessuna perfezione di Dio, né costituisce parte alcuna della natura divina. Ma noi vedemmo però, che oltre l' esistenza relativa il mondo ha un' esistenza assoluta in Dio stesso, cioè nell' essenza divina. Anzi propriamente il mondo non è la propria essenza , e però la propria essenza non è lui; ma egli altro non è che la realizzazione della propria essenza , la quale appartiene al mondo in Dio; poiché l' essenza del mondo è l' essere limitato dalla mente divina, e il mondo non è il proprio essere. Tutto questo giova non a spiegare il fine che Iddio potesse avere nella creazione del mondo, ma a farne sentire maggiormente la difficoltà di stabilirlo. Poiché se il mondo nella sua esistenza propria relativa non è la propria essenza, il proprio essere il quale è in Dio, pare doversi inferire che non solo il mondo in se stesso esistente, ma né pure il mondo nella sua essenza in Dio, non potesse esser fine di Dio nella creazione, e che Iddio cosí non potesse avere nessuna ragione o cagione finale di creare il mondo. E veramente il mondo in se stesso non ha alcun valore per Iddio operante. Come dunque o perché potrà muoversi a crearlo; a dargli l' essere, quell' essere che è in lui e che è una sua attualità volitiva? Conviene dire, che non avendo il mondo alcun valore in se stesso in modo da poter divenire fine del divino operatore, è necessario che quest' operatore dia al mondo stesso un fine o un termine fuori di esso mondo, dal quale gli venga quel valore che non ha per se stesso in se stesso. Ora, a niun fine o termine che sia fuori del mondo può essere ordinato il mondo, se non a Dio stesso: sí perché fuori dell' universo non c' è altro che Dio, e sí perché Dio solo può avere un prezzo assoluto degno d' essere una causa o ragion finale atta a movere Iddio ad operare. Resta adunque solo a dimostrare, come Iddio possa rendersi fine o termine del mondo: il che dimostrato, s' avrà nel mondo, nobilitato da questo suo fine o termine, un oggetto che potrà acquistare la ragione di fine per Dio stesso (1). Il mondo è un complesso di varŒ enti gli uni concatenati e inservienti agli altri, tra tutti i quali tengono la sommità gli intelligenti. Queste creature poi intelligenti, possono conoscere Iddio, e riconoscerlo per quello che è, colla lode, coll' adorazione, coll' amore, e possono altresí fruirlo. Possono dunque unirsi con Dio, qualora Iddio a sé le unisca; e unite con Dio individualmente, avere Dio stesso in sé. A questa condizione e stato nobilitate, per la partecipazione di Dio, acquistano un cotal valore infinito; onde smettono in qualche modo il difetto che loro viene dalla naturale limitazione. Essendo dunque Iddio per sé comunicabile, può esistere e dimorare nella sua creatura, come fine e termine di questa. Ora amando Iddio se stesso infinitamente per la propria essenza e costituzione, è conseguente che s' ami anche dimorante nella creatura come fine di questa. Cosí Iddio può amare la sua creatura non per se stessa e in se stessa, ma pel fine a cui è ordinata e che ottiene, che è quello di esser deificata, cioè fatta partecipe della stessa divinità. Poiché dunque il mondo è distinto dal suo fine, il quale è un altro, cioè l' infinità di Dio stesso partecipabile dal mondo, perciò esso poté avere una causa finale , e non solo un termine. Da questo si vede che il mondo, preso a sparte dal suo fine, nella sua pura natura ha relativamente alla causa intellettiva, che lo fa esistere, ragione di mezzo . Ma il mondo in verso a se stesso ha ragione di subietto della perfezione finale. Poiché è cosí ordinato al fine, che, raggiuntolo, viene dal fine stesso informato come da una sua perfezione sopraggiunta, e allora, per questa sua forma, partecipa egli stesso il concetto di fine relativamente alla sua causa intellettiva, il che è quanto dire è amato da Dio. Perocché ci hanno due generi di mezzi. Ci hanno de' mezzi che non sono altro che mezzi ordinati a servigio di qualche altro ente da essi diverso; e questi non diventano mai fini , ma tutto il loro valore sta unicamente nella ordinazione a quel fine a loro straniero. Ci hanno de' mezzi, che, essendo tali nella mente di chi li produce, sono ordinati ad un fine che è di natura diversa dalla loro (che se fosse della stessa natura avrebbe ragion di termine e non di fine, come avvien nelle forme naturali subiettive), e che tuttavia costituisce la loro stessa subiettiva perfezione. Tali sono nell' universo le nature intelligenti; e questa è la ragione ontologica di ciò che s' insegna nell' Etica, che le persone hanno condizione di fine , quando le nature prive d' intelligenza altra condizione non hanno che quella di mezzo «( PrincipŒ della scienza morale , C. III, 9; IV, .) ». Di che procede, che una persona priva del suo fine , e divenuta affatto incapace di piú acquistarlo, non ha piú valore, e si trova degradata alla condizione di puro mezzo «( Teod. , 965, 9.2, 9.3) ». La perfezione morale dunque della natura umana è la causa finale della creazione: e questa natura umana, presa da sé, e insieme con essa tutte le nature prive d' intelligenza che compongono il Mondo, sono altrettanti mezzi e condizioni dell' ottenimento di quel fine. In Dio s' unificano i due significati di fine , perché quella causa che deve essere, quella anche necessariamente è causa finale del suo operare, nel modo detto, che riassumeremo cosí. Iddio ama infinitamente se stesso; si ama dunque in tutti i modi in cui può essere: ma può essere da se stesso, e può essere come fine partecipato dalle creature: si ama dunque partecipato dalle creature, ama se stesso nelle creature. Egli dunque crea gli enti finiti perché, potendo essi partecipare di Dio, possono cosí in sé avere oggetto degno del divino amore e della divina eterna azione, il qual oggetto è Dio stesso. Questa è dunque la causa finale per la quale Iddio crea il mondo, e il mondo è condizione e mezzo; quando poi ha ottenuto quel fine come sua forma, diventa egli stesso, per questa forma divina, fine al divino operare. Distinguasi dunque il fine della creazione formalmente considerato , e il fine concreto della medesima. Il fine formale è Dio nella creatura, il fine concreto è la creatura unita in modo da formare uno con Dio. Il fine poi è voluto immediatamente, e pel fine sono voluti i mezzi. Essendo dunque tutte le cose fatte per un fine unico da una prima Causa che è un Intelletto , consegue che tutto sia ordinato, tutto fatto con sapienza: che tutte l' altre cose, le loro quantità, le loro forme e modi, i loro nessi reciproci, i loro atti e movimenti, abbiano la loro ragione, e niente ci sia o avvenga di casuale o d' inutile. Riconosciuta la verità di questo principio, sarà conveniente e possibile che ciascuno, il filosofo principalmente, s' adoperi a conoscere non solo il fine ultimo del mondo, ma ancora i fini subordinati sí de' singoli enti e loro parti, e sí dell' ordine della loro coesistenza. Ma si dirà forse esser questo impossibile, sia perché i detti fini subordinati sono innumerevoli, sia perché le nature dell' universo conoscendosi dall' uomo imperfettamente, non si può ben definire a quali fini immediati o mediati possano essere diretti dalla mente altissima di chi le creò. Rispondiamo che questa obiezione prova solamente che l' uomo non può discoprire tutti e pienamente i finiti immediati e mediati degli enti mondiali, e delle loro leggi e azioni, ma non prova punto che non ne possa rilevare alcuni. Appunto perché tutto ciò che è nel mondo è opera d' un Intelletto perfettissimo, niente c' è od avviene d' inutile e senza ragione finale. Se dunque si domanda quali sono i fini subordinati degli enti mondiali e delle loro parti, si può rispondere: 1) Che ciascuno ha per fine prossimo nell' intenzione divina la propria natural perfezione. 2) Che tutti gli usi a cui servono reciprocamente, cioè tutto ciò che ciascuno colla sua azione contribuisce alla perfezione degli altri, sono altrettanti fini della loro costituzione ed azione. Potendosi dunque da noi conoscere, almeno in parte, quale sia la naturale perfezione di ciascun ente, e molti degli usi a cui servono, ed essendo tanto quella come questi altrettante ragioni finali de' medesimi, molti di questi fini subordinati possiamo conoscere, benché non tutti (1). Ma questa perfezione naturale di ciascun ente, e questi usi di reciproco vantaggio non s' ottengono sempre. Questi dunque sono fini ideali ; ma quando e quanto di fatto s' ottengono, sono fini voluti e reali del divino Intelletto che n' è la causa. Il non realizzarsi di alcuni tra quelli si concepisce come un' eccezione. Il realizzarsi degli altri è ciò che conduce la nostra mente a conoscere i fini ideali . L' eccezione poi conduce la nostra mente a indagare fini ulteriori, perché anche queste eccezioni devono avere il loro fine; e questo non consistendo nel fine prossimo, resta che un fine piú grande, ed un bene o piú universale, o piú magnifico e prezioso in se stesso, stia nell' intenzione e nella volontà del primo Intelletto. Rimane dunque a concludersi, che « il fine ideale di ogni parte del mondo è tutto ciò che ciascuna parte può produrre od ottenere di bene », e che il fine reale e voluto è « tutto ciò che di bene s' ottiene, per mezzo di tutto ciò che esiste e di tutte le operazioni di ciò che esiste », e che la mancanza stessa di ogni bene parziale, è un mezzo ad un fine di bene ulteriore, piú universale, o piú cospicuo, e certamente poi al fine ultimo che non può non ottenersi, per l' onnipotenza della prima Causa. A' fisici materiali, che condannano lo studio delle cause finali, come impossibile, inutile o nocivo all' avanzamento delle scienze fisiche, si risponde «( Logic. , 95. sgg.) »: 1) Non essere impossibile; e l' abbiamo veduto fin ora: quello che può dirsi impossibile è solo il conoscere tutti i fini subordinati : se ne possono conoscere ognor piú e meglio, quanto piú se ne continui lo studio, come in ogni altra materia scientifica. 2) Non essere inutile; e apparisce da questo che non sono le sole cognizioni fisiche che cerchi ed ami l' uomo: lo studio delle cause finali appartiene principalmente ad una scienza libera , come la chiama Aristotele, che s' ama per sé, e non perché serva alle altre, nel che ella è di gran lunga superiore alle fisiche vicende. A cui s' aggiunge, esser falso che lo studio delle cause finali subordinate in nulla possa giovare all' avanzamento della fisica: i sommi fisici, il cui pensiero non si chiuse entro la cerchia della fisica, hanno giudicato il contrario. 3) Non essere nocivo, appunto perché utile. Ogni cosa buona si fa nociva per abuso, o per errore. Due sono gli errori principali ed opposti intorno alle cause finali. L' uno è di quelli che le negano, attribuendo tutto al caso. L' altro è di quelli che, vedendo i vestigŒ d' intelligenza sparsi nell' universo, danno l' intelligenza a quelle cose che non l' hanno, quasi tutte operassero per un fine; di cui un esempio ci presenta la storia della filosofia moderna negli Sthaliani, i quali pretesero che l' animalità operasse con intelligenza «( Psicol. , 391 sgg.) ». Né tampoco favellò con chiarezza Aristotele sopra ciò, quando, confondendo il concetto di termine col concetto di fine , disse che la natura opera per un fine (1), e che la forma è il fine a cui tende. Poiché la forma in quant' è conseguita dagli enti non è altro che il termine reale della loro forza entica; in quanto poi è nella mente che li crea e move, in tanto è fine o causa intenzionale. Ma la forma stessa è parola di piú sensi. Poiché significando essa atto, non solo ciascun ente ha il suo atto costitutivo, ma tutta la serie e l' ordine loro complessivo, e ogni loro gruppo ha un fine nella divina mente, che ottenuto, cioè realizzato in que' gruppi, o complessi, può dirsi forma , o atto. Ma l' ultimo atto o forma eccede la natura, perché consiste nell' unione coll' ente infinito, che è un altro e diverso da ogni forma naturale. La causa dunque è necessariamente ad un tempo efficiente, esemplare, e finale; e se uno solo di questi suoi modi mancasse, non sarebbe causa, ma solo potrebbe essere un elemento astratto della causa. Questi tre modi, sebbene devano coesistere, acciocché ci sia la causa, hanno un ordine tra loro. Ora, l' ordine col quale si costituisce la causa ne' suoi tre modi, se per via d' astrazione analogica si paragoni all' ordine col quale si costituisce l' ente infinito ne' suoi tre modi, si trova che è inverso a quest' ultimo. Poiché nell' ordine dell' essere infinito si concepisce da noi, o certo si nomina, prima il Principio o il Padre, a cui per analogia si riferisce la causa efficiente, e di poi il suo primo termine ossia il Verbo, a cui per analogia si riferisce la causa esemplare, e di poi il secondo termine ossia lo Spirito Santo, a cui per analogia si riferisce la causa finale ossia il fine. Ma l' ordine che si ravvisa nell' interna costituzione della causa è il contrario, concedendosi prima il fine, poi l' esemplare, poi l' efficiente. Il qual ordine però dee meglio considerarsi, per ben intendere come sia. Se un ente intellettivo non avesse un termine datogli precedentemente dalla sua propria natura, sarebbe impossibile ch' egli mai si proponesse un fine. Esaminiamo il fatto nell' uomo. Perché mai l' uomo si propone de' fini nel suo operare? La ragione si è, perché egli ha una naturale tendenza verso il bene in universale. Il bene in universale è il termine naturale dell' umanità, ed anzi d' ogni ente intellettivo. Acciocché dunque esista in atto la causa finale, cioè acciocché un subietto intelligente si possa proporre un fine, dee esserci prima il bene del detto subietto come suo termine posseduto, o almeno la tendenza al bene come suo termine possedibile. Dal termine amativo dunque sorge la causa, cominciando ad essere un fine che si propone il subietto intellettivo. Ma il bene , termine naturale delle nature intellettive, è un relativo, che può essere in modo assoluto ed essere in modo relativo . Il bene che è in modo assoluto è il bene terminativo e perfettivo dell' essere stesso. Il bene che è in modo relativo è ciò che è appetito da un subietto particolare. Il bene che è tale in modo assoluto, si pensa di natura sua assolutamente, ossia obiettivamente, cioè senza riferirlo ad un subietto particolare; ma il bene che è tale in modo relativo, non si può pensare senza riferirlo al subietto particolare che l' appetisce. Nella creatura questi due modi di bene si distinguono, e costituiscono quello che si dice il bene soggettivo , e il bene oggettivo «( PrincipŒ della scienza morale , C. 4) ». Ma nell' Essere infinito non si distinguono, perché egli stesso è l' Essere, e il bene in modo assoluto è la forma ultima e personale che lo perfeziona, ed è egli stesso, ond' egli stesso è bene assolutamente e essenzialmente, bene a tutti i subietti capaci di appetirlo. Ma amare il bene obiettivo è amare ciò che è bene a tutti gli enti che ne sono capaci. Quindi il naturale istinto della bontà divina di comunicarsi. Cosí viene spiegata la possibilità che Iddio si determinasse alla creazione, senza esservi obbligato dalla necessità di costituire se stesso in modo completo, ma posteriormente a quella perfetta costituzione. La causa finale dunque, cioè quel modo di causa che si dice fine, e che altro non è in Dio, se non il proposito di rendere se stesso (bene essenziale e assoluto) fine di enti finiti intelligenti, è la prima attualità che si può pensare in Dio nel processo dell' atto creativo. Propostosi questo fine, l' eterna intelligenza doveva concepire l' ente finito, nel quale un tal fine si realizzasse. E questa seconda operazione è l' eterna tipificazione, ossia la formazione dell' esemplare del Mondo. In questa maniera, alla causa finale nella divina volontà (terza forma personale) s' aggiunge la causa esemplare nella divina mente, ossia nell' assoluto obietto (seconda forma personale). Concepito l' Esemplare di tutto il creato, altro non rimaneva che coll' energia dell' eterna volontà dell' essere produrne la realizzazione; il qual atto energico è quello che si chiama causa efficiente , e sorge nel principio della prima intellezione (prima forma personale dell' essere divino). Il qual processo dell' attuazione in Dio delle tre cause del mondo non ammette successione di tempo, né trinità di atti, poiché tutto si fa con un atto eterno, e solo la mente astraente produce in esso tali distinzioni. Del pari, quest' atto unico appartenendo all' essenza divina, è comune alle tre divine persone, ciascuna delle quali lo ha identico nel suo proprio modo di essere; ma, appunto a cagione di questo altro e altro modo, s' appropria al Padre la causa efficiente, e al Figliuolo l' esemplare, e allo Spirito Santo il fine, come abbiamo altrove spiegato. L' ordine logico dunque dell' atto creativo è inverso a quello che esiste nella costituzione dell' essere divino; di maniera che tutta la catena dell' essere infinito e finito si compone logicamente di questi sei anelli l' uno all' altro attenentisi: 1) Principio; 2) Verbo; 3) Spirito Santo; 4) Causa finale; 5) Esemplare; 6) Efficiente. I quali sei anelli d' oro esprimono l' ordine della causa. Ma la catena si continua per altri sei anelli, se noi consideriamo il causato nella sua piena costituzione; sempre però con questa legge, che « ad ogni tre anelli seguono tre altri che procedono con un ordine inverso ». Laonde, se noi vogliamo aver presenti tutti gli anelli di questa catena delle azioni entiche, ecco i dodici anelli ond' ella si compone e continua: 1) Principio; 2) Verbo; 3) Spirito Santo; 4) Causa finale; 5) Causa esemplare; 6) Causa efficiente; 7) Reale finito; .) Forma intelligibile; 9) Appetito finale; 10) Operazione dello Spirito Santo, per la quale s' incarna; 11) il Verbo, che rivela; 12) il Padre. Vedasi in questa Tavola: i tre primi anelli dimostrare l' eterna costituzione dell' Ente infinito; i tre secondi l' eterna costituzione della Causa; gli altri tre la costituzione del Causato, cioè dell' ente finito; i tre ultimi la sublimazione del Causato, o ente finito, nell' Infinito, ossia l' ordine soprannaturale inserto nel creato, con che il creato è compiuto secondo l' eterno prestabilito disegno. Vedesi ancora che ognuna di queste quattro triadi tiene successivamente un ordine inverso a quello della precedente. Questi dodici anelli dunque si attengono e si continuano tra loro, e dimostrano una continuità di vita e di azione in tutto l' essere, in qualunque modo egli sia, nell' università del tutto. Questa dunque è la catena d' oro, che avvolge e stringe il tutto, e che noi chiamiamo catena ontologica; dalla dottrina della quale si vede, come le diversità e le opposizioni stesse, che distinguono le entità e moltiplicano gli enti, non impediscano punto che ci sia in tutto una continuità d' azioni, e quasi un trascorrimento non interrotto dell' essere dal principio alla fine di tutte le cose. Cosí conciliasi la grande antinomia tra l' unità dell' essere, e la moltiplicità de' relativi e degli enti stessi, e si completa quella dottrina che ha solo il suo principio nel sistema dell' unità dialettica. Poiché nella catena ontologica non si vede solo l' unità dialettica, ma una unità d' azione reale altresí. E quest' azione unica non toglie, anzi produce la diversità e la moltiplicità degli enti. Poiché l' identità dell' ente non dipende dall' identità dell' azione entica e creativa che si ravvisa nella catena, ma è relativa ai subietti . Ma acciocché meglio si veda il modo, per quanto è possibile, di questo continuamento d' azione, conviene considerare che cosa influisca la Causa eterna nel causato. Questo è quanto ricercare: « Che cosa la causa influisca nell' effetto ». Avendo noi veduto: 1) che la Causa prima opera per via d' intelletto astraente; 2) che tali astratti, come contenenti, cioè come idee, sono d' una forma categorica diversa dal subietto infinito da cui sono presi per opera della mente, e come contenuto, cioè come essenze, sono diverse dallo stesso subietto infinito per quell' opposizione massima che abbiamo detto trascendente; 3) che ciò che le rende diverse è appunto l' averle staccate col pensiero dal subietto infinito; 4) che tali astratti, quando vengano dalla mente stessa determinati in modo che non resti piú in essi da nessun lato nulla d' indeterminato, possono essere realizzati; 5) che appartiene ad un intelletto perfetto e infinito la virtú di realizzarli, volendo; 6) che l' intelletto divino non può essere che perfetto, e oltracciò essendo un tale intelletto l' essere stesso, il suo atto e il suo termine altro non può essere che attualità di essere subiettivo, onde il conoscerli a pieno in sé esistenti è realizzarli, realizzarli è un dar loro l' atto dell' essere subiettivo, ossia un crearli: avendo noi, dico, veduto la verità di tutte queste proposizioni logicamente necessarie e connesse tra loro, possiamo ora dedurre le seguenti conseguenze che risolvono la questione proposta: 1) La natura creata non partecipa niuna porzione della sostanza di Dio stesso; ma è una natura totalmente diversa da quella di Dio. 2) La natura creata ha un ordine di derivazione dalla natura di Dio, per mezzo del divino intelletto che la crea. 3) La natura creata partecipa di quelle essenze che sono cavate per un' astrazione divina dalla natura subiettiva di Dio, poiché essa è la loro realizzazione. 4) Quando si dice che la natura creata partecipa delle qualità e delle perfezioni di Dio, si deve intendere non d' una partecipazione immediata, ma d' una partecipazione mediana, cioè mediante le essenze astratte che furono create per opera della mente divina dalla natura subiettiva di Dio. Le quali essenze tuttavia partecipano di Dio non nel senso di vera partecipazione; perché esse sono, in se stesse, in tutto diverse dalla divina natura, nella quale esiste in loro vece un' essenza sola, che, in quanto è oggetto della mente, dà alla mente soltanto la miniera, per cosí dire, da cui ella può cavarle per astrazione, senza che l' essenza unica soffra cosa alcuna da quest' operazione puramente mentale. E tale perciò è la partecipazione mediata che s' attribuisce alla natura creata delle qualità e perfezioni di Dio; partecipazione che altro non significa, che un ordine di derivazione. 5) Dicendo similitudine e comunità astratta , altro non intendo se non questo: che quello stesso astratto che determinato che sia è realizzato, è quello che è stato tolto dalla natura subiettiva di Dio per opera della mente. Di che avviene che l' astratto tipico , o idea, si presenti alla considerazione della mente, come un termine medio tra la natura creata subiettivamente esistente e la natura subiettiva di Dio. Con questo la mente concepisce come una proporzione tra la natura creata, e Dio, della quale proporzione il detto astratto forma il termine medio: e questo è ciò che costituisce quello che si chiama grecamente analogia , o come alcuni dicono, similitudine d' analogia tra la creatura e il Creatore. 6) Ma poiché l' astratto tipico è contenente e contenuto, e in quanto è contenuto dicesi essenza ed ha forma subiettiva (non però da sé sussistente, ma contenuta), in quanto poi è contenente e dicesi idea è obietto; perciò rimane a cercare il rapporto tra la natura creata, e l' astratto tipico come obietto. Or questo rapporto è di opposizione categorica, poiché la natura creata non appartiene che alla forma subiettiva, e però ha un' opposizione massima coll' obietto. Niente dunque vieta, che l' astratto tipico nella sua forma d' obietto contenente sia un' attualità divina, e però sia l' Esemplare del mondo, contenente il mondo subiettivo. Ma attentamente si badi: il Mondo cosí considerato non è il mondo sussistente in sé fuori d' ogni contenente, ma è il Mondo sussistente nel contenente: non è dunque il mondo che noi esperimentiamo, non siamo noi stessi questo mondo, né sono gli agenti che operano nel nostro sentimento, perché tutto ciò è fuori del contenente, ed è tale in quant' è fuori dell' oggetto. Per non aver conosciuto ciò e non aver fatte queste distinzioni, è avvenuto che la questione del Panteismo sia divenuta cosí difficile a snodarsi, non vedendosi come si potessero conciliare queste due proposizioni: « il Mondo è in Dio », e « il mondo non è Dio ». Poiché quando si dice: « Il mondo non è Dio », si parla del mondo nella sua esistenza propria e relativa a se stesso, e cosí è verissimo; quando si dice: « Il Mondo è in Dio »si parla del Mondo contenuto nell' oggetto eterno. Questi due modi d' esistere del Mondo non hanno tra loro alcuna similitudine, ma solo un rapporto d' origine, e un' analogia, hanno un essere totalmente diverso, e un' opposizione massima; e però anche la seconda sentenza è verissima, né punto contraddittoria alla prima. Abbiamo fin qui esaminato, se la natura dell' ente finito sia influita in esso dalla prima Causa per via d' emanazione di sostanza; e abbiamo risposto negativamente, facendo vedere che l' ente finito nulla partecipa della sostanza infinita, ma partecipa di ciò che si contiene nell' essenze finite astratte dal divino intelletto dell' Essere subiettivo infinito. Ora ci rimane a vedere, se la prima Causa creando le nature finite, col dare loro l' atto dell' essere subiettivo, pel quale esistano in se stesse, dia loro qualche cosa di se stesso, cioè del proprio essere subiettivo. Tante volte abbiam detto che « l' ente finito non è il proprio essere ». In questa proposizione, colla parola essere può intendersi la propria essenza , ovvero l' atto dell' essere subiettivo che realizza quell' essenza. Ella è vera nell' uno, e nell' altro significato. L' essere infatti è comune a tutte le essenze, ed è comune del pari a tutti gli enti finiti realizzati. Questi due significati della parola essere, cioè l' essere delle essenze e l' essere de' reali finiti, hanno il loro fondamento nelle due prime forme dell' essere, l' obiettiva, e la subiettiva. Poiché l' essenza è contenuta nell' essere obiettivo, i reali finiti all' incontro esistono per un atto d' essere relativo a sé puramente subiettivo. Che cosa è dunque quest' essere? appartiene esso alla natura divina? Ora, che cos' è l' essere subiettivo de' reali finiti? Di nuovo, ove se ne consideri l' origine, esso è quell' atto della mente divina, appartenente alla facoltà del Verbo, con cui pronuncia che sia in sé ciò che intuisce nell' essenza tipica. Nella coscienza di Dio l' atto creativo non è cosa distinta da Dio stesso, poiché Dio è consapevole di creare, e quest' atto creativo è sua propria attualità indivisa da se stesso essere assoluto. Nella coscienza della creatura quest' atto apparisce come l' atto con cui essa creatura esiste, perché ha coscienza d' esistere: ma quest' atto del suo esistere non è altro, è separato interamente da Dio, perché Iddio che lo fa si rimane nascosto: è solamente il termine, o l' estrema punta, per cosí dire, dell' atto, poiché la creatura è appunto termine per rispetto all' atto creativo. La creatura nello stesso tempo è consapevole di non esser ella stessa l' atto nel quale esiste, ma d' esser quella che è fatta esistere per quell' atto, ond' ella sente di avere una relazione necessaria a quell' atto come a un suo altro, e quindi si chiama un ente relativo perché esiste per una tale relazione che ha coll' essere. E di conseguente ancora, quell' atto dell' essere le apparisce relativo a lei, come quello che non fa altro che farla esistere nella sua propria natura, la qual natura varia e costituisce le diverse e differenti creature. Ma il relativo, e l' assoluto non solo sono diversi, ma hanno un' opposizione massima e trascendente. Onde, tanto è lungi che l' atto creativo, che è Dio stesso Essere assoluto, sia il medesimo coll' essere che è partecipato dall' ente finito, che anzi questo si diparte dall' identità con quello, d' una distanza massima. Siccome dunque noi prima abbiamo detto che la limitazione ontologica cangia un ente in un altro, un essere in un altro, cosí l' essere che attua le nature finite, a queste congiunto, essendo reciso da Dio per rispetto a queste, non può menomamente confondersi coll' atto creativo, o coll' attualità stessa di Dio, o con Dio stesso: le quali tre maniere dicono in fine lo stesso. L' ente finito dunque partecipa di quell' essenza dell' essere, che s' intuisce nell' essere astratto, e non della sostanza dell' essere sussistente. Ma l' essere di cui partecipa l' ente finito ha un ordine d' origine coll' essere sussistente, perché da questo è tratto per opera della mente astraente di Dio creatore. Né l' uno, né l' altro dunque, de' due elementi, di cui si compone l' ente finito, cioè la sua natura e l' essere subiettivo , è una partecipazione immediata delle qualità, e perfezioni in Dio sussistenti, ma mediata, cioè per mezzo degli astratti di queste qualità e perfezioni. Tuttavia si frappone una differenza tra la partecipazione della natura, e la partecipazione dell' essere. La natura è partecipazione di tutto ciò che si contiene nell' astratto tipico ; e la sola forma categorica è diversa, essendo la natura dell' astratto in forma obiettiva, e nel reale in forma subiettiva. L' essere subiettivo non è partecipazione di tutto ciò che si contiene nell' astratto essere, poiché vi si contiene l' essenza pura dell' essere, la quale è illimitata; ma partecipa tanto dell' essere, quanto n' è suscettiva, e questo quanto è pari alla limitazione della natura che viene attuata. Che poi l' essere astratto senza dividersi in se stesso, possa essere partecipato parzialmente dalle molte nature finite, nasce da quello che abbiam detto, che la detta partecipazione non è identificazione; ella invece è congiunzione di presenza, rimanendo l' essere sempre un altro dalla natura che lo partecipa, onde egli non si predica delle nature col copulativo è, ma soltanto col copulativo ha, come dicendosi: « quest' uomo ha l' essere ». Nella teoria che abbiamo data dell' origine che han gli enti finiti dalla loro causa, si trova altresí la ragione ontologica dell' attività e passività che si ravvisa nell' ente finito, di quella legge di sintesismo di cui abbiam fatto grand' uso nella Psicologia, e dello stivamento delle stesse nature finite, che, come abbiam detto, sono appoggiate e quasi addossate l' una all' altra, e insieme stipate nell' universo. Il proprio e immediato subietto della limitazione è la sola essenza che ha natura di termine; il principio nell' ente non è limitato come tale, ma riceve appunto la limitazione per questo che finisce il suo atto in un termine limitato o determinato quantitativamente. La limitazione dunque determina il termine, e il termine limitato limita ad un tempo e determina il principio. Se pertanto si tratta de' due principŒ, l' intellettivo e il sensitivo, separati per virtú della mente astraente da' loro termini, il problema della loro determinazione ha queste principali condizioni: 1) che sia loro dato un termine determinato; 2) che questo termine determinato non abbia l' essere identico col principio a cui si congiunge. Sorge indi da sé la domanda: che cosa sia questa congiunzione , che tiene separate di natura quelle entità, cioè il principio ed il termine, in modo che la mente può pensarle come enti diversi. E la risposta si è: che la natura di quella congiunzione e separazione consiste nelle opposizioni di attività e di passività , di dazione e di ricevimento , ossia di presenzialità e di ciò a cui l' altro è presente. Questa è l' origine ontologica di tali opposizioni, che solo nell' essere finito possono aver luogo. Perché l' opposizione di dante e di ricevente nell' infinito appartiene alle opposizioni originarie , e a quelle d' alterità modale , passando ella tra le forme personali; laddove l' opposizione di dante e di ricevente nel finito, o piuttosto di presenzialità, appartiene all' opposizione categorica ad un tempo e trascendente , tra il subietto finito (forma categorica) e l' obietto ideale (essere). Ma qual' è, si domanderà, la differenza tra l' atto di ricevere semplicemente, e l' atto d' agire? - Non deve intendersi certamente, che l' atto di ricevere sia un non7atto, una cosa senz' azione, come in un senso traslato si dice che una cosa morta, per esempio un vaso, riceve in sé un' altra cosa morta, un liquore. Trattasi di vero atto del principio ricevente, atto che nel caso nostro diciamo intuizione. Per atto di ricevere intendiamo dunque quell' atto, con cui un principio attua se stesso in relazione al suo termine, ma non passa nel termine stesso. L' effetto quindi, che l' atto del ricevere lascia nel principio che lo fa, è una sua propria attualità, per la quale egli ha posto se stesso in relazione al termine, è l' attualità del principio ultimata e determinata. Quando invece il termine dato non differisce di forma categorica dal principio che lo riceve, allora questo, coll' atto di riceverlo e di porlo come correlativo a sé medesimo, agisce sul termine stesso e lo modifica, gli dà con ciò una nuova attualità. L' essere oggetto, per divenire correlativo d' un principio intellettivo finito, non ha bisogno di ricevere alcuna nuova attualità o modificazione, perché è per sé assolutamente un correlativo al subiettivo; non fa dunque bisogno di renderlo tale. La cosa non va cosí quando la natura del termine sia la realità pura subiettiva, che è il termine proprio d' un principio che sia puramente sensitivo, poiché il subiettivo non è per sé correlativo al subiettivo. Allora dunque questo principio subiettivo dee, ricevendo il termine, pure appartenente alla forma subiettiva, operare su di esso, per dargli quell' attualità che gli manca, acciocché possa divenire un suo correlativo. Riassumendo noi dunque, altro è creare altro è ricevere , e altro è agire . Creare è un atto della Prima Causa Intelletto perfettissimo, che nel modo detto pensa per astrazione le idee tipiche degli enti finiti, e realizza le essenze contenute in esse, realizzazione che segue di necessità all' atto volontario pel quale l' eterno intelletto vuole liberamente conoscerli. Non c' è in questa divina operazione un subietto in sé esistente che riceva, ma c' è solo un subietto nell' idea, che riceve la realizzazione, e in quanto il subietto della realizzazione è nell' idea divina, in tanto esso e la sua realizzazione è in Dio: il reale poi di quell' essenza, in quanto esiste solo rispetto a sé e subiettivamente, in tanto è l' ente finito in sé esistente. Il ricevere , e l' agire sono atti dell' ente finito. Come nel tipo eterno di questo ente ci ha necessariamente la composizione di principio e di termine distinti di natura, essendo questa composizione la condizion necessaria dell' ente finito, cosí tale composizione è anch' essa realizzata nell' ente reale. Questo ente reale non appartiene che alla forma subiettiva , non è essere, non è forma obiettiva, né forma morale. Nell' ente subiettivo si distingue dunque il principio ed il termine a guisa di nature separate. Il termine può tanto appartenere alla forma obiettiva dell' essere, quanto alla forma subiettiva. Se il principio subiettivo reale ha per suo termine l' essere nella forma obiettiva, egli è con ciò costituito subietto intelligente: la sua natura non si confonde mai colla natura di questo suo termine obietto, ma egli ha con ciò una comunicazione subiettiva colle cose eterne, e divine. Egli però nulla agisce su questo termine, ma non fa che riceverlo . Se poi il termine dato al principio subiettivo appartiene anch' egli alla forma subiettiva, in tal caso 1) lo riceve , e 2) nell' atto stesso del riceverlo agisce su di lui, e agendo lo modifica, lo attua in modo che egli possa essere termine conveniente. Quest' unione dunque del principio e del termine non si fa solo con un atto di ricevimento , ma con un atto altresí d' azione sul termine . Se or noi riassumiamo, dovremo dir cosí: 1) Il concetto di azione, e di passione nasce dalla relazione che passa tra il principio, e un termine di natura diversa dal principio. 2) Quella maniera d' azione che consiste nel solo ricevere ha luogo quando la natura del termine è tale, ch' essa è per sé termine , e non ha bisogno d' altro che d' essere ricevuta, acciocché sia termine. Tale è l' essere obiettivo che informa il principio intellettivo. Questa maniera d' azione che riguarda l' essere obiettivo, sia intuizione o altra operazione intellettiva, è bensí causata dalla presenza del termine, tale per essenza, ma non passa nel termine, finendo nel subietto: onde noi la chiamiamo azione intransitiva . 3) Quella maniera d' azione che è ad un tempo ricevere e azione modificatrice è un' azione del principio, il quale non solo riceve il termine, ma per potere pienamente riceverlo e in sé congiungerlo, il modifica . Quest' azione ha luogo quando la natura del termine, diversa da quella del principio, non è termine per se stessa, ma deve esser fatta termine dal principio stesso, mediante una modificazione ch' egli le imprime. Da quest' analisi risultano diversi modi d' azione e di passione: a ) Nel termine corporeo due elementi si manifestano: 1) forza, ossia causa di moto; 2) estensione «( Ideol. , 750 7 753, .71, 1207 n. ) ». La forza non ha propriamente natura di puro termine, perché è attività, e ogni attività è propria de' principŒ. Questa forza, che si manifesta nel corpo, non appalesa il principio subietto al quale possa appartenere; ma pur questo, che rimane nascosto, ci deve essere, e noi l' abbiamo chiamato principio corporeo «( Ideol. , ..5) », mentre la forza quale apparisce ne' corpi fu da noi chiamata attività finale , che è quella in cui finisce l' azione d' un principio senza uscire da se stesso. L' attività finale dunque che è ne' corpi, e che trae l' origine da un principio corporeo come da un suo subietto nascosto, s' unisce col principio sensitivo, per un atto di questo che se l' appropria e la rende a se stesso termine, cioè sensibile «( Psicol. , 291 sgg.) ». Nell' esser data quell' attività finale che è ne' corpi al principio sensitivo come sua continuazione, e nell' atto dello stesso principio che se l' appropria rendendolo suo sentito, consiste l' unione dell' anima sensitiva e del corpo, ed è la costituzione dell' ente animato . E qui si osservi attentamente che ciò che il principio sensitivo fa in rispetto alla detta attività finale, è di renderla suo sentito , onde il sentito si distingue dalla detta attività come un fenomeno sensibile sopraggiunto alla medesima. A questo fenomeno, che ha ragione di puro termine, appartiene l' estensione . Questa è l' azione entica e costitutiva del principio sensitivo corporeo, la quale, essendo determinata dall' atto creativo, non può mai, per alcuna forza finita, interamente annullarsi «( Psicol. , 663 sgg.) ». b ) Il principio sensitivo dunque, già costituitosi ente nel suo termine coll' aversi unita ed appropriata l' attività finale, può produrre, dentro certi limiti, il movimento tanto nel proprio corpo, quanto ne' corpi esterni connessi col suo, come abbiamo dichiarato nella « Psicologia (2.. sgg., 1.13 sgg.) ». Questa sarà da noi detta in generale azione motrice dell' animale che si distingue dall' azione entica dell' animale, da cui però trae la sua origine. c ) In queste due maniere d' azione del principio sensitivo comincia ad apparire la passività . Poiché nell' una e nell' altra il termine viene modificato dal principio: nella prima maniera venendo reso sensibile e vestito d' estensione, nella seconda venendo esso mosso, e cosí modificato non in se stesso, ma nella sua relazione collo spazio. Questi dunque sono i primi due generi di passività che si ravvisano nella natura, l' uno e l' altro appartenente al termine del principio sensitivo: 1) passività dell' attività finale manifestantesi ne' corpi, che consiste nell' esser fatta un esteso sensibile - sentimentazione ; 2) passività d' esser mosso - mobilizzazione . Noi abbiamo veduto che l' Essere è necessariamente uno e trino. Abbiamo parlato dell' essere uno, e delle questioni che si presentano allo spirito quando questo si scontra nella antinomia tra la speculazione e l' esperienza. Le quali questioni sono indipendenti dalla triplice forma dell' essere, e però appartengono al trattato dell' essere uno. Ma, dopo di questo, il pensiero meditativo scopre questa sorprendente verità, che, sia l' ente uno o molteplice, esso ad ogni modo ha per necessità assoluta una triplice forma, vogliam dire, è in tre maniere, che noi abbiamo chiamato soggettiva o reale, oggettiva , e morale ; ed essendo queste di una estensione illimitata, stanno fuori di tutti i generi, e a tutti i generi sono superiori. Onde esse costituiscono la base della classificazione massima, e le classi massime furono da noi dette Categorie. Di quelle tre forme abbiamo dunque parlato sotto questo aspetto, in quanto esse prestano la base delle categorie, o de' predicati massimi degli enti. Convien ora che noi ragioniamo dell' essere quale è in ciascuna di quelle tre forme. Ma in quale primieramente? Nell' oggettiva. Poiché il ragionare appartiene alla scienza: quello dunque che è il primo della scienza, cioè che primo si conosce, conviene che sia anteposto nella serie del ragionamento. Ora niente si conosce se non sia oggetto dell' intendimento; e se non è oggetto, convien che si faccia oggetto acciò sia conosciuto. La forma dunque oggettiva dell' essere è quella che immediatamente si conosce, e che tocca, quasi direi, la mente; e conviene che le cose tutte, affinché sieno conoscibili, prendano questa forma. Fino a tanto che si tratta di una cognizione di cose finite, la loro forma oggettiva, per la quale si conoscono, fu da un tempo molto rimoto, denominata idea (1). Che cosa divenga (si tratta sempre di un divenire relativo alla mente umana) quando si tratti di conoscere l' infinito, noi l' abbiam già detto, e di nuovo ne tratteremo dipoi. Si consideri ora la sorpresa e la gioia intellettuale di quella mente speculativa, che meditando sulle diverse nature componenti questo mondo, le riscontra tutte limitate e soggette a varie passioni e corruzioni, eccetto però una sola, che al pensiero si presenta impassibile, immobile, incorruttibile, necessaria, eterna perché necessaria. Quale scoperta maggiore di questa? Quale entusiasmo non dee sollevare nel pensatore che la prima volta la coglie? Convenientemente doveva l' idea, questa natura cosí diversa da tutte le altre, essere chiamata il divino «to theion», come la chiamò Platone. Poiché in tutto quanto è ampio il circolo delle cose dell' universo, l' idea è il solo elemento che vi si rinvenga, il quale abbia del divino, e il solo nesso che unisca il mondo con Dio, e quasi il punto di contatto delle due sfere, del finito, vogliamo dire, e dell' infinito, e però l' unica via di comunicazione, per la quale l' uomo possa innalzarsi sopra se stesso, riconoscendo la sua natura quasi cognata alla divina, col suo punto piú eminente appesa a questa. Il che s' intenda del solo ordine naturale. Poiché se l' umana intelligenza per via di determinazioni logiche può argomentando pervenire a formarsi un concetto di Dio sussistente, anche in questo slancio ella appoggia il suo ragionamento sul punto fermo dell' idea, che sola contiene e svela qualche cosa di quel divino, di cui l' intero, nascosto, dirò cosí, dietro alla simbolica cortina della realtà di cui si compone il mondo, si viene argomentando e divinando. Ché l' idea arreca veramente in questo modo all' umana mente l' ammirabile facoltà d' una cotale divinazione. Avendo dunque Platone trovato l' unico elemento divino nella natura, cioè l' idea, non è a stupire, che egli, arricchito del principio di tutta l' umana scienza, ponesse come capo e cardine [...OMISSIS...] della filosofia « la dottrina degli intelligibili » [...OMISSIS...] ; la quale lo rese il maggiore tra' filosofi: se non fosse parola invidiosa, vorrei dire l' unico avanti Cristo. E l' idea, l' essenza sempre eguale a sé della cosa, gli parve dotata di tanta lucidità, che pose in essa l' evidenza, e da essa, quasi da un postulato non possibile a rifiutarsi, fece partire ogni ragionamento filosofico. Cosí nel Fedone: dicendo ch' egli suole prima di tutto supporre quella ragione, che è di tutte fortissima, e indi cercar quali cose consuonino ad essa, e queste giudicar vere; quelle poi, che da essa discordano, false. E volendo ivi dimostrare l' immortalità dell' anima, la ragione fortissima che presuppone, e da cui parte, è « « che ci sia qualche cosa di per sé bello, buono e grande, e del pari l' altre essenze » » [...OMISSIS...] ; e questo richiede gli sia conceduto senza provarlo. Onde le ragioni d' ammettere le idee, di cui Aristotele fa una critica che merita d' essere criticata, come vedremo, si riducono per Platone ad osservazioni interne su quell' atto d' intuizione immediata, con solo il quale s' apprendono le idee; e però non tendono ad altro, che a persuaderci che noi vediamo colla mente le essenze, piuttosto che a dimostrarci che ci debbano essere. E perciò Socrate poco appresso, nello stesso Fedone, cercando perché le cose sieno belle, dice [...OMISSIS...] ; il che è quanto dire, una sí fatta proposizione essere evidente, e niuno, comeché pensi sull' altre cose, poterla ragionevolmente negare. Trovata pertanto l' idea, e vedute le eccelse proprietà di essa, e la sua fecondità, era trovata quella via, di cui Socrate dice nel Filebo, che [...OMISSIS...] . E però l' analisi delle idee, ciascuna delle quali da una diventava piú, e la loro ricomposizione, che restituivale all' unità, erano il nativo carattere della platonica filosofia; ed offrivano alla mente la gran questione dell' antinomia tra l' uno e i piú, incominciata già a suscitarsi tra i Pitagorici e tra gli Eleatici, ma di cui non si conobbe la profondità e la perplessità se non quando Platone, che amava piú la verità che la vana disputa, ne cercò lo scioglimento nella misteriosa, ma natural connessione tra le idee stesse, come l' attestano il Parmenide, il Sofista e altri suoi dialoghi. Quest' unità e questa moltiplicità che ad un tempo si trova in ciascuna idea, quando si va ripensando, conduce alle piú curiose questioni, e fa errare lungamente lo spirito per gli interminabili andirivieni della dialettica. Cosí dopo Platone la dottrina delle idee divenne ad un tempo e argomento di gravissime meditazioni, e un luogo comune degli Eristici e de' Sofisti, che colle loro sottili fallacie la resero spinosissima (1). Ma chiuse le scuole greche, essendo prevalso Aristotele, il gran nemico delle idee platoniche, questa questione principale e vitale per la scienza fu riguardata come d' importanza secondaria, e le dispute che divisero il Medio Evo intorno agli universali non erano che una piccola parte della gran questione, a cui dava occasione la dialettica e lo studio dell' Organo di Aristotele e dell' Isagoge di Porfirio. Era un rimettiticcio del pedale dell' albero della dottrina delle idee troncato da Aristotele. Il solo che abbia sentito altamente l' importanza di questa dottrina dopo i greci filosofi, e che abbia conosciuto che da essa cominciava e ad essa appoggiavasi tutto lo scibile, fu Sant' Agostino (2). Egli si lamenta che al tempo suo manchino del tutto i filosofi, e che atterriti gli uomini dal dubbio, stato sparso su tutte le cose dall' ultima Accademia, disperino di trovare essi quello che non aveva potuto trovare Carneade, onde il torpore e la pigrizia degl' ingegni; e per rompere e da sé rimuovere quest' odioso impedimento al filosofare, dice avere scritti i libri contro gli Accademici, dove mostra che si dà e che si può trovare la verità. Cosí, egli a Ermogeniano (3). Piú tardi il maggiore sforzo, che sia stato fatto per restituire la dottrina delle idee al posto che le compete, fu quello dell' Accademia medicea (1). Ma per le sciagure pubbliche, e per la nostra mollezza, o Italiani, perí troppo presto quella nobile istituzione; e ora, chi mai appresso di noi ne parla piú, o chi scuote la polvere ai volumi scritti da que' generosi ingegni, che si conservano come cose preziose, essendo divenuti rari nelle nostre biblioteche? Queste idee dunque sono l' essere nella sua forma oggettiva, quando si parla di enti finiti; che se si parla dell' infinito, l' oggetto allora è più che idea, come noi dicevamo. Ma non può essere completo il discorso dell' essere ideale, che forma l' argomento di questo libro, se non si considera la sua forma oggettiva in tutta la sua ampiezza. Onde, quantunque non ci proponiamo al presente d' esporre la teoria dell' essere oggettivo in quanto è infinito, il che appartiene alla Teologia, ma solo in quant' è ideale; pure non possiamo parlare di questo, senza avere un continuo riguardo a quello. Converrà dunque, che noi in questo libro consideriamo l' essere oggettivo sotto tre aspetti: come essere per sé manifesto , come essere manifestante , e come essere manifestato . Trattando dell' essere per sé manifesto, benché involga una relazione ad una per sé mente, noi lo considereremo in un modo assoluto, ossia indipendentemente dalla mente umana. Ma in quanto l' essere oggettivo è anche manifestante, lo considereremo in congiunzione colla mente umana. In quanto poi esso è l' essere manifestato, noi parleremo della sua congiunzione colle cose reali che fa conoscere. Il rispetto poi da noi dovuto a quel filosofo originale, che il primo arricchí il mondo di una magnifica dottrina intorno alle idee, e cosí del vero e solido fondamento di tutta l' umana scienza, al quale saremmo ingrati se non ci dichiarassimo discepoli di quest' ordine della naturale speculazione, ci muove a investigare, se anche Platone distribuisce a questo modo le ricerche che si possono fare intorno all' essere ideale, o se altramente. Al che fare mi sembra opportuno un luogo del Filebo. Parmenide avea ridotte tutte le cose all' uno. I Fisici, avanti e dopo Parmenide, volevano i molti, e non l' uno. Successero di quelli che nell' uno trovavano i molti, e nei molti l' uno. Ma queste questioni astratte rimanevano perdute ne' viluppi delle sottigliezze dialettiche perché non si distingueva accuratamente l' ideale dal reale (giacché l' uno e i molti possono appartenere all' uno e all' altro, spettando all' essere e non alle forme dell' essere), e non era ancora trovata la dottrina delle idee, né conosciuto come queste costituissero la forma degli enti reali. Qui stava il segreto dell' involuta questione, e il solo Platone pienamente il possedeva. Or questa maniera, nella quale si pretendeva dimostrare che i molti fossero l' uno, e l' uno fosse molti [...OMISSIS...] dice Socrate nel Filebo, esser già divenuta volgare ed acconsentita da tutti senza maraviglia, né consistere in essa la questione importante e difficile. Dove dunque? - Risponde Socrate, che dell' uno si può discorrere in due modi. Poiché, o si parla di tal uno, che non ha a far nulla colle cose che nascono o periscono, ed è quanto dire dell' uno astratto; in tal caso non si può rifiutarlo; né è da farci sopra contrasto. O si parla dell' uno partecipato; [...OMISSIS...] Platone dunque primieramente distingue la questione dell' uno separato, che è quanto dire dell' essere, da quella delle idee piú o meno determinate, che come altrettante unità danno l' unità ai singoli enti; e intorno a queste vuole che si domandino tre cose, se veramente sono, se sono immutabili, e come si comunichino ai reali rendendo uno ciascuno di questi. La questione dell' essere unico e semplicissimo, che costituisce il fondo di tutte le idee, e dell' unità astratta che è un concetto elementare del medesimo, si discute da noi nella prima parte di questo libro, dove si parla dell' essere per sé manifesto; e qui pure cadono i due primi quesiti intorno alle idee: se sono, e di quali proprietà vadano fornite. Il terzo quesito che propone Platone riguarda la congiunzione delle idee colle cose reali, e questo si discute da noi nella terza parte. Ma quello, intorno a cui versa la seconda parte del libro presente, cioè della congiunzione delle idee colla mente, non si trova indicato nell' accennata distribuzione di Platone. E veramente pare, che il grand' uomo non abbia posto eguale attenzione a quest' ultima ricerca importantissima. Perocché quantunque non gli potesse sfuggire, essendo tanto capitale, tuttavia non la propone mai direttamente e separata dall' altre, ma ne parla quasi per incidenza in varŒ luoghi, e senza bastevole distinzione e chiarezza: al che forse dee attribuirsi tutto ciò che rimase di oscuro nella teoria delle idee esposta da Platone; poiché, come vedremo, dall' intendere chiaramente in che modo l' essere ideale e le idee comunichino colle menti umane, dipende l' intendere come esse comunichino coi reali. Di che consegue, che l' investigare in che modo le idee illustrino la mente, dee precedere all' investigare in qual modo esse facciano l' ufficio di forme delle cose reali. Riassumendo adunque tutta la serie della trattazione che si contiene nel presente libro, diciamo ch' ella si distingue nelle tre parti seguenti: Parte I Dell' essere per sé manifesto. Parte II Dell' essere per sé manifesto in congiunzione colla mente umana; ossia dell' essere manifestante. Parte III Dell' essere per sé manifesto all' uomo in congiunzione colle cose reali; ossia dell' essere manifestato. Il concetto del per sé manifesto , come s' esprime con due locuzioni, per sé e manifesto , cosí si può analizzare dividendolo in due altri concetti: 1) Il per sé unito al manifesto significa, che l' essere non sarebbe se non fosse manifesto, onde gli è essenziale questo: di essere manifesto. Un tal essere dunque o non è, o è manifesto. Ma poiché l' essere non può non essere, perciò l' essere è; e collo stesso atto con cui è, è anche manifesto. 2) Il concetto di manifesto abbraccia i due concetti di manifestante e di manifestato, e di piú la loro identificazione; ed anzi in questa identificazione consiste il concetto di manifesto , e hanno origine le differenze di questo concetto da quelli di manifestante e di manifestato singolarmente presi. Il che significa, che per sé manifesto è quello che coll' atto stesso con cui si manifesta, e però è manifestante, è anche manifestato; laddove quello che è semplicemente manifestato non è per ciò manifestante, e quello che è manifestante, benché sembri dover essere manifestato, non è che deva essere manifestato per sé, ma può essere anch' egli manifestato da un altro. L' essere dunque per sé manifesto conviene che manifesti, e cosí sia manifestante; e che manifesti se stesso, e cosí sia ad un tempo manifestato; e di piú, che queste due qualità di manifestante e di manifestato costituiscano l' identico atto della sua natura; a queste condizioni, l' essere è per sé manifesto. L' essere, se non si manifestasse da se stesso, egli non potrebbe essere manifestato da niun' altra cosa, perché fuori dell' essere non ci sono altre cose. Il nulla non può manifestare ciò che è, il nulla non può manifestar nulla. L' essere dunque dee per prima dote aver questa: di manifestarsi per se stesso, di esser luce. Dunque l' essere per sé manifesto contiene due intrinseche relazioni distinguibili dalla sola mente, e non punto distinte in se stesse: 1) di essere manifestante, 2) di essere manifestato: due relazioni che si distinguono mentalmente nello stesso atto di essere, la quale identità di atto acquista semplicemente il nome di essere manifesto. Che si conosca dalla mente umana l' essere manifestato, questo non ha difficoltà alcuna. Ma perciò appunto, come possiamo noi conoscere o possiamo ragionare dell' essere manifestante?. Questo prova all' evidenza, che la mente umana non potrebbe arrivare a conoscere il manifestante, se non ci fosse un essere il quale identificasse in sé le due qualità di manifestato e di manifestante , il che è quanto dire, se l' essere non fosse per sé manifesto. Onde conviene incominciare di necessità dall' essere per sé manifesto , che dialetticamente è la sintesi del manifestante e del manifestato . E di vero, se l' essere coll' atto stesso con cui è manifestato non fosse manifestante, giammai la mente umana non potrebbe salire al concetto di manifestante, e senza questo non ci sarebbe piú l' umano ragionamento. Ma il ragionamento c' è, e c' è il concetto di manifestante. Dunque è necessario, per ispiegare l' uno e l' altro, ammettere un essere che sia del pari manifestante come l' idea , e manifestato come l' essenza . E` dunque necessario che l' essenza si veda nell' idea, come abbiam detto altrove (1). La riflessione è quella che s' accorge che l' essere davanti all' intuito ha queste tre condizioni, di manifestato, manifestante e manifesto. Ma come se n' accorge ella? E nell' ordine logico della riflessione, qual è la prima di esse che si presenta? La prima è quella dell' essere manifestato ; nulla potendo essere oggetto del pensiero, che restasse nascosto al medesimo. E acciocché il pensiero giunga a dare all' essere che gli sta presente quest' attributo di manifestato, la mente pensante dee: a ) aver prima percepito se stessa nell' essere, b ) aver riflettuto sopra di sé, e resasi consapevole di conoscer l' essere, c ) averne altresí dedotta la conseguenza, dicendo che l' essere è dunque a sé manifestato. Dopo di tutto questo la riflessione domanda, chi può averle manifestato l' essere. E non trovando davanti a sé altro che l' essere manifestato, non può ricorrere ad altra causa; e d' altra parte, vede che qualora anche ci fosse questa causa, sarebbe anch' ella essere, onde di necessità l' essere sarebbe il primo cognito ; di che si conchiude, che l' essere manifestato è essenzialmente manifestante . Ma dopo aver conosciuto che l' una e l' altra di queste attribuzioni gli appartiene per la sua essenza di essere, la quale essenza è atto semplicissimo; conchiude che la qualità di manifestante e di manifestato è una sola nell' essere, distinta in due per opera della mente: onde, per esprimere l' identificazione di queste due qualità, ella dà all' essere la qualificazione di essere per sé manifesto ; e questa è l' ultima e piú completa notizia, che raccoglie la riflessione. Prima di venire a quest' ultima, il pensiero umano dimora lungamente nella considerazione dell' essere e degli enti in sé, cioè dell' essere e degli enti anoetici; e a considerar l' essere non perviene che di poi. Laonde giustamente Aristotele distingue le cose che sono piú note per loro natura, da quelle che sono piú note relativamente a noi; e dice che coll' umano discorso si deve procedere [...OMISSIS...] : dove per piú note a noi si deve intendere le prime a noi note per riflessione; e per piú note secondo natura, si devono intendere quelle che sono intelligibili per se stesse. Questo progresso della riflessione della mente è quello, che apparisce nella storia della filosofia. La filosofia italo7greca cominciò dalla considerazione degli enti in sé, cioè dalla Fisica degli Jonici. Ma non trovandosi nella natura nessun elemento che fosse necessariamente costante e scevro da ogni possibile cangiamento; convenne confessare che nella natura non c' era un ente immutabile, col quale si potesse spiegare lui stesso e l' altre cose; cioè non c' era un ente che contenesse in sé la ragione di sé medesimo e delle altre cose. Allora vennero i Dorici a dire che conveniva cercare quest' ente al di là delle cose sensibili, e s' abbatterono nell' essenza intelligibile «noeten», che è quanto dire portarono la riflessione sull' essere ideale. Questi furono gli Eleatici, a cui aveano già spianata la strada i Pitagorici (2). Giunti colla riflessione all' essere ideale, trovavansi già nel campo dell' essere manifestante, manifestato e manifesto; e indi prese un nuovo corso la filosofia: potremmo anzi dire che indi incominciò. Ma poiché la riflessione, anche pervenuta all' essere per sé manifesto, è obbligata a fare questo progresso, che prima il consideri come manifestato (essenza), poi come manifestante (idea), finalmente come manifesto (essere oggetto); perciò noi vediamo esser comparso prima Parmenide, che l' essere manifesto considerò, piú che altro, come essere manifestato, trattando dell' essere come essenza: di poi esser venuto Platone, che insegnò la teoria delle idee. Ma dell' essere manifesto, come manifesto, e dell' essere in tutta la sua pienezza, rimane a considerare. Essere manifestato, vuol dire essere conosciuto. Convien dunque cercare la nota caratteristica ed evidente della cognizione. Ora, la cognizione prima di tutto dee avere un oggetto. Conoscere qualche cosa, è proposizione identica a quest' altra: « sapere in qualche modo, che sia quella cosa ». Sapere che sia quella cosa è proposizione identica a quest' altra: « sapere l' essenza di quella cosa ». Ora, il conoscere l' essenza di un ente, importa egli necessariamente che quell' ente sussista realmente? No, ché noi possiamo conoscere l' essenza di molte cose possibili, e non sussistenti. Ne viene spontanea la conseguenza, che la cognizione di certe cose, di certi enti, si può avere senza che essi sussistano. Dunque la sussistenza di tali cose non è quella, che le manifesti a noi. Dunque rispetto alle cose contingenti l' essere loro reale e sussistente è bensí manifestato, ma non è manifestante, e però non è l' essere manifesto. All' incontro, se noi abbiamo quella prima cognizione dell' essenza, noi potremo aggiungere ad essa altre cognizioni, e prima di tutte, che quell' ente, a noi già noto, sussiste. E qui si consideri bene, che il sapere che un ente a noi noto sussiste o non sussiste, non cangia l' essenza a noi nota dell' ente. La nuova cognizione dunque della sussistenza di un ente a noi noto è cosa accidentale rispetto alla cognizione dell' ente. Ma l' esserci data la sussistenza, conoscendone noi l' essenza o in sé o in un' altra essenza che la contiene, fa sí che noi possiamo conoscere l' ente a noi noto per l' essenza, perché nell' essenza già si contiene la sussistenza possibile. L' essenza dunque è quella che fa a noi conoscere la sussistenza di un ente, quando questa sia a noi data; l' esserci data, non ce la fa conoscere, ma è una condizione, posta la quale, noi la riconosciamo. Perciò noi chiamiamo l' essenza, ossia l' idea, che è l' essenza in quant' è manifestante, forma della cognizione; e la sussistenza del contingente abbiam chiamato materia , come quella che non è manifestativa. L' essenza adunque della cosa intuíta dallo spirito manifesta la sussistenza delle cose, quando questa sia data. Ma poiché questa seconda manifestazione non altera l' essenza; dunque la mutazione, che v' ha nell' aggiunta di questa nuova notizia, rimane unicamente nello spirito reso intelligente dall' essenza. E` lo spirito che ha fatto un nuovo atto, che acquistò una nuova notizia intorno allo stesso oggetto che conosceva; ma non acquistò una nuova essenza. La notizia dunque della sussistenza della cosa è di tutt' altra natura dalla notizia dell' essenza della cosa: questa è l' oggetto che sta davanti allo spirito, quella è una notizia per la quale lo spirito conobbe un nuovo modo del noto oggetto: la prima è quella che Platone chiama mente «nus», la seconda è quella che egli chiama opinione vera «doxa alethes» (1). La realità dunque è un modo dell' oggetto, non è l' oggetto dello spirito intelligente. Se dunque la notizia della sussistenza nasce per un nuovo atto dello spirito intorno allo stesso oggetto; dunque ella si riduce ad un nuovo atteggiamento dello spirito intelligente relativamente all' oggetto del conoscere: e come la notizia dell' essenza è la parte oggettiva della cognizione, cosí la notizia della sussistenza è la parte soggettiva , che si sopraggiunge all' oggettiva, da cui riceve natura di cognizione. Ma se l' essenza della cosa contingente ha natura di essere manifestante , ha ella poi anco natura di essere manifesto ? Abbiam detto, che per aver notizia di un sussistente a noi dato nel sentimento, faccia mestieri, che noi ne conosciamo l' essenza. Ora, l' essenza che ha l' estensione massima è l' essenza dell' essere privo di qualunque limitazione. Onde basta che uno spirito abbia l' intuizione dell' essere , che sappia che cos' è essere senza piú, a ciò ch' egli possa acquistarsi la notizia di qualsivoglia sussistente che gli sia dato. Perocché, quantunque non preceda l' intuizione dell' essenza speciale di quel dato sussistente, tuttavia precede nello spirito un' essenza assai piú estesa, che riceve la sua limitazione dalla stessa sussistenza che fa conoscere. Quindi procede, che le limitazioni poste dal nostro spirito all' essenza dell' essere, secondo i sentiti a cui si applica, sieno quelle che convertono l' essenza universale dell' essere nelle essenze specifiche e poi, per astrazione, nelle generiche . E però quanto nelle essenze c' è di limitato, tutto è dovuto ai reali sussistenti da noi sentiti; onde queste limitazioni non appartengono all' essere manifestante , ch' è l' essere puramente oggettivo. Rimane dunque che il puro essere senza limitazione sia il solo manifestante, come è per se stesso manifestato: e però egli solo sia l' essere per sé manifesto . Dai quali ragionamenti discendono i seguenti corollarŒ: I Non tutti gli enti sono manifestati e manifestanti . II Tutte le essenze specifiche e generiche hanno in sé un elemento, che è ad un tempo manifestato e manifestante. III La sussistenza de' contingenti non essendo contenuta nella loro essenza ; questa può essere senza di quella. IV La parola essenza applicasi all' ente in quanto è manifestato e manifestante, considerandolo nella relazione di manifestato ; e la parola idea o concetto esprime lo stesso ente nella relazione di manifestante . E come alla parola essenza risponde la parola sussistenza , cosí alla parola idea corrisponde la parola realità . V La natura del reale o sussistente, che può esser manifestato, ma non è manifestante, consiste nel sentimento e in tutto ciò che cade nel sentimento. VI Come le essenze sono l' oggetto del conoscere; cosí le mere sussistenze, riducendosi al sentimento, riduconsi di conseguente a quello che si chiama soggetto . VII Tutte le essenze degli enti limitati si riducono in una essenza sola veramente oggetto puro, e tutte le altre sono quella medesima essenza, ma limitata. VIII L' essere puro è dunque il solo per sé manifesto : collo stesso atto, manifestante e manifestato. In quanto è manifestato, si prova essere semplicemente in sé (anoetico); in quanto è manifestante si prova essere in sé presente ad una mente (dianoetico). Ora che l' essere manifesto all' uomo sia uno, scorgesi da queste osservazioni: 1) L' atto della mente, ossia l' intuizione (1), colla quale noi ci affissiamo nel puro essere, prescindendo affatto dalle sue determinazioni, è uno e semplicissimo; e ciò, perché a lei risponde un unico e semplicissimo oggetto, l' essere puro (essere universale, ideale, possibile, sono voci che indicano lo stesso essere con qualche relazione annessa) (1). 2) Dall' idea dell' essere universale si distinguono gli altri concetti col limitare e determinare quella prima. Ella dunque rimane in se stessa la medesima; ma lo spirito la considera in diverse relazioni colle cose che manifesta; e per ciò ella è una ed identica in tutti i concetti, né si distingue da questi, se non per le dette limitazioni e relazioni che ella riceve. Quindi le maniere di dire della Scuola: che la sostanza, la quantità, la qualità, ecc. contengono l' ente (2), il che è quanto dire sono sue limitazioni; ovvero che l' ente si divide ne' dieci predicamenti (3), e il dividere qui non è che un limitarlo colla mente. I concetti inferiori al concetto dell' ente, 1) si riducono all' idea dell' ente per ciò che hanno di positivo nella loro idealità; 2) si distinguono per ciò che hanno di negativo; 3) si distinguono di nuovo per ciò che hanno di positivo reale; il quale ultimo elemento li rende anche re et non ratione tantum distinti dall' idea dell' ente, che è purissima da ogni elemento reale. Ma prima che la mente speculativa pervenga a discernere questo fondo comune di tutte le idee, ella si persuade che molte sieno tra loro assolutamente separate. Ora, sia in quello stadio di filosofia, in cui si credono le idee esser molteplici, e l' una all' altra incomunicabile, sia in quello piú avanzato in cui se ne considerano i legami che le congiungono, accade che l' uomo divinizzi le idee. Poiché, osservandosi nelle idee tutte qualche cosa d' immutabile, di necessario e d' universale, attributi che appartengono alla natura divina, è agevolissimo a conchiudersi, che dunque alle idee spetta questa natura. Quindi due diversi errori: il politeismo idealistico ; e il monoteismo idealistico . L' uno e l' altro è un ideoteismo . Quanto al primo, se ne trovano le traccie ne' poeti che hanno preceduto Platone, i quali diedero alle idee i nomi di Dei. Cosí Epicarmo uditore di Pitagora (1), scriveva: [...OMISSIS...] : dove sotto il nome di Dei sono indicate le essenze immutabili. Platone nel Parmenide dice doversi concedere a Dio la scienza piú squisita, cioè quella delle essenze ossia delle idee; e quello che dice di Dio, lo dice appresso degli Dei. Qui sembra che distingua tra le idee possedute, e la divina natura che le possiede. Ma ben si vede, che queste idee in Dio non sono per Platone puramente oggetti di conoscere, ma sono altrettante essenze reali che informano la divina natura. Cosí pure nel Timeo dice che gli Dei sono partecipi dell' intelligenza, che è quella che comprende le idee, perché queste sono i puri intelligibili ( «eide noumena monon») (3); colla quale sentenza sembra che distingua di novo le idee dagli Iddii che le possedono. Ma nondimeno quelle idee, come si vede in appresso, sono in Dio (poiché qui usa il singolare) altrettante virtú reali ed operative. Ma d' altra parte sembra che queste idee, in quanto sono in Dio in una unità ordinatissima, costituiscano Dio stesso, secondo Platone; poiché dopo aver egli detto che Iddio le comunicò alla materia per quanto questa n' era capace (4), e cosí diede ordine al mondo, considera quest' opera come una comunicazione che Dio fa di se stesso quasi producendosi e generandosi nel mondo. Ed è a notarsi che incontanente soggiunge: « « Poiché convien distinguere due specie di cause, l' una il necessario [...OMISSIS...] , l' altra il divino [...OMISSIS...] » ». Il necessario è la materia, ossia la pura realità senza forma: il divino dunque rimane la pura forma, la pura idea partecipata. Cosí Platone cade nel razionalismo (non però senza qualche felice incoerenza con se stesso), ossia nella deificazione delle pure idee, perché chiamando queste il divino , loro contrappone e però esclude da esse il necessario , cioè la realità pura ed informe. Dal divino poi e dal necessario, come da due cause elementari, fa nascere il congiunto, cioè il mondo e i singoli enti che lo compongono. E perciò chiama il mondo « « un unico animale, contenente in sé tutti gli animali mortali ed immortali » » [...OMISSIS...] . La natura divina dunque per Platone non è che la natura delle idee. Ma poiché è impossibile separarla al tutto dal reale, vi aggiunge questo senza accorgersi che alla loro essenza non appartiene. Ora a tutti que' filosofi, che non hanno ben colta la diversità tra questi due modi di essere , il reale e l' ideale, accade che li confondano rendendoli un solo: taluni facendo che il modo reale prevalga quasi non ci fosse altro che esso, e questi senza confessarlo, e senza accorgersi, all' ideale attribuiscono anche le proprietà del reale; taluni altri facendo che prevalga il modo reale, a cui pure danno le proprietà dell' ideale. Lasciando questi ultimi, che sono volgari e di minor conto, i primi vedono facilmente la diversità de' due modi quando considerano la realità finita , perché questa si pensa direttamente come immune dalle idee; e cosí Platone, introducendo il Demiurgo a fabbricare il mondo, pose da una parte la materia qual causa necessaria, dall' altra la forma qual causa divina: ma non vedono piú quella diversità, quando si tratta d' una realità infinita e invisibile, di quella cioè di cui abbisogna lo stesso essere ideale per esistere. E allora accade loro che, attribuendo una realità alle idee stesse, non s' accorgono d' attribuir loro una cosa che non è idea, né parte d' idea, ma tutt' altro. Nello stesso tempo però tali dotti filosofi dal linguaggio stesso rimangono traditi; ché non trovano maniere di dire, se non tali che attestano quanto quelle due forme di essere si dispaiono tra loro, e restano sempre due, inconfusibili. Cosí Platone nel Filebo, dopo aver posto come principŒ l' uno cioè le idee, e i molti cioè la materia indefinita, e in terzo luogo il misto che dall' unione di que' due risulta, trova necessario un quarto principio, cioè la causa di quell' unione, la quale causa è Dio (2). Qui dunque Iddio apparisce distinto dalle idee stesse; e però questo discorso non consuona col chiamarsi da Platone cosí sovente le idee assolutamente il divino ( «theion»). Essendo dunque Platone espresso con maniere cosí incerte e vacillanti, non è maraviglia che i suoi discepoli si sieno in appresso divisi. Perocché alcuni ponendo mente all' unificazione delle idee in Dio, e spingendo l' uno di Platone all' eccesso, hanno collocata la natura divina in una nudissima astrazione sulle stesse idee esercitata; altri hanno concepito un Dio organato, per cosí dire, d' idee molteplici; e i piú, di queste stesse idee, separate le une dalle altre, fecero altrettanti Dei. Ma in fine tutti, si può dire, nel fondo idolatrarono le idee. A questa confusione mostruosa, o almeno oscurità di parlare, si deve attribuire lo scredito del Platonismo. Rare volte i discepoli hanno il coraggio di analizzare le idee non analizzate dal maestro, nel che sta il vero progresso; e in quella vece, spogliando il maestro stesso delle sentenze piú nobili e del linguaggio da lui trovato e arricchito di forme opportune, in mille modi giuocano di questi materiali della scienza, quasi come colle noci i fanciulli, senza romperle e cavarne il gheriglio. Cosí certe frasi e parole della scuola, di altissimo significato, che tanto dilettano e innalzan la mente quando si sentono nella bocca o negli scritti del maestro, inviliscono appresso i discepoli e annoiano per l' abusata loro ripetizione. L' uomo dunque ha per oggetto del suo naturale intuito l' essere puro, ma indeterminato; e quest' essere E` per sé manifesto. Ora una speculazione ontologica piú avanzata trova pure che l' Essere divino od assoluto deve essere per sé manifesto (1). Nasce dunque il dubbio, se l' essere naturalmente intuíto dall' uomo sia Dio. Le ragioni che potrebbero persuadere a una risposta affermativa, sono principalmente le due seguenti: 1) La qualità di essere per sé manifesto è una qualità ultima, e perciò divina: perché se l' essere manifesto non riceve la luce altronde, ma egli la dà alle cose che non sono per sé manifeste; dunque, come tale, egli è indipendente da ogni altro essere, e primo nel suo ordine: il che non può appartenere che a Dio. 2) Se l' essere per sé manifesto all' uomo non è Dio, dovendo essere anche Dio per sé manifesto, procede che ci sarebbero due esseri per sé manifesti, e quindi due principŒ intelligibili, il che sembra assurdo: che è assurda la dualità di principŒ supremi dello stesso ordine. Le quali difficoltà cadono davanti alla dottrina dell' essere assoluto, e dell' essere relativo. Poiché l' essere che è un modo unicamente relativo di esistere non pregiudica alla pienezza dell' assoluto, e neppure alla sua unicità [...OMISSIS...] . Onde non v' è che un solo essere assoluto per sé manifesto. Ma ciò non toglie che ci sia un altro essere per sé manifesto relativamente, cioè relativamente all' umana intelligenza, o ad altre intelligenze finite che sono esse stesse enti relativi. E poiché gli enti relativi non sono necessari, ma contingenti, perciò potrebbero cessare, con che cesserebbe l' essere manifesto relativo ad essi: onde non c' è che un solo essere che sia necessariamente manifesto, e questo è Dio. Laonde l' essere per sé manifesto relativo alle intelligenze finite, non è già indipendente dall' essere per sé manifesto necessariamente e assolutamente, perché, quantunque sia per sé manifesto, e come tale non abbia nulla al di là di sé, tuttavia è dipendente come essere relativo: di maniera che, come ha cominciato col cominciare delle intelligenze finite, onde può dirsi ad esse concreato, cosí cessando esse coll' annullamento, anche egli verrebbe a cessare. Né involge alcuno inconveniente, che gli enti relativi e contingenti partecipino qualche cosa di divino, purché questo elemento divino non costituisca la loro base; che anzi ragion vuole che conservino qualche traccia del suo autore, e però qualche elemento o relazione divina. E quindi abbiamo veduto che tutti i contingenti, sebbene non sieno l' essere, tuttavia hanno l' essere, che è cosa divina, non come loro base , né come loro propria appendice , ma come un loro antisubietto e condizione necessaria ad esistere in sé. Né s' incontra in ciò alcun pericolo di panteismo, perché tali enti non sono tal elemento divino, ma solamente lo hanno . Il nulla non può manifestar nulla; quello che manifesta è necessario che sia l' essere stesso [...OMISSIS...] . Dunque l' essere manifesto all' uomo non è il nulla. E tuttavia non fa maraviglia che i pensatori abbiano trovato tanta difficoltà ad ammettere che il puro essere indeterminato stia davanti alla mente, non accorgendosi che neppure lo potrebbero negare se non ci stesse. L' origine della difficoltà nasce da quel carattere che ha l' essere d' apparire come un nulla relativo [...OMISSIS...] , che è quanto dire, di non avere comprensione alcuna. Questo stato d' indeterminazione, che ha l' essere davanti alla mente, presenta la difficoltà di riflettervi, tra gli altri, sotto tre aspetti. Da parte della sua indeterminazione , non si può concepire come possa stare davanti alla mente la pura esistenza separata da tutti gli esistenti. Da parte dell' unità deficiente , riesce difficile a concepire un oggetto, a cui manca il termine per essere un ente. Da parte della sua somma semplicità , pare all' uomo di non conoscere, quando egli non avendo due o piú cose da mettere a confronto, di conseguente non conosce differenza di sorte alcuna. I filosofi che si lasciarono scuotere da queste difficoltà, omettendo di esaminare accuratamente il valore, presero diversi sistemi per eluderle. I primi, superficiali, dissero che l' idea d' esistenza, come gli altri astratti, si traeva per opera della mente dagli enti reali percepiti; senza accorgersi di due inconvenienti, cioè: 1) che se l' idea di pura esistenza si tolga coll' astrazione dagli enti percepiti, questa già s' ammetteva per data nella percezione, in maniera che restava a spiegare la percezione stessa. Perocché l' astrazione non fa che separare, e separare a parte, gli elementi che già ci sono, e però non crea né l' idea d' esistenza, né alcun altro elemento che cada nel percepito; 2) che se l' idea d' esistenza si può pensare astratta da tutto il resto, dunque convien conchiudere ch' ella possa stare davanti alla mente anche separata da ogni esistente. Dunque la difficoltà rimane la stessa (1). Altri, piú superficiali ancora, negarono al tutto l' essere ideale, non solo perché non rappresentava un contenuto reale, ma per una ragione assai piú sciocca; cioè perché non lo vedevano e toccavano, ond' anche lo mettevano in derisione: ché i filosofi volgari e minuti ricorrono sempre a questo argomento del riso. Fra quelli che riducevano a un nulla l' essere ideale, meritano in terzo luogo d' essere accennati i Nominali di tutti i tempi. Altri credettero che l' essere che sta davanti alla mente come suo lume fosse Dio stesso. Finalmente v' ebbero de' filosofi che negarono al tutto i possibili eterni, e con ciò le idee. Tutti questi filosofi erravano per non aver distinti i due modi di concepire l' essere, cioè come avente un' esistenza subiettiva indipendente dalla mente, e come avente un' esistenza obiettiva, la quale è bensí un' esistenza in sé, ma essenzialmente condizionata alla mente. Videro che non poteva avere il primo modo di essere, e però gli negarono ogni modo. E veramente l' essere indeterminato non può sussistere in un modo indipendente dalla mente, e in sé solo. Ma che sia in sé davanti alla mente, non c' è ripugnanza. E che sia distinto dalla mente, è manifesto, avendovi contraddizione nel dire che la mente fosse l' essere indeterminato, o viceversa. E che l' essere indeterminato non sia il nulla, del pari è evidente, poiché il nulla e l' essere sono contraddittorŒ. E se non c' è il contenuto, c' è però il contenente, e il contenente non è nulla, ed anzi pare che il contenente abbia qualche cosa di piú ampio del contenuto. Nullismo si chiama quel sistema di filosofia, che suppone che l' ente si annulli quando si riduce ad una mera possibilità, e che tuttavia da questo annullamento in cui si sommerge di continuo, di continuo altresí egli emerga, facendo cosí che tutto l' essere proceda dal nulla come da suo principio, e nel nulla ritorni come in suo fine, per un circolo sempiterno. Questo sistema si fonda adunque sulla supposizione che l' ente possibile, che è l' ente manifestante, sia nulla. Ma noi abbiamo veduto che non è il nulla. Dunque un tale assurdo sistema rimane pienamente abbattuto. Medesimamente consegue dalle cose dette, e dall' immediata osservazione, che l' essere manifesto , o manifestante all' uomo le cose, non è l' uomo, perché anzi l' uomo è ricettivo di quell' ente. Oltre di che è manifestamente assurdo che l' uomo sia l' essere in universale, perocché l' uomo è un essere particolare e proprio. Né tampoco l' essere universale può credersi una modificazione dell' anima umana. Perocché tutte le modificazioni di un ente particolare sono particolari. L' essere manifestante adunque essendo presente all' uomo, ma non l' uomo, né alcuna sua modificazione: ed essendo tale che in se stesso e per se stesso si manifesta, egli è l' oggetto in cui l' atto conoscitivo del pensiero si porta e termina. Il Soggettivismo ossia Psicologismo è quel sistema che riduce l' oggetto della mente, l' idea, ad essere il soggetto stesso, od una sua modificazione. Quindi due sono i sistemi di soggettivismo. Il primo confonde l' idea colla mente intuente, che n' è il soggetto. Questa confusione è frequente in tutti gli scrittori Alessandrini. Essi confondono l' intelletto divino , che ha ragione di soggetto, coll' idea che è l' intelligibile , e che ha ragione di oggetto (1). Essi talora dicono che l' idea è la mente, e viceversa la mente la chiamano idea (1). Il secondo sistema de' soggettivisti dichiara che le idee non sono che modificazioni dell' anima; ed a questi appartengono i sensisti moderni di tutte le classi, da Locke fino a Galluppi. Tuttavia confondono essi le idee colle sensazioni; perché queste sono modificazioni dell' anima; cosí pongono che anche quelle sieno tali. Tostoché si ammette che le idee sieno modificazioni soggettive dell' anima, nasce incontanente l' impossibilità di spiegare l' esistenza del mondo, l' esistenza di un diverso da noi. Quindi pressoché tutti i soggettivisti dotati d' ingegno si danno vinti a questa questione e non sono mai contenti per qualunque dimostrazione voi lor proponiate del mondo esterno. Quelli adunque, che invece di osservare come la cosa è, invece di rilevare il fatto, sentenziano a priori che l' essere , finché è solo possibile a realizzarsi, altro non può essere che una modificazione del soggetto intelligente; questi che non s' accorgono di suppor sempre il contrario in tutti i loro ragionamenti, né s' accorgono che senza suppor ciò non potrebbero aprir bocca; questi, che vedono direttamente insieme con tutti gli uomini la verità che noi annunziamo, e non la trovano piú quando come filosofi la vanno cercando colla riflessione; questi, dico, né possono dimostrare l' esistenza del mondo, anzi neppure di se stessi, né di cosa alcuna, ma la debbono ammettere alla cieca supponendo, colla scuola scozzese, un cotale istinto irresistibile; né possono accontentarsi di nessuna dimostrazione, benché validissima, del mondo, perché, fin che dimorano nel loro pregiudizio, non possono intenderla. Noi veggiamo che i piú famosi traviamenti nel campo dell' ontologia provennero dal non aver i filosofi bastevolmente osservata la detta natura dell' essere manifesto all' uomo. Quindi essi peccarono per eccesso o per difetto, e cosí vennero a dividersi i sistemi in due grandi classi estreme, i filosofi in due fazioni inconciliabili. I primi, cioè quelli che diedero troppo all' essere manifesto all' uomo, cioè all' idea, videro una verità; cioè ben videro che un tal essere non era punto il nulla, ma non sapendo concepire altra forma dell' essere che la reale, tosto conchiusero che dunque l' essere ideale era Dio. I secondi, cioè quelli che diedero troppo poco all' essere ideale, videro pure una verità, cioè videro che un tal essere non era punto Dio, ma anch' essi, ammettendo, con pregiudizio, che l' essere non avesse altra forma che quella della realità, dissero che l' essere ideale era nulla, onde i nullisti ; o che era una voce, onde i nominali ; o finalmente che era una modificazione dello spirito, onde i soggettivisti . Fra questi due sistemi erronei sembra ce ne possa essere uno di mezzo: di quelli che all' essere ora attribuiscono le qualità dell' idea, ora quelle della realità, contraddicendosi, senz' accorgersi. Perocché l' essere talvolta apparisce loro nella sua nudità ideale, e allora cosí lo descrivono; tal altra volta poi non potendo stare entro questi confini, scadono al supporre in esso gli attributi della realità. Ma chi ben considera, questo avviene universalmente a tutti quelli che professano il primo sistema, i quali non possono mantenere la coerenza ne' loro detti. Mi valgano ad esempio gli Eleatici. Essi ridussero tutta la filosofia a stabilire, che cosa fosse ciò che meritasse il nome di essere (1). A tal fine Parmenide stabilí una natura, che i Greci chiamarono «usia», semplicissima, priva di qualità, anteriore ad ogni composizione, natura ossia essenza che costituiva il fondo d' ogni pensiero. In questo riguardando, si poteva conoscere tutto ciò che era, cioè che avesse l' essere (2). Questo era un avere descritto ottimamente l' essere senza i suoi termini, ossia l' essere ideale. A malgrado di questo, tosto appresso attribuisce all' essere i termini ( «peras») e cosí lo rende ente assoluto senza accorgersi che questo era in contraddizione con quello che aveva detto prima; poiché l' essere co' suoi termini non è piú semplicemente quell' «usia», colla quale la mente conosce ciò a cui può dare il nome di ente. E questo parlar dell' ente come indeterminato, e poi senz' accorgersi prenderlo per determinato, è lo sdrucciolo in cui cadono i filosofi di questa sorte, fino all' Hegel. Nel libro terzo noi abbiamo dovuto indicare i caratteri dell' essere che sta presente per natura all' intuito umano, e gli abbiamo ridotti a due principali, l' estensione infinita e la nulla comprensione . Da questi due caratteri generali abbiamo dedotti i caratteri specifici, dieci de' quali vedemmo procedere dalla stessa natura di quell' essere: 1 essenza pura dell' essere , 2 oggetto essenziale dell' intelligenza , 3 possibilità dell' ente finito , 4 universale , 5 necessario , 6 eterno , 7 semplice , . intelligibilità , 9 forma delle menti ; 10 forma della forma delle cose finite ; e tre altri dalla natura dell' umano intuito: 1 ideale , 2 un nulla relativo , 3 la possibilità dell' ente infinito . Se ora noi consideriamo questi caratteri in relazione all' analisi fatta dell' essere per sé manifesto all' uomo , ci bisogna classificarli diversamente. Poiché que' caratteri: 1) parte appartengono all' essere come essere, cioè anoeticamente considerato, quale sta davanti all' intuito; 2) parte appartengono a quell' essere considerato come per sé manifesto; 3) parte appartengono a quell' essere considerato come manifesto all' uomo , cioè come intuito dall' uomo imperfettamente. E cosí considerato, o lo si riguarda come essere in sé, anoeticamente, e il suo carattere è quello di essere un nulla relativo . O lo si riguarda come manifestante, e il suo carattere è di essere idea . O lo si riguarda come essere manifestato, e allora non presenta per carattere dialettico, che la possibilità dell' ente infinito . Per non rifare quello che abbiam fatto nelle opere ideologiche e ne' libri precedenti a questo, troviamo solo necessario di dichiarare il concetto del possibile, come quello che riassume quasi in sé tutta la dottrina intorno all' essere manifesto all' uomo, e che è piú difficile ad intendersi degli altri. A tal fine conviene che in primo luogo rendiamo accorto il lettore degli errori che si possono prendere, e che furon presi, intorno a questo concetto. In primo luogo convien distinguere il concetto dell' ente possibile da quello dell' ente ipotetico . L' ente possibile non è mai un reale, ma sempre un ideale, cioè è l' essenza che s' intuisce nell' idea e si scorge atta ad essere realizzata. L' ente ipotetico all' opposto è un reale, che si suppone esistere a fine d' instituire su tale supposizione qualche ragionamento. Dee badarsi altresí di non confondere il possibile coll' idea del possibile . Alcuni infatti confusero due concetti cosí distinti. L' essere manifesto può bensí chiamarsi ente possibile, ovvero anche idea; ma non idea del possibile; che altro verrebbe ciò a dire, se non l' idea dell' idea dell' ente? Rimossi questi equivoci, cerchiamo di ben intendere il concetto dell' ente possibile (1). E` una di quelle cose che Aristotele dice le piú manifeste secondo natura, e le piú oscure all' uomo: il che veramente vuol dire piú oscure alla riflessione dell' ontologo. Poiché già subito in questo concetto si manifesta una singolare antinomia. Da una parte l' ente possibile non è ancora, e ciò che non è, è nulla; dall' altra, v' ha ripugnanza manifesta a dire che l' ente possibile sia il nulla. Che cosa è dunque il possibile? Rispondere che « è ciò che non involge contraddizione »è sufficiente all' esigenze della logica e della ideologia; ma l' ontologia, non se ne contenta; poiché ella vuol sapere che cosa sia ciò che non involge contraddizione, e che non esiste, ma che pure è possibile. Poiché eziandio quello che esiste non involge contraddizione, e però anch' esso è possibile; e in questo senso è possibile anche Dio, che non solo esiste, ma è necessario, di modo che non può non essere. Si vuol dunque sapere, che cosa sia ciò che non involge contraddizione e che non esiste, il che viene a dire che cosa sia il puro possibile. Si dirà che ciò che è possibile è un oggetto che sta davanti alla mente, e che non esiste fuori della mente, ma sí nella mente. E questo è già qualche cosa: poiché distingue due modi d' esistere, l' uno nella mente e l' altro fuori della mente; onde, quando si asserisce che il possibile non esiste ancora, allora si parla dell' esistenza fuori della mente, e non d' ogni esistenza. Con che viene a comporsi la predetta antinomia, rimanendo fermato che il possibile non sia il nulla, perché esiste davanti alla mente. Ma poiché tutto ciò che sta davanti alla mente, le sta davanti come essente in sé [...OMISSIS...] , rimane ancora a cercare che cosa sia in sé l' ente possibile che sta davanti alla mente, che non è la mente e non è neppure il nulla; e conviene che anche considerato in se stesso, l' ente in sé non involga contraddizione. Poiché se l' ente possibile è qualche cosa in sé (astrazion fatta dalla mente in cui è), che cosa rimane di lui, se è solo possibile e però non ancora esiste? Convien dunque sciogliere questa antinomia. E` dunque da rammentarsi la distinzione da noi fatta tra l' essere e l' ente [...OMISSIS...] : è da osservare che l' essere non è mai possibile, ma l' essere assolutamente è, che è l' essenza stessa dell' essere. L' ente all' incontro è l' essere co' suoi termini. Ma questi si possono pensare sussistenti, e non sussistenti. L' essere con alcuno de' suoi termini sussistenti dà il concetto di ente sussistente , l' essere senza i suoi termini dà il concetto di ente possibile . Da questo si vede: 1) Che nel concetto di ente possibile si contiene l' essere , il quale non è già possibile, ma assolutamente è; e perciò che l' ente possibile ha per sua base ciò che non è meramente possibile, ma che assolutamente è; con che cade l' antinomia che si fondava sul nudo concetto di possibilità escludente l' esistenza. I) Che l' essere che forma la base dell' ente possibile, dicesi ente possibile in quanto contiene virtualmente i suoi termini. Rimane dunque solo a dichiarare la possibilità di questi termini. L' essere ha due relazioni essenziali, l' una d' essere in sé , l' altra d' essere in sé davanti alla mente , con che acquista il nome di essere manifesto , e come è davanti alla mente umana, d' essere ideale . In quanto è essere ideale contiene tutte le idee meno estese, che noi chiamiamo concetti , ma solo virtualmente , il che è quanto dire che non è necessario, acciocché egli sia manifesto, che in esso si distinguano questi concetti. Ma nello stesso tempo noi siamo consapevoli di poter intuire in lui anche i concetti , cioè vederlo determinato. Questo equivale a dire che nell' essere ideale c' è la possibilità de' concetti . Spiegata cosí questa prima possibilità , non ha piú quella difficoltà che presentava da prima; perché essa riducesi alla potenza di un ente, nel caso nostro la mente umana, l' uomo. Ora che un ente finito, non sia totalmente in atto, ma abbia del potenziale, e quindi abbia una virtú d' uscire all' atto, la quale tuttavia non sempre esca all' atto, questo è un fatto ontologico che, sia pur difficile a spiegare, non ha però quella difficoltà che presentava il nudo possibile , a cui non si sa qual esistenza dare; poiché infine la potenza reale , (benché senza qualche suo atto) non è un mero possibile, ma un esistente reale; e il possibile non è piú che una semplice relazione, che vede la mente, tra l' atto implicito virtuale, e l' atto attuale. A quali condizioni poi la mente umana ponga delle determinazioni all' essere, e cosí ella si formi esplicitamente i concetti , piú o meno determinati, investigheremo nella terza parte di questo libro. I concetti dunque possibili compresi nell' essere ideale, altro non significano, se non che l' essere ideale è suscettivo d' essere intuito dalla mente umana con certe sue determinazioni. L' essere dunque tali concetti attuali, o meramente possibili, dipende unicamente dall' atto del subietto intelligente , e non dall' essere. Ma se si considera l' essere in sé , non come idea, ma come essenza , allora s' offre il concetto d' una seconda possibilità , cioè non d' una possibilità di concetti , ma di enti reali . E questa seconda possibilità ne racchiude tre, poiché si pensa una possibilità logica , una fisica ed una metafisica . Quando si dice l' ente reale possibile perché nel suo concetto non si trova niuna contraddizione, si ha una possibilità logica . E questa si distingue dalla prima possibilità , cioè dalla possibilità del concetto. Poiché il concetto : ha una possibilità anteriore , di cui egli è il subietto dialettico, e una possibilità posteriore , che nasce da lui attualmente essente e che ha per subietto il reale (pensato); ché altro è dire: il concetto è possibile a pensarsi, ed altro il dire: l' ente reale corrispondente al concetto è possibile ad esistere. La possibilità logica viene a dire, che si può pensare l' ente reale sussistente, senza che il pensiero trovi in ciò niuna opposizione alle sue leggi. Alla possibilità fisica non basta questo, ma si richiede di piú, che esista una potenza atta a produrre quell' ente di cui si ha il concetto, cioè a farlo sussistere. Ora, questa possibilità fisica manca del tutto nel puro essere reale, o nei concetti. Ma c' è in terzo luogo quella possibilità che si dice metafisica , e questa è la possibilità assoluta , non relativa al pensiero, o ad una potenza produttrice dell' ente, e neppure riguardante l' assenza di contraddizione di un concetto, ma una possibilità assoluta ed incondizionata. Questa possibilità metafisica è annessa alla possibilità logica di maniera, che data quella, c' è questa, cioè la mente appena che intuisce un' idea o un concetto, il quale è naturalmente immune da contraddizione, dice: « il tal ente è possibile », e pronuncia questo della sua realizzazione. Questa possibilità assoluta è cosa d' osservazione : la coscienza lo dice; il discorso e il senso comune degli uomini attesta questa coscienza. Su questo fatto i geometri dimandano, e tutti accordano loro, que' postulati, su cui poi ragionano. E tutti gli uomini istituiscono una gran parte de' loro ragionamenti sulle possibilità. Anzi il ragionamento e la dimostrazione non suole acquistare una forza apodittica, se non quando muove dalla possibilità assoluta, e all' evidenza di questa ci conduce; poiché allora solo si conchiude a necessità, quando si dimostra impossibile l' opposto, e l' impossibile suppone il possibile, dal cui concetto procede. La possibilità assoluta dunque è una verità necessaria, e però una verità primitiva , che non si dimostra con un' altra antecedente, perché è una di quelle notizie elementari che l' essere ideale indeterminato (idea), o determinato (concetti), produce colla stessa sua luce allo spirito che lo intuisce, tosto che la riflessione giunga ad osservare queste elementari notizie, che ella poi formola in proposizioni componenti la scienza. Dunque la possibilità assoluta non può esser negata per nessuna ragione posteriore. E questa è appunto la differenza tra la possibilità fisica e la metafisica: che la possibilità fisica è quella che s' induce dal sapere che esiste la causa; la possibilità metafisica è quella che la mente asserisce assolutamente e incondizionatamente senza pensare alla causa. Che anzi, qualora venisse tratto in mezzo il pensiero d' una causa efficiente, la mente, senza curarsi di sapere se esiste, o senza poterlo sapere, direbbe anche di essa assolutamente: è possibile. Da questo procede che, partendo dal punto luminoso della possibilità assoluta, si può argomentare e conchiudere all' esistenza d' una causa efficiente, con quella argomentazione che va dal condizionato alla condizione . Poiché se il condizionato è certo e indubitabile, come nel caso nostro della possibilità assoluta, dacché è evidente; giustamente si conchiude, che del pari indubitatamente ci sieno tutte quelle condizioni, senza le quali egli non sarebbe. Rimarrà a cercare quali sieno queste condizioni. Ora si trova che l' una di esse è l' esistenza d' una causa efficiente che lo produca: dunque questa causa esiste. La quale è una nuova prova a priori dell' esistenza di Dio. Poiché la causa di cui si parla deve essere necessaria, ché la possibilità delle cose è necessaria; e se è necessario il condizionato, tale anche la condizione. Poiché se la condizione, che nel caso nostro è la causa efficiente, non fosse necessaria, potrebbe non essere. E se potesse non essere, potrebbe essere impossibile il possibile che è condizionato. Ma questo involge contraddizione: dunque sussiste una causa efficiente necessaria di tutti gli enti reali possibili. E questa causa necessaria deve essere anche causa ultima . Che se essa non fosse immediata, ma tra l' effetto ed essa intervenissero altre cause, queste non sarebbero necessarie, e però la mente non le può mettere a priori che come possibili, e però esigerebbero sopra di esse un' altra causa esistente come loro condizione, la quale sarebbe l' ultima. C' è dunque nella mente umana dotata dell' intuizione dell' essere un' implicita e profonda disposizione a dar fede all' esistenza di un Essere assoluto potente di effettuare tutto ciò che non involge contraddizione, e il fatto universale della religiosità dell' uman genere lo conferma. Se questa questione fosse di sole parole, non la tratteremmo. Ma quello che diremo intorno ad essa tende a dichiarare meglio la natura di quel lume che è forma della mente umana, ond' è la potenza del conoscere e quindi la mente stessa. Ora, l' atto dell' intelligenza è duplice, cioè l' atto primo , che ha per suo termine l' essere indeterminato, e gli atti secondi . Coll' atto primo, col quale è costituita l' intelligenza, il soggetto non fa che ricevere irresistibilmente, cioè aver presente l' essere: egli non opera ancora come intelligente, perché come tale non è costituito, ma si costituisce in quell' atto medesimo. In tutti gli atti secondi, opera il soggetto già costituito intelligente. Se dunque per cognizione s' intendono quelle notizie, che gli vengono dalle sue proprie operazioni mentali, non si può dare il nome di cognizione alla notizia dell' essere indeterminato presente all' intuito. Importa distinguere bene la prima intuizione dalle intellezioni che vengono appresso. Se ci riduciamo all' intuito e mettiamo da parte tutto il resto, il soggetto intuente rimane privo d' ogni modo intellettuale: egli non può né ripiegarsi sopra se stesso e avere la coscienza di sé, né riflettere sull' essere che gli sta davanti per analizzarlo ed esercitarvi sopra qualunque altra operazione, né pensare al nesso tra l' essere e sé, e cosí acquistare la consapevolezza della sua propria intuizione. Poiché l' essere oggetto dell' intuito quieta l' atto di questo; ché ogni facoltà si quieta, trovato che abbia il suo termine «( N. Sagg. , n. 54. 7 550) ». Ci vuole dunque un altro termine perché si mova all' atto un' altra delle facoltà intellettive, che sono quiescenti nell' anima, e non c' è altro termine, oltre l' ideale, che il reale ; poiché l' essere morale non viene che in ultimo, dopo questi due. Il reale eccita la percezione, che è la prima funzione della ragione «( Psicol. , 1012, sgg.) ». Ora in questa funzione l' uomo trova l' ente, cioè l' essere fornito di termine e però compiuto. Di che procede, che il primo degli atti secondi ha per suo termine non l' essere indeterminato, ma l' ente; e che l' ente posto davanti alla mente sia la condizione di tutti gli atti secondi. Quindi il principio di cognizione «( Psicol. , n. 1294 7 1325) » riceve due forme: I L' essere è l' oggetto dell' intuizione naturale. II L' ente è l' oggetto delle operazioni intellettive. Questa seconda formola adunque viene a dire, che niuna operazione (atto secondo) può fare l' intelligenza umana, avendo solo presente l' essere , e non ancora l' ente . Quando poi è presente l' ente il che avviene la prima volta nella percezione, allora è possibile all' uomo di riflettere non solo sull' ente, ma ancora sugli elementi di esso, e di considerare astrattamente ciascuno di questi. Questo può far la mente, perché allora tutti gli elementi dell' ente ella vede nell' ente stesso, che le sta davanti, e che è la condizione del pensare, ed altresí la forma ch' ella applica agli elementi acciocché le si rendano pensabili in separato, rendendoli cosí enti dialettici. E invero le operazioni del pensare, che sono gli atti secondi, non potrebbero fermarsi a ragion d' esempio, in un mezzo ente, ché il mezzo non si può pensare se non dopo il tutto a cui si riferisce, e per la stessa ragione ciò che veramente si conosce deve esser uno. E quindi è che l' essere al tutto indeterminato non raggiungendo l' uno compiuto [...OMISSIS...] , non può esser l' oggetto d' un compiuto atto di conoscere, ma piuttosto d' una potenza di conoscere (1). E la condizione della potenza intellettiva è simile appunto a quella del suo oggetto; poiché questo, che è l' essere indeterminato, ha l' uno in sé, ma in un modo virtuale, in quanto è suscettivo di termini. E cosí la prima intuizione, non fu computata dagli antichi tra le cognizioni, non senza ragione, a dir vero; chè essa merita, in sé considerata, la sola denominazione di cognizion virtuale , come l' essere è l' ente virtuale, e considerata in relazione colla sola esplicazione, le si deve il nome di potenza di conoscere. Conviene però guardarsi da una falsa conseguenza; la qual conseguenza apparente si è, che l' ente finito contenesse piú di cognizione formale, che non l' essere il quale è oggetto d' una cognizione non compiuta. Poiché altro è che la cognizione sia compiuta , ed altro che sia formale : la cognizione compiuta è quella che ha davanti un oggetto compiuto, la cognizione formale all' incontro è quella che ha davanti un oggetto per sé noto, ossia per sé manifesto, ancorché non sia compiuto. Non è dunque manchevole il pensare, perché sia formale, ché per questo è anzi eccellente; ma è manchevole il pensar formale nell' uomo, perché gli è dato in scarsa dose, avendo il pensar formale per oggetto l' essere per sé manifesto. Ma altro è l' essere per sé manifesto indeterminato, altro l' essere per sé manifesto assoluto: il primo è dato all' uomo per natura, e costituisce il pensar formale limitato e manchevole; quando gli fosse dato a vedere l' essere assoluto, la sua cognizione sarebbe pure assoluta e tutta formale: questa è l' ultima perfezione del pensare formale. Da tutto quello che abbiamo ragionato fin qui, risulta che la forma dell' uomo, ossia dell' ente razionale, è l' essere per sé manifesto, in quanto è indeterminato. L' essere, senza i suoi termini, è l' inizio di ogni ente: contiene dunque la possibilità degli enti. Ma di quali enti? L' essere indeterminato non ne specifica alcuno, ma neppure ne esclude alcuno. Dunque egli è la possibilità tanto dell' essere finito , quanto dell' essere infinito . Ma la seconda l' abbiamo risposta tra i caratteri venienti dalla limitazione del nostro intuito [...OMISSIS...] , e però essa non è un carattere che appartenga all' essere in se stesso, e ciò perché l' ente infinito non ha possibilità, ma necessaria sussistenza. Rimane pertanto che l' essere indeterminato in verità altro non sia che la possibilità, ossia l' inizio degli enti finiti. Si ritenga dunque ben fermo nella mente questo vero, che « l' ente razionale umano è costituito o formato dall' essere per sé manifesto, in quanto è inizio degli enti finiti ». Come questo è il fondamento della natura umana, cosí convien che sia anche il tema del suo sviluppo e del suo perfezionamento. E quindi lo sviluppo della natura umana deve poter farsi da due lati; dal lato degli enti finiti, e dal lato dell' essere, in quanto è inizio di questi. Ma l' inizio degli enti finiti essendo dato immobilmente dalla natura, rimane sempre lo stesso davanti al soggetto, e però non ammette naturale sviluppo o accrescimento. Se dunque l' essere come inizio degli enti finiti manifestasse se stesso piú copiosamente, già non sarebbe piú ordine naturale, ma avrebbe luogo un altro ordine, un ordine soprannaturale. Gli enti finiti all' incontro sono quelli che costituiscono la natura, de' quali l' uomo stesso è uno; e però lo sviluppo dell' umano pensiero e affetto intorno a questi, costituisce l' ordine naturale. Vero è che anche intorno all' essere, come inizio degli enti, molto può travagliarsi l' umano ragionamento; ma questo rimane sempre nella cognizione dell' essere iniziale, e in questa stessa incontra un' immensa lacuna, la qual consiste in non trovare alcun nesso necessario tra l' essere e i reali finiti. Perocché questi non sono termini propri e necessari dell' essere, onde la loro esistenza non si può argomentare a priori . Come dunque esistono? La gran voglia, che ha l' uomo di conoscere la ragion sufficiente dell' esistenza de' reali contingenti di cui si compone l' universo, trasse Platone a dire che le idee (l' essere ideale) sono causa delle cose. Ma qui ebbe buono appicco Aristotele a redarguirlo, perché osservò che le idee non sono principio del moto, né cause sufficienti dell' esistenza; tant' è vero che si possono avere idee di cose che non sussistono (1). L' idea dunque dell' essere o quella dell' ente non racchiude in sé la ragione dell' esistenza delle cose contingenti. E però non ha alcun valore ontologico, né alcuna verità a priori , la formola testé proposta qual principio di tutta la filosofia: « « L' ente crea le esistenze » ». Laonde a trovare la ragione sufficiente perché sussistano quelle cose, che possono tanto sussistere come non sussistere, non basta il nudo concetto di essere e di ente oggetto dell' umano intuito, ma convien ricorrere ad una volontà libera ed eterna, il cui atto non s' intuisce. Ed appunto quel denso velo che ricuopre agli occhi intellettuali dell' uomo quest' atto volontario dell' essere assoluto, è la cagione per cui tutto questo universo sta davanti al pensare umano come un grand' arcano, un mistero impenetrabile. Questo affrena l' umana intelligenza. Ed ella spera talora di spuntare la sua voglia giungendo per via del ragionar formale, e di determinazione logica, a conchiudere che quell' atto creativo de' contingenti ci deve essere . Ma poi non rimane soddisfatta appieno di questa conquista. Poiché quantunque conosca che ci deve essere , tuttavia no' l vede questo atto, e però non sa come sia; onde spiega a se stessa l' esistenza dell' universo, ma con una incognita. Gli imprudenti si buttano a sistemi erronei, pei quali col favore di molte idee confuse persuadano a se stessi di vedere indubitatamente la prima causa. I prudenti dicono quello che diceva Socrate in que' dialoghi di Platone: « « aspettiamo che la prima Causa si manifesti da sé medesima » ». Perocché avendo noi conosciuto, che questa Causa ci deve essere, e deve avere prodotti noi stessi; di conseguenza, come ottima, manifesterà a noi se stessa, e cosí compierà quel voto, quella necessità intellettuale di conoscerla, che ella stessa ha lasciato in noi. Sarà questo il compimento dell' opera sua, che ella non può lasciare imperfetta (1). La dottrina dell' idea, come ogni altra dottrina speculativa, ha due maniere di processo ragionativo. Il primo processo parte dall' osservazione del fatto, e la sagacità del filosofo si dimostra in questo, che coglie e stabilisce il fatto in tutte le sue parti, e si assicura bene della sua verità con ogni cautela. Ciò che dà l' osservazione è in ogni caso un punto fermo. Ma se il fatto osservato è di tal natura, che mostri in se stesso necessità; allora s' avrebbe non solo un punto certo, ma eziandio evidente. E si scopre la forza dialettica del filosofo, quando da questo principio procede per via di continue illazioni. Poiché quando il fatto sia tale, che l' illazione si derivi a rigor di logica, egli non ha piú cagione di dubitare del fatto suo. Ma questo processo, il piú eccellente, è di pochi. Il secondo processo ragionativo, buono anch' esso se accompagnato dal primo, ma secondario e amplissimo fonte di sofismi ove se ne vada senza il primo, come per lo piú avviene, è quello che muove dai dubbi e dagli apparenti paradossi, e domanda che questi sieno rimossi e spiegati prima di assentire alla loro dottrina. Qualora questo processo ragionativo sussegua al primo, egli produce una nuova copia di sapere, e quasi una nuova scienza; conduce alle piú profonde investigazioni per cogliere le piú intime verità. Ma se si comincia da questo processo deontologico, cioè che cerca quel che deve essere invece che dal primo ontologico, che cerca quello che è, se n' hanno molti inconvenienti, e principalmente questo, che si parla di cose di cui non sono ben chiarite le idee; poiché è col primo processo che si chiariscono. E questo è il difetto del metodo degli Scolastici che, educati dalla logica di Aristotele tutta argomentativa, incominciano sempre dai dubbi. Noi dunque abbiam tenuto sempre nelle nostre ricerche per massima l' incominciare dal primo processo ragionativo. Onde, nell' Ideologia, colla quale abbiamo incominciato il nostro discorso filosofico, dichiarammo di prendere a punto di partenza l' osservazione , e non il dubbio metodico . Ma or che crediamo aver alquanto dato opera al primo processo, prendiamo la seconda fatica. Intendiamo dunque, in questa parte, di risolvere le principali obbiezioni che si sono accampate contro l' essere ideale. Le difficoltà, che s' incontrano meditando sull' essere manifesto e sui concetti, derivano da quattro fonti: 1) Dalla natura dell' essere stesso, qual si rappresenta all' intuito naturale dell' uomo; e queste abbiamo procurato di risolverle nella prima parte di questo libro, e nel libro terzo. 2) Dalla relazione coll' essere divino. 3) Dalla comunicazione coll' essere e dell' essere per sé manifesto colle intelligenze finite. 4) Dalla comunicazione dell' essere per sé manifesto co' reali finiti. Queste due ultime classi di difficoltà somministrano l' argomento alla seconda e alla terza parte di questo libro. Dobbiamo dunque ora svolgere le difficoltà che traggono l' origine dalla comunicazione che l' essere manifesto ha colla mente umana. Dobbiamo dunque trattare due questioni: Questione I Delle difficoltà che s' incontrano nello spiegare la congiunzione delle idee colla mente da parte delle idee, cioè dell' oggetto. Questione II Delle difficoltà che s' incontrano nello spiegare la congiunzione delle idee colla mente da parte della mente, cioè del subietto. Prendiamo dunque a considerare la congiunzione dell' idea, ossia dell' essere, colla mente, in primo luogo per rispetto all' essere stesso ideale. Questa ricerca ci conduce a due risultati: 1) Che la natura dell' essere ideale è tale, che unendo in se stessa senza alcuna contraddizione due modi d' esistenza, uno in sé, e l' altro relativo alla mente, o per meglio dire avendo un modo d' esistenza che abbraccia questi due, rende possibile la comunicazione di sé ad una mente. 2) Che questa comunicazione non solo è possibile, ma è necessaria; di maniera che sarebbe ripugnante alla stessa natura dell' essere ideale, che una tale comunicazione non avesse luogo. Tutta la difficoltà a intender questo nasce dall' inclinazione di applicare all' esistenza dell' essere ideale le leggi dell' esistenza subiettiva. E infatti l' esistenza subiettiva è tutta relativa al subietto, cioè s' esaurisce e termina nel subietto stesso, onde ripugna che il subietto, se esiste solamente rispetto a sé, esista come subietto in altro modo. Vero è che il subietto intelligente può considerare se stesso come obietto. Ma in tal caso interviene il modo obiettivo di essere: onde riman fermo che il puro subietto come tale finisce in se stesso. Ma totalmente diverso e opposto si è il modo di essere obiettivo. Questo è un modo per la sua stessa essenza relativo ad altro. Vedesi dunque che dalla parte della idea, ossia dell' oggetto della mente, cessa ogni difficoltà al concepire ch' ella abbia un' esistenza che involge in sé la necessità d' esser ella presente a una mente, e che questa necessità non le toglie punto l' essere per sé distinta dalla mente. Poiché il modo d' esistere per sé, e il modo d' esistere relativo ad un altro non s' escludono, e possono entrare tutti e due ad un tempo in una sola essenza. Quello che impediva di conoscere questo vero alla mente, si era il non abbastanza conoscersi la natura della relazione e dei relativi. E la difficoltà, viene da questo, che gli uomini considerano esclusivamente le cose che loro cadono sotto i sensi nella loro esistenza subiettiva o estra7subiettiva, la quale è per sé, e non ha bisogno di relativi per essere concepita. Poiché l' esistenza subiettiva riguarda il subietto e non sorte da esso; e questa cognizione coll' aggiunta di quella di alcune relazioni accidentali tra le cose basta alla vita comune. Appartiene soltanto all' ozio della filosofia l' indagare la natura piú in là, e pervenire alla considerazione dei relativi essenziali ed assoluti, il che, direbbe Platone, è di tutti gli Dei, ma tra gli uomini d' assai pochi. Convien dunque che la mente speculatrice si persuada, lasciati a parte i relativi accidentali, che si dà un genere di relativi i quali sono per sé; di maniera che nel genere di quelle entità che per sé si dicono si contiene una specie di relativi. Onde il genere delle entità per sé e il genere dei relativi non al tutto s' oppongono e s' escludono fra di loro, ma una specie di questi secondi è in pari tempo una specie che appartiene al genere delle entità per sé, di maniera che nell' ordine logico dei predicati prima appartiene loro l' essere relativi a quel modo che la specie appartiene ad una data quantità prima del genere; con questo solo sono già divenuti una specie del genere de' relativi. Ma sopravvenendo loro per opera della mente l' attributo di essere questi relativi per sé, essi mediante questa giunta sono resi una specie del genere delle entità per sé. Onde non repugna che appartengano a due generi opposti perché vi appartengono a cagione di due predicati che si sovrappongono successivamente l' uno all' altro. L' essenza delle cose, come abbiam detto, è la loro quiddità (1). Ogni qualvolta si ha l' idea di una cosa, si sa che cosa è, a tal che si può in qualche modo definire; e tuttavia la cosa potrebbe egualmente sussistere e non sussistere (2). Dunque la mera essenza delle cose contingenti non involge la loro sussistenza, non è la sussistenza, che ce ne faccia conoscere la quiddità, ma la loro quiddità stessa presente alla nostra mente è l' essere che le manifesta. L' osservazione adunque, l' osservazione ontologica dimostra che le essenze delle cose contingenti appartengono all' essere manifestante, sotto la quale relazione acquista il nome d' idea. Questa è dottrina evidente insegnata dal maggiore e piú saldo filosofo che avesse mai l' Italia, l' Aquinate. Egli dice chiaramente che l' essenza è ciò che vien significato dalla definizione (1). L' Aquinate esprime ancora piú chiaramente il suo pensiero dove dice che « « l' essenza è ciò di cui l' essere è l' atto »(2) ». L' essere come atto è il reale; perciò l' essenza non ha in sé questo atto, ella dunque è in potenza, è la possibilità della cosa. Dove convien sempre ritenere, che tutte le essenze delle cose si riducono a una sola, cioè all' essere universale . Attesa la precedente sentenza di San Tommaso, Guglielmo Tennemann, nel suo « Compendio della storia della filosofia », ripone il Santo Dottore fra gli idealisti, scrivendo di lui cosí: « « Egli era idealista, e considerava l' oggetto dell' intelligenza, o la forma astratta delle cose, come la loro essenza originale »(3) ». Ma questo è abuso della parola (4) « idealista », la quale significa la setta di quei filosofi che negano la realità de' corpi od altre realità, riducendo la realità alle idee. Laonde, quantunque San Tommaso riconosca che l' essenza è ciò che s' intuisce nell' idea, ond' anco definisce l' essenza « « ciò che viene significato dalla definizione »(5), tuttavia egli è ben lontano dal negare la realità de' corpi od ogni altra realità. Ché anzi, paragonando il reale all' ideale, considera quello che nel suo linguaggio è chiamato essere come l' atto; e l' essenza rispettivamente come la potenza o per dir meglio, la possibilità; onde un' altra definizione che dà il Santo Dottore dell' essenza cosí: « Essentia est illud, cuius actus est esse (6) »; la quale consuona a capello con ciò che noi diciamo. Secondo la qual dottrina ancora San Tommaso insegna, che i particolari (contingenti) sono fuori dell' essenza (1). E veramente i particolari individui appartengono per primo all' ordine delle realità , e nascon da questa, né hanno la loro ragione sufficiente nella semplice idea della cosa. Ed egli è per questo, che noi abbiam già detto, ogni idea qualsiasi essere una specie, cioè la base d' una specie, ossia quel lume, pel quale non si conosce già l' individuo nella sua particolare sussistenza, ma tutti gli individui senza numero che venissero realizzati da un agente reale che n' avesse il potere. E qui potrebbe cadere la questione « se il proprio appartenga agli accidenti », della quale sentenza si dimostra l' Aquinate (2). A cui noi rispondiamo, che se s' applica la parola proprio all' essenza stessa delle cose, ogni essenza è propria, e questo proprio non è né accidentale né sostanziale, ma essenziale . Se poi s' applica il proprio ai reali, diciamo che nulla v' ha in essi di veramente proprio se non la stessa realità , e quindi che ove il reale è necessario (Iddio), in tal caso il proprio non può essere accidentale, ma ove il reale di cui si parla è contingente anche il proprio è accidentale, perché è accidentale la realità stessa che lo costituisce. Un' altra qualità dell' Essere manifestante è l' universalità. Egli dicesi universale non già perché in se stesso considerato come ente non sia uno, e in questo senso, particolare. L' unità è propria d' ogni ente concepibile. Dicesi adunque universale unicamente perché egli è il mezzo necessario a conoscere tutte le cose. Questa parola universale adunque esprime una relazione dell' essere manifestante, colle cose manifestate; e questa è scoperta dalla riflessione del filosofo che è pervenuto a raffrontare insieme l' Essere manifestante colle cose manifestate, e a rilevare che quello è il mezzo di conoscere queste. Laonde questa relazione non cade propriamente cosí distinta, da potersi enunciare nell' intuizione dell' essere stesso; perocché l' uomo ha tre passi di sviluppo avanti di pervenirci: 1) intuisce l' essere, senza sapere che sia mezzo di conoscere; 2) adopera l' essere qual mezzo di conoscere, senza riflettere alla relazione di quel mezzo al fine; 3) riflette a questa relazione, giacché altro è l' adoperar un mezzo ad un fine, e altro è il riflettere sulla sua qualità di mezzo e astrarre questa qualità, e cosí astratta enunciarla e ragionarne. Quest' ultimo passo il fa soltanto la filosofia. Stabilito adunque che la notizia che ha l' uomo per natura è quella dell' esistenza senza alcun' altra determinazione, consegue che l' esistenza cosí intuita dalla mente (Essere manifestante) sia pura forma di cognizione senza alcuna materia. Per forma della cognizione intendiamo quell' elemento, pel quale la cognizione è cognizione, pel quale ogni cosa cognita è cognita. Questo elemento dunque non può mancare in niuna cognizione. Di piú, questo elemento dee essere cognito per se stesso, poiché è egli stesso quello che fa sí che qualsivoglia cosa sia cognita. Dee dunque esser noto immediatamente, per sé noto. Ora in ogni nostra cognizione niente si conosce, se non si conosce l' esistenza; perocché ogni cosa nota non è altro, che cosa della quale si conosce l' esistenza (possibile) e le determinazioni. Ma ciascuna delle stesse determinazioni non si conosce, se non si conosce la sua esistenza possibile; e il conoscerle è lo stesso che il conoscerle esistenti nella loro possibilità. Dunque ogni conoscere è conoscere l' esistenza almeno possibile. Dunque l' esistenza ideale ossia possibile, ovvero l' idea di esistenza, è la forma di tutte le cognizioni. La materia delle cognizioni sono le determinazioni dell' esistenza, o ideali, o reali, o morali. E materia qui significa ciò che è conosciuto e che non fa conoscere, cioè che ha bisogno di altro cognito per essere conosciuto, ciò in cui finisce la cognizione come un suo termine. La mente trova questa distinzione che separa nella cognizione la pura forma del conoscere dalla materia. Ma come la stessa cosa può esser forma ad un tempo della cognizione e della potenza di conoscere? Questo è conseguenza della natura speciale di questa forma a differenza di tutte le altre, la qual natura consiste nell' esser forma oggettiva «( Psic. , n. 23.) ». Quindi accade che ella abbia le due relazioni, di cui abbiamo parlato, cioè che ella sia ad un tempo manifestante e manifestata . Sotto la relazione di manifestante dicesi forma della mente, perocché senz' essa la mente non sarebbe mente. Sotto la relazione di manifestata dicesi forma della cognizione, perché costituisce l' oggetto cognito, ciò che v' ha di oggettivo e però di formale in ogni cognizione. Quindi l' Essere ideale, se si considera come oggetto manifesto alla mente, e però distinto dalla mente, è causa immediata per la quale la mente acquista l' attitudine di conoscere. Ma se si considera quest' attitudine rispetto a quelli che si chiamano comunemente atti conoscitivi, se si considera che l' attitudine a far questi atti non è mai altro che l' attitudine a veder l' Essere stesso variamente determinato, egli è chiaro che l' Essere è la forma stessa del conoscere, perché ha la condizione di manifestante. Attesa poi questa doppia relazione dell' Essere ideale, accade che, nel ragionarsi di lui, egli prende quasi due faccie diverse: perocché talora ci appare come è in se stesso, indipendente da ogni mente, in questo senso, che si pensa a lui senza bisogno di pensare nello stesso tempo alla mente; talora poi ci appare come posseduto dalla mente stessa, legato alle menti particolari e cosí quasi direbbesi particolareggiato. In quest' ultimo rispetto egli è propriamente forma delle menti singole, e da questo legame colle menti singole divien singolare, e si moltiplica, non per sé, ma pel legame: come un' idea qualsivoglia, benché universale, dicesi particolare se si considera unita ad un particolare che fa conoscere, il che accade nella percezione, e nell' ente ipotetico. E già l' Angelico vide, che il lume del naturale intelletto doveva essere forma ad un tempo della mente e della cognizione. Onde gli attribuisce due funzioni, o due effetti, come li chiama: l' uno di rendere le cose attualmente intelligibili, « cuius est intelligibilia facere in actu », il che è quanto dichiararlo forma della cognizione; l' altro di perfezionare l' intelletto possibile, « perficere intellectum possibilem ad cognoscendum », il che è dichiararlo forma dell' intelligenza (1). L' Essere adunque in quanto è manifestante, o intelligibile per sé, informa la mente. In quanto poi è manifestato, è forma della cognizione. L' Essere in quanto è manifestato, per la sua propria virtú di manifestarsi, è ancora la forma degli enti sussistenti concepita dalla mente, a cui la sussistenza stessa fa l' ufficio di materia. La forma adunque delle cose è oggetto dell' intuizione, all' incontro la sussistenza è termine dell' atto di sentire: di maniera che la forma e la materia sono unite nell' universo di quel nesso appunto, del quale è unito il sentimento coll' intelligenza; nesso che non si scioglie mai, se non per via d' astrazione e d' ipotesi non conseguente a se stessa. Ora, fin a tanto che non si pensa ad altro, fuorché la forma ideale, questa forma pensata è meramente possibile, mancante dell' atto della realità; e però si dice in potenza ad essere realizzata. Ma ciò che è in potenza è anteriore a ciò che è in atto, l' atto compie ciò che è in potenza, e la potenza non è che il principio dell' atto. Quindi è che l' Essere ideale dicesi ancora non impropriamente Essere iniziale , perché da lui comincia la cognizione e la possibilità dell' Essere, da cui muove l' atto della sussistenza, che assolve e compie l' Essere stesso. Se poi si considera l' Essere tal quale cade nel primo intuito, egli non porge allo spirito la forma completa di nessun essere particolare, ma presenta l' Essere stesso non già completo, sibbene del tutto iniziale. Quest' è dunque anteriore sí nell' ordine del pensiero (ordine dell' Essere manifestante), e sí nell' ordine degli oggetti del pensiero (ordine dell' Essere manifestato), a tutte le forme particolari degli enti: e però se queste sono iniziamenti degli enti particolari, l' Essere qual cade nel primo intuito è iniziamento di questi iniziamenti, perché è la prima cosa che sia in essi, ed in essi si conosca. Dalla condizione poi d' iniziale solamente, che ha l' essere qual cade nell' umano intuito, conseguita che egli si predichi univocamente di tutte le maniere di enti, e sí bene di Dio, come delle creature. Perocché se non si potesse predicare l' esistenza delle creature, queste non sarebbero, e dicasi lo stesso di Dio (1). Predicare univocamente l' esistenza vuol dire: predicar l' esistenza, pigliata la parola nello stesso significato. Però non è a credersi che si predichi nello stesso modo, perocché predicare significa unire, attribuire qualche cosa ad un subietto. Ora la mente che considera le cose create siccome enti non attribuisce mica ad esse l' esistenza nello stesso modo, che a Dio; ma ella dà a Dio l' esistenza come cosa sua propria, alle creature come cosa partecipata, a Dio come essenziale e necessaria, alle creature come accidentale, la unisce a Dio identificandola con lui stesso, alle creature distinguendola da esse. I modi possibili della comunicazione degli enti fra loro sono due, perché due sono i costitutivi d' ogni ente contingente, l' essenza e la realità . Quei due modi di comunicazione possono stare separati, cioè effettuarsi l' uno e non l' altro. Cosí le bestie sono enti i quali non ricevono comunicazione cogli altri enti, se non nel secondo modo. All' incontro, allorquando un uomo intuisce l' essenza di un ente senza che gli si comunichi la realità di lui, la comunicazione dell' ente all' uomo è fatta nel primo modo, ed è comunicato il primo elemento degli enti contingenti, l' essenza . Allora, quando la comunicazione di un ente all' altro, si fa in entrambi i modi, e quindi si comunicano entrambi gli elementi dell' ente, l' essenza e la realità, allora vi è comunicazione perfetta, la comunicazione di tutto l' ente, la compiuta cognizione (1). L' essenza di un ente distinta dalla realità comunicata ad un altro dicesi idea ; e l' atto con cui è ricevuta la comunicazione, intuizione , conoscenza (per intuizione). La realità di un ente comunicato ad un altro dicesi percepita sensitivamente, e l' atto con cui è ricevuta la comunicazione, percezione sensitiva . Potendo trovarsi divisi que' due modi di comunicazione, niuna meraviglia è che allo stesso modo possano negli enti contingenti trovarsi divisi i due elementi della essenza e della realità; e che l' uno possa aver natura assai diversa dall' altro. Il primo elemento, l' essenza, è sempre immutabile ed eterna. Il secondo elemento, la realità, può essere eterna ed immutabile, nel qual caso s' adegua e continua all' essenza dell' essere in universale, e tutt' insieme è la natura divina; ovvero è contingente, ed in tal caso costituisce gli enti limitati e creati. Questi due elementi entrano nella composizione di ogni ente perfetto conosciuto. Lo scoglio della filosofia suol essere il non potersi intendere come si componga in un solo ente l' ideale e il reale. Ma perché questo è scoglio in cui s' infrange il naviglio? Perché la mente, avvezza a vedere ogni cosa nello spazio e nel tempo, va pure ripensando come anche quell' unione dell' ideale e del reale si faccia quasi nello spazio e nel tempo; il che è cosa impossibile ad avvenire e del tutto assurda. Quest' unione si fa in presenza della mente, non in alcuno spazio, ma nel mondo, per cosí dire, dell' essere stesso, nel mondo metafisico che è quello della verità. Quegli enti, ai quali si comunica l' essenza per via d' intuizione, sono fatti con ciò intellettivi; gli altri, a cui non è data questa comunicazione, sono privi d' intelligenza. Dal detto pertanto si trae in che differiscano l' essenza e l' idea ; quella è ciò che s' intuisce in questa (ente manifestato, oggetto): colui che l' intuisce la intuisce come cosa diversa da sé. Ma se questa cosa diversa dall' intuente si considera in rapporto coll' intuente, come atta ad intuirsi (ente manifestante), allora chiamasi idea . Come idea ella è nella mente; ma come essenza è la cosa in sé senza alcun rapporto colla mente stessa. Gli Scolastici distinsero l' idea , che dissero essere « quod cognoscitur (1) », dalla specie che dissero « quo cognoscitur », il mezzo formale con cui si conosce. Ma propriamente ciò che si conosce (nell' ordine ideale) è l' essere manifestato, cioè le essenze , e non le idee; ciò poi con cui si conosce sono le idee. La qual distinzione è importante perché se ne ha il conseguente, che le essenze possono essere molte, e l' idea cioè la loro intelligibilità una sola. Infatti noi abbiamo provato che colla sola idea dell' essere si conoscono tutte le essenze delle cose, solo che queste sieno date nel sentimento. Onde, a propriamente parlare, l' idea , il « quo cognoscitur », è una sola (2); ma aggiungendosi a lei diversi sentimenti, ella viene moltiplicandosi, e le molte idee che sembrano venirne, piú acconciamente si chiamano concetti , o ragioni delle cose (3), e specie se possono servire di fondamento alla specie, generi poi se possono servire di fondamento ai generi delle cose. Ora la specie , ossia il concetto specifico, ha questo di proprio, che è il primo che si trae dalla percezione, onde rappresenta alla mente tutta la cosa (possibile), laddove il genere non la fa conoscere tutta, ma solo qualche elemento che ha comune con altre cose. Quindi Platone distingue la specie dall' idea come l' essenza veduta nelle cose reali da ciò con cui si conosce. « Io stimo che tu reputi ogni specie ( «eidos») esser una per questo, che quando si mirano da te piú cose grandi, a te che le vedi tutte pare una sola idea ( «idea») ». Sicché le specie sono per Platone le essenze, e queste in quanto sono nella natura, son le forme delle cose, e in quanto sono intuite dalla mente, gli esemplari , perché, rappresentando tutt' intera la cosa, a differenza dei generi, possono essere condotti al loro atto esterno e reale dall' artefice che ha virtú di ciò fare, onde dice Platone, che « « le specie stanno nella natura siccome esemplari »(1) ». Platone talora invece di specie usa dire la nozione delle specie ( «eidon noema»), la qual parola nozione viene ad indicar l' atto della mente che intuisce le specie o forme nella natura, ovvero le stesse specie o forme o essenze in quanto sono intuite dalla mente, laonde mentre pone le specie nella natura, colloca la nozione delle specie negli animi (2). Le specie dunque per Platone sono le essenze compiute , l' ente ideale vestito co' suoi termini, ond' anco le chiama, distinguendole dall' ente, «ton onton eide» (3). Dal che si vede che la natura di esemplare non conviene propriamente all' idea , perché ella presenta un' essenza determinata, né ai concetti generici, per la stessa ragione, ma unicamente alla specie che presenta un' essenza al tutto determinata. Del resto è da distinguere l' essenza indeterminata dall' essenza determinata. L' indeterminazione dell' essenza non appartiene già all' essenza, ma altro non è che la limitazione del modo in cui si comunica, comunicandosi senza le sue determinazioni. Fra l' essenza dell' essere, poi, e quella delle altre cose v' ha questa somma differenza, che quella nelle sue determinazioni racchiude la realità, laddove l' essenze delle altre cose non la racchiudono. Indi è che l' essenza determinata dell' Essere, che è l' essenza di Dio, non si può comunicare se non comunica anche la sua realità, onde la comunicazione di lei non si fa per mera idea, ma per via di verbo, come altrove dichiarammo. La natura del conoscere giace nella sua oggettività, cioè il conoscere è la comunicazione di un ente (il cognito) ad un altro ente (il conoscente) fatta per modo, che colui che riceve la comunicazione dell' altro ente lo possiede non come se stesso, ma come un altro ente, e l' atto con cui riceve la comunicazione di quest' altro ente, e con cui lo possiede, finisce in quell' altro ente non in quanto sussiste in sé, ma in quanto è posseduto. All' incontro, la natura del sentire giace nella sua soggettività, poiché il principio senziente tende a costituire se stesso, non ad uscire di sé e trovarsi in un altro; e quantunque abbia un termine diverso, nol possiede come ente, ma quel termine coopera solo a costituire il principio che sente e variamente modificarlo. E` proprietà dell' ente oggettivo comunicarsi nel primo modo, la qual comunicazione è, come dicevamo, ciò che si chiama cognizione. Un ente in quanto riceve tale comunicazione dell' ente oggettivo, dicesi conoscente o intelligente. L' osservazione del fatto dimostra che gli enti contingenti in quanto sono tali, cioè in quanto sono meramente reali, non hanno questa qualità di essere enti, e però né pur di essere oggetti; quindi per se stessi non producono cognizione, ma solo appartengono al senso; e per essere cogniti conviene s' uniscano all' ente oggettivo, ed insieme con esso si comunichino. All' incontro dimostra il ragionamento, che l' ente per sé oggettivo (l' Essere) dee avere la sua propria realità, la quale però non si comunica all' uomo in questa vita, di modo che questa stessa realità appartenga all' oggetto, come essenza veduta nell' idea. Quindi una doppia difficoltà: 1) la difficoltà d' intender come la realità dell' Essere, oggettiva com' è, possa essere comunicabile come realità. 2) La difficoltà d' intendere come la realità contingente, che non è per se stessa oggettiva, possa essere comunicata oggettivamente. La prima difficoltà sorge nella mente di chi pensa, per due ragioni: 1) Perché non conoscendo noi per esperienza in questa vita altra realità che quella degli esseri contingenti, e trovando che questa realità è oscura per se stessa e non intelligibile, non7ente; non possiamo facilmente concepire che v' abbia una realità intelligibile per se stessa. Il che però non è ragionamento, ma forza di quell' abitudine che ci impicciolisce e limita alle cose dell' esperienza, dalla quale limitazione la mente del filosofo si scioglie solo che rifletta, come la ripugnanza ad ammettere cose diverse dalle sperimentate non è argomento a dimostrarne la impossibilità. D' altra parte, se egli è manifesto che noi comunichiamo colle essenze degli enti (la qual comunicazione si dice idea) apparirà manifesto, che per intelletto (che è la potenza dell' idea) noi potremo comunicare colla realità, se si trovi un' essenza reale per se stessa; ora tale si prova dover essere l' essenza divina. Onde non è punto assurdo che la divina essenza, realissima com' è, si possa comunicare a noi per via d' intelletto, pel quale ci è data la comunicazione delle essenze degli enti. 2) Perché l' essenza porgendosi all' intelletto nella sua condizione d' oggetto, e l' oggetto non cagionando che il conoscere senza operare nel soggetto; pare che non si possa manifestare giammai come reale, se prima non ha operato nel senso, modificandolo; perché il carattere della realità è appunto questo, di essere operativa nella realità dell' ente a cui viene comunicata, cioè nel sentimento. Il quale ragionamento non riceve per vero una soluzione di facile intelligenza, ma irrefragabile tuttavia. Perocché, si risponde che, quantunque la realità per se stessa oggettiva si comunichi come oggetto di maniera che l' ente che ne riceve la comunicazione possieda questa realità come un altro, un diverso da sé, e termini non in sé ma in quest' altro l' atto di tale ricevimento, e di tale possesso; tuttavia in quest' oggetto reale possederà la sua propria causa, e in essa troverà se stesso da cui emana (1): onde la comunicazione oggettiva sarà comunicazione oggettiva di un sommo bene: cioè di cosa che si comunica soggettivamente, cioè operando creando e perfezionando e dilettando, la qual dilettazione poi si compie col vederla nell' oggetto. Cosí avverrà che l' intelletto nell' oggettivo troverà il soggettivo, e quindi l' intelletto riceverà quella comunicazione non pure come principio di conoscere, ma ben anche come principio di sentire: onde in tal fatto la comunicazione oggettiva e la soggettiva unite insieme si alternano e insieme si unificano (1). Passiamo alla seconda difficoltà cercando se l' intelletto come senso nulla opera in questa vita, oltre attingere l' idea. « Se il senso intellettivo nella vita naturale dell' uomo si estenda alla percezione dei reali »: la risposta negativa, che altrove abbiam data a somigliante quesito, è ella vera? All' intelletto appartiene la sola intuizione ; la potenza dell' affermazione o della predicazione consegue ad esso, e però non produce un oggetto novo, ma solo pronuncia la reale ossia soggettiva sussistenza dell' oggetto intuíto. Il dubbio adunque può nascere solo rispetto alla intuizione delle essenze determinate dai sensibili, dei concetti specifici pieni, ed astratti conseguenti. Cioè si può dimandare: « se questi sensibili sieno intuiti dall' intelletto, ed intuendoli, se da ciò ne venga che l' intelletto puro percepisca de' reali ». A cui si risponde, 1) che i detti sensibili non sono sensibili all' intelletto in questo senso, che l' intelletto sia il principio sensitivo che li costituisce sensibili (giacché il sensibile o il sentito viene costituito dal principio sensitivo, come da sua causa); 2) che il soggetto umano intellettivo apprende il sensibile già formato in lui in quant' è anco soggetto sensitivo, lo apprende, non lo forma come fa il principio sensitivo, e lo apprende come entità determinata, il che è quant' a dire come essenza. Ora l' essenza, oggetto dell' intuizione, non è propriamente il reale a quel modo che sta nel senso, ché anzi ogni reale contingente considerato a questo modo è fuori dell' essenza, non è l' essenza stessa, come accade del reale necessario (di Dio), il quale dove si manifestasse all' uomo, si percepirebbe nella stessa essenza, oggetto dell' intuito, e come essenza egli stesso. A questa dottrina, certamente sottile ad intendere (la cui difficoltà consiste ad osservare ciò che si contiene nell' essenza determinata, senza aggiungervi nulla ad arbitrio), che stabilisce non poter mai l' intelletto, preso come senso, estendersi alla intuizione e percezione de' reali contingenti, si dee tuttavia qui aggiungere qualche cos' altro che la perfezioni e compia. E questo si è, che quantunque l' intelletto quando intuisce l' essenza determinata non abbia per suo oggetto il sensibile come reale, tuttavia ha per suo oggetto il sensibile nel suo modo di essere intelligibile. Perocché il sensibile stesso si può considerare: 1) o qual' è senza alcuna relazione coll' intelletto, ed in tal caso egli è realità, ma non è ancor ente, né ideale né reale; è un ente imperfetto, incoato, a cui manca la forma dell' ente, è materia, quello che gli antichi dicevano non7ente; 2) o qual è in relazione coll' intelletto, ed in tal caso egli diviene ente7essenza, iniziale, ossia ideale; e qui il sensibile, come tale, è bensí supposto qual materia, ma non la forma stessa, l' essenza stessa; 3) o finalmente qual è in relazione colla ragione affermante, e solo in quest' ultimo stato egli acquista il nome di ente7reale. Onde si può dire, che quantunque l' oggetto dell' intelletto puro in tal caso non sia l' ente reale, tuttavia è un oggetto che in altra relazione, cioè in relazione al senso, è sensibile (realità non7ente), e in altra relazione, cioè in relazione alla ragione affermante, è ente7reale. Il termine è identico, ma senza relazioni all' intelligenza, non è ente: intuíto poi dall' intelletto è intuíto solo in quella sua relazione, per la quale è ente7essenza; percepito dalla ragione, è percepito in quella sua relazione, per la quale è costituito ente7reale. Dove è da notarsi, che si parla di una relazione con una intelligenza in genere, non coll' intelligenza dell' uomo. Perocché l' intelligenza dell' uomo dà al sensibile quelle relazioni che lo costituiscono ente7essenza, ed ente7reale rispetto all' uomo; ma l' intelligenza assoluta e divina è quella che gli dà tali relazioni in modo assoluto e permanente, e cosí tale lo costituisce. Ma qui giova che noi ci tratteniamo un poco a svolgere i concetti di cognizione in potenza e di cognizione in atto ; i quali sono dei piú comuni in sulle labbra e in sulle penne dei filosofi, e perciò dei piú difficili e d' una difficoltà celata; perocché i concetti piú elementari e piú necessari al ragionare si ammettono tanto facilmente per veri, che si crede di conoscerli a pieno solo perché si adoperano. E poiché Aristotele stabilí tutta la sua teoria dell' umana cognizione sulla distinzione fra ciò che si conosce in potenza e ciò che si conosce in atto, la dichiarazione di tali concetti che manca totalmente in quel filosofo, farà meglio conoscere il difetto di quella teoria. Il concetto della virtualità e della potenza è infatti dei piú oscuri e misteriosi. Perocché fra essere e non essere non si dà mezzo; ora ciò che è in potenza, egli sembra che ancora non sia, e però che sia nulla. E se non è nulla, che cosa è? Questa domanda è generale, estendendosi ad ogni essere in potenza; restringiamola per ora alla sola cognizione. Che cosa è dunque la cognizione in potenza? Che cosa è la cognizione in atto? Come vi hanno due modi di essere, l' ideale o iniziale, e il reale o sussistente; cosí vi hanno due modi di cognizione: la cognizione dell' universale, e la cognizione del particolare o singolo reale. Di piú, la cognizione dell' universale è indeterminata o determinata; e la indeterminata è piú o meno tale, onde v' ha quella che è indeterminata del tutto (l' essere in universale), v' ha quella che è solo in parte determinata, come accade dei concetti generici e specifici astratti. Ora l' universale quant' è piú indeterminato tant' è piú universale, perocché l' indeterminazione è l' universalità dell' universalità. Comprendendo dunque nell' universalità l' indeterminatezza che di tanto l' aumenta, che l' aumenta cioè nella proporzione che tengono le serie delle potenze la cui prima radice sia l' universale, cioè l' infinito, diciamo in generale che « conoscere checchessia per via d' universali è conoscere in potenza, e conoscere per via di realità è conoscere in atto ». Di che consegue: 1) che la piú attuata cognizione è quella dei particolari reali; 2) che di poi ogni cognizione degli universali è tanto piú cognizione in potenza, quanto gli universali conosciuti hanno piú d' universalità; 3) che perciò la cognizione di ciò che è meno universale è cognizione in atto, rispetto alla cognizione di ciò che è piú universale; e ciò che è piú universale è cognizione in potenza, rispetto alla cognizione di ciò che è meno universale. Dove si parla di piú e meno universali rispondentisi: a ragion d' esempio, del genere rispetto alle sue specie, e della specie rispetto al suo genere. Chi conosce il genere e nulla piú, conosce le specie in potenza solamente, come quelle che sono nel genere virtualmente contenute, ma non ancora distinte; e chi conosce solamente la specie astratta, si dice che conosce in potenza, ma non in atto ancora, la specie7piena; e chi conosce la specie piena, conosce l' individuo reale in potenza. Sicché cognizione in potenza o virtuale altro non significa, se non una relazione della cognizione di ciò che è piú universale, in rispetto a ciò che è meno universale: e cognizione in atto significa la relazione della cognizione di ciò che è meno universale, in rispetto a ciò che è piú universale. E quantunque la cognizione in potenza, ancora non sia; tuttavia si dice che è, perché non lei, ma la sua parte formale è già. Conciossiaché il piú universale è la parte formale della cognizione che ha men d' universale. I vocaboli dunque di cognizione in potenza o virtuale divengono cosí assai chiari, quando si conosca che furono inventati per significare un fatto gnomico, il servigio che fa l' universale all' intelligenza quando le è dato il meno universale, di mostrare in sé questo secondo contenuto, il che è lo stesso che farlo conoscere in atto. Queste dottrine non isfuggirono a quel grande filosofo di cui l' Italia inorgoglirà santamente piú che mai, quando riacquisterà un po' di spirito nazionale, e smetterà il suo fanciullesco attenersi alle gonne delle altre nazioni, dico a San Tommaso, il quale piú volte disse che: « qui cognoscit in universali tantum, cognoscit rem solum in potentia (1) », detto che doveva essere prezioso, se non ad interpretare, certo a dare una grande spinta innanzi all' Aristotelismo. La distinzione di cognizione in potenza e di cognizione in atto , a cui risponde l' altra di intelletto in potenza (intelletto possibile) e d' intelletto in atto (intelletto agente) fu proposta da Aristotele in occasione della difficoltà mossa da Platone nel Menone, dove sostiene che nel fanciullo dee preesistere la scienza, perché, interrogandolo opportunamente, pronuncia di belle e nuove verità, quasi ricordandosi di esse prima obliate. Aristotele sciolse la questione dicendo, che il fanciullo in parte sa, ed in parte ignora (1): sa in un modo, e in un altro ignora, poiché (soggiunge): [...OMISSIS...] . Queste due maniere di sapere sono appunto il sapere in potenza e il sapere in atto . Ma che è sapere in potenza o in virtú? E` appunto sapere le conclusioni ne' principŒ, i particolari o i meno universali negli universali o nei piú universali (2). Ma sapere i meno universali ne' piú universali è veramente saperli? Risponde, che questo non si può dire semplicemente sapere , ma si dee aggiungere sotto un rispetto ( secundum quid ), non usando gli uomini di adoperare semplicemente le parole sapere, conoscere, ecc. per indicare una tale cognizione. Piú volte San Tommaso ripete che questo è un conoscere il meno universale nel piú universale. [...OMISSIS...] . Cognizione virtuale adunque è modo, che significa un concetto tutto fondato nella relazione fra il meno universale e l' universale; e però non è un concetto vano. Dicesi cognizione , perché conoscendo il piú universale già si conosce un elemento, l' elemento formale del meno universale . Ma non dicesi cognizione semplicemente , perché non si conosce ancora il meno universale fino a tanto che si conosce solo un suo elemento, il suo elemento formale. Ma perocché, dato questo, basta che sieno poi date le sue determinazioni, a fare che incontanente si conosca il meno universale, quindi si dice che nell' universale si conosce virtualmente il meno universale. E poiché questo meno universale non è fatto conoscere dalle sue determinazioni per se stesse non intelligibili, ma in virtú del piú universale che precede nella mente e la collustra, perciò si dice che nel piú universale vi ha contenuta virtualmente la cognizione del meno universale. Aristotele dunque e San Tommaso conobbero assai chiaramente, che la virtú del conoscere il particolare o il meno universale sta nel piú universale, e però che questo è la forma della cognizione di quello: [...OMISSIS...] . E questo è già un essere andati molto innanzi. Perocché chi è pervenuto a conoscere che il piú universale è la causa del conoscere il meno universale, e conseguentemente è la forma della cognizione, non è molto lungi dal doverne conchiudere, che dunque l' universalissimo dee essere la luce prima, quella che non ha innanzi di sé altra causa nell' intendimento. Quindi Aristotele riconosce, che ogni dottrina e disciplina intellettiva « ex praeexistente fit cognitione (2) », e nel primo libro de' Fisici dice che gli universali, quanto a noi, sono anteriori ai particolari. Ma egli sembra che si contraddica nel primo degli Analitici posteriori , dove pone innanzi la cognizione particolare, perché la nostra cognizione, egli dice, incomincia dal senso. I quali due luoghi San Tommaso concilia dicendo, che negli Analitici posteriori Aristotele paragona la cognizione intellettiva, e la cognizione sensibile, e mette questa prima di quella: nei Fisici poi paragona due cognizioni intellettive, una piú universale dell' altra, come del genere e della specie, e la piú universale pone anteriore nell' uomo di tempo alla meno universale. Secondo la qual interpretazione l' ordine cronologico delle nostre cognizioni sarebbe questo: 1) cognizione del senso, non ancora intellettiva; 2) cognizione dell' intelletto, universalissima; 3) cognizione dell' intelletto meno universale. Quando poi si determina quale sia la cognizione universalissima, non cade piú dubbio che sia quella dell' ente , di che conchiude San Tommaso, che « ens est prima conceptio intellectus (1) », e poiché la metafisica tratta dell' ente, perciò non dubita che tutte le scienze ricevono i loro principŒ dalla metafisica (2). Onde Aristotele dice che negli universali (noi diremo piú coerentemente nell' universalismo) non solo vi ha scienza, ma di piú il principio della scienza, « Principium scientiae (3) », e propriamente quello che chiamarono gli Scolastici « principium quo cognoscitur », che è principio formale. Posto dunque che Aristotele accorda che la prima concezione dell' intelletto è l' universalissimo, l' ente, e che quest' è il principio d' ogni altra concezione intellettiva, rimane di vedere come a questa anteponga di tempo la cognizione che chiama sensitiva. Si riduce questa forse ad una questione di parole, cioè a veder, se ai sentimenti si possa con proprietà applicare il vocabolo di cognizione? Se la fosse cosí, sarebbe da rimettersi ai filologi. Per saperlo, convien cercare che cosa Aristotele attribuisca alla cognizione sensitiva, cioè ai sentimenti. Egli dà veramente al senso il giudicare ; ma posciaché riserba ogni universale all' intelletto, non rimane al senso che un giudicare metaforico, un giudicare senza alcun predicato universale, che però Aristotele stesso non osa dire che sia un affermare o negare (4). Riman dunque fermo, che nel senso non ci ha universale di sorta; or bene, noi quando parliamo di cognizione e di giudizio, intendiamo sempre un conoscere, un giudicare, dove l' universale intervenga. E solamente di questo conoscere trattasi di investigare l' origine. Chiarita cosí la questione, rimane a vedere come l' uomo giunga all' universale, ed anzi prima all' universalissimo che lo precede. Aristotele in alcuni luoghi dice, che vi giugne immediatamente, che l' intuizione dell' universalissimo, e dei primi principŒ che da esso derivano, si fa senza mezzo di sorta, e che però a tutti son noti per una natural intuizione senza dimostrazione alcuna (1). Ma anche dopo ciò rimarrebbe la questione: dove, e per quale occasione la mente intuisca l' universale. Ora scioglie Aristotele questa questione là dove insegna, che la mente trova l' universale nelle percezioni e sensazioni corporee, e da queste lo astrae e segrega. L' astrazione dell' universale dalle percezioni corporee si può intendere adunque in due modi: 1) nel modo in cui fu inteso volgarmente Aristotele, quasiché l' ente universale fosse già nelle percezioni corporee, e da queste si separasse come si separa un elemento da un altro: il che contraddirebbe all' altra dottrina aristotelica, che l' ente universale non si apprende dal senso, e che il solo intelletto l' apprende, e immediatamente; 2) nel modo, come l' abbiamo or ora noi proposta, che Aristotele introduca la percezione corporea unicamente come un' occasione, data la quale l' intelletto fa il suo atto d' intuire immediatamente l' universale, il quale però non è nel senso (come espressamente Aristotele dichiara), e però né pure in quello che il senso presenta. A vedere come questa seconda interpretazione sembri piú conforme alla mente aristotelica, ripassiamo la dottrina di questo filosofo circa la potenza intellettiva. Perocché egli distingue questa potenza dal senso; ma in un luogo sembra che la consideri piuttosto come un grado piú elevato del sentire, e cosí la faccia proceder dal senso; il che fu cagione che gl' interpreti rendessero Aristotele sensista, che pure se il fu, nol fu con coerenza. Ei dunque dice nel primo degli « Analitici Posteriori », che tutti gli animali hanno una potenza di discernere le cose, che si chiama da tutti senso. Ma questa potenza generica consta di tre potenze specifiche. Perocché, dato per natura a tutti il senso, 1) in alcuni non ci ha la permanenza del sensibile ; nei quali non vi ha conoscere eccetto il puro sentire; 2) in altri dopo le avute sensazioni permane il sensibile , ed in questi la forma sensibile che rimane è un quid unum , e la chiama memoria (piú propriamente direbbesi ritentiva); 3) finalmente in alcuni di questi ultimi le diverse forme sensibili che rimangono impresse si uniscono sí fattamente, che riman distinta la loro differenza, e ciò che hanno di comune e questo comune è la ragione , il concetto. Onde conchiude che [...OMISSIS...] . Questo è il luogo principale, al quale fermandosi, egli pare che Aristotele parteggi interamente coi sensisti. Ma non è da pigliare l' interpretazione cosí alla leggiera. E primieramente è notabile che in tutta la descrizione del modo onde la mente intuisce l' universale, punto non memora l' astrazione ; ma dice solamente che l' universale, il comune, rimane nell' anima da sé. In secondo luogo, soggiugne, che questo non può avvenire se l' anima non sia cotale, che possa questo patire . La qual parola patire è degna di osservazione; perocché non indica un' astrazione attiva. Il che solo, quand' anche non sapessimo altro della aristotelica dottrina, ci darebbe già forse a dubitare, se la spiegazione aristotelica dell' umano conoscimento sia conforme a quella dei moderni sensisti. In terzo luogo, l' intento aristotelico nel precitato discorso si è il dimostrare, che non vi hanno nell' uomo abiti determinati , e nominatamente l' abito dei principŒ , che chiama anco intelletto de' principŒ , ed è quanto dire la cognizione abituale de' primi principŒ del ragionamento. Ora noi concediamo tutto questo ad Aristotele, perocché non sosteniamo già che i principŒ del ragionamento, siano innati in noi, ed anzi non perveniamo ad acquistarli e formolarli se non coll' applicazione dell' idea dell' essere. E la loro formazione dee conseguentemente essere preceduta dalla percezione e dalle idee generiche e specifiche . Ma rimettiamoci sulle sue orme, e su quelle dell' Angelico che l' ha illustrato, e vediamo dove ci conduce quand' egli toglie a spiegare come deve esser fatta quell' anima che possa patire l' esperimento, pel quale rimane in essa l' elemento comune di piú cose sensibili, ossia l' universale. Allora quando l' anima è atta a ricevere in sé il comune di piú forme sensibili in essa rimaste, allora ella ha fatto l' atto d' intendere; allora i sensibili sono intesi. Ma i sensibili sono intelligibili per loro propria virtú? I sensibili hanno come tali un elemento universale da mostrare all' anima? poiché se essi hanno questo oggetto dell' intelligenza, già essi sono intelligibili per sé. Aristotele dice di no; dice anzi, che i sensibili rimasti nell' anima, che chiama anche fantasmi , sono intelligibili in potenza, ma non in atto. Se essi dunque sono conoscibili in potenza, ciò non può essere che rispetto a quell' anima, la quale intuisca l' universale dove potenzialmente si conoscono. Quell' anima dunque che può patire ciò che Aristotele chiama esperimento , dee possedere precedentemente qualche universale; altramente né conoscerebbe in potenza i fantasmi, né questi sarebbero in potenza conoscibili (1). Ma sotto questo nome di universale forse da niuna parte il rammenta, ma bensí sotto nome di lume. L' anima dunque, che può patire l' esperimento d' Aristotele, è quella che ha prima di tutto un lume, e che però non è un puro principio soggettivo; perocché il lume si distingue sempre dall' occhio che lo rimira. Ora quali sono gli effetti di questo lume dell' anima? Secondo Aristotele e l' Aquinate, essi sono due: il 1 si è di informare l' anima e perfezionarla per modo, che possa fare l' atto proprio dell' intelligenza; il 2 si è quello di rendere i fantasmi o forme sensibili, rimaste nell' anima dopo passate le sensazioni, intelligibili in atto (1). Quando dunque i fantasmi son essi resi intelligibili in atto? Secondo Aristotele e San Tommaso, quando l' anima aggiunse loro il lume che in sé possiede, cosí illustrandoli. Ma cosa è essere conoscibili in atto? Secondo i filosofi di cui parliamo, altro non è che essere conosciuti nel loro concetto, appunto l' universale, come Aristotele afferma espressamente. Dunque il lume senza il quale, secondo Aristotele, nessun' anima può patire lo sperimento deve essere l' universalità stessa, la quale tostoché s' aggiunga ai sensibili, senza bisogno d' altro lume sono conosciuti. Ma che cos' è questa universalità? e che perciò è il proprio oggetto dell' intendimento? Aristotele e San Tommaso ci dicono chiaro: « Intellectus est cognoscitivus omnium entium , dice San Tommaso, quia ens et unum convertuntur, quod est objectum intellectus (2) ». Dunque, convien dire, che l' universalità che aggiunge l' intelletto ai fantasmi, e cosí gl' illustra, sia appunto l' ente, che è concetto universalissimo onde tutti gli altri concetti ripetono veramente la loro universalità. Ma come mai dice dunque Aristotele, che l' anima nell' esperimento patisce, quando se ella dovesse aggiungere il detto lume, piuttosto opererebbe, e anzi che ricevere, darebbe del suo? Primieramente Aristotele considera il lume proprio dell' anima intellettiva, come forma o qualità passibile della stessa (3). Di poi, dice che vi deve essere nell' anima una potenzialità, di cui sia proprio omnia fieri , e chiama questa potenzialità intelletto possibile o intelletto in potenza. Ora l' intendere in potenza egli insegna non esser altro, che intendere nell' universale. Quello adunque che si può convertire in tutte affatto le cose conoscibili, non può esser altro che l' universalissimo, e questo è l' ente. Perocché: « « illud quod primo intellectus concipit quasi notissimum, et in quo omnes conceptiones resolvit, est ens »(4) ». L' ente in universale adunque è quello che si cangia in tutte affatto le concezioni della mente, e a cui solo appartiene l' omnia fieri di Aristotele. Ed è da notarsi, che tutte generalmente le concezioni dell' intelletto, nel sistema aristotelico, sono considerate come qualità passive, o forme dell' anima (1). Quindi venendo l' ente in universale, che luce all' anima, a ricevere le determinazioni degli enti sensibili, in lui si fissa il comune generico e specifico di essi mediante le determinazioni del senso, e cosí l' ente in universale riceve o almen sembra che in tal fatto riceva. E considerandosi esso come parte dell' anima, dicesi che l' anima lo possiede, è atta a patire tali cose. Laonde, se Aristotele suppone che l' anima nell' intendere patisca; riconosce però, che l' anima ancora agisce nel suo atto d' intendere le cose sensibili, e in quanto ella agisce le dà la potenza dell' intelletto agente. Ora, come spiega egli quest' azione dell' anima? Primieramente egli dice che ella illustra i fantasmi, cioè aggiugne loro il lume, e cosí li fa conoscibili in atto; di poi ella astrae da essi, divenuti conoscibili in atto, l' universale. Ma che cosa è conoscibile in atto? L' ente: dunque, secondo Aristotele, l' anima considera nei fantasmi, nelle forme sensibili l' ente , e poiché con esso sono conoscibili in atto e senz' esso conoscibili solo in potenza; dunque l' ente è altresí il lume dell' intelletto agente, e i fantasmi vengono illustrati perché l' anima v' aggiunge questo lume ch' ella possiede. Dai fantasmi illustrati (2) l' anima astrae la specie, il genere, ecc., insomma gli universali di Aristotele (poiché la mente di Aristotele in quelli si fissa); e questo è facilissimo, poiché il lume aggiunto ad essi è appunto l' elemento universalissimo, che diviene genere e specie tostoché si può limitare e determinare. Conchiudasi adunque, che secondo Aristotele, in quanto l' anima possiede l' ente, ella ha un elemento che diviene ogni cosa conoscibile, e però dicesi ch' ella ha un intelletto possibile ; in quanto ella ricevendo le sensazioni, e ritenendone i vestigŒ, se ne serve come di determinazioni dell' ente, e cosí conosce intellettivamente gli enti, dicesi che ella ha l' intelletto agente . L' anima non ha dunque innata la cognizione abituale dei principŒ, né alcun abito determinato, ma solo la potenza di conoscere. Quell' anima adunque è intellettiva, e può patire l' esperimento , la quale avendo in sé l' universalissimo, lume che illustra i sensibili, ha conseguentemente la potenza di conoscere le cose tutte, mediante un primo atto di conoscere innato; perocché l' intelletto agente, come anco indica la parola intelletto, è per Aristotele un conoscere in atto, in atto cotale, nel quale si conoscono in potenza tutte le altre cose determinate (1). L' Aquinate insegna che l' intelletto possibile di Aristotele sta all' intelligibile in atto, come l' indeterminato al determinato; ed è appunto questa la maniera di dire da noi adoperata ad esprimere la relazione fra l' essere puro, che è al tutto indeterminato, e le specie e i generi, che sono lui stesso piú o meno determinato. Dice l' Angelico, che l' intelletto possibile non ha determinatamente la natura di alcuna cosa sensibile; e questo diciamo noi dell' essere in universale. Quindi Aristotele paragona l' intelletto alla tavola, che non porta ancora pittura determinata. E questa similitudine oltremodo conviene all' essere in universale. Aggiunge San Tommaso, che se vi avessero nell' intelletto gli oggetti determinati, cesserebbe il bisogno de' fantasmi ad intendere le cose sensibili. Dice ancora, che come il lume non ha in sé alcun colore, eppure riduce ad atto tutti i colori; cosí fa l' intelletto agente perché fornito del lume; ed aggiunge che egli partecipa questo lume dalle sostanze separate. Questo lume non è dunque l' intelletto soggettivamente preso, ma è l' oggetto indeterminato che informa l' intelletto, come il lume materiale non è l' occhio, ma quella forma visibile all' occhio per se stessa, per la quale e nella quale vede tutti i determinati colori. Finalmente lo stesso Angelico Dottore osserva, che Aristotele chiama l' intelletto agente anche abito , benché non abito determinato. Ora ogni abito intellettivo suppone un oggetto. Convien dunque dire, che l' intelletto differisca appunto in questo dalle altre potenze intellettive, ch' egli ha in sé la natura di potenza e di abito primitivo (1). Le quali cose tutte intorno alla mente di Aristotele e di San Tommaso ho voluto dire, perché noi non ne vogliamo già spezzare il filo della tradizione della scienza e della verità, ma ci studiamo anzi con tutte le nostre forze di rannodarlo. Dall' analisi adunque della nostra cognizione dei reali o sussistenti, risulta: 1) che la sua base è il puro sentimento (o ciò che cade nel sentimento), il qual sentimento nella mente umana non è ancor ente, perché si prende qui come è anteriormente alla percezione; 2) che la mente lo apprende come termine dell' essere iniziale (il quale è l' essenza dell' ente), e cosí appreso il sentimento è divenuto per la mente un ente, è divenuto sentimento7ente; 3) ma l' ente è cosí fatto, che egli ha due modi, ideale e reale. Quindi la mente, come ogni ente, cosí pure quell' ente7sentimento, di cui si tratta, può considerarlo come ideale e come reale ; 4) ma la forma ideale contiene sempre la stessa essenza dell' ente: dunque niun ente può essere concepito dalla mente privo di questa forma. All' incontro la forma reale non sempre contiene l' essenza dell' ente: ciò non s' avvera che nell' Ente essenzialmente reale, che è l' Ente necessario ed assoluto: gli altri tutti si dicono contingenti, appunto perché la loro realità non abbraccia l' essenza dell' ente. Quindi acciocché si percepisca anche la realità di questi, l' intendimento deve esperimentarne (sentirne) l' azione: mosso da questa esperienza, egli fa quell' atto di affermazione, col quale percepisce l' ente contingente anche come reale. Prima di riprendere il cammino, conviene che qui riassumiamo il problema dell' Ontologia. Il problema dunque è questo. L' essenza dell' essere è una; e ciò perché ogni essenza è una. E di vero, se io penso piú esseri, questi non possono esser piú, se non perché ciascuno ha l' essenza dell' essere: ma questa essenza deve essere la medesima, non un' altra; perocché se fosse un' altra, non sarebbero piú esseri, come si suppone, ma l' uno sarebbe essere, e l' altro sarebbe qualche altra cosa. Or quinci appunto si fa innanzi il problema dell' Ontologia: « Se l' essenza dell' essere è una, come gli esseri sono piú? ». Il rispondere solamente, che i piú esseri partecipano l' essenza unica dell' essere ma non sono dessa, è insufficiente a scioglierla; perocché si replica: « Supponendo che i molteplici enti partecipino l' essenza dell' essere, si suppone che v' abbiano due cose: un ché partecipante, e l' essenza partecipata: ma questo ché partecipante è egli essere? e se non è essere, che cosa è, quando nulla v' ha fuori dell' essere? ». [...OMISSIS...] come si disse in Italia, fin da quando si cominciò a filosofare. Intendere la difficoltà di questo problema è aver fatto un gran passo avanti nella filosofia. E ad intenderlo giova conoscere quante disputazioni sieno state agitate intorno ad esso: come tutta l' antica filosofia classica, cioè la filosofia italiana (perché anche la greca non è che la filosofia italiana continuatasi a svolgere) si dibatté continuamente e s' infranse entro la cerchia di questo sommo problema. A tre si riducono tutte le sètte dei filosofi. La prima è di quelli che atterriti dalla difficoltà del problema di conciliare l' unità dell' essere colla pluralità degli enti, negarono questi, e presero per motto «hen ta panta» ( unum omnia ), e ancora piú propriamente «hen to on» ( unum esse ): motto con cui fu designata la filosofia di Parmenide (1). Altri presero l' opposta via, negando l' unità dell' essere, e il motto di questa sètta fu «ta polla» ( multa ). Finalmente vennero le filosofie piú mature di Platone e d' Aristotele, i quali s' accorsero che né si poteva negare l' unità dell' essere, né la moltiplicità degli enti: ond' ebbero per loro motto «hen aei polla» ( unum et multa ), ovvero «hen polla» ( unum idemque multa ). Le due prime sètte non isciolsero il nodo, ma lo tagliarono annullando l' uno dei due termini; la terza tolse veramente la fatica di scioglierlo. Vero è che lasciarono a noi dei semi preziosi di verità, ma mancarono ad essi tre cose. 1) Non giunsero a discoprire che v' ha in questo problema una parte oscura ed invincibile. Essi s' accorsero bensí che rimaneva sempre qualche cosa di vago, di oscuro, d' incerto, onde molto dissero, specialmente Platone, sulla necessità d' un intervento dell' Essere supremo, acciocché ci si scoprisse con pienezza e certezza la verità, e l' arcano della natura ci fosse disvelato (2); ma, non avendo potuto trovare questo punto oscuro, ben sovente trapassarono il confine della mente, cioè pretesero di dire ciò che non si può sapere. Noi crediamo d' avere con precisione dimostrato in che consista questo punto ignoto, che sparge ombra su tutta la scienza ontologica conceduta all' umana mente: abbiamo detto che l' elemento ignoto è precisamente l' atto creativo , perocché, non cadendo questo nell' intuito dell' umana intelligenza, si può bensí colla riflessione conchiudere che ci deve essere, ma non si vede quale. 2) Ciò che dissero di vero, appena il toccarono, con un linguaggio breve, misterioso, né poterono quindi svolgere con chiarezza i loro concetti. 3) Finalmente riuscirono in frequenti contraddizioni, le quali o non si possono comporre o, se si possono, altrettanto studio e travaglio addimanderebbero, quanto la soluzione del problema medesimo. Delle due prime sètte la seconda, piuttosto che filosofia è volgare opinione, ed essa formò appunto que' filosofi che Cicerone chiama plebei: ma l' altra contiene un altissimo errore, e cosí ingegnoso e profondo, che può far gabbo alle menti piú perspicaci; anzi questa sola fu quella che vide il nodo della questione e ne fu vinta. Parmenide mise questo nodo in aperto, forse il primo di tutti, con mirabile sforzo d' ingegno ed eleganza di esposizione, come si scorge da' frammenti del suo poema «peri physeos» che ancor ci rimangono. Fissò l' acume del suo ingegno nell' essenza dell' ente, e argomentando da questa, tutto ridusse all' unità assoluta: attribuí l' origine della varietà ai sensi, e li dichiarò ingannevoli: onde disse ciechi gli occhi e ottusi gli orecchi e la lingua (1). Con questa maniera d' argomentare, dove non si può a meno di scorgere una mirabile forza logica, egli prova che l' essere è semplicissimo, ed è ogni cosa; e che perciò tutto è uno; e la pluralità non sono che fenomeni, cioè illusioni vane de' sensi. Il lettore sagace non potrà a meno di sentir qui tutta la difficoltà che presenta il problema ontologico a scioglierlo; la difficoltà che si trova a rispondere con rigore logico all' arguire dell' eleatica filosofia; di questa filosofia che fu indubitatamente quella che fecondò l' ingegno di Platone. In Platone stesso, come dicevamo, invano se ne cercherebbe una compiuta soluzione. Ma ciò che vide di vero questo gran filosofo, si fu il fatto che da una parte l' essere è uno, dall' altra gli enti sono piú, e che non conviene distruggere né l' un membro né l' altro del gran problema. Se egli è certo che l' essere è uno, e gli enti sono piú; dunque convien dire che la parola essere in questa proposizione « l' essere è uno »abbia un significato diverso dalla parola ente in quest' altra proposizione « gli enti sono piú »: altrimenti le due proposizioni sarebbero contraddittorie. Che cosa significa adunque la parola essere in questa proposizione: l' essere è uno? Certamente significa « l' essenza dell' essere »senz' altra minima giunta, sia che una qualche giunta le si possa fare, o no. Ora che cosa è l' essenza dell' essere senza piú? Noi vedemmo ch' egli non è già l' essere compiuto con tutti i suoi atti e termini, ma solamente l' essere iniziale «( N. S. , n. 1437) », l' iniziamento dell' essere. Ma nell' essenza dell' essere non si contiene egli ogni essere, ogni ente, ogni entità, ogni atto, ogni termine? Perocché ciò che è fuori dell' essenza dell' essere, se c' è, non essendo essere, sarà dunque nulla; come Parmenide arguiva. Qui appunto è dove sta il piú forte della questione. Ma noi abbiamo detto: I « Che nell' essere iniziale si contiene certamente tutto l' essere, ogni ente, entità, atto, termine, modo » - e questo è quel che vide Parmenide - ; ma che tutto ciò vi si contiene in un modo solo , e questo è quel che Parmenide non vide; il qual modo si chiama appunto iniziale, ideale, manifestativo, ecc.. Ora, posciaché l' essenza dell' essere contiene tutto, ella si chiama semplicemente essere . Ma, posciaché ella contiene tutto solo in un modo, non è assurdo che l' essere possa ancora avere altri atti diversi da quello, benché questi stessi atti sieno compresi nel primo, non al modo loro, ma al modo del primo. Laonde noi ci siamo spinti nell' investigazione dei varŒ modi dell' essere, e ne trovammo tre primordiali, ideale, reale, morale : e quest' è la prima divisione dell' ente, o moltiplicità che si trova nell' ente stesso, che denominammo « divisione categorica dell' ente ». E poiché questi modi sono la base delle categorie, rimase in tal modo sciolto il problema delle categorie. Ora ciò in cui si deve porre soprattutto attenzione, è sulla denominazione d' iniziale data all' essere in quanto è nel modo ideale . Poiché quando si dice che quell' essere è l' inizio di ogni essere , si prende la parola inizio in quel senso nel quale si dice « che l' idea o tipo ideale d' una torre è l' inizio d' una torre ». L' idea della torre e la torre materiale differiscono categoricamente (la qual differenza è la massima di tutte le differenze); e pure dall' idea della torre e dalla torre materiale caduta sotto gli organi sensorŒ si forma per noi un solo ente, un solo oggetto di percezione; il qual oggetto ha un inizio (torre ideale) e un termine (torre reale); e solo quando questi due elementi si compongono nella mente, allora ci ha per la mente l' ente reale che denominasi torre. Ogni qualvolta dunque si applicano i vocaboli di principio e termine entro l' ordine dell' essere reale, il principio è reale, il termine pure è reale; non differiscono categoricamente. Ogni volta che s' applicano entro lo stesso genere o entro la stessa specie di enti reali, il principio e il termine appartengono allo stesso genere o alla stessa specie. Ma nella percezione intellettiva (dove si forma l' oggetto del pensiero, l' ente) il principio e il termine né appartengono allo stesso genere, né alla stessa categoria, ma sí allo stesso ente. Poiché l' ente ha due faccie, coll' una delle quali guarda l' eternità, coll' altra il tempo: cosí giacendo nel talamo della mente il nesso della composizione dell' ente percepito, fanno tra sé il connubio il temporale e l' eterno (1). Fin qui si spiega come l' essere, benché uno nell' essenza , abbia nondimeno una trinità di modi. Questo è già un passo immenso; perocché si è già introdotta una pluralità a lato dell' unità , senza contraddizione. II Quando dunque si dice « l' essere è uno, non generato, unigeno, immobile, eterno, infinito », nel senso di Parmenide, la parola essere viene presa a significare bensí l' essere, tutto l' essere, ma in uno solo de' suoi tre modi, nel modo ideale . Quel primo modo contiene l' essenza dell' essere. Ma quest' essenza si manifesta ella a noi intieramente? Ecco un' altra questione. Ora, il fatto dimostra che l' essenza dell' essere essa sola contiene bensí ogni cosa, ma in potenza; fa conoscere tutto, ma solo potenzialmente, non attualmente: e che è la fina osservazione d' Aristotele. Appunto perché lo contiene unicamente in potenza, ella appare cosí uniforme e senz' alcuna moltiplicità. Ma primieramente noi vedemmo che l' essere ha tre suoi atti primi assoluti e totali, ossia che è in tre modi. Questi tre modi debbono certamente appartenere all' essenza dell' essere, appunto perché son modi ed atti primi dell' essere. Ma in quella guisa, onde la mente umana intuisce la pura essenza dell' essere, questa non vi trova ancora né il modo reale, né il modo morale. Dunque il modo reale e il modo morale vi è come sommerso, non apparente, indistinto; e in somma in potenza. Dunque se questi due ultimi modi appartengono all' essenza dell' essere - nel modo proprio dell' essenza - e tuttavia l' uomo, quando intuisce la semplice essenza, non ve li distingue, convien dire che l' essenza dell' essere è data all' uomo ad intuire incompletamente; e per questo difetto, dalla parte dell' intuizione dell' uomo, quella essenza appare cosí uniforme ed uguale come la ha descritta Parmenide. Questo gran filosofo adunque non si accorse di questa limitazione della mente umana; e ragionò di quell' essenza dell' ente, che è data vedere alla mente, come fosse la essenza intera, completa ed assoluta dell' ente. Tale è la sostanza delle cose ragionate precedentemente: rimane a vedere qual sia la via che ci resta ancora a percorrere per conciliare la moltiplicità degli enti e delle entità coll' unità dell' essenza dell' essere. L' essere è uno, ma egli identico ha tre atti essenziali. Se non si avesse altra distinzione dell' essere che questa, la questione sarebbe in qualche modo ultimata. Ma l' esperienza ci porge ben altra pluralità (1). Ella ci mostra in primo luogo che in ciascuno dei tre ordini cade pluralità, vi ha una pluralità ideale, una pluralità reale, una pluralità morale. In secondo luogo, l' esperienza ci mostra che almeno nell' ordine reale la pluralità degli enti e delle entità eccede l' essenza dell' ente; perocché gli enti che si dicono contingenti, non si mostrano racchiusi nell' essenza stessa dell' ente, eziandio che questa fosse a noi tutta manifesta. Ma, se si considera che è solo il contingente che introduce pluralità nell' ordine ideale e nell' ordine reale, di maniera che questa pluralità ne' due ordini è spiegata solo che si spieghi la pluralità de' contingenti; le due questioni che rimangono son queste: 1) Come può darsi un ente fuori dell' essenza completa dell' ente, come sembra che sia il contingente, quando fuori dell' essenza completa dell' ente non si concepisce che il nulla? 2) Onde la pluralità dell' essere contingente? La prima di queste due questioni è quella della possibilità della creazione; la seconda è quella della creazione stessa. L' una e l' altra riguardano il rapporto che ha l' essere contingente coll' essenza completa dell' ente; e l' essenza completa è l' essere assoluto, Iddio. Spettano dunque entrambe alla parte teologica e cosmologica della scienza. Le stesse quistioni nondimeno diventano ontologiche, quando si considera il contingente in rapporto coll' essenza astratta quale cade nell' intuito della mente. Ora, sotto questo aspetto le due questioni accennate si cangiano in altre: 1) Come noi possiamo vedere nell' essenza dell' essere quello che in quell' essenza non è, cioè il contingente? 2) Che cosa costituisca la pluralità dei contingenti? Cioè, non già come si origini il contingente, ché con ciò si torna alla creazione; ma come dall' esame del solo contingente si possa trovare e determinare precisamente ciò che lo renda cosí multiplo, come l' esperienza ce lo rappresenta. Quanto alla prima questione, noi abbiamo veduto: in primo luogo che la possibilità logica e metafisica di tutti i contingenti si contiene nell' essenza dell' essere, e quindi niuna meraviglia è che coll' essenza dell' essere si conoscano. In secondo luogo essi non sono enti se non perché si considerano uniti alla essenza dell' essere; e in quanto poi sono mere realità, precise dall' essenza dell' ente, intanto non sono punto conoscibili né tampoco concepibili. Ma come queste realità si possono unire coll' essenza, e cosí renderle concepibili, se sono all' essenza dell' essere straniere? E se sono straniere all' essenza, non sono essere. E se non sono essere, che sono? Queste domande ci riconducono alla questione teologica e cosmologica. Ma posciaché ne toccammo qualche cosa, qui riassumerò il detto. E` dunque da considerarsi che l' essere è in tre modi, l' ideale, il reale, il morale. Ora il contingente si riferisce al modo morale, perché la causa di lui non può essere che un agente libero «( N. S. , n. 299 n. ) », e la libertà appartiene all' ordine morale. Se dunque l' essere per essenza è libero, egli per essenza altresí può terminare l' atto suo liberamente. I termini di quest' atto libero, sono le realità contingenti. Dunque anche queste realità, come termini dell' atto libero, vengono ad esser compresi nell' essenza dell' essere. Rimane dunque l' altra questione: « Che cosa costituisca la pluralità de' contingenti? ». E qui si presenta tosto una gravissima domanda che forma l' argomento di questo libro. E` ella la dialettica, quella che moltiplica gli enti, come pretende Hegel? O la pluralità delle cose è ella indipendente affatto dalla mente umana? ha un fondamento nelle cose stesse? Ecco la gran questione: questione che a chi non s' è addentrato nelle profondità dell' Ontologia sembra superflua; ma che riesce tuttavia piú difficile a sciogliersi piú che la mente la penetra a fondo. Noi dobbiamo adunque, prima di tutto, esporla con chiarezza, e farne sentire la difficoltà. Qualunque cosa, di cui l' uomo ragioni, affermi o neghi, distingua o confonda, divida od unisca, ella è sempre una cosa da lui conosciuta. Da questa considerazione generale fu mosso l' autore dell' idealismo trascendentale, Emanuele Kant, a conchiudere: [...OMISSIS...] . Ma per una incongruenza, di cui fu redarguito da' suoi successori, escluse da questa sentenza le cose spettanti all' esperienza sensibile, alle quali lasciò una cotale realità pratica indipendente dalla mente; dicendo delle insensibili, che esse certo erano nella mente, incerto se anche fuori di essa. Fichte, credendo di partire da un vero inconcusso che tutte le cose non eran per l' uomo se non entro la sfera dell' Io pensante, disse di piú che non poteano esser al di fuori dello stesso Io: anche perché da' visceri dell' Io pensante si vedevano derivare; giacché tutte si ponevano con altrettanti atti dell' Io. Cosí la questione logica passò ad essere pienamente ontologica : non si trattò piú come le cose tutte si conoscessero, ma come si producessero. Ma in questo sistema rimaneva distinto ciò che poneva l' Io co' suoi atti, dall' Io ponente: l' atto del porre non poteva essere la cosa posta. Di piú l' Io poneva piú che se stesso, perché poneva l' assoluta perfezione, a cui egli sempre aspirava senza però raggiungerla. A Schelling questi parvero altrettanti difetti di quel sistema. Onde egli credette di aver fatto una grande scoperta dicendo che bisognava identificare l' Io ponente e l' Io posto, od anzi l' Io ponente con tutto ciò che l' Io poneva, e però anche coll' Infinito: il soggetto coll' oggetto; e persuaso d' aver fatto con ciò un sistema nuovo, l' intitolò il sistema dell' Identità assoluta . Applaudí Hegel al pensiero del suo maestro; ma pensò di togliere il vago e l' indeterminato di quest' identità assoluta col darle il nome d' Idea , quasiché con un nome si potesse raggiustare una dottrina: e cosí pose un' idea che fosse tutto, e divenisse tutto. A tal fine conveniva, che l' Idea fosse pensiero, e che il pensare fosse tutto, e l' Idea, essendo pensante, tutto divenisse con atti di pensiero. Essendo questa la necessità del suo sistema, tutte queste cose asserì della sua Idea; giacché, secondo il metodo di filosofare della scuola tedesca, l' asserzione continua ed imperterrita toglie ogni difficoltà. Quindi la dialettica divenne per questo filosofo la creazione stessa di tutte affatto le cose, che altro non erano se non determinazioni dell' Idea, determinazioni che l' Idea poneva con atti di pensiero, uscendo da se stessa, e rientrando continuamente in se stessa con movimento dialettico. Noi abbiamo piú volte indicati i profondi errori e i grossolani assurdi di questi sistemi. Ma, posciaché niun sistema erroneo sarebbe possibile se non tenesse del vero, nel libro presente dobbiamo tornare sull' argomento per additare altri errori. La questione dialettica è dunque questa: « Se il pensiero ponga una separazione reale tra le cose »: ossia « se la pluralità degli enti contingenti dipenda dal pensiero ». A nostro parere, si deve prima di tutto distinguere il pensiero in se stesso, e nel suo movimento. La dialettica , propriamente parlando, altro non è che il movimento del pensiero ordinato dalle sue proprie leggi; cosí presa la dialettica niente produce di reale, niente separa, niente moltiplica, ma solo distingue, e produce degli esseri di ragione. Ma, se si considera il pensiero in se stesso; se per dialettica s' intende tanto il movimento del pensiero, quanto lo stesso pensiero: in tal caso ancora la dialettica, il pensiero, niente produce e moltiplica da sé solo considerato, ma co' suoi aggiunti contribuisce alla produzione e moltiplicazione degli enti contingenti, di cui l' uomo pensa e ragiona, nel modo che si dirà. Noi crediamo di avere stabilita una base immobile all' umana certezza, il punto fermo su cui posare la leva del ragionamento, nell' essere ideale. Abbiamo mostrato che questo è ciò che tutto il mondo appella verità . All' uomo dunque è data per natura la verità stessa, e basta che ad essa ei si attenga, e la accetti dovunque ella si mostra, perché la sua mente conseguisca pienissima pace. Ma vogliamo ora solamente dimostrare, che tutti, anche quelli che non conoscono né intendono scientificamente come sia che il pensiero dell' uomo si fondi sulla verità stessa e perciò solo esista, forz' è che credano al pensiero. Infatti gli scettici stessi, quando vogliono provare col ragionamento il loro scetticismo, mostrano che credono e pretendono che gli altri credano a que' principŒ su cui fondano il loro ragionamento: credono dunque al pensiero che somministra loro quei principŒ. I Kantiani, quando dicono che le forme del ragionare sono soggettive, e però non hanno virtú se non di provare entro la sfera del soggetto pensante, tolgono al pensiero la fede in ciò ch' egli dice: perocché il pensiero dice anzi il contrario; esso dice che quelle forme sono assolute e assolutamente veraci. E tuttavia credono al pensiero, perocché essi partono da questo principio: « Gli atti di un soggetto non possono uscire dal soggetto di cui sono atti; dunque né pure i loro oggetti possono esser altro che condizioni, modificazioni, leggi d' operare del soggetto stesso ». Ma chi ha somministrato loro questo principio? Il proprio pensiero: credono dunque al pensiero; e la questione non riguarda « se si debba credere sí o no al pensiero », ma unicamente « se il pensiero dica questo, o dica quest' altro ». Gli Hegeliani dicono che altro non v' ha che un' idea, la quale pel proprio movimento si trasforma in tutte le cose. Ebbene questa maniera di ragionare suppone che l' autore di essa creda al pensiero; creda ai principŒ, su cui egli ragiona, che gli sono somministrati dal pensiero; creda all' idea, al pensiero dell' Idea, alle determinazioni che ne nascono; insomma a tutto ciò che il pensiero somministra. Convien dunque partire dal principio ammesso da tutte le parti, che « al pensiero non si può negar fede »: resta solo a consultare per sentire ciò ch' egli dice di se stesso. Movendo da questo punto fermo, possiamo pervenire a conoscere qual sia il primo errore dialettico della filosofia di Hegel, dal quale errore tutti gli altri provengono. E a scoprirlo e metterlo in evidenza, useremo il seguente discorso. Alcuni pensieri non si possono concepire senza averne precedentemente concepiti altri nei quali quelli sono virtualmente contenuti. Di qui procede che i pensieri posteriori i quali si ammettono in virtú degli anteriori in cui si contengono, non possono mai di loro natura distruggere gli anteriori che gli hanno generati, e da cui ripetono ogni loro autorità. Quindi sarebbe cosa assurda il pensare che la conseguenza, tratta da un principio, avesse virtú di annullare il principio da cui è tratta, giacché ella stessa non esiste, né ha nessun legittimo valore, se non in quanto esiste ed ha valore il principio. Per tale ragione dei contrarŒ, accade che se una conseguenza è assurda, sia assurdo anche il principio da cui si trasse. Quindi ogni qualvolta taluno stabilisce qualche argomentazione fondata sopra un ordine di pensieri posteriori, e pretende con tale sua argomentazione di distruggere l' autorità e il valore dei pensieri anteriori, vi dev' essere indubitatamente un vizio logico nel suo modo di argomentare. Or tale appunto è il vizio che corrompe nella sua radice il sistema di Hegel, e tutta la scuola tedesca da Kant a noi. Perocché ella, partendo da pensieri derivati ed ammettendoli come certi, si sforza di adoperarli a perdizione e distruzione dei pensieri anteriori, onde quelli derivano, e tolti via i quali, anche quelli son tolti. Questo è il primo errore dialettico del kantismo e dell' hegelismo: vediamolo. Qual' è l' ordine dei pensieri puri? Egli può esser espresso nel seguente schema. I Intuizione dell' essere in universale e indeterminato. II PrincipŒ supremi del ragionamento. III PrincipŒ medŒ . IV Forma del sillogismo. Quindi conséguita, che chi movesse il suo ragionamento dalla considerazione delle forme de' sillogismi, o pretendesse servirsene per distruggere l' autorità dei principŒ medŒ o supremi, cadrebbe nell' errore di logica che abbiamo indicato, poiché le forme sillogistiche non si possono ammettere senza già aver ammessi per buoni quei principŒ. Del pari errerebbe colui che, partendo da qualche principio medio pretendesse di distruggere i principŒ supremi. Finalmente sarebbe viziosa l' argomentazione di colui che, fondando il suo argomentare sui principŒ supremi, togliesse a negare e annullare quella verità che presenta l' intuizione dell' Essere, e che è fonte e vita di tutti i principŒ e di tutte le verità. Di che potremo trovare la formola del primo e universale paralogismo dialettico, la quale è questa: « ogni qualvolta si ammette il valore de' pensieri posteriori, e si pretende di stabilire su di questi una argomentazione v“lta a distruggere il valore del pensiero anteriore, vi ha paralogismo ». Kant muove il suo filosofare da un principio medio, e de' piú bassi, il quale è questo: « « Ogni soggetto opera secondo le proprie leggi » ». Su questo principio fonda un' argomentazione colla quale pretende distruggere il valore oggettivo dei principŒ supremi, e dell' intuizione dell' essere, e per conseguenza anche delle forme del sillogismo, argomentando in questo modo: « Ogni soggetto opera secondo le proprie leggi; Dunque anche il pensante pensa secondo le proprie leggi; Dunque il pensiero dell' uomo, soggiacendo alle leggi del soggetto limitato come l' uomo, non può avere un valore oggettivo ed assoluto, ma soltanto un valore soggettivo e relativo. Dunque i principŒ anche supremi del ragionamento, l' intuizione dell' Essere, le forme del sillogismo, non provano già quello che mostrano di provare, ma altro non danno che apparenze soggettive, che hanno valore per l' uomo, ma non in se stesse, o almeno non si può sapere se l' abbiano ». Questa argomentazione pecca del vizio indicato, di far cioè che il pensiero posteriore distrugga i pensieri anteriori, da cui esso è nato. E veramente muove dal principio « che ogni soggetto opera secondo le proprie leggi ». Questo principio si ammette come assoluto: egli è universale: abbraccia tutti i soggetti; suppone dunque che il pensiero conosca i soggetti possibili, e il modo del loro operare. Questo è il medesimo che supporre che il pensiero abbia una virtú e autorità oggettiva: che le cose siano com' esso dice che sono. Dunque questo principio: « il pensiero ha un' autorità ed un valore oggettivo, il pensiero fa conoscere le cose come sono in se stesse », è un principio che appartiene ad un ordine anteriore a quello dell' altro principio su cui si fonda l' argomentazione kantiana: « Ogni soggetto opera secondo le proprie leggi ». Questo secondo pensiero non può essere adoperato giammai per annullare il valore oggettivo del suo antecedente, che è appunto questo: « che il pensare ha un valore oggettivo ». Si dirà forse: E bene, anche il principio da cui muove Kant abbia un valore subiettivo: cosí sarà tolta la contraddizione, e tutto il sapere umano, non avrà mai piú che un valore subiettivo. - Rispondo: Per dir questo dovreste aver prima provato che « ogni pensare ha un valore subiettivo »; ma questo è appunto quello che si tratta di provare, e che non si può provare, stando alla vostra argomentazione, se non si ammette come oggettivamente certo il principio « ogni soggetto opera secondo le sue proprie leggi ». Non potete dunque addurre alcuna dimostrazione che ci provi che questo principio « ogni soggetto opera secondo le sue proprie leggi »sia valido solo rispetto al soggetto, e non lo sia assolutamente ed oggettivamente. Che vi abbia dunque nell' argomento kantiano un esiziale paralogismo, risulta evidentemente dal conoscere che « con un principio posteriore si toglie ad annullare quanto attestano i principŒ anteriori, da' quali quel principio posteriore dipende »(1). I successori di Kant, e specialmente Hegel, lungi dall' accorgersi del paralogismo, altro non fecero che spingere avanti la fabbrica, lasciata difettosa dal suo fondatore, solo perché incompleta. Dice Hegel che Kant pretese di togliere via le contraddizioni della ragione - contraddizioni per altro che non sono della ragione, ma de' nostri filosofi, i quali imputano la brevità e il difetto delle loro proprie vedute alla ragione stessa - e la lotta che hanno insieme le nozioni opposte, per esempio quelle di finito ed infinito, attribuite entrambe da Kant all' universo, trasportandole dal di fuori dentro allo spirito. Ha ragione dicendo che un cosí fatto ripiego non sana l' assurdo di quelle contraddizioni, non pacifica quella lotta, perocché altro non se n' ha, se non che invece d' esser diviso contro sé e squarciato il mondo, rimane diviso contro sé lo stesso spirito. Ma qual nuovo rimedio propone Hegel? Egli fa scomparire, è vero, con Schelling dalla sua idea le dette contraddizioni, supponendo che in essa nulla v' abbia di distinto e di determimato; e dove niente è distinto e determinato, certo è tolta la pluralità, e cosí la possibilità di piú elementi contrarŒ. Ma finalmente quell' idea col suo movimento dialettico genera, secondo Hegel, quelle istesse contraddizioni fino a dichiarare l' essere uguale al nulla e la mancanza di questa derivazione dialettica di tali forme è il difetto che Hegel rimprovera a Kant. Or dunque se l' idea - e non v' è altro che l' idea per Hegel, giacché ella è tutto, ella divien tutto - è quella che produce le nozioni contrarie e le supposte contraddizioni e antinomie della ragione, non rimane cosí ne' suoi visceri lo stesso assurdo? Come Kant adunque rimosse la pretesa lotta dal mondo, e la lasciò nello spirito; cosí Hegel la rimosse a dir vero anche dallo spirito, nella condizione di atto e di effetto, ma ve la lasciò poi nella condizione di potenza, cioè la lasciò in causa nell' idea. Perocché se l' idea la produce, la deve altresí virtualmente contenere, giacché l' effetto trovasi sempre nella virtú della causa; e quest' è quello che Hegel stesso confessa: onde, venendo tolto il principio di contraddizione nella sua stessa radice, torna qui l' oppugnazione d' un pensiero anteriore - qual è il detto principio - da cui debbono pure ricevere il loro valore, se ne hanno, tutte le posteriori argomentazioni del nostro filosofo. [...OMISSIS...] . Non si può negare che qui si rilevi con molta acutezza una interna contraddizione del kantismo. Kant riconobbe che le forme logiche per se stesse hanno un valore oggettivo, hanno valore di far conoscere le cose in sé (1); ma poscia disse che mancava loro la materia, che questa non era che fenomenale, perché fuori di esse, data dall' esperienza de' sensi; onde quelle forme fatte per conoscere le cose in sé, mancavano tuttavia di valore, non si conosceva per esse che fenomenalmente. Questa contraddizione del Kantismo è importantissima a notarsi. Fichte cercò rimediarvi col supporre, che anche la materia, non solo le forme, provenisse dall' anima. Ma questo era un lasciar il solo soggetto produttore del suo oggetto: in tal caso né le forme logiche né la loro materia avevano piú un valor oggettivo. Questa loro oggettività era apparente, fenomenale; se si toglieva con ciò la contraddizione Kantiana, non si ammigliorava la condizione del conoscere. Che anzi, a dire il vero, anche la contraddizione rimaneva, perché da una parte il conoscere pareva oggettivo, dall' altra si dichiarava soggettivo. L' apparenza oggettiva lottava dunque colla natura soggettiva: l' Io ingannava dunque se stesso. Che cosa fece Hegel? 1) Hegel ritenne quello che aveva ritenuto Kant, che le forme logiche avessero un valore oggettivo; 2) disse, che il far venire la loro materia dal di fuori, cioè dal senso, importasse altrettanto che renderle inutili a produrre una conoscenza oggettiva. Questo era quello che aveva preteso Kant. Ma Hegel ammettendo che se la materia venisse dal di fuori alle forme logiche, queste sarebbero inutili, pensò con Fichte che dal di fuori elle non dovesser venire; 3) disse ancora, che Fichte aveva invano preteso di rimediare al male, col dedurre tanto le forme logiche quanto la loro materia dal soggetto, dall' Io; perocché con ciò non solo la materia rimaneva di una verità soggettiva; ma le stesse forme logiche incorrevano nella stessa rovina; e però il loro mostrare la cosa in sé diveniva apparente; 4) disse che dunque conveniva ammettere che le forme logiche avessero un valore oggettivo, e che portassero altresí la loro materia in se stesse, con che anche la materia loro diveniva oggettiva, ed il sapere oggettivo ed assoluto veniva cosí assicurato. Questo ragionamento facilmente illude, parendo che sia rigorosamente logico. Ma ch' esso non possa esser tale, il dimostrano anche i falsi ed assurdi conseguenti che ne derivano. Uno di questi si è che in tale sistema non potrebbe piú aver luogo l' errore (1), né rimarrebbe piú luogo a spiegare come il sapere umano fosse limitato. Una verace e compiuta filosofia deve dar ragione sufficiente non solo di ciò che l' uomo sa, ma ben anco di ciò che non sa: deve non solo spiegare tutti i progressi dello spirito umano, ma ben anco giustificare i lamenti altissimi che mandò la filosofia di tutti i tempi, d' accordo in questo col senso comune, sulla brevità dell' umana mente, sulla difficoltà di trovare il vero, sull' impossibilità di trapassare certi confini, sulla facilità d' errare. Dove sta dunque il vizio del mentovato ragionamento di Hegel? Esso sta qui, nell' aver egli accettata per buona quella sentenza di Kant che sosteneva non potere le forme logiche avere un valore oggettivo, quando la materia, a cui venivano applicate, giacesse fuori di esse. Ammessa quella sentenza tanto da Kant quanto da Hegel, essi si divisero solamente sul fatto: perocché a Kant parve che il fatto fosse appunto questo, che la materia venisse presa dallo spirito umano fuori delle forme logiche, e ne seguitasse quindi la rovina del sapere oggettivo; invece Hegel, trovando assurda questa conseguenza, negò il fatto, e disse che nelle stesse forme logiche dovea esser contenuta anche la materia del sapere. Il pensiero di Hegel aveva contro di sé: prima di tutto, il senso comune degli uomini, che attesta il fatto andare altrimenti; e di poi l' autorità di tutti i piú gravi filosofi antichi e moderni. Hegel rispose ingegnosamente a queste difficoltà osservando, che ciò che attestavano gli uomini era da essi attinto dalla propria coscienza. Ora, ei disse che la coscienza si formava e svolgeva a gradi. V' avea dunque una coscienza comune ordinaria; e l' opposizione, che questa faceva contro al sistema da lui proposto, potea venire dal non essere ancora formata quella coscienza a cogliere quegli ultimi fatti dell' umano conoscere, su cui egli poneva le basi del suo filosofare. Premesso dunque ciò, disse, che il lavoro del filosofo avea due parti: la prima storica; la seconda propriamente speculativa. Colla prima il filosofo dovea partire dall' ordinaria coscienza degli uomini, e, notando e narrando tutti gli stati successivi, pe' quali ella può passare, condurla fino all' assoluto sapere. Colla seconda poi dovrà, facendo il viaggio contrario, mostrare la necessità dell' origine di quegli stati della coscienza procedenti tutti dal sapere assoluto, dall' Idea. Del quale lavoro Hegel tolse a fare la prima parte nella « Fenomenologia »; la seconda nella sua « Scienza della Logica ». Ma il risultato di questa filosofia - ed è anco il principio di essa - si è questa proposizione: che « « l' essere puro e il puro niente è lo stesso » »: [...OMISSIS...] : ecco la formola di questa filosofia. La formola, che fa un' equazione dell' essere e del niente, è la formola suprema de' contraddittivi: tutte le contraddizioni sono in essa comprese; ella tutte le rappresenta come il piú alto genere rappresenta tutte le specie: e questa contraddizione prima ed universale, è la scienza di Hegel. Hegel dunque, non fa che sostituire ad una contraddizione psicologica, una contraddizione ontologica; trasportarla da un ente particolare a tutti gli enti, allo stesso essere. Egli non fa che dire, che l' ente e il niente stanno insieme; l' uno trapassa nell' altro, anzi l' uno è passato nell' altro, l' uno è nell' altro come in se stesso (2); quindi a cagione dell' identità che v' è tra loro, cessare la contraddizione! Quasi che contraddizione e identità non significassero l' opposto, non fossero contraddizione elleno stesse. Coll' ammettere quindi nel primo pensiero stesso l' assurdo, egli pretende di distruggere l' assurdo. L' annunziare una tale dottrina sembra dover bastare a confutarla. E pure quanti scioli in Germania, colla gravità e coll' autorità di professori, non l' hanno bevuta e la insegnano tuttavia come la chiave dell' universo sapere? Non è già che noi neghiamo ad Hegel molto ingegno: senza molto ingegno non si fanno bere altrui di cotali paradossi. Sia pure un Protagora, un Gorgia, un sofista qualsiasi; ma un sano filosofo, no. Anzi, appunto perché l' ingegno fu speso a piene mani per vaghezza di persuadere al mondo a rinunziare affatto al lume della ragione, egli è necessario non passare sotto silenzio i sottilissimi artifizŒ adoperati a sí tristo e funestissimo intento. Tutti gli argomenti adunati da Hegel, altro non fanno che ribellarsi contro a quel pensiero anteriore a tutti, da cui cavano il loro apparente valore, tentando di torlo via del tutto ed annichilarlo: il qual principio è quello di contraddizione. Onde tutti debbono necessariamente peccare del paralogismo dialettico da noi segnalato. Ritornando dunque al principio di Hegel che « essere e niente s' identificano », egli va cercando di levare d' attorno a un cosí strano principio l' odiosità di quell' assurdo che pur contiene, ricorrendo ad una speciale sua interpretazione. Dice che il niente, di cui egli parla, non è il puro nulla, ma quel nulla che risulta dalla negazione, o, come ancora s' esprime, dalla contraddizione: perocché, afferma, non si può arrivare al progresso scientifico, se non si giunge ad ammettere « « che il negativo è appunto il positivo » », ossia, « « che il contraddittorio non si scioglie nel nulla, nello astratto niente, ma solo nella negazione dello speciale suo contenuto » », ossia ancora, [...OMISSIS...] Ma primieramente, tanto se si tratta di una cosa particolare, quanto presa la proposizione in generale, il negativo non sarà mai e poi mai il positivo. Una cosa particolare, o piuttosto limitata, avrà bensí certe limitazioni, ma non si potrà mai dire che queste limitazioni sieno la cosa stessa. Di poi egli è vero che nella dottrina di Hegel la proposizione « « l' essere e il niente sono identici » » si restringa a quel niente che è negazione di una cosa particolare, e non al nulla assoluto ed astratto? Basta aprire la sua « Scienza della Logica » per convincersi che la cosa non è tale. Hegel incomincia in essa a parlare dell' essere semplicissimo ed astrattissimo, e questo appunto ei lo fa perfettamente uguale al niente, e il niente a lui. [...OMISSIS...] : ed è da questo essere7niente che si pretende sorgano tutte le cose. In terzo luogo, fosse anche vero che, quando il nostro filosofo dice che « « l' essere è il niente » », intenda sotto la parola niente tutto ciò che è particolare, tutto ciò che determina e restringe l' essere; non sarebbe ciononostante uno sformato abuso di parole chiamare niente l' essere indeterminato? Perocché: o si vuole che, tolte all' essere tutte le determinazioni, resti ancora qualche cosa, e in tal caso l' essere puro è essere, e però non è niente; o si vuole che, tolte all' essere le dette determinazioni, s' annulli lo stesso essere, e in tal caso si ha bensí il nulla, ma non piú l' essere. Essere e niente non possono stare insieme in un solo concetto, appunto perché essenzialmente contraddittorŒ. Coll' ammettere una tale compenetrazione e identificazione dell' essere e del nulla, la contraddizione non si toglie già, ma si accresce, si erige in principio della filosofia. L' assegnare poi alla parola niente altro significato da quello che ella ha, non è egli un introdurre gli equivoci a bel principio della filosofia? Ma Hegel ripeterà: « Che cosa è mai l' essere senza alcun contenuto? ». Rispondiamo che, se si trae dai visceri dell' essere ogni suo contenuto affatto, si avrà certo il nulla, ma in tal caso non si avrà piú l' essere; onde non si verificherà mai che l' essere e il nulla sieno identici: se poi si vorrà conservare l' essere, egli non sarà senza qualche contenuto, perché almeno conterrà se stesso. Ma egli è di piú da por mente all' equivoco della parola contenuto «( Inhalt ) » tanto usata da' filosofi tedeschi. Questa parola involge la relazione col contenente: contenente e contenuto sono concetti relativi. Onde non sono applicabili in nessun modo all' essere puro, il quale è semplicissimo: e, considerato senza relazione con altro, egli non è né contenente né contenuto; ma unicamente e semplicemente essere. E` dunque una maniera impropria il dire, che l' essere puro non ha alcun contenuto, se non si aggiunge, che non è neppur contenente: egli non è né forma né materia, in quanto queste parole involgono una relazione tra loro, ma è puro essere: l' essere cosí preso è superiore alla forma e alla materia; ma non per ciò conseguita ch' egli sia niente, appunto perché è essere. Che se si replica, che l' essere in questo stato di astrattezza e purità non è, e che perciò esso è il nulla; conviene rispondere che se non è, dunque ha cessato. In tal caso resta il solo nulla, e non resta piú l' essere. Ma sarà a dirsi in appresso esser falso, che l' essere astratto e puro al tutto non sia per la ragione che egli esige qualche determinazione, se pur la esige; a quel modo che non si può dire che l' accidente sia il nulla per la ragione che esige d' essere concepito nella sostanza. Che se la mente nostra nel concepire l' accidente lo astrae dalla sostanza, questo altro non significa se non un modo imperfetto del concepire; ma la stessa mente non potrebbe fare ciò se non conoscesse la sostanza e nel pensare compiuto non unisse la sostanza coll' accidente «( Psicol. , n. 1372 sgg.) ». L' accidente dunque è, ma la separazione dell' accidente dalla sostanza è solo nella mente. Onde si vede che le cose hanno due modi di essere, l' uno nella mente e l' altro in se stesse; i quali due modi sono appunto quelli che Hegel vuole ridurre a uno, senza che gli possa riuscire, appunto perché non può riuscire ad alcuno il dimostrare ciò che è assurdo. Si dica il simile dell' essere: se si piglia in una totale astrattezza, si potrà forse sostenere che in tale stato non sia in se stesso, ma è nondimeno nella mente: o, per dir meglio in se stesso è: ma la separazione di lui da ogni sua determinazione è solo nella mente. L' essere adunque in nessuna supposizione s' identifica col niente, sebbene la separazione di lui da ogni sua determinazione sia un' operazione o una funzione della mente: e però neppure essa è il niente. Che se poi si cerca l' origine dell' errore di Hegel, si scopre che questa giace nel concetto del diventare , preso da lui secondo l' intelligenza del volgo. La mente di Hegel manca affatto d' analisi: e questo è pure il difetto di tutte le filosofie della sua nazione, onde nasce la loro oscurità. L' ingegno germanico è certo naturalmente robusto, ma la sua coltura è troppo prematura: un paio di secoli di studio non bastano a rendere analitica una nazione. La preziosa dote della mente italiana, sommamente chiara, perché sommamente analitica, è il frutto di tre mill' anni: ogni secolo ci ha lavorato a formarla, ci ha importato altresí qualche nuovo elemento: la civiltà di questa nazione è un abito - ahi pur troppo negletto! - non è uno sforzo momentaneo e contro natura, che dopo un momento di eccessiva energia ricade sopra se stesso. In fatti che cosa significa diventare preso alla volgare? Significa che un ente passa dal non essere all' essere, o che un ente ne diventa un altro. In questo significato si suppone che ci abbia un ente, soggetto identico del non essere e dell' essere, soggetto identico di due enti successivi, l' uno che cessa e l' altro che sopravviene. Nel primo caso è un soggetto pari al nulla perché non è, e diventa un ente che è: il nulla dunque si suppone effettivamente identico all' ente. Nel secondo caso parimenti il soggetto è prima un ente, che per diventare un altro deve annullarsi. Vi ha dunque un momento nel quale questo soggetto è nulla; ma questo soggetto medesimo è l' uno e l' altro ente: dunque il soggetto medesimo pari al nulla, è ente. Ma con un po' d' accurata analisi si scorge che questo soggetto identico è una pura immaginazione e illusione; che non s' avvera mai il diventare preso cosí alla materiale, anzi non può avverarsi, perché è assurdo. Già gli scolastici, S. Tommaso principalmente, dimostrarono (non asserivano come fanno i filosofi di cui parliamo) che un ente non può divenire un altro; perché dovrebbe prima annichilarsi, onde mancherebbe l' identico soggetto della mutazione. Oltre questa prova intrinseca, l' esperienza non pone sotto gli occhi che cangiamenti di forme: mai e poi mai enti novi, o passaggio di un ente in un altro. E` inutile la questione tanto agitata dagli antichi, se si cangino le forme sostanziali, o le sole forme accidentali. Perciocché ad ogni modo trattasi sempre di cangiamenti di forme , e non veramente di enti. E poi questo cangiamento di forme è egli forse un vero diventare? Niente affatto di ciò, ma v' ha la cessazione dell' una, e la comparsa dell' altra, senza che quest' altra sia la prima, la quale anzi è cessata. E` una puerilità filosofica di Hegel il dire che vi ha un vero passaggio dell' una nell' altra. Questo passaggio realmente non esiste: è la sola mente che lo s' immagina, perché ad essa rimane presente la prima forma anco quand' è passata: ond' ella dice, di quella forma che non è piú, ma cui tuttavia la mente pensa come se esistesse, che essa è passata nell' altra. Né manco s' avvera che la forma prima cessando passi allo stato di nulla, come Hegel pretende. Ma anche qui v' ha l' illusione medesima. La forma cessata non è piú, ma è bensí ancora nel puro pensiero, che l' ha presente benché passata: onde lo stesso pensiero ad essa congiunge il nulla, come se il nulla fosse qualche cosa perché il nulla nel pensiero è qualche cosa. Ma il vero si è che il cessare di quella forma non è un passaggio, ma è un mero cessare. Onde quella forma non è già un soggetto identico, il quale si vesta ora dell' esistenza, ora del nulla. Ciò che si disse della forma intera, si dee dire delle sue parti. Ciascuna particella non si cangia, non diventa: è l' ente che rimane identico, il quale per ciò appunto non si cangia, né diventa. Onde il diventare nel senso Hegeliano, ossia volgare, non s' avvera mai: è un puro pregiudizio, un concetto confuso ed in se stesso ripugnante. Veniamo al concetto di creazione, sul quale Hegel tanto insiste, e troveremo la stessa mancanza di analisi, come pure la mancanza totale di dottrina teologica, effetto anche questo del protestantesimo, che, rinunziando a' fonti antichi della teologia, si è ridotto a fare miseramente colla filologia una teologia, come chi volesse colla grammatica comporre un libro di matematica sublime. Anzi udiamo parlare lo stesso Hegel: [...OMISSIS...] . Ecco a quali miseri equivoci s' appiglia il nostro filosofo. La cristiana filosofia non sostenne giammai, che l' essere sia venuto fuori dal niente come dall' uovo; molto meno che il niente sia il soggetto che divenne un ente, e che perciò il niente e l' essere sieno lo stesso. Ammise bensí la creazione dal nulla, ma in questo senso, che prima che un ente creato fosse, egli non era; e però egli non era il niente, né il niente era lui: il niente e l' essere sono successivi, dinanzi alla mente. Tra il niente dunque e l' ente non v' è il passaggio d' un soggetto unico a due stati diversi, e molto meno v' è il diventare. E perciò la prova che Hegel pretende cavare dal concetto di creazione, dato dalla cristiana teologia, altro non prova se non ch' egli non ha molto approfittato nello studio di questa scienza. Di poi egli dice, che, senza ammettere l' unità e inseparabilità dell' essere e del nulla, che si ravvisa nel concetto del diventare, non si può spiegare né il cominciamento né la fine dell' Universo. Egli ci fa questo sofisma. [...OMISSIS...] . Questo argomento è ineluttabile, ma che prova? Prova unicamente che niun ente è cominciato, e niun ente cessa, prendendo le parole incominciare e cessare secondo la significazione volgare e materiale, che Hegel introduce senza esame e senz' analisi nella filosofia: ma non prova mica che niente incominci e niente cessi nel vero senso filosofico di queste parole. Nel senso filosofico, non si vuol mica dire che l' incominciare sia atto dell' ente, quasicché sia l' ente quello che dà a se stesso l' esistenza: certo che se si dovesse cosí intendere, l' ente farebbe un atto prima di essere; l' ente dunque sarebbe il nulla che fa quest' atto di passare all' esistenza. Cosí la intende il filosofo tedesco; ma cosí non l' ha mai intesa la tradizione de' grandi maestri. Dicendosi che un ente incomincia, altro non si vuol dire che in un dato istante un dato ente fu, quando nell' istante anteriore non c' era nulla. Lo stesso si dica del cessare di essere: il cessare di essere non fa che significare due istanti tra quali non passa alcuna relazione di causa e d' effetto: ma nel primo istante l' ente è; nel secondo non è piú, ogni suo atto è già cessato. - Hegel può replicare: prima che l' ente, che incomincia, e prima del suo annullamento vi deve dunque essere una causa che il faccia esistere, o l' annulli. Dunque prima che l' ente sia, non v' è il nulla: dopo che l' ente è cessato, di novo non v' è il nulla. Verissimo; ma la causa non è l' ente di cui si parla. E non v' è alcun bisogno di sostenere che l' ente sia il nulla, o il nulla sia l' ente, a potersi ammettere una causa distinta dall' ente. Non ne vien mica che questa causa sia il nulla, o che sia col nulla indivisibile; appunto perché il nulla è nulla; e non si può unire né dividere, in senso proprio, con cos' alcuna. Non vi ha dunque la contraddizione che pretende di trovare Hegel in quelli, che d' una parte ammettono, che l' ente non sia il nulla, dall' altra ammettono l' incominciamento del mondo. Del resto il sofisma che adopera Hegel per dimostrare in contraddizione quelli che danno al mondo un principio, egli lo adopera puramente come un argomento ad hominem , perocché non è già egli, non può essere egli un di coloro che riconoscano che il mondo è cominciato. Il concetto del diventare in quel senso materiale, in cui egli lo prende, esclude qualunque possibilità che il mondo abbia veramente cominciato ad esistere. In vero, prendendosi il diventare come un atto dell' ente che diventa, egli è chiaro che quell' ente, che con atto proprio diventa, era prima un falso nulla, perché era un nulla che operava, e però un nulla identico all' ente. Cosí non è piú possibile altro sistema che quello dell' eternità del mondo che da se stesso continuamente si sviluppa: e questa infatti è la dottrina che Hegel confessa dichiaratamente di professare. Divien cosí il mondo una serie di mutazioni infinite, una serie di cause e di effetti, che non ha principio. Che cosa è da raccogliersi da tutto ciò? Certamente non altro che il concetto del diventare, cosí rozzo e volgare come lo prese Hegel per metterlo a fondamento del suo edifizio filosofico, è intrinsecamente assurdo, e ch' esso non è somministrato né da cangiamenti che avvengano nella natura, né dal domma della creazione, né dall' infinitesimo de' matematici. Rimane dunque, in tutta la sua nudità, la duplice contraddizione che contiene il principio della filosofia Hegeliana: cioè che l' essere sia niente; e che da un essere, che è niente, possano diventare tutte le cose. Alle quali contraddizioni assurdissime conviene aggiungere questa terza. L' Hegel inveisce amaramente contro tutti i filosofi, che lo precedettero, perché divisero le forme logiche dal contenuto di esse, e dissero che questo si prendeva dal di fuori, dal sentimento; quelle erano date dalla mente. Dopo di ciò egli pone a fondamento di tutta la filosofia l' essere senza alcun contenuto (1), e da questo essere, che non ha contenuto e che è niente, fa venir fuori, svolgendosi, tutte le cose: anzi fa lui stesso uguale al Tutto. Se quest' essere non ha alcun contenuto, dove lo prende? Dal Niente? Certamente, Hegel risponde, dal Niente : e volea dire dalla negazione . Ma se il contenuto è il niente, o si trova nel niente, dunque il contenuto stesso è l' essere, o si trova nell' essere; perché l' essere è lo stesso che il niente. Non è dunque piú vero, che l' essere puro sia privo di contenuto. E se il niente ha egli qualche contenuto da dare, in tal caso si domanda di novo dove lo prende. Tali sono le difficoltà sulle quali Hegel trapassa leggiero, senza dare alcuna soddisfacente spiegazione. Dal fin qui detto apparisce che il nostro filosofo in sostanza altro non fa che considerare i diversi concetti della mente (e ben inteso della mente umana, checché egli sogni: ché altra mente non ha in cui fare le sue osservazioni), lasciando soli questi concetti senza la mente, dichiarandoli altrettanti enti; onde l' andare e il venire di questi (nella mente) è tutto il movimento dialettico che egli vi trova, e che ei loro attribuisce, quasi si movessero da se stessi, e l' uno passasse nell' altro; ma ciò egli fa senza addurre nessuna prova ch' essi abbiano questa vita supposta, senza rendere alcuna sufficiente ragione del preteso suo movimento: meno ancora addurre ragione, perché il moto cessi, o perché non cessi mai quasi non avesse mai raggiunto il suo fine. Cosí il problema dell' Ontologia, che domanda una ragione sufficiente della moltiplicità degli enti e de' loro mutamenti, rimane colla filosofia di Hegel pienamente insoluto e lasciato da parte, e non vi si fa che un' aggiunta d' indicibili contraddizioni. Ma egli è oltremodo utile alla scienza d' investigare le origini logiche degli errori in cui si perdettero i piú celebri filosofi: e però noi vogliamo qui tornare alquanto su quella confusione tra l' idea e il verbo della mente, che abbiamo additata come la stirpe degli errori dell' Hegelianismo. Ignorare la distinzione dell' idea dal verbo della mente, è il medesimo che ignorare la differenza che passa tra il conoscere per intuizione e il conoscere per affermazione . Hegel sostiene che il niente è lo stesso dell' ente. [...OMISSIS...] . Che sia pensato il niente, si può dire: passi dunque; ma che sia rappresentato, questo poi no: molto meno ch' esso sia. Onde è dunque questo sofisma? Il conoscere per via d' intuizione è un conoscere oggettivo : ogni intuizione ha un oggetto, fa conoscere un oggetto. Il conoscere per via di affermazione o di negazione è soggettivo ; non fa conoscere un oggetto novo, ma dispone in un dato modo il soggetto in verso l' oggetto dato dall' intuizione; cioè, altro non produce che una persuasione del soggetto circa l' oggetto dato dall' intuizione. Ora quando si dice di pensare il niente, si parla di un conoscere per intuizione, o d' un conoscere per affermazione, e negazione? Certo, conoscere il niente è un conoscere per negazione. Infatti il concetto del niente non si ha che per la negazione dell' ente. L' ente è l' oggetto, l' oggetto è sempre l' ente. Questo è dato dall' intuizione. Sopravviene il verbo della mente, cioè la negazione dell' ente, e che cosa ella produce? Produce una disposizione del soggetto intellettivo verso l' ente; la persuasione che l' ente non sia: il niente dunque non è; non v' è altro che la persuasione dell' essere intelligente che l' ente intuito non sia, non esista. L' ente, che si nega dalla mente, può esser un ente particolare, possono essere tutti gli enti: ciò è indifferente: l' oggetto è sempre l' ente, e mai e poi mai il niente; ma il soggetto fa un atto riguardante quell' ente, o quegli enti, e quest' atto è la negazione, e l' effetto di quest' atto è la persuasione che quell' ente o quegli enti non sieno: e questa persuasione appartiene al soggetto, è uno stato della mente: nessun oggetto novo s' è formato: la affermazione, o la negazione, o il loro effetto, la persuasione, non producono niun oggetto novo. Questo errore di Hegel è uno sbaglio rozzo e volgare: la sua origine è nell' uso della lingua. Una parola è un segno arbitrario, non è già la cosa stessa significata; quindi l' uso della parola dipende dall' arbitrio dell' uomo. L' uomo può usare la parola anche a significare l' ente negato. A tal fine s' inventano i vocaboli niente, nulla e simili. Ma poiché solitamente le parole, e particolarmente i nomi, significano enti, perché vi è già l' abito di attribuire ad ogni parola un oggetto, un ente; quindi chi non ne considera il valore, non ne analizza il significato, si dà a credere volgarmente che tutto ciò che viene significato da un nome sia un ente, un oggetto. All' incontro, accade che si trovino delle parole, de' nomi, che non significano già novi oggetti, novi enti; ma sí anzi enti negati dall' intelligenza. Tali parole dunque sono inventate a significare quel conoscere che si fa per via di negazione, e non quello che si fa per via d' intuizione; e quindi non suffragano menomamente al sofisma hegeliano. I vocaboli dunque niente, nulla , e simili, ingannano, perché hanno una forma positiva, ma diversa da tutti gli altri vocaboli. Il significato di tali vocaboli, pensato in generale, e però supposto positivo, è un' altra classe di concetti che abbiamo chiamati virtuali : classe che denomineremo virtuali7segnativi , quali sono le lettere dell' alfabeto nell' algebra, di cui non si considera il valore, ma si suppone che abbiano tutte un valore; ond' accade poi che quando si discende a determinare questo valore in particolare, facendo passare il concetto da semplicemente virtuale in attuale, allora si trova che alcuna di quelle parole non ha valore alcuno, perché è .uguale . 0. Or questo errore è perpetuo nella filosofia di Hegel: in esso consiste essenzialmente la sua dialettica, di cui mena tanto vanto che in essa fa consistere tutt' intera la sua filosofia: quell' errore è in una parola l' argomento dialettico, col quale fabbrica que' suoi ragionamenti, che il conducono al paralogismo dialettico indicato di distruggere i pensieri anteriori mediante pensieri posteriori. E veramente la singolare scoperta di Hegel consiste in una pretesa di dedurre per via di negazioni dall' essere puro e astratto tutte le idee, e tutte affatto le cose che sono nel mondo e fuori. Egli dice, come abbiam veduto, che quando l' essere ha prodotto in sé il niente, allora è già nell' essere quell' elemento che genera e produce il contrario dell' astratto, e quindi il passaggio dell' essere astratto al sussistente e a tutte quelle che egli chiama determinazioni concrete (1). Prende dunque il niente come un oggetto novo che è, e che sorge nel seno dell' essere. Ma noi vedemmo che il niente non è un oggetto novo, ma altro non è che l' ente colla negazione: la qual negazione non è un oggetto, na una disposizione soggettiva della mente negante. Cangia dunque in oggetti queste disposizioni soggettive, che niun oggetto producono; anzi si tolgono via: e questa è la creazione dialettica del nostro filosofo. In un altro luogo spiega il suo pensiero dominante dicendo che [...OMISSIS...] . Questo, secondo lui, è il vero metodo della scienza filosofica, da lui definito [...OMISSIS...] . Ora questo movimento di sé, che da se stesso fa il contenuto della coscienza, è per Hegel una continua negazione ripetuta con continuo progresso. Perocché dice: [...OMISSIS...] . Cosí vuole che il secreto del processo dialettico consista in un continuo negare, e che quindi escano tutti affatto gli oggetti ideali e le loro realizzazioni, insomma tutte le cose. Di che procede questa conseguenza, che mentre Hegel pretende di essere filosofo oggettivo per eminenza, di modo che per lui la logica oggettiva già prende luogo della metafisica formale di Kant, e cosí divien la Critica della Critica (3), in fatto, chi va al fondo e non si contenta di parole, trova che Hegel altro non fece se non comporre la sua filosofia di elementi soggettivi, quali sono appunto tutte le negazioni; né coll' appiccar loro i nomi di oggetti si possono rendere oggetti, perché un nome non fa mutar natura alle cose. Onde questo filosofo appartiene a quella classe che altre volte ho denominata di falsi oggettivisti ( Psicol. , 13). Il filosofo nostro confessa che quella negatività, che è l' anima dialettica, è una subiettività , e pure in questa subbiettività giace tutto il vero, e per essa solo il vero è. La verità hegeliana adunque è soggettiva, anzi è un prodotto del soggetto, perché ella è solo mediante questa subbiettività «( durch die es allein Wahres ist ) »: la subiettività dunque è anteriore alla verità, appunto perché questa è per quella. Hegel non è dunque piú che un soggettivista. In fatti il negare non può essere che l' atto di un soggetto negante. E che fa un soggetto che nega? Certo non produce alcun oggetto, che né pure il produce coll' affermare. Ma altro non fa che produrre in se stesso una persuasione relativa ad un oggetto che non esiste già per l' affermazione, né cessa per la negazione; ma in ogni caso è anteriore: ed è dato nell' intuizione. Ma Hegel pretende il contrario: egli converte dunque la persuasione soggettiva in oggetto: e poiché la negazione è per lui « l' anima dialettica che ha tutto il vero in sé, e per cui solo il vero è », perciò tutto il vero, tutti gli enti, tutti gli oggetti si riducono a disposizioni, a persuasioni, modificazioni del soggetto negante. Non essendovi dunque che il soggetto negante e le sue negazioni, quindi tutte le cose sono ridotte ad una sola: al soggetto, il quale, modificandosi, per via di negazioni diviene ogni cosa. Tale è il panteismo hegeliano. Or poiché il negante non può che negare se stesso (non essendovi altro da negare in tal sistema), il se stesso è anche oggetto, e quindi è Idea. Tale è l' Idea di Hegel, che ha il movimento dialettico in sé, ha l' anima dialettica, ha il diventare, ossia il negare, che è la mediazione tra sé e ciò che diventa. E che diventa? Diventa quelle disposizioni e persuasioni che da se stessa suscita in se stessa; le quali di novo negandosi rientrano nel soggetto Idea. Onde quell' Idea, soggetto, definisce anco « l' identità della teoretica e della pratica; della forma e del contenuto », e in generale di tutte le contraddizioni. L' errore sta sempre nell' aver convertite le persuasioni , che sono stati dello spirito intelligente prodotti dalle sue operazioni soggettive dell' affermare e del negare, in altrettanti oggetti; di non avere in una parola distinto il modo di conoscere per intuizione dal modo di conoscere per affermazione e negazione; l' uno oggettivo, soggettivo l' altro. Di questo primo errore dovea nascere e nacque che un oggetto negato sembrasse due oggetti che s' identificano. Quindi l' assurda proposizione che « l' essere e il niente sono lo stesso », supponendosi che l' essere negato altro non sia che l' identificazione di due oggetti: 1) l' essere, 2) il niente. E poiché l' essere si può sempre negare, e dopo averlo negato si può negare la negazione, perciò si disse che « l' essere passa nel niente, e il niente nell' essere », e che la mediazione di questo passaggio è la negazione. E` verissimo che nella negazione, per esempio nel nulla, s' inchiude una relazione colla cosa negata, per esempio coll' ente. Ma quali sono i termini di questa relazione? L' ente è l' uno, la negazione è l' altro. La mente che nega, deve indubitatamente conoscere (per intuizione) ciò che ella nega. Ma che perciò? Ne vien forse che questi due termini facciano un solo oggetto? Né Hegel stesso può talora dissimulare, che nella maniera di parlare, che egli usa, vi ha difetto. In un luogo, dove si sforza di trasportare la negazione nell' oggetto negato, e di farla qualche cosa che con esso lui s' immedesima, confessa nello stesso tempo che le proposizioni che ne risultano non possono soddisfare (1). Quest' è una confessione ben chiara; ma manca d' integrità. Non è solo inadeguata la forma di tali giudizŒ e proposizioni; ma le proposizioni stesse sono false, contraddittorie, assurde. Ma se sono tali, perché mantenerle? Perché riguardarle anzi come le proposizioni fondamentali di tutto lo scibile? Egli dà la colpa di ciò alla natura del giudizio stesso (poiché questi filosofi incolpano di continuo la natura e la mente, sopra di cui pongono se stessi come esseri dominanti!) [...OMISSIS...] . Certo è incapace, se lo speculativo e la verità è quella appunto che vuole Hegel, la contraddizione, l' unità degli opposti: nel che ei fa consistere, come vedemmo, l' apice del sapere. Ma se all' opposto si abbandona una cosí strana sentenza, perché non si potrà esprimere in un giudizio la verità? Quelle proposizioni assurde, diventano in qualche senso vere, se si convertono in queste altre: « Il finito è l' infinito colla negazione dell' infinità; l' uno è i molti colla negazione della pluralità; il singolare è l' universale colla negazione dell' universalità ». E perché anteporre l' imaginoso, il misterioso, il falso, l' assurdo, al linguaggio semplice e vero? Certo perché, usandosi questo, il prestigio è cessato: il sofisma cade: il sistema tutto intero crolla dalle fondamenta. Del rimanente, per restringere in breve l' osservazione principale che avevamo in animo di porgere in questo capitolo, allorquando la mente pensa una relazione fra opposti e contrarŒ, allorquando pensa un positivo e v' aggiunge una negazione; ella non ne fa già risultare un solo oggetto; ma anzi stanno a lei presenti i due termini della relazione senza confondersi, e la relazione quale anello tra essi. Il gioco di voler confondere tutto ciò in uno, è dunque una mera puerilità. A torto dunque Hegel inveisce contro i logici che ammettono il principio che « la contraddizione non sia pensabile », quando secondo lui « « pensare la contraddizione è il momento essenziale del concetto »(3) ». Anzi qui scorgesi venir meno ad Hegel l' accennata distinzione tra il conoscere per intuizione, oggettivo, e il conoscere per affermazione o negazione, soggettivo. Le contraddizioni che cadono nel conoscere per intuizione e quelle che cadono nel conoscere per affermazione o negazione sono di tutt' altra natura; e quelle prime non si chiamano con proprietà contraddizioni, ma piuttosto opposizioni, ovvero relazioni di contrarŒ. Hegel poi parla indistintamente delle une e delle altre senza conoscerne la differenza: e cosí calunnia i logici. Perocché questi dicono non pensabili le sole contraddizioni per via d' affermazione o di negazione. Onde il loro maestro Aristotele definisce la contraddizione: l' « affirmare et negare idem de eodem secundum idem ». Dove apparisce che egli non riconosce altra vera contraddizione che in quel pensare che si fa per via d' affermazione e di negazione. E bene, noi qui domandiamo al sig. Hegel s' egli si reputa cosí valente da saper dire di sí e di no nello stesso tempo, dello stesso attributo, dello stesso soggetto, sotto lo stesso aspetto. Mal per lui se ci risponde di sí: sarebbe lo stesso che dirci, aver egli questa facoltà singolare di fare e di non fare nello stesso tempo lo stesso atto: di avere intorno alla stessa semplicissima questione due persuasioni tra loro contrarie: di mentire essenzialmente. All' incontro l' intuizione non fa che presentare alla mente gli oggetti nella loro pura essenza e possibilità: essa non afferma che sussistano, né lo nega. L' essenza, per essere conosciuta, non abbisogna di essere affermata, né negata: la possibilità che l' essenza ideale venga realizzata, è una relazione tra l' ente ideale e la sua realizzazione. Il giudizio, « la tal cosa è possibile », non appartiene all' essenza pura, ma alla relazione che ella ha col suo realizzamento. E` necessario ben distinguere ogni giudizio dalla mera intuizione. Del resto l' intuizione pura può avere oggetti opposti, perché egli è manifestamente vero che piú cose, opposte fra loro ed escludentisi a vicenda, sono egualmente possibili: hanno di conseguente un' essenza atta ad essere intuita. Questo accade perché la contraddizione non giace mai nelle semplici essenze attualmente intuite, ma solo nel loro realizzamento. A ragion d' esempio, io posso pensare un dato individuo umano di color bianco o di color nero; l' uno e l' altro è possibile; come possibile l' uno e l' altro non si contraddicono; ma se si trattasse di passare alla realizzazione di un individuo umano, e potess' io crearlo, non potrei già fare lo stesso individuo tutto di colore bianco e ad un tempo tutto di colore nero. Ciò dunque che non è contraddittorio pensato come possibile, diviene contraddittorio pensato come reale. L' ordine de' possibili, considerato come l' ordine delle pure essenze, appartiene all' intuizione: e quest' ordine ammette opposizione e contrarietà, ma non ammette contraddizione: l' ordine de' sussistenti appartiene all' affermazione o alla negazione, e quest' è quel solo che ammette contraddizione (1). La stessa parola contraddizione , giusta l' etimologia, significa dizione o pronunciato contrario, e le dizioni, i giudizŒ, sono appunto affermazioni e negazioni. Queste sono le contraddizioni, che a sentenza de' logici, cosí alteramente dispregiati da Hegel, non si possono pensare dall' umana mente; appunto perché l' essere reale, che esclude da uno gli altri individuati, non può aver lotta intima seco stesso. Hegel vide, che nell' intuito si possono pensare i contrarŒ, come anco si può pensare la stessa relazione di contrarietà. Da questo conchiuse che si può pensare la contraddizione ( « Widerspruch »). Certo, che la mente intuisce cose opposte, e vede la relazione fra loro di contrarietà: ma con ciò la mente non si contraddice, né in veggendo tale relazione unisce e confonde in uno le cose contrarie, anzi in virtú di tale relazione, le tiene innanzi a sé perpetuamente distinte e separate. L' unica conseguenza che si può trarre dal fatto, che il nostro filosofo osserva, non è già quella che egli ne vuol cavare, che i contrarŒ si unifichino; ma sí questa sola, e a dir vero importante, che le cose contrarie ed opposte, dalla mente pensate, debbono avere qualche unità: ma non mica una unità in loro stesse, quasi che l' una sia l' altra reciprocamente; ma un' unità fuori di loro in qualche altra cosa unica che le contenga. Infatti, non è già contraddittorio il pensare, che cose opposte ed escludentisi si trovino contenute in una terza cosa, come non è contraddizione neanco che sussistano piú cose, l' una delle quali escluda da sé l' altra. Or, che i contrari pensanti dalla mente trovino unità non in se stessi, ma in altro, l' antica logica nol negò mai, e l' accagionarla di ciò è un mostrar di ignorarla. La metafisica poi in tutta buona pace con quella logica, la qual si può dispregiare ma non mutare, insegna primieramente, che l' intendimento che ravvisa tra due termini una contrarietà, con un atto solo pensa que' due termini, e li paragona, e l' unità di quest' atto è appunto l' unità che accoglie que' due contrarŒ. Questa unità è soggettiva, e consiste nell' unità, per cosí dire, del continente, cioè nell' unità del soggetto che contiene que' due termini contrarŒ. Ma la metafisica non si ferma qui: ella s' accorge bene, che il soggetto intelligente non potrebbe trovare la relazione di contrarietà tra que' due termini, se non li paragonasse; e non li potrebbe paragonare, se non li riferisse ad un terzo termine, nel quale di novo fossero in qualche modo già contenuti. Noi abbiamo già mostrato, che questo terzo termine c' è, ed è appunto l' essere ideale (1). Si domanda come nell' essere ideale possano contenersi oggetti contrari. Rispondo: la contrarietà rimanersi tra contenuti, non passare nel continente. La quale è una proposizione che nella sua forma non involge certo contraddizione, poiché si predica cose contrarie di due soggetti diversi, e non dello stesso. Si rifletta che l' essere nella sua forma ideale è unicamente l' essere possibile, ed apparisce ben chiaro che piú oggetti anche contrari possano essere, senza perciò contraddirsi. Perocché ogni contraddizione sta sempre nell' ordine della realità, a cui si riferisce l' affermazione e la negazione. La ragione di questo si troverà riflettendosi, che l' essere ideale non porge da sé solo l' attualità delle cose contrarie, ma solo le contiene virtualmente, e la contrarietà non ritrovasi che nell' attualità delle cose stesse. Non essendo adunque l' attualità delle cose nel concetto virtuale di esse, niente vieta che questo concetto si possa riferire a cose contrarie, come a una loro comune possibilità e virtualità, a quella foggia appunto come il concetto specifico si riferisce ad infinito numero d' individui, l' attualità di ciascuno de' quali esclude l' attualità degli altri, e però in questo sono contrarŒ. Ma un altro errore di Hegel, si è ch' egli riduce ogni cognizione a quella che si ha per via di negazione, di modo che nella stessa prima cognizione dell' essere puro pretende che vi si contenga la negazione: onde il suo principio, che « l' essere è il nulla, e il nulla è l' essere ». Egli abbracciò senza esame il pregiudizio universale dei sensisti, che la cognizione dell' essere puro s' acquisti per via d' astrazione , nella quale egli vide rinchiusa una negazione , benché anche questo non sia del tutto vero, potendo nascere l' astrazione senza positiva negazione (2), bastando una dimenticanza, o un lasciar indietro, un non osservare: che sono tutti atti diversi dal negare. Ma l' astrazione non può darci l' essere puro che nell' ordine della riflessione. Pigliando dunque il filosofo alemanno per principio del suo sistema mischiato senz' accorgersi di sensismo, l' essere puro riflesso , egli, invece di sollevarsi, come pur si propone, al di sopra della riflessione , comincia anzi la serie delle sue idee da un prodotto di questa. A torto adunque egli chiama il suo essere puro un primo, un immediato: questo è anzi un degli ultimi mediati, giacché la riflessione astraente non giunge a formarsi il concetto dell' essere puro se non assai tardi. Conviene con tutta diligenza distinguere le diverse operazioni dello spirito umano. La negazione propriamente è un atto dello spirito, col quale esso nega un' entità: la è insomma un giudizio negativo. Altro è dunque che alcuni atti dello spirito intelligente non abbraccino tutte le cose, ma abbraccino una sfera di cose limitate: altro è che lo spirito neghi quelle cose che sono fuori di quella sfera. Egli è questo uno de' principali sbagli di Hegel, il credere che l' intelligenza non possa conoscere una cosa se non nega tutte le altre. Posto quest' errore, ne viene che deve primieramente esser posta come nota la totalità , e che quindi si rendano note le cose singole per mezzo di negazioni limitanti quella totalità: questa totalità nota è l' idea assoluta di Hegel . [...OMISSIS...] . Ma questa totalità nota , quest' idea assoluta , che è tutto l' essere e tutti i modi dell' essere, non avrebbe ella bisogno di venir provata? non si dovrebbe dichiarare qual relazione abbia ella coll' uomo? Convien dunque dire che quest' idea assoluta sia presente all' uomo. Ma in tal caso l' uomo che la contempla non può essere l' idea contemplata, né l' idea contemplata può essere il contemplatore. Eppure in quell' idea, secondo Hegel, si contiene tutto anche il reale e il sussistente, conseguentemente l' uomo stesso. Ma se l' uomo stesso reale e filosofante è in quell' idea, rimane a sapere se in quell' idea altro non si abbia che quest' uomo, o vi sia troppo piú. Se in quell' idea non v' è altro che l' uomo filosofante, in tal caso l' uomo che pensa se stesso sarà quell' idea che pensa se stessa, e non potrà l' uomo pensar altro che se stesso. Ora l' uomo, che pensa se stesso, ha con ciò la coscienza di sé; ma secondo Hegel quell' idea assoluta è al di là d' ogni coscienza: non può adunque quell' idea essere unicamente l' uomo che pensa se stesso. Ma l' uomo non sa d' esser uomo, se non in quanto è consapevole di sé: l' uomo dunque non è cosa alcuna di piú di quanto la coscienza gli dice lui essere. Ma la coscienza gli dice di non essere piú che un ente limitato. L' uomo dunque è questo e nulla piú. Dichiarare adunque che l' uomo sia quello che non gli dice di essere la coscienza, è una posizione gratuita, e propriamente una stoltezza filosofica. Se dunque l' uomo non ha ragione di credersi piú di una minima particella dell' universo, egli non può essere tutta l' idea di Hegel, la quale è la totalità nota per se stessa, l' unità di ogni ideale e di ogni reale. Rimane che quest' idea assoluta sia troppo piú dell' uomo, e che l' uomo sia il prodotto dell' idea assoluta che dialettizza e va negando se stessa. Or bene, se la cosa è cosí, quest' uomo posteriore al dialettizzare dell' idea assoluta, siccome da essa prodotto, come può egli conoscere questo dialettizzare che non è il suo proprio dialettizzare, ma che è anteriore alla sua esistenza? Questo è ciò che Hegel passa in silenzio. Che se pure a quest' uomo, si concedesse l' intuizione di quell' idea sua madre; in tal caso già quest' idea intuíta, che tutto comprende, non sarebbe piú l' idea assoluta: poiché nell' intuizione di quell' idea, l' intuente, in quanto è intuente, sarebbe fuori di essa; e però essa non abbraccierebbe piú tutta la realità, com' è necessario che l' abbracci secondo Hegel, acciocché ella sia idea assoluta. Rimane dunque che Hegel ci dica com' egli parli e proponga la teoria di una tale idea assoluta. Poiché lo stesso fatto del filosofare distrugge il sogno di quell' idea assoluta che Hegel prescrive. Egli si dimentica, filosofando, di essere uomo, e il volo ch' egli prende coll' immaginazione, e non punto colla ragione, non è solamente temerario e funesto come quello di Icaro, ma è di piú oltremisura ridicolo. Ma se fosse vero ciò che egli afferma, le negazioni di cui parla, dovrebbero essere negazioni fatte dall' uomo. Se sono negazioni dell' uomo, in tal caso esse tutt' al piú proveranno che debbono essere precedute da una cognizione positiva abbracciante la totalità dell' essere, da una cognizione, dico, presente di continuo all' umano intendimento. Dunque, l' argomento, tratto dal conoscere per negazione, condurrà tutt' al piú ad un' idea presente all' uomo, e perciò contrapposta all' intuito umano: perciò escludente da sé la realità sussistente di quest' intuito. Questo solo fa crollare tutto l' edifizio hegeliano, che intende di stabilire una idea dove ogni realità si contenga. Ma l' argomento si appoggia oltrecciò sopra il falso supposto che l' uomo conosca tutte le cose particolari e limitate solamente per via di negazione. Ma onde venne ad Hegel questo errore di credere che tutti i limiti delle cose conosciute sieno posti dall' atto della negazione? Questo è un errore da lui ereditato: fu Fichte quello che introdusse il primo l' affermazione e la negazione nella filosofia tedesca, come elleno fossero fonte di tutto l' umano sapere, o certo delle sue limitazioni, disconoscendo il sapere intuitivo e limitato per natura (1). Fu osservato anche da Tedeschi di buon senso (1), che Hegel prende il concetto di una cosa per la cosa stessa; egli vuole che la dialettica sia la stessa cosa sussistente che dialettizza. Questo per altro è coerente coll' aver supposto che esista un essere assoluto (l' Idea), il qual contenga ogni modo di essere, e il quale abbia un moto interno suo proprio che lo rechi a spezzarsi in piú, per via di continue negazioni, limitandosi, determinandosi. Questo moto di negazioni è quella che Hegel chiama dialettica. Ora Hegel dice che questo essere assoluto, o come egli lo chiama idea assoluta , oggetto della filosofia, rimane sempre presente nel principio, nel progresso e nella fine, appunto perché ogni ente è lui stesso negato in qualche sua parte o determinazione. Essendo dunque quest' assoluto ogni cosa per via di negazioni, niuna meraviglia piú è se ogni cosa abbia la sua dialettica, e se ogni mutazione dell' universo altro non sia che un' operazione dialettica. Tutto ciò vien esposto da Hegel in un modo oscuro, lambiccato, forzato, senza addurre mai una prova che abbia forma di prova, accumulando asserzioni sopra asserzioni; e non dandosi cura di ciò che ad ogni passo gli si potrebbe opporre. Innumerevoli osservazioni noi potremmo fare su questa dottrina: ci restringeremo ad aggiungerne alcune poche a quelle che abbiamo fatto sopra. I Osservazione . - L' esistenza dell' idea assoluta di Hegel non può essere considerata tutt' al piú che come un presupposto gratuito. Questo supposto è introdotto dal nostro filosofo pel bisogno di rispondere agli argomenti degli scettici. Tutto l' argomento con cui si crede di provare l' esistenza di quell' idea si riduce a questo entimema: « Gli enti come sono concepiti siccome pure i loro concetti, hanno in sé la contraddizione, sono assurdi in se stessi considerati, come dimostrarono gli scettici. Ma non può ammettersi che sieno assurdi intieramente. Dunque debbono avere un altro modo di essere, nel quale non sono assurdi. Questo modo è il considerarsi in un' idea che tutti gli contenga senza distinzione, e però senza contraddizione che nasce loro dall' essere distinti. Dunque quest' idea, avente l' universalità e la totalità degli enti e dei concetti, esiste ». A convincere d' invalidità questo modo di argomentare, basta negare la maggiore. Noi abbiamo già sopra avvertito che negli enti e ne' concetti v' ha bensí distinzione, ma non per questo contraddizione: questa ce la pone Hegel del suo. II Osservazione . - L' ipotesi d' un' idea che contenga la sussistenza, è assurda. Perocché la sussistenza non si conosce per via d' idee, o per via di concetto, ma per via di sentimento e di affermazione. Nell' idea e nei concetti non s' intuisce che l' essenza possibile delle cose, la loro conoscibilità. Si confonde dunque l' essenza possibile col sentimento che la realizza. Converrebbe dimostrare che questi due modi dell' essere s' immedesimassero; ma quest' è quello che Hegel non fa né può fare, perocché una cosa semplicemente conosciuta come possibile, e una cosa sentita come reale, porge due modi di essere affatto distinti. Queste due cose potranno annodarsi in un essere intelligente; ma confondersi no. La conoscibilità e la sussistenza delle cose rimarranno sempre distinte e incomunicabili, niuna di esse potrà perdere la sua natura passando nell' altra. III Osservazione . - Si suppone che l' idea si presenti da prima come un universale, puro essere; e che poi quest' idea, negando se stessa, produca in sé le distinzioni contraddittorie. Ma quest' attività che ha l' attività di negare se stessa, onde viene? Tutto ciò è asserito gratuitamente. Non basta: tutto ciò ripugna. Se l' idea da principio è un universale, senza distinzioni; dunque non può avere la forza di negare se stessa, perché già non sarebbe piú semplicemente universale, essere purissimo; ma un essere determinato, appunto perché avrebbe una speciale facoltà. Le determinazioni dunque non sarebbero l' effetto dell' esercizio di tale facoltà, essendo la facoltà stessa una di esse; l' avrebbe senza darla a se stessa. IV Osservazione . - L' idea, negando se stessa, diviene il nulla. Ma: o s' intende con ciò che l' idea veramente diviene il nulla, nel qual caso s' avrebbe l' assurdo d' un essere, del sommo essere, che annulla se stesso; cosa ripugnante alla natura dell' essere; o s' intende che negando se stessa produce a sé il concetto del nulla, restandosi ella quel di prima. In tal caso la negazione non produrrebbe che concetti, e non s' avrebbe piú una negazione veramente efficace, operante la realità. V Osservazione . - L' idea diviene ogni cosa negando le proprie determinazioni contraddittorie, correlative. Ma non si può negare ciò che non si conosce. Dunque l' idea conosce in se stessa tutte queste determinazioni, prima che le neghi; e le conosce distinte, perché la negazione nega l' una e lascia l' altra. Dunque non è la negazione che produce tali determinazioni, ma prima già sono, e sono conosciute. E se si dice che non sono conosciute, ma che l' idea s' affissa in se stessa, e cosí vedutele, va poi negandole; in tal caso: 1) Ad ogni modo prima di negarle le viene a conoscere per intuizione o percezione, e però non è la negazione che le produce. 2) Oltre la facoltà di negare, e ancor prima, convien dare all' idea la facoltà di riflettere su di se stessa (cosa oppostissima al sistema di Hegel), d' intuire o di percepire: cosí si aggrava la difficoltà; perché non si può supporre quell' idea come un semplice universale, ma è giocoforza che fin da principio si presenti come un soggetto fornito di varie facoltà, e variamente determinato in se stesso. 3) Finalmente, se la cosa è cosí, in quell' idea non possono scomparire la contraddizione, e tutti i correlativi, ma debbono esser in essa distinti fin da principio. Torna dunque in pieno vigore l' argomento di Jacobi: o quell' idea è un semplice, e in tal caso come da sé sola produce il moltiplice? o è un moltiplice, e voi facendola semplice vi contraddite fin colla prima parola. Ora tutta la ragione del sistema hegeliano è la necessità di conciliare ed abolire le pretese contraddizioni, che gli scettici trovarono negli enti e ne' loro concetti. A questo nulla giova l' ipotesi di quell' idea: dunque il nostro filosofo ha buttato la sua fatica indarno. VI Osservazione . - Fichte diceva che l' Io pone contro se stesso il Non7Io. Hegel, che l' idea poneva tutti i suoi contrari per via di negazione. Ma altro è che l' Io e il Non7Io si trovino esistere in una certa opposizione; altro asserire che l' Io stesso è l' autore del suo contrario. Quest' asserzione, oltre essere del tutto gratuita, oltre essere una illazione falsa, perché quel che è un fatto si converte in un causale, non rimedia punto al difetto della contraddizione supposta, anzi raddoppia la difficoltà, perché, oltre rimanere a spiegare come esista una contraddizione in natura, rimane di piú a spiegare come un termine di questa contraddizione possa produrre la contraddizione stessa, producendo un suo contrario. La stessa osservazione si deve applicare al sistema di hegel. VII Osservazione . - Se davanti ad una mente fosse un' idea generica e nulla piú, detta mente potrebbe considerare quest' idea generica come un' entità particolare, ma non potrebbe mai trovare le specie subordinate a quel genere, né gl' individui di questa specie, e molto meno la reale sussistenza di questi individui. Sieno pure le specie virtualmente contenute nel genere, è impossibile che ella ve le distingua traendole fuori a priori . Soltanto quando le sono date a posteriori , allora le può trovare. Questo è un fatto somministrato dall' esperienza; ed ancor dalla natura dell' universale e della sua virtualità. Hegel dirà, che egli non distingue la mente dall' idea, ma che è la stessa idea universale quella che trova in se stessa i meno universali distinti e i reali sussistenti. Ma la difficoltà rimane la stessa; poiché è dalla natura dell' universale che quella difficoltà procede: se è universale non ha in sé distinti i concetti minori, né le realità, altramente non sarebbe universale. Quando anche dunque l' universale si ponga vivente e pensante, egli non potrebbe vedere in sé ciò che gli manca, né potrebbe uscire di sé per sapere ciò che gli manca. VIII Osservazione . - Il reale abbraccia Iddio e il mondo; e il mondo si compone di innumerevoli enti fra loro distinti. Questi possono essere piú o meno, maggiori o minori, di varie forme e nature. Di piú l' uomo non li conosce tutti, e ne va scoprendo di piú ogni giorno. Egli sa, che per quanto pensi non ne può scoprire un solo e conoscerne la natura positiva ragionando a priori . Cosí, per quantunque pensi, se gli manca uno de' suoi sensi, egli non può piú conoscere la natura positiva di quegli enti che si riferiscono al senso che gli manca. Niuna idea gli produce il sentimento corrispondente. Di piú ancora non dipende dal suo pensiero, che gli esseri vengano sottoposti a' suoi sensi. Questo è quello che accade all' uomo. Ora una teoria del sapere umano deve dare ragione di tutto ciò: ma l' idea assoluta di Hegel nulla spiega di tutto questo. Quest' idea, secondo lui, si trasforma nell' uomo stesso, nello spirito soggettivo e nel mondo, mediante altrettante negazioni, che le fa fare: la consapevolezza dell' uomo riceve le sue leggi da quell' idea, ed è quell' idea stessa. Ma quell' idea, opera ella a capriccio? od ha in sé qualche ragione che la obblighi ad operare piuttosto in un modo che in un altro? e qual è questa ragione? Di tutti questi fatti il sistema di Hegel non dà la menoma ragione; né solo li lascia inesplicati, ma li rende inesplicabili; perocché la sua idea, da cui tutto dipende, non è sapiente, e pur non può essere capricciosa. Non è sapiente, perché non è indicata la ragione che la possa movere a negare se stessa. Non può essere capricciosa, volendosi ch' ella sia la ragione stessa, l' autrice di tutte le cose, il fonte d' ogni sapere; e il mondo mostra vestigi di sapienza luminosissima, e la sapienza non può essere senza sapienza. Dobbiamo parlare della vuota visione , dove Hegel ripone il principio della scienza, e l' Assoluto stesso che col principio della scienza s' immedesima. Hegel conviene che per ciascun uomo la scienza deve muovere dalla propria coscienza (1). Ma egli fin da principio confonde la coscienza cogli oggetti contenuti nella coscienza definendo l' Io « « La coscienza di sé qual mondo moltiplice all' infinito » » [...OMISSIS...] . Or quest' è idealismo (piú propriamente il soggettivismo) ricevuto da Hegel come cosa già passata in giudicato, come un nuovo pregiudizio. E su questo errore il nostro filosofo erige il suo gotico edifizio. Or, la coscienza, interrogata a dovere, attesta ad ogni uomo che il proprio Io non è il mondo . Conviene dunque non già supporre preventivamente e senza esame, che il Mondo sia nell' Io, come il vino è in una botte, ma piuttosto diligentemente osservare la natura che ha la relazione che passa tra l' Io e il Mondo. L' Io può essere considerato nella sua parte sensitiva; la relazione peraltro del mondo materiale con un principio sensitivo, se ben si esamina, suppone un extra7soggettivo, una virtú che non cade nel sentimento, ma sí agisce in lui modificandolo (relazione di azione modificante); suppone altresí un esteso sentito, termine del sentimento, ma opposto al principio senziente, e però molto piú inconfusibile con lui (relazione di sensilità). In tutto ciò non si tratta ancor dell' Io, ma del mero principio sensitivo: l' Io è il principio razionale, e la relazione di questo col mondo è quella di percipiente a percepito. Ora, in nessun modo mai il percepito è il percipiente, o viceversa; esigendo la natura della percezione, che l' uno non sia l' altro. La coscienza lo attesta, e nessuna argomentazione vale a indebolirne la testimonianza; perocché, l' attestazione della coscienza è appunto uno di que' pensieri anteriori, dalla cui autorità dipendono tutti gli altri. E` dunque da tener fermo questo primo errore psicologico di Hegel di confondere il percipiente col percepito, di voler identificare l' uno all' altro, e ciò per via di una semplice asserzione, e di un mero postulato, quantunque ei si mostri tanto contrario a' postulati. Hegel dunque, dopo aver detto, che ciascun uomo move necessariamente dalla coscienza, dice, che il filosofo deve innalzarsi da questa al puro sapere . E che cos' è il puro sapere? « E` l' ultima assoluta verità della coscienza »(1). Suppone dunque che la coscienza abbia bisogno di prova e di giustificazione, che la sua assoluta verità stia nel puro sapere. Questo si potrebbe accordare qualora il nostro filosofo non avesse identificati gli oggetti della coscienza colla stessa coscienza. Perocché se questi oggetti sono distinti da lei, in tal caso ella potrà trovare in essi, in alcuno di essi, la sua verità e la sua giustificazione. Cosí appunto accade nel nostro sistema, nel quale l' essere (la verità) sta presente alla coscienza senza immedesimarsi con essa, ed essendo quest' essere la verità, il primo lume, tutto viene per lui dimostrato: anche la coscienza riceve da lui la sua autorità, il suo valore. Ma se gli oggetti tutti si identificano colla coscienza, nulla piú resta di distinto da essa, onde possa mutuare la sua verità, e provare la sua veracità; perocché essi sono gli oggetti conosciuti, e gli oggetti conosciuti sono la coscienza. Ma tornando al sapere puro di Hegel che costituisce l' assoluta verità della coscienza, è egli questo sapere puro nella coscienza o fuori di essa? Il nostro filosofo dice, che il sapere puro è « « risultato dal sapere finito della coscienza » » [...OMISSIS...] ; dove alla coscienza attribuisce un sapere finito, prendendo la coscienza come sinonimo di sapere: all' incontro il sapere puro secondo lui è infinito. Quindi il puro sapere, essendo infinito, sembra fuori della coscienza, che è un sapere finito. Dice ancora che [...OMISSIS...] : dove sembrerebbe che la coscienza stessa si trovasse nell' assoluto sapere in cui è portata nel suo sviluppo. Ma veniamo piú d' appresso alle sentenze del nostro autore. Dopo aver detto che la filosofia deve cominciare dal puro sapere, paragonando il puro sapere coll' Io , cioè colla coscienza, dice che [...OMISSIS...] . Non approva quindi di cominciare la scienza dall' Io come fece Fichte. All' opposto si deve cominciare da un semplice dove non v' abbia oggetto distinto dal soggetto. Laonde dice, che l' Io non potrebbe essere principio della scienza, se non si divide dalla moltiplicità de' suoi oggetti, che il rende concreto, e che cosí separato non è piú l' Io comune. [...OMISSIS...] . Al qual ragionamento noi opponiamo le seguenti osservazioni: L' Io è un principio razionale riflesso «( Psicol. , 61 sgg.) ». Non v' ha alcuna speranza di far cessare in lui la distinzione del soggettivo e dell' oggettivo, perché un principio non è intellettuale o razionale, se non a questa condizione, che egli abbia un oggetto da intuire o percepire, il quale nella sua forma di oggetto da lui si distingue. La distinzione dell' oggetto e del soggetto cessa soltanto allora che cessa l' intelligenza. Di che si raccoglie che il concetto fisso nella mente del nostro filosofo non poté essere altro che quello della materia e del senso, dove solo è l' abolizione del soggettivo e dell' oggettivo, posta da lui a condizione del suo puro sapere. Non vi ha dunque un atto, il quale possa sollevare il concetto dell' Io al puro sapere, come il nostro autore s' esprime, senza che ne rimanga affatto distrutto l' Io medesimo. Del resto egli è vero che in quel puro sapere, onde incomincia la scienza, non cade la distinzione dell' oggetto e del soggetto; ma è vero in tutt' altro senso, e a tutt' altra condizione. Cessa la distinzione nel puro sapere, perché non rimane altro che l' oggetto intuíto: il soggetto vi è del tutto escluso. Onde rimane escluso il Sé dalla sua cognizione; il Sé vi è solo come operante, non come conosciuto. E questo si avvera prima di tutto nell' intuizione di quell' essere essenziale, che è il vero principio della scienza. Dove si noti che quando noi diciamo che l' oggetto permane, diciamo ciò, intendendo che non rimane come oggetto, involgendo questo vocabolo la relazione col soggetto, ma vogliamo dire che rimane quell' ente, al quale poscia la riflessione attribuisce la qualità e denominazione d' oggetto, inserendolo al suo soggetto. Ora questo che facciamo noi, non può fare Hegel, il quale immedesima l' oggetto colla coscienza. Egli volendo evitare una dualità in quel primo vero onde incomincia la scienza, e perciò sbrigarsi dalla distinzione dell' oggetto e del soggetto, che fa? Immagina che questi possano andare insieme, e svariarsi l' uno nell' altro, ciò che è assurdo ed affatto opposto alla natura della cosa. E perché viene egli a cosí arbitrario partito? Per amore del suo sistema di cavare dal primo vero non pure tutta la scienza, ma tutte le cose reali e sussistenti altresí, quasiché l' essere non avesse altro modo che il scientifico. A tal fine doveva dunque stabilire un principio che contenesse il germe dell' ideale e del reale, e che non fosse tuttavia né l' uno, né l' altro, ma virtualmente fosse l' uno e l' altro: questo principio, non trovandolo, se lo immaginò. E pure aveva egli stesso detto questa buona sentenza che [...OMISSIS...] ; ma non gli valse. Egli si ridusse alla vuota visione degl' indiani filosofi, dove scomparisce ogni ente determinato, e credette d' essersi rinvenuto in essa al fonte di tutte le cose e di tutte insieme le idee. [...OMISSIS...] . Vi ha bensí un pensare puro; ma questo altro non è che il pensare naturale all' uomo, l' intuizione dell' Essere ideale indeterminato. Nel puro essere non è ancora compreso l' ente pensante, né è compresa alcuna realità, e però l' uomo pensando all' essere non pensa a soggetto, e non pensa alla relazione che l' essere ha con sé pensante. Questa relazione la scopre in appresso per via di riflessione, ed è allora che l' essere intuíto è diverso e contrapposto a sé intuente: il che è quanto dire, lo ravvisa nella sua relazione di oggetto e soggetto. Nel puro semplice pensare non è ancora la coscienza incominciata. La coscienza dell' Indiano che nomina Brama, dicendo sempre: Om, Om, Om, può essere bensí illusa, ma non vuota. Può bensí l' Indiano contemplare, non pensare ad un oggetto determinato: ma se veramente pensa, egli deve avere un oggetto almeno indeterminato, avrà il tutto senza distinzione, avrà l' origine delle cose, o checché altro egli attribuisca al suo Brama. Ora un oggetto anche indeterminato, non è certamente un nulla: perché neppure un concetto o un astratto è nulla: ed appunto perché non è il nulla, appunto perché è un oggetto, egli si distingue dall' atto del pensare, che ha condizione di soggetto. Fa meraviglia che Hegel non abbia potuto capire che chi pensa, in qualsivoglia maniera pensi, dee pensare ad un oggetto; che un oggetto indeterminato dee ancora essere un oggetto; e che se si toglie via tutto da quest' oggetto, si toglie con ciò stesso anche la possibilità di pensarlo: se poi resta qualche cosa, incontanente sopravviene la dualità del pensare e del suo oggetto sintesizzanti. Ma viemaggiore è l' abuso ch' egli fa della parola coscienza , quasi fosse sinonimo di pensare. Il pensare può essere oggetto della coscienza, e appunto da ciò da lei si distingue. La coscienza è un pensare riflesso, pel quale l' uomo sa ciò che passa in sé. Quindi è una grossolana illusione di credere, come fa Hegel, che la pura e vuota coscienza, possa essere cosí immediata, onde possa cominciare la filosofia. Ancora egli è assurdo parlare della coscienza vuota , quasi potesse essere senza oggetto. Falso è poi che la coscienza possa avere per oggetto immediato un indeterminato; dappoiché la coscienza ha sempre per suo oggetto lo stesso principio intellettuale e razionale a cui la coscienza appartiene, esprimendosi coi vocaboli sé, me, io , e simili. Noi stessi dunque siamo l' oggetto della coscienza, e noi siamo enti attuali, sussistenti, e determinati, benché possiamo essere consci di pensare ad oggetti indeterminati. Finalmente, mai e poi mai si potrà dire che questa coscienza vuota immaginata da' filosofi tedeschi sia l' Essere, l' essere puro; questo è l' oggetto del pensare, non della coscienza: e l' oggetto del pensare è distinto per sua propria natura inconfusibile coll' atto del pensare. Vi ha dunque difetto totale di analisi nel nostro filosofo: ond' avviene che egli confonde in uno i concetti piú disparati. Ora in questa confusione appunto egli si lusinga di aver trovato il principio della scienza e del mondo. Perocché a lui pare di aver fatta scomparire ogni distinzione fra soggetto ed oggetto, fra reale e ideale, fra sapere ed essere, fra essere e nulla; e che tuttavia gli rimanga in mano un germe fecondo, avente un movimento dialettico che riproduce dal proprio seno, dopo averle ingoiate, tutte quelle distinzioni. Ma in sostanza, se si désse veramente, o se concepir si potesse quella coscienza vuota, altro ella non sarebbe che un soggettivo, o il concetto astratto di un soggettivo, affatto incapace di produrre cosa alcuna da sé medesimo. E questo soggettivo dimostrerebbe nuovamente che il sistema hegeliano pecca di soggettivismo fino dalla prima sua mossa: perché quella coscienza non può essere finalmente altro che il concetto del soggetto intuente con astrazione da ogni oggetto. Coll' invece cominciare dall' oggetto, che solo è essere puro, incomincia da un soggetto, ossia dal principio soggettivo astratto, e il fa produrre fuori di sé tutti i concetti e le cose (gli oggetti) che si possono pensare a lui contrapposti (1). Ma, che questi sieno per loro natura a lui contrapposti, è un fatto; ch' egli poi li produca per proprio spontaneo e necessario movimento, non si dimostra in tutte l' opere voluminose del nostro filosofo; onde il passaggio, la pretesa loro generazione, il mirabile loro parto dalla coscienza vuota, non si vede, né niuna levatrice v' ebbe mai assistito, né può quindi attestarlo, foss' anco la madre di Socrate. Altrove abbiamo indicato, che i pensamenti ontologici, fino al cominciamento della filosofia in Italia, si divisero in tre sentenze. Alcuni sostennero che l' essere era uno ed immobile: tutto il resto esser fenomeno e illusione. Altri dissero che non s' aveano se non esseri moltiplici, trascorrenti, continuamente mobili, nascenti e morienti. Finalmente la filosofia matura di Platone e di Aristotele disse che v' avea l' uno e l' altro essere. Hegel retrocede e s' aduna colla seconda schiera. Infatti ponendo Hegel a principio della scienza il diventare , egli non potea piú riconoscere nulla di veramente stabile ed assoluto. Egli ci dice che « non vi è nulla né in cielo, né nella natura, né nello spirito, né ovunque sia, che non contenga tanto l' immediatità «( Unmittelbarkeit ) », quanto la mediazione «( Vermittelung ) », cosicché queste due determinazioni si mostrano come indivise e indivisibili , e la loro opposizione «( Gegensatz ) », come un nulla «( Nichtiges ) » »(1). Di vero, se per immediatità e per mediazione il nostro filosofo intendesse semplici vedute dello spirito, volendo significare che ogni cosa può essere dallo spirito pensata in modo immediato e in modo mediato, considerandosi come un immediato quand' ella si prende quale principio onde dedurre altre cognizioni, e come mediato quando si deriva e deduce essa stessa da un altro; in qualche modo potrebbesi lasciar passare quella sentenza. Ma no: ché per Hegel la veduta dello spirito è la stessa cosa, lo stesso oggetto: la diversità di veduta viene cosí trasportata nell' oggetto. Onde tutto, anche Dio stesso è : ed intanto è un immediato; e diventa , s' annulla, e torna a diventare: e intanto è un mediato. Tale è il circolo dialettico di Hegel. Laonde all' essere stesso, e però ad ogni essere, Hegel attribuisce di fare equazione al nulla. [...OMISSIS...] : di maniera che Dio stesso non avrebbe la verità se non isvanisse nel nulla; e alla sua volta non diventasse: lo stesso fluire di tutte le cose è il divino di Hegel. Hegel fu accusato di Panteismo e di Ateismo: vediamo se la cosa sia fondata. I sistemi di Panteismo si possono dividere in due classi: tutti fanno di Dio e del mondo una sola sostanza: ma alcuni a questa loro unica sostanza lasciano tutti gli attributi divini; altri le tolgono questi attributi e non le lasciano che quei soli che appartengono alle nature limitate. I primi sono manifestamente incoerenti, perocché gli attributi divini escludono quelli delle nature limitate, e il legare insieme cose sí opposte è contraddizione manifestissima. Tuttavia, non annullando essi direttamente le proprieta di Dio, non si possono dire assolutamente atei; benché il loro sistema tenga in seno il germe dell' ateismo, bastando levargli la contraddizione grossolana in cui cadono, perché ne riesca un ateismo puro. Ai secondi assai meglio conviene il titolo di atei che di panteisti, perocché in fatto annullano i caratteri della divina natura. Ora vediamo se all' una o all' altra classe di questi s' accosti il nostro filosofo. Tutte le cose si riducono alla sua idea assoluta: il movimento dialettico, che ha in se stessa, per via di negazione la trasforma in tutte le cose: ella è Dio, ella il Mondo, ella la Natura, ella lo Spirito. Tuttavia gli ripugna assai la parola di Panteista. Vediamo dunque com' egli se ne purghi: [...OMISSIS...] . Pianta dunque la sua difesa sulla definizione del Panteismo. Se questa definizione è accurata, egli se ne va netto ed assoluto, venendo tutta la colpa a ricadere su tutti gli altri uomini del mondo, i quali tengono che essere sia essere, e niente, niente. Perocché egli all' incontro tiene che essere sia niente, e niente sia essere, ed essere e niente sieno lo stesso, e costituiscano il diventare di tutte le cose. Dio stesso per lui diventa, come diventa il Mondo e lo Spirito. Ora, poscia che ciò che diventa non può essere Iddio, conseguita che, sebbene nel suo sistema tutto si riduce ad un solo principio, il diventare; tuttavia egli non sia panteista, perché Iddio manca affatto nel suo sistema, mancando la proprietà e il carattere di Dio di essere immutabile e non poter diventare cosa alcuna. In una parola egli si colloca cosí nella seconda classe de' Panteisti, che propriamente Atei devono denominarsi. Del resto noi abbiamo udito il nostro filosofo dichiarare che: [...OMISSIS...] . Né giova il dire che queste negazioni sono ne' limitati nostri concetti, perché Hegel nega questa limitazione del pensare e del concepire dell' uomo; e di questo appunto mena vanto, di aver tolto i confini all' umana mente, e d' esser giunto a trovare il pensare infinito: perocché, dice, l' infinito è il ragionevole , onde, secondo lui, il dire che la ragione è incapace di conoscere l' infinito, equivale a un dire che la ragione è incapace di conoscere il ragionevole, il che sarebbe assurdo! (2). Né vale il dire, che altro è la ragione assoluta che è quella di Dio, altro la ragione dell' uomo: perché Hegel attribuisce alla ragione il conoscere, o piuttosto l' essere o il far l' infinito, come cosa a lei essenziale; onde, là dove è la ragione, forz' è che sia l' infinito: la sua essenza è una sola. Perocché anco il filosofo che ragiona è la ragione stessa, ossia l' idea assoluta, che, negando se stessa, si è trasformata nel filosofo. Se non che supponiamo vero tutto ciò: che l' idea assoluta, negando se stessa, si sia trasformata nel signor Giorgio Guglielmo Federico Hegel. Ora quest' idea trasformata o è limitata, o illimitata ed infinita. Consideriamo i due lati di questo dilemma. Se ella è illimitata ed infinita, di conseguente è anche infallibile ed onniscia. Convien dunque dire, che il signor Hegel sia infallibile ed onniscio. E per la stessa identica ragione debbano essere infallibili, ed onniscŒ i suoi predecessori, ed ancora tutti gli umani individui. Ma questi diversi filosofi si negano e si accusano d' errore scambievolmente. O dunque tutti sono in errore, o ha ragione l' uno d' essi e torto gli altri. Nel primo caso la ragione trasformata de' filosofi non fa che cadere in errore, il che è assai peggio che l' esser solamente limitata. Nel secondo caso la ragione, contraddicendosi, mente a se stessa. Né gioverebbe ad Hegel rispondere, che, quando i filosofi si contraddicono, è la ragione, ossia l' idea assoluta, che, negando se stessa, si fa piú ricca, e solo quand' ella assorbe in sé ed abolisce queste contraddizioni, torna allo stato di idea assoluta. Poiché (lasciando stare il gergo frivolo di queste parole) rimane sempre a vedere se l' idea, che cosí si fa assoluta, è la mente de' filosofi che cosí opera, o non è questa mente. Se non è questa mente, rimane un mistero inesplicabile come Hegel, che è pure un filosofo individuo, sappia dire tutto ciò uscendo necessariamente da se stesso: per quale rivelazione? Se poi è la sua mente stessa, che fa tutto ciò: egli è evidente, che, per restituirsi allo stato d' idea assoluta, dee perdere la sua individualità, quella individualità che filosofeggia. Dee svanire il filosofo di Stuttgarda. Che diremo dunque al nostro filosofo? Diremo: tacete; parla l' idea assoluta, lasciatela far da sé. Non vi sono orecchi che l' ascoltino, è vero, poiché se v' avessero, ella si sarebbe trasformata in orecchi, sarebbe caduta nello spazio, nel tempo, non sarebbe piú assoluta. Ecco il requiem aeternam della filosofia. Passiamo all' altro membro del dilemma. Se l' idea trasformata, cosí trasformandosi si è limitata, in tal caso la ragione individuale del filosofo urta nel limite dell' infinito, e non è piú vero che il ragionevole del filosofo sia l' infinito, e non s' abbia altro infinito che questo. Rotta questa maglia, tutta la calzetta filosofica del nostro autore si discioglie fino all' ultimo punto. Ma consideriamo come il nostro filosofo aguzzi l' ingegno a voler provare che anche in Dio vi ha il negativo. [...OMISSIS...] . Di che egli deduce, che il vero concetto dell' infinito e la sua assoluta unità non è altro che temperare, vicendevolmente limitare, mescolare (2); e conchiude che dunque Iddio [...OMISSIS...] . Ora è evidente, che i ragionamenti che fa Hegel per dimostrare che in Dio cade il negativo, e che s' identifica col niente, non possono generare alcuna convinzione: perché tai ragionamenti partono tutti dal principio, supposto come certo, che le negazioni e determinazioni che fa l' umano intelletto quando dapprima tenta formarsi il concetto del sommo Essere, sono quelle che producono questo stesso Essere sommo, e insieme con lui il suo concetto. Quei ragionamenti adunque suppongono dimostrato che il pensare umano produca Iddio producendo il suo concetto; e le negazioni e astrazioni del pensare umano sieno gli elementi che costituiscono Iddio. A questa condizione quei ragionari hanno valore. Ma si osservi con quale confidente sicurezza, egli conchiude che se gli attributi di Dio debbano perdere la loro distinzione e ridursi in una unica essenza, non se ne possa aver altro che l' essere astratto vuoto di contenuto e però pari al niente: che non si possa adunare quegli attributi nell' essenza divina se non per via dell' astrazione che lascia da parte la differenza e serba solo quello che hanno di comune. Egli non rinviene colla sua perspicacia altra via d' unirsi a quegli attributi se non solo per astrazione; non ne sospetta neppure un' altra. E qui è da notarsi, che non è neppur necessario saper indicare un' altra via di identificazione dei sopraddetti attributi, ma basta che sia possibile avervene alcuna, benché incognita, acciocché la sentenza di Hegel ne vada in fumo: giacché questa non ha forza se non a questa sola condizione che « non ve ne possa essere alcun' altra ». Perocché si può in primo luogo dimostrare che per la via di Hegel non si perviene ad un essere perfetto sussistente e attualmente infinito, cioè a Dio; e però la sua via non condurrebbe ad altro se non a stabilire l' ateismo. Di poi non è impossibile il dimostrare che l' unificazione di quegli attributi, come non si può fare per via d' astrazione, perché l' astratto essere o anco l' astratta perfezione non è la loro unificazione, ma unicamente la loro abolizione; cosí si deve poter fare unicamente per via d' integrazione , la quale senza loro tor nulla di positivo, loro si aggiunge, e non mai per via di negazione; non è impossibile il dare in qualche modo ad intendere come far si possa questa integrazione, che pur supera cotanto l' umana esperienza. Già i teologi s' ingegnarono di farla intendere per via di analogie. Ma la migliore delle analogie, se ella non può fors' anco aspirare al titolo di vera similitudine, si è quella del principio razionale, il quale racchiude in sé tutte le entità sentite sotto la condizione di enti: dove accade che l' unica virtú dell' intelligenza sia anco senso, ma in un modo eminente «( Psicologia , 255 7 264) ». Oltrecciò egli è a stupirsi che il nostro filosofo sia cosí rozzo nell' analisi delle idee. Perocché egli si contenta di pigliare gli attributi della bontà, della sapienza, della potenza, ecc. al modo volgare, supponendoli tante essenze reali per sé separate. Che se invece ei si fosse data la cura di sottometterli all' analisi per ben conoscerne l' intima natura, avrebbe trovato ch' essi sono, piú che altro, relazioni dell' essenza divina al creato: nelle quali relazioni un termine, cioè Iddio, è semplicissimo; le creature sono molteplici, e di molteplici doti fornite. Onde niente vieta che le relazioni di Dio alle creature sieno molte, senza bisogno che questa moltiplicità cada in Dio. La scuola dei sofisti aperta da Kant in Germania ha formato dei pensatori, ciascuno dei quali vuol essere originale ed unico trovatore della vera teoria: il che non toglie che rubino là dove possono. Cosí si scorge, per poco che si consideri, come il pensiero motore della mente di Hegel nella formazione della sua logica fu questo principio di Spinoza: Omnis determinatio est negatio . Qui egli prese la sua negazione, quel portentoso mediatore che trasforma le cose, le une nelle altre; l' idea assoluta in tutti gli enti, e tutti gli enti nell' idea assoluta. Egli stesso parla di quella sentenza dello Spinoza dichiarandola d' infinita importanza (1). Dice che l' unica sostanza è la necessaria conseguenza di tale proposizione (2). Ma quanto non è equivoca e capricciosa una tale sentenza! Se ella si prende alla lettera, la parola determinatio e la parola negatio non significano che operazioni soggettive, le quali non appartengono all' oggetto. Onde se io determino, se nego qualche cosa in un ente, queste operazioni, che fo io, non alterano l' ente; e non pongono in lui nulla, o nulla realmente a lui tolgono: tutt' al più il mio concetto si rimane determinato soggettivamente. E quest' è appunto l' errore fondamentale di Hegel di fare del concetto e dell' essere una cosa sola, o per dir meglio, di supporlo. E pure questa identità del concetto e dell' essere, ch' ei pone a principio della logica (3), è il punto principale della questione che dovrebbe esser provato a rigore, acciocché tutto il castello, privo di solido fondamento, non vada a terra. Se dunque il determinare e il negare è un operare del soggetto determinante e negante, quest' operare non può produrre che un conoscere soggettivo. Rimane adunque l' altra questione, rimane a sapere, mediante la ragione integratrice, di quanto questo nostro conoscere soggettivo è aggiustato e conforme all' oggetto conosciuto, e di quanto non è, ma solo è una via imperfetta di conoscere, la cui imperfezione rimane nel soggetto e non passa all' oggetto. Questa questione non si può evitare né pure secondo i principŒ di Hegel, perché anche questo filosofo riconosce diverse maniere di pensare: il pensare comune, il dialettico e lo speculativo o razionale, al qual ultimo solo attribuisce il cogliere il vero. Rimane adunque ancora la questione: « Se ogni determinazione ed ogni negazione appartengono al pensare speculativo », e lo stesso Hegel dice di no; « se appartengono al pensare dialettico », e questo stesso non vorrebbe Hegel stesso sostenere, io mi credo; perocché con ciò verrebbe a disconoscere che anche il pensare comune nega e determina, cioè verrebbe a disconoscere un fatto evidente ed innegabile. Vi hanno dunque delle determinazioni e negazioni che finiscono nel soggetto; sono forme e modi limitati di concepire, e nulla affatto pongono di negativo nell' oggetto. Starà adunque a vedere quali sono. Ora Hegel stesso confessa che la negazione di negazione è un' affermazione (1), sebbene abbia, rispetto al soggetto che la fa, forma di negazione. E che cosí vuol dire essere un' affermazione? Vuol dire che nell' oggetto di cui si nega qualche negazione, non s' intende con ciò di negar cosa alcuna, ma di riconoscervi anzi il positivo. Ora tali appunto sono le negazioni che la mente umana fa intorno a Dio per formarsene il concetto. Queste non pongono nulla affatto di negativo in Dio, ma altro non fanno che negare il negativo, e però, vi riconoscono tutto il positivo senza elemento alcuno di negativo, che incontanente distruggerebbe il divino concetto. Dunque ella è falsa la sentenza di Spinoza che ogni determinazione è una negazione in senso oggettivo, com' egli la prende; tutt' al piú può essere vera in senso soggettivo. Sia pure l' operazione della mente umana negativa, cioè abbia pur la forma di negazione di negazioni: questa non è che la via che ella dee fare per la sua limitazione: non è l' oggetto, il termine a cui vuol pervenire: le negazioni rimangono anteriori ad esso termine. Erra dunque Hegel e si contraddice quando vuol provare che in Dio stesso v' è il niente: perocché egli con ciò trasporta nell' oggetto le operazioni del soggettivo pensare. Dalla maniera di questo pensare non si può ridurre quella dell' oggetto: dunque, se nel pensare vi è la forma negativa mescolata colla forma positiva, non ne viene per questo la conseguenza hegeliana che [...OMISSIS...] ; non ne viene « che il risultato di questo pensare sia identico al suo principio », il qual principio, secondo Hegel, è l' essere uguale al niente, il diventare (2); non ne viene che l' unità dell' essere e del niente sia la definizione dell' assoluto (3): dunque il diventare è un concetto imperfetto, appartenente al pensar comune , e non piú al pensare speculativo . L' Hegel dunque si propone di trovare il pensare speculativo razionale ultimo perfetto, e poi scambia questo pensare col comune imperfetto, e col dialettico che non è altro che la via a quello, sulla qual via rimangono le negazioni senza fondersi nell' ultimo oggetto. Dunque l' oggetto non essendo identico ad un tale pensare, egli è da un tale pensare indipendente. L' oggetto è sempre identico; il pensare muta e rimuta, e si perfeziona in ragione che accoglie piú in sé dell' oggetto non mutabile (1). Dunque l' hegelianismo è insussistente: reca ne' suoi visceri i germi della sua assoluta confutazione e distruzione. La via dunque tenuta dall' Hegel non conduce a rinvenire la soluzione del problema dialettico che ci proponemmo. Cercavamo se dal pensiero dipende la pluralità degli enti e delle entità. Abbiamo già veduto, che non è il pensiero, e molto meno il movimento del pensiero, quello che costituisce la trinità delle forme dell' essere. Ove si voglia assegnare al pensiero il suo posto in dette tre forme, conviene collocarlo nella categoria dell' essere reale, perocché il pensiero è un atto del soggetto, e il soggetto è reale, come pur sono reali i suoi atti. Vero è che il pensiero intuente quand' è diretto, risiede cosí fattamente nel suo oggetto che non fa ritorno su di sé: onde non conosce se stesso, ma l' oggetto, l' essere. Questo fatto ingannò Giorgio Hegel; il quale ne indusse che in tal atto il pensiero è abolito, e non rimane piú che l' essere . Ma l' unica conseguenza che si può raccogliere da quel fatto si è che l' essere è il solo cognito , il pensiero rimane incognito . Ma ne viene forse ch' egli non sia piú? Questo ne verrebbe qualora fosse vero il supposto « « ciò che non è cognito non è » ». Tale è in fatto, a ben considerare, il continuo supposto hegeliano: ma quel supposto che cosa è se non ciò appunto che si deve provare? Di piú, quel supposto, si può dimostrare del tutto falso. Infatti dopo l' atto diretto del pensiero affissato nell' essere, sopravviene nell' uomo l' atto riflesso per mezzo del quale si conosce lo stesso pensiero. Nella riflessione sul pensiero diretto quali sono gli oggetti? Questi sono due: cioè il pensiero diretto e l' essere suo oggetto. Il pensiero è azione : e l' oggetto non è azione, ma puramente essere . Ora, se la riflessione rende cognito il pensiero che prima era incognito, dunque il pensiero esisteva prima, perché non si può rendere cognito ciò che non esiste. Dunque poteva esistere un pensiero incognito di fronte all' essere cognito . Dunque è falso il supposto che ciò che è incognito non ancora esista. Si noti che questa dimostrazione s' appoggia al principio già stabilito che in ogni sistema conviene prima di tutto credere al pensiero. Ora la riflessione è anch' ella pensiero; pensiero della stessa natura del pensiero diretto, non variando dal pensiero diretto se non per la diversità de' suoi oggetti. Se non si volesse adunque prestar fede al pensiero riflesso, converrebbe egualmente negar fede al pensiero diretto; e quindi non si crederebbe piú al pensiero: non sarebbe piú possibile la filosofia, né il ragionamento. La quale considerazione abbatte dalle fondamenta il sistema dell' identità assoluta, e ogni altro de' falsi7oggettivisti. I quali attribuiscono alla riflessione il distinguere le cose e il moltiplicarle. Onde fanno che la riflessione sia quasi la creatrice della pluralità delle cose. Ma essi confondono l' ordine degli enti cogniti coll' ordine semplicemente degli enti. Poiché è bensí vero che la pluralità degli enti cogniti nasce dalla riflessione, ma non è vero che la pluralità degli enti, per sé, sia produzione del pensiero riflesso. Perocché, o si crede al pensiero riflesso, o no. Se non gli si crede, si dee negare fede ad ogni pensiero, ed allora è resa impossibile la scienza; se gli si crede, egli ci attesta due cose innegabili: la prima che non produce, ma solo conosce; la seconda che conoscendo non altera l' oggetto, ma il lascia tale quale è in se stesso (1). L' una e l' altra delle quali cose suppone che la pluralità degli enti preceda la riflessione, sia indipendente e sia una condizione necessaria di questa. La stessa cosa si rileva qualora si considera, che, se la riflessione producesse la pluralità degli enti, questi dovrebbero prima esser oggetto del pensiero diretto sotto la forma di unità. Ma il fatto ci dà il contrario; poiché nell' oggetto del pensiero diretto vi ha l' essere come unico cognito, senza il pensiero che rimane incognito. Dunque, la riflessione, di cui parliamo, non divide l' oggetto del pensiero diretto in piú; ma lasciandolo stare qual' è, vi aggiunge un oggetto nuovo, cioè il pensiero diretto oggettivato. La riflessione dunque è un atto della stessa natura del pensiero diretto: colla sola differenza che il pensiero diretto ha un oggetto solo; e la riflessione ne ha due legati insieme: cioè lo stesso oggetto, piú il pensiero che lo contempla. Se dunque il pensiero diretto non produce il suo oggetto, neppure la riflessione può produrre i suoi due oggetti e la loro relazione, ma questa pluralità d' oggetti dee antecedere la riflessione. Un' altra prova dello stesso vero si trae dalla dottrina intorno a Dio. Egli è fuori di controversia, che in Dio non v' ha riflessione, ma solo pensiero diretto. Se dunque fosse vero, che la riflessione cagionasse la pluralità degli enti, ne verrebbe l' assurdo, che Iddio non conoscerebbe la loro pluralità. Ma non potrebb' essere che l' ente stesso fosse in fine non altro che il pensiero? E da prima concediamo, che, essendo l' essere, pigliato nel suo puro concetto, indeterminato, non si porge immediatamente come assurda la sentenza che l' essere abbia per sua determinazione essenziale la natura di pensiero. L' essere è un atto: il primo atto: non par dunque assurdo, che, cercandosi che cosa sia determinatamente questo primo atto, si trovi che egli è pensiero, giacché il pensiero è anch' egli un atto. In tal caso la distinzione tra l' essere e il pensiero sarebbe unicamente mentale. Ma l' analisi del pensiero dimostra che la cosa non va cosí; e a quest' analisi si deve credere, poiché ella non è che la riflessione, che distingue le differenze e non le crea. E veramente noi già vedemmo, che l' essenza stessa del pensiero importa una dualità: cioè un' azione e un oggetto ; e che l' azione non è l' oggetto, né l' oggetto come oggetto è l' azione: il pensiero è azione; l' oggetto, non essendo azione, conseguentemente non è pensiero. Ma se il pensiero ed il suo oggetto, l' ente, sono distinti hanno fra loro nondimeno una essenziale relazione, cosí fattamente che l' uno non può star senza l' altro. I filosofi della Germania sognarono un pensiero senza oggetto (1), ma un tal concetto è del tutto assurdo: nella dualità del pensiero sta la sua differenza dal sentimento, il quale è uno. Del pari, sognarono l' oggetto senza pensiero, l' essere puro di Hegel. Ma l' essere non si può concepire senza che sia oggetto. Che se la prima condizione dell' essere è quest' appunto di potersi concepire, che ne costituisce la possibilità logica e metafisica; dunque egli per sua essenza è oggetto. E se per sua essenza è oggetto, dunque s' appoggia al pensiero, cioè al principio che il concepisce. Tenendo innanzi agli occhi questa verità, ne abbiamo una chiara dimostrazione della limitazione del pensare umano. Poiché vedemmo che il pensare umano è incognito a sé medesimo, e non si rende cognito se non per via di un altro atto di pensiero riflesso. Questo pensiero riflesso è ancora incognito a se stesso, e ci vuole un' altra riflessione acciocché si possa dall' uomo conoscere. E cosí è da dirsi di tutti gli atti riflessi, l' ultimo de' quali si resta perpetuamente incognito, perché non si oggettiva. Ma pensiero e realità sono tutti gli atti del pensiero appartenenti al soggetto pensante, che è l' ente reale. Quest' ente reale è; ma noi vedemmo che niente può essere se non è oggetto, perché la qualità di oggetto è essenziale all' essere. Il pensiero umano adunque non abbraccia tutto l' essere, ma una porzione si rimane fuori di lui: dunque il pensiero umano è limitato e inadeguato all' essere reale in tutta la sua estensione. Il che novamente abbatte que' sistemi che mettono l' umano pensiero in capo a tutto: lo vogliono infinito, lo divinizzano, e finiscono nell' ignominioso orgoglio dell' antropolatria. E questo stesso ragionamento ci condusse a conoscere l' esistenza di una mente suprema. Poiché ce ne dà in mano questo argomento: 1) Ogni ente reale deve essere conosciuto: poiché tutto ciò che è, è possibile; e tutto ciò che è possibile, è tale, perché è concepito da una mente: non può esser dunque alcuna cosa reale se non a condizione che sia oggetto d' una mente. 2) Ma molte cose reali si dànno, che non sono conosciute dalla mente umana. 3) Dunque vi ha una mente superiore, che conosce tutte le cose reali, tutta affatto la realità, compreso sé medesima; che la conosce senza riflessione, giacché ogni riflessione esclude se stessa dall' oggetto cognito; che la conosce ab aeterno , poiché se vi fosse stato un tempo, in cui la realità non fosse stata conosciuta, ella sarebbe stata impossibile, e non si sarebbe potuta conoscere giammai; che conosce tutta la realità anche futura, e perciò tutta la realità possibile, la quale è infinita. Ora, questa mente eterna ed infinita dicesi Dio. Or, come abbiam veduto che il pensiero sintesizza col suo oggetto, cosí viceversa l' oggetto sintesizza col pensiero. Questa relazione essenziale è già inchiusa nel significato della parola oggetto . Ma qualunque cosa s' esprima con un nome somministrato da un linguaggio qualunque, sempre si esprime la cosa sotto forma di un oggetto. Quindi procede che il pensiero e il suo oggetto sono due entità distintissime, ma però tali che l' una è sempre in presenza dell' altra, sicché né si dà pensiero senza oggetto, né oggetto senza pensiero per la relazione essenziale che li congiunge. Ma che cosa è l' oggetto? - Noi distinguiamo l' oggetto per sé dall' oggettivato, che è l' oggetto per partecipazione. Quand' io sto osservando una colonna di porfido, quali atti fa la mia mente? Quali notizie ne trae? La mia mente fa due cose: 1) ha un oggetto; 2) e attribuisce a quest' oggetto una potenza d' azione attuale sui miei sensi e sopra i corpi che lo accostano, la quale esterna azione tutta presa insieme dicesi reale sussistenza . La reale sussistenza adunque si riferisce al sentimento: l' oggetto proprio della mente non è che la colonna con tutti i suoi accidenti. Questa colonna co' suoi accidenti, se si divide dalla sussistenza, cioè dalla reale attività sul sentimento, rimane ancora, ma rimane non altro che una colonna ideale, l' essenza della colonna presente alla mente. Quest' essenza è per sé oggetto. Alla colonna, dunque, in quant' è per sé oggetto, non appartiene la sussistenza: la sussistenza adunque della colonna non è per sé oggetto. E tuttavia anche la sussistenza può diventare oggetto per partecipazione: il che si dice essere oggettivata. La sussistenza si oggettiva congiungendosi all' oggetto, con una maniera speciale, che qui descriveremo. Il principio umano è razionale; ma al principio razionale costituente l' uomo è naturalmente congiunta un' attività sensitiva, che da se stessa non è umana, ma dicesi umana in quanto è unita e sottostà al principio razionale. Questo sentimento, come pure ogni altro sentimento, presta materia alla cognizione umana. Ma il sentimento non si fa materia alla cognizione umana, se non quando il principio razionale con un atto suo proprio lo percepisce. Tale atto è duplice: e noi gli abbiamo imposto i nomi di universalizzazione , che è una funzione speciale dell' intuizione, e di affermazione . La materia del conoscere data dal sentimento viene oggettivata coll' universalizzazione, e non coll' affermazione. Infatti, che cosa è l' oggetto? Egli è un ente o un' entità considerata dall' intendimento nella sua pura essenza. Dunque, quando considero la colonna di porfido, ho oggettivato colla mente tutto ciò che mi ha somministrato il senso. Ho considerato quella pietra nella sua possibilità. Formato una volta nel mio intelletto un tale pensiero, l' azione della colonna su' miei sensi può cessare del tutto, la stessa colonna può essere annullata. L' oggetto del mio pensiero rimane tuttavia. L' oggetto del mio pensiero è bensí la colonna sensibile, ma solo nella sua possibilità, non nella sua realità: la realità dunque, l' azione attuale e reale, è cosa straniera all' oggetto del pensiero, giace fuori di quest' oggetto; ma la possibilità di tutte queste cose entra nell' oggetto. Ma qualora la colonna sensibile mi cagioni attualmente le sensazioni, allora non solo ne conosco l' essenza, ma ben anco dico: « quest' essenza di colonna, quest' oggetto possibile, non è soltanto possibile, ma è attualmente sussistente ed operante in me ». Con dir questo non ho mutata l' essenza; ma di quest' oggetto ho predicato l' attualità. Si dirà: ma se l' oggetto è divenuto reale, se acquistò l' attualità, non s' è egli aumentato con ciò stesso? - No; qui è il punto piú difficile ad asseguirsi. Quand' io pensavo la colonna nella sua pura essenza, io pensavo anche la sua attualità e realità, ma non la sentivo: ciò che mancava non era che il sentimento, e il solo sentimento è per se stesso fuori della sfera della cognizione, è un eterogeneo: tutto ciò dunque che è per sé conoscibile nella colonna, io lo possedevo nell' oggetto. L' attualità e la realità è conosciuta appieno dalla mente che ne contempla la natura. Dunque l' affermazione di questo sentimento non aggiunge nulla all' oggetto della mente, neppure la cognizione dell' attualità e della realità; ma aggiunge qualche cosa al soggetto uomo, il quale non è solamente mente, ma mente unita al sentimento (1). L' oggetto dunque essenziale è l' essere ideale, o sia puro da ogni limitazione, o sia limitato dalla relazione sua al reale limitato che nel modo detto si oggettiva. Un recente scrittore, disconoscendo questa verità la travolge siffattamente, che, il reale egli afferma essere il solo oggetto e dichiara soggettivo il puro ideale: cioè a dire, quello che è oggettivo lo fa soggettivo, e viceversa. Primieramente egli tolse dai sensisti l' erroneo pregiudizio che l' essere ideale si faccia per via d' astrazione (1). Di poi non s' accorse che anzi i veri astratti sono per sé oggetti, e che il soggetto intuente non è autore di essi, ma unicamente della loro limitazione e determinazione: onde questa si può dir soggettiva, ma non l' astratto in se stesso (2). Su questi due errori è fondato il paralogismo su cui cammina tutta l' opera sua Degli errori , ecc.; la quale tende a provare che l' essere ideale è cosa soggettiva, accagionandoci poi di panteismo e d' altri assurdi, perché diamo a ciò che è soggettivo attributi divini. Il quale argomento a troppo maggior ragione si rivolge contro di lui, poiché, divinizzando egli il reale, che è veramente soggettivo, e facendo che l' ideale vero oggetto sia opera della mente umana, confonde il divino coll' umano e l' umano col divino (1). Convien dunque conchiudere che l' essere ideale non è produzione della mente astraente, non è opera della dialettica, ma è per sé distinto dall' essere reale. Quelli che negarono non solo l' astratto, ma l' universale, cioè l' ideale, come cosa per sé esistente, non sapendo concepire altro che il reale a cui tutto vogliono ridurre: sogliono usare del sofisma detto da noi del Creatore e della creatura . Questo sofisma consisteva in questo dilemma: « « tutto ciò che è, è Creatore o creatura » ». Onde deducevano che chi pone l' ideale essere qualche cosa distinto per se stesso dal reale lo dovevano dichiarar Dio. Ma quel sofisma antico si scioglie con una distinzione pure antica, da noi piú volte adoperata, fra Dio e le cose divine : poiché le idee sono cose divine, appartenenze di Dio e riducibili in Dio: però non viene che sieno Dio nel loro stato proprio d' idee. I platonici, lungi dal voler negare l' ideale, lo innalzarono ad essere Dio stesso, onde venne prima quel razionalismo che, cangiando Iddio in un' idea, riduce tutta la comunicazione coll' Essere supremo a freddissime speculazioni ideali. Quindi la dialettica è divenuta per tali filosofi teologia, come divenne recentemente Ontologia allo Hegel e seguaci di lui. Ma egli era impossibile che questi filosofi, i quali dall' aver veduto che nell' idea sta qualche cosa di divino, erano corsi a conchiudere che l' ideale stesso è Dio, avessero cosí ferma e costante la mente in questo primo loro concetto. Ostava a ciò primieramente il non essersi ancora marcata la distinzione fra l' ideale e il reale. Dipoi il comun senso concepiva Iddio come un realissimo. Laonde, senza che pur se ne accorgessero, nel loro Dio ideale introdussero tutte le proprietà del reale; e le idee furono tosto cangiate in anime, eroi, deità, supremi Iddii. Ora, posciaché il commercio dell' uomo colle idee è frequentissimo e naturale, ne doveva venire, e ne venne la conseguenza che si supponessero frequenti e naturali comunicazioni con Dio e cogli Dei minori: onde tutte le superstizioni degli ultimi platonici, la Teurgía e la magía. Ma per tornare a coloro che tolgono via l' essere ideale per sé essente dichiarandolo produzione dell' umano soggetto, essi si partono in due sètte. L' una e l' altra vuole che sia l' astrazione quella che lo produce: ma i primi danno per oggetto reale su cui opera l' astrazione, gli esseri finiti; quelli dell' altra sètta, che procede dall' Hegel, vogliono che l' astrazione si eserciti sull' essere reale infinito, che a detta di Vincenzo Gioberti è termine primitivo e naturale dell' umano intuito. I primi sono i sensisti e i nominali; i secondi denominarono il loro sistema ontoteismo. Gli uni e gli altri convengono finalmente in questo: che il solo reale per sé esiste, e l' ideale non è che un' astrazione, un essere mentale che dal reale non è per sé distinto, ma solo per opera della mente. Noi riconosciamo bensí una relazione essenziale dell' ideale colla mente; ma neghiamo che l' ideale, in quant' è oggetto, sia un prodotto della mente: anzi la mente umana da lui dipende e dalla sua presenza è creata. La mente poi divina è compresente al suo oggetto né a lui inferiore. E veramente se l' ideale o universale è puramente soggettiva produzione dell' umana mente, non è piú in lui che possiamo trovare un dettame autorevole per la nostra condotta morale: egli non può imporre obbligazione piú di quel che l' uomo possa imporla a se stesso (1). Quindi la legge dovrà ridursi al positivo volere di un essere reale, senza che le azioni abbiano in se stesse alcuna differenza che le rendano per sé buone o per sé cattive. Questa conseguenza fu tirata dal celebre discepolo di Scoto, Giovanni Occamo. Occamo fu seguitato da Pietro Alliaco, da Andrea di Castelnovo e da altri. L' eredità di questi passò in Gregorio da Rimini e in Gabriello Biel (2), e da questi in Lutero, divenuta cosí per qualche secolo proprietà dei Protestanti (3). Occamo e tutti i suoi successori furono condannati dalla Chiesa cattolica. La Chiesa cattolica aveva troppa ragione di condannare una dottrina che toglieva l' intrinseca distinzione fra le azioni buone e cattive. Perocché, se non vi ha differenza morale fra le azioni, ne procede che la volontà, la quale prescrive le une e condanna le altre, operi senza ragione, di puro arbitrio. Laonde si verrebbe cosí a spogliare la volontà dello stesso supremo Legislatore di ogni bontà e di ogni lume e per conseguente di ogni autorità. Le stesse leggi positive conviene che abbiano in qualche modo un fine buono, altrimenti ne cessa la possibilità. Dee considerarsi attentamente che fra la volontà del legislatore e ciò che essa comanda o proibisce passa quello stesso sintesismo che trovasi tra l' intelletto e il suo oggetto l' ente: poiché la volontà è la stessa intelligenza in quant' è attiva; e il bene, oggetto necessario di lei, è lo stesso ente termine di tale attività. Ora, se l' universale e l' ideale non è luce autorevole che dimostri il buono ed il reo, non vi ha piú ragione di ubbidire ad una volontà legislatrice. Ma se l' ideale non è un vero oggetto, ma è cosa soggettiva ed umana, cessa ogni suo valore di mostrare e di provare checchessia; quindi è tolta via l' autorità stessa della volontà divina. Doveva dunque la Chiesa cattolica condannare quel sistema dei Nominali. Ma l' errore di quelli che non riconoscono l' ente sotto altra forma per sé che quella della realità, racchiude in seno molt' altre conseguenze, sovversive de' principali dogmi del cristianesimo; onde la Chiesa fu mossa a ripetere piú volte la condanna di quel sistema (1). E veramente, se l' ente in se stesso non è che reale, come potranno distinguersi le tre divine persone senza cangiarle in tre Iddii? Il nominalista Roscelino si appigliò al Triteismo, argomentando appunto cosí: Il solo essere reale è per sé, e il reale è sempre singolare e individuale. I singolari individui niente hanno di comune, poiché il comune è universale, e quindi ideale, che non è per sé: dunque le persone divine sono tre individui uguali, bensí, ma non aventi in comune la stessa identica natura. Un altro errore del Roscelino, conseguente al primo, si era: che col Figlio si fossero incarnate le altre due persone (2). Laonde sant' Anselmo chiamò i nominali dialetticamente eretici (3). E qui vuolsi diligentemente notare, che quelli che non riconoscono l' ideale come per sé distinto dal reale, distruggono il dogma della cristiana trinità: non già perché la divina natura sia qualche cosa d' ideale; ma piuttosto perché, distrutto l' ideale, non sono piú concepibili relazioni di sorta alcuna, né accidentali, né essenziali, né personali. Che anzi lo stesso Roscelino non fu abbastanza coerente all' error suo quando diede alle persone una uguale volontà e potenza (1). Ci son di quelli, che pretendono non avervi distinzione sostanziale fra il nominalismo e il concettualismo (2). Io credo che ci sia: credo che i nominali non riflettessero nemmanco al bisogno de' concetti, ma non s' avvisassero che i soli nomi potessero surrogare gli universali, onde sant' Anselmo li appella [...OMISSIS...] ; i concettualisti all' incontro s' accorgessero del bisogno de' concetti, ma li avessero come produzioni soggettive della mente. Per questo cadevano negli stessi errori teologici de' nominali, ovvero in errori simili, poiché, se l' essere ideale è un prodotto soggettivo, egli non è piú per sé ente distinto dal reale; il che equivale a negare la sua originale dignità, la sua divina natura. Se dunque la filosofia de' giorni nostri non ispezza il filo che la raggiunse a quella de' nostri maggiori; se vogliamo da' naufragŒ de' precedenti navigatori, dotati diligentemente in sulla carta, conservar memoria de' banchi in cui arenarono, e cosí render sicura la nostra filosofica navigazione: da quale epoca della storia filosofica potremo cavare migliori indirizzi, che dalle disputazioni, cioè, de' nominali, de' concettualisti e de' realisti, soprattutto poi dalle venerabili sentenze pronunciate in mezzo a quelle dispute dalla Chiesa? Non sarebbe egli tempo di sbandire oggimai dalla filosofia quel principio che produsse tante eresie? Or tuttavia, a che si riduce la filosofia de' moderni filosofi? Ella ricade perpetuamente in quell' errore. Per non dir che de' nostri, onde è mai che il Galluppi, il Mamiani, il Romagnosi, il Testa, il Gioberti, e tant' altri, deducono l' essere ideale, se non dal reale che dichiarano anteriore e per sé ente dando a lui solo l' oggettività, che pure al solo ideale veramente appartiene? Tutti questi filosofi soggettivisti di varie forme, non riconoscendo che un ente originale, il reale, debbono riuscire, qualor sieno conseguenti a se stessi, al sistema degli unitarŒ o a quello dei triteisti, e a tutti gli altri pe' quali fu condannato dalla Chiesa il nominalismo ed il concettualismo. Rimane dunque provato: 1) Che parlando dell' essere senza piú, questo è identico sotto due forme, cioè sotto la forma ideale e sotto la forma reale. La prima delle quali dà all' uomo l' universalità, la seconda la singolarità. Questa distinzione dell' essere è primitiva: forma parte dell' ordine intrinseco dell' essere stesso, e senz' essa non sarebbe l' essere, né la mente, né il pensiero. Onde è cosa falsissima farla una produzione della dialettica. 2) Che queste due forme o modi dell' essere sintesizzano tuttavia insieme per modo che l' una racchiude l' altra, l' una non può stare senza l' altra. Fermato questo, giova ora che noi vediamo che cosa l' ideale, che è per sé oggetto, in se stesso contenga. Noi abbiamo veduto che in sé contiene l' essenza dell' essere precisa dalle sue determinazioni , la quale fu anche per noi detta essere iniziale . Che contiene adunque la pura essenza dell' essere, che si rivela al soggetto umano? Ella contiene quanto segue: 1) Il primo elemento di ogni cognizione . - Perocché in qualunque cognizione il primo elemento è l' esistenza della cosa che si conosce, o della quale si conosce qualche cosa. Ma qui già è da porsi in guardia di non prendere equivoco: perocché altro è il conoscere il primo elemento di ogni cognizione, il che non è altro se non sapere che cosa sia esistenza, e altro è sapere che una cosa realmente esista, il che si fa affermandola. Nell' essere adunque puro e indeterminato, di cui io ho notizia per natura, posseggo benissimo l' idea dell' esistenza, della realità, della sussistenza; ma non sono mica messo in comunicazione colla realità e sussistenza degli enti. Onde, quando la reale sussistenza degli enti entra meco in comunicazione, allora io riconosco in essi e affermo quella sussistenza di cui io m' avevo l' idea. Il sapere in generale che cosa è sussistere, ossia l' averne l' idea, è il primo elemento di ogni cognizione; è ciò da cui la cognizione incomincia. E poiché, se manca il primo atto mancano tutti gli altri, perciò questa notizia è la forma dei conoscimenti, il lume dell' intelletto, spento il quale non restano che tenebre. 2) La ragione dell' ordine intrinseco dell' essere . - Questa è verità di altissima conseguenza. Ciò che noi vogliam dire con essa si è, che allorquando si ponga che l' essere, quasi aprendo il suo seno allo sguardo dell' uomo manifestasse tutto sé, sicché l' uomo intendesse a pieno come egli è organato, di quale ordine maraviglioso abbellito, scevro da ogni disordine e causalità: l' uomo vedrebbe manifesta la necessità di ogni parte di quell' ordine ed organismo dell' essere; e tale necessità consisterebbe in questo che egli non sarebbe piú essere, se non fosse cosí ordinato, gli mancherebbe l' essenza di essere se una sola porzione di quell' ordine gli mancasse. Il che è quanto dire, che la pura essenza dell' essere (l' essere ideale indeterminato) è la ragione suprema dell' ordine intrinseco all' essere, la ragione del modo o de' modi in cui è. Ma qui si osservi attentamente che altro è la ragione dell' ordine, ed altro è l' ordine dell' essere. Questo è moltiplice, non essendovi ordine senza pluralità; quella è una e semplicissima. Di che viene la conseguenza che l' essenza dell' essere può conoscersi senza ordine dell' essere, perché quella è diversa da questo; ma solo allora quando sta presente all' intelligenza nel tempo stesso l' essenza dell' essere e l' essere ordinato e compiuto, solo allora l' essenza dell' essere acquista dinanzi all' intelligenza stessa la qualità di ragione del detto ordine, qualità che non si poteva prima conoscere, perché racchiude una relazione coll' ordine dell' essere per anco ignoto. Indi è che si può dire, che, quantunque l' essere ideale non faccia conoscere da sé solo qual sia l' ordine interiore dell' essere, tuttavia lo contenga virtualmente o implicitamente appunto perché egli n' è l' altissima ragione; e però egli diventa il lume a conoscere quest' ordine, tostoché quest' ordine sia comunicato all' uomo nel sentimento. 3) La ragione delle determinazioni dell' Essere . - La parola determinazioni significa i termini, i finimenti e completamenti dell' essere, giacché in ciascun essere la mente concepisce un principio ed un fine. Che se la mente concepisce l' ente solo nel suo principio, senza il suo fine o termine, si chiama essere indeterminato. Ora i termini possibili e finimenti dell' essere sono diversissimi, e variatissimi, e possono essere di condizione finita o infinita ed illimitata. Quindi la parola determinazioni è assai diversa da quella di limitazioni , sicché di Dio, a ragion d' esempio, si può dire che è un essere determinato , benché non si possa dire che sia limitato. Diciamo adunque che l' essere ideale, ossia l' essenza pura dell' essere, contiene la ragione di tutte le determinazioni possibili dell' essere o finite o infinite. Non diciamo già ch' ella presenti la ragione piuttosto di queste che di quelle determinazioni possibili, ma bensí di tutto il complesso di tali determinazioni. Non già del perché una determinazione sia realizzata e l' altra no, ma la ragione del perché una determinazione qualunque sia possibile a realizzarsi. Tuttavia tale prerogativa ed attitudine non si manifesta se non al caso di usarne; e il caso si dà solo allora che ci sono dati degli esseri reali, e con essi insieme le loro determinazioni. E qui di passaggio giova distinguere tra gli esseri reali finiti, e l' Essere reale infinito. Poiché l' Essere reale infinito, posto che ci sia dato da percepire, non è piú un essere nuovo, ma solo il compimento e la determinazione dell' essenza dell' Essere, ma gli esseri finiti nello stesso tempo sono esseri nuovi in quanto alla loro realità, e sono parziali determinazioni dell' essenza dell' essere in quanto alla propria essenza. 4) La ragione dell' Essere assoluto . - Da ciò che dicevamo risulta questo vero, che se ci fosse dato a concepire l' Essere assoluto, noi troveremmo la ragione di lui nell' essenza dell' Essere. Dicendo « la ragion di lui »non dico solo la ragione dell' ordine, o delle determinazioni dell' Essere assoluto (il che già indicammo), ma della sua realità e sussistenza; perocché non sarebbe assoluto se non fosse reale e sussistente; di maniera che questo è solo quell' essere, nell' essenza del quale entra la realità. Che l' essenza dell' essere sia ragion dell' ordine e delle determinazioni, questo non si può sapere se non allora che si contrae questo ordine e queste determinazioni. All' incontro che l' essere ideale sia ragione di una realità infinita, questo si può sapere, purché si abbia conosciuta qualche realità, e se n' abbia tratto la notizia generale della realità. E ciò perché essa stessa l' idea dell' essere mostra d' essere un cotal tema non compiuto ed intero. E nel vero, supponendo che già si sappia che cosa sia realità, si sa tantosto che questo è il termine dell' idea. Avendovi adunque un essere ideale, illimitato, infinito, e necessario, egli è gioco forza che ci sia pure una realità illimitata, infinita, necessaria che costituisca il suo proprio termine. Argomentando dunque dall' essere ideale, la mente perviene a conoscere l' esistenza divina. Quindi dicevamo che l' essere ideale si porge a noi come ragione dell' Essere assoluto; ossia dà a noi la ragione, perché la mente nostra è obbligata ad ammetterne l' esistenza. Né ciò conduce già all' assurdo, che Iddio abbia una ragione fuori di sé; giacché l' argomento, che noi facemmo, importa anzi che Iddio ha la ragione di sé in se stesso; la qual ragione è a noi comunicata, precisa dall' essenza divina, ma tale che ben si scorge esser essa un' appartenenza di Dio medesimo. - Ma Iddio ha egli una ragione? - Non ripugna ammetterla, purché si ponga in lui stesso, e non fuori di lui. La quale dimostrazione dell' esistenza di Dio a priori non può essere direttamente impugnata; ma dà occasione a considerare certe verità che, a primo aspetto sembrano non certo assurde, ma misteriose ed inesplicabili le quali possono benissimo proporsi in forma di obbiezione. Eccone una: « Voi dite che l' essenza dell' essere ha d' avere i suoi termini: e lei unita co' suoi termini, e compiuta, dite esser appunto l' Essere assoluto. Ma voi chiamate termini di quell' essenza anche gli enti contingenti, onde pare che facciate di questi una cotal porzione di Dio ». La verità difficile, esclusa la quale si presenta una tale obbiezione, si è il distinguere i termini dell' essenza dell' essere che compiono quest' essenza e le sono necessarŒ acciocché sia, dai termini che non le sono necessarŒ né la compiono. Onde gli enti contingenti si dicono termini dell' essere ideale, o essenze pure dell' essere, in tutt' altro significato da quello nel quale si dicono termini di lei i termini suoi necessarŒ. A conclusione di tutto ciò noi riassumeremo cosí: 1) E` a noi nota per natura l' essenza pura dell' essere, e in questo non può cadere inganno alcuno, perché l' essenza dell' essere è la verità stessa (1). 2) L' essenza pura dell' essere che è a noi data è la pura notizia di che cosa sia esistenza , onde questa notizia si chiama anco idea dell' esistenza . 3) L' essenza pura dell' essere è la nozione della pura esistenza, perché manca de' suoi termini necessarŒ e completivi (come pure d' ogni altro); e però dicesi anco essere iniziale, perché è ciò onde incomincia ogni ente concepibile acciocché sia ente: quindi anco il primo elemento d' ogni cognizione. 4) A malgrado che l' essere da noi intuíto non sia che iniziale, egli è la ragione di tutti gli enti; e però al confronto con essi, egli ci fa conoscere perché sieno cosí, e non altramente. 5) La notizia dell' essere iniziale ci fa conoscere altresí la necessità che esista un Essere assoluto, cioè la necessità che l' essere iniziale sia in se stesso compiuto; e però contiene un principio che ci conduce alla cognizione dell' esistenza di Dio; non però della sua natura. Se dunque l' essere ideale è essente per sé; coesistente e non posteriore al reale; non prodotto da alcuna mente, ma termine di ogni mente: e se nell' ideale si contiene la ragione suprema e la possibilità di tutti gli enti reali, del loro ordine intrinseco e delle distinzioni che si possono fare in essi: dunque la dialettica non è la causa né la ragion suprema della pluralità che dicevamo; ma essa anzi deve ricorrere all' essere ideale per trovarci dentro questa ragione, onde la pluralità degli enti e delle distinzioni originariamente procede. Vero è che la ragione della pluralità non è la pluralità stessa, benché virtualmente la contenga. Questa pluralità è propia dell' essere reale, e dalla natura di questo si deve desumere: quando poi la pluralità esiste realmente, allora si vede attuata nell' ideale; e in esso se ne contempla la ragione altresí, che prima ci stava occulta in modo virtuale. Nell' essere ideale trovano un corrispondente le stesse finzioni, gli stessi errori dello spirito umano; né perciò essi sono dall' ideale giustificati, perocché li presenta per quel che sono, cioè per finzioni ed errori. La cognizione umana è limitata, è imperfetta: ne vien quindi ch' ella sia necessariamente fallace? V' ebbero alcuni filosofi i quali credettero poter fare questa illazione. Perocché nell' ente, se questo non si presenta all' intelligenza tal quale è in se stesso, l' intelligenza vedrebbe l' ente come non è, e quindi vedrebbe il falso. Ma l' ente in se stesso è illimitato. Se dunque la mente non vede tutto l' ente, e però è fallace e priva di verità la sua cognizione. Al quale argomento rispondiamo accordando che la verità esige una certa infinità. Ma questa condizione si avvera appunto mediante l' intuizione dell' essere ideale. Perocché in questo vi ha tutta l' essenza dell' essere, la ragione come vedemmo di tutto l' ordine dell' essere: lo stesso essere reale e morale vi si comprende, benché solo virtualmente. Di che avviene che la cognizione dell' ente è sempre vera purché si riferisca a tutto l' ente, quantunque non sia cosí intensa e vivace e cosí esplicata come potrebbe essere. A quella guisa appunto che una formula algebrica può contenere la vera soluzione d' un problema benché non sia tratta fuori in numeri. Il qual vero è importantissimo all' argomento di questo libro. Nel quale noi ci siamo proposti di parlare delle diverse apparizioni dell' essere nella mente umana, e di cercare: « quali appartengono alla dialettica, quali sono superiori ed anteriori ad essa: se è vero che la dialettica o il movimento del pensiero sia quello che spezza l' ente, uno per sé; se le apparizioni dell' ente ci ingannino necessariamente ». Ora tutte le apparizioni dell' essere si riducono a tre generi, che costituiscono altrettanti modi di conoscere proprŒ dell' uomo: 1) Quello dell' essere ideale , che la natura dà all' uomo, onde quel modo di conoscere che si chiama intuizione . 2) Quello dell' essere reale , che in misura limitata si dà alla natura dell' uomo, onde il modo di conoscere che si chiama percezione . 3) Quello che ha luogo in virtú dell' attività stessa dell' anima, la quale si esercita su quell' ideale e reale che le è dato da natura, onde il modo di conoscere che si chiama riflessione . L' intuizione è illimitata. La percezione è limitata dalla natura. La riflessione viene dall' attività dell' anima e non solo è limitata, come è limitata questa attività, ma in quanto ella contiene il modo di conoscere per via di predicazione soggiace al vero ed al falso; poiché il vero ed il falso sta sempre in questa maniera di conoscere. La prima di queste tre maniere di conoscere, essendo illimitata, presenta allo spirito la stessa verità, e quindi la norma colla quale vengono perfezionate e rettificate le altre due. Il conoscere per via di percezione, quando si riscontra a quella norma, si ravvisa limitato: e questo basta per impedire che egli non inganni l' uomo: giacché il sapere che è limitato, è sapere il vero e non il falso, il qual si avrebbe soltanto qualora si giudicasse illimitato quello che è limitato. Il conoscere per via di riflessione talora è solamente limitato; talora è un conoscere falso, nel qual caso non è, a dir vero, piú conoscere, ma solo credere di conoscere. In quanto al conoscere riflesso egli è limitato riscontrato alla norma, cioè alla verità, che si conosce nel primo modo; viene perfezionato in questo senso che se ne conosce la limitazione, ond' è ch' egli non può piú ingannare. Ché quando il conoscere limitato si conosce fornito di quella limitazione che gli è propria, già diventa con ciò stesso un conoscere verace e non può piú ingannare. Quando poi nella riflessione cade errore, vi è sempre la via di rettificarlo, bastando che si riscontri alla norma suprema, e cosí l' errore è tolto appunto perché è conosciuto. Quindi in tutte affatto le apparizioni dell' essere non vi ha mai inganno od errore necessario, benché possa esservi necessaria limitazione. La ragion prima d' ogni limitazione dell' umano sapere sta in questo, che la natura comunica l' essere reale limitato. Infatti l' essere ideale è dato dall' intelligenza senza limitazione. Or onde che l' oggetto dell' intuito umano sia l' essere ideale senza il reale? Questa separazione del reale dall' ideale vien' ella dal soggetto umano? dalla sua limitata realità? Appunto cosí. E veramente noi dimostrammo che l' essere in sé non può avere la sola forma ideale. La separazione dunque dell' una dall' altra non dipende dall' essere, ma dal soggetto, che per sua propria limitazione riceve l' una e non l' altra. A chiarire la questione noi porremo un principio generale: « Riducendosi ogni realità al sentimento e a ciò che cade nel sentimento, niun essere può apprendere l' ente reale se non per via di sentimento: quindi ogni essere finito essendo un sentimento finito per natura, non può apprendere che un sentimento piú o meno finito secondo che è quel sentimento che lo costituisce ». Dal qual principio deriva questa importantissima conseguenza che niun ente finito può apprendere o percepire per natura l' essere reale infinito. Consegue che di necessità l' essere ideale risplenda alle menti finite solo, senza il suo corrispondente reale. Si dirà: se l' ideale è relativo al reale, come può starsene tutto solo nella mente? Rispondo che ei contiene il reale virtualmente e questo basta a fare ch' egli si possa comunicare, e a dar indizio della necessità del reale corrispondente: ma non basta a fare che si percepisca attualmente il reale stesso. Contenere virtualmente il reale, e averne in sé la ragione, viene al medesimo. Quindi è che s' abbia nel sol reale un punto nel quale la mente appoggiandosi si può slanciare a indovinare per cosí dire che un reale corrispondente all' ideale debba esistere, benché non lo percepisca, né sappia determinarne le positive qualità. Vi è dunque nell' ideale una cotal scienza di semplice indicazione del reale: scienza che noi diciamo negativa, perché non sa indicare le positive qualità del reale, di cui però quasi divina la necessaria esistenza (1). E` dunque da conchiudersi che l' essere reale infinito non può essere percepito da nessun essere finito per sua propria natura; ma solo l' infinito reale può percepir se stesso per sua natura, perché la realità infinita è la sua natura. Se dunque l' essere finito percepisce il reale infinito, non può concepirlo che come cosa sopraggiunta e datagli altronde. E questo è quello che insegnano anco i teologi cristiani quando dicono che niun essere finito può vedere Dio per natura, ma solo per grazia. Ma rimane dopo di ciò a ricercarsi come questi reali finiti, possano aver luogo. Ciascun di essi è forse il sentimento infinito che pone de' confini a se' medesimo? Come si possono concepire de' sentimenti finiti fuori dall' intuito se questo già abbraccia tutto? Poiché come sarebbe infinito se non abbracciasse tutto, se non comprendesse ogni sentimento? Le quali ricerche appartengono tutte al problema della Creazione, che noi ci riserbiamo di trattare a parte. La ragione dunque del perché la percezione sia limitata ad un reale finito si riduce al perché un reale finito possa essere creato; giacché, supposta la creazione d' un reale finito, ne vien qual necessaria conseguenza che la natural percezione di questo reale finito non possa eccedere i confini di esso reale finito. L' intuizione e la percezione precedono dunque la riflessione, giacché sono atti semplici: in essi non vi ha discorso da un pensiero ad un altro. La dialettica adunque, che è il movimento del pensiero, il passaggio d' un pensiero in un altro, è posteriore all' intuizione ed alla percezione; e però quella divisione dell' ente, come pure quelle determinazioni e quelle limitazioni che sono poste dall' intuizione e dalla percezione, non procedono dalla dialettica, ma sono a questa anteriori: sono date o dalla natura dell' ente senza piú, quali sono le distinzioni categoriche, o dalle leggi della Creazione. I limitati creati non procedendo adunque dalla dialettica, come vuole Hegel, ma essendo ad essa anteriori, né pure è vero ciò che pretende questo filosofo che quelle limitazioni sieno passeggiere e mortali, perché si perdono nell' essere dialetticamente (1): niuna dialettica può fare rientrare nell' essere infinito le cose finite, come niuna dialettica poté farle uscire. La dialettica di Hegel è l' esagerazione d' una verità: tali sogliono essere tutti gli errori de' filosofi. Noi ammettiamo di buon grado una maniera di ragionare, che si può chiamare acconciamente dialettica trascendentale . Ma si restringerebbe ad arbitrio il significato della parola dialettica . L' arte di ragionare si dice dialettica, e ogni ragionamento è dialettico, se rettamente procede. Or noi diciamo dialettica trascendentale quello speciale ragionamento pel quale la riflessione, avente a materia l' intuíto ed il percepito, trova le relazioni di questi coll' essere assoluto. Questa dialettica trascendentale ha due uffici: 1) Trova ciò che nella percezione vi ha di assolutamente vero, e ciò che vi ha di vero relativamente, confrontando il percepito coll' essenza dell' ente. Nel che s' avverta che questa critica, che la dialettica trascendentale fa della percezione, non riguarda propriamente parlando la percezione stessa, ma quel primo giudizio che segue alla percezione, col quale diciamo a noi stessi o piuttosto presumiamo di conoscere il percepito d' assoluta condizione. Di questo errore ci scioglie la Dialettica trascendentale, e il fa, paragonando il finito percepito coll' infinito intuíto, ossia coll' essenza dell' essere. 2) L' altro ufficio della Dialettica trascendentale consiste nell' estendere la cognizione umana dal finito all' infinito, che è quella funzione che altrove chiamammo dell' Integrazione , la quale si compie raccogliendo le relazioni essenziali e necessarie fra il finito e l' infinito, o le relazioni categoriche. Se il negativo è il solo principio del movimento del pensiero, ne verrà che la Dialettica si rimarrà del tutto sterile, cioè non potrà uscire dalla percezione mescolata quanto si voglia colla negazione dello spirito. E questa sterilità è veramente il carattere della dialettica di Hegel, il quale non può uscire dal circolo del Mondo e delle cose contingenti come vedemmo. Poiché, per quante negazioni e negazioni di negazioni egli accumuli, altro non fa che maneggiar sempre la stessa pasta e darle forme nuove senza accrescerla pur d' una sola molecola. Il dir poi che la negazione della negazione equivale alla affermazione, è bensí vero, ma nulla conchiude a suo pro. Perocché, se il negare del negare è affermare, perché sarò io obbligato a procedere per quella doppia negazione piuttosto che a dirittura per l' affermazione? E se posso affermare senza bisogno d' altro, dunque il movimento dialettico non istà nel negare solamente, ma egualmente nell' affermare. Ma, tanto per affermare, quanto per negare, io ho bisogno di una ragione. Non è dunque il negare o l' affermare preso in astratto che dia movimento al vero pensiero dialettico; ma quella ragione che presiede alle negazioni o alle affermazioni, le giustifica e le conduce. Or questa ragione non è ella stessa né negazione né affermazione, ed ella manca al tutto alla dialettica hegeliana la qual non conosce che la scienza di predicazione. L' intuizione né afferma, né nega, ma talora omette di considerare, cioè restringe il proprio oggetto ideale. Restringendo l' oggetto dell' attenzione intuitiva, non si pronuncia nulla di falso, ma solo si limita il conoscere intuitivo. Gli antichi distinsero accuratamente la limitazione , che il soggetto intellettivo pone al suo oggetto, dalla negazione . Quella può esser fatta ad arbitrio senza questa: questa dee esser fatta con una qualche ragione, altrimenti produce un errore (1). Ora questa ragione è il vero principio del movimento dialettico del pensiero. Hegel confonde la semplice limitazione dell' oggetto colla positiva negazione, il che lo travolge ad interminabili errori. E di vero, se noi consideriamo que' modi d' argomentare, pei quali noi siamo stati condotti dal reale limitato percepito a trovare l' esistenza d' un reale infinito non percepito, vedremo che non dobbiamo cotanta scoperta alla semplice negazione, né tampoco alla limitazione; ma piuttosto a quella ragione superiore che ci ha fatto conoscere la stessa limitazione del reale percepito, e ci ha fatto conoscere esser ella di tal indole, da dimostrare assurda l' esistenza di quel reale se non si ponga un altro reale incognito ma pur esistente che lo produca e mantenga. Infatti due furono le vie del nostro ragionare che ci condussero allo stesso termine. La prima mossa dall' ordine intrinseco e necessario dell' ente reale; il quale esige che ogni ente reale debba avere un atto assolutamente primo. Onde ogni atto reale che non è assolutamente primo, esige, per poter essere, un altro atto reale che sia assolutamente primo. Questo principio ontologico diede la mossa al nostro ragionamento, e non la sola limitazione del percepito (molto meno alcuna negazione). Il qual principio non è finalmente altro che la relazione categorica fra l' essere reale e l' essere ideale applicata all' essere reale limitato, e cosí trasformata in un giudizio che dimostra l' insufficienza di questo solo. Ma questa legge ontologica, che ci condusse a trovare una prima causa reale dell' ente reale da noi percepito, non ci bastò tuttavia a dimostrare che questa causa dovesse essere in atto, giacché nell' idea d' una causa reale non si contiene la necessità della sua attuazione, potendosi pensare tanto in atto quanto in potenza. Non contenendosi adunque nel concetto d' un primo ente reale assoluto l' atto stesso produttore della realità limitata, noi dovemmo supporre, per la stessa necessità logica, che questo primo essere siasi determinato liberamente a produrre il reale limitato, essendo questa la sola supposizione che ne spieghi l' esistenza. Ma quell' atto libero, per sé solo considerato, mancava della sua ragione, di natura sua essendo possibile egualmente che fosse posto e che non fosse. Or egli è posto, noi lo sappiamo: perché è posto il suo effetto, il percepito. Ma l' affermare che quell' atto sia posto, quando può esser l' una cosa e l' altra, suppone la scienza di predicazione andata al di là della scienza d' intuizione. Or questo è assurdo. Convien dunque restituir l' equilibrio fra l' una e l' altra scienza. A tal fine ricorremmo ad una legge dell' essere morale. Questa legge risulta dalla relazione categorica fra l' essere morale e l' essere ideale. L' essere morale supremo (perfetto, essenziale) ama, vuole, produce l' ordine perfetto dell' essere reale che è conoscibile nell' ideale. Acciocché dunque l' idea e l' affermazione riescano equilibrate, io debbo ricorrere ad un' altra idea che giustifichi l' affermazione, e quest' è l' idea d' un reale operante come prima causa. Se nell' idea di questo reale supremo non si contiene l' operazione, debbo ricorrere alla ragione morale, come abbiamo già detto. Per questa maniera di dialettizzare la mente trapassa tutti i confini dello spazio e del tempo, della materia e dello spirito umano, e in una parola del creato universo: Hegel colla sua negazione non può mai varcare questi confini, onde l' ateismo ed il materialismo del suo sistema. Egli cerca invero di divinizzare il pensiero ed il mondo, che è per lui nel pensiero, rifuggendosi cosí nel panteismo: ora questo stesso egli fa ad arbitrio, perché a giusta ragione né il pensiero umano né il mondo può cangiarsi nella divinità. Que' due primi errori sono conseguenti al suo sistema; quest' ultimo è di piú una inconseguenza. L' intuizione e la percezione non ammettono errore. L' errore adunque incomincia colla riflessione. Noi abbiamo parlato di quella riflessione ben ordinata che tende a completar la cognizione dell' essere acquistata coll' intuizione e colla percezione, il qual uso della riflessione appellammo dialettica trascendentale . Or prima d' inoltrarmi a svolgere le altre maniere d' adoperare la riflessione, giova che noi separiamo il fenomeno dell' errore, che non è propriamente cognizione, ma cosa eterogenea al conoscere. Ogni errore si riduce ad atto dello spirito: il quale pronuncia che qualche cosa sia, quando ella non è, e viceversa. Che cosa è il vero? - Il vero è l' essere pronunciato dallo spirito. Il vero ed il falso adunque è una qualità dei pronunciati dello spirito. Se ciò che lo spirito pronuncia è l' essere, il pronunciato ha per sua qualità l' esser vero; se ciò che pronuncia non è l' essere, il pronunciato dello spirito ha per sua qualità l' esser falso. Se il pronunciato dello spirito è vero, l' uomo per esso conosce l' essere che ei pronuncia a se stesso, ha la cognizione. Se il pronunciato dello spirito è falso, non ha la cognizione. Il falso ed il vero convengono nell' essere pronunciati dello spirito, ma non nell' essere cognizione. Quanti uomini dotti apparirebbero ignoranti, se si separasse tutto ciò che v' ha di erroneo nelle loro opinioni! Dare il nome di dotti a quelli che insegnano grandi cose, ma erronee, è abuso di vocaboli: sarebbe tempo che il mondo se ne vergognasse. Ma nell' errore non vi ha ignoranza solamente; vi ha di piú falsa credenza. La credenza è una disposizione soggettiva: la cognizione non è mai puramente soggettiva; dee avere un oggetto. Se l' oggetto non c' è, l' uomo può fingerlo, ma il fingerlo non fa che sia. Quindi si deduce: 1) che l' errore appartiene a quella forma di conoscere che dicemmo di predicazione; 2) che quantunque l' errore tenga la forma di questo conoscere, tuttavia egli non è mai propriamente cognizione; 3) che egli è una disposizione soggettiva; 4) che questa disposizione pone il soggetto intellettivo in contraddizione coll' oggetto; 5) che l' errore suppone un' attività intellettuale, la qual muove se stessa, non verso l' oggetto, ma a ritroso di lui; 6) che l' errore non istà nell' oggetto, ma in ciò che si afferma o si nega intorno all' oggetto. L' errore dunque è un conoscere privo d' oggetto: la sua natura per questo consiste nel negativo, e non punto nel positivo, qual è sempre la natura del male (1). Ma per ben intendere come l' errore sia privo di oggetto, conviene porre attenzione a queste tre cose: 1) che ciò che v' ha di oggettivo nel pensiero erroneo, non è ciò che costituisce l' errore; 2) che il credere ad un oggetto assurdo, non è aver veramente dinanzi alla mente un oggetto; 3) che l' affermare, o il negare, non è cosa che appartenga all' oggetto, ma al soggetto, e non produce un oggetto, ma semplicemente una disposizione soggettiva che dicesi fede, persuasione, ecc.. Rimane dunque il credere senza oggetto. Rimane l' atto soggettivo, la persuasione che termina nel nulla. Or che cos' è dunque questo credere? Questo persuadersi che certi elementi di conoscere con certi nessi abbiano un risultamento quando non l' hanno? Abbiamo detto che è una disposizione soggettiva di un essere intelligente, la quale rimane senza oggetto. E una disposizione soggettiva è del pari l' affermazione e la negazione. Non è poco difficile a intendere bene la natura di tali disposizioni soggettive. In prima, tali maniere di disposizioni non possono cadere che in un soggetto intelligente. Egli da se stesso si muove verso l' oggetto per prenderlo e farlo suo: questo impossessarsi dell' oggetto e appropriarselo, fa sí che la cognizione diventi una disposizione che il soggetto dà a se stesso; poiché lo sforzo posto in essa, il possesso di essa, è tutta operazione e atteggiamento soggettivo. Tale è il verbo della mente; è un pronunciato del soggetto. Tale è la credenza: questo aderire, questo assentire, o affermare, ovvero fare il contrario di tutto ciò, è attività soggettiva suscettibile di vero e di falso. Se si assente ad una proposizione falsa, vi ha l' errore. Ma se il falso della proposizione fosse evidente, niuno potrebbe assentirvi. Conviene adunque sempre che il falso si nasconda: onde in ogni errore cade nel soggetto qualche oscurità; assente a ciò che non vede chiaro, a ciò di cui non vede chiaro la ragione. Ogni qualvolta adunque lo spirito umano impera a se stesso di assentire e credere a proposizioni che esprimono ciò che non è ( errore semplice ), o ciò che non può essere ( assurdo ), vi ha errore: il qual si può definire « un atto dell' essere intellettivo che non raggiunge l' essere ». Dalle quali considerazioni in primo luogo s' intende che gli errori e gli assurdi non sono punto entità; e che perciò la ricerca ontologica non ha bisogno d' occuparsi intorno alla generazione degli errori e degli assurdi, che come tali non sono punto entità. In secondo luogo, si ravvisa quanto vanamente l' Hegel abbia infarcito l' ontologia delle negazioni, de' negativi, del nulla, pareggiando il nulla all' essere, perché anche il nulla viene pensato. Egli non ebbe c“lta la distinzione fra la cognizione oggettiva e la soggettiva, e quindi molto meno egli poté vedere che vi hanno degli atti del soggetto intellettivo i quali si rimangono senza loro proprio oggetto. Coll' aversi ben dichiarato pertanto questo fenomeno dello spirito intelligente di poter fare degli atti che non raggiungono alcun oggetto, si ha dissipato intieramente il prestigio della dialettica di Hegel. Il cui sofisma sta sempre nel prendere il segno dell' oggetto per l' oggetto; i componenti dell' oggetto, cioè gli oggetti che si suppongono componenti, per l' oggetto che essi debbon comporre; gli atti del soggetto intelligente e le relazioni di questi atti con qualche oggetto, per l' oggetto stesso. Nel pensare erroneo adunque interviene sempre un oggetto fattizio composto di segni, d' idee e di nessi d' idee, il quale oggetto fattizio si adopera a determinare l' oggetto ultimo del pensare, ma invano; poiché nel pensare erroneo quest' oggetto ultimo non si trova, è affatto nulla: e l' errore sta appunto in questo, nel voler che il nulla sia qualche cosa. Quindi l' errore non istà negli oggetti fattizŒ; neppure in un atto soggettivo privo di quell' oggetto che non deve avere, ma in un atto soggettivo privo di quell' oggetto che deve avere, che pretende d' avere quando non l' ha. S' io dico il nulla è nulla, il mio pensiero non ha oggetto, perché il nulla non è oggetto, e tuttavia non è erroneo, perché non pretende di averlo, anzi sa ed afferma di non averlo; ma s' io dico « il nulla è qualche cosa », erro, perché fo un pensiero che, mentre non deve aver alcun oggetto, vuole, pretende, afferma d' averlo (1). Questa contraddizione fra la intenzione del pensare e l' oggetto, è propriamente l' errore. Vi è dunque un pensare per via di oggetti fattizŒ, il quale non è erroneo: e di questo giova che ora parliamo. Al pensare umano presiedono queste due leggi: L' oggetto del pensiero è l' essere. L' attenzione del pensiero non può fissarsi in un essere determinato se non vi è tirata e tenuta dal reale sentito. Queste due leggi reggono il pensare oggettivo. Dato questo pensare, sopravviene l' affermazione e la negazione, cioè il pensare di predicazione. In virtú di queste due leggi accade: 1) Che l' uomo non possa limitare colla mente e determinare ad una forma speciale l' essere ideale se non prevalendosi di un reale che attiri e trattenga la sua attenzione e serva a lui di segno determinante e limitante l' ideale. Nulla di meno gli ideali determinati, cioè le specie piene, sono oggetti fattizŒ in questo senso che risultano dalla relazione categorica che passa fra l' ideale e il reale finito mediante l' intelletto. 2) Quando si comincia ad esercitare su di essi l' astrazione, interviene l' azione della riflessione soggettiva che limita vie piú l' oggetto (l' essere universale) che in natura non è limitato. Or non potendo la mente pensare una tale limitazione senza l' aiuto d' un reale, e non giovandole a ciò quel reale a cui corrisponde come tipo l' ideale, ella deve ricorrere ad un altro reale che le presti l' ufficio meramente di segno. Egli è per questo che gli astratti non si possono avere senza il linguaggio o altri segni che giovano a dirigere e fissar l' attenzione in qualche elemento dell' ideale, cioè della specie piena rattenendola dal fissarsi nell' intera specie «( Psicologia , Vol. II, n. 1515 sgg.) ». Ma, cercandone la ragione ontologica, questa si trova ne' bisogni parziali dell' uomo, e la ragione di questi bisogni molteplici e parziali dee riferirsi alla condizione del sentimento che costituisce l' uomo: soprattutto al sentimento animale, avente per termine il corpo e la materia divisibile senza termine alcuno. Diamo un esempio. Considerare le sostanze materiali nella loro qualità di alimentari, egli è un considerarle astrattamente. Ora che cosa induce l' uomo a questa astrazione? L' aver egli il bisogno di alimentarsi. E questo bisogno onde procede? Dal sentimento animale, dall' organismo, e in fine poi dalla materia. Altro dunque è l' ideale , altro le diverse vedute dello spirito che lo considera secondo i diversi bisogni dai quali è mosso a considerarlo. Onde, se la specie piena è l' ideale nella sua relazione col reale finito intero, gli astratti sono pure l' ideale considerato in relazione delle diverse parti, elementi, virtú, attitudini, bisogni del reale medesimo. L' azione dunque del soggetto intelligente è quella che moltiplica i concetti, o sieno universalmente determinati, o sieno astratti. L' oggetto, ossia l' essere ideale, in queste operazioni rimane sempre presente allo spirito, ma egli viene moltiplicato, e questa moltiplicazione è quindi l' opera del pensiero. Ma si noti bene di qual pensiero: di un pensiero i cui atti sono limitati. Quindi la domanda: « qual' è la ragione, perché gli atti del pensiero riescano cosí limitati ». A cui si risponde: « perché il pensiero è limitato al reale ». Nel che si osservi che una limitazione del pensiero ne porta un' altra. E veramente, posto che i primi atti del pensiero sieno limitati a cagione della limitazione del reale, e cosí quelli astratti che vengono tosto appresso la percezione, avviene che l' uomo sia spinto a moltissime altre astrazioni di astrazioni senza fine, tutte anch' esse limitate. Del che la ragione è questa. Il primo pensiero dell' uomo, l' intuizione naturale, ha un oggetto infinito; ma in questo primo suo atto intellettuale egli è ricettivo. La sua perfezione consiste nell' aderire all' infinito essere colla sua propria attività. Per questo il suo pensiero attivo si mette in moto. Ma questo pensiero attivo trova incontanente la limitazione del reale. Egli quindi si sforza d' uscirne per arrivare all' essere assoluto. A tal fine non gli rimane che accumulare pensieri sopra pensieri, i quali sono tutti limitati, perché sono limitati i primi ai quali è dato un termine limitato. Quest' è la ragione ond' accade che le speculazioni di quelli uomini che si danno alla contemplazione della verità sieno interminabili, e che gli uomini, per quanto sappiano, non si chiamano giammai soddisfatti: il solo sapere naturale non felicita l' uomo, perché non conduce all' intera cognizione e percezione dell' essere assoluto. Gli astratti, noi dicemmo, non si pensano dalla mente se non legati ad un reale che serve loro di segno. Questo pensare per via di segno, è un pensare limitato d' una speciale maniera. Il segno reale è oggetto certamente del pensiero; ma non è l' ultimo oggetto, il termine di un tal pensiero: questo è la cosa significata. Si pensa dunque un oggetto per mezzo di un altro. Il segno è un reale, e l' astratto significato è un oggetto ideale. Si pensa dunque un ideale per mezzo, ossia coll' aiuto, di un reale. Abbiamo veduto che il pensare limitato non è un pensare erroneo, ma che l' errore facilmente ad esso si accoppia ed è quand' egli si prende e giudica per assoluto. Ora il pensare gli astratti, come pure generalmente il pensare per via di segni, benché in se stesso non erroneo, diviene all' uomo occasione d' errori. Un primo errore prende l' uomo quando si dà a credere che gl' ideali determinati ed astratti sieno in se stessi cosí disgiunti come sono nella mente dell' uomo. Quando l' uomo pensa l' un di essi, non pensa l' altro, onde gli pare che ciascuno sia indipendente dall' altro. Un altro errore sarebbe, se, l' associazione fra il segno reale e l' astratto segnato oscurandosi dinanzi all' attività soggettiva del pensiero, l' uomo prendesse il segno per la cosa segnata. Questo errore è molto frequente e apparisce in piú forme, divenendo piú errori. Uno di questi errori si è quello de' dialettici che talora danno corpo e realità alle astrazioni: ma di questo maggiore è quello di coloro che tolgono via l' idealità, non riconoscendo altro ente che il reale; ovvero che abusando di parole chiamano reale l' ideale. Un altro errore della stessa specie fu quello dell' idolatria, onde gli uomini adoravano le immagini e i simulacri invece delle cose divine che dovevano rappresentare. Questo errore grossolano mostrava come la percezione del reale sensibile legasse a sé le menti per modo che non lasciavale piú andare all' ultimo termine insensibile a cui era v“lto il pensiero. I segni, oltre aiutare il pensiero a fissare gli astratti, lo aiutano altresí a fissare gli enti in quanto sono negati dalla mente. La parola nulla , a ragion d' esempio, significa l' ente assolutamente negato. La parola male, difetto, errore , ecc., significa l' ente in cui manca qualche cosa che vi dovrebbe essere. Questo pensare è intieramente soggettivo rispetto al suo oggetto proprio e finale, perché questo manca del tutto, e solo vi ha l' oggetto immediato che è il segno della mancanza dell' oggetto ultimo. Un tal modo di pensare non è ancora erroneo per se stesso; ma l' uomo, vi mescola facilmente degli errori, come accade se giudica che l' oggetto negato, o l' oggetto mancante a cui si riferisce il segno, sia un oggetto vero o un oggetto reale. A spiegare la facilità con cui l' uomo sdrucciola a questi errori, conviene rammentare il principio di cognizione pel quale l' uomo non può pensare nulla che non abbia la condizione di ente. Quindi allorché egli restringe la sua attenzione a pensare un astratto, il quale astratto talora è anche negativo, per esempio, limitazione, privazione, niente , ecc., egli è obbligato di considerare questi termini del suo pensiero siccome enti, altrimenti non li potrebbe pensare cosí nudi e da per sé presi. Cosí diventano oggetti fattizŒ e non veri. Vi è dunque bisogno che la riflessione critica sopravvenga, e glieli faccia riconoscere per fattizŒ, acciocché non lo ingannino. Ma questo lavoro della riflessione critica costa qualche fatica all' uomo, e però si lascia andare a prender quegli oggetti per veri: e allora ei cade in errore. Vedesi adunque che v' ha un seme d' errore nella stessa limitazione a cui soggiace l' umano pensare. Non conviene dimenticare che tutti i ragionamenti, fin qui da noi esposti, intesero ad indicare le origini delle diverse apparizioni dell' essere, di quella moltiplicità nella quale esso all' uomo si presenta. A chiarir meglio tutte queste dottrine egli è uopo dichiarare la natura dell' essere intellettuale, giacché l' uomo è un essere intellettuale, e noi parliamo della pluralità e delle diverse apparizioni dell' ente in relazione a questo. L' essere intellettuale è una conseguenza del sintesismo fra l' ideale ed il reale, perocché l' essere intellettuale è reale, ma accoppiato e informato dall' ideale (1). Ora quest' essere reale informato dall' ideale, può esser finito o infinito. Come può esser finito? Questo è quel nodo che dicemmo appartenere al problema della creazione, e qui ne supponiamo la possibilità. Ora, se l' essere reale a cui risplende l' ideale, è infinito, egli è quell' istesso essere che nell' ideale si vede, perocché nell' ideale si vede la realità infinita, ma nella forma ideale. Ma se il reale è finito, dalla congiunzione di questo coll' ideale nasce l' intellettuale finito, il quale non può vedere nell' ideale direttamente se stesso: onde l' essere ideale apparisce come fosse solo e veramente separato dal reale. Questa divisione adunque dell' ideale dal reale viene, come abbiamo detto piú sopra, unicamente dalla limitazione dell' intellettuale: la qual verità si svela dalla Dialettica critica. Quindi anche accade che l' intuizione d' un ente intellettuale limitato non facendo conoscere il reale, è necessario che il detto ente intellettuale per conoscere se stesso usi di un altro atto, quello della percezione, laddove l' intuizione propria dell' intellettuale infinito è tutt' insieme percezione di se stesso. Come poi il reale è finito, cosí di sua natura è chiuso in se stesso e non percepisce che se stesso, e quindi non percepisce il nesso di creazione che lo lega e continua al reale infinito. In tal modo egli si percepisce come una sostanza separata; benché la Dialettica critica ritrovi che questa sostanza non apossa esister sola senza che v' abbia un reale infinito che la faccia sussistere. Posta questa costituzione dell' ente reale intellettivo finito, s' intende come a prima giunta, ai primi atti dell' intelligenza, e quindi al pensar volgare, rimanga nascosto il sintesismo dell' essere. I nessi essenziali, che raggiungono le forme e le sostanze fra loro rimangono nascosti: quindi quelle e queste sembrano del tutto separate e non pur distinte. Se non ci fosse un essere intellettuale, non esisterebbero relazioni. Il confronto di due termini suppone un terzo termine oggetto in cui si operi il confronto; perocché i termini della relazione, fin che restano distinti, non si confrontano, né basta, per confrontarli a scoprirne la relazione, che si accostino; ma si debbono in qualche parte immedesimare e legare insieme. Qual è dunque questo legame? Certo che il soggetto intellettivo dee esser uno egli stesso per poterli confrontare: ma, poiché le cose conosciute sono nel soggetto intellettivo come oggetti e il soggetto intellettivo non pensa a se stesso in quant' è soggetto, le cose che si confrontano non possono ricevere l' unità dal solo soggetto intellettivo. E` dunque necessario che v' abbia un oggetto in cui si confrontino, e quest' oggetto è l' essere ideale nel quale tutti gli enti e tutte le entità si trovano co' loro nessi e vincoli sotto la forma ideale. Ma l' essere ideale, appunto perché è per essenza oggetto, sintesizza col reale, e non con ogni reale, ma propriamente col reale intellettivo. Il sintesismo adunque fra l' essere ideale e il reale non consiste solamente nel dovervi avere questi due modi di essere acciocché l' essere sia; ma consiste nel trovarsi essi cosí fattamente annodati da doverne risultare per la loro unione l' essere intellettuale. Ora, dato l' essere intellettuale, questo va discoprendo ogni ente nell' ideale, e quindi anche va discoprendo nell' ideale tutte le relazioni e tutti i legami degli enti. Tutti questi vincoli e relazioni nell' idea non si fanno già di nuovo né procedono con successione, ma vi sono tutte eterne: onde dicemmo che l' idea già contiene la ragion della pluralità degli enti [...OMISSIS...] . Ma non è per questo che l' uomo ve le veda tutte sino a principio, ma ve le va discoprendo successivamente a cagione della limitazione dei suoi atti e della poca realità che gli è comunicata. Cosí è che l' uomo va discoprendo le verità da se stesso nell' eterno specchio dell' essere (ché cosí si può chiamare l' idea) con replicati sguardi successivi. La sede dunque di tutte le relazioni è nell' idea, e suppongono l' esistenza di un essere intellettivo che in essa le intuisca. Noi ne proponiamo qui la classificazione ontologica. In prima vi hanno le relazioni eterne e per sé essenti fra le tre forme supreme dell' essere, ciascuna delle quali non sarebbe se le altre due non fossero. L' uomo, attesa la sua limitazione, intuisce l' essere ideale diviso dalla realità; cosí pure pensa in qualche modo l' essere reale diviso dall' idealità. Cosí l' uomo afferma la realità senza badare all' idealità di cui si serve per apprenderla (1). Solo colla riflessione integrante ne discopre in appresso il sintesismo. Ma l' essere morale non è oggetto de' primi pensieri dell' uomo, ma diviene oggetto della stessa riflessione; e però questa forma non si presenta semplice e divisa dalle altre due, anzi non si può concepire senza le altre due. La relazione categorica fra l' essere ideale e reale giace in un nesso ontologico fra loro, il quale nesso produce l' essere intellettuale. L' atto, pel quale l' essere intellettuale vive nell' ideale realizzato, è l' essere morale. Tale è la congiunzione intima dell' essere essente nelle tre forme. All' essere infinito, all' essere come essere, appartengono le seguenti relazioni: 1) La soggettività o realità informata dall' oggetto, e però soggettiva, la quale ha la relazione opposta coll' oggetto. 2) L' oggettività, ossia intelligibilità, in quant' è intelligibile ossia ideale, ovvero anche oggetto, ha una relazione col reale e propriamente col reale intelligente da esso ideale informato. 3) L' amabilità. L' essere, in quanto è inteso, in tanto è amabile; e perché egli è inteso nell' oggetto, è amabile nell' oggetto, e non da sé solo. Onde questa relazione non può essere costituita se non dalle due prime, in quanto il reale è conosciuto nell' ideale. 4) La soggettività o realità intellettiva informata dall' amabilità, la quale ha la relazione opposta all' amabilità. Quest' ultima relazione non è un nuovo modo di essere, ma è il modo soggettivo in quanto trovasi nell' oggettivo. Di queste primitive ontologiche relazioni noi piú innanzi favelleremo ampiamente: ci basti l' osservare come le esposte dottrine ci pongono in caso di giudicare di quella sentenza che chiama effetto della dialettica ogni pluralità che si scorga nell' ente. Discendiamo ora adunque a classificare le relazioni che ci presentano gli esseri contingenti. Le relazioni ontologiche surriferite, appunto perché intime all' essere, non possono del tutto mancare neppure ne' contingenti, perché loro non manca intieramente l' essere. Ma se l' essere non manca in essi, vi è tuttavia limitato: e la limitazione dell' essere limita altresí la partecipazione delle relazioni categoriche. Vediamo con quali distinzioni e differenze si ravvisino nell' essere contingente quelle supreme relazioni. In primo luogo, l' essere contingente non esiste come tale che sotto la forma reale. Quindi, da sé solo considerato, non si può concepire; è non7ente «( Psicologia , n. 1305 sgg.) », ente incoato, rudimento di ente. Non potendo dunque l' ente essere sotto un' unica forma, l' essere contingente dovette venir sostenuto e sorretto dall' essere eterno, acciocché non si risolvesse nel nulla. Quindi unita all' essere reale contingente, trovasi la forma ideale sempiterna. Ora il morale non è che quell' atto di vita pel quale il soggetto si compiace di tutto l' essere conosciuto nell' ideale. Quindi il morale appartiene in proprio alla totalità dell' essere, all' essere assoluto. Rimane che: il contingente non è per sé intellettuale, ma è intellettuale per partecipazione; né esso è per sé morale, ma è morale per partecipazione, o piuttosto è ordinato alla moralità. Queste sono le relazioni categoriche dell' essere partecipate dal contingente. Ma un altro fonte delle relazioni proprie dell' essere contingente nasce dalla sua stessa limitazione. La limitazione è ella stessa quella che lo rende contingente; perocché: il suo concetto è correlativo all' illimitato; questo si concepisce senza di quello, preso nel significato di prima intenzione (1). Ma quello non può essere concepito senza di questo. Il limitato è logicamente posteriore all' illimitato (2): quello si può pensare e non pensare, ma il concetto di questo è tale che, quando si pensa, s' intende impossibile di pensare il contrario: ogni limitato è dunque necessariamente contingente. Il limitato adunque e contingente ha una relazione coll' assoluto, e questa è relazione di creazione, come vedremo. Ma poiché l' assoluto è in tre modi, triplice è pure la relazione del limitato reale contingente coll' assoluto. In quanto l' assoluto è ideale, si manifesta al contingente (e il manifestarsi è una relazione ideologica). In quanto l' assoluto è morale, intanto si comunica al contingente semplicemente come legge morale, ossia obbligazione, la quale è una relazione deontologica: cosí l' essere morale non è dato al contingente, ma mostra la via di pervenirvi. In quanto poi l' essere assoluto è reale, intanto ha relazione di causa col contingente. Non gli manifesta se stesso, non essendo proprio del reale il manifestare, né comunicare se stesso, poiché non potrebbe comunicarsi all' ente contingente se prima quest' ente non fosse: e per far che sia, il che è crearlo, deve restringerlo entro i suoi confini; e produrlo entro i suoi confini è lo stesso che non comunicargli l' infinita realità (1). Ma qui è d' uopo penetrare piú addentro nella natura propria delle relazioni. La relazione in generale è un nesso fra due termini veduto dall' intelletto. Se vi potessero essere due termini veduti simultaneamente collo stesso sguardo dell' intelletto che non avessero fra loro nesso di sorta alcuna, allora si direbbe che avessero la relazione di assoluta separazione: cioè l' intelletto produrrebbe egli stesso una relazione fattizia, il vero valore della quale sarebbe intieramente negativo. La ragione, per la quale l' intelletto ha questa facoltà di considerare come positive le relazioni negative, è quella stessa che egli ha di produrre a se stesso quelle entità fattizie di cui abbiamo ragionato. Cosí l' intelletto pensa il nulla ed il negativo con un pensiero che passa per oggetti che non sono nulla. Ma sebbene l' uomo pensi di queste relazioni negative, tuttavia è impossibile che si dieno due termini del pensiero, i quali sieno privi di qualsivoglia relazione. Perocché, hanno almeno la relazione d' analogia di questo stesso che sono pensabili. Che se l' un d' essi fosse negativo, fosse il nulla a ragion d' esempio; in tal caso la relazione v' avrebbe tra il termine positivo e le operazioni dello spirito negante. Se i termini sono entrambi negativi, la relazione giace fra le due persuasioni che li costituiscono. Ma se i termini sono entrambi positivi, essi convengono almeno nell' essere, e però non può mancar loro la relazione d' identità quanto all' essere. Ora consideriamo le relazioni che cader possono fra i termini positivi, che sono vere entità. La prima cosa da notarsi si è la distinzione delle relazioni che passano fra termini della stessa natura, e quelle che passano fra termini di diversa natura. Diciamo adunque che, se, i due termini essendo della stessa natura, il primo sta al secondo in quanto alla natura come il secondo al primo, la relazione è uguale considerata da una parte e dall' altra. Ma se i termini sono di diversa natura, allora la relazione che il primo ha col secondo è anch' essa di diversa natura dalla relazione che il secondo ha al primo. Or questo stesso, si dee anche dire, proporzion fatta, di que' termini che convenissero o variassero negli accidenti: cangeranno le relazioni come cangiano gli accidenti. Questo dimostra chiaramente che ogni relazione fra due termini è duplice, e non semplice come comunemente si crede, potendosi considerare i due termini con due vedute diverse dell' intendimento, l' uno rispetto all' altro, e l' altro rispetto al primo. Ciascuna di queste relazioni abbinate suole appellarsi abitudine , poiché manifesta come l' uno de' due termini se habeat rispetto all' altro. Or poi i termini delle relazioni possono essere d' altrettante maniere quanti sono i termini del pensiero. Ora i termini del pensiero sono di quattro maniere: 1) essenti; 2) fattizŒ; 3) falsi; 4) assurdi. I soli due primi sono interamente veraci. Quindi il pensiero concepisce o crede di concepire quattro maniere di relazioni, ciascuna delle quali tiene la natura di que' termini. I termini essenti sono compresi nelle tre categorie, cioè sono entità reali, ideali e morali. L' abitudine che ha ciascun agli altri due è diversa, come è diverso l' un modo dall' altro. Ma poiché l' essere è identico in tutti i tre modi, sembra che abbiano altresí una relazione d' identità. Tuttavia è da considerarsi che l' identità non appartiene ai modi, ma all' essere; onde il dire che i tre modi hanno una relazione d' identità non è proposizione esatta: perocché non è vera se non in quanto nei modi si considera l' essere e non il modo. Qui il pensiero umano aggiunge del suo. Poiché non sapendo egli concepire in un modo perfetto l' essere assoluto, che è ad un tempo nei tre modi uno senza replicarsi, egli considera l' essere successivamente, prima in un modo, poi nell' altro, poi nel terzo; ma, sopravvenendo la Dialettica trascendentale, questa pronuncia che quell' essere, che pareva triplicarsi, è identico. Oltre questa relazione fattizia d' identità, se ne presenta al pensiero un' altra fra l' essere e il modo categorico. Ma anche questa è puramente fattizia, poiché l' essere in ciascuna delle tre forme è tutto e puramente essere: onde non v' ha mica un modo suo che non sia lui stesso, ma egli stesso è i tre modi ed è ciascun modo. Questo linguaggio adunque, nel quale appariscono distinti i modi e le forme categoriche dell' essere dall' essere stesso, manifestamente dimostra quel pensare umano imperfetto che ha prodotto un tal linguaggio; e la Dialettica trascendentale sopravviene a correggerlo. Ma torniamo a considerare le abitudini dell' essere assoluto, in ciascuna delle sue forme, coll' essere limitato. Abbiamo veduto che fra l' essere ideale qual si concepisce nell' ente assoluto e l' essere ideale qual si osserva nell' ente limitato, apparisce una relazione d' identità. Ella nondimeno è imperfetta da parte dell' intelletto reale che lo contempla. Ma se si considera la relazione che ha l' ideale coi reali finiti percepiti realmente, o supposti, questa relazione è quella di possibilità. Nell' essere ideale noi vediamo la possibilità logica delle cose. E la possibilità logica ci si presenta come possibilità assoluta, ossia con altra parola come possibilità metafisica. Quando noi abbiamo il concetto di un ente qualsiasi, se poi troviamo che questo ente esiste, non ce ne facciamo maraviglia, perché sapevamo che poteva esistere. Questo fatto dimostra che la possibilità logica contiene virtualmente l' indizio d' una cotal potenza infinita atta a fare che le cose (le essenze) passino all' esistenza. Ma appunto perché questa potenza infinita è compresa soltanto virtualmente nella possibilità logica, quindi noi non sogliamo cosí facilmente accorgercene, ma pure senza accorgercene operiamo e ragioniamo a tenore di quella secreta persuasione (1). Nati poi i concetti mediante il rapporto dell' essere reale finito coll' ideale veduto dall' intelletto, questi si moltiplicano coll' astrazione; e colla riflessione si trovano fra loro le relazioni d' identità e di differenza. Queste sono le abitudini dell' essere ideale verso il reale finito, delle quali fondamentale è la categorica; segue l' ideologica; e finalmente la relazione di possibilità logica metafisica. Le abitudini poi dell' essere reale finito coll' essere nelle tre forme supreme sono quelle d' intuizione per l' essere ideale; per l' essere reale, quella di creazione passiva; pel morale, come vedremo, quella di obbligazione e attività morale. L' essere reale infinito col reale finito ha l' abitudine di creazione attiva. L' essere morale poi prende col reale finito l' abitudine di legge (relazioni deontologiche), in quanto questo morale è nella forma ideale; in quanto poi è nella forma reale, in tanto non ha relazione naturale col finito, ma ha relazione di grazia nell' ordine soprannaturale. Gli antichi distinsero le relazioni in reali e mentali . Che è da giudicare di una tale distinzione? Primieramente le relazioni non si dicono mentali perché sieno condizionate ad un intelletto in generale, all' intelletto assoluto; ma si chiamano mentali qualora sieno enti fattizŒ dell' intendimento umano. In secondo luogo conviene anche spiegare l' appellativo di reali . Questo appellativo altro non può volere dire che le relazioni che sono indipendenti dall' intendimento umano. Premesse queste dichiarazioni, noi domandiamo come una relazione possa essere dell' oggetto, indipendentemente dall' intelletto umano. Di poi domandiamo come una relazione possa essere fattizia. Affine di rispondere alla prima di queste due questioni, riduciamo le relazioni ad abitudini di una cosa verso l' altra. Si presenta primieramente questa difficoltà: « L' abitudine non può essere in un oggetto solo, perché è relativa ad un altro; non può essere in entrambi gli oggetti, perché in tal caso sarebbero due abitudini distinte; non può essere frammezzo gli oggetti, perché frammezzo non v' ha nulla, e se vi fosse qualche cosa, sarebbe un terzo oggetto. Dove sta dunque l' abitudine di un oggetto all' altro? ». In quanto alle abitudini categoriche è da osservarsi che ciascuna forma dell' essere inesiste nell' altra, come abbiamo detto. Ciascuna forma è unita all' altra cosí essenzialmente, che senza questa unione non sarebbe. L' abitudine adunque è qui l' identico essere considerato come modo suo proprio. Tale abitudine risiede in ciascuno de' termini. Non vi ha dunque un vacuo tra un termine e l' altro, ma l' essere costituente entrambi i termini. Queste abitudini per sé essenti si spiegano adunque per via dell' inabitazione dell' un termine nell' altro. Questa inabitazione delle tre forme si ravvisa anche quando l' essere reale è finito; nel qual caso l' inabitazione rimane però imperfetta a cagione della limitazione dell' essere reale. Diciamo dunque qualche parola anche di questa inabitazione imperfetta, a cui si riduce la seconda classe di relazione: quella cioè che corre tra l' essere infinito nelle tre forme, e l' essere finito. La maniera con cui l' essere reale finito inabita nell' essere ideale non è cosí perfetta come quella nella quale l' essere reale infinito inabita nell' ideale. Il reale finito, non essendo nell' ideale che virtualmente, non si può sentire nell' ideale, perché il sentirsi è attualmente essere; e quindi il sentimento suo proprio non è per se stesso cognito, ma cieco ed incognito, giacché niente è cognito se non per l' ideale e nell' ideale. Ora l' essere un sentimento per se stesso incognito equivale al concetto di una separazione, di un esser fuori dell' ideale. Questa parola esser fuori dell' ideale riferita al reale finito, non significa che esser per sé incognito , e convien guardarsi di non attribuirle il concetto di un esser fuori materiale come la parte di un corpo è fuori di un' altra. Ma appunto perché l' ideale inabita nel reale finito, questo per natura sua intuisce l' ideale, senza percepire in esso immediatamente e con questa stessa intuizione se stesso, intuendovi solo il reale virtualmente. La relazione dunque del reale finito coll' ideale inabitante in lui è quella d' intuizione. Ora l' intuizione, essendo il primo atto intellettivo dell' essere finito, egli è l' atto sostanziale di questo essere, quell' atto pel quale l' essere intellettivo è. La sostanza dunque dell' essere intellettivo finito, questo stesso essere intellettivo inabita nell' ideale; ma non vi inabita, come necessario all' ideale, come identico con esso lui; ma come aderente a lui in modo accidentale e contingente, alla similitudine dell' atto del vedere rispetto alla forma visiva. Or poi la reciproca inabitazione dell' essere reale finito intellettivo e dell' essere morale trovasi ancora piú imperfetta. Perocché l' essere morale infinito è l' essere reale infinito che per sé cognito si dimostra infinitamente amabile a se stesso; ma il finito reale nell' ideale non percepisce punto l' essere reale infinito nella sua attualità, ma solo virtualmente: quindi solo virtualmente altresí ne intuisce l' amabilità. Onde l' essere finito intellettivo non ha per se stesso che l' elemento morale in potenza. Quando poi percepisce degli enti finiti proporzionati alle sue facoltà percettive, allora ravvisa in questi un' amabilità limitata, la quale, appunto perché limitata, non è ancora morale; ma quando poi s' accorge che l' amabilità dell' ente reale è proporzionata ai gradi di quest' ente, ha concepito una proposizione universale, che riguarda la totalità dell' essere e non piú una parte. Di piú, sentendo egli che questa amabilità appartiene alla natura stessa dell' essere, e che è assoluta, s' avvede che qualora i suoi affetti non si lasciassero regolare da tale amabilità, egli si porrebbe in contraddizione con tutto quanto l' essere e con se stesso altresí che n' è una porzione; sente in una parola quella che si dice obbligazione morale, necessità deontologica. L' essere morale adunque non inabita nella natura umana se non sotto la forma di legge obbligante; la legge obbligante adunque è l' essere morale virtualmente compreso nell' ideale e applicato dall' uomo agli enti finiti da lui percepiti, e piú tardi poi all' ente infinito in quel modo che gli riesce conoscerlo. Se poi si cerca come l' essere reale finito inabita nel morale, questa inabitazione per natura non si concepisce distinta dalla inabitazione di quello nell' ideale. Ma perché tale inabitazione si fa nell' intuizione, l' intuizione non è ancora l' attività libera (1) del soggetto, e però non si dà in atto un elemento morale; onde la facoltà morale, a cui si richiede un primo atto, nasce posteriormente, e da prima non ve ne sono che gli elementi. Per natura adunque il soggetto intellettivo finito non è ancor morale, e non ha che la sola disposizione a divenire cotale. Ma nell' ordine soprannaturale l' essere intellettuale finito inabita veramente nell' essere morale, di cui gli è data la percezione, e l' essere morale in lui: il che dichiara l' Antropologia soprannaturale. Qui osserveremo soltanto che allora dicesi vera inabitazione nell' essere morale quando tutta l' attività del soggetto si accoglie in lui come suo oggetto percepito e nel proprio sentimento sentito, quasi extrasoggettivo, poiché allora l' atto del compiacimento non compiacendosi piú di altra cosa, è tutto accolto in tale oggetto, in lui solo vive e come tale esiste. E qui giova richiamare quella sentenza di sopra accennata, che a far che sia una relazione è sempre necessario che intervenga l' essere intellettuale. Quest' essere stesso è la relazione categorica dell' essere reale coll' ideale: in questa prima relazione si fondano tutte le altre: l' intelletto interviene sempre, è sempre presente come una condizione senza la quale sparirebbero le relazioni fin qui descritte: esse non sono prodotte dall' intelletto, poiché egli stesso è una di esse: ma in quanto sono, in tanto sono anche intese nel primo intelletto, poiché l' intelletto è in tutte esse. L' umana riflessione poi posteriore a tale relazione non fa che riconoscerle in modo riflesso: ma avanti questa riflessione le relazioni categoriche non sono note per se stesse. E cosí appunto sono reali, non perché appartengono alla sola realità, o perché sieno senza ogni intelletto; ma perché sono nell' essere stesso, ne costituiscono l' ordine intrinseco, e quindi non sono già produzioni posteriori dell' intelletto umano. L' essere in una delle tre forme non ha relazione alcuna con se stesso. All' incontro l' essere reale finito ha moltissime relazioni con se stesso, perocché egli non è uno, ma moltiplice. La costruzione intima degli enti finiti produce certe loro interne relazioni, perocché niun ente finito è semplice, ma composto di piú entità finite che concorrono a formarlo. L' unione di queste entità, è la piú stretta di tutte dopo quella che abbiamo chiamata inabitazione delle forme categoriche. Ora, se fra questi componenti vi ha l' intelletto, o se l' ente reale risultante dai componenti è l' ente intellettivo, in tal caso la relazione è formata, poiché non si può dare relazione senza la presenza dell' intelletto, essendo proprio del solo atto intellettivo l' andare quasi fuori di sé in altro, e quindi l' essere acquista la frase scolastica ad aliquid . Ma se niuno dei componenti dell' ente è intellettivo, in tal caso il loro nesso in cui si forma l' ente non si può dire relazione, ma soltanto fondamento di quella relazione che risulta nell' intelletto quando questo scompone quel nesso e ravvisa come ciascuno è legato coll' altro (1). Convien accuratamente distinguere il fondamento della relazione dalla relazione stessa. Il fondamento può essere qualche cosa di reale; ma non è ancora l' abitudine stessa fino a tanto che un intelletto non considera quest' entità reale nel nesso ch' ella ha coll' altro termine. La piú intima delle unioni adunque è la categorica, perfetta nell' essere assoluto, imperfetta in quel modo che abbiamo detto nel limitato, e a quest' unione l' intelletto è sempre intrinseco; dopo la categorica la piú stretta unione è quella degli elementi che costituiscono un ente finito, e in questa unione talora l' intelletto è intrinseco, talora estrinseco, quasi uno straniero contemplatore: nel qual ultimo caso nei componenti dell' ente vi ha la materia ossia il fondamento della relazione ed abitudine, ma la relazione formale è posta dalla contemplazione dell' intelletto, e nell' ente. La terza maniera di unione si ravvisa nell' essere reale finito, ed è quella di azione e di passione. Per l' azione e la passione un ente non inabita totalmente nell' altro, ma entra nell' altro, non colla sua essenza, cioè col primo e totale suo atto, ma colla sua potenza, cioè, con un suo atto parziale. Rimane ad accennare la terza classe di abitudini relative che l' intendimento umano suole scorgere negli enti finiti; e abbiam detto esser quelle che nascono dal vario grado di conoscibilità che hanno le entità finite e dai diversi modi nei quali l' uomo le concepisce e le pensa. Queste si possono ancora suddividere in tre classi minori: 1) quelle che risultano dal diverso grado di conoscibilità; 2) quelle che risultano da un pensare puramente fattizio; 3) quelle che sembrano ovvero si credono risultare da un pensare erroneo ed assurdo. Tutte queste relazioni sono, almeno in parte, razionali. Da tutte le quali cose si scorge che volendo avere una suprema classificazione di tutte le abitudini relative, noi potremo dividerle in quattro grandi generi, ciascuno de' quali ammette molte suddivisioni. I Relazioni categoriche nell' essere assoluto ed infinito. II Relazioni categoriche partecipate nell' essere finito. III Relazioni dell' essere reale finito con se stesso. IV Relazioni mentali, ossia razionali, prodotte dai modi limitati di pensare dell' essere intelligente finito. A questa classe appartengono tutte le relazioni di relazioni, le quali non hanno fine, come non hanno fine gli atti possibili del pensare limitato. Vi hanno adunque tre maniere generiche o tre gradi di pensare: il pensare imperfetto , il dialettico trascendentale e l' assoluto . Noi abbiamo parlato del pensare imperfetto e del dialettico trascendentale; ci rimane ora a dire dell' assoluto. Il pensar comune è quello che s' arresta ai primi giudizi offerti alla spontaneità della mente dai vari sentimenti e principalmente dalle sensazioni esterne, come volgarmente si chiamano, i quali giudizi pongono quella stessa divisione dell' essere che il senso presenta, com' ella fosse assoluta. Su questi giudizi, mediante la riflessione, si edifica una logica ed una metafisica (e tale è quella di Aristotele eccetto qualche breve tratto dove s' innalza piú alto senza pure avvedersene), e insomma un sistema intiero di scienze. Il pensar dialettico trascendentale sopravviene a suo tempo, e convince il pensar comune di contraddizione, e quindi, spingendo il passo innanzi, tenta la via di abolire la contraddizione sgombrando cosí la strada al pensare assoluto. Quando poi dal pensare comune si cava l' edificio scientifico allora le antinomie dànno talora cosiffattamente nei piedi che non si può a meno di incastrarle nel sistema della scienza come altrettante obbiezioni. Ma gli uomini si affaticano a sciorre quelle antinomie, a rispondere a quelle obbiezioni collo stesso pensar comune che le ha nel seno; onde, o dànno risposte insufficienti di cui s' appagano, ovvero s' involgono in un raddossamento di obbiezioni sopra obbiezioni, di distinzioni sopra distinzioni, che rende la scienza un ginepraio. Questa è la ragione delle infinite sottigliezze della scolastica, le quali hanno finito collo stancare gli ingegni, e cosí la resero meno stimabile presso i dotti. Ma alto e arduo è l' investigare del pensare assoluto. In prima ogni pensare ha qualcosa di assoluto in se stesso; se no, non sarebbe pensare. Quest' è appunto quello che distingue il pensare dal sentire. Il sentire è un modo di essere relativo a chi sente: niente è d' assoluto se non il sentir di Dio, perché quello è il sentire dell' essere stesso. In che sta dunque l' essere assoluto? In che sta l' essere relativo? L' essere assoluto è l' essenza dell' essere: tutto ciò che si contiene in quell' essenza e si rimane essenza dell' essere, è assoluto. All' incontro il relativo è tutto ciò che non è l' essenza dell' essere, che non rimane piú tale essenza, a cui non compete piú tale denominazione. Da questa definizione dell' assoluto e del relativo si vede che il modo di essere relativo suppone un soggetto a cui sia relativo, un soggetto senziente o pensante, di maniera che il modo relativo dell' essere risulta dal sentimento o dal pensiero. All' incontro l' assoluto non involge nel suo concetto questa duplicità, perocché sotto questo nome non si concepisce che l' essere, l' essere come egli è. Il pensare assoluto è quando l' oggetto del pensiero è l' essenza dell' essere e tutto ciò che è in essa si pensa senza dividerla da essa. All' incontro il pensare è relativo quando il suo oggetto e termine è un' entità relativa, come sarebbe un sentimento limitato, considerato in se stesso: il che si dice anche l' esser fuori dell' essenza dell' essere, o esser da quest' essenza distinto. Dalle quali definizioni si scorge, che nel pensare vi ha sempre alcuna cosa dell' assoluto, perché niente si può pensare senza pensare insieme l' essenza dell' essere che in quanto è manifesta alla mente dicesi idea. Ma è da avvertirsi che nel pensare comune l' essenza dell' essere interviene come mezzo del pensare, piuttosto che come oggetto. Questa distinzione deve essere diligentemente considerata e chiarita. Diciamo adunque in primo luogo che v' ha un atto primo di pensare immanente, costitutivo della potenza degli atti secondi. A questo atto primo è oggetto unico e permanente l' essere ideale, l' essenza dell' essere manifesta. Quindi cotest' atto primo appartiene al pensare assoluto e non al relativo. Ed è questa la ragione perché di poi in ogni atto di pensare, anche relativo, si mescola il pensare assoluto e lo suppone innanzi a sé; innestandosi ogni atto secondo di pensare sul tronco dell' atto primo, il pensare relativo sull' assoluto. Questa è la ragione altresí per la quale in fondo ad ogni pensare giace una verità assoluta; la ragione per la quale gli scettici, cercando l' assoluto senza coglierlo, hanno il torto; la ragione perché la mente ha per norme de' suoi giudizi delle ragioni assolute (1); e finalmente la ragione perché l' essenza dell' essere, ossia l' idea dell' essere in universale, costituisca il vero criterio della certezza. Ma veniamo agli atti secondi del pensare: questi sono provocati dal sentimento, da un sentimento finito come quello dell' uomo, da sentimenti parziali di questo sentimento finito, come sono le sensazioni. Ora, fra gli atti secondi del pensare, quelli che precedono gli altri sono le percezioni, le quali hanno per oggetto gli enti sensibili: quindi questi atti di pensare si dicono relativi ed imperfetti perché hanno a loro materia delle entità relative. Vero è che interviene l' essere; ma, in quanto l' essere è universale, non vien se non come un precedente e come un mezzo per arrivare al particolare, né si pon mente a lui nella sua universalità, ma in quanto rimane limitato dal sentimento: onde non si pensa piú l' essere in se stesso, ma invece di lui rimane l' essere relativo a proprio termine del pensiero e dell' attenzione. Le percezioni adunque delle cose sensibili appartengono al pensare imperfetto e relativo, non all' assoluto; e tuttavia presuppongono un primo atto anteriore di pensare assoluto. Ora, posciaché la riflessione comune si fa sulle cose percepite, o certo con un continuo rapporto ad esse; quindi tutte le riflessioni comuni tengono della stessa loro materia primitiva alcuna imperfezione, e non possono giungere al pensare assoluto. Ma la riflessione analitica e l' astrazione aggiungono al pensare de' nuovi elementi d' imperfezione, mediante sempre nuove limitazioni apposte all' essere, ciascuna delle quali è una esclusione e quasi eliminazione della essenza dell' essere dinanzi al pensiero. Ma questa è la differenza tra il pensare ed il sentire, che il sentire non ha alcun bisogno dell' intuizione dell' essenza dell' essere, e però non ha niente in sé di assoluto; ma pensare non si può senza l' essenza dell' essere, e però è sempre qualche cosa di assoluto che forma la base di ogni pensiero, benché le percezioni e le riflessioni che ne conseguono tengono del relativo a cagione che non sono puro pensare, ma mistura di due atti congiunti di pensare e sentire (2). Sembra che quando si dice pensare assoluto si dica cosa semplice e non suscettibile di piú gradi, pigliandosi la parola assoluto , quanto un dire d' ogni parte perfetto. Ma non è questo il significato. Chiamiamo assoluto il pensare ogni qualvolta egli ha per oggetto l' essere nella sua propria semplicissima essenza. Ora questa essenza si fa presente alla mente umana in varŒ modi: ella rimane sempre dessa, ma non perciò è uguale la congiunzione di lei colla mente. Il che consuona con ciò che ragionammo del pensare attuale e virtuale. Quando l' oggetto del pensiero è l' essere stesso, allora la virtualità non è un difetto che sia nell' essere, ma sí nella mente. Questa virtualità dell' essere, come oggetto del conoscere umano (giacché in se stesso e come oggetto del conoscere divino non ha virtualità alcuna), è il mistero della finita intelligenza: è un fatto, e perché oscuro e misterioso non è meno un fatto. Quando noi parliamo di virtualità nella cognizione, non si creda che si parli di cognizione totalmente in potenza, la qual non sarebbe cognizione: parliamo di vera cognizione, avente un oggetto, abbracciante tutto l' essere, l' essenza dell' essere; ma egli è in quest' oggetto stesso, come oggetto non come essere, che trovasi la virtualità il che è quanto dire che quell' oggetto virtualmente contiene tutto, tutto l' essere. Ora i gradi di questa virtualità variano grandemente, ed è perciò che dicevamo anche il pensare assoluto avere diversi gradi. La prima comunicazione dell' essere essenziale alle creature non si fa che per via d' intelligenza. Or nell' intelligenza vi ha prima l' essere ideale che la informa; di poi si copula ad esso il reale onde nasce l' atto della percezione e gli altri atti a cui la percezione apre la via; finalmente si manifesta l' essere conosciuto come amabile e beante, che è quanto dire come essere morale. Ora, secondo quest' ordine delle tre forme dell' essere, si ravvisa anche nel pensare assoluto tre gradi, ad ognuno de' quali si scema la virtualità, e tuttavia non cessa del tutto. Il primo grado è quello della semplice intuizione dell' essere. L' oggetto dell' intuizione è virtualissimo di tutti, poiché non solo niente in esso si distingue idealmente, ma le stesse forme della realità e della moralità, non appaiono in esso attuali, ma si nascondono nella sua virtualità. E questo nascondersi vuol dir questo solo che, allora quando si giunge ad avere la percezione attuale del reale e del morale, vedesi che nell' ideale v' avea già il principio di queste due forme, e queste stavano in lui in modo simile a quello che la specie si sta nel genere. Il secondo grado del pensare assoluto è quando l' essere reale stesso è da noi conosciuto nella sua totalità in un modo distinto dall' ideale e tuttavia virtualmente. Che se noi aderiamo volontariamente all' essenza dell' essere, ci congiungiamo a lui moralmente, cioè attivamente per via di nostra volontà; questa unione in cui sta il sentimento morale dà materia al terzo grado del pensare assoluto, che anche qui può avere la sua virtualità e però ritenere dell' imperfetto. Le tre forme dell' essere adunque danno luogo a tre gradi del pensare assoluto. Ma questi gradi sono in pari tempo maniere distinte di pensare e categoricamente distinte, ciascuna delle quali ha i suoi gradi di virtualità, e però quelli d' imperfezione piú o meno. Del pensare assoluto che ha per termine l' ideale non accade far altre parole. Senza che, egli è cosí semplice, che non ammette altri gradi se non quelli della riflessione che vi si sopraggiunge, e che non accresce né diminuisce l' oggetto. Il pensare assoluto adunque, che ha per termine il reale, ha luogo, secondo la definizione, quando il reale che si pensa non lo si pensa come distinto dall' essenza dell' essere, ma come adunato in essa, come essenza dell' essere egli stesso. Questo può accadere in diverse maniere e con gradi diversi. Prima di tutto è da distinguere a questo proposito il pensare negativo dal pensare positivo. Perocché dicesi pensare negativo quando l' oggetto stesso non si percepisce sensibilmente e direttamente, ma si conosce per via di sue relazioni e differenze ch' egli ha da qualche altro oggetto percepito direttamente e sensibilmente. Il pensiero va negando dell' oggetto, a cui vuol pervenire, quella qualità ch' egli vede negli oggetti percepiti, e sa che l' oggetto di cui si tratta deve averne delle altre in luogo di esse, ma tuttavia non sa dir quali, e di queste qualità incognite conosce solo alcune condizioni ontologiche. E cosí quando la Critica trascendentale giunge a notare le antinomie del pensar comune, e perviene fino a conoscere che quelle antinomie nascono a cagione che il pensare che le produce si ferma nell' essere relativo, e intende che riducendo l' essere relativo all' assoluto quelle antinomie dispariscono: già con questo solo il pensare è pervenuto negativamente a rendersi assoluto, in quanto che è arrivato a vedere che l' essere assoluto non può fallire che ci sia. E qui giova osservare che anche nel comune delle intelligenze va quasi sott' acqua serpendo e lavorando un pensare assoluto. La cosa si spiega, tostoché si ponga mente a quello che abbiamo detto, che il primo atto dell' umana intelligenza appartiene al pensare assoluto, e quest' atto si mantiene sempre vivo, e accompagna e regge tutti gli altri atti. Né fa maraviglia che talora l' uomo ragioni senza aver coscienza del ragionamento che fa, perché va da sé, come vanno pure da sé tante altre potenze dell' uomo, e l' uomo non se ne può render conto se non vi riflette; e talora egli non vi riflette punto né poco. Il pensare assoluto che si fa, non per la primitiva intuizione o per la percezione dell' assoluto stesso, ma per via di ragionamento, è sintetico nel piú alto grado. Che cos' è la forza sintetica della ragione? Questa preziosa facoltà non consiste solamente in raccogliere o aver presenti molti fatti reali e circostanze, e molti dati del pensiero, ma consiste assai piú in saper unire questa pluralità, riducendola in uno quasi risultamento psicologico e ontologico di quei piú. Se ben si considera qual sia l' intima natura dello spirito quando sintesizza, si troverà che ella si riduce a pensare il particolare congiunto coll' universale o col tutto (1): il che far non potrebbe se alla percezione o considerazione del particolare la forza mentale s' alienasse dall' universale o dal tutto. Quegli ingegni che dalla percezione de' particolari rimangono quasi assorbiti e legati divengono inetti ad afferrare e stringere insieme l' universale coi particolari, e quindi i particolari fra loro, formandone unità; i quali tutt' al piú possono avere ingegno analitico, ma non sintetico. Quella forza adunque della mente di vedere i piú nell' uno, e quella inclinazione a non esser paga la mente de' particolari se non li vede raggiunti negli universali o in un cotale organismo (sia questo ontologico, logico o fisico), varia grandemente negli uomini e da questa varietà dipende che gli ingegni siano piú o meno sintetici e comprensivi. Or devesi qui osservare che l' universale è bensí necessario a formare quel pensiero che si dice sintetico, ma questo pensiero non è la semplice intuizione dell' universale, ma la congiunzione di particolari per via dell' universale e nell' universale. La ragione dunque di un problema, è come cappio di tutti i fili, la sintesi di essi. Or vi hanno delle menti che afferrano piú facilmente questa ragione. Quando un uomo di vaglia scrive o ragiona, gli vengono sul labbro o sulla penna filate e ordinate tutte le proposizioni del suo ragionamento, i lumi e gli amminicoli del discorso, cotalché l' uditore o il lettore è costretto a dire: « Questi ragiona bene! che connessione, che coerenza, che efficacia di prove! ». Ebbene, questo possente oratore e logico ragionatore, nel momento in cui incominciò a dire, aveva egli dinanzi al pensiero tutte quelle proposizioni bene concatenate? Di niuna di quelle aveva coscienza; ma, poiché gli uscirono fuori, convien dire che vi avesse in lui il pensiero fecondo ond' egli le trasse, come la filatrice il filo dal pennacchio. Ora quel pensiero che era in lui, doveva essere un pensiero sintetico, un pensiero fecondo di tutto il suo ragionare che aveva in seno, e pure quel pensiero rimaneva egli stesso inosservato ed occulto fino a tanto che il ragionatore non vi pose l' attenzione, che ne dedusse i lunghi suoi ragionari. Questo fatto dimostra due cose. La prima, che i pensieri della mente umana hanno due stati: l' uno d' involuzione, ed è sintetico; l' altro d' evoluzione, ed è analitico. La seconda, che il pensiero in istato d' involuzione sfugge facilmente alla coscienza, sfugge almeno dalla coscienza la sua fecondità, anche quand' egli è attualmente presente; laddove il pensiero analitico facilissimamente soggiace alla consapevolezza, se egli è attuale e presente, e non abituale come accade quando rimane nel deposito della memoria senza che ci si pensi. Or questo pensiero involutissimo e insieme attissimo a svolgersi, non è puramente l' intuizione dell' essere in universale, perché questa sola, benché pensiero involutissimo ed assoluto, non è atto a svolgersi, mancandole ancora l' elemento reale e quasi maschile che la fecondi. Oltre adunque l' essere ideale, per termine del pensiero assoluto, di cui parliamo, vi ha l' essere reale (la totalità dell' essere); ma questo concepito come un incognito di cui sono cognite piú o meno relazioni, e conseguentemente piú o meno qualità negative ed anche analogate (1). E poiché il pensiero assoluto, di cui parliamo, può risultare da piú o meno di queste relazioni, e da queste qualità relative ed attributi analogati; perciò il pensiero assoluto ha una gradazione, giacché forma una sintesi or piú or meno complessa di piú o di meno elementi risultanti: la qual gradazione appartiene sempre al pensare assoluto, perché abbraccia tutta l' essenza dell' essere nella sua realità, mancando tuttavia la percezione di essa, ma in suo luogo formando termine del pensiero l' incognito determinato dalle riflessioni dette. Questo pensiero assoluto è il fonte da cui proviene la Teosofia, la quale non è altro che quel pensiero stesso analizzato e dedotto in conclusioni, e tutte queste conclusioni sintesizzate e ridotte in quel pensiero. Perciò la Teosofia è la scienza che può aver anch' ella piú o meno di svolgimento, piú o meno di perfezione. E questo pensiero sommamente sintetico, difficilissimo a cogliersi dalla coscienza, tiene, rispetto al suo sviluppamento, la legge comune di tutti i pensieri sintetici. Il pensiero sintetico non ancora svolto sta nella mente come un' unità infeconda: tale sembra alla mente stessa. Ora egli accade che, se la mente si fa a contemplarlo fissamente per un tempo notabile senza adoperarvi intorno alcuna analisi, pare a lei di starsene per poco oziosa, e di meditare senza costrutto. E tuttavia questa meditazione, cosí unita ed asciutta, fortifica la mente; la quale poi in altro tempo incomincia e prosegue l' analisi di quel pensiero con grande facilità e ricchezza. Questa legge è comune ad ogni pensiero sintetico. Il pensare assoluto che ha un termine reale, se non eccede i confini della ragion naturale, non può esser altro che negativo. Di che la ragione è chiara: perché quello si dice pensare assoluto che termina nell' essere assoluto; ma l' assoluto reale non si percepisce dall' uomo entro i confini di sua natura. Per andare al di là, conviene che s' aiuti coll' ideale; e con quest' ala egli perviene a conoscere che deve esistere il reale assoluto, non percepisce lui stesso esistente. Che adunque a un soggetto finito come l' uomo sia dato a percepire il reale assoluto quest' è opera soprannaturale, poiché soprannaturale è il reale assoluto non avendo la natura che un modo di essere relativo. Questa comunicazione soprannaturale si fa in questa vita per due modi: per via di carattere e per via di grazia , secondo il favellare de' teologi; il primo de' quali si riferisce all' intelletto, il secondo alla volontà: nel primo caso si comunica l' essere assoluto come reale , nel secondo come morale . E quantunque questo argomento spetti all' Antropologia soprannaturale , tuttavia, egli era mestieri che qui s' additasse: cosí a fine di tenere distinto accuratamente ciò che è dell' ordine soprannaturale da ciò che è dell' ordine naturale; come altresí per la ragione che il pensare assoluto non si perfeziona che mediante l' ordine soprannaturale, solo in questo divenendo positivo. Onde manifestamente si vede come la creatura abbia bisogno del Creatore pel suo compimento, non che questo compimento appartenga alla natura o si possa dir naturale: che anzi è d' un' indole tutta soprannaturale e gratuita. Se dunque vogliamo tradurre nel linguaggio della filosofia quel carattere indelebile che giusta l' insegnamento di Cristo viene impresso nell' anima nella rigenerazione battesimale, diremo che è una percezione primitiva dell' assoluto reale principio dell' uomo soprannaturale la quale corrisponde all' intuizione dell' assoluto ideale principio dell' uomo naturale. Sono questi due pensieri assoluti: l' uno naturale avente per oggetto l' essere nella sua forma ideale; l' altro soprannaturale avente per oggetto l' essere assoluto nella sua forma reale. Questo nuovo pensiero assoluto è nell' uomo continuo, benché l' uomo non abbia piú coscienza di lui di quello che se l' abbia del natural suo pensiero assoluto l' intuizione dell' essere. Ma come quest' intuizione presiede alla produzione di tutti i ragionamenti naturali dell' uomo; cosí il pensiero assoluto proprio del cristiano che ei trasse dall' impressione della verità reale si manifesta come un senso o facoltà di sentire, giudicare, e ragionare rettamente di ciò che è soprannaturale e divino; ed è quella luce a cui camminano non pure gl' individui, ma ancora i popoli battezzati, giusta la profezia: ambulabant gentes in lumine tuo (1); benché anche questa luce sia il piú senza che n' abbia l' uomo coscienza (2). La ragione poi, per la quale di questa percezione soprannaturale non v' ha coscienza da principio, si è quella stessa per la quale di niun atto dello spirito s' ha coscienza senza una riflessione, la quale per lo piú non è contemporanea all' atto, ma a lui succede. Ma perché la coscienza della perfezione soprannaturale neppur di poi vi si aggiunge, o vi si aggiunge almeno molto difficilmente? Primieramente perché ella è immanente, ha forma d' abito: e gli atti abituali non sono stimolo della facoltà riflessiva. In secondo luogo perché l' attività divina, che in tali percezioni a noi si comunica, è quella attività creatrice che finisce unicamente in noi, e però ella non ha altro effetto ed espressione che noi stessi; e poiché è tanto difficile riflettere su di noi stessi cadendo la riflessione sugli atti nostri, e ancor piú difficile è distinguere in noi, che abbiamo natura sí semplice, ciò che è naturale da ciò che è soprannaturale, due elementi che fusi insieme costituiscono l' uomo cristiano; perciò si mostra cotanta la difficoltà che ha l' uomo di formarsi la cognizione riflessa dell' elemento soprannaturale che è in lui. Vi ha poi questa notabile differenza fra il ragionare che scaturisce da quel pensiero assoluto che s' ha per natura e il ragionare che scaturisce dal pensare assoluto cristiano: che il primo, pigliando la sua materia dal reale finito, cessa d' essere un pensare assoluto, e se rimane assoluto procede da un pensiero negativo dell' assoluto reale; all' incontro il ragionare che logicamente scaturisce dal pensare assoluto cristiano, è sempre assoluto egli stesso, pigliando la sua materia dall' assoluto reale positivamente pensato. Conviene anche avvertire che il pensiero assoluto cristiano tiene la sopraindicata legge del pensar sintetico, per la quale la mente, solo col tenersi raccolta a meditare il reale assoluto percepito, benché ancora non l' analizzi e sembri sterile quella sua immota contemplazione, si fortifica divenendo piú adatta a dedurre poi particolari conclusioni e ragionamenti in copia. Questo anco si dimostra dal fatto giornaliero, che, coltivandosi il sentimento generale della pietà cristiana, anche senza alcuna analisi e passaggio a proposizioni determinate, come accade nel popolo assistente alla liturgia in lingua che non intende: lo spirito intelligente ne rimane grandemente avvigorito, e si trova assai piú pronto e ferace al bisogno di documenti e ragionamenti speciali nell' ordine morale religioso e meno incerto di ciò che è da fare nei diversi casi della vita per conservare una cristiana condotta. Questa facilità e sicurezza di giudizio pratico e speculativo in persone rozze ed inerudite, ma pie, non si sa dire talora onde venga; ma il vero si è che viene dalla forza che ha preso in esse quel primo pensiero assoluto, che è la base occulta della vita cristiana e la luce prima soprannaturale onde pendono tutti i ragionari della mente. Vi è anco un pensiero assoluto morale: questo è quello che occultamente domina tutta la vita dell' uomo quando esso si rende pratico. Questo pensiero morale che presiede alla moralità di fatto di ciascun uomo, è anch' esso per lo piú occulto alla coscienza dell' uomo stesso, che alla luce di quello pensa ed opera senza fermare punto né poco la sua riflessione in quella pura luce. Questo pensiero morale assoluto non è semplicemente l' idea astratta della moralità d' un bene e d' un male morale; ma è un pensiero sintetico che ha del reale e del pratico; tanto sintetico che pare all' uomo piú che altro un sentimento e può ancora considerarsi come un atto abituale razionale della volontà. Infatti si può dire che sia ciò che l' uomo vuole nel piú intimo dell' animo suo, ciò che l' uomo vuole quando crede di operare secondo coscienza in tutti gli atti che egli fa, ciò per cui elegge e vuole piuttosto questi atti che quelli; il qual ciò è uno e identico in tutti gli atti. Il pensiero adunque sintetico morale che giace in fondo a ciascun uomo e ne determina l' operar morale, varia in piú modi; ed è perfetto solo quand' è assoluto, cioè quando contiene con piú o meno di virtualità tutto ciò che è veramente bene morale, senza esclusione di cosa alcuna. Tutti quelli, il cui pensiero sintetico morale principio del loro operare è assoluto, operano bene; ma quelli, il cui pensiero intimo fondamentale nell' ordine morale non è assoluto, hanno una falsa probità, non vogliono veramente ciò che è morale, benché osservino gli offici morali parzialmente. E` da notarsi che il pensiero morale rettore della vita può essere assoluto con piú o meno di virtualità. Ma oltracciò il pensiero sintetico7morale, che trovasi in fondo dell' animo, può essere assoluto e non essere tuttavia puro , in quanto che l' assoluto può andar vestito d' una forma speciale che non gli toglie l' essere assoluto, ma gli aggiunge qualche cosa che senza scemare la perfezione del primo pensiero gl' impedisce di svolgersi da tutti i lati, limitandolo ad un cotal modo determinato di svolgimento. Da questo procede principalmente la diversa fisionomia per cosí dire che ha la pratica della virtú negli uomini virtuosi. Il pensare assoluto, di cui parliamo, non è semplicemente quello: « evita il male e fa il bene »poiché è ancora astratto e negativo non determinando punto che cosa sia il male morale che si dee cansare e il ben morale che si dee fare, ma supponendogli conosciuti. All' incontro la prima vista del bene e del male che cade in un animo, questa vista interiore, immediata, colla quale l' uomo conosce direttamente che cosa sia il ben morale, vista che subito si cangia in un sentimento: questo è il pensiero assoluto morale di cui parliamo. Questo pensiero morale assoluto, il piú intimo di tutti i pensieri morali, sfuggente per lo piú alla coscienza, e costituente il carattere morale dell' uomo, spiega come si manifestino talora nelle persone piú rozze gli atti della piú eroica o delicata virtú; e come il senso morale, che distingue colla maggior giustezza le morali convenienze, sia sovente piú squisito in quelli che hanno minor sapere e coltura: è anteriore alla scienza che non può altro che svilupparlo. Or come poi rispetto all' essere reale abbiamo distinto un pensiero assoluto naturale e un pensiero assoluto soprannaturale: lo stesso dobbiamo dire rispetto all' essere morale. E il pensiero assoluto naturale è del pari negativo, mancando nell' ordine della natura quel bene ultimo assoluto che viene sempre dal pensiero morale supposto: onde nacque il gran vuoto alla morale stoica, come abbiamo altre volte dimostrato (1). L' essere assoluto è il bene assoluto. E, posciaché l' essere assoluto è dato all' uomo positivamente solo per quell' opera soprannaturale che si compie nel battesimo; quindi nel cristiano è infuso un nuovo principio morale, un nuovo pensiero assoluto positivo ed efficace, il quale dà all' uomo una nuova vita e una nuova potenza morale; ed è questo secreto principio che rimutò il mondo pagano e che rimuta interamente di male in bene quelle nazioni dov' entra il cristianesimo, vi emenda i costumi, vi fa pullulare azioni eroiche in ogni virtú, le incivilisce e le incammina in sulla via del progresso. Noi abbiamo veduto che il pensare assoluto viene costituito dall' assolutità dell' oggetto; e che ogni pensare imperfetto e relativo viene dal soggetto, il quale termina l' atto del suo pensare in ciò che non è essere assoluto. E tuttavia non è da credere che il pensare riesca imperfetto e relativo per l' unica ragione ch' egli ha degli oggetti finiti; ma la ragione di tal pensare è che si ferma unicamente in questi, non dando attenzione all' infinito, alla relazione che hanno con questo. Ma, che la mente non badi a questo nesso del suo pensare ordinario, dee procedere da qualche ragione naturale, non da difetto accidentale dell' individuo; perocché si vede che cosí fanno tutti gli uomini colle loro riflessioni e prime percezioni. Or questa causa noi l' abbiamo già indicata quando abbiamo detto che rimane occulto all' uomo il nesso che congiunge l' universo con Dio, l' essere relativo coll' assoluto. Ma colla fatica della mente si giunge alla dialettica trascendentale, la quale scorge a vedere la necessità di quel nesso e a conoscerlo negativamente. Vi è dunque un pensare assoluto primitivo naturale d' intuizione; vi ha un pensare assoluto per una cotal sintesi che si fa nell' anima spontanea e che vi dimora abituale (oltre il pensare assoluto infuso che è una via di percezione); finalmente vi ha un pensare assoluto per via di attuale riflessione speculativo scientifico. Quest' ultimo solo fa sí che l' uomo si chiami appagato del suo sapere. Dei due primi, fin che stanno soli, l' uomo non giudica cosa alcuna, né se ne loda, né se n' attrista, perché non se n' è reso consapevole; ma se v' aggiunge la riflessione, a prima giunta non li trova, o gli pare di non conoscer nulla di essi, e in ogni caso non se ne chiama soddisfatto. Appunto perché le due prime maniere di pensare assoluto mancano di questi due caratteri necessari alla soddisfazione dell' animo umano: 1) l' essere, il conoscere positivo; 2) l' essere, il conoscer conscio. Al pensare assoluto dell' intuizione innata mancano entrambi questi caratteri, poiché 1) l' oggetto è puramente ideale; 2) egli è occulto, non riflesso, senza espressione di sorta. Ma perché l' uomo tanto cupidamente desidera che l' oggetto del suo pensare sia reale, positivo, attuale? Ciò che soddisfa il soggetto deve esser cosa del soggetto: perciò conviene che la notizia il soggetto la faccia sua propria acciocché lo soddisfi. Ma appropriarsela, è quanto unirla a sé, a sé riferirla, altro non essendo la proprietà che l' unione d' una cosa esterna al soggetto per via di sentimento razionale (1). Ora non può far questo, fintanto che null' altro conosce che il solo essere ideale. Egli vede l' idea, non la possiede ancora. Il soggetto dell' intuizione è ricevente , non ancora agente ; e dove non vi ha azione propria, esso non può trovare un diletto che gli soddisfi, venendo al soggetto la soddisfazione dalla propria attività, o certo essendo a questa condizionata. Questa mancanza di attività soggettiva nell' intuizione è ancor meno che il non aver coscienza, poiché gli atti stessi dell' attività soggettiva possono rimanere senza coscienza od acquistarla. Or dunque, che l' essere ideale vuoto d' ogni reale non soddisfi all' umano intendimento, apparisce per due cagioni. La prima, perché questa cognizione si presenta come principio di un' altra cognizione che non si ha, ed a questa si richiama e riferisce; onde, tant' è lungi che possa appagare, che anzi essa è l' origine dello stesso desiderio che l' uomo ha di conoscere. La seconda, perché l' essere ideale non ha espressione alcuna, né alcun segno reale che sia stimolo all' attenzione, onde si rimane del tutto inosservato non producendo nell' anima altro sentimento distinto da quello che ha l' anima stessa nella sua condizione d' intellettiva. Passiamo a considerare come non soddisfaccia alla brama di conoscere, che ha l' uomo, il pensare assoluto negativo che riguarda il reale lasciato solo senza le sue deduzioni. La ragione di ciò non è che egli sia al tutto privo di reale, come accade dell' idea dell' essere; ma il reale che ne forma il termine non conoscendosi che per via di esclusione e di negazione, s' intende esser cosa esistente sí, ma incognita: onde eccita la voglia di conoscerla, anziché acquietarla. Ma quello che piú mi preme di osservare, si è quell' insufficienza all' appagamento che il pensare assoluto del reale ha in comune con molti altri casi di pensare sintetico. Il carattere di questo pensare è quello di esser privo di ogni espressione, di ogni segno sensibile che attiri l' attenzione. Questo pensare occulto, privo di espressione, perfettamente sintetico, ha luogo soprattutto nel pensare assoluto positivo del reale, costituente, come dicevamo, l' ordine soprannaturale. Essendo positivo questo pensare, esso ha per materia un sentimento; o piuttosto, il reale nell' idea dell' essere non si vede solo, si sente. Che cosa aggiunga il sentimento alla pura intuizione non si può insegnare a parole, convenendo rimettersi all' esperienza. Nondimeno, poiché il sentimento varia secondo che nasce dall' azione d' un essere piuttosto che d' un altro, per esprimere questa verità, noi abbiamo inventata una parola, non avendone trovata alcuna che ciò significasse nelle lingue: l' abbiamo chiamata, cioè, il tocco del sentimento , onde quel proprio sentimento dell' essere assoluto noi possiamo dirlo il tocco dell' essere . Ed ora possiamo tornare sul problema dell' Ontologia. Noi abbiamo veduto che il pensare assoluto ha, quasi direbbesi, tre faccie. Quella che riguarda l' essere sotto la forma reale; quella che riguarda l' essere sotto la forma ideale; quella che riguarda l' essere sotto la forma morale. Anche il problema ontologico si conforma a questi tre aspetti. Egli nasce dalla relazione tra l' essere finito, quale si conosce da noi per via di percezione che appartiene al pensar relativo, e l' essere infinito, quale si conosce da noi coll' intuizione ingenita che appartiene al pensar assoluto. Queste due maniere di pensare, la percezione e l' intuizione dell' essere, raffrontate fra loro, dànno l' antinomia ontologica, poiché si trova di piú nel finito, quale sta nella percezione, che nell' infinito, quale sta nell' idea dell' essere. « Come è egli possibile che nel finito sia piú che nell' infinito? che nell' infinito ideale non si trovi la ragione, la spiegazione, la causa del finito reale? ». Non iscade allora di trono la ragione, non perde ogni autorità? Cessa cosí d' essere vero che l' intelligenza presieda a tutte le cose di necessità ontologica. Non solo ritorna la confusione del caso, ma l' essere stesso ha perduto l' interno suo ordine, che risulta dall' essenziale rapporto fra la sua realità e la sua idealità: e l' essere senza ordine non si concepisce piú, è annichilato, rimane il nulla. Cosí il problema ontologico si riduce alla conciliazione fra il pensare relativo e l' assoluto, l' assoluto, dico, spettante alla categoria ideale. Ma la triplice faccia del problema apparisce allorquando si considerano i diversi modi del pensare relativo, confrontando ciascun de' modi di essi coll' assoluto. Perocché il pensare relativo: 1) talora termina colla sua attenzione nel reale, come accade nella percezione, ecc.; 2) talora termina colla sua attenzione nell' idea, come accade nell' universalizzazione, ecc.; 3) talora termina colla sua attenzione nel morale, come quando sente o pronuncia l' obbligazione, la bontà di una azione, ecc.. Ora se ciò in cui bada il pensiero è un ente finito reale, il problema ontologico si manifesta sotto quella forma che abbiamo espressa, e dimanda: « Come mai l' idea della cosa ne mostri la possibilità senza dare alcuna ragione della sussistenza? ». Il che si risolve in questa antinomia: 1) Il reale finito, l' universo, deve avere una ragione necessaria che ne determini la sussistenza. 2) Il reale finito, l' universo, può essere e non essere, e però non ha ragione che spieghi perché sussista, piuttosto del contrario. Ma se il pensiero si ferma nell' idea della specie e de' generi, allora la difficoltà prende un' altra forma: « Queste essenze sono reali? sono ne' reali, sono fuori de' reali? ». Di che l' antinomia: « Sono ne' reali, poiché di essi si predicano né si potrebbero di essi predicare se ad essi non appartenessero: - Non sono ne' reali, poiché essi sono comuni, e ogni reale è particolare: reale e comune si contraddicono ». Finalmente se il pensiero si ferma nell' essere morale, lo stesso problema acquista una terza forma: è l' antinomia morale che dimanda una conciliazione. Le due proposizioni opposte formanti cotesta antinomia sono le seguenti: 1) « Il soggetto non può tendere che al bene suo proprio, perché il bene, se non è proprio del soggetto, non è per lui bene; e se non è bene, non può tendervi ». 2) « Il soggetto, lungi dal dover cercare il proprio bene, anzi deve unicamente porre ogni suo rispetto ed affetto nell' oggetto, e con piena annegazione di se stesso riconoscere praticamente quell' essere secondo ciò che è oggettivamente ». Trattasi sempre di sciogliere un' antinomia che presenta il pensare relativo, sia nell' ordine reale, sia nell' ordine ideale, sia nell' ordine morale. Questa antinomia non si può conciliare che col pensare assoluto: senza di questo, o rimane insoluta, o di piú conduce gli uomini ai piú mostruosi errori. Ora le tre antinomie categoriche, che esprimono il problema ontologico, appartengono al pensare critico, e ciascuna mette il pensare relativo in contraddizione con se stesso, o col pensare assoluto proposto dubbiosamente. Ma nello stesso pensare assoluto si trova la conciliazione delle antinomie, purché tal pensare a trovarla si applichi. Cosí, per rispetto alla prima antinomia, la ragione perché il mondo sussista, non si trova è vero nell' idea del mondo, ma piú la si rinviene nelle profondità dell' essere morale: è una ragione deontologica, la quale non induce necessità fisica, ma deontologica soltanto. Or questa ragione è sufficiente a determinare l' azione del primo essere, come quello che è perfettissimo. La soluzione della seconda antinomia si trova pure facendo uso del pensare assoluto semplicemente che si può dire assolutamente assoluto, e consiste nel concepire l' essere come uno nelle tre categorie. Se dunque si tratta di spiegare come le idee specifiche e generiche sieno da una parte eterne ed affatto distinte, dall' altra molte; basterà riconoscere che l' elemento eterno che hanno le idee si riduce ad uno, cioè a quello dell' essere, onde tutte quelle che comunemente si dicono idee specifiche e generiche sono propriamente concetti di un' idea sola, dell' idea dell' essere; e cosí col pensare assoluto categorico rimane sciolta questa antinomia. Ma se l' antinomia prende un' altra forma, nella quale l' abbiamo esposta di sopra, ponendo da una parte che le essenze debbono essere nei reali di cui si predicano, e dall' altra che non possano essere nei reali; allora convien ricorrere, per uscirne, al pensare assolutamente assoluto, cioè a quello che apprende l' unità dell' essere nella trinità categorica. Anche l' antinomia morale si scioglie con quel pensare assoluto che ha per oggetto la relazione fra l' essere ideale ed oggettivo e l' essere reale e soggettivo. La qual relazione è questa, che l' essere soggettivo si assolve, perfeziona e beatifica coll' aderire all' oggettivo, non ritornando a se stesso se non in quanto nell' oggetto si ritrova. All' oggetto appartiene l' assolutità dell' essere, al soggetto la relatività ; ma la relatività si assolutizza quando finisce la sua azione nell' assolutità. Questa intrinseca costituzione dell' essere spiega come la morale non possa altrove consistere che nell' adesione del soggetto all' oggetto. Colla quale adesione il soggetto pare che operi in opposizione alla propria natura. Ma ultimamente ritrova se stesso nell' oggetto per amore del quale s' era perduto, e si trova felice: la sua esistenza, se non era assoluta, ha cosí partecipato dell' assoluto. Senza di ciò il soggetto finito mancherebbe della sua piena esistenza ontologica; e la necessità sentita di questa esistenza, acciocché sia completo essere, è la forza veramente ontologica dell' obbligazione. In pari tempo dalle stesse nozioni apparisce che l' attività morale va direttamente nell' essere , e però è universale come l' essere: di maniera che se il segno ultimo a cui tende si restringesse, e da assoluto com' è, l' essere diventasse relativo, non ci sarebbe piú nulla di morale. E questa è la regola a distinguere dalle vere virtú que' falsi concetti che ripongono la virtú in qualche relativo, e non l' estendono a tutto l' essere. Il pensare assoluto, fu già notato, altro è cosí semplice che non mostra nel suo seno distinzione alcuna, né parti, né organi: tale è l' intuizione dell' essere, tale quel pensar sintetico assoluto, occulto nell' anima, che abbraccia tutto il reale, e niente di determinato in esso, sia che spetti all' ordine naturale e negativo, o all' ordine soprannaturale e positivo. Altro è moltiplice, ed è quando si riferisce lo stesso pensare relativo all' assoluto, mettendo accordo tra essi: nel qual fatto il pensare relativo si pensa in un modo assoluto. In questa seconda maniera di pensare assoluto vi è dunque pluralità. Pluralità di termini, di elementi, d' oggetti; e pluralità di modi di conoscere. La pluralità dei modi di conoscere moltiplica gli elementi e gli oggetti; è quella che somministra la materia abbondevole al pensare. E nel vero, la percezione, l' universalizzazione, l' astrazione, la sintesizzazione, sono altrettanti modi di conoscere che producono gli elementi del ragionamento. Dove è da notarsi che la sintesizzazione non è ancora la sintesi assoluta, ma quella che si ferma per cosí dire a mezzo la via. Tale sintesizzazione comincia dal riportare il sentito all' idea dell' essere, che è la sintesi primitiva, o la percezione: dalla quale, se coll' universalizzazione si toglie via la persuasione della sussistenza, rimangono le idee specifiche piene, donde l' astrazione cava i cosí detti astratti. Ma lo spirito, seguitando a sintesizzare, riferisce i percepiti, gli universali e gli astratti all' idea dell' essere, e per essa viene a conoscere le relazioni, e i vincoli attivi e passivi che hanno fra essi. Atteso poi l' esperienza del mancare talora i conosciuti allo spirito, e del loro ripristinarsi e del mancar di nuovo (il che avviene per essere il pensiero umano contingente), si vengono formando le idee del nulla assoluto e relativo, quella delle negazioni. Tali sono gli elementi del ragionamento, i quali appartengono a diversi modi del pensare. Or tutti questi elementi, benché singolarmente presi appartengono al pensare relativo, tuttavia diventano, quasi direbbesi organi dell' assoluto allorquando s' innestano in questo, pensando la relazione che a questo tengono. Ed ora qui, alla fine, siamo in agio di toccare alcune questioni di logica trascendentale, intorno alle quali molto in Germania si fu assottigliato. La prima è, se il sapere umano si volge in circolo, di maniera che dopo le ricerche si torni a quello che si sapeva a principio. Questa questione, o riguarda il sapere, o la certezza del sapere. Rispetto al sapere, se si considera che l' idea dell' essere onde parte la mente contiene virtualmente ogni cosa, si può ben dire che vi abbia negli umani ragionari una specie di circolo, ma solo intendendo cosí la cosa, che nella fine si sa in un modo quello che a principio si sapeva in un altro modo: alla fine lo si sa attualmente, quando al principio lo si sapeva solo virtualmente; alla fine si acquista anche la coscienza di ciò che si sa, la quale al principio non si avea. Onde il sapere assoluto si trova ai due estremi del circolo. Al primo estremo è intuitivo, naturale; al secondo estremo è speculativo, scientifico. Che se trattasi della certezza, fu dimandato se la mente umana debba cominciare dal porre ciò che sa come una mera ipotesi, finendo poi il suo cammino col trovare quell' ipotesi convertita in certezza. Or quest' è vero in parte, non in tutto. Se si parla dell' andamento naturale e spontaneo della mente umana, essa incomincia dalla certezza e va sicura fino che urta nelle antinomie del pensar relativo. Allora nasce dubbio, e, verificata la contraddizione, un periodo di scetticismo nel quale non può riposare; indi il desiderio di uscirne, poi la speranza ai primi albori del pensare assoluto che ritorna a farsi vedere alla mente: il quale diventa pienamente luminoso, concilia le antinomie e restituisce alla mente il riposo. Il quale cammino, se è l' ordinario della mente, non è però cammino dell' animo, che può tenere la mente in briglia coll' autorità della ragione morale e non lasciarla mai perduta nel dubbio. Ma se si vuol parlare non di tutto il cammino che fa la mente svolgendosi, ma del scientifico solamente che è parte del tutto: in tal caso egli è vero che le prime cose, si possono dimandare siccome ipotesi, le quali ricevono poi, da quanto consèguita, il lume dell' evidenza. E cosí noi pure facemmo, cercando il fondamento dell' umana certezza. Supponemmo come un fatto il pensiero, benché non giustificato ancora, non purgato dal dubbio scettico che sia illusione, e nel pensiero trovammo l' essere; e nell' essere la verità stessa, l' evidenza innegabile, dalla quale partendo fu dimostrata la certezza de' fatti dell' esistenza umana, dell' umano pensiero; e come questo, fin che ha per guida la luce dell' essere, non può illudere o mentire (1). La seconda questione si è: « onde incominci la scienza ». E` simile alla precedente, involgendo questa difficoltà: « Se io comincio dire o pensare qualche cosa, e m' occupo a dimostrare questo qualche cosa o a accennarlo almeno come evidente, il pensiero che vi adopero è adoperato gratuitamente, non essendo provato ch' io il possa adoperare o che mi dica il vero, ond' egli è fuori dell' oggetto della scienza ». Come trovar dunque un cominciamento che non lascia fuori nulla, nulla supponga arbitrariamente, non dipenda da cosa che provata non sia, o almeno da cosa che rimane fuori dalla scienza? Di questo labirinto si esce nel modo accennato, cioè: 1) la scienza deve cominciare dal considerare appunto quel pensiero che è l' istromento di lei, e porlo quale ipotesi o postulato sino a tanto che l' osservazione non trovi nel pensiero l' idea dell' essere; 2) trovata questa base fondamentale, tutto l' edificio è consolidato, poiché l' essere porta quasi direi scritto nella sua fronte il suo titolo: pure contemplandolo si vede che non può non essere: anzi egli è la verità che toglie via tutte le illusioni. A questa questione è affine l' altra, che dimanda: « Se si possa definire la prima scienza », il che dall' Hegel si nega. La difficoltà e la soluzione della difficoltà somiglia alla precedente. Diamo che si definisca. Ora, questa scienza definita non sarà la prima: perché non può essere la definizione stessa. Se il definito non è la definizione stessa, dunque la definizione è ciò di cui la definizione si compone. Ciò di cui la definizione si compone, parole, concetti, ecc., nell' ordine del sapere è anteriore al definito: e però la scienza definita non è la prima cosa che si sappia; la prima scienza dunque non si può definire. Ma siffatta difficoltà non è insolubile, se non supponendo arbitrariamente e falsamente coll' Hegel che tutto si riduca alla categoria della scienza. Infatti, posto che sia vero che la scienza dee assorbire ogni cosa, non si può piú definire il suo principio: perocché in qual si voglia modo che si definisca, egli suppone sempre qualche cosa d' anteriore sfuggente alla categoria della scienza. Infatti, il pensiero, il puro pensiero, non è ancora scienza, ma via alla scienza. Scienza non può essere se non l' oggetto del pensiero. Rimane adunque il pensiero come una realità anteriore alla scienza che non si lascia assorbire dalla scienza. Vero è che il pensiero può pensare se stesso: ma questa proposizione suppone che il pensiero in quanto è pensante non sia al modo stesso del pensiero in quanto è pensato, e che tuttavia il pensiero pensante e pensato sia uno. Ma scienza non è il pensiero se non in quanto è pensato. Laonde, quand' anche si ponesse la definizione cosí: « la prima scienza è il pensiero pensato », questa definizione lascia fuori come un antecedente il pensiero pensante, il pensiero della definizione medesima. In somma l' atto, che è quanto dire la realità, è necessariamente anteriore all' oggetto e all' oggettivo, che è quanto dire alla idealità. Si dirà: Se voi cominciate la scienza, lasciando che vi scappi quasi fuor sopra quella un qualche cosa, cioè il reale; questo reale voi dunque lo accettate come uno sconosciuto refrattario interamente al pensiero. - Rispondo che se la scienza umana non raggiunge col suo primo passo questo, ben dimostra la limitazione dell' umano intendimento; ma non è però, che ciò che resta fuori dal primo pensiero, e che è condizione del pensiero stesso non pensato dall' uomo, non venga raggiunto di poi colla riflessione; e se non fosse raggiunto noi pur ora non ne potremmo parlare e dire che egli sfugge alla definizione della scienza prima. Dallo sfuggirci cosí, altra conseguenza non viene se non la distinzione tra la scienza considerata in se stessa nella somma sua perfezione e la scienza limitata dell' uomo. S' intende assai bene che la scienza considerata in se stessa e nella somma sua perfezione dovrebbe esser coetanea ed adeguata a tutto l' essere; anzi non dovrebbe avere che un atto abbracciante tutta la realità, non escluso se stessa; e quest' atto dovrebbe essere la stessa essenza del soggetto conoscitivo. Ma quest' ideale del sapere, che s' avvera in Dio, non s' avvera nell' uomo, al quale nondimeno è dato conoscere in qualche maniera ciò che il proprio essere ha di limitato. La limitazione di esso è pur questa, che sia successivo e abbia bisogno di definizioni e divisioni, ecc., che incominci e non sia stato sempre, che sia contingente e possa cessare, e che in quanto è sapere scientifico sia un atto secondo, il quale suppone innanzi di sé la realità del soggetto conoscente, e la realità dell' atto anteriore in ordine logico a' suoi oggetti che costituiscono la scienza. Poste le quali cose, quando si cerca la definizione della prima scienza deve intendersi di quella che è prima per l' uomo, giacché in Dio non vi è scienza prima né seconda, e la sola espressione di scienza prima involge il concetto di una scienza limitata. Or dovendosi questa e non altra definire, basterà che ciò che si definisce sia primo nell' ordine del sapere, benché non sia primo negli altri ordini categorici, cioè nell' ordine reale e morale. E però, quando si dirà che la scienza dell' essere ideale è la prima, non si andrà lontano dalla giusta definizione, benché questa definizione sia preceduta da un pensiero, che è realità, ma non scienza. All' incontro, la scienza della logica hegeliana, posta da Hegel per la prima, è proscritta dallo stesso Hegel allorquando egli dichiara che non la si può definire, cessando manifestamente d' essere una scienza ciò che non si può definire, ed apparendo contraddittorio che la scienza sia nello stesso tempo una cieca indefinibile realità. La legge ontologica del sintesismo dichiara che « l' essere ha un cotale organismo ontologico, che la mente divellando un organo dall' intero organismo ne ha un tal ente che, se si prende come ente completo, nasconde in sé un assurdo, del quale assurdo tostoché la mente s' accorga, conchiude che quell' organo divelto non può stare cosí solo, è nulla, e neppure si può pensare quando vi abbia vista dentro la contraddizione, ma si pensa fino a tanto che questa vi giace nascosta in istato, come abbiamo altrove detto, virtuale »(1). Dalla quale definizione si vede, che la mente fino ad un certo segno può sciogliere il sintesismo dell' essere, pensando un organo di lui separato dal tutto; ma ciò le avviene solo perché ella dapprima non s' accorge che l' organo cosí separato porta in seno una ripugnanza; e quivi è appunto l' origine di quel pensare che abbiamo chiamato relativo , in opposizione all' assoluto che non dismembra l' organismo ontologico. Or le due maniere di pensare assoluto e relativo, le quali si distinguono pe' loro oggetti, non si devono e non si possono giammai confondere insieme. Molto meno si deve confondere insieme l' essere assoluto e l' essere relativo quasicché questo si potesse ridurre a quello come parte al tutto. L' assoluto e il relativo si oppongono ed escludono per siffatto modo, che mai non si possono congiungere in uno, e restano sempre due; perocché l' essenza stessa del relativo importa che non sia assoluto. E questa relazione fra l' essere relativo e l' assoluto, dove sta veramente il nodo gordiano della Teosofia, è cosí nuova, che si scioglie in due proposizioni, le quali sembrano contraddittorie e non sono. Perocché si può sostenere, non aversi nulla di cosí vicino e legato, come sono vicini e legati l' essere assoluto e il relativo; e si può ugualmente sostenere, niuna cosa essere piú lontana e aliena da un' altra, quanto uno di quei due esseri dall' altro. La prima di queste due proposizioni è vera se si guarda all' origine. Perocché il relativo viene dall' assoluto; ma non si dee credere che sia formato dalla sua materia, che anzi l' assoluto non ha materia; neppure si deve credere che sia una medesima sostanza con lui, perocché l' assoluto non è sostanza, ma puro essere; onde il relativo comincia ad essere d' un tratto, mentre prima non era, per virtú dell' assoluto. Nello stesso tempo la natura dell' essere relativo e la natura dell' essere assoluto sono cosí fra loro contrarie, che nulla v' è nell' uno che sia identico a ciò che è nell' altro, e però sono ancora piú che categoricamente distinti ; infinitamente piú che da sostanza a sostanza: trattasi di una differenza di essere, che giustamente si può denominare differenza ontologica . Per intendere come stia questa cosa, conviene por mente, che l' essere si dice relativo in quanto esprime ciò che si riferisce, ciò che è ad un principio soggettivo. Questo principio soggettivo, e ciò che è a lui, è l' essere relativo (reale, non l' essere relativo ideale o razionale) (2). E chi terrà ferma tale definizione dell' essere relativo, né manco troverà difficile a rispondere s' altri chiedesse: come non sia cosa assurda che l' essere, il quale è pel concetto suo semplicissimo, si raddoppi per modo che v' abbia un essere assoluto e un essere relativo. Perocché: l' essere assoluto è uno e comprende ogni entità assoluta; ma tant' è lungi che comprenda la relativa come relativa, che se la comprendesse sarebbe difettoso e cesserebbe d' essere assoluto. Dove è da osservarsi che l' essere relativo non può concepirsi che come relativo. Né pregiudica alla dignità dell' assoluto, che fuori di lui v' abbia il relativo; appunto perché è un' esistenza relativa e non assoluta, ed è dipendente dall' assoluto, come da causa. Or il tener ben ferme queste relazioni fra l' essere assoluto ed il relativo, è la principale avvertenza che dee avere il teosofo. Si farà qui ancora un' altra obbiezione: se il relativo è anch' egli essere ed essere è pure l' assoluto, vi ha qualche cosa di comune fra l' uno e l' altro, e questa è l' essenza dell' essere. Tanto l' assoluto dunque, quanto il relativo partecipa della stessa essenza dell' essere, non sono dessa: vi hanno dunque due esseri, e di piú l' essenza dell' essere separata da essi, che non è l' essere: assurdo manifesto. A che si risponde che l' essere assoluto è l' essenza dell' essere ultimata e compiuta, e che l' essere relativo ne partecipa non assolutamente, ma relativamente al soggetto che è base dell' essere relativo; e perciò appunto dicesi relativo. Se dunque l' assoluto è l' essenza dell' essere intieramente compiuta, e il relativo non è l' essere, ma l' ha congiunto, vedesi in che modo si può dire che l' essenza dell' essere sia comune: questa non diviene due perciò, né l' assoluto ha qualche cosa di piú dell' essenza dell' essere, come la specie per esempio ha qualche cosa di piú del genere, ma è la stessa essenza dell' essere compiuta. Il relativo per contrario, non è, ma si forma, si genera continuamente, per parlare con Platone. E la generazione del relativo, si può esprimere in questo modo: un termine dell' attività volontaria dell' assoluto ha una relazione con se stesso: e a questo termine, in quanto ha una relazione con se stesso e non in quanto è termine dell' assoluto, si aggiunge dalla mente l' essenza dell' essere, e questa sintesi che fa la mente è la generazione dell' essere relativo. Ma: quando la mente aggiunge a quel termine l' essenza dell' essere, non ve l' aggiunge completa, ma priva de' termini suoi; e ciò perché la mente non conosce per natura che l' essenza dell' essere priva de' suoi termini. Vedesi manifestamente come l' essenza dell' ente rimanga una, e tuttavia per opera della mente ammetta un termine relativo, e cosí sembri accomunarsi a piú. Ma il vero si è che l' essenza dell' essere è solo propria dell' assoluto dove ella è tutta intiera e spiegata, quando il relativo non è propriamente ente per sé, ma si fa tale per operazione della mente stessa. Convien dunque dire che la differenza che passa tra l' essere assoluto e il relativo non è da sostanza a sostanza; e ancor maggiore della differenza da categoria a categoria; perocché s' ha differenza di essere in questo senso, che l' uno è assolutamente ente, l' altro assolutamente non7ente. Ma questo secondo è relativamente ente: ora col porre un ente relativo non si moltiplica assolutamente l' ente; sicché rimane che assolutamente l' assoluto e il relativo sia non già una sostanza sola, ma bensí un essere solo (1), e in questo senso non v' abbia diversità di essere, anzi unità di essere. Ma posto che la mente l' abbia fatto tale, esso dee avere tutte le condizioni dell' essere; altrimenti non potrebbe esser concepito, pel principio di cognizione che è la prima legge della mente (2). Or qui nasce l' obbiezione: non è ella condizione dell' ente anche il suo ordine intrinseco, quello che noi abbiamo chiamato organismo ontologico? E l' ente relativo difetta di questo organismo; che anzi noi appunto riponemmo in questo l' essere un ente relativo, che egli è distaccato relativamente a se stesso dall' intero organismo proprio di ciò che è assolutamente essere. Diciamo che, ogni qual volta l' ente relativo che si pensa non involge errore, egli deve avere tutte le condizioni dell' ente, perché ne partecipa l' essenza che dalla mente gli viene aggiunta. Ma posciaché la mente finita vede l' essenza dell' ente solo nella forma ideale, nella quale è contenuto l' organismo dell' ente solo virtualmente: perciò anche il pensiero degli enti relativi offre bensí tutte le condizioni dell' ente proprie dell' essenza, ma nasconde nella virtualità quella che riguarda il compiuto organismo ontologico. E tuttavia l' organismo, benché limitato, non manca neppure nell' essere relativo; giacché la legge del sintesismo che lo forma s' avvera ovunque è essere. Noi abbiamo veduto che ella ha come tre amplissimi campi. Il primo campo in cui la legge del sintesismo si spiega è lo stesso essere considerato nella sua compiuta essenza, che appar manifesta nei tre modi categorici, tutto intero e identico, nel modo ideale, reale e morale. Di poi si manifesta nel nesso necessario che hanno i termini dell' operare volontario coll' essere assoluto, i quali termini si contengono implicitamente nell' essenza dell' essere, e sono in essa attuati per volontà, e da morale necessità determinati. In terzo luogo, ricorre fra l' essere assoluto e il relativo, per essere la costituzione piena di questo una sintesi fra il sentimento finito e relativo e l' essenza dell' essere nella pura forma ideale, colla qual sintesi sono costituite le intelligenze che sono gli enti relativi completi - e ancora il sintesismo fra l' essere assoluto e il relativo apparisce quando l' intelligenza pensando la sua propria esistenza relativa si concepisce e si pone come ente; la quale operazione è una sintesi fra il sentimento relativo e l' essenza dell' essere. Finalmente allora quando l' ente relativo è ultimato mediante questa operazione sua propria, egli di nuovo si dimostra cosí costruito, che le sue parti sono tutte legate insieme, per modo che, l' una divisa assolutamente dall' altra occulta nel suo seno l' assurdo. Del terzo e del quarto genere, cioè del sintesismo fra l' essere relativo ed assoluto, e fra gli organi dello stesso essere relativo, dobbiamo trattare in questo libro, il quale ha per argomento l' essere nella sua forma reale. La mente adunque che contempla l' essere reale, il trova certo ordinato e ontologicamente organato; ma ella intende che tali organi o parti ontologiche debbono constare di qualche cosa, e questo qualche cosa si può acconciamente denominare materia essenziale dell' essere: ella è quella che costituisce propriamente la realità dell' essere. Non s' introduca qui coll' immaginazione la materia corporea che non ci ha a far nulla. E per evitare questo ravvicinamento fra materia corporea e materia essenziale dell' ente, noi risuscitando una voce antica, chiameremo questa, in quanto cade nella nostra esperienza, stoffo dell' ente (1). Dividendo noi coll' astrazione lo stoffo dell' ente reale dalla sua forma organica, ne abbiamo fatto anche cosí due elementi ontologici i quali sintesizzano insieme per modo che l' uno non istà senza l' altro, ma la mente col suo pensare imperfetto li separa, pensando attualmente ad uno, e sottintendendo virtualmente l' altro. Né tuttavia si prenda lo stoffo dell' ente reale di cui parliamo come fosse lo stesso concetto che gli antichi si formavano della materia prima ; perocché la materia prima degli antichi è concetto piú astratto, è l' astrazione dell' elemento comune a tutti gli stoffi degli enti reali; laddove per istoffo noi intendiamo la stessa essenza d' una realità, quale cade nella nostra esperienza, prescindendo da ogni sua organica costituzione ontologica. Principio di metodo per tutte queste ricerche, che tendono a scoprire la natura delle cose, è questo: doversi cogliere le cose come a noi si presentano in quel primo atto nel quale le conosciamo; perocché in appresso le operazioni della mente e i diversi sentimenti loro s' associano, le opinioni altresí ricevute ce le possono alterare e contraffare. La natura o essenza che si ricerca è certo la natura o essenza conoscibile. Se dunque ella deve cadere nella nostra cognizione, in qual cognizione cadrà, se non in quella, per la quale abbiamo imposto alla cosa un nome? Or questa è quella prima, che ce n' ebbe dato il concetto. Se i ragionamenti bene rispondono a questo concetto, sono veraci; se definiscono la cosa diversamente da quel primo concetto che solo è significato dal vocabolo, vanno forviando. Cosí ancora gli antichi logici sapientemente definivano l' essenza della cosa, ciò per cui da prima la si conosce. Or questo è il buon metodo, il metodo d' osservazione accomodato alle cose spirituali, osservare ciò che cade nella nostra cognizione, e come vi cade: osservare come le cose da noi si conoscono. Come adunque si conosce lo stoffo dell' ente? Lo stoffo dell' ente può essere conosciuto direttamente dall' uomo soltanto col mezzo della percezione ; e appunto perciò, considerando quale cognizione ci somministri la percezione, noi potremo formarci il concetto giusto dello stoffo dell' ente. Nella percezione di un corpo, la mente nostra distingue la grandezza, la forma e oltre di ciò prova una modificazione speciale del proprio sentimento che resta innominata; solo le si applicano in certi casi degli epiteti generali, come a ragion d' esempio si dice esser piacevole o dolorosa, ma niun vocabolo si trova nelle lingue per indicare il proprio di una data sensazione. Ad ogni modo in ognuna delle dette sensazioni vi è questo fondamentale sentimento, che riceve quasi subietto i limiti e accidenti della grandezza, forma, ecc.. Lasciando dunque che la parola sensazione abbracci tutto ciò che cade in lei, noi per esprimere la parte fondamentale e primitiva di essa adoperammo questa espressione: « il tocco della sensazione ». Or quello che abbiamo detto della percezione de' corpi esterni, dobbiamo universalizzarlo a tutte le realità: tutte possono essere percepite, e la percezione di un reale si distingue essenzialmente dalla percezione di un altro pel tocco del sentimento, ehe è l' effetto primo, immediato, proprio che colla sua azione produce nel percipiente; è quello per cui è conoscibile dall' intendimento, è quell' atto, in una parola, con cui un ente reale esiste in un altro pure reale, e però da ogni altro si distingue. Lo stoffo dunque d' un ente reale è conosciuto dalla mente nel tocco del sentimento; e questa è quella cognizione che si suol chiamare positiva . Si prende la denominazione di positiva , data alla cognizione, tanto pel contrario di razionale, ideale, dedotta ; quanto pel contrario di negativa . Nel primo significato vuol dire cognizione d' un fatto posto, attuale, presente, distinguendosi da un fatto possibile, non presente colla sua efficacia in colui che lo conosce. Nel secondo significato, si viene ad esprimere, che nella cognizione che abbiamo del reale, conosciamo ciò che è proprio di lui come oggetto, ciò che costituisce il suo fondamento conoscibile. Mancando questo fondamento, che è appunto il tocco dell' essere, si dice la cognizione del reale rimanersene negativa, cioè orbata di ciò che è proprio del reale, oggettivamente considerato, vuota di ciò che costituisce il suo effetto conoscibile, quella sua azione, per la quale un reale conosciuto vive nel sentimento di un altro reale. Una tale mancanza, che trae dalla cognizione, per cosí dire, la sua propria sostanza, non può essere supplita né surrogata da nessun ragionamento, da nessun' altra maniera di conoscere. Ma onde avviene poi che un reale può avere in qualche modo cognizione d' altro reale, benché non ne riceva l' azione, e il tocco della sensazione non cada nella sua esperienza? Perché, come abbiamo detto, un ente reale, oltre comporsi dello stoffo, si compone altresí d' un cotale organismo ontologico, e, trattandosi d' un essere finito, anche di elementi negativi, di limitazioni. Di piú egli ha molte relazioni esteriori con altri enti reali, che possono essere conosciuti. Allora il complesso di queste determinazioni, conosciute che sieno, si prendono come l' espressione del reale, tengono luogo del reale, e cosí costituiscono la cognizione dell' ente, che dicesi negativa, perché non fanno conoscere propriamente l' ente, ma soltanto lo segnano in modo, che qualora si venisse a conoscere, lo si riconoscerebbe per desso. E` nondimeno da avvertirsi che gli elementi negativi non determinano propriamente un ente reale, ma ne danno una cognizione generica o astratta, che può dirsi ideale. Questa parte di cognizione né pure ne prova la realità sussistente, ma supponendo questa siccome ammessa, ne fa conoscere i caratteri generali. Ma le relazioni d' un ente reale con altri enti reali possono determinare primieramente l' ente, e dimostrarne la sussistenza; il che s' avvera quando l' esistenza degli altri enti reali conosciuti sia condizionata a quello che resta incognito. Allora di questo si conosce che sussiste, ma ci rimane occulta la propria natura, perché manca il tocco del sentimento: la cognizione della sussistenza riman vuota della real essenza, e però dicesi negativa . Queste due maniere di conoscere un reale, quando si trovano insieme, diconsi « cognizione ideale7negativa ». Anche lo stoffo dell' ente ha due modi categorici di essere, l' oggettivo o ideale, il soggettivo o reale. Si chiederà come lo stoffo dell' ente possa essere ideale, se in esso abbiamo fatto consistere la realità dell' ente. E` a rispondere, che le forme categoriche inabitano l' una nell' altra senza confondersi; e che perciò anche la realità inabita nella idealità, e allora prende il modo di questa. E` la realità quasi direbbesi vestita d' idealità. Onde noi prendiamo la realità in due modi: o com' ella è pura e semplice; o com' ella si trova nel seno dell' idealità stessa. Quella prima è da noi chiamata realità senza piú, questa seconda dicesi essenza della realità , o idea della realità, o realità ideale, ovvero anche realità oggettiva, o tipo della realità. Sotto la stessa distinzione adunque deve considerarsi lo stoffo dell' essere, il quale se è nel modo suo soggettivo, costituisce la semplice realità; ma se si prende in un modo oggettivo, costituisce lo stoffo ideale, l' essenza dello stoffo. Lo stoffo non è l' ente, ma un elemento di esso, che la mente col suo pensare imperfetto divide dal resto. Onde, quantunque sia propria dell' ente l' unità «( Psicologia , vol. II, lib. IV, cap. .) », e cosí anco dello stoffo, tuttavia l' unità dell' ente può essere organica; laddove lo stoffo prescinde da ogni organismo, e però è un' unità semplice, cioè a dire priva di moltiplicità alcuna. E di vero né la stessa mente può trovare alcuna moltiplicità dello stoffo dell' ente, perocché ella nol conosce se non come somministratole dal tocco del sentimento, il quale è semplicissimo. Ciò che potrebbe far dubitare che lo stoffo non si presentasse alla mente come un semplice, si è la moltiplicità dei sentimenti e le loro diverse misture. Ma conviene distinguere in tali misture i sentimenti semplici ed elementari, e pigliare ciascuno di questi come rappresentante d' uno stoffo diverso. Un dubbio piú difficile a sciogliersi contro alla piena semplicità dello stoffo, si è quello della gradazione che si trova in un medesimo sentimento. Ora qui è necessario distinguere accuratamente fra la parte soggettiva della sensazione, e l' extra7soggettiva «( Antropologia , n. 199 sgg.) ». Lo stoffo dell' ente reale è appunto di due maniere; come è di due maniere il reale, soggettivo cioè ed extra7soggettivo. Parliamo del reale e del suo stoffo extra7soggettivo. Lo stoffo del reale extra7soggettivo, benché semplice, può essere a dir vero percepito dal soggetto con piú o meno d' intensità, e di perfezione: ma questa gradazione appartiene al soggetto, e non all' extra7soggettivo; il quale rimane semplice. Veniamo allo stoffo del reale soggettivo. Il reale soggettivo è il soggetto stesso sentito e le sue modificazioni. Ora noi abbiamo già detto, che trattandosi d' un soggetto senziente, questo non ha che un' unità organica, e però, benché unico, risulta da piú sentimenti distinguibili col pensiero astraente. Anche il suo stoffo adunque, partecipa di questa moltiplicità, e non è di questo stoffo che noi parlavamo, quando ne affermavamo la pienissima semplicità: il soggetto non è lo stoffo elementare, ma lo stoffo organato e d' ogni parte compito. Tornando ora ai due modi categorici dello stoffo, il modo di essere soggettivo è propriamente il proprio , pigliata questa parola a significare il contrario di comune . E per verità negli enti conosciuti, se sono puramente ideali ed oggettivi, v' ha il comune, e non il proprio; se poi sono enti reali (sussistenti o ipotetici), ciò che in essi vi ha di proprio è unicamente la sussistenza. Il proprio adunque non è altro che la sussistenza, la realità, pura e semplice, nella sua soggettiva esistenza. La sussistenza (il modo soggettivo) è l' ultimo atto dell' essere rispetto ad un ente, pel quale l' ente è in atto; è l' attuazione dell' essenza. Prima che un' essenza sia attuata potrà essere attuata in diversi individui, ma in quanto è già attuata in un individuo non può essere in un altro; perciò quest' atto ultimo è il proprio, non avendone alcun altro in cui ulteriormente attuarsi. Si può bensí trovare il proprio anche nella pura essenza quando si considera il proprio come inabitante nell' essenza (idea del proprio); ma in tal caso non è il proprio semplicemente , ma il proprio come oggetto, che si potrebbe chiamare con una maniera imitata dagli Scolastici, il proprio vago , rispondente al loro individuum vagum . La sussistenza e realità d' un ente non è la sussistenza e la realità di nessun altro; dunque ella sola è ciò che v' ha di proprio nell' ente; per essa sola il comune, sia sostanza, sia accidente, si rende proprio; cosí una sostanza in quanto sussiste è propria, e anche un accidente in quanto sussiste è proprio ma nel mero concetto della sostanza e dell' accidente nulla v' ha di proprio; ed anzi il proprio non vi ha in nessun concetto, ma soltanto nella sussistenza , che è il contrario del concetto o dell' idea: idea o concetto dice comune , sussistente dice proprio . Noi conosciamo due maniere di enti reali, noi stessi, e altri diversi da noi. Ora come conosciamo noi stessi? che cosa è questo noi stessi che conosciamo? - Per quantunque si consideri non si trova da dir altro, se non che ci conosciamo pel nostro proprio sentimento «( Psicologia , vol. I, n. 61 sgg.) », e che nulla conosceremmo in noi, se nulla vi sentissimo; convien dunque conchiudere, che noi siamo fatti di sentimento e non d' altro; non d' un sentimento fenomenale, e transeunte, ma sostanziale e permanente. Noi stessi dunque siamo sentimento. Ma che cosa sono le altre cose, gli altri enti reali distinti da noi? Come li conosciamo? Li conosciamo in due modi, come abbiam detto: o con una cognizione ideale7negativa o con una cognizione positiva. Quelli che conosciamo per via di cognizione ideale7negativa, noi li riferiamo a quelli che conosciamo positivamente. Possiamo sí bene pensare che esistano enti reali assai diversi da quelli che percepimmo, ma non diversi nel carattere generico e fondamentale; altramente ci sfuggirebbe di mano il concetto stesso dell' essere reale, e conseguentemente non potremmo piú ragionare. Gli enti diversi da noi, che noi conosciamo positivamente, si debbono pure distinguere in due classi: 1) quelli che percepiamo ; 2) quelli che ci rappresentiamo coll' immaginazione intellettiva . Gli enti diversi da noi, che noi percepiamo, sono: 1) il corpo nostro soggettivo; 2) il corpo extra7soggettivo; 3) qualche entità mista di corporeità e di spiritualità, come io credo che accada al contatto, se non anco alla vicinanza, di due esseri viventi della stessa specie (1). In tutte le diverse realità che si percepiscono, lo spirito giunge naturalmente alla sostanza e quivi si ferma. Ora tutte le entità percepite dall' uomo si riducono ad avere per loro basi conoscibili due sostanze: la sostanza del nostro spirito, e quella del corpo (2). Ma si vuol distinguere accuratamente fra ciò che si conosce come sostanza nella percezione del nostro spirito, e nella percezione del corpo. Questa differenza fu da noi esposta nella « Psicologia », dove abbiamo dimostrato che la sostanza spirituale che percepiamo in noi stessi ha natura di principio , quando la sostanza corporea non la percepiamo che colla natura di termine ; onde deducemmo che fuori della sostanza corporea, tal quale è da noi percepita e nominata, deve avervi un' altra sostanza che le serve di principio. Ancora da questa diversità, noi deducemmo la classificazione suprema di tutte le sostanze relative alla cognizione dell' uomo, cioè di quelle sostanze di cui l' uomo pensa e parla, o può pensare e parlare, riducendosi tutte a sostanze7principio, e sostanze7termine. Ora qui parleremo del corpo che noi percepiamo come sostanza7termine. Si deve distinguere fra la percezione de' corpi dataci mediante le speciali sensazioni organiche; e la percezione immediata che lo spirito fa del proprio corpo, al quale è individualmente unito. Quella detta da noi percezione extra7soggettiva, ci fa accorti che esiste un corpo extra7soggettivo, non congiunto a noi soggetto; questa, chiamata soggettiva, ha per suo proprio termine un corpo cosí aderente allo spirito nostro percipiente, che per essa il principio s' individua, onde tal corpo chiamasi soggettivo. La sostanza che serve di base conoscibile a tutte le notizie che noi possiamo avere intorno ai corpi, è data dalla percezione soggettiva; a quella si riferisce, in quella si riduce anche l' extra7soggettiva. E però la sostanza corporea si percepisce immediatamente nella percezione del corpo nostro proprio, anteriore a tutte le sensazioni organiche speciali. Ma è necessario che noi qui consideriamo, come le sensazioni speciali organiche si riferiscano al corpo nostro sentito immediatamente e fondamentalmente, non solo rispetto allo spazio, che occupano, ma ben anco rispetto allo stoffo della corporea natura (alla materia). Tutte le sensazioni speciali organiche ci danno dei sentiti , che non possono esser altro che modificazioni del sentito fondamentale (1). Questa proposizione sembra manifesta col solo enunciarsi, essendo un fatto, che quando io provo una sensazione organica qualsiasi, il mio sentimento è modificato. Quindi convien dire, che tutte le sensazioni speciali sieno virtualmente contenute nel sentimento fondamentale, e in esso quasi latenti. Il qual concetto, due cose racchiude. Poiché il sentimento fondamentale consta 1) d' un principio senziente, 2) d' un termine, che nel caso nostro è un esteso. Ora nel principio senziente forz' è ammettere la virtú di tutto ciò che cade nel suo termine, e cosí si può dire che nella virtú del principio senziente sieno virtualmente contenute le sensazioni speciali ed accidentali. Il termine esteso poi è suscettivo di varie modificazioni. E queste, nel principio soggettivo sono altrettante sensioni, benché nel termine considerato come extra7soggettivo sieno movimenti. Si può dunque dire: 1) che le sensioni organiche sieno virtualmente nel termine esteso in quanto egli esiste nel principio senziente, e non in quanto si considera da questo diviso; 2) che le dette sensioni sieno virtualmente contenute nel principio senziente, in quanto questo si considera come suscettivo d' essere unito al suo termine e di subire le leggi con cui questo si modifica. Le sensioni speciali sono dunque in uno stato di virtualità rimota nel principio senziente, e in uno stato di virtualità prossima nel termine permanentemente sentito, e dico sentito perché ciò esprime esistenza del termine nel principio. La causa poi che le determina all' atto non è né nel principio senziente, né nel termine sentito, ma in una potenza extra7soggettiva. Ma se si cerca dove stia la ragione di questa virtualità, convien riporla nella natura certamente misteriosa del principio senziente; in quel primo fatto dell' unione sostanziale del principio senziente e del termine sentito , in questo sintesismo dove sta la genesi contemporanea de' due termini, il senziente ed il sentito. Si prenda il sentito puramente come sentito. Come tale, egli è vero ciò che altrove dicemmo, il principio senziente non essere per sé limitato, ma limitarsi dal solo termine sentito: quello non essere tuttavia per sé nulla, ma essere una energia, e anzi perciò una energia illimitata, ma potenziale; l' atto della quale non ha luogo se non a condizione che sia dato il termine che colla sua limitazione lo limita. Il concetto di questa potenzialità illimitata del principio senziente, degno è che si svolga. Poiché porge alla mente questa difficoltà. Se non ci ha termine alcuno, non ci ha neppure un principio senziente, no' l si può piú pensare, e in tal caso sparisce anche ogni virtualità. Ma se ci ha un termine sentito, allora ci ha l' atto della sensazione, e non piú la mera virtualità. Dunque questo concetto di virtualità è un vero impaccio dell' immaginazione, e non piú. Questo argomento non calza. Quando il principio senziente ha un suo termine e però esiste, l' osservazione del fatto dimostra ch' egli ha un' energia sua propria, per la quale egli agisce siffattamente che l' efficacia della sua azione non può venirgli dal termine, benché il termine sia condizione di sua esistenza. Ora l' osservazione attenta del fatto dimostra parimente, che il principio senziente conserva spesso la sua identità, l' identica energia sua propria radicale anche quando il suo termine si modifica. Se adunque il principio senziente, è perfettamente identico a quello che era quando non sentiva quella cosa, ne viene per conseguenza che quel principio, prima ancora di sentire attualmente quella cosa, la sentiva virtualmente. Convien dunque dire che la nuova sensazione preesiste in un altro modo, quasi nascosta e confusa in sentimento maggiore, in quel sentimento che costituisce l' energia propria del principio senziente. Secondo questo concetto, un principio senziente, un soggetto, contiene in sé (sentimento fondamentale) tutte le sensazioni, di cui è suscettivo restando identico; ma le contiene indistinte, fuse insieme, senza l' ultima perfezione dell' atto, in un primo grado di atto, a cui solo manca l' ultimazione. Dalle cose dette apparisce, che le sensazioni accidentali sono congiunte colla sostanza spirituale (sentimento fondamentale); ch' esse suppongono questa, che questa contiene quelle virtualmente, e che quelle sono modificazioni del termine di questa. Ma perciocché oltre la sensazione, che accusa un ente spirituale, cioè senziente (sostanza principio), cade ancora nell' esperienza nostra una forza extra7soggettiva che accusa un ente materiale (sostanza termine); perciò vediamo come lo spirito vada dalla sensazione esteriore a percepire un ente reale, un corpo. Il passaggio che fa lo spirito dal sentito al pensato, è della stessa natura tanto se egli va dalla sensazione all' ente reale spirituale, quanto se egli va dalla forza extra7soggettiva che nella sensazione è contenuta, all' ente reale corporeo. Onde di questo solo ora noi parleremo. Alto e difficile passo nel cammino della Filosofia l' acquistarsi il giusto concetto del sentimento mero , cioè non pensato, non accompagnato dal pensiero. Una prova della difficoltà, si è il vedere come molti anche dotti scrittori, lungi dall' afferrare la vera natura della sensazione, la concepiscono sempre mista col pensiero della loro mente. Noi diciamo che questo è essenziale alla mente e al pensiero, d' aver per termine un' esistenza oggettiva, un ente oggetto; e che la mente non può pensare l' esistenza soggettiva della sensazione o del sensibile, se non nell' esistenza oggettiva, ossia nell' ente oggetto, e però mediante questa; diciamo dunque, che dee precedere nello spirito l' esistenza oggettiva, e che allora solamente egli ha la facoltà di pensare, perché ha il mezzo in cui e per cui può apprendere quello che è soggettivo; e il dir questo è quanto un dire, che la facoltà cogitativa si forma mediante l' intuizione dell' essere oggetto. Riduciamo la questione a questa domanda: « Allorquando lo spirito pensa un sensibile, l' oggetto del suo pensiero è egli né piú né meno il sensibile come sensibile? ovvero sia quell' oggetto ha un elemento di piú, che manca nel mero sensibile precisamente come sensibile »? La risposta dipende unicamente dal saper osservare qual sia l' oggetto sensibile del pensiero. Ora, per venirne a capo, noi poniamo come principio che ogni diversità che si trova fra il termine del pensiero, e la sensazione precisa dal pensiero, è un elemento da questa non somministrato, il quale deve essere spiegato. Ma egli è manifesto che ci ha gran differenza (piú veramente opposizione) fra un sensibile che si contempla come oggetto , e un sensibile che non è oggetto, ma è soggetto o soggettivo. Dunque l' essere oggetto non è dato dalla sensazione, dal sensibile. Di piú, il sensibile come oggetto può essere affermato o no. L' essenza dunque del sensibile7oggetto è scevra di affermazione. Ma se io penso un oggetto7sensibile senz' alcuna affermazione, egli è tale che io gli posso, volendo, applicare il predicato di possibile, e di universale. Or l' universale non è dato dalla sensazione. Dunque è dato altronde alla mente. Ma l' oggetto è l' ente, l' ente in universale; altramente l' oggetto dato alla mente sarebbe nulla. Dunque la mente non riceve dalla sensazione l' ente in universale; ma intuisce quest' ente con indipendenza da quella: e questa intuizione è la condizione antecedente, è la prenozione, colla quale ella può pensare il sensibile, e la sensazione. Di che si vuol conchiudere, che il sentito o sentimento può dirsi realità , non ancora ente ; perocché quest' ultima espressione acchiude l' oggetto, giacché l' istituzione della parola ente ha in vista il pensato, ossia l' oggetto della mente. In una parola, la realità non è l' ente, ma ella è un modo categorico dell' ente, uno dei modi nel quale è l' ente, e che si dividono da lui per astrazione, assegnandogli un vocabolo che ne esprime il concetto. La quale distinzione fra l' ente e la realità , è necessarissima all' Ontologia: senza di essa, questa aberra in una continua anfibologia. Del pari è necessaria quest' altra fra la sostanza e l' ente reale . E nel vero la sostanza fu da noi definita: « l' atto pel quale sono le essenze specifiche », le quali non sono già per gli accidenti, ma per quell' atto nel quale e pel quale questi sono, il quale atto si chiama sostanza. Ora in quel reale che viene pensato dalla mente siccome un ente, ella distingue un elemento primo, nel quale e pel quale sono gli altri, che perciò si chamano accidenti; e quel primo è la sostanza. Di che apparisce che la distinzione fra sostanza e accidenti proviene dalla forma reale dell' ente, e dalla limitazione a cui questo soggiace. Quindi nel sentimento e in ciò che cade nel sentimento, che sono i due generi del reale, si distingue la sostanza e l' accidente ; e però queste entità soggettive non sono conoscibili per se stesse, perché non sono enti, ma hanno bisogno, acciocché sieno alla mente, di venire oggettivate, cioè vedute nell' ente, che è essenzialmente oggetto della mente, il che è quanto dire unite coll' ente, col quale, e colla mente sintesizzano (1). Quando adunque la sostanza s' unisce all' ente7oggetto; allora ella è divenuta ente; e gli accidenti sono divenuti cosí modificazioni variabili dell' ente . Se si avesse un primo atto di sentimento, il quale per l' essenza sua fosse nella mente, cioè fosse unito all' idea, questo sarebbe ente per sé, inteso per la sua essenza. E tale è Dio. Nel quale ciò stesso che è soggetto, è anche oggetto; e non ha bisogno di venire oggettivato. Laonde la divina sostanza non è puramente sostanza , ma è ad un tempo ente , anzi è l' Ente. Laonde a diritta ragione fu proibito in qualche Concilio il dire che Iddio sia una sostanza in senso proprio, potendosi egli chiamare sostanza solo in senso analogico. Le quali cose ci mettono in istato di dare la teoria della rappresentazione. Vi ha un' opinione comune, che tutto ciò che la mente intende, l' intenda per via di rappresentazione, con che si vuol dire, che il pensiero non coglie gli oggetti stessi, ma qualche altra cosa che glieli rappresenta, la qual cosa dicesi idea. Noi abbiamo mostrato in piú luoghi l' erroneità di questa opinione. Non vogliamo ora ripetere il detto, ma solo succintamente indicare sotto quale aspetto abbia luogo una specie di rappresentazione nell' atto cogitativo. Questa cotal rappresentazione, è di due maniere: l' una consiste nel servigio che presta l' idea al conoscimento dell' ente reale; l' altra consiste nel servigio che presta il sentimento e la sensazione al conoscimento trascendentale dell' ente reale corporeo. Parliamo d' entrambe. L' idea fa conoscere l' essenza della cosa, ma non, da sé sola, la sussistenza. Pure la cosa sussistente non si conosce senza prima averne conosciuta l' essenza, cioè senza averne l' idea. Quindi è che si suol dire, che l' idea, la qual certo non è la cosa sussistente, la rappresenti. Secondo questa maniera di parlare, il primo immediato termine della cognizione è l' essenza la quale è solo rappresentativa. Onde fa bisogno un altro atto col quale lo spirito passi dal rappresentativo al rappresentato. E questo secondo atto è appunto quello che noi chiamiamo affermazione . Veniamo or alla seconda maniera di rappresentazione , ed è quella, nella quale il sentimento e la sensazione si prendono come rappresentanti, e l' ente reale come rappresentato. Qui si debbono distinguere più cose. Primieramente quel sentimento primo e sempre identico che costituisce la sostanza spirituale, non è già rappresentativo di questa sostanza, perché anzi è dessa medesima. Onde qui non si dà rappresentazione. Ma altro è la sostanza abbiam detto, altro è l' ente reale . Questo ente reale è la sostanza stessa, che sintesizza colla mente. Quest' ente reale (nel caso nostro, lo spirito) è conosciuto ancora immediatamente dalla mente senza intervento d' alcuna rappresentazione. Ma dopo di ciò sopravviene il ragionamento dialettico trascendentale, il quale vede che il sentimento finito è un relativo. Questo ragionamento trasporta dunque il pensiero dalla sostanza finita all' ente assoluto; ed è allora, che quella diviene una rappresentazione, o più veramente un vestigio, un geroglifico di questo. Questa specie di rappresentazione appartiene dunque unicamente al pensiero trascendente, ed è quella di cui accenna l' Apostolo, dove dice: Videmus nunc per speculum, in aenigmate . Le sensazioni, considerate quali modificazioni dello spirito, non lo rappresentano, appunto perché sono modificazioni, e però non mai sole, ma unite al sentimento sostanziale, né prime nell' ordine logico. All' incontro il sentito corporeo rappresenta il corpo. Ma dobbiamo spiegare in che senso lo rappresenti. Nel sentito convien distinguere due elementi, la forza e il tocco del sentimento . Ora vi ha una forza che modifica il principio senziente producendo in lui il fenomeno dell' esteso: vi ha pure una forza che modifica questo esteso. Non potendosi conoscere la forza che dal suo effetto, la nozione della forza è relativa, cioè si conosce nell' effetto. Vero è ch' ella suppone un ente soggetto a cui appartenga, ma trattandosi dei corpi, questo ente soggetto della forza corporea si rimane straniero alla nostra percezione, e tutto ciò che noi conosciamo è unicamente la forza. Questa forza, come prima ed unica cadente nella cognizione nostra, diviene per noi la sostanza corporea, e quindi il corpo. Cosí il corpo noi lo conosciamo immediatamente, e non per mezzo di alcuna rappresentazione. Ma questa cognizione è relativa; e desunta dall' effetto. Ora questo effetto essendo doppio, poiché l' effetto è quello che la forza produce in noi producendoci il fenomeno dell' esteso, e un altro effetto è quello che la forza produce nell' esteso stesso, perciò la sostanza corporea ha come due basi, che la farebbero parere due sostanze. Ma colla riflessione poi si trova che trattasi d' una sola sostanza, la quale prende in noi due forme a cagione ch' essa si conosce come termine, e non come principio, e il termine è doppio, benché il principio sia unico. In qualche maniera si potrebbe dire, che le due forme sostanziali nelle quali conosciamo il corpo, sieno rappresentative dell' unica sostanza corporea. Una forza diffusa nell' estensione esprime il concetto del corpo, che hanno comunemente gli uomini. Al qual concetto se si applica la dialettica trascendentale, questa conduce al di là della sostanza termine, e trova un ente soggettivo principio. Ma di questo non altro si conosce che l' esistenza con tale ragionamento, e però il comune concetto di corpo diviene cosí rappresentativo di questo ente trascendente, diviene vicario di lui nella mente nostra, quantunque la cognizione che ce ne dà non sia piú che proporzionale e negativa. Ma veniamo alle sensazioni organiche. Uno stesso corpo produce innumerevoli immagini, come pure sensazioni tattili, acustiche, ecc.. Dunque altro è il corpo, ed altro sono i sentiti organici. Ma questi li prendiamo pel corpo stesso, cioè per la forza che tutte quelle sensazioni produce. Quelli adunque ci fanno conoscere i corpi per una cotale rappresentazione. Questa rappresentazione non è però uguale a quella per la quale un ritratto ci fa conoscere la persona ritratta, perocché né il ritratto è l' effetto della persona ritratta, né in quello vi ha nulla dell' attività reale di questa. All' incontro la sensazione organica è l' effetto della forza, e tiene in se stessa una parte di questa tuttavia in atto. In questo modo adunque le sensazioni organiche rappresentano la sostanza corporea. Né la rappresentano come un incognito, ma come un cognito; perocché la sostanza corporea, è a noi cognita nel sentimento fondamentale. Le sensazioni adunque ci fanno riconoscere la presenza di questa forza. Noi abbiamo fin qui ragionato dell' ente reale a quella maniera, che egli cade nella percezione intellettiva: ora dobbiamo considerarlo come oggetto dell' immaginazione intellettiva. Quello che non può l' immaginazione sensitiva, bene il può l' immaginazione intellettiva, come l' esperienza ci dimostra. Perocché non è dubbio alcuno, che noi possiamo immaginare un altro noi stessi, ed anzi molti. Or egli è necessario che si analizzi questa operazione. In primo luogo noi non potremmo immaginare un altro noi stessi, se non potessimo concepire l' ente in sé quale oggetto, indipendentemente da noi, da quello che noi sentiamo. La quale operazione dell' intelligenza, se bene si perscruta, manifestamente si risolve in un atto che considera il senso per sé soggettivo come entità oggettiva, e, se trattasi di sentimento sostanziale, come ente. La prima operazione adunque dell' immaginazione intellettiva, che è la facoltà d' immaginare enti od entità, consiste in questo, in contemplare il sentimento proprio come un ente o una entità, oggettivamente, universalmente. La seconda operazione è quella di considerar questo sentimento oggettivo come possibile a sussistere in un numero indeterminato di individui. Già, se si tratta di un sentimento sostanziale, l' individualità vi è compresa. Se si tratta di sentimenti accidentali, la mente li individua pigliandoli come subietti dialettici. La terza operazione si è quella di pensare espressamente uno di questi sentimenti individuati possibili, o pensarne piú, in un numero determinato. E questo è appunto cosa che fa stupire chi ben considera: che uno spirito intelligente abbia virtú di formare in se stesso un altro ente, un altro principio senziente, un altro spirito. Questa specie d' inesistenza d' uno spirito in un altro è degna della piú profonda riflessione. Non è da credere che nell' immaginazione intellettiva avvenga solamente un fatto simile a quello che avviene nell' immaginazione sensitiva. In questa tutto si riduce a modificazioni del soggetto. Per l' immaginazione intellettiva si forma un soggetto nuovo nel nostro spirito, il quale noi sappiamo che non è il nostro, ma è naturato e foggiato come il nostro. Questo soggetto, non è un segno, non è un' immagine, non è una pura rappresentazione; molto meno è una modificazione nostra. Noi pensiamo propriamente e direttamente un soggetto sostanziale, quale è in sé, lo pensiamo senziente, pensante, ecc. d' un sentimento e d' un pensiero sostanzialmente e totalmente diverso dal nostro, al nostro incomunicabile. Come ciò si spiega? Vedemmo che l' essenza della realità è tutta nell' idea. Ora egli accade, che noi non vediamo nell' idea la realità della sua essenza, se non a misura che ci viene comunicata nel suo ultimo atto, che costituisce propriamente la realità sussistente, e che è il sentimento nostro e tutto ciò che cade in esso. Dato questo sentimento reale, noi tosto ne vediamo l' essenza nell' idea, e distinguiamo quest' essenza dall' atto di lei, il quale la realizza. Noi stimammo opportuno chiamare la realità nella sua essenza, stoffo della realità ; e nel suo ultimo atto, atto della realità . La realità adunque nella sua essenza, esiste nel mondo metafisico, cioè nell' idea. E se si tratta di realità infinita ed assoluta, vi esiste coll' ultimo suo atto, che a lei non può mancare. Ma se si tratta di realità finita e relativa, questa realità relativa vi esiste assolutamente, cioè nel modo assoluto, che è quanto dire come ideale e possibile. La realità dunque, il sentimento, un determinato sentimento, ha l' essenza sua nell' idea, e quest' essenza è proprio lo stoffo della realità. Questo sentimento che acconciamente si dice sentimento7entità, ha per natura sua un' esistenza oggettiva. Quest' oggetto adunque, che è un soggetto possibile, è ciò in che si affissa l' immaginazione intellettiva, quando forma e compone dentro di noi un sentimento sostanziale ch' ella pensa e contempla. Quest' oggetto dell' immaginazione intellettiva è distinto da noi stessi, appunto perché egli ha meramente un' esistenza oggettiva; laddove noi abbiamo un' esistenza soggettiva, e non ci intuiamo come s' intuisce un' essenza, ma di piú ci percepiamo come un soggetto relativamente esistente , e cosí rispetto a noi l' essenza è appropriata e coll' ultimo suo atto particolareggiata. Egli è degno qui di notarsi, che la distinzione antichissima fra materia e forma fu tratta dalla cognizione che noi abbiamo de' corpi. E` la natura stessa che costituí due termini distinti: 1) lo spazio puro illimitato; 2) ciò che empie lo spazio, limitato. Dallo spazio puro, limitato da ciò che lo riempie, procede il concetto di forma , il quale in rispetto a' corpi abbraccia la grandezza e la figura ; ciò che riempie lo spazio somministra il concetto di materia . Per questo si può concepire in qualche modo la materia senza la forma. Sono separate per natura: sono termini diversi del sentimento. Se non fossero termini diversi del sentimento, né pur l' astrazione potrebbe dividerli. Dalle quali cose acquistano nuova luce i difficili concetti di essere in atto, e di essere in potenza. Anche questi antichissimi concetti filosofici nella loro origine furon tratti dalle percezioni e notizie nostre de' corpi. In fatti la materia corporea non potendo esistere se non vestita di una forma, pel sintesismo che ha con questa si disse che quella, presa puramente, era in potenza alla forma. In tal modo, della materia si fece un essere astratto suscettivo di tutte le forme. Questo concetto rimane spiegato tostoché: 1) si riconosce che la materia ha in natura una distinzione dalla sua forma, trovandosi bensí unita con essa nel nostro sentimento, ma venendo a questo sentimento i due elementi (la materia e la forma) da due fonti diversi; 2) e tostoché si riconosce che la materia sintesizza nel sentimento nostro colla forma, onde senza di questa ella rimane un essere astratto e possibile, e perciò appunto universale; ed essere un' entità universale è il medesimo che essere in potenza (1). Anche la forma poi dicesi in potenza alla materia; ma la forma ha natura d' iniziamento dell' essere, laddove la materia ha natura di termine. Quindi il termine si considera in potenza ad unirsi col principio, quando per astrazione da lui si divide; il principio si considera in potenza ad unirsi col termine, quando del pari si divide da lui coll' astrazione. Quando adunque piú entità dipendono l' una dall' altra per un sintesismo unilaterale, cioè tale che trovasi soltanto rispetto alla dipendente e non rispetto a quella da cui dipende, allora questa può essere realizzata senza l' altra, come accade dello spazio puro che può stare senza il corpo; e quella, cioè la dipendente, rimane ideale, cioè un ente in potenza, e però dicesi che è in potenza quella realità prima rispetto alla seconda, cioè che non ripugna alla realizzazione della realità da lei dipendente. Cosí è che lo spazio, e la forma sono in potenza a ricevere la materia, e il corpo. Quando gli antichi metafisici considerarono tutti gli enti come composti di materia e di forma, essi altro non fecero che generalizzare ciò che avevano osservato ne' corpi. Cosí la loro Ontologia non fu che la Fisica generalizzata. Ma il peccato maggiore che commisero gli antichi generalizzando il concetto di materia si fu ch' essi non giustificarono in modo alcuno tale generalizzazione, né provandola con qualche efficace raziocinio, né deducendola per via di osservazione di tutti gli enti cogniti (cosa per altro assai difficile). Or poi, che questo principio non goda della generalità attribuitagli, ma si debba restringere ad alcuni enti, lo si prova facilmente anche coll' esempio dello spazio puro, il quale non ammette alcuna composizione di materia e di forma benché sia contingente, ma è un ente semplicissimo avente natura di termine dell' anima sensitiva. Al presente nelle scritture filosofiche la parola materia ha due significati ben distinti, l' uno speciale e l' altro generale. Nel primo vale « ciò di cui constano i corpi ». Sarebbe a desiderarsi che si chiamasse questa materia corporea . Nel secondo significato piú esteso significa in generale « ciò di cui un ente è composto ». Ma 1) quando si dice « ciò di cui un ente è composto », allora si suppone che l' ente si componga di piú elementi, come appunto accade de' corpi, i quali risultano de' due elementi, cioè da una forma, e da una materia che la empie; questo dimostra che la materia non si può trovare dove l' ente non sia composto né componibile. 2) Di piú, l' espressione « un ente composto di qualche cosa »suppone che la cosa che compone l' ente di cui si tratta sia concepibile prima dell' ente, e che quand' ella entra nella composizione dell' ente, rimanga identicamente quella che era prima. La materia dunque non si può rinvenire se non in quegli enti, che non sussistendo per sé, vengono alla sussistenza per una via concepita dal pensiero, il quale gli rappresenta a se stesso prima come informi, e poscia come formati: non si dà dunque materia , neppure nel senso piú generale della parola, negli enti necessari, ma solo ne' contingenti . I soli contingenti adunque, e fra questi quelli che constano di ciò che si concepisce identico ancor prima che l' ente sia formato (1), hanno materia , presa quella parola nel suo piú generale significato. Il vocabolo termine ha un significato sempre relativo al suo principio; e il vocabolo principio ha un significato sempre relativo al suo termine. Al che non badando potrà sembrare che tali vocaboli in queste nostre metafisiche trattazioni si prendano a significare cose molto diverse; ma pur non è, e solo avviene quello che incontra di tutti i vocaboli che ammettono una latitudine grande e generalità di significazione, la quale rimane sempre la stessa benché si applichino a cose speciali diverse. Di queste cose diverse, a cui s' applicano i vocaboli di principio e di termine, facciamo una breve enumerazione. Prima è a separarsi l' ente assoluto e l' ente relativo. Nell' ente assoluto distinguonsi tre forme primitive da noi chiamate reale, ideale, morale. Lasciando da parte la morale che complicherebbe il discorso, riteniamo la forma reale e la ideale. Queste si possono anche chiamare forma soggettiva, forma oggettiva. Se si considera la relazione di queste due forme fra loro, trovasi che la soggettiva ha natura di principio , e la oggettiva ha natura di termine immediato. Ma qui, nell' ente assoluto, principio e termine non dividono l' ente; perocché nel termine vi ha tutto ciò che nel principio, eccetto l' esser principio; e nell' ente principio vi ha tutto ciò che nel termine, eccetto l' esser termine; di maniera che la distinzione delle forme può dirsi modale e non entitativa. Ma le due forme oggettiva e soggettiva, se si considerano rispetto all' ente relativo, dividono l' ente, cioè fanno che vi abbia un ente soggettivo diverso dall' ente oggettivo. Il che si vede considerando che la forma oggettiva non appartiene in proprio all' ente relativo, perché la forma oggettiva è l' idea spettante all' ordine delle cose eterne e necessarie; onde l' ente relativo non ha come sua propria, che la forma soggettiva e reale. Rimane adunque la forma oggettiva, separata dall' entità relativa, come un' appartenenza dell' essere assoluto; e dall' altra parte rimane la entità relativa, soltanto soggettiva, che riceve e partecipa il nome di ente unicamente perché s' appoggia alla forma dell' ente assoluto, pel quale appoggio viene oggettivata . Se dunque noi cerchiamo in questa relazione dell' entità relativa colla forma oggettiva ed assoluta, qual sia il principio e qual sia il termine; noi troviamo che la forma cioè idea è principio, e l' entità relativa, soggettiva solamente, è termine. Ciò vale per qualsivoglia ente relativo. Ma quale è poi la ragione che divide l' ente relativo in piú enti? L' ente relativo che è termine, considerato in relazione coll' ente assoluto, costituito che sia come ente, e in se stesso considerato, dividesi in principio e termine. Infatti principio e termine nell' ente relativo divide l' ente, cioè fa che l' ente relativo non sia un ente solo, ma vi abbiano piú enti relativi, alcuni de' quali sieno principŒ ed altri termini. Per vedere come ciò sia, egli è uopo distinguere tutti i termini proprŒ dell' ente relativo. Ora primieramente noi troviamo che l' idea è termine dell' essere intellettivo, intelligente; quell' istessa idea che abbiam detto essere suo principio per modo che da lei riceve la denominazione oggettiva di ente. L' idea dunque, la forma oggettiva, partenenza dell' essere assoluto, sarebbe ad un tempo principio e termine dell' essere relativo intelligente. Non sembra qui intervenire contraddizion manifesta? No; perocché ella è principio in un ordine, ed è termine in un altro. L' essere relativo intelligente è anch' egli, come ogni altro essere relativo, nell' ordine oggettivo, e in quant' è nell' ordine oggettivo egli ha per suo principio l' idea, di cui è termine come soggetto divenuto oggetto ossia oggettivato; ma in quant' è in se stesso come semplice soggetto egli è principio, ed ha per suo termine lo stesso oggetto, cioè l' ente oggetto e l' ente oggettivato. Veniamo ora a quei termini che si possono conoscere coll' osservazione ontologica nell' interno degli enti relativi, e che sono anch' essi enti relativi. L' essere relativo intelligente è separato dagli altri enti relativi per quel suo termine che appartiene all' ente assoluto. Questo termine adunque divide e separa l' essere intelligente e relativo tanto da sé, termine, quanto dagli altri enti relativi. Ora in tutti gli enti relativi il termine a cui s' appoggiano nell' ordine soggettivo è uno straniero, e però un altro ente che per ciò appunto dicesi extra7soggettivo. Or fra gli enti extra7soggettivi non è oggetto per sé se non quello che è termine dell' intelligenza, l' idea; gli altri sono meramente extra7soggettivi; e non essendo oggetto forz' è che appartengano ad un altro soggetto che resta occulto, ma che si rileva appunto mediante questo ragionamento dialettico. Una di queste entità è lo spazio, e un' altra è la materia; e queste due entità sono termini del principio sensitivo animale. Or poiché son termini stranieri, ne viene che l' essere principio e termine divida l' ente per modo che l' ente principio, cioè nel caso nostro l' anima sensitiva, sia un ente diverso dallo spazio e dalla materia. E questa è la confutazione ontologica del materialismo, ricavandosi ad evidenza che l' anima sensitiva non è estensione né corpo; ma che all' estensione e al corpo ella è opposta siccome principio al termine straniero. Nell' ordine adunque degli enti relativi il principio e il termine divide l' ente, perché il termine è straniero. La differenza ontologica poi fra lo spazio e la materia è questa, che lo spazio è illimitato e però unico, né può essere realizzato se non tutto intero. La materia poi non può mai essere realizzata tutta. La sua essenza è inesauribile: quindi ella è subietto di quantità, venendo realizzata piú e meno. Vero è che la materia è anch' essa unica nella sua essenza ideale; ma non potendo l' essenza della materia per quanto di lei si realizza rimanere esausta, tutto ciò che di lei si realizza rimane limitato, e queste limitazioni prendono il nome di forma quando limitano la materia da ogni lato, onde la materia è suscettibile di moltiplicazione per la sua forma, cioè per la sua onnilaterale limitazione. Quindi le forme della materia possono variare all' infinito; la materia all' opposto è identica sotto ciascuna. Ma conviene aver sempre presente, che queste forme della materia sono limiti, e però non sono enti positivi. Di che si può trarre una piú compiuta definizione della materia dicendo « che ella è un ente termine del principio sensitivo, ed è soltanto termine, e termine finito in se stesso d' ogni parte »; dove dicendola termine finito in se stesso intendiamo dire che è finita rispetto alla sua essenza; perché la sua essenza abbraccia sempre di piú di ciò che è la materia realizzata, essendo inesauribile. Cosí la significazione della parola materia involge una relazione colla sua forma sia che l' abbia già in realtà, o che la consideri come atta ad averla. Le quali dichiarazioni premesse, noi potremo tentare una classificazione analitica di tutti gli enti, e per analitica intendo una classificazione fondata sui loro elementi, sui caratteri pe' quali vengono dalla mente concepiti. Ora la materia essendo un concetto relativo alla forma , conviene che noi favelliamo anche di questa. Se si comincia dal considerare accuratamente ciò che volgarmente si dice la forma del corpo, vedesi: 1) che la forma contiene due elementi, lo spazio ed i suoi limiti; 2) che il primo elemento, cioè lo spazio, che è ciò che la forma ha di positivo, viene all' uomo da una fonte diversa da quella, onde gli viene la materia corporea ed i limiti della forma; 3) che i limiti dello spazio, i quali lo determinano ad una forma, non sono suoi propri, ma appartengono alla materia limitata secondo l' arbitrio del Creatore; ovvero all' immaginazione che ha virtú di rappresentarceli; 4) che il corpo non esiste senza una forma, non già perché egli sia spazio, ma perché sintesizza collo spazio. Quindi l' atto primo pel quale il corpo esiste, e a cui viene imposta la denominazione di corpo, può dirsi la forma acquistata dalla materia colla sua estensione nello spazio e co' suoi limiti. Di qui viene che il corpo sia la materia formata. Ma non si potrebbe egli anche definire il corpo la forma materiata? No; e si intenderà considerando che lo spazio il quale è l' elemento positivo della forma, non è già quello che diventa corpo (ente termine) coll' aggiunta della materia; perocché per la sua semplicità e indivisibilità egli non soffre dalla materia alcuna modificazione o perfezionamento, né riceve limiti. Non diviene dunque lo spazio corpo, né soggetto del corpo; ma presta unicamente alla materia il luogo ove ella sia. All' incontro la materia estendendosi nello spazio con dei limiti suoi propri, viene da questi limiti definita. Quindi si considera la materia come il subietto dei corpi, e la forma come un cotal predicato loro essenziale. Se ora prendiamo la parola materia, nel suo significato piú generale, per ciò di cui un ente si compone; ogni qualvolta noi in un ente possiamo pensare una realità (qualche cosa che cada nel sentimento), ma priva di quei limiti di cui abbia bisogno per sussistere, senza quell' ultimo atto che ne rende possibile la sussistenza, noi chiameremo quella realità materia , e quell' ultimo atto che perfeziona l' ente nel suo concetto , lo chiameremo forma , nel qual senso la forma si può definire: « il complesso di quelle determinazioni che individuano l' ente », ossia, per le quali l' ente è un individuo. Quando adunque si dice forma si dice bensí l' ultimo atto che perfeziona l' entità rendendola ente compiuto, ma non si creda che per un tale atto s' intenda la sussistenza , perocché, trattasi dell' ultimo atto che perfeziona l' ente nel suo concetto, sussista egli o no; non trattasi di quell' ultimo atto ontologico che dicesi sussistenza , ossia realizzazione dell' ente ideale. Onde altro è la sussistenza dell' ente, altro la forma , che non fa se non rendere possibile la sussistenza della materia. Si vede, che il concetto di forma vuol avere un' unità molteplice ed organica, perocché la forma racchiude tutte le determinazioni che dee avere la materia acciocché possa costituire un ente reale. Si può dunque definire la forma anche in questo modo: « il complesso delle determinazioni di cui abbisogna la materia perché somministri il concetto di un ente realizzabile ». Ora, se si suppone che il concetto dell' ente di cui si tratta sia dato nella mente, si può altresí coll' analisi distinguere la sua materia, e tutte le determinazioni che la costituiscono un ente. Il concetto dell' ente determinato precede dunque nell' ordine logico i concetti analitici di materia e di forma. Ma l' ente stesso come viene egli dato? La soluzione di questa questione giace nascosta nell' abisso dell' Essere assoluto : l' essenza dell' essere ci scorge talora a conoscere quali enti (in potenza) sieno impossibili, e son quelli che involgono contraddizione; ma nessun mortale può enumerar e conoscere tutti quelli che non l' involgono: è l' ordine essenziale dell' essere a noi nascosto nella sua origine, che determina e risolve un tanto problema. Tostoché è dato l' ente reale composto di materia e di forma, quell' ente con questi due suoi componenti si disegna nell' ideale, nel quale la mente vede una materia ed una forma possibile. Ma vi ha grandissima differenza fra il concetto di materia (materia possibile), e il concetto di forma (forma possibile). Primieramente la materia non si può pensare come possibile se prima non la si è percepita realmente sussistente; perocché ella risponde a quello che abbiamo chiamato lo stoffo dell' ente; lo stoffo non è altro se non la materia, come sta nella nostra percezione. In secondo luogo la materia è una, e però il concetto della materia non fa conoscere che una cosa sola, e questa cosa che fa conoscere non è un ente completo, e piuttosto, come lo chiamavano i Greci, gli conviene il nome di non ente. Onde una intelligenza col solo concetto di materia non conosce ancora alcun ente; e il concetto facendo conoscere solo l' elemento di un ente, e questo non ancora moltiplicabile, perché la materia non si moltiplica che per la forma, manca di ogni universalità, e quindi tale cognizione soddisfa cosí poco l' intelligenza, che con essa sola a lei pare di non aver incominciato ancora a conoscere; perocché la luce che soddisfa all' intelligenza umana è propriamente quell' idea, quei concetti, pei quali si conosce tutti gli enti possibili di una specie, d' un genere, o di un modo qualsiasi. Or questo è appunto l' officio che fanno i concetti delle forme. Primieramente è da avvertire che i concetti delle forme suppongono già il concetto di materia: perocché la forma non essendo che il perfezionamento della materia, questa rimane sempre presupposta. In secondo luogo, appunto perché la forma perfeziona la materia dandole quegli atti che la costituiscono ente, perciò anche la limita; e cosí la divide e la moltiplica. Onde questa materia che è infinita può ricevere dalla forma quanti confini si vogliano senza che perciò venga esaurita giammai. Di che accade che una forma medesima possa riprodursi e realizzarsi in un infinito numero di individui (1). Cosí accade che il concetto di una forma sia per se stesso universale. E qui si scorge la ragione, perché gli antichi, gli Aristotelici e gli Scolastici specialmente, confusero sovente le idee colle forme (2). Ma il vero si è, che le cose s' intendono non colle loro forme semplicemente, ma colle idee delle forme, cioè colle forme nel loro modo ideale di essere. Questa differenza è importantissima, perocché in primo luogo se ne trae che il concetto della forma non fa conoscere se non quegli enti che sono composti di materia e di forma. Oltre ciò apparisce che le forme in primo luogo appartengono alla realità, in maniera che se si prescinde da ogni realità, non si può concepire né pure nell' idealità alcuna forma, se non creandosi un' illusione coll' immaginazione. Insomma ogni forma è una limitazione, e niuna limitazione cade nell' essere ideale puro; le forme ideali adunque nascono dalla relazione categorica fra il reale e l' ideale, in quanto questo si usa dalla mente a conoscere quello, onde diviene come suo rappresentante. Dalle quali cose tutte si raccoglie: 1) Che l' essere possibili infiniti individui reali d' una stessa specie piena nasce dalla congiunzione della materia colla forma a cagione dell' indeterminazione e illimitazione di quella, e che perciò questo deve aver luogo in tutti gli enti composti di materia e di forma. 2) Che la forma non è il lume conoscibile per sé, ma questo lume è unicamente l' idea; la forma quindi è anch' ella prima reale e poi ideale , risultando il concetto ideale disegnato nell' idea dal confronto colla realità. 3) Finalmente che non si può con proprietà attribuire forma agli enti semplici, che non hanno materia e non sono ordinati ad informare la materia: e qualora si voglia chiamar forme le intelligenze separate, conviene mutare il significato della parola, cioè prescindere dalla relazione della forma colla materia, e pigliare la forma in senso di primo atto o simigliante. Distinti gli enti nelle due classi di principŒ e di termini, se ne può trarre una verità importantissima e fecondissima nell' Ontologia, che « ogni attività dee appartenere unicamente all' ente principio, ed all' ente termine non può appartenere che la facoltà di essere ricevuto e di patire ». Perocché egli è manifesto che il subietto dell' azione è il principio di essa, e perciò appunto si chiama principio perché indi incomincia e si propaga l' azione. All' incontro nel termine l' azione finisce e non incomincia, e perciò ivi non può avervi attività, ma anzi il fine dell' attività. Si dirà che ogni ente per esser tale dee aver qualche azione, almeno l' atto primo che lo fa esser ente, secondo l' assioma degli antichi: « Qui nihil agit, esse omnino non videtur (1) ». Ma è da considerarsi che il termine non sarebbe ente se non fosse unito al principio, e da questa unione di lui col principio riceve l' atto primo pel quale ha condizione di ente; onde anche quest' atto primo non è suo proprio, ma appartiene al principio da cui dipende. Onde l' ente che è soltanto termine dipende dal principio, dal quale ogni atto egli riceve. Ritornando ora al principio, che dee dirigerci nella investigazione dell' ente reale, e che è perciò il principio rettore di tutto questo libro, noi dicemmo che « lo stoffo dell' ente reale non si conosce da noi che per via di percezione » [...OMISSIS...] . Dopo di ciò noi favellammo della veracità della percezione nel capitolo dove esponemmo la teoria della rappresentazione [...OMISSIS...] . Finalmente noi trattammo dell' immaginazione intellettiva , la quale ci rende presente un ente reale benché attualmente nol percepiamo. Egli è necessario indagare qui qual veracità si abbia l' immaginazione intellettiva; e ciò pel pericolo che nella dottrina dell' ente reale si intromettano delle illusioni non conformi alla verità. L' immaginazione intellettiva , come abbiamo veduto, è quella facoltà per la quale, dato un sentimento, la mente pensa un ente non agente attualmente nel senso, e lo pensa di quello stoffo che è somministrato dal sentimento attuale. Ora da questa facoltà dell' immaginazione intellettiva noi abbiamo tenuta distinta l' altra dell' affermazione . Imperocché altro è immaginare un ente fornito del suo stoffo, compiuto di tutto punto, che è appunto la specie piena attuata dinnanzi al pensiero, altro è affermare e persuadersi che quell' ente sussiste. Quell' ente semplicemente immaginato è ancora un ideale, un concetto; ché noi abbiamo pure veduto che anche lo stoffo di un ente è nelle due forme categoriche, la ideale e la reale [...OMISSIS...] : quest' ente all' incontro affermato come sussistente è reale, o supposto come tale (ente ipotetico), o tale creduto (ente illusorio). Da ciò si deduce che l' immaginazione intellettiva è verace; perocché non è funzione di lei affermare che quell' ente sta presente alla percezione; ma questo, se ha luogo, è solamente errore del giudizio (dell' affermazione), che prende l' immaginato per un percepito. La semplice intuizione immaginaria è verace, posto che l' ente immaginato non involga contraddizione. Poiché vi hanno due maniere di vero, come vi hanno due maniere di cognizione: le cognizioni intuitive, e le cognizioni di predicazione. Il vero, ossia la veracità delle cognizioni intuitive, consiste unicamente nell' assenza di contraddizione, poiché, non avendo contraddizione in se stesse, esse appartengono all' essere possibile, e l' esser possibile o ideale è la verità (1). Il vero poi delle cognizioni di predicazione consiste in questo, che ciò che si predica sia nel subietto di cui si predica. Ora l' immaginazione intellettiva appartiene all' intuizione. Nell' oggetto dunque dell' immaginazione intellettiva non vi ha nulla di potenziale; tutto è attuale. Ma noi abbiamo veduto che la contraddizione non si nasconde se non nei concetti potenziali. Dunque l' immaginazione intellettiva non può essere che verace; benché in appresso possa cadere l' errore in quella affermazione colla quale si pronuncia che l' oggetto immaginato è sussistente. Rimettendoci or dunque in via, il primo e originario fonte di ogni nostra cognizione del reale si è la percezione intellettiva, che è quanto dire: « la apprensione del sentimento, o di quanto cade nel sentimento ». Di questa rimane la memoria e poi ella si spezza nei tre elementi dell' affermazione, dell' idea, e del sentimento; e lasciando il primo da parte, gli altri due costituiscono il concetto specifico7pieno. Succede l' immaginazione intellettiva, che richiama in atto questo concetto dopoché è cessato di esser presente all' attenzione. Quindi all' opera dell' immaginazione intellettiva si associa l' astrazione. Vedesi adunque che tutto questo edificio di pensieri intorno all' ente reale ha per sua base e materia prima la percezione; e che perciò se noi osserveremo ciò che ci dà in origine la percezione dei reali, avremo lo sgranellato, per usare una frase del Romagnosi, di tutte le nostre cognizioni intorno al reale; e le classi primitive, per cosí dire, dei reali a noi conosciuti. Queste sono le seguenti: 1) Il sentimento di noi stessi, il quale è la prima sostanza reale, e come conosciuto a se stesso è un ente principio . 2) Il termine corporeo che ha l' anima nostra, termine a cui l' anima è unita per natura, per la percezione fondamentale. 3) La sostanza corporea extra7soggettiva. 4) Finalmente io sono persuaso che anche le anime altrui, si dieno a percepire alla nostra, non però nude, ma insieme co' corpi che esse informano, onde si generano gli affetti dell' anime fra loro. 5) Nell' ordine soprannaturale poi vi ha indubitatamente la percezione di Dio, la quale è fondamento alla dottrina che deve esporsi nell' Antropologia soprannaturale. Le nostre cognizioni intorno all' ente reale possono adunque ripartirsi in due grandi classi, le immediate e le mediate . Le cognizioni immediate sono quelle che ci vengono fornite dalla apprensione immediata dell' ente, cioè dalla percezione , e dall' immaginazione intellettiva che n' è la universalizzazione. Le cognizioni mediate procedono dal ragionamento che si fa sulle immediate, il quale è duplice, analitico e dialettico trascendentale . Fin qui noi abbiamo applicato all' essere reale immediatamente conosciuto il ragionamento analitico. A questo ragionamento appartien la notizia, che l' ente reale risulta quasi da due suoi primi organi, dal reale e dall' ente, cioè dalle due prime forme categoriche: cosí pure, che alcuni enti reali si compongono di materia e di forma. Finalmente anche quelli che non si compongono di materia e di forma, se sono enti finiti, si compongono di positivo e di negativo, cioè di entità reale e di limiti di questa realità «( Teodicea ) ». Vuol notarsi accuratamente, che i limiti degli enti si partono in due classi: altri sono accidentali , i quali si restringono o si dilatano senza che l' ente perda la sua identità; altri sono necessari ; e questi ultimi costituiscono la natura dell' ente e si dicono ontologici. Ma trattandosi di enti completi, cioè di quelli che risultano da un principio e da un termine, le limitazioni ontologiche si suddividono in due altre classi: perocché o limitano il principio, o limitano il termine. Ora, se il termine fosse mutato intieramente, l' identità dell' ente andrebbe sicuramente a perdersi. Ma se il termine rimane della stessa natura, l' aggiungersi un altro termine di tutt' altra natura adduce certamente un cangiamento sostanziale nell' ente; ma non per questo rimane perduta l' identità dell' ente. E questo è ciò che accade nell' ordine soprannaturale. All' incontro quelle limitazioni ontologiche che limitano immediatamente il principio degli enti, li costituiscono altresí per quello che sono, e non si possono alterare se ad un tempo non si smarrisca anche la loro identità. Queste limitazioni ontologiche costituenti , sono state prese alcune volte da' filosofi per la forma degli enti, e furon quelle che ingannarono l' Hegel, e il condussero a far venire il positivo stesso dal negativo. Per altro esse hanno in sé qualche cosa di oltremodo mirabile e misterioso; giacché per esse avviene che un ente limitato non può essere un altro. Acciocché si possa intendere come un ente limitato escluda da sé tutti gli altri, conviene supporre che l' essenza loro dipenda dalla stessa loro limitazione: la limitazione dunque ontologica7costituente entra nella essenza dell' ente, è un elemento negativo, ma che influisce sul positivo, lo determina e propriamente il forma. Acciocché la cosa si possa intendere, conviene ricorrere alla natura dell' ente relativo . Questo è costituito dalla relazione, è ente relativamente a sé; e solo relativamente ad un sé, a un principio di sentire e d' intendere, l' ente può essere limitato. La esclusione dunque nasce dalla relatività dell' ente . E che la cosa sia cosí, si può convincersi maggiormente ripensando a ciò che nasce nella propria coscienza. Ciò che a me non si riferisce, non esiste per me: egli è fuori di me. Cosí questo me è un principio relativo, che limita l' essere; e ne esclude da sé la massima parte. Ma il principio del sentimento non esiste che nel sentimento, senza di questo è nulla. Non vi ha dunque una divisione possibile fra il principio dell' ente e l' ente, ma il principio è nell' ente come un elemento nel tutto. Dunque l' ente di cui si tratta ha una relatività in se stesso: l' intima sua costituzione è dunque quella che lo divide dal mare dell' essere, per cosí dire, lo rende esclusivo, limitato, incomunicabile. Questo fatto è dato dall' esperienza, e non involge contraddizione; né pregiudica all' unità di tutto l' essere; perché quest' unità appartiene all' essere assoluto, e la limitazione è relativa, e appartiene all' essere relativo. Or poi quanti e quali possano essere enti sussistenti limitati, condizionati, relativi; questo è quello che rimane occulto negli abissi dell' essere assoluto, al cui fondo lo sguardo umano non può penetrare. Tornando dunque al ragionamento analitico applicato agli enti reali, a lui è dovuta ancora quella classificazione degli enti, che abbiamo esposto nel capitolo XXVIII di questo libro. Il ragionamento analitico trova ciò che è nell' ente reale conosciuto immediatamente; il ragionamento dialettico trova ciò che deve essere in esso o fuori di esso, acciocché egli sia un ente completo. Il ragionamento analitico non fa che riconoscere parte a parte ciò che è dato dalla percezione e dalla immaginazione intellettiva, senza aggiunger nulla; il ragionamento dialettico considera ciò che è dato dalla percezione e dell' immaginazione intellettiva come un condizionato, e ne cerca le condizioni. Il ragionamento analitico non applica piú l' idea dell' essere, e si contenta di averla come data nel percepito e nell' immaginato; ma il ragionamento dialettico tiene dinanzi l' essere ideale come un esemplare a cui riscontrare il percepito e l' immaginato, e conosce ciò che gli manchi per adempire la compiuta nozione di ente. Il pensiero dialettico, tenendo fissi gli sguardi nella natura dell' essere come in esemplare e norma di giudizi intorno all' ente, domanda che tutti questi caratteri si avverino e dichiara che dove non si avverino, ivi non è un ente completo: dove ne scorge alcuni, conchiude che vi debbano indubitatamente essere anche gli altri, facendo questo sillogismo: « Alcuni caratteri, elementi, organi o condizioni dell' ente sono: la percezione me ne assicura; Ma all' ente non può mancare nessuno de' suoi caratteri, elementi, organi, e condizioni essenziali, né questi possono andar divisi; Dunque anche tutti quei caratteri, elementi, organi, e condizioni essenziali, che non sono dati dalla percezione, debbono esservi »(1). Cosí il ragionamento dialettico colla guida dell' essere intuíto esce dai confini della percezione e dell' immaginazione intellettiva; e perviene all' invenzione di nuovi enti, e di nuove verità che non cadono nell' esperienza. Or qual' è l' ufficio del pensare dialettico trascendentale? Non altro se non ridurre ad un pensiero attuale ciò che prima era nel pensiero virtuale e potenziale. L' elemento virtuale adunque, che è nella percezione e nell' immaginazione intellettiva, è il germe che si sviluppa col ragionamento dialettico, per un continuo novello confronto fra ciò che si percepisce, e l' essere ideale che nella percezione stessa si comprende. Uno dei piú importanti principŒ, di cui fa uso il ragionamento dialettico trascendentale, è quello che nasce dal quarto carattere ontologico, che l' ente dee essere un atto primo , acciocché sia concepibile, sia possibile. Di qui il principio che, ogni qualvolta l' atto primo è nascosto al pensiero, si dee conchiudere indubitatamente che egli tuttavia non manca, e il pensiero virtuale tacitamente lo suppone, il pensiero poi dialettico ed attuale è autorizzato ad affermarlo. Questo assioma trae seco amplissime conseguenze, la prima delle quali si è che « ogni qualvolta ciò che noi pensiamo è un ente termine, riesce ontologicamente necessario che esista un principio a lui corrispondente, che lo completi ». L' essere ideale ha ragione di principio rispetto a quella esistenza oggettiva che le cose hanno nella mente, è il principio oggettivo , ma non è un principio soggettivo, e noi parliamo ora di questo. Considerando l' essere ideale in rispetto all' ente soggettivo , egli non ha ragione di principio, ma di termine medio , di maniera che nell' ordine ontologico egli ha avanti di sé per suo principio il soggetto. Ma se noi consideriamo l' essere ideale rispetto al soggetto uomo, noi troviamo ch' egli ritiene pure la nozione di termine medio; e si riscontra una singolare analogia fra questo termine medio nel soggetto intelligente, e lo spazio che è pure termine medio nel soggetto senziente. Del rimanente, l' essere ideale nell' uomo è anch' egli un termine straniero. Il principio intelligente riceve dall' essere ideale l' oggetto primo che lo rende intelligente, egli riceve e non dà; dunque l' ente oggetto non può essere produzione del principio intelligente umano, ma egli esige l' esistenza d' un' altra attività, d' un altro principio che rimane all' uomo occulto. Ma qual principio suo proprio può avere l' ente oggetto? Un soggetto, come abbiam detto. Dunque l' ente oggetto suppone necessariamente, e virtualmente contiene l' esistenza d' un soggetto suo proprio, il quale sia principio soggettivo del termine medio oggettivo. Ma il principio dee essere adeguato al suo termine proprio, col quale egli costituisce un solo essere. Ora l' essere ideale è universale, infinito. Dunque egli suppone un soggetto infinito per suo principio. Questa è la dimostrazione dell' esistenza di Dio a priori , che si presenta in tante guise diverse, ma che è sempre la stessa nel suo fondo (1). Il ragionamento dialettico trascendentale adunque dimostra l' esistenza di enti che non cadono nella nostra esperienza, tanto partendo da quegli enti termini che sono dati nella costituzione del nostro sentimento, quanto partendo da quell' ente termine7medio, che è dato nella costituzione della nostra intelligenza. Ora possiamo sciogliere la questione « se l' essere reale si riduca sempre ad un sentimento ». In primo luogo, se noi poniam mente all' esperienza, questa non ci dà altri esseri reali se non quelli che hanno natura di termine, ovvero di principio. Ora i principŒ sono i soggetti, tutti dotati di sentimento. I termini reali poi sono i sentiti, i quali si riferiscono al principio senziente, e però sono nel sentimento. Ma se noi applichiamo a questi dati dell' esperienza il ragionamento analitico, troviamo: 1) che la parola sentimento significa propriamente l' atto ultimato del principio senziente; 2) che il termine sentito o è proprio, o straniero. Se è proprio, egli è lo stesso principio senziente come sentito. Cosí nel sentimento espresso con il vocabolo Io , il senziente e il sentito s' identificano; 3) ma se il termine è straniero, egli ha bensí un rapporto essenziale col principio straniero col quale è unito, ma non gli appartiene l' atto proprio del principio straniero, e però neppure il sentimento. Quindi egli si rappresenta al veder nostro semplicemente come materia del sentimento, materia bensí sentita, ma che potrebbe anche essere non sentita. Cosí il pensar comune è giustificato; ed egli non deroga menomamente alle verità filosofiche da noi esposte. Fra queste verità vi ha quella che ogni termine straniero addimanda un principio suo proprio, che è al di là della nostra esperienza. Ora il sentimento di tale principio proprio appartiene a quella entità che è a noi termine straniero, e però anche questa rientra nel sentimento. Ma quella entità che è a noi termine straniero non è già sentita dal suo principio proprio come è sentita da noi, poiché da noi è sentita come straniera e priva al tutto di principio proprio. Quindi nel termine del nostro sentire si debbono distinguere tre cose. Esso termine attualmente sentito; la materia che si suppone non sentita, e questa è un' entità astratta che si forma rimovendo dal sentito la qualità di sentito, dopo di che ci rimane un quid incognito, di cui altro non si conosce se non l' attitudine ad esser sentito; e la stessa materia sentita non da noi, ma dal suo principio proprio con un sentimento diverso dal proprio. Onde quella materia che rimane in mezzo ai due sentimenti si considera come materia identica dell' uno e dell' altro. Ma propriamente parlando ella non esiste separata dai due senzienti, ma è un cotal figmento della maniera nostra limitata di concepire; e quindi neppure ella è identica ai due sentimenti. Il concetto adunque di questa materia non ci fa conoscere che cosa ella sia in se stessa, ma solo ci fa conoscere avervi un' entità reale, la quale trovasi in un contatto di sensilità col nostro principio senziente, dal qual contatto esce il nostro sentito. Ora, questo concetto negativo è il concetto di una realità pura ed astratta , che è qualche cosa di anteriore al sentimento, e però appunto dicesi pura; 4) troviamo adunque che in ogni sentimento, come pure in ogni sentito, vi ha un' attività. Ora l' astrazione suol separare anche l' attività del sentimento dal sentimento; e a quest' attività suol pure dare il nome di realità pura , cioè separata dal sentimento che la completa. Ma anche qui non dobbiamo ingannarci prendendo i prodotti dell' astrazione quasi per sé essenti, come enti reali. Perocché se si parla del sentimento, lasciati a parte i termini stranieri, l' attività è sentimento ella stessa. Vero è che l' effetto di questa attività del sentimento si manifesta anche fuori del sentimento, modificando la materia del medesimo. E poiché quest' azione noi poniamo che appartenga ad un principio senziente che non viene raggiunto dalla nostra esperienza, quindi il concetto di azioni reciproche fra principŒ diversi che immutano reciprocamente i sentimenti proprŒ nei loro rapporti attivi. Il qual fatto è importantissimo, e non cosí facile a spiegare. Perocché, che un sentimento sia attivo entro la propria sfera s' intende, ma che egli produca un effetto fuori di questa, egli è un nodo difficile a sciorre. Tanto piú che l' effetto da esso prodotto in un altro sentimento non è da lui sentito, almeno nello stesso modo come lo sente chi riceve l' effetto. E pure il fatto de' termini stranieri dimostra, che il principio proprio di questi, comeché sia, influisce nel principio straniero in modo da somministrargli il termine. Se noi analizziamo questo fatto, dalla descrizione di un fatto cosí meraviglioso, qual' è l' azione e la congiunzione attiva e passiva dei principŒ sensitivi, si possono cavare le seguenti conclusioni. Se si tratta di quella congiunzione attiva e passiva per la quale gli enti relativi si costituiscono, convien dire ch' ella appartiene alla loro natura. E nel vero ella è appunto quel sintesismo, pel quale sussistono e reciprocamente si sostengono, onde gli enti non si possono concepire senza questa loro congiunzione essenziale, senza la quale perirebbero. La ragione pertanto di questa congiunzione dee cercarsi unicamente nell' autore della loro natura. Infatti non si potrebbe in essi trovare ragione che spiegasse tale congiunzione, essendo ciascuno un ente per sé. Or questo è nuovo argomento, col quale il ragionamento dialettico trova la necessità di una terza potenza che, quasi disposando due enti fra loro, li costituisca entrambi. Coll' astrazione si separa quell' azione di uno che è passione dell' altro, come fosse cosa diversa dai sentimenti stessi; ma propriamente è da dire che entra ella stessa in entrambi i sentimenti, come termine in chi lo fa, e principio ma principio straniero in chi la riceve. E cosí s' avvera che l' ente reale non sia altro che sentimento, ma sentimento suscettivo d' azione e di passione. Di che non di meno avviene che si formino colla mente due astratti, separandosi il sentimento dall' azione , e separandosi l' azione dal sentimento ; la quale separazione non esiste in natura, ma solo nell' ontologia scientifica in quant' è frutto dell' astrazione. Di che si passa facilmente all' errore di credere che si dia azione e passione senza sentimento, o che si dia sentimento senza azione o passione; laddove nella natura queste cose non ne formano che una, un ente solo, il quale sentendo agisce o patisce, ed agendo o patendo sente. Del resto, non deve essere leggermente trapassata l' osservazione che noi facevamo di sopra, che l' azione e passione di due principŒ senzienti suppone un terzo ente, o certo una ragione fuori di essi. Un terzo ente che ad un tempo stesso che fa esistere i due principŒ, li mette ancora fra loro in comunicazione: l' uno non può trovar certamente l' altro perché non lo sente; e perciò appunto è necessario che una terza forza sia quella che li congiunge; e poiché il congiungerli è lo stesso che porli in essere, perciò questa terza forza è quella che li pone in essere, che dà loro l' esistenza. Veduto come si distingue il concetto di azione dal concetto di sentimento, dobbiamo vedere come si distingua il concetto di essere dal sentimento medesimo. Il concetto di essere è il medesimo che il concetto di primo atto; e il primo atto è assoluto o relativo. Il primo atto assoluto è quello che è primo assolutamente cioè universalmente, di maniera che non se ne possa pensare un altro avanti di lui. Il primo atto relativo è quello che è primo nella sfera di un sentimento limitato, di limitazione ontologica, cioè tale che lo costituisce separandolo da ogni altro. Or si domanda se il concetto di atto primo, o sia di essere, diversifichi dal concetto di sentimento, di maniera che un ente possa essere non sentimento. Rispondesi, che in quanto all' essere assoluto, il concetto di essere o di atto primo è sotto ogni forma sentimento, ma non nello stesso modo, poiché nella forma reale è sentimento7principio, nella forma ideale è sentimento termine7medio, e nella forma morale è sentimento termine7ultimo. Rispetto poi agli esseri relativi, essendoci data in natura un' azione che non è sentimento rispetto a noi, perché il sentimento suo proprio ci rimane incomunicato e nascosto; perciò egli deve accadere e accade, che movendo da tali azioni l' intendimento nostro si formi il concetto di esseri privi affatto di sentimento. Perocché data a noi l' azione non sensitiva, l' intendimento nostro considera necessariamente o lei stessa come prima azione, primo atto, e però come ente insensitivo; ovvero ascende da essa a trovare un' azione prima, un primo atto che sia l' ente a cui ella appartiene, per quella legge ontologica per la quale la mente è sospinta sempre a pensare il primo atto, cioè l' ente come oggetto necessario del pensiero «( Psicologia , P. II, l. IV, c. VII) ». E cosí è che il pensiero comune giustamente concepisce una materia insensitiva, e in generale degli enti che non sono sentimento. Ma l' ontologo mediante le meditazioni che abbiamo esposte viene ad accorgersi che gli esseri insensitivi sono propriamente entità risultanti e relative di secondo grado, non veri enti primitivi relativi di primo grado. Or qui ci si offre una difficoltà. Se l' ente deve esser uno, come accade egli, che risulti sovente da un principio e da un termine? Si ponga attenzione che il solo termine non può giammai costituire un ente, benché possa costituire una sostanza relativa all' appercezione umana; d' altra parte il principio reale ha natura di soggetto, e però di ente soggettivo che è infine quanto dire di ente reale. Ora ogni principio reale è soggettivo e semplice ed uno: quindi la semplicità e l' unità dell' ente reale risiede nella semplicità e unità del principio reale soggettivo (1). Ma si dirà: il termine adunque non entra egli per nulla nella composizione dell' ente? - Si distingue il termine straniero , e il termine proprio dell' ente . Il termine straniero non è piú che un eccitatore e anche suscitatore del principio; ma tali termini non si confondono punto col principio, questo rimane l' unico soggetto suscitato: e il soggetto, che è uno e incomunicabile, è il solo ente reale. La moltiplicità dunque rimane fuori dell' ente, rimane nel termine che non è ente; l' unità e la semplicità è nel principio, che propriamente è ente. Il termine proprio all' incontro non è che l' ultimo atto dell' ente, e, per cosí dire, la punta dell' atto. Noi non abbiamo esperienza di alcun ente, il cui ultimo atto non abbia bisogno di un termine straniero; questa è la prova ontologica, che tutto l' universo a noi percettibile non è per sé, ma per altro. Tutti gli enti a noi cogniti finiscono adunque col loro atto in termini che non sono dessi. Ma non ripugna il pensare un ente, il quale avesse tali termini, i quali fossero desso. E questo è quello che indubitatamente avviene nell' essere Divino. Imperocché egli deve contenere i tre modi categorici, essere ad un tempo reale, ideale, e morale. Per altro egli è evidente che l' ente che ha un termine suo proprio, sarebbe semplice ed uno, appunto per la perfetta identità che passerebbe fra l' ente principio e l' ente termine; la distinzione sarebbe ne' modi di essere, e non nell' essere stesso; la divisione si farebbe nell' astrazione, ma non nello stesso ente. A rigore: non è ente veramente completo se non l' assoluto. Tuttavia si dicono relativamente completi quelli enti, che sono suscettivi di coscienza, i quali sono in se stessi e virtualmente a se stessi; onde relativamente a sé sono completi; perché essi non sentono il bisogno, per essere, che di se stessi. Ma oltre questi enti ve n' hanno di quelli che sono anche relativamente incompleti, e sono quelli, i quali non sono in sé, né a sé, non hanno veruna relazione seco stessi, perché non hanno sentimento proprio, e quindi non possono avere un sé , ma la loro esistenza è interamente relativa ai primi dotati di un sentimento proprio intellettivo che sono in sé. Tali sono appunto lo spazio, la materia, i corpi. Gli enti relativi dunque si dividono in due grandi classi: 1) in quelli che hanno un' esistenza relativa a sé; 2) in quelli che hanno solamente un' esistenza relativa ad altri, cioè a que' primi. Vero si è che l' uomo ha una naturale inclinazione d' attribuire alle cose diverse da sé un' esistenza simile alla sua subiettiva (1). Egli ha ben anco di ciò fare una cotale necessità dialettica, perocché non può concepire un ente, senza attribuirgli un' esistenza subiettiva. Ma questa necessità è appunto soltanto dialettica , cioè è una necessità che egli ha di cosí supporre ogni ente qual condizione necessaria a concepirlo (2). Ma queste necessità dialettiche , sono mere supposizioni , mere aggiunte provvisorie per arrivare a concepire gli enti; le quali aggiunte l' uomo stesso le abbandona tostoché si pone a ragionare sugli enti già concepiti. La prima classe adunque di enti relativi ha non solo un' esistenza oggettiva , ma ben anco un' esistenza soggettiva ; la seconda classe ha un' esistenza oggettiva , ma non soggettiva . La prima classe contiene gli enti primitivi , nell' ordine della relatività, la seconda classe contiene gli enti risultanti dalla connessione, e dal sintesismo degli enti primitivi fra loro. L' ente completo assolutamente ha un' esistenza oggettiva sua propria, laddove l' ente completo relativamente ha un' esistenza oggettiva partecipata. Sotto il qual aspetto, gli enti si possono distribuire in tre classi, che sono: 1) Ente completo assoluto , il quale ha un' esistenza oggettiva propria , e cosí parimenti una propria esistenza soggettiva ; 2) Ente completo relativo , il quale ha un' esistenza oggettiva partecipata e non propria, ed un' esistenza soggettiva propria ; 3) Ente incompleto relativo , il quale ha un' esistenza oggettiva partecipata , niuna esistenza soggettiva. Ma torniamo al carattere dell' unità , che deve aver l' ente per legge ontologica. Questa investigazione conduce a vedere che l' unità ontologica è tale, che non esclude ogni moltiplicità, e quindi a conciliare la moltiplicità coll' unità ontologica. In fatti, la prima maniera di unità, è quella che essendo semplicissima, esclude ogni moltiplicità. Or questa specie di unità non si riscontra negli enti completi , né tampoco negl' incompleti ; ma tutt' al piú negli astratti, che non sono propriamente enti, ma piuttosto entità divise ipoteticamente col pensiero dal resto che hanno congiunto. Questa maniera di unità astratta , o di uno astratto , si può chiamare acconciamente elementare , perocché non può rappresentare che un elemento , non mai un ente. Ad essa si può ridurre 1) l' unità di numero, l' uno ; 2) l' unità di punto matematico ; 3) l' unità dell' estensione illimitata ; 4) l' unità dei singoli atti, delle singole potenze, dei singoli abiti , ecc.; 5) l' unità della qualità ; 6) l' unità della relazione , e dell' abitudine ; 7) l' unità dell' essere ideale . Questa unità elementare non è l' unità ontologica . Conviene adunque che noi cerchiamo un' altra maniera d' unità, la quale colla moltiplicità si compone; e per agevolarcene la ricerca, investighiamo quali sieno le pluralità che non distruggono l' ontologica unità. Noi possiamo enumerare le seguenti: I) L' essere assoluto è nei tre modi categorici: in ciascuno è identico e intero - quindi la pluralità dei modi categorici, in cui l' ente è identico, non toglie la sua unità. II) Gli esseri relativi completi , considerati nella loro esistenza soggettiva hanno dei termini stranieri; ma essi appunto perché stranieri, non entrano in composizione con quell' ente che in essi termina. Questi enti dunque, per avere tali termini, non perdono la loro unità ontologica. III) In quanto all' esistenza oggettiva degli enti, essa giace nell' essere ideale: ora questo non toglie l' unità ontologica per le seguenti ragioni: 1) Se si parla dell' essere assoluto , l' essere ideale non può distruggere l' unità dell' ente; perché questo è identico nei due modi di esistere, il soggettivo e l' oggettivo; 2) Se si parla degli enti relativi completi, ovvero incompleti, la loro esistenza oggettiva è nella mente; e noi abbiamo veduto che nella mente l' ente ideale e il realizzato è identico «( Sistema Filosofico , n. 23 sgg.) ». IV) Gli enti relativi incompleti, che abbiamo chiamato anche risultanti , o termini risultanti , hanno una moltiplicità relativa al soggetto o principio a cui sono termine, la quale è reale, benché essi non sieno soggetti . Ora, essendo a noi nascosta la natura di questo principio proprio, consegue che noi non sappiamo in che modo questo principio straniero produca que' piú termini, e se egli è un solo principio, forz' è che in lui vi abbia la pluralità del termine, come quello che essendo semplice, la può accogliere in sé medesimo. Tutte le grandi questioni ontologiche si riducono a due; la prima è quella astrattissima che si volge intorno la pura essenza dell' essere che nell' idea si contempla; la seconda è quella che tratta della costruzione dell' essere , e questa discende all' essere reale. Noi ci proponiamo in questo capitolo di entrare in questa seconda questione dell' ontologia, e ne uscirà forse un commentario a quella soluzione data da Anassagora (1) con sí brevi parole, che Socrate se ne lagnava (2). Noi vogliamo adunque dimostrare, che vi deve essere un' intelligenza non già per la necessità di spiegare i vestigi di una causa intelligente che si manifestano nel creato; ma perché senza un' intelligenza l' ente non sarebbe costituito, e però non vi potrebbe essere alcun ente; la quale è necessità ontologica. L' ente infatti è per sé necessario; perocché quello che è per essenza, non può non essere. Dunque è pure necessario tutto ciò che ha natura di condizione o di elemento costitutivo dell' ente. Se dunque si prova che l' ente non si potrebbe concepire, qualora non vi avesse intelligenza, con ciò sarà provata la necessità ontologica di questa. Rammentiamo che l' ente termine non può stare da sé solo senza il principio a cui essenzialmente si riferisce, e quindi che il sentito corporeo non può stare senza il principio senziente. Da questo viene immediatamente la conseguenza, che il pensare che non vi avesse nell' universo se non materia e corpi, è un pensare assurdo, perocché quando si dice materia e corpi si dice termini, e quando si dice termini si dice relazioni con un principio, e cosí si afferma implicitamente il principio. Quando poi si dice che non si hanno se non corpi e materia, allora si nega l' esistenza del principio. Dunque si afferma e si nega nello stesso tempo: dunque vi ha contraddizione. Questa è la prima confutazione ontologica del materialismo. Dimostrata la necessità ontologica dell' essere senziente, rimane a dimandare, se vi abbia contraddizione intrinseca anche nella supposizione che non vi avessero altri esseri fuorché il senziente. In primo luogo, questo essere puramente senziente, per la supposizione stessa sarebbe privo d' intelligenza, e però non avrebbe, né potrebbe avere alcuna coscienza di sé. Un Sé non esisterebbe; neppure esisterebbe chi potesse applicare a questo essere senziente il pronome Tu o Egli. Egli non sarebbe dunque né a se stesso, né ad alcun altro essere. Conviene conchiudere che non sarebbe del tutto. Poniamo l' obbiezione piú ovvia: « un essere senziente, se non vi avesse alcuna intelligenza, certo non potrebbe essere né conosciuto né affermato; ma come dimostrate voi, che egli non potesse essere al tutto, quantunque praticamente incognito a se stesso o ad altro chicchessia? ». In questa obbiezione parlasi d' un principio senziente che si suppone atto ad essere conosciuto, si suppone possibile, si suppone tale che abbia un Egli ed un Sé; il che è quanto dire, si suppone, che insieme con lui esista un' intelligenza, il che distrugge la supposizione fondamentale del ragionamento. Si rifletta che l' obbiezione fatta di sopra si riduce a questa proposizione: « potrebbe essere un ente senziente del tutto sconosciuto ». Ella si appoggia adunque sulla possibilità di un tale ente. La questione adunque si riduce tutta alla possibilità. Or che cosa è la possibilità? Noi abbiam detto piú volte, non è altro che l' intelligibilità. Dunque quando si dice un ente possibile, con questo stesso si ammette che sia intelligibile; ed essere intelligibile è lo stesso che avere una relazione con una intelligenza. Si suppone adunque, senza avvedersene, che una intelligenza esista all' atto dell' essere senziente. L' obbiezione adunque parla di un essere sconosciuto; ma nello stesso tempo suppone che sia conoscibile. Ora acciocché ella avesse forza dimostrativa, dovrebbe parlare di un ente non pure non conosciuto, ma anche non conoscibile, il che è quanto dire non possibile. Si replicherà che quest' essere intelligente basta che sia possibile anch' egli, non è necessario che sia sussistente. Ma si risponde, che il replicare cosí altro non sarebbe che il perdersi entro un circolo vizioso ovvero un progresso all' infinito. Perocché se si riconoscesse necessaria la possibilità , acciocché l' ente senziente sussista (e per vero dire ciò che non è possibile non sussiste); e quindi si riconosce la necessità che v' abbia un' intelligenza possibile; dove poi si porrà la possibilità di questa intelligenza? Converrebbe ricorrere ad un' altra intelligenza possibile. E posciaché la serie di queste intelligenze possibili non può andare all' infinito; cosí conviene di necessità fermarsi ad una intelligenza sussistente, nella quale si trovi la sede della stessa possibilità. La dimostrazione medesima si deriva da altri principŒ da noi stabiliti. Noi abbiamo veduto che il reale non può stare senza l' ideale pel sintesismo di queste due forme. Ora enti sensitivi, senza piú, sono reali. Dunque addimandano i loro ideali corrispondenti. Ma l' ideale è il termine oggettivo dell' intelligenza. Il termine poi non può stare senza il principio. Convien dunque che vi abbia un principio intellettivo nell' universalità delle cose, acciocché vi possa avere l' ideale che in esso essenzialmente dimora; e convien che v' abbia un essere ideale che costituisce la possibilità del reale, acciocché vi possa avere l' ente reale, che è l' effettuamento e l' ultimo atto di quello. E poiché il senziente è un reale; perciò non può esistere nell' universo il solo ente sensitivo. Lo stesso si deduce da un altro vero, cioè dall' essere l' ideale, ente iniziale, sí fattamente che la costituzione di ogni ente reale in lui incomincia. Egli è dunque impossibile che v' abbia la realizzazione di un ente, che v' abbia la sua forma reale la quale è compimento, se mancasse il suo inizio che è il primo passo che dà l' ente verso alla sua compiuta esistenza. Dal che procede, che l' ente che non ha intelligenza è incompleto, ed ha bisogno di appoggiarsi alle intelligenze fuori di lui, alle quali solo egli è relativo : all' incontro l' ente che è dotato d' intelligenza è ente completo , e però questa sola maniera di enti, cioè gl' intelligenti, meritano la denominazione aristotelica di entelechie che viene da «enteleches», perfetto , denominazione ontologica perché tratta dell' intima costituzione degli enti stessi. Cosí tutte le nature delle cose sono connesse, l' una all' altra si continua e si appoggia, e reciprocamente si sorreggono: quindi la mirabile unità del tutto senza alcuna confusione delle parti, l' armonia, e la consonanza di queste: la base altissima delle quali essenziali relazioni degli enti giace nell' originario sintesismo delle tre forme categoriche, nelle quali l' essere uno è medesimamente ancora trino. Il legame ontologico delle cose fra loro è quello che rende la teosofia una scienza sola, e non la lascia partire in piú. Che anzi le sue tre parti, che abbiamo detto essere ontologia, teologia naturale e cosmologia, neppur si possono trattare cosí recise e partire l' una dall' altra, che le materie dell' una non si debbano colle materie dell' altra alcuna volta tramezzare. E questo è quello che qui ci accade. Poiché sponendo noi le attinenze dell' essere reale, e come quello che è privo d' intelligenza s' attenga necessariamente e quasi si aggrappi all' essere intelligente, siamo sospinti a parlare della prima intelligenza a cui ogni ente è condizionato, e a raccogliere la dimostrazione della sua esistenza, che qui da se stessa in nuova forma ci si presenta. Dimostr. - Necessaria è una proposizione, quando la sua contraria involge contraddizione. Ora « che l' essere non sia necessario »involge contraddizione. Perocché se l' essere non è necessario, l' essere potrebbe non essere. Ma essere e non essere sono termini contraddittorŒ. Dunque la proposizione contraria involge contraddizione. Dunque l' essere non può non essere, ossia l' essere è di natura sua necessario; il che dovevasi dimostrare. 1) Questa necessità dell' ente è la proposizione fondamentale della scuola italiana d' Elea [...OMISSIS...] Dalla quale proposizione fu tratto a torto il panteismo perché si applicò all' ente relativo quella proposizione che non vale se non per l' ente essenziale ed assoluto. 2) La necessità dell' essere è la prima fra tutte le necessità; non vi ha alcuna necessità logica che da questa non derivi: non sia questa stessa partecipata. Laonde ogni necessità si riduce a questa, alla necessità dell' essere. Dimostr. - Nelle proposizioni nelle quali si predica qualche cosa dell' ente, il subietto della proposizione è l' Ente possibile, o ideale. E in fatti tali proposizioni, che sono giudizi analitici, riguardano le doti e qualità proprie dell' essenza dell' ente. Ora l' essenza dell' ente è quella che s' intuisce nell' idea. La proposizione adunque, che « l' essere è di natura sua necessario », versa intorno all' essere ideale , il che si dovea dimostrare. 1) Molti scrittori fra gli antichi, e del tempo medio, fra' quali ultimi Sant' Anselmo, credettero di poter dare una dimostrazione a priori dell' esistenza di Dio argomentando dal concetto di Dio. Recando questo concetto che « Iddio sia ciò di cui nulla si può pensar di piú grande » conchiusero che dunque non gli potea mancare la sussistenza. Cosí trovarono la sussistenza nello stesso concetto di Dio, e conchiusero che Iddio è per sé noto, cioè egli è noto tosto che è noto il suo concetto. Ma l' acutissimo San Tommaso trovò difettosa tale dimostrazione. E nel vero questa sussistenza nel concetto è ancora una sussistenza ipotetica , e non una vera e reale sussistenza. Onde San Tommaso giustamente disse: [...OMISSIS...] . Ora questa difficoltà che fa l' Angelico a quelli che vogliono provare l' esistenza di Dio dal concetto, non vale contro la proposizione che pone l' essere necessario, perocché questa proposizione pone l' essere soltanto nel concetto, cioè l' essere ideale. L' essere ideale dunque è per sé noto, e manifestamente necessario, né da alcuno che ragioni giammai negato con coerenza di ragionamento. 2) La necessità dell' essere ideale nell' ordine dell' umano ragionamento è il primo noto . Sopra di questo solido fondamento si erige la teoria della certezza da noi esposta nell' « Ideologia (1) »; perocché ogni certezza si acquista riducendo ogni proposizione che si vuole dimostrare a quella prima, di modo che « se si negasse la proposizione che si assume, si dovrebbe coerentemente negare anche la prima proposizione dell' essere per sé noto »: formola che esprime l' artificio di ogni dimostrazione. Quindi « la necessità dell' essere ideale »è anche il principio della Logica. 3) Nella tesi fu detto « l' essere che apparisce a noi necessario è l' essere ideale », e ciò perché l' essere necessario è anco nelle sue forme reale e morale, ma in queste forme a noi non apparisce immediatamente e intuitivamente, come si raccoglie dalla sensata obbiezione fatta da San Tommaso. Del resto non solo rispetto all' uomo, ma anche in se stesso l' essere ideale è il primo noto , perocché il reale necessario è conoscibile per necessario, appunto perché è nell' ideale: questa adunque è la ragion prima di tutte le cose. Dimostr. - Questo è il noto assioma dei logici, che ab esse ad posse datur consecutio . Ciò che è, appunto perché è, può essere; perocché se non potesse essere non sarebbe. Ma questo in altre parole viene a dire, che dato il reale si può argomentare il possibile, che è la proposizione che si proponeva. 1) Quando tutto il mondo dice che se una cosa è, ella per conseguente è possibile; allora viene a riconoscere che v' ha una progressione entitativa dal possibile al reale; di maniera che il possibile ed il reale si considerano come due passi che fa l' ente per costituirsi; ed è quanto un dire: « il secondo passo suppone il primo, non s' arriva al due se non passando per l' uno ». Noi pensiamo adunque e parliamo col senso comune, quando diciamo che il possibile è « l' ente iniziale »che è quanto dire « il primo passo dell' ente, che si pone ». 2) Se ella è sempre evidentemente vera la proposizione che ab esse ad posse datur consecutio , la sua contraria a posse ad esse non datur consecutio ha bisogno di essere limitata e spiegata cosí: che per essa si dica che « dal potere all' essere non si dà sempre un' illazione », e però che « quando si vuole arguire dal potere all' essere, trattasi di un tal potere, di un tal possibile, che nel suo seno racchiude necessariamente la sussistenza », il che non accade se non trattandosi di Dio, dove lo stesso essere è ideale e reale. Se dunque il reale suppone il possibile, ne viene che il reale solo non può stare nella natura, e però che sarebbe assurdo il pensare che non vi avesse altro che materia, o non vi avesse altro che sentimento corporeo; ma convien dire che se sono questi, dee esser altresí il possibile , ossia l' ideale . Dimostr. - L' essere ideale dunque è necessario. Ma l' essere ideale per la sua definizione è il termine oggettivo, l' oggetto della mente. Né si può concepire oggetto della mente senza che sia la mente di cui egli sia oggetto, né tampoco si può concepire la mente senza alcuna relazione con un oggetto. Se dunque è necessario l' oggetto, è necessaria altresí la mente ossia l' intelligenza soggetto, come diceva la proposizione. Di qui incomincia ciò che di nuovo vogliamo aggiungere secondo il titolo del capo presente. Dimostr. - Diamo che l' essere ideale fosse termine straniero di una intelligenza. In tal caso, quell' intelligenza non è il principio, ossia il soggetto suo proprio. Dunque il termine non cessa di esistere anche considerato diviso da quel soggetto che gli è straniero. Ma diviso da quel soggetto non potrebbe continuare ad esistere se non avesse un altro principio, e questo non gli può esser di nuovo straniero, perocché in tal caso si dovrebbe ripetere lo stesso ragionamento. Non potendosi adunque andare all' infinito nella serie de' principŒ che si suppongono uniti a quel termine, convien fermarsi ad un principio che sia proprio dell' essere ideale; e al quale l' essere ideale sia termine proprio, e questo è ciò che si diceva nel lemma proposto. Dimostr. - L' essere ideale non può stare senza un' intelligenza, di cui egli sia termine proprio. Ma il termine proprio è quello, nel quale l' ente è identico quale è nel principio, secondo la datane definizione [...OMISSIS...] . L' essere adunque è identico nel principio e nel termine proprio. Ma qui il termine è l' essere ideale, il quale ha i caratteri della necessità, della unità, dell' eternità, dell' immutabilità, e tant' altri caratteri divini. L' ente dunque dee avere i medesimi caratteri anche nel principio proprio, perché altramente non sarebbe l' ente identico. Ma il principio proprio dell' essere ideale è l' intelligenza, ossia un ente soggetto intelligente. Dunque l' intelligenza che è principio proprio dell' essere ideale dee essere anch' essa necessaria, universale, eterna, immutabile, ecc.. Ma una tale intelligenza è infinita ed assoluta. Dunque l' essere ideale non può stare senza un' intelligenza infinita ed assoluta, ciò che appunto si dovea dimostrare. 1) Un oggetto intelligente infinito ed assoluto che ha per termine proprio l' essere ideale è Dio. Dunque Iddio è, ed è necessariamente; e Iddio non è una potenza infinita cieca, ma una infinita intelligenza. 2) Dunque Iddio è un ente che è identico nel modo reale (soggetto intelligente) e nel modo ideale (oggetto). E però Iddio è ugualmente ne' due modi di essere accennati: egli ha come sua propria tanto l' esistenza soggettiva, quanto l' esistenza oggettiva. 3) Il primo ente adunque, l' ente essenziale vuol essere intelligente. Noi abbiamo fin qui favellato dell' intima costruzione dell' ente reale, applicando a questo l' osservazione ontologica (1): abbiamo veduto com' è costruito quell' ente reale, di cui abbiamo esperienza. Dall' esistenza del corpo o di piú corpi abbiamo arguito l' esistenza di un principio sensitivo, e dall' esistenza di uno o di piú principŒ sensitivi abbiamo arguito l' esistenza di una intelligenza. Questa maniera di arguire merita il nome di ragionamento sintetico . Ma non ci siamo fermati qui. Noi abbiamo di piú dimostrato la necessità assoluta che sussista un' intelligenza; e l' abbiamo dimostrata come illazione della necessità assoluta dell' essere ideale . Abbiamo veduto che l' essere ideale è un punto fermo, sufficiente a cui appoggiare, per cosí dire, la leva filosofica, e portarci alla certezza indubitabile di un soggetto reale sussistente, e non solo alla certezza della sua sussistenza, ma della sua necessità. Questo nostro si può chiamare a giusto titolo, ragionamento sintetico a priori . Varcato il ponte che unisce la possibilità colla sussistenza, non ci siamo fermati; ma siamo venuti fino a conchiudere con logica illazione che l' intelligenza che dee per necessità sussistere dee anche essere infinita, ed assoluta, e quindi esser Dio. Or fino che arguivamo unicamente un' intelligenza, non eravamo ancora usciti dalle cose che cadono sotto l' umana esperienza; ma quando poi ci slanciammo con un procedimento logico fino all' intelligenza assoluta ed infinita, allora abbandonammo interamente col nostro volo il mondo esperimentale e pervenimmo in una regione incognita, nella regione appunto dell' infinito. Questo è ancora ragionamento sintetico a priori , ma perché egli eccede l' esperienza, merita la denominazione che già abbiam data di ragionamento dialettico trascendentale . Dobbiamo ora continuare ad applicare questa maniera di ragionare agli esseri finiti di cui abbiamo esperienza, per discoprire, al di là dell' esperienza, ciò che è condizione trascendente dell' esistenza delle cose esperimentali: cominciamo applicando questo possente istromento della dialettica trascendentale all' ente sensitivo. Gli studi fatti nei moderni tempi dagli studiosi delle scienze naturali, diedero questo mirabile risultamento, che « tutte le operazioni e i fenomeni della vita e dell' animale organismo si riducono sempre a leggi perfettamente identiche ». Ma la Psicologia va piú innanzi (1): ella dimostra col piú gran rigore d' osservazione e di ragionamento, che: « il sentimento animale, ha in se stesso una virtú attiva capace ella sola di spiegare tutti i fenomeni animali, come pure tutti i fenomeni vegetativi, ed anco corporei dipendenti da ogni specie di attrazione; non però quelli delle leggi del moto meccanico ». Procede che a spiegare i fenomeni animali non si dee assumere altro principio o cagione ipotetica, fermandosi alla virtú insita nel sentimento. Giacché l' esistenza di questa causa è dimostrata, e d' altra parte è sufficiente alla spiegazione de' fatti: la legge adunque della ragion sufficiente vieta che si ricorra ad altra causa incognita non punto necessaria. La Psicologia ancora dimostra, che dalla disposizione degli elementi nello spazio, dipende l' organizzazione, la quale si forma per le attrazioni degli elementi, e modificazioni di tali attrazioni, quelle e queste dipendenti dalla virtú insita al principio sensitivo; e che dall' organizzazione dipendono poi tutte affatto le specie degli animali e i fenomeni della vita in ciascun d' essi «( Psicol. , 542) ». Quindi apparisce ancora in quanto sia vera la proposizione di certi fisiologi che dicono « la vita inesauribile », potersi questa diramare, distendersi senza fine alcuno. Tutto ciò non eccede ancora il regno dell' esperienza: proseguiamo. Il sentimento animale risulta dalla congiunzione di un principio con un termine. Questa congiunzione è cosí essenziale, che se si toglie via il principio senziente non è piú il termine sentito, e se si toglie via il termine sentito non è piú il principio senziente. La cosa è del pari evidente se invece di parlare di sentito si parla di corpi, e invece di parlare di senziente si parla di anime sensitive. Ma egli sta a vedere se il corpo e l' anima suppongono degli altri enti d' innanzi da sé, i quali se essere vi dovessero noi li chiameremmo, in relazione al corpo e all' anima, ultrasostanze. L' anima sensitiva è informata dal suo termine: questo la trae all' atto del sentire: la sua sede è lo stesso termine sentito: in esso ha la sua attualità senziente. La sua esistenza è dunque relativa al sentito: da questo ancora trae la sua individualità «( Psicol. , 560 7 566; 572 7 577) ». A malgrado di ciò, se colla astrazione noi mettiamo da parte il sentito, ci rimane tuttavia qualche cosa: il principio, è vero, non è piú senziente; egli ha perduto ciò che lo individuava; e tuttavia egli rimane ancor qualche cosa dinnanzi al nostro pensiero, rimane un principio. Lo stesso si prova in un altro modo. Il sentito porge la materia in cui esercitarsi quest' attività, e quest' attività si spiega agli atti suoi proprŒ tostoché la materia opportuna le sia preparata. Se dunque coll' astrazione della mente si rimuove questa materia, l' attività del principio rientra in se stessa, si accoglie in una potenzialità, ma non ne segue da ciò che ella sia perita dinanzi alla mente. Questo principio adunque non è piú principio in atto, ma rimane una potenza che riacquistando la materia può ridivenire principio. Vi è dunque anteriormente al principio senziente qualche cosa, che non è nominata in nessun linguaggio, perocché la parola anima o l' equivalente ne' diversi linguaggi non significa punto quella potenzialità anteriore al principio senziente, ma significa lo stesso principio senziente ovvero sia sensitivo. Ora quel qualche cosa che si vede dovervi avere avanti al principio sensitivo, avanti all' anima, è ciò che noi chiamiamo una ultra7sostanza. Il primo atto dell' anima sensitiva adunque è quello del sentimento fondamentale; e in questo primo atto, che termina nel sentito fondamentale, è la sostanza dell' anima, a cui solo conviene il nome. Se si suppone cessato questo primo atto, l' anima non è piú. Rimane ciò che vi era prima di lei, ciò che vi è al di là di lei, di cui il primo concetto che possiamo formarci è quello di una entità potenziale, che è quanto dire una potenza di produr l' anima. Quindi s' intende come l' anima sensitiva sia un ente relativo. A fine di conoscere questa relatività, conviene fissare dove stia il primo atto che mette in essere l' anima sensitiva. Questo atto sta nel sentimento di un esteso: questo sentimento non è l' anima: questo sentimento è chiuso e limitato, che non va fuori del suo termine: questa limitazione, questa sfera del sentimento determina la sua relatività, perocché è talmente relativo a quell' esteso, che fuori di lui quel sentimento non è piú; tutto ciò che è fuori di quel termine non esiste per quel sentimento, né in quel sentimento. Questa è una di quelle che abbiamo chiamate limitazioni ontologiche . Perocché abbiam detto che gli enti finiti si compongono di un elemento positivo, e di un negativo, che è appunto l' essenziale loro limitazione (1). E qui si trova la risposta alla difficoltà: « Come un negativo può essere un elemento che entri nella composizione di un ente? ». A cui si risponde: la limitazione ontologica è nel sentimento, e nel sentimento ella è qualche cosa; perocché anche il negativo è qualche cosa nel sentimento. In fatti un sentimento che sente la propria limitazione, da questo sentire la limitazione rimane determinato ad essere piuttosto un sentimento che un altro, e trattandosi di sentimenti primi, cioè atti primi, ad essere piuttosto un ente che un altro. Cosí la limitazione diventa ontologica anche per gli enti soggettivi e reali, di cui parliamo; non perché ella stessa sia qualche cosa di positivo, ma perché in conseguenza di essa ridonda nell' ente uno speciale sentire, che lo determina e separa da ogni altro sentire. Questa proposizione è conseguente a tutto ciò che abbiamo detto. E nel vero che cosa è il soggetto? Il soggetto è l' atto primo del sentimento; cioè quella cosa che prima di tutto è sentita e che è sentita attivamente, cioè nella sua qualità di atto. Quindi il soggetto ha natura di principio reale, e noi abbiamo già veduto che non si dà ente senza principio; perocché tutto ciò che esiste è principio o termine, niente conosciamo nell' università delle cose, niente possiamo concepire, che non abbia condizione dell' uno o dell' altro. Ma il termine non può stare senza il principio. Dunque senza un principio, che è quanto dire senza un soggetto, l' ente non è possibile. I Da questo si trae primieramente che mutato il soggetto, è mutato l' ente; l' ente non è piú quello ma un altro ente. II Di poi consegue che tutto ciò che è anteriore al soggetto, cioè all' atto primo del sentimento, resta fuori del sentimento, e perciò non appartiene allo stesso ente, ma ad un altro che esige necessariamente un altro soggetto. III Quindi che, se trattasi d' un soggetto intelligente, tutto ciò che è anteriore al sentimento che lo costituisce, non può essere da lui percepito: la limitazione del soggetto limita la percezione e la cognizione, e non lascia alla intelligenza che una conoscenza dialettica negativa. IV Tale è la costituzione dell' essere reale, la quale si riflette nell' ordine logico. In quest' ordine la ragione astraente si forma degli enti senza soggetto reale; ma in facendo quest' operazione, ella è necessitata di trattarli come fossero soggetti. Tali sono i subietti dialettici ossia subietti del discorso. Ora nel discorso vale rispetto a questi la stessa legge annunziata pe' subietti reali, cioè che mutato il subietto del discorso il discorso sia un altro. V Un altro importantissimo corollario, si è che qualora la mente divide un ente e ne lascia da parte il soggetto, quello che le rimane non è piú l' ente di prima. E questa è anche la ragione perché la semplice idea dell' essere non è Dio, giacché ella è puramente oggetto e però manchevole del soggetto divino. Laddove se la si considera quale è in Dio, si vede avere il suo soggetto, cioè lo stesso soggetto divino con cui s' identifica, ed ella stessa diviene altra cosa e cosí cessa di essere pura idea. Possiamo, qui giunti, affrontare una questione non meno ardua, quella dell' unificazione degli enti reali. Certo, non è possibile darne una soluzione completa attesa la limitazione dell' umana esperienza, ma possiamo stabilire un principio, che a lei presieda: « qualora un ente senta un altro ente non solo quanto al termine, ma ben anco quanto al principio, e lo senta come principio, allora i due principŒ si compenetrano, non sono piú due, ma un solo, e però un solo ente; laddove se un principio sente il termine di un altro ente, ma non ne sente il principio, egli è il caso della subordinazione ontologica degli enti, gli enti restano due, e non un solo ». Ora sentire un principio come principio è il medesimo che avere il sentimento proprio del principio; il medesimo che essere quel principio. Dunque un principio che ne sente un altro è il principio sentito, il che equivale alla identificazione de' principŒ e cosí degli enti. Questo non è un caso ipotetico: n' abbiamo l' esperienza nell' anima umana nella quale il principio intellettivo e il principio sensitivo è il medesimo «( Psicologia , 636 7 646) ». Dalla stessa verità dipende la sentenza di San Tommaso e degli Scolastici, che nell' uomo v' ha una sola forma sostanziale e questa è l' anima intellettiva; giacché qui per forma intendono l' atto primo che noi chiamiamo anche soggetto. Or questa dottrina dell' identificazione de' principŒ e quindi degli enti riesce preziosa anche alla teologia, come si vedrà nell' « Antropologia soprannaturale ». Ed ora che abbiamo esposto la teoria dell' ente reale per ciò che riguarda l' intrinseca sua costituzione, possiamo passare a dare la teoria della sua azione; il che esaurirà in qualche modo l' argomento di questo libro, giacché tutto si riduce ad essere e fare. Abbiamo veduto che l' essere stesso è un primo atto, e che l' essere reale è un atto soggettivo, che è quanto dire un primo atto di sentimento. Non è a noi necessario soffermarci a notare le differenze di significato che hanno le parole atto, ed azione: le useremo come sinonime fino a tanto che il ragionamento nostro non dimandi la loro minuta distinzione. Soltanto osserveremo che atto è piú generale di azione convenendo a tutte le tre forme dell' essere; laddove l' azione spetta soltanto all' essere reale e soggettivo. Ogni qualvolta adunque la nostra mente pensa un essere, o un grado di essere di piú che prima, ella pensa un' attività, un atto; e ogni qualvolta pensa un essere o un grado d' essere soggettivo o sentimentale, ella pensa un' attività, un atto, un' azione. Definiremo dunque l' azione « un atto dell' essere reale, pel quale esiste una entità che è nuova rispetto alla mente che la considera ». Dichiarato il concetto dell' azione in universale, dobbiamo discendere alle sue diverse maniere. E queste sono due, la creazione , che fa cominciare un ente del tutto nuovo, e l' operazione degli enti che già sussistono. Noi omettiamo di parlare qui della creazione di cui dobbiamo fare special trattato, e ci limiteremo a dare la teoria dell' operazione; la quale non fu forse mai svolta sufficientemente da' metafisici per non aver essi conosciuta l' intima costituzione dell' essere reale. E nel vero noi abbiamo veduto: 1) avervi degli enti sintesizzanti; 2) degli enti coordinati , cioè individui della stessa specie; 3) degli enti ontologicamente subordinati; 4) degli enti identificati. Ciascuna classe di questi enti ha la sua maniera propria di operare. Una delle questioni piú difficili si è: « come un ente possa agire in un altro ». E veramente ella pareva un nodo insolubile, poiché si ragionava cosí: « un ente non può uscir da se stesso, essendo limitato alla propria sfera; ma l' azione di un ente appartiene all' ente che la fa: dunque anch' essa dee rimaner nell' ente: dunque niun ente può avere alcun' altra azione se non quella che rimane in se stessa: ogni azione è interiore all' ente stesso che la fa ». Questo specioso argomento condusse Leibniz al sistema delle monadi, ed altri a quello delle cause occasionali, ed altri ad altri ancora. Per uscirne invece di ragionare su principŒ ontologici preconcepiti, astratti, imperfetti, gratuiti, conveniva rilevare colla osservazione ontologica l' intima costruzione e organizzazione dell' ente. Ce ne risultò che una quantità di enti finiti sono composti di un principio e di un termine straniero; che la loro entità, propriamente parlando, è il principio: essi non sono altro che principŒ, ma non già principŒ isolati e divisi, ma uniti ad un termine che gli specifica e gli individua, termine che ricevono in se stessi, ma ch' è diverso tuttavia da essi, ad essi opposto. Quindi in ognuno di questi enti giace una opposizione, vi hanno come due poli opposti, che noi chiamiamo la polarità degli enti . Questo non ha cosa alcuna che ripugni; giacché la proposizione che un ente inesista nell' altro non è ripugnante in se stessa, e solo sembra ripugnare a coloro che pretendono giudicare di tutti gli enti da quanto vedono avvenire ne' corpi, i quali sono impenetrabili. Convien dunque lasciare un' ontologia cosí misera e gretta ai soli materialisti. L' esistenza dunque di questa maniera di enti ha per condizione che l' uno, cioè il principio, abbia in sé l' altro come termine opposto. Per tal modo non è piú difficile spiegare l' azione che uno esercita sopra l' altro, perocché consegue da essa che l' uno può agire nell' altro senza uscire di sé medesimo. Il termine agisce nel principio e il principio nel termine: questa è la formula di tutte le azioni degli enti, di cui parliamo. Ma egli conviene che noi dimostriamo come la detta formula comprenda e spieghi tutte le azioni che esercitano fra loro gli enti sintesizzanti. I due primi che ci si presentano sono l' anima sensitiva e il corpo. Se si parla di un corpo animato, anima e corpo sono appunto principio e termine, costituiscono quell' essere completo che si dice animale. Il corpo è nell' anima e l' anima è nel corpo a quel modo che abbiamo spiegato. Qui non v' ha dunque alcuna difficoltà a spiegare la loro mutua azione. Ma i corpi agiscono anche fra loro. Un corpo esterno anche inorganico agisce sul corpo vivente, e modifica il termine del principio sensitivo cioè dell' anima: l' anima sente la mutazione violenta del suo termine. Del pari l' anima modifica il suo termine, ed anche lo muove, e col muoverlo lo accosta ai corpi esteriori e li modifica. Anche questa operazione dell' anima è spiegata, perché si esercita immediatamente sul proprio termine che è il corpo animato. Ma rimane a spiegare come un corpo agisca sull' altro. L' azione d' un corpo sull' altro è duplice. L' una è meccanica, quella che viene prodotta dal moto locale, quando i corpi in moto si urtano. L' altra è fisica, tendente all' organizzazione. Queste due maniere di azione, sono un fatto innegabile dato dall' esperienza. Ma la causa è data dall' esperienza solo in parte, cioè rispetto a que' movimenti che dipendono dal principio sensitivo. A conoscere adunque totalmente la causa de' movimenti altra via non ci resta se non il ragionamento dialettico trascendentale, che dovrà investigar due cose: 1) se la spiegazione de' movimenti che si scorgono ne' corpi si possa avere ponendo altri principŒ animali, fuori della nostra esperienza, che li producano; 2) se questi non bastando, si debba ricorrere ad un altro principio di moto. E nel vero tutto ciò che noi conosciamo ne' corpi tiene natura di termine. Ma tutto ciò che appartiene al termine del principio sensitivo, per la natura appunto che ha di termine, è inerte, passivo, ricevibile, e non piú. La forza dunque suppone un principio attivo e soggettivo. Se dunque là dove è il termine si manifesta una forza, questa non si può attribuire al termine quasi a subietto di essa (1). Con questo abbiamo veduto che oltre il termine corporeo deve esistere un principio corporeo trascendente che spieghi quella attività che si mescola col termine stesso. Or noi abbiamo altrove indagato quale possa essere questo principio attivo, ed abbiamo trovato il sistema degli atomi animati «( Psicologia , 500 7 553, 666, 667) ». Il qual sistema è sufficiente a spiegare il moto organico de' corpi animati. Ma è egli sufficiente a spiegare ogni attrazione, da quella degli atomi fino a quella de' corpi celesti? Finalmente il principio animale preso come causa di moto non ispiega la natura stessa del moto, ma la suppone. Quant' è dunque alla natura del moto, per cominciare da questa ricerca fondamentale, noi crediamo 1) che i corpi non fanno che ricevere il moto, e però non ne sono mai la causa, 2) che il moto è realmente discontinuo, e continuo solo fenomenalmente. La tesi del moto discontinuo conduce necessariamente a distinguere il moto fenomenale dal moto reale, a quel primo rimanendo la continuità e la traslazione della materia, e questo secondo riducendosi ad essere un avvenimento pel quale accade, che la materia si rende sensibile in una serie di luoghi successivi di cui niun senso può percepir la piccolissima distanza. Il che è difficile ad intendere solo a coloro che non pervennero a formarsi il giusto concetto della spiritualità dell' anima; ma la considerano piuttosto come un punto dello spazio; nel qual modo di considerarla ella deve trovarsi sempre in un dato posto dello spazio medesimo. All' incontro il vero si è ch' ella è immune affatto dallo spazio, e per conseguente è immune altresí da' suoi limiti; e di piú, tutto lo spazio semplice ed immisurato è in lei come suo termine, di che procede ch' ella abbia una perfetta indifferenza ad un luogo anziché ad un altro. Ma il suo termine materiale all' opposto occupa sempre una parte determinata dello spazio, e perché ella agisce in questo suo termine, pare che anch' ella sia determinata ad un luogo. Ora, se noi supponiamo che la causa prossima di questo termine materiale sia in parte l' anima stessa, in parte, come abbiam detto, un' altra sostanza spirituale, sicché l' azione di queste due sostanze spirituali concorrano a produrre il termine materiale, sarà facile ad intendere come queste possano assegnargli successivamente colle loro azioni diversi luoghi nello spazio, essendo loro indifferente un luogo o l' altro dove estrinsecare la loro azione. Ma ciò non basterebbe a spiegare perché il corpo nel suo movimento prenda una serie successiva di luoghi cosí vicini l' uno all' altro, specialmente che l' anima umana che a sua volontà può muovere il proprio corpo non è consapevole d' imporgli ella stessa una tal legge. E` dunque da considerare oltracciò, che l' anima umana riceve dal di fuori il suo termine, e ch' ella in quant' è sensitiva concorre a produrlo soltanto rispetto al fenomeno, ma non rispetto all' attività ed alla forza, verso la quale ella è passiva. Quest' attività dunque e questa forza dipende dall' altra sostanza, e da questa dee venir pure principalmente la legge del moto, che appar continuo a cagione della somma vicinanza de' luoghi in cui la materia si rende sensibile all' anima umana. Nel qual sistema né pur si perde, a cagione del moto, l' identità de' corpi, quell' identità, dico, che si può loro attribuire, e che lor viene da tutti attribuita. E qui si avverta bene che dalla tesi, « il corpo, che si muove, trovarsi successivamente in una serie di luoghi vicinissimi »procede che i diversi spazŒ da lui successivamente occupati abbiano una piccola distanza fra di loro, ma non già che per questo debba avervi necessariamente intermittenza nelle azioni delle sostanze spirituali che concorrono a porre il corpo successivamente, perocché il loro operare può essere immune dal tempo. Nulla di meno dandoci l' esperienza che il movimento del corpo impiega tempo, è da dire ch' egli nel suo movimento faccia delle piccole more in ciascun luogo in cui si pone, e che le sostanze spirituali che lo pongono, specialmente il principio corporeo onde viene la forza corporea, abbisogni d' uno sforzo per traslocarlo, il quale sforzo impieghi qualche tempo ad ottener l' effetto. Ma si può credere che questo sforzo che trasloca il corpo sia un' azione diversa da quella che lo fa essere. Questa seconda azione assegnerebbe la direzione alla prima, e potrebbe essere intermittente e consistere in uno sforzo bisognevole di qualche tempo ad ottenere l' effetto. E cosí facilmente si avrebbe in parte la spiegazione alla prima classe di azioni che si attribuiscono a' corpi, cioè la spiegazione della comunicazione del moto d' un corpo all' altro per via di percussione. Il corpo è termine di due principŒ, l' uno straniero che è l' anima, l' altro proprio che è il principio corporeo. Questo termine occupa una porzione dello spazio, e lo spazio è di natura immobile, e quindi una porzione di spazio non può essere trasportata in un' altra porzione, il che involge contraddizione colla natura dello spazio stesso. Se dunque ogni corpo ha bisogno di una data porzione di spazio, due corpi di egual grandezza debbono avere bisogno di due porzioni uguali dello spazio, e non possono stare entrambi in una porzione sola, ripugnando questo alla legge che ogni corpo occupa una porzione dello spazio. Quindi procede l' impenetrabilità de' corpi, che non è altro che questa stessa legge. Qualora dunque una porzione di spazio sia occupata da un corpo, il principio corporeo non può in questa stessa porzione porvene un' altra; di che nasce che se quell' attività che presiede al movimento de' corpi, e che è diversa dall' altra attività che li pone in essere, operando in questa seconda produce il movimento di due corpi in tal senso che tutti e due i corpi tendano ad occupare lo stesso luogo, nasca necessariamente un urto fra loro, l' effetto del quale urto sia appunto la comunicazione del moto. Le leggi della quale si riducono tutte a questa, che « la quantità totale del moto, nella stessa direzione, de' due corpi che si urtano, sia, dopo la percossa, uguale a quella che era prima ». Qui si dimanderà se quella attività che determina il moto, e quella attività che pone il corpo in essere appartengano entrambe ad uno stesso principio. - Io credo evidente che appartengano a principŒ diversi. Ed anco in generale si può dimostrare la necessità che intervengano due principŒ, non potendo lo stesso principio avere due attività che vengano in una cotal lotta fra loro. E nel vero, l' attività che pone in essere il corpo in un luogo dello spazio, tende o a mantenervelo in quiete, o a mantenerlo in moto equabile indifferente all' uno o all' altro stato; onde acciocché il corpo si faccia passare dalla quiete al moto, o dal moto alla quiete conviene che intervenga un' altra cagione. Conservando noi dunque la denominazione di principio corporeo a quello che pone i corpi, chiameremo l' altro in generale principio del moto , e la questione si ridurrà a cercare: « qual sia il principio del moto ». Ora investighiamo: « se il principio corporeo sia un solo per tutti i corpi, ovvero tanti quanti sono i corporei elementi ». A noi pare dover essere vera questa seconda sentenza. Or questa pluralità di principŒ corporei è quella che finisce di spiegare il fatto singolare dell' urto de' corpi, che rappresenta la lotta di piú principŒ e non l' operazione di un solo. Di che viene questa singolar conseguenza, che l' urto de' corpi esprime la lotta di due spiriti che finiscono col mettersi in accordo. I corpi sono enti7termine: l' azione apparente de' corpi fra loro si manifesta negli enti7termine, cioè nei corpi, ma l' azione appartiene sempre al principio, il solo principio è il soggetto dell' azione; tuttavia l' azione si manifesta nel termine perché nel termine risiede il principio, e però avviene che l' azione sembri propria del termine. Il che spiega la volgare opinione che i corpi sieno attivi l' uno sull' altro. Noi poi sappiamo dalla propria consapevolezza, che l' anima muove e modifica il corpo animato. Cosí ci è data dall' esperienza un' azione del principio sopra il termine straniero: in questo fatto noi percepiamo l' azione congiunta al principio; laddove nell' azione de' corpi fra loro non ci è data che l' azione divisa dal suo principio e stante da sé, onde noi siamo costretti dalle leggi del pensiero, cioè dal principio di cognizione, di aggiungerle un subietto incognito e indeterminato, ma pure un subietto, perché altrimenti non potremmo pensare quell' azione, e qui si ferma il pensar comune. Ma sopravvenendo la scienza con ragionamento dialettico, quel subietto volgare e comune, che gli uomini generalmente aggiungono all' azione de' corpi, si cangia in un vero ente sensitivo trascendentale, in un ente principio come abbiamo veduto. Negli enti sintesizzanti adunque ogni azione si riduce all' azione de' principŒ fra loro; ma quest' azione da noi si percepisce in due modi: o divisa dal principio che la produce, quando il principio si nasconde alla nostra esperienza, ond' egli dicesi trascendente perché non si rinviene da noi se non facendo uso del pensiero dialettico trascendente; o unita al principio stesso che la produce e n' è il soggetto, come accade delle azioni che esercita l' anima nostra sensitiva sul nostro corpo, e allora il principio dicesi esperimentale. Ora l' azione divisa dal suo principio e ricevuta da un altro principio, nel caso nostro dall' anima, come termine straniero, è ciò che costituisce la realità del termine stesso, ed è in questo senso che noi abbiamo posto l' essenza de' corpi nella forza, intendendo per forza un' azione7termine divisa dal suo principio. Quindi apparisce in che maniera gli enti7principio agiscano fra di loro senza immedesimarsi. Gli enti sono atti; ma gli atti sono di due maniere che i metafisici usarono chiamare primi e secondi. Gli atti secondi sono contenuti virtualmente negli atti primi, i quali costituiscono l' essenza dell' ente. Ora se gli enti7principio agissero tra di sé cogli atti primi, avverrebbe la loro immedesimazione, perché sarebbero i principŒ stessi che si unirebbero come principŒ. All' incontro, operando fra di loro soltanto con gli atti secondi, non s' identificano, ma solo si congiungono co' loro termini, e accade che quello che è atto secondo di un ente diventi termine straniero dell' altro reciprocamente. Cosí si spiega la generazione degli enti termini e l' azione reciproca degli enti sintesizzanti. La quale azione all' esperienza nostra si manifesta in un modo piú o meno completo. L' azione adunque degli enti sintesizzanti si può considerare sotto tre aspetti diversi: o come azione de' termini fra loro , o come azione reciproca fra un principio e il suo termine straniero , o come azione de' principŒ fra loro . Quest' ultima maniera di considerarla è la piú completa e dialettica; le due prime sono necessarie all' uomo a cagione dell' imperfezione e della limitazione del suo conoscere esperimentale, e relativo. Conviene altresí distinguere nella comunicazione degli enti sintesizzanti ciò che spetta all' azione costituente da ciò che spetta all' azione modificante . L' azione costituente è quella per la quale sono uniti e reciprocamente posti in essere; l' azione modificante è quella per la quale il termine si modifica restando però sempre unito al principio straniero. Nell' ordine degli enti sensitivi la modificazione del termine non procede se non dall' anima, che è il principio straniero del corpo, o dalla natura del corpo stesso; questi due enti sono quelli che obbligano il principio corporeo a modificare in certi casi la propria azione. Ma niente vieta che v' abbiano degli altri ordini di cose, degli altri enti sintesizzanti dove apparisca la libera e spontanea azione dei due principŒ, e certo poi ciò si scorge avvenire almeno nell' ordine dell' intelligenza soprannaturale; dove i lumi superni come termine oggettivo dello spirito variano e si ammodano non per virtú dell' anima che li riceve, né perché l' uno impedisca l' altro come i corpi, ma per l' azione spontanea e libera del loro principio proprio, che è Dio. Del rimanente, la spontaneità stessa dell' anima sensitiva non è un principio libero; anzi è determinato dalle sue proprie leggi. Queste fanno sí che l' anima sia propensa ed inclinata ad avere il corpo, suo termine, costituito in un dato stato, il quale è « lo stato piú piacevole e ch' ella può ottenere coll' operazione sua piú piacevole ». Di che si raccoglie che vi hanno nell' anima certi atti connaturali, e sono quelli ch' ella fa per arrivare alla condizione immanente a cui aspira, e degli atti opposti alla sua natura e alla sua spontaneità, ai quali è mossa per una violenza esterna. Or si rifletta che ogni percezione parziale che l' anima fa in conseguenza di una forza esterna che modifica il suo corpo, nasce da violenza , perché ella è parziale, laddove l' anima tende ad una condizione universale ed armonica del suo organismo. Quindi quella violenza esterna che modifica il suo corpo suscita in lei una nuova attività spontanea tendente a mettere tutto l' organismo in armonia colla nuova modificazione parziale ricevuta nel suo corpo. E quindi si manifesta la ragione, 1) perché l' azione costituente non è mai violenta, essendo universale e connaturale all' anima (eccetto se intervenisse il caso d' un' affezione morbosa), ed è l' anima stessa che spontaneamente la riceve e la produce; 2) perché l' azione modificante , veniente da cagione esteriore, come quella che è parziale, presenti il concetto della violenza , la quale però è piacevole se suscita nell' anima un' attività connaturale volta a restituire una migliore armonia in tutto il corpo animato, spiacevole poi se non presta occasione a questa nuova armonia. Onde nelle percezioni vi ha sempre violenza, non però sempre spiacevolezza, anzi diletto ove non dissipino l' armonia, ma la migliorino. Diamo ora un' occhiata al sintesismo del corpo, del senso e della intelligenza umana affine di conciliare insieme certe sentenze qua e colà da noi stessi pronunciate, che sembrerebbero discrepanti. Il corpo esterno al nostro sintesizza col nostro per la virtú che ha di mutarlo, onde nasce la sensazione organica. Rimossa l' azione del corpo esterno sul nostro organo sensorio, ne rimane il fantasma o l' attitudine di riprodurlo. Quando si pensa il corpo si pensa ciò che ha operato nel nostro organo sensorio, lo si pensa nell' atto di questa operazione: perocché l' atto, quantunque passato, riman presente all' intelligenza che non conosce prima né poi. Quindi è che tutto il concetto che noi abbiamo dei corpi è concetto che ce li fa conoscere nell' atto della loro operazione sopra di noi, e però nell' atto pel quale sintesizzano con esso noi. E poiché il concetto che abbiam delle cose racchiude la loro essenza a noi intelligibile che è quella a cui diamo il nome, nel caso nostro il nome di corpo, e sulla quale formiamo poi la definizione della cosa; perciò la cosa espressa dalla parola corpo acchiude una relazione sintetica con noi, cioè col nostro sentire; e però la cosa espressa dalla parola corpo non esiste piú se sopprimiamo uno dei due termini di tal relazione sintetica; tolto via adunque il principio sensitivo è tolto via anche il corpo. Rimane a vedere qual sia il sintesismo coll' intelligenza. Gli atti dell' intelligenza ossia le cognizioni sono di due maniere, oggettive e soggettive. Le cognizioni puramente oggettive sono le intuizioni, per le quali si contemplano le cose nella loro essenza e di conseguente nella loro mera possibilità. Or queste intuizioni hanno per oggetto o il solo essere senza determinazioni, ovvero l' essere con determinazioni, p. es. l' essenza del corpo. In questo secondo caso l' intelligenza ha bisogno di prendere dalla realità, e per conseguente dal senso, le determinazioni. Or queste determinazioni non potrebbe pensarle come possibili se il senso non gliene presentasse un esempio , che è appunto quello che da lei viene universalizzato. E qui comincia una prima sintesi fra l' intelligenza e il senso, di modo che non si può pensare un determinato possibile, se questo primo determinato non è innanzi dato dal senso. Non è già che il senso porga questa copia all' intuizione intellettiva; ma mentre le sta presente la copia, ella non vede la copia, ma l' esemplare; per quella legge che abbiamo di sopra dichiarata che ogni agente opera secondo la propria natura. Si dirà che per spiegare questo fatto converrebbe supporre che l' ideale e il reale avessero qualche cosa di comune. E la cosa sta appunto cosí; perocché l' essere reale e l' essere ideale hanno di comune o per meglio dire d' identico l' essere, di cui quelle sono forme categoriche. Ciò che rende a molti difficile intendere questa dottrina si è che essi non arrivano a capire che il reale e l' ideale non è disgiunto per se stesso, ma soltanto per la limitazione nostra e per la disgiunzione delle nostre facoltà, per la qual disgiunzione accade che una delle nostre facoltà, cioè il senso comunichi colla sola forma reale, e quindi ci sembri che il reale si stia da se stesso come cosa compiuta; e l' altra nostra facoltà cioè l' intuizione comunichi colla sola forma ideale, e quindi ci sembri che l' ideale pure stia da sé del tutto separato e segregato dal reale. E qui ci sembra utile cosa di toccare alquanto di quelle questioni che agitarono gli scolastici circa le relazioni reali delle cose. Il fiore di quanto insegnarono le scuole ci par contenuto in questo luogo di San Tommaso: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo vi hanno piú verità importanti. E da prima la sentenza che: [...OMISSIS...] , esprime benissimo la natura del reale oscura e inintelligibile per se stessa, dividendosi cioè coll' astrazione dall' intelligenza, quindi bisognosa di trovarsi congiunta coll' ideale acciocché possa essere intesa. Di poi in quelle parole: [...OMISSIS...] , si ha la conferma di quel vero che noi dicevamo che ogni principio opera secondo la propria natura, e però che l' azione del corpo su di noi, è totalmente diversa dall' azione del principio sensitivo che ne è l' effetto. Ma dopo di ciò quella sentenza che la cosa sensibile e intelligibile sia fuori dell' anima, e però non venga tocca dall' atto del principio sensitivo, né da quello del principio intellettivo, esige la debita distinzione, né ella è vera se non limitatamente. Poiché il corpo sensibile si può considerare o nell' atto stesso in cui è unito all' anima e con esso lei sintesizza, ovvero quando si pensa da noi come separato dall' anima. Il corpo nostro sta sempre unito all' anima nostra e con esso lei sintesizza finché dura la vita; egli agisce continuamente nel principio sensitivo, e il principio sensitivo in lui. E` però vero che l' azione della causa ha un modo totalmente diverso dall' effetto, e questo dimostra che sono due nature diverse, due enti affatto diversi; e però la relazione è scambievole: solo si dee dire che questa relazione è formata da due relazioni unilaterali, perché il corpo non è all' anima in quel modo stesso nel quale l' anima è al corpo. Cosí pure, se si considera quella virtú dell' anima intellettiva che muove il principio sensitivo ad operare nel suo termine corporeo, nel tempo in cui essa è in atto, vi ha congiunzione sintetica fra l' intelligenza, il senso ed il corpo; quando poi quella virtú intellettiva non è piú nel suo atto, ella ritiene ancora la congiunzione sintetica o piuttosto l' identificazione col principio sensitivo, ma non immediatamente col corpo. Lo stesso è da dirsi della facoltà dell' intuizione. Or poi se si parla de' corpi esteriori al nostro (a cui soltanto ha posto mente l' Angelico nel luogo allegato), anche questi o si considerano nell' atto in cui sono al nostro congiunti; ovvero si considerano allontanati intieramente da' nostri sensi. Nell' atto stesso in cui essi operano sui nostri sensori, essi sintesizzano con noi mediante il corpo nostro, le cui impressioni da noi sentite diventano segni della loro esistenza, e si prendono altresí quasi cotali rappresentazioni fenomeniche di essi. Ma quando poi i corpi esterni si considerano nel tempo in cui sono rimossi al tutto dal corpo nostro, sono rispetto a questo modo come se non fossero. Non si può dunque dire nell' ordine meramente extrasoggettivo del senso che sieno fuori dell' anima, ma soltanto che non sono nell' anima. Ma l' intelligenza li pensa ancora. Li pensa tali quali erano quando si trovavano nell' atto di agire sull' anima, li pensa con quell' essere che avevano allora come sintesizzanti. Solamente che l' intelligenza con un altro atto si accorge che questi esseri sintesizzanti erano tali per il passato, e che al presente non operano piú sull' anima. Ma la facoltà di predicare il presente o il passato degli enti corporei è diversa dalla facoltà della rappresentazione. Egli è ancora un terzo atto dell' intelligenza, un' altra affermazione dell' anima, quella con la quale l' anima si persuade che esistano al presente i corpi esterni, quantunque rimossi da lei e nulla affatto su di lei operanti. Ella si persuade che esistano perché solitamente è propria dell' ente la permanenza, e ci vuole una ragione per dire che un ente ha cessato di esistere. Ora l' anima non ha poi trovato alcuna causa che li facesse cessare d' esistere. Di che la ragione è questa, che l' intelligenza nostra non percepisce la causa immediata de' corpi cioè il principio corporeo, e però non sa se questa causa continui o cessi di agire. Ma ella suppone che continui ad agire, essendo, come dicevamo, propria dell' ente la perennità e l' immanenza (9). Intendo per enti coordinati quelli che sono della stessa specie. Non abbiamo nessun esempio datoci dall' esperienza di enti coordinati che agiscano immediatamente fra loro, eccetto quello dei corpi che si percuotono e si comunicano il movimento. L' azione di un' anima sull' altra non è puramente immediata, poiché l' un' anima adopera il mezzo de' corpi per agire nell' altra, o agisce investita ne' corpi. I segni stessi che servono di comunicazione fra un' anima e l' altra sono sensibili e corporei. Or come accada l' azione reciproca de' corpi fu da noi già discorso favellando dell' azione degli enti sintesizzanti. Se poi ci possano avere altri enti principŒ coordinati i quali agiscano fra di loro immediatamente, né li possiamo affermare, né negare; non involgendo tale supposizione contraddizione manifesta, benché l' esperienza nulla affatto ce ne riveli. Dall' azione sintetica di cui abbiamo fin qui ragionato conviene distinguere l' azione ontologica , che si manifesta negli enti ontologicamente subordinati. Vi hanno due maniere di azioni ontologiche rispondenti a quelle due maniere di azioni sintetiche, che abbiamo chiamate costituenti e modificanti; trattiamone separatamente. L' esperienza non ci fa spettatori di questa maniera d' azioni, ma ci porge de' fatti, da' quali il discorso dialettico trascendentale vi ci conduce; né esse involgono contraddizione, e sono necessarie a spiegare i fenomeni che ci presenta il mondo. E poiché mediante l' azione ontologica rimane spiegata l' origine degli enti relativi, ci bisogna prima toccare della natura di questi enti relativi non mentali o ideali, ma reali. Il che faremo riassumendo il detto in forma di tesi e di corollari. Tesi I - L' ente reale è costituito dal sentimento. Tesi II - Si danno degli enti reali che sono principio di sentimento, e degli enti reali che sono termine di sentimento. Tesi III - L' ente7principio è incompleto se si separa dal suo termine, ma completo in se stesso se a questo congiunto: l' ente termine è incompleto tanto se si separa dal suo principio, quanto se sta unito ad un principio straniero. Tesi IV - L' ente7principio relativo è costituito dalla limitazione ontologica del sentimento. Tesi V - La limitazione ontologica degli enti relativi è di due maniere: l' una nasce dalla limitazione del termine, e l' altra dalla limitazione del principio. 1) Dalla qual tesi viene il corollario, che se vi avesse un ente il cui termine fosse infinito, e questo non gli fosse straniero, ma proprio, quest' ente sarebbe Dio. 2) Se ne cava anche il giusto concetto della limitazione ontologica, che è quella che fa sí che un ente non sia l' altro, e piú in generale quella che costituisce l' ente. Raccogliendo ora ciò che abbiam detto, possiamo definire in che precisamente consista la limitazione ontologica. Ella consiste nel principio non già separato dal suo termine, ma nel principio unito al suo termine, da questo posto in atto e individuato. Dove è da osservare, che il principio dal termine acquista un' attività che non aveva prima, venendo suscitata e posta in essere la sua attività. Ma l' atto primo di quest' attività suscitata e posta in essere è virtuale rispetto agli atti secondi, di maniera che il principio suscitato ed individuato, oltre essere un atto primo, è una prima potenza o virtú agli atti secondi. E questa prima virtú o potenza non è già conseguente all' atto primo, ma è lo stesso atto primo, il quale è anche virtú o potenza. Quindi il sentimento della prima potenza o virtú è l' elemento sostanziale dell' individuo, è quello che lo costituisce un ente distinto dagli altri enti, è ciò che v' ha nell' ente di immutabile; laddove il sentimento degli atti secondi è ciò che vi ha nell' ente di mutabile. Tesi VI - Ripugna che piú enti coordinati abbiano un termine identico. Tesi VII - Non ripugna che il medesimo termine sia straniero rispetto a un principio, e proprio rispetto ad un altro; ma in tal caso la medesimezza del termine non esiste se non in astratto, e per rispetto alla pura realità; laddove relativamente ai due principŒ egli è un termine diverso. Tesi VIII - Essendo il principio individuato di un ente relativo un sentimento di limitazione, se vi avesse un altro principio il cui termine contenesse tutto ciò che contiene il termine di quello e qualche cosa di piú, ciò non ripugnerebbe, e l' identità parziale dei termini non esisterebbe che in astratto, e per rispetto alla pura realità. Tesi IX - Il principio che ha un termine finito straniero, e il principio che ha lo stesso termine come proprio, sono due enti relativi finiti. Qui può nascere la domanda, se fra l' essere che ha il termine proprio e l' essere che ha il termine straniero vi abbia necessariamente non solo azione del primo sul secondo, ma ben anco reazione del secondo sul primo. E rispondiamo che questa azione e reazione o reciprocità d' azione non è assolutamente parlando necessaria, giacché ella è cavata da un' osservazione e ristretta a ciò che accade in alcuni fenomeni de' corpi (1). E certamente nell' unione del soggetto coll' oggetto non tiene una tal legge, perocché l' oggetto (l' idea) non è suscettibile di passione alcuna. Ma né anche nell' ordine della realità si può dimostrare che dove vi ha un' azione, ivi debba essere anche una reazione. In fatti le azioni del tutto interne di un ente non hanno propriamente reazione, né azione contrapposta. Finalmente né anche dove si scorge azione e passione, la quale trovasi nell' ordine delle cose reali finite, non è necessario che vi abbia sempre reazione, ossia azione reciproca. Tesi X - Come abbiamo veduto che quell' ente che ha un termine straniero può avere nel suo seno altri enti, ciascuno dei quali abbia per termine una parte del termine totale, purché questa parte costituisca un tutto perfettamente armonico ed uno; cosí non ripugna, che quell' ente che ha un termine proprio abbia nel suo seno altri enti aventi un termine proprio, porzione del termine totale, purché questa porzione costituisca da sé sola un tutto armonico e perfettamente uno. Quindi, se quella che presentemente si conosce come potenza di un ente potesse venir separata dal suo soggetto e stare da sé, incontanente ella stessa diverrebbe un soggetto, rimarrebbe una virtú che avrebbe natura di ente principio, di sostanza. E viceversa, se quella che presentemente è la virtú prima di un ente, divenisse la virtú seconda, venendole aggiunta una virtú anteriore come suo principio, egli cesserebbe d' essere un ente, un soggetto, perderebbe la propria individuazione, non sarebbe piú un principio individuato, né una sostanza; ma bensí una mera potenza di un altro soggetto, perdendo la sua limitazione ontologica. Tesi XI - Se si tratta di un ente maggiore che ha un termine proprio, l' ente minore non può nascere nel suo seno se l' ente maggiore non è intelligente e volitivo, e non lo suscita con un atto pratico della sua volontà. Tesi XII - L' ente che ha un termine straniero non può esser la cagione efficiente di quelli enti minori che sorgessero nel suo termine, ma la cagione efficiente di essi vuole essere il principio proprio del termine straniero, benché il principio straniero possa contribuirvi indirettamente. Tesi XIII - L' ente minore relativo, originato dall' azione ontologica costituente, non può avere un termine del tutto proprio, ma deve avere un termine straniero. Tesi XIV - L' ente intellettivo finito è creato immediatamente da Dio. Abbiamo detto che due sono le limitazioni ontologiche degli enti relativi e finiti: l' una nascente dal loro termine limitato, l' altra dall' estraneità del principio. Or nell' ente intellettivo il termine è l' idea, la quale è infinita. Questa dunque non può esser data che dall' infinito medesimo, cioè da Dio. Quindi l' origine dell' ente intellettivo finito deve ripetersi immediatamente da Dio. La sua limitazione nasce dall' essere questo suo termine a lui straniero. L' ente puramente intellettivo è quello che non ha alcun altro atto fuori che l' intuizione dell' idea. Il sentimento di questo ente è tutto oggettivo perché abita nell' idea. In che consiste adunque la sua limitazione ontologica? In questo, che non ha sentimento di alcuna realità. Che altro non sente se non l' idea. Questo sentimento purissimo dell' idea è una limitazione massima. Qui dunque l' azione ontologica costituente si ridurrebbe ad un' azione, per la quale Iddio distingue mentalmente in se stesso il sentimento della pura idea dal sentimento suo proprio, che è il completo sentimento di se stesso, e con atto libero fa sí che il sentimento della pura idea, distinto colla sua mente, sia anche isolatamente preso, e questo sentimento isolato, diverso totalmente dal divino (sentimento d' isolamento e di estrema limitazione), è l' ente intuitivo finito, da Dio in tal guisa creato. Tesi XV - Se l' ente principio ha un termine straniero finito, allora l' ente principio straniero e l' ente principio proprio devono avere un' origine contemporanea. La costituzione dunque degli enti relativi si fa per un' azione, che esercita un ente principio sul suo termine proprio. Ella esige che in questo termine proprio l' ente principio possa distinguere mentalmente qualche porzione, che, considerata da sé, ha unità ed armonia. La qual divisione puramente mentale non potrebbe farsi senza che il principio che la fa sia intelligente. Ma posciaché una parte del termine proprio divisa soltanto mentalmente non è meno realmente unita al tutto, e neppure si può chiamare parte reale di lui, perocché non vi ha neppure da lei col tutto una distinzione reale; perciò un nuovo ente reale non si origina con questo solo, ma è necessario oltre a ciò di supporre, che il principio che lo produce eserciti un' attività, la quale sia volontaria , come quella che opera dietro l' indirizzo della intelligenza, e sia libera , perché quest' azione non è necessaria all' ente principio operante, e non si racchiude nel concetto che n' esprime l' essenza. Ora quest' atto di libera volontà consiste nel far sí che in quella parte che fu distinta mentalmente nel suo termine proprio, e che è dotata di sentimento e di vita perché tutto il termine è sentimento e vita, nasca un sentimento proprio d' isolamento e di limitazione, il quale non s' estenda a tutto il termine, ma, racchiuso in sé, diventi egli stesso un sentimento uno ed armonico. E questo sentimento di limitazione è il nuovo ente individuato surto nel seno dell' ente maggiore, a cui come a sua radice s' attiene, in quanto alla realità pura scevra di sentimento e di cognizione, onde l' ente minore non può sentire né conoscere per se stesso l' ente maggiore. E posciaché in ogni sentimento vi è attività, se questo sentimento è unico ed armonico, l' attività si accentra ed unifica, prendendo la denominazione di ente principio. Attesa questa costituzione degli enti relativi, non è piú gran fatto difficile a dichiarare la natura dell' azione ontologica modificante, e a conciliare l' azione dell' ente maggiore coll' azione dell' ente minore. E veramente, come vi hanno due enti subordinati, il maggiore e il minore, cosí vi hanno pure due cause subordinate, due virtú, due azioni. L' ente maggiore colla sua azione ontologica costituente: 1) limitò il termine uno ed armonico; 2) fece sí che questo termine avesse il sentimento della propria limitazione e del proprio isolamento. Queste due cose che coll' astrazione da noi si dividono, propriamente non ne formano che una, e l' azione costituente è un atto solo, la limitazione del sentimento. Perocché il sentimento è termine ad un tempo e principio, secondo che si considera come finiente o come cominciante, in quanto è senziente o in quanto è sentito. Ogni sentimento ha queste due faccie, e se non le avesse non sarebbe sentimento. Or è da considerarsi che il sentimento della limitazione ontologica che costituisce un ente relativo, è un sentimento primo, il quale virtualmente contiene molti sentimenti secondi, che sono gli atti secondi ne' quali egli si sviluppa. Questi atti secondi non mutano il sentimento primo; ma mentre a principio li conteneva soltanto virtualmente in istato d' indistinzione, poscia li contiene anche in istato di distinzione. Il trovarsi di tali atti secondi nell' atto primo, virtualmente o attualmente, non muta la limitazione ontologica dell' ente. Tuttavia, benché l' ente rimanga identico, il suo modo si muta per gli atti secondi. Qui nasce dunque la questione, qual parte abbia l' attività dell' ente maggiore negli atti secondi dell' ente minore; e quella parte che vi ha l' ente maggiore si dice azione ontologica modificante. Ma qui è da osservare, che agli atti secondi di un ente limitato e finito concorre altresí qual causa l' azione sintesizzante. Nella Psicologia noi abbiamo trattato a lungo di quest' azione. Noi ci riferiamo in questo punto a quello che abbiamo colà ragionato. Ma perciocché gli enti sintesizzanti hanno bisogno di un ente superiore che li costituisca; perciò al di sopra dell' azione sintesizzante sta l' azione ontologica, e non solo quella che abbiamo chiamata costituente, ma ben anco quella che abbiamo chiamata modificante. L' azione ontologica costituente non fa, a dir vero, se non porre in essere il sentimento limitato che costituisce la natura dell' ente minore e prodotto. L' azione sintesizzante da principio è ella stessa un atto primo, e però una virtú rispetto agli atti seguenti. Ma il sentimento limitato e isolato non può esser posto se non col suo modo, perocché un sentimento privo del suo modo di essere non è piú che un astratto. Quindi l' azione ontologica costituente involge di necessità l' azione ontologica modificante, il che si prova cosí: l' azione costituente continua altrettanto quanto continua l' ente, ha natura di azione immanente come l' ente stesso è un primo atto immanente. Ma essa pone non solo l' ente, ma anche il modo dell' ente. In ogni istante dunque essa pone l' ente con quel modo che egli ha in quell' istante. Ma in quell' istante che l' ente sta per fare l' atto secondo, o che lo ha già fatto, il suo modo è costituito anche dall' assetto in cui si trova nell' atto secondo. Dunque l' azione costituente pone l' ente in quell' assetto o in quell' atto secondo; e in quanto pone tali svolgimenti dell' ente ella dicesi modificante. Ma negli enti sintesizzanti l' un ente è determinato all' atto secondo da una mutazione che nasce nel suo termine straniero e questa mutazione immediatamente è prodotta dall' azione del principio proprio del termine straniero. L' azione ontologica modificante adunque non agisce direttamente nel termine straniero, ma agisce prima nel principio proprio di questo termine, e cosí venendo questo principio a cangiare il modo della sua attività, questa attività cangia il termine straniero, e pel cangiamento del termine straniero anche il principio straniero cangia il modo della sua attività. Ma questo cangiamento suppone l' azione ontologica che pone in un altro modo il principio straniero. L' azione ontologica adunque opera in tutti e due i principŒ, ma in modo che le modificazioni de' due principŒ si corrispondono armonicamente. La virtú poi de' singoli enti sintesizzanti ha questo limite, che ella non può svolgersi agli atti secondi se non ne riceve lo stimolo dal suo termine, e quindi rimotamente dall' azione dell' altro ente principio che sintesizza con esso. Onde, data quest' azione stimolante, l' ente principio si modifica. Ma l' azione stimolante non è ancora la modificazione dell' ente principio individuato nel proprio sentimento, ma è un atto che si fa nella realità pura, la quale è base e radice de' due individui, ma non è gl' individui stessi, ond' essa è anteriore di concetto al sentimento individuato. Tuttavia l' azione dell' ente individuato, s' estende col suo effetto alla realità pura nella quale egli è radicato, e nella quale è pur radicato l' ente con esso lui sintesizzante, e la realità pura che riceve quest' azione la comunica all' altro ente, che ella ha pure nel suo seno. L' azione adunque ontologica modificante è quella sola che può spiegare l' azione degli enti sintesizzanti fra loro, e anche quella degli enti coordinati; poiché quest' azione non può essere spiegata senza supporre che v' abbia fra essi qualche elemento comune. Ma niente hanno essi di comune, che anzi nell' essere intieramente divisi l' uno dall' altro consiste la loro individualità e la loro natura di enti. Ma la comunicazione esiste tuttavia fuori di essi mediante l' ente maggiore e quella realità, che gli enti hanno per loro base e che tuttavia non è dessi, che appartiene perciò all' ente maggiore, in cui essi stessi gli enti minori sono. Gli enti che cadono nella percezione si riducono a tre generi soli: cioè agl' insensitivi , materia, corpi, enti termini; ai sensitivi , e agl' intellettivi . Gli enti insensitivi, puri termini, non hanno azione propria, come vedemmo, perché l' azione spetta sempre al principio che ne è il soggetto. Rimane dunque che noi qui parliamo degli altri due. Il principio sensitivo considerato in relazione a' suoi atti secondi è una virtú, ossia una potenza determinata, e condizionata soltanto allo stimolo. Posta questa condizione, l' ente sensitivo ha nello stesso sentimento primo che lo costituisce la determinazione degli atti che deve emettere, e questa determinazione è ciò che si chiama spontaneità. Questa attività ch' egli esprime in atti secondi sotto lo stimolo, dimostra che tali atti a lui appartengono come quelli che muovono da lui, cioè da quella virtú prima che li contiene, e che è egli stesso. Or come la virtú prima che è lui stesso è posta dall' azione ontologica costituente, cosí del pari da quest' azione è posta la sua spontaneità e gli atti da lei esercitati ed espressi, rispetto ai quali ella riceve il nome di modificante. Cosí le due cause sono subordinate, l' ente sensitivo è la causa immediata di tali atti, e il suo ente maggiore n' è la causa mediata. Ma la causa immediata è il soggetto di quelli atti i quali sono in lui contenuti, laddove la causa mediata non è il soggetto di quegli atti, perché colla sua azione pone un altro ente diverso da sé, e pone gli atti di questo ente, che perciò non sono atti suoi appunto perché sono atti d' un ente diverso. La causa mediata, cioè l' ente maggiore, è bensí soggetto dell' azione ontologica costituente e modificante, ma non dell' ente prodotto da quest' azione e de' suoi atti; ché non sarebbe ente se appartenesse egli stesso ad un altro soggetto; relativamente a sé egli non appartiene che a se stesso, perocché niente sente fuori di sé, e il suo sentire è il suo esistere. Ma rispetto all' ente intelligente è da farsi una distinzione; poiché o egli non si trova in istato di libertà bilaterale, o si trova in questo stato. Se non si trova in istato di libertà bilaterale, di maniera che tutti gli atti secondi sieno determinati nella sua virtú naturale, o abituale, in tal caso la concorrenza dell' ente maggiore e del minore, cioè la conciliazione della sua propria azione coll' azione ontologica che lo costituisce e modifica, si spiega in modo simile a quello che abbiamo esposto per gli enti meramente sensitivi. Ma grande difficoltà s' incontra a conciliare la libertà bilaterale coll' azione ontologica modificante. Lo scopo del discorso deve esser quello di difendere la libertà bilaterale rispetto alle azioni morali, come quella che è condizione necessaria del merito. L' ente relativo è un sentimento limitato: in quanto è sentimento egli è positivo, e in quanto è limitato egli è negativo. Ma poiché la natura propria di lui consiste nel sentimento della stessa limitazione, perciò la sua natura consiste nel negativo, la limitazione è quella che lo individua, il sentimento solo non lo costituirebbe ancora ente individuo. Quindi la limitazione appartiene a lui solo, e non all' ente maggiore, laddove il sentimento come positivo, astraendo dalla limitazione, non appartiene piú a lui che già piú non esiste, ma all' ente maggiore. Quindi anche nelle operazioni o atti secondi di un tal ente rimangono i due elementi, l' uno che tiene del positivo, e l' altro del negativo. Ora, che tutta la parte positiva dell' azione venga ad un tempo posta dall' ente minore e dall' ente maggiore, a quel modo che abbiamo detto degli enti puramente sensitivi, può ammettersi senza difficoltà; purché la parte negativa dell' azione non riconosca per sua causa se non l' ente minore. E che cosí debba essere, vedesi da questo, che il limite, il negativo, non appartiene punto all' ente maggiore. Dunque né anco gli effetti negativi e limitativi gli possono appartenere. Ma la natura del mal morale consiste appunto nella negazione o privazione, non essendo il male che cosa negativa. Dunque se il bene dell' azione morale esige la concorrenza delle azioni de' due enti il maggiore e il minore, non è da dire lo stesso del male che si trova nelle dette azioni, il quale non può appartenere che all' ente minore come quello che è solo soggetto della limitazione e della negazione. Ma il positivo e il negativo dell' azione è intimamente congiunto, perocché il negativo non è che il limite del positivo: dunque chi è l' autore del positivo, è necessariamente anche l' autore del negativo, come quello che potrebbe porre una quantità maggiore di positivo e cosí rimuovere i limiti. Quest' obbiezione, fortissima in apparenza, altro non prova se non che non ogni limitazione degli enti è accompagnata dalla libertà, non sempre l' elemento negativo è causa di un male libero. La libertà bilaterale non si mantiene già da noi per l' unica ragione che nell' operare dell' ente libero v' abbia del negativo; ma solamente diciamo, che se non v' avesse del negativo non vi avrebbe libertà al bene e al male morale, di maniera che l' elemento negativo è condizione della libertà bilaterale, non è quello che la forma. E in altre parole, non ogni elemento negativo è segno e principio di libertà, ma sí un dato speciale elemento negativo. Rimane adunque che noi vediamo qual sia questa specie di limitazione e di negazione che origina la libertà. La libertà bilaterale, non ci potrebbe essere, se l' ente intellettivo fosse già per sua natura tanto aderente al bene morale, che in niuna maniera si potesse da lui alienare. E questa è già una limitazione e negazione dell' ente libero, non aderire compiutamente e immobilmente all' ordine morale. Ma egli non sarebbe libero neppure qualora aderisse pienamente e immobilmente al male, perocché in tal caso gli mancherebbe fin anco la possibilità del bene. La libertà bilaterale suppone non l' atto ultimato del bene, ma soltanto la potenza di lui, per dir meglio la potenza di eleggere fra lui e il male. La potenza che si riferisce ad atti perfettivi del soggetto è sempre una limitazione, e cosí la libertà bilaterale si fonda nella limitazione, nell' elemento negativo dell' ente libero. La differenza fra questa speciale limitazione che costituisce la libertà bilaterale e la limitazione dell' ente sensitivo che non ha libertà, è degna da perscrutarsi. L' ente sensitivo, considerato in relazione a' suoi atti secondi, è una virtú che li contiene tutti, benché ancora involuti ed indistinti: condizionati altresí allo stimolo. Tutt' altra cosa è la potenza della libertà bilaterale. Perocché gli atti secondi di lei non sono contenuti e determinati in essa, anche dato qualsivoglia stimolo che non la distrugga; potendo essa determinarsi all' atto buono, o al suo opposto il cattivo. Dirò meglio; il suo atto proprio, e come tale contenuto in essa virtualmente, non è altro che l' elezione stessa, e l' elezione è quella che determina l' ente all' atto buono o al cattivo, e perciò essa stessa non è né bene né male, ma soltanto è la causa del bene e del male. L' azione ontologica adunque, che costituisce questa potenza dell' elezione libera, diversissima da tutte le altre potenze, altro non fa se non costituire appunto la potenza del bene e del male né all' uno né all' altro determinata. Questa azione ontologica adunque non toglie, ma forma la libertà. Ora posciaché l' elezione è l' atto proprio della libertà, a cui poi consegue la determinazione e l' adesione al bene e al male; perciò, quando l' azione ontologica pone l' ente libero nell' atto dell' elezione (e allora dicesi modificante), non determina l' uomo al bene o al male, ma solamente il pone nell' atto di eleggere l' uno o l' altro. Or quest' atto di eleggere altro non è che la stessa libertà in atto, a cui la determinazione al bene o al male conseguita in appresso come suo effetto. Cosí l' azione ontologica o costituente o modificante non pregiudica in modo alcuno alla libertà in potenza o in atto, che anzi è quella che le dà l' essere. Fatta poi l' elezione (atto iniziale e puramente interno) allora segue la determinazione e l' adesione della volontà al bene o al male, e l' azione ontologica modificante pone anche quest' atto di adesione, ma questa determinazione conseguente non pregiudica neppur ella punto né poco alla libertà, poiché l' atto della libertà l' ha preceduta, il quale atto è quella libera elezione che ha determinato l' adesione della volontà al bene o al male. Ora poi la libera elezione non vi potrebbe essere se non vi avesse i due termini fra cui eleggere: che sono il bene ed il male. Ma il bene appartiene all' elemento positivo dell' ente, e il male al negativo della limitazione. Se non ci fosse dunque questo secondo elemento, la limitazione dell' ente, non ci avrebbe libertà al bene e al male. In questo senso dicevamo che la libertà è cosa conseguente alla limitazione, non ad ogni limitazione, ma ad una limitazione propria dell' ente morale, ad una limitazione dell' intelligenza e della volontà. E perciocché la natura di ogni ente principio relativo consiste nel sentimento della propria limitazione che lo individua, per questo la potenza del male è propria dell' ente intelligente e morale; laddove la potenza del bene procede dall' azione ontologica dell' ente maggiore, che non è il soggetto della limitazione del minore, benché ne sia la causa. 1) La realità pura senza determinazione è un concetto astratto che non dice né ente, né sostanza, né accidente, né principio, né termine, né qualità, né quantità, ma dice solamente un modo dell' essere. Se da questo concetto astrattissimo di realità si discende ad uno meno astratto, ma però anch' esso astratto, e si considera quella realità che è termine esteso del sentimento, ella prende il nome di materia . La materia, presa cosí senza altre determinazioni, è illimitata o per dir meglio, indefinita, e però priva ancora di quantità. 2) Niente di reale può esistere indeterminato. Si prova perché ripugna. Infatti l' esistere indeterminato vuol dire essere ad un tempo e non essere. Perocché l' ente racchiude nel suo concetto certe condizioni o qualità, senza le quali non è ente, e queste sono le sue determinazioni; onde senza queste esisterebbe senza se stesso, senza ciò che ha in sé di essenziale. 3) La realità è di due generi, cioè principio e termine . Alla realità termine appartiene la materia, come dicemmo, alla realità principio lo spirito, cioè il principio sensitivo, il principio intellettivo, e il razionale. 4) Quindi quattro generi di forme: A ) La forma che determina e individua la materia (primo genere di forme). Questa forma produce la quantità dimensiva , la figura , il numero degli individui materiali, le parti. B ) La materia formata determina ed individua il principio sensitivo (secondo genere di forme). C ) Ciò che determina e individua il principio intellettivo è l' ente oggetto (terzo genere di forme oggettive pure). D ) Ciò che determina il principio razionale è l' ente oggetto7soggetto (quarto genere di forme con determinazioni venienti dal soggetto). 5) Finalmente noi possiamo anche raccogliere da tutto quello che detto è: A ) Che la moltiplicazione degli individui reali corporei animali e umani nasce dalla divisione della materia, la qual divisione è conseguente alla forma propria di questa. B ) Che la moltiplicazione delle specie nasce dalla varia natura del termine. Cioè, tostoché un termine ontologicamente considerato è cosí limitato, che l' uno esclude da sé l' altro, onde fra l' uno e l' altro non v' ha graduazione, ma intera separazione, per modo che ci vuole un' altra idea a pensarlo; questo termine suscita nel principio un sentimento pure cosí esclusivo , che non è per gradi ma in tutto da un altro sentimento diverso, nel che consiste, come vedemmo, la limitazione ontologica. Perché poi un termine si renda cosí esclusivo, come l' ente sia suscettivo di tale determinazione, quante possano essere tali limitazioni ontologiche, tutto questo, come abbiam detto, giace occulto nell' abisso dell' essere stesso: quei sentimenti specifici hanno radice in altrettanti atti esclusivi dell' essere. C ) Finalmente la moltiplicazione dei generi è dovuta al pensiero astratto, il quale nondimeno si fonda sull' ordine intrinseco dell' ente quando in questo distingue piú cose: in quanto poi le separa e le considera a parte, egli opera secondo le sue proprie leggi soggettive. I generi poi, che si fanno prendendo qualche fondamento puramente mentale, dovrebbonsi, anziché generi , chiamare classi . Le quali cose tutte parendoci che debbano riuscire difficili a ben cogliersi, ed essendo molte a mantenersi distinte nel pensiero, non dispiaccia al lettore se noi ci intratteniamo ad aggiungervi quella chiarezza e quella distinzione maggiore che per noi si possa. Al quale intento nostro primieramente ci proponiamo la questione, se l' ente reale abbia alcun sentimento dei principŒ che sono in lui fisicamente precedenti. Primieramente dee rimaner fermo che il principio si sente unicamente nel termine. Di poi è ancora da aversi presente, che ogni principio fisicamente non è ancora l' ente, il quale esiste soltanto per la sua ultima determinazione. In terzo luogo è da rammentare, che i principŒ precedenti s' identificano col principio proprio dell' ente; perocché è sempre il primo principio quello che, venendogli dati nuovi termini, mette fuori nuovi atti primi nella loro specie, e però è lo stesso primo principio che diviene successivamente tutti gli altri principŒ, e finalmente l' ultimo che costituisce l' ente. Quindi accade, che i diversi termini legati l' un coll' altro, e l' uno all' altro fisicamente subordinati, giungono a costituire un termine solo organato di piú termini, il quale è il termine proprio dell' ente. Le quali cose premesse, egli è manifesto, che tutti i principŒ debbono avere il loro sentimento in questo termine complesso ed organato a cui si riferiscono, un sentimento però, che ha la stessa unità e lo stesso organismo del termine dove risiede. Di qui procede, che il principio proprio di un ente abbia in sé qualche sentimento proprio della sua comunità con altri enti; giacché noi vedemmo che i principŒ precedenti sono comuni a piú enti, e come tali sono indeterminati, e però non costituiscono ancora nessuno degli enti particolari, ossia degli individui a cui sono comuni. Venendo ora a trattar di quel doppio modo dell' essere, pel quale un ente esiste in sé ed anco esiste in un altro ente, noi stimiamo dovere prima di tutto restringere la questione ontologica, cosí ampia in se stessa, riducendoci qui a favellare soltanto di quelle due maniere di essere, onde un ente si concepisce in se stesso, e si concepisce in noi. La parola noi esprime il principio sensitivo ed intellettivo. « Essere in noi »adunque significa, essere nel nostro principio sensitivo e intellettivo. Laonde tutto ciò che fosse del tutto alieno dal nostro sentimento o dalla nostra intelligenza, in una parola dal nostro principio razionale , non sarebbe veramente in noi, qualunque altra attinenza potesse avere coi principŒ ontologicamente anteriori a noi, dai quali pur dipendiamo. Di qui si può raccogliere una dichiarazione dell' espressione piú universale: « un ente esistere in un altro ». Perocché si scorge, che l' esistenza di un ente in un altro (trattandosi di enti sensitivi od intellettivi) è relativa all' ente che comprende un altro, o che è da un altro compreso. In una parola, l' essenza dell' ente reale soggettivo, è sentimento. Acciocché dunque un altro ente sia in lui, deve essere nel suo sentimento: se non ha l' altro ente nel suo proprio sentimento, non ha l' altro ente in sé. Questa relatività dell' inesistenza consegue alla limitazione ontologica, per la quale un sentimento sostanziale esclude l' altro, benché un sentimento sostanziale possa essere piú ampio di un altro. Questa proposizione è provata pur coll' osservare quale sia l' ente da noi intuíto. L' ente da noi intuíto è puro essere, è quell' idea per la quale noi siamo atti a dire che una cosa è, per la quale siamo atti a giudicare. Quest' essere della mente è indeterminato. Se l' essere intuíto è pienamente indeterminato, dunque egli è puro essere , senza i suoi termini: l' essere dunque ci è stato dato nella sua pura essenza, inizialmente, giacché l' essenza è l' inizio degli enti, e molto piú senza l' aggiunta di alcun fenomeno. Quindi l' essere puro da ogni sua determinazione, intuíto di continuo dall' intelligenza, non ha veruna azione in noi, ma la sola presenza ; il che bisogna di spiegazione pe' diversi significati della parola azione . Ogni qualvolta si scorge un effetto, suol dirsi che vi ha un' azione che l' ha prodotto. Qui prendesi azione per causa . Ma il comune degli uomini non osserva, che l' azione che si riferisce all' effetto, talora è la stessa causa, lo stesso ente che ha la relazione di causa; tal altra volta l' azione è distinta dall' ente causante, è un atto secondo di lui, non lo stesso suo atto primo. Eppure vi hanno effetti che debbon la loro esistenza, non già ad una azione distinta dall' ente causante, ma ad un' azione che è l' atto primo dell' ente causante, e perciò è lo stesso ente causante. Se noi vogliamo fissare un canone universale, col quale si conosca quali enti agiscano in altri col loro atto primo, colla loro presenza, potremo esprimerlo in questo modo: quegli enti i quali hanno dalla loro stessa essenza di essere o di poter essere in altri, questi agiscono col loro atto primo: e però non hanno azione nel senso volgare della parola, ma hanno soltanto presenza. Il qual canone applicato all' essere per essenza, cioè all' essere ideale, ci fa conoscere incontanente, che quest' essere sta nell' intelligenza nostra senza alcuna azione seconda ed accidentale; perocché egli ha per sua propria essenza l' essere nelle menti. Ora l' essere per essenza è appunto il termine oggettivo delle intelligenze, come vedemmo. Dunque il suo atto nelle menti è lui stesso. L' essere dunque è in noi quale è in se stesso. Di piú. Se noi consideriamo attentamente che cosa racchiuda il pensiero del puro essere, se meditiamo il significato della parola è , senz' aggiungervi nulla; noi ci convinciamo indubbiamente, che nell' essere pensato in tal modo non entra alcuna relazione con noi, né con alcun altro ente particolare, né con alcun individuo (il quale è formato da termini che determinano compiutamente l' essere). Perciò noi non mescoliamo coll' essere puro, oggetto dell' intuizione, niun nostro sentimento, niente di soggettivo, né manco di relativo; ma pensiamo l' atto primissimo di ogni cosa, prescindendo affatto dalla cosa di cui egli è atto. Quindi nell' essere non cade niun elemento fenomenale . L' essere adunque, qual' è posto nella intuizione, è scevro da ogni relazione colla mente stessa e da ogni sentimento. Onde la mente l' intuisce non apprendendo in lui relazione alcuna, l' apprende in un modo assoluto . Altro è dunque il pensare l' ente assolutamente ossia in modo assoluto, altro è il pensar l' ente assoluto (1). Pensare l' ente in modo assoluto, vuol dire pensar l' essere, prescindendo da ogni sua determinazione, pronunciare collo spirito nostro il monosillabo è , senz' altra aggiunta: questo modo di pensare appartiene al solo oggetto dell' intuizione, sia che quest' oggetto puro s' intuisca (essere), ovvero anche si affermi e si pronunci ( è ). All' incontro pensare l' ente assoluto è pensare l' ente infinito determinato in se stesso coi suoi termini infiniti e categorici (Dio). Quindi l' oggetto dell' intuizione non è l' ente assoluto, ma è il modo assoluto dell' essere, opposto al modo relativo . Ora, perocché l' intuizione è il primo di tutti i pensieri, ogni altro pensiero la suppone e la contiene. Il che dimostra che in niun pensiero manca giammai il modo assoluto dell' essere e del pensare. Che anzi questo modo assoluto è quello che caratterizza il pensare, e costituisce la differenza essenziale del pensare dal sentire . Quindi s' intende che cosa voglia dire « pensare una cosa in sé, o per sé ». Vuol dire pensarla in quella guisa appunto nella quale si pensa l' oggetto dell' intuizione, pensarla come oggetto. Queste maniere di dire esprimono il modo del pensare , e medesimamente il modo di essere . Dunque tutti gli enti, tutte le entità hanno per conseguente quel modo categorico di essere, che s' esprime colla parola oggettivo , ed è quel modo pel quale esistono essenzialmente in una mente intuente; e conseguentemente possono esistere in tutte le menti intuenti. Si può dunque pensare in un modo assoluto anche l' ente relativo , perocché la relazione appartiene all' ente, e l' assoluto appartiene al modo. Tutti gli enti relativi hanno un modo assoluto di essere, e quest' è il loro modo categorico ideale ossia oggettivo. Vero è che questo modo assoluto non è quello che li costituisce enti a se stessi, perché l' essere enti a se stessi è un modo relativo; ma il loro modo relativo è però congiunto al loro modo assoluto che precede ontologicamente e categoricamente la loro propria relativa esistenza (1). Tutto quello che non è ente puro, oggetto per la sua stessa essenza, si può dire fenomenico appunto perché egli non ha in se stesso le condizioni dell' ente fino che si considera separato da quello che per la sua propria essenza è ente per sé. Non è già che v' abbia qualche cosa che sia separata dall' ente, se l' unione e la separazione si consideri rispetto all' ente ontologicamente primo; ma l' entità relativa è separata considerando la separazione rispetto a lei stessa, poiché ella non sente la sua congiunzione coll' ente, attesa la limitazione ontologica del suo sentimento che la chiude in se stessa. Ora il sentire di questa entità essendo tutto ciò che ella è, e il suo sentire, benché sostanziale, essendo separato da quello che per la propria essenza è ente per sé, perché questo non cade in un tale sentire; consegue che fino che rimane questa separazione, ella non sia ente per sé; onde a ragione si chiama fenomeno . Ma per mezzo della mente che unisce il fenomeno sostanziale coll' ente per sé, anche il fenomeno si eleva alla condizione di ente per sé, perché viene considerato nell' oggetto, vien pensato in modo assoluto, viene oggettivato. Dobbiamo avvertire che i fenomeni si partono in due classi, che sono i fenomeni sostanziali , e i fenomeni conseguenti ai sostanziali , a cui si riducono anche gli accidentali. I fenomeni sostanziali sono quelli che ci si presentano come atti primi di un sentimento relativo, che escludono tutti gli altri fenomeni, eccetto quelli che a loro susseguono come atti secondi. I fenomeni conseguenti ai sostanziali sono atti secondi di questi, proprŒ, integrali, accidentali, ecc.. Quando la mente intuente l' essere concepisce per mezzo di questo i fenomeni sostanziali, ella li concepisce senza piú come enti. Ma i fenomeni conseguenti ai sostanziali non può ella concepirli come enti se non in unione coi fenomeni sostanziali dai quali dipendono; perocché ogni ente ha questa condizione, di dover essere un atto primo. I fenomeni sostanziali dunque sono i veri rappresentatori degli enti, e la regola onde giudicare della legittimità delle rappresentazioni che ce ne fanno i fenomeni secondari e conseguenti. Questi hanno anch' essi virtú di rappresentare, ma solo allora che vanno d' accordo coi primi, e discordanti da essi si chiamano a giusta ragione apparenze ingannevoli e illusioni. Dalle cose dette si raccoglie che l' inesistenza di un ente in un altro è proprietà esclusiva di quello che è essere per propria essenza. E nel vero, fuori di quello che è essere per essenza non rimane che il fenomeno nel modo che abbiamo spiegato. Egli è bensí vero che il fenomeno sostanziale, considerato in unione coll' essere per essenza, diventa anch' egli un ente cioè un ente per partecipazione. Ora un tal ente per partecipazione può anch' egli esistere in un altro, cioè in un altro ente intellettivo. Ma quest' inesistenza gli conviene soltanto in quanto egli è ente; ed egli è ente per partecipazione; dunque anche l' inesistenza sua in altro gli spetta soltanto per partecipazione, cioè in virtú di quell' essere per essenza, in cui si contempla e si pone, e cosí si rende intelligibile, ed acquista natura di oggetto. Dunque, soltanto quello che è essere per essenza ha virtú d' inesistere in un altro ente, cioè nell' intellettivo, nella sua purità di ente. Solo dunque l' essere per essenza ha virtú sua propria d' inesistere puro da ogni fenomeno in un altro ente, laddove l' ente per partecipazione inesiste in quanto è ente, ma mescolato col fenomeno dal quale riceve il nome di relativo. Ma i fenomeni stessi possono essi inesistere gli uni negli altri? Sí, hanno anch' essi certi modi d' inesistenza i quali però debbono essere accuratamente distinti. 1) Una parte del fenomeno esiste nel tutto. Questo modo d' inesistenza però è mentale anziché reale, come mentale è il concetto della parte. 2) Il fenomeno conseguente alla sostanza esiste nella sostanza. Questa proposizione si può esprimere piú generalmente dicendo che gli atti secondi inesistono nell' atto primo che li contiene o virtualmente o attualmente. 3) Venendo ora all' inesistenza de' fenomeni sostanziali, il solo principio è quello che contiene, e il termine è il fenomeno sostanziale da lui contenuto. Da quello che abbiamo detto riceve luce e sviluppo maggiore la teoria che abbiam data della rappresentazione. Lasciando da parte la prima maniera di rappresentazione , che spetta all' idea quasi specchio di tutte le cose, diciamo in che modo il fenomeno sostanziale sia rappresentativo dell' ente reale. In primo luogo vedemmo che l' ente è intuíto immediatamente, e in niun modo può essere rappresentato, perocché se vi avesse qualche cosa rappresentativa dell' ente non si potrebbe mai sapere che ella fosse rappresentativa dell' ente se già non si conoscesse l' ente. La rappresentazione adunque suppone sempre dinanzi a sé che si conosca l' ente; e quindi è impossibile spiegare la cognizione per via di semplice rappresentazione o similitudine, nel che sta il difetto della teoria della cognizione data dagli Scolastici. Ma se l' ente è già conosciuto, a che pro la rappresentazione? In primo luogo l' ente potrebbe essere conosciuto in un modo abituale, senza che ci poniamo attuale attenzione, o che lo crediamo a noi presente. In tal caso la rappresentazione ci presterebbe il servizio di attuare in lui la nostra attenzione. Pure non è questo solo il servizio che ci presta il fenomeno sostanziale. Ciò che noi conosciamo immediatamente, ciò che inesiste in noi per natura senza alcun fenomeno, non è che il puro ente spoglio di ogni sua determinazione. Egli è uno e semplice; ma gli enti sono molti, e l' uno di essi non è l' altro, ciascuno anzi è un individuo che ha un atto primo suo proprio. Quest' atto primo individuato qual si presenta nel nostro conoscere è quello che chiamiamo sostanza, e in quanto una sostanza si distingue totalmente dall' altra mediante la sua individuazione, la chiamiamo forma sostanziale. La forma sostanziale fa sí che una sostanza non sia un' altra, e negli enti finiti che cadono sotto la nostra percezione questa forma sostanziale è il fenomeno primitivo che rimane segnato da un nome sostantivo che gli imponiamo. Ma la forma sostanziale nella sostanza non è ancora l' ente; ma viene ad esser ente quando le si aggiunge l' essere che già conosciamo. Mediante quest' unione dell' essere col fenomeno sostanziale, unione individua, avviene che ne risulti innanzi alla nostra mente un ente reale; ma quest' ente reale non è piú un ente indeterminato, ma determinato dalla forma sostanziale in modo che si divide da ogni altro ente. Ora in questo fatto si può considerare l' ente reale conosciuto sotto due aspetti: o pigliandolo nella sua unità, e cosí possiamo dire di conoscere immediatamente quell' ente reale; o considerandolo nei due elementi dai quali risulta, e cosí noi vediamo che il fenomeno sostanziale non è per sé solo l' ente, ma una rappresentazione parziale dell' ente, di maniera che senza il fenomeno sostanziale noi conoscevamo l' ente solo inizialmente, ma ora aggiungendovi il fenomeno sostanziale conosciamo qualche cosa della realità di lui per la rappresentazione che questo ce ne fa. Vero è che questo fenomeno sostanziale è relativo a noi, e in quanto è relativo a noi non ci fa vedere qual sia il modo della realità proprio dell' ente essenziale; ma tuttavia ci presenta ad ogni modo una realità, la quale deve essere analoga alla realità compiuta ed illimitata essenziale all' ente. Cosí si può dire che tutti gli enti finiti che noi conosciamo rappresentano l' ente infinito, e per essi non s' accresce la nostra cognizione se non perché s' accresce la cognizione dell' ente essenziale: entro a tutte le nostre cognizioni adunque degli enti reali vi ha una cotale imperfetta rappresentazione dell' ente infinito. La percezione risulta dai due elementi, dall' ente ideale e dal fenomeno sostanziale dove termina l' affermazione. Quindi il nostro spirito nello stesso tempo che con una tale operazione conosce la sussistenza affermandola, conosce altresí nell' ideale qualche cosa di piú che non conosceva prima, perocché prima lo intuiva del tutto indeterminato, ed ora gli sono manifeste alcune sue determinazioni. Quando adunque noi percepiamo un ente reale, allora non è a credersi che l' essenza dell' ente in universale e il fenomeno sostanziale si uniscano quasi per giusta7posizione, ma eglino si compongono insieme e ne risulta un ente organato; non è da credere che conosciamo soltanto quello che prima era nei due elementi separati, l' essere universale e il fenomeno, ma v' ha qualche cosa di nuovo che risulta dalla loro unione: la cognizione nostra, che n' è l' effetto, si arricchisce di questo elemento nuovo, il quale rispetto all' ente ideale è un ordine che gli si aggiunge, e rispetto al fenomeno è la realizzazione di quest' ordine. Quindi nella percezione non si afferma solo il fenomeno, ma si affermano alcuni elementi che appartengono veramente all' ente come realizzati nel fenomeno sostanziale, si affermano congiunti, e poi si distinguono mediante l' analisi della riflessione: quindi si viene a conoscere distintamente, che l' ente affermato è atto primo , che è uno , che è pienamente determinato , ecc.; le quali sono proprietà dell' ente realizzate nel fenomeno; rispetto alle quali la nostra affermazione ha una verità assoluta. Or le cose ragionate circa il conoscere per via di rappresentazione dimostrano che l' uomo possiede una lingua interiore intima nella sua potenza conoscitiva, della quale si serve come d' istrumento del pensare. Perocché noi vedemmo che il fenomeno è quello che gli rappresenta l' ente, e che la varietà dei fenomeni è quella che gli rappresenta l' ente in diversi modi e gradi. Quindi senza i fenomeni il principio potrebbe avere bensí l' intuizione dell' ente in universale, e poniamo anche la percezione dell' ente assoluto, ma non la cognizione degli enti finiti e molteplici. Tutti i fenomeni sono dunque segni naturali degli enti; ma i fenomeni primitivi sono segni che si compongono cogli enti stessi finiti costituendo le loro forme sostanziali; giacché trattandosi di enti relativi non è maraviglia che anche le forme sostanziali siano relative. Quando s' impone un nome sostantivo ad un dato ente, allora questo nome esprime l' ente sotto quella forma sostanziale; e cosí il fenomeno primitivo resta inchiuso nel concetto dell' ente che si nomina, e nella definizione di lui. E ogni qualvolta senza badare a questo si volle ritenere quel nome per significare quell' ente spogliato del suo fenomeno sostanziale e quindi della sua forma sostanziale, si aprí il varco a innumerabili errori. Questo è uno dei piú ampi fonti della filosofia sofistica, e specialmente del panteismo germanico. I fenomeni poi conseguenti ai primitivi ed accidentali sono anch' essi altrettanti segni dell' ente, ma non sempre veritieri, come abbiam veduto. Quindi il pensiero tende bensí sempre all' ente di sua natura; ma nella condizione in cui siamo egli si serve per giungere a conoscerlo sempre piú di segni rappresentativi, quali sono i fenomeni, i quali formano come una lingua interiore. Questa lingua nello stesso tempo che conduce il pensiero alla cognizione degli enti relativi e moltiplici, lo dirige altresí quasi a ultimo fine di lui all' ente essenziale, di cui non vede a vero dire la realità propria, ma s' accorge di posseder certi segni di questa realità, e cosí in modo imperfetto e negativo finisce in essa come in ultimo punto delle intuizioni cogitative. Or poi merita sopra modo di esser meditata quella individua unione, che questi segni naturali formano coll' ente che rappresentano, sia questo ente principio o termine: per la quale unione individua si rappresenta alla mente una pluralità di enti compiuti e individuati e nella loro propria sostanza, per guisa che la cognizione è positiva e non negativa, onde ci persuadiamo di percepire quegli enti quali sono nella loro propria natura. Il qual fatto ben inteso spiega perché la parola esterna sia anche essa cosí utile all' intelligenza, e come il suono materiale del vocabolo s' associ e s' individui col concetto, per modo che il nostro spirito vede e pensa l' ente nel vocabolo, e senza i vocaboli non può a lungo ragionare, venendogli meno la presenza degli oggetti pensati. Il vocabolo è un suono e il suono è una sensazione. Vero è che questa sensazione è intieramente diversa dall' ente pensato e benanco da' suoi fenomeni; ma la mente non associa però meno la sensazione del vocabolo coll' ente che vuole esprimere; perocchè la legge del pensiero consiste nell' associazione di un fenomeno coll' ente, senza che sia necessario che il fenomeno, cioè il sentimento, sia uno piuttosto che un altro, supplendo la riflessione, la quale avverte se un fenomeno sia proprio e naturale dell' ente o non sia, nel quale ultimo caso il fenomeno sensibile è un segno arbitrario che rammemora insieme coll' ente anche il suo fenomeno o segno naturale. Cosí la lingua esteriore è un complesso di segni de' segni; cioè di segni arbitrari, che richiamano i segni naturali e con questi l' ente da essi determinato. Qui si vede spiegata l' origine, la necessità e la potenza della parola. Dalle cose dette possiamo raccogliere qual sia l' intima costituzione dell' essere umano: quest' essere è un principio unico individuato da tre termini di diversa natura, lo spazio , la materia e l' idea , organati fra loro all' unità. Or da quanto è detto riceve lume la natura della percezione fondamentale. Perocché dall' aver noi veduto che lo spazio e la materia, in quanto sono termini del sentimento fondamentale, sono puri fenomeni, e però termini proprŒ e non termini stranieri del principio sensitivo, col quale s' identifica il principio, ne viene che la percezione intellettiva fondamentale non è la percezione della realità pura straniera, ma è la percezione dello stesso principio, individuato nel fenomeno. Quindi il principio intellettivo, percependo il detto fenomeno, nol percepisce come cosa straniera, ma come cosa propria, il che è quanto dire percepisce il principio sensitivo individuato ne' due termini dello spazio e della materia fenomenale, il qual principio sensitivo viene cosí identificato col principio intellettivo. Per questo l' uomo a principio della sua esistenza ha un sentimento unico, che è quanto dire sente se stesso in quanto è animale, e sentendo se stesso sente anche il corpo, non essendo il corpo in quel primo sentimento se non l' individuazione del principio animale. Se dunque nel sentimento dello spazio e nel sentimento fondamentale non v' ha percezione della realità pura straniera, in qual momento nasce questa percezione? In prima dobbiamo intenderci sul significato di sentimento, di percezione sensitiva e di percezione intellettiva. Il semplice sentimento del tutto spontaneo, naturale, privo di ogni fatica, non è percezione. Quando nel sentimento ci ha ripugnanza, fatica, e tuttavia necessità (il che chiamasi sentimento di violenza), allora vi ha percezione sensitiva. La percezione sensitiva è dunque sentimento, ma non ogni sentimento, né tutto il sentimento, ma solo quell' accidente del sentimento, che dicevamo senso di violenza. La percezione intellettiva poi è quell' atto dello spirito razionale, pel quale egli apprende il sentimento come un ente. Quindi la percezione intellettiva è di tre maniere. Perocché lo spirito può percepire il sentimento dalla parte del suo principio, o dalla parte del suo termine. Può percepire il sentimento dalla parte del suo principio, nel qual caso il principio intellettivo s' identifica col principio razionale. Lo spirito intellettivo può percepire il sentimento dalla parte del suo termine, cioè il sentito. Ora, rispetto al suo termine abbiamo distinto il sentimento semplice dalla percezione sensitiva. Se lo spirito intellettivo percepisce il sentimento semplice, il puro fenomeno, in tal caso non percepisce ancora la pura realità straniera; ma se percepisce il senso violentato, incontanente l' intelligenza si porta alla realità straniera come a substratum di un tale sentito, operando in virtú del principio di sostanza. Le tre maniere adunque di percezione intellettiva sono: a ) Percezione intellettiva del principio sensitivo. b ) Percezione del fenomeno sensibile. c ) Percezione di un sentito violento - In questa si percepisce la pura realità straniera. Ora dal sapere noi che tutto ciò che cade nel sentimento è fenomeno, e per ciò appartiene al principio sensitivo, e che la pura realità del sentito è trovata e posta soltanto dalla mente, ma non è quella che costituisce il nostro individuo, deriva che noi piú facilmente possiamo intendere come l' anima separata dal corpo possa conservare la sua individualità, perocché ella non perde quello che è suo. Vero è che il finimento del suo sentire non può esser piú quello di prima, non può esser piú il sentito di prima, perocché il sentito riceveva il suo limite dalla realità sottoposta. In questo caso il sentimento dee ricadere e concentrarsi in se stesso e non piú vestire di sé quella realità. Ora questo raccentramento de' sentimenti è appunto la loro riduzione in abiti , i quali, come abbiam detto, bastano a mantener l' anima quell' individuo che era prima. Finalmente il terzo termine del principio umano è l' idea. Abbiamo detto che nell' ordine logico l' idea diviene termine dello spirito, quando questo è individuato come animale. Il principio individuante l' animale è quello dell' armonia del sentimento eccitato, il qual principio ha in sé necessariamente anche i precedenti, cioè il principio del sentimento eccitato, del sentimento continuo, e del sentimento esteso, o spazio. Or quantunque l' idea non si presti come termine intuibile se non dopo che il principio ha tutte queste individuazioni; tuttavia è da osservarsi, che l' atto intuente l' idea non si fa già dal principio cosí individuato, quasiché quest' atto si ponesse colla mediazione dello spazio e del corpo; ma l' idea è veduta dal principio puro come principio, non in quant' egli è individuo, ma solo a condizione che sia individuo. Il che chiaramente si scorge considerando che l' idea non può soggiacere alla forma dello spazio o a quella del corpo, essendo scevra per sua natura da ogni estensione, da ogni passione, da ogni corporeità, da ogni mutazione, e da ogni limitazione; onde non si può intuire che con un atto immediato, nel quale altro non si distingue che il principio e lei, ed è per questo che l' essere è in noi puro da ogni elemento fenomenico. E qui ci troviamo in grado di rispondere alla questione: « se l' uomo conosca se stesso fin dal primo momento della sua esistenza ». Gli scolastici dicevano, che egli ha una cognizione abituale di sé. La soluzione ci pare troppo vaga: le considerazioni seguenti vi recano luce. Quando il principio che intuisce l' idea percepisce la propria animalità, la percepisce tale qual' è. Ora l' animale è un principio individuato in quella guisa che abbiam detto. Ma un principio percipiente un principio s' identifica con esso. Dunque l' uomo fino dal primo istante in cui trovasi a pieno costituito, ha percepito se stesso come principio animale individuato: la percezione è cognizione, dunque l' uomo fin da principio si conosce in quant' è animale. Ma si conosce egli ancora come principio intellettivo? Primieramente è a dire, che il principio non è il termine dell' atto, e nulla si conosce se non ciò che è, ovvero è divenuto, termine dell' atto conoscitivo. Ogni principio è bensí un sentimento e però anche il principio intellettivo è tale, ma il sentirsi come principio non è conoscersi. L' uomo dunque non si conosce come principio intellettivo colla prima percezione immanente, ma soltanto con una riflessione successiva, colla quale pone se stesso principio come termine dell' atto conoscitivo. Tre dunque sono i termini principali dell' umano principio: quindi tre attività primordiali: quindi non desta piú maraviglia che lo spirito unico nel suo principio ammetta pluralità nelle potenze. L' attività che finisce nello spazio come nel suo proprio fenomeno, è atto semplicemente, non potenza. Or quantunque il principio individuato dallo spazio presti alla mente il concetto di un atto e non di una potenza, tuttavia si può chiamare potenza dello spazio, per la quale il detto principio, quando riceve il termine corporeo, lo veste e l' informa della estensione. Ma se il principio dello spazio prima di ricevere l' individuazione del termine corporeo si può considerare come in potenza al ricevimento di questa forma, quand' è già individuato egli è già in atto, non piú in potenza. E in generale l' atto, pel quale un individuo è posto, non è potenza ma atto. Quindi né il sentimento del continuo né quello dell' eccitamento, né quello dell' armonia, né l' intuizione dell' essere, in quanto costituiscono il sentimento fondamentale, sono potenze, ma atti primi pe' quali l' individuo esiste. L' uno però di tali atti, quando è ancor privo dell' atto susseguente, dicesi in potenza a questo. Ma queste sono potenze a ricever la forma, perocché un subbietto può avere due specie di potenze, che sono: a ) Potenze a ricevere una nuova forma sostanziale mediante il ricevimento di un nuovo termine (1). b ) Potenze relative al cangiamento accidentale dello stesso termine, passive (facoltà di sentire il detto cangiamento) ed attive (facoltà di produrre il detto cangiamento). L' una e l' altra specie di potenze è sempre una facoltà di porre nuovi atti. Ma la prima specie si riferisce ad atti che producono una nuova individuazione, e che sono atti primi ed immanenti relativamente al nuovo individuo che producono; la seconda specie è di atti accidentali all' individuo, che nol cangiano in un altro, e possono essere transeunti. Ora qui egli è d' uopo di mostrare come nel seno stesso dell' ordine inerente alla realità si ravvisi una relazione ed una dipendenza di essa realità dal suo esemplare ideale. Quello che vogliam dire si scorgerà ove si mediti la natura del secondo genere accennato delle potenze, le quali si riferiscono ad atti che non cangiano il proprio individuo in un altro, e che quindi si dicono a lui accidentali. Ond' avviene che un subietto individuo possa uscire in tale genere di atti? - Da questo, che il termine di tali atti può ricevere delle modificazioni accidentali senza che cangi la sua sostanza. Ma queste modificazioni non sono tutte e sempre presenti nel termine, perocché in tal caso il termine non cangerebbe. Acciocché la potenza del principio reale sia possibile, conviene che il principio, oltre avere l' attività attuale di unirsi col suo termine in quel modo reale che gli sta presente, abbia un' altra attività virtuale che si riferisca a tutti i modi che può ricevere il suo termine e che in presente non ha. In altre parole, l' attività del principio deve abbracciare non solo la sostanza del suo termine, ma ben anche tutti i modi possibili di questa sostanza. Ora, i modi possibili non sono reali, e di essi uno solo alla volta può essere realizzato: dunque, il principio reale colla sua attività eccede il termine che ha presente. Convien dire adunque che il concetto della potenza involga una relazione secreta fra la potenza reale e i modi ideali del suo termine, di che si scopre la ragione per la quale nel reale stesso si trovi una virtualità: la virtualità reale suppone adunque e risulta da una dipendenza che ha l' ordine delle cose reali dal loro tipo ideale. Questa dipendenza è prova manifesta che il temporale e finito dipende da un ordine superiore delle cose eterne, ed è una nuova dimostrazione ontologica che vi ha un ordine invisibile di cose eterne ed infinite, tolto il quale le cose visibili reali e finite non potrebbero aver tra di loro quell' ordine che hanno. Non potrebbe adunque sussistere il mondo reale senza il mondo ideale che gli determina continuamente quell' ordine che in lui si ammira. Concludiamo questo capo osservando, che quantunque i tre termini fondamentali dello spirito umano, lo spazio, il corpo, e l' idea, abbian natura diversa, tuttavia sono cosí organati fra loro da riuscirne un termine solo. Perocché il corpo è ricevuto nel seno dello spazio, e il corpo e lo spazio nel seno dell' idea. Onde l' essere razionale nell' idea possiede gli altri suoi due termini, e quest' unità che formasi nell' idea di tutti e tre è quella che individua l' essere razionale «( Psicologia , 567 7 5.4) ». Noi abbiamo parlato delle azioni , come pure delle inesistenze . Dalla diversa indole delle azioni e delle inesistenze si spiega, come si rinvengono certe azioni che non modificano il loro termine. Poiché l' inesistenza non è azione, nel senso comune della parola che esprime un atto secondo; ma se l' inesistenza stessa si considera come un' azione, e costituita da azioni (nel qual caso l' azione si prende impropriamente anche come atto primo), allora si trova che vi hanno azioni che non modificano il loro termine. L' inesistenza è una proprietà del solo essere essenziale : nessuna cosa inesiste in noi tale quale è, se non l' essere. Ora posciaché l' essere ideale ed essenziale talora è indeterminato, talora piú o meno determinato, secondo che costituisce l' essenza dell' essere universale, dell' essere generico, o dell' essere specifico, quindi ogni intuizione o cognizione delle essenze appartiene a quella classe di atti e di azioni, che non modificano menomamente il loro termine, perché altro non suppongono, ed altro non le costituisce, se non la pura inesistenza; questa è dunque la causa delle azioni che non modificano il loro termine. L' azione del principio rispetto al fenomeno sentimentale suo termine è una di quelle azioni, che producono il proprio termine, e però che non lo modificano. Ella è una specie di creazione; differendo dalla creazione soltanto in questo, che la creazione è libera, laddove il principio che produce il suo termine fenomenale è provocato a produrlo, e determinato a produrlo piuttosto in un modo che in un altro. Quest' azione è un atto primo, col quale il principio pone la propria individuazione. Quest' azione si può anche descrivere come un movimento del principio verso la sua forma che lo rende un individuo determinato. Il principio puro dal fenomeno, e cosí pure la realità straniera che sta al di là del fenomeno, nulla hanno di fenomenale, ma appartengono all' essenza dell' essere nella sua forma reale. Dico che appartengono all' essenza dell' essere nella sua forma reale, considerando unicamente quello che di essi ci porge il concetto che noi n' abbiamo. L' atto dunque della mente, che per via d' astrazione pensa il principio puro e la realità pura, non avendo per suo termine che l' ente, e l' ente inesistendo senza poter offrire alcuna modificazione, egli è di quelli atti, che non modificano il loro termine. Dalle cose dette risulta, che anche la percezione intellettiva non modifica il proprio termine. Perocché se si tratta della percezione intellettiva de' corpi, il termine di quest' atto è la realità vestita del fenomeno unita all' essere ideale. Ora noi vedemmo che la realità appartiene all' essere realizzato, e però non è suscettibile di modificazione; il fenomeno poi che la veste esiste precedentemente alla percezione intellettiva, ed è un termine prodotto dall' azione del principio sensitivo: in quant' è poi percepito dalla mente non è cangiato il fenomeno stesso, ma soltanto considerato in relazione coll' ente oggettivato, e, per cosí dire, entivato . Or l' aggiungere al fenomeno l' ente non lo modifica, anzi v' aggiunge ciò che è immodificabile e che rende lui stesso immodificabile: quest' aggiunta non essendo fenomenale, ma immune da ogni fenomeno, non può recare varietà alcuna nell' ordine del fenomeno. Se poi si tratta della percezione fondamentale con cui il principio intellettivo percepisce la propria animalità, è da dire il medesimo; e tanto piú, che nel sentimento fondamentale non cade la percezione della realità straniera, ma del fenomeno solamente. Avvi bensí la percezione del principio sensitivo nella sua individuazione e quindi avvi pure l' unificazione del principio sensitivo con l' intellettivo, onde se n' ha un unico principio razionale . Or questa unificazione è una specie di inesistenza, e però non distrugge l' attività del principio sensitivo, né punto la altera o modifica, perché niun principio come tale è variabile e modificabile, per la ragione che è semplice e che appartiene all' ente stesso; ma soltanto può essere aggiunto ad un principio piú elevato, mediante la quale unione cessa di essere quel principio individuato per sé solo esistente che era prima, ma si rifonde in un altro principio individuato maggiore, onde l' individuo viene cosí ad aver cangiata la sua forma sostanziale. Se questa si vuol chiamare modificazione, tale è appunto l' unica modificazione che il principio intellettivo fa della propria animalità. L' immaginazione intellettiva è quella che ci rappresenta un ente vestito del suo fenomeno, per esempio, immagina di vedere e di toccare un corpo qui presente quando presente egli non è. Ora il fenomeno sensibile è quello che rappresenta l' ente dinanzi all' immaginazione. Ma il fenomeno non è propriamente l' ente, ma il segno dell' ente. In quanto adunque l' immaginazione intellettiva termina il suo atto in un segno rappresentativo e non nell' ente stesso, ella non può modificar l' ente, perché questo non è il termine del suo atto. In quanto poi la mente dal segno rappresentativo, procede a pensar l' ente segnato, né pur ella lo modifica, perocché già noi vedemmo che l' ente non è punto modificabile, e che a lui spetta la pura inesistenza nella mente. Da tutto ciò si può raccogliere che gli atti conoscitivi non modificano mai il loro termine, perché non fanno che aggiungere al sensibile l' ente, rimanendo il sensibile come la determinazione dell' ente. Tutto ciò che v' ha nel sensibile si vede nell' ente, e, e l' ente nel sensibile. Questa è semplice inesistenza e inesistenza oggettiva, nella quale non vi ha azione, perocché l' agire è solo proprio del soggetto, e dell' oggetto l' inesistere. L' oggetto può esser pensato nella sua totalità, ne' suoi elementi o nelle sue relazioni ecc.; tutto ciò non modifica l' oggetto, ma la modificazione appartiene all' atto conoscitivo del soggetto: soltanto che l' oggetto si pensa piú o meno completamente. Ma non vi sono dunque anche delle azioni che modificano il loro termine? Indubitatamente un individuo, quand' è costituito ed emette degli atti secondi, modifica se stesso modificando il suo proprio termine. Anche ciò che ha natura di termine, come sono i corpi, manifestano in sé delle azioni reciproche, e quindi reciprocamente si modificano. Ma questi atti secondi, il cui effetto è la modificazione del proprio termine, vogliono essere spiegati a quel modo che risulta dalle dottrine piú sopra stabilite. Richiamandone qui le principali possiamo conchiudere: 1) Che solo i diversi principŒ operano e modificano se stessi. 2) Che due principŒ l' uno straniero all' altro, quando sono posti in relazione mediante un termine comune (comune entitativamente, cioè come realità pura (1), benché avente un modo relativo e fenomenale diverso), sono reciprocamente i motori delle proprie attività, perché ciascuno ha potere dal termine comune, e modificato il termine proprio dell' uno, la spontaneità dell' altro principio è necessitata a modificare il termine proprio; perché i due termini, in qualche modo, s' unificano. 3) Che quando i termini sembrano agir fra loro e modificarsi, senza che apparisca l' azione de' loro principŒ, come accade nel movimento e nell' urto dei corpi, l' azione tuttavia non si può attribuire ai termini come termini, giacché come tali sono inerti ma ai principŒ che inesistono ne' corpi, sebbene questi principŒ non si percepiscano. Noi abbiamo fin qui investigata la natura dell' essere reale e svolta la sua intima organizzazione. Oltre al porre questa dottrina generale intorno all' ente reale, noi dividemmo l' ente reale in assoluto e relativo, e convenendoci favellare dell' assoluto piú a lungo nella seconda parte di quest' opera, ci stendemmo a descrivere l' intima costituzione dell' ente relativo. Vedemmo che egli non è completo s' egli non ha un principio ed un termine, oltre il dover egli avere una relazione colla mente che gli dà la forma oggettiva ed ontologica, od esser mente egli stesso. L' ente reale adunque completo si riduce mai sempre ad essere « un ente principio individuato ». Ma vedemmo ancora che gli enti puramente sensitivi sono individuati da un fenomeno posto da essi in quanto sono principŒ senzienti, senza il qual fenomeno non sono ancora enti mancando loro l' individualità, di maniera che sono enti individui soltanto in quanto inesistono nel fenomeno specifico come in loro proprio termine. Questo fenomeno specifico e primitivo costituisce la loro forma sostanziale, e per esso sono piuttosto una sostanza che un' altra. La cosa non è cosí rispetto all' ente intellettivo, il quale, come tale, non ha fenomeno alcuno, ma soltanto ha per suo termine l' essere, e inesistendo in questo suo termine partecipa la condizione di essere senza bisogno d' altro; di maniera che fra gli enti finiti le sole menti sono enti per se stesse, laddove il reale puramente sensitivo (molto meno quello che si concepisce come insensato) non è ente per se stesso, ma soltanto per la relazione con quella mente che lo percepisce, o che in qualunque modo lo pensa. Ora taluno male intendendo questa teoria potrebbe falsamente indurne che ella arrecasse nocumento alla verità dell' esistenza de' corpi e a quella de' reali sensitivi, quasi queste entità fossero pure apparenze, e la dottrina intorno ad esse esposta si riducesse ad un sistema di idealismo con pregiudizio eziandio della certezza delle cognizioni umane. Or quantunque noi ci siamo dati cura di distinguere accuratamente il fenomeno dall' apparenza, e abbiamo anche difesa la certezza del pensare relativo, tuttavia noi vogliamo pigliarne occasione a compiere la teoria della verità e della certezza che abbiamo in parte esposta nel Nuovo Saggio e nel Rinnovamento e in altre opere. Nelle quali noi abbiamo dato la teoria della verità logica : or dunque esporremo quella della verità ontologica . Cominciamo dal chiarire che cosa s' intenda per verità logica, e che cosa per verità ontologica. La verità logica è la verità delle proposizioni. Si suol parlare di questa quando si dice che la verità e la falsità appartiene ai giudizŒ, i quali s' esprimono in proposizioni; ovvero quando si dice che la verità e la falsità appartiene a quella maniera di conoscere, che si appella conoscere per via di predicazione. Diciamo adunque primieramente che ogni proposizione esprime un atto dello spirito intelligente, con cui vede la convenienza di un predicato e di un soggetto e vi dà l' assenso. Il vedere questa convenienza e il dar l' assenso sono atti inseparabili, ed anzi nel primo loro nascere un atto solo. Ma questo primissimo e naturale assenso è differente dall' assenso posteriore libero, o certo volontario. Il primo assenso appartiene all' inesistenza del principio intellettivo nell' essere; perocché il principio intellettivo inesiste nell' essere in quanto lo vede, e se nell' essere vede la convenienza del predicato col soggetto, con questo atto di vederla inesiste ancora nell' essere dove esso trova un tal ordine. Questo è il primo principio della volontà, la potenza volitiva nell' atto del suo nascere. Se l' essere non avesse un ordine intrinseco, giammai dall' intuizione di lui potrebbe uscirne la potenza volitiva, la quale ha sempre per termine un assenso dato o negato all' ordine dell' essere stesso. Or questo assenso ha piú gradi: lo spirito può aderire all' ordine dell' essere con piú o meno di attività e d' intensione, con un atto solo di assenso o con atti replicati. Questo aumento di attività nel detto assenso non è inchiuso naturalmente nell' intuizione, ed è per questo che si distingue l' intuizione della convenienza fra un predicato e un soggetto, e l' assenso dato a questa convenienza. Una proposizione ha tre parti che si sogliono chiamare da' logici il subietto, il predicato e la copula. La copula si può sempre ridurre ad una espressione sola, cioè al verbo è , il quale può supplire a qualunque verbo. Infatti chi dice questa proposizione: « l' uomo muore »non ha fatto che rendere piú breve quest' altra: « l' uomo è mortale », riducendo la copula e il predicato in una sola parola, che esprime effettivamente due concetti in uno. Se dunque si considerano le proposizioni in questa loro forma semplice e primitiva, vedesi che ciò che si dice in ogni proposizione si è che il subietto è ciò che esprime il predicato. Si fa dunque una specie di equazione fra il subietto e il predicato. La forma poi della copula è non esprime solamente tale equazione in se stessa, ma esprime l' assenso di chi forma il giudizio, perocché è è una parola pronunciata da chi giudica e significa in parole il suo giudizio. L' assenso poi ossia il giudizio è vero se vi ha l' identità pronunziata fra il subietto e il predicato, ed è falso se non vi ha. L' identità dunque del subietto col predicato è la verità oggettiva della proposizione; l' assenso dato a questa verità oggettiva è la verità soggettiva, o per dir meglio la verità oggettiva partecipata, posseduta dal soggetto giudicante. Tale è la verità logica, che può essere considerata astrattamente in due modi: in se stessa, quasi nella sua possibilità, e nel soggetto intelligente che le assente. Ma quale è poi la verità ontologica? - E` a considerarsi che il subietto delle proposizioni logiche è supposto in esse, e che l' intento della proposizione non è altro se non di far conoscere che al detto subietto spetta il tale e tale predicato. Rimane dunque a determinare questo subietto, rimane a vedere se egli esiste, o qual modo e grado di esistenza egli si abbia. Il subietto delle proposizioni logiche viene sempre presentato in esse sotto la forma di un ente, ma non sempre è tale, potendo nascondersi sotto quella forma di ente ciò che non è ente, o ciò che non è ente compiuto, o insomma ciò che ha un modo di esistere anziché un altro. Malgrado di tutto ciò la logica verità della proposizione può rimaner intatta; perocché quella verità non consiste che nella copula, cioè nella identità parziale fra il subietto ed il predicato, e quindi non dipende dalla natura del subietto. Questa verità logica che consiste nella convenienza di un predicato con un subietto, e non in altro, non solo non inganna perché è verità, ma è all' uomo preziosissima sicura regola della sua vita prammatica e morale. Ma posciaché l' uomo in tutti questi giudizi pensa il subietto sotto la forma di ente, egli è manifesto che questo pensiero è tanto piú vero, quanto il detto subietto ha piú dell' ente; e questa si è quella verità che diciamo ontologica. Or la verità ontologica non si può ella ridurre alla verità logica, non si può tradurla in un giudizio, in una proposizione? Questa questione si riduce a quest' altra: quando pensiamo un subietto, lo pensiamo noi sempre e necessariamente mediante un giudizio? Ora, noi adesso cerchiamo se nel pensiero stesso di un ente si contenga necessariamente un giudizio. Ora l' ente si pensa in piú modi. E primieramente colla semplice intuizione si pensa l' essere in universale, la quale non racchiude giudizio alcuno, giacché il giudizio suppone innanzi a sé l' esistenza di chi giudica, e però è sempre un atto secondo, laddove l' intuizione è l' atto primo pel quale esiste il principio intelligente, è l' inesistenza d' un principio reale nell' idea come in suo termine, e quindi è la costituzione del soggetto atto a intendere e portare giudizio. Di poi l' ente si pensa colla percezione intellettiva. Questa è un atto del principio che intuisce l' idea, al quale essendo dato il sentimento, lo apprende necessariamente nell' idea in cui egli inesiste, e però lo apprende come ente in quanto nel sentimento gli è dato il principio senziente, ed insieme apprende anche tutto ciò che è richiesto dall' ordine dell' essere intuíto, benché non sia compreso nel sentimento come la realità pura straniera. Noi abbiam trattata la questione: se questa percezione sia un giudizio, e abbiamo detto che avanti ch' ella si formi non esistono i due termini del giudizio, cioè il soggetto e il predicato distinti fra loro; ma che dopo compiuta la percezione si può per via d' analisi risolverla in un giudizio «( Sistema Filosofico , 43 7 50) ». Questa espressione dunque: « egli esiste », esprime l' analisi della percezione dopo che è già fatta, non la percezione nell' atto del farsi, perocché egli, il sentimento, prima che aggiungiamo la parola esiste, essendoci del tutto incognito non è atto a fare da subietto del giudizio. Se dunque attentamente si considera la proposizione: « questo sentimento è un ente », ovvero piú in generale: « il tale oggetto è un ente », manifestamente si scorge che già la prima parola della proposizione: « questo sentimento », ovvero « il tal oggetto contiene l' ente », significa un ente perché significa un oggetto cognito, e quindi la seconda parte della proposizione: « è un ente », non è altro che una ripetizione di ciò che fu già detto nella prima parola; se non che la prima parola esprimente il subietto dinotava l' ente unito individualmente colla sua determinazione come è in natura, quando la seconda parte della proposizione pone l' ente come fosse un elemento separato, il che è un puro arbitrio della mente, che ha virtù di astrarre e dividere ciò che è indiviso ed anche indivisibile. Scorgesi da tutto ciò: 1) Che la verità ontologica consiste nell' ente, e che ciò che si pensa ha piú di verità ontologica quanto piú ha di ente, e ha meno di verità ontologica quanto meno ha di ente, e che l' aver piú o meno di ente è un fatto al tutto indipendente dai nostri giudizŒ e dalle nostre proposizioni, dal nostro assenso o dissenso. 2) Che questa verità ontologica non può essere espressa direttamente in un giudizio o in una proposizione, ma viene pensata immediatamente nel pensiero dell' ente; e che allorquando si scioglie questo pensiero in una proposizione, questa non lo rende con esattezza. Perocché interviene un' operazione della mente che divide quello che è indivisibile, e mentre la verità ontologica sta tutta e compiutamente racchiusa nel semplice pensiero dell' ente, il quale ente pensato non somministra piú che un solo de' termini del giudizio, per esempio il subietto, la mente per via di analisi cerca di scioglierlo e spezzarlo ne' due termini del subietto e del predicato; e per far ciò ella è costretta a replicar due volte la stessa cosa, giacché non può pronunciare il solo subietto senz' avere espresso tutto il pensiero dell' ente a cui spetta la verità ontologica, mentr' ella pur vuole estenderla e diffonderla nella copula e nel predicato, che non le aggiungono se non una inesatta ed impropria superfluità. Ogni intelligenza ha per sua legge fondamentale il principio di cognizione che dice: « il termine del pensiero è l' ente ». In oltre ogni intelligenza ha quest' altra legge « di poter pensare tutto ciò che sente », perocché ogni sensibile è contenuto nella sfera dell' essere come il meno nel piú. Finalmente l' intelligenza umana ha una terza legge, ed è: « dopo aver pensato l' ente, poter limitare la sua speciale attenzione in modo che ella non abbracci tutto l' ente, ma solo un elemento, o una relazione ». Queste sono le tre leggi piú generali del pensare umano. In virtú della prima legge, la mente umana non può pensare che l' ente (perché questo costituisce l' essenza d' ogni pensiero); ma per la seconda e terza legge, ella pensa anche il sensibile e l' astratto . Come dunque si conciliano queste tre leggi? Non sembrano esse in contraddizione? Perocché mentre la prima dice che l' intelligenza, ogni intelligenza, non può pensare che l' ente, le altre due dicono che l' intelligenza umana, può pensare anche quello che non è ente, come il sensibile e l' astratto : perocché l' ente essendo per essenza uno, semplicissimo, indivisibile, se gli manca qualche cosa non è piú ente, e però quello che è parte di lui o elemento di lui, non è lui. Questa conciliazione si fa con una quarta legge dello spirito umano, la quale si è, che « l' umana intelligenza suppone ente quello che vuol pensare, ancorché non sia ente »e con questa supposizione lo pensa. Né per questo il pensare umano necessariamente s' inganna. Perocché quantunque egli pensi gli elementi e le parti relative dell' ente come altrettanti enti, tuttavia l' intenzione del pensare non si ferma alla forma di ente aggiunta pel bisogno della concezione; ma termina in quei relativi e parziali, per intendere i quali s' indusse a vestirli da enti, e le sue azioni stesse riferisce a questi. Oltre di che può sempre colla riflessione tornare su cotesta sua fattura, e in essa discernere l' ente aggiunto e sceverarlo dall' elemento o parte relativa che per quell' aggiunta rese pensabile, e cosí istituisce una critica del proprio pensiero mediante un altro pensiero piú elevato e perfetto. Or la dottrina della verità ontologica viene ad essere questa critica appunto del pensare umano, in quanto egli pensa il non ente sotto la forma di ente. Perocché la verità ontologica è lo stesso ente come oggetto del pensiero, e non come mezzo del pensiero. Onde procedono queste due proposizioni: 1) Che il termine del pensiero ha piú di verità ontologica piú che egli ha di ente non mutuato dalla mente, ma in proprio. 2) Che medesimamente il pensiero ha piú di verità ontologica piú che il suo termine ha di propria entità, e non aggiuntagli dalla mente per necessità di concepirla. La verità ontologica adunque è l' ente per essenza. Ma questa maniera assoluta di definire la verità ontologica uguagliandola, o anzi identificandola all' ente, non dimostra aver relazione con una mente, poiché egli pare che l' ente considerato in se stesso e per assoluto a niuna mente si riferisca. La quale obbiezione cade da se stessa, purché si osservi che la ragione, per la quale il concetto assoluto dell' ente non involge quello di una mente in cui inesista, altra non è se non la stessa imperfezione del pensar nostro. Ma una riflessione piú profonda ci fa conoscere che ogni ente da noi concepito, di cui possiam favellare, è necessariamente oggetto, e che il concetto di oggetto suppone sempre quello di soggetto intelligente, e però qualunque ente di cui si parla involge una relazione intrinseca ed essenziale con una mente. Ma se l' ente di cui lice pensare e favellare è necessariamente oggetto, e se l' oggetto è relativo ad una mente, questa relazione non determina per sé sola a qual mente egli sia relativo. E primieramente apparisce ad evidenza, che egli non ha alcuna necessità di essere relativo alla mente umana, o ad altra mente qualsivoglia finita e contingente; perocché potendo tutte queste menti non essere, ne verrebbe che anche l' essere potesse non essere, il che è un assurdo manifesto. Se dunque si considera che l' ente essenziale è un oggetto necessario, forz' è conchiudere ch' egli abbia una relazione necessaria con una mente necessaria, nella quale per sua propria natura inesista ed essa in lui secondo i diversi rispetti di sciente e di scito. E poiché l' essere essenziale come oggetto inesiste per propria essenza in una mente necessaria, perciò questa mente lo dee conoscere e penetrare in tutto il suo ordine intrinseco, e quindi dee conoscere in lui se stessa, giacché nel suo ordine la contiene e racchiude. Onde se le menti finite non vedono nell' ente oggetto se stesse, e però loro sembra che l' ente oggetto abbia un modo di esistere suo proprio fuori di qualunque mente, la mente infinita all' incontro vede nell' ente oggetto se stessa, e in se stessa vede l' ente oggetto; ond' ella conosce immediatamente che l' ente oggetto esiste per sé, e questo esistere per sé è un esistere nella mente infinita che pure esiste in lui per sé. Quando adunque si dice che la verità ontologica è l' ente per essenza, allora non si piglia già l' ente in quanto è fuori della mente, come apparisce al nostro intuito; ma si piglia l' ente in quanto noi con un ragionamento ontologico trascendente veniamo a conoscere che è per essenza nella mente divina, onde la verità è cognita per la sua propria essenza, e quando i metafisici distinguono il vero non cognito , e il vero cognito , la distinzione non è assoluta, ma soltanto relativa alla mente umana o altra mente finita (1). Indi nella mente divina la verità è conosciuta per sua essenza, onde l' essere oggetto e l' essere conosciuto nella mente divina è il medesimo. Di che la mente divina non solo conosce, ma ha sempre conosciuto l' ente pienamente in tutto l' ordine suo, e niuna cosa che non sia ente è da lei conosciuta come ente, nel qual caso ci avrebbe deficienza di verità ontologica in quella mente, il che è impossibile. La mente umana all' opposto non fa che partecipare di questa verità ontologica con certa misura e contingenza. Diciamo che la mente umana partecipa di questa verità ontologica che risiede nella mente divina come in sua propria naturale sede. Perocché ella intuisce l' ente come oggetto, e questo oggetto lo riceve, non procede da lei, è anteriore a lei. E` ben da riflettersi che l' oggetto veduto dalla mente umana è oggetto per sé, e non in virtú della mente umana che è posteriore a lui, e che dicesi mente soltanto perché intuisce l' oggetto. Diciamo ancora, che la mente umana partecipa della verità ontologica con misura e contingenza. E in quanto alla contingenza, ella è manifesta, poiché la stessa mente umana è contingente. In quanto poi alla misura, ella si scorge in tutte quelle limitazioni del pensare umano che abbiamo a lungo e in varŒ luoghi descritte, le quali si possono ridurre a due, che per la loro generalità abbracciano tutte l' altre sotto di sé, e queste sono: 1) Il non estendersi l' intuito dell' umana mente se non all' essere iniziale, e il resto dell' ente contenersi soltanto virtualmente in quell' ente virtuale, che le è dato a vedere attualmente. 2) Il dover ella percepire o pensare come ente quelle cose che non sono enti, ma sono appartenenze dell' ente; ond' è che tali percezioni e pensieri hanno qualche cosa di ontologicamente falso, il che però non pregiudica alla logica verità de' giudizŒ e delle proposizioni. Dalle quali cose tutte possiamo conchiudere che si può ragionare della verità ontologica in due maniere: o considerandola in se stessa qual' è nella mente divina, o considerandola qual' è partecipata dalla mente umana. Gioverà altresí a chiarire il concetto di verità ontologica definirla in altre parole, dicendo ch' ella è l' identità dell' ente reale coll' ideale. Poco innanzi noi dicevamo che la verità ontologica è l' ente per essenza. Ora l' essenza dell' ente si manifesta nell' essere ideale. L' ente reale adunque quanto piú prende di quell' essenza che nell' ideale si mostra, tanto ha piú di verità ontologica. E quanto egli partecipa del concetto, della ragione, ossia dell' idea dell' ente, tanto egli s' identifica con essa. Quindi quanto è maggiore l' identificazione del reale coll' ideale dell' ente, tanto maggiore è la verità ontologica di cui parliamo. Se questo discorso si fa dell' essere puro, allora parlasi di una verità ontologica assoluta. Ma se si parla di enti limitati, l' identificazione del reale col loro concetto determinato e specifico dà luogo ad una verità ontologica relativa. Ogni maniera di verità suppone sempre una relazione fra due termini, l' uno dei quali può dirsi tipo , e l' altro ectipo . Il concetto di tipo e di ectipo non rappresenta già forme secondarie; perocché il tipo e l' ectipo appartengono allo stesso essere per essenza, sono forme primitive le quali costituiscono una parte di quell' ordine pel quale egli è organato. L' essere come tipo è l' essere nella sua forma ideale, l' essere poi come ectipo è l' essere nella sua forma reale; è sempre una sola essenza, un solo e medesimo essere sotto due forme per le quali è in sé ordinato. Ora qui si può domandare « se i vocaboli di verità e di vero debbano applicarsi al tipo, o all' ectipo, o alla relazione fra loro ». Noi abbiamo detto piú sopra, che una relazione si scioglie in due abitudini . E veramente anche i due termini nominati, il tipo e l' ectipo, hanno un' abitudine l' uno rispetto all' altro; il tipo ha un' abitudine in verso all' ectipo, e l' ectipo ha un' abitudine in verso al tipo, nelle quali due abitudini si scioglie la loro relazione , non rimanendo altro, che sia quasi nel mezzo, fuori di quelle rispettive abitudini. Ciò posto, diciamo che la parola verità esprime l' abitudine del tipo in verso all' ectipo; e che all' incontro la parola vero esprime l' abitudine che ha l' ectipo in verso al suo tipo. Se noi applichiamo questa proposizione al primo tipo e al primo ectipo, a quello che è per essenza tipo, e a quello che è per essenza ectipo, cioè all' ideale e al reale , noi ne avremo che l' idea dell' essere è la verità, e che i reali sono veri in quanto adempiono in sé ciò che quell' idea manifesta, e cosí in quanto sono ectipi di lei. Ora è da avvertire che una cosa qualsiasi dicesi vera in quanto partecipa, adempie, esprime la sua verità ; e però acconciamente di ogni cosa vera si dice che ha la sua verità; il che non toglie che il vocabolo verità non significhi il tipo. Illustriamo tutto ciò percorrendo le principali maniere di veri e di verità rispettive, seguendo l' uso del parlar comune, e in ciascuna distinguiamo il tipo e l' ectipo. 1) Verità ontologica assoluta . - In questa il tipo è l' idea (Verità), e l' ectipo è il reale in quanto adempie in sé l' essere che s' intuisce nell' idea (Vero). 2) Verità ontologica relativa . - Il tipo è il concetto (Verità), e l' ectipo è il reale finito in quanto adempie in sé quell' essere limitato che s' intuisce nel concetto (vero). 3) Verità logica . - Il tipo è la convenienza del predicato col subietto (verità), e l' ectipo è l' assenso dato a quella convenienza, sia soltanto internamente coll' animo (vero logico), sia anche espresso colle parole (vero dialettico). 4) Verità morale . - Il tipo è la legge (verità), l' ectipo è l' azione che adempie la legge (vero). 5) Verità artistica . - Il tipo è la natura, o l' archetipo ideale della natura, o un capolavoro che si piglia a ricopiare (verità), ectipo è l' opera dell' artista, che ritrae tali esemplari (vero). A questa maniera di verità si può ridurre altresí la verità di traduzione d' una in altra favella, dove lo scritto originale è il tipo (verità), la traduzione è l' ectipo (vero). 6) Verità significativa . - Il tipo è la cosa segnata (verità), l' ectipo è il segno (vero). Ma se la verità ontologica è la forma ideale dell' ente, che cosa sarà il vero primitivo ed originale? Egli sarà l' ente stesso considerato nella sua relazione di ectipo all' ideale. Ora l' ectipo primitivo e originale dell' ente si porge essenzialmente in due forme diverse, e sono le altre due forme categoriche dell' ente medesimo, il reale e il morale: quindi egli è essenziale all' ente di esser vero in quanto è realità, e di esser vero in quanto è moralità, come gli è essenziale di essere verità in quanto è idea ossia manifesto. L' essere è conosciuto per sé ed amato per sé: queste sono due condizioni essenziali all' essere, le quali si trovano racchiuse nel suo stesso concetto, quand' egli si arricchisca dalla mente colla realità, e di lui cosí arricchito si mediti l' ordine intrinseco. Quindi è che l' essere è ontologicamente vero, e vero sotto due forme; vero in quanto è conosciuto; vero in quanto è amato. Questa doppia identificazione dell' essere come ectipo coll' essere come tipo è l' intrinseco ordine dell' essere assoluto o assolutamente considerato. L' essere assolutamente considerato è l' essere considerato come puro essere, non aggiungendovi altro. Questa maniera di considerare l' essere può aver luogo in un modo limitato o illimitato. Si considera l' essere assolutamente, ma in modo limitato quando si esclude qualche cosa. Ma si può considerar l' ente assolutamente senza esclusione alcuna, ed è allora che nello stesso concetto dell' ente si trova essere lui per sé inteso e per sé amato. Il che se ci vien dato dal concetto dell' ente, necessariamente si deve trovar ciò nell' ente assoluto, come quello che compie e adegua tutto quel concetto. Veniamo all' ente relativo. L' ente relativo è quello che non è ente per sé: non è ente per sé quello che non si può pensare in sé e per sé e senza ricorrere ad altra cosa che non è lui. Ora niun ente finito non può essere pensato in sé e per sé, cioè assolutamente, senza ricorrere all' essere ideale che è un diverso da lui (1). Dunque egli per se stesso non è ente, e quindi per se stesso non è ontologicamente vero. Questa è una limitazione ontologica degli enti finiti: che non siano veri enti per sé, non avendo per sé e in sé la verità che li renda per sé manifesti. Sí fatta limitazione si riduce a questo, che non hanno per sé la forma ideale, sicché l' essere di questa è diverso dall' esser loro. Ma l' ente è anche nella forma reale: anche sotto questa forma vi è tutto l' ente: quell' ente dunque che non è per sé vero, mancandogli la forma ideale, non potrebbe essere ente tuttavia compiuto nella sola forma reale? No, poiché quantunque sotto la forma reale possa essere e sia tutto l' ente, tuttavia questo non ha luogo se non a condizione che l' ente reale inesista nell' ideale, o per dir meglio, che l' ente reale sia per sé manifesto perocché il reale non è tutto l' ente se non è per sé manifesto e quindi vero, mancandogli in tal caso l' atto del conoscere che è reale, e quello dell' amare che è pur reale, i quali atti reali non potrebbe avere per sé, se egli non fosse per sé inteso e per sé amato. Onde l' ente non può esser tutto sotto la forma reale, se ad un tempo non sia anche tutto e identico sotto la forma ideale e morale. L' ente reale adunque che non è vero per sé conviene necessariamente che sia un reale finito, e per dir meglio, non ente: egli adunque non è ontologicamente vero, ma diviene vero soltanto per partecipazione, quando lo si unisce a quell' ente che è vero per sé. Dopo ciò che fu detto, non è piú difficile intendere la sentenza de' Padri della Chiesa, i quali asseriscono, che le cose finite a Dio paragonate non sono, sono nulla (1): non sono, perché non sono per sé enti. Nello stesso tempo però sono, se si considera che partecipano dell' ente che in sé e per sé non hanno. Onde S. Agostino acutamente scrisse, le cose inferiori a Dio « nec omnino esse, nec omnino non esse ». E prosegue: [...OMISSIS...] . Cioè tu sei per te stesso, e le creature non sono per se stesse. Ora allo stesso modo che le cose finite non sono e sono, cosí pure non hanno verità ontologica per sé, ma ne partecipano. Il gran vescovo d' Ippona pone questa sentenza: « Id vere est, quod incommutabiliter manet (3) ». Qui egli parla della verità ontologica, e non l' attribuisce che a Dio, perché egli solo è ente reale per sé, il che vuol dire, come abbiamo spiegato, è per sé reale nell' ideale, perocché solamente essendo per sé nell' ideale è per sé ente, vero ente, e però non ente per accidente, sempre ente « incommutabiliter manet ». Dice ancora quell' altissimo ingegno, che le cose sono per altro quando inesistono in un altro, cioè in quello che è in sé e per sé ente, e cosí noi abbiam veduto che i reali finiti allora acquistano il concetto dell' essere, quando si contemplano inesistenti nell' essere ideale, quindi nell' essere per sé manifesto, che si riduce a Dio (4), a cui il santo Dottore cosí sublimemente favella: [...OMISSIS...] . Dove vien espressa quella inesistenza di cui parlammo, per la quale egualmente, ma sotto un diverso rispetto, si può dire, che i reali sono nell' essere e che l' essere è ne' reali. In che dunque sta la falsità delle cose? Perocché altro è non essere vere, altro è essere false. La verità ontologica non ha falsità in contrario, perocché consistendo ella nell' ente, questo è o non è, ma non è mai falso. Convien dunque osservare che non si può parlare d' una falsità ontologica, la quale non esiste; ma soltanto d' una falsità logica, o se si vuole, psicologica, cioè relativa alla percezione e alla concezione dell' uomo, non di una falsità delle cose in sé. La falsità adunque non cade nelle cose, ma nell' uomo quando le piglia per enti in se stessi, laddove non sono tali, il che pure insegna S. Agostino con questa sentenza: [...OMISSIS...] . Noi abbiamo già altrove descritti gli errori che prende il pensare imperfetto e comune degli uomini: questi costituiscono la falsità psicologica , che noi cosí chiamiamo per indicare che la è data dalla limitazione della natura conoscitiva dell' uomo, a cui non reca danno piú che non glielo rechi la sua propria limitazione, sia perché non lo impedisce dal conoscere la verità, di cui egli abbisogna, sia perché egli può purgarsi di quella maniera di falsità che si mescola nelle prime sue operazioni, coll' uso di quella verità pura ed assoluta di cui egli partecipa. Questa maniera di falsità psicologica è piuttosto una persuasione istintiva, che un ragionamento, e però non è un giudizio analizzato; non si può dire una falsità logica, perché la logica sta propriamente nel ragionamento, ossia nel sillogismo al quale si appoggiano le proposizioni. Si dà dunque verità, e non già falsità ontologica: ciò che non è vero ontologicamente, non è per questo ontologicamente falso; ma il non vero ontologicamente occasiona nell' intelligenza finita il falso psicologico. Cosí i reali finiti non sono veri per se stessi, perché non sono enti per se stessi: or l' intelligenza finita li percepisce come enti senza piú; onde facilmente la riflessione attribuisce poi loro l' essenza di ente in proprio, e cosí cade nel falso. Ma qui nasce una difficoltà. - Noi abbiamo detto che tutto l' essere è manifesto per sé; che nell' essere ideale si contiene tutto virtualmente; e che questa virtualità non può essere che relativa a noi intelligenze finite, ma suppone che nell' essere ideale, il quale è diverso da noi, tutto sia conosciuto attualmente, il che trae la necessità d' un essere assoluto, nel quale tutto sia conosciuto per se stesso, perciò anch' esse le cose finite e contingenti. Ma se le cose finite e contingenti sono conosciute per se stesse, in tal caso non sono piú finite e contingenti. Questa gravissima difficoltà rimane sciolta nella mente di colui che abbia chiaro il concetto dell' esistenza relativa di cui abbiam favellato. Questa relatività, è inchiusa nella limitazione ontologica. Una tale relatività di esistenza non cade nell' essere assoluto, benché l' essere assoluto ne abbia la cognizione, e cosí l' esistenza relativa, costituente le cose finite, sia tale anche rispetto alla mente divina. Ma appunto perché nell' essere assoluto non cade la stessa relatività e limitazione ontologica, perciò si dice giustamente che la relatività e la limitazione ontologica costituente le cose finite è fuori di Dio, fuori dell' essere assoluto; e in questo senso le cose costituite sono fuori di Dio, da lui essenzialmente diverse, il qual vero annienta il panteismo. Si dirà: se l' essenza ideale delle cose finite è in Dio ed è diversa dall' esistenza reale delle cose, in tal caso ben si vede come le cose finite non sieno conosciute per se stesse, quindi non sieno per sé enti, e ancora si vede come Iddio conosca per sé l' essenza ideale delle cose: ma l' essenza ideale delle cose non fa conoscere che la loro possibilità, e non la loro sussistenza. Come adunque in Dio ossia nell' essere assoluto è ella cognita la sussistenza delle cose finite? Convien qui ricorrere all' azione ontologica anteriore, di cui abbiamo parlato innanzi. Le cose finite incominciano ad esistere per un' azione ontologica che precede la loro esistenza, e che non costituisce la loro esistenza relativa: cotest' azione è l' atto di Dio creante, e quest' atto è in Dio, ed è Dio, e però è noto per se stesso come tutto ciò che è essere assoluto. Tra quest' atto, e i reali finiti non v' ha nulla di mezzo; ma posto quest' atto, i reali finiti sono in quel modo, tempo e misura che determina quell' atto. Ora questo modo, tempo e misura è determinato dall' essenza ideale delle cose e dalla perfetta sapienza del creatore. Dunque l' essere assoluto essendo conscio del proprio atto creante, che è per sé noto perché è lui stesso, ed essendo conscio dell' atto della propria sapienza che lo determina, è conscio altresí della sussistenza relativa delle cose, la cui essenza ideale gli è pure nota per sé. Cosí egli conosce le cose finite aventi un' esistenza relativa in sé medesimo come in causa, dov' esse hanno la loro radice anteriore e la forza d' esistere relativamente, che è lo stesso atto creante. Quello che impedisce d' intendere che la cosa è cosí, è il non conoscersi abbastanza la dottrina della limitazione. Non si suol badare ad altra maniera di limitazione eccetto quella del piú e del meno: quella che determina i gradi accidentali che si osservano nella qualità delle cose. La limitazione qui è accidentale. Il soggetto rimane identico, rimane identico anche il suo termine essenziale, il termine non è che limitato negli accidenti. Ma la limitazione ontologica è totalmente d' altra natura. Perocché ella limita ciò che costituisce l' ente. Ma la costituzione dell' ente risulta da due parti, perocché l' ente è costituito come ente , e l' ente è costituito come ente specifico : la mente distingue ciò per cui un ente è costituito come ente, da ciò per cui un ente è costituito come ente specifico. L' ente specifico è costituito da un principio e da un termine, il qual termine è la sua forma sostanziale. Se si cangia questa forma sostanziale, è cangiato l' ente specifico. La forma sostanziale non è ente, ma soltanto una parte costitutiva dell' ente; ella perciò si concepisce dalla mente come un subietto dialettico. Quando si considerano i suoi cangiamenti e le sue limitazioni, allora questo subietto dialettico non è altro che un concetto generico, cioè il concetto del termine in genere, il concetto della forma sostanziale in genere. Certe limitazioni adunque cangiano l' ente specifico, perché limitano la sua forma sostanziale, e quindi cangiano il principio dell' ente che è il subietto reale, il quale è individuato dal suo termine sostanziale. Questa è la prima maniera di limitazione ontologica, la quale determina la specie degli enti. Veniamo ora a considerare ciò per cui un ente è costituito come ente, il che ci fa conoscere la seconda maniera di limitazione ontologica. Questa non cangia soltanto la specie, ma cangia a dirittura l' essere. L' essere è uno e semplicissimo. Quindi accade che se si concepisce l' essere in qualunque modo limitato in se stesso, non gli può piú convenire la parola essere nel significato puro e semplice, nel quale prima gli si attribuiva. Quando si parla in questo modo dell' essere, allora si parla assolutamente di lui, anzi si parla di lui come assoluto essere. Quindi l' assoluto essere non può ricevere alcuna limitazione. Tuttavia non ripugna la limitazione che non è assoluta, ma soltanto relativa; perocché questa non affetta né limita l' essere nel senso assoluto. Ma se si dà il caso di una limitazione relativa, in tal caso questa limitazione relativa, totalmente straniera all' essere assoluto, non potrà appartenere che ad un essere relativo, il quale non è essere nel senso puro e semplice della parola. Quindi una tale limitazione non solo cangia la specie dell' essere, ma cangia l' essere stesso. Laonde l' essere relativo è lo stesso essere che l' essere limitato, ma questo essere limitato appunto perché è limitato non è piú l' assoluto; né vi ha nulla di comune fra l' uno e l' altro, perocché nell' essere limitato l' essere assoluto, che è il suo contrario, è semplicemente tolto via per l' opposizione delle nozioni, giacché l' assoluto come assoluto non piú s' intende, tosto che vi si apponga una limitazione. Il supporre dunque che fra l' essere assoluto e il relativo vi abbia qualche cosa di comune è intrinsecamente assurdo. Dunque molto meno vi può avere un subietto reale comune. Questo subietto è puramente immaginato dalla mente, è l' essere ideale e iniziale, il quale dalla mente si considera per ugual modo, sia qual subietto sia qual predicato, onde accade che egli si predichi di Dio e delle creature. Ma ciò non toglie che quando si predica delle creature si attribuisca loro un' esistenza soltanto relativa. Perocché questo essere ideale non appartiene in proprio alla creatura, che soltanto lo riceve ad imprestito dalla mente; ma sí appartiene all' assoluto, è un' appartenenza di questo, è una forma primitiva in cui l' essere è. Tolto via adunque dalle creature questo subietto ideale che loro non appartiene, esse non sono piú enti: tolto via da esse per astrazione , esse non presentano altro concetto che di non enti, in via ad essere, rudimenti di enti, entità e non enti, ed entità relative; tolto poi via da esse assolutamente, non per mera astrazione, ma per vera negazione , le creature non danno piú altro concetto che quello di meri assurdi. Le creature dunque non possono essere concepite come enti se non congiungendole colla loro essenza ideale ed eterna, il che fa la mente concependole, e per questo anco si dice che sono enti per partecipazione . Di che procede che i finiti sono veri enti per partecipazione del vero ente , e questa è quella verità ontologica, che loro solo conviene. Ma in quanto i finiti sono in Dio, non hanno essi alcun' altra verità ontologica? Noi abbiamo distinto un triplice modo del loro inesistere in Dio: il modo causale, il modo eminente, e il modo tipico. Iddio contiene i reali finiti in modo causale, come la causa efficiente contiene l' effetto, non come ogni causa efficiente, ma in quel modo proprio in cui li contiene la causa creante. Or questa causa non ha nulla affatto di comune coll' effetto che prima al tutto non esisteva. Quando adunque si dice: « i finiti reali inesistono nella causa creante »s' intende dire unicamente, che in quella causa esiste quella forza che non è dessi, ma che è il loro sostegno trascendente, ed ultra sostanziale. Qui dunque non ha luogo la questione della verità ontologica de' finiti reali in Dio; perché i finiti reali nella loro causa altro non sono che la loro causa, e la verità di questa non è la verità loro, ma la verità ontologica di Dio stesso. Si dice poi che i finiti sono in Dio in un modo eminente, per significare che tutti i pregi delle creature sono in Dio come il meno è nel piú, senza divisione, senza limitazione di sorte alcuna, ben anco senza distinzione, perciò fusi quasi direbbesi nell' infinito. Ma se i pregi che sono nelle creature non hanno piú divisione, sono forse ancora quei dessi di prima? No certamente. Ora quando si dice che i pregi delle creature, e tutto ciò che hanno di positivo, esiste in Dio in un modo eminente, s' intende che que' pregi positivi esistono in Dio senza separazione, senza limitazione e senza distinzione. Ora in questo stato que' pregi non sono piú que' pregi, non è piú nulla di ciò che trovasi nelle creature, ma è tutt' altra cosa, piú eccellente certamente, piú grande, anzi cosa infinita; ma finalmente non sappiamo che cosa sia, sappiamo solo che è Dio stesso. Chi dicesse diversamente, chi dicesse per esempio, che esistono in Dio propriamente i pregi delle creature con qualche giunta, questi professerebbe il panteismo, quella specie di esso che si potrebbe denominare teosincretismo. Finalmente le cose finite inesistono in Dio come nel loro esemplare; o, in altro modo, in Dio esistono le essenze eterne delle cose, non le cose stesse reali, il cui essere è relativo. Ora gli esemplari che stanno nella mente divina determinati dall' atto della creazione sono la stessa verità ontologica delle cose finite. Queste adunque hanno in Dio e non in se stesse la loro verità ontologica. Non si può dunque dire che i reali finiti sieno in Dio ontologicamente veri, ossia veri enti; ma si dee dire che in Dio hanno la loro verità ontologica, e che sono veri in se stessi in quanto partecipano della loro verità che è in Dio: la quale partecipazione nasce per opera della mente che li concepisce, cioè unisce i reali relativi ai loro esemplari, alle loro eterne essenze o ragioni, in una parola vede congiunto il reale finito coll' infinito ideale. Uno dei piú importanti, e nello stesso tempo dei piú difficili concetti della scienza ontologica, si è quello della relatività degli enti finiti. Ove lo studio di tale scienza sia pervenuto ad intenderlo con tutta chiarezza e pienezza, egli ha già nelle sue mani la chiave dell' ontologia intiera. Laonde noi crediamo necessario rifarci sopra questo concetto e perscrutarlo a parte a parte. Il nostro discorso deve riguardare l' ente relativo compiuto, perocché gli enti relativi incompiuti si riducono sempre a quello come parti al tutto: ciò adunque che si può dire della relatività di questi è un' appartenenza, un corollario della relatività di quello. Ora, prima di tutto qui è uopo rammentare che noi già dimostrammo due essere le condizioni dell' ente relativo compiuto: 1) che egli sia un soggetto; 2) ch' egli sia un soggetto intelligente. Dobbiamo dunque chiarire come sia vera questa tesi: il soggetto finito intelligente è un ente relativo. Piú sopra abbiamo supposto la possibilità di un' intelligenza che altro non sia che un' intuizione dell' essere ideale. Convien dunque dimandare se ciò che abbiam supposto per ragion di metodo possa essere veramente. Se possa darsi un ente relativo, che altro non sia che una pura intuizione dell' ideale, di maniera che la stessa intuizione sia anche il principio, il soggetto, l' atto primo dell' ente. Se quest' ente è possibile, non potrebbe avere atti secondi senza cangiarsi in un altro, né potrebbe avere altro sentimento che quello dell' intuizione stessa che sarebbe il suo unico atto. Ma qual è il sentimento della intuizione? A me non vien dato di concepirlo: perocché l' intuizione altro non sente, per quanto mi pare, che l' essere ideale suo termine, e questo essere ideale sentito non è altro che la luce dell' essere ideale posto in atto, perocché l' essere ideale non sarebbe ideale, non sarebbe luce se attualmente non lucesse, se non fosse per sé sentita ossia manifesta. Ora la pura luce dell' essere ideale sentita manifesta non si può distinguere dallo stesso essere ideale qualora non vi sia un altro principio da lei diverso che la sente. Ma questo principio non esiste se egli non ha alcun sentimento proprio distinto da quello che, come dicevamo, è essenziale allo stesso essere ideale. Dunque non può esistere un ente finito che non sia altro che intuizione pura dell' essere ideale, giacché un tal ente non avrebbe nulla che lo distinguesse dall' essere ideale medesimo. Acciocché dunque esista un soggetto finito intelligente, egli è uopo ch' egli si abbia oltre l' intuizione dell' essere ideale un sentimento proprio che lo distingua dall' essere ideale medesimo, e a lui lo contrapponga. Un tal essere sente adunque per necessità di sua natura due cose. Egli sente l' essere ideale termine della sua intuizione; e in quanto lo sente, l' essere ideale relativamente a lui è, è luce a lui: questo lui poi è l' altra cosa che egli sente: per dir meglio è il sentimento proprio. Or noi abbiam veduto, che dato un sentimento proprio il quale abbia l' intuizione dell' essere ideale, inesiste a se stesso nell' essere ideale, di modo che si sente oggettivamente e quindi si sente come ente. Questa è la ragione per la quale, fra gli enti relativi, quello che è intelligente si dice ente compiuto; perocché un tale finito reale ha dalla sua propria natura l' inesistere nell' ente e sentire questa sua inesistenza. Egli non è l' ente, ma si sente nell' ente per la sua propria natura; è il sentimento della sua propria esistenza oggettiva , senza la quale non si dà ente, perocché l' ente è per sé oggetto. Ma l' oggetto in cui si sente, l' essere ideale, non è lui stesso; dunque la sua esistenza oggettiva è partecipata: egli è ente per partecipazione . Ora, se il soggetto finito intelligente è ente per partecipazione, conseguentemente non è ente assoluto, ma relativo . Perocché egli è ente per la relazione che ha coll' ente, o viceversa per la relazione che l' ente ha con esso lui. Alla dottrina esposta circa la relatività degli enti finiti taluno trarrà un' obbiezione, da quelle sacre parole: « facciamo l' uomo a nostra imagine e somiglianza ». Come dunque sta scritto che l' uomo, ente relativo com' è, sia fatto ad imagine e somiglianza di Dio? E` da rammentarsi quello che hanno osservato i Padri della Chiesa, che la sacra lettera vigilantemente dice, che l' uomo fu fatto ad imagine e similitudine di Dio, e non dice che l' uomo sia l' imagine o la similitudine di Dio, e né tampoco che sia simile a Dio. Perocché, che cosa è la similitudine? La similitudine, altro non è che l' idea tipo delle cose: le cose sono simili fra loro quando si conoscono con un' idea comune: quest' idea dunque è quella che forma la loro similitudine (1). La similitudine dunque di tutte le cose, quella che rende simili fra loro tutte le cose in quanto sono enti, è l' essere ideale, il quale si riduce a Dio come una sua appartenenza. L' essere ideale e l' essere oggetto è per sé. Ora la mente inesistendo in lui partecipa dell' esistenza oggettiva. Dunque la mente è fatta alla similitudine di Dio, cioè a quella similitudine, a quell' ideale che è in Dio e che essendo in Dio è Dio. All' incontro la mente non è già questa similitudine, perché, come vedemmo, questa similitudine che è l' essere ideale è oggetto, e come tale, non soggetto, ed è eterno ed infinito; e la mente creata è un soggetto contingente e finito (2). Vi hanno adunque due proposizioni che sembrano contraddittorie e non sono: L' intelligente creato è a similitudine di Dio. Niuna cosa creata ha con Dio similitudine di sorta alcuna. La prima è vera perché l' intelligente creato partecipa dell' esistenza oggettiva dell' idea, che è per sé esemplare, o similitudine, e non si può staccare da quest' idea senza che ne perisca il concetto. La seconda è vera quando si considera l' ente creato solamente per quello che ha di suo proprio, che altro non è se non la relatività, di maniera che non ha di suo proprio nemmeno l' esser ente, dicendosi ente soltanto per la relazione che ha coll' ente, per la quale relazione l' ente s' unisce con lui. Cosí considerato il reale finito ha quella relazione con Dio, che ha il non ente coll' ente, nella quale di questo secondo si nega tutto ciò che si afferma del primo e viceversa, di maniera che neppur resta l' analogia. Ma quando lo si fa partecipare all' ente, o per l' ordine stabilito dalla creazione come accade nei reali intelligenti, ovvero per la concezione della mente, allora il creato partecipante l' ente acquista un' analogia con questo, lo imita in qualche modo, e il reale completo, ossia intelligente, con tutta proprietà si dice fatto alla similitudine dell' ente. Abbiamo detto che i reali relativi sono, come tale, termini esterni della creazione. E veramente il relativo non è fuori del relativo, e però non è nell' assoluto, il che sarebbe contraddizione: dunque il relativo non può essere un termine interno dell' atto creativo, perché se fosse tale sarebbe Dio, giacché l' atto creativo è Dio, e Dio è l' essere assoluto che esclude da sé il relativo. Ciò posto, il concetto di un tal ente è bensí eterno e però deve essere in Dio, ma la realizzazione di questo concetto dell' ente relativo non è altramente in Dio. Vi hanno dunque in Dio dei concetti senza che vi abbia la corrispondente realizzazione de' concetti puri, e questa è la ragione per la quale l' ideale apparisce separato dal reale: egli è separato in quanto rappresenta il reale finito, in quanto è l' esemplare del mondo, e come tale è separato anche in Dio dal reale che è fuori di Dio. Ora questo esemplare del mondo è l' oggetto della sapienza umana, come diremo in appresso, e però l' idea di cui l' uomo per natura è fornito è pura idea separata dalla realità. Or dunque il complesso di questi concetti si può chiamare e fu chiamata prima d' ora la sapienza creatrice (1). Non si deve già credere che questi concetti in Dio sieno realmente distinti l' uno dall' altro; ma tutti insieme costituiscono una sola sapienza creatrice e, come dicevamo, l' esemplare del mondo. E come in Dio debba essere l' esemplare sostantifico del mondo vedesi anche da questo, che l' essere è per la sua essenza manifesto, giacché l' esser manifesto è una delle tre forme primitive in cui l' essere è. Ora, se è manifesto, è manifesto tutto e non una parte. Avendosi dunque mostrato che il mondo esiste per via di creazione, cioè per una azione ontologica anteriore a lui, e però eterna, che s' identifica coll' essere stesso, forz' è che anche quest' azione sia per se stessa, per l' essenza sua, manifesta. Ma quest' azione è quella che pone gli enti relativi componenti il mondo. Or ella non sarebbe manifesta se non fosse manifesto il suo termine, il suo prodotto; dunque anche questo, cioè il mondo, è in Dio manifesto, e questo mondo manifesto è l' essenza ideale del mondo, l' esemplare sostantifico del mondo. Il quale esemplare manifesto per se stesso non può distinguersi realmente dal Verbo, se pel Verbo intendiamo l' essere, tutto l' essere per sé manifesto, appunto perché anche l' esemplare del mondo è per sé manifesto. Ma il mondo reale, l' ectipo di tale esemplare è realmente distinto e separato da Dio. Ora il mondo si riduce a un complesso di reali intelligenti, che sono gli enti finiti completi, e di altri incompleti, relativi a quei primi. Qual' è dunque la sapienza che convenga al mondo acciocché sia ente completo, cioè intellettivo? L' ente finito completo, noi abbiamo detto, si compone di due elementi, del suo elemento ideale e del reale, del tipo e dell' ectipo, dell' essenza e della realizzazione, della verità e del vero. Infatti, se vi ha il solo reale non è ancora ente completo, mancando l' essenza dell' ente; la sintesi di queste due cose, del reale colla sua essenza, completa l' ente. Dunque la sintesi del mondo e dell' esemplare del mondo fa sí che il mondo sia un ente finito completo. Ma questa sintesi si fa nella mente ed è la mente. Convien adunque che nel mondo vi sia una mente o piú menti, dove si scorga fatta o si faccia questa sintesi. Dunque era necessario che nel mondo vi avessero delle menti acciocché egli fosse completo, e la sapienza propria di queste menti doveva avere per oggetto l' esemplare del mondo. Nulla di piú si richiedeva acciocché il creato ottenesse la sua naturale perfezione di ente. Ma l' esemplare del mondo in Dio è ancor piú che esemplare del mondo, perché è ad un tempo il Verbo divino, cioè non è il solo mondo manifesto, ma è tutto l' ente manifesto. L' ente manifesto eccede adunque quella sapienza che è consentanea alla natura delle menti finite componenti il mondo. Di qui si vede chiaramente la distinzione e la separazione fra l' ordine naturale e l' ordine soprannaturale delle intelligenze finite. La qual dottrina conviene da noi divisarsi con piú alte considerazioni. Noi abbiamo parlato del mondo in quanto è intellettivo in generale. Questo mondo intellettivo risulta da piú intelligenze. Restringendoci noi a considerare l' uomo, egli non ha tutta la sua perfezione attuale nel primo momento in cui esiste; ma piuttosto trovasi da principio costituito come una potenza che si sviluppa gradatamente, e che sviluppandosi convenevolmente attinge la sua perfezione attuale (1). Ma poiché egli da principio è una potenza reale, quindi come non ha la perfezione attuale, cosí neppure può attualmente conoscerla, ma solo potenzialmente. Di che avviene che nel primo momento della sua esistenza non gli sia dato ad intuire l' esemplare del mondo, ma gli sia dato l' esemplare del mondo in potenza. Or questo esemplare del mondo in potenza è l' idea dell' essere indeterminato costituente, come abbiam veduto, la forma oggettiva della ragione umana. Ma l' idea dell' essere indeterminato ammette due sviluppi, l' uno naturale e l' altro soprannaturale. Il naturale è quello che abbiam detto procedere a mano a mano collo stesso sviluppo naturale dell' uomo, dimodoché in lui si va ognor piú disegnando e manifestando all' uomo il mondo. Il soprannaturale è l' opera di Dio solo, il quale fa sentire all' uomo come l' essere ideale si attui in modo da rendere Dio manifesto, manifestandosi cosí l' identificazione dell' esemplare del mondo col Verbo divino. Se dunque noi pigliamo tutti i concetti, i concetti dico immediati, cavati dalla percezione intellettiva di ogni sentimento proprio; se prendiamo dico tali concetti di tutti gli enti finiti intelligenti, che furono, sono e saranno, e tutti insieme li componiamo e ordiniamo nell' ordine, di cui il loro complesso è suscettibile; noi ci avremo in tal modo composto l' eterno disegno di Dio, l' eterno esemplare del mondo. Di che si scorge che l' eterno esemplare di Dio esprime il mondo nella sua relatività, nella quale solo esiste, e però non fa già conoscere qualche cosa di assoluto, ma di relativo, quale è unicamente l' esistenza, o l' entità degli enti creati. Di che si può e si dee dire, che la verità ontologica degli enti finiti è anch' essa una verità relativa a questi, e non assoluta, altro con ciò non significandosi se non che quell' esemplare non fa conoscere già come è l' ente assoluto, ma come l' ente apparisce relativamente agli stessi reali finiti, e aventi una relativa esistenza. Né da questo si può già dedurre, che dunque quella verità ontologica per essere relativa abbia qualche cosa di falso in se stessa. Abbiamo già veduto, che la verità ontologica, non ammette falsità ontologica a lei opposta. Oltracciò abbiamo distinta la verità ontologica dalla verità logica . Questa seconda, che procede dall' essere ideale, e consiste nell' assenso dell' animo ad una proposizione, è sempre assoluta ed incondizionata, e se non è tale non è verità, ma falsità logica. Ora la verità ontologica relativa non induce necessariamente alcuna logica falsità. Falsità logica sarebbe se noi pigliassimo la verità ontologica relativa per verità ontologica assoluta, cioè se noi asserissimo, che l' esemplare del mondo fa conoscere l' essere assoluto, siccome i panteisti fanno; ma fin a tanto che il nostro sentire si risolve nella proposizione, che « il detto esemplare del mondo fa conoscere l' ente relativo », noi sentiamo il vero, e la proposizione è di una verità logica assoluta. Ora questo appunto è quello che si avvera in Dio, il quale sa che l' esemplare del mondo esprime l' ente relativo ch' egli crea con quell' esemplare. Vero assoluto non è che l' ente assoluto, perché risponde alla verità dell' ente, è l' identità del reale coll' ideale. All' incontro oggettivo è ogni vero, anche il relativo, benché il vero ossia l' ente relativo non sia vero ente per se stesso, ma perché nella mente sintesizza col vero ente, cioè coll' ideale. In questa maniera i reali finiti, divenuti oggetti, si posson dire veri oggettivi, ma ad un tempo relativi, veri oggettivi per partecipazione della verità. Riassumiamo ora le diverse maniere di verità ontologica, di cui abbiamo qua e colà fatto menzione. I primi due generi adunque di verità ontologica sono quelli dell' assoluta e della relativa . Ma la verità ontologica relativa, di cui l' uomo va partecipe, ammette poi varie specie. E le due prime sono quella degli esseri reali, e quella degli esseri mentali. Gli esseri reali si suddividono ancora in due classi, gli uni hanno un solo grado di relatività, gli altri ne hanno due, cioè sono relativi de' relativi. I primi hanno un' esistenza soggettiva, sono soggetti, sono i principŒ senzienti7intellettivi individuati; i secondi hanno un' esistenza soltanto oggettiva, sono i termini de' primi; tali sono quelli, a ragion d' esempio, che si percepiscono come esseri bruti, i corpi, e la materia. Atteso dunque questi due gradi di relatività che hanno gli esseri finiti, si dee dire che il pensar nostro, la nostra immaginazione intellettiva ha piú di verità ontologica quando pensa come ente un soggetto, un principio individuato, che quando pensa come ente un corpo bruto, a cui non si può attribuire alcuna vera e sua propria soggettività, ed ancor meno poi quando pensa come ente un astratto, di che parleremo in appresso. E qui giova distinguere un' astrazione naturale , diversa da quella che l' uomo suol fare ad arbitrio, e alla qual sola si è riserbato sin qui il nome di astrazione, benché le due operazioni non differiscano sostanzialmente, almeno in quanto al risultato. La differenza fra questa specie d' astrazione naturale che fa la mente, e quell' astrazione che chiamammo arbitraria, e che la mente s' accorge piú facilmente di fare appunto perché suol farla scientemente, si è questa. Ogni astrazione si fa sopra un pensiero complesso che precede «( Psicologia , vol. II, n. 1313 sgg.) ». Ma nell' astrazione comune e arbitraria il pensare complesso suol essere quello di un ente attualmente concepito, o almeno per addietro, dalla mente; laddove .asterisco . nell' .asterisco . astrazione naturale, che noi facciamo in percependo i sensibili esterni, il pensare complesso è soltanto quello dell' ente virtuale, perocché noi applichiamo quest' ente virtuale ai reali sensibili senza curarci punto di esaminare quale elemento manchi a tali reali sensibili acciocché sieno enti completi, bastandoci di aggiunger loro questo elemento virtualmente, cioè lasciando questo elemento immerso nella virtualità dell' ente ideale che loro aggiungiamo. E qui, temendo piú l' ambiguità del discorso, che non l' accusa, che ci possa esser data, di prolissità, stimiamo opportuno di chiamare l' attenzione del lettore a distinguere viemmeglio la limitazione ontologica dalla limitazione virtuale . La limitazione ontologica, come abbiamo detto tante volte, è quella a cui soggiace il reale, laddove la limitazione virtuale è quella a cui soggiace l' ideale. Il reale si riduce al sentimento. Quindi la limitazione ontologica non è che la limitazione del sentimento sostanziale. La limitazione virtuale all' incontro nasce dall' essere nella sua forma ideale. L' essere ideale abbraccia sempre ogni cosa, manifesta ogni cosa, ma egli non manifesta all' uomo ogni cosa attualmente , ma virtualmente . Quindi la limitazione virtuale dell' essere ideale non moltiplica lui stesso in piú enti, perocché egli rimane sempre il medesimo essere manifestante ogni cosa, benché non manifesti all' uomo ogni cosa nello stesso grado e modo: onde ella non si dice ontologica, perocché ella non moltiplica l' ente; laddove la limitazione del sentimento sostanziale si dice ontologica, perché moltiplica gli enti, giacché ogni sentimento limitato è un ente diverso ed esclusivo di un altro sentimento. E che il principio della moltiplicazione degli enti non affetti lo stesso essere ideale si vede da questo, che un tal principio è la realità sussistente . Ora questa non cade mai nel puro ideale ossia non diviene mai ideale, onde tutto ciò che è ideale è un comune, o certo una specie, l' ente relativo possibile, non la sua sussistenza. Che se non fosse cosí, si confonderebbero le due forme dell' essere, l' ideale, e la reale, le quali sono inconfusibili ed incomunicabili. Tuttavia si dirà, che quantunque l' ideale non si confonda mai col reale, pure i concetti pieni sono ideali e sono molti, e se non fossero distinti, il creatore non avrebbe potuto creare su di essi gli enti finiti. Della quale istanza la risposta può derivarsi dalla dottrina esposta poco innanzi circa l' astrazione. Non si potrebbe pensare un astratto, se virtualmente non si pensasse l' ente, di cui quell' astratto è, comecchessia, un elemento. Applicando questa dottrina a Dio, noi diciamo che tutti i reali finiti possibili si contengono virtualmente nell' essere assoluto in quanto è ideale, ossia manifesto. E il contenersi virtualmente non è imperfezione di lui, ma degli enti finiti che non hanno da se stessi alcuna realità. Ora tutti i finiti, fino a tanto che sono virtualmente contenuti nell' ideale, non formano che un ideale solo e semplicissimo, perché sono privi di tutte le loro distinzioni. Quando adunque Iddio ne trae alcuni dalla loro virtualità all' attuale esistenza per l' atto creativo, allora essi escono distinti mediante la loro realizzazione. Questo trarli dalla virtualità all' attuale esistenza, secondo la frase di San Paolo, è un « ex invisibilibus visibilia fieri (1) ». Quest' attualità de' reali contingenti e relativi è fuori di Dio, ma essi all' ideale divino in quanto è loro esemplare sostantifico sono congiunti, per l' atto divino. Cosí i concetti sono distinti, distinti per una relazione estrinseca, la quale non moltiplica punto né l' atto del pensare divino, né l' ideale che acquista tali relazioni come subietto dialettico, quando il vero subietto di esse sono le intelligenze finite, che nell' ideale altro non possono conoscere che se stesse. Possiamo ora esaminare qual verità ontologica possieda la realità pura, e il principio puro, che è quello che ci rimane, astrazion fatta dalla sua individuazione. Che cosa è dunque la realità pura? Facilmente si risponde, che il concetto di realità altro non presenta se non una delle forme originarie dell' essere. Quindi questo concetto non ci presenta attualmente un ente, ma soltanto essa forma originaria dell' ente, e l' ente rimane nel pensiero virtuale. La realità pura adunque si pensa con un pensiero che astrae dall' ente. Ma qui si deve osservare, che l' astrazione porge al pensiero umano un doppio risultato; perocché ella o diminuisce o accresce l' oggetto del pensiero: sotto un aspetto lo diminuisce, e sotto un altro lo accresce ed arricchisce. Diminuisce l' oggetto del pensiero allorquando l' astrazione lascia da parte ossia sottrae all' attenzione attuale qualche cosa che è positivo nell' ente; lo accresce ed arricchisce, quando ella lascia da parte qualche cosa che è negativo nell' ente, come sarebbe la limitazione e la relatività. Il che spiega l' apparente contraddizione che occorre nelle dispute filosofiche, nelle quali talora si parla di un astratto come di cosa nobilissima, altissima, ricchissima; talora se ne parla come di cosa assai povera e gretta. A ragion d' esempio, si dice che l' essere è ciò che v' ha di piú nobile e di piú perfetto; ed altre volte si dice che l' essere è il minimo grado di perfezione che possano avere le cose. E` vero l' uno e l' altro. L' essere per la sua potenzialità infinita è il piú grande e nobile oggetto del pensiero. Ma se si considera la sua attualità, egli non ne ha altra che quella della realità (perché parliamo sempre dell' essere reale), e quindi egli fa conoscere una attualità poverissima, la piú povera di tutte, giacché alla realità che fa conoscere non si può aggiungere cosa alcuna, ché allora la si attuerebbe maggiormente, e quindi non si penserebbe piú l' essere reale puro, contro all' ipotesi. E` altresí da considerare, che quanto piú la mente fa rientrare l' essere nella sua potenzialità, togliendogli d' attorno coll' astrazione le attuazioni limitate; tanto piú egli rimane puro essere (1). Ora l' essere assoluto è puro essere, e quindi questo che è l' essere attualissimo , e quello che è l' essere potenzialissimo , convengono in ciò, che sono entrambi puro essere. Di qui è che l' essere si predica di Dio e delle creature in senso univoco. E` vero che Iddio è l' essere assoluto, e che i reali finiti sono puramente esseri relativi; ma il concetto puro dell' essere che chiamammo potenzialissimo prescinde dalla stessa relatività, e in somma prescinde da tutte le limitazioni, e quindi da tutte le qualità limitate degli enti finiti; poiché solo in questo modo rimane innanzi al pensiero il puro essere. Che se noi estendiamo questo discorso e procuriamo di determinare tutto ciò che può appartenere all' essere puro, e quindi tutto ciò che può predicarsi univocamente tanto di Dio quanto delle creature, noi rinverremo che i concetti astrattissimi dotati di questa prerogativa sono quattro né piú né meno, cioè il concetto dell' essere e i concetti delle sue tre forme, perocché in ciascuna delle tre forme vi ha l' essere puro e scevro di ogni altra differenza. Quindi anche la realità pura, cioè tale a cui la mente non aggiunge altro che realità, come altresí la idealità pura, e la moralità pura, sono astratti coi quali pensiamo tal cosa che conviene ugualmente a Dio e alle creature; perocché tali concetti non abbracciano punto il modo onde conviene a Dio ed alle creature, il quale è diverso, dacché questo diverso modo è messo da parte per opera dell' astrazione. E quindi noi siamo in istato di dichiarare che cosa si voglia dire quando si dice che al di là del sentito si riconosce dovervi avere una realità pura. Con questo non si decide se questa cosa al di là del sentito sia l' essere infinito o un essere finito, ma solo si dice che qualche cosa vi ha di reale, qualche cosa che a noi non è nota se non quanto all' elemento astrattissimo della realità. Siamo ancora in istato d' illustrare il concetto di principio puro. Noi abbiam distinto il concetto di principio puro dal concetto di principio individuato. Il principio individuato è l' ente attuale, sia egli finito o infinito; ma il principio puro è concetto astrattissimo, pel quale il pensiero si limita a considerare solamente un principio. Questo principio non è che l' essere reale potenzialissimo. Soltanto che egli esprime altresí la condizione di principio. Ma questa condizione è comune a tutti gli enti completi, che soli si possono dire semplicemente enti, perocché il concetto di principio racchiude le tre idee elementari dell' ente, quella di attività, di unità e di esser primo, giacché il principio è uno, primo, attivo. Quindi ciò che viene espresso colla parola principio appartiene all' essere reale, e non al fenomeno; e fino che si rimane cosí puro da ogni individuazione non rappresenta nessuna creatura, ma cosa anteriore alle creature, un elemento mentale dell' essere assoluto; al quale poi s' appoggia come a sua base la relatività delle creature. Fin qui abbiamo favellato della verità ontologica di cui partecipano gli enti reali finiti. Di poi abbiam cercato qual verità ontologica spetti a quelli ultimi astratti, coi quali non pensiamo attualmente se non un elemento proprio dell' ente per essenza, come sarebbe l' ente potenzialissimo, il principio puro, la realità, o la moralità pura ecc.. Ancora abbiam detto che l' ideale illimitato è la verità ontologica stessa. Abbiam detto del pari, che quando l' ente ideale viene limitato dalla sua relazione con un reale finito, con che egli prende natura di concetto specifico o generico, quest' ideale divenuto esemplare de' reali finiti è la verità ontologica relativa di questi. L' essere mentale fu da noi distinto dall' ideale. All' essere mentale appartiene l' assurdo, ed è di questo che vogliam qui domandare, s' egli abbia alcuna verità ontologica. Facile certamente è il rispondere di no, perocché egli non è ente. Ma nasce il dubbio: se non è ente, come dunque si concepisce? Perocché se egli non si concepisse in alcun modo, non si potrebbe dire tampoco ch' egli sia un assurdo: merita dunque la questione di essere accennata. A risolverla, noi neghiamo che veramente si concepisca l' assurdo, dimodoché sarebbe un' improprietà il dire che si concepisca. L' assurdo non è che un affermare e un negare lo stesso. Ora è impossibile all' uomo affermare e negare lo stesso contemporaneamente, perocché la negazione distruggendo l' affermazione, l' atto che unisce queste due cose sarebbe nullo, cioè farebbe un atto che si farebbe e non si farebbe nello stesso tempo, il che è impossibile. Dire che non si può fare quest' atto affermante negante è lo stesso che dichiarare l' assurdo una cosa inconcepibile, un non oggetto del pensiero, e però un non pensiero. Quando si dice che l' assurdo è inconcepibile allora egli sembra che già lo si concepisca, perocché sembra che non si possa negare ciò che non si concepisce. Ma questa è un' illusione come è un' illusione il credere che si concepisca il nulla, perché si dice che il nulla è il contrario dell' ente. La mente dà ad imprestito al nulla un' entità per potergliela poi ritorre e negare. Del pari la mente dà ad imprestito un' entità fittizia all' assurdo per poter dichiarare poi che egli non ha questa entità. Questa negazione che fa la mente è puramente una verità logica. All' opposto colui che affermasse concepibile l' assurdo pronuncierebbe una falsità logica. Ora l' uomo può certamente pronunziare una falsità logica, può dire quello che non è; ma non ne viene da questo, che perciò quanto egli dice abbia qualche verità ontologica. La falsità logica è relativa all' arbitrio dell' uomo, alla facoltà dell' errore: essendo questa volontaria, l' uomo può voler asserire che sia un ente quando non è; ma quest' atto di volontaria affermazione è impotente a fare che sia l' ente affermato che non è, e quindi non produce alcun vero ontologico. Quello adunque che l' uomo pensa intorno all' assurdo appartiene interamente al pensare soggettivo e non all' oggettivo, appartiene alla facoltà di affermare e non a quella d' intuire, e l' affermazione priva di ogni intuizione non ha e non produce alcun vero oggetto, è puramente un atto del soggetto che riman privo di verità. Fra le nozioni ontologiche piú difficili a dichiarare vi ha quella della potenza, di cui pure e la filosofia e il comune linguaggio fa un uso cotanto frequente. Giova adunque che vi ci fermiamo alquanto, poiché la solidità del sapere dipende soprattutto dall' avere ben penetrata la natura di tali nozioni comunissime. Continuandoci adunque a quello che abbiam detto nella Psicologia (1), prima di tutto osserviamo che la potenza suppone un soggetto a cui ella appartenga. Il soggetto è sempre un principio che almeno deve essere sensitivo, e che non è compiuto se non sia anco intellettivo. Questo soggetto o è individuato, ente completo, o non è individuato, ente incompleto, principio senza termine. Ma la mente umana pensa anco de' subietti dialettici che non sono soggetti, ma dalla mente stessa sono assunti per necessità di conoscere e di ragionare. Quindi si trae una prima classificazione delle potenze che appartengono a veri soggetti, cioè a principŒ, sieno individuati, ovvero solamente astratti; e potenze che appartengono a subietti dialettici. I soggetti o principŒ individuati sono gli enti completi: a questi soli convengono delle potenze reali, perocché essi sono reali. Se un ente fosse tale che non potesse subire alcun cangiamento, egli non avrebbe potenza, ma solamente atto. Le potenze adunque si riferiscono a cangiamenti possibili: secondo che sono questi cangiamenti, sono anche le potenze; queste si ripartono in classi come quelli. Ora i cangiamenti di cui è suscettivo un soggetto finito, dipendono dalle variazioni accidentali de' suoi termini, e però le potenze di un soggetto sono tante, quanti i suoi termini, e le specie di cangiamenti che posson subire. Ma il cangiamento che nasce nel soggetto in conseguenza delle modificazioni del suo termine, dà luogo solamente a potenze passive. Ora lo stesso soggetto, che è il principio, quando è individuato, ha un' attività propria che tiene proporzione alla sua passività. Quindi le facoltà attive che sorgono nel seno delle passive, fra le quali di tutte principali è la libera volontà. Queste potenze attive e passive si riferiscono tutte ad atti accidentali del soggetto: questi atti non cangiano il soggetto, egli rimane in tutti identico. Tali sono le potenze del principio individuato. Non esistono realmente che principŒ individuati. Ma poiché il principio individuato è molteplice, ha un ordine intrinseco, almeno ha una dualità, risultando da principio e da termine. Quindi la mente può collocare la sua attenzione nel solo principio o nel solo termine, considerando ciascuno di questi elementi come un ente, il che ella fa, lasciando l' altro immerso nella virtualità del pensare. Tali sono gli enti incompleti. Quando la mente concepisce un principio separato dal suo termine, allora ella lo pensa in potenza all' individuazione, cioè a ricevere il termine. Ma se la mente considera il principio senza il termine, e prescinde altresí da ogni relazione di lui col termine, in tal caso ciò che le rimane non è altro che il concetto di un qualche cosa, che non è piú neppure principio, perocché il principio involge sempre una relazione al termine. Quindi la mente può considerare il principio diviso dal termine in tre modi: 1) O per una astrazione che non abbandona intieramente l' individuo, come se noi pigliassimo a considerare il principio che è proprio d' un animale o dell' uomo. 2) O per una astrazione che abbandona l' individuo specifico e generico, onde ciò che pensa è un principio puro, e in tal caso è un elemento dell' ente reale. Il principio cosí concepito è in potenza a ricevere qualsivoglia termine. 3) O con una astrazione che abbandona anche ogni relazione con qualsivoglia termine. Qui vi ha la potenzialità di esser principio. Se ora noi vogliamo rilevare il valore di questi tre oggetti della mente, troveremo: 1) Che il concetto di principio specifico o generico porge quello di una potenzialità agli individui d' una specie o d' un genere. Questa potenzialità ha un' esistenza puramente relativa ai termini che individuano il principio, e però non ha nessuna assoluta esistenza. Quindi la mente cadrebbe in errore se giudicasse che un tal principio esistesse, o potesse esistere diviso dai suoi termini. 2) Che il concetto di principio puro, essendo un elemento dell' essere reale, si può riferire tanto all' essere assoluto, quanto all' essere relativo. Che in quanto all' essere assoluto egli è lo stesso essere assoluto, e perciò è realissimo. In quanto poi all' essere relativo altro non è che la stessa potenza creativa di Dio: è un principio anteriore ad ogni genere e specie; non entra in composizione coi reali finiti, perché è ad essi ontologicamente anteriore. 3) Che il concetto di ciò che rimane nella mente quando togliam via dalla nozione di principio ogni relazione ai termini, non può darci altro che l' essere puro che virtualmente si conteneva nel concetto di principio. Qui la potenzialità appartiene all' imperfezione del nostro pensare, e oggimai trattasi di un subietto dialettico, a cui una tal potenzialità si oppone.